Oltre il confine

di Lys3
(/viewuser.php?uid=465575)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Leo e Martia ***
Capitolo 2: *** Pazzo ***
Capitolo 3: *** Vincitrice ***
Capitolo 4: *** Emarginati ***
Capitolo 5: *** Conoscersi ***
Capitolo 6: *** Confessarsi ***
Capitolo 7: *** Ti proteggerò ***
Capitolo 8: *** Sbaglio ***
Capitolo 9: *** Punti di vista ***
Capitolo 10: *** Insieme ***
Capitolo 11: *** Amore ***
Capitolo 12: *** Incomprensioni ***
Capitolo 13: *** In due sul prato ***
Capitolo 14: *** Ricordi ***
Capitolo 15: *** Tornare in gioco ***
Capitolo 16: *** Ansia e timori ***
Capitolo 17: *** Lei o lui? ***
Capitolo 18: *** Incubi e ancora incubi ***
Capitolo 19: *** La fotografia ***
Capitolo 20: *** La fine degli Hunger Games ***
Capitolo 21: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 22: *** Mania suicida ***
Capitolo 23: *** Fratelli e amici ***
Capitolo 24: *** Un ospite inatteso ***
Capitolo 25: *** Rivali in amore ***
Capitolo 26: *** Tempo al tempo ***
Capitolo 27: *** Errori ***
Capitolo 28: *** Morte ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Leo e Martia ***


Oltre il confine


 
 
Capitolo 1 – Leo e Martia
 
Leo era un ragazzo alto con i capelli neri. Fin dalle scuole elementari era sempre stato isolato dagli altri perché “diverso”. Ma lui li guardava e si sentiva normale in confronto a loro: con le pettinature strane, i capelli colorati e il trucco esagerato.
Lui aveva solo dei ciuffetti blu, che gli ricordavano il colore del mare che tanto gli piaceva ma che vedeva solo in figura.
Passava le giornate sui libri, a leggere, a cercare di capire perché le cose andavano in quel modo. Con i suoi occhietti castani scrutava con curiosità le parole e le immagini per scoprire quante più cose possibili.
“Mamma a cosa servono gli Hunger Games?” chiedeva ogni estate quando vedeva tutti bloccati davanti al televisore.
“Ma che domande assurde fai?! Sono tutto quello che abbiamo. Servono ad andare avanti.”
Ma le sue risposte non le piacevano, era vaga e allo stesso tempo ossessionata da quel fenomeno che iniziò a conoscere bene a dodici anni, quando anche i suoi compagni di classe ne parlavano.
“Tutti pronti per la 20esima edizione degli Hunger Games?” strillava un compagno prima di sorteggiare dei nomi e convincere gli altri a combattere.
A quel punto iniziò a guardarli. Ma da subito non gli piacquero: il sangue, i pianti, le urla, il dolore.
“Questo gioco fa schifo” disse un giorno mentre un suo compagno voleva obbligarlo a combattere.
“No tu fai schifo. Sembri uno dei pezzenti dei Distretti!”
Tutti lo deridevano, ma lui non si arrendeva.
 
Lui aveva ragione, quelli non erano Giochi. Ma intanto nessuno lo capiva: sua mamma lo sgridava, sua sorella lo prendeva in giro così come tutti gli altri e suo padre nemmeno gli parlava.
“E’ grazie agli Hunger Games che tu ogni giorno puoi mangiare” sbottò un giorno con rabbia.
Leo era triste. Voleva solo che gli altri capissero, che riuscissero a vedere cosa significava veramente morire. Ma era solo un bambino, non poteva fare niente.
Però poteva informarsi, conoscere al meglio le cose per convincere se stesso che non era lui a sbagliare. Iniziò a studiare geografia, a studiare tutti i Distretti nei minimi dettagli e vide luoghi terribili e bellissimi.
“Papà andiamo a fare una gita nei Distretti?” propose un giorno, raggiante.
“Ma sei matto?!” rispose lui con rabbia.
“Nel Distretto 7 ci sono foreste immense! Dai andiamo!”
“Lì non si può andare, toglitelo dalla testa!”
Quel giorno si chiuse in stanza a piangere. Lui voleva vedere il mondo, lui doveva vederlo altrimenti non avrebbe potuto conoscerlo davvero.
 
Quando aveva sedici anni sua madre lo obbligò a vestirsi con abiti sfarzosi di un giallo che gli irritava gli occhi, gli fece dei buchi alle orecchie e vi mise dei brillantini, prolungò le sue ciglia sostenendo che risaltavano la forma dei suoi occhi e vi mise dell’eyeliner blu per segnarne il contorno.
“Che schifo è?” fece Leo guardandosi allo specchio.
“Ignorante si chiama moda!” rispose la mamma schiaffeggiandolo.
Tutta la sua famiglia era vestita elegantemente. Lui pensò si trattasse di qualche cena di lavoro di suo padre, ma in realtà era solo la festa di inizio degli Hunger Games. Lo obbligarono ad andare a vedere i Tributi in arrivo, la loro sfilata, l’intervista e gli Hunger Games in diretta sul maxi schermo della piazza principale.
Erano arrivati alla metà dei Giochi quando lui, davanti a tutti, chiese a sua madre: “Saresti contenta di vedere tuo figlio morire?”
“Ma che sciocchezze dici, tu non morirai.”
“E secondo te come si sentono le madri di quei ragazzi dato che non possono dire lo stesso?”
“Ma loro appartengono ai Distretti... Tu sei di Capitol City.”
“No, io non appartengo a questa città. Io non voglio vestirmi così, non voglio truccarmi o farmi i buchi alle orecchie” e così dicendo strappò via la maggior parte delle cose superflue. “A me non piacciono, non sono come voi.” Poi corse, veloce tra la folla che lo guardava come se fosse pazzo.
Salì sul parapetto della piazza e guardò giù, proprio verso il livello inferiore dove vi era un’altra piazza. “Potrei morire anche io, sai? Così forse ti sentiresti più vulnerabile, come si sentono tutti nei Distretti.”
“Leo cosa fai?! Scendi subito da lì sopra!” strillò sua madre mentre lo inseguiva.
“Ti sto dando la possibilità di cambiare, di non essere schiava della società.”
“Cosa diavolo fai, idiota?!” fece sua sorella, in arrivo con suo padre.
“Cerco di vivere.” La sua era una frase un po’ ambigua, in quelle circostanze, ma esprimeva in pieno il concetto. “Anche la morte per me è una vita migliore di questa!”
Il pubblico che ora lo fissava tratteneva il fiato, mentre suo padre diede ordine ad alcuni dei suoi uomini di tirarlo giù. Leo non riuscì ad opporre resistenza e il suo tentativo andò in fumo.
“Tra tutti i problemi ci mancava solo un figlio svitato…” sentì borbottare suo padre.
 
Martia abitava nel Distretto 4.
Era una bambina bionda e con gli occhi blu, come il mare. Abitava in una piccola casa con la sua famiglia troppo numerosa: padre, madre, i suoi tre fratelli e le sue due sorelle.
Aveva solo otto anni ma già andava in alto mare con suo padre e gli altri marinai per aiutarlo nella pesca: era la più grande e doveva provvedere lei a imparare per prima queste cose.
A dieci anni scampò alla morte per miracolo: era fuori con suo padre e altri due uomini quando li colse una tempesta. Il loro peschereccio andò in pezzi e, sorreggendosi solo a un piccolo salvagente, dovette tornare indietro fino a riva.
Suo padre era morto e lei non poteva crederci. Solo uno degli altri due uomini era tornato indietro, sostenendo che per suo padre e l’altro non c’era nulla da fare dato che erano nella stiva della nave.
Le sue notti dal quel giorno furono pervase da incubi, di suo padre bloccato lì sotto, incapace di uscire e che piano piano annegava invocando il suo nome.
Le giornate furono contrassegnate da duri lavori insieme a due dei suoi fratelli: loro tre insieme andavano a pesca, sua madre badava ai più piccoli e sua sorella si occupava delle faccende domestiche.
In breve tempo divenne forzuta ed abile più di tutte le altre ragazze della sua età: dovette abbandonare gli studi, anche se di tanto in tanto si recava da una sua amica, Issa, per studiare qualcosa.
Suo padre aveva sognato per lei e i suoi fratelli un futuro migliore e lei avrebbe voluto esaudire il suo desiderio anche se, con tutto il lavoro che c’era da svolgere, non sapeva proprio come fare.
 
La risposta arrivò quando aveva quattordici anni e il suo nome fu sorteggiato alla Mietitura.
Era qualcosa di totalmente inaspettato per lei: aveva fatto attenzione a prendere pochi biglietti, non poteva uscire dato che ne aveva solo tre!
Eppure era così, la fortuna non era per niente a suo favore.
Fu portata in un’Arena gigantesca, costellata da vulcani e terreno arido. C’erano pochissimi nascondigli e i Tributi iniziarono a morire da subito.
Grazie alla sua alleanza con un ragazzo del 7 riuscì a cavarsela i primi tempi, poi tutti i vulcani eruttarono insieme e anche lui morì insieme al gruppo dei Favoriti.
Erano rimasti solo in tre, lei, una ragazzina di dodici anni del Distretto 3 e un ragazzo di sedici del Distretto 12.
Si erano salvati rifugiandosi in un piccolo lago: erano stati gli unici che sapevano nuotare che l’avevano raggiunto in tempo.
Il Tributo del 12 aveva ucciso senza pietà la dodicenne del 3 e poi si era avventato su Martia. Era riuscita a fuggire dall’acqua, dove ancora galleggiavano i corpi di coloro che non sapevano nuotare e quello della dodicenne annegata, per dirigersi in una zona inesplorata dell’Arena: un ampio spazio deserto, fatto di lava solidificata, senza rifugi né acqua o fonti di cibo.
Il ragazzo l’aveva raggiunta in fretta e aveva iniziato a picchiarla violentemente.
Martia tentò di difendersi il più possibile, ma stava perdendo. L’unica cosa che riuscì a fare fu portare le mani attorno alla gola dell’avversario e stringere il più forte possibile. La forza dei colpi del ragazzo divenne prima più lieve, poi inesistente e il suo corpo le cadde addosso.
Ma il cannone non aveva dato l’ultimo colpo e le trombe che segnavano la vittoria non avevano squillato. Così dovette infierire sul corpo inerme, soffocarlo affinché non si svegliasse di nuovo e la uccidesse.
Poi il cannone, poi le trombe e l’hovercraft.
Era la vincitrice 24esimi Hunger Games.




Buonasera a tutti. Da un po' mi ronzava in testa l'idea di questa storia e stasera avevo una particolare vena artistica così ho deciso di condividerla con voi :) Questo è una sorta di prologo, per spiegarvi un po' i personaggi e la loro storia. Cosa ne pensate del primo capitolo? Vi piace? Vi attira? Fatemi sapere, a presto! ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Pazzo ***


Capitolo 2 – Pazzo
 
Leo se ne stava seduto nella comoda poltrona in pelle. Era rigido come un pezzo di legno, pronto a farsi valere anche se chiuso lì dentro.
“Vorrebbe, signorino Hampfit, parlare con me dell’accaduto?” disse il signore di fronte a lui.
Leo lo squadrò con aria di disgusto. Vestito di tutto punto, le scarpe lucidate, le spesse lenti, le unghie colorate e i capelli raccolti in tante piccole treccine che gli arrivavano in vita: il classico uomo di Capitol City.
Dall’altra parte anche lui lo fissava con aria di sufficienza, sotto lo spesso strato di trucco che gli ricopriva gli occhi.
“Non parlerò con nessuno” fu la risposta di Leo.
L’uomo fece un verso di disprezzo, poi premette un pulsante sulla sua poltrone e un piccolo schermo sbucò dal soffitto fino ad arrivare al loro fianco.
Videro insieme un ragazzo alto, con i capelli neri e qualche ciuffetto blu saltare sul parapetto dinanzi a tutti; lo sentirono urlare che preferiva morire piuttosto che continuare una vita del genere; e videro degli uomini forzuti tirarlo giù e la folla bisbigliare mentre suo padre cercava di far mantenere la calma a tutti.
Aveva cercato per tutta la settimana di evitare quelle immagini, ma nonostante fossero iniziati gli Hunger Games non si faceva altro che parlare di lui su ogni notiziario. Era una cosa insolita che gli oppositori del governo si identificassero anche nei ragazzi. Ancora più strano era il fatto che fosse ancora vivo. A peggiorare il tutto, suo padre era il Capo Stratega.
Si era chiuso nella sua stanza, chiudendo la porta a chiave per non vedere nessuno e per evitare di vedersi su tutte le televisioni. Ma ora quelle immagini gli venivano sbattute in faccia da un perfetto sconosciuto.
“Lo sai quanto mi è costato non essere a lavoro quella sera? Nel bel mezzo dei Giochi? E tu cosa fai? Cerchi di ammazzarti?! Be’ forse dovevo lasciartelo fare” aveva urlato suo padre.
Ma a Leo dei suoi sacrifici non importava.
Si era solamente pentito di non essersi buttato subito, o di non essersi infilzato con qualche arma. Voleva che tutti vedessero quanto odiava quegli stupidi Hunger Games, quanto tutto quello gli facesse schifo.
Il suo tentativo era fallito, diventando una stupida figuraccia e causando un processo nel quale si era dibattuto a lungo sul suo destino. Alla fine, grazie al potere di suo padre, l’avevano risparmiato. Almeno per ora.
La sua punizione, che lui considerava un sacrilegio, era portarlo da quello che i suoi avevano chiamato “un assistente spirituale”, ma che in realtà non era altro che uno psicologo.
“Cos’è che le fa disprezzare così tanto questa vita?” domandò lo strizzacervelli.
“Le persone come te” sbottò Leo.
“Sono il dottor Minos, prego. Mi deve dare del lei.”
Leo sbuffò.
“Le sedute che faremo da oggi in poi avverranno tre volte alla settimana e dureranno un’ora. Se lei si assenterà, sarò costretto a chiamare dei Pacificatori e a farla arrestare. Lei non vuole che tanto disonore cada sulla famiglia Hampfit, non è vero?”
La sua proposta aveva l’aspetto di una minaccia. “Non me ne importa un cavolo.”
Si scambiarono uno sguardo ostile, ma se avessero potuto, si sarebbe scuoiati a vicenda.
 
“Mamma sto uscendo” fece Leo e, senza nemmeno attendere una risposta, chiuse la porta della lussuosa villa di famiglia nel centro della città.
Camminò attraverso i giardini, ignorando gli sguardi preoccupati dei giardinieri e degli altri della servitù.
Nessuno lo riteneva in grado di andare in giro da solo. E’ come se avesse avuto di nuovo tre anni e non fosse abbastanza grande da poter scegliere cosa fare durante il giorno.
La colpa era di quella stupida targhetta che aveva addosso:
 
Io non sono capace di intendere e di volere.
Attenzione!
 
Ma davvero la gente credeva a quella stupida scritta? Per di più, il preoccupante smile eccessivamente sorridente che la seguiva, doveva indurre a pensare che era tutto un complotto contro la sua persona. Purtroppo nessuno arrivava a pensarlo.
Doveva dunque girare per la città con lo sguardo della gente che lo fissava. Non era bastato finire in televisione, no, ora, il suo strizzacervelli, per il rifiuto che lui opponeva a farsi “curare”, gli aveva affibbiato quella che per lui era una delle cose più imbarazzanti che avesse mai portato addosso.
Aveva provato a toglierla, ma se dopo un minuto l’apparecchio non avvertiva più il calore della pelle, iniziava a suonare a tutto volume, avvertendo il dottor Minos.
Tutto questo per il suo rifiuto di proferire una sola parola.
D’altro canto la gente lo aveva sempre indicato come “quello strano”, ma ogni tanto in mezzo alla folla riusciva a passare inosservato: alcuni pensavano solo che non capisse nulla in fatto di moda, altri che doveva stare fuori casa solo per un istante, ma adesso tutti lo avrebbero notato e avrebbero ricordato l’imbarazzante servizio su di lui.
Quel pomeriggio si limitò a fare un giro della città guardando le vetrine ed evitò di proposito i luoghi più affollati.
La tentazione, però, prevalse su di lui ed entrò in una libreria. Iniziò a frugare tra i vari volumi, alla ricerca di qualcuno da aggiungere alla sua libreria. Svoltando l’angolo, s’imbatté in Verin, la ragazza più bella che lui avesse mai visto.
Frequentava la sua scuola, ed era bella per davvero, non come quelle tipe tutto-trucco-e-niente-cervello. Aveva i capelli viola, due enormi occhi castani e un sorriso che avrebbe illuminato l’intera città, circondato sempre dal rossetto viola. Indossava sempre dei vestitini corti, che facevano cadere immancabilmente l’attenzione sul suo corpo, e le sue unghie erano sempre viola, decorate ogni volta con quale cosa di diverso.
Verin e Leo avevano parlato qualche volta, ma niente di speciale. Era solo una conoscente, ma almeno aveva la certezza che si ricordasse di lui.
“Oh, ciao” fece Leo, imbarazzato.
Lei lo guardò attentamente, ma più che lui fissò la sua targhetta.
Dannazione, pensò lui.
“Ciao” rispose lei, flemmatica. Si guardarono per un po’, senza sapere cosa dire. “Immagino che non tornerai a scuola, date le tue condizioni.”
“Sto benissimo, ma non me lo permetteranno lo stesso.”
Fissò il suo cartellino, soppesando le sue parole per cercare di capire se fosse il caso di credergli oppure no.
“Be’, allora… Ci vediamo.” Andò via subito, senza aspettare una risposta.
 
Erano passati due anni da quando era stato definito un pazzo. In questi due anni Leo aveva avuto molto tempo a disposizione per pensare alla sua situazione.
Infine aveva preso una decisione: si sarebbe tolto la vita, in silenzio, attuando la sua protesta silenziosa contro questa società, andando oltre il limite di ciò che chiunque dovrebbe fare.
Ora che però era diciottenne e non aveva più come riempire le sue giornate, decise che forse era ora di iniziare a collaborare con lo strizzacervelli e la sua famiglia. Se non altro avrebbe riavuto la sua accettazione come persona normale prima di abbandonarli.
Non voleva andarsene da pazzo, non era minimamente nelle sue intenzioni.
Anche se gli costò molto, quell’anno decise di assistere agli Hunger Games. Avrebbe guardato solo la Mietitura, la sfilata, l’addestramento e l’intervista, ma per il suo psichiatra era un grande passo in avanti.
“Complimenti signorino Hampfit, vedo che sta facendo un passo verso la guarigione, un enorme passo.”
Guardò la Mietitura da solo, a casa, mentre tutta Capitol City versava nelle piazze. A lui non era concesso in queste occasioni di uscire: si riteneva troppo pericolosa per lui la presenza in feste all’aperto.
Per la sfilata, però, riuscì ad ottenere un buon posto: vicino alle prime file, lontano dalla sua famiglia. La parata iniziò, ma perse l’entrata dei primi due carri a causa di una ragazza bionda che andò a sedersi proprio davanti a lui.
Osservò con attenzione i ragazzi: alcuni erano spaventati, altri meno.
“Così giovani, così incoscienti… Non sanno di essere carne da macello” sibilò a bassa voce.
La ragazza davanti a lui si voltò a guardarlo. Il suo sguardo penetrante lo squadrò attentamente, per poi tornare a girarsi.
Leo notò subito che non apparteneva a Capitol City: vestita umilmente, senza trucco, senza tinture o altri strani accessori. Veniva da uno dei Distretti.
Allora cosa ci faceva lì?



Buonasera a tutti! Ecco un nuovo capitolo di questa ff. Che ne dite? Vi piace? Sinceramente non ho riletto molto attentamente, quindi perdonate eventuali errori o ripetizioni. Aspetto le vostre recensioni per sentire i vostri pareri! Spero vi piaccia, a presto ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Vincitrice ***


Capitolo 3 – Vincitrice
 
Era un’assassina.
Fu il suo primo pensiero quando si svegliò nel letto dell’ospedale a Capitol City. Aveva delle bruciature lievi su braccia e gambe e i lividi dell’ultima colluttazione ancora visibili.
Aveva resistito per tutti gli Hunger Games senza uccidere, ma alla fine era diventata un mostro come tutti gli altri.
Ricordò Cad, il Tributo del 7 che aveva stipulato un’alleanza con lei, che, quando si imbatterono in un altro ragazzo, lo uccise a sangue freddo.
“Dovrai farlo anche tu prima o poi” disse a Martia, rispondendo al suo palese disgusto.
“Io non sono un mostro, non lo farò mai.”
Ed ora stesa in quel letto non poteva che pensare che lui aveva ragione, che aveva sempre avuto ragione. A differenza sua, lui sin dall’inizio aveva avuto la piena consapevolezza del significato di questi Giochi, cosa che a Martia era mancata fino alla sua vittoria.
Lui sapeva di dover uccidere, lui sapeva di dover avere una strategia, lui sapeva di non avere possibilità, e tutte queste cose lo avevano condizionato troppo, a volte frenandolo e impedendogli di sopravvivere.
“Cad, vieni via di lì! Il vulcano sta per eruttare!” strillò Martia sentendo la terra tremare sotto i suoi peidi. “Probabilmente lo faranno tutti insieme!”
“Non lo faranno. Non possono ucciderci tutti in una volta. C’è solo un lago e pochi sanno nuotare. I vulcani non esploderanno, stanno solo preparando una trappola” aveva risposto lui con fin troppa calma, fino al momento in cui i vulcani non erano esplosi e una roccia, staccatasi probabilmente a causa della forte esplosione, gli era piombata addosso.
Martia era fuggita come una codarda. Il suo alleato era a cento metri da lei, morto, e lei non aveva saputo far altro che fuggire.
Quando sentì le lacrime bagnarle il viso capì che doveva darsi una calmata. Stava ripensando troppo agli Hunger Games, non doveva farlo. L’aveva fatto per vivere, era stato fatto tutto per una giusta causa.
 
Cercò a lungo di convincersi di questa cosa. Cercò di giustificare la morte di ventitre ragazzi e in particolare di quei due di cui si sentiva particolarmente responsabile, ma era tutto inutile.
Dalla ragazza solare, allegra e sorridente qual era, si trasformò in un guscio vuoto, privo di emozioni, caratterizzato dall’apatia e dalle crisi di pianto isterico.
Durante il viaggio di ritorno sperò che il caldo sorriso di sua madre potesse in qualche modo darle conforto. Ma quando la vide alla stazione, in mezzo alla folla, al posto del suo sorriso trovò un volto scarno e cupo.
Sua sorella Liz e la sua migliore amica Issa le corsero incontro per abbracciarla. “Cosa succede a mamma?” chiese Martia appena fu libera dalla loro stretta.
Ancora una volta anche se si sentiva cadere a pezzi non cedeva, solo per poter aiutare chi voleva bene. Non avrebbe parlato dei suoi problemi se sua madre aveva bisogno di aiuto, avrebbe fatto finta di niente e avrebbe dato tutto l’aiuto possibile.
“Ne riparliamo a casa” rispose Liz, anche lei seria.
Qualcosa non andava, e la faccia triste di Issa che andava via glielo confermò.
Fu condotta direttamente al Villaggio dei Vincitori, nella sua casa nuova.
Davanti la soglia erano ferme tutte e tre, aspettando qualcosa che Martia non sapeva. Sua madre a quel punto si decise a salutarla con un forte abbraccio e disse: “Molte cose sono cambiate da quando te ne sei andata. Adesso aprirò la porta, ma ti prego non fare domande. Ne parliamo dopo.”
Detto così aprì la porta e al suono cigolante dei cardini i suoi fratelli si fiondarono su di lei.
La piccola Monika le si aggrappò con forza al polpaccio, sorridente; il piccolo Erik afferrò i suoi pantaloni, appendendosi e rischiando di farglieli cadere; poi vide Sam, il secondogenito della famiglia, abbracciarla stretta, con una morsa letale al collo.
Poté sentire i suoi calli che le toccavano la pelle, le sue lacrime bagnarle la maglia: indubbiamente si era dato da fare sopportando responsabilità che non avrebbe dovuto affrontare da solo, a soli tredici anni.
Ma Paul non c’era.
Una fitta di dolore la attraversò.
Era dunque questo il motivo della sofferenza di sua madre? La cosa di cui dovevano parlare? La cosa per cui non doveva fare domande? Sam aveva forse dovuto fare il lavoro di tutti e tre? Lo aveva visto morire sotto i suoi occhi?
Martia sentì la paura e il terrore dell’Arena riprendere spazio in lei. Neppure ora che era a casa si sentiva al sicuro. E come poteva se la morte era giunta fin lì per portarsi via un bambino di undici anni?
Iniziò a tremare involontariamente e strinse Sam ancora più forte, impedendosi però di piangere.
Non appena i bambini si furono staccati da lei, Liz le rivolse uno sguardo triste e li portò via. A Martia era chiaro che le stava dando una possibilità di parlare dell’accaduto.
“Dov’è Paul?” balbettò non appena i bambini furono fuori portata.
Sua madre abbassò lo sguardo, fissando il nuovissimo parquet. Non avrebbe risposto, Martia lo sapeva. Ma meritava una risposta, meritava di sapere cosa gli era accaduto.
Stava per urlare, quando Sam disse: “Eravamo andati a pesca, come tutti i giorni, ma quella sera lui si sentiva male. Gli girava la testa, non aveva fame o sete e la febbre è salita in pochi minuti. Ha passato tutta la notte sospeso tra il delirio e la dormiveglia. Al mattino abbiamo chiamato il medico che ci ha solo consigliato dei normali farmaci per l’abbassamento della temperatura corporea. Ma non hanno funzionato. O meglio, è scesa un po’, ma Paul si sentiva sempre peggio, non mangiava, e la sera del terzo giorno è morto.”
Martia lo guardò: non vedeva in lui più il suo fratellino, quel piccolo uomo che aiutava lei e sua madre. Adesso era più alto, il suo viso più serio, i suoi occhi più profondi e anche il suo modo di parlare non era più lo stesso. Era dovuto diventare un adulto, in così poco tempo.
Martia voleva dire qualcosa. Provò a formulare una frase ma non sapeva da dove cominciare.
“Non so se ha sofferto” continuò Sam. “Era un continuo svegliarsi e urlare, lamentarsi, e poi si riaddormentava.”
Sembrava averle letto il pensiero. Martia non poté fare altro che guardarli ancora una volta e poi cadere in ginocchio, in lacrime.
 
Per i giorni successivi rimase nella sua nuova camera a piangere. Avvolta dalle morbide coperte, appoggiata sul soffice materasso, non poté farlo altro che urlare fuori tutto il suo dolore.
Singhiozzava e piangeva senza fermasi, con la porta chiusa per evitare che qualcuno la interrompesse. Stringeva forte il cuscino e urlava fin quando non le bruciava la gola, cercando di sfogare la rabbia che le ribolliva dentro.
Era sempre stata paziente con tutti, ma non poteva fare finta di niente davanti alla sua vita che cadeva a pezzi.
Le sue notti erano tormentate dagli incubi, che rendevano ancora più difficile la sua guarigione.
Come avrebbe potuto dimenticare se rivedeva i volti di tutte le persone che non c’erano più sfilarle davanti ogni notte?
Quando suo padre era morto lei era troppo piccola per capire appieno cosa significasse. Ma ora che Paul non c’era più, che Cad era morto, che tutti i Tributi dei 24esimi Hunger Games erano morti e che lei era diventata un’assassina, aveva quattordici anni e capiva perfettamente cosa stava accadendo.
Uscì dalla sua stanza solo il terzo giorno, per amore dei suoi familiari e per Paul, che era morto per consentire a tutta la famiglia di mangiare qualcosa.
Piano piano tentò di riprendere le attività di sempre, dando supporto ai suoi fratelli e a sua madre e ricevendone altrettanto.
Sentì un nodo allo stomaco quando, dopo un mese dal suo ritorno, realizzò che senza Paul la vita continuava ad andare avanti normalmente: lei e Sam lavoravano un po’ di più, ma tutto era come prima. Lavoravano solo per occupare il tempo, perché ormai i soldi non mancavano.
A volte anche Liz, che ormai aveva nove anni, si univa a loro nella pesca, ma Martia non la lasciava appassionare a questa attività che a lei aveva dato e tolto tanto.
 
Passo dopo passo aveva ricominciato a vivere. Passo dopo passo la sua famiglia era tornata unita e contenta, come se mai nessuno fosse morto o nessuno partito per gli Hunger Games.
La notte però si sentivano urla, pianti, a ricordo del travaglio psicologico di ognuno di loro. Ma era sempre Martia e urlare di più, a non dormire una notte serena.
Sembrava andare tutto bene, se non fosse che erano passati sei mesi dal suo ritorno, dalla morte di Paul e sua madre non si riprendeva: dimagriva sempre più, il colorito della sua pelle diventava sempre più chiaro, assumendo un aspetto malaticcio, i suoi occhi verdi persero lo splendore di un tempo, i suoi capelli biondi sembravano secchi come paglia.
Col passare del tempo anche le forze della donna vennero meno e si ritrovò a letto incapace di muoversi.
“Avete dato per scontato che fosse un problema psicologico, dovuto alla morte di vostro fratello” spiegò il dottore. “Ma vostra madre è gravemente malata. Lo è da anni, ma adesso è peggiorata. E’ troppo tardi per poter fare qualcosa.”
Il cordoglio tornò, più forte che mai. Iniziò il conto dei giorni che separavano quella donna dal riposo eterno, che quando arrivò, un anno dopo, gettò la casa nel subbuglio.
 
Era una vincitrice. Era la vincitrice degli Hunger Games. Ma a cosa era servita questa sua vittoria?
Era diventata un’assassina, aveva visto ventitre ragazzi morire, aveva anticipato la morte di suo fratello e di sua madre.
Se era questo il prezzo, non voleva essere più una delle persone più ricche del Distretto.
 
Le sembrò uno scherzo quando poco dopo la morte di sua madre la chiamarono per diventare Mentore: a soli sedici anni la ritenevano già capace di ricoprire un così importante incarico.
Partì per Capitol, sapendo che Sam e Liz si sarebbero presi cura della piccola Monika e del piccolo Erik. Con lei c’erano i due Tributi di quell’anno, una ragazza della sua età, Mags, e un ragazzino di tredici anni, Roland.
Fu un colpo al cuore rivedere i luoghi dei suoi incubi, ma strinse i denti e andò avanti. Era una proprietà di Capitol City, ormai, e doveva ubbidire.
La cosa strana avvenne alla parata dei Tributi, quando sentì parlare per caso un ragazzo dietro di lei: era poco più grande di lei, alto, capelli neri con ciocche blu e aveva appena paragonato i Tributi a carne da macello.
Lo guardò con attenzione, notando in lui qualcosa di strano, ma poi si rivoltò ancora, chiedendosi se non avesse solo immaginato di sentire quella frase.



Buonasera a tutti! Eccomi con un nuovo capitolo di questa storia. Era mia intenzione parlare di Martia, spiegare qualcosa in più su di lei, e (seguendo anche il consiglio ricevuto in una recensione) ci ho provato. Non so se ci sono riuscita bene. Forse mi sono fermata un po' troppo sugli eventi che sono accaduti, dato che sono molti, senza dare troppo rilievo al personaggio come richiesto, ma l'ho fatto anche perché volevo cercare di far capire come tutti questi eventi drammatici travolgono la ragazza senza che lei abbia la possibilità di reagire. Ci sono riuscita? Fatemi sapere che ne pensate! A presto ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Emarginati ***


Capitolo 4 – Emarginati
 
Sdraiato comodamente sul letto di camera sua, Leo stava riguardando i Tributi di quell’anno. In televisione stavano trasmettendo per l’ennesima volta le repliche della scelta dei Tributi, della loro presentazione, ecc…
Mancavano solo due giorni. Poi quei poveri ragazzi sarebbero scesi in un’Arena, pronti ad ammazzarsi tra di loro.
La sua attenzione era però distratta da un continuo pensiero: quella ragazza bionda che aveva visto alla parata.
Era un personaggio insolito, uno di quelli che appena lo vedi ti accorgi che ha qualcosa di diverso, di speciale, ma che non sapresti spiegare.
Si affacciò al balcone della sua stanza, fissando la città illuminata a festa durante quella notte. Poi qualcuno bussò e la porta di aprì lentamente.
“Disturbo?” disse suo padre.
Leo avrebbe voluto dire di si, perché sapeva che ogni volta che suo padre cercava di parlargli era per fare qualche discorso infinito e che non gli sarebbe piaciuto. Ma decise di dargli un’occasione, solo perché aveva chiesto se disturbava. “Vieni pure.”
Il padre chiuse la porta alle sue spalle e, in piedi, iniziò a fissarlo. Leo, dal canto suo, se ne stava in piedi sulla soglia del balcone, con estrema naturalezza.
Se solo un anno prima suo padre l’avrebbe intimorito, costringendolo a stare estremamente dritto in sua presenza, a non rispondere se non interpellato e a non ostacolarlo in niente, ora non era più così.
Ora erano alla pari, entrambi lo percepivano. Per questo il ragazzo era rilassato, e per questo il padre aveva chiesto il permesso. In quella stanza non c’era più nessun ragazzino da comandare.
“Volevo congratularmi con te” disse il padre, con aria rigida.
Leo rise, sarcastico. “Per cosa?”
“Per i tuoi progressi. Perché stai iniziando ad accettare l’idea di bene e di male.”
Era dunque questo suo padre: Ivon Hampfit, cinquant’anni, al servizio di Capitol City come Capo Stratega degli Hunger Games. Lui era stato una di quelle menti che aveva elaborato questi Giochi e che sopra la morte di centinaia di ragazzi aveva costruito la lussuosa villa. Era un uomo alto, dalla carnagione chiara, i capelli neri e gli occhi castani, i lineamenti duri e severi: la classica persona che incute timore a prima vista.
“Sai, Leo, io credevo che tu non conoscessi qual è il confine” continuò.
“Il confine?” ripeté il ragazzo.
“Sì, quello che separa un perdente da un vincente; quello che distingue l’uomo dagli animali; quello che permette agli abitanti di Capitol City di vivere in pace.”
Leo rimase in silenzio a fissarlo. Si aspettava che da un momento all’altro scoppiasse a ridere dicendo che era tutto uno scherzo, ma non fu così. “Quale sarebbe?” chiese allora, con la massima serietà.
“La consapevolezza della superiorità della nostra razza.”
Leo strabuzzò gli occhi, incapace di comprendere. Non voleva credere, in alcun modo, che quelle parole appartenessero davvero a suo padre. “Stai scherzando?”
“No. E’ questo il confine che stavi varcando. Stavi dimenticando la tua superiorità, in te stava venendo meno la consapevolezza della tua appartenenza alla razza superiore. Per questo ti stavi mischiando con le razze minori, quelle deboli appartenenti ai Distretti.” Il padre sorrise, compiaciuto. “Per anni ho cercato di spiegare ai miei colleghi che tu non eri oltre il confine, e adesso lo stai dimostrando.”
Leo stava per esplodere, stava per ridergli in faccia e buttare fuori tutte le sue conoscenze che dimostravano che le persone dei Distretti e quelli di Capitol City discendevano dalla stessa razza e che quindi tra di loro non vi era differenza, stava per ricordare quanti errori erano stati commessi nella storia dell’umanità per questa folle idea, assolutamente sbagliata. Ma poi decise di stare in silenzio.
Lo considerò come un regalo verso se stesso: sarebbe stato in silenzio, avrebbe dimostrato a tutti che poteva benissimo mischiarsi nella massa se voleva, e poi avrebbe lasciato la scena, in un modo epico, che nessuno avrebbe ma dimenticato.
Vide suo padre esitare. “So che è stato difficile fare questo passo tutto in una volta, ma che ne diresti di fare un ultimo sforzo? Vieni con tutti noi domani alla festa, il permesso te lo do io. Si festeggia l’inizio degli Hunger Games. Ci saranno tutte le persone importanti. Ti presenterò ai miei colleghi e poi se ti annoierai potrai tornare a casa.”
Leo valutò attentamente la proposta. Pensò a Verin, figlia di uno dei più importanti banchieri. Ci sarebbe stata anche lei alla festa. Doveva andare, doveva farle vedere che non era un pazzo. “Va bene, verrò.”
 
Martia era nella camera d’albergo, davanti allo specchio.
Fissava il suo corpo che, con quel poco di tacco, sembrava più sinuoso e alto; il vestito verde acqua le donava, doveva ammetterlo, anche se non si sentiva a proprio agio; la pettinatura del suo stilista la faceva sembrare favolosa e il trucco le dava un’aria affascinante.
Tutto era in contrasto con chi era davvero, la ragazza dai pantaloni stracciati, i capelli arruffati e il sorriso splendente sulle labbra. Ora era una ragazza vestita da donna, con l’aria seria, il trucco e il vestito perfetto, ma il cuore a pezzi.
Quando era a casa non le costava fingere che nulla fosse successo perché lo faceva per il bene della sua famiglia. Ora che era fuori, però, avrebbe voluto solamente rannicchiarsi in un angolo e piangere. Ma doveva recitare, ancora, perché questo prevedeva il manuale.
Doveva andare a quella stupida festa a cui avrebbero partecipato le figure più eminenti della capitale e tutti i vincitori delle scorse edizioni degli Hunger Games. Lei non conosceva nessuno, ad esclusione del suo Mentore. Avrebbe passato il ballo come la perfetta emarginata della situazione.
Si sarebbe sentita esattamente come un pesce fuor d’acqua. Tutti avrebbero parlato, riso e scherzato. Lei sarebbe stata zitta e avrebbe fatto finta di divertirsi.
 
Come previsto il suo Mentore l’abbandonò presto per gente della sua età e per discorsi che gli interessavano. Lei rimase a contemplare le decorazioni del giardino in cui si trovavano prima di accedere a una sontuosa villa dove si sarebbe tenuta la cena.
L’aria era piena di musica ad alto volumi, risatine false e di un chiacchiericcio intenso. Persone vestite nei modi più stravaganti si aggiravano tra le siepi e le fontane, fuochi d’artificio mai visti prima esplodevano in cielo.
Con in mano un bicchiere di qualche alcolico, gironzolava con un finto sorriso annuendo amichevolmente alle persone che la fissavano.
Si sentiva terribilmente a disagio a fare finta di essere una persona importante e felice, con l’aria da persona adulta, come se gli Hunger Games non fossero mai esistiti, come se la morte non avesse bussato alla porta di casa sua un numero infinito di volte.
Quando vide due giovani donne capitoline avvicinarsi verso di lei pensò che forse la serata avrebbe preso una piega migliore. Cosa c’era di male, infondo, nel socializzare un po’?
“Oh, accidenti! Tu sei proprio…?” fece una delle due, vestita di arancione, mentre l’altra, vestita di turchese, le mostrava un sorriso sfavillante.
Martia sorrise ancora di più, sforzandosi di essere amichevole. “Se lei intende quello che penso io, allora sì, sono io.”
“Oh, aspetta! Aspetta, aspetta, aspetta! Il tuo nome sta per venirmi in mente, giuro che sta per venirmi in mente!” continuò la donna in arancione.
“Ann, lei è Martia” intervenne quella in turchese.
“Oh, dannazione. Non dovevi dirmelo!”
In seguito scoprì che le due donne si chiamavano Ann e Sonja. Erano due amiche, mogli di noti impresari della città. Passarono i primi minuti a maledirsi a vicenda e poi a complimentare Martia per il suo vestito e il suo trucco.
La ragazza pensava finalmente di aver trovato qualcuno con cui intrattenersi per non morire di noia, così le invitò a procedere verso il buffet all’interno della villa in sua compagnia.
Martia non poté far a meno di riempirsi il piatto: era una vecchia abitudine. Quando era povera, non appena vedeva del cibo in più sentiva il bisogno di mangiarlo o di portarlo ai suoi fratelli, per paura che qualcun altro lo mangiasse prima.
Ann e Sonja la guardarono sbalordita: “Mangi così tanto? E come fai a tenerti in forma?” chiese Ann.
“Mi tengo in movimento…” rispose Martia, un po’ a disagio per i loro sguardi indagatori.
“Fate di nuovo la fame?” domandò Sonja.
Martia si bloccò. “Come scusi?”
“So che dopo gli Hunger Games hai perso un fratello e tua madre. Tutti i soldi che hai vinto non ti bastano e ti vieni a ingozzare qui?”
Martia era senza parole. “Come fa a sapere di mio fratello e mia madre?”
“Anche se in televisione non ne parlano di voi vincitori le riviste di gossip sono ben fornite” sorrise Sonja.
Martia era rimasta paralizzata. Il piatto nella mano rischiava di caderle. Lo riposò al suo posto e cercò di allontanarsi. “Scusate, dovrei andare un secondo…”
“No, dai cara. Rimani qui con noi” fece Ann, raggiante. “Vogliamo sentire da te il racconto degli Hunger Games e in particolare della tua vittoria. Ti ricordi ancora il ragazzo che hai strangolato con le tue mani? Riesci a ricordare il suo viso? L’hai ucciso con crudeltà ma in modo perfetto.”
Martia sentì le ginocchia che le tremavano. “Io… Non… Non volevo ucciderlo. Non sono stata crudele…”
“Ma cosa dici cara, suvvia! Lui era un mostro, si meritava quella fine! Tu sei la vincitrice perfetta!” esultò Ann.
Martia si guardò le mani, le stesse mani con cui aveva strangolato quel ragazzo di sedici anni del Distretto 12 di cui non conosceva nemmeno il nome. “Non era crudele… Non sapeva quel che faceva, nessuno di noi lo sapeva” balbettò.
Faticava a respirare; le gambe le tremavano e non faceva altro che guardarsi le mani e ricordare il calore del collo di quel ragazzo, la violenza dei suoi colpi e la sua stretta sempre più forte. Ricordò il suo sguardo, dapprima infuriato, poi angosciato quando capì che stava morendo.
“Scusatemi” disse, facendosi largo tra le due in malo modo. Sentì che le avevano detto qualche brutta parola, ma non le importava. Doveva solo andarsene il più lontano possibile prima di scoppiare a piangere.
Ma era difficile ragionare mentre le immagini degli Hunger Games le riaffioravano nella mente, in un vortice confuso di morte e dolore.
Scappò nel giardino, girovagando tra l’erba ben tagliata e le statue in ceramica. Si allontanò dalla festa correndo e inciampando nei tacchi che non sapeva indossare. Si rifugiò dietro una siepe e cadde ai piedi di una fontana. Aggrappandosi al bordo di quest’ultima riuscì a mettersi in ginocchio e, con il volto coperto dalle mani, scoppiò a piangere.
Oltre al gorgogliare dell’acqua si sentivano solo i suoi singhiozzi strozzati e i piccoli lamenti che le uscivano dalla gola, incontrollati.
Poi udì dei passi e sobbalzò; dall’altro lato della fontana, dietro il suo getto d’acqua, c’era un ragazzo che non aveva visto al suo arrivo.
La stava fissando e lo riconobbe immediatamente: era il ragazzo della parata.
 
Leo, per la “grande serata”, aveva indossato uno smoking nuovo di zecca, ma si era rifiutato di farsi truccare, tatuare o oltre assurdità simili.
Il traghettino era ancora attaccato alla sua camicia, ma la giacca permetteva di nasconderlo abbastanza bene. Così, una volta tanto, non si sentiva molto scemo a uscire di casa. Potevi quasi fingersi una persona come tutte le altre lì, non che la cosa lo entusiasmasse molto, ma almeno lo avrebbe aiutato a passare una serata tranquilla.
Inutile dire che, come previsto, si annoiò ben presto: suo padre lo presentò a tutti i colleghi, alle figlie dei colleghi e cose simili, e per Leo fu molto stressante dover fingere interesse e conversare. Così appena gli fu possibile sgattaiolò via per vedere l’apertura del buffet.
Fu una delusione vedere Verin arrivare alla festa con un tipo della sua scuola: Leo lo conosceva appena, ma sapeva che era il classico tipo bello ma per niente intelligente. Era il tipo allocco alto, palestrato, con un numero infinito di tatuaggi, capelli biondi ossigenati e denti perfetti.
Di fronte al salutò allegro di Verin rispose con un sorriso che sembrava più una smorfia.
Onestamente non aveva mai pensato a lei come sua possibile fidanzata, ma si era illuso di aver trovato qualcun altro intelligente in mezzo a quella marmaglia. A quanto pare si era sbagliato.
Si ritirò in solitudine in un angolo del giardino, seduto sul bordo di una fontana a contemplare le stelle che a stento si vedevano per l’inquinamento luminoso della città.
D’un tratto sentì dei passi e si voltò giusto in tempo per vedere una ragazza cadere, in lacrime, proprio a pochi metri da lui.
Dal modo in cui piangeva, inginocchiata là a terra, immaginò che non si fosse accorta di lui. Fece qualche passo, per accertarsi che stesse bene e poi la vide: era la ragazza dei Distretti che aveva visto alla parata.



Buongiorno a tutti! Ho scritto questo capitolo ieri sera ma non riuscivo a trovargli una conclusione adeguata quindi ho riscritto l'ultima parte oggi ed eccolo qui. Spero vada bene perché davvero non sapevo come poterlo concludere. Avevo intenzione di continuare a scrivere in questo capitolo ma probabilmente sarebbe diventato troppo lungo e quindi un po' noioso. Voi che ne pensate? Fatemi sapere se vi piace questo capitolo ma soprattutto se vi piace l'andamento della storia :)
Ringrazio chi ha lasciato precedentemente delle recensioni e chi ha inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite! A presto ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Conoscersi ***


Capitolo 5 – Conoscersi
 
Leo non riusciva a credere ai suoi occhi. Quella ragazza stava piangendo, lì, davanti a lui. Allora forse lei era davvero una ragazza normale, una di quelle che non ha paura di mostrarsi mentre piange, come tutte le persone normale, una di quelle che non modifica il suo corpo per cercare di raggiungere una bellezza anomala. Forse lei era la persona che aveva da sempre cercato.
“Ehi, tutto bene?” disse lui dolcemente, avvicinandosi piano.
La ragazza lo fissò, sbalordita. Non si era nemmeno accorta della sua presenza. “Sì, io… Stavo solo…” non sapendo cosa dire provò ad alzarsi. “Ahi!” fece ricadendo a terra.
“Ti sei fatta male?” domandò ancora Leo avvicinandosi.
“No, no. Sono apposto, grazie lo stesso” disse lei con un falso sorriso, mentre tentava di asciugarsi le lacrime e calmare i singhiozzi.
“Non dire sciocchezze. E’ la caviglia” disse lui, sicuro.
La ragazza esitò.
A Leo era chiaro che non si fidava. E quale ragazza proveniente da uno dei Distretti si sarebbe mai fidata di uno di Capitol City? Nessuna ragazza intelligente, ecco chi. “Posso dare un’occhiata? Ne capisco qualcosa.”
La ragazza annuì, titubante. Leo, con estrema calma, le sollevò un po’ il vestito, fino a scoprire la caviglia. Accarezzò con cautela la pelle, per rilevare eventuali gonfiori e la esaminò con quel poco di luce disponibile. “E’ una distorsione, niente di grave. Ti basterà tenerla a riposo per un po’ e dovrebbe passarti.” Alzò lo sguardo dalla caviglia per fissare la ragazza negli occhi.
Aveva degli occhi bellissimi, blu come il mare nelle sue zone più profonde e limpide. Rimase per un istante a bocca aperta, incapace di reagire davanti a quello spettacolo, poi le sorrise, per incoraggiarla: “Ti aiuto ad alzarti?”
“Sì” continuò lei, timidamente.
Leo la aiutò, prima ad appoggiarsi alla fontana e poi fino a una panchina lì vicino. “Grazie” disse lei, accasciandosi con un respiro di sollievo.
“Quindi… Va tutto bene?” continuò Leo.
La ragazza esitò, guardandolo come se fosse pazzo. “Be’ hai detto che è solo una piccola distorsione…”
“Non mi riferivo a quello” la interruppe. “Stavi piangendo. In genere si piange se c’è qualcosa che non va.”
La ragazza abbassò lo sguardo, puntandolo sulla scarpa che ora reggeva in mano e quella che aveva ancora al piede. “Ho avuto giornate migliori” rispose.
“Mi dispiace. Le persone con occhi così belli come i tuoi non dovrebbero mai piangere.”
Leo vide la ragazza arrossire. “Grazie. Io… Io sono Martia” disse lei con un sorriso timido.
“Leo. Devi farti fasciare la caviglia e tenerla a riposo. C’è qualcuno qui alla festa che posso chiamare per farti accompagnare a casa?”
“No…” disse Martia.
“Allora dammi un numero. Chiamerò io.”
“No…” continuò lei.
“Su, non essere timida. Spiegherò io la situazione e…”
“No!” continuò Martia, alzando la voce. “Non c’è nessuno qui e nessuno che puoi chiamare. Sono sola.”
Leo si ammutolì. Per la prima volta si sentiva davvero in imbarazzo. Non gli era mai capitato di incontrare una persona sola e non si era mai sentito così a disagio.
“Devo andare” disse Martia alzandosi a fatica e provando a camminare. Il risultato però era pessimo: zoppicava e impiegava troppo tempo per percorrere solo un metro.
“Permettimi di aiutarti” disse lui avvicinandosi a lei.
“Hai già fatto abbastanza” rispose lei, allontanandolo.
“Non puoi andartene da sola. Ti porto io” disse con decisione. La prese in braccio, ignorando le sue proteste.
L’aveva così vicina da poter vedere ancora meglio i suoi occhi. Vedeva i suoi capelli raccolti in quella strana pettinatura ondeggiare col vento, le sue labbra tremare dal dolore ogni qual volta tentava di muovere la caviglia. La vedeva così vicino a lui come nessuno lo era mai stato. E sentiva il suo cuore battere forte pensando a quanto quel momento fosse speciale.
 
Stipata nei sedili posteriori del taxi guardava le luci slittare fuori dal finestrino mentre lo percorrevano ad alta velocità. Le sue gambe erano appoggiate su quelle di Leo, lo strano ragazzo che l’aveva aiutata a evadere da quella festa assurda. Lui le accarezzava involontariamente i polpacci, mentre guardava a sua volta fuori dall’abitacolo.
E ad ogni tocco Martia sentiva i brividi sulla pelle.
Non aveva mai avuto un ragazzo, tranne uno, quando aveva dodici anni. Ma non era stato nulla di serio e dopo due settimane si erano lasciati. A parte quel ragazzo, suo padre e i suoi fratelli, Leo era il primo individuo maschile con il quale aveva a che fare.
Non era quindi abituata a quel tipo di tocco, quello deciso e dolce allo stesso tempo di un uomo; non abbastanza dolce da essere paragonato a quello di una mamma e non abbastanza deciso da far male. Era qualcosa di strano, ma sicuramente piacevole.
“Dove avete detto che devo portarvi, signori?” domandò l’autista.
Martia nominò il nome di una strada e di un Hotel che a Leo parvero stranamente familiari.
“Perché non vuoi andare in ospedale?” chiese il ragazzo.
“Ho un cattivo rapporto con medici e cose simili… Se sei abbastanza bravo puoi pensarci anche tu a una semplice fasciatura, no?” disse con un debole sorriso.
“Certo” rispose con un sorriso e tornò a voltarsi.
Martia si sentiva meglio da quando quel ragazzo l’aveva interrotta durante il pianto: le aveva fatto dimenticare il problema, l’aveva tirata su di morale e cosa ancora più importante non l’aveva abbandonata.
Ancora faticava a credere che avesse accettato di accompagnarla.
Arrivarono davanti all’albergo destinato all’allogio dei Tributi e dei loro Mentori. Martia avvertì un groppo alla gola, come ogni volta che guardava quell’enorme edificio grigio e squadrato.
“Siamo arrivati” disse, ma non ebbe nemmeno il tempo di muoversi che Leo aveva già consegnato i soldi all’autista e stava scendendo dal taxi per aprirle la portiera.
“Vieni” disse tirandola fuori e prendendola di nuovo in braccio.
“Puoi farmi scendere, per favore?” disse, in imbarazzo.
“Tranquilla, tra un po’ ti metto giù” continuò lui.
“Potevo benissimo pagare io. I soldi non mi mancano” continuò lei, giusto per fare in modo che non calasse il silenzio.
“Nemmeno a me, tranquilla” rispose lui con un gran sorriso. “Allora qual è il palazzo?” domandò.
Martia esitò. Possibile che non l’avesse ancora riconosciuta? Non aveva capito che era una vincitrice degli Hunger Games? “Quello…” Guardò di sottecchi l’espressione del ragazzo, il quale non tentò di nascondere lo stupore.
“Va bene…” disse infine portandola dentro.
Martia lo guidò fino alla sua stanza e, una volta entrati, lui la adagiò sul letto.
“Grazie, grazie davvero” disse con un sorriso leggero. “Non so come avrei fatto senza di te.”
“Tranquilla è stato un piacere” continuò lui. “Prendo del ghiaccio dal frigo e delle bende dalla cassetta del pronto soccorso per la caviglia.”
Leo sparì dalla sua vista e Martia si mise comoda sul letto, tentando di rilassarsi. Ma non era possibile con quel ragazzo nelle vicinanze. La rendeva nervosa, troppo.
Poi il telefono squillò. “Pronto?”
“Ehi, Martia. Sono io.”
Le si gelò il sangue nelle vene. “Cosa è successo?” chiese, ansiosa.
“Nulla, nulla. Volevo solo… Sapere come stai. E’ la tua prima volta da Mentore e immagino sia difficile.”
“Dannazione, Sam. Mi hai fatta preoccupare” disse lei. Sospirò. “Comunque sto bene, grazie. Sto cercando di cavarmela, come sempre.”
“Bravissima, non mollare. Liz ti saluta e Monika ed Erik dicono che non vedono l’ora di riabbracciarti. Come me del resto.”
“Fate i bravi. E Sam, stai attento, per favore.” Nelle sue ultime parole c’era una nota di ansia e dolore che suo fratello non faticò a cogliere.
“Tranquilla. Andrà  tutto bene. Ti aspettiamo.”
Chiusa la chiamata Martia sentì un incolmabile vuoto dentro di sé.
Aveva dovuto abbandonarli, ancora. Ed ora era sola in una stanza d’albergo con una distorsione alla caviglia e un ragazzo sconosciuto che cercava di curargliela.
Si sentì immensamente triste, ancora, e le lacrime cominciarono a bagnarle il viso.
Non ce la faceva a fingere di essere forte quando non c’era nessuno per cui farlo. Ora era sola, perché avrebbe dovuto trattenersi?
A casa c’era la sua famiglia, per strada tutte le persone, ma adesso non c’era nessuno, solo lei e i suoi incubi, le sue paure.
Si stava sforzando di credere che al suo ritorno ci sarebbero stati tutti i suoi fratelli e le sue sorelle, ma era inutile.
Leo rientrò e, davanti alle sue lacrime, esitò qualche istante.
“Scusa” disse lei. “E’ solo che…”
“Sh. Non parlare” rispose lui stringendole una mano. Martia avvertì un brivido lungo la schiena. “Tranquilla, adesso ti sistemo la caviglia. Poi andrà tutto meglio.”
Iniziò ad armeggiare con il ghiaccio e le fasciature e dopo un po’ Martia si sentiva già meglio. Almeno adesso piangeva in silenzio, cosa più dignitosa rispetto ai singhiozzi sfrenati nel giardino.
“Ecco fatto, ho finito” disse il ragazzo alzandosi e guardando il suo bel lavoro. Poi sparì nella stanza accanto e tornò con dello struccante e dei fazzolettini. “Tanto ormai il trucco è andato.”
Martia sorrise. Non riusciva a credere che quel ragazzo fosse così gentile con lei senza alcun motivo. “Grazie” disse piano e iniziò a struccarsi.
Vide Leo esitare. “Be’… Adesso vado, tanto il mio lavoro è finito.”
Martia pulì via il restante trucco che aveva sugli occhi e si guardò allo specchio alla sua destra. Le rimaneva ancora un leggero alone in volto, ma nulla di preoccupante. Si rivolse poi a Leo: “Se vuoi puoi restare” disse. Voltandosi, però, notò che il ragazzo la fissava, imbambolato. “Che c’è?”
“Io mi ricordo di te…” biascicò lui. “Sei la ragazza dei 24esimi Hunger Games.”
“Già, sono io” rispose lei con poco entusiasmo.
Cadde un silenzio imbarazzante tra di loro.
Leo si era accorto di aver toccato un tasto dolente: avrebbe voluto specificare che erano gli unici Hunger Games che aveva guardato, che non aveva gioito alla morte di nessuno, che lui odiava quei Giochi, ma vedendo il suo viso triste tutto sembrava talmente stupido. “Ora vado” concluse.
“Se vuoi… Se vuoi puoi restare” ripeté Martia. “Puoi stare qui ancora un po’. Almeno che non hai qualcuno che ti aspetta.”
Leo sorrise, contento di aver sentito quelle parole. “No, posso restare.”


Buon pomeriggio! Ecco il nuovo capitolo di questa ff, spero vi piaccia. Personalmente non mi convince molto, lo trovo vuoto (?). Intanto non potevo continuare altrimenti sarebbe venuto troppo lungo e mi dispiaceva tagliare dei pezzi a mio parere molto importanti, come i pensieri dei due ragazzi o cosa è successo a entrambi alla festa primi di incontrarsi. Lasciate qualche recensione per farmi sapere cosa ne pensate, a presto!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Confessarsi ***


Capitolo 6 – Confessioni
 
Leo si era seduto con timidezza accanto alla ragazza che aveva ancora gli occhi gonfi e rossi per il pianto. “Mi meraviglio che non ci sia nessuno ad aspettarti, alla festa. Da come sei vestito si direbbe che appartieni a un gruppo importante.”
Leo rise, ironico. Si guardò il suo completo di qualità eccellente che suo padre gli aveva comprato apposta per l’occasione. “Forse non mi crederai ma questo è l’unico vestito che ho. O almeno di questo genere.”
Martia fece un ampio sorriso. “Non può essere.”
“Eppure è così.”
“Ma voi di Capitol City siete tutti feste e banchetti, cerimonie e palloncini, celebrazioni e cibo, tanto cibo” continuò Martia ridendo. Forse era inopportuno che gli ridesse in faccia, ma davvero non credeva a ciò che stava dicendo. “Voi avete tanto di quel cibo che non sapete cosa farne.”
“Sì, hai ragione” ammise Leo. “Ma io non sono come gli altri.”
“Ah, no? Vieni forse da qualche altro pianeta. No, che dico. Non c’è bisogno di arrivare così lontano. Vieni forse da qualche Distretto?”
Leo si sentì un po’ offeso da quell’affermazione. “No, sono nato e cresciuto qui. Ma questo non vuol dire che io sia stupido come tutti gli altri.”
Martia non rispose. Si limitò a guardarlo. Effettivamente nessuna persona di Capitol City l’avrebbe mai aiutata arrivando al punto di portarla in braccio.
“E tu che mi dici? Tu sei la classica vincitrice che si finge triste e sconsolata o quella che si dimostra come una terribile macchina da guerra? Sei l’assassina spietata o quella che lo ha fatto solo per sopravvivere?” domandò Leo. Martia sgranò gli occhi. Stava per urlare, per insultarlo per il suo atteggiamento, per chiedergli come poteva dire cose del genere quando nemmeno sapeva quali orrori aveva subito. Poi però Leo continuò a parlare: “Non sempre siamo quello che i nostri simili sono.”
La ragazza al quel punto si sentì molto vulnerabile.
Aveva desiderato da sempre incontrare qualcuno che la comprendesse davvero, qualcuno che fosse capace di vedere attraverso quel solido guscio che si era creata attorno per impedire alle cose esterne di farle del male. Ma ora che aveva trovato quella persona era terribilmente spaventata: da subito capì che lui l’aveva in pugno, poteva fare di lei quello che voleva perché sapeva esattamente dove colpire. “Se non sei il tipico abitante di Capitol City, allora chi sei?” si limitò a chiedere con molta calma.
“Sono un ragazzo normale, ma con opinioni differenti da quelli che abitano nella mia città. Non mi interessano gli Hunger Games, non mi interessa la guerra o la supremazia della mia città, non mi interessa la moda, il trucco e tante altre cose simili. Oserei dire che sono come un qualsiasi ragazzo dei Distretti, ma non posso dirlo perché non ci sono mai stato.”
“A voi non è concesso di uscire fuori da questa città?” domandò Martia.
“Perché a voi è concesso di uscire dal vostro Distretto? Ad esclusione di quando venite convocati dalla capitale?”
La ragazza ci pensò su. “No, certo che no. Ma credevo che voi poteste farlo, dato che avete il potere su tutto, o almeno così fate credere.”
“Non so fino a che punto è grande il potere del presidente, ma ogni qual volta ho proposto un’uscita a mio padre lui si è rifiutato.”
“Tuo padre deve essere un uomo importante, per essere a quella festa. Come si chiama?”
“Ivon Hampfit.”
Il volto di Martia divenne improvvisamente pallido. “Sei il figlio del Capo degli Strateghi?”
Leo annuì con aria grave. “Non giudicarmi come tutti gli altri. Tutti credono che io debba essere come lui, ma sono l’opposto.”
Martia istintivamente gli prese una mano e gliela strinse forte. “Tranquillo, non sono quel genere di persona. Anche mio padre era molto diverso da me, è normale.” Leo annuì, senza aggiungere niente. Era evidente che il discorso aveva preso una piega indesiderata. “Cos’è quello?” domandò Martia indicando il cartellino.
“Oh…” disse lui cercando di nasconderlo con la giacca. “Se ti dico cos’è davvero inizierai a non fidarti più di me.”
La ragazza lo fulminò con lo sguardo. “Ma cosa dici? Un cartellino non potrà mai essere così terribile. Che c’è scritto? Aiuto cameriere?” scherzò lei. Lesse poi cosa la scritta e guardò il ragazzo negli occhi. “E’ uno scherzo?”
“Vorrei tanto che lo fosse.” Leo si vide costretto a raccontarle cos’era accaduto due anni fa, ma tralasciò i suoi ultimi progetti di guarigione forzata per incorrere poi nella morte.
“E’ tutto così assurdo qui… Da noi forse nemmeno esistono gli psichiatri” commentò Martia.
“Da quale Distretto vieni?”
“Il 4.”
Il cuore di Leo perse un battito. “Davvero? Quindi tu… Tu hai visto il mare?”
Lei rise. “Lo vedo tutte le mattine.”
“Io l’ho sempre e solo visto attraverso le foto ma lo adoro. Vorrei tanto poterlo vedere dal vivo, così come i boschi del Distretto 7.”
“Non posso negare che il mare ha il suo fascino” acconsentì Martia. “Ma fidati, non ti piacerebbe abitare in un Distretto.”
“Perché?”
Martia si agitò sul letto. Non voleva scendere troppo nei dettagli, arrivare a parlare della sua vita, di tutta la sfortuna che l’aveva perseguitata. Così si limitò a dire: “Non è bello vedere morire ogni anno un ragazzo, un tuo amico, un tuo vicino, un tuo figlio.”
Leo la osservava con attenzione. Stette in silenzio, come se stesse soppesando le sue parole, poi disse: “Hai perso qualcuno?”
Martia sussultò. “Cosa?!” Come aveva fatto a capirlo? Aveva cercato di essere il più seria possibile, senza lasciar trasparire emozioni, ma non era bastato.
“Hai capito bene. Chi delle persone a cui volevi bene ora non c’è più?”
Per Martia fu come una coltellata al centro del petto. In un attimo le vorticarono davanti agli occhi le immagini di suo padre, del suo fratellino Paul e di sua mamma. Vide suo padre implorare aiuto, implorarle di tornare indietro e salvarlo; immaginò Paul febbricitante, costretto a letto, mentre invocava il suo nome sperando nel suo ritorno; e poi vide sua madre, con il viso pallido e scarno, gli occhi vacui e le labbra secche, che cercava di parlare, di dirle qualcosa, senza riuscirci per il dolore troppo forte.
Senza nemmeno sapere come, si ritrovò tra le braccia di Leo, in lacrime. Lui la stringeva forte e lei gli stava bagnando tutta la camicia con il suo pianto.
“Calmati” gli sussurrò lui all’orecchio. “Va tutto bene.”
Martia provò a respingerlo, ma lui la teneva eccessivamente stretta. E poi quella presa salda, sicura, calda, era così confortante che lei avrebbe voluto rimanere lì per sempre.
Abbracciava sempre i suoi fratelli e sorelle, ma in quegli abbracci era lei a dare conforto e non gli altri a darlo a lei. Era lei quella grande, era lei il punto di riferimento. Ma era solo una ragazzina di sedici anni, non poteva sopportare tutto quel peso da sola.
“Se ne stanno andando tutti… Ad uno ad uno… Tutti i ragazzi degli Hunger Games, Cad, Paul, mio padre e mia madre…” balbettò tra i singhiozzi.
Leo si sdraiò accanto a  lei e la strinse ancora più forte. Martia gli si appoggiò sulla spalla, rilassando i muscoli, abbassando la guardia.
Per la prima volta da quando il suo nome era stato estratto alla Mietitura, si sentiva finalmente di nuovo al sicuro.
 
“Martia!” strillò una voce. “Dannazione! Svegliati!”
Leo aprì leggermente gli occhi, richiudendoli subito a causa del forte fascio di luce che penetrava dalla finestra.
“Martia i Tributi stanno per partire! Li devi accompagnare agli hovercraft!”
Si chiese come mai stessero chiamando il nome di Martia a casa sua. E cosa c’entravano i Tributi?
Solo in quel momento si accorse che la sua mano poggiava su qualcosa di caldo. Si voltò e sobbalzò vedendo che, stesa al suo fianco, c’era la ragazza del Distretto 4, profondamente addormentata.
Ricordava che erano rimasti a parlare fino a tardi, molto tardi, che lei si era sfogata con lui raccontandogli tutta la sua vita. Ed era a quel punto che forse si erano addormentati.
“Ehi” disse scuotendola leggermente. “Ehi, ti chiamano.”
La ragazza, con i capelli arruffati, si rigirò dal suo lato e lo abbracciò più forte, facendo sprofondare il viso nel suo petto.
Il cuore di Leo iniziò a martellare con violenza. Avrebbe voluto solamente rimettersi a dormire con lei al suo fianco, ma doveva andare. “Ehi, è proprio ora di alzarsi” disse scuotendola ancora.
Martia si mosse e aprì piano gli occhi, mentre la voce femminile fuori dalla porta continuava a infuriare. Non appena lo vide, sgranò gli occhi, conscia che qualcosa non andava. “Che succede? Che ci fai qui? Che diavolo è successo?” fece alzandosi di scatto e allontanandosi da lui.
“Immagino tu debba andare” disse Leo.
“Sono pronta! Arrivo!” strillò alla voce che proveniva dall’esterno. Si alzò e, ancora un po’ zoppicante, si diresse all’armadio da dove prese dei vestiti e li buttò sul letto. “Devi andartene” disse poi guardando Leo. Il ragazzo fece per alzarsi e mettersi le scarpe. “No, no, no! Non andartene, stai fermo lì.” Si guardò attorno, ansiosa. “Aspetta che esco io. Poi porterò via tutti quanti e tu uscirai e te ne tornerai a casa tua.”
“Non abbiamo fatto niente di illegale” protestò Leo.
Martia lo fulminò con lo sguardo, prese i vestiti e si fiondò nel bagno, adiacente alla sua stanza. Ne uscì pochi minuti dopo vestita di tutto punto e con una spazzola in mano, nel vano tentativo di dare ordine ai capelli.
Leo, a quella vista, sorrise.
“Cosa c’è da ridere?” sbottò lei.
“Niente… Solo che…” Non sapeva proprio come dirlo. “Sei carina. E anche molto simpatica.”
Le guance di Martia presero fuoco. Si girò, dando le spalle al ragazzo, e borbottando qualcosa che sembrava un grazie. Posò poi la spazzola e si parò davanti a Leo: “Adesso io vado, tu sai già cosa fare.”
“Certo.”
Martia esitò. “Be’… Allora ci vediamo, forse.”
“Fai attenzione alla caviglia. Non è completamente guarita. Non devi sforzarla.”
“Oh, dopo passerò in infermeria e mi farò dare qualcuna di quelle medicine miracolose che solo qui hanno.”
Si guardarono, nervosi. Avevano dormito per quella notte l’uno accanto all’altra. Si erano aiutati, consolati e confidati, ma non potevano dire di conoscersi bene. Veniva dunque difficile salutarsi, per la paura di essere troppo scorbutici o troppo affettivi.
“Ciao, allora” disse Martia con un gesto della mano.
“Ciao” disse Leo con un grande sorriso.
La vide poi sgattaiolare fuori dalla stanza e convincere tutti i presenti nelle vicinanze a seguirla. Quando non ci fu più nessuno uscì, non senza aver dato prima uno sguardo a quel luogo che lo aveva ospitato per una notte.
 
Mentre attraversava il giardino di casa, poté vedere gli occhi dell’intera servitù puntati su di lui: il suo aspetto era trascurato, molto trascurato, segnale evidente che non aveva dormito a casa sua.
Non si era dato una rinfrescata né sistemato i capelli, e con la camicia tutta spiegazzata e le scarpe slacciate sembrava appena tornato da una sbornia con gli amici.
Era, però, oggetto di così tanta attenzione perché a nessuno era sfuggito il fatto che lui non avesse amici.
Fino ad allora non aveva mai dormito una sola notte fuori casa e i pomeriggi in cui era uscito per stare in compagnia si potevano contare sulle dita.
Aprì la porta di casa lentamente, cercando di sembrare indifferente. Non aveva pensato a cosa avrebbe raccontato alla sua famiglia se avessero fatto qualche domanda.
Come previsto, sua madre fu la prima a intercettarlo: “Perché sei conciato in questo modo? Non sai che si dorme senza vestiti?”
Era troppo stupida per capire cosa era realmente successo. Si diresse verso il bagno con pigrizia e capì che stavano arrivando i guai quando vide una ragazza alta, con una cresta fucsia e un tatuaggio a forma di orchidea sulla guancia destra uscire dalla sua stanza.
Lo guardò con gli occhi spalancati. “Sei tornato ora, vero?”
“Sì, Lana ma niente discussioni ti prego.”
Lana era la sua sorella maggiore. Una tipa un po’ particolare che cambiava colore alla sua cresta ogni mese. Generalmente girava con un trucco molto appariscente, che prevedeva mille sfumature che ricoprivano tutto il volto, ma dato che era prima mattina aveva solo un po’ di mascara bordeaux sulle ciglia. “Davvero hai dormito fuori?” disse lei seguendolo come un’ombra.
“Sì, e quindi? Vorrai forse iniziare a fare storie? Ho diciotto anni, posso farlo. Tu sono due anni che dormì più a casa del tuo ragazzo che qui e nostro padre non ha mai protestato.”
“Sì, infatti.”
Leo sbuffò. “E allora cosa vuoi?” Sostava davanti la porta del bagno, in attesa che sua sorella andasse via per poter finalmente farsi una doccia.
“Dove hai dormito?”
“Non vorrai iniziare ora a fare la gelosa. Non ti è mai importato niente di me.”
Lei rise. Quel sorriso che Leo tanto odiava con quei piccoli diamanti incastonati in ogni dente. “Hai ragione, di te non me n’è mai importato. Ma se il mio fratellino inizia a comportarsi da persona normale forse potrei iniziare a considerarlo. Ora sputa il rospo, dove hai dormito?”
“Da amici.”
“Quali amici se nessuno ti rivolge la parola?!”
Leo sbuffò. “Li ho conosciuti alla festa, va bene?”
“No, in realtà…”
Leo non le diede il tempo di rispondere. Le chiuse la porta in faccia e accese la radio, con la musica a tutto volume per non doverla sentire strillare. Gli bastava rimanere lì un quarto d’ora, poi lei sarebbe uscita per fare shopping con le sue amiche e non l’avrebbe rivista fino a pranzo.
E dopo mangiato aveva intenzione di uscire di nuovo, subito. Doveva vedere l’inizio di quegli Hunger Games, doveva farlo assolutamente.
Sarebbe sceso in piazza a vederli, solo per cercare lei tra la folla.
Martia.




Buonasera lettori, spero il nuovo capitolo vi piaccia. Non ho molto da dire, stavolta, se non che spero che questo capitolo possa fare la differenza: noto che, nonostante alcune (poche) recensioni ricevute, e l'inserimento da parte di alcuni di voi della storia tra le seguite/preferite/ricordate, le persone che leggono sono molto poche.
Non ho mai avuto manie di protagonismo e non inizierò ora, ma mi sono trovata a scrivere ff molto più "banali" e ad avere molti più lettori ed ora che finalmente pensavo di aver scritto qualcosa che si poteva definire almeno un po' originale non c'è nessuno che legge.
Qui non si parla di ricevere pareri e opinioni, cosa per cui si può non avere tempo, ma proprio di viasualizzazioni. Se c'è così poca gente disposta a leggere non so se aggiornerò ancora la storia.
Ad ogni modo spero sempre per il meglio, a presto ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Ti proteggerò ***


Capitolo 7 – Ti proteggerò
 
Sentiva il suo cuore battere a una velocità pazzesca. Doveva sforzarsi, però, di rimanere calma, impassibile. Tutto in quel momento dipendeva da lei: doveva trasmettere forza, sicurezza ma soprattutto speranza.
“Puoi farcela” ripeté al ragazzino accanto a lei. “Ti sembrerà terribile, ti tremeranno le gambe, avrai voglia di scappare, ma sappi che niente ti aiuterà. Devi rimanere lucido e correre, correre il più veloce possibile. Sei abbastanza veloce da poter prendere almeno uno degli oggetti, ma non ti addentrare troppo, non reggeresti lo scontro contro i Favoriti.”
Roland al suo fianco annuì.
Poteva quasi vederlo tremare, quel povero ragazzino di tredici anni chiuso insieme a lei in quell’ascensore che andava sempre più su.
Martia sapeva che non ce l’avrebbe fatta, era troppo piccolo e troppo debole per vincere. Si era ammalato gravemente prima dell’inizio degli Hunger Games, prima ancora della Mietitura, ma non si era mai ripreso. Ed ora quel fisico gracile e debole sarebbe stato la sua rovina in quell’Arena.
“Sono più forti di te i Favoriti. Quindi punta sull’astuzia. Non esporti troppo, cerca acqua e trova un modo per procurarti del cibo.”
Roland annuì. “Ti prego, però, non abbandonarmi.”
“Non lo farò.”
“So che Mags è più brava di me, che punterai tutto su lei, ma non dimenticarti di me.”
Quelle parole stupirono Martia e la ragazza sentì le lacrime inumidirle gli occhi. Si sforzò di non farle scendere mentre le porte si aprivano e il ragazzo saliva sull’hovercraft.
Quando tornò all’interno del palazzo, trovò Mags, titubante, che la guardava con aria disperata.
“Andiamo, tocca a te” disse sforzandosi di rimanere impassibile. Le riusciva difficile davanti a quei volti giovani, davanti a quelli che erano suoi coetanei, che da quel momento in poi avrebbero vissuto gli istanti più terrificanti della loro vita e che poco probabilmente avrebbero fatto ritorno a casa.
“Ascoltami, attentamente” disse Martia nell’ascensore. “Sei veloce, molto veloce. Devi correre il più possibile e arraffare un arma e uno zaino, so che puoi farcela. Ma per uscirne viva non devi esitare, non devi fermarti nemmeno un istante. Corri e prendi la prima cosa che trovi, non pensare. Può essere anche un arma che non sai usare, ma certamente è sempre meglio di niente.”
“No, no! Non ce la faccio, Martia. Non ce la farò mai!” la ragazza aveva le lacrime agli occhi.
“Ehi, guardami!” la prese saldamente per le spalle. “So che puoi farcela, fidati di me. Devi solo correre il più possibile e non fermarti, mai!”
Mags continuava a scuotere la testa, terrorizzata.
“Io ho vinto gli Hunger Games due anni fa, ero più piccola di te e sapevo molte cose in meno di te. Tu puoi farcela, potresti essere una vincitrice, potresti tornare a casa!”
Mags stava quasi tremando, ma quando le porte si aprirono prese un bel respiro e salutò Martia cercando di auto convincersi che sarebbe stata ancora viva tra due o tre settimane.
Martia la guardò sparire in cielo e, con aria afflitta, tornò giù.
 
I Tributi erano partiti da circa un’ora e  tra mezz’ora sarebbero iniziati i Giochi.
Martia se ne stava ancora in albergo a fissare il suo piatto quasi pieno. Tutti intorno a lei stavano cercando di convincerla a mangiare ma lei proprio non ce la faceva.
Lasciò perdere il pranzo e scese per le strade di Capitol City, recandosi nella piazza principale dove avrebbero trasmesso su un maxi schermo tutti gli Hunger Games.
La folla era in visibilio e si aggirava raggiante tra i negozi e gi altri luoghi di intrattenimento. Si aprirono ufficialmente le scommesse e notò con tristezza che i suoi Tributi non erano molto quotati.
Sentì addirittura mormorare da qualcuno che la colpa della loro morte sarebbe stata solo sua, perché troppo giovane e inesperta.
Si sedette, affranta, sul bordo di una fontana, contando i pochi minuti che mancavano all’inizio.
“Ciao” disse una voce familiare.
Si voltò e il ragazzo della festa, Leo, era proprio davanti a lei. In quell’istante non aveva voglia di parlargli: l’ansia per i suoi allievi era troppa, il nodo alla gola era talmente forte da impedirgli quasi di parlare.
Avrebbe voluto mandarlo via, ma era stata l’unica persona carina con lei nell’ultimo periodo quindi si limitò a sorridere debolmente. “Ciao” disse voltandosi di nuovo a guardare lo schermo.
“Preoccupata?” domandò lui.
“Molto.”
Leo esitò. “Ti dispiace se mi siedo accanto a te?”
Martia si voltò a guardarlo. Se ne stava in piedi con un pantalone di jeans e una camicia bianca; i capelli erano un po’ arruffati e le ciocche blu risplendevano sotto il sole; sul volto era dipinto un piccolo sorriso d’incoraggiamento.
“Certo, solo…”
“Tranquilla. Me ne starò in silenzio.”
La ragazza era contenta che avesse capito. Sarebbe stato troppo complicato spiegargli quanto quel momento fosse difficile, anche se conosceva appena i due ragazzi.
Si sentiva in qualche modo responsabile per la loro vita. Avrebbe fatto di tutto per proteggerli e per farne tornare almeno uno a casa.
Vide sullo schermo i volti dei Tributi mentre comparivo ad uno ad uno nell’Arena: un bosco molto esteso, con un’unica, grande montagna al centro con in cima la Cornucopia; tutt’intorno, a delimitare il confine del bosco, grandi colline brulle.
Era un paesaggio incantevole, ma anche tremendo: chi prima sarebbe arrivato alla Cornucopia avrebbe potuto sterminare facilmente gli altri, essendo più in alto.
Pregò in cuor suo che Roland non provasse a scalare la montagna. Non ce l’avrebbe fatta, era troppo ripida e alta e lui, così come tutti gli altri tributi, era solamente alla base.
Mags avrebbe potuto farcela, ma non sapeva come avrebbe fronteggiato i Favoriti dato che, dal lato opposto a quello dove si trovavano loro, la montagna terminava con uno strapiombo.
Iniziò il conto alla rovescia dell’ultimo minuto prima dell’inizio. Tutti i Tributi si guardavano tra di loro, spaesati e confusi da quello strano panorama.
Quando il tempo scadde, metà di loro si tuffò nel bosco, rinunciando a qualsiasi oggetto.
Senza sapere come, Martia si ritrovò a stringere forte la mano di Leo e a sperare che tutto andasse per il verso giusto.
Vide Roland inerpicarsi a fatica, ma tutto sommato non stava andando male.
Mags era in testa insieme al Tributo maschio del Distretto 1.
La ragazza arrivò nei pressi della Cornucopia e afferrò due zaini portandoseli in spalla, poi arraffò un set di coltelli e ne estrasse uno, per poi fiondarsi di nuovo verso il bosco. Dovette fronteggiarsi, nella discesa, con la ragazza del 6 che provò a sbarrarle la strada: era molto grossa e il suo tentativo era certamente quello di metterla al tappeto per impossessarsi di ciò che aveva conquistato.
Mags però riuscì a raggirarla, colpendola con il coltello a un fianco. Aggirò poi il ragazzo dell’11 e una freccia scagliata dall’alto dalla ragazza del 5 e si inoltrò nella foresta.
Roland, invece, riuscì ad arrivare solo a metà salita: con il fiatone, prese un piccolo zaino e iniziò a scendere. I Favoriti stavano già discendendo per uccidere chi si era avventurato sulla montagna e lui per un pelo non dovette fronteggiare il ragazzo dell’1 che lo aveva quasi raggiunto.
Non appena Martia vide i suoi Tributi sani e salvi nella foresta, tirò un respiro di sollievo.
Rimase ugualmente con gli occhi incollati sullo schermo, pronta a vedere quale sarebbe stata la sorte degli altri ragazzi.
Nel giro di mezz’ora, il Bagno di Sangue era terminato.
I morti, però, furono solo quattro: la ragazza del 6, che dopo la ferita infertale da Mags al fianco, fu raggiunta dalle frecce della ragazza del 5; il ragazzo del 3, trafitto da un affondo nel pieno dello stomaco dal ragazzo dell’1; la ragazza del 7 aveva esitato un istante di troppo nello scegliere lo zaino e la ragazza del Distretto 2 le era saltata addosso, perforandole la gola con un pugnale; infine c’era la ragazza dell’1, che aveva provato a fronteggiare quella del 5 e che era rimasta uccisa da una sua freccia.
I Favoriti, nonostante questa perdita, rimanevano sempre quattro perché la ragazza del Distretto 5, una certa Mez, si era unita a loro.
“Stai tremando” disse Leo mentre le immagini si spostavano sui presentatori del programma, pronti a commentare con falsa angoscia l’accaduto.
Martia si guardò le mani e vide che effettivamente erano scosse da tremiti. “Scusa…” mormorò, ritraendole.
Leo sorrise, un sorriso caldo che le ricordava tanto quello di sua madre quando ancora era in forma, e provò ad aggiungere qualcos’altro, ma fu interrotto dall’arrivo di una ragazza con i capelli a forma di cresta. “Ciao, fratellino” disse guardando Leo con un sorriso luminoso.
“Lana, cosa vuoi?!” rispose lui, esasperato.
“Volevo conoscere la tua amica. Sai, è un evento raro. E non capisco perché tu volevi tenerla nascosta. Così ti ho seguito.” Leo sbuffò. “Piacere, Lana. Sono sua sorella” continuò lei tendendole la mano.
Martia esitò. Poi gliela strinse: “Piacere, Mar…”
“Oh, mio Dio!” trillò la ragazza lasciando andare la sua mano come se avesse preso la scossa. “Ma tu hai partecipato agli Hunger Games!”
Martia sentì come un pugno allo stomaco. E quindi era forse solo questa la cosa buona che aveva fatto nella sua vita? “Sì.”
“Oh, allora una volta tanto Leo non parla con tipi strani…” osservò poi i suoi abiti e i suoi capelli ed aggiunse: “Più o meno. Ad ogni modo è qualcosa di fantastico. Sei ufficialmente invitata al banchetto di Inizio Giochi che si tiene ogni anno a casa nostra.”
Martia la guardò con occhi sbarrati. Non sapeva cosa fosse più assurdo, l’immagine di lei a casa di uno Stratega o la gente che festeggiava la morte di quattro ragazzini.
“Io non posso, davvero…”
Lana le si avvicinò con sguardo minaccioso. “Io non ricevo mai un no come risposta.” La prese sottobraccio e la trascinò via.
Guardò con sguardo implorante Leo, che provò in tutti i modi a convincere la sorella a lasciarla andare. Ma fu tutto inutile e chi secondi dopo era davanti a una lussuosa villa.
“Davvero abiti qui?” domandò a bocca aperta. La sua casa nel Villaggio dei Vincitori era niente a confronto.
“Oh, si. Ma a mio padre non piace dirlo in giro. Sai, in genere riceve i suoi ospiti nella villa apposita. Questa è troppo piccola” rispose Lana al posto del fratello.
Martia si sentì avvampare mentre tutto il personale della famiglia Hampfit la fissava con fare malizioso. Si sentì venire meno quando, entrata in casa, le presentarono la loro madre: era una donna alta, con i capelli legati in un’acconciatura dall’altezza vertiginosa e aveva quasi tutto il corpo (faccia esclusa) coperto di tanti tatuaggi; il trucco metteva in evidenza i sui occhi verdi e le labbra, gonfiate come palloncini dalla chirurgia estetica, erano tinte di rosso.
La vera batosta, però, fu incontrare il padre: Ivon Hampfit, l’uomo che durante gli allenamenti la studiava per scegliere un punteggio, per decretare la sua morte nell’Arena e che aveva fatto partire le trombe quando aveva ucciso quel ragazzo.
Martia se ne stava seduta a tavola senza fiatare; Leo, al suo fianco, aveva lo sguardo afflitto, come se fosse lui ospite del nemico.
Lana non faceva altro che parlare di stupidi negozi e stupidi accessori.
“Che bella tintura, ragazzina. Che colore è?” domandò la madre.
“Biondo, ma… E’ il mio colore.”
“Oh, capisco. Anche gli occhi sono i tuoi?” chiese la donna.
Martia si sentiva a disagio con gli occhi di tutti puntati addosso. “Si…”
La donna sorrise. “Ti vedrei bene con un po’ di trucco. Come nelle interviste. Così hai proprio un’aria da Distretto.”
“Forse perché lì abita” rispose Leo.
Sua madre stava per replicare, ma il padre li interruppe. Si voltarono tutti a guardare lo schermo della televisione, dove il padre stava mostrando le immagini di quella giornata. Di fronte Roland e Mags, Martia non poté far altro che sorridere, entusiasta di loro.
“Spero tu li abbia addestrati a dovere” commentò Ivon. “Si prospettano essere gli Hunger Games più lunghi della storia.”
Martia avvertì un brivido lungo la schiena. I suoi erano durati appena tredici giorni e a lei sembravano un’eternità. “Ho fatto del mio meglio.”
Ivon annuì. “Tu sei quella che ha ucciso un solo ragazzo, vero? A mani nude.”
Il boccone le andò di traverso, ma riuscì a non farlo notare. “Sì, lui… Era del Distretto 12 e aveva ucciso una ragazzina e io…”
“Avresti potuto farlo più in fretta” commentò Ivon.
“Come, scusi?” fece Martia.
“Avresti potuto ucciderlo più rapidamente. Ci sei stata un secolo ad affogarlo. Facevi prima a lapidarlo.”
Martia vide il volto del ragazzo. Lo vide con il suo sorriso sadico, convinto di avere la vittoria in pugno; poi il suo sorriso beffardo tramutò in un’espressione di stupore e poi le sue mani allentarono la presa, la forza dei colpi, sempre più, finché non cadde sopra di lei, morto.
“Martia?” fece Lana guardandola con stupore.
“Cosa?” disse lei, svegliandosi da quella sorta di trance.
“Dicevo, non credi sia stata un’ingiustizia far morire tutti i Tributi insieme?”
“Sì, certo.” Si guardò poi le mani. Tremavano, più forte di prima. Stava sudando freddo e il panico era grande.
Poi Leo le prese la mano e gliela strinse forte. Sentì il calore della sua stretta e un po’ si rilassò. Lo guardò e lui le sorrise, e per un attimo tutti i fantasmi scomparvero.
“Con il vostro permesso vorrei portare Martia a vedere la vista delle stanze del lato ovest. E’ qualcosa che deve vedere assolutamente” disse Leo.
“Prego” fece il padre continuando il pranzo.
Leo si alzò e, senza lasciarle la mano, la guidò dentro la casa, portandola fino a una stanza che, per tutti i volumi presenti, Martia riconobbe subito come sua.
Il ragazzo chiuse la porta e la guardò. Rimasero qualche istante a fissarsi, senza parole, poi lui disse: “Mi dispiace. Mia sorella è troppo cocciuta. Non capisce mai quando è ora di smetterla.”
“Tranquillo, sto bene.”
“No!” rispose Leo serio. Il suo volto sembrava preoccupato. “Non dire che stai bene, perché non è così. Ti ho vista oggi, ho visto il tuo sguardo, la tua paura.”
“Sono cose con cui combatto da una vita, o meglio da due anni. E niente potrà cambiare questa situazione, niente potrà farli andare via.” Martia aveva gli occhi leggermente lucidi, ma si fece forza per non piangere.
Leo le si avvicinò e, inaspettatamente, l’abbracciò. Martia provò a liberarsi ma la sua presa era salda e lei non voleva veramente sbarazzarsi di quella sensazione piacevole. Così lo abbracciò a sua volta.
“Ti proteggerò. Da tutte le tue paure, i tuoi fantasmi del passato. Non è vero che non possono andare via. Troverò una soluzione, lo giuro.”





Buonasera! Parto dicendo che per me scrivere questo capitolo è stato molto difficile. Non facevo altro che bloccarmi e riprenderlo, per tutto il tempo. Inutile dire che avrei voluto spiegare le cose in modo più dettagliato, ma mi sembra abbastanza lungo già così. Spero che qualcuno di voi lasci una recensione per farmi sapere cosa ne pensa (anche le critiche son ben accette!). Spero vi piaccia, a presto!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Sbaglio ***


Capitolo 8 – Sbaglio
 
Erano seduti sul letto di Leo, intenti a fissare il panorama mozzafiato che si poteva scorgere dalla sua finestra.
Martia stava tentando di spiegargli gli incubi con cui conviveva da anni, ma era difficile. Nessuno poteva capire come ci si sentiva a partecipare agli Hunger Games, ad esclusione dei Tributi morti e dei pochi Vincitori.
Leo ascoltò in silenzio, con aria assorta. Aveva un’espressione leggermente corrucciata e annuiva lentamente mentre la ragazza cercava di esprimersi il meglio possibile.
“Mi dispiace solo che uno dei due miei ragazzi non potrà farcela sicuramente. Mi sento responsabile per loro, eppure mi sembra difficile che possano sopravvivere. Non sono per niente quotati anche se i Giochi sono appena iniziati” spiegò lei.
Leo sorrise. “Hai davanti a te una delle persone più ricche di Capitol City che non esiterà minimamente a fare tutto ciò che è in suo potere per farti stare tranquilla e salvare quei ragazzi.”
Martia rimase a bocca aperta. “Ma cosa dici? Non puoi… Cioè non devi farlo. Non per me almeno.”
“Perché? Se voglio, posso. Fine della storia.”
La ragazza lo guardò a lungo, con aria pensosa. “Come hai fatto?”
“A fare cosa?”
“A… Ad essere… Insomma… Ad essere quello che sei… Qui, tra queste persone…”
Leo le sorrise ancora. Era incredibile quanto Martia si sentisse rassicurata da quel sorriso. “Credo di non aver capito bene.”
La ragazza sorrise a sua volta. “Lo so che hai capito benissimo. E’ solo che vuoi sentirtelo dire esplicitamente.” Leo annuì, sorridendo ancora di più. Martia sospirò: “Come fa Capitol City a sfornare o tanti idioti o persone fantastiche come te?”
Leo rise. “Non lo so. Ma tu dimmi, nel tuo Distretto tutte le ragazze sono così belle?”
Martia si sentì avvampare sotto lo sguardo indagatore del ragazzo che adesso la fissava attentamente. Poteva vedere con la coda dell’occhio il suo rossore riflesso nel vetro della finestra e provò ancora più vergogna.
A quel punto, Lana piombò nella stanza e urlò a entrambi di venire in cucina.
Tutta la famiglia aveva gli occhi puntati sullo schermo e, con grande stupore di Martia e Leo, le scene proiettate erano degli Hunger Games e avvenivano in tempo reale.
Roland stava scappando, il ragazzo dell’8 alle sue spalle lo rincorreva con aria feroce. Zoppicava e cercava di evitare gli arbusti. A nessuno sfuggì il lembo di stoffa mancante all’altezza della caviglia e il segno di una dentatura che forava la carne, provocando una fuoriuscita di sangue.
“Cosa è successo?” fece Martia, apprensiva, avvicinandosi allo schermo.
“Un serpente. E’ sbucato dal nulla e lo ha morso. Le sue urla hanno attirato l’altro Tributo” spiegò Lana.
Martia iniziò a pregare perché il ragazzo si salvasse: il suo avversario del Distretto 8, aveva ugualmente tredici anni ma era di stazza più piccola. Roland poteva farcela.
Sul più bello spuntò da dietro un albero il ragazzo del Distretto 11 che saltò addosso a quello dell’8, tentando di ucciderlo con la spada. Il ragazzino però iniziò a muoversi freneticamente e il suo nemico faticava a mantenerlo fermo.
Roland si fermò poco più avanti ed esitò.
“Cosa diavolo fa?” sbottò Lana. “Perché non scappa?”
“Sta facendo quello che fece la sua Mentore. Sta progettando una Strategia.”
Martia sentì gli occhi di tutti puntati su di lei.
L’attenzione passò di nuovo a Roland che, nonostante la ferita, afferrò una pietra e colpì con violenza il ragazzo dell’11 sul cranio. Quello cadde a terra, stordito. Allora Roland prese una liana da un albero e la attorcigliò attorno al collo del ragazzo, tirò con forza e dopo qualche secondo un colpo di cannone risuonò nell’aria.
Il Tributo diciassettenne dell’11 era morto sotto i colpi di un ragazzino di tredici anni del Distretto 4 che ora aveva guadagnato un alleato dal Distretto 8 e una spada.
Leo e Martia tirarono un respiro di sollievo. “Sei stata un’ottima insegnante allora” commentò Leo.
“Effettivamente era dura a morire. Ci è andata vicino molte volte nei suoi Hunger Games ma l’ha fatta franca alla fine” intervenne il Capo Stratega. Guardò Martia con un sorriso gelido: “Chissà se si è trattato solo di fortuna.”
Martia lo fissò. “Devo andare, ho molte cose da fare” rispose con distacco.
 
Leo si era offerta di accompagnarla all’albergo. Avevano finito però per girovagare per la città, anche se entrambi odiavano quel clima così festoso, solo per rimanere insieme.
“Ogni sera ci sarà una festa in locali diversi dove i Mentori possono conoscere gli sponsor. Che ne dici di venire? Ci sarò anche io” propose Leo.
Martia sospirò. “Immagino che mi toccherà farlo.”
“Be’ potresti anche evitare, dato che i tuoi Tributi hanno già uno sponsor, ma pensavo fosse un modo carino per stare ancora un po’ insieme” e dicendo così Leo estrasse dalla propria tasca un pezzetto di carta e glielo consegnò. Era un assegno con un numero così cospicuo di zeri che Martia credeva di non averne visti mai così tanti.
“Non posso accettarlo.”
“Devi, invece. Compra loro quello che è necessario. Se finiranno sarò disposto a dartene altri. Non finiremo in povertà per cifre del genere” spiegò Leo.
Martia si sentiva felice, troppo. Stava andando tutto bene e forse avrebbe potuto riportare uno dei suoi Tributi indietro grazie a quei soldi. Era il meglio che potesse sperare. “Non so come ringraziarti.”
Leo le prese la mano. “Non devi” rispose con un sorriso.
Il ragazzo riusciva a percepire il disagio che provocava in lei quella stretta. Non riusciva a capire se era il contatto umano a infastidirla o solamente la sua presenza, ma si sentì sollevato quando vide che lei non gli lasciò la mano e lo guardò negli occhi con un luminoso sorriso.
“Dovresti farlo sempre.”
“Cosa?” domandò lei.
“Sorridere. Sei più bella.”
Martia arrossì ancora e interruppe la conversazione dicendogli che era ora di tornare in albergo.
Nello stesso istante in cui le loro mani si separarono, Leo avvertiva già la mancanza di quel contatto. “Perché devi tornare? E’ presto.”
“Abbiamo camminato per ore e se adesso non vado a prepararmi stasera non sarò presentabile e non potrò venire alla tua lussuosa festa” rispose lei ridendo.
“Non è la mia.”
“Ma è comunque una festa alla quale non posso presentarmi così” disse con un sorriso.
“Allora penso che dovrò lasciarti andare.”
L’accompagnò fin davanti alla sua camera e per tutto il tempo non fecero altro che ridere e scherzare, dimenticando per un attimo tutte le cose brutte.
“Adesso puoi andare. La strada fino al bagno la conosco. Anche se conoscevo anche quella per arrivare all’albergo e alla mia stanza” disse Martia sorridendo.
Leo rise. “Volevo solo essere sicuro che nessuno ti rallentasse. Morirei nel caso in cui tu non venga a quella festa.”
“Ci sarò, promesso” rispose Martia.
Leo la guardò attentamente.
Avrebbe dato tutto per quei due occhi blu, per i suoi capelli perfetti e biondi, per la sua simpatia, per il suo corpo, per le sue labbra, per lei.
Quasi inconsciamente prese a giocare con una sua ciocca di capelli mentre si guardavano negli occhi, senza più scherzare.
“Ti aspetterò” e prima che il coraggio in lui svanisse, la cinse delicatamente con le braccia attorno alla vita e la attirò a sé, baciandola.
Il contatto con le sue labbra lo fece fremere e desiderò che quell’istante non finisse mai. La sentiva tra le sue braccia, ferma, immobile, come spaventata. Non lo respinse, ma si fece guidare dalle sue labbra fin quando Leo non si allontanò.
Rimasero a pochi centimetri di distanza, l’uno dall’altra. Il ragazzo poteva sentire il respiro irregolare di lei e, quando parlò, sentì come un tremolio nella sua voce: “Devo andare.”
Si staccò in tutta fretta e provò a chiudere subito la porta della stanza.
Leo la bloccò, consapevole che qualcosa non andava. “Devo andare” ripeté lei con convinzione cercando di chiudere la porta.
“Aspetta…”
“No! Devo andare!” Martia stava quasi urlando.
“Io… Non volevo, scusa. E’ per quello che ho fatto, vero?”
Martia lo guardò e Leo poté vedere la paura nei suoi occhi, come quando le parlavano degli Hunger Games. “Io… Non posso, mi dispiace.”
Chiuse la porta di scatto e Leo rimase sbalordito, la punta del naso che sfiorava il legno.
Sapeva di dover andare via, di non dover rimanere appostato dietro la porta come uno stalker, ma non ci riusciva.
Sperava che la ragazza riaprisse la porta da un momento all’altro e lo invitasse dentro per parlare di quello che era successo. Ma non fu così.
Dopo una decina di minuti andò via, con la consapevolezza di aver sbagliato e di essersi spinto troppo oltre.
Se non l’avrebbe rivista mai più la colpa era solamente sua.




Salve a tutti. Questo capitolo lo trovo un po' deludente, ad eccezione della parte finale, forse.
Trovo la storia un po' monotana, deludente direi. Tutti gli avvenimenti "belli" che avevo pensato necessitano di avvenire ancora tra molto tempo e la parte di mezzo, quella in cui ci troviamo, forse è troppo noiosa per essere continuata.
Vorrei qualche commento da parte vostra, per sapere se è il caso di continuare. Grazie!

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Punti di vista ***


Capitolo 9 – Punti di vista
 
Martia se ne stava in piedi appogiata alla porta, tremante.
Non poteva credere che lui l’avesse baciata davvero. Cosa gli era saltato in mente?
Quando sentì i suoi passi allontanarsi nel corridoio, si tranquillizzò e andò in bagno per una doccia rigeneratrice.
Una volta finito si stese sul letto.
Come aveva potuto pensare a loro due insieme? Leo non capiva i problemi che avrebbe comportato?
Anche lei ci aveva pensato qualche volta, ma aveva subito scartato l’idea.
Lui era stato uno dei migliori ragazzi mai conosciuti da Martia, il più gentile con lei e il più disponibile, nonché intelligente e simpatico.
Nessuna ragazza avrebbe esitato a saltargli addosso.
Ma lei era una reduce degli Hunger Games.
Doveva lottare ogni giorno contro i suoi fantasmi, contro il timore della morte e contro i suoi terribili ricordi.
Non voleva che qualcun altro dovesse sopportare questo supplizio, men che meno uno come Leo.
Si stava rigirando l’assegno tra le mani, chiedendosi se non fosse giusto restituirglielo, quando il telefono squillò.
Martia allungò una mano per rispondere: “Pronto?”
“Ehi, cosa fa la nostra campionessa?”
Martia rise. “Sta seduta su un letto a non fare nulla.”
“Buone notizie?” domandò Sam.
“Sì, ho trovato uno… sponsor. Ha dato abbastanza denaro per Mags e Roland. Appena sarà possibile invierò loro qualcosa di utile.”
“Davvero? Chi è questo tizio tanto ricco?”
“Un… ragazzo.”
“Oh, bene. E noi che avevamo raccolto soldi a sufficienza nel Distretto per spedire una pagnotta di pane a testa.”
Martia rise ancora. “Il vostro contributo sarà indispensabile, vedrai.”
“Lo spero. Come va, lì? Ti sento triste.”
“No, è tutto okay. Solo che… Vorrei tornare a casa. Mi mancate.”
“Anche tu ci manchi.”
Martia esitò: “Sam… Come fai a sapere, quando sei nel dubbio, se stai facendo la cosa giusta?”
Il ragazzo ci pensò su. “Non so… In genere non mi faccio queste domande. Soprattutto da quando tu sei tornata. Ma in genere pensavo alle conseguenze che poteva avere la mia scelta e facevo quella che comportava meno guai e mi rendeva felice.”
“Un compromesso, quindi?”
“Sì, ma qual è il problema?”
“Nessuno. Ho solo fatto una promessa e forse non potrò mantenerla.”
Sam esitò. “Ricordi cosa diceva la mamma?”
Martia sentì l’aria mancarle. “Si deve sempre mantenere una promessa, soprattutto quando si parla di tornare a casa.”
“Esatto. Ora ti saluto, che dobbiamo aiutare i piccoli a studiare. Ti saluta anche Liz. A domani!”
“A domani, buonanotte.”
Per i minuti successivi Martia pensò molto a quella frase.
Sua madre l’aveva detta loro riferendosi a suo padre, il quale aveva promesso di tornare entro il tramonto e che poi non aveva fato più ritorno.
Era una visione drastica, ma aveva insegnato ai ragazzi a capire che le promesse infrante possono far male alle persone.
 
Leo se ne stava disteso sul letto in assoluto silenzio.
Se avesse potuto, avrebbe spento anche i suoi pensieri per rimanere in pace.
Non faceva altro che darsi dello stupido e sapeva che era così. Non riusciva a pensare il contrario o a un solo motivo logico per il quale quella ragazza avrebbe dovuto accettarlo.
A causa sua si era sentito come in paradiso, ma ora che aveva rovinato tutto aveva voglia di morire.
Quando suo padre e sua sorella bussarono alla sua porta prese seriamente in considerazione l’idea di gettarsi dalla finestra per non doverli ascoltare.
“Quando hai intenzione di vestirti? Stiamo per andare” disse Lana.
“Non vengo” rispose lui secco.
“Cos’è hai litigato con l’amichetta?” lo schernì Lana.
Leo lo fulminò con lo sguardo. Stava per risponderle di andarsene a quel paese quando suo padre intervenne. “Me lo avevi promesso.”
“Il patto valeva una sola sera.”
Il padre sospirò. “Ricordi quella tua compagna, Verin?”
Al suono di quel nome Leo iniziò a trovare la conversazione un po’ più interessante. “E quindi?”
“Verrà anche lei.”
“Capirai. L’altra sera c’era e nemmeno mi ha calcolato.”
“Forse perché tu sei andato via” disse la sorella.
“O forse perché tutti dicono che sono pazzo e quindi la gente tende a starmi lontano?!” urlò lui.
Lana sospirò e uscì dalla stanza borbottando qualcosa come: “E non fanno bene a dire che sei pazzo?!”
Leo rimase da solo, in silenzio con suo padre. “Vorrei soltanto avere una famiglia normale una volta tanto.”
Leo si chiese come potesse essere normale per lui programmare la morte di alcuni ragazzi e chiamarlo lavoro. Come poteva uccidere suoi coetanei e poi cercare la famiglia perfetta?
Non poteva ascoltare più quei discorsi, così cedette: “E va bene, vengo. Rimarrò solo pochi minuti e andrò via.”
 
Come concordato si presentò alla cerimonia con la sua famiglia.
C’era ancora più gente dell’altra sera e Leo desiderò di non aver mai messo piede fuori di casa.
Vide Verin, che si fermò a parlare con lui qualche minuto prima di abbracciare ancora il suo allocco muscoloso.
Erano passati dieci minuti dall’inizio della serata quando decise di andarsene.
Aveva deciso di prendere parte all’evento anche per vedere se Martia avrebbe preso parte a sua volta. Ma la ragazza non arrivò.
Si sentiva immensamente triste per l’accaduto e senza nemmeno salutare i suoi familiari si avviò verso l’uscita.
Era proprio davanti al cancello quando un taxi si fermò lì davanti e una ragazza con addosso un abito rosso scese di tutta fretta.
Per poco i due non si scontrarono e Leo fu sorpreso di vedere che la ragazza era Martia.
Entrambi arrossirono nel ritrovarsi così vicini dopo quel pomeriggio. “Oh, scusa” disse lei.
“Colpa mia” continuò lui. “Alla fine sei venuta.”
“Io mantengo sempre le mie promesse” rispose lei con un debole sorriso.
Leo sentiva il suo cuore battere all’impazzata. La voglia di abbracciarla, di baciarla, di sfiorare la sua pelle era troppo forte per resistere. Ma doveva trovare la forza per farlo.
“Mi dispiace per oggi… Io… Non so cosa mi è preso. Non capiterà più, lo prometto” disse Leo.
Martia lo guardò, seria. “Spero che tu capisca perché lo faccio.”
Leo annuì. “Certo…”
Rimasero qualche istante in silezio, poi Martia continuò: “Allora siamo amici come prima, no? E siamo qui per goderci questa sottospecie di festa.”
Leo sorrise. “Naturalmente. Vieni a vedereil buffet. Ci sono cose che probabilmente non hai mai visto in vita tua.” La guidò verso il buffet e la serata proseguì, come se nulla fosse accaduto.
 
La serata finì molto tardi, più del previsto.
“Dannazione nemmeno un taxi libero” protestò Martia mentre cercava un modo per tornare all’albergo. “A piedi quanto ci vorrà?”
“Penso venti minuti, ma non se cammini con quei cosi ai piedi” rispose lui indicando i tacchi.
Martia si tolse le scarpe. “Benissimo. Sono pronta.”
“Ehi, non puoi girare a quest’ora da sola. Ti accompagno.”
“Grazie” disse lei con un sorriso.
S’incamminarono, lei con le scarpe in una mano e lo strascico del vestito rosso nell’altra, lui che faceva da guida e le spostava una ciocca di capelli che continuava a caderle davanti agli occhi.
Quando arrivarono all’albergo, Leo propose a Martia di farle compagnia fino in camera.
Erano davanti la porta quando si salutarono: “E’ stata una bella serata.”
“Concordo. Sono contento tu sia venuta nonostante il mio sbaglio” disse Leo sorridendo.
Martia più lo guardava sorridere e più desiderava non salutarlo mai. Appoggiò i tacchi a terra e disse: “Non fare così. Certe cose… Accadono e basta.”
Leo annuì. “L’importante è che non cambino le cose tra noi.”
“Esatto” concluse Martia con un sorriso.
Si guardarono a lungo, cercando le parole per un saluto che non volevano.
“Be’ allora io vado” fece Leo voltandosi di scatto, come per paura di doversi pentire.
“Aspetta!” disse Martia allungando una mano verso lui. Ma quando il ragazzo si girò tornò normale, come se non avesse mai parlato.
Leo stava per chiedere quale fosse il problema, ma la ragazza gli andò incontro, cingendo il suo collo con le braccia e baciandolo.
Leo sentì le sue gambe tremare per un istante. Non capiva cosa stava succedendo, perché questo cambio improvviso, ma gli piaceva troppo per chiedere spiegazioni.
Riusciva a sentire la passione dei suoi baci, la forza con cui teneva la presa salda attorno al collo, il suo respiro irregolare e non poté fare a mano di cingerla con le braccia e tenerla ancora più stretta a sé.
Quando lei si distaccò, Leo temette che lo stesse per cacciare. Ma Martia si limitò a guardarlo con occhi lucidi e a dire: “Ti prego non andare via.”




Buonasera. Mi scuso per questo capitolo che ha l'aria un po' strana (?) ma è il massimo che sono riuscita a fare. Spero di ricevere delle recensioni per sapere i vostri pareri. Vi piace come sta proseguendo la storia? Avete qualche commento da fare? Qualche proposta? Non so, quello che volete xD
Ringrazio in anticipo chi legge e continuerà a farlo fino alla fine, a presto^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Insieme ***


Capitolo 10 – Insieme
 
Martia non riusciva a credere ai suoi occhi. Se qualche mese fa le avessero detto che sarebbe stata Mentore, che ce l’avrebbe fatta a far sopravvivere i suoi ragazzi al Bagno di Sangue, che avrebbe stretto amicizia con un capitolino il quale era figlio dell’uomo che aveva tentato di ucciderla, ma soprattutto che sarebbe stata lei stessa a baciarlo… Be’, avrebbe detto a quella persona che era pazza.
E invece ora teneva stretto a sé quel ragazzo e lo stava implorando di non andare via.
“Rimarrò, se è quello che vuoi davvero.”
Martia riuscì a sentire un brivido nella sua voce: la paura di essere rifiutato, di essere mandato via ancora una volta, di sentirsi nuovamente fuori posto.
Avrebbe tanto voluto dirgli che sì, era quello che voleva, ma quelle parole non le uscivano di bocca. Se ne stette per un po’ lì, ferma a fissarlo, fin quando non si udì nel corridoio un rumore di passi e dei risolini.
“Aspetta, ne parliamo dentro” disse Leo raccogliendo i tacchi della ragazza e guidandola nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle e appoggiò le scarpe in un angolo, voltandosi poi a guardarla.
Martia, invece, se ne stava in piedi vicino al letto e fissare il pavimento.
Non riusciva a trovare il coraggio che l’aveva spinta a fermarlo. Era successo tutto così in fretta che non si era accorta di niente.
Leo sospirò. “Non serve che tu dica altro. Il tuo silenzio è più che eloquente.” La fissò così intensamente che per un attimo la ragazza desiderò di morire. I suoi occhi parlavano al posto suo, trasmettendo tutta l’amarezza di quel momento.
“Leo… Io…”
“No!” rispose lui, quasi urlando. “Leo niente. Non voglio più scuse. Non ha senso continuare a prenderci in giro. E’ inutile che continuiamo così. Da ora ognuno sulla sua strada.”
Martia non aveva mai sentito quel tono nella voce di lui: era stato sempre così gentile e garbato con lei che per un istante si chiese se lo conoscesse davvero.
“Ma tu non capisci!” provò a replicare.
“Invece capisco fin troppo bene” rispose Leo, con voce tremante. “Siamo diversi. Apparteniamo a due mondi diversi. E questa cosa non cambierà mai. E tu vuoi una persona con cui sparlare di questa maledetta città, con cui dire che le persone qui fanno schifo, e con me non ti senti libera di farlo. Vuoi un ragazzo che ti salvi dagli Hunger Games, non uno il cui padre ha progettato la tua morte.”
La ragazza pensò di non aver mai ascoltato un discorso così duro. Nemmeno quando il suo Mentore le disse che avrebbe preferito aiutare il Tributo maschio del suo Distretto, un giovane alto e forte, che rispetto a lei aveva qualche possibilità.
Quel discorso l’aveva meravigliata di meno. Era una cosa palese che quel ragazzo aveva più probabilità di lei e fu la prima a meravigliarsi quando vide il suo volto illuminarsi nel cielo notturno.
Ma adesso sentire quelle parole così forti la lasciava davvero senza parole.
Fece un respiro profondo e si sforzò di parlare, proprio come durante l’intervista alla fine degli Hunger Games, quando aveva solo voglia di piangere ma dovette sforzarsi per biascicare un discorso.
“Ti sbagli. Tu mi salvi dagli Hunger Games” rispose tutto d’un fiato, con lo sguardo ancora basso. Non aveva bisogno, però, di guardare il ragazzo di fronte a lui per capire che adesso la stava fissando. “Mi salvi dagli Hunger Games ogni volta che mi guardi, ogni volta che mi stringi la mano, ogni volta che mi sorridi. Ogni singola volta in cui tu sei con me, mi sento libera di nuovo, come se nulla fosse mai accaduto. E anche se per un solo istante tornano le mie paure, basti tu per calmarle.”
Dopo questo breve discorso, pronunciato a bassa voce e con le lacrime agli occhi, si sentiva svuotata.
Non ricordava di essere mai stata così sincera con qualcuno, o almeno negli ultimi anni.
Respirò a fondo, ricacciando dentro le lacrime. Alzò lo sguardo verso Leo, che la guardava senza dire niente. Non aveva più l’aria arrabbiata, delusa o altro, e sul suo volto comparve un debole sorriso. Allargò poi le braccia e Martia vi si fiondò dentro.
“Mi dispiace” disse lui abbracciandola.
“Sì, voglio che resti.” E al suono di quelle parole, Leo le baciò una tempia.
 
Martia non aveva mai dormito con qualcuno al di fuori dei suoi familiari. Era capitato l’altra sera, sempre con Leo, ma non era stata una cosa voluta.
Ora, che si trovava di fronte a una scelta consapevole, se ne stava nel bagno a fissarsi allo specchio con addosso la sua canotta e i suoi pantaloncini. Non le sembrava più un modo adatto per dormire, ora che nel letto con lei ci sarebbe stato un ragazzo, ancora di meno al pensiero che lui avrebbe dormito a petto nudo e con i pantaloni di uno smoking.
Si sistemò ancora i capelli, ripetendosi che per dormire si usa il pigiama e non un abito da sera, e che quindi era normale che lui la vedesse in quello stato, e uscì finalmente dal bagno.
Leo se ne stava vicino alla finestra, a fissare dall’alto il panorama della città non del tutto addormentata.
“Mi dispiace che tu debba dormire con quei pantaloni, ma sinceramente non ho abiti maschili con me” esordì lei.
Leo si girò e le sorrise. “Tranquilla, è normale.”
“Saranno scomodi…” commentò Martia.
Leo sorrise ancora di più. “Certo non vorrai che io dorma in mutande!”
La ragazza diventò completamente rossa e sussurrò: “No, certo che no. Che domande…” Si fiondò velocemente sotto le coperte, con le farfalle nel suo stomaco che più che svolazzare sembrava stessero facendo una guerra.
Leo, di fronte a quella scena rise. Le si avvicinò e, prendendo in mano l’altra estremità della coperta, disse: “Sicura? Posso?”
Martia, ancora rossa di vergogna, annuì.
Lui non se lo fece ripetere due volte e si accomodò sotto le coperte.
Rimasero ognuno al proprio posto, imbarazzati, poi Martia disse: “I tuoi non si chiederanno che fine hai fatto?”
“No, probabilmente non si accorgeranno nemmeno della mia assenza.”
“Oh…” commentò lei fingendo che la notizia fosse sorprendente. “Be’ è un po’ tardi, forse è meglio che ora dormiamo.”
Leo annuì e si voltò dal suo lato per spegnere la luce. Martia fece lo stesso e la stanza fu illuminata solo dal bagliore delle luci della città.
Tutto taceva, e la ragazza si avvicinò timidamente al ragazzo e gli prese una mano. “Buonanotte” disse stringendola forte.
“Buonanotte” rispose lui allungandosi per darle un bacio sulla punta del naso e tornando poi al suo posto.
 
Intorno a lei non c’era altro che terreno arido. Il caldo era insopportabile e le sue scorte d’acqua erano finite. Erano solo all’inizio e lo sapeva, non ce l’avrebbe mai fatta a sopravvivere.
D’un tratto vide davanti a lei, come in un miraggio, suo padre, suo fratello Paul e Cad. La terra iniziò a tremare, e una voragine si stava aprendo sotto i loro piedi.
Provò ad urlare loro di scappare, di spostarsi, ma la sua gola era troppo secca. Non le usciva una sola parola e le bruciava maledettamente. Urlava con tutto il fiato che aveva in gola, ma il bruciore non faceva che aumentare, fin quando non vennero inghiottiti tutti da una grande voragine.
Se ne aprì una anche sotto di lei e sprofondò nell’acqua. Era salata, tanto da bruciarle gli occhi. Vide la ragazzina dodicenne del 3 che la pregava di salvarla. Martia provò a nuotare verso di lei, il più veloce possibile, ma non la raggiunse. La ragazzina scomparve in un urlo per lasciare il posto a sua madre, dall’aria afflitta e sofferente.
Provò a gridare, ancora, ma l’acqua le invase i polmoni. Il cervello le stava scoppiando, aveva bisogno di ossigeno. E poi dinanzi a lei, si stagliò una figura imponente: il ragazzo del 12 che iniziò a picchiarla selvaggiamente.
Cercava di muoversi, di allontanarlo, ma le sue membra non rispondevano ai suoi comandi. Sullo sfondo, nel blu dell’acqua, Mags, piena di sangue e Roland, coperto di lividi, la incolpavano della loro morte.
Pianse lacrime invisibili nell’oceano che la circondava, tentava di respirare inutilmente, e proprio quando le parse di morire, si svegliò, di soprassalto, nel letto dell’albergo.
Era sudata e la gola le bruciava. Probabilmente aveva urlato troppo.
Provò a muoversi ma non ci riuscì. Si scoprì stretta saldamente tra le braccia di Leo. “Sh, tranquilla. Era solo un brutto sogno, non ti preoccupare.”
Martia smise di divincolarsi, ma il suo respiro era comunque affannato. Aveva il volto pieno di lacrime, anche se non stava più piangendo. “C’era la voragine… Il deserto e poi l’acqua… La ragazzina… E poi… Mi stava uccidendo e… Mags… Roland…” si accorse lei stessa di blaterare parole senza senso, ma non riusciva proprio a dare un ordine ai suoi pensieri.
“Era solo un incubo, tranquilla.”
Martia lo strinse forte e sprofondò il viso nel suo petto nudo che scoprì essere meravigliosamente caldo e accogliente. “Resta qui, non te ne andare.”
“Non vado da nessuna parte” rispose lui dandole un bacio nella chioma bionda.
Nonostante l’incubo, la ragazza era ancora intontita e sentiva un estremo bisogno di dormire ancora e riposarsi. Si addormentò quasi subito di nuovo, ma non prima di essersi voltata verso Leo e di averlo baciato con ardore: “Vorrei averti sempre al mio fianco… Sempre” mormorò un attimo prima di addormentarsi di nuovo.
 
Il sole stava sorgendo quando Leo aprì gli occhi.
Non era stata una notte molto rigenerante, ma l’avrebbe rivissuta all’infinito solo per poter stare con lei.
Adesso che aveva aperto gli occhi la poteva vedere, premuta contro il suo corpo, dormire tranquillamente. Non riusciva a credere a quello che vedeva: gli sembrava impossibile che stessero dormendo insieme, e ancor di più il fatto che la scelta fosse consapevole. Eppure era così, erano nello stesso letto, con una distanza zero tra di loro, e lui l’aveva tenuta stretta a sé con un abbraccio per buona parte della notte.
Se si tralasciano gli incubi, naturalmente.
Inizialmente aveva avuto paura: l’aveva sentita agitarsi e si era svegliato. Pensava fosse tutto normale, solo qualche sogno inquieto. Poi aveva iniziato a urlare, a squarciagola, talmente forte che si chiese come potesse non sentirla nessun altro nell’edificio. Provò a svegliarla, ma era inutile.
Iniziò a divincolarsi in maniera incontrollabile e la strinse a sé per evitare che si facesse male colpendo qualcosa. Quando la voce aveva iniziato a mancarle, per le urla troppo forti, aveva lasciato il posto a gemiti strozzati, lacrime e movimenti sempre più veloci. Si era poi svegliata, boccheggiante, come riemersa dopo una lunga apnea, e a poco a poco si era calmata.
Era piombata nuovamente nel sonno, e lui non l’aveva lasciata nemmeno un attimo. L’aveva vista riposare sul suo petto e, solo dopo una buona mezz’ora, si era convinto a dormire anche lui.
Si chiese come una ragazza bella e simpatica come lei avesse potuto fare quella fine.
Come avevano potuto dei Giochi trasformarla in quel modo.
Si chiese come avevano potuto farlo delle persone.
Si chiese come aveva potuto essere suo padre l’artefice di questo.





Sorry! So di essere in ritardo colossale rispetto al solito e a quanto promesso, ma davvero non ho avuto tempo per scrivere qualcosa di decente prima di adesso. Avevo concepito questo capitolo in maniera totalmente diversa, Leo e Martia dovevano semplicemente passare la notte insieme, senza tutto quel discorso iniziale, senza tutta l'attenzione per i dettagli e senza nessun incubo. Poi però mi sono lasciata andare e ho immaginato la scena in modo dettagliato et voilà!
Questo capitolo doveva arrivare fino a metà giornata e non solo all'alba e doveva comprendere una scena degli Hunger Games di Mags e Roland che inserirò nel prossimo capitolo. Spero vi piaccia l'andamento della storia. Avete consigli? Qualche critica?
Fatemi sapere, a presto ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Amore ***


Capitolo 12 – Amore
 
Martia aprì lentamente gli occhi.
La luce era ancora poca ma bastò ad accecarla.
Si stiracchiò e sentì la pelle calda del ragazzo a contatto con la sua. Sorrise.
Era così contenta di averlo lì accanto a lei che per un bel po’ non si mosse, rimase ferma a fingere di dormire, sperando che il momento di alzarsi non arrivasse mai.
Sentì Leo sospirare e stringerla un po’ più forte.
Aprì gli occhi e lo vide completamente rilassato, con un grande sorriso sulle labbra.
“Buongiorno” disse lui sorridendo ancora di più.
“Ciao” sussurrò lei. Si strinse al suo petto, respirando il profumo della sua pelle.
“Come stai?”
Martia ci pensò su. “Bene. Tu come hai dormito?”
“Bene.”
“Il letto era abbastanza comodo per uno del tuo rango?” scherzò lei.
Leo la guardò con finto sguardo indignato e la spinse di lato. “No, effettivamente. Era troppo scomodo e piccolo.” Si spostò anche lui, sovrastandola e bloccandole le mani prima che potesse spingerlo via. “Ma conosco un modo in cui forse potresti farti perdonare.”
Martia lo guardò. Non aveva possibilità di opporre resistenza e nemmeno voleva. Lui la guardava in quel modo così dolce che lei non poteva sottrarsi in alcun modo. “Quale?”
Le si avvicinò ancora di più. Erano a pochi centimetri di distanza e Martia sentì il suo cuore accelerare all’improvviso. “Con un bacio, ad esempio.” Leo sorrise e la ragazza sentì un vuoto allo stomaco. D’un tratto la voglia di baciarlo aumentò così tanto che le fu difficile resistere. “Che ne dici?”
“Dico che non avresti potuto avere un’idea migliore.”
Leo rise, piano. Poi le si avvicinò e la baciò, prima con delicatezza e poi con più passione. Le sue mani lasciarono quelle della ragazza per accarezzarle i fianchi. “Certe volte mi chiedo a cosa pensavo tutti i giorni quando non ti conoscevo” fece lui distaccandosi.
“Be’ non è che è molto che ci conosciamo. Aspetta… Cosa vorrebbe dire questo?”
“Che non faccio altro che pensare a te, continuamente” rispose lui sorridendo ancora.
Questa volta fu Martia ad attirarlo a sé per un altro bacio, ancora più lungo. “E’ ora di andare” disse infine.
 
Fu difficile per entrambi staccarsi l’uno dall’altro. Trovarono la forza per farlo e, una volta pronti, uscirono dall’albergo.
“Guarderai gli Hunger Games in piazza?” domandò Leo.
“Sì, insieme a molti altri dei Mentori” rispose lei.
“Posso rimanere con te?”
Martia rise. “Certo, sei il loro sponsor.”
Arrivati al centro si sedettero l’uno accanto all’altra a un tavolo. La maggior parte delle immagini mostravano ancora i Tributi addormentati, ad eccezione di Mags che faceva colazione con un pesce crudo e di due ragazzi che Martia non conosceva che vagavano in zone opposte dell’Arena.
Leo guardò la ragazza, concentrata sullo schermo. Pensò a quanto fosse fantastica, a quanto avrebbe voluto tenerle la mano anche in quell’istante, ma non era decisamente il caso data la folla.
Si accontentava però anche di rimanere accanto a lei senza dire niente, a far finta che tutto stesse andando per il verso giusto.
Mano a mano che il tempo passava i Tributi iniziarono a svegliarsi e, quando Mags venne avvistata dai Favoriti, Martia si irrigidì. “No, ti prego… No!”
Guardava con occhi sgranati lo schermo, vedendo la ragazza fuggire dai quattro tipi armati fino ai denti. Lei aveva dei coltelli, ma erano nel suo zaino e non aveva tempo di prenderli.
Correva a perdifiato, ma non avrebbe resistito ancora per molto nonostante stesse riuscendo bene a mantenere le distanze.
Leo allungò la mano al di sotto del tavolo e strinse quella di Martia, la quale non sembrò accorgersene.
I suoi occhi erano immobili sullo schermo. “Chi viene inseguito dai Favoriti raramente ce la fa. Soprattutto se non ha alleati e se non ha armi che può usare facilmente. Non può tentare mosse azzardate. La ragazza del 5 ha un arco e lo sa usare bene e in fretta. Deve trovare qualcosa al più presto.”
Nulla però sembrava poterla aiutare. C’erano solo alberi, piante ed erba. Cercò di inoltrarsi nel folto, ma la cosa svantaggiò notevolmente anche lei, allora iniziò a correre a zig zag, ma svoltando dietro un albero andò a sbattere contro una ragazza di quindici anni circa.
“Quella è la ragazza del Distretto 9 o sbaglio?” domandò Leo.
Martia annuì lentamente. “Mags può farcela, è un diversivo.”
Si erano ritrovate entrambe a terra e quando i Favoriti arrivarono furono per qualche istante spiazzati. Mags ne approfittò per estrarre un coltello dal suo zaino e lo piantò nel polpaccio del ragazzo del Distretto 2. Si alzò e fuggì di corsa, mentre i Favoriti si accanivano sulla ragazza del 9, finita da un colpo di quella del 2.
Mags continuò a correre e quando fu abbastanza lontana, rallentò.
Martia tirò un sospiro di sollievo. “Ce l’ha fatta.”
Leo le lasciò andare piano la mano e i due rimasero ancora un po’ a guardare i Giochi. Il ragazzo del 2 morì poco dopo, dissanguato. A quanto pare i Favoriti avevano molte armi ma poche medicine.
Per quanto Leo odiasse gli Hunger Games non gli dispiacque rimanere lì con la ragazza a guardarli: i Tributi del 4 avevano acquistato un po’ di popolarità e le cose andarono meglio per il resto della giornata.
Leo e Martia mangiarono insieme e rimasero lì anche il pomeriggio, passeggiando di tanto in tanto e chiacchierando continuamente.
“Leo?” disse d’un tratto una voce mentre i due erano impegnati a parlare dei loro piatti preferiti.
Entrambi si girarono e videro un gruppo di ragazzi.
Leo fu sorpreso di vedere che a chiamarlo era stata proprio Verin, non più accompagnata dal suo ragazzo ma da altre due ragazze e altri tre ragazzi che lui conosceva bene. Erano suoi compagni di scuola, gli stessi che per anni lo avevano deriso ma soprattutto ignorato. “Ciao” disse senza nascondere il suo stupore.
“Ehi, senza che fai quella faccia! Siamo noi a dover essere sorpresi di vederti qui!” esordì un ragazzo suscitando le risate di alcuni di loro.
“Veramente ero sorpreso del fatto che voi conosceste il mio nome” commentò lui.
“Infatti solo Verin lo ricordava” rise uno.
Leo si alzò e si rivolse a Verin. “Niente ragazzo oggi?”
“Non credo che lo rivedrai ancora con me” disse lei abbassando lo sguardo. “E’ un idiota. Dovrei cercare qualcuno un po’ più intelligente, magari come te.”
In altre circostanze Leo avrebbe continuato la conversazione per sapere se il suo nome era stato fatto come puro esempio o davvero stava in qualche modo pensando a lui. Ma ora riusciva a sentire lo sguardo di Martia puntato su di loro. Anche se le dava le spalle riusciva a percepire la sua perplessità e il suo stupore.
“Intelligente? Lui? Ma se odiava gli Hunger Games e guarda ora cosa sta guardando!” rise uno. Stavolta nessuno lo assecondò.
“Sono qui con… Un’amica.” Leo si chiese se non avesse esitato troppo nel dire quella parola. Sentì Martia alzarsi ed ebbe paura che stesse per andarsene via. Ma non poté nemmeno accertarsene perché le due ragazze che erano con Verin iniziarono ad urlare in modo stridulo. “Ma tu sei la ragazza del Distretto 4? Martia?”
Leo si voltò a guardarla e vide che anche lei era sorpresa di quella reazione.
“Ma cosa dici, non è lei” disse uno dei ragazzi.
“Invece sì, è la mia Vincitrice preferita, credi che non sappia riconoscerla?” sbottò una ragazza.
Martia sorrise timidamente e Leo sentì il bisogno di gridare a tutti che quella ragazza accanto a lui era la SUA ragazza. “Sì, sono io” rispose senza smettere di sorridere.
“Lo sapevo che eri tu! Avevo letto su una rivista che eri qui e non potevo crederci! Ti seguo dal primo momento e ho sempre tifato per te! Eri la più in gamba là dentro, meritavi di vincere!” La ragazza aveva parlato di fretta e Martia aveva annuito tutto il tempo.
“Ti ringrazio, ma nessuno meritava di morire lì in mezzo” rispose lei.
I ragazzi continuarono a fare domande a Martia, soprattutto riguardo il suo compito di mentore, ignorando completamente la sua affermazione. Dopo un po’ si stancarono e si allontanarono per guardare le vetrine dei negozi, ma Verin rimase lì. “Verrai stasera?”
Leo fu sorpreso di sapere che parlava di nuovo con lui. “Dove?”
“Alla festa. La solita festa dove ti vedo da giorni e da cui poi scompari.”
Leo sorrise. “Sì, credo di venire. Ma lo sai che le feste non sono cose per me quindi non stupirti se me ne andrò di nuovo presto.”
Verin sorrise, un largo sorriso. “Allora ci vedremo lì.”
“Va bene, ciao.”
La ragazza lo salutò con la mano e andò via. Leo sospirò e guardò Martia, la quale lo fissò per un istante per poi tornare a sedersi e guardare gli Hunger Games.
Anche Leo si sedette e tornò a guardare lo schermo che mostrava i Favoriti litigare per la morte del loro membro.
“Sono gelosa” disse d’un tratto Martia.
Leo sembrò destarsi da un sogno. “Di cosa? Che ho fatto?”
“Di quella ragazza, quella… Verin.”
“Ma abbiamo solo parlato” protestò Leo con aria seria.
“Le hai anche sorriso.” Lui stava per replicare, ma Martia continuò. “Non te ne accorgi ma il tuo modo di sorridere è… meraviglioso. Hai un sorriso così bello e… dolce, che vorrei che potessi sorridere solo a me.”
Leo rifletté un po’ su quelle parole, poi sorridendo rispose: “Sorrido solo quando sto con te, non ti basta?”
Martia fece spallucce. “Diciamo.”
“Be’ allora posso trovare io un modo per farmi perdonare stavolta” rise lui.
Martia arrossì di fronte al suo sguardo malizioso. “Smettila.”
Leo si voltò a guardare gli Hunger Games, continuando però a ridere.
 
“Ehi, Sam. Come state?”
“Noi bene e tu?”
“Bene anche io. Mi sto preparando per andare a una festa” disse Martia.
“Ancora? Ma non avevi già uno sponsor?”
“Sì ma tutti vanno e non vorrei passare per quella che se ne frega dei suoi ragazzi.”
“Capisco. Manca ancora molto alla fine?”
“Sì, voi non li state seguendo?”
“No, nessuno di noi vuole vederli. Ci ricordano te e non crediamo che i piccoli possano vedere scene del genere.”
“Capisco… Mi passi Liz?”
“Che devi dirle?” fece Sam con aria sospettosa.
“Nulla, volevo solo salutarla.” Ma non era la verità. Quindi fu estremamente contenta quando gli passò sua sorella senza fare domande.
“Ehi, ciao. Sam non c’è e so che devi dirmi qualcosa quindi spara il rospo prima che torni.”
“Come fai a saperlo?” chiese Martia sorpresa.
“Avevi detto che avresti parlato solo con Sam, prima di partire. Poi lui mi avrebbe riferito. Questo perché non volevi passare tutto il tempi al telefono quindi per volermi parlare deve essere qualcosa di importante.”
“Sì, cioè più o meno…” Martia esitò. Come aveva fatto a convincersi di parlare con sua sorella di quella cosa? “Ho conosciuto un ragazzo qui. E’ lo sponsor di entrambi i ragazzi del nostro Distretto ed è molto simpatico. E’ diverso dagli altri, sembra uno di noi. Poi ti racconterò meglio. Il punto è… Secondo te è un male essere amici? Noi due intendo.”
Liz rimase per un po’ in silenzio. “Ti stai innamorando?” disse infine.
Martia sentì il suo cuore mancare un battito. “Cosa?! Ma che dici!”
“Non sono stupida” la interruppe lei. “Ho undici anni ma ti ricordo che ho dovuto crescere troppo in fretta. E poi ti conosco, non avresti fatto domande del genere per una cosa non importante. Quindi rispondi, ti stai innamorando di lui?”.
Martia non rispose subito e quando lo fece fu appena un sussurro. “No, Liz. Non mi sto innamorando di lui. Lo conosco solo da qualche giorno ma credo di esserne già innamorata.”



Buonasera! Scusate se questo capitolo si è fatto attendere e scusate l'ora ma ultimamente sono troppo impegnata! Che ne dite di questo capitolo? Lo avevo immaginato migliore, ma non penso faccia molto schifo. Che ne dite invece della storia? Vi sta annoiando? Vorreste più azione? Più romanticismo? Non so, fatemi sapere cosa ne pensate. A presto ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Incomprensioni ***


Capitolo 12 – Incomprensioni
 
Leo fissava il nuovo completo che gli aveva portato suo padre: era quasi identico a quello delle altre sere, se non fosse per i diversi colori.
“Dato che hai deciso di partecipare tutte le sere, non posso permetterti di fare una brutta figura” disse il padre entrando nella stanza.
“Ti ringrazio del pensiero” rispose lui con un sorriso sincero. Gli stava iniziando a pesare il fatto di dover girare con lo stesso vestito, sempre.
“Leo, dobbiamo parlare.”
Era di spalle, ma poteva comunque immaginare l’espressione seria di suo padre: il volto tirato, la fronte corrucciata, lo sguardo glaciale e la bocca serrata.
“Di cosa?” non si voltò per paura. Era difficile ammettere il suo terrore, ma davvero non riusciva a sostenere quelle conversazioni con suo padre.
“Di te. Ti stai comportando in modo strano negli ultimi giorni.”
Leo sentì il suo cuore accelerare. Sapeva benissimo che prima o poi tutti avrebbero scoperto quello che c’era tra lui e Martia, ma voleva ritardare il più possibile quel momento, anche perché probabilmente, dopo la fine degli Hunger Games, tutto sarebbe sparito.
“Sto solo facendo quello che tu mi hai sempre detto di fare: uscire, fare amicizia, interessarmi agli Hunger Games. Stasera mi vedo anche con Verin, sai?”
“Solo con Verin?” domandò suo padre. Il tentativo di Leo di deviare il discorso a quanto pare non aveva funzionato. “O anche con quella ragazza?”
Il ragazzo esitò qualche istante. Era ancora di spalle, incapace di voltarsi. “Quale ragazza?”
“Quella del 4.”
“Credo ci sarà anche lei, come tutti i Mentori. Ma non lo so…”
“Leo dove hai dormito stanotte?” chiese senza nemmeno dargli il tempo di finire la frase.
“Non vorrai farmi il terzo grado, ora?” trovò il coraggio di guardarlo negli occhi e di sostenere il suo sguardo. Stavano iniziando ad arrabbiarsi entrambi.
“Voglio solo sapere dove è stato mio figlio, credo sia legittimo.”
“No. A Lana non hai mai fatto nessuna domanda!”
“Perché fin dal primo momento lei mi ha sempre detto tutto! Lei non ha mai avuto problemi come te!” urlò suo padre.
Leo rimase basito di fronte a quell’affermazione. Quindi anche per suo padre lui era “quello con i problemi”. Era questo ormai il modo in cui tutti pensavano a lui. Avrebbe dato di matto, se non avesse saputo che sarebbe stato controproducente. Sentiva le mani tremargli, la voglia di buttare tutto in aria crescere, la gola che gli pizzicava, pronta ad urlare, ma alla fine fece solo un grande respiro e disse: “Io non ho nessun problema. Non ne ho mai avuti. Siete voi che ve li siete inventati, solo perché non sono come voi, solo perché non mi piace questo posto. E comunque non sono un fallito come tu credi: sono io, dei tuoi due figli, ad avere il massimo dei voti, sono io ad aver ricevuto sempre i complimenti per la mia intelligenza, per la mia maturità. E anche io ho una ragazza, che non pensa che io abbia problemi. Sono stato da lei, stanotte. Contento ora?”
La sua calma aveva sorpreso un po’ il padre. “Chi è lei?”
“No, non te lo dirò. Non ora. Ci sono modi e modi per chiedere le cose. E poi noi due non abbiamo mai avuto confidenza e non inizieremo ora.”
“Ti ordino di dirmi chi è” lo minacciò il padre afferrandolo per la maglia.
“Non te lo dirò mai!” sibilò Leo con rabbia. “Questo è il tuo problema. Sei uno Stratega, hai il controllo sui Giochi e lo vuoi avere anche sulle nostre vite, ma non lo avrai mai sulla mia!”
A quel punto il padre, accecato dalla rabbia, gli diede uno schiaffo.
Leo non ricordava di essere stato mai picchiato. Qualche volta da sua madre, ma i suoi schiaffi erano insignificanti, soprattutto in confronto a quello appena ricevuto.
Sentì il lato sinistro della guancia avvampare, un formicolio e un bruciore improvisso lo invasero.
Ci mise qualche secondo a realizzare l’accaduto, poi, con forza, allontanò il braccio del padre. “Vai subito fuori!” urlò.
Suo padre rimase lì, a fissarlo con rabbia, mentre lui continuava a urlare di andarsene.
“Cosa state combinando?” fece sua madre sbucando nella stanza. “Leo cosa hai fatto alla faccia? E’ trucco quello?”
“No, è solo il vero lato di tuo marito” sbraitò gesticolando.
“Ivon… Perché?” Sua madre era meravigliata. Era una donna stupida, frivola, manipolata dalla società, ma di certo non era lei a decretare la morte di ventitre ragazzini all’anno. Era ingenua, alla fine, e anche buona.
“Deve imparare chi comanda.”
“Allora non hai capito che tu non mi comanderai, mai! Ti sto accontentando andando a quelle stupide feste, fingendomi felice di un lusso di cui non ho bisogno e interessandomi al tuo lavoro, il più crudele del mondo, ma adesso voglio essere lasciato in pace! La vita è la mia e tu non devi sapere tutto di me!”
Suo padre era ritornato a una calma inquietante. “Ha una ragazza” disse voltandosi verso la madre. “E non vuole parlarne.”
La donna divenne raggiante. “Invitala a pranzo, una volta! Hai invitato quella Vincitrice perché non lei?”
“Perché voi non fareste altro che criticarla, come criticate tutto il resto di me.” Sapeva che la conversazione non sarebbe terminata mai più con sua madre a dar manforte, così afferrò l’abito per quella sera e si chiuse nel bagno.
Prima di entrare sotto la doccia guardò il suo viso rosso e un po’ gonfio per lo schiaffo del padre e ripensò a quanto tutto fosse dannatamente sbagliato.
 
Era seduto su una sedia accanto a una statua nel portico del palazzo dove si teneva la festa.
Guardava gli invitati chiacchierare e parlare e se ne stava lì ad aspettare Martia: era proprio di fronte l’entrata, l’avrebbe vista sicuramente una volta arrivata.
Invece vide arrivare alla festa Verin, con suo padre e due dei ragazzi che le facevano compagnia quel pomeriggio. Era stupenda, nel suo abito viola, ma non lo notò nemmeno e passò oltre.
“Cos’hai combinato?” disse Martia comparendo all’improvviso accanto a lui. Si era distratto solo un attimo vedendo la sua amica andare via.
“Eh?” fece lui senza capire.
Martia gli sfiorò il lato sinistro della faccia e in particolare il bordo dell’occhio. Leo, al solo tocco, riusciva già a sentire il dolore. “Hai un livido enorme.”
“E’ stato mio padre.”
La ragazza rimase immobile, come pietrificata. “Perché lo ha fatto?” chiese sbalordita. Leo le raccontò cos’era accaduto e lei aggiunse: “Perché glielo hai detto?”
“Scusa, non volevo. E’ solo che lui non faceva altro che parlare di quanto facessi schifo e paragonarmi a mia sorella ed è stato quasi spontaneo. Scusa.”
“Non fa niente, ma non vorrei che le cose si complichino più di così” rispose con aria seria.
Leo abbassò lo sguardo, indirizzandolo alle sue scarpe e allo strascico del vestito di lei.
“Devi stare tranquillo, okay? Vedrai che andrà tutto meglio domani” disse Martia stringendogli la mano.
“Ne sei sicura?”
“Certamente” fece lei con un sorriso. Rimase qualche secondo in silenzio, poi continuò: “Posso confessarti una cosa?”
“Dimmi.”
“Non credevo che tu… Be’… Come dire… Non pensavo di essere a tutti gli effetti la tua ragazza.”
Leo sentì il pavimento venire meno sotto i suoi piedi.
Effettivamente questo era quello che pensava lui, ma loro non ne avevano mai parlato. Lei poteva benissimo ritenerlo solo una storia momentanea, e invece lui già si stava immaginando cose che forse erano solo nella sua testa.
“Mi dispiace” sottrasse la sua mano alla presa di quella di lei e scese velocemente dalla sedia, ponendosi alla giusta distanza dalla ragazza. “Sono stato davvero… Inopportuno. Solo adesso che tu me lo hai fatto notare ci ho pensato. E’ davvero deplorevole e vorrei tanto riuscire a spiegarti per bene…”
“Ehi, rallenta!” lo interruppe Martia con un sorriso. “Non ti sto accusando o altro, ho solo detto la mia. Il fatto è che non ne abbia mai parlato veramente e per questo ancora non la ritenevo una cosa… Ufficiale. Ma se per te va bene, per me va più che bene.”
Leo rimase fermo al suo posto a fissarla sorridere. Quando si accorse che il suo discorso non era ironico e non era uno scherzo sorrise a sua volta. “Okay” fu quello che riuscì a dire tirando un sospiro di sollievo.
Scoppiarono entrambi a ridere, quando d’un tratto Lana si precipitò verso di loro seguita da un ragazzo con i capelli rosso fuoco e con un numero imprecisato di piercing.
“Mi spieghi cosa diavolo è successo?” disse con ira fulminando il fratello con lo sguardo. “Mamma mi ha accennato qualcosa.”
“Lo sai come vanno le cose a casa, inutile chiederlo” replicò Leo.
“Lo so come vanno di solito. Ma non ho mai visto papà alzare le mani né tantomeno te urlare come un dannato. Quindi qual è il problema?”
“Ti ricordi cosa fece appena hai iniziato a uscire con Vik?” e dicendo questo salutò il ragazzo dietro di lei. “Ti seguiva ovunque, ha iniziato a indagare su di lui e sulla sua famiglia, ti faceva continue domande e non ti lasciava in pace. Ha intenzione di farlo anche con me e io non glielo permetterò.”
“Si preoccupa solo per te. Chi è lei?”
“Se non lo dico a lui per quale motivo dovrei dirlo a te?” sbottò Leo.
“Perché io potrei tranquillizzarlo così ti darebbe un po’ di pace.”
Leo sospirò. “Ascolta, Lana. In tutta sincerità io e lei ci conosciamo da poco. Non so manco se durerà una settimana e non voglio iniziare a rendere la cosa ufficiale già da ora. Quindi, per favore, possiamo rinviare questa conversazione?”
“Come vuoi, basta che non combini guai.” Si volatilizzò sparendo tra la folla in poco tempo.
“Ce ne andiamo? Non mi va di stare ancora qui” propose a Martia la quale annuì.
Si avviarono insieme verso l’uscita.



Buonasera! Ecco un nuovo capitolo che, anche se un po' statico, io trovo molto importante, soprattutto per quanto riguarda il discorso padre-figlio. Che ne dite? Qualche impressione al riguardo? Il prossimo spero di riuscirlo a scrivere molto prima, anche perché ho già una mezza idea. A presto :)

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** In due sul prato ***


Capitolo 13 – In due sul prato
 
 
Leo e Martia si stavano dirigendo verso l’uscita quando Verin comparve davanti a loro due. “Buonasera, avete fretta?”
“Ciao” la salutò Leo con un sorriso sincero. “Non proprio, ci stavamo solo annoiando un po’ e pensavamo di andare a fare un giro.”
“Be’ è naturale che vi annoiate se non siete in compagnia. Venite con me? Di lì ci sono i ragazzi” propose lei un grande sorriso e offrendo una bevanda a Martia.
Leo si limitò a guardarla e attese che fosse la vincitrice a prendere una decisione. “Per me va bene. Diamo il via a una serata decente” disse con un sorriso.
Seguirono Verin tra la folla fino al centro della sala, dove vi era molta più gente e confusione. I ragazzi, come previsto, erano lì con vassoi pieni di cibo e con tante altre bevande che condivisero con loro.
Rimasero molto tempo a parlare, del più e del meno, ma in particolare l’attenzione si focalizzò su Roland e Mags: i due ragazzi, che si chiamavano Jun e Sen, erano molto interessati a conoscerli e intrattennero Martia con continue domande.
“Posso parlarti un attimo?” domandò Verin a Leo.
“Certo dimmi pure” rispose lui mentre, con la coda dell’occhio, vide Martia voltarsi per vedere cosa stava per accadere tra loro due.
“In privato.”
Leo rifletté qualche istante poi, convinto che non potesse accadere nulla di tragico, acconsentì. “Torniamo subito, con permesso” disse agli altri, mimando poi con le labbra alla ragazza di stare tranquilla.
Seguì Verin attraverso la sala, non riuscendo a dimenticare lo sguardo preoccupato di Martia.
Poco prima di uscire dall’edificio, vide suo padre che lo fissava. Fu estremamente felice e non fece nulla per nascondersi: in questo modo poteva sviare l’attenzione da Martia.
Verin, intanto, si fermò solo quando furono nel giardino, lontani dalla musica assordante e in un luogo con poche persone. Si voltò a guardare Leo e gli sorrise.
Lui ricambiò, anche se con poco entusiasmo. “Cosa vuoi dirmi?”
“Niente, volevo solo stare un po’ da sola con te. E’ molto che non parliamo.”
“Verin, noi due non abbiamo mai parlato veramente.”
La ragazza rise. “Già, e inizio a chiedermi perché.”
Leo gli mostrò il cartellino che doveva ancora portare appuntato ai suoi abiti. “Per questo motivo. Perché tutti mi credono instabile, tu compresa, fino a poco tempo fa.”
Verin rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse: “Non l’ho mai creduto. Ma mi sentivo a disagio a doverti parlare dopo l’accaduto, se non per motivi scolastici. Ora però ho capito la verità.”
Leo rimase in silenzio. Non voleva risponderle, altrimenti avrebbe rovinato tutto. L’unica cosa che gli frullava per la testa era il fatto che lo avesse capito troppo tardi, quando ormai non aveva bisogno più di qualcuno con cui parlare. Quando era solo, lei non c’era stata, come tutti gli altri.
“Cosa hai fatto al viso? L’ho notato dal primo momento, tutti lo hanno notato ma sembrava scortese domandartelo.”
Il ragazzo valutò attentamente la situazione, pensando a se fosse il caso coprire suo padre. Ma a che scopo? Uccideva ogni estate tanti ragazzini, uno schiaffo dato a suo figlio non avrebbe potuto di certo scalfire la sua immagine. “E’ stato mio padre.”
Verin sgranò gli occhi.
Certo, per tutti era inconcepibile che quell’uomo fosse un mostro. Solo Leo lo vedeva per quello che era veramente. Tutti lo credevano fautore del loro divertimento preferito, ma lui lo vedeva come promotore delle continue stragi degli Hunger Games. “Come…? Perché?”
“Non andiamo d’accordo.”
“E’ impossibile. Cioè… Voi sembrate sempre così felici…”
“Voi chi? Forse mio padre, mia madre e mia sorella. Io sono sempre quello che è stato escluso, quello che è rimasto a casa tutti i giorni a studiare invece che uscire con loro perché ero e sono ritenuto pericoloso.” Leo parlava con calma, ma aveva di nuovo voglia di urlare. Quella giornata era iniziata nel migliore dei modi e si stava concludendo nel peggiore.
“Mi dispiace…” sussurrò Verin, abbassando il capo.
Per un attimo il ragazzo si tranquillizzò, rilassò i muscoli e sospirò, cercando di cacciare via tutta quella rabbia repressa che si portava dentro.
Verin gli si avvicinò. Non erano mai stati così vicini e Leo si sentì profondamente a disagio.
La ragazza lo guardò negli occhi e sorrise. Lo accarezzò delicatamente sul lato opposto a quello del livido. “Sei un ragazzo fantastico. Vorrei tanto conoscerti meglio se solo tu mi concedessi una possibilità…”
Leo fece un passo indietro, distaccandosi. “Mi dispiace, ma non credo sia la cosa migliore. Tu ora stai dicendo queste cose solo perché non hai un ragazzo, solo perché il tuo si è rivelato un vero idiota.”
“No!” lo interruppe lei. “Non è così! Tu mi piaci, mi piaci fin dal primo istante che ci siamo conosciuti. E’ solo che non avevo il coraggio di parlarti.”
“Perché?”
“Io… Non lo so…” esitò Verin.
Leo rise, ironico. “No, tu lo sai, invece. E lo so anche io. Tu non avevi il coraggio di parlarmi perché tu eri quella popolare ed io ero quello strano, deriso da tutti. Stando con me avresti perso la popolarità.”
“Non è assolutamente vero” obiettò la ragazza.
“Ah, no? Allora perché il coraggio lo trovi solo ora che sto iniziando a comportarmi come tutti voi?” rispose Leo con rabbia. La ragazza arrossì e provò a dire qualcosa. Lui, però, non le diede il tempo: “Lascia stare, ci vediamo.”
 
Martia, in equilibrio precario sulle sue scarpe col tacco, cercava di mantenere il passo.
Leo se n’era andato improvvisamente con Verin e l’aveva lasciata da solo con quei due che la annoiavano a morte. Era ricomparso tutto d’un tratto e l’aveva afferrata per un polso e portata in un angolo della sala. Le aveva poi comunicato che stava andando via e aveva iniziato a camminare, senza aspettarla.
Lei lo aveva rincorso per un po’, fin fuori al palazzo, poi lui aveva iniziato a rallentare per permetterle di seguirlo. A tutte le sue domande, però, era rimasto in silenzio. Camminava a testa bassa, le mani in tasca e non le aveva nemmeno chiesto se ce la faceva a seguirlo con i tacchi e il vestito.
“Leo, cosa è successo?” chiese lei, afferrandogli un gomito.
Lui si scansò e continuò a camminare, ininterrottamente, fino a entrare in quello che sembrava un parco. Si inoltro nella penombra, passando nelle aiuole ricche di verde.
Martia dovette fermarsi, per togliersi i tacchi, e una volta finito non lo vedeva più. Si inoltrò anche lei in quel luogo buio e desolato, trovandolo poco più avanti seduto sull’erba vicino a un piccolo torrente che attraversava quel parco.
Si sedette accanto a lui e rimase in silenzio.
Aveva capito che c’era qualcosa che non andava, ma il suo silenzio iniziava a innervosirla, così evitò di porgli altre domande per evitare di litigare.
Si stava concentrando sullo scorrere dell’acqua, che tanto le ricordava casa, quando sentì il ragazzo singhiozzare.
Si voltò, meravigliata, e lo vide mentre piangeva, coprendosi il volto con le mani.
Per lei era strano vedere un ragazzo piangere: i suoi fratelli non lo avevano mai fatto, un po’ per orgoglio e un po’ per il loro carattere forte. Lui era il primo che vedeva piangere e provò una strana sensazione.
Gli si avvicinò, non curante del vestito che strusciava per terra e si inginocchiò davanti a lui. Gli poggiò una mano sulla spalla, tentando di rassicurarlo. “Ehi, tranquillo. Cos’è successo?”
Leo si sforzò di calmarsi, facendo dei respiri profondi. Tenne ugualmente il volto basso e coperto dalle mani per non farsi vedere da lei: “Devo dirti una cosa.”
Martia gli passò uno mano tra i capelli, scompigliandoglieli. “Dimmi tutto” disse con dolcezza.
Leo esitò. “Non voglio che ti arrabbi…”
A quel punto la ragazza capì che qualcosa non andava. Si irrigidì e interruppe il contatto con il ragazzo. “Di cosa si tratta?” chiese, seria.
“Verin.” La parola era uscita dalla bocca del ragazzo in un unico, veloce sussurro.
Martia poté sentire la rabbia iniziarle a crescere dentro. Riusciva già a immaginarsi cosa doveva dirle. Si allontanò ancora di più ed incrociò le braccia: “Parla.”
Leo aveva ancora la voce rotta dal pianto, ma riuscì ugualmente a parlare. “Non sono stato del tutto sincero con te. Il problema è che all’inizio non mi sembrava importante, poi non trovavo il momento giusto per dirtelo e alla fine mi sembrava inutile. Il fatto è che io e lei ci conosciamo da tanti anni, ed è stata l’unica ragazza che mi sia mai piaciuta, prima di te.”
Martia strinse i pugni. Lo aveva sospettato fin dall’inizio, ma in qualche modo sapeva che c’era di più. Attese in silenzio.
“Mi è piaciuta da subito perché era l’unica in tutta la scuola a rivolgermi la parola, l’unica. Era l’unica gentile con me, l’unica che non faceva finta di non conoscermi. E stasera quando siamo andati via, lei mi ha confessato che per lei è lo stesso. Mi ha detto che anche io gli sono piaciuto fin dal primo istante ma… Insomma… Il punto è che lei si era avvicinata molto, anzi forse troppo e…”
Martia non gli diede il tempo di finire di parlare. La sua mente correva veloce, ipotizzando i vari finali di quella storia. “Sta’ zitto” disse con rabbia.
Leo ubbidì tenendo sempre lo sguardo basso.
Martia si sentì talmente stupida per quella situazione. Forse per questo non aveva mai voluto avere un ragazzo, perché non voleva cadere in quel genere di situazione. Lo fissava con rabbia, sforzandosi di non urlare ma soprattutto di non piangere. Perché non avrebbe pianto, non si sarebbe dimostrata debole.
“Mi dispiace” disse Leo alzando lo sguardo e fissandola con i suoi occhi colmi di dolore. “Lasciami finire.”
“No!”
“Martia, io…”
“No!” sbottò lei. “Non voglio i dettagli di quello che è successo.”
“Ma devi ascoltarmi.” Leo le prese le mani, ma lei le allontanò in fretta. Allora lui le prese il viso e lei non riuscì a sfuggirgli. Le impose di guardarlo. “Ti prego, credo tu stia fraintendendo troppo.”
“Mi basta quello che ho sentito.”
“Martia” disse lui con tono più deciso. “Io non l’ho baciata e lei non ha baciato me. Non è successo niente.”
“E allora cosa diavolo stai cercando di confessarmi?” domandò lei con rabbia.
Leo fece un grande respiro. “Vuoi essere la mia ragazza?”
La domanda la lasciò stupita. Era ancora bloccata dalla prese del ragazzo per poter reagire pienamente. “Cosa c’entra? Stavamo parlando di altro.”
Leo continuò, come se lei non avesse parlato: “Ti sto chiedendo di essere la mia ragazza perché credo tu sia la più bella che esiste, la più simpatica, la più intelligente. Te lo sto chiedendo perché vorrei averti per me, vorrei che tu fossi mia. Perché per me nessun altra è come te, nemmeno lei. Prima per un istante ho dimenticato te e ho pensato a lei, ho provato per un solo istante il desiderio di abbracciarla ed è per questo che ti sto chiedendo scusa. Perché tu sei la migliore e una cosa del genere non dovrebbe mai accadere.”
Martia lo guardò. I suoi occhi erano di nuovo lucidi.
Si liberò dalla sua stretta e lo abbracciò forte, stringendogli le braccia al collo e facendolo cadere sdraiato a terra. Lo strinse più forte che poté, ma non sembrava mai bastare.
“Mi dispiace” disse lui baciandola.
Martia si limitò ad annuire. “Voglio essere la tua ragazza. Oggi e sempre.”
Leo rise, contento. “Sei perfetta.”
Martia lo baciò con ancora più foga e rimasero per un po’ distesi in mezzo all’erba, abbracciati stretti. “Per questo ti sei comportando in modo così strano?” disse lei alla fine.
“All’inizio ero arrabbiato. Con mio padre, con Verin, con mia sorella, con tutti. Poi quando mi sono seduto qui ho pensato a te, a come ero stato cattivo anche solo a pensare a quelle cose, al fatto che solo ora che sono uno di quelli che loro definiscono normali sono diventato interessante per Verin e gli altri… Insomma, ho pensato di meritarmi davvero quello schiaffo.”
“Non dire sciocchezze, anche tu sei perfetto così.”




Salve! Scusate se ci ho messo così tanto a pubblicare il nuovo capitolo ma proprio non mi veniva in mente un modo decente per scrivere questo capitolo. Alla fine il risultato è molto diverso da quello che mi aspettavo: la storia non doveva proseguire così, non ci doveva essere nessuna confessione da parte di Leo ma ho pensato che fosse giusto, prima di rendere le cose tra loro ufficiali, di chiarire la situazione.
Dunque... Forse come capitolo è un poco smielato e spero di non avervi scocciato con tutte queste cose romantiche. Recensite!
Ringrazio chi legge la mia storia, chi la inserisce tra le ricordate/seguite/preferite e ancora di più chi mi fa sapere il proprio parere. A presto ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Ricordi ***


Capitolo 14 – Ricordi
 
Era notte inoltrata, ma nessuno dei due voleva andare via.
Andare via significava salutarsi, andare a dormire, non vedersi e all’indomani affrontare il mondo e gli Hunger Games.
Ora, invece, erano solo loro due.
Non c’era niente di più bello per Leo e Martia che il mondo che si erano creati da soli, di cui solo loro facevano parte e nel quale si sentivano finalmente al sicuro.
Martia guardava le loro mani strette in una salda presa, quando le parlò: “Martia, sei sicura della tua scelta?”
Lei alzò lo sguardo e lo vide fissare l’erba con aria triste. “Sì, perché continui a chiedermelo?”
Leo esitò. “Cosa pensi di fare quando dovrai andare via?”
Non avevano ancora affrontato l’argomento e lei avrebbe voluto rinviarlo il più possibile, ma sapeva che quel momento sarebbe arrivato. “Non lo so. Io… So solo che voglio stare con te. Il resto non importa.”
Leo la strinse in un forte abbraccio e la baciò sulla tempia.
 
Quella notte dormirono ancora una volta insieme nella stanza d’albergo di Martia.
Avevano provato a salutarsi, ma era completamente impossibile. Ci avevano rinunciato, sdraiandosi e addormentandosi con i vestiti ancora addosso.
Il mattino seguente Leo era andato velocemente a casa sua a cambiarsi e poi era tornato da lei. Aveva cercato di non farsi notare e ci era riuscito.
Decisero di rimanere nella hall dell’albergo, seduti comodi sui divani, ad assistere agli Hunger Games.
Videro insieme Roland e il ragazzo dell’8 vagare acquattati nella foresta, rimanendo a riparo dai Favoriti. Videro Mags, isolarsi sempre più dagli altri Tributi e accumulare scorte di cibo e acqua.
Verso mezzogiorno, però, arrivò una lettera per Martia che la convocava per quella sera allo show con il conduttore televisivo degli Hunger Games.
“Come mai? Che motivo c’è?” domandò Leo.
Martia strinse forte la lettera, lottando contro i tremiti di paura. “Sta per succedere qualcosa nell’arena, e i miei tributi rischiano di essere coinvolti.”
Aveva pronunciato quella frase con finta indifferenza, ma in realtà stava morendo dentro.
Era consapevole di non poterli salvare entrambi, ma non riusciva ad accettare ancora l’idea che uno dei due potesse morire.
Vide Leo guardarla con aria preoccupata, ma fece finta di non averlo notato.
Si concentrò poi sullo schermo che, proprio in quel momento, mostrava un primo piano di Roland.
 
Accadde all’improvviso. Gli ibridi avevano le sembianze di grossi orsi.
Sbucarono dal nulla, al calar del sole, e iniziarono a rincorrere i Tributi. Erano cinque, un numero ridotto fortunatamente.
Mags, non appena vide il primo, si arrampicò su un albero, il più in alto possibile, rimanendo lì al sicuro.
Roland e Steth, il ragazzo dell’8, furono invece presi alla sprovvista e, per il panico, iniziarono a scappare senza una meta precisa.
Correvano a perdifiato tra gli alberi, graffiandosi le braccia e il viso. Gli ibridi, data la grossa stazza, erano notevolmente rallentati dalla vegetazione. Ma quando questa diventò più rada, nulla impedì loro di iniziare a graffiare i due Tributi, solcando i loro colpi con ferite sempre più profonde.
Erano allo stremo delle forze quando gli orsi scomparvero misteriosamente.
I due ragazzi gioirono, ma Martia, che conosceva bene la mente perversa degli Strateghi, sapeva che era solo un trucco per far abbassare loro la guardia e indurli in una trappola.
Ecco sbucare in quello stesso punto, condotti da altri ibridi, il ragazzo del Distretto 9 e la ragazza del 10.
“Oh, cielo. No… Ti prego, no…” sussurrò Martia con le lacrime agli occhi.
Questo era il pezzo fisso degli Hunger Games, quello che, oltre alla finale, era sempre più drammatico: dei Tributi, attratti in inganno, si incontravano, già stremati ed erano costretti a uccidersi spesso a mani nude e, date le loro pessime condizioni, l’agonia poteva durare ore e portare alla morte di tutti.
Roland non si fece prendere alla sprovvista e impugnò la spada; Seth, invece un bastone. Gli altri due si videro costretti a copiarlo perché disarmati.
Il ragazzo del 9, quattordici anni, alto e di media corporatura, si avventò su Roland, credendo di riuscire a sopraffarlo: dopo la corsa, a causa del morso di serpente, zoppicava di nuovo e camminava con fatica.
Seth, iniziò a fronteggiare la ragazza del 10, abbastanza corpulenta e di diciotto anni.
A Martia non era mai sfuggita l’inettitudine di Roland nell’utilizzo della spada, che difatti perse poco dopo. Lo scontro andò avanti a forza di pugni e calci, graffi e strangolamenti. D’un tratto, però, il ragazzo del 9 riuscì a impossessarsi della spada, colpendo Roland a una gamba.
Martia stava per disperarsi, quando si udì un colpo di cannone e la ragazza del 10 smise di respirare.
Quell’istante bastò al ragazzo del 9 per distrarsi e Roland gli strappò di mano l’arma con la quale gli recise poi la gola. Il corpo del ragazzo cadde a terra e il cannone sparò un altro colpo.
Martia non si lasciò impressionare dalle urla di gioia degli altri capitolini che festeggiavano la fine di quella lotta: si alzò e velocemente organizzò il necessario per mandare i medicinali necessari a Roland e delle provviste a Mags che ne aveva perse molte nella fuga.
Dopo un’ora i suoi Tributi erano di nuovo al sicuro.
 
“Sei bellissima” le disse Leo con un sorriso, mentre le stringeva le mani.
Martia arrossì e abbassò il capo. “Non esagerare.” In quel lungo vestito blu si sentiva molto a disagio, soprattutto con quel trucco vistoso e quella complicata acconciatura per i capelli. “Non mi sembra necessario conciarmi così, ma a quanto pare dato che sono ancora in forma e ho vinto da poco non posso lasciarmi andare.”
Leo rise. “Non essere sciocca, saresti bella comunque.”
Martia sentiva l’ansia crescere. Era dietro le quinte, pronta per l’intervista. Solo lei e lui.
“Sarò tra il pubblico. Tranquilla andrà tutto bene.”
Lei avrebbe tanto voluto credere alle parole del ragazzo, ma le sembrava impossibile che tutto andasse per il verso giusto. Quando il presentatore, Marius Liddenhen, chiamò il suo nome, salì sul palco fingendo un enorme sorriso e salutando con passione il pubblico.
“Ciao, Martia! Da quanto tempo!” sorrise lui.
“Sì, effettivamente era un po’ che non ci vedevamo” rise lei.
“Be’ sono contento di vederti e sei in ottima forma come sempre!”
Il pubblico applaudì e Martia si vide costretta a continuare a fingere di essere felicissima: “Anche tu, naturalmente!” rispose lanciando un sorriso al pubblico e cercando disperatamente con lo sguardo Leo.
Niente, non lo vedeva.
“Sai però che nel nostro programma nulla è a caso. Ti abbiamo chiamata qui per un motivo preciso.” Dovette interrompere la sua ricerca per fermarsi sullo sguardo serio di Marius. Anche il pubblicò ammutolì. “Siamo soliti celebrare l’anno di vittoria di un Tributo, ma con te non ne abbiamo avuto l’occasione perché eri ancora troppo piccola. E quale evento migliore per recuperare se non il tuo primo anno da Mentore?!”
Il pubblico esplose in un fragoroso applauso.
Dunque non era nulla di serio, solo le solite idiozie di Capitol City. Sorrise: “Oh, che pensiero carino. Grazie a tutti!” sorrise ancora al pubblico, che iniziò ad applaudire più forte. E solo allora vide Leo, ma dovette distogliere subito lo sguardo.
“Noi ti abbiamo amata molto, per la tua sincerità, per la tua determinazione e per la tua bellezza. Sei rimasta nei nostri cuori fin dal primo giorno. Tu e il tuo altruismo, tu e il tuo amico, Cad… Sono cose indimenticabili!”
Il pubblico continuava ad applaudire, ad urlare il suo nome. Ma lei era tornata seria.
Aveva perfettamente capito dove volevano arrivare.
Iniziò a sentire un vuoto nello stomaco, la testa prese a girarle vorticosamente e il suo respiro sembrava insufficiente.
Marius aveva parlato ancora, ma lei non aveva capito le sue parole. Le uniche che aveva percepito erano “Via con il filmato” al seguito delle quali era comparso un grande schermo che iniziò a proiettare le immagini.
 
La sua sé del passato stava scappando, al secondo giorno dall’inizio dei Giochi. Aveva incontrato un Tributo ma adesso sembrava averlo seminato.
D’un tratto vide una piccola pozza d’acqua. Con avidità iniziò a bere, sobbalzando nel vedere poi la sagoma di un ragazzo riflessa al suo interno.
D’istinto prese il coltello e glielo puntò contro.
“E’ la mia pozza” disse lui con aria seria.
Martia, capendo le sue intenzioni non pericolose, abbassò l’arma. “Potrebbe essere la nostra.”
“Allora dammi un coltello” fece lui.
Lei glielo consegnò, ma prima di lasciare definitivamente la presa disse: “Alleati?”
“Certamente” rispose lui con un sorriso furbo.
 
Le mani di Martia tremavano mentre stringevano i braccioli della poltrona sulla quale l’avevano fatta accomodare.
“Indimenticabile quel momento non è vero?” rise Marius.
Tutto il pubblicò urlò un sì, ma Martia, la vera destinataria della domanda, rimase in silenzio.
“Ed ora passiamo al momento saliente!”
Ecco, la morte di Cad. Esattamente come lei la ricordava. Ma vederla da lì era diverso.
Si rendeva conto di non essere stata una codarda, ma di essersi comportata solo da persona intelligente. Starsene lì a guardare il corpo di lui schiacciato non avrebbe migliorato le cose.
Molti del pubblico scoppiarono a piangere e Martia con loro.
Lacrime silenziose rigavano il suo viso, mentre mostravano in continuazione il volto di Cad nei suoi ultimi istanti di vita.
Non riusciva più a trattenere le lacrime, nemmeno quando il filmato fu bloccato.
Mentre Marius la invitava a calmarsi, rivolse uno sguardo disperato a Leo, che la guardava impotente.
Le portarono un bicchier d’acqua, e dopo molto applausi del pubblico, commosso dalla vicenda, lo show andò avanti.
“Oggi ti abbiamo vista particolarmente attiva nel ruolo di Mentore” disse Marius. “Hai salvato i tuoi Tributi.”
“E’ questo il mio compito” rispose lei, sorridendo debolmente.
“Sembra stiano seguendo una precisa strategia. Hai consigliato loro qualcosa?”
“No, gli ho dato solo i consigli indispensabili.”
A quel punto una strana luce attraverso gli occhi di Marius che diede il via a un nuovo filmato. Stavolta la protagonista indiscussa era lei. Correva a perdifiato, la lava che colava tutt’attorno, i massi che precipitavano al suolo e i Tributi che morivano uno dopo l’altro. Si fiondò nel lago, annaspando a cercando il suo compagno di Distretto. Ma di lui nessuna traccia.
Al suo posto c’erano circa dieci Tributi che cercavano di rimanere a galla, ma molti non sapevano nuotare.
Mezz’ora dopo l’eruzioni erano finite e i Tributi tutti morti.
Poi vide il ragazzo del 12 accanirsi su una povera ragazzina del 3 e, quando il cannone sparò il colpo, si accorse di essere spacciata. Iniziò a scappare, inizialmente fuori dall’acqua e poi verso una zona sconosciuta.
Poi vide lo scontro. Vide il suo volto pieno di lividi, quello del ragazzo pieno di graffi. E infine l’ultimo colpo.
L’immagine si fermò su un suo primo piano: non era altro che un ammasso di capelli, fango, sangue e lividi intorno a due occhi blu.
Marius le chiese di esprimere il suo parere su quei momenti.
Ma la sua mente era confusa e annebbiata. Riuscì a dire ben poco: “Li ricordo come fossero ieri. Non li dimenticherò mai. Non dimenticherò mai la paura, mai il dolore fisico e psicologico. Non dimenticherò Cad, e nemmeno quella ragazzina e nemmeno quel ragazzo. Mi tormenteranno tutti per sempre.”
Poi si alzò, tremante e l’ultima cosa che vide fu Leo alzarsi insieme a lei, con il volto preoccupato.
Un boato del pubblico e poi tutto divenne nero.



Buonasera! Ecco questo capitolo dedicato interamente a Martia che non è altro che un proseguimento degli Hunger Games dei suoi Tributi e un ricordo dei suoi Giochi. Tutto avrà un senso, in seguito, lo prometto. Cosa ne pensate? Avete qualche domanda?
Recensite!
A presto ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Tornare in gioco ***


Capitolo 15 – Tornare in gioco
 
Martia si svegliò in un piccolo lettino, coperta da lenzuola bianche e ruvide.
Si sentiva stranamente bene, come nuova. Ma un vuoto le attanagliò lo stomaco quando riconobbe l’infermeria: era la stessa dove si era svegliata alla fine degli Hunger Games. Cosa ci faceva lì?
Sembrava un incubo. Non poteva essere tornata indietro ma tutto era uguale.
Si alzò di scatto e si mise a sedere, guardandosi attorno. Si controllò e capì di essere ancora tutta intera. Il vestito della sera precedente era appoggiato ai piedi del letto e lei indossava solo un camice.
A quel punto ricordò l’intervista e di essere svenuta.
Fece un gran respiro e si alzò, staccandosi di dosso tutti i macchinari. Camminò lungo il corridoio a piedi nudi fin quando, aprendo le porte, non si ritrovò davanti un corridoio più grande con alcuni medici. Le ordinarono di tornare dentro e di vestirsi, ma soprattutto di non muoversi.
Lei fece come chiesto, indossando i semplici vestiti che avevano comprato per lei.
Qualche minuto dopo entrò il suo staff di truccatori. Avevano l’aria turbata e subito le iniziarono a fare mille domande.
“Forse è stato solo un calo di pressione” si giustificò Martia davanti tutte quelle domande. Tutti la credettero e iniziarono a prepararla per le telecamere. “Un’altra intervista?” chiese Martia.
“No, ma i giornalisti stanno assediando l’ospedale. Sono tutti preoccupati per le tue condizioni” spiegò un membro dello staff.
Ci impiegarono poco a truccarla. Quel giorno era molto semplice, perché volevano far credere che stesse cercando ancora di riprendersi per giustificare la sua assenza in piazza quella mattina.
“Perché? Cos’è successo?” una fitta la colpì allo stomaco, consapevole che gli eventi di quel periodo potevano riguardare solo gli Hunger Games.
A quel punto il suo Mentore spalancò la porta. “Si sono massacrati tre tributi” annunciò. “Ma i nostri stanno bene.”
“Che ci fai qui?” chiese lei, sorpresa. Era ben noto che il suo Mentore aveva gravi problemi di salute ultimamente, per questo in teoria lei era l’unica quell’anno a badare ai ragazzi.
“Non sapevano cosa avevi, appena svenuta. Mi hanno fatto correre qui per una sciocchezza” si lamentò lui con una smorfia.
“Mi dispiace” fu l’unica cosa che riuscì a dire.
“A me no. Hanno chiamato a casa tua dicendo che stavi male ma hanno impedito ai tuoi fratelli di venire. Ero l’unico che poteva venire a darti un’occhiata. Se non l’avessi fatto mi avrebbero ucciso” scherzò lui.
Martia, pochi minuti dopo, fu contenta del suo arrivo. La aiutò a superare l’orda di giornalisti che la assaltò appena uscita dall’ospedale. Arrivati a metà strada dall’albergo, però, la salutò con la scusa di avere ben altro da fare.
Mentre tornava verso il suo alloggio, guardò i maxi schermo e vide gli ultimi eventi degli Hunger Games: erano morti, combattendo tra di loro, la ragazza dell’8, il ragazzo del 6 e quello del 7.
Ciò significava che erano ancora in gara il ragazzo dell’1, la ragazza del 2, la ragazza del 3, naturalmente entrambi i tributi del 4, lo stesso per quelli del 5, poi c’era il ragazzo dell’8, il ragazzo del 10, la ragazza dell’11 ed entrambi quelli del 12.
Erano a metà dei Giochi.
Era ancora presto per sperare in qualcosa.
A seguire, sui maxi schermo comparve lei: mostrarono il suo svenimento, la calca che si formò sul palco prontamente allontanata, e poi la sua uscita dall’ospedale.
Di lei dicevano che era “molto provata, sensibile ancora alle vicende legate agli Hunger Games e che aveva bisogno di un giorno di riposo prima di tornare in gara.”
Lei questo giorno di riposo non lo voleva, ma arrivata all’albergo delle guardie si offrirono di allontanare chiunque. Come mai ci tenevano così tanto alla sua salute? Ovvio, perché il pubblico teneva a lei.
Si accasciò sul suo letto, e poco dopo il telefono squillò.
“Come stai? Ti chiamiamo da ore ma nessuno risponde. Non ci hanno fatti venire” disse Sam tutto d’un fiato.
“Sto bene, ero in infermeria, lo so.”
“Grazie al cielo” disse lui tirando un sospiro di sollievo. “Cosa avevi?”
Martia esitò. “Non so… Sarà stata la tensione. Appena ha tirato in mezzo i miei Hunger Games la testa ha cominciato a girare.”
“Si vedeva, sai? Ti abbiamo seguita.”
Martia non poté non sorridere. “I piccolini si sono spaventati?”
“Un po’, ma sanno che sei forte.”
“Forse lo sanno più loro di te” scherzò lei.
“Non credo. Solo loro non hanno ancora capito quanto può togliere questa vita.”
Era dura sentir dire dal proprio fratello minore quelle parole. Ma erano la verità.
Chiudere quella telefonata per lei fu molto doloroso. Avrebbe voluto rivederli, abbracciarli, ridere con loro. E quando quella sera andò a coricarsi, sentì un vuoto e mai come allora il letto le parve così grande senza Leo al suo fianco.




Salve! Eccomi, anche se con un notevole ritardo. Il fatto è che questa storia non mi attira molto, o almeno non più come prima. Ero presa dall'euforia iniziale e non ho calcolato i tempi di scrittura ed ora è troppo lenta. Proverò a inventarmi qualcosa. Voi che ne pensate? Sarebbe bello ricevere qualche parere. A presto

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Ansia e timori ***


Capitolo 16 – Ansia e timori
 
Leo scattò in piedi, allarmato.
Non gli erano sfuggiti il volto pallido, le mani tremanti, lo sguardo vacuo e la fronte imperlata di sudore. Fino all’ultimo, però, credeva che la ragazza ce l’avrebbe fatta.
Invece crollò a terra, con un tonfo sordo e battendo la testa contro il pavimento accuratamente lucidato. Il pubblico, dapprima impegnato in un fragoroso applauso, si ammutolì per un istante, iniziando poi a urlare e ad accalcarsi contro il palco e le uscite.
Leo provò ad avvicinarsi a Martia, ma la folla veniva respinta continuamente in malo modo da un gruppo di Pacificatori.
“Pensa, Leo… Pensa…” doveva trovare un modo per raggiungerla. Doveva controllarla, accertarsi che si sarebbero presi cura di lei, che stesse bene.
Si ricordò dell’uscita di emergenza dello studio, dalla quale avrebbero sicuramente portato via Martia e corse fuori, pronto ad assediare la porta.
Rimase a lungo lì davanti, a camminare avanti e indietro, passandosi le mani tra i capelli o incrociandole dietro la testa, ma non c’era nessuna traccia di qualcun altro oltre a lui.
Dopo quasi un’ora di attesa capì che doveva esserci un’altra uscita, ancora più nascosta, che era stata utilizzata.
Maledicendosi, si incamminò verso casa. Sentiva l’ansia crescere dentro di lui, il timore che le potesse accadere qualcosa gli attanagliava lo stomaco. Voleva vederla, anche solo per accertarsi che non era in pericolo, ma aveva bisogno di vederla.
Camminando, i tanti maxi-schermo installati lungo le strade stavano riproponendo l’intervista e il momento dell’incidente. Lui cercò di evitare di guardare il tutto, ma quando il conduttore aggiunse che vi erano importanti novità, il suo sguardo si focalizzò sullo schermo.
“I medici si stanno occupando di lei. E’ ancora priva di sensi e si sta indagando per cercare di scoprire l’origine del suo malore” disse il presentatore con aria addolorata.
Leo non sapeva se crederci.
Poteva benissimo essere una scusa, per attirare ancora di più l’attenzione sul programma televisivo, per fare in modo che anche dai Distretti rimanessero con naso incollato allo schermo in attesa di sapere il finale di quella triste avventura. Martia era ancora un ricordo fresco, tutti erano ancora affezionati a lei.
D’altra parte poteva anche essere la verità. Ma questo solo i medici potevano saperlo.
Quando tornò a casa era molto tardi. In circostanze normali avrebbe fatto molta attenzione a non fare rumore, ma quella sera non gliene importava più di tanto e finì irrimediabilmente per svegliare i suoi genitori.
“Torni così tardi?” disse il padre guardandolo in malo modo.
Era la prima volta che parlavano dopo lo schiaffo. Sul suo viso era ancora presente il livido e nella sua mente era ancora vivo il dolore fisico e morale di quel gesto.
“Quante volte mentono, quelli di Capitol City?” domandò Leo guardandosi le scarpe.
Avrebbe preferito non parlargli affatto, ma in quelle circostanze non c’era molto da fare per ottenere qualche notizia.
“Solo quando è necessario” rispose il padre. “Ma che diavolo di discorsi fai?”
Leo alzò lo sguardo e lo fissò. “Secondo te un po’ di pubblicità è necessaria? Secondo te vogliono che più gente segua i loro programmi?”
“Leo, cosa ti succede?” disse sua madre avvicinandosi e accarezzandogli il viso.
“Niente, è solo andato fuori di testa come al solito. Adesso potete fare silenzio?” fece Lana affacciandosi dalla sua stanza con aria infuriata. “Vorrei dormire.”
“Lana, stiamo parlando di cose serie” protestò la donna.
“Ma quali cose serie. Avrà litigato con la ragazza che lo avrà mollato e gli è venuta una crisi nervosa. Sta meglio di me quello lì. Ce ne andiamo a letto, ora?” e dicendo così chiuse con forza la porta.
“Credo che lei non sappia cosa vuol dire stare male se dice questo” mormorò Leo. E mentre sua madre gli sussurrava frasi consolatorie, cercando di indagare sull’accaduto, suo padre lo fissava con aria seria e minacciosa. “No, mamma” rispose Leo all’ennesima domanda. “Stai tranquilla, non è niente di che.”
“E’ colpa di quella ragazza? Il primo amore fa sempre male quando finisce, ma…”
“Mamma non ci siamo lasciati” sbottò Leo.
“Però è lei” disse la donna.
“Sì… Ma…” Leo esitò. “Non è come credi tu. Buonanotte.”
Stava quasi per chiudere la porta della sua stanza quando suo padre la bloccò. “Tu domani mattina verrai con me. Nessuna obiezione. Nessuna domanda.”
 
Di fronte alle parole minacciose della sera precedente, Leo si aspettava che come minino lo attendesse un’arena apposta per lui piena di ibridi o dei lavori forzati al servizio di tutta la comunità.
Fortunatamente, ciò che suo padre aveva in mente, non prevedeva la sua morte o il suo sfinimento. Ma forse, sotto un certo punto di vista, era anche peggio.
Leo se ne stava seduto comodamente, fissando i quadri appesi alle pareti, il tappeto soffice sotto i suoi piedi e le unghie laccate del signor Minos, il suo psichiatra.
“Era da un po’ che non ci vedevamo” disse l’uomo con un sorriso maligno.
Leo alzò le spalle, ostentando indifferenza. “Era stato lei a dirmi di venire di meno nel caso in cui avessi iniziato a partecipare alle attività della città.”
Il sorriso si trasformò in un ghigno. “E cosa è andato storto?”
Leo rise, ironico. “Non le ho mai detto niente della mia vita, perché dovrei iniziare ora?”
“Altrimenti non ti leverai mai di dosso quel cartellino” rispose il Dottor Minos.
Leo guardo la sua etichetta di benvenuto che lo collocava tra i mentalmente instabili. Era odiosa. Troppo. Ma non poteva stare al gioco di quell’uomo. “Non è poi un peso così grande.”
L’uomo non rispose. Si guardarono per un po’, poi disse: “So che hai una ragazza. Vuoi dirmi chi è?”
“No. Posso andare a casa?”
“No.”
“Allora prepariamoci insieme a lunghe ore di silenzio” rispose con odio.
Il dottor Minos lo fulminò con lo sguardo. “Cosa ti costa collaborare?”
“Sto già collaborando!” sbraitò Leo. “Sto andando a quelle feste che voi amate tanto, ho fatto amicizia con delle persone, mi sono trovato una ragazza, sto seguendo gli Hunger Games e ho sponsorizzato dei Tributi. Più di così che devo fare?!”
Il dottor Minos esitò. “Stai guardando gli Hunger Games?”
Leo riprese fiato dopo la sua scenata. “Sì.”
“Quanto lo hai guardato?” domandò il dottore.
Leo alzò le spalle. “Praticamente quasi sempre. Ho visto la Mietitura, la sfilata, le interviste. Ho visto l’inizio dei Giochi e da lì ho seguito abbastanza tutte le vicende.” Vide lo psichiatra appuntare qualcosa sui fogli davanti a lui. “Cosa sta scrivendo?”
“E dimmi, ieri sera hai avuto dei problemi con la tua ragazza?”
“Sì, ma stavamo parlando degli Hunger Games, cosa c’entra?”
“E’ finita tra di voi? O avete litigato?” continuò lui.
“Dannazione, no. Smettetela di chiedermelo. Non abbiamo litigato né niente. Soltanto ci sono stati problemi dovuti a causa di forza maggiore. E quindi?” Leo iniziò a temere che stessero iniziando a comprendere che qualcosa non andava. Forse credevano sospettoso il suo avvicinamento improvviso ai Giochi. Forse si era sbilanciato troppo nel parlare.
Il dottor Minos si alzò con un sorriso. “Puoi andare per oggi.”
“Cosa ha scritto su quel foglio?” domandò Leo cercando di sbirciare.
“Nulla, appunti personali. Ora va’.”
“No. Voglio saperlo!” insistette alterandosi.
Il dottore fece un grande respiro. “Il paziente mostra dei piccoli miglioramenti. Ha finalmente trovato la strada giusta per rimettersi in sesto ma le continue pressioni lo rendono ansioso e agitato.” Leo lo guardò senza dire una parola. “Leo, posso chiamarti per nome, vero? Stai iniziando a riprenderti, ma stai cercando di fare tutto troppo in fretta. Stare tutto il giorno fuori casa mentre prima non uscivi mai, parlare con persone con le quali non sei abituato, vedere gli Hunger Games che odiavi… Tutto questo ti rende nervoso. Per questo stai avendo questa ricaduta.”
Leo rimase in silenzio. Pensò a molte risposte da poter dare, ma non ne trovò una sensata che non avrebbe peggiorato la situazione così si limitò ad annuire. “Quindi posso andare?”
 
Rientrò a casa con più tranquillità di quanto si aspettasse.
Il dottore, prima di salutarlo, gli aveva detto che si sarebbe preoccupato personalmente di mandare un messaggio ai suoi familiari per non fargli ricevere troppe pressioni.
Nonostante fosse ancora preoccupato per Martia, il fatto di non dover parlare con gli altri di quella seduta era tranquillizzante.
“Ehi, che ha detto il tizio? Sei ancora pazzo?” fece sua sorella quando lo vide entrare.
Evidentemente non aveva pensato a lei, il dottore. “No. E si è ripreso quella stupida targhetta” rispose, orgoglioso.
Sua sorella sollevò lo sguardo dalle sue unghie e lo fissò attentamente, per assicurarsi che non stesse mentendo. “Cavolo, davvero non ce l’hai più” constatò squadrandolo. “Anche Minos deve essere uno svitato per togliertelo.”
Leo fece un gesto di noncuranza con la mano e si diresse in camera sua. L’idea era quella di fingere indifferenza, guardare i vari canali per vedere se parlavano della sua ragazza e poi uscire, o per andare da lei o semplicemente per non stare in quel posto.
Quando vide, però, che sua sorella lo seguiva nel corridoio, capì che c’era qualcosa che non andava. “Cosa vuoi?” sbottò dopo aver tentato inutilmente di chiuderle la porta in faccia.
“Avrei qualche domanda per te” disse Lana.
“Non hai letto il messaggio?” domandò Leo, anche se conosceva già la risposta. “Da parte del dottore.”
“Non ho idea di cosa tu stia parlando” posò finalmente la lima per le unghie e lo fissò attentamente negli occhi. “Dimmi la verità, cosa stai combinando.”
Leo avvertì un brivido percorrergli la schiena. “Cosa intendi? Volevo solo guardare la televisione.”
“Non ora, cretino. In generale.” Di fronte al silenzio del fratello, Lana continuò: “Le cose sono diverse ultimamente, tu sei diverso. Hai l’aria felice, spensierata. E tutto da un giorno all’altro. Solo un cretino come Minos può credere che finalmente tu abbia capito qualcosa di questa vita.”
“Cosa vuoi insinuare?” replicò Leo, brusco.
“Che tu non stai guarendo affatto. Stai solo tramando qualcosa.”
Il ragazzo ripensò al suo piano suicida, ancora archiviato infondo al cassetto della scrivania. Lasciato incompiuto dopo l’arrivo di Martia. “Non sto tramando un bel niente. Sto solo cercando di farvi contenti.”
“Sai, la popolarità può essere una brutta cosa. Ed io sono abbastanza popolare, a differenza tua. Ma sai chi è ancora più popolare di me? La tua amichetta del Distretto 4” disse Lana con un sorriso maligno e scintillante.
Leo strinse i pugni e imprecò nella sua mente. “Smettila con i giri di parole. Che cosa vuoi dirmi?”
“Che so chi è la tua fidanzata.”
In quell’istante tutto perse consistenza attorno a lui. Sentì la testa girargli e temette di stare per svenire. Poi riuscì a rimettere a fuoco il volto di sua sorella e il suo sorriso cattivo.
“Non passa inosservata una Vincitrice degli Hunger Games. Soprattutto quando è in compagnia di un ragazzo e non si comporta esattamente come da amica.”
“Tu stai mentendo! Ti diverti solo a farmi impazzire! Minos ha detto che dovete lasciarmi in pace, perché sto guarendo e tu dovresti farlo! Doveva scriverlo anche a te, nel messaggio!” urlò Leo di rimando, mentendo anche a se stesso.
“So perfettamente di cosa sto parlando. Me lo hanno riferito miei amici, ma dato che non ci credevo mi hanno invitato a constatare con i miei occhi.”
Leo voleva urlare e rompere tutto ciò che gli stava attorno, ma soprattutto ammaccare la faccia a sua sorella. Ma non poteva.
Strinse i pugni e digrignò i denti. “Cosa vuoi che faccia?”
Di certo lei la lettera del dottor Minos non l’aveva letta.





Buonasera a tutti. Eccomi, stavolta abbastanza puntuale.
Ho lavorato su questo capitolo di più degli altri perché ero abbastanza indecisa se far scoprire o no a Lana cosa stava accadendo. Alla fine ho optato di sì, giusto per creare un po' di suspance!
Che ne dite di questo capitolo? Sinceramente a me la storia non coinvolge più tanto. Avevo pensato di continuare a scriverla ma tenerla per me e cancellarla da efp ma poi penso a quelle persone (anche se poche) che continuano a seguire la storia e mi dispiace poi lasciare tutto inconcluso... Avevo pensato anche di riscriverla, ma non se ne parla altrimenti ancora meno persone sarebbero disposte a rileggere la storia da capo solo con piccole modifiche.
Boh, che indecisione. A presto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Lei o lui? ***


Capitolo 17 – Lei o lui?
 
Il mattino seguente, Martia fu svegliata molto presto.
Il telefono squillava insistentemente e lei non fece altro che chiedersi chi diavolo poteva essere a telefonare a quell’ora. “Pronto?” fece ancora assonnata.
“Buongiorno, la chiamavo per informarle di una cosa” rispose una voce gelida e stranamente familiare dall’altro capo del telefono.
“Chi parla?” domandò.
“Sono Ivon Hampfit.” Il sangue nelle vene della ragazza sembrò ghiacciarsi. “Volevo informarla che è previsto per domani mattina un festino, alla Cornucopia. Le consiglio di preparare qualcosa per i suoi Tributi. Mi farà avere il necessario domani mattina presto. Se le mancano i soldi cerchi degli sponsor alla festa di stasera. Oggi si riposi, sono stato informato del suo malessere.”
“Oh, sì. Certo… Grazie. Arrivederci.”
Quella conversazione l’aveva piuttosto scossa anche se non capiva il motivo. Forse era dovuto semplicemente al fatto che dall’altro capo del telefono c’era quello che una volta aveva tentato di ammazzarla.
Si alzò e si preparò in tutta fretta, per niente intenzionata a rimanere nell’albergo. Ma, nel salotto destinato unicamente ai Mentori del Distretto 4, - che si riduceva a un paio di divani, due poltrone, un tavolo e un enorme televisore – l’attendeva il suo Mentore che le ordinò di rimanere lì, dicendole che avrebbe pensato lui alle faccende pubbliche.
A malincuore Martia dovette accettare. Il Distretto 4 era già abbastanza sotto i riflettori, ultimamente.
Così rimase lì, a seguire gli Hunger Games e a meditare su cosa potesse servire ai suoi Tributi.
Roland se la passava bene, insieme al suo alleato del Distretto 8. Avevano cibo a sufficienza e si erano trovati un riparo in una zona dell’Arena dove erano praticamente soli.
Mags, invece, non se la passava bene. Si era insediata vicino a un fiume, dove poteva pescare facilmente dato che non era molto portata con la caccia, ma lì si affollavano spesso altri Tributi ed era spesso costretta a nascondersi, anche per giorni interi per evitare uno scontro nel quale aveva paura di soccombere.
Se la giornata di ieri non aveva visto nemmeno un Tributo morire, quel giorno annegò la ragazza dell’11, cercando di attraversare il fiume, e la ragazza del 5 perforò lo stomaco del suo compagno di Distretto con una freccia, dimostrandosi ancora più assetata di sangue di quanto non si credesse già. E il tutto, senza un motivo preciso.
Decise che avrebbe mandato un’arma a Mags, quale ancora non lo sapeva. La ragazza ne aveva un disperato bisogno dato che le era rimasto un solo coltello e si stava avvicinando il gran finale.
Riguardo Roland, era contenta di vedere che le medicine mandate avevano funzionato, facendo guarire una volta per tutte quel morso di serpente. Ascoltando i suoi discorsi, inoltre, apprese che aveva intenzione di rimanere in una zona isolata dell’Arena fino a quando sarebbe stato possibile. Così optò per mandargli dei fili per costruire reti per tenere lontani i nemici e qualche amo, che gli sarebbe sicuramente tornato utile.
Sapeva che l’arma di Mags sarebbe costata di più e non voleva fare favoritismi, ma a questo punto doveva per forza: lei aveva più probabilità di salvarsi, doveva cercare di fare in modo che sopravvivesse il più a lungo possibile.
Roland invece… Be’ lui fino a quando aveva con lui il suo alleato, Seth, poteva sperare di farcela, ma da solo non aveva speranze contro i Favoriti.
 
Quella sera, mentre i suoi stilisti la truccavano e agghindavano, sentì un nodo allo stomaco.
Era in ansia per quella sera, che sarebbe stata decisiva per i suoi ragazzi. Le servivano nuovi sponsor, perché l’assegno di Leo bastava a malapena per comprare quello che aveva deciso. E se poi uno dei due sarebbe rimasto ferito? Come lo avrebbe aiutato? I soldi dal Distretto non erano molti…
Era in ansia anche per Leo, che era letteralmente scomparso dopo quella sera dell’intervista.
Era strano che non l’avesse cercata, in nessun modo. Né chiamandola, né venendo a bussare alla sua porta o altro. Era una cosa che Leo avrebbe fatto. O almeno il Leo che conosceva.
“Su, dolcezza, sorridi un po’” disse uno dei preparatori vedendo la sua aria pensierosa. “E’ solo una sera come tante altre.”
Martia annuì, ma dentro di sé non poteva far altro che continuare a ripetersi che lui non c’era, quindi non sarebbe stata la stessa cosa. L’unica sera in cui non era stata con Leo a una festa del genere aveva finito per farsi male alla caviglia e piangere per metà della serata.
Fece un respiro profondo e si guardò allo specchio. Era pronta.
Ora, anche senza di lui, doveva farsi valere.
Alla festa sembrava esserci meno gente: stavolta vi erano solo i Mentori e i ricconi di Capitol City. Tutti coloro che non erano candidati ideali per sborsare soldi erano rimasti fuori.
Martia entrò nel giardino della villa con passo sicuro e con un finto sguardo deciso. In realtà avrebbe preferito essere da qualsiasi altra parte, piuttosto che lì.
Iniziò a gironzolare, assaggiando i vari piatti che le venivano offerti, fin quando non incontrò i due ragazzi che l’avevano tenuta compagnia l’altra sera: Jun e Sen.
Furono molto cortesi, si preoccuparono delle sue condizioni come se fosse stata una loro amica e alla fine offrirono una piccola somma di denaro, indirizzandolo specialmente a Roland.
Martia li salutò, dopo circa mezz’ora di chiacchiere, con l’intenzione di assaporare un po’ della musica della sala senza le risate isteriche dei due ragazzi nelle orecchie. Poco più in là un signore di mezza età la fermò, presentandosi come un ricco banchiere, e, dopo una lunga chiacchierata riguardo alle strategie dei suoi Tributi, le consegnò un assegno con una somma modesta da dividere tra Roland e Mags.
Martia credeva che tutto stesse andando per il verso giusto quando, passeggiando per il grande salone, si imbatté in Lana con il suo fidanzato. “Ciao, Martia!” cinguettò lei con voce assordante.
“Oh, ciao. Tutto bene?”
“Dovrei chiederlo io a te. Non sono stata io a svenire in dirette nazionale” rispose la ragazza.
Martia rise in modo nervoso, pensando che effettivamente la ragazza non si sbagliava. Avrebbe voluto chiederle dove fosse Leo, perché la sua assenza anche a quella festa la stava facendo preoccupare da impazzire, ma non voleva destare sospetti. “Come procede la serata?” si limitò a chiedere.
Lana si accigliò. “Ancora una volta dovrei essere io a chiedertelo. Non sono io a dover raccogliere i soldi per impedire che dei ragazzini muoiano. A che punto sei? Chi ha più soldi? Lui o lei?”
Martia si morse il labbro, tentando di tenere a freno la lingua. “Un po’ di più Roland, ma complessivamente bastano e avanzano per ora.”
“Strano” commentò lei. “A me sta più simpatica Mags. Tieni, prendi questi soldi e facci qualcosa di utile per lei” disse porgendole un assegno.
Di fronte a quel gesto tentennò, temendo qualche inganno. Ma alla fine, conscia che per Lana loro erano solo due conoscenti e niente più, prese l’assegno e lo intascò, ringraziando.
Mancava poco alla mezzanotte quando decise che era ora di andare.
Si stava annoiando a morte e aveva accumulato abbastanza denaro da non sentirsi in colpa. Si diresse verso l’uscita e, di fianco al cancello, vide Leo parlare con Verin.
Le sembrò che qualcuno le avesse dato un pugno al centro dello stomaco per la fitta improvvisa che avvertì e il cuore accelerò tempestivamente il battito.
Si finse calma e continuò a dirigersi verso l’uscita, respirando a pieni polmoni per calmarsi.
Fu Verin a chiamarla. “Ehi, Martia!”
Lei si voltò, fingendo di vederli solo in quell’istante. “Oh, ciao ragazzi. Da quanto tempo siete arrivati?”
Verin alzò le spalle. “Dall’inizio della festa o poco dopo. Tu invece? Non ti ho vista in giro.”
“Sono anche io qui da molto e me ne stavo giusto andando. Forse stavate troppo isolati per vedermi” commentò lei nascondendo la sua ira.
Solo dopo quella risposta trovò il coraggio di guardare Leo dritto negli occhi e vide che anche lui la stava fissando. Notò che aveva qualcosa di strano: se ne stava lì, impalato, rigido, con un bicchiere mezzo vuoto da una parte e la mano libera gli tremava un po’. Il livido vicino all’occhio stava guarendo.
A Verin non sfuggì la tensione tra i due e il fatto che lui non stesse dicendo niente, mentre solo qualche giorno prima era appiccicato a lei. “Vuoi rimanere un po’ con noi?” propose.
“No, grazie” rispose Martia gelida. “Devo andare. Domani mattina sarà una giornata impegnativa. Buonanotte” fece per andarsene, poi si voltò e disse a Leo: “Complimenti, comunque. L’occhio guarisce in fretta anche senza le vostre medicine all’ultimo grido.” Si girò e prese a camminare velocemente.
Sentì che Leo la chiamava ma non si voltò. Era ormai lontana dall’ingresso quando lui la prese per un braccio e la bloccò, parandosi davanti. “Martia, ascolta…”
“Non vedo di cosa potremmo parlare.”
“Non è come pensi. Posso venire da te stanotte?”
Martia rise, nervosa. Una risata isterica che risuonò sopra il sottofondo musicale della villa. “Hai una bella faccia tosta, lo sai? Cosa pensi che sia? La tua concubina? Fai quello che vuoi tutto il giorno e poi passi le notti a dormire nel mio letto? Scordatelo.”
“No, ascolta…” provò a prenderle la mano ma lei la tirò via in malo modo.
“Lasciami stare!” strillò liberandosi dalla presa. “E’ meglio per te che tu sparisca. Dico davvero. Sparisci e non farti più vedere perché io non pretendo molto da te, ma non puoi esigere di non farti vedere per giorni e poi di dormire con me. Ti saluto.” Si tolse le scarpe frettolosamente e, arraffando il vestito con l’altra mano, iniziò a correre verso l’albergo.
Leo non provò nemmeno a seguirla.
 
Martia era seduta nella Hall dell’albergo dove in teoria dovevano essere riuniti i Mentori per vedere questo festino organizzato dagli Strateghi. In realtà lì c’erano solo lei e il suo Mentore, che quella mattina aveva comprato le cose da spedire ai ragazzi, e i Mentori dei Tributi del 12.
Stava iniziando.
Era comparso un tavolo grande alla base della montagna che portava alla Cornucopia. Ogni Tributo aveva un sacco o zaino con il proprio nome.
A farsi coraggio per primo fu il Tributo del 10, che arraffò lo zaino indisturbato e scappò via.
I problemi arrivarono dopo: la ragazza del 12, che probabilmente aveva quindici-sedici anni, uscì allo scoperto, tentando di arraffare lo zaino il più veloce possibile. Ma una freccia della ragazza del 5 le attraversò la gola.
I Favoriti rimasti, ovvero il ragazzo dell’1, la ragazza del 2 e quella del 5, uscirono allo scoperto, gridando per il trionfo. Si appropriarono dello zaino della ragazza e dei loro e poi si nascosero dietro al tavolo.
“Merda…” bisbigliò Martia sottovoce mentre tutti fremevano per l’attesa. Nessun Tributo, uscendo dalla foresta li avrebbe visti. Avrebbe notato il cadavere della ragazza, gli zaini mancati e avrebbe pensato che erano andati via. Un agguato perfetto.
A uscire allo scoperto fu la ragazza del 3 che, non appena provò a prendere lo zaino, fu afferrata dalla ragazza del 2. Ma aveva una sorpresa: cacciò un coltello dalla tasca e lo conficcò nel braccio del Tributo del 2, trapassandolo. E mentre lei si contorceva a terra, ne approfittò per scappare.
Roland e Seth colsero il momento per uscire mentre gli altri due Favoriti erano impegnati con la loro compagna. Seth fu veloce, prese lo zaino e corse via, ma Roland, non al massimo della forma, ci impiegò di più: la ragazza del 5 lo vide e gli piantò una freccia nel polpaccio. Cadde a terra, con un urlo straziante.
“Seth! Aiuto!” urlò all’amico che era poco più avanti. Lui si voltò, lo guardò e corse indietro. Inaspettatamente prese lo zaino e gli disse: “Mi dispiace, c’è un solo Vincitore” e corse via.
Martia rimase a bocca aperta di fronte la scena. Avrebbe voluto intervenire di persona, aiutare il piccolo Roland mentre il ragazzo dell’1 correva verso di lui pronto a sgozzarlo.
Vide le lacrime scendere sul volto del ragazzo. Dolore, non per il polpaccio, non per la consapevolezza della propria morte, ma per il tradimento subito.
In quel momento Mags si affacciò dal folto della foresta e vide il suo compagno di Distretto a terra, con il viso bagnato dalle lacrime che cercava di trascinarsi lontano dal suo assalitore. La ragazza iniziò a corrergli incontro e disarmò rapidamente il ragazzo dell’1. Lottarono un po’, l’uno contro l’altra, mentre la ragazza del 5 provava a fronteggiare il grosso ragazzo del 12 che aveva evitato le sue frecce.
Mags colpì il ragazzo dell’1 alla gola con l’elsa del coltello, facendolo boccheggiare. Giusto in tempo per aiutare Roland a rialzarsi. Era appena in piedi quando il Tributo dell’1, rialzatosi, si avventò su di loro, perforando lo stomaco di Roland.
Mags riuscì a ferirlo a una gamba e a farlo allontanare, ma Roland cadde a terra e, con un solo rantolo, morì, sputando sangue dalla bocca e macchiando l’erba di rosso.







Salve gente! Eccomi di nuovo qui. Questo capitolo è un po' lungo, ma davvero non ne potevo più di fare capitolo miscuoli per un totale di 346219374 capitoli in totale. E' ora di dare un taglio a questa storia.
Vi piace come capitolo? Ci terrei molto a sentire la vostra opinione.
Vorrei aggiungere una cosa, che probabilmente non ho detto precedentemente: il personaggio di Mags corrisponde al personaggio della Collins (ovviamente) ma la sua storia ho deciso di cambiarla. Non so se avete notato ma le differenze con la Mags del libro sono molte. Spero la cosa non vi turbi. Spero di ricevere qualche recensione, anche con parolacce o insulti nel caso in cui la storia faccia schifo, ma voglio almeno sapere cosa ne pensate :D a presto!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Incubi e ancora incubi ***


Capitolo 18 – Incubi e ancora incubi
 
Martia fissava lo schermo con aria assente. Lo stesso era per il suo vecchio Mentore e per gli altri presenti nella sala.
Se tutti erano concentrati sullo scontro tra la ragazza del 5, che aveva terminato le frecce, e il ragazzo del 12, lei era rimasta impalata dopo aver visto il sangue di Roland macchiare il terreno.
Mags aveva recuperato il suo zaino con dentro il grosso machete, lo zaino della ragazza del 2, ormai morta, quello dell’1, che si contorceva a terra, e aveva lanciato un ultimo sguardo al compagno di Distretto prima di scomparire di nuovo nel bosco.
Martia non poteva far altro che essere orgogliosa di lei, ma allo stesso tempo sentiva un profondo vuoto dentro per la morte del ragazzino.
Era morto, ed era tutta colpa sua.
Lo stupido festino, che aveva spezzato la vita di Roland, della ragazza del 2 e di quella del 12, terminò lasciando sette Tributi in gara.
Alle parole dei presenti e in particolare del suo Mentore, che cercavano di tranquillizzarla, di farle capire che non era colpa sua, Martia si mostrava totalmente indifferente.
Fissava lo schermo, con l’immagine della chiazza di sangue ancora impressa negli occhi.
Vide il corpo di Roland mentre veniva portato via, in rotta verso Capitol City e poi il Distretto 4 e pensò a cosa stavano dicendo di lei a casa. Che aveva fallito, ecco cosa.
Fin dal primo momento aveva saputo che non avrebbero fatto ritorno entrambi, ma solo adesso si rendeva conto della gravità della cosa.
I presentatori di quell’edizione inquadrarono Mags, che piangeva rannicchiata sulle sponde del fiume mentre cercava di lavare via dal suo corpo il sangue del compagno.
La vista della ragazza distrutta fu insopportabile e, senza dire una parola, Martia si alzò e andò nella sua stanza. Si accasciò sul letto, con l’intenzione di dormire un po’, ma tutto quello che fece fu scoppiare a piangere.
Ricordava di aver visto Roland a scuola. Lo ricordava giocare con i suoi amici per le strade si rese conto che non lo avrebbe mai più incrociato nelle vie del Distretto 4.
Qualcuno bussò alla porta.
“Julio, va’ via” disse lei affondando la faccia rigata dalle lacrime nel cuscino.
Il suo Mentore entrò silenziosamente e rimase in piedi accanto al suo letto. “Non ne ho la minima intenzione. Almeno fino a quando tu non la smetterai con questa storia.”
Martia si voltò con rabbia. “Non ho intenzione di smetterla e non so affari tuoi!” strillò.
Julio si piegò fino a ritrovarsi solo a qualche centimetro da lei. “Sono affari miei perché se adesso non la pianti di fare la ragazzina dovrò occuparmi io dell’altro Tributo e non ne ho la minima intenzione!” La ragazza rimase in silenzio, sconcertata da quell’ira che non aveva mai visto. “Sei una Vincitrice, hai vinto gli Hunger Games, hai ucciso un ragazzo e ne hai visti altri morire e ora vuoi farmi credere che una cosa del genere ti scandalizza?! Piantala e alzati da quel letto.”
Martia sentì l’ira ribollire dentro di lei. “Perdonami se ho ancora dei sentimenti. Perdonami se gli Hunger Games non hanno portato via da tutta la mia sanità mentale!”
Julio la guardò per qualche istante, interdetto. Poi si voltò e andò via.
Lei si lasciò andare ancora di più, sperando con tutte le sue forze che Mags avrebbe trovato il coraggio di andare avanti, di vincere, ma soprattutto di non diventare un mostro.
Passò molto tempo nella sua stanza e si addormentò, anche se non seppe dire per quanto. Fu svegliata dallo squillare del telefono ma preferì non rispondere. Sicuramente era Sam e voleva evitarlo ancora per un po’. Non sapeva cosa dire, non sapeva come scusarsi.
Andò a fare una doccia e poi accese il televisore dove mostravano le immagini del Tributo dell’1 mentre cercava di curarsi la ferita inferta da Mags e la ragazza del 5 che cercava di recuperare più frecce possibile.
Parve strano a dirlo, ma i Favoriti non lo erano più di tanto, ora che erano solo in due e che avevano perso molte armi.
In una parte lontana dell’Arena, Seth aveva scoperto che non gli era utile lo zaino di Roland, con fili per reti e ami che lui non sapeva usare.
In cuor suo Martia era contenta. Il regalo per Roland era solo per lui e nessun altro doveva usarlo.
Stava per spegnere la televisione, quando comparvero i genitori della ragazza del 2, intervistati per la morte della figlia. Sua madre era in lacrime, mentre il padre aveva solo gli occhi lucidi.
Martia ebbe un tuffo al cuore. Intervista alle famiglie. Ora toccava a quelle di Roland.
Ecco comparire i genitori di lui, con accanto una bambina di circa dieci anni. Tutti con gli occhi rossi e gonfi, l’aria distrutta.
Parlarono di Roland, raccontarono un po’ della sua vita e espressero il loro dolore con tante frasi di saluto.
Vedendoli piangere, vedendo quanto era stata incapace di poter aiutare quella famiglia, anche Martia ricominciò a piangere. Dovette spegnere la televisione, per evitare di vedere le immagini struggenti dell’ultima famiglia traviata dalla morte di una figlia, e si rannicchiò sotto le coperte.
Si sentiva sprofondare, e avrebbe dato tutto pur di trovare un modo per riprendersi.
Sentì bussare alla porta e si accorse che ormai era pomeriggio inoltrato.
Doveva essere sicuramente Julio, tornato per convincerla ad uscire da lì. Così urlò: “Va’ via!” Ma la sua richiesta non fu accolta e l’incessante bussare diventava più forte. “Voglio stare da sola, Julio! Mi hai capita?!”
Quando sentì la porta aprirsi, si asciugò le lacrime con il palmo della mano e sbucò da sotto le coperte: “Allora sei stupido?! Vattene imme…” ma si bloccò.
Davanti a lei non c’era Julio a guardarla in modo furioso, ma Leo, che la fissava con lo sguardo più triste che avesse mai visto, come se fosse accaduto qualcosa di terribile.
 
Leo sentiva le mani tremargli.
Pregava affinché smettessero ma non era semplice date le circostanze.
Martia se ne stava seduta tra le coperte, gli occhi gonfi e arrossati per le lacrime, i capelli scombinati e lo guardava con aria sorpresa. “Cosa diavolo ci fai qui?”
Leo tirò un respiro di sollievo nel constatare che nella sua voce non c’era più la rabbia con cui lo aveva cacciato ieri sera, ma solo tanta sorpresa.
Si avvicinò piano a lei, ma adesso erano anche le gambe a tremargli.
Lei seguiva ogni suo spostamento con lo sguardo e si scostò leggermente quando lui si sedette accanto  a lei. “Ho saputo di Roland. Mi dispiace” disse lui, valutando la possibilità di prenderle la mano, ma scartandola subito a causa delle ultime cose accadute.
Gli occhi della ragazza si riempirono ancora di più di lacrime. “Adesso che l’hai detto puoi pure andare via” disse abbassando lo sguardo sulle sue dita che si contorceva nervosamente.
“Martia, dobbiamo parlare” sussurrò dolcemente Leo, prendendogli le mani tra le sue. Lei le guardò, indecisa sul da farsi, poi spostò lo sguardo su di lui. “Lo so che sei arrabbiata per ieri sera ma… C’è stato un problema, per questo non mi sono fatto vedere.”
“Che problema?” domandò lei ma con indifferenza.
Leo era convinto che lei credesse che fosse solo una scusa. “Mia sorella sa di noi” disse tutto d’un fiato per evitare discorsi troppo lunghi.
Martia sgranò gli occhi e li puntò dritti nei suoi. “Cosa?!”
Leo annuì e le raccontò tutto. “Ha detto che non devo farmi vedere con te, mai più. Ha detto che stiamo dando troppo nell’occhio e non vuole che si sappia. Dice che può anche capire che io voglia stare con te, ma pensa che non debba mettere in cattiva luce la nostra famiglia. E poi vuole che le compri non so che affare super costoso che è appena uscito e permette di cambiare da un giorno all’altro colore di capelli, ma questa è un’altra storia.” Martia non rispose, così continuò. “Per questo ero con Verin. Non dovevo far insospettire mio padre e per questo sono venuto alla festa ma sono rimasto in disparte con lei sperando di non incontrarti. Speravo non accadesse ciò che in realtà è successo.”
La ragazza rimase in silenzio. Dopo qualche secondo liberò le sue mani dalla stretta e rotolò su un fianco, per poi sdraiarsi sul letto. Fece cenno al ragazzo di fare lo stesso.
Leo sorrise, contento che le cose non erano peggiorate con quel discorso e si stese accanto alla ragazza, che non aspettò nemmeno un istante prima di accucciarsi contro il suo petto. Lui la strinse forte, pensando a quanto le era mancata in quei giorni.
“Non hai più quell’assurdo cartellino?” constatò Martia ispezionando con le mani la sua maglia alla ricerca di quell’affare.
“No” rispose lui sorridendo. “Sono quasi normale per lo psicologo.”
Lei ricambiò il sorriso, poi affondò la testa nell’incavo tra la spalla e il collo di lui.
“Tu come stai?” domandò Leo.
Martia scosse la testa, incapace di rispondere.
La sentì respirare irregolarmente, poi arrivarono i singulti e infine sentì la sua maglia bagnarsi per le lacrime. La strinse più forte a sé. “Andrà tutto bene, stai tranquilla.”
 
Trascorsero la maggior parte del pomeriggio e della sera lì sopra, abbracciati.
Lei a piangere, a raccontare quanto l’accaduto fosse frustrante, e lui a consolarla.
Martia decise di non andare alla solita festa quella sera. Credeva che la morte del suo Tributo fosse una ragione valida per assentarsi.
Se ne stava ferma accanto alla porta ad aspettare che le portassero il cibo che aveva ordinato quando squillò il telefono. “Sarà sicuramente mio fratello. E’ da stamattina che chiama. Devo rispondere per forza ora” disse a Leo che annuì, preparandosi a rimanere in silenzio totale per i prossimi minuti.
“Pronto?”
“Sono io. Che ne dici di rispondere ogni tanto?” fece Sam con aria arrabbiata.
“Scusa. Non me la sentivo proprio di risponderti. So che sei arrabbiato. Se vuoi puoi aggiungerti alla lista delle persone che dopo oggi mi odiano. C’è già Julio, se ti fa piacere.”
“Julio? Che gli hai fatto?”
“Assolutamente niente. Dice che devo smetterla di abbattermi per quanto successo a Roland.”
“Capisco…” disse Sam rimanendo per qualche istante in silenzio. “Mi dispiace per lui. Lo sai che andava in classe con Paul?”
Martia si immaginò i due seduti vicini in una banco e poi lo immaginò vuoto. “No, non lo sapevo.”
“I genitori sono venuti qui oggi.”
Martia sentì il sangue nelle sue vene raggelarsi. “Cosa hanno detto?”
“Abbiamo parlato un po’. Di Paul, della mamma… Di papà. E poi naturalmente di Roland. Ti ringraziano di tutto e mi hanno chiesto di dirti di non sentirti in colpa. Sono due persone fantastiche.” Di fronte al silenzio della sorella, Sam continuò. “Sono preoccupato per te. Sei diventata strana da quando sei lì. Mi stai nascondendo qualcosa? Va tutto bene?”
“Lo sai, è difficile avere tanto peso sulle proprie spalle…” tentò di scusarsi.
“No, non parlo di questo. Lo so quanto sia difficile il tuo compito. Ma sei evasiva, non mi chiami quasi mai e le nostre telefonate durano sempre poco. E’ come se mi volessi nascondere qualcosa” disse Sam.
Martia spostò lo sguardo su Leo, seduto a mezzo metro da lei sul letto. Si guardava le mani che muoveva in modo strano, ma lei sapeva che teneva le orecchie tese per sentire ciò che poteva della conversazione.
Era lui che stava nascondendo e ormai Sam stava iniziando a capire qualcosa. Si chiese se fosse il caso di dirglielo, se fosse prudente tramite telefono.
“Sono cambiate tante cose, Sam” disse, evasiva.
“Non credo. Potevi dirlo da quando il tuo nome è stato estratto a quando mamma è morta e invece non lo hai fatto. Ma lo dici ora. Che sta succedendo? Parlando con Liz lei ha detto di non preoccuparmi ma sono convinto che lei sappia qualcosa che io non so. Che stai combinando?”
“Sam, so badare a me stessa. Lo so che ora ti potrai fare tante domande, okay? Ma è tutto apposto. Ne parliamo quando torno a casa, così sarai più calmo.”
“Ne dubito. Ma va bene. Non sparire. A domani.”
Martia chiuse in fretta il telefono mentre il cuore le batteva a mille. Doveva dirglielo, prima o poi, ma per ora era meglio ritardare il momento.
“Non penso ne sarà felice” commentò Leo continuando a guardarsi le mani.
La ragazza capì che le sue sole parole erano state sufficienti per far comprendere appieno la situazione. “Non dire stupidaggini.”
“Sto dicendo solo la verità. Già il fatto che hai un fidanzato sarà traumatico per lui, figuriamoci poi la sua reazione quando gli dirai che sono di Capitol City. E del fatto che sono ritenuto pazzo? Vogliamo parlarne?”
Martia sorrise. “Invece ne sarà felice. Perché io lo sono” e dicendo così lo baciò per fare in modo che non rispondesse ancora.
 
Il mattino seguente, quando Leo si svegliò, fu contento di ritrovarsi a pochi centimetri da Martia, che dormiva ancora.
La guardò nella poca luce della stanza e desiderò di non alzarsi mai e che il tempo si bloccasse in quel preciso istante.
Fissò la sua ragazza, anche se pensare a lei così gli sembrava ancora strano, e non poté fare a meno di chiedersi come poteva stare con lui, tanto che era bella.
I suoi capelli invadevano completamente il cuscino, era rannicchiata contro il suo petto e respirava tranquillamente. Erano finiti gli incubi.
Quando la sera precedente lei gli aveva chiesto di restare, Leo era contento, nonostante sapesse cosa lo aspettava.
Urla, pianti, calci e strilli improvvisi, dovuti agli incubi sempre più frequenti. Non aveva fatto altro che svegliarsi tutta la notte, in lacrime, gridando il nome di qualcuno che conosceva, vivo o morto, non faceva differenza. Ancora più brutto era quando non riusciva a svegiarla. Lei urlava, scalciava e si dimenava, in preda a chissà quale orrore e lui tentava di svegliarla ma ci volevano diversi minuti.
Ma nonostante tutto non si era pentito di essere rimasto.
Se stare con lei avrebbe significato affrontare migliaia di notti piene di incubi, lui avrebbe accetato ugualmente.






Buonasera a tutti! Mi scuso per il ritardo ma eccomi finalmente.
Mi dispiace se troverete eventuali ripetizioni ma ho potuto dare solo una rilettura veloce perché il letto ormai mi chiama dato che la sveglia è prevista per domani alle sei.
Spero che questo capitolo vi piaccia e spero di poter aggiornare il prima possibile.
Ne approfitto per dare il mio saluto a Philip Seymour Hoffman, attore bravissimo che nei film interpretava Plutarch Heavensbee e che oggi ci ha lasciati. Purtroppo non lo conoscevo abbastanza bene ma so ugualmente che era bravissimo.
A presto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** La fotografia ***


Capitolo 19 – La fotografia
 
Leo dovette andare via a metà mattinata per tornare a casa e farsi una doccia.
Martia lo aveva salutato a malincuore e si erano dati appuntamento in piazza. Lei, però, sapeva che non sarebbe stato più lo stesso ora che a stento potevano sedere vicini. Si convinse che già stare a qualche metro di distanza da lui fosse una cosa stupenda, così si preparò e scese nella piazza principale, dove dovette affrontare qualche giornalista che voleva intervistarla per quanto riguarda Roland.
Concesse poche parole, quelle essenziali per ricordare quel ragazzino fragile che era riuscito comunque ad arrivare a buon punto nei Giochi.
Poi si sedette su una panchina e osservò per gran parte del tempo i Tributi, mentre attendeva l’arrivo di Leo.
Vide da subito una cosa che non le piacque: Mags aveva l’aria inferocita e si aggirava per l’Arena brandendo in una mano il machete e nell’altra il coltello. Non si curava di far rumore e camminava molto rapidamente.
Ciò voleva dire solo due cose: o stava tentando di farsi ammazzare, o voleva essere trovata da qualcuno per ammazzarlo. E, date le sue armi e la sua espressione, la seconda era la cosa più ovvia.
Martia si sentì a disagio.
Molti Tributi, usando questa tecnica, erano riusciuti a togliere di mezzo molti nemici. Lei, invece, se n’era stata buona fino alla fine e poi aveva dato il meglio di sé solo quando necessario.
Mags voleva lo scontro, subito. Ma la cosa poteva andare anche a suo svantaggio dato che non era comunque la numero uno del combattimento tra i ragazzi rimasti.
I suoi pensieri furono interrotti da un cambio di inquadratura e dall’arrivo di Leo, che si sedette due o tre panchine più in là.
Martia avrebbe voluto tantissimo potergli parlare, stringergli la mano, proprio come tutte le persone normali. Purtroppo doveva starsene lì, obbligatoriamente, a vederlo da solo mentre faceva finta di ignorarla.
A peggiorare le cose, arrivò Verin, che a quanto pareva aveva un tempismo perfetto. Si sedette accanto a lui e iniziò a parlare senza mai fermarsi. Leo l’ascoltava, la rispondeva e ogni tanto rideva pure. Martia non poté fare altro che far finta di niente, chiedendosi perché quel ragazzo doveva essere uno di Capitol City e non un semplice ragazzo del 4.
Lo voleva per sé, nel suo Distretto, magari anche nella sua casa e nel suo letto.
Era strano. Aveva sempre pensato che per il suo primo ragazzo avrebbe avuto una certa attrazione anche a livello sessuale, ma con lui era diverso. Lo voleva semplicemente accanto a lei. Poteva benissimo starsene vestito per l’eternità, a lei non importava. L’unica cosa davvero importante era averlo al proprio fianco.
Peccato che era l’unica cosa impossibile.
 
Leo era uscito dall’albergo con aria malinconica.
Quando aveva salutato la sua ragazza, lei lo aveva guardato con aria afflitta, come se anche quel saluto temporaneo fosse qualcosa di insostenibile. E se lei era triste, anche lui lo era.
Per di più non voleva tornare a casa e vedere il sorriso compiaciuto di sua sorella, consapevole di averlo sottomesso al proprio volere. Non voleva parlare con suo padre, non voleva vedere sua madre.
Voleva solo stare con lei, perché solo in quei momenti era felice.
Aprì la porta di casa ricordandosi di una cosa che avrebbe potuto fare per Martia, per renderla felice. Così si diresse in fretta in camera sua e iniziò a cercare nei cassetti il fogliettino che mesi prima aveva buttato da qualche parte.
“Cosa fai?” fece la sorella con i suoi nuovi capelli arancioni, guardandolo con un sorriso arrogante.
“Non ti interessa.”
“Non credo. Visto che la tua vita ormai dipende da me…”
Leo sbuffò. “Stavo cercando un volantino pubblicitario. Tu, piuttosto, che vuoi?”
La ragazza gli si avvicinò lentamente, il sorriso che andava allargandosi. “Ho detto a papà che so chi è la tua ragazza.”
Leo si sentì mancare. “Cosa?! Cosa hai fatto?!” fece lui alzando improvvisamente la voce.
Prima che lui potesse reagire in qualsiasi altro modo, Lana rise e aggiunse: “Tranquillo, non gli ho detto chi è. Ci avrebbe ammazzati entrambi.” Leo si rilassò un po’. “Ad ogni modo devi fare qualcosa. Papà si sta insospettendo.”
“Non ho intenzione di fare un bel niente. Pensi pure quel che vuole” rispose lui, brusco.
“Invece ti dico io cosa devi fare: passa più tempo con la tua amica Verin, sarà un depistaggio ottimo.”
“Perché diavolo dovrei? E poi perché t’importa così tanto?!”
Lana gli si avvicinò ancora di più, con fare minaccioso. “Stammi a sentire, imbecille. Da te dipendono troppe cose ormai. Se ti fai scoprire sarà lo scandalo, papà rischia di perdere il lavoro, cadremo in miseria, verremo cacciati o peggio diventeremo dei senza-voce. Non avrò più le mie amiche e il mio fidanzato, se tu non hai nulla da perdere non m’interessa. Io ho qualcosa per cui restare qui.”
Leo si allontanò dalla sorella. “Lasciami in pace.”
Avrebbe voluto urlare contro sua sorella, violentemente. Ogni suo atteggiamento lo irritava. Ma mentre se ne stava seduto sulla panchina, a guardare con finta indifferenza Martia, realizzò che si stava comportando da egoista: lui odiava quella vita, ma la sua famiglia no.
Così quando Verin si unì a lui, non le chiese di andar via come già aveva pensato di fare.
“Ehi, guarda. C’è Martia. Invitiamola a pranzo dato che è ora” propose la ragazza.
“Non so se sia una buona idea…”
“Ma che ti prende? Certo che lo è” disse Verin con un ampio sorriso.
Martia, d’altra parte, si fece pregare un po’ ma alla fine cedette.
Si recarono in uno di quei ristoranti che lei, prima di vincere gli Hunger Games, avrebbe solo potuto immaginare. Qui trovarono un amico di Verin, che Leo ricordava di aver visto a scuola, e che si unì a loro.
Leo prese posto accanto a Verin; di fronte a lui si sedette Martia con accanto il ragazzo di cui non ricordava il nome.
“Ehi, Leo. Qual buon vento ti porta da queste parti?” chiese con un sorriso.
Non sapeva se prenderlo come un’offesa oppure no, ma decise che non era il caso di farsi troppi problemi per queste cose stupide. Alzò le spalle: “ho incontrato per caso Verin che ha proposto di andare a mangiare qualcosa.”
“E tu, Verin, come conosci questa bella ragazza?” continuò lui guardando Martia con un ampio sorriso.
Leo passò frettolosamente il suo sguardo da lei a lui. Martia imbarazzatissima se ne stava seduta immobile e fissava il suo bicchiere. Il ragazzo la guardava, divertito.
Avrebbe voluto dirgli che non era affatto divertente quel tipo di comportamento. Lui odiava quelli che, appena possibile, ci provavano con tutte. Li aveva sempre odiati. O forse invidiati per la loro sfacciataggine.
“E’ un’amica di Leo, in realtà. Ci siamo conosciute poco tempo fa” rispose Verin.
“Ed io, se fossi in te, ci penserei due volte prima di fare il cascamorto con lei” aggiunse Leo con un enorme sorriso ironico.
“Per quale motivo?” domandò lui.
“Sono già impegnata e non mi sembra il caso di intrattenere conversazioni del genere” intervenne Martia senza distogliere lo sguardo dallo scintillante bicchiere.
Leo sentì un profondo compiacimento dentro di sé nel vedere l’espressione di quel ragazzo, vivamente sorpreso dell’affermazione. Evidentemente non era abituato a ricevere un no come risposta dalle ragazze.
Il pranzo prese una piega migliore con l’arrivo dei piatti e con il racconto di Verin di una brutta figura dei suoi domestici.
Erano alla fine quando il ragazzo disse a Martia: “Credo di averti già visto da qualche parte. Veniva nella nostra stessa scuola?”
Leo cercò di capire come si potesse scambiarla per una di Capitol City: nonostante il trucco e i vestiti che i suoi stilisti la obbligavano a indossare, dentro di lei, nel suo modo di fare, di vedeva qualcosa di diverso.
Verin rise. “Ma cosa dici? Lei è Martia, ha vinto gli Hunger Games due anni fa!”
Il ragazzo la fissò attentamente per un attimo, poi rise anche lui: “Hai ragione. Solo che quell’anno dopo la morte del mio Tributo preferito non li ho guardati più. Non sai quanto avevo sperato che morissero gli altri solo per vederlo vincere e magari incontrare proprio come sto facendo con te, Martia. Avrei preferito di gran lunga avere lui qui. Era l’unico che meritasse di uscirne vivo.”
Leo si ritrovò a stringere forte i pugni. Come poteva, per quel ragazzo, la vita di una persona valere meno di quella di un’altra? “Stai scherzando?” disse digrignando i denti.
“Certo che no” continuò lui. “Da che Distretto veniva? Forse il nove… Meritava di vincere, era il migliore.”
“E secondo quali criteri, per te, gli altri meritavano di perdere? O, per dirla come stanno le cose, di morire?” rispose Leo, non accorgendosi del suo tono aggressivo.
“Non c’è bisogno di parlare degli Hunger Games proprio ora” disse Martia alzandosi.
Leo la imitò. “No, invece è necessario.”
“Cosa ti prende?” fecero all’unisono Verin e il suo amico.
Martia gli andò vicino e lo prese per un braccio, stringendolo forte. Lui si voltò a guardarla e vide nei suoi occhi una muta richiesta di evitare quella discussione scomoda. Rimase un attimo in silenzio, poi sospirò: “Nulla, è solo che… Devo prendere un po’ d’aria. Torno subito.” Senza attendere nemmeno una risposta si avviò verso i bagni a gran velocità.
 
L’amico di Verin andò via subito dopo Leo, sostenendo di avere altri impegni. Martia, invece, credeva che ne avesse abbastanza di quella situazione stramba. Si aspettava che anche Verin andasse via da un momento all’altro, invece rimase davanti all’ingresso del ristorante con lei.
“Potrei capire qual è il problema?” sbottò la ragazza tutto d’un tratto.
Martia finse di non capire a cosa si stesse riferendo. “Come, scusa?”
Verin sbuffò. “Leo, dall’asociale che era, tutto d’un tratto inizia a uscire misteriosamente per la città, stringe amicizia con te, state sempre insieme. Poi sembra che non vi parlate più, che non vi conoscete e non vi sopportate, eppure se non era per te oggi quella scenata sarebbe andata avanti. I suoi commenti poi erano proprio fuori luogo. Mi spieghi cosa diavolo sta succedendo?”
Martia rimase per un po’ in silenzio, cercando di pensare alla cosa giusta da fare. Si guardò attorno, nel vano tentativo di trovare qualcosa per cambiare argomento, ma poi fu costretta a rispondere: “E’ un periodo difficile per lui. Suo padre vuole che diventi uno come tutti gli altri, come te. Lui ci ha provato e per caso ci siamo incontrati, mentre anche io tentavo di mischiarmi tra di voi. Riguardo al resto sono solo tue impressioni, siamo solo conoscenti e nulla di più. Ma poco fa ce l’ho fatta a finire quella conversazione perché so esattamente cosa prova nello stare in un posto in cui non si sente a casa. Il suo analista ha detto che sta guarendo ma deve avere anche un po’ di spazio, che nessuno gli sta concedendo.” Vide negli occhi della ragazza un barlume di tristezza, dovuta probabilmente al senso di colpa, alla consapevolezza che tra le persone che avevano ridotto quel ragazzo in quello stato c’era anche lei.
“So che lui è sempre stato… Diverso. Ma ultimamente lo è ancora di più e certe volte finisco col preoccuparmi” disse Verin.
“Mi dispiace di non poterti aiutare, lo conosco appena” rispose lei con un tono di voce talmente freddo da sorprendere se stessa. Eppure era la verità: lo conosceva appena.
Quando Leo tornò dal bagno, i ragazzi si salutarono quasi immediatamente. Ma, un istante prima di andarsene, il ragazzo si avvicinò a Martia e le sussurrò all’orecchio: “Seguimi.”
Così, lei fece finta di proseguire per la sua strada, per poi cambiare velocemente direzione e seguirlo attraverso la città.
Camminavano distanti, fingendosi spensierati e interessati ai negozi. Ad avvantaggiare il tutto vi erano gli Hunger Games nei quali, mentre Mags faceva una lunga pausa, il ragazzo dell’1 e la ragazza del 5 avevano accoltellato ripetutamente e con violenza la ragazza del Distretto 3. Era una scena orrenda, che teneva i capitolini con gli occhi incollati sugli schermi.
Martia provò un’immensa pietà per quella ragazza che veniva torturata lentamente, squartata e scorticata viva mentre urlava e piangeva dal dolore. Il tutto per vendicare la ragazza del 2.
A causa di quell’evento drammatico, nessuno li notò sfilare in città.
Leo svoltò poi in un vicolo secondario, stretto e dall’aspetto pittoresco, arricchito da tanti negozi a quell’ora vuoti. In giro non vi era nessuno.
Quando Martia girò per seguirlo, se lo trovò di fronte, andandoci quasi a sbattere contro.
Lui le rivolse un sorriso caldo e la prese per mano.
Sentendo quella stretta salda, Martia non poté far altro che sentirsi meglio. La guidò attraverso il vicolo, portandola alla fine, dove la strada terminava senza via d’uscita. I rumori della città sembravano così lontani. L’unica cosa davanti a loro era un enorme scatola di metallo.
“Cos’è?” domandò Martia cercando di sbirciare.
Il ragazzo le si parò davanti, ostacolandole la vista. “Una sorpresa per te” disse con un sorriso. “E’ qualcosa di unico, probabilmente una delle poche ancora esistenti in tutta Panem. Veniva utilizzata nell’antichità per ricordare i momenti speciali.”
“Momenti speciali?” gli fece eco lei.
Lui annuì. Le prese il volto tra le mani e lo avvicinò al suo, tanto che le punte dei loro nasi si sfioravano. “Sta andando tutto così velocemente, ed io vorrei fermarmi un solo istante per poter stare di più con te, conoscerti meglio… Invece abbiamo così poco tempo a disposizione.” Martia provò a intervenire, dicendogli che non doveva preoccuparsi, che avrebbero trovato un modo, ma lui non la fece parlare. “Io non posso decidere come andranno le cose, purtroppo. Ma a volte uno può provare di tutto ma non si ha un lieto fine. Quindi voglio poter ricordare questo momento per sempre, perché è solo ora che mi sento davvero felice per la prima volta da tantissimo tempo.”
La guidò all’interno di quella scatola e solo quando vide l’obiettivo rivolto verso di loro riuscì a capire dove si trovavano. “Leo…” avrebbe voluto dire qualcosa, ma non aveva idea di cosa dire.
Erano sempre stati poveri, molto poveri. Le uniche foto che avevano erano del matrimonio dei suoi genitori e poi ne facevano una tutti insieme ogni volta che nasceva un nuovo membro. Ma dalla morte di suo padre le cose erano peggiorate, e se i soldi non bastavano per il cibo figuriamoci per le fotografie. E quando era tornata dagli Hunger Games, quando finalmente aveva tutti i soldi che poteva desiderare, la morte di Paul e la malattia con il seguente decesso di sua madre le avevano fatto pensare che non c’era proprio un bel niente da fotografare. La differenza tra le foto del passato e quelle del presente sarebbe stata troppo grande.
Ne scattarono tre, facendone per ognuna due copie. Tutte e tre piccole, tascabili, in modo da poterle portare sempre con sé senza che gli altri le vedessero.
In una Leo l’abbracciava da dietro, ed entrambi sorridevano; nell’altra lui le dava un bacio sulla guancia, e lei aveva un sorriso così buffo che ogni volta che guardava quella foto non poteva fare a meno di ridere; nell’ultima si baciavano, ed era la foto che entrambi preferivano.
Così quando si sarebbero salutati, quando ognuno avrebbe fatto ritorno nella propria casa, quando anche i ricordi si sarebbero affievoliti, quella foto avrebbe ricordato loro che tutto era realmente accaduto.
Che loro, in quel momento, erano stati insieme, ed erano stati felici.





Salve bella gente. Eccomi con il nuovo capitolo che è stato davvero difficile da scrivere. Il motivo? Non ne ho idea. Ho cambiato spesso idea su come far svolgere la vicenda, su cosa far accadere o altro. Insomma, è stato complicato. Per il prossimo capitolo ho in mente di porre fine ai Giochi, sarà incentranto quindi sulla fine di questa edizione che segnerà anche la fine del soggiorno di Martia a Capitol City. E poi finalmente arriverà la parte che davvero mi piace di più. Spero continuerete a seguirmi, a leggere e magari a recensire. A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** La fine degli Hunger Games ***


Capitolo 20 – La fine degli Hunger Games
 
 
Martia se ne stava seduta sul bordo del letto della sua stanza d’albergo.
Dopo tre giorni, durante i quali il ragazzo del 12 era stato divorato da alcuni ibridi simili a serpenti e quello del 10 era stato ucciso dai Favoriti, ogni alleanza era stata sciolta e per quella sera si prospettava il gran finale.
Erano rimasti in quattro: Mags, Seth, il ragazzo dell’1 e la ragazza del 5.
Leo accanto a lei le stringeva la mano mentre i presentatori intrattenevano il pubblico in attesa degli ultimi preparativi.
“Mags sta girando tranquilla. Non ha la minima idea che i Giochi stanno per finire” disse Martia, gli occhi costantemente puntati sullo schermo.
Leo avrebbe voluto dirle di non preoccuparsi, che ce l’avrebbe fatta, ma aveva visto ragazzi in gran forma morire sotto i colpi di qualcuno che all’apparenza sembrava innocente e indifeso.
Quando il piano degli Strateghi iniziò, Martia sentì il suo cuore perdere un battito: avevano lanciato Mags, che scappava da uno sciame di Aghi Inseguitori, direttamente contro il ragazzo dell’1.
Gli andò a finire addosso, rotolarono per diversi metri, aggrovigliati in una marea di braccia e gambe. Lui perse il coltello, Mags il suo machete. La prima reazione della ragazza fu quella di iniziare a graffiare alla cieca mentre il ragazzo tentava di liberarsene tirandola per i capelli.
Martia stringeva talmente forte la mano del suo ragazzo che per un momento pensò di potergli fare male. Ma lui se ne stava in silenzio, un’espressione impassibile sul volto. Il suo di viso, invece, trasmetteva ansia, angoscia. Non poteva morire anche quella ragazza, non dopo la fine atroce di Roland.
Ma il ragazzo dell’1 prese una pietra e la colpì direttamente alla tempia. Mags cadde di lato, stordita. Iniziò a trascinarsi via mentre il suo avversario prendeva fiato. Con il sole che era calato riuscì ad acquattarsi dietro un cespuglio e a rimanere immobile fin quando il Tributo, non vedendola, andò via.
Sanguinava, ma non era grave. Poteva e doveva resistere.
Rimase per un po’ accovacciata, prendendo fiato. Poi si alzò e barcollante cercò il machete che aveva perso, ma non riuscì a trovarlo.
La luce della luna penetrava a stento tra i fitti rami degli alberi e, con la confusione provocata dal colpo alla testa, Mags iniziò a girovagare senza meta.
Nel frattempo il Tributo dell’1 e quella del 5 si erano incontrati e, nonostante la vecchia alleanza, si stavano sfidando duramente.
“Oh, no. Cavoli” disse Martia mentre, grazie alle varie inquadrature dell’Arena, riuscì a vedere Seth dirigersi verso Mags. Quest’ultima, sin dalla morte del suo compagno di Distretto, aveva cercato l’altro Tributo per vendicarsi ma non lo aveva trovato. Ora si stavano per incontrare e la lotta non sarebbe stata poco cruenta.
Fu Seth a reagire per primo: le si lanciò addosso e la fece cadere a terra, schiacciandola con il suo peso e facendole mancare il respiro. Stava per prendere il coltello che aveva alla cintura quando Mags lo colpì con un pugno alla trachea. Seth cadde di lato, boccheggiando.
Lei rimase ancora un po’ a riprendere fiato,  poi si alzò e puntò l’unico coltello che le era rimasto alla gola di lui. Gli bloccò le mani e il resto del corpo con il suo peso. “Perché lo hai tradito?” domandò con un filo di voce. Ma il ragazzo non faceva altro che dimenarsi. “Perché lo hai tradito?!” strillò Mags con la voce che le morì in gola per il dolore alla gabbia toracica e per le lacrime che le bagnavano il volto. “Si fidava di te. Eri suo alleato, suo amico…”
Le telecamere inquadrarono il volto di Seth e Martia sentì un brivido lungo la schiena nel vedere come lo sguardo di quel ragazzino fosse diventato glaciale. “C’è solo un vincitore.”
Mags allora gli si avvicinò all’orecchio e sussurrò: “E a vincere non è mai un traditore” e dicendo così gli affondò il coltello nella gola. Il ragazzo emise uno strano suono, come un gorgoglio, poi morì.
Mags rimase inginocchiata accanto al corpo a piangere fin quando nell’Arena non risuonò un altro cannone. Erano rimasti in due.
Con passo deciso si avventurò verso l’altura, dove sicuramente l’attendeva il suo avversario. E quando arrivò lì, a guardarla con un occhio violaceo, il sangue che usciva dalla bocca e un lungo taglio sul braccio sinistro vi era il ragazzo dell’1. Legato alla cintura aveva un pugnale e in mano una freccia mentre il corpo della ragazza del 5 giaceva poco più in là, l’arco ancora stretto in mano.
Mags nascose il suo coltello infilandoselo dietro i pantaloni e si avvicinò con calma.
“Sai, pensavo che la forza fosse tutto, negli Hunger Games, ma non è così” disse il ragazzo dell’1. “Guardala, così fiera del suo arco, ma una volta tolto quello di lei rimaneva poco a niente.” Rideva senza pietà di fronte al corpo della ragazza.
Mags non fece altro che fissarlo attentamente, pronta a qualsiasi mossa. Ma quando lui le balzò addosso fu tutto troppo veloce e ben presto la ragazza si trovò bloccata a terra, con una freccia conficcata nella coscia. Urlò dal dolore, mentre il ragazzo dell’1 cercò di prendere con l’unico braccio che ancora gli funzionava il pugnale che aveva alla cintura.
Martia sentì la disperazione crescere dentro di lei e pregò affinché la ragazza riuscisse a salvarsi in qualche modo. Non poteva morire a così poco dalla fine.
Mags, però, non era stupida. Con uno slancio che gli costò fatica e dolore, riuscì a prendere il coltello che aveva nascosto e con una mossa abile ed improvvisa disarmò l’avversario. Affondò poi la lama nel braccio destro del ragazzo che cadde a terra urlante. Non aveva più modo di attaccarla e rotolò di lato, iniziando a strisciare per tentare di scappare.
Mags rimase al suo posto, lo sguardo rivolto al cielo stellato e gli occhi pieni di lacrime. Poi si alzò a fatica e zoppicò fino al ragazzo che ora implorava pietà.
“Mi dispiace” sussurrò Mags tra le lacrime. “Anche se tu hai ucciso Roland senza pietà, mi dispiace” e gli squarciò la gola.
Un solo rantolo, un ultimo respiro, e il ragazzo non c’era più.
Martia rimase immobile mentre le trombe squillavano, il sole sorgeva sull’Arena e Mags rimaneva rannicchiata in posizione fetale accanto al cadavere.
Un hovercraft la recuperò e Martia sentì un irrefrenabile desiderio di piangere: ce l’aveva fatta. Adesso l’avrebbero curata, le avrebbero sistemato la gamba e ricucito il taglio alla testa. Di quella dura lotta non sarebbe rimasto nulla se non gli incubi nella sua anima.
La gioia era talmente tanta che non si accorse nemmeno di Leo accanto a lei che non faceva altro che parlare e parlare di cose che non riusciva a sentire.
Il suo volto si rigò involontariamente di lacrime mentre realizzava che ce l’aveva fatta a riportare a casa la ragazza.
 
Quella sera, subito dopo la vittoria di Mags, Martia fu impegnata nelle interviste che però le lasciarono abbastanza tempo da trascorrere con Leo.
Passarono di nuovo la notte insieme, e benché sapesse perfettamente che avrebbe dovuto essere triste al pensiero che tra poco lo avrebbe dovuto salutare, non ci riusciva. Nella sua testa risuonava solo lo squillo delle trombe, il volto della ragazza del suo Distretto che seppur bagnato di lacrime e rovinato dallo sporco, dal sangue e dalle ferite era ancora vivo.
Se ne stava sdraiata accanto a lui e fissava il soffitto con un ampio sorriso. Era circa mezzanotte e i festeggiamenti fuori continuavano ancora. “Sono troppo felice.”
“Si vede” rispose lui con un ampio sorriso. Se ne stava appoggiato su un fianco e la guardava, anche lui sorridendo. “Te lo meriti. Hai fatto un ottimo lavoro con lei.”
Martia rimase un attimo in silenzio. “Forse hai ragione. Forse non devo solo pensare agli aspetti negativi della cosa. Infondo solo uno ne poteva tornare, perché dovrei dannarmi così tanto? Ho fatto il possibile, meglio di questo non c’era niente. Lei è intera, tornerà a casa, io tornerò dalla mia famiglia e tutto andrà bene.” Si voltò a guardare il ragazzo che sorrideva ancora e la guardava con lo sguardo più dolce che lei avesse mai visto. Si rese conto di quant’era fortunata ad averlo con lei, e poi realizzò che aveva dimenticato di inserirlo tra la lista delle cose belle. Anzi, lo aveva escluso dicendo che era felice di tornare a casa. “Non fraintendermi” aggiunse subito. “E’ fantastico stare qui, ma mi manca casa mia, i miei fratelli, la mia amica… Tu sei meraviglioso ma quello è il mio posto, non questo.”
L’espressione di Leo non mutò, ma divenne piuttosto forzata. “Lo so, ti capisco benissimo. Non hai di che scusarti. Ora andiamo a dormire, domani mattina dovrei andare a trovare Mags e devi essere in ottima forma.”
Spense la luce e l’abbracciò, stringendola forte a sé. Martia non poté far altro che sorridere e accomodarsi tra le sue forti braccia. Passavano però i minuti e lei non riusciva ad addormentarsi. Sentiva una sorta di angoscia dentro di sé, un groppo alla gola, qualcosa che la tormentava e non le dava pace, ma non riusciva a capire cos’era.
Poi udì un sospiro, uno solo, da parte del ragazzo e capì il problema.
Lei, nonostante tutti i mali e le atrocità che aveva dovuto subire – la fame, la miseria, la morte dei genitori e del fratellino, gli Hunger Games – aveva qualcuno su cui appoggiarsi, qualcuno di cui fidarsi, qualcuno che non l’avrebbe abbandonata mai.
Leo, anche se in apparenza aveva vissuto una vita tranquilla, era solo, completamente solo.
E mentre lei sperava di tornare a casa per riabbracciare la sua famiglia e la sua migliore amica, lui sperava che lei tornasse per vederla felice, nonostante ciò l’avrebbe lasciato nuovamente isolato.
Una volta lasciata la città, lei avrebbe tirato avanti in maniera abbastanza felice anche senza quella meravigliosa persona che lui era. Lui, invece, non aveva nessun altro.
Martia sapeva di non essere la persona migliore del mondo, ma sapeva anche che lo era per Leo. Così si rigirò tra le sue braccia fino a ritrovarsi faccia a faccia con lui. Anche se non poteva vederlo perché dava le spalle a la poca luce che penetrava dalla finestra, sapeva che lui la stava fissando.
“Hai un telefono?” chiese lei.
“Un telefono?” ripeté lui.
“Sì, quegli aggeggi che si attaccano al muro o si appoggiano sui mobili e ti fanno parlare con persone lontane.”
“Certo. Perché me lo chiedi?”
“Ce n’è uno anche a casa mia. Non lo uso molto ma se mi dai il tuo numero potrei iniziare a farlo.”
Vide il suo volto muoversi e seppe che stava sorridendo. “Davvero?”
“Certo. Non ho la minima intenzione di lasciarti qui da solo. Ci sentiremo tutti i giorni.”
“Va bene” acconsentì lui dandole un bacio sulla fronte.
Ce l’avrebbe fatta. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non abbandonarlo lì da solo. Avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere.




Buonasera. Per chi se lo stava chiedendo, no non sono morta. Ho solo avuto molto da fare e molta poca ispirazione. Questo capitolo è stata difficilissimo da scrivere anche perché la seconda parte non doveva essere così, ma l'ho cambiata perchè veniva davvero troppo noioso e non riuscivo a scriverlo. Per il prossimo capitolo ho in mente il ritorno a casa di Martia!
Che ne pensate della storia e di come procede? Fatemi sapere! A presto ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Ritorno a casa ***


Capitolo 21 – Ritorno a casa
 
 
Il mattino seguente, dopo che Leo tornò a casa, Martia andò a far visita a Mags.
L’avevano rimessa in sesto, come facevano con tutti i vincitori, ma poté vedere che dentro la ragazza era a pezzi. La guardava con sguardo vacuo e sembrava non capire appieno cosa stava succedendo.
La guidò all’albergo e le fece compagnia mentre il suo staff faceva le prove per il vestito, il trucco e i capelli per la premiazione di quel pomeriggio. La sera, poi, sarebbero partite.
“Come hai fatto?” disse ad un tratto Mags, lo sguardo fisso nello specchio mentre le sistemavano l’acconciatura. “Più mi guardo in questo specchio e più non mi riconosco. Come mi ripresenterò a casa? Con questa faccia?”
Sembrava sul punto di piangere. Ma Martia capiva perfettamente cosa intendeva. “Sai, anche io me lo chiesi. Credevo che la morte di quei ventitre ragazzi fosse colpa mia, credevo che loro non c’erano più perché ad essere viva ero io. E invece col tempo ho capito che non avevo scelta, perché avevo qualcuno che mi aspettava a casa e dovevo tornare per loro. Tu hai qualcuno?”
La ragazza esitò. “Mia madre, mio padre…”
Si chiese com’era possibile che quella ragazza fosse per lei una completa sconosciuta. Vivevano nello stesso Distretto, avevano la stessa età ma a malapena si erano incrociate qualche volta per strada. “Saranno contenti di vederti” disse. “Non importa quanto tu ti senta diversa, loro ti vorranno bene lo stesso.”
Trascorse tutta la giornata con lei, fin quando dopo mangiato non iniziò a prepararsi a sua volta per l’ultima cerimonia prima del ritorno a casa.
 
“Allora? Vuoi mangiare si o no? La cuoca ha cucinato apposta il tuo piatto preferito” disse sua madre fulminandolo con lo sguardo.
“Non ho molta fame…” rispose Leo rigirando il cibo nel piatto.
Odiava stare a casa quel giorno: primo, suo padre, finiti gli Hunger Games, se ne stava tutto il tempo lì; secondo, non poteva vedere Martia; terzo, era l’ultimo giorno che lei rimaneva a Capitol City.
“Ti faccio preparare altro?” domandò sua madre.
“No, grazie… Voglio solo… Andare a stendermi un po’…” e dicendo così si alzò da tavola, pronto a sgattaiolare in camera sua.
“Allora, visto che non stai bene, forse è il caso che tu non venga alla premiazione stasera” disse suo padre, con finto tono neutro. A quanto pare sua sorella aveva ragione: aveva capito qualcosa.
“Io sto bene” protestò lui voltandosi di scatto.
“Allora dovresti mangiare” continuò il padre con un sorriso maligno sul volto.
Leo aprì la bocca per rispondere ma dalla sua gola non uscì neanche un suono. Cosa doveva dirgli? Nemmeno lui lo sapeva. Non aveva voglia di inventare scuse, compromessi o altro per fare quello che gli pareva.
“Ehi, ehi, ehi. Fermi tutti” intervenne Lana addentando una grossa mela verde. “Lui stasera viene, anche in coma. Non m’interessa quale grave malattia ha. Mi hai capito bene?” disse poi rivolgendosi a lui.
Leo annuì, ma l’intervento del padre fu repentino. “Penso tu mi debba qualche spiegazione.”
“Verin doveva farmi vedere una cosa e se lui non esce probabilmente non lo farà nemmeno lei, quindi addio a quel fantastico prodotto per capelli. Quindi scordatevi tutti la possibilità che lui rimanga qui stasera. Viene anche da cadavere a quella festa.”
Ci fu un attimo di silenzio, poi Leo disse: “Lana ti aspetto in camera mia. Così mi dai una mano a scegliere qualcosa per stasera.”
Mentre andava nella sua stanza sentì sua sorella strillare: “Evviva, finalmente mi chiede una mano per il look! Il suo è davvero pietoso…”
L’aspettò con ansia e, quando varcò la soglia, chiuse in fretta la porta per bloccare poi la sorella con un braccio contro al muro: “Quali sono le tue intenzioni, parla!”
Lei rise, quel sorriso pieno di diamanti che lui tanto odiava. “Stai calmo, fratellino. Ti stavo solo aiutando.”
“Perché mi aiutavi? Cosa diavolo vuoi ancora?” sibilò lui con rabbia.
“Nulla. Anche se vedere la reazione di papà che scopre tutto sarebbe qualcosa di impagabile ho preferito mandare la cosa per le lunghe. Dopotutto è l’ultima sera che puoi vedere la tua amata o sbaglio?”
Leo sentì l’istinto di darle un pugno in faccia e spaccarle quel sorriso beffardo. Tutto quello che fece fu lasciarla andare. “Sparisci.”
 
Mentre si preparava avvertiva un’ansia crescente dentro di sé. Aveva voglia di piangere mentre si guardava allo specchio: giacca, cravatta, capelli allungati all’indietro, scarpe tirate a lucido…
Non era mai stato così elegante.
Un peccato, dato che tutto sarebbe stato rovinato dalla fine di quella serata.
“Mamma, io esco” disse avviandosi verso l’uscita.
“Sbaglio o mancano ancora due ore all’inizio della serata?” intervenne il padre.
“Sì, ma volevo passare prima da Verin” si scusò lui.
“Va bene. Ci vediamo lì.”
Uscì di casa velocemente, fiondandosi verso l’albergo di Martia. Non avrebbe perso un solo altro minuto di quelli che poteva trascorrere con lei.
La ragazza lo aspettava, già vestita e truccata. Indossava un abito blu che risaltava perfettamente sulla sua pelle candida e che si sposava magnificamente con il colore dei suoi occhi. “Sei bellissima” disse lui chiudendo in fretta la porta e tirandola a sé per un bacio.
“Grazie” disse lei con un grande sorriso. “Tu stasera sei ancora più elegante, o sbaglio?”
“Non sbagli. Posso usare il telefono?” domandò Leo correndo verso l’apparecchio. Martia fece spallucce e lui compose in fretta il numero del centralino, per poi invitarlo a chiamare a casa della sua amica. “Ciao, Verin” disse quando la ragazza rispose. “Stasera verrai alla serata? Ti conservo un posto accanto a me.”
La sua felicità fu immensa quando la ragazza rispose che ne sarebbe stata entusiasta. Una volta terminata la conversazione spiegò a Martia il perché la presenza della sua compagna era fondamentale. “Mio padre non deve sospettare nulla.”
Per tutta la serata, però, gli fu difficile non guardarla troppo, non baciarla, non tenerle la mano o altro. Se ne stavano dapprima l’uno di fianco all’altra, poi seduti vicini, ma senza mai un contatto.
Ma proprio adesso che sapeva che non l’avrebbe rivista più voleva stringerla forte.
Invece si limitò a parlarle, sorriderle e guardarla per tutto il tempo.
La festa per l’incoronazione di Mags terminò verso le nove circa e in molti si diressero alla stazione, per dare l’ultimo saluto alla Vincitrice.
Verin rinunciò all’opportunità, ma Leo fece finta di tenere molto a quella ragazza e seguì Martia.
Sentiva un enorme groppo alla gola, un dolore allo stomaco come se qualcuno lo avesse colpito.
La folla era grande e Mags a stento riusciva a passare, zigzagando tra le persone e firmando autografi con Julio al suo fianco. Martia se ne stava più dietro, aspettando che la folla si allargasse un po’ per poter passare col vestito e i tacchi, per paura di cadere.
Leo invece era fermo all’ingresso della stazione e fissava la sua schiena scoperta e i suoi capelli senza distogliere un secondo lo sguardo.
Mancava poco, Mags stava quasi per salire. Leo capì che se voleva salutarla quello era l’unico momento che aveva a disposizione.
S’incamminò verso di lei con passo sicuro, attento a non urtare nessuno. Le passò accanto e, in un soffio, le sussurrò all’orecchio: “Vieni con me.”
La ragazza si voltò, sorpresa, ed esitò prima di seguirlo in disparte, nel corridoio che portava alla sala d’attesa e poi ai bagni. “Pensavo fossi andato già via” disse lei quando il ragazzo si fermò.
“Senza salutarti? Mai” rispose lui aggiustandole una ciocca di capelli che le era sfuggita dalla pettinatura.
Martia abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello di Leo. “Mi mancherai.”
“Anche tu” disse lui abbracciandola forte.
La ragazza ricambiò l’abbraccio ma poco dopo si discostò, per poi alzarsi sulle punte e baciarlo.
Leo cercò di fissare nella mente quel momento: le labbra morbide di lei, il profumo dei suoi capelli, la sua pelle liscia e calda e la stretta delle sue braccia intorno al collo. Voleva ricordarli, in modo da avere qualcosa a cui aggrapparsi quando sarebbe stato solo.
“Tornerò, non appena possibile. Te lo prometto” disse Martia, stavolta guardandolo negli occhi.
Avrebbe ricordato anche quelli: blu come il mare, blu come le ciocche che aveva fatto ai suoi capelli e blu come il suo colore preferito. Avrebbe voluto dirle che avrebbe cercato anche lui di andare da lei il prima possibile, ma non credeva sarebbe mai capitata un’occasione.
“Devo andare” disse lei allontanandosi.
Leo sentì come una scossa lungo tutto il suo corpo, il panico che prendeva il sopravvento su ogni suo muscolo, l’irrefrenabile desiderio di correre via con lei, nascondersi dal mondo per sempre e vivere felice. E poi due parole nella sua testa. Rimbombavano senza dargli pace, facendogli battere il cuore a mille. Ora o mai più, pensò.
“Aspetta!” disse fermando la ragazza. “Io…”
Quelle due parole gli stavano sconquassando il cervello.
Lei ora lo guardava, interdetta, pronta a sentire quello che aveva da dire e poi andare via.
Due parole: ti amo.
Voleva dirglielo, perché lo sentiva davvero. Lo sentiva in quel momento più che mai perché si era accorto di quanto fosse importante ora che andava via. E se era la paura a parlare? L’ansia? E se quelle parole l’avessero spaventata? Se non fosse stata ancora pronta? No, non poteva dirglielo.
“Io… Ti aspetterò” concluse con un sospiro.
Le parole non detto gli lasciarono un sapore amaro in gola mentre lei gli sorrise, per poi andarsene.
La guardò salire sul treno, le porte chiudersi, la folla esplodere in un boato. Martia accanto a Mags, vicine al finestrino, salutavano la folla con finti sorrisi.
“Ti amo” sussurrò Leo guardandola da lontano, le mani lungo i fianchi, impotente. Lei da dietro il vetro guardava dritto verso lui, ma era troppo lontana per capire cosa aveva da dire.
Un secondo dopo il treno era partito e i loro sguardi si separarono.





Eccomi di nuovo! Tornata alla carica con questo capitolo che non sapevo se continuare o far finire qui. Volevo aggiungere un altro pezzo, anzi altri due, ma credo che poi sarebbe diventato uno sproloquio noioso e strappalcrime in quanto ci saranno più momenti di riflessione ora e avevo paura che il tutto diventasse troppo noioso. Inutile dire che mi stavo quasi commuovendo nello scrivere questo capitolo che spero vi sia piaciuto perché ci ho messo davvero il cuore scrivendolo. Dico questo capitolo in particolare perché anche io ho una relazione a distanza e so quanto è dura salutare qualcuno che sta andando via (stupidi treni, aggiungerei).
Fatemi sapere cosa ne pensate. Spero di pubblicare il seguito prima, magari venerdì. A presto ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Mania suicida ***


Capitolo 22 - Mania suicida

Martia guardava il paesaggio scorrere rapidamente fuori dal finestrino con i muscoli del corpo totalmente paralizzati. Palazzi, strade, giardini. Tutto si confondeva in una massa indistinta di colori e di forme a causa dell'alta velocità.
Era rimasta da sola nel vagone e non riusciva a trovare la forza di spostarsi da quel posto. Era contenta di poter fare finalmente ritorno a casa, ma d'altra parte non avrebbe voluto lasciare Leo.
D'un tratto entrò Mags con addosso una vestaglia. "Non riesco a dormire" si giustificò e si andò a sedere su un divanetto, sistemandosi tutta raggomitolata tra i vari cuscini. "Le casa dei Vincitori sono altrettanto comode?" Martia annuì. La ragazza la fissò un po', poi la invitò a sedersi.
Convinta del fatto che rimanere in piedi per tutto il tempo non avrebbe cambiato di certo le cose, accettò l'invito, lasciandosi andare sul divano ben imbottito.
"Ti è caduto qualcosa" disse Mags chinandosi a prendere un foglio.
Martia, solo dopo aver visto l'espressione sconvolta di Mags, realizzò che aveva in mano le foto sue e di Leo. Gliele strappò velocemente di mano, rimettendole al loro posto nel piccolo zaino che aveva portato con sé da casa. "Non dovresti impicciarti negli affari altrui."
"E tu non dovresti fare cose del genere" la criticò aspramente Mags. "Cosa credi di fare? E' uno stupido capitolino. La sua gente di ha costretto a uccidere delle persone innocenti e tu in tutta risposta inizi ad amarli? Forse è vero che gli Hunger Games cambiano le persone."
Martia rise, nervosa. "Vuoi sapere se cambiano? Certo che lo fanno. Lo fanno con quelli come te, che predicando a casa l'uguaglianza ma che poi sono i primi a discriminare una persona solo per la sua zona di appartenenza. Lui non è come gli altri, è diverso. E tu, piuttosto, sembri uguale a loro in questo momento."
Calò un silenzio imbarazzante, carico di tensione. Mags si fissava i piedi nudi mentre Martia stava prendendo in considerazione l'idea di lasciare il vagone e abbandonare quella ragazzina lì da sola.
Sapeva che in realtà era sveglia per non cedere agli incubi. Ma del resto a lei cosa importava? Una persona che era capace di criticarla così duramente senza nemmeno conoscere la situazione forse non meritava nemmeno il suo appoggio. Cercò di calmarsi, di non cedere alla rabbia e rimase lì.
Dopo poco la ragazza aggiunse: "Hai ragione, perdonami. E' solo che la rabbia è tanta e... Rivedo ancora Roland. E se penso a quello che gli hanno fatto li vorrei uccidere uno ad uno, vederli soffrire. Io e lui non ci conoscevamo, ma avevamo parlato un po' prima dei Giochi. Era un tipo apposto. Non meritava quello che gli è successo." Martia rimase in silenzio, incapace di rispondere. Non c'era una risposta, non c'erano parole di conforto. C'era solo il silenzio a ricordare chi era stato strappato con crudeltà dal mondo. "Ti ringrazio, comunque" aggiunse lei. "Ti avevo sottovalutato come Mentore, ma immagino che il tuo compito sia anche questo, no? E poi... E' un bel ragazzo."
Involontariamente scoppiarono entrambe a ridere, contente di poter alleviare la tensione.

Leo era rimasto alla stazione più del dovuto. Se n'erano andati tutti mentre lui si era appoggiato al muro sforzandosi di non piangere.
Non poteva piangere, non doveva. Doveva capire che quello era il loro destino e che nulla avrebbe cambiato le cose. Ma purtroppo era una cosa molto difficile da accettare.
Era lì quando arrivarono dei senza-voce guidati da un uomo che stava ordinando loro di scaricare delle merci da un treno da poco arrivato. "Ehi, ragazzo. Cosa ci fai qui?" chiese l'uomo vedendolo.
"Stavo solo... Mi stavo chiedendo una cosa. E volevo sapere se lei poteva essermi d'aiuto" mentì Leo.
"Dimmi pure."
"Con quale frequenza i treni lasciano Capitol City e con quante persone a bordo?" domandò il ragazzo. "Sa, una ricerca per calcolare le spese complessive per i trasporti di tutte le merci."
"Oh, be' i treni si recano una volta al giorno in tutti i Distretti, più volte nel caso ci sia un ordine specifico del Presidente per qualche mansione. Nei Distretti che producono beni alimentari, però, i treni compiono fino a tre viaggi al giorno in alcuni periodi dell'anno. In genere per ogni treno sono presenti una decina di persone. Poi dipende sempre dal carico che hanno il compito di prelevare."
Leo ringraziò gentilmente e andò rapidamente via dalla stazione. Voleva evitare che qualcun altro lo vedesse lì insospettendosi: la stazione di Capitol City, data l'impossibilità dei viaggi, era sempre deserta e sarebbe risultato non poco insolito un giovane errante al suo interno.
Si diresse così al parco, dove lui e Martia si erano sdraiati sull'erba. Si sedette sul terreno umido, non curante del vestito nuovo, non curante della tarda ora e cercò di scacciare i pensieri brutti, inutilmente.
Era lì da poco quando gli si avvicinò un gruppo di ragazzi che riconobbe subito: erano gli amici di Verin. Tra di loro riconobbe Jun e Sen e l'ex fidanzato della ragazza.
Il suo nome era Sinnon e lo ricordava perché era sempre stato uno dei più popolari a scuola. L'unica cosa che condividevano all'epoca era la classe e non erano mai andati d'accordo. Al di fuori della scuola non si erano mai considerati, sia perché Leo non usciva mai di casa, sia perché ogni volta che lo aveva visto era con Verin che lo teneva a freno. Ma quella sera la ragazza non c'era.
"Ehi, sfigato. Da quanto tempo non ci vediamo?" disse lui ridendo e avvicinandosi. "Leo, giusto?"
"Sì, mi chiamo Leo e tutto il tempo che passerò senza vederti per me sarà sempre troppo poco" rispose lui con calma.
Sinnon rise. "Sai, stasera avevo voglia di divertirmi ma non ce l'ho fatta perché non ho trovato una buona compagnia. Mi fai compagnia tu?"
Leo notò che era ubriaco, talmente tanto da urlare senza motivo. "Adesso dovrei andare" provò a dire, ma fu subito bloccato.
"Non ho finito con te" disse afferrandolo per la spalla. "Ti vedi con Verin?" disse d'un tratto diventando improvvisamente serio.
"No" fece Leo, dimenticando il consiglio della sorella per salvarsi la pelle.
"Tu menti."
"Senti io non mi vedo con lei e se ti ha scaricato non è colpa mia." Ma quella frase era sbagliata.
Leo non ricordava nemmeno chi dei due avesse lasciato l'altro, ma quella frase offese il ragazzo che gli si scagliò addosso iniziandolo a colpirlo con forti pugni.
Leo non aveva mai partecipato a una rissa, ma reagire non fu difficile e iniziò anche lui a mandare pugni alla cieca. Si immischiarono anche gli altri due ragazzi, dando man forte al loro amico. Leo fu libero soltanto grazie all'intervento di Jun e Sen che evidentemente, dopo averlo conosciuto, si stavano impietosendo di fronte a quella scena.
I ragazzi se ne andarono, lasciandolo da solo. Non aveva idea del suo aspetto, ma riusciva a vedere il sangue che macchiava la sua camicia.
Finita la contusione in faccia per il padre, adesso aveva qualcosa che era molto peggio.
Sentiva un dolore tremendo ovunque, faticava a tenere l'occhio destro aperto e sentiva il sapore del sangue in bocca. La cosa, però, non lo turbava minimamente: era la prima volta che faceva a pugni con qualcuno e, prima dell'intervento degli altri due, se la stava cavando abbastanza bene.
Era soddisfatto. Iniziò a ridere istericamente sdraiandosi sull'erba. Rimase lì, al freddo che a stento sentiva sulle membra doloranti, fin quando non iniziò a sorgere il sole.
Decise che era ora di tornare a casa, più per la paura di addormentarsi lì per terra che per altro. S'incammino, ma tutti i muscoli iniziarono a fargli male. La mani si erano scorticate e gli dolovano per i pugni, la faccia pulsava pericolosamente. Ora che l'adrenalina stava passando il dolore iniziava a farsi sentire.
Varcata la soglia di casa trovò sua madre in pigiama che lo attendeva: "Ivon!" strillò vedendolo entrare. Suo padre spuntò dalla porta della cucina e iniziò a fissarlo con aria sgomenta, lo stesso fece sua madre. "Cosa hai fatto?" domandò l'uomo squadrandolo da capo a piedi.
"Ho fatto un giro, poi un altro giro. Poi sono andato al parco. E poi mi hanno pestato. Certo gliele ho date anche io ma erano tre contro uno quindi immagino sia normale che abbiano vinto" fece Leo ridendo. La cosa gli sembrava così assurda.
Ma sua madre non lo trovò altrettanto divertente. Iniziò a sbraitare e lo obbligò ad andare all'ospedale trascinandosi anche suo marito dietro.
All'arrivo i medici erano piuttosto perplessi dato che molto raramente avvenivano fenomeni di violenza in città. Secondo Leo ciò era plausibile dato che a nessuno era permesso di pensarla diversamente, perché chi lo faceva veniva emarginato e etichettato come pazzo, e lui ne sapeva qualcosa.
Suo padre, d'altronde, gli fece pressione tutta la sera affinché rivelasse i nomi dei ragazzi.
"Papà alcuni nemmeno li conoscevo, davvero." Le scuse servivano a ben poco. E dopo circa mezz'ora di discussione, all'ospedale arrivò anche Sinnon: anche lui era tornato a casa con un occhio gonfio e una piccola ferita sul mento e i genitori avevano insistito allo stesso modo per farlo curare.
Leo fu felice di trovarsi in una stanza da solo: attraverso i muri riusciva già a sentire la discussione dei suoi genitori e quelli di Sinnon ma soprattutto sentiva quest'ultimo lamentarsi.
Con sua grande sorpresa la porta della sua stanza si aprì ed entrò Verin. "Mi ha chiamata Sinnon, mi ha detto dell'accaduto. Mi dispiace, Leo."
Aveva l'aria agitata e si capiva che era stata svegliata troppo presto rispetto alle sue abitudini: i capelli, invece di essere aggrovigliati in una complicata acconciatura, erano sciolti e arruffati, il trucco molto leggero, quasi inesistente per gli standard e non indossava il suo abbinamento migliore di vestiti.
"Non devi scusarti" disse lui con tranquillità. Gli avevano dato qualche punto qua e là, datogli qualcosa come un antidolorifico e un qualche strano miscuglio da applicare sul gonfiore e già si sentiva meglio. Le cure mediche erano delle migliori, ma il suo aspetto era sempre pessimo: si era guardato nel riflesso di un vetro all'sopedale e aveva constata che davvero era conciato male. Peggio di quanto pensasse.
"Invece sì. Dovevo fin dall'inizio mettere le cose in chiaro con lui. Dovevo dirgli che era finita e che non doveva più immischiarsi e invece non l'ho fatto" continuò lei.
"Non devi preoccuparti. Sai dirmi cosa succede lì fuori?" domandò Leo.
Verin esitò. "Non so se posso dirtelo..."
Leo capì che qualcosa stava andando storto e non era difficile immaginare di cosa si trattasse. "Dimmelo, per favore."
La ragazza sospirò: "Dicono che la colpa è stata di Sinnon, ma i tuoi, oltre a pretendere delle scuse non vogliono più niente. Ma... Sta arrivando il tuo psicologo. I tuoi genitori dicono che avevi un'aria strana quando sei tornato a casa, si sono preoccupati. Dicono che potresti... Be' lo sai." Leo lo sapeva fin troppo bene, ma voleva sentirglielo dire, così rimase in silenzio fin quando lei non preseguì. "Credono tu abbia avuto un crollo psicologico. Quello da cui il dottore aveva messo in guardia i tuoi genitori."
"Lo immaginavo" disse Leo prima di scoppiare in una fragorosa risata. "Lo so, lo so. Adesso se continuo a ridere crederanno davvero che sono pazzo ma non riesco a smettere" disse cercando di contenersi. Il suo nervosismo era alle stelle.
Adesso gli avrebbero detto di nuovo che era pazzo e avrebbe passato nuovamente la sua vita chiuso dentro casa a dover sopportare suo padre e sua sorella.
Verin lo guardò ridere con aria preoccupata, poi bussarono alla porta e il dottor Minos entrò, chiedendo alla ragazza di uscire.
"Sapevo che stava arrivando. Ormai i miei credono che lei sia la soluzione a tutti  i miei problemi" disse Leo smettendo finalmente di ridere.
"Non è forse così?" fece l'uomo sorridendo.
"Non proprio. Anche se la devo ringraziare, non sa quanto bene mi ha fatto seguire questi Hunger Games." Lo disse come se dei Giochi gliene importasse qualcosa. La verità è che non gliene fregava niente, ma senza quelli non avrebbe mai conosciuto Martia.
"Lo dici con l'aria di un fanatico" puntualizzò Minos.
"Oh, non mi fraintenda" si affrettò a dire il ragazzo, rendendosi conto che, da come parlava, doveva davvero sembrare fuori di testa. "Gliene sono grato, ma non più di tanto. Mi ha aiutato in alcune cose ma non in altre. Mi ha portato ad aprirmi con le persone, però mi ha portato anche a venire pestato da tre ragazzi quindi non saprei se considerarla più una cosa positiva che negativa."
Minos lo guardò attentamente, poi rispose con calma: "Sai perché pensano tu sia ancora mentalmente instabile?"
"Perché ridevo mentre una persona qualunque avrebbe pianto?" ipotizzò lui.
"No, perché sono stato io a dirlo ai tuoi genitori" rispose lo psicologo. Leo lo guardò, senza fiatare, tornando improvvisamente serio. "Perché eri lì, Leo? Che ci facevi in giro per strada tutto solo?"
"Facevo un giro, l'ha detto stesso lei. Mi piace camminare."
"Ma perché farlo di notte, da solo. Perché starsene in un parco dove non c'è mai nessuno e non fare un giro per le vie più affollate."
"Volevo vedere le stelle. Lì si vedono meglio. Non c'è tutta quella luce" mentì Leo.
"E perché dopo che ti hanno pestato non sei tornato a casa? Abbiamo parlato con Sinnon, avresti dovuto tornare ore prima e invece hai aspettato così tanto. Perché?"
Leo ci pensò. Perché aveva aspettato? Non lo sapeva. Lo aveva fatto semplicemente perché aveva voglia. "Non lo so."
"Te lo dico io perché: stavi aspettando di morire."
Leo rimase impietrito. Come poteva dire una cosa del genere? Come poteva anche solo pensarlo?
Ma subito dopo comprese tutto: nessuno sapeva l'accaduto, nessuno sapeva di lui e Martia e quindi nessuno riusciva a dare una spiegazione al suo comportamento. E l'ultima volta che aveva fatto qualcosa di simile aveva poi tentato di suicidarsi buttandosi giù davanti a un vasto pubblico. "Non voglio morire."
"E' la stessa cosa che avevi detto a tutti anni fa, ma poi hai dimostrato il contrario."
Possibile che lo volesse davvero? Possibile che lui credeva di stare agendo per pura coincidenza ma nel suo inconscio lui era rimasto sdraiato sull'erba nell'attesa che la morte arrivasse? Era assai improbabile. Mai come allora capì che il suo strizzacervelli si stava sbagliando. "L'ho fatto per una ragazza" disse tutto d'un fiato, sapendo che si sarebbe pentito poco dopo. "Io... Avevamo avuto una discussione e non volevo andare a casa e così ho pensato di fare un giro. Poi ho incontrato i ragazzi e poi non volevo tornare a casa perché sapevo che lei lo avrebbe saputo e si sarebbe precipitata qui."
Minos stava scrivendo le sue parole sul suo fascicolo. "E' la tua ragazza?"
Le parole stentavano a uscirgli di bocca. Sapeva che stava per complicarsi la vita ammettendo che Verin era la sua ragazza senza prima parlarne con lei, ma quali alternative aveva? Farsi rinchiudere con l'accusa di essere pazzo? No, non di nuovo. "Sì, è lei" disse piano guardando fisso a terra.
"Ti voglio vedere per qualche settimana, anche solo una volta. Scegli tu il giorno, ma non mancare. Tre sedute dovrebbero bastare."
Minos lasciò la stanza e Leo non aveva più tanta voglia di ridere. La sua vita si stava complicando fin troppo.




Buonasera a tutti! Eccomi come promesso. Tanto per iniziare vorrei dirvi di perdonare eventuali errori, ripetizioni o altro ma il mio computer è rotto (sono fin troppo sfigata) e ho dovuto prendere in prestito quello di mia sorella ma siccome ho il tempo contato non ho riletto il tutto per bene, quindi non linciatemi!
Arriviamo al dunque: ho riscritto questo capitolo dopo aver perso la parte orginale così come tutta la storia nel mio pc e questa versione la trovo abbastanza soddisfacente anche se molto sintetica. Per il prossimo capitolo che non so davvero quando potrò pubblicare ho intenzione di concentrarmi su Martia, sul suo ritorno a casa e sulla reazione di suo fratello Sam alla notizia di cosa ha combinato la ragazza. Volevo inserirlo già in questo ma non ho potuto tagliare il dialogo con lo strizzacervelli che in futuro sarà molto importante ai fini della trama. Spero vi piaccia! A presto ^^

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Fratelli e amici ***


Capitolo 23 - Fratelli e amici


Il treno iniziò a rallentare. La folla urlante aspettava proprio dietro la porta la nuova Vincitrice.
A Martia sembrava così strana quella situazione: era identica a quando lei aveva fatto ritorno a casa per la prima volta, solo che stavolta era il turno di Mags.
Lasciò scendere per prima la ragazza che corse ad abbracciare i suoi genitori. Poi la folla urlante si complimentò con lei e, quando quasi tutti furono andati via, anche lei scese e si diresse verso casa.
Non c'era nessuno ad aspettarla, così con lo zaino in spalla e i suoi vecchi abiti che aveva indossato la sera prima, tornò al Villaggio dei Vincitori.
Aprì la porta di casa e annunciò: "Sono tornata!"
La testa di Liz, incorniciata dai lunghi capelli, sbucò dalla porta della cucina mentre Erik e Monika si precipitavano giù dalle scale per abbracciarla.
Era incredibile quanto potessero sembrare più grandi dopo solo qualche settimana di assenza. Il piccolo Erik aveva soli sette anni ma era più alto della sua età, mentre Monika ne aveva solo sei e cercava, anche se spesso inutilmente, di sembrare grande come tutti gli altri.
"Ehi, piccoli. Come state?" domandò lei stringendoli forte.
"Bene! Anche se Sam oggi non mi ha fatto andare a pescare con lui. Dovresti dirglielo che ormai sono abbastanza grande!" protestò Erik.
"Be' proprio perché sei grande devi rimanere a casa a badare a Monika e Liz se io non ci sono" rispose Martia, solo per evitare che la discussione col bambino si prolungasse all'infinito.
"Io invece mi sono scocciata di stare a casa. Non vedo l'ora che viene l'inverno così posso tornare a scuola e vedere le mie amiche. Devono sempre aiutare le madri a pulire il pesce in estate, che pizza!" disse Monika.
"La prossima volta aiuta Liz a cucinare, così non ti annoierai" propose Martia. Poi si diresse in cucina, dove mille pentole bollivano sui fornelli e dove sua sorella minore l'accolse con un abbraccio. "Sto preparando un grande pranzo. Verrà anche Issa. Dobbiamo festeggiare il tuo ritorno" disse.
Martia fu felice di aiutarla mentre i bambini tornavano di sopra a giocare. Ne approfittò per parlare di Leo. Le raccontò tutto nei minimi dettagli, attenta a rimanere fedele alla realtà, senza esitare a descriverle attentamente ciò che sentiva quando era con lui.
Anche se lei e Liz avevano ben cinque anni di differenza, lei era molto matura per la sua età e Martia sentiva di poterle raccontare tutto, di avere la certezza che lei provasse a capirla.
Le fece anche vedere la loro foto. "Non sembra male" commentò lei. "Basta che tu sia felice per me, anche se come ben sai potrebbe portare tanti problemi una situazione del genere."
Martia non rispose. Le aveva raccontato tutto così rapidamente perché aveva una domanda che le ronzava in testa da troppo tempo. "Come lo dirò a Sam?" Le sembrava qualcosa di impossibile da fare. "Prima di tutto questo credevo sarebbe stato difficile confessargli di avere un ipotetico fidanzato. Ma adesso che lui è di Capitol City mi sembra assurdo anche solo dirglielo. Lo sai com'è protettivo, dopo tutto quello che è successo. Se fosse per lui nessuno di noi uscirebbe mai più di casa."
"Deve capire che questa è la tua vita. Se tu sei felice deve esserlo anche lui. Alla fine questo Leo è un bravo ragazzo. E poi sei tu la sorella maggiore, non può importi proprio un bel niente" rispose Liz.
La verità era che Sam non sembrava affatto più piccolo di lei. Avevano solo un anno di differenza ma lui aveva la stazza di loro padre, alto e con le spalle larghe e le braccia forti. Lei aveva il fisico di sua madre, di media statura. Così, all'apparenza, lui sembrava essere il più grande in famiglia. E poi era lui a pensare alla maggior parte delle cose.
Dalla morte di Paul e della loro madre, Sam si era caricato le più grandi responsabilità, cercando di alleggerire il peso che già gravava su di Martia.
Dal momento in cui era tornata, che lo aveva visto piangere per Paul, non si era mai lasciato andare. Era sempre stato imperturbabile, anche di fronte alla notizia di un suo ritorno a Capitol City.
Quando spalancò la porta di ritorno dalla pesca, si lasciò sfuggire un ampio sorriso nel vedere sua sorella e corse ad abbracciarla. Martia lo strinse forte, nonostante l'odore di pesce che per lei ormai era odore di casa.
Poco dopo arrivò la sua migliore amica, Issa, e anche altri amici e iniziò il grande pranzo. Il pensiero di Martia, però, era sempre lo stesso. Era ansiosa e non riusciva proprio a mangiare. Così quando Sam si alzò per andare a posare i piatti in cucina, lei lo raggiunse di corsa. "Sam, devo parlarti."
"So che devi, ricordo perfettamente. Non preferiresti aspettare che gli altri vadano via?" rispose lui.
"No, Sam. Devo dirtelo ora. Ti prego." Adesso sembrava disperata, davvero disperata. Suo fratello la guardò con aria preoccupata: quel suo atteggiamento faceva presagire qualcosa di grave. In realtà l'unica cosa che preoccupava Martia era la reazione di lui.
Le prese il volto tra le mani  e la fissò con aria seria. "Cos'è successo?" Gli occhi blu di suo fratello, identici ai suoi, la osservavano attentamente. "Martia se c'è un problema dillo, lo risolveremo insieme."
"Sam... Io..."
"Ti puoi fidare di me, lo sai."
Non doveva dirglielo. Era tutto quello che le passava per la testa in quell'istante. Era una follia. Si sarebbe arrabbiato a morte e avrebbero finito col litigare. Da quanto non litigavano? Da prima che lei partisse per gli Hunger Games. Le circostanze successive avevano impedito loro di allontanarsi o anche solo di discutere. Non poteva rovinare tutto. "Ho un ragazzo ed è di Capitol City."
Aveva pronunciato quella frase tanto velocemente che Sam adesso la guardava con aria confusa. "Tu cosa?! Ho capito male, vero?"
Martia si discostò da lui. "Ecco, lo sapevo."
"Sapevi cosa? Che avrei dato di matto nello scoprire che stai con uno di quegli svitati? Be' non mi sembra una cosa strana" rispose lui, brusco.
"Sei proprio come tutti gli altri. Ti fermi solo alle apparenze" fece lei.
Provò ad andarsene, ma Sam l'afferrò per un polso e la costrinse a voltarsi. "E tu? Non vai forse troppo in là con le cose? Hai forse dimenticato che sono loro che ci lasciano morire di fame? Per colpa loro è morto papà, Paul e la mamma. Perché loro hanno tutti quei privilegi e noi no? Hai dimenticato che sono stati loro a spedirti in un'Arena?"
"Se solo avessi voglia di ascoltarmi mi avresti fatto finire di parlare e io ti avrei detto che il ragazzo di cui sto parlando è diverso dagli altri" protestò lei.
"Oh, be' sono tutti diversi all'inizio. Ma poi? Cosa cambierà? E cosa hai intenzione di fare adesso? Scaricarci qui e scappare via con lui per vivere nella lussuosa capitale?"
Il tono acido di Sam la stava infastidendo fin troppo. "Ecco perché ne ho parlato con Liz e non con te. Lei ha pensato prima di sputare giudizi a casaccio." Si liberò dalla stretta e andò in camera sua, sbattendo la porta. 
Se ne fregava della festa, se ne fregava di cosa avrebbero detto gli altri. Voleva stare da sola.
Avrebbe voluto chiamare Leo, ma non poteva. Si erano accordati che avrebbe telefonato solo di sera, sperando che ora sua fratello non riversasse su di lei la collera impedendole di telefonare.
Era nemmeno un giorno che non si vedevano e già le mancava, terribilmente. Lui adesso sarebbe stato lì al suo fianco, pronto ad ascoltarla o anche solo a stare in silenzio accanto a lei.
Se ne stette sdraiata sul letto, il viso affondato nei cuscini o rivolto verso il soffitto, fin quando non arrivò la sera. Sentì bussare alla sua porta e sentì qualcuno entrare.
Era convinta fosse Liz, ma quando si voltò vide Sam che nella luce fioca del corridoio se ne stava sulla soglia. "Possiamo parlare?"
"Parlare sì, se vuoi litigare puoi anche uscire" rispose lei.
Sam andò a sedersi accanto a lei e rimase un po' in silenzio. "Mi dispiace" disse d'un tratto. "Ho parlato con Liz e mi ha spiegato meglio la situazione." Martia non sapeva cosa dire. Era arrabbiata per il modo in cui l'aveva trattata ma non si sentiva nemmeno nelle condizioni di criticarlo: probabilmente lei avrebbe fatto lo stesso. "E' solo che... Sai bene quanto abbiamo sofferto per tutte le cose che ci sono accadute. E questa non può portare altro che continui problemi."
"Sam io non sto dicendo che ho intenzione di sposare questo ragazzo, di abbandonarvi o altro. E' solo che... Mentre ero lì l'ho conosciuto, lui c'è stato per me, è stato carino e gentile e insieme stiamo bene. Ora le cose non so come andranno, non ne ho idea. Ma non vi lascerò, mai, perché siete voi la mia famiglia. Non chiedo tanto. Voglio solo la vostra comprensione. Questa cosa non cambierà la situazione tra di noi."
Sam la guardò, senza dire una parola. Poi si chinò e l'abbracciò più forte che poteva.

Le dita di Martia tremavano nel comporre il numero. Non aveva mai usato il telefono e l'idea di parlare con Leo l'agitava molto. Quando il ragazzo rispose riconobbe subito la sua voce, ma ne percepì anche la stanchezza. "Ciao" disse lei in un sussurrò.
"Ciao" rispose lui dall'altro lato. Rimasero in silenzio, straniti da quella situazione.
"Il viaggio di ritorno è andato bene, a te come è andata?" domandò Martia.
Leo sospirò e raccontò brevemente gli ultimi avvenimenti. "Sono stato costretto a dire che sto con Verin, spero tu capisca."
In verità lei capiva, ma non accettava. "No, capisco. E' solo che... Adesso cosa succederà?"
"Nulla. Ne parlerò con lei, cercherò una soluzione. Ti prometto che tutto andrà per il verso giusto." Ma Martia rimase in silenzio, la cornetta vicino all'orecchio, incapace di reagire a quella notizia. "Ti farò sapere domani come è andata. Guarda il lato positivo: mi lasciano usare il telefono senza fare nemmeno una domanda." Di fronte al silenzio prolungatò, continuò: "E tu? Ne hai parlato con... Tuo fratello?"
"Sì. Non so dirti se mi aspettavo una reazione migliore o peggiore, ma alla fine è andata."
Stavolta fu Leo a rimanere in silenzio. Aveva tante cose da dire, ma nessuna sembrava adatta alle circostanze né tantomeno gli sembrava opportuno dirle attraverso il telefono. "Prometto che risolveremo questa situazione. In un modo o nell'altro troveremo un modo per essere felici."
"Sinceramente? Non credo ci sia un soluzione. Ci stiamo solo illudendo di poter modificare la realtà, di poter annullare la distanza, le differenze e i confini che ci dividono" rispose Martia, sperando in cuor suo che quello appena detto non fosse vero.

Leo aveva dato appuntamento alla ragazza in un bar poco distante dal centro. Lei si era presentata in perfetto orario e vestita di tutto punto.
"Ciao, vedo che ti sei ripreso alla grande" commentò Verin non appena arrivata.
"Sì, ma se sono qui è solo perché ho fatto qualcosa che non dovevo fare" rispose lui guardando le sue mani che si contorcevano nervosamente.
La ragazza lo fissava attentamente. "Cosa è successo?"
Leo esitò. Poteva fidarsi di quella ragazza? Cosa gli diceva che lei non avrebbe dato di matto e avrebbe spifferato tutto? Ma del resto lei era la sua unica possibilità. "Ti ho chiesto di venire per un motivo preciso. Il dottor Minos credeva che io stessi cercando di farmi ammazzare l'altra sera, ma non è così. Il discorso è che ho trovato una ragazza, ma tra noi le cose sono molto complicate. Ho provato a spiegarlo a Minos ma ho dovuto mentire sulla sua identità perché i miei non devono sapere chi è lei."
"Perché mai?"
"Perché non aproverebbero. Così ho mentito. Gli ho detto che eri tu la mia ragazza." Alzò lentamente lo sguardo, pronto alla reazione di Verin. Lei, invece, se ne stava seduta composta, con una calma sovrannaturale e lo guardava senza batter ciglio. "Me?" si limitò a dire.
"Ti prego non dirmi perché me o cose del genere. Tu sei una delle poche persone di cui posso fidarmi e per questo ho fatto il tuo nome. So che magari a te non sta bene, che tu avrai intenzione di frequentare qualche altro ragazzo, ma almeno per un po' ti sarei grato se solo assecondassi il mio gioco. Anche solo per qualche settimana."
Verin sospirò. "In realtà non ho programmi per quanto riguarda i ragazzi in questo periodo, anzi... A dirla tutta non mi dà nemmeno tanto fastidio quello che hai detto, anche se..." fece una pausa, durante la quale tenne gli occhi puntati direttamente in quelli di Leo. Poi abbassò lo sguardo e disse: "Anche se avrei preferito che fosse reale."
Leo non sapeva cosa dire. Non si aspettava una risposta del genere che ora lo lasciava perplesso e incapace di rispondere.
"Hai ragione, comunque. Ti puoi fidare di me e reggerò il tuo gioco. Ma voglio che tu faccia lo stesso con i miei genitori o con vari amici. Se te le chiedo devi fingere. Non pretendo baci in pubblico o altro, solo la tua parola come conferma. Noi nel frattempo continueremo ad essere amici."
Il cuore di Leo batteva all'impazzata. Gli sembrava impossibile ciò che stava accadendo. "Grazie, davvero. Vorrei tanto poter fare qualcosa per ricambiare."
"In effetti qualcosa c'è" si affrettò a dire lei. "Ma prima voglio che tu risponda con sincerità: è Martia, non è vero?" Gli occhi di Leo ebbero un guizzo improvviso nell'udire quel nome. "Lo sapevo" commentò la ragazza. "Si vede lontano un miglio."
"Ti prego nessuno lo deve sapere" disse lui avvicinandosi a lei per evitare che qualcuno lo sentisse.
Verin sospirò. "Sai, per solo un istante avevo creduto che forse la situazione tra di noi potesse aggiustarsi, migliorare. Comunque puoi fidarti, tranquillo. E devo anche proporti una cosa: ti interessa andare nei vari Distretti?"
Leo pensò di non aver capito bene e si limitò ad osservarla con aria sorpresa. Di fronte al sorriso sincero di lei, non solo capì che quella ragazza era davvero fantastica e che con lei sarebbe stato al sicuro, ma che non gli stava mentendo. "Come, scusa?"
"Se ti interessa conosco un modo per farti visitare tutti i Distretti. Senza la minima esclusione."
"Accetto" si affrettò a dire, senza nemmeno conoscere i piani della ragazza. Era disposto a tutto pur di rivedere Martia.






Buon pomeriggio gente! Premetto che ho riletto il capitolo molto in fretta perché sono con il pc di mia sorella e non  posso trattenermi a lungo, quindi perdonate eventuali errori. Come seconda cosa mi scuso se il capitolo vi sembrerà troppo lungo ma ho deciso di dare un taglio ai capitolo corti, insignificanti e che non fanno altro che allungare la storia. Se a qualcuno turba il dover leggere troppo probabilmente non dovrebbe essere su efp. Quindi... Credo che in cinque capitoli la storia finirà, anche perché ora, dato che Leo e Martia non si possono vedere, non c'è molto da raccontare. Il finale credo vi lascerà molto sorpresi o almeno lo spero. Ringrazio chi continua a leggere e recensire. A presto ^^
 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Un ospite inatteso ***


Capitolo 24 - Un ospite inatteso

Chiunque chiedesse a Martia informazioni sulla sua vita privata, riceveva sempre la solita risposta: nulla di nuovo.
In realtà le novità erano molte e anche importanti, ma al di fuori dei suoi fratelli, di Mags e della sua migliore amica Issa, nessuno sapeva che lei si era innamorata di un giovane di Capitol City.
Anche se non tutti loro ne erano entusiasti, cercarono di accettare la cosa, di non fare domande o commenti. Non era molto difficile, inoltre, dato che lei non parlava di quel ragazzo quasi mai e lo telefonava solamente di sera dopo cena.
Erano passati diversi mesi da quando la ragazza era tornata da Capitol City dopo aver svolto il suo ruolo di mentore e, quel giorno, appariva piuttosto pensierosa mentre fissava il suo piatto di verdure.
"Tutto bene?" si affrettò a domandare Sam, che non la smetteva di preoccuparsi per lei per un solo istante.
"Sì, ma... Mi chiedevo una cosa..." iniziò lei. Rimase un po' in silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto. Poi si ridestò e si rivolse al fratello: "Hai mai visto qualcuno di Capitol City qui al Distretto?"
Sam per poco non si affogò per la domanda. "Certo che no, che domande. Quelli qui non vengono, se non per intervistare i vincitori. Perché me lo chiedi?"
La ragazza tornò a fissare il suo piatto e aggiunse a bassa voce: "Leo dice che in relatà vengono spesso. E dice che ha trovato un modo per venire anche lui qui."
Inutile descrivere la reazione di Sam a quella notizia. Rimase imbambolato per un bel po' di tempo, osservando la sorella in cerca di tracce di un possibile umorismo. Capendo poi la serietà del discorso, disse: "Non credo sia possibile. Se gente con i capelli colorati, trucco a palate e vestiti strambi girasse per la città, credo che ce ne accorgeremmo."
Martia, dal canto suo, non poteva far altro che pensarla nello stesso modo. Ma Leo non le aveva dato altre spiegazioni, le aveva detto solo che era possibile per poi chiudere precipitosamente la telefonata. Erano circa due giorni che non rispondeva al telefono.

Nei mesi che seguirono la partenza di Martia, Leo s'impegnò a essere un bravo finto fidanzato e a sembrare il più normale possibile.
Si recò con assiduità dal dottor Minos, partecipò a varie iniziative con Verin e iniziò a lavorare con lei presso un centro di ricerca locale.
Insieme si occupavano della situazione nei vari Distretti, la studiavano attentamente cercando un modo per aumentare la produttività. Verin sosteneva che era anche compito loro risolvere vari problemi o indagi sul territorio stesso: ricercatori, infatti, venivano spesso inviati a studiare il territorio per individuare eventuali microrganismi dannosi nella frutta dell'11, eventuali batteri pericolosi nelle foreste del 7, probabili agenti inquinanti nelle acque del 4 e per controllare la situazione del bestiame del Distretto 10.
Inoltre vi erano quattro controlli all'anno obbligatori in tutti i Distretti, effettuati tramite un viaggio che prevedeva un'analisi delle condizioni generali del Distretto con conseguente verbale.
Leo poteva essere quasi felice: era finalmente apprezzato dai suoi coetani, sua sorella non lo tormentava più, sua madre era fiera di lui, suo padre non si lamentava più del suo comportamento, aveva Verin con cui passare il tempo e con cui confidarsi, aveva trovato un lavoro e finalmente anche un modo per andare da Martia.
L'unico problema era lei. Non la vedeva e ogni giorno le mancava terribilmente. In molti momenti si riscopriva intento a pensarla, a fantasticare su una loro ipotetica vita insieme, ma poi tutto svaniva di fronte la realtà.
Quando ricevette la notizia che lui, Verin e altri due ricercatori avrebbero compiuto un controllo completo dei Distretti a fine novembre, era al settimo cielo.
La gioia era tanta ma decise di dirlo solo all'ultimo momento a Martia, per sorprenderla, ma lei non sembrò credergli. Sua madre era ansiosa, spaventata dalla prospettiva che il figlio potesse allontanarsi fino a raggiungere le lontane miniere del Distretto 12.
Ma la partenza avvenne lo stesso, in perfetto orario, l'ultima settimana di novembre.
Leo non riusciva a credere che avrebbe finalmente lasciato Capitol City. Sarebbe andato oltre il confine della sua città per un viaggio che l'avrebbe portato anche da lei.
L'ordine in cui avrebbero visitato di Distretti era il seguente: Distretto 1, Distretto 2 e Distretto 4, in quanto tra i più vicini a Capitol City; poi il 3, il 5, il 6 e l'8; infine I Distretti restanti, ovvero il 7, il 9, il 10, l'11 e il 12.
Il tempo previsto per ogni Distretto era di due giorni, durante i quali avrebbero raccolto dati direttamente sul luogo e attraverso un incontro col sindaco.
Era il quinto giorno di viaggio, notte fonda e il treno correva sulle rotaie, diretto verso la costa. Leo se ne stava seduto nel vagone ristorante accanto al finestrino, incapace di dormire. D'un tratto entrò Verin: "Sapevo che ti avrei trovato qui." Ma Leo non le rispose. Non sapeva proprio cosa dirle. Del resto il loro rapporto non era altro che una semplice amicizia, anche se gli altri li credevano profondamente innamorati. Ora, che erano soli, lui non aveva bisogno di fingere. La sua impazienza era palese. "Ho stilato il programma dei nostri due giorni all'arrivo lì. Appena arrivati i nostri compagni andranno a parlare col sindaco mentre noi sceglieremo di quale zona occuparci. Il secondo giorno ci occuperemo del prelievo e delle analisi dei campioni mentre gli altri due ricercatori si occuperanno della registrazione dei dati raccolti nei precedenti Distretti e dal sindaco." La ragazza prese fiato, poi continuò: "In realtà ho già scelto il luogo dove effettuare i prelievi e il primo giorno mi recherò direttamente lì. Così tu potrai stare con... Martia. E poi il secondo giorno mi aiuterai solo nei casi più difficili, poi potrai stare con lei."
Leo ascoltò in silenzio. In realtà aveva voglia di urlare e di ridere in modo isterico, ma non gli sembrava il caso. "Perché fai questo per me? Potrò anche fare tutto il lavoro nei prossimi Distretti ma lo sai che questo scambio non sarà mai equo. Quindi perché lo fai?"
"Perché in passato ti ho ferito più del dovuto. Ed ora voglio far di tutto per rimediare, anche se questo significa farmi del male da sola." Verin lasciò il vagone senza dare al ragazzo la possibilità di replicare.
Avrebbe voluto dirle di non farlo, ma la realtà  era che era proprio ciò che lui desiderava più di ogni altra cosa: essere felice, anche a scapito degli altri.

Martia, dopo una mattinata di pesca molto fruttuosa e una bella doccia calda, se ne stava davanti al caminetto a leggere un libro stesa sul divano. Accanto a lei, sul tavolo, Erik e Monika facevano i compiti. Liz e Sam erano fuori in giardino, alla ricerca della talpa che aveva rovinato i fiori piantati dalla ragazzina.
"Siete dei pazzi a uscire con questo freddo" aveva detto Martia, ma sapeva che sua sorella, da perfetta donna di casa quale era, teneva moltissimo alla cucina, al giardino e all'ordine dell'abitazione.
Quando bussarono con vigore alla porta, la ragazza sobbalzò. Erano rare le visite inaspettate.
Posò il libro e andò ad aprire, ma un piccolo urlo le sfuggì dalla bocca quando si ritrovò dinanzi all'entrata quel fisico alto e slanciato, quei capelli neri, quegli occhi castani e quel sorriso che conosceva bene.
"Mi scusi, signorina. Ero passato per un controllo generale della situazione del Distretto, ma non potevo andare via senza aver prima controllato anche lei." Le sue parole dolci e il suo sorriso ampio fecero sorridere Martia a sua volta, anche se sentiva un certo tremore alle ginocchia. Di fronte alla sua reazione Leo rise, poi aggiunse con aria più seria: "Posso entrare?"
Martia non seppe rispondere. Le parole le morirono in gola così si limitò a farsi da parte per lasciarlo passare, chiudendo la porta alle sue spalle.
Avendo sentito il piccolo urlo della sorella, Erik e Monika erano accorsi all'ingresso. "Chi è lui?" chiese la piccolina squadrandolo con attenzione.
Ma Martia non sapeva cosa dire. Se ne stava imbambolata di fianco alla porta, prendendo grandi boccate d'aria.
Così Leo s'inchinò davanti alla bambina e con un gesto teatrale disse: "Sono un amico di vostra sorella. Non mi aveva detto che aveva una così bella principessa come sorellina."
La bambina diventò tutta rossa e iniziò a farfugliare qualcosa prima di scappare via ridendo. Anche il piccole Erik sembrò volesse dire qualcosa, ma poi si voltò a sua volta e scomparve di corsa.
Martia sentiva il cuore martellargli nel petto. Aveva così tante domande che non riusciva a farne nemmeno una, ancor meno ora che il ragazzo si era voltato a guardarla e le si stava avvicinando con un grande sorriso. "Ciao" disse cingendole la vita con un abbraccio.
A nessuno dei due sfuggì le tensione che regnava tra di loro. Mesi e mesi di assenza non avevano fatto altro che renderli come estranei. Sembrava difficile credere di aver trascorso molte notti nello stesso letto della persona che ora stavano fissando. Chi o cosa garantiva che quelle braccia non avessero circondato un altro corpo e che quelle labbra non si fossero appoggiate a quelle di altri?
Probabilmente farsi tutte quelle domande non avrebbe risolto niente. A Martia bastava la consapevolezza che quel ragazzo aveva oltrepassato i confini quasi invalicabili della sua città per raggiungerla. Così allacciò le braccia dietro il suo collo, si alzò sulle punte e lo baciò, ricordandosi finalmente quanto fosse bella quella sensazione.
Quel bacio, però, non durò molto. Martia si distaccò e, abbracciandolo ancora, lo guardava fisso negli occhi. Leo, dal canto suo, ricambiava lo sguardo e sorrideva con aria felice.
La ragazza non poteva far a meno di pensare mille cose al secondo. Avrebbe voluto dirgliele tutte, ma erano talmente tante. E poi furono presto interrotti.
"Cosa sta succedendo?" domandò Sam entrando dalla porta sul retro con dietro di lui Liz.
Martia, imbarazzata, diventò tutta rossa e si allontanò in fretta dal ragazzo, sistemandosi tempestivamente i capelli. Non stavano facendo nulla di male e lo sapeva, ma tra i tanti modi per presentare a suo fratello il suo ragazzo non c'era di certo quello di farsi trovare avvinghiata al lui nel momento più impensabile di tutti. Leo non avrebbe nemmeno dovuto essere lì.
"Sam... Be'... A quanto pare c'è una sorpresa per me... E anche per te" farfugliò lei cercando di trovare le parole giusto.
Ma il ragazzo non faceva altro che tenere lo sguardo puntato su di Leo. Quest'ultimo, in un disperato tentativo di salvare la situazione, cercando di mantenere il controllo e gli si avvicinò. "Tu devi essere Sam, o sbaglio?" fece tendendogli una mano.
Sam continuò a puntare i suoi occhi dritti in quelli di Leo. "Non sbagli. E tu? Che ci fai qui e cosa vuoi?"
Leo sorrise, nervoso, e ritirò la mano. "Mi chiamo Leo Hampfit. Sono qui per tua sorella. Solo una visita, nulla di più."
"Be' non credo sia il modo più adatto piombare qui in casa mia e avvinghiarsi a mia sorella all'istante."
"Sam!" strillò Martia ritrovando improvvisamente il coraggio. "Modera i modi. C'è stato un grosso equivoco e adesso non mi sembra il caso di fare discussioni."
Sam stava per replicare, ma Leo lo precedette. "No, Martia. Ha ragione." Ci fu qualche istante di silenzio, poi Leo parlò di nuovo. "Mi dispiace di esseremi presentato in questo modo... Sgradevole. Sono qui con le migliori intenzioni e spero tu possa capire. So la tua storia, so quella di tua sorella e di tutta la famiglia e so quanto per te sia importante ciò che ti è rimasto. Forse abbiamo iniziato con il piede sbagliato, ma credo che se mi darai un'occasione riuscirò a rimediare."
Il silenzio regnava sovrano tra quelle quattro mura. I presenti si scambiavano occhiate colme di tensione, fin quando Sam non disse: "Ne parliamo dopo cena. Sempre se vuoi trattenerti qui fino a  stasera."




Salve! So di essere in ritardo, so che probabilmente ci saranno degli errori, ma fino a quando non riavrò il mio computer non posso promettervi di meglio. Ho scritto questo capitolo di getto, in maniera molto veloce e spero che il risultato sia vagamente decente. Mi dispiace ma adesso devo scappare. Al prossimo capitolo ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Rivali in amore ***


Capitolo 25 – Rivali in amore
 
Leo era seduto tra Monika e Liz che lo tartassavano di domande e lo confondevano raccontando vari eventi della loro vita. Il ragazzo, con molta pazienza, cercava di rispondere a entrambe e di prestare attenzione ai loro racconti che riguardavano in particolar modo la scuola.
Martia era di là ad occuparsi della cena, Sam era in giro per casa, mentre il piccolo Erik li osservava di sottecchi da un angolo della stanza.
“Ti piacciono i fiori?” gli chiese Liz.
“Oh, sì. Sono molto belli” rispose lui.
“Il mio colore preferito è il rosso” commentò Monika. “E il tuo?”
“Il blu” rispose lui con un sorriso.
“I fiori che amo più di tutti sono le peonie. Ne hai mai vista una?”
“Sì, certo…” provò a dire prima di essere interrotto ancora.
“Puoi essere mio amico, se vuoi. Martia non si arrabbierà” fece la piccolina.
“Lasciatelo stare” disse Sam entrando nella stanza seguito da Martia che portava una teglia enorme, piena di cibo. “O lo farete scappare dalla disperazione.”
“Stavo solo facendo la sua conoscenza” fece Liz, indignata, andandosi a sedere mentre i più grandi sorridevano della scena.
Monika, invece, non aveva la benché minima intenzione di staccarsi da lui e si sedette al suo fianco anche a tavola.
Leo si trovava a capo tavola, proprio di fronte Sam, e la cosa lo rendeva piuttosto nervoso. Alla sua sinistra c’era Martia, con affianco Erik, che ancora lo guardava in maniera strana, mentre alla sua destra c’era Monika, seguita da Liz.
La cena, però, procedette tranquillamente: Sam rimase in silenzio tutto il tempo, evitando di guardarlo il più possibile. A parlare furono soprattutto le ragazze, intente a raccontare le loro giornate o i loro progetti.
Quando Leo vide Sam alzarsi di scatto, capì che doveva essere arrivata la parte più brutta: “Puoi seguirmi?”
Martia lanciò a entrambi uno sguardo allarmato, ma lui tentò di rimanere calmo: “Certamente.”
Non fu semplice convincere i più piccoli a non seguirli, ma alla fine ci riuscirono e si recarono in quello che doveva essere lo studio.
Sam chiuse la porta e stette per un po’ in silenzio, poi disse: “Sai perché ti ho chiamato quindi senza che ci giriamo attorno. Perché sei qui?”
Dal canto suo, Leo, fu sorpreso nel sentire quella domanda così diretta. A ben vederlo quel ragazzino sembrava già un uomo. “Lo sai, sono qui per tua sorella.”
“So che sei qui per lei. Ma cosa vuoi da lei?”
Notò che stringeva i pugni, forte, tanto che le nocche erano bianche. “Non è come pensi. Non è come gli altri possono pensare.”
“E com’è allora? Com’è che d’un tratto ti innamori follemente di lei tanto da venire qui? Cosa c’è dietro?” fece il ragazzo, aggressivo.
Leo cercò di respirare a fondo. “Ci siamo conosciuti per coincidenza, io e lei. Probabilmente hai ragione nel dire che tutto questo ti sembra folle, perché lo è. Ma tua sorella è tutto quello che ho. So che concezione hai di Capitol City, dei capitolini, di me. Ma non tutto è così, non tutto è sempre così semplice. Io sono diverso dagli altri e tengo davvero a lei.”
“Perché dovrei crederti?” domandò Sam, ora più calmo.
“Non hai nessun motivo di farlo. Non ci conosciamo, è vero. Sono un estraneo per te e non rimarrò più di due giorni. Quindi se non ti vuoi fidare di me ti capisco, ma fidati di Martia.”
Sam si voltò, dandogli le spalle, e quando parlò la voce sembrava leggermente incrinata: “Mi fido di lei e ho deciso di fidarmi anche di te. Ti chiedo solo di non farla stare male ancora. Tu non hai idea di quello che ha passato.”
 
Martia stava aspettando che la conversazione tra Leo e Sam finisse seduta al suo posto. Si contorceva le mani e si chiese se il ragazzo avrebbe conquistato suo fratello con la facilità con cui lo aveva fatto con lei e con le sue sorelle.
Monika non faceva altro che dire che lui adesso era il suo fidanzato e Liz ripeteva instancabilmente che era molto carino e che aveva trovato il ragazzo perfetto.
Se ne stava lì, seduta, immersa nei suoi pensieri cercando di non sentire le sorelle parlare di Leo quando Erik le si avvicinò e picchiò un dito sulla sua spalla. “Cosa c’è?” chiese lei con dolcezza.
Il piccolo aveva quasi le lacrime agli occhi. “Da quando c’è quel ragazzo nessuno mi pensa più… Non mi volete più bene?”
Martia lo fece sedere sulle sue ginocchia e lo abbracciò, rassicurandolo, mentre nella sua mente pensava alla conversazione tra i due ragazzi che era la cosa che, al momento, la preoccupava di più.
Quando la porta dello studio si aprì, Sam ne uscì fuori a passo svelto, aprendo poi la porta di casa e sparendo nel buio della notte. Leo, con molta calma, tornò dagli altri.
“Liz porta i bambini a letto, per favore. E’ tardi” disse Martia.
I capricci non servirono a nulla: pochi minuti dopo erano sopra a infilarsi il pigiama.
“Cosa ti ha detto?” domandò Martia, avvicinandosi a Leo.
Lui le prese le mani e sorrise con dolcezza. “Tranquilla, va tutto bene.” L’abbracciò forte e la ragazza si lasciò andare tra le sue braccia, contenta di averlo di nuovo con sé.
 
La serata trascorse tranquilla: stettero a parlare davanti al camino Martia, Leo e Liz, fin quando la porta di casa non si aprì e Sam ritornò.
“Dove sei stato?” domandò Martia.
“A fare un giro. Avevo bisogno di un po’ d’aria.”
Di fronte lo sguardo del fratello, Leo provò l’istinto di togliere il suo braccio che avvolgeva la ragazza, stringendola a sé, ma non si mosse. Sam lo fissava e, poco prima che Martia potesse fargli ancora domande, disse: “Potresti rimanere qui, stanotte. Se ti va, naturalmente.”
Leo lo fissò, senza sapere cosa rispondere. Gli sembrava così strano quell’invito, soprattutto fatto da una persona che solo poco prima aveva tentato di farlo andare via. “Non vorrei disturbare” si limitò a rispondere.
“Nessun disturbo. Credo che Martia non abbia problemi a farti un po’ di spazio in camera sua” e sentendo quelle parole la ragazza divenne rossa in viso. “Si tratta solo di due giorni, infondo…”
L’improvviso cambiamento di umore di Sam era strano ma anche piacevole.
Martia si sentiva al settimo cielo e, poco prima di andare a dormire, colse un momento in cui il ragazzo era solo per abbracciarlo forte. “Grazie” gli sussurrò.
“Voglio solo che tu sia felice” rispose lui stringendola a sua volta.
Ma nonostante non vi fosse più avversione da parte dei membri della famiglia, Leo trovò enormi difficoltà nel convincersi che quella fosse la cosa giusta.
“Sei sicura? Possiamo vederci domani mattina. Mi sveglio all’alba se necessario…” propose mentre entrava nella stanza della ragazza.
“Zitto e preparati per andare a letto” rispose lei, sorridendo.
“Non ho molto da preparare.”
“Vuoi che ti presti qualcosa di Sam per dormire?”
“No, no. Davvero… Basta così” rispose lui, imbarazzato.
Erano da soli nella stanza di lei. Era grande, illuminata dai raggi della luna e dalla luce soffusa della lampada sul comodino. Nella casa regnava il silenzio, anche se da qualche parte lì dentro Sam era certamente ancora sveglio.
“Dai a me questa” disse Martia sfilandogli la giacca e posandola su una sedia.
Il cuore di Leo batteva a mille. Non riusciva a credere di essere con lei nella sua stanza del Distretto 4. Era tutto magnifico. Lei era magnifica, ancora più di quanto ricordasse.
“Forse…” iniziò a dire avvicinandosi piano a lui. “Forse è il caso che tu tolga anche questa… E questa” disse indicando la cravatta e la camicia.
“Cosa?” fece lui, stordito. La voglia di baciarla era così forte che a stento riusciva a formulare una frase coerente o ad ascoltarla. E poi… Davvero lo stava invitando a dormire a petto nudo?
Lei rise. “Hai capito benissimo. Sei qui per lavoro e non puoi presentarti in maniere disordinata domani, non ti pare?”
Leo stava per risponderle che aveva altri vestiti nella sua camera sul treno e che probabilmente a lavoro non si sarebbe nemmeno presentato, ma poi pensò che forse era meglio godersi quel momento senza ulteriori problemi. Lasciò che Martia gli sbottonasse ad uno ad uno tutti i bottoni, assaporando appieno quel momento di intimità. Iniziò ad avvertire un po’ di freddo e fu molto contento quando la ragazza lo invitò ad unirsi a lei sotto le coperte.
Gli mancava quella sensazione di contatto umano, il sentire il corpo di lei vicino al suo, i loro respiri sincronizzati, il battito dei loro cuori e il profumo della pelle di lei.
“Ancora non mi sembra vero…” disse lei.
“Nemmeno io riesco a crederci” continuò lui.
Per entrambi sembrava un sogno. Erano soli, liberi, senza pensieri, ma soprattutto erano insieme. Si addormentarono, tra un bacio e una carezza, contenti anche se consapevoli che quell’incontro sarebbe durato poco.
 
Il mattino seguente si svegliarono di buon’ora e scesero giù. Mentre Liz andava a scuola con i più piccoli, Martia decise di riordinare un po’ casa, con Leo che le trotterellava dietro.
Sam, che si era svegliato molto presto per andare a pesca, tornò a metà mattinata. “Martia credo che qui ci sia qualcuno per te.” Ad entrare con lui, c’era Verin, senza trucco e senza vestiti appariscenti, mascherata da perfetta persona normale proprio come Leo. “L’ho trovata che girovagava tra le varie case.”
La ragazza sorrise imbarazzata e salutò la ragazza con un cenno della mano. “Volevo solo chiedere una cosa a Leo, se posso.”
“Se vuoi posso venire. Posso aiutarti quando vuoi” si affrettò a dire.
“Ho bisogno solo che tu mi faccia un elenco dei batteri riscontrati nelle acque negli ultimi dieci anni, poi posso cavarmela da sola. Non credo di ricordarli tutti” spiegò la ragazza.
“Oh, certo, subito. Vado a chiedere a Sam un foglio e una penna” fece uscendo dalla stanza.
Martia e Verin rimasero sole.
Quando la relazione tra la prima e Leo non era palese, le due riuscivano a chiacchierare normalmente. Ora, invece, vi era un imbarazzo innaturale. Verin si guardava attorno osservando attentamente ogni dettaglio. Martia fissava lei, senza sapere cosa dire.
“Come sta Leo? Intendo… Nella vita di tutti i giorni. Se la cava bene?” disse d’un tratto.
“Oh, sì” rispose l’altra. “Forse finalmente ha trovato il suo posto.” Ci fu un attimo di pausa, poi continuò. “Ascoltami, non voglio che si creino incomprensioni: io e Leo siamo solo amici, niente di più. Facciamo finta di stare insieme solo perché conviene a entrambi.”
“E tu che vantaggio ci guadagni?” domandò Martia avvicinandosi, circospetta. “Sei una bella ragazza, popolare, ricca… Potresti avere chiunque in città. Perché accontentarsi di uno pseudo fidanzato?”
Verin sorrise. “Sei perspicace, sai? Ad ogni modo hai ragione, potrei avere benissimo qualsiasi altro ragazzo. Il fatto è che non lo voglio.” Interruppe il discorso per vedere la faccia di Martia sbalordita, poi continuò: “Ho sottovalutato Leo, da sempre. E ora sono amaramente pentita. Ma non sono una stupida né tantomeno bastarda: non te lo voglio portare via, ma allo stesso tempo farò in modo che, quando tra di voi sarà finita, io sia la sua unica possibilità.”
“Non credo che il tuo piano funzionerà” rispose Martia.
“Io non ne sarei così sicura” rispose la ragazza. “Non sottovalutarmi ma non credere nemmeno che io sia una persona cattiva. Sono solo abbastanza intelligente da vedere che un giorno tra di voi sarà tutto finito e quel giorno io sarò lì. Non può andare avanti in questo modo.”
Martia avrebbe voluto rispondere, ma in quel momento entrò Leo con in mano una lunga lista. “Tieni. Fammi sapere se manca qualcosa” fece con un gran sorriso. Guardò poi le ragazze, che si fissavano senza distogliere lo sguardo. “Qualcosa non va?”
“Va tutto bene. E’ ora che io vada” e dicendo così Verin lasciò la casa, con lo sguardo di Martia che la seguiva fin quando non fu troppo lontana per riconoscerla.





Buonasera gente! Sono viva e sono tornata per restare (almeno si spera). Siamo vicini alla fine della storia e mi dispiace di aver scritto un capitolo così... vuoto. E' esattamente questa la sensazione che ho quando lo leggo, ma davvero non saprei dire perché e come migliorarlo. Ho riletto e coretto il capitolo precedente, che per motivi già detti non avevo potuto rileggere. Spero la storia vi stia piacendo e vorrei avere qualche vostro parere. A presto ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Tempo al tempo ***


Capitolo 26 – Tempo al tempo
 
Leo osservava attentamente il mare, le sue onde blu che bagnavano la sabbia o che si infrangevano sugli scogli, i gabbiani in volo, le nuvole nere all’orizzonte e inspirava a pieni polmoni l’aria piena di salsedine.
“Non devi preoccuparti per lei” disse a Martia che se ne stava seduta accanto a lui sulla sabbia.
“Facile per te. Quella ragazza ha davvero qualcosa di inquietante: prima è antipatica, poi gentile, poi simpatica e infine si rivela essere il genio del male!” commentò lei.
“Dai, smettila. Verin non è così… Non proprio.”
Avevano trascorso tutta la mattina insieme, avevano pranzato con la famiglia di Martia e girovagato per tutto il pomeriggio. Ora era sera e l’ultimo giorno insieme stava per concludersi.
“Sei soddisfatto?” domandò d’un tratto la ragazza. “Hai visto finalmente l’oceano.”
Leo sorrise. “E’ qualcosa di meraviglioso. E’ terribile e disarmante. Ma comunque meraviglioso.”
Martia stava tentando con tutte le sue forze di non pensare all’indomani mattina, ma era più forte di lei. “Cosa faremo? Cosa faremo per il resto della nostra vita? Continueremo a vederci qualche volta all’anno? Sai che io non posso lasciare i miei fratelli, e tu non puoi venire qui. Quindi cosa si farà?”
“Io…” Leo le strinse forte la mano. “Vorrei poterti dire che conosco la soluzione al problema, ma mentirei. Non ho la minima idea di come faremo, di cosa accadrà… So solo che voglio stare con te e che fino a quando tu lo vorrai io non ti lascerò mai.”
Nonostante tutto, Martia tentò di accontentarsi di quelle parole, nella speranza che il problema giungesse da solo a una soluzione.
Per lei, adesso, l’unica cosa importante era godersi gli ultimi istanti con il suo ragazzo che, dopo l’ennesima notte insieme, la dovette salutare il mattino dopo.
Entrambi si sforzarono di non essere troppo tristi, di sorridere e di pensare positivamente. “Ci rivedremo presto” le disse Leo, fermo sulla soglia. “Te lo prometto. Farò di tutto per tornare.” Era tardi e lui avrebbe dovuto andare via, subito, ma non ci riusciva. “Devo dirti una cosa. Non ho avuto il coraggio di dirtelo l’ultima volta che ci siamo visti ma ora devo farlo, per forza.”
Martia si accigliò. “Cosa mi stai nascondendo?”
Leo aveva un nodo alla gola e una strana sensazione allo stomaco.
Non avrebbe commesso lo stesso errore, non sarebbe andato via senza averle prima detto tutta la verità. In fin dei conti non era una cosa brutta, forse un po’ sconvolgente, ma nulla di più. “Ti amo” sussurrò a bassa voce, tanto che ebbe paura che la ragazza non lo sentisse. “Ci conosciamo da molti mesi, ormai, e volevo dirtelo già da molto tempo, ma non ho mai avuto il coraggio.”
Quelle parole suonavano così strane mentre uscivano dalla sua bocca. Era stata una vera e proprio fatica pronunciarle ad alta voce e ora avvertiva un intenso rossore su tutto il viso.
D’altra parte l’espressione di Martia era indecifrabile. Lo guardava come imbambolata e cercava di dire qualcosa senza riuscirci. Alla fine, rassegnatasi, gli cinse il collo con le braccia e lo baciò con foga. “Ti amo anch’io…” bisbigliò mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
Ma purtroppo era ora di andare via. Si salutarono, un ultimo abbraccio, un ultimo bacio e poi il ragazzo si allontanò, sparendo tra le vie della città.
 
Martia, quel giorno, era intrattabile.
Dopo la partenza di Leo passò circa mezz’ora a girovagare dentro casa, guardandosi attorno come disorientata. All’arrivo dei più piccoli, che iniziarono a chiederle dove fosse andato quel ragazzo, lei scoppiò in lacrime e si chiuse in camera.
Vani furono i tentativi di Sam, Liz e Issa di farla sorridere. La sua amica, in particolare, rimase con lei tutto il tempo saltando un prezioso giorno di lavoro.
Era sera quando Sam piombò nella sua stanza con il volto cinereo: “Martia, alzati subito. E’ un’emergenza. Prendi il telefono.”
La ragazza non ebbe il coraggio di fare domande: nessuno delle persone che lei conosceva nel Distretto usava il telefono. La telefonata poteva solo arrivare da Capitol City. Ma chi poteva telefonarla da lì con urgenza se non Leo?
Scese in cucina, prese la cornetta con mani tremanti e disse: “Pronto?”
Ci fu qualche istante di silenzio, poi una voce melliflua disse: “E’ un onore parlare con lei, signorina. Ormai è tanto che non ci snetivamo, non le pare? E’ stata così impegnata e io anche. Potremmo rimediare subito, se desidera.”
Martia sentì l’aria mancarle. Le gambe presero a tremarle e dovette reggersi al bancone della cucina per non cadere. “Signor Presidente, buonasera. Che piacere risentirla” rispose lei.
“Saltiamo i convenevoli. Sappiamo entrambi che lei non mi stima più dei genitori dei ragazzi morti negli Hunger Games. L’ho telefonata per parlare di affari.” La voce era d’un tratto diventata dura e spietata.
“La ascolto, signore.”
“Be’ in realtà il mio non è altro che un invito a recarsi a Capitol City, nuovamente. Entro l’inizio del prossimo anno, se possibile. Ci sono delle questioni che devono essere discusse faccia a faccia, signorina. Altrimenti qualcosa potrebbe andare storto” aggiunse con un piccola risata.
“Cosa vuole da me?” chiese trattenendo le lacrime.
“Diamo tempo al tempo, signorina. Lei venga qui e io le dirò quello che lei desidera così tanto sapere. Inutile dire che, nonostante questo sia un invito cordiale, lei non deve rischiare di non presentarsi. Sa, sono a conoscenza dei nomi dei suoi fratelli e delle sue sorelle e sarebbe un peccato se qualcuno di loro si ritrovasse per puro caso nell’Arena, non trova?”
Martia faticava a respirare. “Verrò. Appena possibile.”
 
La notizia della sua imminente partenza, non venne accolta benevolmente da Sam e da Liz.
“Questo è il tuo posto! Non puoi continuare a fare avanti e indietro anche quando non ci sono gli Hunger Games!” protestò Sam.
“E poi il Presidente non può influenzare la Mietitura, giusto? Sarebbe contro le regole!” intervenne Liz.
“Le regole le fa lui e se non è giusto questo non lo era nemmeno andare agli Hunger Games. Ma così come non potevo oppormi allora non posso farlo nemmeno ora. E poi non ho fatto nulla di male, sarà una scemenza da Capitol City!” disse Martia.
Ma nemmeno Leo era entusiasta. Divenne subito molto sospettoso, sostenendo che il fatto che non vi fosse un vero motivo era ancora più strano. Ma come poteva opporsi?
Quindi fu costretta a partire, a Gennaio, con una grande paura che non faceva che aumentare con la consapevolezza che Leo le aveva detto che preferiva non vederla se questo significava incontrare il Presidente in circostanze così ambigue.
Rivedere la capitale fu qualcosa di devastante.
Si recò subito dal Presidente, credendo che la questione si potesse risolvere in pochi minuti.
Quando arrivò al suo cospetto, dopo essere stata perquisita da un numero infinito di guardie, lui le sorrise malignamente: “L’ho fatta venire qui perché c’è una persona che desidera ardentemente incontrarla e parlare con lei.”
“Chi?”
“E’ una sorpresa. La aspetta nella sua vecchia camera all’hotel. Una volta che quella persona avrà finito di parlarle, lei è libera di tornare a casa” commentò l’uomo.
Leo aveva ragione: c’era sotto qualcosa.
Tutto questo mistero, questi sotterfugi… Ma voleva andare fino in fondo alla storia, così si recò alla sua vecchia camera dove incontrò una persona del tutto inaspettata.
Ivon Hampfit se ne stava con il suo completo perfetto accanto alla finestra, vicino a lui tre guardie.
“Buonasera” disse Martia chiudendosi la porta alle spalle. “Mi avevano detto di venire qui ma forse ho sbagliato a capire…”
“No, nessun errore” rispose l’uomo con un sorriso gelido. Si voltò poi verso i Pacificatori e disse: “Prendetela.”
La ragazza non ebbe nemmeno il tempo di fare un passo che gli uomini le furono addosso, iniziando a colpirla con calci e pugni e legandole i polsi.




Ehi, eccomi finalmente! La storia inizia a procedere verso la fine e quindi tutto è un po' più veloce. Ho scelto di aumentare il ritmo e saltare molti eventi che altrimenti sarebbero stati solamente inutili e noiosi. Secondo voi come mai il signor Hampfit ha convocato con tanta urgenza Martia? Spero la storia vi stia piacendo. A presto ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Errori ***


Capitolo 27 – Errori
 
Imbavagliata e indolenzita per tutti i calci e i pugni, Martia cercava di soffocare i gemiti di dolore mentre la legavano a una sedia.
Ivon Hampfit guardava fuori dalla finestra con aria tranquilla. Le tre guardie la circondavano e la colpivano non appena cercava di liberarsi.
“E così è qui che tutto ha avuto inizio…” disse l’uomo, rivolto più a sé stesso che alla ragazza. Le si avvicinò con passo deciso e si fermò a pochi centimetri da lei. I loro volti erano vicinissimi. “Mi ascolti attentamente, signorina. Poi potrà parlare.”
Si rialzò e iniziò a passeggiare per la stanza. “Mi sono pentito di non averla uccisa in quell’Arena dopo la sconvolgente notizia che ho ricevuto.” Si voltò a guardarla con disprezzo. “Mio figlio è sempre stato così fragile… Avrei dovuto capire che non avrebbe resistito alle volgari tentazioni di una popolana dei Distretti. Quello che ho scoperto è... umiliante per la mia famiglia. Il Presidente ha acconsentito affinché potessi occuparmi di persona della faccenda. Indovina, posso dare libero sfogo alla mia fantasia.” Le si avvicinò ancora, con gli occhi fiammeggianti e le strinse una mano intorno al collo. “Potrei benissimo farti morire soffocata in questo istante…”
Martia sentì un dolore acuto al collo e faticava a respirare sotto la presa fin troppo salda. Cercò di liberarsi ma una delle guardie le tirò i capelli talmente forte che un grido strozzato le uscì dalla gola. Aveva braccia e piedi legati, la bocca imbavagliata e adesso la testa era reclinata così tanto da farle male e da impedirle qualsiasi movimento.
Pregò in cuor suo di arrivare a fine giornata. Da quando era uscita dall’Arena non si era mai sentita così in pericolo.
Lo Stratega lasciò andare all’improvviso la presa. “Lasciala” disse al Pacificatore, il quale obbedì. L’uomo le si avvicinò di nuovo, ridendo alla vista delle lacrime che le rigavano il volto e del viso arrossato, mentre cercava di respirare normalmente. “Ma che senso avrebbe ucciderti? Ci sarebbero troppe domande e non voglio questa noia. E poi sei una così bella ragazza, così giovane… Meriti una seconda possibilità.” Rise, ancora più forte. “E’ per questo che ti propongo un patto: devi sparire dalla vita di mio figlio, non tornare mai più a Capitol City e io risparmierò la tua vita e quella della tua famiglia.” Fece un gesto rapido con la mano e uno dei Pacificatori le liberò la bocca.
Martia prese una grande boccata d’aria, poi, con grande disprezzo, disse: “Lei è pazzo. Leo inizierà a farsi delle domande se mi comporterò in maniera strana. E poi potrei essere convocata come Mentore.”
“Infatti il tuo compito è quello di lasciare mio figlio, spezzargli il cuore in una maniera o nell’altra. Allora lui sarà troppo distrutto per cercarti ancora. Ed io farò in modo che tu non sia mai più Mentore.”
Martia per un istante assaporò la gioia di sapere che questa cosa avrebbe potuto per sempre liberarla da Capitol City. Avrebbe solamente dovuto sopportare la presenza di quella città, ma non l’avrebbe mai più rivista. Il pensiero di Leo, però, la distruggeva.
Quel ragazzo aveva fatto tanto per lei... Solo con lui era veramente felice e si sentiva finalmente al sicuro. Ma in gioco c’era la sua famiglia, non poteva rischiare.
“Io…” mormorò tra le lacrime. “Io non… Non posso fargli una cosa del genere…”
“Certo che puoi” rispose Ivon Hampfit. “A meno che tu non voglia assistere alla morte di ogni singolo membro della tua famiglia, o almeno di quella che resta. E poi morire tu stessa.”
Martia cercò di trattenere il pianto ma fu quasi impossibile. Non aveva nemmeno la possibilità di nascondersi il viso tra le mani e la cosa era a dir poco umiliante. “Lasci in pace la mia famiglia…” singhiozzò.
“Devi solo lasciare in pace mio figlio. Alla fine vogliamo la stessa cosa: che la nostre famiglie siano salve. Mi sembra uno scambio equo o sbaglio?” rise l’uomo. Poi continuò: “Allora? Accetti?”
Martia annuì, senza alzare gli occhi dal pavimento.
“Bene. Inutile dirti che mio figlio di questo non deve sapere nulla. Inventati qualche storia. Domani mattina un treno ti riporterà a casa. Ti auguro una vita felice” disse uscendo dalla stanza. Poi rientrò, la fissò per un attimo e aggiunse: “Sistematela per bene, ma non uccidetela. Voglio che sia consapevole di cosa siamo capaci.”
“No!” strillò Martia mentre l’uomo chiudeva la porta e i tre restanti si avventavano con una furia cieca contro di lei.
 
Leo era in camera sua, seduto alla scrivania, sommerso dalle carte per il lavoro.
“Non so, Verin… Credo che il lavoro nelle miniere del 12 potrebbe essere ottimizzato se i minatori avessero più tempo libero per loro” disse alla ragazza.
“Il Presidente è stato chiaro, nessuna riduzione dell’orario. Dobbiamo trovare un altro modo” rispose lei dall’altro capo del telefono.
“Va bene. Ci aggiorniamo più tardi sulle novità.”
Una volta chiusa la telefonata guardò l’orologio. Martia doveva essere arrivata da ore ma non aveva notizie di lei.
Era preoccupato per quella repentina convocazione immotivata, ma non poteva permettersi di girare tutta la città alla ricerca di lei.
D’un tratto il telefono squillò. “Pronto?”
“Leo…” disse una voce rotta dal pianto.
“Chi parla?” domandò il ragazzo, irrigidendosi.
“Sono io… Sono Martia…”
Leo sentì il pavimento mancargli sotto i piedi. “Cos’è successo? Dove sei?”
“Ti prego, vieni…” continuò la ragazza piangendo. “Sono sempre all’hotel, la solita… la solita stanza… Ti prego… Fai presto…”
“Arrivo subito” disse lui e senza aspettare un secondo di più chiuse la telefonata e si diresse verso la porta.
“Ehi cos’è questa faccina bianca, tesoro?” disse sua madre incrociandolo nel corridoio.
“Ho dimenticato una cosa a lavoro” biascicò lui.
“Be’ dev’essere qualcosa di molto importante” rispose lei.
Leo però non le prestò ascolto: aprì la porta e uscì di casa. Inizialmente si impose di mantenere il controllo, dicendo a sé stesso che andava tutto bene. Ma la voce di Martia non faceva altro che rimbombargli nelle orecchie e il suo passo veloce si trasformò ben presto in una corsa rapida.
Saltò i convenevoli alla reception e salì di corsa le scale per evitare di attendere l’ascensore.
Bussò alla porta della stanza, ma la trovò aperta.
Entrò con calma, temendo per un istante di aver sbagliato posto perché nella stanza sembrava non esserci nessuno.
Poi vide la cornetta del telefono riversa sul pavimento e capì di non aver sbagliato. “Martia?” chiamò cercando di riprendere fiato.
“Leo” disse una voce strozzata proveniente dal bagno.
Il ragazzo la seguì, trovandosi davanti quella che non sembrava affatto la sua ragazza: era rannicchiata in un angolo, le ginocchia strette al petto e la faccia nascosta dai capelli arruffati; in qualche punto i vestiti erano strappati e diversi lividi erano presenti sulla parte visibile degli arti.
Leo si precipitò al suo fianco, inginocchiandosi. “Cosa ti è successo?”
Ma la ragazza non faceva che piangere e singhiozzare. Lui la strinse forte accarezzandola, sistemandole i capelli e cercando di consolarla, ma ci vollero diversi minuti prima che riuscisse a parlare. “Sono stati dei Pacificatori. Dicono che ho rubato qualcosa da Capitol City, ma non è affatto vero” disse piangendo. Ma fu quando alzò il volto che Leo ebbe un tuffo al cuore: oltre agli enormi lividi, aveva del sangue che le colava dal naso e dal labbro spaccato, senza contare due visibili segni rossi intorno al collo, come se qualcuno avesse cercato di strangolarla.
Leo lottò contro l’impulso di fare domande o di polemizzare. La prese in braccio e la portò nella stanza affianco, facendola appoggiare sul letto. Prese poi un asciugamano bagnato e iniziò a pulirle il sangue dal viso e ad asciugarle le lacrime. “Va tutto bene… Ci sono io adesso…”
Ma nelle mente di Martia quelle parole non facevano altro che farla stare peggio.
Lei avrebbe dovuto lasciarlo appena possibile e quel ragazzo si stava facendo in quattro per lei.
Nel kit di pronto soccorso presente nella stanza, Leo trovò delle medicine e delle pomate che riuscirono subito a darle beneficio.
Si sdraiò accanto a lei, fissandola intensamente. Martia, dal canto suo, non riusciva a guardarlo negli occhi. Come poteva far tanto male a un ragazzo così innocente?
Era ormai sera e si sentiva esausta.
“Come hanno potuto farti una cosa del genere?” le disse Leo accarezzandola dolcemente. Lei si limitò a guardarlo, rimanendo in silenzio. Dopo un po’ il ragazzo aggiunse: “Ti amo, ogni giorno di più.”
Martia avrebbe volto rispondergli che per lei era lo stesso, ma non poteva. Non poteva farlo per poi dirgli pochi giorni dopo che tra loro era finita per sempre. Così lo tirò a sé e lo iniziò a baciare, sempre con più foga.
Provava un dolore terribile nel sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe visto, baciato o semplicemente toccato.
E quando realizzò che quella sarebbe stata davvero l’ultima volta, un pensiero folle le attraversò la testa.
Perché non farlo? Pensò. E’ l’unico ragazzo che io abbia mai amato e che probabilmente amerò davvero in tutta la mia vita. Non avremo mai un futuro insieme, quindi perché non ora?
Le sue mani corsero alla cintura del ragazzo che le bloccò prontamente. Smise di baciarla e la guardò negli occhi. “Martia, io…”
“Non vuoi?” domandò lei.
“Certo che voglio, ma… Sei sicura? Ora?”
“Sono sicura. O con te o con nessuno. E sì, ora. Passerà molto tempo fino a quando non ci vedremo di nuovo.”
“Io… E’ la prima volta, e… Non so…” disse lui arrossendo violentemente.
Martia sorrise, chiedendosi quanto fosse adorabile in quel momento. “Non ti preoccupare” rispose baciandolo. “Siamo nella stessa situazione” aggiunse con una piccola risata.
Anche Leo rise, sentendosi meno a disagio. E si lasciò andare.
 
L’indomani Martia si pentì amaramente di quella notte.
Salutare il ragazzo fu ancora più difficile e faticò a trattenere le lacrime. Leo, che la vedeva turbata, non faceva altro che rassicurarla: “Tranquilla, ci vedremo il prima possibile. Te lo prometto.”
Ma lei sapeva che non l’avrebbe rivisto mai più. Da un lato fu contenta che Leo non sapesse niente: almeno non era costretto a vivere quella situazione straziante come lei.
Quella notte insieme, però, avrebbe creato problemi peggiori di un addio difficile, e Martia lo imparò a sue spese.
Tornata a casa si chiuse in un ostinato silenzio, ignorando Sam che le chiedeva cosa fosse successo e rispondendo di tanto in tanto alle telefonate di Leo, comportandosi sempre in maniera evasiva e rimanendo chiusa nella sua stanza.
Era passato un mese da quando era tornata da Capitol City e non aveva trovato ancora il coraggio di chiudere con Leo. Tutti avevano notate il suo strano cambiamento di carattere. Ma Martia aveva notato qualcosa di molto più strano in lei.
Così una sera, mentre tutti la credevano nella sua stanza, prese il telefono e compose il numero che ormai conosceva a memoria.
“Pronto?”
“Sono io” disse Martia cercando di trattenere le lacrime.
“Ehi, ciao. Come stai?” disse Leo, la voce palesemente sollevata.
“Ascolta devo parlarti” tagliò corto lei.
Lui rimase qualche istante in silenzio. “Lo so cosa stai per dirmi… Mi sono accorto del tuo strano comportamento nelle ultime settimane. Solo che… Dopo quella notte, dopo l’ultima notte insieme, io credevo che più niente ci avrebbe separati.”
Martia lottò contro le lacrime che premevano per uscire nell’udire la voce tremante del ragazzo. “Io non posso reggere più questo peso, questa lontananza… Non posso, davvero… Perdonami…” Le lacrime avevano iniziato a bagnarle il viso e adesso era tutto irrecuperabile.
Anche Leo se ne accorse. “Amore possiamo sistemare tutto… Troveremo un modo…” disse piangendo anche lui.
Amore. Quante volte l’aveva chiamata così? Era forse la prima? Sentì un nodo allo stomaco, voleva quasi dirgli che non voleva lasciarlo più ma poi si ricordò di tutto quello che sarebbe successo, così si limitò a dire: “Mi dispiace. Non chiamarmi mai più, non cercarmi, non venire qui. Faresti solamente del male a entrambi…”
Chiuse il telefono senza pensarci due volte. Sentì qualcuno alzarsi dal salone e venire verso la cucina. Voleva andare via, correre in camera sua, ma i suoi piedi sembravano inchiodati al pavimento.
Entrò Sam che, nel vederla in lacrime, subito si preoccupò. “Cosa succede? Stai bene?”
Martia scosse vigorosamente la testa, poi le gambe le cedettero e si ritrovò in ginocchio. Sam le fu subito accanto. “E’ stato Leo? Cosa ti ha fatto?”
Lei scosse ancora la testa e, tra le lacrime, disse: “Sono stata io. Suo padre ha minacciato di fare del male alla mia famiglia se non lo avessi lasciato… Sam ho dovuto lasciarlo per forza… Non potevo rischiare…”
Sam l’abbracciò e cercò di rimetterla in piedi. “Dai, su. Andrai avanti, proprio come il resto delle volte. Ce la farai.”
“No, Sam. Non posso farcela stavolta…” Ormai era difficile capire cosa diceva tanto il pianto e i singhiozzi erano forti.
“Non dire così. Ce l’hai sempre fatta e…” ma fu interrotto dalla sorella che, a squarciagola, urlò: “Tu non capisci! Stavolta non posso farcela! Sono incinta!”
Per lo shock Sam la lasciò andare a la ragazza cadde di nuovo in ginocchio, il viso coperto dalle mani e un pianto irrefrenabile che la scuoteva tutta.



Buonasera. Ci ho messo una vita a scrivere questo capitolo perché è troppo triste e mi rendeva triste... E poi volevo fosse tutto perfetto per il loro addio. Come al solito ditemi cosa ne pensate, se volete, con una recensione. Siamo al gran finale! A presto :)

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Morte ***


Capitolo 28 – Morte
 
Leo provò ancora una volta a contare i mesi che erano passati dall’ultima volta che aveva parlato con Martia. Erano sette. Non riusciva a credere che fosse tutto vero.
Inizialmente aveva paura di essersi immaginato tutto, ma Verin, in un disperato tentativo di consolarlo, gli aveva detto che era tutto reale e che lei non lo meritava. Ma lui non la pensava allo stesso modo.
Da quando lo aveva chiamato quella sera, non aveva fatto altro che chiedersi dove avesse sbagliato. Eppure gli sembrava che stesse andando tutto a gonfie vele, tranne per il suo comportamento strano. Poi lei lo aveva lasciato, dicendo di non sopportare più quella situazione e dopo non aveva più risposto al telefono.
Inizialmente Leo aveva tentato di essere forte, di sperare che lei cambiasse idea. L’aveva chiamata tutte le sere, ma il telefono squillava sempre a vuoto.
Arrivò così lo sconforto, la disperazione e la depressione.
Leo abbandonò il lavoro, si chiuse in camera sua senza rispondere a nessuno. Le uniche persone con cui parlava erano Verin, che veniva  a fargli visita spesso, e ogni tanto sua madre.
Sua sorella si manteneva del tutto estranea alla faccenda: stava programmando il suo matrimonio e non voleva farsi rovinare nulla da lui. Suo padre non faceva altro che arrabbiarsi e sbraitare e chiedere cosa diavolo gli prendeva.
Adesso che non doveva più fingere, Leo ruppe con Verin e dovette tornare allo studio del dottor Minos per frequenti sedute. Ci andava giusto per far contenta sua madre, ma rimaneva seduto lì senza aprire la bocca.
Sentiva di non aver più voglia di fare niente.
Non riusciva, però, in nessun modo a dare la colpa a Martia. La capiva perfettamente se non voleva più vederlo o sentirlo, ma senza di lei sentiva un vuoto enorme e non vedeva come poteva continuare a vivere in quella città di bigotti.
Era una sera di settembre, una come tante altre. Leo se ne stava in camera sua a guardare gli stupidi programmi televisivi e a chiedersi quando sarebbe arrivato il sonno per porre fine a un’altra giornata schifosa.
Nel sentire squillare il telefono, pensò che doveva essere Verin che lo avvisava di dover prendere parte a qualche festa, e invece dall’altra parte rispose un piccolo sussurro. “Leo? Sei tu?”
“Chi parla?” quella voce maschile era stranamente familiare, ma non riusciva a ricordare a chi appartenesse.
“Sono io, Sam. Devo parlarti.”
Leo per un istante credette di aver capito male. “Cosa c’è? Perché mi chiami?”
“So che ti sembrerà strano, ma devo dirti una cosa su Martia.”
“Puoi parlare un po’ più forte?”
“No!” disse lui in fretta. “Ho poco tempo. Si è addormentata sul divano e se scopre che ti ho chiamato mi ammazzerà.” Leo non aggiunse altro e il ragazzo continuò. “Martia non è stata sincera quando ti ha chiamato mesi fa. Ha deciso di non rivolgerti più la parola perché è stato tuo padre e il presidente a minacciarla di morte se ti avesse ancora sentito. Vi avevano scoperti.”
“Che cosa?!” Leo non poteva crederci. L’uomo in casa sua si comportava come se non sapesse niente e invece sapeva tutto.
“E’ la verità. Lo ha fatto per proteggere noi e sé stessa anche se è stato difficile per lei dirti addio.”
Improvvisamente gli venne voglia di piangere. Suo padre, come sempre, era il colpevole di tutto. Non aveva fatto altro che rovinargli la vita e aiutare il presidente a fare il lavaggio del cervello a tutti, sua madre e sua sorella comprese. “Perché me lo stai dicendo? So che non mi odi ma non vedo il motivo per cui avresti dovuto dirmelo e rischiare tanto” domandò Leo, cercando di trattenersi dall’urlare di rabbia, piangere o qualsiasi altro strano comportamento.
Dall’altro capo del telefono ci fu qualche istante di silenzio, poi Sam disse: “So che lei tiene molto a te… E… E’ incinta. Tra nemmeno un mese dovrebbe partorire e be’… Se io stessi per diventare padre vorrei saperlo.”
Leo rimase immobile. “Come scusa?”
“Devo andare, scusa” e subito chiuse la chiamata.
La cornetta tremava visibilmente nelle sue mani, attraversate da un grande brivido. Era troppo da reggere per una sola sera.
Aveva voglia di raggiungere suo padre, picchiarlo selvaggiamente e poi andare via di casa. Ma a che scopo? Non avrebbe risolto niente. Così compose il numero e chiamò Verin: “Ho bisogno di parlarti.”
 
Quando Sam sentì bussare alla porta, non si sarebbe mai aspettato di trovarsi davanti Leo. “Cosa diavolo ci fai qui?” chiese sbalordito.
“Posso entrare? Non è il caso che io rimanga qui fuori col rischio che mi vedano” disse lui.
Sam annuì e lo fece entrare.
La casa era in uno strano silenzio. Sembrava totalmente vuota, come abbandonata. Leo cercò di vedere i bambini mentre correvano come al solito per vedere chi fosse l’ospite. Ma nessuno comparì dalla cima delle scale o da una delle porte che affacciavano sull’ingresso.
“Perché sei qui? Sai che è pericoloso” sibilò Sam.
Leo gli passò un foglio dove era riportata la notizia del suo suicidio: con l’aiuto di Verin, di un veleno e delle tecniche avanzate di Capitol City, erano riusciti a simulare il tutto e, grazie ai soldi, aveva comprato un passaggio per il Distretto e la discrezione del macchinista. Anche se un po’ perplesso, Sam gli disse di seguirlo. “Martia è di qua.”
La ragazza se ne stava seduta sul divano, le mani appoggiate sul ventre e lo sguardo perso nel vuoto. Non si accorse che erano entrati fin quando Sam non la chiamò. Lei si voltò con aria assente e li osservò per un bel po’ prima di rendersi conto della situazione.
Non era rimasto nulla della ragazza forte che era uscita dall’arena. Sembrava solo un corpo vuoto e inabitato. Perfino quando andò da Leo e lo abbracciò, in lacrime, sembrava tutto essere studiato meticolosamente e per niente spontaneo.
Ma con il passare dei giorni, con Leo che si prendeva pazientemente cura di lei e che non la lasciava mai sola, impegnandosi per farla sorridere e divertire, sembrò riprendersi e tornare la ragazza di prima.
Il parto, però, arrivò con qualche settimana di anticipo. Nessuno se lo aspettava e la corsa per andare a chiamare l’unica persona abbastanza vicina nel Distretto che ne capisse di questo genere di cose fu repentina.
Le urla strazianti di Martia erano udibili per tutta la casa. I più piccoli furono mandati dai vicini e, accanto a lei, rimasero solo Leo e Sam per supportarla.
Il travaglio durò molto, ma alla fine la donna che assisteva Martia fu felice di annunciare che era nato un maschio.
“Hai sentito? E’ un maschio! Non abbiamo ancora pensato a nessun nome, tu hai qualche idea?” disse Leo tutto eccitato alla ragazza che cercava di riprendere fiato.
Sam, invece, si fiondò accanto al bambino, per vedere come gli prestavano le prime cure.
“Non… Non lo so… Io… Non sto bene… Mi sento… Male…” Martia faticava a tenere gli occhi aperti.
Leo, allarmato, chiamò subito aiuto. “Qualcosa non va!”
La donna, fortunatamente, riuscì a giostrarsi e a prendersi cura sia del bambino, che ora piangeva tra le braccia di Sam, e di Martia che aveva perso i sensi.
“Cos’ha?! Cosa le succede?!” gridava furioso Leo.
La donna era terrorizzata. “Credo ci sia un’emorragia, credo… Io non so cosa fare… Non sono attrezzata e non ho mai fatto nulla del genere.”
Leo la guardò senza dire una parola. Fu Sam che ebbe il coraggio di parlare: “Mi sta dicendo che devo starmene qui a guardare mia sorella morire?”
“Mi dispiace…” mormorò la donna.
“No!” strillò Leo alzandosi in fretta. “Non morirà, non può morire!” Corse in cucina e fece l’unica cosa che gli venne in mente: chiamare suo padre.
Non gli diede il tempo di parlare che gli raccontò tutto per filo e per segno, dal suo finto suicidio al bambino. “Papà, devi aiutarmi, ti prego! Altrimenti Martia morirà! Fallo per me, per tuo figlio! O almeno fallo per tuo nipote!”
Il padre stette qualche secondo in silenzio, poi disse: “Per me lei e tutta la plebe possono morire. Servono solo al sostentamento di Capitol City. E tu non sei mio figlio, non dopo quello che hai fatto.”
Chiuse il telefono e Leo rimase inchiodato al suo posto, senza poter fare altro che rassegnarsi all’evidenza: Martia non aveva possibilità di sopravvivere.
 
Era passata una settimana dalla nascita del bambino e la casa era nel più totale caos: vi erano scatoloni pieni di vestiti e oggetti e gente che camminava ovunque.
Avrebbe dovuto essere una piccola cerimonia in onore di Martia, non come un funerale, ma solo un piccolo ritrovo per chi le voleva bene, e invece sembrava una festa dai toni morti e in uno scantinato.
Liz se ne andava girando cercando di tranquillizzare il neonato ancora senza nome; Monika e Erik se ne stavano seduti in un angolo e gli era stato detto di rimanere fermi e immobili; Sam e Leo ricevevano le visite nell’ingresso, mentre Issa, accanto a loro, piangeva e non faceva altro che chiedersi come poteva essere possibile.
“Sopravvivere agli Hunger Games per poi morire così? E’ assurdo!” e poi “Non trasferitevi dall’altro lato del Distretto… Siete l’unica cosa che mi ricorda lei…”
“Dobbiamo” si limitò a dire Sam. “Capitol City rivuole la sua casa ora che non c’è una vincitrice tra di noi. E lì le case sono più economiche… Perciò…”
Leo non faceva altro che guardare la gente attorno che li commiserava e che cercava di esprimere in qualche il modo il lutto, ma era impossibile. L’unica che se ne andava tranquillamente girando per casa era Mags.
La vide scendere dal piano superiore e le disse: “Non puoi salire sopra, che ci sei andata a fare?”
Mags alzò le spalle. “Un giro” si diresse poi alla porta, ma prima di uscire tornò da Leo: “Io so come stanno veramente le cose, capitolino.” Lasciò la casa ridendo e non facendo altro che voltarsi in continuazione a salutare come se stessero partendo per una gita.
Leo pensò che c’erano solo due possibilità: quella ragazza o era pazza o era un genio.





Buonasera a tutti. Eccoci, finalmente all'ultimo capitolo. Premessa: era molto più lungo ma ho dovuto ristringere i tempi perché, scrivendo due capitoli, sarebbero venuti troppo corti, ma facendone uno solo era troppo lungo e noioso a mio parere. Nella versione "originale" c'era descritto il finto suicidio di Leo, la situazione tra Leo e Martia al loro incontro e anche un dialogo un po' più lungo tra Mags e Leo. Comunque... Appena avrò tempo aggiungerò un piccolo epilogo ambientato molti anni dopo per concludere la storia.
Cosa ve ne pare? Delusi? Contenti? Non so, ditemi voi! Acceto benissimo le critiche :)  a presto ^^
Ps. non sono un'assassina!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Epilogo ***


Epilogo
 
La signora Hampfit stringeva il foglio di carta tra le mani con una forza inaudita e cercava di asciugarsi le lacrime che le rigavano le guance prima che potessero bagnare la foto.
 
Ciao mamma,
Siamo nel 13 e tutto va bene. Avevi ragione, qui ci hanno accolto a braccia aperte nonostante tutto. Siamo arrivati con grande fatica con tutte le guardie ai confini del Distretto e tutti gli imprevisti nei boschi, ma alla fine ce l’abbiamo fatta e solo grazie a te.
 
Ricordava ancora lo sconforto nel vedere il cadavere di suo figlio steso per terra. Poi la notizia della sua morte solamente inscenata che le aveva procurato non pochi dubbi. Era stata una madre così pessima da costringerlo a fuggire? Era forse più importante quella ragazza di lei?
 
Vorrei dirti grazie, ma non trovo le parole. Senza di te Dylan, Erik, Monika, Liz e lo stesso Sam rischiavano di finire negli Hunger Games. Ma tu li hai salvati, ci hai salvati tutti. Senza contare che hai concesso a Dylan una delle cose più belle del mondo: una mamma.
Sono stato troppo duro con te, forse. Magari in un’altra realtà saremmo andati d’accordo, in un posto senza Hunger Games, senza morte… Senza papà.
 
Ma la cosa a farla sentire ancora peggio era stata il rifiuto di suo marito nel voler aiutare Leo. Era strisciato di soppiatto in cucina e le aveva raccontato del Distretto 4, della relazione che il loro figlio aveva con Martia, della telefonata di aiuto e del suo rifiuto.
“Ma… E’ solo un ragazzina…” aveva protestato lei.
“Una ragazzina che doveva morire negli Hunger Games” protestò suo marito.
Solo allora si era accorta del mostro che aveva sposato, della crudeltà di quella società e degli Hunger Games, e solo allora capì di averne fatto parte. Cosa aveva quella ragazza di diverso dagli altri Tributi morti? Niente. Ma ora che l’aveva conosciuta, ora che sapeva che era così importante per suo figlio non voleva che morisse, non voleva più gli Hunger Games, non voleva più essere la stessa persona di prima.
 
Prometto che ti scriverò ogni qual volta sarà possibile, anche se credo che le lettere faranno fatica ad arrivare lì. Ci sono una decina di persone che si recano a Capitol City grazie a un patto segretissimo con il Presidente, ma non sono disposti a fare nessun favore se non per soldi. Non ti dispiace accollarti le spese, vero?
 
Doveva salvare quella ragazza.
All’oscuro di suo marito, ordinò a uno staff di medici di recarsi lì, fare il possibile per curarla e di non badare a spese. Aveva inoltre fatto consegnare una lettera a suo figlio, nella quale rivelava la verità sul Distretto 13, cosa che era saputa solo da poche persone e che aveva scoperto frugando tempo prima tra i documenti del marito. Ma tutto doveva rimanere segreto.
Così i medici si presentarono fingendo di dichiarare la morte della ragazza e obbligando gli altri al trasloco e tutti si sarebbero trasferiti nel 13, fingendo di essersi spostati dalla parte opposta del Distretto 4.
Era tutto calcolato.
Ma dopo la notizia dei medici che Martia era viva, non aveva più avuto notizie e temette che li avessero scoperti nell’attraversare i boschi o nello scavalcare la recinzione. Alla fine, però, la lettera era arrivata e con essa una foto che inquadrava tutta la famiglia: Leo e Martia al centro, abbracciati, con il figlio Dylan tra le braccia; accanto a loro un ragazzo che doveva certamente essere Sam; davanti a loro i due piccoli Erik e Monika.
 
Va tutto bene, mamma. Ed è solo merito tuo.
Il nostro segreto è nelle tue mani e in quelle della giovane Mags che, come al solito, non sta mai alle regole e curiosando per casa ha scoperto tutto. Sappiamo di essere al sicuro con voi.
Mi mancherai, così come mi mancherà Verin e Lana.
E’ vero quando dicono che l’amore di una madre è immenso, e tu l’hai appena dimostrato in un modo che non credevo possibile.
Ti voglio bene.
Leo.




E così signori e signore si conclude questa storia. Mi ha fatto piacere condividerla con voi, anche se, come tutte le cose, mi dispiace sia finita e non faccio altro che domandarmi se poteva essere realizzata in maniera migliore. Mi scuso per il ritardo di questo epilogo, ma con un mese all'esame di stato sono proprio in una situazione in cui le fan fiction sono i miei ultimi pensieri. Fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo e più in generale della storia. Spero di incontrarvi di nuovo su questo sito. Arrivederci :)

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2213866