{Natasha Blum}

di DelilahAndTheUnderdogs
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

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Prologo
 

Natasha Blum era sempre stata la primavera dopo l’inverno in quella cittadina del West Virginia.
Madison Town non era mai cambiata ai suoi occhi, occhi di quarantenne con un passato alquanto anticonvenzionale.
A quei tempi urlava per la città,
Dio è donna, signori. Arrendetevi!
soprattutto alle funzioni del reverendo Furson.
A quei tempi girava con Ludovika Nawson, complice di quel non so che di pazzo nei pressi del Madison Lake.
Ad esempio sezionare le rane per poi lanciarne le budella addosso alle signore per bene.
Attraversare i campi di grano zigzagando in quel mare d’oro che era pace.

Era il millenovecentosessantacinque e tutto era concesso: o quasi.

Era concesso ai bambini di giocare a football a qualsiasi ora del giorno o della notte.
Andare al Betty’s a mangiare gigantesche coppe gelato all’insaputa dei genitori.
Oppure contemplare un ragazzo carino con un pudico rossore sulle guancie, aspettando che fosse lui a fare il primo passo.
Sui ponti coperti nascevano storie che duravano qualche secondo oppure una vita.
Allora già sapeva mettersi in pericolo e mettere in pericolo chiunque le si avvicinava.
Le piaceva sentirsi speciale e in fin dei conti chi non lo era a Madison?

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Capitolo 2
*** I ***


I.
(1988)
Jack

Eccola.

La sua bellezza ti sconvolge sempre Jack.
Perché Sasha ti ha sempre messo confusione: era così ... così ... inspiegabile.
Il motivo?
Quegli occhi maledettamente viola: non un viola tenue che si confonde con l'azzurro, ma un viola acido.
Grandi, spiritati, sfumati da un carboncino invisibile. 
La vostra relazione era stata un rischio, un azzardo di quei tempi.
Non dovevate innamorarvi l'uno dell'altra ma l'avete fatto a vostro rischio e pericolo.
Non era contemplato negli anni Sessanta innamorarsi di un'altra razza
Lei sarebbe rimasta Sasha Blum.
La tua Sasha Blum: quella che correva lungo gli spalti cantando volgarmente l'inno nazionale, che dava di matto al ballo della scuola.
Molti a Madison le auguravano una morte lenta e dolorosa, che era una puttana senza morale né fede.
Che non meritava di esistere se esistenza significava stare con colui che ami.

Ed eccola lì, dinanzi a te: ti guarda dolce e mesta, ti accarezza la guancia destra piangendo.

"Se adesso avessimo diciassette anni, Jack, potremmo stare assieme" constatò la donna.
"I tempi sono diversi, Sasha, allora non potevamo tenerci la mano in pubblico e lo sai" aggiungendo "ormai è tardi"
Chiuse gli occhi per trattenere i sigulti impigliati in fondo alla gola e l'abbracciasti come se il domani non sarebbe mai esistito.

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Capitolo 3
*** II ***


II
(1988)
Ludovika

 

Erano cresciute assieme, in simbiosi, festeggiavano gli anni nello stesso mese, erano indivisibili.

Ludovika stava lavando con cura i piatti sporchi mentre Jeremiah, il figlio sedicenne, era alle prese con dei compiti di francese alquanto complicati.
L'acqua scorreva lentamente sulle mani leggermente paffute della donna che sfregavano energicamente la parte liscia della ceramica screpolata.
I capelli lunghi castano chiaro striato di grigio incorniciavano il visetto dolce spruzzato pesantemente di lentiggini.
La sera era scesa sulla cittadina, le fronde al vento sonnecchiavano di già a Madison Town.
Guardava oltre alla finestra, sbirciando il pigro fiume che attraversava la città.
Suo figlio le chiese qualcosa di francese e voltando leggermente il capo Ludovika rispose:
"Je suis désolé, je ne parle pas français"
Suonarono al campanello, si chiese chi fosse mai a quell'ora, non aspettava nessun ospite.
Aprì la porta e si ritrovò una donna di spalle.
Si girò e scoprì due occhi grandi e famelici.
Ludovika urlò.
Urlò come se avesse visto un fantasma o peggio.
Quando l'urlo s'arrestò, la donna che le stava di fronte, scuotendo i capelli crespi e fulvi, le disse sardonica: "Vedo che ti ricordi di me, Viki"










Note d'autrice.

Spero che la storia sia di vostro gradimento e mi piacerebbe ricevere qualche commento di critica, se volete tirarmi qualche torta addosso o cose così, oppure che vi piace :)
Sempre vostra,

Delilah.

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Capitolo 4
*** III ***


III.
(1965)
Walter 'Butch' Salinger

 

Nessuno sapeva cos’era accaduto esattamente il venti dicembre millenovecentosessantacinque fra la Parks e la Nona.
Si vociferava che, per quanto pervenuti con la ragazza, Sasha Blum non c’entrasse del tutto.
Butch Walt l’aveva provocata dandole della puttanella che se la fa coi negri. 
Oh e i tuoi amici, dietro te, se la ridevano gustando il momento di umiliazione della pazza.
Denigrante, vero, Walt?
Volevi vederla soffrire come non mai, autodistruggersi nel senso di colpa per aver infranto le regole un’altra volta, cadere ancora più in basso.
Ti sentivi forte, dì la verità.
Dì che in realtà ti volevi fare la Blum.
Sei stato uno stupido, sai il perché?
Perché non c’era differenza fra te e Jack: perché entrambi eravate esseri umani, entrambi avevate amici, cugini, fratelli.

Entrambi ammaliati dall’incantevole volgarità e sfacciataggine di Natasha Blum.

Ti rispose sopra le righe, un classico che sorprendeva sempre: “Puttanella lo dici a tua sorella, Butch”
E detto questo, inspiegabilmente, la tua Pontiac GTO blu metallizzata andò in fiamme senza l’ausilio di fiammiferi o benzina.

Vedesti quella faccia di merda che si ritrovava la Blum sorridere sorniona, con quel cazzo di gatto nero che si portava ovunque e vederla correre via ridendo come una squinternata.






















Note d'autrice.

Spero che la storia sia di vostro gradimento e mi piacerebbe ricevere qualche commento di critica, se volete tirarmi qualche torta addosso o cose così, oppure che vi piace :)
Sempre vostra,

Delilah.

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Capitolo 5
*** IV ***


IV.
(1988)
Ludovika

 

"Vedo che ti sei sistemata bene"
"Sempre meglio di te, Natasha"
"Non mi inviti ad entrare, Viki?"
"Perché mai dovrei?"
"È scortese far aspettare le persone dalla soglia"
Si accomodarono in salotto.
Due donne più diverse non potevano esistere: una era truccata pesantemente coi capelli cotonati, l'altra tutta acqua e sapone.
"Che ci fai qui?" chiese Viki d'un tratto.
"Mio padre è morto"
"Mi dispiace"
"E poi è un'ottima occasione per promuovere il mio nuovo libro"
"Opportunista"
"Logico"

Jeremiah urlò dalla cucina: "Mamma! Vado da Chuck a studiare!"

"Va bene ma non far tardi" urlò imbarazzata la donna.
"Hai un figlio, eh" sogghignò Sasha. "Qual è il suo nome?"
"Jeremiah"
"Non hai molta fantasia, vero Viki?" chiese interdetta e furiosa la rossa in tutta risposta.

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Capitolo 6
*** V ***


V.
(1961)
Jeremy

 

Erano caduti in basso, eccome se lo sapeva:
anzi, lui era caduto in basso pretendendo un amore fuori natura, impossibile.
Ce ne aveva messo di tempo per capirlo ma ormai era troppo tardi:
Faccia da Stronza l'aveva scoperto.
Accidentalmente, s'intende. 
Viki le aveva spiferato quasi tutto, che andava avanti questa relazione da un anno,
dal giorno della festa in giardino:
aveva dodici anni allora e poi lui non è mai stato in sé, cercò di spiegarle Viki a Faccia da Stronza.
Girava per il loro salotto con fare minaccioso:
Viki era terrorizzata per mille e più ovvi motivi. 
Si sentiva usata da suo fratello, si sentiva manipolata, in trappola, fregata.
Continuava, però, a difenderlo a che se da difendere non c'era nulla se non la dignità d'entrambi.
Jeremy aveva già perso la sua dignità desiderandoti Viki:
quella volta che ti vide avvolta in quel vestitino bianco leggero è stata la goccia che fece traboccare il vaso già colmo.


Ora erano nei guai se Sasha Blum avesse spifferato qualcosa.
E, tu, Viki da una parte l'avresti sostenuta senza alcuna istanza.

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Capitolo 7
*** VI ***


VI.
(1961)
Jack e Sasha

Avevate tredici anni quando vi siete incontrati per la prima volta.
Tu, Jack, stavi rovistando fra il ferro vecchio per ricavarne qualcosa di utile per la tua ‘macchina del tempo’.
Eri bambino, credevi in tutto ciò che costruivi.
Tu, Sasha, invece sbucasti dai cespugli poco curati, sporca di fango e lerciume.
Avevi le ginocchia incrostate di sangue e leggeri tagli provocati da rovi.
I calzoni beige strappati e mangiucchiati, i calzini bianchi sozzi di acqua salmastra e melma e una camicia a maniche corte schizzata di vernice blu.
Avevi i capelli rossi, corti, spettinati e il viso lurido.
Jack, tu sudavi nella tua canottiera e nella tua salopette in jeans.
Sentivi qualcuno fissarti alle spalle e ti girasti ritrovandoti quel ragazzino malmesso e psicopatico.
Ti guardava sorridendoti con occhi folli come dire ‘tu sai cosa sto cercando’.
Gli domandasti: “Che ci fai da queste parti?” la tua voce suonava rude, ma se lo meritava in fin dei conti.
Era un bianco e già tanto bastava.
Lui ti rispose: “Viki si è persa” rispose con assurda ovvietà, stizzito.
Di solito urlano come maiali, rimuginasti divertito.
Tutti sapevano che dalle parti della discarica vivevano coccodrilli e manguste.
Invece, anzi: il ragazzino si guardava attorno incuriosito.
“È la tua ragazzetta?” chiedesti beffardo.
“No, è la mia migliore amica. È tutto ciò che mi rimane”
Indugiando sul da farsi, rispondesti istantaneamente sì, ti do una mano.
Lui ti ringraziò abbracciandoti di slancio e baciandoti entrambe le guancie due volte.
Ti prese pure per mano e tu iniziasti ad andare su di giri, ringraziando per fino Dio … e non sapeva nemmeno la ragione.
A un certo punto, avvicinandovi alla fabbrica lì vicino, sentisti piangere e gli sussurrasti: “Per di qua”
Lo guidasti verso l’entrata e ti nascondesti dietro a un macchinario esortando il ragazzino a continuare la sua ricerca.
Sasha, cercavi di orientarti in quel labirinto e ti ritrovasti una Viki tremante e piangente contro l’umida parete.
Ti rannicchiasti e le sussurrasti: “Andiamocene”
Le ti rispose altera, spaventata: “Vattene! Hai già fatto abbastanza, non credi?”
Le urlasti a tua volta: “Vacca che non sei altro! L’ho fatto per te maledizione! Pensi che sia una passeggiata per me? Sapere quello che ti fa tuo fratello?” pausa “Fidati di me” concluse piano, offrendole una mano.
“Mi ucciderà, Sasha”
“Prima dovrà passare sul mio cadavere” aggiungendo “tuo fratello è pazzo da legare”
“Hai ragione, Natasha” disse piano la ragazzina.
“Ti parrà strano ma io non sbaglio mai, Ludovika” rispondesti ghignando vistosamente.
Uscendo per mano rivolgesti a Jack il sorriso più radioso che possedevi e un grazie a fior di labbra. 

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Capitolo 8
*** VII ***


VII
(1988)

 

Era come cancellare ciò che era successo.
Per una volta non pensarci, per una volta far finta che nulla fosse accaduto.
Invece era successo eccome.
“Cosa ci fai qui veramente Sasha?”
“Te l’ho già detto Jack: mio padre è morto”
“Non ti è mai importato nulla di lui- urlò disperato- ti aspetti che ci creda?”
Rispose continuando a guardare il fiume placido: “Lucille”
E il cuore di Jack sussultò al suono musicale di quel nome.
Non lo sentiva da ventitré anni, per ventitré anni non aveva voluto pensarci.
Per ventitré anni una bambina era cresciuta senza genitori.
Perché loro non erano pronti, o meglio: non stava bene, ecco.
Loro non erano contemplati come coppia a quei tempi.
Ricordò per un breve istante, riflettendosi nell’acqua, le calde estati in cui raccoglieva i ciottoli assicurandosi che nessuno di essi fosse ammaccato o rovinato.


Bramava tranquillità e perfezione.


E lei non lo sarebbe mai stata, visto che l’ultima di estate passata lì aveva un pancione enorme.

I capelli erano di nuovo al vento come l’ultima volta, solo che lei l’ultima volta di anni ne aveva diciassette e non quaranta.
E non sapeva il perché mai avesse voluto ritornare a Madison.



Forse per affrontare la questione una volta per tutte.

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Capitolo 9
*** VIII ***


VII.
(1965)
Sasha
 

La vita di Lucille Bowen iniziò non molto tempo fa in un ospedale di periferia.
Era nata in un ospedale di quelli in cui le partorienti urlano agonizzanti sui loro letti.
Sua madre, Sasha Blum, fu trasportata in barella senza pietà, sbatacchiando qua e là.
Le pareti verdi della sala parto sembravano incredibilmente accese, vero Sasha?
Le infermiere e l’ostetrica, coi loro camici bianchi puliti (non per molto ancora) l’ammonivano di spingere, sempre di più, più forte che poteva.
Avere diciassette anni e sentirsi derubati di qualcosa ti sembrava normale, tutta la tua vita era stata una truffa, erano gli anni Sessanta, il sessantacinque verso la fine di un concetto fino ad allora perseguito.
Era estate, il caldo soffocava e le tue urla erano acute.
L’infermiera Johnson notò che i neon non funzionavano bene, la luce andava e veniva.
Nessuno doveva sapere dei poteri che possedevi, nessuno avrebbe mai immaginato che le tue urla e il tuo dolore scatenassero reazioni telecinetiche.
Era estate e Sasha già sapevi troppo per la tua età.
Tipo che altre estati sarebbero arrivate, sempre lì ad attenderti con rancore e rimorso oppure del fatto che saresti scappata senza di lui, non volevi creare altri problemi.
Il sudore ti permeava il volto teso e scarno, eri ancora una bambina, dopotutto?
Gli occhi tradivano una sicurezza appena acquisita, davanti a quelle luride infermiere che ti giudicavano.
Le tue energie erano arrivate quasi alla fine, l’unica cosa che occupava la tua mente instabile era un unico obbiettivo: dare alla luce la creatura.
Si vedeva già la testa, e urlavano o era solo uno?
Le voci si amplificavano nella tua mente, trovavano spazio per infastidirla come in una sitcom della ABC.
La creatura era nata, finalmente, era un involucro viscido e sanguinolento per quel che ricordasti in seguito, il cordone ombelicale vi unì per poco per poi essere reciso per sempre.
Le infermiere, quelle puttane schifose, sputavano sottovoce commenti sulla tua bambina.
Del fatto che era nera e nessuna la voleva sulle loro pure braccia.
Solo una grassoccia aveva avuto il coraggio di tenerla fra le braccia.
Natasha ti alzasti indolenzita: “La porto io nel suo lettino, vacche! Non vi vergognate? È solo una bambina, non vi ha fatto nulla. Dov'è la nursery?” l’infermiera Warblack ti condusse in uno spazio angusto e chiese il nome della bimba.
Sasha tu sussurrasti in modo udibile, continuando ad ammirare la bambina e accarezzarle la guancia: “Lucille”
Detto questo l’infermiera annotò il nome su una cartella e se ne andò, lasciando lì madre e figlia.


Un frammento di luce era stato donato al mondo.

 

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