Themos

di Leo96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

In un mondo nascosto agli umani, una minaccia si stava avvicinando, ma la catastrofe avrebbe coinvolto anche la Terra. Un pianeta alla base di tutto, dove la regina è la natura e il parlamento la magia,abitato da creature fantastiche dove le leggi sono dettate da sette saggi...
La magia viene domata da quattro giovani rappresentanti i quattro elementi della natura: terra, acqua, aria, fuoco. Anche quest’ultimi hanno avuto un’origine, la Luce ed il Buio, elementi dominanti, che rappresentano la bontà e la malvagità, il bene e il male, il caldo ed il freddo.
Tutto aveva avuto un inizio, ma non doveva esserci una fine.

Il mondo si basava sull’equilibrio delle quattro forze portanti,i cui segreti erano stati scritti dai sette saggi su sette pagine contenenti tutti i segreti della magia elementare. I guardiani cambiavano ogni trentacinque anni, ma in quella generazione ci furono cambiamenti, perdite, sconfitte e vittorie. C’era bisogno che i quattro guardiani si riunissero: una terribile tragedia stava per accadere.
In quel periodo due guardiani stavano combattendo per la vita.


-Sbrigati!- urlò Salh facendo segno a Gravedyn di correre più veloce.
Ma era da qualche giorno che la ragazza era debole, stanca, pallida.
Correndo la custode della terra si sorreggeva la veste bianca sporca del sangue che le colava dal braccio sinistro, con il destro, invece, si sorreggeva la pancia, quasi volesse proteggerla.
Arrivati in prossimità di un fiume i due, inseguiti da licantropi, trovarono nascondiglio in una piccola grotta nei paraggi.
-Che ti succede?- esclamò Salh. –Sei affaticata, distratta e non riesci a starmi dietro. Non è da te.–
Gravedyn prese un respiro, poi disse -Salh, sono incinta.-
Il silenzio.
Il ragazzo, che fino a quel momento si era preoccupato della salute della donna, fece uno scatto all’indietro.
Non ebbe le parole per reagire. Non riusciva a pensare e quello non era il momento per farlo. Desiderava avere un figlio, ma con i tempi correnti era molto pericoloso vivere.
Purtroppo i due non ebbero il tempo per chiarire la faccenda poiché i loro nemici, una volta scoperti, mostrarono tutta la loro brutalità. L'inseguimento riprese. Un turbine di terra si alzò improvvisamente, scaraventandosi contro le bestie. La vista si offuscò. Salh corse via,così come Gravedyn. Questa, consapevole di non potercela fare, decise di dare un ultimo aiuto al proprio compagno: tenendo come unico pensiero il suo amore e stringendo forte il pungo, colpì il terreno. La terra si aprì rumorosamente davanti a lei, abbandonandola nelle mani dei licantropi. Venne portata via, ancora con le ferite aperte e il sangue grondante, con la certezza che il suo amato stesse assistendo alla scena ormai salvo.
Il custode dell’aria, vide la persona che amava più al mondo andare a morire. Per la prima volta una lacrima solcò il suo viso, una lacrima colma di dolore.

Quando la ragazza vide il castello imponente e oscuro abbassò la testa e silenziosamente iniziò a piangere. Aveva paura, non solo per se stessa e per il futuro del bambino, ma anche per Salh che avrebbe dovuto continuare da solo questa maledetta battaglia.
-Benvenuta, Gravedyn.-
La guardiana, ancora con il capo chino, vide un lungo mantello nero che si faceva sempre più vicino. Davanti a lei c’era Kryokos: persona fredda, malvagia, oscura. Gravedyn iniziò a sudare. Lui le strinse la mano e citò un incantesimo, e così apparve intorno alla ragazza un alone luminoso che sprigionava una forza stravolgente. Era una scena incantevole che si sarebbe rivelata un’orribile tragedia. I poteri della terra,il quarto elemento, si stavano trasferendo verso l'uomo, ma, forse, non solo quelli.
Presto la guardiana si sentì svuotata delle proprie abilità, la sua forza stava diminuendo e la sua stanchezza aumentando, ma da quel sonno non si sarebbe mai risvegliata. La sua pelle iniziò a sgretolarsi, le caddero i capelli, il suo corpo non ebbe ben presto uno scheletro su cui reggersi. Era giunta la sua ora. Accasciata al suolo, decise di fare un ultimo gesto. Con le dita sporche di sangue raffigurò sul pavimento un triangolo rivolto verso l’alto con un segmento a dividerlo. Pose la sua mano destra sopra al simbolo e vi impresse il suo ultimo desiderio, la sua ultima speranza, le sue ultime forze. Appena i suoi occhi si chiusero e il suo riposo eterno cominciò, si avvertì un terremoto, il cui frastuono fu accompagnato dai lamenti degli animali.
Salh, dalla foresta avvertì l’assenza di Gravedyn, e comprese tutto: una vita, la sua, era giunta al termine.


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Angolo autore:
Ciao a tutti!! Allora questo è il prologo...spero vi piaccia davvero! :)
Ho deciso di pubblicare questo intanto per vedere cosa succede, perchè non ne ho la più pallida idea! Non nascondo che in questo periodo è difficile scrivere per colpa della scuola, ma stiamo andando verso l'estate, no? Ed estate=tempo libero! Ovviamente mi farebbe piacere ricevere dei vostri pareri, siano questi positivi o negativi! Accetto qualunque consiglio!
A presto,
Leo

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


La luce del sole filtrava dalle sottili fessure presenti nelle persiane e andava a colpire il letto, situato dalla parte opposta della camera. Gli occhi di Sarah si schiusero piano e gioirono all’idea di cominciare una nuova giornata. Sebbene fosse ancora assopita, allontanò il sottile lenzuolo, che in quei tre mesi d’estate era stato la sua unica coperta, appoggiò i piedi sul pavimento ghiacciato e, senza curarsi del fatto di essere scalza, si diresse direttamente in bagno.

Si fece una doccia il più velocemente possibile, in quanto aveva sempre detestato tutto ciò che fosse umido. Perse decisamente molto tempo davanti allo specchio, tentando di rendere la sua chioma meno selvaggia. Dopo vari tentativi riuscì finalmente nell’impresa, ottenendo una precisissima cascata di capelli neri come la pece. Non si truccò minimamente, preferendo rimanere naturale, mostrando la sua carnagione leggermente più scura della norma. Tornata nella sua stanza, mise a soqquadro l’armadio, nella speranza di trovare quella divisa scolastica, quasi dimenticata. Finita la ricerca, la indossò. Non era brutta come la maggior parte delle divise. Rimaneva sul bianco e blu e si componeva di una gonna per le ragazze e di un paio di pantaloni per i ragazzi. Per entrambi i sessi, poi, una giacca e un gilet accompagnavano completavano il completo.  Finalmente si considerò pronta. Pronta per il primo giorno di scuola del quarto anno di liceo. Da quando si era trasferita dall’Inghilterra in Italia, strano a dirsi, ma la sua carriera scolastica era migliorata. Non temeva i compiti e le interrogazioni e, grazie al cielo, sua madre non era stressante e non pretendeva chissà quali risultati. In compenso se c’era qualcuno di ambizioso era proprio la stessa Sarah. Prendeva tutto come una sfida, come una gara personale. Prima di scendere a fare colazione decise di rilassarsi due secondi, fumando una sigaretta vicino alla finestra. Prese il suo pacchetto di Marlboro Light e aprì l’anta della finestra. Una folata di vento entrò nella stanza. Il tempo non era dei migliori. Pioveva, pioveva forte. Fu grazie al fumo che la ragazza manteneva nei polmoni che Sarah non ebbe freddo e la sua espressione non divenne triste. Odiava con tutta se stessa i temporali. Quattro anni prima suo padre aveva fatto un incidente in autostrada ed era morto sul colpo. Tutti arrivarono alla conclusione che probabilmente l’uomo non vedesse bene a causa della pioggia fitta. Fu per questo motivo che Kristen, la moglie, aveva deciso di trasferirsi in Italia. Lì sarebbe riuscita a continuare meglio la sua vita, lontana dal paese che aveva visto morire il suo grande amore.

 

Arrivata al piano di sotto, Sarah si diresse in cucina per fare colazione. Non era più abituata ad alzarsi così presto e, per questo motivo, preferì prendere un semplice yogurt accompagnato da due caffè lunghi. Se c’era una cosa che non le mancava, questa era il caffè annacquato inglese. Non c’era niente di meglio dell’espresso italiano.

-Oh tesoro, già sveglia?- esordì la Kristen, mettendosi anche lei seduta al tavolo.

-Purtroppo…ho preferito svegliarmi ancor prima del necessario, perché, se riesco, vorrei poter arrivare a scuola un po’ prima. Lo sai che odio arrivare proprio puntuale.-.

-Ah si…capisco. Sei pronta per il nuovo anno?-.

-Non lo so, lo spero vivamente.- rispose la ragazza, mettendosi una mano davanti alla bocca per non rendere partecipe la donna davanti a lei del suo sbadiglio.

-Dai, stai tranquilla.- rispose la madre.- In fondo hai fatto tutto ciò che dovevi nell’estate! E poi siete ragazzi e sai come la penso…è inutile e controproducente sovraccaricarvi di lavoro.-.

-Già…ora che ci penso non ho nemmeno chiesto ad alcuni compagni di classe come siano andati loro gli esami di riparazione a settembre…-.

-Ma Sarah sono tuoi compagni!-.

-Lo so, ma me ne sono dimenticata! Mi farò perdonare facendoli copiare un poco…- rispose ovvia la ragazza, forte della propria convinzione.

-Sei incorreggibile…- disse sorridendo.

-A pranzo sono sola?-.

-Eh si amore, mi dispiace, ma devo lavorare all’ospedale anche in pausa pranzo per recuperare dei turni! Vuoi che ti lasci qualcosa già preparato che devi solo riscaldare?-.

-Tranquilla! Comunque si…mi faresti un favore, sai che io ed i fornelli facciamo a botte ogni volta.- confessò.

-Ok, non ti preoccupare, ci penso io. Adesso è meglio che tu vada se davvero vuoi arrivare in anticipo!-.

Sarah seguì il consiglio della madre e si accinse a prendere le tazzine sporche per metterle nell’acquaio.

-Tesoro, ci penso io! Vai pure. Due tazzine le so ancora lavare, eh!- la interruppe Kirsten.

La figlia sorrise e corse al piano di sopra a prendere la cartella ed un ombrello.

 

Appena uscita di casa si fermò sul pianerottolo, sperando in questo modo di essere riparata dalla pioggia, e estrasse dallo zaino le sue amate cuffiette. Amava rintanarsi nella musica e in quel mondo che quelle note musicali sapevano crearle intorno. Era uno dei suoi modi preferiti di rilassarsi…dopo una bella sigaretta, ovviamente. Tuttavia si vergognava un po’ dei suoi gusti musicali. Era consapevole dell’appiattimento culturale e sociale che vigeva in quell’epoca e, soprattutto, alla sua età. Ormai la musica commerciale era vista come una dea e tutto il resto veniva considerato insignificante. Sarah non disprezzava la musica pop, tuttavia non era questa ad essere capace di trasmetterle vere emozioni. Per questo motivo e per difendere il suo carattere forte, che altrimenti sarebbe stato messo in dubbio, si fingeva superficiale davanti alla maggior parte delle persone. 

La verità era che si struggeva al solo udire una sinfonia di Beethoven o un improvviso di Schubert. Qualunque cosa fosse musica classica le faceva infiammare l’animo. Tuttavia Sarah aveva trovato il metodo per esprimere questo suo lato, unendolo a quello competitivo. Praticava da anni ormai ginnastica ritmica e ciò le permetteva di esibirsi in gare in cui il sottofondo, normalmente, poteva essere deciso dalle partecipanti. Inutile dire su cosa ricadesse spesso la scelta. 

La strada per il liceo non era troppo lunga, ma Sarah era solita percorrerla in fretta, in quanto i suoi piedi si muovevano a tempo di musica. Sì, probabilmente se qualcuno l’avesse fissata mentre camminava l’avrebbe ritenuta schizofrenica per gli innumerevoli cambi di andatura. 

Mentre stava accelerando il passo per seguire il ritmo teneva con una mano l’ombrello e, intanto, si osservava i piedi e le scarpe, che si stavano lentamente inzuppando di acqua. Sbuffando imprecava, visto che le aveva comprate da poco tempo e, inoltre detestava arrivare a scuola, o in qualsiasi altro luogo, con i piedi bagnati. Era talmente occupata a pensare alle future ora che avrebbe dovuto passare seduta ad un banco con i piedi immersi in una piccola piscina, che non si accorse di dove stava andando e, inevitabilmente, andò a sbattere contro qualcuno.  Per fortuna nessuno dei due cascò per terra, anche perché sarebbe stato un guaio considerando le numerose pozzanghere.

-Scusa…- disse il ragazzo, imbarazzato per l’accaduto, mettendosi una mano dietro la testa, segno di nervosismo. 

-Ma non guardi dove vai?- sbuffò Sarah.- Rischiavi di farmi sporcare completamente!-.

-Hai ragione…non ero attento a dove andavo…davvero, mi dispiace.-

-Non fa niente, tanto di gente incapace e distratta ce n’è a volontà, no?- rispose scorbutica. -Ti saluto.-.

Dettò ciò Sarah riprese a camminare per la sua strada, senza aspettare nemmeno la replica del suo interlocutore.  Non avrebbe mai aspettato una risposta da una persona che non aveva nemmeno il coraggio di difendersi. Era palese che la colpa non fosse di quel ragazzo, ma sua. Eppure la sua voglia di affermazione e la sua tenacia avevano prevalso anche questa volta su un carattere più debole del suo. Però, al di là di tutto, Sarah non era riuscita a sorvolare sulla bellezza oggettiva di quel ragazzo. 

Alto abbastanza, con un viso marcato da lineamenti ben precisi, una barbetta un po’ incolta che rendeva il tutto più adulto e un paio di occhi capace di togliere il fiato ad un comune mortale. Come era possibile avere due gocce di oceano anziché due occhi? Si dice che questi siano la porta dell’anima, una finestra sul cuore. In questo caso no. Quello sguardo nascondeva un abisso ancora inesplorato e selvaggio, un mondo interiore da poter fare paura. 

Finalmente Sarah arrivò al suo liceo. Un grande edificio ottocentesco sviluppato su tre piani, il primo dei quali contornato da un porticato, delimitante il cortile, al centro del quale erano situate alcune panchine per permettere agli studenti di passare le ore di buco all’aria aperta. Sarah aveva scelto, a dir la verità, quella scuola semplicemente per l’estetica. Era inevitabile rimanere stupiti, visto che sembrava forse più un’università. Se avesse saputo fin da subito della severità dei professori, probabilmente non avrebbe mai presentato l’iscrizione. Ma ormai c’era dentro e non avrebbe mai ammesso una sconfitta. Le faceva fatica studiare, ma la voglia di sentirsi soddisfatta era tanta da darle la forza per essere una delle migliori della classe. La campanella suonò e tutti i ragazzi iniziarono a correre per poter entrare per primi e prendere i posti più vantaggiosi nelle aule. Sarah continuava a camminare al suo passo variabile, forte della convinzione di trovare più banchi liberi per lei, visto che spesso i suoi compagni facevano di tutto, pur di copiare da lei. Inevitabilmente si creò un ingorgo davanti alla porta. 

-Ma guarda chi c’è!- esclamò un ragazzo, rivolgendosi palesemente a Sarah.

Quest’ultima mosse a malapena la testa per rendersi conto di chi si trattasse, poi, quasi a fatica, rispose - Ciao Matteo.-.

-Non contenta di tornare a scuola, eh? Beh ti capisco, nessuno ne ha voglia…- domandò lui, convinto di poter veramente iniziare una conversazione.

-Oh no, non è questo.- affermò Sarah, con un tono che non mostrava particolare espressività. -Forse non ho semplicemente voglia di rivedere gente come te.- continuò, mettendosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e fulminando lentamente con lo sguardo Matteo.

-Ti trovo troppo scontrosa…altrimenti avrei fatto un pensierino su di te- affermò il ragazzo, utilizzando la sua posa conquistatrice, a detta sua infallibile.

-Pensa un po’…io ti trovo del tutto inopportuno.-.

-So che in fondo mi vuoi bene.- insistette lui, mentre ormai si dirigevano insieme verso la classe.

-Attento a non confonderti, potresti farti male.-.

-Ma se mi aiuti sempre durante i compiti!- esclamò Matteo, accorgendosi subito dopo di averle alzato una palla, che lei non avrebbe temuto di schiacciare.

-Vedi, lo sapevo…fai confusione. C’è differenza tra affetto e pietà, adesso lo sai!- troncò il discorso Sarah, entrando in classe, seguita dal suo accompagnatore, rimasto piuttosto male per la risposta ricevuta. Come previsto erano stati lasciati più posti liberi, ma Sarah non esitò nemmeno un secondo e si mise a sedere accanto alla sua migliore amica, Elena. Si conoscevano da anni ormai e avevano condiviso molte esperienze, che avevano contribuito alla loro crescita. Probabilmente Elena era l’unica persona alla quale Sarah teneva davvero, sebbene fossero due persone agli antipodi, non solo nel carattere, ma anche nel fisico. Ai colori scuri di Sarah si opponevano i capelli biondi e gli occhi verdi di Elena. Eppure quelle due sembravano davvero legate…solo con lei Sarah aveva abbandonato il suo comportamento acido e aggressivo.

La professoressa di italiano, la signora Bardi, entrò in classe. Non perse nemmeno tempo a salutare gli alunni o a fare loro domande su come fossero andate le vacanze estive. Era normale che non le importasse, cosa pretendere da una zitella che passa i propri giorni liberi a fare parole crociate? Da un lato bisognava capirla. Non era un fenomeno di magrezza ed era complicato definirla giovane. La pelle sottostante il mento aveva cominciato a cedere, eliminando così i lineamenti del collo. Sul naso erano perennemente situati un paio  d’occhiali da vista con le lenti rettangolari, fondamentali per rendere il tutto leggermente più severo. Quando la trovavi al supermercato era una donna alla mano, con la quale potevi facilmente scambiare due parole e, addirittura, fare qualche risata, mentre si dimostrava una vipera a scuola. Non voleva sentir messo in discussione il proprio metodo di insegnamento, che veniva imposto quasi come una tortura. 

-Sarah Anderson!- urlò la professoressa, alzando lo sguardo dal registro di classe, per poter individuare da dove sarebbe provenuta la risposta.

-Presente!- disse Sarah, colta alla sprovvista, perché troppo impegnata a parlare con la propria compagna di banco. 

Dopo aver finalmente concluso di fare l’appello ed essersi lamentata per la quantità di lavoro da svolgere durante quell’anno scolastico, la signora Bardi si alzò lentamente dalla cattedra ed estrasse dalla sua cartellina viola prugna una serie di fogli che iniziò a distribuire.

-Bene, ragazzi! Questa vuole essere una specie di prova d’ingresso per vedere se i vostri neuroni sono tornati dalle vacanze o se li avete persi per sempre.- dichiarò con quella sua voce stridula.

-Ma professoressa…- cercò di intervenire un ragazzo.

-Niente ma, ci siamo intesi?!- lo bloccò immediatamente l’isterica.

-E’ il primo giorno di scuola!- affermò sconcertato un altro allievo.

-Volete tutti un quattro sul registro per inaugurare l’anno?- domandò ironica, aspettandosi una risposta, che, ovviamente, non arrivò.

-Bene, vedo che avete capito. Se qualcuno di voi alza lo sguardo per cercare di copiare, lo butto fuori dall’aula.- continuò.

-Ma che abbiamo fatto di male?- sussurrò Elena. -Ma perché non si iscrive ad un sito di incontri su internet e la smette di sfogare la sua frustrazione su di noi?!-.

-Abbiamo scelto questa scuola e forse questa è la colpa peggiore.- rispose altrettanto sottovoce Sarah. -Ma l’hai vista? Chi la sopporterebbe mai in una relazione?-.

-Buon lavoro a tutti.-.

La voce della professoressa che annunciava l’inizio della verifica riportò in fretta il silenzio e tutti gli alunni impugnarono la loro penna per cominciare il tema.

Sarah girò il foglio situato sul suo banco e lesse quelle due righe scritte che dovevano essere il titolo.

 

“Il ruolo della natura nella vita dell’uomo attraverso i secoli.”

Per svolgere il tema attingi dalle tue conoscenze in ambito letterario e, eventualmente, anche a quelle di altre materie (personalmente consiglio filosofia).

 

Il volto di Sarah sbiancò in nemmeno due minuti. Odiava questi titoli generici, che non facevano altro che complicare le idee. Parlare della natura? Fare un tema su questo è assurdo! E’ uno di quegli argomenti di cui puoi scrivere un libro o anche semplicemente una frase. Inoltre Sarah non aveva particolare voglia di parlare di ciò, perché le montava la rabbia abbastanza facilmente. Cosa c’è da dire sulla natura nel mondo moderno? Che non esiste? L’uomo ormai vede il verde solo come un nemico da abbattere, un nemico che si oppone al dominio industriale. Le aree verdi sono diventate un fenomeno più unico che raro. Non dovremmo preservare le foreste, i cosiddetti polmoni della Terra? Ovviamente no. La cosa più importante è costruire palazzi su palazzi e ottenere tutta l’energia possibile, trascurando ampiamente i problemi ai quali il pianeta può andare incontro.

Così Sarah decise di seguire solo parzialmente le indicazione e trasformò quel tema in qualcosa di tremendamente attuale. Non le importava se avesse preso un brutto voto, visto che si trattava dell’inizio dell’anno, ma sentiva la necessità di esprimersi a proposito di questo problema, ormai snobbato da tutti, perché ritenuto futile. 

Mentre era intenta a scrivere il suo testo, presa da una rabbia e da un odio profondo contro il genere umano intero, e la sua penna si muoveva veloce su quelle pagine bianche che al passaggio della sua mano divenivano macchiate di inchiostro, il rumore della campanella attirò l’attenzione di tutti. Non era il fatto in sé per sé , quanto il numero di suoni. Erano tre. Questo era l’allarme di sicurezza, che indicava il dovere di uscire all’istante dall’edifico scolastico. Il primo pensiero di molti fu quello che si trattasse di una simulazione, ma il mancato avviso e le grida che si udivano nei corridoi bastarono a sfatare questa ipotesi. 

Sarah si guardò velocemente intorno per studiare bene l’attenzione e capire come comportarsi. I suoi compagni erano totalmente impauriti ed alcuni avevano già provveduto a scappare. 

-Ragazzi, svelti! Lasciate tutta la roba qui! Niente è più importante della vita!- gridò la professoressa in preda ad un attacco di panico. Eppure quella era la prima volta che Sarah concordava con lei. Tutti cominciarono ad uscire svelti, sebbene nessuno seguisse quelle istruzioni che venivano insegnate sin dalle elementari. Alcuni semplicemente camminavano veloci, altri correvano. Nell’incredibile flusso di gente, le mani di Sarah ed Elena si separarono. Dopo aver perso il contatto con la sua amica, Sarah si bloccò.

La folla le passava vicino, la spingeva di qua e di là, alcuni le gridavano di spostarsi, ma lei rimaneva ferma. D’un tratto prese una decisione inaspettata: si voltò e andò a cercare il luogo del presunto incidente. Non fu difficile individuarlo, in quanto vide uscire da una stanza del fumo nero, simbolo di un incendio. Quella era l’aula di chimica. Non fu dunque difficile capire cosa fosse accaduto. Sarah varcò la porta e, per la seconda volta, non fu più capace di muoversi. I suoi sensi si erano come risvegliati a quella vista. L’udito era pronto a catturare lo sfrigolio dei mobili bruciati, l’olfatto a percepire il tipico odore nauseante ed il gusto già assaporava l’adrenalina. Le fiamme divampavano feroci all’interno della stanza, ma lei non aveva paura. Il suo non era uno sguardo di terrore, le sue mani non tremavano per la paura, ma i suoi occhi ardevano di passione e i suor arti fremevano per l’eccitazione. Quello che si trovò davanti fu per lei sublime. Il fuoco, indomato dall’uomo, si trovava a pochi metri da lei, eppure lei era irrazionalmente affascinata. La spinta distruttiva di quelle lingue di fuoco aumentava sempre di più, ingoiando tutto ciò che ostacolasse il suo cammino. Ad un tratto però sentì un lamento provenire da poco lontano. Cerco di trovare chi avesse emesso quel gemito strozzato, fino a quando non individuò accovacciato per terra un ragazzo, vestito con quello che un tempo doveva assomigliare ad un camice bianco. 

Subito, senza nemmeno pensarci, Sarah tentò di avvicinarsi. Una provetta connettente qualche sostanza chimica scoppiò ed una vampata inghiottì il ragazzo. Sarah, spaventata, rimase impietrita, ma, dopo aver visto che il ragazzo era ancora vivo, il suo cuore riprese a battere normalmente. Quando finalmente si trovarono a pochi centimetri di distanza i due si riconobbero. Era quel ragazzo contro il quale Sarah era andata a sbattere quella mattina. 

-Ehi, stai bene?- domandò la ragazza, cercando di utilizzare un tono sbrigativo. Adesso voleva andarsene.

-Non riesco a muovermi…- confessò il ragazzo, in un lamento quasi soffocato.

-Non ci voleva, dove ti fa male?- chiede Sarah, appoggiandosi sulle ginocchia.

-Da nessuna parte…- rispose il ragazzo.

-Mi prendi in giro? Non mi sembra il caso, lo capisci vero?-.

-Ho paura, mi sento come immobilizzato.-.

A quelle parole il cuore di Sarah si sciolse, capendo la situazione. Del resto era normale avere paura. Quel ragazzo le fece improvvisamente tenerezza.

-Ehi, come ti chiami?-.

-Vuoi sapere il mio nome adesso?- disse stupito lui, guardandola con quegli occhi densi di sentimento.

-A quest’ora me lo avresti già detto… Preferisci che ti chiami “Colui che non guarda dove andare”?- domandò retorica Sarah, accennando un sorriso.

-Sono Marco…- dichiarò infine.

-Bene, piacere. Io sono Sarah. Ti prego fidati di me, dobbiamo andarcene in fretta se non vogliamo morire asfissiati.-.

-Hai ragione…-.

A quel punto Sarah si fece coraggio e prese la mano del ragazzo nella sua per infondergli sicurezza. Nel momento in cui si toccarono una scarica di repulsione attraversò il loro corpo, come se si trattasse di un polo negativo al contatto con uno positivo. Dopo essere riusciti ad uscire dal laboratorio di chimica iniziarono a correre. Mentre attraversavano i corridoi Sarah osservava attentamente Marco. Sembrava stesse recuperando la sicurezza e le forse, ma non era questo a catturare la sua attenzione. Sul corpo del ragazzo non era presente nessun segno di ustione o una qualche ferita. 

Quello però non era il momento di fare domande o di mettersi ad indagare su questioni mediche o scientifiche. Finalmente riuscirono ad arrivare alla porta d’ingresso. 

Nel cortile erano radunati tutti gli alunni della scuola, raggruppati a seconda della classe.

I pompieri erano già arrivati e si apprestavano ad entrare nell’edificio per mettere fine a questo incendio. 

I due ragazzi si separarono ed ognuno andò dai propri compagni. La professoressa Bardi aveva le lacrime agli occhi per lo spavento e, non appena vide Sarah, le si avvicinò. Dopo un breve rimprovero, fatto più per dovere che per piacere, si assicurò che la sua alunna stesse bene e le sorrise sinceramente. 

Sarah non fece in tempo nemmeno a rispondere che si trovò le braccia di Elena strette al collo, mentre la sua amica le piangeva sulla spalla.

-Stai bene?- domandò Elena, in preda alle lacrime.

-Oh…si, stai tranquilla!-.

-Mi hai fatto preoccupare… Quando ti ho persa tra la folla e non ti ho più vista arrivare ho temuto il peggio!-.

-Mi sono semplicemente fermata un po’ e poi sono andata a soccorrere un ragazzo?- spiegò Sarah, sebbene fosse ancora un po’ distratta.

-Chi?-.

-Quello che indossa ancora il camice da laboratorio bruciato!-.

-Santo cielo…è stato l’incendio a ridurre il camice così?- chiese l’amica, tirando su con il naso e cercando di arrestare il pianto, visto che ormai si era tranquillizzata.

-Già… fa effetto vero?-.

-Ma scusa…lui non ha neanche un segno?-.

-Non lo so… ci ho pensato anche io. Deve avere avuto veramente tanta fortuna, poteva andare decisamente peggio.- sibilò Sarah, mentre con lo sguardo scrutava da lontano Marco, cercando di individuare una minima bruciatura.

-Ragazzi, vorrei la vostra attenzione!- urlò il preside, in piedi al centro del cortile.

Tutti fecero silenzio e aspettarono che il dirigente scolastico parlasse.

-I pompieri sono riusciti a spegnere facilmente il fuoco, che, per fortuna, era circoscritto solo alla zona dei laboratori del primo piano. Mi hanno informato che si pensa che l’incendio sia stato causato da qualche esperimento riuscito male nell’aula di chimica, anche se non sono state trovate le cause effettive. Sono contento di sapere che non ci sono feriti e che state tutti bene. Purtroppo sono costretto a chiudere la scuola per una settimana per poter garantire nuovamente la sicurezza. Prendete questi giorni come una breve continuazione delle vacanze estive.-.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Tutti i ragazzi, sebbene la confusione generale che si era creata per l’incendio, sorrisero contenti di questa nuova notizia. Non restò altro da fare che tornare a casa. 
Elena e Sarah si incamminarono per la via insieme, visto che le loro case erano relativamente vicine, ma presto arrivò anche da quell’impiccione di Matteo, che, per raggiungerle, aveva corso.

-Ancora qui?- domandò Sarah, sbuffando palesemente alla vista del nuovo compagno di strada.

-Sempre qui…per…te, tesoro!- rispose Matteo lentamente, prendendo fiato tra una parola e l’altra.

-Ti sei anche rovinato il fisico? Mamma mia che delusione che sei…- affermò tagliente la mora.

-Finalmente!-.

-Cosa c’è adesso?- chiese la ragazza, roteando gli occhi. -Stai a vedere che si inventa ora…- sussurrò subito dopo verso la sua amica.

-Allora ammetti che ti piace il mio fisico, eh? Facciamo progressi vedo…- dichiarò tutto contento ed entusiasta. A queste parole Elena scoppiò a ridere, ma, per cercare di sembrare il più seria possibile, si mise in fretta la mano davanti alla bocca e finse di tossire.

-Ma quale problema hai?-.

-Ovvia, non fare la sostenuta. Non ce n’è più bisogno, non con me.- continuò Matteo, ancora convinto. Se c’era una persona che incarnava l’autostima, di sicuro era lui.

-Chiamarti semplicemente insopportabile sarebbe fare un eufemismo.-.

-Siamo destinati a stare insieme, lo sai!- bisbigliò il ragazzo, mostrando un sorriso a trentadue denti, sperando forse che la sua immagine da testimonial di una marca di dentifrici potesse colpirla.

-Noi due siamo destinati a stare insieme, quanto i malvagi dei cartoni a trionfare sui buoni.-.

A questa affermazione Matteo rimase leggermente confuso. Il suo sguardo divenne pensieroso. Probabilmente non aveva afferrato il paragone.

-Mai!- urlò Sarah, avendo capito che il suo interlocutore doveva aver passato un’infanzia difficile.

-In realtà in alcuni giochi i cattivi riescono a vincere…- intervenne Elena, che finora aveva preferito godersi la scena. Non appena vide due occhi fiammeggianti pugnalarla, capì di aver fatto una mossa sbagliata.

-Stai zitta.- ringhiò sottovoce l’amica, cercando poi di far finta di nulla, abbozzando un debole sorriso. 

-Noi possiamo cambiare il destino…- continuò Matteo, ormai sicuro di aver infranto la barriera.

-Ne parliamo, ok? Intanto vedi di cambiare strada…sarebbe un inizio.- rispose sarcastica Sarah, dopo aver notato che erano ormai giunti all’incrocio, dopo il quale il ragazzo avrebbe dovuto proseguire da solo.

-Oh…siamo già qui?-.

-Vuoi anche una bussola per caso?-.

-No tranquilla… il mio polo Nord sei tu.- bisbigliò Matteo con voce soave. 

-Sparisci se non vuoi avere un trauma al tuo polo Sud.- lo esortò Sarah.

-Amo quando ti riscaldi…- iniziò a dire, ma, quando uno sguardo lo incenerì, decise di lasciar cadere il discorso. 
Diede un leggero bacio sulla guancia ad Elena per salutarla. Si avvicinò anche a Sarah, ma lei lo fermò preventivamente con una mano. Per niente abbattuto, Matteo si girò e, alzando una mano per salutare, attraversò le strisce pedonali e scomparve dietro l’angolo.

-Meno male…non ne potevo più!- dichiarò Sarah.

-Ma dai che esageri…-. affermò Elena. -Non è così male! Poi non fa altro che venirti dietro! Forse ci tiene davvero, sai?-.

-Non ti ci mettere anche te! Non ho voglia! Può anche essere, ma voglio stare sola! Esigo libertà ed una relazione non fa per me, lo sai…!- spiegò in breve la mora, chiarendo le sue ragioni.

-Prima o poi arriverà il momento…-.

-Spero più poi che prima.- terminò la conversazione. -Ciao Ele! Ci vediamo o almeno ci sentiamo in questi giorni, ok?-.

-Certo! Dimmi se vuoi uscire che io vengo subito!- urlò la bionda, già qualche metro più lontana.

Così Sarah entrò in casa, pronta a chiamare sua madre per raccontarle tutto ciò che era accaduto.

 

 

Marco arrivò a casa stravolto. Fu contento di essere da solo. Non aveva voglia di parlare di ciò che era successo, sebbene avesse ottimi rapporti con i suoi genitori. Erano una famiglia veramente molto unita. Sua madre si chiamava Ludovica e, forse, era proprio l’asse portante di tutto. Era una donna piuttosto giovane e, per questo, riusciva ad essere vicina ai propri figli, cercando di personificarsi in loro. Aveva sempre tenuto ad avere un bel rapporto con tutti e, da quando si era accorta del carattere particolare del suo primogenito, aveva cercato di aiutarlo il più possibile. In quella famiglia tutti avevano capelli biondo cenere e occhi verdi, tutti tranne Marco. Con i suoi capelli corvini ed i suoi occhi azzurri si distingueva totalmente. Nessuno riusciva a capire come fosse possibile, ma si era assolutamente certi della fedeltà dei due genitori. Il ragazzo non se ne curava più di tanto…del resto la genetica è senz’altro abbastanza sregolata. Salì in camera sua, ma sulle scale quasi inciampò nello zainetto del suo fratellino Giulio, un bellissimo bambino di cinque anni, paffutello e sempre sorridente. 

Arrivato nella stanza, posò tutta la sua roba sul letto, sul quale subito dopo si buttò anche lui. Era stremato, confuso, solo. Già…solo. 
Purtroppo questo era un aggettivo che lo aveva accompagnato sin da piccolo, forse per il suo modo di essere così introverso o forse per i suoi interessi così lontani dalla maggior parte degli adolescenti. Odiava tutti gli sport, ad eccezione del nuoto, che, per questo, veniva praticato durante l’estate. Essere da solo in una piscina o nel mare lo rilassava enormemente…lo faceva sentire in pace con se stesso.

Essere solo lo faceva stare male. Quando l’incendio era scoppiato, quella mattina, la sua classe si trovava nel laboratorio di chimica. Lui era rimasto indietro rispetto agli altri ed era immobilizzato alla vista delle fiamme, tanto da non riuscire più a muovere un passo.

Nessuno dei suoi compagni era tornato indietro per aiutarlo, nessuno si era preoccupato di lui, lui non esisteva per quasi nessuno. Cosa sarebbe accaduto se quella ragazza non fosse arrivata? Probabilmente le doveva la vita. Doveva la vita ad una sconosciuta. 
Quando era riuscito a tornare nel cortile, aveva osservato a lungo Sarah. Lei aveva un carattere così forte, competitivo, ma sapeva essere anche dolce all’occorrenza, come lo era stata con lui. I suoi compagni facevano quasi a botte per poter stare con quella ragazza, che, invece, sembrava quasi disprezzare tutte quelle attenzioni. Marco avrebbe pagato oro per poter essere al suo posto.

Aveva sentito spesso nominare le due parole “migliore amico”, ma, tuttavia, lui non le aveva mai pronunciate. Non perché non volesse, ma perché non ne aveva mai avuto la possibilità. Avrebbe tanto voluto possedere un rapporto di amicizia reciproca a quei livelli. 
Sapeva essere sbagliato il voler a tutti i costi etichettare una persona, ma ne sentiva il bisogno, la necessità e non poteva essere altrimenti. E poi cosa c’è di sbagliato nel voler chiamare una persona con il ruolo che rappresenta nella tua vita? 

Probabilmente rappresentava uno dei suoi sogni più grandi. Strano vero? Spesso la gente quando si ritrova a lanciare nell’acqua di una fontana una monetina, a veder passare una stella cadente o soltanto ad allacciare un braccialetto al proprio polso esprime desideri assurdi e chiede di diventare famosa, ricca o cose simili. Lui nella sua testa ripeteva sempre la stessa richiesta: “Voglio avere un vero amico”.

Avere una persona con la quale condividere tutto, dai momenti tristi a quelli felici, con la quale non ci sia bisogno di parlarsi per capirsi, che faccia parte del tuo mondo, senza per forza approvarne tutte le leggi, della quale non ti vergogni di nulla. Marco aveva a lungo cercato qualcuno che potesse incarnare questo ruolo per lui, ma, ormai, dopo anni, la conoscenza del mondo privo di valori nel quale si trovava e la consapevolezza di rincorrere un’utopia, lo aveva portato alla rassegnazione. 

Il suo cervello non riusciva mai a trovare pace, la sua mente lavorava in continuazione e il rischio di un improvviso blackout era sempre alle porte, ma aveva trovato il modo per acquietare leggermente il suo animo. Suonare. Il pianoforte era uno sei suoi mezzi di espressione più forte. Da quando aveva cominciato a suonarlo, non lo aveva più abbandonato. Quando qualcosa gli faceva troppo male o la confusione era troppo accentuata, allora si sedeva su quel panchetto di pelle nera, e cominciava a far scorrere le dita su quella tastiera bianca e nera.

Nonostante ciò, non voleva essere inutile all’umanità e sentirsi di passaggio. Sentiva la necessità di fare qualcosa per aiutare le persone, anche se, probabilmente, il primo ad avere bisogno di rinforzi era lui. Aveva deciso di andare ogni sera a fare volontariato all’ospedale. Amava giocare con i bambini meno fortunati e riuscire a far tornar loro un sorriso. Era così raro vederle contenti che ogni volta era gratificante. Non faceva niente di particolare in realtà. Si sedeva su una seggiolini e raccontava storie o giocava con chi ne avesse voglia.

Volendo fuggire da tutte le riflessioni possibili, decide di andare prima del solito in ospedale, in fondo non avrebbe certamente creato problemi. Si cambiò velocemente gli abiti, scese le scale e lasciò un bigliettino sul tavolo di cucina per avvisare i suoi genitori del repentino cambio di programma. Poi uscì velocemente di casa, contento di aver trovato un modo per scappare dai pensieri, ma che fosse contemporaneamente non uno spreco di tempo.

Il sole era sempre presente nel cielo, ma sicuramente tra due orette avrebbe cominciato a calare per dare maggiore spazio alla luna. Non erano passati nemmeno cinque minuti che Marco era già arrivato. Conosceva alla perfezione quel luogo e ormai non aveva problemi ad orientarsi in quel labirinto, composto di corridoi e raparti. 

Si trattava di un edificio piuttosto moderno, tinto, ovviamente, con colori pastello, varianti tra il verde salvia ed il giallo canarino. Marco era abituato a quel luogo, eppure ogni volta che ci entrava una fitta gli catturava il cuore. Vedere tutte quelle persone malate lo faceva soffrire, ma, almeno, di rendeva conto di quanto fosse realmente fortunato. 

Marco varcò la soglia e si diresse verso quella che doveva essere una segreteria.

-Ciao Marco!- esordì una donna sulla cinquantina, seduta dietro una grande scrivania e vestita con un camice bianco.

-Ehi Maria! Tutto bene?- chiese educatamente il ragazzo, avvicinandosi maggiormente.

-Si tira avanti dai! Scusa ma che ore sono?-.

-Più o meno le sei…perché?- rispose, mettendosi intanto a sedere su una sedia lì vicino.

-Ah…ed io che pensavo di avere finito il turno! Sono troppo abituata a regolarmi sul tuo arrivo…non puoi arrivare così in anticipo e farmi illudere!- spiegò Maria, ridendo e sbuffando allo stesso tempo. 

-Sai vero che è pieno di orologi?- domandò sarcastico Marco, guardandosi intorno per avvalorare la sua affermazione.

-Si che lo so, ma credo di avere un ribrezzo naturale per quegli oggetti. Li odio.-.

-Se è così non rifartela con me!- concluse lui.- Posso andare dai bambini?- continuò, cominciando ad alzarsi.

-Oh si certo! Vai pure, la strada la sai!-.

-Bene. Ciao!-.

Mentre passava per i corridoi stretti e illuminati con quella luce così artificiale, dei medici gli passarono accanto. Stavano trasportando una barella, che, purtroppo, non era vuota. Sopra ci giaceva qualcuno, ricoperto con un telo bianco. A quella vista Marco fu attraversato da una serie di brividi, che scomparvero non appena riuscì ad arrivare alla sua meta.

Spalancò la porta senza indugio ed entrò nell’area ricreativa, dove si trovavano tutti quei bambini che, bene o male, potevano passare del tempo fuori dal letto. Molto probabilmente era la stanza più colorata di tutto l’ospedale. Le pareti presentavano una tinta azzurra accesa ed erano presenti numerosi mobili e giocattoli che rendevano l’ambiente più allegro. Non appena Marco entrò una folla di bambini si raggruppò in torno alle sue gambe, salutandolo o urlando il suo nome. Ormai lo conoscevano quasi tutti e lo consideravano un po’ come il loro baby-sitter. 

-Marco ci canti una canzone?-.

-Marco mi fai fare il cavallino?-.

-Marco ci leggi una storia?-.

-Marco vieni a fare le costruzioni?-.

Le richieste erano tra le più disparate, ma Marco cercava di assecondarle tutte, per evitare di far diventare triste anche un solo bambino.

Così iniziò a leggere una favola, poi giocò un po’ con le costruzioni, fece un po’ lo stupido, improvvisandosi cantante, ma, ad un tratto, si rese conto che c’era qualcosa che non tornava. Tra tutte le voci che aveva udito, non aveva sentito quella di Francesco, l’unico bambino che ogni volta gli chiedeva di passare con lui solo qualche minuto. Era l’unico che non voleva giocare, lui voleva solo sentirsi coccolato. Per questa ragione era entrato velocemente nel cuore di Marco, mosso da una tenerezza spaventosa. 

-Bimbi, dove è Francesco?- chiese allora, sperando in una risposta.

-E’ andato via poco fa…- rispose tre o quattro in coro, guardandosi tra di loro.

-Via dove?- domandò allora il ragazzo, leggermente confuso.

-Non lo sappiamo, non ce lo hanno detto…-.

A quelle parole Marco scattò in piedi e corse per i corridoi, rifacendo il percorso al contrario, fino ad arrivare nuovamente all’ingresso. Si guardò intorno in cerca di quel bambino, ma gli unici occhi che vide furono quelli di Maria, che lo fissava afflitta.

-Maria dove è Francesco?- quasi gridò.

-Marco…- sussurrò la donna con gli occhi bassi.

-Dimmi dov’è!- insistette Marco, furioso, forse perché ormai aveva capito.

-Marco…ha smesso di respirare poco fa…aveva problemi respiratori gravi, lo sai.- disse Maria, prendendo grandi respiri tra una parola e l’altra.

-Non può essere…- bisbigliò il ragazzo, cominciando ad avere gli occhi lucidi.

La donna lo abbracciò forte, cercando di dargli tutto il conforto che poteva, anche se consapevole che non sarebbe mai stato abbastanza.

-Aveva l’età di mio fratello Maria… cinque anni cazzo…troppo poco tempo per vivere.-.

Marco si fece forza e decise di tornare dai quei bambini dai quali era scappato così frettolosamente. Almeno loro avevano il diritto di sorridere, non era giusto privarli di ciò.

-Marco…aspetta!- cercò invano di fermarlo Maria, ma lui era già scomparso tra i vari reparti.

 

Ritornò nella stanza dei giochi e, miracolosamente, riuscì ad evitare che i suoi occhi lacrimassero, mentre non fermò il pianto del suo cuore. 
Alessio, un bambino un poco più grande degli altri si avvicinò.

-Hai trovato Francesco?- chiese con la sua voce tenera.

-Si, ma non sono riuscito a raggiungerlo…- rispose titubante Marco, sapendo che tutti avrebbero voluto sapere il motivo. Prese in braccio Alessio.

-Perché? Dove è?- continuò il bambino, toccando con la sua manina il volto del ragazzo.

-E’ in un posto troppo bello adesso…non possiamo ancora raggiungerlo, ma prima o poi lo faremo!- spiegò, cercando di evitare di incrociare lo sguardo di qualcuno.

Riprese la lettura che aveva cominciato prima, mentre fuori un temporale, privo di fulmini, mostrava tutta la sua potenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Marco, non volendo tornare a casa subito dopo la chiusura del reparto giochi, decise di fare un giro per la città, per riflettere e trovare un briciolo di pace. La pioggia cadeva ancora prepotentemente e non sembrava mostrare segni di cedimento. Meglio, no? In questo modo il ragazzo poteva passeggiare indisturbato per le strade, senza dover aver paura del giudizio della gente, pronta a stupirsi nel vedere un ragazzo piangere. Le lacrime scorrevano veloci sulle guance e si mescolavano alle gocce non appena toccavano terra. Non sapeva nemmeno lui il motivo per il quale sentisse un vuoto tale dentro al cuore. Sapere della morte di Francesco lo aveva distrutto. Certo, si trattava solo di un bambino all’interno di un ospedale. Un bambino come tanti ce n’erano, forse con quale problema di salute in più, ma pur sempre una creatura di cinque anni. Eppure, sebbene non ci fosse una ragione particolare, si sentiva estremamente legato a quel bambino. Era inevitabile. Forse si rivedeva lui stesso in Francesco. In fondo erano simili anche fisicamente, entrambi con dei bellissimi occhi chiari, diversi solo per intensità e tonalità. Forse Marco avrebbe voluto essere per Francesco quel fratello che lui non aveva avuto. Ed ora gli era stata tolta la possibilità di conversare con quel bambino, l’unico al mondo che a cinque anni volesse semplicemente parlare per sentirsi bene. 

Marco estrasse dal portafoglio una foto tessera di loro due insieme e chiese timidamente ad un passante un accendino. L’uomo che aveva fermato glielo diede e, vedendolo disperato o forse avendo fretta, glielo regalò addirittura. Il ragazzo rimase leggermente perplesso per quel gesto. Non voleva fare pietà. Ricevere attenzioni è un conto, fare pietà un altro.  Consapevole che non fosse quello il momento giusto per questi tipi di riflessione, si diresse in un luogo dove non piovesse, prese l’accendino e diede fuoco alla foto.

-Francesco questa foto te l’avrei dovuta dare stasera, ma tu non c’eri. Te la regalo lo stesso, sperando che il fumo possa arrivare fin sopra il cielo, là dove sei adesso. Spero che tu possa trovare qualcuno con cui parlare. Addio…- sussurrò queste parole, mentre l’immagine spariva divorata dalle fiamme sotto lo sguardo attento di Marco, che, con questo gesto, riuscì finalmente a tirare un sospiro di sollievo.

 

Tornato a casa, cercò di fare il più silenzio possibile, per evitare di svegliare tutti i componenti della famiglia, ormai a letto. Decise, però, di passare dalla camera dei genitori per avvisarli del suo rientro, in quanto sapeva che sua madre era solita preoccuparsi oltre il dovuto. Aprì lentamente la porta e fece qualche passo verso il letto matrimoniale aiutandosi con la luce dello schermo del telefonino. Tastando il materasso con la mano, riuscì a trovare quelli che dovevano essere i piedi. Così ripercorse il corpo fino a trovare il viso di Ludovica. Si chinò leggermente e diede un leggero bacio sulla guancia della madre, sussurrando “Buonanotte”. 

-Ciao tesoro…- bisbigliò la donna con voce assonnata. Molto probabilmente il contatto era stato sufficiente a svegliarla.

-Oh…ciao mamma…scusa, non volevo svegliarti!-.

-Tranquillo, non fa niente e poi sai che non riesco a dormire bene quando ti so fuori da solo!- lo rassicurò la madre, cercando di fare una carezza al proprio figlio, ma ottenendo scarsi risultati a causa del buio.

-Già…vado a letto ora, buonanotte.- disse Marco, per finire lì la conversazione.

-Cosa hai? Lo so che è successo qualcosa, lo sento dalla tua voce.-.

-E’ morto Francesco, il bimbo dell’ospedale che adoravo…- confessò, facendo un sospiro per evitare che le lacrime potessero ritrovare la via per uscire.

-Amore, mi dispiace così tanto! Sai di poter parlare di tutto con noi! Ok? Se poi vorrai, ci informeremo a proposito del luogo in cui si svolgerà il funerale e ci andremo…- rispose, abbracciando di slancio il figlio, spostando tutte le coperte. 

-Grazie mamma, davvero…ora però vado, ho davvero bisogno di dormire e di riposarmi. E’ stata una giornata troppo lunga.-.

-Ho saputo anche di ciò che è accaduto a scuola! Perché non me lo hai detto? Poteva succederti qualcosa…-.

-Mi era quasi passato di mente, scusa… Non avevo voglia di parlarne e comunque sto bene. L’incendio era piuttosto contenuto.- confessò Marco, prendendo il telefono per poter ritrovare il percorso per uscire dalla stanza.

-Capito…l’importante è che tu non abbia bruciature. Buonanotte tesoro.-.

-Buonanotte mamma.-.

Udite queste parole, Ludovica riportò il suo viso sul cuscino e riprese il sonno precedentemente interrotto.

 

Arrivato finalmente in camera sua, si disfece di tutti i vestiti molto velocemente, come se fossero questi la causa del peso che sentiva su di sé. Rimase con i suoi boxer grigi e si guardò per qualche secondo allo specchio. Durante quell’estate era dimagrito inverosimilmente o, altra possibilità, i suoi muscoli si erano sviluppati. Di sicuro era successo qualcosa perché aveva un fisico molto più asciutto rispetto a giugno. Probabilmente era merito del nuoto effettuato durante i mesi estivi. 

Aprì la finestra per far entrare un po’ d’aria e di vento e, sebbene facesse leggermente freddo, decise di dormire lo stesso in mutande. Non aveva voglia di sentire insulsi pigiami sulla propria pelle. Si rigirò più volte nel letto, fino a quando non riuscì a trovare la posizione più adatta. Non fece in tempo a formulare un semplice pensiero, che la notte e la stanchezza ebbero la meglio su di lui. Finalmente si era addormentato.

 

Un forte vento scompigliava i capelli di Marco. Questo si alzò, sfregando la mano sugli occhi per risvegliare dal torpore i suoi organi si senso. Quando finalmente riuscì a ritrovare il controllo sul suo corpo, rimase perplesso. Quella che credeva essere la sua stanza, con il suo letto e la sua scrivania non esisteva più. Non stava dormendo su un materasso, ma su una superficie rocciosa, tutt’altro che comoda. Dopo esserci concentrato sul suolo, sollevò il suo sguardo. Non ci poteva credere. Un mare, o forse un oceano, lo circondava. Il vento soffiava forte e l’acqua era tempestosa. Le onde si alzavano feroci e andavano a scontrasi verso quel pilastro di roccia sul quale dominava lui. Doveva essere un mare molto profondo: l’acqua era blu, blu notte. Anche il cielo era scuro, anche il cielo sembrava cercare vendetta, ma era il cielo a dominare su Marco. Una sensazione indescrivibile travolse quest’ultimo. Un senso di potenza, di onnipotenza, lo sovrastò, unendosi ad un sentimento di smarrimento e di paura inimmaginabile. Il dominio sul mare in tempesta, così furioso e così violento ma non capace di distruggerlo, contro il cielo, incombente, invece, dall’alto e pronto a stritolarlo sotto il peso della sua volta grigia. Ma, ad un tratto, qualcosa cambiò. Le nubi si fecero più dense, il vento divenne quasi tagliente ed una pioggia di fulmini riempì il paesaggio, rovinando il precedente equilibrio caotico. Una saetta, immediatamente seguita dal suo tipico rumore assordante fece sussultare Marco, colpendo a un centinaio di metri dietro di lui. Immediatamente il ragazzo si volse e, solo a quel punto, si rese conto che poco lontano era presente della terraferma. O forse si trattava di un’isola…in ogni caso non era possibile capirlo, poiché l’estensione di terra era troppo grande per vederne i confini. Era una terra praticamente desolata. Pochi cespugli e pochi alberi con le loro fronde facevano capolino dal suolo. Una spiaggia ricopriva i confini, che, però, venivano costantemente sorpassati dal reflusso del mare. Il tempo di poter battere le ciglia bastò a Marco per accorgersi che quella pianura si era improvvisamente movimentata. La distanza era tale da non permettergli di delineare bene le figure, infatti tutto gli appariva come sfocato, come un ologramma. Erano presenti due gruppi, distinguibili non solo per la loro posizione, ma anche per i vestiti che portavano. Da un lato primeggiava il bianco, dall’altro il blu. Quelli non erano semplici gruppi. Quelli erano due schieramenti, ma non erano composti da umani, o, per lo meno, non interamente. Figura grosse, figure slanciate, figure minuscole contribuivano ad accrescere il numero di soldati. La battaglia iniziò. I due eserciti corsero l’uno verso l’altro ed il rumore di ferro divenne la colonna sonora di quello che si preannunciava essere un massacro. Le persone o quegli strani esseri cadevano sotto gli occhi stupiti e smarriti di Marco, volenteroso di intervenire, ma incapace di farlo. I corpi si accasciavano al suolo, le armi ferivano ferocemente ed il sangue impregnava quella spiaggia, che era stata candida fino a poco tempo prima. 

Alla visione di tutto questo, il ragazzo, non sapendo cosa fare, si appese all’unica arma che ancora aveva: la voce. Lanciò un urlo prepotente, selvaggio, sentito. Il cielo sembrò voler rispondere a quest’appello. Un fulmine più potente degli altri si abbatté sulla spiaggia, polverizzando l’ultimo componente rimasto in vita dello schieramento blu. Un onda si levò sopra il livello del mare e inondò la terra, trascinando verso l’abisso tutti coloro che portavano un abito bianco. Ora non c’era più nessuno. Tutto si era come dissolto. L’acqua aveva spazzato via il minimo resto concreto della battaglia, mentre il vento aveva provveduto ad allontanare le grida di battaglia. Il cielo cominciò ad incupirsi  e divenne buio come la notte. Mentre le stelle cominciavano a comparire e disegnavano le loro costellazioni, il vento riprese a soffiare violentemente. Questa volta però era diverso. Zefiro si imponeva completamente verso una sola direzione: verso Marco. L’aria veloce, sibilante e tagliente iniziò a infrangersi contro il pilastro di roccia, che, inevitabilmente, cominciò a sgretolarsi sotto i piedi del ragazzo. Ad ogni folata il sostegno si fece sempre più sottile, fino a quando una raffica poco più potente non fu in grado di distruggerlo completamente. Il terreno si sgretolò sotto Marco, che cadde disperatamente nell’oceano, senza un sostegno a cui aggrapparsi. L’abisso lo accolse dentro sé. Il buio lo avvolse ed il freddo lo colpì. Marco teneva gli occhi chiusi, così come la bocca, cercando di trattenere tutta l’aria possibile. Con le braccia tentava di raggiungere la superficie, ma tutti i suoi sforzi erano vani. Non aveva più coscienza del suo corpo. Non sentiva più né gli arti inferiori né quelli superiori. Era rimasta sola la sua mente. Aprì gli occhi nella speranza che, aggiungendo un senso, fosse più semplice scappare. Il sale non gli diede noia.La retina non provò dolore al contatto con il liquido, ma lo sguardo vagava smarrito in quella notte profonda. I polmoni si ritrovarono vuoti di ossigeno. Per effetto di una sopravvivenza disperata la bocca si aprì e una vasta quantità di acqua entrò, invadendo i polmoni e altri organi interni. Quasi consapevole di quello che stava per accadere Marco si lasciò andare , non opponendo più resistenza ad una forza superiore a lui. Il suo corpo scese sempre più in basso, andando a confondersi con quell’oscurità tanto temuta. E proprio mentre la mente perdeva la sua capacità logica e gli occhi erano pronti a richiudersi per sempre, una fitta al cuore lo fece risvegliare dal limbo. Gli occhi si spalancarono potenti, dipinti di un blu più potente di quello circostante, la pelle divenne bianca come il chiarore della luna e le mani ritrovarono la loro forza. L’addome non compieva il suo tipico movimento. Non stava respirando. I muscoli delle gambe si contrassero, fuori controllo, e le gambe iniziarono a muoversi veloci, spingendo Marco in una corrente portentosa, capace di portarlo nel cielo. Percorse a grande velocità quei metri che lo dividevano dal confine e infranse la barriera dell’oceano, saltando fuori dal mare. Il tempo sembrò fermarsi. Il suo corpo non era posto alla solita forza di gravità, ma levitava nell’aria, spingendosi sempre oltre. L’oceano non sembrò accettare la sconfitta e l’acqua cercò di raggiungerlo, circondandolo. Marco non si muoveva più, si limitava a contemplare il sole, che all’orizzonte principiava a nascere. Solo dopo pochi secondi si rese conto che il liquido si era disposto secondo una forma ben precisa, al cui centro era posto lui. Con lo sguardo cercò di capire di cosa si trattasse. Era una forma geometrica. Era un triangolo equilatero con il vertice rivolto verso il basso. L’acqua, quasi consapevole che il ragazzo avesse capito, si dissolse nell’aria. I raggi luminosi colpirono le particelle rimaste, causando una moltitudine di colori, che colpì il viso di Marco. Gli occhi cominciarono a bruciare a causa dell’intensità del sole. Per sicurezza si chiusero.

 

Marco si svegliò lentamente. La luce del sole entrava dalla finestra, si rifrangeva contro il vetro della scrivania e andava a colpire il volto del ragazzo, contornato così dall’arcobaleno. Non si ricordava con esattezza cosa avesse sognato, ma le saette, la guerra, il vento tagliente, l’oceano scuro, le correnti ed un triangolo equilatero affollavano la sua mente. Che sogno bizzarro. Non aveva il minimo senso logico. Probabilmente era stato causato dall’esser stato fuori durante il temporale la sera. Ma cosa c’entrava una guerra? I fulmini? La geometria? 

 

Queste domande tormentato per poco Marco, che, scettico riguardo all’importanza dei sogni, si alzò, dirigendosi verso il bagno. Dopo aver fatto la sua canonica doccia, indossò la tanto detesta divisa e si diresse in cucina per fare colazione. Sua madre lo accolse calorosamente, andandogli incontro e salutandolo con un bacio sulla guancia. 

-Buongiorno.- rispose al gesto Marco.

-Va meglio tesoro? Ti sei riposato?- chiese Ludovica.

-Se così si può dire…- sussurrò lui, con in mano la bottiglia del latte fresco e cercando nell’armadio la scatola dei cereali.

-Cosa vuol dire?- domandò la donna, sedendosi al tavolo con il suo caffè bollente.

-Nulla nulla, lascia stare. Ci sono altri cereali oltre a questi?-.

-Si, perché? Sono nella credenza.-.

-Ah ok, perfetto. Perché questi li finisco, ma mi dispiaceva se poi Giulio non li aveva quando si svegliava. Dorme ancora?-.

-Sì, è ancora nel letto. Tra poco lo dovrò svegliare. Ma perché ti sei svegliato così presto? La scuola rimarrà chiusa fino alla settimana prossima!- gli ricordò la donna, afferrando il telecomando della televisione.

-Me ne ero scordato! Accidenti! Non importa…ne approfitterò per fare un giro, non ho voglia di stare a casa.- bofonchiò il ragazzo.

-Come vuoi tesoro…- lo assecondò la madre, cercando di trattenere la risata dovuta all’espressione corrucciata del figlio. -Vuoi parlare di ieri? Adesso che è giorno, sono più sveglia!- continuò, nella speranza forse di ricevere una risposta positiva questa volta.

-No, mamma, davvero! Lo sai…non desidero parlare dei fatti miei.-.

-Ma non devi tenerti tutto dentro…finirai per esplodere…- disse lei, abbassando lo sguardo affranta.

-Non ti preoccupare…non accadrà, ci sono gli amici per questo.- rispose marco, distogliendo lo sguardo da sua madre per non guardarla negli occhi. E’ vero, ci sono gli amici…ma quali amici? Ludovica non sapeva della quasi totale assenza intorno al figlio di persone che si interessassero a lui, d’altro canto lui non parlava. 

-Okay amore, come vuoi…-.

-Alza il volume, ci sono le notizie del mattino.- ordinò alla madre, che fece quanto richiesto.

-Ci sono giunte notizie che durante la notte ci siano state ripetute scosse di terremoto nel sud Italia, l’epicentro è ancora da identificare. Inoltre le coste francesi sono state stravolte da una potente tromba d’aria, che ha devastato tutto il litorale. In seguito il vento è cessato, così come si era alzato. Per fortuna sembra che in entrambi i casi non ci siano stati morti, ma abbiamo ancora bisogno di testimonianze. Vi terremmo aggiornati sulle prossime notizie. Intanto la popolazione inizia ad andare nel panico: che il 2012 sia davvero l’anno della fine del mondo?- disse il reporter con voce calma, come se stesse parlando di cosa comprare al supermercato.

-Cazzate.- bisbigliò Marco a denti stretti. Si alzò, sciacquò la tazza appena usata, afferrò le chiavi di casa sul mobile poco distante e, senza nemmeno dire nulla alla madre, che lo guardava in silenzio, uscì di casa.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Era passata la settimana di finte vacanze ed ora era giunto l’ultimo weekend di vera libertà. Era sabato ed il sole non rischiava di essere coperto dalle nuvole, ma Sarah quella mattina era agitata. Quel pomeriggio avrebbe avuto una gara importante di ginnastica ritmica e ciò significava molto per lei. Era l’unica situazione in cui si sentiva praticamente del tutto libera. Non riuscì a mangiare niente, seppure Kirsten le avesse chiesto di buttar giù almeno qualcosa, per una questione di salute. Ma l’ansia era troppa, ansia da prestazione, paura di cadere. La madre, ormai rassegnata, decise di accompagnarla in macchina al luogo dove si sarebbe svolta la competizione e, per la prima volta, decise anche di rimare ad assistere, in quanto libera da possibili impegni. Per l’occorrenza la ragazza si era vestita semplicemente con una tuta grigia, per poter stare più comoda e cambiarsi in fretta nello spogliatoio. Questa volta si trattava di una prova collettiva. Erano presenti più squadre, ciascuna delle quali doveva essere composta da quattro persone. Ogni ragazza si sarebbe esibita con uno strumento, non erano possibili ripetizioni e, ovviamente, uno degli oggetti ginnici sarebbe rimasto escluso. Il punteggio era su trenta, dato dalla somma di dieci punti per la difficoltà, dieci per l’esecuzione, dieci per il lato artistico. Alla fine si dovevano sommare i punteggi delle componenti di ogni gruppo e, naturalmente, avrebbe vinto il più alto. 

Scendendo dalla macchina in fretta e salutando sua madre con un frettoloso “A dopo”, Sarah si diresse verso lo spogliatoio. Là trovò tutte le sue compagne. 

-Oh, finalmente Sarah! Temevamo che non saresti più arrivata!- salutò Marta, la più giovane del gruppo, dato che aveva solo quattordici anni. 

-Ma no! Non ti preoccupare! Non vi avrei mai abbandonate, lo sapete!-.

-Ciao Sarah!- esordì anche un’altra amica, Matilde, andandole incontro e stampandole un bacio sulla guancia. Forse era quella alla quale Sarah era più affezionata, avevano cominciato ginnastica ritmica insieme e avevano ottenuto ottimi risultati sempre senza lasciarsi. Erano un duetto perfetto. 

-Ciao Mati! Allora sei te la prima con il cerchio?- chiese, mentre si infilava il suo body nero lucido.

-No, abbiamo dovuto fare dei cambi! Per prima andrà Carolina, poi Marta, seguirò io e concluderai te!- spiegò in fretta l’amica.

-Stai scherzando? Devo finire io? Odio essere l’ultima, uffa.-.

-Lo so, ma l’insegnante ci ha ordinato di fare in questo modo. Poi sei bravissima con il nastro e sarà sicuramente una chiusura ad effetto.- continuò convinta la compagna.

-Se lo dici te…-.

-Io infatti non ne sono sicura.- intervenne Carolina, una ragazza bionda, con gli occhi di ghiaccio. 

-Ti stavo giusto aspettando.- rispose Sarah, sbuffando. Non aveva proprio voglia di parlare con quell’essere, che umano non si poteva definire.

-Ti sono mancata?-.

-Quanto mi manca l’inverno guarda.-.

-Comunque vedi di fare decentemente il tuo lavoro, sennò ci fai sfigurare.- disse l’altra con aria di superiorità.

-Ti faccio presente che sei la prima. La prima impressione è quella che conta, quindi ragazze siamo spacciate.- affermò con tono ironico Sarah, rivolgendosi alle altre due, che non osavano nemmeno intervenire.

-Visto che dipende da me, sarà un’ottima impressione.-.

-Oh ne sono sicura, con quella faccia da schiaffi che ti ritrovi puoi ammaliare l’intero pubblico. Ma fammi il piacere dai!- asserì in maniera breve e concisa Sarah.

-Cosa è, non ti hanno insegnato l’educazione? Se ti pare questo il modo.-.

-Disse quella che non saluta nemmeno.-.

-Il saluto lo riservo a pochi io.-.

-Brava fai bene!- rispose entusiasta Sarah.-Almeno risparmi ossigeno e non siamo costretti a sentire la voce oscena che ti ritrovi.-.

-Ti detesto.- affermò convinta Carolina, stringendo i pugni.

-No, come? Io ti amo invece.- disse, con un’espressione affranta, logicamente finta.

-Sei insopportabile.-.

-Tu sei proprio indescrivibile, pensa te.-.

-Vado a vincere una gara.-.

-Cerca di non far cadere le clavette, va bene tesoro?-.

Detto ciò, Carolina non l’ascoltò nemmeno e si diresse verso la pedana dove avrebbe cominciato la sua esibizione.

-Non essere sempre così fredda e tagliente con lei, dai!- cominciò a dire Matilde.

-Ovvia, qualcuno che le faccia sbattere la testa ci vuole a questo mondo, no?-.

-In effetti…- concordò l’amica, annuendo anche con il viso.

Le tre compagne si misero a guardare la gara e la bionda muoversi velocemente sulla pedana. Era brava, questo era innegabile, ma a Sarah non piaceva comunque. Non per una questione di puntiglio o di presa posizione, ma semplicemente perché non la trovava naturale, spontanea. Era estremamente convinta che per fare questo sport ci dovessero essere delle doti, non bastava l’esercizio fisico quotidiano. Non si vantava dicendo di possedere queste qualità, ma forse in cuor suo ne era convinta. Dopo tutto però Carolina andò bene ed il punteggio fu alto, conquistando un venticinque. Anche Marta se la seppe cavare. Era piccina ma era veramente capace. Per lei era tutto così semplice e conquistava con il suo fisico da ragazzina ancora immatura. Purtroppo però ci fu un imprevisto con Matilde, che per la distrazione o forse per la troppa ansia sbagliò un lancio del cerchio. Ciò fu penalizzato enormemente, anche troppo. Così la terza non riuscì a portarsi via che un venti. 

-Ma brava! Complimenti!- attaccò Carolina Matilde.- Adesso abbiamo perso, sei contenta?-.

-Io…ragazze non l’ho fatto apposta. Non so cosa mi sia preso.-.

-Sei un’incompetente. Cambia sport e fai un favore all’umanità dai!- continuò imperterrita, mantenendo anche un tono contenuto, cosa che forse faceva ancora più male.

-La vuoi smettere? Sbagliare è umano!- intervenne Sarah, furiosa, per difendere l’amica.

-Io non sbaglio mai.-.

-Ma ti prego, no! Il tuo sbaglio principale è quello di esistere, quindi evapora grazie.- rispose tagliente.-  Comunque possiamo ancora vincere, basta un ventisette.-.

-Come se fosse semplice. Se arrivi a ventuno è già un miracolo. Se prendi ventisette vuol dire che io potrei vincere Wimbledon.-.

-Ma pensa quel che ti pare, io ora ho da fare.-.

Non ascoltò nemmeno la risposta, prese il suo nastro rosso e si diresse verso la pedana, pronta per mostrare di cosa era capace. Non ci furono scambi di parole, ma il brusio dovuto alla fine delle precedente esibizione si calmò ed uno squillo elettronico diede il via. La musica partì. Era stata scelta da Sarah in persona. Aveva voluto qualcosa di semplicemente suonato al pianoforte, qualcosa di classico, di dolce. I piedi si cominciarono a muovere veloci sul pavimento senza indugio, senza preoccupazioni. Lei era lì in mezzo, osservata da tutti, ma si sentiva completamente isolata. A momenti chiudeva anche gli occhi. Era sicura di quello che faceva. Voleva semplicemente rinchiudersi nel suo mondo ed esprimere agli altri tutto ciò che aveva dentro. Questo era il modo giusto, il più adatto. La musica l’aveva sempre aiutata in questo. Il nastro non accennava a fermarsi, si muoveva freneticamente sembrando soltanto il prolungamento delle braccia della ragazza. Il body nero e la stoffa rossa dello strumento usato si fondevano insieme per sfuggire sempre più veloci dalla semplicità e correre a grandi passi verso la meraviglia. Le giravolte si susseguivano numerose e gli sbagli erano inesistenti. Non c’era quasi più contatto con il suolo, ma sembrava che con i ripetuti slanci in alto e le spaccate a mezz’aria Sarah cercasse di staccarsi dalla gravità terrestre con una leggerezza e una grazia inaudita. La cosa più sconvolgente era che lei non era calma o felice. Lei era arrabbiata, amareggiata, provata. Aveva assistito alla presa in giro di una sua amica a non lo poteva permettere. Si sentiva in dovere di difenderla, glielo doveva. Non poteva permettere che Carolina vincesse la sua gara personale, era indiscutibile. Si stava impegnando al massimo per questa ragione. Non le importava quasi più dell’esibizione in sé per sé, ma voleva combattere per un fine decisamente più nobile. Così si faceva trasportare dall’odio e dalla rabbia in una danza dettata da note dolci e leggere, del tutto contrastanti con il suo umore. Ma questo non era percepito dal pubblico. Tutti erano ammutoliti, tutti avevano capito che c’era della passione dietro quelle mosse, ma nessuno poteva comprendere appieno. Le note ed i sentimenti della ragazza erano completamente mescolati nell’unione più magnifica di sempre. Era un’antitesi sorprendente, capace di incantare e far guizzare negli occhi degli spettatori quella scintilla di ammirazione riscontrabile in pochi casi. In un momento in cui la musica cessò per un istante, Sarah si rese conto che voleva ancora di più. Non le bastava quello che stava facendo, voleva osare maggiormente, spingersi oltre i propri limiti, voleva improvvisare. Non appena le vibrazioni musicali furono nuovamente presenti, la danza riprese, ancor più movimentata di prima. Ora era ancora più perfetta, non era controllata, non era calcolata, non c’era riflessione dietro, ma solo voglia di volare. Gli occhi della ragazza incontrarono per un breve istante quelli del suo istruttore e, vedendoli pieni di approvazione, capì che aveva intrapreso la scelta giusta. Quella pedana era diventata improvvisamente troppo piccola, in quel momento neanche il mondo intero sarebbe bastato a contenere un’energia centrifuga tale. Quando si rese conto che il brano stava per giungere al termine, decise di fare una pazzia. Corse verso il centro del quadrato e lanciò in alto il nastro, che lentamente salì verso l’alto trascinandosi dietro tutto il suo colore rosso. Sarah cominciò a fare velocemente delle giravolte su se stessa aumentando sempre più la velocità. Improvvisamente il tempo sembrò riprendere il suo corso ed il nastro ricadde giù, ma venne ripreso al volo da Sarah che lo portò con se in una serie di ruote, fino a quando lo lanciò orizzontalmente con tutta la forza che aveva nelle braccia. La striscia di stoffa percorse velocemente i metri, tracciando una linea perfetta in aria. E proprio quando anche l’ultimo centimetro stava per volare via, la ragazza lo riafferrò, ritirandolo verso di se, e l'asticella si ritrovò nella sua mano destra in un battito di ciglia, in un soffio di vento, in un sospiro. La musica cessò, ma le esaltazioni cominciarono. Un boato di applausi si sollevò e tutte le persone sugli spalti si alzarono, per dimostrare alla concorrente il loro gradimento. L’istruttore corse incontro a Sarah e l’abbracciò forte, mentre lei, ormai distrutta,  faceva cadere a terra il nastro.

-Io non te lo avevo nemmeno insegnato…- sussurrò Giovanni, in preda alla gioia.

-Lo avevo visto fare tante volte e ho voluto tentare, mi sono sentita in grado di farlo.- affermò Sarah, soddisfatta del suo lavoro.

-Goditi gli applausi, te li meriti tutti.-.

I giudici alzarono i pannelli con le valutazioni e, per la gioia di tutti, la loro somma faceva ventinove, numero che garantì la vittoria della squadra. Ad un tale risultato si commosse anche la stessa Sarah, ma durò un attimo, prima di ritrovare la propria freddezza universale. Non era mai riuscita ad arrivare a tanto ed era contenta di averlo fatto proprio nel momento del bisogno di un’amica. Marta e Matilde le saltarono praticamente addosso. 

-Io…grazie Sarah…- disse l’amica, tra le lacrime di gioia e gratitudine che versava.

-Nessuno ti deve offendere…lo sai…-.

-Almeno essendo furiosa hai fatto ancora meglio, no?- chiese la più piccola, dimostrando di aver capito più di quello che si credeva.

-Hai proprio ragione, a qualcosa almeno serve l’altra cretina.- affermò con un sorriso.

Mentre si dirigeva verso l’esterno della palestra per tornare a casa con sua madre, contenta più di sua figlia, incontrò Carolina, anche lei nell’atto di partire.

Prima di sbattere la portiera dell’auto e accendere il motore, le volle almeno dire qualcosa.

-Caro! Te la compro io la racchetta, non preoccuparti!-.

La bionda arrossì vistosamente a quell’affermazione e si voltò rapidamente, probabilmente a corto di risposte acide possibili.

 

 

Arrivata a casa, Sarah andò immediatamente a farsi una doccia, un po’ per il caldo e un po’ per il sudore causato dall’attività sportiva. In quel momento si sentiva perfettamente rilassata. Era riuscita a proteggere una sua amica e a far vincere la competizione alla propria squadra. Probabilmente era soddisfazione quella che provava. Con l’asciugamano avvolto intorno al corpo uscì dal bagno di corsa, sentendo il proprio telefono squillare.

-Pronto?- chiese, poiché non aveva fatto in tempo a vedere il nome sul display per la trova velocità con la quale aveva risposto.

-E meno male che mi avresti dovuta chiamare appena la gara fosse finita eh!- urlò l’altra voce, subito riconosciuta da Sarah come quella di Elena.

-Oddio, scusami! Me ne ero totalmente dimenticata…- ammise, sbattendosi la mano sulla fronte in maniera teatrale, quasi come se l’amica avesse potuto vederla.

-Ho notato, non ti preoccupare. Come è andata allora?-.

-Benissimo! Sono stata l’ultima e sono riuscita a garantire la vittoria alla squadra. Avrei voluto così tanto che tu fossi là come sempre. Mi sentivo così leggera Ele, credevo di poter vincere la gravità…- sussurrò piano, al ricordo di quella sensazione così potente.

-Davvero tesoro, mi dispiace! Oggi avevo quella visita e non poteva rimandarla per la terza volta purtroppo! Non capiterà più, te lo assicuro.- affermò decisa Elena, con un tono così dolce che era impossibile non crederle.

-Devo ancora valutare se sei degna del mio perdono.- disse secca Sarah, mentre, in realtà, sorrideva. 

-Ho qualche idea per forzare questa tua importante decisione…- iniziò cauta, finendo con quella punta di voce tipica di chi si aspetta una domanda ben precisa.

-Tipo?- chiese Sarah, accontentandola.

-Andiamo in discoteca!- gridò improvvisamente.

-Non c’è bisogno di urlare eh! E comunque l’hai detto come se fosse già deciso…- concluse, massaggiandosi l’orecchio, rimasto traumatizzato per l’urto sonoro.

-Perché infatti lo è.-

-Lo sai che mamma non è molta contenta di mandarmi in discoteca da sola con te, perché ha paura, trattandosi solo di due ragazze.- spiegò Sarah, sbuffando e lasciandosi andare sul letto morbido.

-Ma oggi farà un’eccezione, dai! Non ti dice mai no, quando hai ottenuto degli ottimi risultati in alcuni ambiti.- continuò ad insistere Elena.

-Ok, forse hai ragione. Aspetta un secondo.- concluse. Detto questo mise la mano sul telefono per tappare il microfono.

-Mamma!- grido forte, per far sì che Kirsten sentisse dal piano di sotto. Poco dopo sentì alcuni passi. La donna aveva recepito il messaggio e stava salendo le scale.

-Dimmi amore.- disse affacciandosi sulla porta, con in mano una camicetta sgualcita. Probabilmente stava stirando o stendendo sul terrazzo gli abiti lavati.

-Senti…vorrei chiederti un permesso…- sussurrò la ragazza, facendo finta di cercare qualcosa nel cassetto del comodino, per evitare un contatto diretto.

-Sentiamo.- rispose la madre, incrociando le braccia e sorridendo, in quanto aveva già capito dove la figlia volesse andare a parare.

-Elena vorrebbe andare a ballare stasera.- confessò tutta d’un fiato, sperando però di non dover ripetere.

-Sarah…- cominciò Kirsten.

-Mamma dai, abbiamo vinto la gara e poi dopo domani comincerà la scuola…un’altra volta…- insistette, facendo una strana smorfia quando si rese conto di che cosa strana fosse avere quasi due primi giorni di scuola. La madre in compenso scoppiò a ridere.

-Tesoro ma io non ho detto nulla. Vai pure, divertiti! Non ho mica intenzione di tenerti segregata in casa per una vita. Sai che non sono d’accordo per i vari pericoli, ma sei un’adolescente…non posso privarti del divertimento.-. Senza nemmeno aspettare una risposta dalla figlia, si richiuse la porta alle spalle e tornò a fare quello di cui si stava occupando. Sarah rimase seduta sul letto qualche secondo prima di realizzare il tutto. Era stata davvero così permissiva? Strano, non lo era praticamente mai. 

-Ci sei ancora?- chiese la ragazza, cercando la voce di Elena.

-Certo, però quasi temevo che fossi morta. Stavo per andare in letargo…-.

-Ma quanto sarai scema? Comunque hai sentito?-domandò, sicura che la mano sul microfono non fosse servita a molto.

-Si e ciò dimostra che conosco tua madre meglio di te!- esultò contenta, tanto che Sarah poteva immaginarla saltare sul letto felice per poi disperarsi subito dopo a causa della scelta riguardante l’abbigliamento.

-Certo…pensala come vuoi.- rispose ridendo, infilandosi mentre parlava l’intimo, essendo ormai totalmente asciutta, ad esclusione dei lunghi capelli.

-Bene, adesso ti lascio che mi aspetta una seduta psichiatrica con il mio armadio.-. A quelle parole  Sarah dovette soffocare una risata. Aveva un’amica totalmente matta. Non c’era nulla da fare.

-Ci troviamo alle undici e mezza davanti alla discoteca, va bene?- domandò, ma il suo tono faceva ben capire che non avrebbe accettato altre proposte.

-Non sia mai!- affermò divertita Elena, prima di chiudere la conversazione.

 

Angolo autore:
Ciao a tutti! Mi scuso per aver pubblicato così tardi, ma ho avuto problemi con viaggi all'estero, viaggi di famiglia e salute! In ogni caso spero vi possa piacere questo nuovo capitolo! So che le cose non sono ancor ben chiaro e che il filo logico sembra assente, ma abbiate pazienza e fiducia! :)

Vi lascio questo link: http://www.youtube.com/watch?v=kcihcYEOeic
Questa è la musica che ho immaginato io durante l'esibizione di Sarah. 

A presto, 
Leo

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Nonostante il tempo passato a prepararsi, l’ora dell’incontro e dell’attesa serata arrivò abbastanza in fretta. Dopo gli innumerevoli dialoghi fatti tra sé e sé in cerca di un aiuto, Sarah optò per un vestitino corto blu e tacchi, alti almeno dieci centimetri, bianchi. Era un accostamento di colori indubbiamente azzeccato, ma lei non lo amava particolarmente. Preferiva colori più caldi, ma, come tutte le ragazze, era cosciente di non poter indossare sempre gli stessi capi. 

A cena cercò di mangiare il più possibile, per evitare di fare come altre volte, in cui, a causa dello stomaco vuoto, l’alcool aveva fatto presto effetto. La madre faceva finta di nulla, in quanto non le faceva piacere sapere che la propria figlia sarebbe andata in discoteca da sola con un’amica, vestita in un modo non proprio ingenuo con persone ubriache e anche peggio. D’altro canto ormai glielo aveva promesso ed era una donna di parola. Inoltre era vero quello che aveva detto: non voleva che Sarah rimanesse in casa per tutta la sua adolescenza ed era cosciente che ormai i divertimenti dei ragazzi fossero quelli. Come era solita dire, i tempi erano cambiati. 

-Mamma allora io andrei…altrimenti rischio di fare tardi e chi la sente più quell’altra…- disse Sarah, alludendo ovviamente ad Elena.

-Ah, di già?- chiese Kirsten, risvegliandosi dai suoi pensieri.

-Eh già…se fai cena alle dieci di sera che ci posso fare io?- rispose ridendo e alzandosi per andare a lavare il proprio piatto, per non lasciare tutto il lavoro a sua madre.

-Del resto tu sei incompetente come cuoca…non voglio vedere la cucina andare a fuoco nel giro di pochi secondi tesoro- fece notare la madre, sorridendo in quel modo apprensivo che vuol dire “Ho vinto io”.

-Non ricominciamo con questa storia, ok? Sono negata, lo ammetto. Vorrà dire che avrò altre qualità…ancora da scoprire. O almeno lo spero.- 

-Certo amore, non preoccuparti! Ognuno il suo- concluse.

Sarah si avvicinò alla porta e la madre la seguì svelta.

-Non prendi nessun tipo di giacchetto? Potrebbe far freddo quando esci.-

-No, preferisco così. Lo sai, i guardaroba delle discoteche sono una cosa insopportabile. A proposito, a che ora devo tornare?-

-Ah ok, se poi ti ammali non voglio sentire lamentele, intese? Comunque quando vuoi, però preferirei che tu tornassi ad un’ora tale da dire “notte tarda” e non “mattino presto”- spiegò Kirsten, appoggiandosi allo stipite della porta per ammirare Sarah nell’ardua impresa di mettersi quei tacchi assurdi.

-Perfetto, grazie mamma- rispose, dopo esser finalmente riuscita a sistemare tutto.

-Ma ci sai camminare su quei trampoli?- domandò la donna, leggermente dubbiosa.

Sarah annuì, ma non poteva essere altrimenti. Lei stessa era poco sicura per quanto riguardava il suo equilibrio, ma non lo avrebbe mai ammesso. Odiava quelle ragazze che si mettono i tacchi per sentirsi più adulte e che poi non sono capaci di indossarli, sembrando delle disadattate. Così, nonostante sapesse che i piedi prima o poi avrebbero cominciato a pulsare in quelle scarpe e che il giorno dopo sarebbero stati gonfi e rossi, lei uscì da casa con la testa alta, senza guardare dove camminava per mostrarsi a suo agio in quelle vesti. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare la difficoltà da lei provata. Era capace di fingere e di recitare. Aveva imparato ad utilizzare quella maschera di sicurezza e forza che ormai non l’abbandonava praticamente più.

 

Pochi minuti dopo era arrivata a destinazione. Fuori dal locale era presente una lunga fila, visto che facevano entrare poche persone alla volta. Fu semplice trovare Elena. Era seduta sul marciapiede e, non appena vide la sua migliore amica, si alzò e le andò incontro. Aveva un vestitino verde smeraldo, poco più lungo rispetto a quello di Sarah, ma, anche in questo caso, la fantasia maschile avrebbe dovuto lavorare poco.

Dovettero aspettare solo un po’ prima di entrare. Il bodyguard le guardò con un’espressione che diceva tutto. Era difficile trovare due amiche che andassero a ballare da sole in questo modo e, generalmente, se accadeva era solamente per trovare qualche ragazzo. Le ragazze non si curarono di tutti quelli che le osservavano e le inquadravano e passarono oltre, dirigendosi verso la sala principale.

Finalmente verso l’una la discoteca cominciò ad animarsi. E, logicamente, secondo una proporzionalità inversa, più persone arrivavano, meno si riusciva a respirare. Sarah ed Elena si trovavano nel centro della folla e ballavano tra di loro senza problemi, senza preoccupazioni, divertendosi e godendosi quelle poche ore come meglio potevano. La mora amava stare in quei luoghi. Nonostante si trattasse sempre di musica commerciale, c’era una grande dose di libertà in ogni movimento che accompagnava la musica. Nessuno giudicava il modo di ballare, ma, con grande probabilità, ciò accadeva solamente in presenza di ragazze alte e magre come loro due erano. Per un corpo femminile così modellato e così vestito non era certo difficile ottenere l’attenzione di terzi. Bastava muoversi con disinvoltura e spontaneità ed essere sensuali. Le luci cambiavano colore e obbiettivo molto velocemente, illuminando a tratti i presenti. Negli angoli non mancavano le coppie, che si lasciavano andare a passioni più private sui divanetti.  

-Ele, vado a prendere qualcosa da bere. Ho una sete che rischio di morire- disse Sarah, avvicinando la bocca all’orecchio dell’amica e cercando di farsi capire anche con una buona mimica. Elena fece segno di aver capito e così le due si allontanarono. Arrivata al bar, Sarah non sapeva cosa prendere e così si fece consigliare dal barman, che le fece in pochi secondi un cocktail. Per fortuna non era troppo pesante, ma era presente il quantitativo giusto di alcool per perdere ancor più i freni inibitori. 

Dopo aver parlato qualche secondo con il ragazzo che le aveva dato da bere e aver messo a tacere la sete, si avviò nuovamente verso la confusione in cerca della sua amica, che però sembrava scomparsa. Sarah si guardò un po’ intorno, ma ottenne scarsi risultati. C’erano troppe persone e le luci andavano ad intermittenza. Era troppo complicato. Così decise di rassegnarsi e aspettarla nello stesso luogo, pensando che l’amica fosse andata al bagno. Mentre continuava a vagare con gli occhi per captare una chioma bionda ed un vestito verde muoversi, due mani da dietro si posarono sui suoi fianchi. A quel contatto Sarah sussultò e si girò di scatto, senza però riuscire a liberarsi da quella presa. Alzando il volto vide che si trattava solo di Matteo. 

-Ah, sei tu!- gridò la ragazza, cercando sempre di farsi capire con i suoi gesti.

-Già…ti ho vista entrare prima!- rispose lui, biascicando le parole. Sarah fece fatica a comprendere ciò che le era stato detto, ma, dopo qualche secondo, afferrò la frase.

-Eri tra quelli che sbavavano?- domandò, sempre con un tono decisamente alto, che, però, considerando l’ambienta, appariva come un sussurro.

-Oh, lo sai! Io ti sbavo sempre dietro- continuò, appoggiando la sua testa su quella della ragazza e ispirando forte, come per sentire il profumo dei suoi capelli.

-Che fortuna…evita di lasciarmi la saliva in testa, okay?-

-Mm…certo, come vuoi.-

-Matteo, stai bene?- domandò Sarah, che iniziava ad essere preoccupata per il suo interlocutore.

-Mai sentito meglio, è impossibile stare male con te così vicina.- rispose lui, facendo un gran sorriso e ridendo subito dopo. A quel punto la mora si portò le mani in viso, si massaggiò le tempie come se questo servisse a farla pensare meglio e poi introdusse la sinistra nei capelli per aggiustare la pettinatura, precedentemente sfatta da Matteo. Era più che evidente che fosse ubriaco e l’unica cosa che in quel momento Sarah sperava era che non avesse anche fumato qualcosa in più delle sigarette.  

-E te che ci fai qua da sola, dolcezza?- continuò, cominciando a ballare e a muoversi intorno al corpo della sua preda.

-Non mi avevi vista entrare? Sono con Elena, ma è scomparsa! Credo sia al bagno, ci sarà di sicuro la fila.- concluse lei, restando ferma mentre Matteo quasi la venerava.

-Certo…come no! Dillo che sei venuta qui per me.-

-Logico, non sapevo nemmeno che c’eri!- urlò, incrociando le braccia per mostrarsi ancor più rigida.-Ma poi, perché dò spiegazioni ad uno che non capisce una mazza?- bofonchiò tra sé e sé.

-So che ti interesso, ammettilo una volta per tutte.-

-Smettila, ma perché non vuoi capirlo? No e no- sbottò lei, ormai vicina all’esaurimento.

-Ho una proposta…- cominciò Matteo, cercando di fare il serio e di articolare bene una frase.-Divertiamoci stasera, balliamo e stiamo insieme. Non dico altro, solo questo. Alla fin fine te hai perso Elena e non sai dove sia ed il telefono qua non prende. Almeno stiamo in compagnia…anche perché da solo potrei fare danni…- concluse, alzando gli occhi al soffitto, forse per non voler vedere l’espressione di Sarah. Questa ci rifletté su quale secondo e poi decise di accettare. Al di là di tutto quella volta il ragazzo aveva ragione, sebbene le costasse ammetterlo. 

Così il gioco riprese il suo corso e la serata poté continuare. I due ballavano insieme, si divertivano, bevevano e ridevano quanto era loro possibile. Probabilmente l’alcool aveva fatto il suo effetto anche su Sarah, che aveva cominciato a salire sui tavolini per dare prova della sua sensualità. Non mancava certamente la folla intorno a lei, tuttavia non si era concessa a nessuno, ma teneva sulle spine tutti. Nonostante tutto il movimento fatto e la grande quantità di persone, il suo corpo non sudava e non dava cenni di cedimento. La sua mente era completamente svuotata da ogni pensiero, perché troppo presa dalle vibrazioni musicali e dalla passione da esprimere. I suoi occhi ardevano per il divertimento e l’odore tipico di quei locali, quell’odore misto di alcool, uomo e fumo la estasiava.

Ad un tratto però vide Matteo correre verso i bagni dei locali. Capendo cosa stesse per accadere scese dal suo trono e gli corse dietro. Non riuscendo ad arrivare in tempo al luogo desiderato, il ragazzo cominciò a vomitare in un angolo, rimettendo tutto ciò che aveva bevuto fino a quel momento. 

Sebbene l’idea di lasciarlo al suo destino fosse inizialmente gradita da Sarah, alla fine decise di aiutarlo, vedendolo così bisogno di aiuto e preso in giro da tutti gli altri, come se fosse una cosa mai vista e oscena. Lo portò ne bagni e gli lavò il viso, anche se nulla fu possibile contro le macchie venutesi a creare sui pantaloni e la camicia. 

-Andiamo, ti accompagno a casa. Tanto non abiti lontano da qui.-

-Grazie Sarah…- rispose lui, tirando fuori quelle parole a fatica, sia per la gola un po’ infiammata sia per il significato delle stesse.

Così i due uscirono dal locale e pian piano riuscirono ad arrivare a casa di Matteo, non senza interruzioni durante il percorso. Tuttavia, al contrario di come era solito tra quei due, mancarono discussioni e litigi. Nessuno dei due si sentiva di commentare l’accaduto.

 

 

Sebbene fossero le quattro di notte, Marco era sveglio e non sentiva lontanamente il sonno. Probabilmente ciò era dovuto a quel sogno che continuava a tornare e a tormentarlo. E, la cosa più strana, era che, quando si svegliava, le sensazioni provate gli restavano addosso: la paura di affogare era sempre viva, i polmoni diventati pesanti per l’acqua, il vento tagliente sulla pelle, i fulmini con il loro rombo, la terra cedere sotto i piedi.

Per queste ragioni aveva deciso di dormire il meno possibile, sebbene non avesse raccontato niente a nessuno, anche se i suoi genitori si erano resi conto delle ore di sonno accumulate, riscontrabili dalle occhiaie piuttosto marcate sul viso. 

Con solo dei pantaloncini indosso, indumento che lo rendeva presentabile senza però fargli provare caldo, stava seduto alla propria scrivania. La lampada di acciaio era accesa e così, nell’oscurità della notte, lui disegnava. Amava usare colori e mettere su carta pensieri, immagini e parole. Credeva che la pittura, così come la scrittura, fosse una di quelle arti capaci di rappresentare i sentimenti. 

Con uno sguardo attento ed una mano ferma, tracciava velocemente delle linee di graffite sul foglio bianco, cercando di raffigurare quel sogno. Ogni foglio conteneva un’immagine differente di quella scena: il pilastro di terra in mezzo all’oceano, la spiaggia con i due schieramenti, il cielo tempestoso e denso di elettricità, gli abissi scuri ed infine quel triangolo creatosi alla fine. 

Aveva cercato su internet cosa fosse quel simbolo ed aveva ottenuto risposte. A quanto pare era la rappresentazione  in alchimia dell’acqua, informazione che, in un certo senso, poteva concordare con il sogno intero. Solo allora si era ricordato che in effetti aveva già visto quel segno. Lo aveva disegnato la prof di filosofia l’anno prima, quando l’argomento di studio era l’arché ed i primi filosofi naturalisti. Se si ricordava bene, era Talete ad identificare l’acqua come motore del mondo. Bastò essersi ricordato il significato del simbolo per tranquillizzare la curiosità di Marco, sebbene non fosse del tutto chiaro il motivo di questo collegamento. 

Mentre era intento a cospargere le tempere con le mani, iniziò a sentire delle voci provenienti dall’esterno. Sebbene i soggetti in questione parlassero piano erano facilmente udibili, considerando la finestra aperta e l’ora insolita. Così, ormai distratto, Marco si mise appoggiato sul davanzale per capire di cosa si trattasse.

Erano un ragazzo e una ragazza che si erano fermati davanti al portone della casa davanti. Probabilmente il ragazzo doveva aver bevuto e stare poco bene, visto che si appoggiava alla sua compagna e che impiegò circa cinque minuti per centrare il buco della serratura. 

-Allora io vado…- disse lei, dopo essersi assicurata che l’altro riuscisse a stare in piedi da solo.

-Come posso sdebitarmi?-

-Non importa davvero…- concluse la ragazza, anche se le parole arrivarono difficilmente alle orecchie di Marco, dato che il tono si faceva più basso.

Il ragazzo sembrò non sentire e l’abbracciò d’impulso, facendo vagare velocemente le mani sulla sua schiena fino ad farle arrivare all’altezza del fondoschiena, là dove il vestito finiva, e iniziando a lasciarle baci umidi sul collo. 

Marco inarcò leggermente le sopracciglia a quella vista. Se proprio avevano tutta questa passione da dimostrare, avevano una casa a disposizione. Rimase notevolmente colpito quando vide la ragazza liberarsi e tirare uno schiaffo ben calcolato. Probabilmente aveva giudicato male.

-Che cazzo! Ma perché devi rovinare tutto? Per una sera che era andata relativamente bene? Vai in culo!- urlò disperata, con la voce quasi rotta dal pianto. 

Il ragazzo chiuse la porta e, solo quando la ragazza si girò per andarsene, Marco poté riconoscerla. Era Sarah, quella che lo aveva salvato quel giorno, quella a cui aveva pensato spesso. La vide sedersi sul marciapiede, appoggiare il gomito sinistro su un ginocchio e mettersi l’altra mano nei capelli, come chi sta cercando di capire la situazione.

Senza pensarci due volte Marco si vestì velocemente, scese le scale e si diresse subito fuori dall’abitazione, cercando di non sbattere forte la porta per non svegliare i suoi genitori e suo fratello.

Arrivò in fretta dall’altra parte della strada e non disse nemmeno una parola, ma si mise semplicemente accanto a lei. Sarah si girò dopo qualche secondo e lo scrutò nel viso, capendo all’istante di chi si trattasse non appena vide gli occhi, quegli occhi, in quel momento, limpidi come l’acqua di una sorgente o di un lago piatto.

-Ciao…-sussurrò lei, ritenendo di dover dire qualcosa.

-Ciao a te…- rispose lui immediatamente, mettendosi le mani in tasca e distendendo le gambe sulla strada.

-Abiti qui?-

-Proprio la casa di fronte- disse di rimando Marco, indicando con un cenno della testa la porta con il numero civico quattordici.

-Mi dispiace se ti ho svegliato, non volevo.-

-No tranquilla, non dormivo.-

-E che facevi a quest’ora alzato?- chiese Sarah, guardandolo un po’ perplessa.

-A dir la verità disegnavo. Non avevo sonno…- confessò lui, abbassando lo sguardo verso l’asfalto.

-Oh, è una bella cosa…magari non da fare a quest’ora però è bella.- affermò la ragazza, facendo finalmente un sorriso.

-Chi era quello lì?-

-Oh, era Matteo. Viene anche lui a scuola nostra ed è in classe mia.- spiegò rapidamente Sarah.

-Ah ho capito. Siete amici?-

-Non direi- asserì convinta.

-Lui senz’altro vorrebbe…- continuò Marco, inclinando la testa come quando si dice qualcosa di ovvio.

-No, fidati, lui vorrebbe altro.-

-Giusto, ho notato in effetti- disse, girandosi verso di lei.

Vide che i suoi occhi erano lucidi e che le sue braccia tremavano per il freddo. Immediatamente si tolse la felpa che aveva preso e gliela porse.

-Tieni, ti assicuro che questa ti farà passare i brividi.-

-Ma non posso accettare, non ti conosco nemmeno.- sussurrò, cercando di rifiutare con la mano.

-Non ti preoccupare! Hai freddo ed io vivo qui! Poi ti dovevo ancora un favore…- concluse lui, abbassando il tono verso la fine della frase, come se quel pensiero fosse indesiderato.

-A cosa ti riferisci?-

-A quando mi hai salvato dal laboratorio di chimica. Non riuscivo a muovermi, ero come paralizzato…- disse Marco, prendendo un gran respiro alla fine.

-Era normale intervenire, chiunque lo avrebbe fatto!- rispose lei con naturalezza. 

-Invece no, è questo il punto.-

-Tutti i miei compagni di classe non si sono fatti problemi a correre via e nessuno di loro ha pensato di tornare indietro quando non li ho raggiunti…-

-Mi dispiace…-

-Tranquilla, sono cose che possono capitare…anche se non credo tu abbia di questi problemi.-

-Perché lo dici?-

-Sei una persona molto forte da quello che sembra. Sai sempre come comportarti e cosa dire. E’ difficile coglierti impreparata. Sembra che niente ti possa scalfire.-

-E’ vero…ma spesso sono così per non dover dare spiegazioni agli altri. Non capirebbero.-

-Non capirebbero cosa?-

-Che esiste altro oltre a tutto ciò.-

-Hai ragione.-

-Lo so.-

-Scherzo!- gridò lei, vedendo che Marco la guardava con sguardo severo.

-Ammiro il tuo modo di affrontare le cose allora…guardala così.-

-E’ solo diverso da quello che hai tu. Io, per come sono fatta, ho deciso di dare uno schiaffo morale al mondo e di fregarmene di tutto e di tutti, nascondendo spesso quello che posso pensare seriamente. Non mento, ometto.-

-Io non ci riesco…faccio il contrario. Credo sia più il mondo a prendermi a botte.-

A questa frase i due scoppiarono a ridere entrambi.

-Penso sia l’ora di andare…- affermò Sarah, impiegando qualche secondo per rialzarsi e ritrovare la posa perfetta sui suoi tacchi.

-Già…vuoi che ti accompagni?-

-No grazie, non sono lontana, vado da sola.-

Marco fece per voltarsi e tornarsene in camera, questa volta per dormire, quando Sarah lo afferrò per il polso.

-Grazie…Marco. Giusto vero?-.

-Si si, mi chiamo così. Hai buona memoria.- disse sorridendo.

Lei si avvicinò per dargli un bacio sulla guancia in segno di saluto e diede il suo numero al ragazzo per risentirsi per la felpa.

Così Sarah cominciò a camminare lungo la via deserta, con il sole che ormai accennava a nascere. E mentre i piedi si susseguivano veloci uno davanti all’altro, le sue dita sfioravano quelle labbra, che, dopo il contatto con la pelle di Marco, avevano cominciato a bruciare.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


 
Marco pensò molto a Sarah nei giorni seguenti. Si erano anche scritti per telefono, per provare a mettersi d’accordo su un eventuale appuntamento per la restituzione della felpa, ma, per i vari impegni dei due, non erano riusciti a trovare un misero buco di tempo. Tuttavia lui non era minimamente preoccupato per la felpa, né tantomeno smaniava per riaverla indietro. Non aveva mai fatto grande attenzione agli abiti e non aveva mai eletto i suoi vestiti preferiti. Aveva gusti ben decisi, ma dopotutto non così rilevanti.
Al contrario, se c’era qualcosa che aveva assolutamente voglia di fare, era proprio rivedere quella ragazza. Non per qualche idea strana o per una qualche infatuazione presa, ma perché era diventata immediatamente suo oggetto di studio. Aveva intuito da subito che avesse una personalità diversa dalle altre, ma mai si sarebbe aspettato una cosa simile. Poche volte era riuscito ad entrare in sintonia intellettuale con altre persone. Con lei era successo e, soprattuto, era avvenuto in un istante, con una misera conversazione. 
Lo affascinava e voleva portare a fondo questa sua ricerca. Come aveva detto a lei stessa, il suo modo di affrontare le cose era qualcosa di nuovo per lui. 
Per la prima volta aveva trovato, forse, qualcuno capace di comprenderlo a pieno, senza bisogno di troppi sforzi. Eppure lei era diversa, era diametralmente opposta per ciò che riguardava carattere e comportamenti, ma, sotto quel bastimento di sicurezza, Marco era sicuro di trovare del sentimento. 

Finalmente la scuola ricominciò e le lezioni, questa volta, iniziarono senza altri incidenti. Molto probabilmente i professori erano rimasti quelli più sconvolti dopo l’incendio, tanto che molti di loro ormai tenevano sempre la porta della classe aperta, casomai ci fosse un’emergenza. La professoressa Bardi arrivò addirittura ad annullare la prova e decise di non farla nemmeno recuperare. Era una donna molto superstiziosa ed ormai considerava quel test come portatore di sfortuna.
-Oh, ma finalmente eccoti! Potevi rispondere al telefono ieri quando ti ho chiamata!- esordì furiosa Elena, sedendosi accanto a Sarah, al suo posto.
-Stai scherzando, spero- rispose calma Sarah, mettendosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio con la mano destra.
-No invece. Mi hai fatta preoccupare!- continuò l’amica, senza capire che stava superando il limite. Sarah in risposta girò lentamente il volto e, con i suoi occhi scuri, fulminò Elena.
-Tu hai il coraggio di dirmi che ti sei preoccupata? Tu che mi hai lasciata da sola in discoteca per andare a letto con uno sconosciuto che ti ha afferrata a caso mentre facevi la fila per il bagno? Ti ripeto: dimmi che scherzi.-
-Non prendertela con Lorenzo ora.-
-Oh piccinino, immagino il santo di ragazzo che deve essere.-
-Parla lei.- 
-Scusa?- sussurrò Sarah, prendendo un gran respiro per evitare di perdere le staffe.
-Niente, lascia stare…- rispose Elena, rendendosi conto probabilmente di aver esagerato.
-Ma ti costava qualcosa mandarmi un messaggio? Non sarebbe comunque stato un bel comportamento, ma almeno avrei cercato di capire e sarei stata tranquilla. Invece mi ha salvato la serata Marco.-
-Non ci ho pensato, va bene? Chi sarebbe ora Marco?-
-Non pensi mai a nulla… Comunque il ragazzo che ho salvato dall’incendio.-
-Sei seria?- chiese Elena, trattenendo una risata, che, con grande probabilità, sarebbe suonata come una presa in giro.
-Serissima.-
-Ragazzi, tirate fuori il materiale di storia mentre io firmo alcune cose. Così tra due minuti saremo pronti a cominciare il nostro lavoro.- La voce della professoressa Cisi si intromise nel brusio generale.
-Non voglio litigare, ma hai sbagliato, punto. La prossima volta cerca di pensare che anche gli altri potrebbero essere in pensiero. Non esisti solo tu. Ora basta, la faccenda è chiusa- concluse Sarah il discorso, decidendo improvvisamente di mettere da parte la discussione. Fosse stato per lei, avrebbero potuto continuare a parlare anche per una settimana. Tuttavia in quel preciso istante si rese conto che non voleva perdere Elena e sapeva che ogni litigo avrebbe contribuito ad allontanarle. Così, prendendo un bel respiro, chiudendo gli occhi un po’, ritrovò il sorriso e fece finta di scordarsi tutta la faccenda. 
-Ma…- iniziò Elena, segno che voleva ribattere.
-Zitta.Ti conviene non commentare, potrei ripensarci.-
La lezione cominciò, ma Sarah non stette un solo secondo attenta al ripasso. La sua mente ancora pensava a quanto accaduto e al suo rapporto con Elena. Era vero, era riuscita ad imporsi ancora una volta, ma a questo ormai era abituata. Era solita prendere il comando e ribaltare le conversazioni a proprio vantaggio, tuttavia era cosciente di apparire agli occhi dell’amica come una dittatrice, troppo convinta del proprio potere. Quello che però Elena non capiva era che, in realtà, forse era il contrario. Era proprio in nome della loro amicizia che Sarah aveva deciso di mettere tutto a tacere. Non voleva perdere quell’amica che, seppur sbadata e incapace di cogliere a fondo tutte le sfumature di un carattere, cercava di dare il suo meglio e provava sicuramente del sincero affetto verso di lei. La paura di perdere un’amicizia faceva sì che Sarah mettesse da parte i suoi principi di giustizia e decidesse di mettere a tacere il tutto, piuttosto che combattere fino alla fine, rischiando magari di non uscire né vincitrice né vinta.
Non appena la campanella di fine lezioni suonò, le due amiche si salutarono come se non fosse accaduto nulla e Sarah si precipitò fuori, volenterosa di andare a casa. Mentre stava per estraniarsi dal mondo grazie alla musica nelle orecchie, vide a pochi metri da lei un ragazzo che camminava da solo, ma con un passo piuttosto spedito. Non ci volle molte prima che si rendesse conto che era Marco.
-Marco!- iniziò a gridare, velocizzando il passo. Il ragazzo non sembrava sentire e ,solo quando fu visibile il noto cavetto bianco, Sarah capì che anche lui si era perso in una determinata playlist. Continuando ad aumentare la camminata, riuscì ad arrivare alle sue spalle. Appoggiò d’istinto la mano sulla spalla del ragazzo, che si girò immediatamente. Gli occhi blu brillarono intensamente non appena si resero conto di chi avevano davanti.
-Ciao!- esordì Marco, con un gran sorriso sul volto.
-Sordino, eh?- bofonchiò Sarah, mentre ritrovava la sua posa perfetta, rovinata solo dal leggero affanno.
-Ah scusa! Stavo ascoltando la musica…- disse Marco, con una voce che sembrava realmente dispiaciuta. 
-Ma scherzo! Anche io sono solita andare tra le nuvole quando sento note a me gradite- continuò la ragazza, cercando di mettere a suo agio il suo interlocutore.
-Oh beh…io sono sempre tra le nuvole…-
-Senti, volevo parlarti della felpa! Se vuoi oggi pomeriggio posso ridartela- dichiarò Sarah, senza troppi rigiri di parole.
-Me ne ero quasi dimenticato. Se ti va bene, potresti venire a casa mia? Perché mio fratello ha la febbre e non posso allontanarmi…- spiegò Marco, cercando di far intendere la situazione gesticolando in maniera decisamente marcata.
-Certo, non è un problema…tanto mi ricordo bene dove abiti- rispose lei, storcendo leggermente la bocca con fare teatrale.
-Perfetto, allora a dopo…- concluse Marco, prima di voltarsi per continuare sulla propria strada, con fare un po’ imbranato. Sarah rimase a fissarlo ancora un poco, con la bocca socchiusa, pronta a parlare. Quel ragazzo era un mistero, questo era appurato.

Verso le quattro del pomeriggio Sarah si presentò a casa di Marco. Non avevano deciso un’ora e, quindi, la ragazza aveva optato per un orario intermedio. Nonostante si trattasse di un incontro normale, come tra due normali compagni di scuola, si era vestita bene e curata. Non aveva indossato cose eleganti, ma aveva fatto molta attenzione alla coordinazione dei colori. 
-Ehi- esordì Sarah, non appena il ragazzo aprì la porta.
-Ciao, entra pure-. Marco cercò di essere il più ospitale possibile, cercando di mettere a suo agio l’ospite. Tuttavia rimase abbastanza sconvolto nel vedere la ragazza vestita abbastanza decentemente, sopratutto considerando che lui era in tuta.
-Tieni, te l’ho lavata! Ancora grazie- disse lei, tirando fuori da una busta la tanto agognata felpa.
-Non dovevi disturbarti,davvero- rispose, con tono leggermente titubante. -Comunque non ti preoccupare, l’ho fatto con piacere- continuò, questa volta mostrando un grande sorriso, che faceva senz’altro trasparire la sincerità di quel gesto.
-Tato!- 
-Dimmi Giulio!- gridò Marco, per farsi sentire dal fratellino, nella stanza al piano di sopra.
-Mamma ha detto che mi devi misurare la febbre.-
-Arrivo!- concluse il ragazzo, andando ad aprire un piccolo cassetto contenente farmaci e attrezzature mediche.
-Scusa, me ne ero scordato…- disse rivolgendosi verso Sarah, intenta a guardarsi intorno per studiare l’ambiente.
-Figurati! Non è mica un problema.-
Così entrambi salirono le scale ed entrarono nella stanza del bambino. 
-Ciao Giulio, io sono Sarah.- La ragazza si presentò, sedendosi sul letto.
-Ciao!- Gli occhioni di quel bambino erano senz’altro belli quanto quelli del fratello, però meno espressivi. Le guance erano colorate di un bel rosa vivo e, parlando, il volto si illuminò di un dolce sorriso.
-Certo che la dentatura perfetta l’avete di famiglia…-sussurrò tra sé e sé Sarah. Marco scoppiò a ridere.
-Oh, mi hai sentita?-
-Sai com’è, non ci sono grandi rumori qui…- spiegò lui, tirando fuori il termometro elettronico dal proprio involucro e ponendolo vicino all’ascella di Giulio, chiedendo a quest’ultimo di non muoversi troppo.
-Pace, tanto è la verità- ammise senza troppi problemi.
Il telefono di casa squillò e Marco dovette alzarsi di corsa per andare a rispondere.
-Sarah potresti guardare te il termometro? Torno subito.-
La ragazza annuì e prese il misuratore di temperatura. Cercando di toccarlo il meno possibile, lo girò per guardare la scritta sul display e vide che il numero indicato era trentanove.
-Eccomi. Era semplicemente qualcuno che aveva sbagliato. Allora quant’è?- chiese Marco, tornando nella stanza con il fiatone.
-Dice trentanove…-
-Non è poco in effetti, dai qua.-
-Ma qui c’è scritto trentasette!- dichiarò il ragazzo, fissando lo sguardo sul termometro per capire se ci vedeva bene. Sarah corrugò la fronte e, dopo essersi avvicinata e aver visto che in effetti aveva ragione lui, si arrese all’idea di aver sbagliato.
-Mi sa che ho letto male…- concluse, poco convinta lei stessa della propria frase.
-Mi sa anche a me- commentò Marco, divertito, mentre scompigliava i capelli di suo fratello. Per lasciar dormire e riposare quest’ultimo i due cambiarono nuovamente stanza. Anziché tornare nel salone, decisero di andare nella stanza del ragazzo. Non appena Sarah vi entrò, ne rimase stupita e sorpresa, nonché tremendamente affascinata. In quella camera dominavano incontrastati i colori freddi, che si susseguivano senza pause tra pareti e arredamento. Erano presenti una moltitudine di foto, ma non di persone, solo di paesaggi. 
-Mi fai vedere cosa e come disegni?- chiese Sarah, con un'espressione curiosa e altamente convincente.
-Ehm...io non saprei...-. Marco non amava mostrare questo suo lato, forse perchè era quello più intimo di sé. Nei suoi disegni o scritti erano presenti i suoi pensieri e le sue emozioni più profonde. Non amava condividere questo suo mondo, il suo unico mondo, con altri. Forse il problema consisteva solo nel fatto che non aveva nemmeno mai dato la possibilità a qualcuno di avvicinarsi, decidendo di restare isolato. Così, timoroso di mettersi a nudo davanti a qualcuno, decise di fare un'eccezione e di aprire quelle porte così sigillate della sua mente a Sarah. 
-Non devi sentirti costretto, sia chiaro...-
-No no, te li mostro. Sei la prima persona alla quali lo faccio vedere...come dire, sono molto geloso della mia personalità.-
A quella frase Sarah sorrise. Le faceva piacere vedere che qualcuno le stava dando tanta fiducia. Passarono ore a parlare dei disegni, delle scritti e arrivarono anche a parlare di quel maledetto sogno. Più il dialogo si faceva intenso, più la stessa Sarah distruggeva le sue barriere. Si resero conto di avere approcci e punti di vista completamente diversi, ma finalmente Marco riuscì a capire cosa avevano in comune. Si trattava semplicemente di sensibilità, ma non di quella spicciola. Era l'attenzione al dettaglio, al carattere, al sentimento e all'emozione, alla persona interiore piuttosto che a quella esteriore, che faceva di loro due persone sensibili. 
Purtroppo però arrivo l'ora di rientrare per Sarah ed i due si salutarono, entrambi convinti di aver trovato una persona diversa, intellettualmente valida, profonda. Per Marco fu una rivoluzione. Non si era mai sentito tanto libero e leggero. L'idea di aver condiviso con qualcuno tutto ciò lo faceva star bene, lo faceva sentire in pace con se stesso. Mentre era seduto alla sua scrivania per mettere su carta quella sensazione sentita così poche volte, rappresentabile ai suoi occhi solo con un arcobaleno, vide per terra in un angolo il contenitore per fare le bolle di sapone. Lo aprì e, dopo aver constatato che suo fratello lo aveva praticamente svuotato, andò sul terrazzino. Aggiungendo un goccio di acqua, prese a soffiare lentamente. Le bolle si sollevarono nell'aria leggere, quelle bolle contenenti il suo respiro, il suo fiato, quelle bolle contenenti i suoi pensieri e la sua felicità, quelle bolle iridescenti, capaci di rifrangere quei famosi sette colori.

Per qualche giorno tutto procedette senza problemi. La scuola non era risultata ancora pesante ed i due ragazzi avevano cominciato a vedersi spesso, aumentando sempre di più la loro empatia e approfondendo ulteriormente il rapporto. 
-Sarah, ti devo parlare...- disse Elena, uscendo dalla classe per la ricreazione.
-Dimmi!- rispose, mettendosi a sedere su un muretto del cortile e addentando la focaccia, rappresentante la sua merenda.
-Marco...non mi convince- iniziò la bionda, in visibile difficoltà per quello che doveva dire.
-Guarda che è un bravissimo ragazzo ed è simpatico!-
-Se lo dici te...ma non è esattamente questo il problema...- continuò Elena, ormai incapace di spiegarsi.
-Non ci sto insieme!-
-Lo credo bene...-
-Vuoi parlare sì o no?- sbottò Sarah, ormai al limite della sopportazione. 
-Sarah ormai tutti si prendono gioco di te...- confessò finalmente. A quella parole la mora spalancò gli occhi incredula.
-E perchè scusa?-
-Perchè stai sempre con lui! È solo, non ha amici, fa ragionamenti strani da quel che si sente...insomma è matto! E oltre a deridere lui, ormai tutti lo fanno anche con te! Ti stai rovinando la reputazione.-
Queste parole furono come un fulmine a ciel sereno. La barriera che si era costruita così duramente non poteva crollare così miseramente, non a causa di una singola persona. Non poteva permetterò ciò, non poteva diventare succube. 
-Ehi Sarah!- urlò Marco, avvicinandosi alle due ragazze.
-Che c'è?- rispose fredda Sarah. Doveva riparare immediatamente al danno.
-Che hai?-
-Niente.-
-Okay...come vuoi. Comunque volevo chiederti se ti andava di venire da me oggi!-. 
-Scusa, per chi mi hai presa?-. Doveva essere forte.
-Ma che stai dicendo? Siamo amici...- rispose Marco, abbassando il tono della voce, che cominciava ad inclinarsi.
-Io e te? Nessuno sarà mai amico tuo...guardati! Non sai divertirti, parli come un disadattato e gesticoli come un matto. Metti in imbarazzo la gente, vergognati.- Le parole uscirono fredde, schiette, veloci dalla bocca di Sarah, la quale, al contrario del ragazzo, tendeva ad urlare. In quel momento i suoi occhi incrociarono quelli di Marco. Niente. Niente era rimasto della limpidezza che li caratterizzava prima. Il ragazzo, con una lacrima che solcava la guancia destra, ma che non dava cenno di voler cadere, se ne andò. Il cortile si riempì di voci e sussurri, tutti indirizzari verso Sarah, che, con quell'unico gesto, aveva riedificato tutto ciò che era precedentemente andato distrutto. Solo non sapeva, non sapeva di aver annientato completamente un'altra persona.

Marco corse a casa subito dopo la fine della scuola. Per fortuna,ancora una volta, non trovò nessuno ad aspettarlo. Si diresse immediatamente in camera sua e, in piena crisi, cominciò a strappare tutti i disegni fatti. Voleva vedere quei fogli, rappresentanti le sue emozioni, andare in pezzi, così come i suoi sentimenti in quel momento. Si sentiva tradito, tradito dall'unica persona alla quale aveva deciso di mostrarsi realmente, l'unica alla quale aveva servito il suo pensiero su un piatto d'argento. Si sentì usato, sfruttato...incompreso. Capì di aver sbagliato, capì che aveva sempre avuto ragione: non esisteva nessuno capace di comprenderlo. In quel momento il mondo fisico poteva anche scomparire, visto che il suo mondo interiore era già esploso. Esploso per delle parole, le armi più potenti dell'essere umano. Vergogna, era forse quello che doveva provare in confronto agli altri? Si doveva realmente vergognare di se stesso? Con un completo blackout nella mente e negli occhi andò nuovamente sul terrazzo. Trovò ancora lì il giocattolo. Provò a soffiare e ad imprimere in quelle sfere d'acqua tutta la negatività presente dentro di lui. Quelle bolle, prima colorate, risultarono trasparenti; quelle bolle, precedentemente numerose, divennero scarse; quelle bolle, un tempo piene di speranza, scoppiarono in un istante.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Settembre stava per finire. Mancavano ormai poche manciate di giorni ad Ottobre e Marco si consolava con questo. Sì, perché vedere le foglie degli alberi cambiare colore e cadere lo consolava, sopratutto quando toccavano il terreno e si inzuppavano d’acqua, dilaniandosi. Anche il cielo gli sembrava vicino. Erano giorni che i temporali non cessavano. Le strade erano a rischio di intasamento e le persone quasi evitavano di uscire. Ma lui era contento di ciò, perché, forse, almeno la natura lo aveva capito. I genitori non osavano chiedere. Avevano compreso il dolore lancinante del figlio e, pur di proteggerlo, preferivano restare in silenzio. 

Marco era stato accolto dalla solitudine, l’unica amica sincera che avesse. Aveva concentrato l’attenzione sulla scuola e lo studio, nient’altro. Non disegnava, non scriveva, non faceva nemmeno volontariato come era suo solito. Del resto come poteva far sorridere dei bambini, quando lui stesso non trovava una ragione per incurvare le labbra? Sì, aveva abbandonato anche la sua creatività, ma non perché quest’ultima lo avesse lasciato, ma solo perché in questo momento era nera. Tutto ciò che poteva creare era scuro, buio, vuoto…così come si sentiva lui. Tradimento, era questo quello che provava? No, c’era di più. Delusione forse? Ancora di più. Frustrazione? Senz’altro, quella non mancava. Lo accompagnava dovunque, tanto da poter essere considerata la sua ombra. Ma come poteva essere altrimenti? Il rapporto con Sarah non era stato lungo, ma intenso…almeno questo valeva per lui. Tutto ciò lo disturbava, lo irritava, troppo. Aveva aperto le porte della sua mente a quella ragazza, l’aveva invitata a cibarsi delle sue idee e a bere le sue parole. L’aveva fatta entrare nella sua creatività, le aveva dato accesso alle sue emozioni. Le aveva dato se stesso e non importa se per giorni, settimane, mesi o anni, ma lo aveva fatto. Eppure non riusciva a capire, a comprendere fino in fondo quel gesto, quella ripugnanza avuta. Come potevano essere così opposti, come era potuto accadere? Marco era sicuro di aver trovato in lei una sensibilità particolare, che, seppur diversa dalla sua, era degna di esser chiamata tale. Ma era forse rimasto abbagliato dal fascino di quella ragazza? Aveva forse fatto lui un errore di giudizio? E poi…al di là di tutto ciò, come aveva fatto lei a sputare nel piatto in cui aveva mangiato? Così, senza esitazione, senza batter ciglio? Aveva pronunciato quelle parole con la consapevolezza del suo gesto o non aveva capito cosa Marco avesse fatto per lei?

Questa seconda possibilità lo attanagliava dentro, gli mandava in tilt il cervello.

 Aveva sempre riflettuto riguardo le lingue delle persone. Ognuno, si sa, ha modi diversi di esprimersi. Purtroppo non è detto che ciò che per noi risulta importante lo sia anche per altri. Era forse andata così? Quei pomeriggi passati insieme erano forse stati per Sarah solo dei momenti di svago, in compagnia di un coetaneo che frequentava la sua scuola? Ma no! No! No! Non era possibile. Come poteva non rendersene conto? Come poteva non vedere che le stava dando tutto quello che aveva, tutto quello che aveva di più caro al mondo? Solo una persona insensibile, piatta e superficiale avrebbe potuto, ma Sarah non era così, lui ne era sicuro. Avrebbe voluto riprovarci, avrebbe voluto andare da lei e chiederle semplicemente “perché?”, ma non ne aveva il coraggio, la forza e, peggio ancora, ne era consapevole.

 Non poteva fingersi forte, non lo era mai stato. Aveva sempre lasciato che le persone lo criticassero per i suoi modi strani, per il suo sguardo pieno di giudizi nascosti e le sue parole sempre ambigue. Ora, da dove poteva attingere l’energia per ricominciare da zero? Non solo senza Sarah, senza nessuno. Era stato a lungo solo, migliorando e affinando le proprie capacità intellettive, ma adesso aveva provato cosa volesse dire sentirsi capiti, anche per pochi secondi. Gli tornava difficile rassegnarsi, ma sapeva di doverlo fare. Perché la condotta di prima era quella giusta, lo aveva sempre tenuto al sicuro. Aveva sbagliato a lasciarla, a pensare di aver trovato la persona giusta. Aveva sbagliato a ricredere, anche solo per un attimo, a quell’utopia, a quel santo principio che possedeva, a quel sentimento insito tanto nel suo cuore quanto nella sua mente, a quella dannata cosa chiamata amicizia. 

Adesso basta. Doveva capirlo. Doveva accettare la sconfitta, con onore, con la testa alta. Doveva guardare bene, doveva tenere lo sguardo fisso verso ciò che gli era accaduto. Doveva sentire il rombo dovuto ad un’aspettativa caduta, doveva sentire lo scricchiolio di un sentimento che si crepa, doveva assaporare lo strano sapore che ha un desiderio perso, sentire l’odore di un’ambizione infranta, vedere il proprio sogno annientato. Era giunto il momento di dimostrarsi forte, violento, freddo. Avrebbe alzato le paratie, ma, al contrario di Sarah, che cercava di proteggersi dagli altri, lui si difendeva da se stesso. Era bravo con le parole, lo sapeva…era cosciente di avere la capacità di ferire, casomai ce ne fosse stato il bisogno. Avrebbe spento le sue emozioni, lasciandosi in balìa della sola mente.

 

Sarah non riusciva a rendersi conto di quello che era accaduto o, forse e più probabilmente, semplicemente non voleva. La verità l’aveva colpita in un momento di fragilità, ma era riuscita a respingerla in maniera piuttosto egregia. Tuttavia la traccia era stata lasciata e non sembrava voler scomparire. Sapeva di aver detto delle mostruosità, ma non era pentimento quello che provava. Le dispiaceva aver fatto così male a Marco, ma credeva nella legge del più forte, nella sopravvivenza. Era diventata così cinica con il tempo, ma era necessario per lei, per la sua persona. Aveva imparato con l’esperienza che esporsi fa male, sempre. Aveva capito che il mondo che la circondava era povero di fantasia e di idee, ma temeva la solitudine. Voleva essere circondata da persone che la stimassero, che la considerassero, che l’accettassero. Era forse chiedere troppo? Aveva alzato le barriere per evitare che altri vedessero quel suo lato nascosto, quel lato umano, pieno di sentimento, di passione.

 Per questa ragione era rimasta così sconvolta e affascinata da Marco e dalla sua personalità. Lui aveva, forse, la stessa capacità di meravigliarsi di fronte al mondo e alle sue bellezze, la stessa capacità di astrazione e riflessione, anche se dimostrava di voler affrontare il tutto in maniera completamente opposta. Aveva deciso di isolarsi e sopportare il peso del pregiudizio su di sé e ciò gli conferiva una forza inimmaginabile, perlomeno di volontà. Ma Sarah non ce l’avrebbe fatta e lo sapeva. Se avesse potuto, avrebbe evitato di ferire Marco…ma non esistevano altri modi per salvarsi. Aveva solo cercato di volersi bene, di non subire condanne. Era forse da colpevolizzare? 

Mentre usciva dalla sua aula per tornare a casa, vide il ragazzo protagonista dei suoi pensieri passarle vicino. Aveva il cappuccio di felpa, lo zaino solo sulla spalla destra e le solite cuffie nell’orecchio, ma lo avrebbe riconosciuto dovunque. Non solo perché ormai ci aveva fatto l’abitudine, ma per la sensazione di freddezza che l’aveva attraversata. Come se quel corpo emanasse energia negativa, avversa. Un’impulso la portò a corrergli dietro, sebbene nemmeno lei sapesse la reale ragione di questa decisione. 

Come aveva già fatto in precedenza, gli arrivò alle spalle e, con ancora il fiato assente, afferrò il suo polso. Immediatamente una scossa la percosse, portandola ad essere a disagio come mai prima.

Marco si girò lentamente, in maniera totalmente apatica ed inchiodò quegli occhi sulla ragazza davanti a lui. Sarah iniziò a tremare dentro per quello sguardo, pieno di disprezzo. I brividi l’attraversarono, facendole sentire l’assenza del pavimento sotto di lei. Solo in quel momento si rese conto della pericolosità di quel ragazzo. Si ricordò solo allora di ciò che aveva pensato la prima volta che lo aveva visto. Ora voleva scomparire. Dopo essere sfuggita a lungo dai giudizi altrui, si trovava sotto due occhi che la imprigionavano e la facevano affogare in un mare di emozioni. Sentiva di non avere salvagenti, di non avere più ossigeno nei polmoni, quell’ossigeno così vitale per renderla potente e forte.

-Marco…io.- Sussurrò queste parole in un soffio di aiuto, quasi lo stesse implorando. Solo in quel momento si accorse che Marco non si era nemmeno curato di levarsi le cuffie. Solo dopo aver visto la ragazza muovere le labbra, aveva deciso di mettere in pausa.

-Potevi ascoltarmi…- continuò lei, cercando di trovare uno scoglio al quale tenersi.

-Perché hai ancora qualcosa da dirmi? Davvero?- rispose Marco, veloce, schietto.

-Sai la musica ti parla, ma almeno non ferisce- concluse, vedendo che non otteneva risposte. Detto ciò si girò per andarsene. Quando era ormai distante pochi metri, Sarah decise di provare ancora, riavvicinandosi.

-Io, io non credevo…-

-Sarah, stai zitta. Con me non rimedierai e vuoi forse rovinarti la tua reputazione così? Non ti conviene, lo dico per te.-

La conversazione finì lì, senza che un’altra parola uscisse dalla bocca della ragazza, ormai sprofondata in quell’abisso senza fine. Questa volta servì qualche minuto a Sarah per ritrovare la compostezza iniziale e la forza di rialzare la testa e, cancellando ogni espressione dal viso, si diresse verso l’uscita, con quel passo tipico di chi vorrebbe correre per scappare.

Si fermò solamente quando riuscì a varcare la porta e a respirare all’aria aperta. Sentiva di esser fuggita da quell’edifico diventato improvvisamente troppo piccolo. Immediatamente aprì lo zaino e tirò fuori una sigaretta. Era diventata la priorità assoluta in quell’istante. Mentre, a gran velocità, iniziava a consumare i pochi centimetri di tabacco, si accorse che poco lontano da lei c’era Elena. La vide discutere in maniera animata con un ragazzo, ma non lo conosceva e, in più, questo era di spalle. Anche lui era coperto in viso e sembrava dare poca importanza a ciò che la ragazza le stesse dicendo. Senza rendersene nemmeno conto, Sarah si ritrovò ad origliare quel poco che riusciva a captare della conversazione.

-Ti andava? Ma sei matto o cosa?- urlava Elena, con tono quasi minaccioso.

-Avevo bisogno di sparire per un po’, non volevo più restare in quel modo…- si scusava lui, gesticolando freneticamente, come se potesse aiutarlo ad esprimersi.

-Non ti azzardare più a sparire Lorenzo, intesi?-

-Mi fa effetto quando mi chiami così…- disse piano il ragazzo, quasi bisbigliando, tanto che Sarah fece fatica a capirlo. -E poi scusa…tu ti rendi conto del casino che hai fatto?-

-Senti, non volevo…non pensavo sarebbe scoppiato un disastro simile…non era mia intenzione, almeno non fino a questo punto…- si giustificò Elena, massaggiandosi la fronte come chi ha molte cosa a cui pensare.

-Non ti preoccupare, risolveremo anche questa situazione…ci sentiamo presto, Elena- concluse lui, salutandola dolcemente con un bacio alla guancia e sparendo tra i gruppi di ragazzi, creatisi per l’orario di uscita. La ragazza si guardò per qualche minuto intorno e, dopo essersi assicurata che tutto fosse normale, si avviò verso casa.

Sarah rimase colpita da quella conversazione, non credeva che la sua amica avesse continuato a vedere il ragazzo della discoteca, ma, da un lato, ne era contenta. Almeno forse poteva diventare una cosa seria. Tuttavia aveva trovato quel dialogo altamente inquietante, ma lei aveva altre cose a cui pensare.

 

Marco, sebbene stesse morendo dentro, era soddisfatto del suo incontro con Sarah. Era riuscito a dominare, a paralizzarla ed era ciò che voleva. Era riuscito a fingersi forte, a fare il freddo ed il duro proprio come lei era abituata a fare con tutti gli altri. Almeno adesso anche lei avrebbe provato il dolore che possono infliggere delle parole, la ferocia di uno sguardo. Forse niente sarebbe stato paragonabile a quello che aveva subito lui, ma era un inizio. 

Mentre si dirigeva verso casa, Marco si ricordò di dover fare delle fotocopie per sua madre. Cambiò strada velocemente e si avviò verso la copisteria più vicina, quella in cui generalmente andavano tutti gli studenti. Per sua fortuna la trovò quasi vuota e i clienti presenti avevano da svolgere questioni di poco conto.

-Dimmi pure- disse la signora anziana, proprietaria del negozio, a Marco, intento a guardarsi intorno.

-Ah si, volevo fotocopiare queste otto pagine- rispose dopo qualche secondo il ragazzo, ripresosi dal suo tornado di pensieri.

-Certo, te le faccio fronte retro?- domandò la donna, sorridendo. Probabilmente aveva fatto quel lavoro da sempre, ma non sembrava dispiacerle. Vedeva tutti i giorni una marea di ragazzi e questo le faceva piacere. Era sempre molto gentile con gli studenti, sopratutto se si trattava di aiutarli con riduzioni di appunti per copiare durante le verifiche o cose simili. 

-Si, grazie, sarebbe meglio.-

Pochi secondi dopo il tutto era pronto. Marco pagò i pochi centesimi che doveva e si riavviò verso casa, con le fotocopie in mano. Mentre camminava una foglia catturò la sua attenzione. Si muoveva con movimenti circolari sul marciapiede, seguendo il corso di quello che sembrava un leggero mulinello, formatosi in seguito all’incontro di diverse correnti. Rimase a fissare la scena con interesse per qualche secondo, ma il vento cominciò ad alzarsi sempre più, fino a far volare per tutta la strada quei quattro fogli, ancora caldi per la stampa. Tre di questi si fermarono in fretta, andando a scontrarsi contro pareti o altre superfici, oltre le quali non era possibile andare; uno continuò il suo percorso leggermente più a lungo, prima che un ragazzo lo afferrasse al volo, con facilità. Si avvicinò verso Marco, che ancora cercava di raccattare le fotocopie a lui più vicine.

-Tieni!- esclamò lo sconosciuto, con un gran sorriso sul volto.

-Oh, grazie! Scusa…-

-Ma di che! Comunque piacere, io sono Lorenzo.-

-Marco.-

Solo in quel momento Marco alzò lo sguardo verso il suo interlocutore. Gli strinse la mano per formalità e lo ringraziò nuovamente, prima di notare due occhi di un celeste limpido intenti a fissarlo.

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