Suomi.

di thepassenger_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


L’uscita dell’aeroporto straripava di taxi, passeggeri infreddoliti, valigie e neve. I turisti non sopportavano quei fiocchi bianchi che rovinavano l’inizio del loro viaggio e cercavano di non lasciarsi sopraffare da quella lingua cupa eppure melodiosa.

Una donna si faceva largo tra la folla, stringendo con la mano scoperta il bavero del cappotto attorno al collo e trascinandosi dietro un piccolo trolley grigio che si mimetizzava troppo facilmente con i colori del paesaggio.

La navetta stava aspettando gli ultimi passeggeri alla fermata, mentre l’autista elargiva sorrisi, aiutandoli con i bagagli. Il sorriso dell’uomo s’illuminò, però, quando la donna gli si parò davanti con le gote arrossate dal gelo. Egli le fece un piccolo occhiolino, caricando anche la sua valigia insieme alle altre, mentre lei andò a sedersi dietro al posto del conducente.

La neve non accennava a smettere di cadere, nemmeno quando la navetta e numerosi taxi imboccarono lentamente l’uscita dell’aeroporto. Gettando un’occhiata allo specchietto, l’autista accennò un altro sorriso e appoggiò la schiena al sedile.

“Sei tornata.”

La donna guardò i suoi occhi riflessi nel vetro appannato e rigato dai fiocchi veloci, arrossendo lievemente.

“Te l’avevo detto.”

Il conducente annuì, fissando con attenzione l’asfalto bagnato di fronte a lui.

“Certo, ma non mi avevi detto che l’avresti fatto così presto. È bello rivederti, comunque.”

Lei sorrise di rimando, allungandosi e osservando il paesaggio che scorreva veloce alla sua sinistra.

Dopo circa trenta minuti raggiunsero il centro, dove le luci della vita notturna risplendevano in quella notte così stupendamente buia, trapuntata di velluto. L’autista scese e aiutò nuovamente i passeggeri, lasciando però la valigia della donna in disparte. Dopo aver augurato una buona serata anche all’ultimo turista, si volse verso di lei, che attendeva un suo cenno appoggiata alla porta anteriore.

Parlò per prima: “Sempre il solito orario?”.

“Sì, riparto tra un’ora, poi torno a casa.”

“Ti andrebbe la solita kupin kahvia[1]?”

“Con piacere.”

Lui scaricò la valigia e, dopo aver lasciato le chiavi al suo sostituto, s’incamminò con lei sotto la neve. Svoltarono sulla Elielinaukio ed entrarono in un pub, venendo subito inondati dal calore delle risate e dell’alcol. Sedettero lontani dal trambusto, di fronte alle due tazze: la donna prese la propria tra le mani, mentre l’autista la osservava sottecchi, cercando dei cambiamenti sul suo volto.

“Potresti smettere di fissarmi?”

Lui rise forte, socchiudendo gli occhi nel farlo: di certo il carattere non aveva subito modifiche repentine.

“Perché sei tornata?”, chiese poi, tornando serio.

Lei fece finta di nulla, continuando a osservare la neve dalla vetrata del locale. Un movimento quasi impercettibile delle sue ciglia incupì l’uomo, che si fece più vicino. “Bene, allora cambierò domanda,” disse, abbassando la voce. “Per lui o per lavoro?”.

Questa volta lei volse gli occhi, sempre senza guardarlo, ma fissandoli sul liquido scuro che riempiva la tazza: “Per lavoro. O forse per entrambi…”, rispose flebilmente.

Sul volto dell’uomo si dipinse un ghigno quasi sdegnoso ma, poiché conosceva bene colei che gli sedeva di fronte, decise di non osare oltre. “Dove stai?”

Lei lo guardò finalmente negli occhi, mentre nei suoi risplendeva una luce di gratitudine. “Dal signor Tuominen. È stato così gentile da permettermi di nuovo di alloggiare nel suo appartamento.”

“Ci vai ora?”

“Sì,  ha detto di non farmi problemi. Ha lasciato le chiavi in portineria.”

L’autista annuì, dando una veloce occhiata all’orologio: aveva ancora qualche minuto per provare. “Sai almeno quanto resterai?”. Questa volta fu il volto di lei a esprimere una smorfia di disprezzo, ma rispose comunque: “Non ne ho la minima idea. Spero solo di trovare una risposta entro la fine della settimana.”

“Quindi tutte le tue cose sono in quella minuscola valigia? Non resisteresti nemmeno ventiquattr’ore…”

Lei sorrise, arrossendo alla catena dei ricordi: la prima volta che atterrò sul quel freddo suolo aveva con sé tre valige, ognuna con un peso oltre il limite consentito, e viaggiava sola. Nevicava e lei incespicò più volte lungo il tragitto, nel vano tentativo di trascinarsi dietro quei fardelli, fino a che quell’uomo alto e dal viso pulito le si parò davanti e le chiese melodiosamente se avesse bisogno d’aiuto. La sua faccia interdetta, con le labbra serrate dal freddo e i capelli imbiancati, fecero formulare rapidamente a quell’uomo la stessa domanda, stavolta in inglese. Al che lei sorrise, imbarazzata dalla solita goffaggine, e acconsentì all’aiuto di quel gigante coperto di neve.

Ora erano ancora insieme, uno di fronte all’altra come la prima volta, dopo cinque anni e innumerevoli viaggi. “Molte delle mie cose sono a casa di Annika. Un’altra delle tante persone a cui devo delle scuse.”

L’ombra cupa di pochi istanti prima tornò sul suo volto, scivolando via di nuovo grazie a una semplice domanda: “Come sta Riikka?”. L’uomo s’illuminò, sorridendole di nuovo, mentre le guance lisce si arrossavano per la gioia: “Oh, benissimo, davvero! Cresce ogni giorno di più, ho finalmente imparato a farle le trecce e ora pretende che gliele faccia ogni volta che torno. Per fortuna non sono capace di cucinare, altrimenti…”.

Lei lo guardò attentamente, mentre raccontava gli ultimi progressi della figlia: viveva per lei, ed ogni singolo particolare della sua piccola gioia quotidiana lo faceva risplendere.

“Ora ovviamente è con i nonni, ma domani è il mio giorno libero e non vedo l’ora di coccolarmela un po’.”

“Vorrei rivederla, è passato così tanto tempo… Dubito che si ricordi di me, era così piccola allora.”

“Scherzi? Mi chiede spesso di te, è curiosa. La fotografia che ci hai regalato, quella di te e Annika a Stoccolma, è appesa sopra al suo lettino.”

Lo scambio di sorrisi tra loro fece riflettere la donna, che commentò stupita: “Sei un padre bravissimo, Hannu. Come fai a gestire ogni cosa? Io sono sola e come vedi continuo a combinare disastri. Tu, invece…”

Hannu arrossì, sfregandosi il mento. Avrebbe voluto rispondere, ma l’immagine del volto di lei così tetro di pochi minuti prima lo fece desistere.

“Non lo so. Parliamo seriamente, ora.” Lo sguardo della donna si rabbuiò con facilità, mentre Hannu cercava di sviare. “No, piano, non rattristarti. Come ti ho detto, domani è il mio giorno libero e Riikka è con me. Le ho promesso un giro sulla pista da ghiaccio e la cioccolata calda del nostro bar in centro. Ti andrebbe di passare un po’ di tempo con noi? Ho la macchina, quindi potrei aiutarti con le tue cose, sempre se la situazione con Annika si sistemerà…”

La fronte di lei si rilassò, mentre volgeva nuovamente lo sguardo alla vetrata e agli ultimi fiocchi che si scioglievano contro di essa, poi rispose: “Mi farebbe molto piacere. Ti farò sapere cosa succederà domani, intanto ti ringrazio dell’invito.”

Hannu annuì e le sfiorò la mano, che giaceva immobile e con le dita aperte sul tavolo. “Stai tranquilla. Se vorrai parlare… Beh, lo sai. Il caffè non lo fanno solo qui, o sbaglio? Ora andiamo.”

Anche lei annuì e infilò la giacca, dopo aver estratto una sciarpa dalla valigia. Uscirono dal locale, mentre piccole nubi di vapore si schiudevano tra le loro labbra e salivano nell’oscurità nordica.

Si lasciarono alla fermata, dove lei salì sulla tram, facendo un cenno con la mano, e sparì con il mezzo, inghiottita dalla città.

Hannu rimase fermo, perplesso e inebetito, per poi sussurrare velocemente un saluto alla notte: “Arrivederci, Aino.”



[1] Tazza di caffè.

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Capitolo 2
*** 2. ***


Di nuovo quel profumo di antico, di vissuto, di ricordo: una porta sul passato. Aino osservò a lungo l’interno di quell’appartamento che non era assolutamente cambiato, o forse era semplicemente più pulito. Lasciò vagare lo sguardo sulle due poltrone di fronte al camino, sull’acquerello della Suomenlinna sopra la scrivania, sul terrazzo coperto di neve, sulla piccola crepa a forma di V sul soffitto.

Tutti i ricordi di ciò che era successo lì dentro si confusero insieme nella memoria della donna, che si passò una mano sugli occhi e poi chiuse la porta dietro di sé. Iniziò con l’andare direttamente nella camera da letto, dove fu colpita da un’impietosa stretta al cuore: il suo vestito nero era appeso a una gruccia all’esterno dell’armadio, quasi come un triste fantasma. Ricordava ogni istante di quella serata e, per quanto lo volesse, non riusciva a dimenticarsene, a eliminare almeno tutte le sensazioni che quel maledetto ricordo comportava.

Aino si sedette sul letto, sollevando uno sbuffo profumato di lavanda, poi si prese la testa tra le mani, cercando di  non pensare, ma tutto ciò che riuscì a fare fu fissare il pavimento senza forze per minuti che sembrarono anni. Si alzò, decisa a cercare almeno di far scivolare il suo pensiero altrove, e iniziò a svuotare la piccola valigia, girando così per l’appartamento.

Solo dopo aver chiuso a chiave la porta d’ingresso s’accorse di una piccola busta bianca sul tavolo con il suo nome scritto sopra: la calligrafia tremante era quella del signor Tuominen. La donna sorrise, immaginando l’anziano chino sulla scrivania con quegli occhiali fin troppo grandi sul naso e la cravatta sempre perfettamente annodata. L’unico che non era rimasto sconvolto o spaventato dalla sua improvvisa partenza.

Cara Aino, sono davvero lieto del suo ritorno. Ero certo che sarebbe tornata, nonostante tutto. L’appartamento è rimasto come l’aveva lasciato, mi sono solo permesso di pulire e di portare il suo abito in tintoria. La aspetto per una tazza di the, qualora ne avesse tempo e voglia. Ho molte cose da raccontarle.

Suo Nuutti Tuominen.”

Aino ripose il biglietto nella busta, appoggiandola nuovamente sul tavolo con un sospiro. Si era complicata la vita con quella partenza, eppure era l’unica soluzione possibile, ma non aveva sortito i risultati sperati.

Si gettò sul letto ancora vestita, mentre la luce della luna entrava dalla finestra, riflettendosi sul manto bianco della neve e facendo brillare il pavimento.

 

 

 

“Papà, papà, andiamo a fare un pupazzo di neve!”

Riikka saltò sul letto del padre e iniziò a premergli le manine sul ventre per svegliarlo. Hannu, dopo vari mugolii e lamenti, aprì un occhio e osservò sua figlia: per un momento gli parve di avere ancora Päivi al suo fianco e un lieve brivido gli percorse la schiena.

Dopo aver aperto anche l’altro occhio, Hannu prese la figlia tra le braccia e iniziò a schiacciarla: “Così impari a svegliarmi di colpo, piccoletta!”. La bambina ridacchiò e lamentò con voce acuta “Dai, papà, mi fai male! Véstiti, andiamo!”. Lei scese dal letto e corse in cucina, mentre l’uomo si mise a sedere, guardando fuori dalla finestra. Un’altra immagine di Päivi s’insinuò nella sua memoria: lei, bianca e seminuda di fronte alla finestra; lui, steso sul letto, la spiava in silenzio.

Una risata della figlia lo scosse dai suoi pensieri, convincendolo ad alzarsi e vestirsi prima di trasferirsi in cucina, dove trovò una tazza fumante di caffè e delle pulla[1] appena sfornate.

“Buongiorno, mamma.” La donna si voltò, asciugandosi le mani bianche di farina sul grembiule celeste, e sorrise al figlio: “Ciao, Hannu. Hai dormito bene? Hai passato una buona settimana al lavoro? Dove andrete oggi tu e Riikka? Hai delle occhiaie spaventose, figliolo, bevi il caffè.”

Troppe domande: Hannu sedette di fronte alla figlia, impegnata a mordere con avidità uno di quei panini, per poi affondare il naso nel caffè, cercando di svegliarsi.

“Papà, andiamo in giardino?” chiese la bimba, con un baffo di latte sulle labbra.

“Prima finisci la colazione e ti pulisci, poi usciamo. Dov’è papà?” disse di rimando l’uomo, rivolgendosi alla madre.

“Tuo padre è già in giardino, sta tagliando la legna.”

Hannu scosse la testa, mandando giù il caffè velocemente per ribattere: “Gli avevo detto che l’avrei fatto io, rischia di farsi del male.”

La madre rimase indifferente, continuando a impastare di fronte alla finestra, per poi rispondere “Sai com’è fatto. È testardo.”

Riikka finì di mangiare e sparì in camera sua: il silenzio della cucina obbligò l’uomo a parlare.

“Aino è tornata.” La madre lasciò cadere la farina sul piano, per poi voltarsi verso il figlio e rivolgergli uno sguardo eloquente.

“Così presto?”

“Mamma, sono passati quasi due anni.”

“Non mi sembra molto.

Hannu si alzò in piedi di scatto, infilando con forza la tazza vuota nell’acquaio e ribatté: “Perché la odi così tanto?”

La donna lo osservò con calma, appoggiando le mani sul tavolo: un sospiro breve le uscì dalle labbra, mentre distoglieva lo sguardo per fissare nuovamente fuori, verso il panorama innevato.

“Non la odio, Hannu, lo sai bene. So solo che sia tu sia Riikka siete rimasti estremamente delusi dalla sua partenza e per settimane non avete voluto sentire nemmeno il suo nome. Mentre tu eri al lavoro, è toccato a me e a tuo padre consolare la bambina. Non la vedevo così da… Beh, lo sai. È stato molto difficile cercare di rassicurarla, è ancora piccola. Tu forse sarai riuscito più in fretta a dimenticare cos’è successo, ma lei no.”

“Non ho dimenticato niente, mamma. È ancora tutto qui dentro,” rispose con astio Hannu, battendosi sul petto, “è tutto qui, indelebile. Non ho cercato di fare finta che non fosse successo nulla e c’ero anch’io quando Riikka piangeva. È vero, il lavoro mi ha distolto dal pensare, e forse ho esagerato non prendendo nemmeno una pausa per portare la piccola dai genitori di Päivi, ma non ho dimenticato. È stato difficile per tutti, quasi tanto difficile come la prima volta. Come quell’unica volta.”

L’uomo si passò le mani sul viso, cercando di scacciare le immagini del passato; la madre si rese conto delle sue parole fin troppo severe e si avvicinò per accarezzargli la testa.

“Scusami, Hannu. Non dovevo. Solo che averti visto soffrire così, di nuovo… È stato un duro colpo per me e tuo padre. La piccola lo sa?”

Hannu scosse la testa, fissando il pavimento. “No, non gliel’ho ancora detto. Volevo farle una sorpresa, oggi pomeriggio dopo il giro al parco. Ho anch’io paura che rimanga scossa.”

La donna annuì, cercando le parole giuste per non infierire ancora: “No, è una bambina sveglia. Non avrà dimenticato ma avrà perdonato. Tu cerca di stare attento.”

“Lo farò.”

Riikka trotterellò in cucina coperta dal piumino verde e dalla sciarpa gigante che le aveva creato la nonna, poi si aggrappò alle ginocchia del padre: “Andiamo?”

Hannu le sorrise e annuì: “Fatti dare una carota dalla nonna, io vado a mettermi il giubbotto.”

 

 

 

La tenda accostata lasciava entrare una luce candida e forte, che andò diretta ad adagiarsi sul viso di Aino, svegliandola d’improvviso. La donna si guardò intorno, non riconoscendo subito il luogo in cui si trovava, specialmente quel letto su cui era stesa, ancora completamente vestita. Allungò il braccio verso destra, com’era solita fare, quasi a sentire se ci fosse stato qualcuno lì con lei. C’era, poco tempo fa.

Si alzò di controvoglia, dirigendosi subito nel bagno, sotto la doccia. Il getto d’acqua fredda contribuì a svegliarla del tutto, ma l’umore rimase quello di prima, se non peggiore.

Aino si ritrovò a pensare alle frasi che avrebbe detto ad Annika: non aveva idea di come presentarsi. Non era nemmeno certa di avere il coraggio di bussare alla sua porta, di mostrarsi lì, di fronte a lei, dopo tutto quel tempo.

Era partita senza nemmeno dirle addio, lasciandole la casa piena di lei, dei suoi oggetti, dei suoi problemi. Si pentiva ogni giorno di quel gesto ma da allora non era mai riuscita a contattarla. Annika aveva provato in tutti i modi, era persino andata a Stoccolma per riprendersela, ma non sapeva che Aino non era nemmeno lì. Da quel giorno non ebbe più alcuna sua notizia, non sapeva nemmeno se abitasse ancora dove vivevano prima, insieme.

Un altro getto di acqua fredda la fece sussultare, convincendola a uscire dalla doccia e affrontare ciò che la aspettava. Indossò il maglione che le aveva regalato Annika, puntando almeno sulla sua compassione. Si rifiutò di fare colazione, per non rinunciare anche alle ultime spinte della propria volontà, e uscì.

Il portinaio si sollevò il cappello in segno di saluto, ma Aino era troppo presa dai suoi pensieri per rispondere. L’aria gelida della città le sferzò il viso per tutto il tragitto fino alla fermata del tram, che l’accolse insieme a tante altre anime in corsa. Lì, in piedi tra la gente, rimuginò ancora sul discorso che avrebbe voluto fare, ma le frasi s’interrompevano da sole nella sua mente, inframmezzate da immagini di quella sera.

Ricordava ogni singola parola, ogni movimento, ogni respiro. L’immagine indelebile del volto sconfitto e sconvolto di Annika la perseguitava ogni notte, costringendola a vagare per casa alla ricerca del sonno.

Una frase le marchiava a fuoco il cuore, detta con astio e rimprovero: “Vattene, allora. Io sono sempre inutile per te.” Su quella frase la porta della loro casa si era chiusa dietro di lei, che non riusciva nemmeno a versare una lacrima, a differenza dell’amica. Sarebbe stato difficile sistemare tutto.

Aino scese dal mezzo e s’incamminò velocemente verso quella casa in cui aveva lasciato tutto, anche un pezzo d’anima. Il vialetto era stato spalato e la luce del soggiorno era accesa: Annika era in casa.

La donna sospirò, passandosi una mano tra i capelli, poi appoggiò la mano sul campanello e attese. Le visioni di quella sera erano lì con lei, sempre di fronte a quella porta, così vivide da farle vacillare le gambe.

Aino suonò e il mondo le crollò addosso.

 

 

 

“Papà, lascia che faccia io!”

Hannu si avvicinò al padre, mentre Riikka si gettò sulla neve per creare un cumulo sferico. Il vecchiò smise di tagliare e guardò la bimba, poi volse lo sguardo verso il figlio: “Non volevo svegliarti.”

I due uomini si fissarono per un momento, poi il più giovane raccolse l’accetta dalle mani del padre e si mise di fronte al ceppo; l’anziano si accostò alla bimba e l’aiutò a creare il suo pupazzo di neve.

Un’ora passò nel silenzio, interrotta solamente dal battere dell’accetta e dal cadere dei ciocchi sulla neve fresca. Il vecchio era rientrato in casa, mentre la bambina aveva iniziato a creare angeli sul manto bianco e a rincorrere il gatto della famiglia Lehtinen; Hannu osservava la scena di tanto in tanto, concentrato sul suo lavoro.

In realtà, il suo pensiero correva continuamente ad Aino: credeva non sarebbe riuscita a tornare. Ripensò alla sera in cui era partita, al suo sguardo perso e alla macchia di vino sulla camicia candida, cercando di ricordare le sue parole. Era troppo confusa per parlare e l’unica frase compiuta che riuscì a dire fu: “Tornerò. Lo so. Non cercarmi.”

Il resto degli eventi era troppo confuso, i mesi a venire furono forse i più duri della sua vita, dopo Päivi. Riikka chiedeva ogni giorno di Aino, Annika lo chiamava ogni sera senza che nessuno dei due potesse trarne vantaggio, i suoi genitori cercavano di rincuorarlo con uno sguardo severo. Mantenne la promessa, non la cercò mai, ma ciò non gli impedì di andare più a fondo nel ricostruire ciò che era accaduto, sebbene fosse tutto inutile. Rinunciò a farsi del male solo per il bene della bambina, affondando ogni dispiacere nel lavoro e nelle ore di straordinario non retribuite per provare a non ricordare.

“Papà, sei triste?” Riikka lo guardava con gli stessi occhi della madre, stringendogli le ginocchia. Hannu si asciugò gli occhi velati con la manica e sorrise alla bimba: “No, tesoro, mi bruciano gli occhi per il candore della neve. Hai finito il pupazzo?”

Riikka lo trascinò vicino al cumulo di neve in cui era piantata una carota con due pigne. “È davvero bello, pulcino. Vuoi che facciamo insieme un angelo della neve?”

La bambina si gettò a terra senza rispondere, così Hannu si stese sulla neve fresca e chiuse gli occhi, muovendo contemporaneamente le braccia e le gambe di fianco alla figlia. Quando ebbero finito, le strinse la manina e rimasero stesi sulla neve con gli occhi rivolti al cielo.

“Oggi andremo a pattinare?”

“Sì, te l’ho promesso.”

“E la cioccolata?”

“Anche. Ma solo se riesci a non cadere sul ghiaccio.”

“Ma non vale, non sono capace.”

“Allora vedremo se ti comporterai bene.”

Restarono ancora lì, avvolti dal silenzio del bosco, mentre dalla casa si sentivano le note del pianoforte del padre di Hannu. L’uomo fissò la porta d’ingresso, ricordando un’estate di parecchi anni prima in cui Päivi sedeva sulla panca con in braccio un fagotto rosa.

Era forse tutto più facile allora? No, assolutamente. Era semplicemente tutto diverso: più calmo, più sereno, più felice. Prima d’addormentarsi di fianco a Päivi si chiedeva in che posizione l’avrebbe trovata accanto a lui. Ora riusciva solo a chiedersi se il mattino successivo sarebbe stato capace di sorridere.

Ripensò alle ultime parole che aveva detto ad Aino prima che se ne andasse: “È solo un brutto sogno.”

Non lo era, era più di un incubo, era una sorta di labirinto eterno senza uscite, le cui pareti si stringevano passo dopo passo, respiro dopo respiro. Hannu era rimasto intrappolato lì in mezzo, e nessuno sarebbe arrivato a salvarlo. L’unica cosa che poteva fare era gridare, ma era sempre stato un uomo silenzioso. Niente sembrava avere senso, tutto crollava attorno a lui, senza alcuna soluzione. L’unica piccola luce che spuntava dai meandri più scuri di quel labirinto era lei, quel batuffolo rosa, Riikka.

Si voltò a guardarla, conscio di essere riuscito davvero ad amare, almeno una volta. Un amore non distrutto, non respinto: lei era lì, che gli stringeva le dita debolmente, osservando il cielo.

“Ti voglio bene, Riikka.”

“Anche io, papà.”



[1] Dolce tipico finlandese, una sorta di panino con cannella e/o cardamomo.

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Capitolo 3
*** 3. ***


Il campanello suonò. La pressione eccessiva del dito di Aino aveva compiuto l’atto tanto odiato, eppure tanto atteso. La donna tremò, vibrò dal profondo, appoggiandosi allo stipite con un improvviso mancamento. Non ce l’avrebbe mai fatta. Dei rumori dall’interno della casa confermarono la verità e l’ultimo suonò che Aino percepì fu la maniglia cigolante che si mosse dall’alto verso il basso.

Annika apparve di fronte a lei, con un grembiule porpora immacolato e gli occhi felici. Quegli stessi occhi che l’avevano tanto odiata l’ultima volta, gli stessi che, alla vista di Aino, si sciolsero nel dolore e nella rabbia. Il silenzio era denso tra loro, quasi tangibile, ma nessuna delle due donne osava muoversi o parlare.

Stettero lì, ferme, fissandosi come una bestia e la sua preda che si vedono per la prima volta e si studiano, prima di affrontarsi. E quella preda era proprio Aino.

“Entra.” Una parola, una sentenza: Annika si fece da parte, lasciando che l’animale entrasse nel suo territorio. Aino oltrepassò la porta, colpita da un nuovo tremito, e rimase nuovamente immobile nell’ingresso, cercando di coglierne i cambiamenti senza muovere la testa.

Annika si avviò verso la cucina senza una parola, costringendola a seguirla. Il rumore soffocato della radio rendeva l’atmosfera ancora più vivida, nonostante la coltre di cose non dette che separava le due donne. La prima si avvicinò alla radio, spegnendola bruscamente, mentre l’altra pizzicava l’unico dettaglio che era mutato in quel luogo una volta così ricco di risate e segreti: una fotografia incorniciata ritraente loro due con un’enorme crostata davanti, un sorriso condiviso e il sole alle spalle.

“Siediti. Preparo il thé.”

Un progresso da una a quattro parole, ma lo spesso strato di tensione di cui erano cariche le fece penetrare come rasoi nella schiena di Aino, che si appoggiò quasi dolorante alla sedia. Incrociò le dita di fronte a sé, pregando che la forza di parlare tornasse, ma invano. Si risolse a fissare le spalle di Annika e il piccolo fiocco purpureo sulla sua schiena, restando quasi ipnotizzata da quel suo oscillare calmo.

D’improvviso se la ritrovò di fronte, con due tazze colme in mano e uno sguardo indecifrabile. Sedette anche lei, allungandole la tazza sul tavolo, e la fissò dritta negli occhi.

“Perché sei tornata?”

Eccola. Ecco quella domanda tanto attesa, ecco quel senso di nausea che le prese il fondo della gola, ecco quella paura irrazionale che le attanagliò le labbra. La stessa maledetta domanda che le aveva posto Hannu, ma con lui, in fondo, era fin troppo facile parlare. Lui sapeva…

“Per lavoro.” Un respiro breve, una risposta debole. Annika guardò dentro la sua tazza, cercandovi qualcosa, forse della compassione.

“Perché te ne sei andata?” Forse era questa la domanda più temuta, tanto che la mano di Aino scosse con forza la tazza, facendo colare del liquido ambrato sul tavolo. “Scusa.”

Nessun respiro, questa volta, ma un attacco diretto: l’animale morse al collo la preda.

“Cosa vuoi che m’importi del thé? No, sul serio, cosa vuoi che m’interessi? Credi davvero che il tuo ritorno abbia importanza? Credi davvero che io sia disposta ad ascoltarti? Pensi che non mi sia posta tutte le domande senza avere nemmeno uno straccio di risposta da darmi? Non pensi forse, Aino, che mi sia chiesta ogni notte quale fosse quel maledetto motivo che ti ha fatta scappare di corsa senza avvertire nessuno? Te ne sei andata per due anni. Due anni, cazzo, te ne rendi conto? E ora torni qui, e magari pretendi pure che io mi dia una calmata. Vado dallo psicologo, sai? Vado da quello stronzo di psicologo da un anno e mezzo, due volte alla settimana, per farmi sentir dire ogni volta che non è colpa mia, che un motivo ci sarà stato. Qual è il tuo cazzo di motivo? Ce l’hai una motivazione valida, eh? Hai una spiegazione, due parole per dirmi perché Hannu sapeva tutto e io no? Oppure quattro parole per dirmi che anche Nuutti Tuominen sapeva ogni particolare e io, la stupida Annika che viveva insieme a te in questa casa non avesse la minima idea dei tuoi problemi? Cosa credi sia successo in questi due anni, niente, vero? È rimasto tutto uguale, gli uccellini cantano e la neve cade, e io? Io Ho chiamato Hannu, la tua editrice, la tua segretaria, il signor Tuominen per tre settimane, ogni sera, per avere tue informazioni. Ti sono venuta a cercare a Stoccolma e invece? Ops, non c’è, non ha lasciato detto dove andava. Tanto, a chi vuoi che importi? Se solo riuscissi a…”

La voce di Annika tremò, strozzandosi, mentre grosse gocce gonfie scendevano veloci sul suo viso furente, mescolandosi all’infuso dorato. Aino rimase immobile, ancora, capace solo di fissare il viso della donna di fronte a lei senza proferire verbo; il nodo di nausea nella sua gola si appesantì a causa delle parole non ancora espresse.

“Perché sei qui?” Annika cercava di guardarla, asciugando le lacrime con la manica del maglione, “Perché non mi hai detto nulla?”.

“Perché non ne avevo il coraggio.” Aino si sentì quasi liberata dopo quella risposta. In fondo, non era così semplice dire la verità? Perché l’aveva tenuta nascosta per due anni?

“Non sono riuscita a dirti nulla, Annika. Niente, non una parola. Non sapevo… No, sapevo benissimo come dirtelo, ricordo ancora tutte le frasi che avrei voluto pronunciare, ma ogni volta che ti guardavo, rinunciavo. Lo so, il perché, so perché non ti ho detto la verità: perché tu mi avevi sempre detto come sarebbe andata a finire. Tu lo sapevi. Eri tu la prima a dirmi di stare attenta, eri tu la prima a ripetere di non continuare, e invece io volevo dimostrarti che non avevo bisogno del tuo aiuto, che sapevo quello che stavo facendo, che non sarebbe successo nulla. E invece guardami, adesso sono qui, dopo due anni, e ancora non ho il coraggio di ammettere tutto fino in fondo. Ho riflettuto tanto, l’ho fatto anche prima di andarmene. Tu hai sempre saputo tutto di me, hai sempre saputo dare risposta alle domande che mi facevo. Sapevo già in partenza che avrei dovuto parlarne con te, forse solo con te, e invece sono riuscita a dirlo a chiunque. Non era per proteggerti, no, non era nemmeno per svalutarti. Era per lo stupido, semplice fatto che tu avresti saputo benissimo come agire, mentre io ho solo fatto tutto il contrario di ciò che tu mi avresti detto. Io non ti chiedo di perdonarmi, non voglio nulla da te, ho già fatto troppi disastri irreparabili e non ho la minima intenzione di continuare. Vedila pure come una richiesta egoistica, come ho sempre fatto. Sono qui solo per riprendermi tutto ciò che mi appartiene e sparire definitivamente dalla tua vita. Questa volta sul serio. Me ne vado e farò tutto il possibile per non farmi vedere mai più. Non è una promessa. È una certezza.”

 

 

 

“Guarda come sono veloce, papà!”

Hannu osservava Riikka pattinare con agilità in mezzo agli altri bambini sulla pista di ghiaccio, mentre la bimba guardava sempre dritta davanti a sé. In realtà l’uomo stava riflettendo riguardo tutt’altra cosa: l’unica domanda che gli rimbalzava nella testa riguardava Aino. Sua figlia come avrebbe accolto il suo ritorno? Ricordava ancora il bagliore delle lacrime della bimba quando le disse che lei non sarebbe tornata per un po’, costringendolo a mentire su dove fosse e perché. Mentire a un bambino purtroppo era facile, ma mentire a un adulto era arduo, se non addirittura pericoloso.

L’espressione di quel giorno sul volto di Riikka era la stessa che assunse Annika quando lui cercò di spiegarle il motivo della partenza di Aino. Una maschera fragile che cadde con semplicità dopo le sue prime parole, mimiche che alternavano rabbia e tristezza al minimo battito di ciglia. Rimase sconvolto da quel dolore, da come le mani della donna strette l’una sull’altra sembravano quasi soffocarsi, dalla sua incapacità di capire.

Il telefono vibrò nella tasca della giacca, distogliendo Hannu da quel malinconico filo di pensieri, costringendolo a guardare Riikka sorridente e rispondere con un veloce “Pronto.”

“Hannu.”

Riconobbe immediatamente quella voce roca: il signor Tuominen. Sapeva già il motivo di quella chiamata.

“Dottor Tuominen, mi dica.”

“Buon pomeriggio, Hannu. Mi dispiace disturbarla, ma vorrei incontrarla il prima possibile. Aino è tornata.”

“Lo so, dottore, l’ho incontrata all’aeroporto.” Hannu lanciò una rapida occhiata a Riikka, che piroettava tranquilla accanto al bordo della pista, poi abbassò la voce: “Dobbiamo fare qualcosa. Oggi credo la rivedrò, sto aspettando che mi chiami.”

“Certo, l’ho cercata proprio per questo motivo. La prego, se non sono scortese, potrebbe tenermi informato sui vostri incontri e, per quanto può, sugli spostamenti di Aino? Dobbiamo agire con cautela.”

“Certo, certo. Ora dovrebbe essere da Annika, per tentare di… Beh, per provare a parlarle.”

Un breve silenzio di assenso confermò le sue teorie mentali: il signor Tuominen aveva già intuito tutto.

“Lo immaginavo, anche se sono scettico sul risultato di questa sua azione. Vedremo. Posso ricontattarla questa sera?”

“La chiamerò io, lo prometto.”

“Molto bene. La ringrazio, Hannu. E stia attento.”

La chiamata terminò, così come il flusso di pensieri di Hannu: tutto si era fermato sulle ultime parole del signor Tuominen. Dovevano stare attenti, tutti. E lui doveva farlo per troppe persone, oltre a se stesso.

“Riikka! Vieni, andiamo!” L’ansia di lasciarla sola così a lungo, seppur vicino, lo attanagliava. La bimba lo guardò sorridente, scivolando veloce al cancelletto della pista per togliersi i pattini. Le manine rosse cercavano di slacciare le stringhe, ma Hannu intervenne con un sorriso: “Sei stata bravissima! Ora ti aiuto.”

Le tolse entrambe le calzature e l’aiutò a rimettersi gli stivaletti, poi la prese in braccio, per averla vicina.

“Ti sei proprio meritata una cioccolata, tesoro.”

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Capitolo 4
*** 4. ***


Aino entrò nella pasticceria sfregandosi gli occhi, per togliere ogni traccia delle lacrime versate appena fuori dalla soglia della casa di Annika. Ogni tentativo era stato inutile, le ore trascorse e le parole spese non erano riuscite a valicare il muro che l’amica aveva creato contro di lei, contro tutto il dolore che lei aveva provocato. Tra urla e pianti, Annika aveva sfogato tutto ciò che aveva provato non solo negli ultimi due anni, ma da quando tutto era cominciato, tutta quella frenesia che aveva colpito d’improvviso la vita di Aino da cui lei era stata esclusa, senza alcun motivo. Le ultime parole che le aveva rivolto, deboli benché cariche di rancore, risuonavano ancora nella mente di Aino: “Dì pure a Hannu di venire a prendere le tue cose, visto che di lui ti fidi.”

La donna cercò di scansare i pensieri, allungando il collo per cercare quel viso familiare tra i vari tavolini pieni di coppie sorridenti e famiglie felici. Un’immagine che contribuì invece al ricomporsi del puzzle di memorie.

Una risata acuta e infantile colpì il suo orecchio, facendola voltare di scatto: vide una piccola testa ricoperta di capelli biondissimi e dietro di lei il viso divertito di Hannu. Lui la notò e sorrise, poi allungò una mano verso la figlia e le coprì gli occhi, ammonendola con delle parole che Aino non udì. Hannu si alzò e si avvicinò a lei, abbracciandola: il contatto inaspettato fece irrigidire la donna, mentre l’amico si ritrasse velocemente e le bisbigliò imbarazzato: “Dovevi chiamarmi.”

Lei lo guardò negli occhi, cercando di trovare delle parole di convenienza, ma stette in silenzio, limitandosi ad alzare le spalle. Si avvicinarono entrambi al tavolo e lì Hannu convinse la figlia a togliere le mani dagli occhi e a scoprire la sorpresa.

Gli occhi della bimba si rabbuiarono tempestosamente, tanto da far temere al padre una crisi di pianto, ma lei rimase ferma, le guance tirate e le labbra serrate l’una sull’altra.

“Riikka, non vuoi salutare Aino? È tornata.” Hannu accarezzò la guancia della figlia, mentre dentro di lui si faceva strada la consapevolezza che lei non aveva dimenticato e tantomeno perdonato. Riikka scosse la testa e fissò la tazza di cioccolata, mentre Aino, immobile, guardava l’amico con impotenza.

Hannu continuò a bisbigliare qualcosa all’orecchio della figlia, cercando di convincerla almeno a rispondere, con vani risultati. La donna si sedette di fronte a loro, lo sguardo nuovamente velato e la gola appesantita dal solito senso di nausea che aumentava di ora in ora.

Aveva già perso Annika, ora Riikka non osava nemmeno guardarla negli occhi. Perché era tornata?

“Com’è andata?” chiese Hannu, con lo sguardo triste e un braccio attorno alle spalle della figlia.

“Come diresti che è andata? Non mi vuole più vedere e ne ha tutto il diritto. Mi ha detto tante di quelle cose che… Continuano a vorticarmi nella testa le sue parole, le sue accuse, il suo rancore. È un muro.”

“Vuoi che le parli io?”

“Non credo sarebbe utile. Mi odia talmente tanto da sentenziare che tu potrai essere l’unico a riprendere le mie cose. Io non potrò più mettere piede lì dentro. Lì, dove c’era la mia vita…”

Aino abbassò lo sguardo sulle dita intrecciate e tremanti. Inerme, come sempre, non riusciva a combattere contro le sue emozioni. Un’ultima grossa lacrima scese lungo lo zigomo, presto scacciata in maniera febbrile. La donna si alzò di colpo, ormai incapace di reggere un respiro in più.

“Ti prego, Hannu, scusami, ho bisogno di andare a casa. È troppo chiederti di portarmi le mie cose?”

Lui la guardò dal basso, mentre le mani della figlia gli stringevano il maglione. Aveva troppe donne da controllare.

“No, non ti preoccupare. Se riesci a sopravvivere per un giorno, domani mattina andrò da lei e poi passerò a portarti tutto. Riposati, Aino.”

Aino se ne andò e Riikka alzò finalmente gli occhi verso al padre, esplodendo in singulti di pianto: “Io la odio! Io odio Aino!”. La reazione tanto attesa non colpì Hannu, già da tempo pronto alle conseguenze. Eppure non riuscì a tenere il passo della figlia, che cominciò a urlare e scalciare, lasciandolo interdetto per un attimo. La prese in braccio, mentre i piccoli stivali di gomma rossi gli martoriavano il fianco e uscì di corsa dalla pasticceria, sotto una nuova nevicata.

 

 

Annika raccolse l’ultimo coccio dal pavimento per  poi gettarlo nel cestino. Aveva rotto due piatti e versato tutte le lacrime che le erano rimaste finora, incapace di reagire, di nuovo. Chiuse a chiave la porta e si diresse nella sua stanza, sedendosi sul letto con il respiro intervallato dai singhiozzi.

Perché era tornata? Era riuscita a uscire da quella disperazione, aveva quasi finito il percorso di analisi e adesso? Provò la stessa sensazione che avvertì quando Aino scomparve: freddo.

Un freddo intenso, spaventoso, tanto da immobilizzarla sul letto e tagliarle il fiato, facendola tremare.

Tutti i ricordi di quel giorno la assalirono, costringendola a stringere gli occhi e ansimare: l’auto di Aino che sgommava davanti alla porta spalancata, il suo vestito macchiato di rosso scuro, gli occhi gonfi di pianto che presagivano un addio.

Annika allungò la mano sul comodino, ingoiando subito dopo l’ultima compressa di antidepressivo. Una droga, certo. L’unico modo per riuscire a continuare, giorno dopo giorno, cancellando il passato, bruciando ogni energia per il lavoro, tutto per fare in modo che la sua mente si riempisse di impegni che scacciassero ogni immagine. Tuttavia, tutto era così vivido, così reale, come se fosse successo solo un’ora fa, mentre i numeri sul calendario sostenevano il contrario.

Il cellulare squillò: Hannu.

“Annika. Sono Hannu.”

“Ciao. Cosa vuoi?”

“Posso passare a casa tua domattina? Dovrei…”

“Sì, portati via quella roba, non ne posso più.”

“Vuoi parlarne?”

“Non credi che ne abbia già parlato abbastanza?”

“Annika, io…”

“Non mi interessa, Hannu. E non credo di essere l’unica, giusto? Cosa ne pensa Riikka di questo ritorno, eh? Avrà un sorriso a trentadue denti, ovvio.” Annika sorrise amaramente dietro allo schermo.

“Lo sai benissimo come l’ha presa. Io capisco il tuo punto di vista e vorrei ricordarti che in tutto questo tempo ci sono sempre stato per te, non ti ho mai lasciata da sola così come ho continuato a crescere Riikka. Credi che sia stato facile per me? Hai ragione, sì, ne abbiamo parlato abbastanza.”

Il cellulare rimase muto: Hannu aveva riattaccato. Annika si alzò, si avvicinò alla finestra e tirò le tende, poi urlò.

Gridò con forza, con rabbia, con odio. Sciolse tutte le parole e i pensieri in un unico suono straziante, costringendola a lasciarsi cadere sulle ginocchia. Urlò fino a quando l’aria smise di uscire, finché le orecchie non fischiarono troppo forte.

La donna si zittì, raccolse le ginocchia e appoggiò la schiena al muro, cercando di regolare il respiro. Prese il cellulare da terra e digitò quel numero ormai impresso nella memoria: “Dottor Virtanen? Sono Annika Nurmi. Credo di aver avuto una ricaduta.”

 

 

Ventiquattro ore. Aino fissava la finestra dal bordo del cuscino umido. In sole ventiquattro ore aveva distrutto la vita di tre persone e doveva ancora affrontare tutte le altre. La neve aveva smesso di cadere, ma il freddo vento invernale aveva cominciato a creare mulinelli attorno ai bordi delle case, sullo sfondo di un cielo violaceo.

La sua mente tornò di nuovo a lui. Non sapeva nulla, non aveva la minima idea di cosa fosse successo dopo… Dopo quell’abominio. Percepì le sue dita tremare come quella sera, colta da un senso di impotenza. Un reflusso improvviso di dolore la costrinse ad alzarsi e correre, per gettarsi appena in tempo sul lavandino e liberarsi di tutto, di ogni parola non detta, di ogni segreto, di ogni schiaffo e ogni lama nel cuore.

Si accasciò per terra, incapace di versare altre lacrime, immobile. Restò così a lungo, sulle piastrelle ghiacciate, invasa dalle immagini dell’altro lui, la vera causa di ogni rovina. Troppe emozioni, troppi sforzi, tanto freddo. E Aino svenne.

 

 

“Basta, Riikka! Basta!”

Hannu aprì la porta d’ingresso, lasciando che la bambina entrasse, attirando subito l’attenzione dei nonni, poi la chiuse con rabbia dietro di sé e risalì in macchina, pigiando con forza sul pedale e raggiungendo i cento chilometri orari in pochi secondi.

Sfrecciò sullo sterrato che conduceva alla casa dei genitori, per poi immettersi sulla statale e correre liberamente, lasciando che il paesaggio confluisse con la velocità dei suoi ricordi.

“Fanculo.” Sorpassò irato un fuoristrada, schiacciando a fondo l’acceleratore e alzando al massimo il volume della radio, per coprire il rumore dei pensieri.

Un altro sorpasso, vari clacson, un auto che frenava di continuo di fronte a sé. Un’inchiodata improvvisa, la puzza di bruciato, lo sterzo impazzito e tutto fu come quella volta. Le auto dietro di lui ruggirono con violenza, mentre si lasciava scivolare sul sedile e accostava nella corsia d’emergenza.

Appoggiò la testa al volante e pianse. Non l’aveva più fatto dal giorno della morte di Päivi. Non si addiceva a un uomo, un padre solo, un inutile autista di navette aeroportuali. E invece eccolo lì, tre anni e ventuno giorni dopo l’incidente, a piangere di rabbia sul cruscotto della sua auto ferma nella statale.

Il cellulare sul sedile di fianco a lui iniziò a vibrare, visualizzando la foto dei genitori. Lo spense e lo gettò nel retro, accasciandosi di nuovo con le braccia attorno alla testa.

Voleva sua moglie. Voleva stringerla di nuovo tra le braccia, baciarle i polsi e spogliarla lentamente, sotto la luce delle stelle nella notte di Vappu, dopo la sauna e il vino rosso. Voleva rimboccare le coperte della figlia ogni notte, invece di ricalcare il tragitto fino all’aeroporto di ora in ora, lasciandola sola anche durante gli incubi, costretta a calmarsi da sola succhiando l’orecchio di Mikko, il coniglio di pezza della madre. Voleva salvare Aino da quella situazione, voleva essere tutto ciò di cui lei aveva bisogno, forte e gentile allo stesso tempo, capace di rincuorarla in ogni situazione.

Eppure, l’unico reale desiderio era quello di sfregiare il volto di Perttu, sferrargli un pugno sul fegato e vederlo rantolare a terra, prenderlo a calci finché ogni singolo dente non gli si fosse staccato e non avesse navigato nella sua bava di sangue.

Dei colpi sul finestrino lo fecero sobbalzare: un poliziotto batteva le nocche per attirare la sua attenzione. Hannu abbassò il vetro e fissò l’uomo negli occhi. “Signore, si sente bene?”. Il poliziotto era giovane e infreddolito, con uno sguardo misto di compassione e preoccupazione.

“Certo, perché non dovrei?” Hannu cercò di sorridere, fallendo miseramente l’impresa.

“Ha gli occhi gonfi. Vuole che la riaccompagni a casa?”

L’autista si passò le dita sulle palpebre, fingendo nuovamente. “No, la ringrazio, avevo solo bisogno di fermarmi un attimo. Posso andare ora?”

Il poliziotto annuì brevemente, sistemandosi il frontino del cappello. “Stia attento e vada piano. Torni subito a casa”.

Hannu gli garantì che l’avrebbe fatto, avviò il motore e s’immise nuovamente nella statale, stavolta rispettando i limiti. Non tornò a casa, però. Doveva assolutamente parlare con Tuominen.

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