Suomi. di thepassenger_ (/viewuser.php?uid=588066)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 1 *** 1. ***
L’uscita
dell’aeroporto straripava di taxi, passeggeri
infreddoliti, valigie e neve. I turisti non sopportavano quei fiocchi
bianchi
che rovinavano l’inizio del loro viaggio e cercavano di non
lasciarsi
sopraffare da quella lingua cupa eppure melodiosa.
Una donna si faceva largo tra la
folla, stringendo con la
mano scoperta il bavero del cappotto attorno al collo e trascinandosi
dietro un
piccolo trolley grigio che si mimetizzava troppo facilmente con i
colori del
paesaggio.
La navetta stava aspettando gli
ultimi passeggeri alla
fermata, mentre l’autista elargiva sorrisi, aiutandoli con i
bagagli. Il
sorriso dell’uomo s’illuminò,
però, quando la donna gli si parò davanti con le
gote arrossate dal gelo. Egli le fece un piccolo occhiolino, caricando
anche la
sua valigia insieme alle altre, mentre lei andò a sedersi
dietro al posto del
conducente.
La neve non accennava a smettere
di cadere, nemmeno
quando la navetta e numerosi taxi imboccarono lentamente
l’uscita
dell’aeroporto. Gettando un’occhiata allo
specchietto, l’autista accennò un
altro sorriso e appoggiò la schiena al sedile.
“Sei tornata.”
La donna guardò i suoi
occhi riflessi nel vetro appannato
e rigato dai fiocchi veloci, arrossendo lievemente.
“Te l’avevo
detto.”
Il conducente annuì,
fissando con attenzione l’asfalto
bagnato di fronte a lui.
“Certo, ma non mi avevi
detto che l’avresti fatto così
presto. È bello rivederti, comunque.”
Lei sorrise di rimando,
allungandosi e osservando il
paesaggio che scorreva veloce alla sua sinistra.
Dopo circa trenta minuti
raggiunsero il centro, dove le
luci della vita notturna risplendevano in quella notte così
stupendamente buia,
trapuntata di velluto. L’autista scese e aiutò
nuovamente i passeggeri,
lasciando però la valigia della donna in disparte. Dopo aver
augurato una buona
serata anche all’ultimo turista, si volse verso di lei, che
attendeva un suo
cenno appoggiata alla porta anteriore.
Parlò per prima:
“Sempre il solito orario?”.
“Sì, riparto
tra un’ora, poi torno a casa.”
“Ti andrebbe la solita kupin kahvia?”
“Con piacere.”
Lui scaricò la valigia
e, dopo aver lasciato le chiavi al
suo sostituto, s’incamminò con lei sotto la neve.
Svoltarono sulla Elielinaukio
ed entrarono in un pub, venendo subito inondati dal calore delle risate
e
dell’alcol. Sedettero lontani dal trambusto, di fronte alle
due tazze: la donna
prese la propria tra le mani, mentre l’autista la osservava
sottecchi, cercando
dei cambiamenti sul suo volto.
“Potresti smettere di
fissarmi?”
Lui rise forte, socchiudendo gli
occhi nel farlo: di
certo il carattere non aveva subito modifiche repentine.
“Perché sei
tornata?”, chiese poi, tornando serio.
Lei fece finta di nulla,
continuando a osservare la neve
dalla vetrata del locale. Un movimento quasi impercettibile delle sue
ciglia
incupì l’uomo, che si fece più vicino.
“Bene, allora cambierò domanda,” disse,
abbassando la voce. “Per lui o per lavoro?”.
Questa volta lei volse gli occhi,
sempre senza guardarlo,
ma fissandoli sul liquido scuro che riempiva la tazza: “Per
lavoro. O forse per
entrambi…”, rispose flebilmente.
Sul volto dell’uomo si
dipinse un ghigno quasi sdegnoso
ma, poiché conosceva bene colei che gli sedeva di fronte,
decise di non osare
oltre. “Dove stai?”
Lei lo guardò
finalmente negli occhi, mentre nei suoi
risplendeva una luce di gratitudine. “Dal signor Tuominen.
È stato così gentile
da permettermi di nuovo di alloggiare nel suo appartamento.”
“Ci vai ora?”
“Sì, ha detto di
non farmi problemi. Ha lasciato le chiavi in portineria.”
L’autista
annuì, dando una veloce occhiata all’orologio:
aveva ancora qualche minuto per provare. “Sai almeno quanto
resterai?”. Questa
volta fu il volto di lei a esprimere una smorfia di disprezzo, ma
rispose
comunque: “Non ne ho la minima idea. Spero solo di trovare
una risposta entro
la fine della settimana.”
“Quindi tutte le tue
cose sono in quella minuscola
valigia? Non resisteresti nemmeno
ventiquattr’ore…”
Lei sorrise, arrossendo alla
catena dei ricordi: la prima
volta che atterrò sul quel freddo suolo aveva con
sé tre valige, ognuna con un
peso oltre il limite consentito, e viaggiava sola. Nevicava e lei
incespicò più
volte lungo il tragitto, nel vano tentativo di trascinarsi dietro quei
fardelli, fino a che quell’uomo alto e dal viso pulito le si
parò davanti e le
chiese melodiosamente se avesse bisogno d’aiuto. La sua
faccia interdetta, con
le labbra serrate dal freddo e i capelli imbiancati, fecero formulare
rapidamente a quell’uomo la stessa domanda, stavolta in
inglese. Al che lei
sorrise, imbarazzata dalla solita goffaggine, e acconsentì
all’aiuto di quel
gigante coperto di neve.
Ora erano ancora insieme, uno di
fronte all’altra come la
prima volta, dopo cinque anni e innumerevoli viaggi. “Molte
delle mie cose sono
a casa di Annika. Un’altra delle tante persone a cui devo
delle scuse.”
L’ombra cupa di pochi
istanti prima tornò sul suo volto,
scivolando via di nuovo grazie a una semplice domanda: “Come
sta Riikka?”.
L’uomo s’illuminò, sorridendole di
nuovo, mentre le guance lisce si arrossavano
per la gioia: “Oh, benissimo, davvero! Cresce ogni giorno di
più, ho finalmente
imparato a farle le trecce e ora pretende che gliele faccia ogni volta
che torno.
Per fortuna non sono capace di cucinare,
altrimenti…”.
Lei lo guardò
attentamente, mentre raccontava gli ultimi
progressi della figlia: viveva per lei, ed ogni singolo particolare
della sua
piccola gioia quotidiana lo faceva risplendere.
“Ora ovviamente
è con i nonni, ma domani è il mio giorno
libero e non vedo l’ora di coccolarmela un
po’.”
“Vorrei rivederla,
è passato così tanto tempo… Dubito che
si ricordi di me, era così piccola allora.”
“Scherzi? Mi chiede
spesso di te, è curiosa. La
fotografia che ci hai regalato, quella di te e Annika a Stoccolma,
è appesa
sopra al suo lettino.”
Lo scambio di sorrisi tra loro
fece riflettere la donna,
che commentò stupita: “Sei un padre bravissimo,
Hannu. Come fai a gestire ogni
cosa? Io sono sola e come vedi continuo a combinare disastri. Tu,
invece…”
Hannu arrossì,
sfregandosi il mento. Avrebbe voluto
rispondere, ma l’immagine del volto di lei così
tetro di pochi minuti prima lo
fece desistere.
“Non lo so. Parliamo
seriamente, ora.” Lo sguardo della
donna si rabbuiò con facilità, mentre Hannu
cercava di sviare. “No, piano, non
rattristarti. Come ti ho detto, domani è il mio giorno
libero e Riikka è con
me. Le ho promesso un giro sulla pista da ghiaccio e la cioccolata
calda del
nostro bar in centro. Ti andrebbe di passare un po’ di tempo
con noi? Ho la
macchina, quindi potrei aiutarti con le tue cose, sempre se la
situazione con
Annika si sistemerà…”
La fronte di lei si
rilassò, mentre volgeva nuovamente lo
sguardo alla vetrata e agli ultimi fiocchi che si scioglievano contro
di essa,
poi rispose: “Mi farebbe molto piacere. Ti farò
sapere cosa succederà domani,
intanto ti ringrazio dell’invito.”
Hannu annuì e le
sfiorò la mano, che giaceva immobile e
con le dita aperte sul tavolo. “Stai tranquilla. Se vorrai
parlare… Beh, lo
sai. Il caffè non lo fanno solo qui, o sbaglio? Ora
andiamo.”
Anche lei annuì e
infilò la giacca, dopo aver estratto
una sciarpa dalla valigia. Uscirono dal locale, mentre piccole nubi di
vapore
si schiudevano tra le loro labbra e salivano
nell’oscurità nordica.
Si lasciarono alla fermata, dove
lei salì sulla tram,
facendo un cenno con la mano, e sparì con il mezzo,
inghiottita dalla città.
Hannu rimase fermo, perplesso e
inebetito, per poi
sussurrare velocemente un saluto alla notte: “Arrivederci,
Aino.”
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Capitolo 2 *** 2. ***
Di nuovo quel profumo di antico,
di vissuto, di ricordo:
una porta sul passato. Aino osservò a lungo
l’interno di quell’appartamento che
non era assolutamente cambiato, o forse era semplicemente
più pulito. Lasciò
vagare lo sguardo sulle due poltrone di fronte al camino,
sull’acquerello della
Suomenlinna sopra la scrivania, sul terrazzo coperto di neve, sulla
piccola
crepa a forma di V sul soffitto.
Tutti i ricordi di ciò
che era successo lì dentro si
confusero insieme nella memoria della donna, che si passò
una mano sugli occhi
e poi chiuse la porta dietro di sé. Iniziò con
l’andare direttamente nella
camera da letto, dove fu colpita da un’impietosa stretta al
cuore: il suo
vestito nero era appeso a una gruccia all’esterno
dell’armadio, quasi come un
triste fantasma. Ricordava ogni istante di quella serata e, per quanto
lo
volesse, non riusciva a dimenticarsene, a eliminare almeno tutte le
sensazioni
che quel maledetto ricordo comportava.
Aino si sedette sul letto,
sollevando uno sbuffo
profumato di lavanda, poi si prese la testa tra le mani, cercando di non pensare, ma tutto
ciò che riuscì a fare
fu fissare il pavimento senza forze per minuti che sembrarono anni. Si
alzò,
decisa a cercare almeno di far scivolare il suo pensiero altrove, e
iniziò a
svuotare la piccola valigia, girando così per
l’appartamento.
Solo dopo aver chiuso a chiave la
porta d’ingresso
s’accorse di una piccola busta bianca sul tavolo con il suo
nome scritto sopra:
la calligrafia tremante era quella del signor Tuominen. La donna
sorrise,
immaginando l’anziano chino sulla scrivania con quegli
occhiali fin troppo
grandi sul naso e la cravatta sempre perfettamente annodata.
L’unico che non
era rimasto sconvolto o spaventato dalla sua improvvisa partenza.
“Cara
Aino, sono
davvero lieto del suo ritorno. Ero certo che sarebbe tornata,
nonostante tutto.
L’appartamento è rimasto come l’aveva
lasciato, mi sono solo permesso di pulire
e di portare il suo abito in tintoria. La aspetto per una tazza di the,
qualora
ne avesse tempo e voglia. Ho molte cose da raccontarle.
Suo
Nuutti
Tuominen.”
Aino ripose il biglietto nella
busta, appoggiandola
nuovamente sul tavolo con un sospiro. Si era complicata la vita con
quella
partenza, eppure era l’unica soluzione possibile, ma non
aveva sortito i
risultati sperati.
Si gettò sul letto
ancora vestita, mentre la luce della
luna entrava dalla finestra, riflettendosi sul manto bianco della neve
e
facendo brillare il pavimento.
“Papà,
papà, andiamo a fare un pupazzo di neve!”
Riikka saltò sul letto
del padre e iniziò a premergli le
manine sul ventre per svegliarlo. Hannu, dopo vari mugolii e lamenti,
aprì un
occhio e osservò sua figlia: per un momento gli parve di
avere ancora Päivi al
suo fianco e un lieve brivido gli percorse la schiena.
Dopo aver aperto anche
l’altro occhio, Hannu prese la
figlia tra le braccia e iniziò a schiacciarla:
“Così impari a svegliarmi di
colpo, piccoletta!”. La bambina ridacchiò e
lamentò con voce acuta “Dai, papà,
mi fai male! Véstiti, andiamo!”. Lei scese dal
letto e corse in cucina, mentre
l’uomo si mise a sedere, guardando fuori dalla finestra.
Un’altra immagine di Päivi
s’insinuò nella sua memoria: lei, bianca e
seminuda di fronte alla finestra; lui,
steso sul letto, la spiava in silenzio.
Una risata della figlia lo scosse
dai suoi pensieri,
convincendolo ad alzarsi e vestirsi prima di trasferirsi in cucina,
dove trovò
una tazza fumante di caffè e delle pulla
appena sfornate.
“Buongiorno,
mamma.” La donna si voltò, asciugandosi le
mani bianche di farina sul grembiule celeste, e sorrise al figlio:
“Ciao, Hannu.
Hai dormito bene? Hai passato una buona settimana al lavoro? Dove
andrete oggi
tu e Riikka? Hai delle occhiaie spaventose, figliolo, bevi il
caffè.”
Troppe domande: Hannu sedette di
fronte alla figlia,
impegnata a mordere con avidità uno di quei panini, per poi
affondare il naso
nel caffè, cercando di svegliarsi.
“Papà,
andiamo in giardino?” chiese la bimba, con un
baffo di latte sulle labbra.
“Prima finisci la
colazione e ti pulisci, poi usciamo.
Dov’è papà?” disse di rimando
l’uomo, rivolgendosi alla madre.
“Tuo padre è
già in giardino, sta tagliando la legna.”
Hannu scosse la testa, mandando
giù il caffè velocemente
per ribattere: “Gli avevo detto che l’avrei fatto
io, rischia di farsi del
male.”
La madre rimase indifferente,
continuando a impastare di
fronte alla finestra, per poi rispondere “Sai
com’è fatto. È testardo.”
Riikka finì di mangiare
e sparì in camera sua: il
silenzio della cucina obbligò l’uomo a parlare.
“Aino è
tornata.” La madre lasciò cadere la farina sul
piano, per poi voltarsi verso il figlio e rivolgergli uno sguardo
eloquente.
“Così
presto?”
“Mamma, sono passati
quasi due anni.”
“Non mi sembra molto.
Hannu si alzò in piedi
di scatto, infilando con forza la
tazza vuota nell’acquaio e ribatté:
“Perché la odi così tanto?”
La donna lo osservò con
calma, appoggiando le mani sul tavolo:
un sospiro breve le uscì dalle labbra, mentre distoglieva lo
sguardo per
fissare nuovamente fuori, verso il panorama innevato.
“Non la odio, Hannu, lo
sai bene. So solo che sia tu sia
Riikka siete rimasti estremamente delusi dalla sua partenza e per
settimane non
avete voluto sentire nemmeno il suo nome. Mentre tu eri al lavoro,
è toccato a
me e a tuo padre consolare la bambina. Non la vedevo così
da… Beh, lo sai. È
stato molto difficile cercare di rassicurarla, è ancora
piccola. Tu forse sarai
riuscito più in fretta a dimenticare
cos’è successo, ma lei no.”
“Non ho dimenticato
niente, mamma. È ancora tutto qui
dentro,” rispose con astio Hannu, battendosi sul petto,
“è tutto qui,
indelebile. Non ho cercato di fare finta che non fosse successo nulla e
c’ero
anch’io quando Riikka piangeva. È vero, il lavoro
mi ha distolto dal pensare, e
forse ho esagerato non prendendo nemmeno una pausa per portare la
piccola dai
genitori di Päivi, ma non ho dimenticato. È stato
difficile per tutti, quasi
tanto difficile come la prima volta. Come quell’unica
volta.”
L’uomo si
passò le mani sul viso, cercando di scacciare
le immagini del passato; la madre si rese conto delle sue parole fin
troppo
severe e si avvicinò per accarezzargli la testa.
“Scusami, Hannu. Non
dovevo. Solo che averti visto
soffrire così, di nuovo… È stato un
duro colpo per me e tuo padre. La piccola
lo sa?”
Hannu scosse la testa, fissando il
pavimento. “No, non
gliel’ho ancora detto. Volevo farle una sorpresa, oggi
pomeriggio dopo il giro
al parco. Ho anch’io paura che rimanga scossa.”
La donna annuì,
cercando le parole giuste per non
infierire ancora: “No, è una bambina sveglia. Non
avrà dimenticato ma avrà
perdonato. Tu cerca di stare attento.”
“Lo
farò.”
Riikka trotterellò in
cucina coperta dal piumino verde e
dalla sciarpa gigante che le aveva creato la nonna, poi si
aggrappò alle
ginocchia del padre: “Andiamo?”
Hannu le sorrise e
annuì: “Fatti dare una carota dalla
nonna, io vado a mettermi il giubbotto.”
La tenda accostata lasciava
entrare una luce candida e
forte, che andò diretta ad adagiarsi sul viso di Aino,
svegliandola
d’improvviso. La donna si guardò intorno, non
riconoscendo subito il luogo in
cui si trovava, specialmente quel letto su cui era stesa, ancora
completamente
vestita. Allungò il braccio verso destra, com’era
solita fare, quasi a sentire
se ci fosse stato qualcuno lì con lei. C’era, poco
tempo fa.
Si alzò di
controvoglia, dirigendosi subito nel bagno,
sotto la doccia. Il getto d’acqua fredda contribuì
a svegliarla del tutto, ma
l’umore rimase quello di prima, se non peggiore.
Aino si ritrovò a
pensare alle frasi che avrebbe detto ad
Annika: non aveva idea di come presentarsi. Non era nemmeno certa di
avere il
coraggio di bussare alla sua porta, di mostrarsi lì, di
fronte a lei, dopo
tutto quel tempo.
Era partita senza nemmeno dirle
addio, lasciandole la
casa piena di lei, dei suoi oggetti, dei suoi problemi. Si pentiva ogni
giorno
di quel gesto ma da allora non era mai riuscita a contattarla. Annika
aveva
provato in tutti i modi, era persino andata a Stoccolma per
riprendersela, ma
non sapeva che Aino non era nemmeno lì. Da quel giorno non
ebbe più alcuna sua
notizia, non sapeva nemmeno se abitasse ancora dove vivevano prima,
insieme.
Un altro getto di acqua fredda la
fece sussultare,
convincendola a uscire dalla doccia e affrontare ciò che la
aspettava. Indossò
il maglione che le aveva regalato Annika, puntando almeno sulla sua
compassione. Si rifiutò di fare colazione, per non
rinunciare anche alle ultime
spinte della propria volontà, e uscì.
Il portinaio si sollevò
il cappello in segno di saluto,
ma Aino era troppo presa dai suoi pensieri per rispondere.
L’aria gelida della
città le sferzò il viso per tutto il tragitto
fino alla fermata del tram, che
l’accolse insieme a tante altre anime in corsa.
Lì, in piedi tra la gente,
rimuginò ancora sul discorso che avrebbe voluto fare, ma le
frasi
s’interrompevano da sole nella sua mente, inframmezzate da
immagini di quella sera.
Ricordava ogni singola parola,
ogni movimento, ogni
respiro. L’immagine indelebile del volto sconfitto e
sconvolto di Annika la
perseguitava ogni notte, costringendola a vagare per casa alla ricerca
del
sonno.
Una frase le marchiava a fuoco il
cuore, detta con astio
e rimprovero: “Vattene, allora. Io sono sempre inutile per
te.” Su quella frase
la porta della loro casa si era chiusa dietro di lei, che non riusciva
nemmeno
a versare una lacrima, a differenza dell’amica. Sarebbe stato
difficile
sistemare tutto.
Aino scese dal mezzo e
s’incamminò velocemente verso
quella casa in cui aveva lasciato tutto, anche un pezzo
d’anima. Il vialetto
era stato spalato e la luce del soggiorno era accesa: Annika era in
casa.
La donna sospirò,
passandosi una mano tra i capelli, poi
appoggiò la mano sul campanello e attese. Le visioni di
quella sera erano lì
con lei, sempre di fronte a quella porta, così vivide da
farle vacillare le
gambe.
Aino suonò e il mondo
le crollò addosso.
“Papà, lascia
che faccia io!”
Hannu si avvicinò al
padre, mentre Riikka si gettò sulla
neve per creare un cumulo sferico. Il vecchiò smise di
tagliare e guardò la
bimba, poi volse lo sguardo verso il figlio: “Non volevo
svegliarti.”
I due uomini si fissarono per un
momento, poi il più
giovane raccolse l’accetta dalle mani del padre e si mise di
fronte al ceppo;
l’anziano si accostò alla bimba e
l’aiutò a creare il suo pupazzo di neve.
Un’ora passò
nel silenzio, interrotta solamente dal
battere dell’accetta e dal cadere dei ciocchi sulla neve
fresca. Il vecchio era
rientrato in casa, mentre la bambina aveva iniziato a creare angeli sul
manto
bianco e a rincorrere il gatto della famiglia Lehtinen;
Hannu osservava la scena di tanto in tanto, concentrato sul
suo
lavoro.
In
realtà, il suo
pensiero correva continuamente ad Aino: credeva non sarebbe riuscita a
tornare.
Ripensò alla sera in cui era partita, al suo sguardo perso e
alla macchia di
vino sulla camicia candida, cercando di ricordare le sue parole. Era
troppo
confusa per parlare e l’unica frase compiuta che
riuscì a dire fu: “Tornerò. Lo
so. Non cercarmi.”
Il
resto degli
eventi era troppo confuso, i mesi a venire furono forse i
più duri della sua
vita, dopo Päivi. Riikka chiedeva ogni giorno di Aino, Annika
lo chiamava ogni
sera senza che nessuno dei due potesse trarne vantaggio, i suoi
genitori
cercavano di rincuorarlo con uno sguardo severo. Mantenne la promessa,
non la
cercò mai, ma ciò non gli impedì di
andare più a fondo nel ricostruire ciò che
era accaduto, sebbene fosse tutto inutile. Rinunciò a farsi
del male solo per
il bene della bambina, affondando ogni dispiacere nel lavoro e nelle
ore di
straordinario non retribuite per provare a non ricordare.
“Papà,
sei
triste?” Riikka lo guardava con gli stessi occhi della madre,
stringendogli le
ginocchia. Hannu si asciugò gli occhi velati con la manica e
sorrise alla
bimba: “No, tesoro, mi bruciano gli occhi per il candore
della neve. Hai finito
il pupazzo?”
Riikka
lo
trascinò vicino al cumulo di neve in cui era piantata una
carota con due pigne.
“È davvero bello, pulcino. Vuoi che facciamo
insieme un angelo della neve?”
La
bambina si
gettò a terra senza rispondere, così Hannu si
stese sulla neve fresca e chiuse
gli occhi, muovendo contemporaneamente le braccia e le gambe di fianco
alla
figlia. Quando ebbero finito, le strinse la manina e rimasero stesi
sulla neve
con gli occhi rivolti al cielo.
“Oggi
andremo a
pattinare?”
“Sì,
te l’ho promesso.”
“E
la
cioccolata?”
“Anche.
Ma solo
se riesci a non cadere sul ghiaccio.”
“Ma
non vale, non
sono capace.”
“Allora
vedremo
se ti comporterai bene.”
Restarono
ancora
lì, avvolti dal silenzio del bosco, mentre dalla casa si
sentivano le note del
pianoforte del padre di Hannu. L’uomo fissò la
porta d’ingresso, ricordando
un’estate di parecchi anni prima in cui Päivi sedeva
sulla panca con in braccio
un fagotto rosa.
Era
forse tutto
più facile allora? No, assolutamente. Era semplicemente
tutto diverso: più
calmo, più sereno, più felice. Prima
d’addormentarsi di fianco a Päivi si
chiedeva in che posizione l’avrebbe trovata accanto a lui.
Ora riusciva solo a
chiedersi se il mattino successivo sarebbe stato capace di sorridere.
Ripensò
alle
ultime parole che aveva detto ad Aino prima che se ne andasse:
“È solo un
brutto sogno.”
Non lo
era, era
più di un incubo, era una sorta di labirinto eterno senza
uscite, le cui pareti
si stringevano passo dopo passo, respiro dopo respiro. Hannu era
rimasto
intrappolato lì in mezzo, e nessuno sarebbe arrivato a
salvarlo. L’unica cosa
che poteva fare era gridare, ma era sempre stato un uomo silenzioso.
Niente
sembrava avere senso, tutto crollava attorno a lui, senza alcuna
soluzione.
L’unica piccola luce che spuntava dai meandri più
scuri di quel labirinto era
lei, quel batuffolo rosa, Riikka.
Si
voltò a
guardarla, conscio di essere riuscito davvero ad amare, almeno una
volta. Un
amore non distrutto, non respinto: lei era lì, che gli
stringeva le dita
debolmente, osservando il cielo.
“Ti
voglio bene,
Riikka.”
“Anche
io, papà.”
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Capitolo 3 *** 3. ***
Il
campanello
suonò. La pressione eccessiva del dito di Aino aveva
compiuto l’atto tanto
odiato, eppure tanto atteso. La donna tremò,
vibrò dal profondo, appoggiandosi
allo stipite con un improvviso mancamento. Non ce l’avrebbe
mai fatta. Dei
rumori dall’interno della casa confermarono la
verità e l’ultimo suonò che Aino
percepì fu la maniglia cigolante che si mosse
dall’alto verso il basso.
Annika
apparve di
fronte a lei, con un grembiule porpora immacolato e gli occhi felici.
Quegli
stessi occhi che l’avevano tanto odiata l’ultima
volta, gli stessi che, alla
vista di Aino, si sciolsero nel dolore e nella rabbia. Il silenzio era
denso
tra loro, quasi tangibile, ma nessuna delle due donne osava muoversi o
parlare.
Stettero
lì,
ferme, fissandosi come una bestia e la sua preda che si vedono per la
prima
volta e si studiano, prima di affrontarsi. E quella preda era proprio
Aino.
“Entra.”
Una
parola, una sentenza: Annika si fece da parte, lasciando che
l’animale entrasse
nel suo territorio. Aino oltrepassò la porta, colpita da un
nuovo tremito, e
rimase nuovamente immobile nell’ingresso, cercando di
coglierne i cambiamenti
senza muovere la testa.
Annika
si avviò
verso la cucina senza una parola, costringendola a seguirla. Il rumore
soffocato della radio rendeva l’atmosfera ancora
più vivida, nonostante la
coltre di cose non dette che separava le due donne. La prima si
avvicinò alla
radio, spegnendola bruscamente, mentre l’altra pizzicava
l’unico dettaglio che
era mutato in quel luogo una volta così ricco di risate e
segreti: una
fotografia incorniciata ritraente loro due con un’enorme
crostata davanti, un
sorriso condiviso e il sole alle spalle.
“Siediti.
Preparo
il thé.”
Un
progresso da
una a quattro parole, ma lo spesso strato di tensione di cui erano
cariche le
fece penetrare come rasoi nella schiena di Aino, che si
appoggiò quasi
dolorante alla sedia. Incrociò le dita di fronte a
sé, pregando che la forza di
parlare tornasse, ma invano. Si risolse a fissare le spalle di Annika e
il
piccolo fiocco purpureo sulla sua schiena, restando quasi ipnotizzata
da quel
suo oscillare calmo.
D’improvviso
se
la ritrovò di fronte, con due tazze colme in mano e uno
sguardo indecifrabile.
Sedette anche lei, allungandole la tazza sul tavolo, e la
fissò dritta negli
occhi.
“Perché
sei
tornata?”
Eccola.
Ecco
quella domanda tanto attesa, ecco quel senso di nausea che le prese il
fondo
della gola, ecco quella paura irrazionale che le attanagliò
le labbra. La
stessa maledetta domanda che le aveva posto Hannu, ma con lui, in
fondo, era
fin troppo facile parlare. Lui sapeva…
“Per
lavoro.” Un
respiro breve, una risposta debole. Annika guardò dentro la
sua tazza,
cercandovi qualcosa, forse della compassione.
“Perché
te ne sei
andata?” Forse era questa la domanda più temuta,
tanto che la mano di Aino
scosse con forza la tazza, facendo colare del liquido ambrato sul
tavolo.
“Scusa.”
Nessun
respiro,
questa volta, ma un attacco diretto: l’animale morse al collo
la preda.
“Cosa
vuoi che
m’importi del thé? No, sul serio, cosa vuoi che
m’interessi? Credi davvero che
il tuo ritorno abbia importanza? Credi davvero che io sia disposta ad
ascoltarti? Pensi che non mi sia posta tutte le domande senza avere
nemmeno uno
straccio di risposta da darmi? Non pensi forse, Aino, che mi sia
chiesta ogni
notte quale fosse quel maledetto motivo che ti ha fatta scappare di
corsa senza
avvertire nessuno? Te ne sei andata per due anni. Due anni, cazzo, te
ne rendi
conto? E ora torni qui, e magari pretendi pure che io mi dia una
calmata. Vado
dallo psicologo, sai? Vado da quello stronzo di psicologo da un anno e
mezzo,
due volte alla settimana, per farmi sentir dire ogni volta che non
è colpa mia,
che un motivo ci sarà stato. Qual è il tuo cazzo
di motivo? Ce l’hai una
motivazione valida, eh? Hai una spiegazione, due parole per dirmi
perché Hannu
sapeva tutto e io no? Oppure quattro parole per dirmi che anche Nuutti
Tuominen
sapeva ogni particolare e io, la stupida Annika che viveva insieme a te
in
questa casa non avesse la minima idea dei tuoi problemi? Cosa credi sia
successo in questi due anni, niente, vero? È rimasto tutto
uguale, gli
uccellini cantano e la neve cade, e io? Io Ho chiamato Hannu, la tua
editrice,
la tua segretaria, il signor Tuominen per tre settimane, ogni sera, per
avere
tue informazioni. Ti sono venuta a cercare a Stoccolma e invece? Ops,
non c’è,
non ha lasciato detto dove andava. Tanto, a chi vuoi che importi? Se
solo
riuscissi a…”
La
voce di Annika
tremò, strozzandosi, mentre grosse gocce gonfie scendevano
veloci sul suo viso
furente, mescolandosi all’infuso dorato. Aino rimase
immobile, ancora, capace
solo di fissare il viso della donna di fronte a lei senza proferire
verbo; il
nodo di nausea nella sua gola si appesantì a causa delle
parole non ancora
espresse.
“Perché
sei qui?”
Annika cercava di guardarla, asciugando le lacrime con la manica del
maglione,
“Perché non mi hai detto nulla?”.
“Perché
non ne
avevo il coraggio.” Aino si sentì quasi liberata
dopo quella risposta. In
fondo, non era così semplice dire la verità?
Perché l’aveva tenuta nascosta per
due anni?
“Non
sono
riuscita a dirti nulla, Annika. Niente, non una parola. Non
sapevo… No, sapevo
benissimo come dirtelo, ricordo ancora tutte le frasi che avrei voluto
pronunciare, ma ogni volta che ti guardavo, rinunciavo. Lo so, il
perché, so
perché non ti ho detto la verità:
perché tu mi avevi sempre detto come sarebbe
andata a finire. Tu lo sapevi. Eri tu la prima a dirmi di stare
attenta, eri tu
la prima a ripetere di non continuare, e invece io volevo dimostrarti
che non
avevo bisogno del tuo aiuto, che sapevo quello che stavo facendo, che
non
sarebbe successo nulla. E invece guardami, adesso sono qui, dopo due
anni, e
ancora non ho il coraggio di ammettere tutto fino in fondo. Ho
riflettuto
tanto, l’ho fatto anche prima di andarmene. Tu hai sempre
saputo tutto di me,
hai sempre saputo dare risposta alle domande che mi facevo. Sapevo
già in
partenza che avrei dovuto parlarne con te, forse solo con te, e invece
sono
riuscita a dirlo a chiunque. Non era per proteggerti, no, non era
nemmeno per
svalutarti. Era per lo stupido, semplice fatto che tu avresti saputo
benissimo
come agire, mentre io ho solo fatto tutto il contrario di
ciò che tu mi avresti
detto. Io non ti chiedo di perdonarmi, non voglio nulla da te, ho
già fatto
troppi disastri irreparabili e non ho la minima intenzione di
continuare.
Vedila pure come una richiesta egoistica, come ho sempre fatto. Sono
qui solo
per riprendermi tutto ciò che mi appartiene e sparire
definitivamente dalla tua
vita. Questa volta sul serio. Me ne vado e farò tutto il
possibile per non
farmi vedere mai più. Non è una promessa.
È una certezza.”
“Guarda
come sono
veloce, papà!”
Hannu
osservava
Riikka pattinare con agilità in mezzo agli altri bambini
sulla pista di
ghiaccio, mentre la bimba guardava sempre dritta davanti a
sé. In realtà l’uomo
stava riflettendo riguardo tutt’altra cosa: l’unica
domanda che gli rimbalzava
nella testa riguardava Aino. Sua figlia come avrebbe accolto il suo
ritorno?
Ricordava ancora il bagliore delle lacrime della bimba quando le disse
che lei
non sarebbe tornata per un po’, costringendolo a mentire su
dove fosse e
perché. Mentire a un bambino purtroppo era facile, ma
mentire a un adulto era
arduo, se non addirittura pericoloso.
L’espressione
di
quel giorno sul volto di Riikka era la stessa che assunse Annika quando
lui cercò
di spiegarle il motivo della partenza di Aino. Una maschera fragile che
cadde
con semplicità dopo le sue prime parole, mimiche che
alternavano rabbia e
tristezza al minimo battito di ciglia. Rimase sconvolto da quel dolore,
da come
le mani della donna strette l’una sull’altra
sembravano quasi soffocarsi, dalla
sua incapacità di capire.
Il
telefono vibrò
nella tasca della giacca, distogliendo Hannu da quel malinconico filo
di
pensieri, costringendolo a guardare Riikka sorridente e rispondere con
un
veloce “Pronto.”
“Hannu.”
Riconobbe
immediatamente quella voce roca: il signor Tuominen. Sapeva
già il motivo di
quella chiamata.
“Dottor
Tuominen,
mi dica.”
“Buon pomeriggio, Hannu. Mi dispiace
disturbarla, ma vorrei incontrarla il prima possibile. Aino
è tornata.”
“Lo
so, dottore,
l’ho incontrata all’aeroporto.” Hannu
lanciò una rapida occhiata a Riikka, che
piroettava tranquilla accanto al bordo della pista, poi
abbassò la voce:
“Dobbiamo fare qualcosa. Oggi credo la rivedrò,
sto aspettando che mi chiami.”
“Certo, l’ho cercata proprio
per questo
motivo. La prego, se non sono scortese, potrebbe tenermi informato sui
vostri
incontri e, per quanto può, sugli spostamenti di Aino?
Dobbiamo agire con
cautela.”
“Certo,
certo.
Ora dovrebbe essere da Annika, per tentare di… Beh, per
provare a parlarle.”
Un
breve silenzio
di assenso confermò le sue teorie mentali: il signor
Tuominen aveva già intuito
tutto.
“Lo immaginavo, anche se sono scettico
sul
risultato di questa sua azione. Vedremo. Posso ricontattarla questa
sera?”
“La
chiamerò io,
lo prometto.”
“Molto bene. La ringrazio, Hannu. E stia
attento.”
La
chiamata
terminò, così come il flusso di pensieri di
Hannu: tutto si era fermato sulle
ultime parole del signor Tuominen. Dovevano stare attenti, tutti. E lui
doveva farlo
per troppe persone, oltre a se stesso.
“Riikka!
Vieni,
andiamo!” L’ansia di lasciarla sola così
a lungo, seppur vicino, lo
attanagliava. La bimba lo guardò sorridente, scivolando
veloce al cancelletto
della pista per togliersi i pattini. Le manine rosse cercavano di
slacciare le
stringhe, ma Hannu intervenne con un sorriso: “Sei stata
bravissima! Ora ti
aiuto.”
Le
tolse entrambe
le calzature e l’aiutò a rimettersi gli
stivaletti, poi la prese in braccio,
per averla vicina.
“Ti
sei proprio
meritata una cioccolata, tesoro.”
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Capitolo 4 *** 4. ***
Aino
entrò nella
pasticceria sfregandosi gli occhi, per togliere ogni traccia delle
lacrime
versate appena fuori dalla soglia della casa di Annika. Ogni tentativo
era
stato inutile, le ore trascorse e le parole spese non erano riuscite a
valicare
il muro che l’amica aveva creato contro di lei, contro tutto
il dolore che lei
aveva provocato. Tra urla e pianti, Annika aveva sfogato tutto
ciò che aveva
provato non solo negli ultimi due anni, ma da quando tutto era
cominciato,
tutta quella frenesia che aveva colpito d’improvviso la vita
di Aino da cui lei
era stata esclusa, senza alcun motivo. Le ultime parole che le aveva
rivolto,
deboli benché cariche di rancore, risuonavano ancora nella
mente di Aino: “Dì pure
a Hannu di venire a prendere le tue
cose, visto che di lui ti fidi.”
La
donna cercò di
scansare i pensieri, allungando il collo per cercare quel viso
familiare tra i
vari tavolini pieni di coppie sorridenti e famiglie felici.
Un’immagine che contribuì
invece al ricomporsi del puzzle di memorie.
Una
risata acuta
e infantile colpì il suo orecchio, facendola voltare di
scatto: vide una
piccola testa ricoperta di capelli biondissimi e dietro di lei il viso
divertito
di Hannu. Lui la notò e sorrise, poi allungò una
mano verso la figlia e le
coprì gli occhi, ammonendola con delle parole che Aino non
udì. Hannu si alzò e
si avvicinò a lei, abbracciandola: il contatto inaspettato
fece irrigidire la
donna, mentre l’amico si ritrasse velocemente e le
bisbigliò imbarazzato:
“Dovevi chiamarmi.”
Lei lo
guardò
negli occhi, cercando di trovare delle parole di convenienza, ma stette
in
silenzio, limitandosi ad alzare le spalle. Si avvicinarono entrambi al
tavolo e
lì Hannu convinse la figlia a togliere le mani dagli occhi e
a scoprire la
sorpresa.
Gli
occhi della
bimba si rabbuiarono tempestosamente, tanto da far temere al padre una
crisi di
pianto, ma lei rimase ferma, le guance tirate e le labbra serrate
l’una
sull’altra.
“Riikka,
non vuoi
salutare Aino? È tornata.” Hannu
accarezzò la guancia della figlia, mentre
dentro di lui si faceva strada la consapevolezza che lei non aveva
dimenticato
e tantomeno perdonato. Riikka scosse la testa e fissò la
tazza di cioccolata,
mentre Aino, immobile, guardava l’amico con impotenza.
Hannu
continuò a
bisbigliare qualcosa all’orecchio della figlia, cercando di
convincerla almeno
a rispondere, con vani risultati. La donna si sedette di fronte a loro,
lo
sguardo nuovamente velato e la gola appesantita dal solito senso di
nausea che
aumentava di ora in ora.
Aveva
già perso
Annika, ora Riikka non osava nemmeno guardarla negli occhi.
Perché era tornata?
“Com’è
andata?”
chiese Hannu, con lo sguardo triste e un braccio attorno alle spalle
della
figlia.
“Come
diresti che
è andata? Non mi vuole più vedere e ne ha tutto
il diritto. Mi ha detto tante
di quelle cose che… Continuano a vorticarmi nella testa le
sue parole, le sue
accuse, il suo rancore. È un muro.”
“Vuoi
che le
parli io?”
“Non
credo
sarebbe utile. Mi odia talmente tanto da sentenziare che tu potrai
essere
l’unico a riprendere le mie cose. Io non potrò
più mettere piede lì dentro. Lì,
dove c’era la mia vita…”
Aino
abbassò lo
sguardo sulle dita intrecciate e tremanti. Inerme, come sempre, non
riusciva a
combattere contro le sue emozioni. Un’ultima grossa lacrima
scese lungo lo
zigomo, presto scacciata in maniera febbrile. La donna si
alzò di colpo, ormai
incapace di reggere un respiro in più.
“Ti
prego, Hannu,
scusami, ho bisogno di andare a casa. È troppo chiederti di
portarmi le mie
cose?”
Lui la
guardò dal
basso, mentre le mani della figlia gli stringevano il maglione. Aveva
troppe
donne da controllare.
“No,
non ti
preoccupare. Se riesci a sopravvivere per un giorno, domani mattina
andrò da
lei e poi passerò a portarti tutto. Riposati,
Aino.”
Aino
se ne andò e
Riikka alzò finalmente gli occhi verso al padre, esplodendo
in singulti di
pianto: “Io la odio! Io odio Aino!”. La reazione
tanto attesa non colpì Hannu,
già da tempo pronto alle conseguenze. Eppure non
riuscì a tenere il passo della
figlia, che cominciò a urlare e scalciare, lasciandolo
interdetto per un
attimo. La prese in braccio, mentre i piccoli stivali di gomma rossi
gli
martoriavano il fianco e uscì di corsa dalla pasticceria,
sotto una nuova nevicata.
Annika
raccolse
l’ultimo coccio dal pavimento per
poi
gettarlo nel cestino. Aveva rotto due piatti e versato tutte le lacrime
che le
erano rimaste finora, incapace di reagire, di nuovo. Chiuse a chiave la
porta e
si diresse nella sua stanza, sedendosi sul letto con il respiro
intervallato
dai singhiozzi.
Perché
era
tornata? Era riuscita a uscire da quella disperazione, aveva quasi
finito il
percorso di analisi e adesso? Provò la stessa sensazione che
avvertì quando
Aino scomparve: freddo.
Un
freddo
intenso, spaventoso, tanto da immobilizzarla sul letto e tagliarle il
fiato,
facendola tremare.
Tutti
i ricordi
di quel giorno la assalirono, costringendola a stringere gli occhi e
ansimare: l’auto
di Aino che sgommava davanti alla porta spalancata, il suo vestito
macchiato di
rosso scuro, gli occhi gonfi di pianto che presagivano un addio.
Annika
allungò la
mano sul comodino, ingoiando subito dopo l’ultima compressa
di antidepressivo.
Una droga, certo. L’unico modo per riuscire a continuare,
giorno dopo giorno,
cancellando il passato, bruciando ogni energia per il lavoro, tutto per
fare in
modo che la sua mente si riempisse di impegni che scacciassero ogni
immagine. Tuttavia,
tutto era così vivido, così reale, come se fosse
successo solo un’ora fa,
mentre i numeri sul calendario sostenevano il contrario.
Il
cellulare
squillò: Hannu.
“Annika. Sono Hannu.”
“Ciao.
Cosa
vuoi?”
“Posso passare a casa tua domattina?
Dovrei…”
“Sì,
portati via
quella roba, non ne posso più.”
“Vuoi parlarne?”
“Non
credi che ne
abbia già parlato abbastanza?”
“Annika, io…”
“Non
mi
interessa, Hannu. E non credo di essere l’unica, giusto? Cosa
ne pensa Riikka
di questo ritorno, eh? Avrà un sorriso a trentadue denti,
ovvio.” Annika
sorrise amaramente dietro allo schermo.
“Lo sai benissimo come l’ha
presa. Io capisco
il tuo punto di vista e vorrei ricordarti che in tutto questo tempo ci
sono
sempre stato per te, non ti ho mai lasciata da sola così
come ho continuato a
crescere Riikka. Credi che sia stato facile per me? Hai ragione,
sì, ne abbiamo
parlato abbastanza.”
Il
cellulare
rimase muto: Hannu aveva riattaccato. Annika si alzò, si
avvicinò alla finestra
e tirò le tende, poi urlò.
Gridò
con forza,
con rabbia, con odio. Sciolse tutte le parole e i pensieri in un unico
suono
straziante, costringendola a lasciarsi cadere sulle ginocchia.
Urlò fino a
quando l’aria smise di uscire, finché le orecchie
non fischiarono troppo forte.
La
donna si
zittì, raccolse le ginocchia e appoggiò la
schiena al muro, cercando di
regolare il respiro. Prese il cellulare da terra e digitò
quel numero ormai
impresso nella memoria: “Dottor Virtanen? Sono Annika Nurmi.
Credo di aver
avuto una ricaduta.”
Ventiquattro
ore.
Aino fissava la finestra dal bordo del cuscino umido. In sole
ventiquattro ore
aveva distrutto la vita di tre persone e doveva ancora affrontare tutte
le
altre. La neve aveva smesso di cadere, ma il freddo vento invernale
aveva
cominciato a creare mulinelli attorno ai bordi delle case, sullo sfondo
di un
cielo violaceo.
La sua
mente
tornò di nuovo a lui.
Non sapeva
nulla, non aveva la minima idea di cosa fosse successo dopo…
Dopo
quell’abominio. Percepì le sue dita tremare come
quella sera, colta da un senso
di impotenza. Un reflusso improvviso di dolore la costrinse ad alzarsi
e
correre, per gettarsi appena in tempo sul lavandino e liberarsi di
tutto, di
ogni parola non detta, di ogni segreto, di ogni schiaffo e ogni lama
nel cuore.
Si
accasciò per
terra, incapace di versare altre lacrime, immobile. Restò
così a lungo, sulle
piastrelle ghiacciate, invasa dalle immagini dell’altro lui, la vera causa di ogni rovina. Troppe
emozioni, troppi sforzi,
tanto freddo. E Aino svenne.
“Basta,
Riikka!
Basta!”
Hannu
aprì la
porta d’ingresso, lasciando che la bambina entrasse,
attirando subito
l’attenzione dei nonni, poi la chiuse con rabbia dietro di
sé e risalì in
macchina, pigiando con forza sul pedale e raggiungendo i cento
chilometri orari
in pochi secondi.
Sfrecciò
sullo
sterrato che conduceva alla casa dei genitori, per poi immettersi sulla
statale
e correre liberamente, lasciando che il paesaggio confluisse con la
velocità
dei suoi ricordi.
“Fanculo.”
Sorpassò irato un fuoristrada, schiacciando a fondo
l’acceleratore e alzando al
massimo il volume della radio, per coprire il rumore dei pensieri.
Un
altro
sorpasso, vari clacson, un auto che frenava di continuo di fronte a
sé.
Un’inchiodata improvvisa, la puzza di bruciato, lo sterzo
impazzito e tutto fu
come quella volta. Le auto dietro di lui ruggirono con violenza, mentre
si
lasciava scivolare sul sedile e accostava nella corsia
d’emergenza.
Appoggiò
la testa
al volante e pianse. Non l’aveva più fatto dal
giorno della morte di Päivi. Non
si addiceva a un uomo, un padre solo, un inutile autista di navette
aeroportuali. E invece eccolo lì, tre anni e ventuno giorni
dopo l’incidente, a
piangere di rabbia sul cruscotto della sua auto ferma nella statale.
Il
cellulare sul
sedile di fianco a lui iniziò a vibrare, visualizzando la
foto dei genitori. Lo
spense e lo gettò nel retro, accasciandosi di nuovo con le
braccia attorno alla
testa.
Voleva
sua
moglie. Voleva stringerla di nuovo tra le braccia, baciarle i polsi e
spogliarla lentamente, sotto la luce delle stelle nella notte di Vappu,
dopo la
sauna e il vino rosso. Voleva rimboccare le coperte della figlia ogni
notte, invece
di ricalcare il tragitto fino all’aeroporto di ora in ora,
lasciandola sola
anche durante gli incubi, costretta a calmarsi da sola succhiando
l’orecchio di
Mikko, il coniglio di pezza della madre. Voleva salvare Aino da quella
situazione, voleva essere tutto ciò di cui lei aveva
bisogno, forte e gentile
allo stesso tempo, capace di rincuorarla in ogni situazione.
Eppure,
l’unico
reale desiderio era quello di sfregiare il volto di Perttu, sferrargli
un pugno
sul fegato e vederlo rantolare a terra, prenderlo a calci
finché ogni singolo
dente non gli si fosse staccato e non avesse navigato nella sua bava di
sangue.
Dei
colpi sul
finestrino lo fecero sobbalzare: un poliziotto batteva le nocche per
attirare
la sua attenzione. Hannu abbassò il vetro e fissò
l’uomo negli occhi. “Signore,
si sente bene?”. Il poliziotto era giovane e infreddolito,
con uno sguardo
misto di compassione e preoccupazione.
“Certo,
perché
non dovrei?” Hannu cercò di sorridere, fallendo
miseramente l’impresa.
“Ha
gli occhi
gonfi. Vuole che la riaccompagni a casa?”
L’autista
si
passò le dita sulle palpebre, fingendo nuovamente.
“No, la ringrazio, avevo
solo bisogno di fermarmi un attimo. Posso andare ora?”
Il
poliziotto
annuì brevemente, sistemandosi il frontino del cappello.
“Stia attento e vada
piano. Torni subito a casa”.
Hannu
gli garantì
che l’avrebbe fatto, avviò il motore e
s’immise nuovamente nella statale,
stavolta rispettando i limiti. Non tornò a casa,
però. Doveva assolutamente
parlare con Tuominen.
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