Disclaimer: i
personaggi sono proprietà di Fujimaki Tadatoshi.
Note: per lo più note utili, senza
dilungarmi sui miei soliti sproloqui.
Non so quanti capitoli comporterà tutto ciò: la mia idea sarebbe di evitare di
farne millemila allungando una pappardella inutile,
ma l’argomento che vorrei trattare è a mio avviso delicato e complesso
abbastanza da non poter essere liquidato in due parole – e il mio rinomato
non-dono della sintesi fa il resto.
Il rating è indicativo: per quel che c’è nella mia testa, dovrebbe rimanere
arancione, ma non escludo un cambio in corso d’opera (più da arancione a
giallo, che non da arancione a rosso).
Infine, un ringraziamento speciale ad OhBirds: se leggete AoKise
da parte mia è perché mi ama abbastanza da minacciarmi con ogni mezzo di
comunicazione possibile (L)
La sua vita alle medie, prima di conoscere il basket,
era descrivibile con poche parole che rappresentavano né più né meno quel che,
dopotutto, era ciò che riempiva le sue giornate: compagne di classe attirate da
un nome visto in copertina e associato a quel modello in erba che era, compagni
invidiosi della facilità con cui riusciva nello sport qualunque esso fosse, e
la noia.
Una noia che lo consumava dentro senza trovare in lui alcuna resistenza;
l’aveva fatta, all’inizio, certo. Ma rendersi conto di come non potesse
combatterla con niente di quel che poteva essere a sua disposizione l’aveva
fatto desistere, alla fine.
Delusione. L’aveva provata capendo che sarebbe stata un circolo senza fine –
sport, successo, invidia, noia.
Poi c’era stato il basket, preso in considerazione soltanto per merito di un
compagno che non aveva forse nemmeno mai incrociato per i corridoi o che, se lo
aveva fatto, non doveva aver attirato particolarmente la sua attenzione. Aomine
che gli aveva mostrato con quanto entusiasmo si potesse seguire una disciplina
sportiva, che persino per lui – per Kise – potevano esistere dei limiti o degli
ostacoli tali da sembrare insormontabili. Quel coetaneo che riusciva a provare
tanti di quei sentimenti che immaginarseli nello stesso momento era quasi
impossibile, e tutti per la semplice soddisfazione di fare ciò che si ama.
Il basket e Aomine l’avevano salvato.
Ma c’era stato anche un tempo – e se ne vergognava terribilmente – in cui aveva
maledetto entrambi con tutte le sue forze.
«Eh?» rispose, sempre che la si potesse definire una risposta, lo sguardo sul
ragazzo più grande di fronte a lui, la sorpresa impossibile da mascherare.
«Eddai, hai sentito, Ryouta-kun.»
fece quello, un impaccio leggero nel tono, di quelli che nemmeno con tutti i
servizi fatti insieme gli aveva mai sentito nella voce: «Sto con un ragazzo.»
ripeté comunque, paziente.
Kise tacque. Non era, la sua, una reazione negativa alla notizia: l’ambiente
della moda – modelli, fotografi, stilisti e addetti al trucco – era abbastanza
vario e con personalità fra le più spiccate. Volente o nolente, come in tanti
altri ambiti lavorativi e non, se non eri di mente aperta lo diventavi stando
quotidianamente a contatto con le persone. Non era una questione di tolleranza
– non c’era proprio nulla da “tollerare”, a dirla tutta –, ma di vivere le
persone per quelle che erano ti insegnava a valutarle per quel che facevano e
per come si comportavano con te, più che per i loro gusti o modi di vivere il
privato.
Ciò che aveva sorpreso Ryouta, oltre che la naturalezza del più grande – non
avevano un rapporto così stretto da essere l’uno il confidente dell’altro – era
stato il fatto che avesse detto una cosa simile ad un collega.
Jun, diciannove anni e a sua volta modello, era un senpai sul lavoro con cui
aveva avuto modo di collaborare diverse volte; era simpatico, affabile, un
bravo ragazzo. Nel loro ambiente ci voleva un attimo a fare un passo falso, sebbene
per i modelli giovani fosse per certi versi più semplice. D’altra parte, però,
il pubblico dei modelli della loro età era prevalentemente composto da ragazze
adolescenti o poco più grandi; non ce n’era uno più volubile, anche senza il
bisogno che il loro sogno venisse infranto dalla scoperta che il loro idolo era
omosessuale.
Per questo non lo si andava a confidare al primo che passava.
Per questo lui, Ryouta, ne era rimasto così sorpreso e il suo silenzio sembrava
aver smorzato l’ottimismo dell’altro, a giudicare dal velo di preoccupazione
nel suo sguardo in quel momento.
«Scusami.» disse infatti «Non pensavo ti creasse problemi.»
«No, no, no senpai!» lo interruppe subito, agitandosi sulla sedia «Mi ha solo
sorpreso che fossi venuto a dirlo a me, perché non abbiamo mai parlato di cose
troppo private anche se abbiamo lavorato spesso insieme. Ma non mi crea nessun problema, insomma,
perché dovrebbe?» proseguì, un sorriso incoraggiante che gli si dipingeva sulle
labbra.
Dopotutto lo pensava davvero: Jun aveva sempre lavorato bene con lui, sempre
con umiltà e voglia di mantenere un clima tranquillo – e c’era chi invece la
metteva sempre sul competitivo – o era stato pronto ad un consiglio visto che
era nell’ambiente da qualche anno più di lui.
La reazione del più grande fu immediata e palese: aveva sospirato sollevato,
rilassandosi, e aveva sorriso di nuovo.
A riprova del fatto che non si stava sforzando, Ryouta si chinò appena verso di
lui, come a condividere un segreto: «State insieme da tanto? Lavora con te?»
domandò incuriosito, perché non riusciva proprio ad immaginarsi che tipo di
ragazzo potesse piacergli – forse, infantilmente e inconsciamente, se lo figurava
con qualità incredibili che potessero spiegare perché un maschio preferisse un
ragazzo ad una ragazza. Non era un pensiero che aveva formulato con cattiveria,
ma per istinto, un luogo comune che coinvolgeva anche i più aperti mentalmente
– ma era solo il primo impatto, in alcuni casi, per fortuna.
Jun sorrise, e di certo da fuori poteva sembrare uno dei tanti sorrisi che
dispensava spesso, con il carattere affabile che aveva; ma a Kise sembrò notare
lo sguardo addolcirsi, in un certo senso.
«Questo mese è un anno.» rivelò l’altro modello «Siamo negli stessi corsi
all’università.»
Kise non aveva fatto troppe domande, lasciandolo libero di raccontare quello
che più preferiva: Jun gli aveva accennato al fatto che lui e il suo ragazzo
erano stati anche in classe insieme alle superiori, ma tra loro non c’era stato
mai più di un rapporto superficiale che si ha fra compagni. Avevano parlato,
scambiato idee, ma non c’era mai stata una frequentazione fuori – Jun era
impegnato con il lavoro di modello già dal liceo e l’altro (Akira) era occupato
con le mansioni del Comitato Studentesco di cui faceva parte. Si erano salutati al diploma come tutti gli
altri.
Aveva scoperto la sua omosessualità in seconda media, gli disse. C’era un amico
di suo fratello maggiore che lo aiutava nello studio, e si era accorto di
guardarlo nello stesso modo in cui i suoi compagni guardavano le ragazze,
coetanee o più grandi che fossero. C’erano stati diversi segnali, dopo quella
che avrebbe potuto prendere per una cotta infantile o confusione
adolescenziale, come molti la chiamano o cercano di liquidarla. Cose che potevano
sembrare sciocche, ma che sommate tutte insieme gli avevano reso ovvio
l’orientamento sessuale; in prima liceo aveva avuto la prima relazione seria,
per così dire.
Inaspettatamente, gli aveva spiegato, all’università era sembrato naturale
parlare come se l’avessero sempre fatto; forse, aveva aggiunto Jun, era stato
perché erano in un ambiente nuovo, entrambi senza altre persone già viste o con
cui erano in confidenza, e si erano avvicinati naturalmente.
Stava per aggiungere altro, ma il suo manager era entrato in camerino per
chiamarlo, e l’altro aveva interrotto il racconto, scusandosi con un sorriso e
promettendo di parlargliene ancora se Kise avesse voluto o se fosse capitato a
breve di incontrarsi di nuovo.
Gli aveva fatto un cenno con la mano, ricambiando il sorriso.
Com’era prevedibile, Kise non aveva parlato a nessuno
della confidenza che l’altro modello gli aveva fatto; non solo perché non
sarebbe stato da lui – non erano amici di vecchia data, certo, ma per le
questioni serie Kise non era un chiacchierone, specialmente se erano affari
privati degli altri. Inoltre, se anche avesse voluto raccontarlo a qualcuno,
non vedeva davvero come alle sue conoscenze potesse interessare.
Al Kaijou non parlava di quel che riguardava il lavoro, se si voleva escludere
Moriyama-senpai che gli chiedeva di presentargli delle modelle, anche perché
Kasamatsu lo avrebbe preso a calci, letteralmente.
In ambito lavorativo, invece, non aveva rapporti così stretti. Se anche avesse
voluto dirlo a qualcuno, non sarebbe stato praticabile.
Per questo, quando a cena – e senza preavviso – sua madre pronunciò con
nonchalance un: «Ryouta, ma Jun-kun è gay?» rischiò
di mandare per traverso il boccone di riso che aveva appena portato alla bocca,
con il risultato di una reazione che non avrebbe potuto essere più ovvia di
così.
Sua madre era di mente abbastanza aperta sull’argomento, rispetto a molte
persone della sua età; ciò che lo stupiva era la perspicacia. La donna aveva
incontrato Jun una, forse due volte – non lo accompagnava più tanto spesso come
all’inizio, sul lavoro, da quando aveva Ritsuko-san come manager. Per lo più
doveva averlo visto sui servizi che avevano fatto insieme, visto che li
conservava tutti da qualche parte, ma non era una cosa che traspariva così
tanto, non lo aveva scritto in faccia, tant’era che lui era stato preso alla
sprovvista. E, a dirla tutta, non si reputava così lento da non cogliere
segnali ovvi… che l’altro, però, non aveva mai
lanciato.
«Tu come…?» borbottò confuso – gli sembrava
abbastanza inutile cercare di negare dopo la propria reazione –, lanciando un’occhiata
a suo padre.
Di lui non aveva mai ben capito la posizione sull’argomento; non era
esattamente ciò di cui parlavano un padre e un figlio, per quanto aperti
potessero essere l’uno con l’altro. Sapeva che non amava il classico “troppo
che storpia”, ma come concetto generico e applicabile a tutte le cose.
Lo vide voltarsi verso la moglie, l’espressione dubbiosa: «Jun qual è? Quello
con la famiglia che gestisce il tempio?»
«No, caro, quello è Yamashita-kun.»
Ryouta sorrise: suo padre sembrava fare più fatica a ricordare chi fosse il
collega di cui parlavano, piuttosto che ad accettarne l’orientamento sessuale.
«Ad ogni modo» riprese la donna, tornando con lo sguardo sul proprio figlio «ho
avuto quella sensazione. Chiamalo istinto femminile.» spiegò semplicemente.
Ryouta annuì, ma pensò che l’istinto delle donne – o di sua madre – era terrificante,
a volte.
Quando al vibrare del cellulare, portando lo sguardo
sullo schermo aveva visto che la chiamata in arrivo era da parte di Momoi, era
stato sia sorpreso che incuriosito: non capitava così spesso che lui e l’ex
manager si sentissero, da quando erano finite le medie.
«Momoicchi?!» aveva risposto allegro, davvero felice di sentirla.
«Ki-chan, sei al lavoro?» aveva chiesto scrupolosa, facendolo sorridere; era
sempre stata attenta a quel genere di cose. Aveva scosso la testa per riflesso,
anche se lei non poteva vederlo naturalmente.
«No, sono a casa, dimmi.»
Nei dieci minuti abbondanti in cui erano stati al telefono la ragazza gli aveva
spiegato nei dettagli il perché della chiamata; con la pausa estiva – testuali parole
– “Daichan si era fatto pigro in maniera imbarazzante”. Quando lei gli aveva
proposto un programma di allenamento per mantenere la forma fisica, si era
naturalmente rifiutato.
Immaginare il moro e i suoi rifiuti poco gentili verso la ragazza lo aveva fatto
ridacchiare, facendogli guadagnare un “Ki-chan!” indignato da parte dell’altra.
Gli aveva spiegato poi che aveva pensato di organizzare una partita, forse l’unica
cosa che potesse convincerlo a muoversi; a quel punto aveva preso in
considerazione chi chiamare: Sakurai, della squadra di Aomine, non era stato
difficile da convincere. Imayoshi era stato fuori discussione, perché avrebbe
approfittato della pausa per studiare essendo al suo ultimo anno. Wakamatsu
difficilmente avrebbe saltato di gioia per una giornata con Aomine anche quando
non era necessario – e così Kise era venuto a sapere di qualche retroscena
della Too.
«Così ho pensato che poteva essere carino sentire la vecchia squadra. Tu ci sei
Ki-chan?» aveva domandato. Era stato difficile immaginare che la vecchia
Generazione dei Miracoli potesse riunirsi per qualcosa del genere; era vero che
il basket li accomunava, ma era anche vero che non si erano esattamente
lasciati come una squadra felice. O come una squadra e basta.
Ma erano cambiati, si era detto, tutti loro. Quindi poteva non essere un’idea
malvagia.
«Contami, Momoicchi! Proverò a chiedere ai senpai, se serve. O siamo al
completo?» aveva domandato. Era abbastanza sicuro che, se l’ex manager li aveva
già chiamati, Kagami e Kuroko avessero dato la propria disponibilità.
«Tetsu-kun e Kagamin hanno già detto di sì!» aveva esclamato contenta, e non c’era
voluto molto al biondo per riconoscere nel tono di voce di lei la contentezza
per la possibilità di vedere l’ex sesto membro della Generazione dei Miracoli: «Ho
chiamato Midorin, ma non poteva. Non penso potrà nemmeno Akashi-kun.» aveva
aggiunto, e non c’era stato nemmeno bisogno di chiedere perché.
«A Mukkun però non ho ancora chiesto! E penso che Kagamin chiederà a qualche
senpai, o a Himuro-san.» aveva concluso – mentre Kise, con uno sforzo di
memoria, richiamava alla mente un viso che si potesse accostare al nome “Himuro”,
ricollegandolo al compagno di Murasakibara nella Yosen.
Si erano salutati con la promessa di aggiornarsi non appena lei avesse saputo
con precisione chi si sarebbe presentato.
Quando lui e Kasamatsu raggiunsero il campo a cui si
erano dati appuntamento – o meglio, dove Kise e Momoi si erano accordati per l’incontro
– fu chiaro, a giudicare dai presenti, che più che ad un allenamento quella
giornata sarebbe somigliata ad un tentativo di uccidersi a vicenda, legalizzato
dal “è solo una partita di basket”.
Non erano gli ultimi, ma i presenti bastavano già da soli a far venire il
legittimo dubbio di come sarebbero state formate le squadre: Sakurai ed Aomine,
tralasciando Momoi, erano gli unici due della Too. Escludendo lui e Kasamatsu,
il resto erano membri del Seirin: Kagami e Kuroko – com’era stato prevedibile e
confermato – il capitano Hyuuga, ed infine Kiyoshi Teppei.
«Momoicchi» chiamò la ragazza, avvicinandosi dopo un saluto generico: «non è un
po’…» lasciò cadere la domanda, perché lo sguardo verso il campo dove Kagami e
Aomine si stavano dicendo qualcosa di non meglio identificato (ma certamente
poco lusinghiero) parlava da sé.
Il fatto che fossero in numero pari, l’aveva per un attimo portato ad abbassare
la guardia; quando, perciò, Momoi si voltò in sua direzione – guardando però
oltre lo stesso Kise – esclamando con un sorriso: «Mukkun!» il biondo pensò che
Kagami e Aomine sarebbero anche potuti sopravvivere se messi in due differenti
squadre, ma con l’aggiunta di Murasakibara e considerando quanto poco amasse
Kiyoshi del Seirin, dubitava che avrebbero impiegato molto a trasformare quel
favore personale a Momoi in una rissa.
E non era facile immaginarsi a fermare l’ex centro della Teikou. Nemmeno in
gruppo.
«Himuro-san.» sentì aggiungere alla ragazza, e voltandosi riconobbe il moro che
camminava accanto a Murasakibara e che gli sorrise: «Scusami, Momoi-san. Sono
riuscito a portare Atsushi, ma non a convincerlo a giocare.» ammise, nel tono
una nota tra il divertito e le scuse vere e proprie.
Kise vide la ragazza avvicinarsi ai due, probabilmente indagando sul perché il
più alto non avesse intenzione di giocare, ma fu distratto dal richiamo di
Kasamatsu – «Kise, muoviti a prendere il fratino!»
A metà della partita, Kise aveva invidiato a Murasakibara
non tanto il suo stare ad un angolo del campo a trangugiare snack vari, quanto
la sua scelta di non partecipare; non aveva ben capito se fosse per pura
pigrizia o perché non poteva sopportare Kagami o Kiyoshi nella stessa squadra,
ma si era rivelata una scelta saggia.
Come il ritiro di Kuroko aveva testimoniato, nessuno di loro aveva fatto i
conti con il caldo soffocante. Se persone come Aomine e Kagami, troppo presi da
un pallone da basket ovunque fossero, sembravano non risentirne abbastanza da
volersi fermare, altrettanto non era stato per l’altra matricola del Seirin.
Ad un certo punto era sbiancato così tanto che la stessa Momoi prima e Hyuuga
poi – in squadra con Kuroko – gli avevano consigliato di fermarsi,
possibilmente riposando all’ombra, e di bere per reidratarsi.
Così le squadre, dapprima cinque contro quattro, si erano ritrovate con pari
numero di giocatori da ambo le parti: da un lato – da metà partita in poi senza
Kuroko, appunto – erano stati Hyuuga, Kagami, Kasamatsu e Himuro.
Quest’ultimo e l’ace del Seirin avevano dimostrato che, pur non giocando
insieme da tempo, questo non gli impediva di ritrovare in un attimo l’affiatamento
di una volta. Si conoscevano troppo bene e si erano allenati insieme troppe
volte e per anni, per avere davvero problemi; in più, come poi Kuroko gli aveva
detto mentre si cambiavano per tornarsene ognuno a casa propria, “Himuro-san ha un modo di giocare abbastanza
simile a Kagami-kun. È sorprendentemente facile prendere il tempo con lui”.
E, doveva ammetterlo, l’accoppiata Kasamatsu-Hyuuga
si era rivelata – forse per l’esperienza, forse perché entrambi capitani – più pericolosa
di quanto si potesse credere all’inizio.
Dall’altra parte lui, Sakurai, Kiyoshi e Aomine si erano ben difesi: Sakurai
non aveva avuto nulla di cui rimproverarsi, nei tiri da tre, rispetto a Hyuuga
e Kise aveva iniziato a capire perché il Seirin si sentisse tanto al sicuro con
Kiyoshi a dar man forte sotto canestro.
Eppure, nonostante il punteggio finale con davvero pochissimo di scarto,
nonostante la sensazione provata nel giocare con avversari comunque di
altissimo livello, nonostante il pensiero che lo aveva sfiorato per un attimo
di come sarebbe stata una squadra formata da tutti i validi elementi delle
varie squadre, era stata un’altra la cosa che l’aveva totalmente preso durante
il match.
Era stato strano, all’inizio: era vero che avevano giocato insieme, nella
stessa squadra e soprattutto quasi ogni giorno degli anni delle medie nell’uno
contro uno, ma Kise non si era davvero mai reso conto di quanto conoscesse i
movimenti di Aomine.
Forse perché quando aveva dovuto copiarli era stato principalmente nella
partita ufficiale contro la Too, e in una situazione in cui doveva usare tutto contro Aomine e non certo a favore.
Invece era stato strano ritrovarsi non a dovergli andare in contro ma seguirlo
di nuovo, cercarlo con lo sguardo non per una controffensiva ma per passargli
la palla, o essere pronto ad un suo passaggio; vederne i movimenti, anticiparli
e sapere già dove spostarsi non per rubargli palla, ma per essere di supporto o
approfittare di una sua buona posizione per il tiro.
Strano.
Ad un certo punto, quando dopo un passaggio Aomine era andato a segno con un
tiro di quelli che normalmente scoraggiavano i suoi avversari, una
consapevolezza l’aveva colto quasi all’improvviso: era quello, che Kuroko aveva
provato alle medie? Era così che si sentiva l’ombra di una luce forte come
quella di Aomine?
Quel pensiero era stato spazzato via proprio dall’ace della Too, che gli aveva
circondato amichevolmente le spalle con un braccio, con quel fare complice che
era stato la normalità un tempo, commentando il suo passaggio.
Dejà-vu.
Sorridendo, e tornando in difesa.
Dejà-vu.
«E a quel punto, Aominecchi è andato a segno di nuovo!
Praticamente lui e Kagamicchi hanno monopolizzato la prima metà della partita!»
commentò imbronciandosi: «Poi però Kurokocchi è uscito perché con quel caldo
non stava bene, e Kagamicchi ha rallentato un po’. Aominecchi invece sembra
instancabile, ma non lo sente il caldo?» riprese il resoconto della partita che
aveva occupato gran parte del suo pomeriggio.
Immerso nella vasca da bagno mentre sua madre si muoveva nell’antibagno,
recuperando i panni dalla lavatrice ormai spenta e ascoltando passivamente la
vena particolarmente logorroica del figlio.
«Santo cielo, Ryouta.» commentò con una risata sommessa e divertita, di quelle
che le mamme rivolgono spesso ai figli, specie se li conoscono come le loro
tasche «Alla tua età i tuoi discorsi dovrebbero essere monopolizzati dalle
ragazze, non dai compagni del basket.» fece notare, in un modo bonario per
prenderlo in giro.
«Ma mamma, dovresti vedere Aominecchi giocare! In confronto alle medie è
persino migliorato!» si lamentò il biondo, spruzzando un po’ d’acqua con un movimento
istintivo.
La sentì sospirare rassegnata, un accenno di risata ancora nella voce quando si
raccomandò di non restare troppo a mollo nell’acqua, uscendo con un: «Non sei
mai stato obiettivo, da che ricordo il tuo parlarmi di lui.»
Scosse la testa, inumidendo involontariamente i capelli alla base del collo,
sentendo la porta del bagno richiudersi; beh, magari non era proprio obiettivo
nel tessere le lodi dell’ex compagno di squadra, ma i complimenti erano
meritati! Era innegabile che Aomine fosse uno dei giocatori più forti per
quanto riguardava le squadre liceali.
«Non
è stato strano, no.»
Semmai, lui aveva “viziato” Aomine nel suo
atteggiamento, ai tempi delle medie, giustificando molte cose che – a conti
fatti e con il senno di poi – non avrebbe dovuto prendere alla leggera. Ma a
quei tempi non erano nemmeno una vera squadra, ed erano niente più che
ragazzini. Esattamente come ora, se non si considerava la differenza di un
concetto di “squadra” finalmente sulle spalle, come esperienza.
«Per
quanto a quell’età potevo capire che farmi piacere un ragazzo
significava provare per lui le pulsioni che dovresti provare per una ragazza.»
Ma al di là di quello, anche volendo non aveva potuto
fare più di tanto; Aomine per lui era sempre stato lo scoglio da superare, il
limite da raggiungere, l’idolo a cui guardare e sì, anche qualcuno che a modo
suo l’aveva salvato – dalla noia, dall’accontentarsi, dal rassegnarsi.
Ma lui, per Aomine, non era stato niente di tutto quello: forse solo uno
stimolo quando la stanchezza ti avrebbe obbligato a interrompere l’allenamento,
e lui invece aveva ancora l’energia di concedergli l’uno contro uno, giorno
dopo giorno.
Non bastava, non era bastato, però. Quindi, aveva pensato alla fine delle medie
quando la loro “squadra” si era sgretolata come niente, non era stato un legame
così forte, evidentemente.
Forse non era proprio mai stato un legame.
«Penso
che ci siamo capiti, su cosa intendo, giusto?»
Perché se lo fosse stato, non sapeva allora né adesso
che nome avrebbe mai potuto dargli.
Dopotutto come chiamavi l’ammirazione quasi cieca, che faceva male abbastanza
da averti limitato nel tuo potenziale pur di vederlo brillare sul campo com’era
stato in passato, che era stata assoluta tanto da mantenere da qualche parte
dentro di lui – anche dopo aver deciso di non ammirarlo più per poter fare un
passo in avanti – il desiderio di non vederlo cadere, fermarsi, perdere?
«Quando
parlo di ‘pulsioni’, dico.»
Sbatté un paio di volte le palpebre, gli occhi che
furono appena sgranati, lo sguardo fisso sulla mano.
Sotto l’acqua, vicino al bacino.
Troppo vicino.
Mossa inconsciamente, l’immagine dell’ex compagno di squadra nella mente, le
parole di Jun nelle orecchie.
Portò la mano libera a coprire le labbra, allontanando l’altra dal proprio
corpo.
…Non poteva essere, no.