Luci D'Autore e Sogni d'Amore

di ele_lele
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Maturità di Calibano ***
Capitolo 2: *** Il Senso mancante ***
Capitolo 3: *** Parole ***



Capitolo 1
*** La Maturità di Calibano ***


La Maturità di Calibano CORRETTO

Capitolo I

La Maturità di Calibano

 

 

Chi ti vuole bene conosce quattro cose di te:

 il dolore dietro al tuo sorriso, l’amore dietro alla tua rabbia,

 le ragioni del tuo silenzio… E dove soffri il solletico.

Penauts // Snoopy

 

 

 

 

 

 

Maturità.

C’era stato un tempo, non troppi anni addietro, in cui aveva attribuito alla parola maturità il significato di terrore,  abbinandola quasi meccanicamente alla parola “classica”. Quando poi, il fatidico quinto anno del liceo era passato senza intoppi se non un’eccezionale perdita di peso nella settimana degli esami, aveva sempre cercato di tirarla fuori in ogni discorso.

Lei, che aveva conseguito la maturità classica, era ormai una persona matura.

E, come tale, aveva condotto gli anni all’università, laureandosi nei tempi prestabiliti, cercando di dare sempre il massimo come ci si aspettava che una persona matura e adulta come lei facesse. E sempre da persona matura aveva accettato di buon grado di non poter avere il lavoro per cui aveva sfacchinato giorno e notte sui libri per anni a causa della crisi; aveva ringraziato di avere venticinque anni e un lavoro come traduttrice che le permetteva, alle soglie del suo compleanno, di poter vivere in un appartamento relativamente lontano dalla famiglia e ancor più relativamente in pace.

Per questo, quando si sentì rivolgere per l’ennesima volta quell’accusa, le venne naturale storcere il naso.

Sei immatura

Adorava il suo migliore amico, anche se  certe volte gli avrebbe volentieri tirato una scarpa in testa.

“E la cosa peggiore è che sai di essere immatura e non ti importa un cavolo”.

Una di quelle con tanto di tacchi spropositatamente alti e le borchie, giusto per essere chiari.

“Stai lì, a piangerti addosso come le ragazzine lagnose”.

Chissà se uccidere qualcuno con una scarpa era punibile dalla legge o sarebbe riuscita ad uscirne indenne mostrando le sue doti seduttive magari camminando sull’arma del delitto davanti alla giuria. Possibilmente senza cadere o rischiare di rompersi una caviglia…

“Lucy, Lucy, cosa devo fare con te? Ricordi il buon proposito di quest’anno? ‘Essere coraggiosa’ avevi detto. Invece ti stai comportando come una bambinetta che resta attaccata alle gonne della mamma per paura… di cosa?”

“Io non ho paura”.

Replicare al resto avrebbe significato ammettere che aveva dimenticato deliberatamente il suo buon proposito per quell’anno che ormai volgeva al termine e che effettivamente si stava comportando in modo sciocco e infantile. Avrebbe preferito amputarsi un braccio piuttosto che dargli ragione.

“Lucy” la chiamò gentilmente, sorridendole in modo rassicurante.

Si sarebbe gettata volentieri addosso al petto del ragazzo, scolpito dagli anni di pesi in palestra combinata a quelli di danza, ma si trattenne cercando di ricacciare indietro le lacrime che rischiavano di bagnarle le guance da un momento all’altro.

“Lollo, sto bene. È solo un momento, passerà.”

Passerà.

Se l’era ripetuto troppe volte anche se alla fine non era mai passato.

Lui se ne sarebbe andato e l’avrebbe lasciata a sprofondare nel suo più grande incubo: una vita da sola.

Una vita in cui lui sarebbe stato felice senza di lei, più sereno e spensierato e dove non avrebbe sofferto di emicranie per il suo continuo chiacchiericcio.

Lollo le credé o per lo meno finse di farlo, annuì e le sfiorò con le dita la spalla in una carezza rassicurante che le fece venir voglia di gettarsi al suo collo e di sfogare il pianto a stento trattenuto.

“Come vuoi tu. Io faccio un centrifugato di sedano, carote e pompelmo rosa. Ne vuoi un po’?”

“Preferisco morire di sete che bere un’altra volta una delle tue schifezze e stare poi male per giorni e giorni.”

“Esagerata. Solo perché quella volta non ho fatto caso ad un numeretto!” si giustificò roteando gli occhi al soffitto.

“La ricetta diceva tre gocce di tabasco. Tu ne hai messe trenta.”

“Capirai, quante storie per due gocce in più. Era un concentrato di cetriolo solo un po’ più saporito, senza contare che il piccante è un potente afrodisiaco.”

“Sì, quando non rischia di farti secco o di lasciarti con il sedere rosso come quello di un babbuino per una settimana…”

Ricordava la sgradevole sensazione di non riuscire più a mettersi seduta e le risate sguaiate di Lorenzo, abituato da sempre al piccante, che la guardava come se fosse veramente un animale da circo. Ci mancava solo che le tirasse le banane...

“Se ti consola, non camminavi in modo diverso rispetto a quando indossi un perizoma.”

Lo strillo indignato che fece probabilmente gli comunicò che no, la cosa non la consolava affatto. Anzi, ben lungi dal rassicurarla, le fece venire ulteriori paturnie.

“Pensi che anche gli altri si accorgano di quando ne indosso uno?”

“Se per altri intendi lui, no. È più cieco di una talpa quando si tratta di certe cose.”

“O quando si tratta di me…”

Capì di aver fatto centro quando lui non replicò nulla ma le diede le spalle per inserire i pezzetti di sedano nella centrifuga e ottenerne il succo.

Lorenzo era così: la persona migliore che conoscesse, però non sapeva dare brutte notizie. Si era laureato dopo di lei pur di non dover affrontare le bocciature agli esami, e quelli che aveva dato, nel corso della sua carriera universitaria, aveva finito a superarli quasi sempre per il rotto della cuffia. Tranne quello di linguistica italiana e pochi altri, quando lei gli aveva fatto una testa così che, per disperazione, doveva aver immagazzinato tutto fino a prendere un trenta, facendo rimanere tutti stupefatti.

“Bea?” la stava guardando con il bicchiere pieno di un liquido dalla dubbia commestibilità in mano. Doveva averla già chiamata e dal tono si disse che probabilmente l’aveva fatto più di una volta.

“Mi sono incantata un attimo. Che c’è?”

La risata che gli gorgogliò in gola era calda come le sue mani che le sere di tristezza l’abbracciavano accogliendola nel suo letto per non farle soffrire la solitudine del proprio.

“Se non ti ‘incantassi un attimo’ non saresti Beatrice, credimi, e se non ti irritassi e offendessi per ogni minima sciocchezza, proprio come stai facendo ora, non ti saresti guadagnata il soprannome di ‘Lucy’”.

“Sì, però il mio Schroeder non è innamorato del suo pianoforte, ma di una ragazza in carne ed ossa e con tanto di capelli rossi. E poi non capisco perché chiami me Lucy quando sei tu che dispensi consigli spesso non richiesti…”

“Non è ovvio? Perché tu sei bisbetica e antipatica proprio come Lucille van Pelt! E ora capisco la tua mania di voler accentuare i riflessi rossicci che hai ai capelli. Non è voglia di piacerti, ma voglia di vincere! Se le cose stanno così, approvo in pieno!”

Si sarebbe aspettata di tutto da Lorenzo, eccetto questo. Come amico avrebbe dovuto dirle che era una stupida perché tentava di rivaleggiare a causa di un ragazzo come le ochette del liceo che aveva sempre sbeffeggiato con crudeltà, ed era finita a comportarsi proprio come loro, se non peggio.

Come ragazzo avrebbe dovuto ammonirla su come si sarebbe resa ridicola ai suoi occhi, mettendosi in mostra cercando di combattere una battaglia in una guerra che era già persa in partenza.

Infine, come uomo, avrebbe dovuto metterla in guarda dall’idea che, sempre lui, si sarebbe fatto di lei vedendola giocare le sue carte in modo così disperato e affannoso.

Come disperati e affannosi erano stati i suoi respiri ogni volta che c’era lui nei paraggi, che le si avvicinava troppo stordendola con il profumo aromatico della sua pelle calda.

Invece, non le disse niente di tutto ciò. Scrollò le spalle, scosse il capo e mosse il braccio come a scacciare una mosca e il risultato che ne uscì fuori fu la parodia di uno strano tic.

“Io ovviamente sono Snoopy. Ha classe ed è più famoso di Linus, Lucy e compagnia bella. E poi, come lui, capisco al volo sempre tutto.”

Evidentemente doveva esserci un fondo di verità in tutto ciò, si disse Beatrice. Altrimenti non si sarebbe alzato dal divanetto per sparire in camera, evitando così di prendere in testa la famosa scarpa col tacco.

 

 

 

Avrebbero dovuto chiarirsi, pensò con amarezza, mentre infilava la chiave di casa nella serratura difettosa del vecchio portone d’ingresso del palazzo, in cui abitava da quasi quattro anni.

Il portachiavi a ciondolo dei Findus, quello con Carletto, tintinnò, facendolo sorridere. Glielo aveva regalato Beatrice dicendo che lui non poteva non portare con sé il suo omonimo, unendo in una botta sola, in una parodia di un matrimonio, due finti addormentati e due finti magri: lui e la famosa mascotte dei Sofficini. Lei, ovviamente, aveva fatto la parte del prete.

“Toh, chi si vede. È tornato il grande attore!” lo accolse con un tono ironico Lorenzo non appena varcò la porta di casa.

“Charlie! Sei a casa!”

Beatrice era seduta sul divano e lo guardava stupita, le gambe allungate sui cuscini e i piedi fasciati in ridicoli calzettoni a fiorellini rosa. Doveva sicuramente sentire freddo, con solo addosso una maglietta a mezze maniche e dei pantacollant; tuttavia se anche fosse così, sembrava indifferente o troppo presa dai suoi pensieri per accorgersi della temperatura. Non che questa fosse tanto bassa, ma per lei, abituata a stare con le felpe fino a primavera inoltrata e a girare per casa con addosso una coperta di pile, essere a ottobre così scoperta doveva significare sfidare il gelo Polare.

“Non senti freddo?” le chiese, ignorando la sua esclamazione sorpresa e vedendola rabbrividire alla sua domanda. Ora che lui le aveva fatto notare quanta pelle scoperta avesse, sarebbe congelata in meno di un minuto.

Si sfilò la felpa con un movimento deciso e, prima di rendersi conto delle proprie azioni, già gliela aveva poggiata sulle spalle.

“Grazie.”

Non lo guardava. Brutto segno.

“Vado a farmi una doccia, sono sfinito.”

Sarebbe stato da sciocchi continuare a farsi del male. Magari una doccia calda l’avrebbe aiutato a prendere di petto l’intera situazione e a comportarsi da uomo.

“Troppo stress tornare a casa o è una reazione al troppo sesso?”

“Lorenzo!” Strillò indignata Bea.

“Beatrice. Charlie.” Chinò la testa verso di lui in un inchino strafottente e derisorio. “Ora che ci siamo presentati è cambiato qualcosa? Tanto per sapere, non è che ci chiederai di stenderti il tappeto rosso ogni volta che torni, eh? E magari fingerai di non conoscerci, eh Charlie?” sibilò furioso Lorenzo uscendo di casa e sbattendosi dietro la porta.

Lui rimase immobile, a sentire l’eco dei passi attenuarsi man mano che l’amico scendeva i gradini, finché non risuonò il suono secco del portone d’ingresso che veniva chiuso con forza.

Beatrice lo stava fissando, la coda sfatta e gli occhi marroni spalancati.

“Direi che non ha preso molto bene il mio trasferimento” le mormorò Charlie e la vide annuire impercettibilmente, prima di voltarsi per andare finalmente a rilassarsi sotto la tanto agognata doccia bollente.

 

Aveva fatto domanda senza pensare che avrebbero davvero potuto accettarlo a quella tanto prestigiosa scuola di recitazione e aveva accolto la notizia della sua ammissione troppo incredulo per condividerla con qualcuno.

Era nato tutto così, dalla perplessità che fosse tutto vero e non solo un sogno. Poi per forza di cose l’aveva detto a Georgina, la sua fidanzata e lei, chissà come, se l’era fatto scappare con la cassiera del supermercato che, guarda caso, aveva spifferato tutto alla madre di Lorenzo o a Lorenzo stesso - ancora non aveva ben chiaro quel passaggio - che si era tenuto tutto per sé lasciando all’oscuro Beatrice con l’intento più che evidente di far fare tutto il lavoro sporco a lui. Charlie avrebbe voluto che lei, che l’aveva sempre supportato a fare domanda, fosse stata la prima a saperlo, avrebbe voluto vedere la gioia e l’orgoglio nei suoi occhi, invece da giorni ci leggeva delusione e tristezza.

Lui l’aveva delusa e vivere con quel peso sullo stomaco si stava rivelando davvero troppo pesante.

Alla fine, anche lei doveva essere venuta a sapere della novità da qualcuno; Lorenzo gli aveva assicurato di non averle né detto né lasciato intendere nulla, fatto sta che quando lui però le aveva scritto un sms, troppo codardo per comunicarle di persona la novità, lei si era mostrata contenta ed esuberante. Esageratamente, tanto che lui, conoscendola meglio delle proprie tasche, non aveva impiegato molto tempo a capire il perché.

Era delusa. Forse di non essere stata la prima a saperlo o forse di averlo saputo tramite un impersonale messaggio; in quella decina di giorni in cui la notizia si era diffusa a macchia d’olio l’aveva vista così diversa che era arrivato ad uscire ancor prima del solito la mattina e tornare il più tardi possibile a casa, sfruttando alcune notti l’appartamento di Giorgina, pur non dover affrontare i silenzi che fino a poco prima erano riempiti dal cicaleccio di Beatrice.

Uscì dal box pensando alle parole da dire e si ritrovò poco dopo vestito a fissarsi allo specchio, ancora in cerca dell’ispirazione. Era un pessimo oratore, non sarebbe mai stato il Marco Antonio della situazione. Era lei che, se si gettava anima e corpo in una causa, era la vera attrice, capace di risplendere anche in silenzio. Le bastava un palco e un ruolo e smetteva di essere la sua Bea: diventava una Lady Macbeth, una Medea, una Giulietta, persino un magnifico Shylock e un mirabolante Calibano, la parte che lui l’aveva vista provare più volte e quella che portava fuori una Beatrice diversa da tutte le altre. Era il personaggio per il quale era costretta a giocare col dolore, affrontandolo e accogliendolo in sé, in quella parte maledetta che le si era appiccicata addosso e alla quale, volente o nolente, si era ritrovata a dare voce sul palco del teatro, prima di mettere da parte i sogni per anteporre la vita vera fatta di bollette da pagare, di un lavoro precario e di un futuro da costruire.

Sicurezza, certezza, consapevolezza. Grazie a lei, lui era riuscito a dare un calcio a tutte quelle parole astratte e aveva deciso di inseguire il suo sogno prima che fosse troppo tardi. Prima di arrendersi anche lui al suo Calibano.

Il faretto sopra lo specchio evidenziava le occhiaie nere sotto gli occhi e il viso leggermente più scarno rispetto ai giorni precedenti.

Così non andava, si ripeté Charlie mentre apriva la porta ed usciva dal bagno.

Dovevano assolutamente chiarirsi.

 

 

 

Lollo aveva ragione, ammise tra sé e sé Beatrice. E quando aveva deciso di chiamarla Lucy probabilmente aveva avuto un’illuminazione, perché lei era davvero antipatica e scorbutica e si pentì subito per come doveva essere apparsa agli occhi infossati di Charlie, scavati dall’insonnia e dalle preoccupazioni: una ragazzina che decideva di voler giocare a fare l’adulta ma, nel momento di dimostrare la sua effettiva maturità, si era messa a fare i capricci perché non poteva avere quello che voleva.

Che poi, aveva nuovamente ragione Lollo: che cosa voleva?

Se l’avesse saputo, se avesse avuto un Godot da aspettare, un obiettivo da raggiungere, una meta per cui combattere, sarebbe stato tutto mille volte più facile.

Aveva studiato Lingue certa che sarebbe diventata una professoressa di Inglese tuttavia la crisi e il taglio ai fondi del sistema scolastico l’avevano obbligata a ripiegare come traduttrice per studenti americani e a fare, di tanto in tanto, da interprete a conferenze che trattavano i temi più disparati: dalla medicina al futuro dei giovani, dall’economia all’ecologia passando per la meccanica e la letteratura.

Aveva finito per smettere di fare teatro, un po’ a cause della pigrizia un po’ nel tentativo di risparmiare pur di non dover chiedere nulla ai genitori, e aveva rinunciato anche ai vari corsi di dizione e di movimento scenico che tanto aveva elogiato nel corso degli anni e che aveva frequentato fin dal primo anno di università.

Così si era spenta, rinunciando all’unica migliore amica femmina che aveva per non doversi più mordere la lingua di fronte ai maltrattamenti che il fidanzato - un pallone gonfiato che lei stessa aveva visto poche volte che tuttavia le erano bastate per inquadrarlo - le riservava, trattandola come una ruota di scorta e dandola ogni volta per scontata, e rompendo una relazione fatta di alti e bassi con Nick,un ragazzo americano conosciuto nei primi anni della triennale che aveva continuato a sentire, costruendo un rapporto altalenante che le aveva provocato un dannoso bisogno di essere rassicurata su tutto, tanto lui l’aveva annientata.

Perdere Charlie adesso le avrebbe dato la botta definitiva.

“Bea.”

Il suo nome, sussurrato, la fece sobbalzare e si accorse di avere davanti il suo amico, uscito dal bagno e con i capelli ancora umidi per la doccia, che la fissava con uno sguardo penetrante.

“Io… credo che dovremmo parlare”. Una supplica che suonò alle sue orecchie come una bestemmia.

Parlare di cosa? Del fatto che la stava abbandonando come aveva promesso, giurato e spergiurato che non avrebbe mai fatto?

“Parla. Ti sto ascoltando.”

“Bea… per favore. Non è facile. Parliamo.” Ripeté, passandosi una mano nei capelli e scompigliandoseli con un gesto esasperato.

“Parla tu. Io non ho niente da dirti.”

Si stava comportando come una vera stronza e se Lorenzo non fosse uscito glielo avrebbe sicuramente fatto notare.

“Bea. Sei la mia migliore amica, lo sai…”

“Davvero? E dovrei saperlo? Perché io invece non ne sono certa, Charlie. Con gli amici si condividono gioie e dolori, ai migliori amici solitamente non si nasconde nulla, figuriamoci se si arriva a non parlarsi per giorni interi!”

“Sei arrabbiata, lo capisco. Posso solo dirti che mi dispiace. Tanto.”

“Lo so.” Distaccata, doveva rimanere impassibile e pensare a cose particolarmente tristi per impedire al sorriso di nascerle sulle labbra.

Era una cosa spontanea: lui le faceva gli occhi da cucciolo bastonato e lei non riusciva a impedirsi di sorridergli.

“E mi dispiace di aver rovinato la nostra amicizia. Davvero.”

“Lo so.”

Non le avrebbero mai dato la parte principale in uno spettacolo, sarebbe sempre stata quella con una o due battutine e nessuno si sarebbe mai ricordato il suo nome.

Non avrebbe più baciato Nick, assaporato quelle labbra morbide e sentito la sua barba pizzicarle la pelle.

Non avrebbe mai insegnato, sarebbe stata una precaria a vita, sempre a preoccuparsi di bollette e a cercare coinquilini con cui dividere le spese.

Maledizione, non stava funzionando! Non serviva a niente pensare tutte quelle cose, non sarebbe servito a niente! Le sembrò di vedersi dall’esterno: i capelli spettinati, la felpa di Charlie sopra ai pantaloni grigi che usava quando stava in casa, gli occhi lucidi e gonfi dopo giorni e giorni di pianti, Charlie seduto accanto a lei sul divano e lei con le labbra che si stavano per stirare in un sorriso solo per lui.

Così arrivò IL pensiero. Quello che le fece morire il sorriso prima ancora che spuntasse e che illuminasse il viso stanco del suo amico.

Lui avrebbe baciato un’altra. Quella sera e tutti i giorni a venire.

 

 

 

 

 


 

NOTE: 

Questa storia avrà un aggiornamento circa ogni 20 giorni: non posso aggiornare di più perché per me questo è un periodo pieno e perché sto aggiornando anche l'altra originale, 'All Summer Long'

Grazie alla fantastica Alice che mantiene sempre le promesse; a Stefania che ha la pazienza di una santa e a Mimmi, che mi lascia blaterare per ore e si emoziona quando le dedico un capitolo.

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Capitolo 2
*** Il Senso mancante ***


2. Il senso Mancante CORRETTO

Capitolo II

IL SENSO MANCANTE

 

 

 

“Sai cosa mi sorprende Schroeder?

Mi sorprende che tu non ti sia innamorato di me la prima volta che mi hai vista...

la vita è piena di sorprese!”

(Lucy Van Pelt)

 

 

 

 

 

 

Se c’era una cosa che Beatrice adorava alla follia, era mangiare la pizza. Di gusto e con le mani, impiastricciandosi la bocca come i bambini piccoli e macchiandosi tutti gli abiti.

Lollo l’avrebbe definito ‘ingozzarsi’ ma lei, che era abituata ai modi raffinati dell’amico, preferiva ignorarlo e continuare a godersi i suoi cartoni di pizza d’asporto, rigorosamente margherita da smezzare con la diavola di Charlie.

Ora non avrebbe avuto più neanche questo. Chissà se avrebbe potuto corrompere il pizzaiolo del ristorante dove andavano sempre a preparargliene una appositamente metà e metà. Magari avrebbe potuto farsene fare due formato baby fingendo di avere prole affamata che l’aspettava impaziente a casa. Oppure avrebbe potuto raccontare di essere stata lasciata dal proprio migliore amico e muovere a compassione l’intero locale.

Beatrice se ne stava fuori dalla sua vecchia Lancia blu, appoggiata alla portiera a fissare l’insegna luminosa del locale con gli occhi lucidi e la mente in subbuglio: i pensieri rivolti alle serate passate con Charlie a chiacchierare sul divano e a mangiare con i cartoni delle pizze sulle ginocchia, giocando a fare i selvaggi e doppiare con la voce in farsetto i personaggi di tutti i telefilm che trovavano in televisione.

Approfittavano di ogni momento che Lollo trascorreva fuori, nella tanto amata e venerata palestra, per rilassarsi e godere della compagnia reciproca, senza formalità e senza regole. Solo loro, liberi dagli schemi e dalle etichette: niente piatti, niente sorrisi forzati, niente cortesie affettate. Niente di niente, eccetto lui e lei e la gioia di stare insieme.

Il vento iniziava a scompigliarle i capelli, si infilava sotto il giacchetto leggero di cotone e le intirizziva le ossa. Sentiva freddo fuori e freddo dentro.

Non riusciva a immaginarsi a trascorrere le serate a casa da sola, a guardare le repliche di How I met your mother  e a sbocconcellare svogliatamente cibo freddo. Magari però era lei che, come sempre, non trovava il lato positivo nelle cose: quella sarebbe potuta essere l’occasione giusta per rimettersi un po’ in riga e perdere i cuscinetti sui fianchi.

“La pizza non si compera da sola”. Sobbalzò, realizzando di conoscere quella voce carezzevole e quel tono gentile.

Charlie.

Era lì, appoggiato al cofano impolverato della sua vecchia macchina che la guardava divertito.

“Che ci fai qui?”

“È mercoledì, no? Lollo va in palestra e noi ci mangiamo la nostra pizza. Una settimana quiche al prosciutto e una settimana pizza, funziona così da quando viviamo insieme mi sembra…”

Le venne da piangere. Che sciocca, ovvio che si ricordasse come funzionavano le cose. Nei primi tempi di convivenza aveva sopportato le sue lamentele sul cibo sano promosso da Lollo finché una sera, con i nervi a pezzi e un mal di testa in arrivo, l’aveva caricata in macchina e portata al ristorante, obbligandola a scegliere una pizza. Come sempre, lei era stata indecisa tra una classica margherita e la tentazione del salamino piccante finché lui non l’aveva tolta dall’impasse proponendo di prenderle entrambe e smezzarsele.

“Uhm”

Sapeva di avere lo sguardo annebbiato e la gola le raspava fastidiosamente: parlare era fuori discussione, ne sarebbe uscita una vocina gracchiante come quando d’inverno andava in giro senza sciarpa, per pavoneggiarsi del suo collo dalle linee eleganti, beccandosi immancabilmente un mal di gola epico.

Perché doveva fare così male? Perché doveva essere così sbagliato? Volerlo e non volerlo, cercare i suoi occhi tra la folla e le sue mani di notte, respirare l’odore della sua pelle e lasciarsi cullare dalla sua voce per ore e ore quando la sera, prima di cenare, le raccontava la propria giornata nei minimi dettagli, con la testa appoggiata mollemente sulla sua spalla.

Era più del coltello che recide la carne, più del dito che riapre la piaga, più del sale che corrode la ferita. Era amicizia pura. Quel legame incondizionato che Beatrice credeva non avrebbe provato mai: quello che ti tiene sveglio notti intere a parlare di niente senza che prevalga il sonno, quello che ti fa guidare per ore e ore in autostrada solo per raggiungere l’altro per mezza giornata in vacanza e non ti fa sentire la stanchezza, quello che ti fa fidare ciecamente dell’altro fino a offrirgli i tuoi pensieri, le tue paure, le tue ferite, le tue speranze.

“Pensi che possiamo mettere le radici dentro il ristorante invece che in strada? Inizia a fare freddino” e si strofinò le mani per riscaldarsele. “E poi tu hai quel giacchettino ridicolo che è buono solo per l’estate, non per le giornate autunnali come questa.”

Sei il sale gettato sulle mie ferite aperte.

Beatrice annuì e abbassò lo sguardo, osservandolo gesticolare animatamente. Dio, aveva una fissazione per le mani, in particolare le dita.

Sarebbe andata all’inferno per i pensieri che aveva; almeno lì non avrebbe sofferto il freddo, constatò con una punta di amarezza.

Non si rese conto che lui le aveva tenuto aperta la porta per farla entrare per prima nel locale né che aveva ordinato e pagato per entrambi, presa com’era a cercare di fissare nella memoria ogni suo più piccolo particolare, finché poteva.

Così come non realizzò che era ora di tornare a casa fino a quando Charlie non si fermò di fronte alla sua macchina, che più che blu era bianca dalla polvere, e la guardò con indulgenza, come si fa con i bambini piccoli.

“Beh, è un bene che le pizze le stia tenendo io, altrimenti potremmo dire che ti saresti fatta pipì addosso”.

Una ruga le si disegnò in fronte. Pipì addosso? Non aveva un’ottima memoria ma, se questa non l’ingannava, era un po’ che non portava i pannolini…

“Bea, fa freddo e il cartone della pizza è caldo. Quella reazione per cui se metti qualcosa di caldo in mano quando sei rilassato te la fai addosso…”

Niente, non capiva.

L’avrebbe presa per stupida molto a breve, pensò Beatrice accigliandosi.

“Lascia stare. Dai, dammi le chiavi della macchina che guido io che sono venuto a piedi”.

A piedi, da casa loro. Era un pazzo. “E poi, hai un’aria così stanca che non mi fido a lasciarti guidare quando ci sono qui io. Su, reggi le pizze e chiudi gli occhi.” Fece un sospiro grande quanto una casa mentre si allacciava la cintura di sicurezza al posto di guida e le passava la cena. “In men che non si dica saremo arrivati, vedrai”.

Non aveva bisogno di altro.

Una serata come le altre, a fingere che andasse tutto bene e che il suo più caro amico non l’avrebbe lasciata dimenticandosi di lei. Una serata a parlare e ridere e ammazzare il tempo come avevano fatto in quegli anni di convivenza.

La macchina le aveva sempre fatto quell’effetto soporifero? E lui aveva sempre avuto quel profumo o l’aveva cambiato di recente? Perché sotto la nota muschiata del dopobarba ce n’era una fruttata e calda che, se non avesse avuto la mente intorpidita dalla stanchezza e le membra così rilassate, era certa avrebbe riconosciuto.

Il cartone che teneva sulle ginocchia era diventato freddo e la luce del sole era stata sostituita da quella fioca e abbacinante del crepuscolo.

Aveva il collo leggermente intorpidito e mosse con cautela la testa da una parte all’altra, gli occhi strizzati per cercare di vedere meglio.

“Charlie?”

Perché era ancora in macchina e non a casa? L’orologio sul cruscotto segnava le 20.10, lampeggiando e illuminando a tratti l’interno del veicolo con un’irreale luce verdina.

“Ciao. Ti sei svegliata perché ti è venuta fame?”

“Ho dormito?”

“Più di un’ora, Bea”

Oh. Erano ancora in macchina e lui non l’aveva chiamata. Perché non l’aveva fatto? Con la voce ancora impastata dal sonno glielo domandò.

“Non mi andava di svegliarti, sembravi rilassata. E poi si vedeva che avevi bisogno di recuperare un po’ di sonno”.

“Già. Beh, non è la prima volta che…” tu mi fai quest’effetto “…la macchina mi fa quest’effetto. Mi rilassa”.

“Lo so. Di solito quando sono io che guido ti addormenti quasi sempre. O vai in catalessi, il che  a essere sinceri non è molto differente dal tuo stato solito”.

Gli fece una linguaccia e stiracchiò le gambe.

“Allora, pizza?” domandò Charlie, mentre il suo stomaco protestava a gran voce per la fame.

“E pizza sia. Faccio una corsa e la metto nel microonde mentre tu chiudi la macchina, ok?”

Non aspettò una risposta, sgusciò fuori dell’abitacolo e per poco non inciampò sul gradino del portone, tutto ciò per la foga di precipitarsi in casa e non vedere il suo migliore amico armeggiare con la sua macchina sotto casa loro, ovvero compiere con naturalezza un gesto che di lì a poco avrebbe dovuto fare solamente lei.

 

 

 

La pizza era buona.

Lo sapeva perché i primi tempi avevano provato tutti i ristoranti della zona ma nessuno era riuscito ad eguagliare quella che avevano preso la prima volta, e alla fine quella era diventata la loro pizzeria ufficiale.

Persino il pizzaiolo, nonostante fosse un locale piuttosto rinomato tra i giovani perché non troppo esoso e di ottima qualità, ormai riconosceva i loro volti tra i tanti e li salutava amichevolmente pur non conoscendo nulla di loro, neppure i loro nomi.

Anche il cassiere, quello alto, dinoccolato, sempre arrabbiato e con quella specie di cespuglio in testa al posto dei capelli aveva preso a fargli un sorriso, tanto da scioccarli e dare loro un argomento su cui sparlare giorni e giorni.

Per questo, quando mandò giù il primo morso della sua margherita, seppe con certezza che il problema era lei e non il cibo.

Perché la pizza era veramente ottima, eppure lei sentiva il sapore amaro della cenere.

Girò leggermente la fetta e non si sorprese di trovarla bianca e non grigia: ovvio che la cenere fosse nella sua testa e non davvero nella sua bocca. Ciò che sentiva altro non era che l’amaro per l’imminente trasloco di Charlie.

“Bea?”

“È buona!” si affrettò a dire, trangugiando il suo pezzo.

“Mi fa piacere, però ti ho chiesto se ti ricordi dove ho messo il mio cellulare”.

Scosse la testa con la bocca talmente piena da avere le guance gonfie, mentre cercava un modo per inghiottire evitando di strozzarsi e parlare senza disgustarlo ulteriormente.

“No ho ea”. Pessimo risultato. Chissà se anche nella mente di lui lei era una specie di Fiona di Shrek in versione umana e non orchesca.

“Non ne hai idea, capito. Ti scoccia se prendo il tuo e mi faccio uno squillo? Avevo promesso a Georgina di chiamarla prima di cena ma mi è passato di mente…”

Beatrice scosse nuovamente il capo, mentre nella sua mente si faceva largo l’immagine elegante di una Ariel drappeggiata di abitini di seta e taffettà, che guardava con sdegno la rozza orchessa.

Per precauzione, tenne la bocca ben chiusa.

Lo vide frugare nella sua borsa senza problemi: le aveva chiesto il permesso e d’altro canto condividevano tutto da anni, sarebbe stato sciocco prendersela; tuttavia vederlo prendere possesso delle sue cose con tanta spontaneità le fece venire un groppo alla gola.

Guardò le sue mani digitare i numeri sulla tastiera del proprio cellulare e sentì la suoneria del telefono scomparso provenire da sotto i cuscini del divano.

Fissò le sue dita comporre il numero della fidanzata e il suo viso addolcirsi non appena rispose.

Lei, realizzò, non avrebbe avuto tutto quello.

In un moto di stizza, Beatrice si alzò e si diresse in camera sotto lo sguardo perplesso di Charlie.

Il suo, di cellulare, era rimasto in salotto, poggiato vicino alle gambe dell’amico e fu grata della cosa, altrimenti avrebbe chiamato Lollo facendolo preoccupare inutilmente.

Non è nulla, ora passa. Non è nulla, ora passa. Non è nulla, ora passa. Magari se se lo fosse ripetuta all’infinito avrebbe finito per crederci anche lei.

Non aspettò che Charlie la raggiungesse e le chiedesse cosa le fosse preso. Non tornò in salotto, dove lui probabilmente l’aspettava, per scusarsi dei suoi repentini cambi d’umore e non spense la luce. Si limitò a infilarsi nel letto, ancora con i vestiti addosso, e a soffocare le lacrime contro il cuscino nella speranza di rimandarle indietro o, almeno, di capire perché stesse piangendo.

 

 

 

Era la seconda volta, nel giro di poche ore, che si addormentava senza rendersene conto.

La prima era stata in macchina con Charlie alla guida, quella invece era dovuta alla stanchezza di versare lacrime contro il guanciale senza saperne la ragione.

“Hai intenzione di fare la ragazzina ancora per molto?”

Lollo era tornato a casa dalla palestra e si era infilato nel suo letto. Sentiva l’odore del bagnoschiuma arrivare fino alla sua mente ancora addormentata, mischiato a quello alla menta del dentifricio, oltre all’odore del suo corpo.

“Forse”.

Una risposta sincera che esprimeva tutto il suo dolore nelle note tremanti che le avevano dato vita, vibrando per un attimo e morendo nel silenzio della stanza.

“Perché non vuoi ammetterlo, Lucy?”

“Ne abbiamo già parlato e ti ho già detto piuttosto chiaramente che non sono d’accordo con le tue teorie”.

“Non fare l’acida anche quando sei ancora mezza addormentata, altrimenti te lo scordi un principe che venga a svegliarti dal tuo sonno eterno! È solo che non capisco che senso ha stare male in questo modo”.

“E ammetterlo a cosa mi porterebbe?” domandò disperata, muovendosi appena nella trappola dei muscoli del suo amico che la stringevano senza darle la possibilità di liberarsi dal suo abbraccio.

“Almeno lo sapresti.”

“Sì, d’accordo. E poi?”

“ E poi lotti per quello che vuoi. Bea, in questo modo ti fai davvero solo del male. O decidi di prendere una strada o ne prendi un’altra, ma stando ferma a un bivio, aspettando che il sole illumini il tuo cammino e che un Segno Divino si palesi, perdi tempo e ti torturi inutilmente. Mi dispiace vederti così.”

“Lo so” ammise. E lo sapeva davvero.

“Ti voglio bene”.

Si rese conto che sapeva anche questo.

“Anche io” rispose con le lacrime che le premevano per uscire.

Stette in silenzio, stretta tra le sue braccia, sentendosi piccola e fragile tra quell’ammasso di muscoli e tendini che la teneva al sicuro, muovendo ritmicamente una mano su e giù sul suo braccio per calmarla.

“Lollo?”

“Mmm?”

“E se lo ammettessi e decidessi di lottare?”

“Qual è la vera domanda?”

“E se lo ammetto, decido di lottare e perdo?”

“Ci avrai provato.”

“Sì, ma se so già che lui è pazzo di lei che senso ha lottare e rischiare di rovinare tutto?”

“E invece avrebbe senso tenersi tutto dentro? Arrivare fino al limite e scoppiare e rinfacciarsi colpe che non appartengono né all’uno né all’atro?”

“Parli di…”

“ Tu e Nick, di come siete scoppiati perché non parlavate. E perché lui fondamentalmente era uno stronzo, ma va beh.”

“Lollo, io e Nick eravamo una coppia. Invece…”

“Invece voi due no. Tu sei il terzo incomodo e in un’eventuale uscita a tre reggeresti il moccolo. Sì, lo so, non sono sciocco. Quello che mi chiedo è perché, se sei questo terz’incomodo come ti piace tanto dire, lui passi più tempo con il reggi-moccolo che con la sua fidanzata”

“Perché è il mio migliore amico!”

Lo sentì muoversi e tirarsi su talmente di scatto che le tolse mezze coperte di dosso lasciandola rabbrividire.

“Ebbene, la stronzata delle 2.13 del mattino è stata detta. Potete tornare ai vostri posti e dormire sonni tranquilli.”

“Aspetta, mi hai quasi fatto congelare per questo?” chiese Beatrice indignata, agguantando il piumone e tirandoselo fin sotto al naso.

“Beh, sì. Mi sembrava un momento epico alla Sheldon.”

“Hai sbagliato telefilm. Io guardo quello con Barney e si chiama How I met your mother” replicò incolore tentando di trattenere le risa.

“Hai capito ugualmente a chi mi riferivo” soffiò offeso Lorenzo.

“Lollo…? Non te ne andare anche tu.”

“Non vado da nessuna parte. Sei la mia Lucy e te lo ripeto, non vado da nessuna parte senza di te”.

Appoggiata al suo torace, nella morsa delle sue braccia, Beatrice chiuse gli occhi, sincronizzando il proprio respiro con quello del ragazzo che la teneva stretta a sé.

 

 

 

 

 

 

Respirava a intervalli regolari e, nonostante dormisse profondamente, continuava a tenere una mano appoggiata sul suo braccio per sentire se mai lui fosse scappato di notte dal suo letto, lasciandola sola.

Lorenzo, senza rendersene neppure conto, sorrise.

Beatrice era così: irascibile, scorbutica, pessimista e possessiva, ma nascondeva solo un’enorme paura di essere abbandonata da tutti.

Si mosse, scalciando le scarpe e mettendosi più comodo sul letto, attento a non svegliarla e appoggiando le labbra ai suoi capelli. Inspirando realizzò che gli era familiare quell’odore leggermente amaro di mandorle che emanava la sua pelle. E riconosceva il sottofondo dello shampoo al latte che usava da sempre.

Trovarsela tra le braccia era tornare a casa.

Era la pioggia che cadeva forte sulla pelle al primo acquazzone estivo, era il profumo di cannella dei biscotti che mangiava d’inverno e l’odore dei libri nuovi, era il rumore del caffè quand’era pronto e la morbidezza del bucato appena fatto. Era il primo raggio di sole dopo il temporale e il primo fiocco di neve in un cielo bianco.

Sfiorando appena il contorno del suo viso, le fissò intensamente le labbra, interrogandosi distrattamente quale sapore avrebbero avuto i suoi baci.

 

 

 

 

 

 

NOTE

So che avevo detto che avrei aggiornato la storia all’incirca ogni venti giorni ma è stato davvero un periodo un po’ pieno e non mi è stato possibile fare più in fretta di così.

Un enorme grazie a chi ha aspettato pazientemente e leggerà questo capitolo.

 

Ele_lele        

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Capitolo 3
*** Parole ***


capitolo 3 parole

III

PAROLE

 

 

 

Lucy: ”Come mai non chiudono le scuole per l’anniversario di Beethoven? Se era così grande come mai non chiudono le banche,gli uffici postali e le biblioteche?Come mai?”
Schroeder: ”Io conosco qualcosa che non chiude veramente ma!”
Lucy: ”Che cos’è?”
Schroeder: ”La tua bocca!”

 

 

 

 

Il telefono, impostato in modalità ‘silenzioso’, vibrava senza sosta nella tasca destra dei suoi jeans, provocandole un senso di fastidio che non sapeva affatto spiegarsi.

Sentiva la propria voce tradurre in tono piatto quello che, altrettanto noiosamente, diceva in italiano un rinomato professore di fronte a una classe di annoiati ragazzi americani. Essere una traduttrice di testi e interprete per ragazzi che venivano in Europa con il principale pensiero di bere alcol pur non avendo ventuno anni, era quanto di più frustrante potessi esserci al mondo.

Non appena il professore si fermò per consultare la scaletta dove aveva appuntato gli argomenti della lezione, colse la palla al balzo ed annunciò una breve pausa di dieci minuti, sorridendo innocentemente al docente che la guardava in attesa di una traduzione, non parlando una parola d’inglese e non capendo perché i suoi studenti si stessero alzando come una mandria di bufali, scalpitando per uscire all’aria aperta e staccare per qualche minuto da quella lezione che sembrava non dovesse finire più.

Quando il telefono riprese a vibrare, voltò le spalle all’uomo e seguì gli studenti americani nel cortile dell’università, sfilando l’apparecchio dalla tasca e rispondendo senza neppure controllare chi la stava chiamando.

“Che diavolo c’è?” ringhiò all’altoparlante del cellulare.

“Un fiore, non c’è che dire. L’inventore dei Peanuts piangerebbe di gioia nel poter constatare che sei l’incarnazione vivente di Lucy.”

“Per prima cosa Schulz è bello che defunto e poi sei tu che mi rompi a quest’ora quando sai che sto lavorando...”

“Che c’entrano le scarpe? Io sto parlando di Snoopy, non delle scarpe che si trovano nelle sanitarie”.

“Quello è Scholl. Ma perché perdo tempo a discutere con te? Che vuoi, Lollo?”

I minuti passavano in fretta e lei non poteva permettersi che il docente per il quale faceva l’interprete andasse a lamentarsi perché stava troppo tempo al telefono durante l’orario di lavoro. Non che fosse successo molte altre volte, però ultimamente, con la storia del trasferimento di Charlie, Beatrice aveva finito per essere più insofferente del solito anche al lavoro e si era ritrovata più d’una volta ad attendere con impazienza la pausa caffè della lezione per potersi distrarre un po’.

“Sentire la mia Lucy, cos’è, non posso? O hai da ridire perché non sono Charlie?”

Recentemente, ogni parola che riservava per Charlie, era veleno allo stato puro. E spesso Beatrice finiva per essere il bersaglio involontariamente preferito di quei dardi scoccati con una precisione letale.

Il silenzio con cui gli rispose la ragazza, gli fece capire che si era spinto troppo oltre.

“Bea…” non la chiamava quasi mai per nome. “Senti, mi dispiace, ok? Non volevo fare il cretino, ma a volte sembra che… non lo so neppure io. È che mi dispiace e lo so che ci stai male e per questo mi dispiace ancora di più e … lascia perdere, a quanto pare oggi faccio più schifo del solito con le parole. Magari se avessi fatto l’attore…” S’interruppe prima di finire la frase, forse conscio del tono aspro con cui aveva pronunciato quelle parole.

Bea si morse il labbro inferiore per non lasciarsi sfuggire neppure un suono, combattuta dall’impulso di rispondere a Lorenzo per le rime e la necessità di accasciarsi al suolo, stringersi le ginocchia con le braccia e piangere fino a terminare le lacrime.

Udì un sospiro e lo immaginò passarsi la mano tra i capelli, gli occhi vispi improvvisamente vigili e la bocca asciutta nella ricerca delle parole giuste da dirle.

“Direi che il fatto che io sia un cretino è ormai appurato, no?” tentò di sdrammatizzare.

Ignorando la tentazione di attaccargli il telefono in faccia, alzò distrattamente gli occhi al cielo e mormorò un assenso, accompagnando il suo “Già” con un sorriso rivolto alle nuvole.

Lorenzo, evidentemente rincuorato, riprese a chiacchierare come se la conversazione dell’ultimo minuto non fosse mai avvenuta. “Allora, fiorellino, si può sapere perché mi hai risposto tanto male al telefono?”

“Perché, nonostante tu sappia che a quest’ora io sono a lavoro, hai continuato a chiamarmi per l’ultimo quarto d’ora e il cellulare non faceva che vibrarmi in tasca. Era dannatamente fastidioso!” Sbottò incurante dei ragazzi stranieri che si erano girati nella sua direzione per fissarla.

“Cosa ti ha dato fastidio? Il fatto che ti abbia chiamata nell’orario di lavoro? O magari mi sbaglio e non è questa la ragione del tuo turbamento ma il fatto che a vibrare fosse il cellulare e non altro… o che abbia scoperto il tuo piccolo scabroso segretuccio che custodivi gelosamente nel cassetto dei calzini?”

Beatrice sentì le guance arrossarsi e, quasi temendo che gli altri potessero sentire quello che il suo amico le aveva appena detto, premette maggiormente il telefono contro il proprio orecchio. “Sei… sei… La gente normale non fruga nei cassetti di altra gente!”

“Bugiarda. Tu quando qualcuno ti invita a casa propria frughi sempre nei cassetti del bagno. E nelle antine del mobiletto sopra il lavandino.”

Era tanto imbarazzante quanto vero.

L’ultima volta aveva addirittura fatto una foto del cassetto del bagno di casa di Linda, una collega conosciuta all’università, e l’aveva inviata a Lorenzo, domandandogli chi altro avesse dei cassetti del bagno tanto ordinati che per un momento si era chiesta se in realtà Linda non avesse un armadio a muro nascosto dietro un arazzo dove regnava il caos e il disordine perché lei proprio non riusciva a capacitarsi di tanta perfezione nel cassetto del bagno, dannazione!

“D’accordo, magari a volte…”

“Sempre”, la corresse lui.

“E va bene, lo faccio anch’io, ma non sono affari tuoi quello che tengo o che non tengo nei miei cassetti.”

Per un attimo temette che le avrebbe chiesto se fossero affari di Charlie, ma per fortuna ebbe il buonsenso di starsene zitto, a respirare piano nel ricevitore del telefono.

“Beh, in realtà se vibrano sì. Dicevi sempre di essere contro gli aggeggi elettronici ed invece eccoti qui, con un kindle, un telefono che non risale ai tempi della preistoria e un vibratore

“Vuoi stare zitto?!” Urlò, nel tentativo di coprire la voce dell’amico, preoccupata che qualcuno potesse sentire quella conversazione che la stava tanto imbarazzando.

“D’accordo, taccio, ma solo perché probabilmente devi tornare a tradurre e poi voglio vederti arrossire mentre ti sconvolgi tanto perché parliamo di una cosa normale come il bisogno di soddisfare il proprio piacere. Ah, Lucy, Lucy…”

Beatrice attaccò con le guance in fiamme.

Adesso sì che rientrare in classe e fare finta di niente nonostante il viso accaldato, la voce tremula e gli occhi velati dall’imbarazzo sarebbe stata una prova di recitazione non da poco.

La prova del nove era arrivata.

 

*

 

Era riuscita, chissà come, ad arrivare incolume al termine della lezione e, quasi come una matricola ancora non abituata agli orari universitari prolungati, si era precipitata all’aria aperta, adducendo una patetica scusa con il docente con il quale collaborava gomito a gomito ad ogni lezione.

Aveva avuto la prova di avere una buona stella che vegliava su di lei quando non era stata investita da nessun’auto in corsa perché, per quanto ne sapeva, non aveva mai neppure controllato a destra ed a sinistra prima di attraversare la strada a piedi, incosciente come a volte solo i pedoni sanno essere.

La strada per casa non le era mai sembrata tanto lunga e, al tempo stesso, come nel più banale dei paradossi, tanto breve.

Ebbe appena il tempo di infilare la chiave nella toppa della serratura che sentì una voce chiamare il suo nome.

“Bea?”

Il tono carezzevole di Charlie le provocò uno spasmo all’altezza dello stomaco.

Non rispose, ma posò le chiavi sul mobiletto d’ingresso, un’orribile cassettiera marrone che quattro anni prima avevano pescato nell’angolo delle occasioni dell’Ikea come mobile inaugurale del nuovo appartamento e di quella che, secondo loro, sarebbe stata una nuova vita.

Da soli, da adulti.

“Bea?” La nota di domanda nella voce di Charlie si fece più insistente e Beatrice pensò che sarebbe stato divertente restarsene lì, in silenzio, immobile, nel tentativo di non farsi scoprire, in una specie di nascondino.

La testa di Charlie fece capolino dal muro del corridoio, una zazzera scomposta di capelli scuri su un’espressione ambigua.

Sembrava arrabbiato, triste e preoccupato al tempo stesso.

“Perché non mi hai risposto? Mi hai fatto spaventare…”

Sì, il dolce Charlie si era preoccupato. Magari era stato in pensiero per lei, chiedendosi se qualche malintenzionato le avesse fatto del male o se le fosse accaduto qualcosa.

“Lo so che è un momento difficile, ma spero tu sappia che non era mia intenzione dar via a tutto questo pandemonio…”

Ed era triste: c’era forse qualcosa di più dolce di un uomo che ammetteva i suoi errori?

 “Cazzo, Bea, non ce la faccio più. Ho bisogno di una cazzo di tregua, non posso andare avanti così ancora per molto! Cazzo…”

Ma non era arrabbiato: era decisamente furioso.

“E tu poi te ne stai fuori casa senza avvertire, mentre di solito avvisi se finite la lezione così tardi che, cazzo!, non avevo idea di dove fossi!”

Se prima lei si era quasi commossa dal suo essere preoccupato, triste e arrabbiato –no, non arrabbiato: furioso-, ora sentiva montare in lei la stessa furia che vedeva negli occhi del ragazzo.

Come diavolo si permetteva di farle una scenata come quella?

“Certo che tu non avevi idea di dove io fossi, e non vedo perché avrei dovuto dirtelo. Io non so di ogni tuo movimento e non mi interessa neppure controllarti fino a tal punto. E non sei né mia madre, né il mio ragazzo, quindi perché mai dovrei dirti tutto quello che faccio?”

“Perché siamo amici!” l’urlo di Charlie le arrivò dritto al petto, facendola sobbalzare di dolore.

Siamo amici…

…amici…

…amici…

“Stronzate! Gli amici si dicono le cose a vicenda, non si comunicano le grandi notizie con un sms. Non se vivono nello stesso appartamento da quattro fottutissimi anni. Non se si vedono ogni stramaledettissimo giorno. Quindi non venire a raccontare a me che siamo amici, Charlie. Sei una merda.” Ora che aveva rotto l’argine, avrebbe potuto andare avanti per ore, se non giorni, a sputargli in faccia quello che l’aveva ferita negli ultimi tempi, ma un discreto tossicchiare distolse la sua attenzione dalla sfuriata e Beatrice e Charlie si ritrovarono a fissare un insolitamente imbarazzato Lorenzo.

Conscia che il nuovo arrivato non le avrebbe mai permetto di tirare troppo fango addosso a Charlie per una questione di principio –“Audrey non farebbe così” le era risuonato nelle orecchie talmente tante volte che alla fine lo pensava anche da sola, senza supporti auditivi come la voce di Lollo vicino al suo orecchio-, Beatrice tornò a rivolgere la sua attenzione a Charlie e tentò di concludere il suo scoppio d’ira con una frase ad effetto.

“Sei una merda. Una merdosissima merda”

Se ne andò nella propria camera, sbattendo la porta dietro di sé e gettandosi di pancia sul letto.

 

 

 

“Non c’è che dire, Lucy, sei un vero fiorellino. Mi diverto sempre a vederti su di giri: o dici cose sboccate o dici un sacco di parolacce.”

“Non è proprio il momento, Lo’…”

“Fosse per te non arriverebbe mai, il momento. Però a volte arriva e se ne frega se sei preparata o no. Se ne infischia se ti senti affogare in un sentimento che hai difficoltà ad etichettare e di certo non si cura se sai o meno gestire le tue emozioni!”

Beatrice lo fissò da sopra il cuscino: era così che lui credeva che lei si sentisse per Charlie? Confusa?

 Non ebbe neppure il tempo di chiederglielo che già aveva ripreso a chiacchierare, la voce sempre più forte ed il tono sempre più concitato.

“Te ne stai lì, ignara di tutto, presa solo dai tuoi problemi e non ti preoccupi di quello che potrebbero provare gli altri. Vuoi qualcosa? Combatti, per la miseria! Dici di voler essere trattata da adulta ma ti comporti ancora come una ragazzina immatura!”

L’accusa che lui le rivolgeva sempre da un po’ di tempo a quella parte: “Sei immatura”.

Beatrice rimase immobile, in un silenzio quasi religioso: gli occhi velati di lacrime a chiedersi se stesse ancora parlando di lei e domandandosi se non le fosse sfuggito qualcosa.

Era abituata alle battutine aspre di Lorenzo, ma non era abituata al timbro astioso che la sua voce aveva preso nell’ultima frase, quasi lei gli avesse fatto un torto personale ma non riconoscesse i suoi sbagli.

E poi quell’accusa –immatura- che sembrava perseguitarla.

Si chiese perché le parole avessero un tale potere su di lei, quasi fossero un’arma magica dotata di un potere sovrannaturale capaci di stregarla, consolarla e ferirla nel suo io più profondo. Lì dove era più vera e più vulnerabile. Quella parte di sé che, inconsapevolmente, aveva iniziato a definire “Lucy” più che “Beatrice”.

 

 

 

 

 

NOTE

A volte ritornano.

Capisco che mi sono isolata per troppo tempo dalla tecnologia quando riapro il mio account di Twitter e mi arriva il messaggio di “bentornato”. Non me ne sono mai andata, vorrei rispondere, ma in realtà è come se avessi messo tutto in pausa. Beatrice, Lollo e Charlie per primi. Non lo ho abbandonati, sono sempre lì, a farmi compagnia, solo che non ho mai tempo di mettermi a scrivere la loro storia.

 

Ele_lele   

 

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