Come anelli di una catena...

di sabre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anello 1: Amicizia ***
Capitolo 2: *** Anello 2: Crescere ***
Capitolo 3: *** Anello 3: Fiducia ***
Capitolo 4: *** Anello 4: Aspettative (parte1/4) ***
Capitolo 5: *** Anello 4: Aspettative (parte2/4) ***
Capitolo 6: *** Anello 4: Aspettative (parte3/4) ***
Capitolo 7: *** Anello 4: Aspettative (parte4/4) ***
Capitolo 8: *** Anello 5: Affinità (Parte 1/5) ***
Capitolo 9: *** Anello 5: Affinità (Parte 2/5) ***
Capitolo 10: *** Anello 5: Affinità (Parte 3/5) ***



Capitolo 1
*** Anello 1: Amicizia ***


Chiedo anticipatamente venia per il primo capitolo, che è venuto di una lunghezza assurda ed ha un tono decisamente naif. Ma il piccolo Andrè vede e racconta tutto… anche se non sempre lo capisce subito.

Anello 1: Amicizia

Domenica 14 Giugno 1761, dintorni di Parigi

La piccola mano bianca stringe la sua e una voce sussurra al suo orecchio “Eccomi Andrè, sono tornata da te…. ”. La mano stringe e scalda fino a far quasi male, fino quasi a bruciare. Alza lo sguardo dalla mano verso la voce e… uno scossone! Uno scossone lo sveglia di soprassalto… la carrozza deve aver preso una buca.

Mugola “Mmmmh”, tende le braccia, le gambe, tutto il corpo come un gattino, fino quasi a scivolare dal sedile e si stira, si stira e la schiena scrocchia come se qualcosa si sbloccasse e ancora mugola “Mmmmh”, che sensazione piacevole.

Si è addormentato tutto rannicchiato su in fianco, con la testa appoggiata alla parete della carrozza e adesso si sente indolenzito, non ne può più!

È più di un giorno intero che è in viaggio, sballottato da una carrozza all’altra o pigiato tra i passeggeri della diligenza, e adesso veramente non ne può più! Per la miseria, lui è un bambino! Ha sei anni, e per quanto tutti negli ultimi mesi gli abbiano ripetuto che oramai è grande e deve imparare a comportarsi di conseguenza, adesso vorrebbe solo scendere da quella dannata carrozza e correre, correre a perdifiato fino a lasciarsi cadere sfinito nell’erba alta dei prati che vede scorrere dal finestrino, e lasciare che il sole gli scaldi il viso e il vento gli scompigli i capelli.

Come quando stava con mamma e papà ad Apremont-sur-Allier: papà lavorava nella sua bottega di falegname sul retro della loro casetta nel borgo; mamma si prendeva cura della casa, di papà e di lui; lui era libero di scorrazzare tra i prati, e la vita era perfetta. Un sorriso gli affiora sulle labbra al ricordo ma subito svanisce... Poi papà era morto in quel brutto incidente poco prima del suo quinto compleanno, e lui e la mamma erano rimasti soli.

La mamma allora aveva deciso di vendere le loro poche cose e trasferirsi a Bourges.

“In una grande città le signore ci tengono alla moda! Una buona sarta può trovare lavoro. Non sarò abbastanza brava per le gran signore di Parigi, ma per Bourges lo sono sicuramente, non credi piccolo mio?”, gli aveva chiesto accarezzandogli la testa mentre aspettavano di salire sul carro di un vicino, che, dovendosi recare in città per una consegna, si era offerto di accompagnarli con i loro pochi bagagli. Lui aveva annuito con convinzione. Papà gli mancava tanto, ma, quando la tristezza diventava troppa, la mamma se ne accorgeva sempre e lo stringeva baciandolo sulla testa e sussurrandogli “Andrà tutto bene…”.

Adesso era diventato lui l’uomo di casa ed era suo compito sostenere la mamma, e comunque… la sua mamma aveva sicuramente ragione.

E infatti, la sua mamma aveva avuto ragione! Nel giro di un paio di giorni aveva trovato lavoro presso Madame Durier, che aveva una grande negozio di confezioni proprio vicino alla cattedrale di Saint Etienne. La padrona le aveva concesso di alloggiare in una delle stanze sopra il negozio, in cui ospitava buona parte delle altre ragazze che lavoravano per lei, trattenendo la pigione dal salario.

Così era cominciata la nuova vita: lui e la sua mamma si alzavano presto la mattina, facevano colazione con le altre lavoranti nella sala comune sul retro del negozio, poi lui andava a scuola. La mamma versava un contributo del suo salario perché lo ammettessero come esterno alle lezioni del collegio nel vicino convento di Saint Pierre, sede di una congrega di Oratoriani.

“Sei un bambino sveglio, piccolo mio”, gli aveva detto, “impara bene a leggere, a fare di conto e tutto quello che ti insegneranno, e quando sarai grande potrai essere libero”.

Questa cosa in realtà non l’aveva proprio capita, ma era sicuramente vera, visto che glielo aveva detto la sua mamma, e poi andare a lezione e studiare gli piaceva. Imparare cose nuove gli piaceva, i compagni erano simpatici, quasi tutti figli di proprietari di piccoli negozi nel centro della città. I frati erano severi, ma per certi versi tanto buffi, ognuno con la sua piccola mania: come fratello Charles, che non parlava d’altro che delle piante officinali a chiunque lo incontrasse in qualunque situazione.

La mattina dopo colazione andava a lezione, pranzava in refettorio con i frati e suoi compagni, nel pomeriggio le lezioni continuavano per altre tre ore e poi tornava al negozio. Mamma lavorava ancora; lui prima faceva i compiti, su uno sgabello in un angolo del laboratorio, e poi aiutava spostando le ceste con le pezze da un tavolo di lavoro all’altro, o andando a prendere le rocche di filo dal magazzino per le ragazze che lo chiedevano. Così arrivava l’ora di cena. Quella vita non era proprio perfetta come quella di prima, ma a fine giornata lo era lo stesso, perché si addormentava con la sua mamma, e il suo profumo lo faceva sentire al sicuro e felice.

Poi però anche quella nuova vita perfetta era finita. Quando a gennaio la sua mamma si era ammalata, Madame Durier era stata gentile e le aveva permesso di non lavorare per una settimana intera, ma non era servito a nulla e la sua mamma una mattina non si era svegliata. Lui aveva cercato di scuoterla e chiamarla ancora e ancora, ma non c’era stato niente da fare. L’avevano sepolta nel cimitero del convento una grigia e fredda mattina. Fratello Charles gli aveva dato un mazzetto di fiori bianchi da mettere sulla sua tomba. Gli aveva detto che venivano chiamate rose di natale… delle strane ‘rose’, ma così semplici e delicate erano belle come la sua mamma.

“La madre era tanto delicata, poverina”, aveva detto Madame Durier quando lo aveva portato all’orfanotrofio. Lui era un povero bambino sfortunato, ma lei proprio non se ne poteva occupare, e non poteva neanche tenerlo a lavorare nel suo negozio con tutte le ragazze! La madre aveva speso tutto il suo salario e i suoi risparmi per permettergli di andare a scuola e adesso non se ne poteva certo curare lei.

Così era finito all’orfanotrofio, un posto grigio e freddo, dove passava le giornate pensando solo che la sua mamma gli mancava tanto, e piangeva tutte le notti sul suo pagliericcio nel lungo sottotetto con altri quaranta bambini tristi. Fino a quando giugno aveva portato un po’ di luce e di calore, e l’arrivo di Monsieur Condè, due giorni prima, aveva interrotto quel grigio. Una mattina era stato portato nell’ufficio del direttore, Monsieur Larousse, un ometto basso e grasso, che indossava sempre una parrucchetta unta e giallastra sulla testa pelata. Lì aveva trovato quel signore alto e magro con un’espressione tanto seria. Gli aveva chiesto se lui fosse Andrè Grandier, se suo padre si chiamasse Jacques e se il nome di sua nonna fosse Marie Grandier. Lui aveva confermato con un incerto “Si signore!”, rivolgendo uno sguardo dubbioso a Monsieur Larousse e questo, per tutta risposta, gli aveva detto che lui era un bambino tanto fortunato. “Se lo dice lui!

Monsieur Condè era un … amministratore, o qualcosa di simile, del Conte Jarjayes, il padrone della sua nonna, ed era venuto a prenderlo per portarlo a palazzo, dove sarebbe stato “allevato come compagnia dell’erede del casato”. Monsieur Condè aveva poi dato una borsa con del denaro a Monsieur Larousse, “per la sua generosità e il suo disturbo” aveva detto.

La generosità di Monsieur Larousse … la sentiva ancora tutta sul palmo della mano la sua generosità, nei segni rossi che gli aveva lasciato la sua bacchetta in quei mesi ogni volta che apriva bocca, o camminava un po’ più veloce, o faceva qualunque cosa che per le regole dell’orfanotrofio non fosse quello che consideravano “comportarsi come si deve”.

L’ultima volta era successo il giorno prima della sua partenza, e la mano gli brucia ancora mentre passa il pollice sul palmo. I segni della bacchetta di Monsieur Larousse non sono una piccola mano bianca, e quella voce non era la voce della sua mamma. Sente le lacrime che spingono ancora, allora fa un gran sospiro per rimandarle indietro e alza lo sguardo su Monsieur Condè, che seduto nel sedile di fronte al suo sonnecchia con le braccia incrociate sul petto e la nuca appoggiata all’indietro. In quel momento la carrozza con un sussulto si ferma, Monsieur Condè apre gli occhi sorprendendolo mentre lo sta osservando, si china leggermente in avanti e gira la testa per guardare fuori dal finestrino. Dopo un breve silenzio dice “Beh, giovanotto, finalmente siamo arrivati!”.

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È in piedi in mezzo al grande spiazzo sul retro del palazzo e regge tra le mani il fagotto che contiene le sue poche cose. Sa che quello è il retro perché glielo ha detto Monsieur Condè e si domanda stupito come possa apparire l’ingresso principale! Quello che sta osservando con gli occhi spalancati è l’edificio più spettacolare che abbia mai visto: è enorme, non grande come la cattedrale di Saint Etienne certo, ma è la casa più grande che abbia mai visto, ed è così bianca e piena di enormi finestre, che splendono al sole del primo pomeriggio, da far sembrare che emetta luce.

“Andreeeè! Oh, tesoro mio, finalmente!” il richiamo lo fa riemergere dal suo stato di assorto stupore e, abbassando lo sguardo dalle finestre verso la voce, vede una signora rotondetta con una cuffietta bianca su un abito lavanda, che, reggendo le gonne con le manine tonde, gli corre incontro. In un attimo si trova avvolto nel suo abbraccio.

“Oh, nonna…” è l’unica cosa che riesce a dire mentre lei lo stringe al petto tanto da togliergli il fiato, e, tra un bacio sulla fronte e l’altro, ringrazia Monsieur Condè con la voce quasi rotta dal pianto.

“Oh, grazie, grazie…. Sono stata così preoccupata per il mio piccolo, non so come avrei fatto senza di voi e la generosità del Generale”. E Monsieur Condè senza scomporsi minimamente: “Posso vedere il Generale?”.

“Oh, certo! Vi sta aspettando nel suo studio.”

La nonna lo lascia e, cambiando improvvisamente il tono da commosso ad autoritario, chiama “Jerome! Accompagna Monsieur Condè nello studio del Generale. Lo sta aspettando.”

“Buona fortuna e piacere di avere fatto la vostra conoscenza giovanotto.”

E’ l’ultima cosa che Monsieur Condè gli dice prima di voltarsi senza attendere la sua risposta e seguire un ragazzo che indossa una giacca rossa con alamari e porta sulla testa una piccola parrucca.

La nonna lo ha liberato dal suo abbraccio e adesso lo sta tirando per la mano verso un’entrata del palazzo, e, mentre stanno superando la soglia, chiama con la voce autoritaria “Annette, è tutto pronto per il bagno?”

Il passaggio dal cortile illuminato dal forte sole del primo pomeriggio alla penombra gli ha offuscato per un attimo la vista, ma adesso si rende conto di essere nelle cucine. In realtà delle cucine così non le ha mai viste in vita sua, ma sulla sua destra c’è un lungo e massiccio tavolo in legno sul quale si trova un enorme cesto pieno di verdure, due pile di ciotole in ceramica bianca di diverse misure e quattro fagiani ancora da spennare con la testa penzoloni; sopra al tavolo è appesa all’alto soffitto a volta, con delle catene, una struttura rettangolare in ferro dalla quale pendono una miriade di pentole in rame lucide come specchi; dietro al tavolo, lungo la parete, c’è una lunga stufa in muratura con sportelli in ferro, sulla quale sono posizionate una serie di pentole in cui sta cuocendo qualcosa; alla sua sinistra un altro tavolone di legno un po’ più piccolo, sul quale si trovano un cesto pieno di pane e un paio di pasticci, e dietro al tavolo una larga cappa attaccata al muro sovrasta un girarrosto a tre bracci, sul quale sta arrostendo un grosso pezzo di carne, e un forno a legna; infine in mezzo alla stanza campeggia un gigantesco camino, dove, sul fuoco acceso, è appeso a un grosso gancio un enorme paiolo. Nonostante le dimensioni si trova certamente in una cucina.

Palazzo grande, cucina grande! Ma a quanta gente dovranno dare da mangiare per avere una cucina così!... a tutta Parigi!?” pensa, mentre fermo sulla soglia segue con gli occhi la nonna, che si è allontanata da lui e ora sta aiutando una ragazza mingherlina, in cuffietta e grembiule bianchi su abito grigio, prima a sistemare un grande telo di lino in un catino di zinco posizionato vicino al camino e poi a riempirlo, facendo scorrere lungo un binario il gancio e poi inclinando il paiolo per farne defluire l’acqua calda.

Improvvisamente sente due grosse mani che gli circondano il viso e lo girano afferrandogli le guance. Attonito, si trova a fissare la faccia tonda e rubizza di un donnone vestito di bianco su cui si apre un largo sorriso mentre cinguetta:

“Oh, ma che angioletto delizioso! Tu devi essere il nipotino di Marie!”, con una vocina che contrasta nettamente con il suo aspetto decisamente imponente.

Poi, girandosi verso il fondo della cucina, il donnone chiama “Ragazze correte! Venite a vedere che carino il nipotino di Marie!”.

Per quel poco che gli consentono le due manone che gli stanno stritolando le guance, gira anche lui il viso nella stessa direzione, dalla quale vede arrivare, rispondendo al richiamo, quattro ragazze in abito blu, cuffietta e grembiule bianchi. In un attimo si trova anche loro addosso, chi gli scompiglia i capelli, chi lo abbraccia, chi riesce a strizzare un pezzetto di guancia lasciato stranamente libero dalle altre.

“Ma che carino!”

“Ma guarda che angioletto moro!”

“E che occhioni verdi!”

“E guarda questi ricci meravigliosi!”

“Oh, quando sarà grande causerà almeno venti svenimenti al giorno!”

“Oh, Marie il tuo nipotino è proprio adorabile!”

Chiocciano le ragazze mentre continuano a stringerlo, strizzarlo, accarezzarlo e pizzicarlo.

E basta! Ma che problemi hanno anche queste…. femmine?” pensa, ma non ha il coraggio di dire “Anche qui, come quando sono arrivato al negozio di Madame Durier!

La però le ragazze almeno avevano paura di Madame Durier, e quando c’era lei lo lasciavano stare, e poi la mamma le teneva a bada!

“Via sciocche! Smettetela! Christine e Claire, c’è la biancheria stesa da ritirare, deve essere stirata per stasera; Sandrine, va a controllare che ci sia acqua pulita nelle camere; Viviane, porta due calici di vino nello studio del Generale per lui e Monsieur Condè. Forza muovetevi!” tuona la nonna “E tu Agnes! La cena non si preparerà certo da sola non credi? Al lavoro! ”

La nonna con pochi ordini è riuscita a disperderle tutte e a ‘salvarlo’.

Cavolo! Certo che non la si può giudicare dall’aspetto!”

In realtà ricorda di aver visto la nonna solo una volta al funerale di papà, prima era troppo piccolo probabilmente per ricordare, la conosce più che altro grazie alle lettere che si scambiava regolarmente con i suoi genitori e che la mamma gli leggeva.

Certo che è proprio bassa!” Nonostante lui abbia solo sei anni, lo supera in altezza solo di poco più della testa, ma, a quanto pare, quando usa il suo tono autoritario tutti obbediscono immediatamente! In effetti, fa quasi un po’ paura anche a lui, quel tono chiaramente non ammetteva repliche.

Mentre massaggia le guance dolenti per il brutale trattamento appena subito, è la nonna che si rivolge di nuovo a lui sorridendo:

“Piccolo mio, adesso farai un bel bagno e mangerai qualcosa, poi ti porterò dal Generale. Ha espresso il desiderio di vederti appena fossi arrivato.”

Posandogli una mano sulla spalla lo conduce verso il camino.

“Il generale?”

“Certo, il Generale, il Conte De Jarjayes, il Padrone!”

Intanto prende il fagotto e lo posa a terra.

“Il Padrone è stato tanto generoso. Appena ha saputo che ero l’unica persona rimasta per prendersi cura di te ha acconsentito a che ti portassi qui…”

Gli slaccia e sfila la giacca e il panciotto e li posa sul fagotto.

“… ha espresso il desiderio che tu venissi cresciuto in questa casa ed educato insieme a Oscar…”

Oscar? Oscar, chi?

“… che grande onore caro! Devi essergliene grato!”

Lo fa appoggiare a uno sgabello e gli sfila gli scarponcini e poi le calze.

“Sono stata così preoccupata in questi mesi…”

Via la camicia e i pantaloni.

Cavolo!

Adesso è nudo in mezzo alla cucina, e con tutto il via vai delle cameriere si sente le guance andare a fuoco.

“Annette, vieni, aiutami!”

Eh, adesso ci manca solo Annette, ma come fa la nonna a non capire?

La ragazzina con l’abito grigio si avvicina, lei e la nonna lo sollevano tenendolo una sotto ogni braccio e lo fanno entrare nel grande catino di zinco foderato con il telo. Che meraviglia la sensazione dell’acqua tiepida sulla pelle! Non ricorda più l’ultima volta che ha potuto fare un vero bagno, sicuramente prima di andare a vivere a Bourges con la mamma.

“Oh, una tale preoccupazione! Quando a gennaio Monsieur Condè mi ha accompagnato per venirti a prendere dopo che tua madre mi aveva scritto della sua malattia… e la proprietaria della sartoria ci ha detto che Juliet era morta e che tu eri scappato… Oh il mio povero cuore!”

Come!? Cosa!? Io scappato?! Quando?

La nonna adesso lo sta sfregando violentemente con una pezzuola insaponata.

“Ahi… nonna!”

“Oh, buono! Dovrai essere più che presentabile quando ti riceverà il Generale. Non vorrai mica che pensi che non sei una compagnia adatta per Oscar!”

Ancora questo Oscar… deve essere quello di cui parlava Monsieur Condè…

La nonna ha preso a insaponargli con vigore i capelli e lui si mette le mani sugli occhi per evitare che il sapone ci vada dentro, dato che non crede di poter dire nulla per fare in modo che la nonna ci stia attenta.

“Comunque… per fortuna quando abbiamo scritto al Generale, questi ha autorizzato Monsiuer Condè a rimanere a Bourges per cercarti! I frati del vicino convento, dove Juliet ti mandava a scuola, non potevano credere che tu fossi scappato… oh, povero piccolo… e stai fermo… ”

“Ahia!”

Ma come fa la nonna a passare magicamente dall’essere sul punto di piangere a gracchiare ordini?”

“… così ha continuato a indagare, e alla fine è riuscito a parlare con una delle lavoranti del negozio, attendendola quando ha avuto il permesso di andarsi a confessare. Così le ha fatto ammettere di aver visto Madame Durier che ti portava via una mattina all’alba! Oh, i miei poveri nervi…”, sospira e continua, “Grazie all’influenza del Generale, Monsieur Condè ha ottenuto che intervenissero le guardie, e, dietro la minaccia di essere imprigionata, lei ha ammesso che non eri scappato, ma che ti aveva portato all’orfanotrofio … oh, povero il mio piccolo ….”

“Ahia nonna, mi stai stritolando!

“Oh, povero caro... Sicuramente lo ha fatto per intascare il denaro che tua madre le aveva lasciato per il tuo mantenimento fino al mio arrivo… eh, ma non credeva di dover fare i conti con il Generale quella… ”

… è come se dentro la nonna … di nonne ce ne fossero due!” pensa osservandola con un sopracciglio alzato, non riuscendo ancora a credere alla velocità con cui può cambiare umore e tono di voce.

“Annette… acqua!”

“Cosa...”

Non ha il tempo di concludere la frase, che una secchiata d’acqua tiepida lo ricopre dall’alto rendendo vani tutti i suoi sforzi di tenere lontano il sapone dai suoi occhi.

“Forza, in piedi!”

Mentre ancora si sfrega gli occhi con le mani dopo essersi alzato, la nonna lo avvolge in un telo di lino e Annette la aiuta a farlo uscire dalla vasca e a sistemarlo su un piccolo sgabello vicino al camino.

Mentre la nonna comincia a sfregargli vigorosamente i capelli con un altro telo, Annette si china sulle ginocchia per guardarlo negli occhi e chiede con voce sottile e un sorriso dolce:

“Hai fame Andrè?”

Lui dopo un attimo di esitazione sorride e fa di sì con la testa. Annette allora si allontana verso il tavolo più piccolo, prende un piatto e un bicchiere da una credenza vicina e li riempie.

Intanto la nonna continua imperterrita:

“… se penso poi quanto tempo ci è voluto per riuscire a riportarti a casa pur sapendo dove eri rinchiuso!... una persona influente come il Generale può far imprigionare una persona dall’oggi al domani, ma è impotente davanti alle lungaggini di avvocati e burocrati. È inaudito!”

La nonna parla ininterrottamente e non pare molto preoccupata dal fatto che lui abbia detto sì e no quattro parole dal suo arrivo, ma ora deve proprio interromperla: “… aaaah, nonna se continui a sfregare così i capelli me li stacchi!”

“Oh, non dire sciocchezze! Poi, non vorrai mica presentarti dal Generale con i capelli bagnati… Comunque, adesso sbrigati a mangiare che dobbiamo finire di prepararti.”

Annette è tornata e, con il solito sorriso dolce, gli porge il piatto e il bicchiere: pane, formaggio, carne in gelatina e mezza mela, accompagnati da un bicchiere di latte. Non beve del latte da quando viveva ancora ad Apremont, “Che buono!”, la carne in gelatina invece gli fa un po’ senso, il resto è più che sufficiente.

Sta bevendo il latte per riuscire a mandare giù il pane e formaggio che ha divorato, quando sente Annette chiedere:

“Madame Marie, di questi cosa ne devo fare?”

Si gira a guardarla. Ha in mano i suoi vestiti e il suo fagotto.

“Portali pure via, cara.”

“No!” Appoggia il piatto e il bicchiere sul bordo del camino, si alza muovendosi velocemente verso Annette, per quello che il lungo telo in cui è avvolto gli consente, e la afferra per le sottane, “No, sono i miei vestiti!”

Annette osserva prima lui poi la nonna con aria interrogativa.

“Ma tesoro, sono vestiti vecchi, non sono adatti alla tua vita qui a palazzo, ne avrai di nuovi!” gli dice la nonna con voce calma accarezzandogli la guancia.

“No, sono i miei vestiti, li ha cuciti la mia mamma, sono miei!”, gli viene quasi da piangere e si sente da come adesso gli trema un po’ la voce.

La nonna sospira, lo guarda un attimo e poi:

“Va bene tesoro, Annette li laverà e stirerà e poi li porterà nella tua camera.”

Guarda Annette, che annuisce e fa per allontanarsi.

“No, questa no!”

Ha afferrato la piccola giacca di panno che la ragazza sta portando via con il resto.

“Questa ha l’odore della mamma.”

Ancora un sospiro e uno sguardo dolce.

“Va bene piccolo, la giacca la metteremo direttamente in camera tua senza lavarla. Hai capito Annette?”

La ragazza annuisce.

La nonna gli carezza nuovamente la testa, mentre lui, passandosi la lingua sul labbro superiore per pulire un baffo di latte, segue con lo sguardo attento Annette che porta via le sue cose.

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“Oooohh … che fastidio!”

Si è fermato in mezzo alla lunga e ampia galleria, coperta di marmi e fregi dorati, e illuminata da una fila di grandi finestre su un lato, lungo la quale la nonna lo sta trascinando per una mano in tutta fretta, e ha allargato un po’ le gambe per cercare di aggiustarsi i pantaloni sul sedere. Pantaloni… se così si possono chiamare quelle brachette corte e lucide che la nonna gli ha infilato e che gli tirano da tutte le parti! E gli tira anche il panciotto stretto sul petto, e sulle spalle la giacca, che poi gli batte sulle gambe allargandosi fino quasi alle ginocchia… e lo infastidisce tutta quella stoffa che pende sul davanti dalla camicia e lo soffoca in uno stretto fiocco che la nonna gli ha legato sotto il mento… e i polsini che si allungano quasi a coprirgli le mani… e gli danno fastidio quelle calze bianche e lische che scivolano dentro quelle strane e scomode scarpe lucide con delle grandi fibbie di metallo. Ridicolo! Si sente scomodo e ridicolo, a dispetto del fatto che la nonna gli abbia detto che è bello come un signorino e si sia quasi messa a piangere per la commozione e la soddisfazione, contemplandolo tutto agghindato in quel modo.

“Muoviti! E stai dritto!”

La nonna lo strattona richiamandolo con tono brusco.

“Il Generale ti sta aspettando, e non si fa aspettare il Generale!”

Di malavoglia si rimette a camminare, lasciandosi sempre un po’ trascinare, ruotando le gambe in modo strano, sempre alla ricerca di una posizione più comoda dentro a quelle maledette brachette.

Arrivati davanti alla terza porta lungo la galleria la nonna si ferma, lo fa girare e con il volto rivolto alle ante, si ferma e aspetta.

Sembra agitata! Che cosa sta aspettando? Deve fare veramente paura il generale se fa diventare così nervosa la nonna!” pensa, mentre osserva prima lei, che continua a sfregare i palmi delle mani sulle sottane, e poi le gigantesche ante della porta, lucide e decorate dalle venature del legno e dalle modanature dorate, “Mai viste porte così!

Come se si fosse sentito addosso il suo sguardo, si gira nuovamente verso la nonna e la trova a fissarlo con aria corrucciata, come se ci fosse qualcosa di estremamente sbagliato nei suoi capelli, fino a quando, senza troppi complimenti, gli fa girare la testa per aggiustare il nastro che gli ha legato al ciuffetto sulla nuca e poi, afferrandogli il mento tra pollice e indice, lo gira nuovamente verso di se, lecca le dita dell’altra mano e gliele passa sulla frangia portandola indietro.

Hei, che schifo! Allora cosa me li hai lavati a fare?

Di nuovo la nonna lo esamina, gli lascia il viso, gli poggia una mano sulla spalla e la stringe, fa un profondo sospiro, bussa e dopo un attimo annuncia attraverso la porta chiusa:

“Signor Generale, sono Marie! Ho portato mio nipote Andrè, come avete chiesto.”

“Avanti!”

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Lo studio del generale è enorme: la parete opposta alla porta è quasi completamente costituita da grandi finestre che danno su un immenso parco; alla destra un grande camino di marmo bianco supporta un elaborato orologio in oro, e due poltrone in seta azzurra e fregi dorati sono sistemate ai lati di un tavolino da gioco; sulla sinistra, di fronte alla scrivania in un legno lucido, adorno di venature e ori, si trovano due sedie nello stesso stile, e dietro la scrivania una libreria, piena di testi rilegati in pelle, ricopre l’intera parete. In mezzo alla stanza, sopra un grande tappeto a motivi floreali, sta in piedi lui, dopo aver salutato con un inchino, eretto come un bravo soldatino, e guarda il generale, che, sprofondato in una grande poltrona di pelle dietro la scrivania, lo sta esaminando.

Sta aspettando che la nonna torni, dopo che le è stato ordinato di andare a chiamare Oscar e portarlo lì. Dopo un silenzio che gli è parso interminabile sotto lo sguardo severo del generale, questo gli rivolge la parola:

“Ragazzo, tua nonna mi ha detto che sai leggere e scrivere.”

“Si signore!” conferma, con voce ferma, anche se un po’ il generale gli fa paura, con quello sguardo così severo, che lo fissa come se lo stesse soppesando.

“Bene, questo ti permetterà da subito di seguire le lezioni con il precettore insieme a Oscar! Come dovrebbero averti già spiegato, sei qui per accompagnare mio figlio Oscar nel suo percorso di formazione.”

Percorso di formazione?” non capisce bene cosa il generale intenda dire, ma non si sente sufficientemente a suo agio per chiedere spiegazioni, soprattutto dopo tutte le raccomandazioni che gli ha fatto la nonna, per cui continua a stare fermo e zitto, facendo finta di capire quanto gli viene detto.

“L’istitutore si occuperà della formazione accademica, mentre io supervisionerò il maestro d’armi nell’insegnamento della scherma prima e nell’uso delle armi da fuoco poi.”

A… armi? Nessuno gli aveva parlato di armi!”

Mentre formula questo pensiero, il generale si alza dalla poltrona, aggira la scrivania e gli si para di fronte.

Lo sta osservando dall’alto al basso con le mani allacciate dietro la schiena e il dover guardare in alto sopra di lui per vederlo in faccia, lo mette ancora più a disagio. “Lo farà apposta?

“Oscar sarà educato per essere l’erede dell’antico casato dei de Jarjayes e dedicarsi, come da nostra tradizione, alla carriera militare. Non potendo essere educato in collegio, per lui è importante crescere con una compagnia maschile, per sperimentare lo spirito cameratesco tipico della vita militare. Ti è chiaro quindi quale sarà il tuo compito?”

Ehm, assolutamente no.”, ma risponde, “Certo signore!”

“Ottimo, credo non ci saranno problemi….”

L’attenzione del generale è attratta da qualcuno che sta bussando alla porta e senza attendere risposta la apre.

“Ah bene! Ecco Oscar!”

Andrè si gira verso la porta per guardare. Come atteso è la nonna, che tiene l’anta aperta per far passare qualcuno prima di lei. È un bambino un po’ più piccolo di lui che varca la soglia con passo deciso, guardando dritto di fronte.

Non ha mai visto un bambino ‘nobile’. Ad Apremont i suoi compagni di giochi erano tutti figli di braccianti e contadini, mentre a Bourges i suoi compagni di scuola erano tutti figli di … ‘borghesi’, così li aveva chiamati Madame Durier; avevano vestiti un po’ più belli, ma non erano molto diversi dai compagni di giochi di Apremont.

Sì, sicuramente è per questo che non ha mai visto un bambino così... bello! Il bambino che adesso è in piedi di fianco a lui e guarda impettito il generale, come in attesa di ordini, è semplicemente… bellissimo! Non avrebbe mai creduto di poter pensare una cosa simile di un altro bambino, ma i suoi capelli sono così biondi, i suoi occhi così azzurri e limpidi e la sua pelle così candida … da farlo sembrare uno degli angeli dipinti nei quadri che erano appesi alle pareti del convento.

Se i bambini nobili, sono così… allora è proprio vero che sono diversi!

“Oscar, questo è Andrè, il nipote di Marie. E’ mio desiderio che da ora ti affianchi e sostenga negli studi e nella tua formazione militare.”

“Come desiderate, Padre!” risponde Oscar, scandendo con una vocina acuta.

“Forza Andrè, cosa fai lì imbambolato! Saluta Oscar!”

Le parole della nonna lo riscuotono, mentre sta ancora fissando con gli occhi spalancati e la bocca un po’ aperta, quello strano bambino che ha sulla testa quell’incredibile massa di boccoli dorati, che adesso si è girato e lo sta fissando con quegli altrettanto incredibili occhioni azzurri. Guarda la nonna e poi di nuovo il biondino, deglutisce un paio di volte fregandosi il palmo della mano destra sulla gamba dei pantaloni, e poi la stende di fronte a se, porgendola in segno di saluto.

“Io sono Andrè Grandier, piacere di fare la vostra conoscenza!”, la nonna si è tanto raccomandata che rispettasse … l’etichetta!

Mentre lui è ancora lì con la mano sospesa, Oscar lo guarda dritto negli occhi con aria interrogativa, poi fissa la mano, di nuovo il suo viso, fa spallucce e gliela stringe con un mezzo sorriso.

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“La mia stanza…”, lo dice ad alta voce mentre, seduto sul letto con i piedi penzoloni, si guarda intorno con aria seria. Non ha mai avuto una stanza tutta sua, ha dormito in camera con mamma e papà, poi solo con la mamma, e poi nella camerata con i bambini dell’orfanotrofio, mai da solo e forse la cosa gli fa un po’ paura.

Annette lo ha accompagnato in quella stanza nell’ala della servitù quando è uscito dallo studio del generale, perché la nonna doveva accompagnare Oscar ‘nei suoi appartamenti’.

Il letto su cui è seduto è di solido legno scuro, ha la testata appoggiata al muro ed è grande, più grande di quello che era dei suoi genitori; alle sue spalle ha la porta, e di fronte una finestra che affaccia sul retro del palazzo; sotto la finestra, appoggiato al muro, c’è uno scrittoio con una sedia sempre in legno scuro; ai lati della testata del letto un comodino e un piccolo armadio, dove, Annette gli ha fatto vedere, è sistemato il resto del suo nuovo guardaroba, prima di rassicurarlo dicendo che appena pronti avrebbe sistemato lì anche i suoi vecchi vestiti.

La stanza è dotata di un piccolo camino al centro della parete ai piedi del letto, di fronte al quale si trova una vecchia poltrona. A completare l’arredamento c’è un cassettone, appoggiato alla parete alle sue spalle, alla destra della porta d’ingresso, sopra il quale è appeso uno specchio tondo. Non solo il letto è più grande, ma forse quella stanza ha più mobili di quanti ne avesse la casa dei suoi genitori, per non parlare della stanzetta in cui stava con la mamma a Bourges.

Sa che dovrebbe essere contento di avere una stanza tutta sua, gli hanno detto che è un bambino molto fortunato, la nonna gli ha detto che deve essere molto onorato, ma lui si sente lo stesso così strano: vorrebbe che la nonna fosse lì con lui e non a prendersi cura di quello strano bellissimo bambino biondo; vorrebbe almeno che tornasse presto per accompagnarlo a cena, come gli ha detto Annette, ma soprattutto, mentre si sdraia sul letto adagiandosi su un fianco, vorrebbe che la sua vecchia giacca, che sta stringendo tra le mani, profumasse veramente ancora della sua mamma.

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“A differenza del francese e dell’italiano, la lingua latina, oltre al genere maschile e femminile, presenta il genere neutro…”

La voce di Monsiuer Douffort, l’istitutore, risuona nello studio allestito a fianco della biblioteca, in cui tutte le mattine sono impartite a lui e Oscar le lezioni da due settimane, sin dalla mattina dopo il suo arrivo.

Oggi in programma c’è l’introduzione alla lingua latina, ma Andrè non riesce a concentrarsi sulla lezione e sulle parole che Monsieur Douffort sta scrivendo sulla grande lavagna posta di fronte alla scrivania che lui e Oscar condividono, seduti su due sedie con le gambe più lunghe del normale.

I suoi occhi vagano in giro per la stanza, scorrendo sul grande mappamondo appollaiato su un alto tavolino a sinistra della lavagna, sugli animali impagliati che intervallano i libri nelle scaffalature sulle pareti, sulle serpi e le salamandre che galleggiano dentro grandi vasi di vetro in un angolo vicino alla porta d’ingresso; i suoi occhi vagano fino ad approdare al piccolo abaco di fronte a lui sulla scrivania, con cui si sofferma un attimo a giocherellare, muovendo le palline con l’indice. Gli occhi vagano, ma non guardano niente veramente, così come le orecchie sentono le parole di Monsieur Douffort ma non le ascoltano, perché la sua testa è affollata da un solo pensiero, che lo assale, come sempre da due settimane ad oggi, ogni qual volta non è abbastanza concentrato per scacciarlo:

Oscar è una bambina!... una bambina… una femmina!

Glielo ha detto la nonna la prima sera, quando finalmente lo ha raggiunto in camera per accompagnarlo a cena. Si era seduta sul letto accanto a lui, gli aveva preso la mano e gli aveva detto:

“Piccolo mio devi essere molto grato per l’occasione che ti viene data. Dovrai dimostrare la tua gratitudine mostrandoti sempre educato, corretto e studioso. Ma soprattutto dovrai essere gentile e prenderti sempre buona cura di Madamigella Oscar!”

“Madami… gella?” aveva ripetuto aggrottando la fronte senza capire perché la nonna chiamasse così quel bambino per quanto bello e strano.

“Si caro, Madamigella Oscar! Perché Oscar, nonostante il padre abbia deciso di allevarla come un maschio, in realtà è una bambina!”

Dopo un attimo di smarrimento per assimilare il significato di quelle parole che gli sembravano così strane, il senso di quanto detto lo colpì tutto in una volta, dandogli una sensazione molto simile a quella che aveva provato nel lavarsi la faccia la prima mattina all’orfanotrofio con l’acqua del bacile in fondo alla camerata, per accedere alla quale avevano dovuto rompere lo strato di ghiaccio con un bastone.

Da allora quella frase aveva cominciato a rimbalzargli in testa:

Oscar è una bambina!... una bambina… una femmina!

La nonna poi si era dilungata a spiegargli che la famiglia Jarjayes aveva da sempre una tradizione militare, che veniva perpetuata in ogni generazione dal primogenito maschio, che il generale aveva avuto cinque figlie femmine prima di Oscar, che quando lei era nata il medico aveva sentenziato che la madre non avrebbe potuto avere altri figli e che pertanto il generale aveva deciso di allevarla come un maschio, facendo di lei il degno erede della famiglia. Se Dio non aveva voluto dargli un maschio, il generale avrebbe fatto di Oscar il suo figlio maschio.

Questa lunga spiegazione lo aveva lasciato un po’ perplesso, contrastando nettamente con tutti i discorsi sulla felicità derivante dall’accettazione per fede della volontà di Dio, che si era sentito riproporre fin dalla più tenera età prima a messa e a catechismo, poi a scuola, e poi ancora, nei giorni seguenti, lì nelle omelie del cappellano di palazzo. Dopo averci pensato a lungo, aveva formulato l’ipotesi che il generale fosse più che altro un grande sostenitore del libero arbitrio, o almeno del suo libero arbitrio.

Sempre quella prima sera, la nonna gli aveva spiegato che non era stato possibile mandare Oscar in un collegio appena lasciata la balia, così come era stato fatto per le sue sorelle prima di lei, e come sarebbe stato fatto se fosse stata un maschio. Per perseguire i propositi del generale non la si poteva certo mandare dalle suore, come le ragazze, e neanche in un collegio maschile. Per questo il generale aveva deciso di occuparsi personalmente della sua istruzione e del suo addestramento, ingaggiando i migliori istitutori e i migliori maestri d’armi. In questo modo però Oscar non avrebbe avuto modo di frequentare suoi coetanei, come invece sarebbe stato in collegio. Per cui, quando il generale aveva saputo di lui, aveva deciso di farlo diventare la compagnia maschile di cui Oscar aveva bisogno per crescere come lui voleva.

Questa storia così complicata lo aveva lasciato ancora più confuso e silenzioso, quando la nonna aveva deciso di portarlo finalmente a cena. Aveva passato così tutta la sera a cercare di mettere ordine in tutte quelle informazioni e dargli un senso, mentre, seduto sulla panca della lunga e stretta sala da pranzo della servitù attigua alla cucina, masticava pensoso il suo stufato di coniglio con le patate, dondolando i piedi.

“Che bambino buono!” Aveva esclamato Agnes, la cuoca, rivolgendosi alla nonna, che mangiava al suo fianco e aveva risposto solo con un sorriso compiaciuto. Lui aveva guardato l’una e l’altra continuando a masticare senza dire nulla, ma pensando che lui non era buono, era solo impegnato! Impegnato a riassumere tutto quanto gli era stato raccontato in pochi concetti chiari.

Tutto questo sforzo di sintesi, durante quella cena e nei giorni successivi, lo aveva portato a concludere che:

  • Oscar era una femmina;
  • il generale voleva un maschio;
  • il generale aveva deciso di fare diventare Oscar un maschio;
  • per far diventare una femmina un maschio non la si poteva mettere con delle altre femmine, ma neanche con tanti maschi;
  • per fare diventare una femmina un maschio, secondo il generale, bisognava tenerla da sola, dirle tutti i giorni che era un maschio e per imparare come comportarsi da maschio, … comprarle un maschio!

Questa era la conclusione cui era arrivato: il generale aveva comprato a Oscar lui, così come all’età di quattro anni, per farla diventare un ottimo cavaliere, le aveva comprato un bellissimo pony bianco con la criniera argentata.

Il pony di Oscar lo aveva potuto ammirare già il pomeriggio del primo giorno, quando dopo pranzo erano stati portati entrambi in un grande recinto vicino alle scuderie per la lezione di equitazione. La prima per lui, sicuramente non la prima per Oscar, che, dopo essere stata aiutata a salire in groppa da Jean-Luc, il vecchio stalliere, aveva cominciato a portare la sua cavalcatura prima al passo e poi al trotto, battendo con naturalezza la sella, e guidandola lungo il perimetro del recinto. Lui era rimasto imbambolato a guardarla fino a quando Jean-Luc, gli si era avvicinato e gli aveva detto “E questo è per te!”, indicando un altro pony già sellato e imbrigliato.

“È un Connemara, un morello come puoi vedere. È un po’ più alto e robusto del Welsh del signorino Oscar, ma anche tu sei più alto, no?”

Glielo aveva detto dandogli una pacca sulla spalla e sogghignando sotto i baffi, probabilmente a causa del sorriso ebete che gli correva da un orecchio all’altro.

“Il Generale lo ha scelto per te. È una bestia dal cuore d’oro, generosa e sincera. Non potresti cominciare a cavalcare su un animale migliore.” aveva continuato mentre lo aiutava a salire, sostenendo con le sue grandi mani la sua gamba sinistra avvolta negli stivali nuovi.

Era talmente entusiasta e motivato da quella novità, che nel giro di una settimana aveva imparato a cavalcare a tutte le andature, non era certo aggraziato come Oscar, ma in compenso aveva imparato a strigliare e sellare il suo pony da solo anche se con il rialzo di un panchetto. Questo Oscar non lo sapeva fare, ma d’altra parte nessuno si sarebbe aspettato che Oscar si attardasse nelle scuderie a farsi istruire da Jean-Luc. Al contrario, se ne rendeva conto, probabilmente tutti si aspettavano che, prima o poi, lui avrebbe dovuto strigliare e sellare non solo il suo cavallo, ma anche quello di Oscar.

Il generale aveva comprato, per fare di Oscar un uomo, un pony, un maschietto e un altro pony per il maschietto, e questo maschietto avrebbe dovuto occuparsi del pony di entrambi.

In realtà l’essere stato ‘acquisito’ non gli dà particolarmente fastidio, a prescindere dal fatto che la nonna gli dica sempre che deve essere grato, sa benissimo da solo che a un ragazzo o a un bambino può capitare una sorte orribile: lo ha visto capitare al villaggio, in città e se lo è sentito raccontare dai ragazzi all’orfanotrofio. Anche Annette, che fa la sguattera a palazzo, ha una vita di gran lunga più invidiabile delle lavoranti di Madame Durier. Si rende conto che essere allevato un quel luogo e ricevere un’istruzione di prim’ordine è molto più di quello a cui un bambino come lui possa aspirare.

Quello che gli dà veramente fastidio è … Oscar! E non perché è una femmina, benchè non riesca a smettere di pensare quanto quella situazione sia incredibile. Non ha mai avuto molto a che spartire con delle bambine in vita sua, ma non ha mai avuto problemi con le sorelle e sorelline dei suoi amici al villaggio. Non facevano gli stessi giochi, ma erano sempre carine e simpatiche con lui. Oscar invece… è insopportabile! E non perché è una femmina, è insopportabile perché a mala pena gli parla, oltre a non perde mai occasione di colpirlo e ridere di lui.

La prima volta è successo la mattina del primo giorno, stava scendendo per andare a fare colazione quando aveva sentito un rumore alle sue spalle, non aveva fatto neanche in tempo a girarsi per capire chi fosse, che lei gli era saltata addosso facendolo cadere in avanti e facendogli sbattere il mento a terra (1). Quando lui si era girato, lei era già scattata in piedi, e lo guardava ridacchiando, coprendosi la bocca con una mano, mentre lui portava la sua mano al mento sanguinante. Non aveva fatto in tempo a dirle niente che lei era subito corsa via e lui era rimasto lì a terra incredulo, ascoltando la sua risata che si allontanava. La mattina poi a lezione si era comportata come se nulla fosse successo, rimanendo seria e impettita, come sempre, davanti al precettore. Era sempre così, non erano quasi mai soli, davanti alla nonna, al precettore, alle cameriere, allo stalliere, al maestro d’armi, Oscar era il perfetto soldatino disciplinato che aveva visto la prima volta nello studio del generale. Appena rimanevano un attimo soli, le compariva quel mezzo sorriso sulla faccia e a lui arrivava un pugno sulla spalla, o un calcio, o una spinta. Le poche volte che lui aveva provato a dirle qualcosa, lei aveva distolto lo sguardo ridendo ed era scappata via.

Oscar è una femmina! Una bambina insopportabile!

Questo continua a pensare adesso, mentre Monsiuer Douffort sta illustrando le diverse declinazioni.

Si è girato verso di lei e osserva il suo profilo serio e intento nel seguire quello che il precettore sta scrivendo sulla lavagna dando loro le spalle.

Oscar deve essersi accorta di qualcosa, perché ora si è girata verso di lui e lo sta fissando con un’espressione interrogativa, poi all’improvviso sul suo viso compare quel mezzo sorriso, che ha imparato a conoscere e sa non promettere niente di buono, e all’improvviso gli arriva una spallata. La sua sedia si sbilancia sul lato e lui finisce sul pavimento di legno con un tonfo e un urlo.

Monsiuer Douffort si gira di scatto e tuona: “Cosa sta succedendo?!”

Andrè è a terra e si massaggia la spalla dolorante per l’impatto con il pavimento. Monsiuer Douffort gli si avvicina a grandi passi, lo afferra per un braccio e lo costringe ad alzarli senza troppi complimenti.

“Mi ero accorto che non stavi prestando alcuna attenzione, ma avevo deciso di lasciar perdere, perché non ci si può certo aspettare un comportamento perfetto da un bambino come te, ma questo è veramente troppo! Stendi la mano davanti a te.”

“No!”, grida Oscar, mentre Andrè aspetta con il braccio teso e la mano aperta con il palmo girato verso l’alto.

“Non intervenite Signorino Oscar, bisogna che questo ragazzo impari un po’ di disciplina per il suo bene, così che impari a essere grato del grande onore che gli viene fatto.”

La sua bacchetta fende l’aria e colpisce con violenza il suo palmo, una, due, tre volte.

“Dopo questo increscioso evento, direi che possiamo considerare conclusa la nostra lezione per oggi.”

Monsiuer Douffort è uscito dalla stanza. Andrè lancia una veloce occhiata a Oscar che è ancora ferma sulla sua sedia con gli occhi sbarrati, poi stringe il pugno, gira sui tacchi e si dirige verso la porta, mentre sente le lacrime che premono e non vuole farsi vedere da Oscar. Non gli sta venendo da piangere per le bacchettate, a quelle bene o male si è abituato in orfanotrofio, sono lacrime di rabbia. È colpa sua quello che è successo, è arrabbiato con lei, non la sopporta più!

“No! Non te ne puoi andare!”, grida lei.

Ha appena superato la soglia quando si sente trattenere per la manica della camicia. Oscar è saltata giù della sedia, ha corso per raggiungerlo e lo ha afferrato.

Lui si gira e la fissa, è furioso. Anche lei ha aggrottato la fronte adesso, ma la sua espressione non è altrettanto sicura, con gli angoli della bocca rivolti in basso mentre si morde il labbro inferiore.

“Io non volevo… tu non puoi…”

“Io non posso?! Io non posso andare? Perché? Perché sennò mi dai un'altra spinta?”, libera il braccio dalla sua stretta con violenza, spingendola indietro e facendola cadere a terra.

“Si può sapere cosa sta succedendo? … Andrè!”

La nonna è accorsa, allarmata dai colpi e dalle grida. Vedendo Oscar a terra, le si avvicina per aiutarla a rialzarsi.

“Andrè, cosa ti è saltato in mente! Chiedi subito scusa a Madamigella Oscar!”

“No! È stata tutta sua la colpa!” risponde secco lui guardando la nonna china su Oscar.

“Io non… tu non… non è così… Io volevo… Mio Padre ha detto che tu saresti stato mio…” non riesce a finire una frase, non sembra più tanto sicura adesso; forse è anche lei sul punto di piangere adesso, per la rabbia, forse.

“Andrè, vieni subito qui e chiedi scusa per il tuo comportamento a Madamigella Oscar, ho detto!”

“No! Io non chiedo scusa, non ho colpa. Io non sono suo… non importa cosa ha detto il generale. Lei ha tutto e a te importa solo di lei… lei ha tutto, ha anche la mia nonna. … ma io non sono suo…” grida lui tutto d’un fiato, oramai le lacrime hanno traboccato. Si gira e corre via, mentre la nonna gli urla di tornare subito indietro.

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Non c’è niente per me in questo posto, a nessuno importa di me.

Questo pensiero di forma chiaro nella sua testolina mentre si gira per l’ennesima volta nel letto. È tardi oramai, ma lui non riesce a dormire, è ancora troppo arrabbiato.

Dopo essere corso via e si è rintanato in camera sua, saltando sul letto a colpendo il cuscino per sfogare tutta la rabbia fino a che le lacrime non hanno smesso di scendere e si è gettato esausto a pancia sotto sul materasso.

È passato un po’ di tempo prima che la nonna arrivasse, sicuramente si sarà occupata prima di Oscar. L’avrà accompagnata nei suoi appartamenti, l’avrà consolata e coccolata, le avrà sicuramente anche fatto portare una tazza di cioccolata per farla contenta, anche se non hanno ancora pranzato!

Quando alla fine era arrivata, aveva l’aria estremamente seria, si era chiusa la porta alle spalle e lo aveva sgridato, esattamente come si aspettava. Non gli aveva chiesto nessuna spiegazione su quello che era successo: Oscar era per terra e lui aveva urlato, la colpa era sua e avrebbe dovuto chiedere scusa a Oscar e basta. Per fortuna il Generale era via e sarebbe tornato solo il giorno successivo, altrimenti Dio solo sa che punizione gli sarebbe toccata! Invece così sarebbe rimasto chiuso nella sua stanza senza mangiare tutto il giorno, per pentirsi del suo comportamento, e l’indomani mattina avrebbe chiesto scusa a Oscar. Lei, che era una bambina buona, lo avrebbe sicuramente perdonato, così sperava che le cose sarebbero andate a posto.

Così era rimasto tutto il giorno nella sua stanza saltando il pranzo e la merenda, rannicchiato sul suo letto con le guance rigate dalle lacrime asciugate, ma non si era per niente pentito.

Non si era pentito neanche quando la nonna era tornata dopo il tramonto, portando un vassoio con qualcosa da mangiare, che aveva posato sul comodino. Mentre lo aiutava a spogliarsi e a infilarsi la camicia da notte, aveva visto che la sua espressione era più triste che arrabbiata, ma gli aveva ripetuto che la mattina successiva lo avrebbe portato da Oscar subito dopo colazione perché le chiedesse scusa. Glielo aveva detto mentre lui sbocconcellava una mela, seduto sul letto con lo sguardo rivolto a terra. Lui non aveva detto nulla, allora la nonna gli si era seduta accanto e accarezzandogli i capelli aveva cominciato a parlare con voce calma.

“Andrè, io capisco che tu abbia nostalgia e che per te questa situazione sia strana, ma questa è una grande occasione per te!”, aveva sospirato, “Oscar è una buona bambina, ma è tanto sola. Non ha mai avuto nessun bambino con cui giocare, per cui forse non sa bene come comportarsi con te, ma era tanto contenta quando ha saputo che saresti arrivato. Cerca di essere paziente con lei e vedrai che andrete d’accordo.”

Oscar, Oscar, sempre Oscar. Alla nonna non importa niente di me, solo di Oscar!” aveva pensato lui senza risponderle, mentre gli rimboccava le coperte e gli dava un bacio sulla fronte, augurandogli la buona notte prima di lasciarlo solo.

Certo che Oscar era contenta, non vedeva l’ora di avere un nuovo giocattolo!

“Non c’è niente per me in questo posto.” Lo ripete a voce alta mettendosi a sedere e scostando le lenzuola. Guarda i primi bagliori che compaiono all’orizzonte attraverso la finestra aperta mentre salta giù dal letto. Si sfila la camicia da notte e la getta via, prende il cuscino e lo estrae dalla federa. In un angolo in fondo all’armadio prende i suoi vecchi vestiti, quelli che aveva quando è arrivato, non vuole niente che appartenga a quel luogo. Vuole dimenticare il palazzo, Oscar e … sì, anche la nonna, tanto lei interessa solo di Oscar ormai.

Indossa camicia e pantaloni, e si infila gli scarponcini che teneva sotto il letto. Infila tutto il resto nella federa, tiene fuori solo la giacca. Prende il tovagliolo che copre il vassoio sul comodino, lo stende sul letto e lo riempie con tutto il cibo che gli aveva portato la nonna la sera prima per cena, è un sacco di roba! Gli basterà fino a sera, se non addirittura fino a domani. Annoda i capi del fazzoletto a due a due, e infila il fagotto nella federa.

Si infila infine la giacca, di cui saggia l’interno delle tasche. Ritrova così tutte le toppe ricolme che ci ha cucito la mamma quando stava male, mostrandogli cosa ci avrebbe trovato: nella fodera della tasca destra le fedi dei suoi genitori, il suo anello di fidanzamento con un piccolo smeraldo verde (2), e un medaglione d’argento (3) al cui interno sa esserci i suoi capelli intrecciati a quelli dei genitori; a sinistra tre sacchettini con cinque lire di Tours e dieci soldi. La mamma gli ha spiegato bene che le lire di Tours valgono più di quelle di Parigi, che venti soldi fanno una lira, con cinque soldi può pagare un pasto con pane e carne in un’osteria o comprare una libbra di carne, mentre due soldi bastano per una libbra di pane (4). Mentre ripete mentalmente la lezione della mamma, si butta la federa a modi sacco su una spalla e si dirige verso la porta.

“Farò il garzone per un falegname!” esclama come se avesse ricevuto un’illuminazione, mentre dondola seguendo l’andatura della cavalcatura in mezzo alla boscaglia. In fondo sono sei mesi che tutti gli dicono che è diventato grande e deve comportarsi di conseguenza, e suo padre gli aveva detto che, appena fosse stato abbastanza grande, lo avrebbe preso a bottega.

Non ha incontrato nessuno lungo il percorso dalla camera alle stalle, tutti dormivano ancora. Come gli ha insegnato Jean-Luc, ha sellato e imbrigliato Golia, aiutandosi con il rialzo di uno sgabello, è salito in groppa e si è diretto lontano dal palazzo. È ancora convinto di non volere nulla che abbia a che fare con Oscar, e certo non è un ladro! Golia gli serve solo per allontanarsi il più possibile da quel luogo prima di procedere a piedi, sa bene che altrimenti lo ritroverebbero troppo facilmente. Quando sarà abbastanza lontano, lo lascerà andare e lui tornerà alla sua stalla.

Sono diverse ore che sta cavalcando e il sole è ormai alto nel cielo, la luce brillante filtra tra le foglie degli alberi che si vanno mano a mano diradando. Ha raggiunto un’ampia radura e poco lontano vede un grande albero che lambisce le sponde di un laghetto, la cui riva è punteggiata da bassi cespugli. È lontano dal palazzo e da un po’ lo stomaco ha cominciato a brontolare, può permettersi di fermarsi per un po’ e fare colazione, d’altra parte non ha mangiato nulla dalla mattina del giorno prima, fatta eccezione per la mela smangiucchiata in compagnia della nonna.

Raggiunto il laghetto, scende da Golia e lo lega per le briglie ai rami di un arbusto, quindi si siede all’ombra dell’albero, si toglie gli stivaletti e poggia i piedi nudi sull’erba fresca; sorride, si sente libero ed euforico. Tira fuori dalla federa il tovagliolo annodato, lo stende sull’erba e si sofferma un attimo per decidere cosa mangiare delle sue provviste.

Sta per addentare un pezzo di focaccia quando sente un rumore alle sue spalle: un legnetto che si rompe come se qualcuno lo avesse calpestato. Rimane incredulo con gli occhi sbarrati e la bocca spalcata quando, girandosi, vede chi ha causato quel rumore.

Oscar è sbucata dai cespugli! Deve essersi vestita da sola, perché ha ancora addosso la camicia da notte, che ha infilato alla bene e meglio nei pantaloni e uno degli stivali è parzialmente arricciato sulla caviglia. La manina è appesa alla lunga criniera argentata di Julius, che non ha né briglie né sella.

“Non ci sono riuscita…” dice con un filo di voce. Deve essersi accorta che lo sguardo di Andrè è passato da lei al pony.

“Cosa ci fai qui? Vattene!”

È saltato in piedi e si è allontanato da lei, fino a finire con i piedi in acqua.

“Io voglio andare via, non ti voglio più vedere!”

Lei ha lasciato andare la criniera e gli è corsa incontro.

“Mi ero alzata… non riuscivo a dormire … ti ho visto andare via… io non voglio che tu vada via!”

Ha allungato una mano verso di lui, ha la fronte corrugata e la voce un po’ tremante. Lui si è allontanato ancora, adesso l’acqua gli arriva alle ginocchia.

“Per continuare a farmi dispetti? Non m’importa nulla di quello che vuoi! Vai via!”

“Io non volevo che ti picchiasse… io sono contenta che anche tu stai a palazzo…”

Anche lei adesso ha raggiunto la riva, ma si è bloccata e guarda titubante l’acqua che lambisce le punte dei suoi stivali.

“Io invece non sono contento!... Cosa c’è Oscar, hai paura dell’acqua?... Cosa direbbe tuo padre se lo sapesse?” sa di averla punta sul vivo. Lo ha fatto apposta.

“Io non ho paura!” risponde con tono deciso, alzando la testa di scatto con lo sguardo scuro e la fronte aggrottata. Adesso avanza verso di lui a grandi passi e l’acqua le sta inghiottendo le gambe.

Lui si gira, le dà spalle e si allontana ancora. L’acqua adesso gli arriva alle spalle.

“Mio Padre ha detto che tu saresti stato mio…”

“Io non sono tuo! La mia nonna è già tua, non ti basta?... E non importa cosa dice tuo padre.” urla, adesso è veramente arrabbiato. Di nuovo.

Niente, nessuna risposta. Gli pare strano che non risponda, che non gli urli ancora che è suo e quindi deve restare. Dopo un attimo d’indecisione, si gira aspettandosi ti vederla infuriata sulla riva. Niente, … nessuna Oscar!

Dov’è finita? Deve essere scivolata con gli stivali sulle pietre limacciose.

“Oh, porc….”

La rabbia è defluita tutta in una volta, adesso è solo spaventato. Arrancando nell’acqua cerca di correre indietro verso la riva. Improvvisamente vede la testa bionda di lei riaffiorare dal pelo dell’acqua e altrettanto improvvisamente riaffondare, lasciando una scia di bolle.

“Andr….”

Deve essere scivolata di nuovo. Arrivato nel punto in cui l’ha vista affiorare si guarda intorno, attraverso la superficie dell’acqua, resa torbida dalla fanghiglia alzata dai loro movimenti. Quando finalmente la intravede, si abbassa e cerca di afferrarla, ma è finita in una buca, non ci arriva. Allora inala una grande boccata d’aria e s’immerge per raggiungerla (5).

Respira, ansima, fa una gran fatica a riempire nuovamente i polmoni d’aria sdraiato sul fianco sinistro sull’erba fresca della riva. Oscar ha appeno smesso ti tossire, anche lei ha il respiro grosso mentre se ne sta rannicchiata, con la mano ancora aggrappata alla sua camicia.

Ha faticato a portarla a riva, lei era pesante e si agitava talmente tanto da trascinare anche lui verso il fondo. Alla fine però ci è riuscito, ha riguadagnato il fondo basso e l’ha tirata fuori.

“Sei matta? Cosa credevi di fare?” si è alzato su un gomito.

La mano di lei è ancora stretta alla sua camicia e, ancora rannicchiata, nasconde lo sguardo.

“Non voglio che vai via… Mio padre ha detto che saresti stato mio…”

“Come te lo devo dire, io non sono…”

“… amico. Io non ho mai avuto un amico.”

Quella parola e la voce incerta di lei lo hanno bloccato.

“Hai detto che ti ho fatto dei dispetti. … scusa io non volevo. Io non sono mai stata con degli altri bambini. La tua nonna e le cameriere sono gentili con me, fanno quello che chiedo, ma lo so che è perché lavorano per mio Padre.”

Continua a parlare guardando in basso, ma la voce si sente un po’ meglio.

“Io non ho mai avuto un amico, ma se tu non vuoi essere mio amico… se vuoi… io posso essere tua… amica. Non so come si fa, ma se tu me lo spieghi farò meglio. Se me lo spieghi…”

Ha girato un pochino la testa e adesso lo sta guardando negli occhi di sbieco.

“… io imparo.”

Lo guarda ancora, la sua espressione è come sospesa in una muta domanda.

Lui non risponde nulla, stacca molto delicatamente la sua manina dalla sua camicia, si alza e si incammina verso l’albero, dove ha lasciato le sue cose.

Lei si alzata a sedere e lo guarda allontanarsi.

“Tieni!”

È tornato ed è in piedi davanti a lei. Ha preso il pezzo di torta che aveva nel fazzoletto, lo ha diviso in due e gliene sta porgendo una metà. Lei lo guarda prima negli occhi, poi con la stessa aria interrogativa guarda la sua mano tesa. Allunga lentamente la sua manina fino a prendere il pezzo di torta. Lo guarda di nuovo negli occhi, sorride e inghiotte la sua porzione in un solo boccone. Sorridono ancora i suoi occhi mentre continua a guardarlo masticando con le guance gonfie. Anche lui sorride adesso mangiando il suo pezzo di torta.

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Sono appena sbucati nello spiazzo sul retro del palazzo da un sentiero tra gli alberi. Alla fine sono tornati insieme, Andrè l’ha aiutata a risalire in groppa a Julius e lui è salito sul suo Golia sfruttando il rialzo di una roccia. Hanno riso e scherzato portando i pony al passo lungo la via di ritorno, hanno mangiucchiato il resto delle provviste. Adesso che sono arrivati il sole è alto nel cielo, deve essere passato mezzogiorno.

Scendono entrambi da cavallo, in lontananza vedono che c’è un gran movimento tra la servitù, che sembra correre avanti e indietro, dentro e fuori dal palazzo. È strano! Dovrebbero essere quasi tutti dentro, essendo ora di pranzo, chi a mangiare, chi a rassettare le camere e la cucina.

Mentre si avvicinano, è Jean-Luc il primo a vederli e a corrergli incontro.

“Oh, grazie a Dio siete tornati! Signorino Oscar! Eravamo tutti così preoccupati, è tutta la mattina che vi stiamo cercando!”

Prende i loro cavalli e si gira urlando.

“Signora Marie! Sono qui, sono tornati!”

Oscar ha afferrato la sua mano, insieme avanzano verso l’ingresso della cucina. Vedono la nonna che corre loro incontro.

“Oh, mio Dio! Dove eravate finiti? Voi volete farmi morire!”

Oramai li ha raggiunti ed è quasi ferma di fronte a loro.

“Oh, signore! Mah… come siete conciati?!”

Sentendo quelle parole si gira e guarda Oscar. In effetti, oltre ad essere ancora in camicia da notte, è tutta coperta di macchie di erba e terra e sulla destra i suo capelli e il suo viso sono impiastricciati di fango. Probabilmente lui è conciato nello stesso modo.

“Si può sapere dove eravate finiti?”.

È Oscar che risponde.

“Siamo andati a fare il bagno al lago!”

“Un… un bagno al lago? Mah, sentila lei…”

La nonna si è insinuata in mezzo a loro, li ha afferrati saldamente sotto il braccio e li sta trascinando velocemente verso le cucine.

“Una gita al lago! Vedrete quando il Generale tornerà e saprà cosa avete combinato!” borbotta prima di urlare “Annette! Prepara il bagno!”

Quando varcano la soglia delle cucine Annette sta già aspettando a fianco del catino pieno d’acqua. La nonna lascia un attimo Oscar per raggiungerlo, gli sfila giacca, scarpe e pantaloni, gettandoli vicini al camino e lo consegna alla giovane sguattera, che lo aiuta a entrare in acqua con tutta la camicia. Marie si dirige quindi verso Oscar, la afferra per il braccio e fa per portarla in camera.

Lei lancia uno sguardo verso il bambino, poi s’impunta e libera il braccio con uno strattone.

“No!” grida “io voglio fare il bagno qui con Andrè!”

“Oh, signorina! Dopo quello che hai fatto questa mattina, non è proprio il caso di fare altri capricci!”

La nonna sta per afferrarla di nuovo per il braccio, ma gli occhi di Oscar si sono fatti lucidi e il suo labbro inferiore ha preso a tremare.

“Oh, bambina…” la nonna si è fermata e la voce suona quasi commossa.

La mossa di Oscar è fulminea, si sfila gli stivali e i pantaloni e si lancia di corsa nel catino sotto lo sguardo attonito della nonna.

Saltando in acqua la bimba scivola, finendo con la testa sotto e facendo riversare un’ondata a terra. Riemerge tirando indietro i capelli e ride guardando il moretto.

“Bravi! Ci penserà il Generale a rimettervi in riga quando saprà cosa avete combinato!” brontola la nonna mentre nella cucina risuonano le risa dei due bambini.

<-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+->

In fondo non è colpa di Oscar se è strana. È la figlia del generale, e il generale è molto strano!

Il generale era tornato nel pomeriggio, tutto in casa era tornato alla normalità. Lui e Oscar si erano trovati, come il giorno del suo arrivo, in piedi al centro del grande tappeto nello studio, mentre la nonna, che li aveva accompagnati, faceva un attento resoconto di quanto avvenuto con aria grave. Il generale aveva ascoltato con la solita aria severa, ma quando la nonna aveva cominciato a profondersi in scuse, si era lasciato andare a una sonora risata!

“Vedi Marie! Ho avuto ragione a voler mettere tuo nipote a fianco di Oscar. È già impavido come si addice a un valoroso soldato! Bisognerà lavorare ancora un po’ sulla disciplina, ma che mio figlio abbia cercato di partire per il suo grand tour a soli cinque anni va al di la delle mie più rosee aspettative!”

Il generale non aveva comminato loro alcuna punizione, peccato che invece la nonna non fosse stata dello stesso avviso!

Il sole è tramontato e lui è sdraiato prono sul suo letto, dopo che la nonna ha spedito Oscar nei suoi appartamenti e lui a letto senza cena dopo una sonora sculacciata.

Guarda il cielo fuori dalla finestra con la testa appoggiata sul cuscino mentre si massaggia una natica dolorante, quando sente la porta cigolare e il rumore sordo di piedi scalzi sul legno. Quando si gira, la porta si è già richiusa e Oscar è ferma in camicia da notte, tiene le manine unite davanti a sé e regge un tovagliolo bianco a formare un fagotto.

“Cosa ci fai qui?” domanda lui sorpreso, mettendosi in ginocchio sul letto.

“Ho portato questo, pensavo avessi fame!” risponde lei allungando le braccia a mostrargli quello che ha in mano.

Fissa il pacchetto ora, poi batte due volte la mano sul materasso per dirle di raggiungerlo e arretra un po’ per farle spazio. La biondina non aspetta altro, corre verso il letto, gli allunga il tovagliolo rigonfio, si arrampica sul materasso e s’inginocchia di fronte a lui.

Il tovagliolo bianco aperto sul letto rivela ora il suo contenuto: tanti biscotti alle mandorle e delle sfere lucide e arancioni che sembrano gioielli.

“E questi cosa sono? Mai visto niente di simile. Si mangiano?”

“Sono mandarini canditi (6)! Ho preso tutto nello studio di mio padre, ne riempiono sempre due ciotole sul tavolino, ma lui non mangia mai dolci.”

“Mandarini canditi…”

Lo ripete come per memorizzarlo, mentre s’infila in bocca fissandolo uno di quei dolci gioielli.

“Buono! Ma credo di preferire i biscotti.” dice mentre se ne infila in bocca due.

Sta ancora masticando quando vede comparire un sorriso furbetto sulla faccia di lei e gli arriva un deciso pugno sulla spalla.

“Ahia! Sei troppo manesca!” risponde lui sorridendo, sputacchiando briciole e tirandola giù sul materasso.

“Grazie!” le dice dopo un attimo, allungando la mano verso di lei.

“Prego” gli risponde mettendo la sua manina nella sua.

In silenzio continua a sgranocchiare biscotti, fino a quando si accorge che Oscar ha chiuso gli occhi, si sta addormentando.

“Oscar, svegliati, non puoi dormire qui, la nonna ci punirà di nuovo!”

Ma lei è già addormentata, la voce ha solo l’effetto di farla sbadigliare mentre si infila la mano libera sotto la guancia e avvicina l’altra stretta alla sua, fino a che le dita di lui non sfiorano la pelle morbida sulle palpebre.

Si lascia andare anche lui sul cuscino, le palpebre sono pesanti e la possibile punizione della nonna non gli fa poi tanta paura mentre gli occhi si chiudono e scivola nel sonno. Oscar ha un profumo così buono, sa di latte, la sua pelle è così liscia sotto le dita, ed è così calda la piccola mano bianca che stringe la sua.




Nelle acque della purezza, mi sono sciolto come sale

Né eresia, né fede, né convinzione, né dubbio sono rimasti.

Al centro del mio cuore è apparsa una stella

E tutti i sette cieli si sono persi in essa.

Mewlana Jalaluddin Rumi

NOTE:

(1) Mi servivano un po’ di questi aneddoti dell’insopportabile piccola Oscar e non ho potuto fare a meno di prendere in prestito questo da “Perduto per sempre” di Hipopo http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=660816&i=1

(2) Omage a “Il mio Andrè” di Mina7Z http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=976609&i=1

(3) Omage a “La villeggiatura” di Macchia Argentata http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=688360&i=1

(4) Guida pettegola al Settecento Francese, F.S.Bosi, ed. Sellerio

(5) Evento a cui si fa riferimento nell’episodio “La scelta”

(6) Ne “La donna del XVIII secolo” dei fratelli Goncourt, pare che il massimo della golosità da regalare ai bambini all’epoca fossero le arance. Usanza innegabilmente molto sana! Però per renderlo un po’ più goloso all’occhio contemporaneo ho pensato a questa soluzione.

Angolo dell’autore:

Onore agli eroi che sono arrivati in fondo a questo interminabile capitolo! Spero non sia stato un supplizio e che le scelte stilistiche fatte, per il POV del piccolo Andrè (tono Naif e frammentarioe inizio un po’ “Senza famiglia”) e il mantenimento di strutture “ad anello”, non siano risultate troppo forzate.

Per il POV ho principalmente cercato di semplificare e schematizzare, ma purtroppo mi rendo conto di non essere Frank McCourt.

Grazie a chiunque abbia impiegato sul tempo per leggere e chi vorrà recensire.

Sabre

I MIEI DISEGNI: SABREdeviant

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Capitolo 2
*** Anello 2: Crescere ***


Premessa dell’autore
Prima di tutto ringrazio chi ha dedicato il tempo a recensire e chi ha inserito la storia nelle preferite/seguite/da ricordare. Mi scuso tanto per i lunghi tempi di pubblicazione, ma purtroppo, il tempo disponibile è poco e il mio modo di scrivere parecchio anarchico (e questo capitolo non ha la dolcezza dell’altro per cui scriverlo non è stato altrettanto rasserenante). Il capitolo come al solito è piuttosto lungo… armatevi di pazienza.

Anello 2: Crescere


Sono immersa
nel flusso
di ciò che ancora deve essere

Sono incatenata
nella prigione
che deve ancora esistere

Senza aver ancora giocato
la partita
sono già in scacco

Senza aver ancora assaggiato
una sola coppa del tuo vino
sono già ubriaca

Senza essere ancora arrivata
sul campo di battaglia
sono già ferita e uccisa

Non più
conosco la differenza
tra apparenza e realtà

Come l’ombra
sono
e
non sono.


Mewlana Jalaluddin Rumi




Mercoledì 18 Aprile 1770 (*), Palazzo Jarjayes

Il verde degli occhi di André che la fissano, la accoglie come ogni giorno all’ingresso dell’orangerie. La luce di una splendida mattina di primavera, libera di fluire attraverso le grandi vetrate intervallate da candide colonne, inonda l’ambiente, facendo risplendere come gioielli le foglie degli aranci e dei limoni che troneggiano in grandi vasi.
Tra qualche settimana le vetrate verranno spalancate e le piante cominceranno a fiorire, e il profumo degli agrumi renderà quasi magica l’atmosfera di questa stanza. Come la prima volta che ci è entrata con André: erano i primi di Luglio, lui era arrivato da poche settimane, loro erano diventati inseparabili da pochi giorni e, durante una delle loro esplorazioni, erano approdati in quel luogo. Lui era rimasto senza parole, si era guardato intorno stupito, prima di girarsi verso di lei, con un sorriso radioso, a tenderle la mano. Così lei aveva visto per la prima volta lo splendore di quel luogo, attraverso gli occhi di André, che erano verdi come i frutti acerbi che cominciavano a fare capolino tra le foglie brillanti e i fiori candidi.
Erano luminosi e sorridenti i suoi occhi, esattamente come questa mattina, che la salutano da sotto in su, mentre lui si esibisce in un profondo inchino con la mano destra al petto e il braccio sinistro teso.
“Buongiorno Madamigella Oscar. Spero Vossignoria abbia riposato bene!”
Lei ride, avviandosi verso il tavolo in ghisa a volute, vicino alla parete vetrata.
André si alza e la segue.
“Benissimo, grazie, Grandier!”
Ha deciso di assecondarlo in questo gioco e ride ancora, di una risata chiara e argentina, mentre si appresta a scostare la sedia per poi accomodarsi, quando lui la anticipa.
“Per carità Madamigella, lasciate fare a me, il vostro umile servitore.”
Sorride ancora André mentre scosta la sedia e la invita a sedersi con un gesto enfatico della mano.
Lei si accomoda mentre lui accosta la sedia al tavolo e prima che possa allungare il braccio per prendere il tovagliolo, lui ancora la previene e, dopo averlo spiegato, glielo adagia in grembo.
“Va bene André, molto divertente, ma non esageriamo con questo gioco.”
“Ma come Madamigella! Non sono forse perfetto? Non sono forse diventato il vostro perfetto servitore?”
Esclama lui con un’espressione indecifrabile, tra lo stupito e l’offeso.
Lei sta cercando di capire il perché di questo strano scherzo, proprio questa mattina, e lo scruta con gli occhi a fessura e arricciando le labbra in un broncetto.
“Ci deve essere lo zampino di tua nonna in tutto questo. Ha forse rinunciato alla sua anima immortale e ti ha fatto un incantesimo?”
Lo prende in giro.
“… o ha minacciato di strapparti le orecchie questa volta?”
“Fortunatamente alle mie orecchie non ci arriva più da un po’… ma ha minacciato di farmela pagare se non mi comportavo a dovere in questi giorni… ed era estremamente seria!”
“E non lo è sempre forse? Ma lo sa anche lei che mi mette a disagio… per favore André siediti e fai colazione con me.”
Sorride lei, serenamente, e con la mano tesa gli indica la sedia di fronte.
André sospira in maniera teatrale lasciandosi cadere a sedere.
“Ai vostri ordini Madamigella, sfiderò le ire di mia nonna per voi.”
Non riesce a trattenere una risata mentre si aggiusta anche lui il tovagliolo sulle ginocchia.
“Questa volta potrebbe anche decidere di avvelenarmi la cena temo…”
Alza la testa e fa un cenno verso la cameriera in abito blu all’ingresso della sala, che si avvicina reggendo un vassoio d’argento, ingombro di ceramiche bianche a decori blu e oro.
“Vorrà dire che dovrò proprio accorrere in tuo soccorso!”, lo asseconda, “Non capisco però come mai tanta solerzia proprio questa mattina.”
La cameriera ha appoggiato il vassoio sul tavolo e versato nella tazza un denso liquido scuro. Lei ne inala l’aroma con un’espressione compiaciuta.
“Mi spiace dover rovinare il quotidiano idillio dei sensi tra te e la tua cioccolata, Oscar, ma… ”, adesso è lui che ha un’espressione compiaciuta, “… mi pare d’intendere che ti sia dimenticata del grande evento!”
Gli occhi di lei improvvisamente si spalancano, mentre ha le labbra già appoggiate al bordo della tazza, che abbassa velocemente sul piattino.
“Oh, mio Dio! È oggi?”
“Eh, sì mia cara. Oggi arrivano il Conte e la Contessa di Clermont: la tua cara sorella e il suo augusto marito!”
Ora è lui che si porta alle labbra la tazza, che è appena stata riempita, e si rivolge alla cameriera sorridendo gentile “Grazie Sandrine, ora qui ci penso io, puoi andare.”
Sandrine gli risponde con un timido sorriso di rimando, fa una veloce riverenza a Oscar e si allontana.
Lei adesso ha un’aria sconsolata mentre sbocconcella un biscotto.
“Oh, lo avevo completamente rimosso… mi toccherà sopportare le facezie di mia sorella e il suo sciocco marito per tutta la sera … senza considerare che le loro chiacchiere metteranno mio Padre di pessimo umore.”
“Oscar! Il Conte di Clermont fa parte della nobiltà di sangue! Potresti quasi essere accusata di tradimento per una simile affermazione.”
Ridacchia lui mentre lei sbuffa.
“Comunque, trovo che l’aggiornamento sulle novità da Parigi sia l’aspetto più positivo di questa visita, quello che mi sta facendo impazzire è mia nonna. È da ieri che corre in giro per la casa impartendo ordini a tutti per sistemare le camere per gli ospiti, organizzare i pasti e approntare l’accoglienza per lo stuolo di servitori che si porteranno dietro per due giorni.”
“Il solito pettegolo… se sei così eccitato per le nuove chiacchiere, non vedo cosa tu abbia da lamentarti!”
“Di cosa? Che voi, Madamigella, mi rendete impossibile, in queste circostanze, mantenere il giusto contegno, confacente a un perfetto servitore quale io sono! … ed è solo per amor vostro, che mi trovo a incorrere nelle ire di mia nonna!”
Ora sta ostentando un’espressione di rassegnata sofferenza.
Tutta l’agitazione che regna in casa sembra aver ravvivato la sua indole da teatrante, e questo la diverte. L’allegria di André la contagia sempre e diventa anche la sua allegria, è sempre stato così e questa mattina non può fare a meno di partecipare alla sua piccola recita.
“Beh, questo servitore non è poi così perfetto, visto che non si è ricordato dei programmi fatti per questa giornata!”
“Non credo che Teniamoci alla larga da Marie-Suzanne e suo marito possa essere definito un programma.”
“Così intuitivo, ma così poco intraprendente …”
Fa una smorfia lei, incrociando le braccia al petto e distendendo le gambe sotto il tavolo.
“è una sfida dunque!”
André si è alzato in piedi e, con un sopracciglio sollevato, sta sistemando tazze e piattini sul vassoio con aria intenta.
“Beh, allora … tra mezz’ora nelle scuderie… non farti seguire da nessuno.”
Bisbiglia.
Si gira e si allontana con il vassoio tra le mani.
In fondo lei sa benissimo dove la porterà e cosa faranno… ma quel gioco la diverte. Comodamente appoggiata allo schienale della sedia lo osserva allontanarsi, mentre ha ancora sulle labbra il sapore della cioccolata e un sorriso luminoso come quella bellissima giornata di primavera.

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Aveva aspettato un po’ nella penombra delle scuderie che André la raggiungesse, portando con sé le spade e una bisaccia, ne aveva approfittato per fare qualche coccola e dare uno zuccherino a Julius e Golia. Da più di un anno i due pony non vengono più montati, non ci sono più bambini in quella casa; solo Jean-Luc e André ogni giorno li liberano nei grandi recinti annessi alle stalle per farli correre e pascolare.
Il giorno del suo tredicesimo compleanno, il Generale aveva fatto trovare nelle stalle, a lei e André, le loro nuove cavalcature: un candido stallone purosangue inglese e un irish hunter dal manto scuro, due cavalli per due bambini oramai cresciuti.
Avevano sellato Caesar e Alexander quella mattina ed erano scappati dalle scuderie senza avvertire nessuno. Raggiunto il limitare della boscaglia li avevano lanciati al galoppo, fino a che non erano stati abbastanza lontani da palazzo. Allora si erano riportati al passo e avevano cominciato a vagare, come sempre, alla ricerca di qualche nuovo angolo di quel loro piccolo mondo perfetto. Alla fine erano arrivati al loro laghetto, come sempre loro due.

Ora strizza gli occhi e porta una mano a proteggerli dai raggi del sole, che, avanzando nel pomeriggio, cominciano a inclinarsi e riflettendosi sulla superficie dell’acqua la abbagliano.
“Esci di lì! Ti prenderai un accidenti! L’acqua è ancora troppo fredda.”, le urla André, che è sdraiato all’ombra della grande quercia e si regge sui gomiti seguendola con lo sguardo.
Non ha saputo resistere lei, alla fine si è sfilata stivali e calze ed è andata a immergere, per la prima volta nella stagione, i piedi nell’acqua del laghetto.
“Non è fredda, è corroborante!”, risponde tornando ad avvicinarsi a lui, attraversando i nastri di luce che filtrano tra le foglie, fino ad allungare un piedino per toccargli l’avambraccio lasciato scoperto dalla manica arrotolata.
“Sei gelata!”, strilla scostando il braccio come se lo avesse scottato, “Tu sei matta, siediti subito e dammi quei piedi.”
Glielo ordina quasi, mentre si mette a sedere e le avvolge i piedi in un canovaccio che ha sfilato dalla bisaccia aperta sull’erba. Comincia a strofinarglieli con foga, facendola quasi cadere mentre tenta di sedersi.
“Non hai idea di quanto somigli a tua nonna quando fai così!”, ridacchia, appoggiando i palmi aperti sui verdi fili teneri, e poi continua con tono forzatamente serio, “Non lo sai forse che io sono l’erede della nobile stirpe militare dei Jarjayes? Nelle mie vene scorre il sangue di grandi condottieri, cosa vuoi che mi faccia un po’ d’acqua fredda”, fa una breve pausa, perché fatica rimanere seria, “Tu piuttosto, sei il solito mollaccione apprensivo!”
“Certo! Il mollaccione che verrà ucciso dalla nonna a bastonate se ti viene il raffreddore…”, le rivolge uno sguardo rassegnato mentre le infila le calze, “… ovviamente, solo dopo essere stato debitamente torturato per averti tenuto fuori di casa tutto il giorno, impedendoti di accogliere degnamente gli ospiti!”
“Non vedi le cose nella giusta prospettiva!”, gli risponde scuotendo la testa mentre lo aiuta e infilarle gli stivali.
“Ah, no? Vi prego illuminatemi!”
Sembra divertito adesso, mentre si lascia di nuovo cadere sull’erba incrociando le mani dietro la testa.
Converrete che l’arrivo degli ospiti ci ha costretto a interrompere le nostre solite lezioni con l’istitutore e il maestro d’armi!”, si sistema prona accanto a lui, sostenendo il mento con le mani.
“Ne convengo…”
L’espressione di lui adesso è attenta. Lei sa che deve essere curioso di capire dove voglia andare a parare, e che lo diverte quando fa il verso al tono grave di suo Padre, il Generale.
“… e converrete che noi siamo estremamente coscienti dell’importanza della nostra educazione…”
“si….”
“… e che essendo estremamente responsabili abbiamo deciso di dedicare la giornata ad allenarci nell’equitazione e nell’uso della pistola e della spada! … e il lungo ed estenuante allenamento a cui ci siamo sottoposti, ha richiesto che rimanessimo fuori tutto il giorno, portando con noi solo un pasto frugale!”, conclude con un’aria sempre più convinta.
“Complimenti Oscar, dicevi di non ti era piaciuta la lezione sui sofisti, e invece sei piuttosto brava a cambiare il nome delle cose!...”
Si è alzato su un gomito e rovista nella bisaccia.
“… io però, in favore di retorica, sorvolerei sul discorso delle armi da fuoco, visto che nessuno ci aveva autorizzato a prenderle… e anche sul pranzo, dato che me lo ha passato di nascosto Annette, e non vorrei metterla nei guai con mia nonna proprio adesso che è finalmente diventata aiuto-cuoca…”
Ha tirato fuori una mela e gliela porge, “… è l’ultima, la vuoi tu?”
Lei alza lo sguardo verso il frutto ed esita un attimo prima di rispondere.
“Me ne basta un morso.”
Si allunga fino a morderla mentre lui ancora la tiene in mano, poi si gira sulla schiena masticando.
Deglutisce il boccone e lecca il labbro inferiore per catturare una goccia di succo che sta fuggendo verso il mento. Afferra il braccio di Andrè e se lo sistema a sostenere la nuca. Ridacchia quando lui mugugna continuando a masticare la sua mela, fingendosi contrariato.
“In questo caso diciamo che sono motivata dalla necessità…”, sospira, “… di sopravvivere e di rimandare il più a lungo possibile il supplizio che sarà la cena di stasera,…”, esita, ”…ma effettivamente, no… non mi piacciono i sofismi, che senso hanno? Le cose sono ciò che sono, a prescindere da come le chiami: questo albero era una quercia anche quando non ne sapevamo il nome! (1)
Andrè non riesce a trattenere una mezza risata, “quando sei così… tassativa sei proprio identica a tuo padre… le cose sono spesso più complicate di come appaiono al primo sguardo… il nome che gli dai non sempre esprime tutto quello che sono…”, parlando la sua espressione si fa sempre più seria, come se la sua mente stesse vagando altrove, “… e non sempre un nome ha lo stesso significato per tutti… le cose non sono sempre così… nette e definite…”
Si è girata sul fianco e adesso lo guarda perplessa, arriccia il naso.
“… mi pareva che noi due dessimo lo stesso significato alle parole… ma forse non è così per tutto…intendi … poco definite come quella cosa che tu chiami… barba?”
Ridacchia afferrandogli il mento.
André è arrossito.
“Ehi… un po’ di rispetto…”
Sembra quasi imbarazzato mentre sposta la mano dal suo viso e sfila il braccio tirandosi a sedere.
“… è tutta invidia la tua!”
Si frega il mento lui, sforzandosi di sdrammatizzare, e torna a sdraiarsi mentre lei continua a ridere.
Rimangono in silenzio per un po’, a godersi la luce che filtra tra le foglie e la brezza leggera.
“Comunque… la tua storia non convincerà mai mia nonna… ma tuo padre farà sicuramente finta di crederci…”, lo dice continuando a guardare le foglie stormite dal vento.
“Mio Padre che finge?”, è perplessa.
“Certo! Non sopporta il Conte e neanche il comportamento di tua sorella da quando gli è andata in moglie.”
“Il loro pettegolezzi e i loro modi affettati lo rendono nervoso, ma come fai a dire che non gli piace? Lo ha scelto lui come marito per Marie-Suzanne!”
“Non credo che la sua scelta abbia avuto molto a che fare con il gradimento della persona… di Suzanne o anche suo… Ti ricordi la lezione di strategia militare del mese scorso? Quella sull’aggiramento doppio?... è un po’ che ci penso…”
Lei si è messa a sedere adesso, e lo guarda con aria interrogativa.
“Non vedo cosa abbiano a che fare le strategie militari di Annibale contro i Romani con i matrimoni delle mie sorelle!”
“Pensaci bene Oscar…”
Anche lui si è seduto adesso e la fissa con un’espressione furbetta.
“… considera la posizione a corte derivante dal titolo di Conte acquisito da tuo nonno (2) come il territorio di recente conquista da difendere, e i matrimoni delle tue sorelle come… una strategia ad aggiramento non doppio ma multiplo, come se ogni matrimonio fosse un’ala del suo schieramento: Marie-Suzanne con la nobiltà di sangue, Marie-Anne con l’aristocrazia amministrativa, Adelaide con quella di toga, Louise-Antoinette con la nobiltà di spada…”
Mano a mano che vengono snocciolati i nomi delle sue sorelle, gli occhi blu di Oscar si spalancano.
“… ed Emilie-Laure sposata con Monsieur de La Pouplinier (3), che non è nobile ma è un ricco finanziere… la banca per garantire gli approvvigionamenti…”, continua lei con l’espressione di chi ha ricevuto un’illuminazione.
“… strategia militare classica applicata alla vita quotidiana! Il vero talento di tuo padre.”
“Dici che gli somiglio tanto… ma alla fine sei tu quello che lo capisce meglio…. E io in questo piano di attacco sarei?… “, rimugina un po’ prima di dire,”… la sua testa di ponte!”
André osserva con la sua espressione perplessa alzandosi in piedi, mentre con una mano tiene la bisaccia e con l’altra si scrolla l’erba dai pantaloni. Quando le è di fronte, le tende la mano per aiutarla ad alzarsi.
“Forza … testa di ponte!”, le sorride, “… muoviamoci, che se non ti riporto a casa in tempo per la cena … mi chiudono nelle segrete per tradimento!”
Lei afferra la sua mano e si tira su. Senza dire una parola s’incammina con lui verso i cavalli, che pascolano poco lontani, legati per le briglie a dei bassi cespugli.
Lei lo sa che quello che le ha detto ha perfettamente senso, che è proprio da suo Padre, in qualche modo lo capisce anche! Lo ha sempre saputo che la sua vita era stata programmata in un certo modo. Alza gli occhi su André, che si gira verso di lei … ha uno sguardo un po’ triste… almeno così le sembra. Continuano a guardarsi camminando fino a che lui interrompe il momento. Le passa un braccio intorno alle spalle e la stringe un po’ a sé…
“Oscar, Oscar… pensa se avesse deciso che gli serviva in famiglia un … Cardinale!”
“Oh, sei il solito buffone!”, lo dice ad alta voce divincolandosi dal suo abbraccio e lo spinge a terra. Ride lui adesso, e anche a lei, nonostante tutto, viene da ridere, mentre a grandi passi procede verso i cavalli, sicura che lui si sia alzato e la stia seguendo.

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Un garofano, un giglio e una rosa, smaltati in blu su fondo bianco. Ecco cosa c’è sul fondo del piatto, sotto i brandelli di pernice arrosto che sta spostando da un lato all’altro con la forchetta, per analizzare il decoro delle fini porcellane in cui mangiano quando hanno ospiti. Stranamente stasera le risulta attraente in modo irresistibile.

Nel tardo pomeriggio lei e André erano rientrati a palazzo dalle cucine tra gli strepiti della nonna, che aveva spedito ognuno in camera sua a rendersi presentabile, senza prestare alcuna attenzione alle loro giustificazioni. Lei aveva così raggiunto i suoi appartamenti seguita da Colette, che le aveva fatto trovare il bagno pronto e gli abiti per la cena ordinatamente disposti sul letto. La cameriera aveva raccolto i vestiti che si era tolta e le aveva spazzolato i capelli mentre era nella vasca, infine era stata congedata dopo averla avvolta in un grande telo di lino.
Una volta vestita, André aveva bussato alla sua porta, con i capelli ordinatamente raccolti in una coda e indosso la sua livrea migliore, per avvertirla che la stavano aspettando da basso per sedersi a cena. Quando si erano trovati davanti alla porta, prima di bussare e annunciare il suo arrivo, le aveva lanciato uno sguardo d’intesa.
“Pronta ad affrontare il nemico?”
Gli aveva sorriso annuendo.
Entrando nel salotto attiguo alla grande sala da pranzo a piano terra, l’immagine che le si era parata davanti era stata quella di sua Madre e sua sorella sedute sulle due poltrone di legno dorato, foderate in seta turchese, ai lati del basso tavolino da caffè davanti al camino di candido marmo, il Generale e il Conte in piedi alle spalle delle rispettive mogli con un bicchiere di cristallo tra le mani.
Le coppie sarebbero sembrate l’immagine speculare l’una dell’altra, se Marie-Suzanne e il marito non fossero stati così immensamente più chiassosi di sua Madre e suo Padre. Chiassosi prima di tutto nell’aspetto: l’abito rosa acceso di sua sorella era talmente gonfio da costringerla a tenersi in equilibrio sul ciglio della poltrona, una sovrabbondanza di candidi pizzi, nastri gialli, ricami floreali e spille di diamanti ricoprivano la pettorina, le maniche e il collarino in una cascata variopinta, a coprire completamente le braccia e il collo, lasciando però procacemente scoperto il seno, il tutto era sormontato da un’acconciatura incipriata alta almeno due spanne, decorata con gli stessi nastri e gioielli, oltre a delle rose di seta; la giacca e il panciotto del conte erano perfettamente intonati alla toilette della moglie nei colori e nei decori, con l’aggiunta di due ricchi polsini di pizzo a ricoprire quasi completamente le mani e una ricciuta parrucca incipriata adornata da un nastro di un giallo sgargiante.
Al suo ingresso, sua Madre stava assistendo passivamente, con un garbato sorriso, al garrulo vociare e al gesticolare di Marie-Suzanne, mentre l’espressione compita del generale sembrava attraversata da un’ombra scura mentre il Conte… lo stava veramente intrattenendo dissertando della fattura dei bottoni del suo panciotto!? (4)
Quando si erano accorti di lei, la sorella si era alzata e le era andata incontro, con un gran sorriso e le braccia aperte.
“Oscar, cara, quanto mi sei mancata!”, aveva declamato prima di stringerla in un abbraccio, mentre lei spalancava gli occhi per quel comportamento del tutto inaspettato. Le esternazioni d’affetto, fisiche in particolare, non erano mai state parte dell’etichetta di palazzo Jarjayes!
Era impressionante quanto fosse cambiata sua sorella da quando, per fidanzarsi con il giovane rampollo dei Clermont, quattro anni prima, era tornata a casa dal convento, dove era andata per essere istruita appena smessa la balia come tutte le sue sorelle.
Anche lei aveva quattordici anni al tempo, era timida e riservata come si conviene a ogni educanda, composta e controllata nella sobria divisa del collegio. Benché Oscar avesse solo nove anni, se la ricordava mentre osservava quasi spaventata lei e André che si rincorrevano azzuffandosi come due scalmanati in giardino.
Quando era andata in sposa, sei mesi dopo, era diventata un po’ più vivace, entusiasta in modo infantile per la festa, i fiori, gli invitati, i begli abiti e le scarpine con il tacco. Da allora l’aveva vista un paio di volte l’anno, sempre in occasione del trasferimento dalla residenza di Parigi a Versailles nel periodo estivo. A ogni visita era stato come osservare una fase della metamorfosi di Marie-Suzanne de Jarjayes nella Contessa, che sembrava avere non più solo il nome ma anche il sangue dei Clermont.
“Marie-Suzanne, è un piacere vederti.”, aveva detto divincolandosi dalla sua stretta nel modo più naturale possibile e scostandosi.
“Conte di Clermont…”, all’altro ospite piegandosi in un inchino cui lui aveva risposto con lieve sorriso e un cenno del capo.
Poi, sull’onda di tanta familiarità aveva osato, “Cara, ricordi Andrè vero?” indicando il suo attendente, che chinava il capo in segno di saluto.
Suzanne si era voltata leggermente verso di lui e gli aveva prestato la stessa attenzione che realisticamente avrebbe riservato… a una pianta, prima di tornare a sorridere a Oscar e a sedersi sulla sua poltrona.
Certo non si era aspettata chissà quale esternazione di affetto visto il ruolo di André, ma persino suo Padre rispondeva con un cenno al suo saluto!
“André, grazie. Per stasera ti puoi congedare, Oscar non avrà più bisogno di te.”, sua Madre era intervenuta tempestivamente, anche se sempre con il suo tono e la sua espressione dolce.
Mentre lui salutava tutti con un inchino e rivolgeva a lei uno sguardo comprensivo prima di uscire chiudendosi dietro la porta, si era trovata a riconsiderare come, per quanto a prima vista potesse non sembrare, le competenze di gestione tattica di sua Madre non avessero niente da invidiare a quelle del Padre, con il valore aggiunto di una grande capacità di dissimulazione. Così garbata ma sempre attenta era il complemento perfetto delle rigide spigolosità del Padre, era sempre stato così. Ora però, alla luce della trasformazione della sorella, si chiedeva se anche lei fosse veramente sempre stata così o se il suo fosse stato solo un altro processo di adattamento.
“Se Lor Signori desiderano accomodarsi, la cena è servita”, aveva annunciato Marie materializzandosi attraverso una delle porte di collegamento con la sala da pranzo.

“Oscar, non sei tremendamente eccitata anche tu per il grande evento di domani?”
Il richiamo di Marie-Suzanne la costringe a tornare a prestare attenzione alla compagnia abbandonando l’accurata analisi dei decori delle porcellane.
“Per… l’evento di domani?”, dubita si riferisca al fatto che finalmente lasceranno palazzo Jarjayes.
“Oh, mia cara, se non fosse per l’amore che ti porto, dovrei rimproverarti per la tua ignoranza!”, cinguetta roteando gli occhi, “Il matrimonio per procura del Principe! Domani la Principessa d’Austria diventerà la Delfina e partirà da Vienna per raggiungere la Francia! Perché credevi fosse stato necessario anticipare così tanto il nostro trasferimento a Corte!”, rivolge alla Madre uno sguardo sconsolato.
Effettivamente deve ammettere che non si è minimamente soffermata a pensare alla data, così come a molti altri aspetti di quella visita.
Senza attendere il sollecito di nessuno, Suzanne continua imperterrita.
“Non potete avere idea del lavoro immane che sia stato dover organizzare il viaggio per la permanenza estiva con così largo anticipo!”, un altro sguardo alla Madre, che risponde con un’espressione comprensiva, “… le direttive per gli acquisti, l’organizzazione dei bagagli, la gestione della servitù… per la fretta siamo dovuti rimanere qui a palazzo con solo il cocchiere, due lacchè, due delle mie cameriere e l’attendente e il valletto del mio adorato Marito. C’è da chiedersi come sia riuscita a vestirmi per la cena stasera! Viste le scadenze abbiamo dovuto mandare il resto del personale direttamente a Versailles per approntare i nostri appartamenti!”, rivolge nuovamente gli occhi al cielo Suzanne, mentre Oscar si chiede se non sia perché è affascinata dal gigantesco lampadario di cristallo appeso proprio al centro della sala sul tavolo da quaranta sedute a cui stanno cenando, le decine di candele fanno brillare in giro per la stanza gli argenti, la cristalleria e gli immensi specchi alle pareti.
“Generale, non potrò mai esservi sufficientemente grato per il dono di una tale sposa.”, interviene il Conte, con un sorriso controllato ma cordiale sulle labbra, mentre torna ad appoggiare il bicchiere, ”Mia Madre, la Contessa, è estasiata da come in questi anni vostra figlia abbia attentamente seguito e appreso il suo esempio e le sue indicazioni in società, fino a padroneggiarle in maniera tale da raccogliere il manifesto apprezzamento di tutti…”
Il Generale rivolge al Conte un necessario cenno di ringraziamento mentre solleva leggermente la mano, perché l’attendente alle sue spalle gli riempia il bicchiere.
“… e certo non è cosa facile, muoversi con tale grazia nell’adempiere a un oneroso impegno come quello di rispondere alle necessità della buona società di Parigi!”, continua rivolgendo uno sguardo di approvazione alla moglie, che risponde con un sorriso compiaciuto.
“Certo è stato merito anche di una così dotata e dedita maestra”, Suzanne tributa l’omaggio richiesto alla suocera, “se dite che ho sviluppato una qualche capacità nel destreggiarmi in un compito così arduo!”, un altro sorriso accompagnato da uno svolazzo della mano, e rivolgendosi a Oscar spalancando gli occhi, ”Non è certo semplice districarsi in una tale la rete di impegni e rapporti: le serate all’Operà, a Palais Royale e al Tempio, il salotto di M.me du Deffand e quello, di M.lle de Lepinasse, senza però incorrere nelle ire di nessuna, vista la loro rottura, quello di M.me Geoffrin il lunedì ogni due settimane e poi la gestione della cucina e dei rinfreschi, che devono sempre essere pronti qualora gli ospiti decidano di farci il piacere di una loro visita!”
In effetti a Oscar sembra che la sorella stia descrivendo una campagna militare, anche se gliene sfugge il senso.
“Inoltre è necessario curare la conversazione, nella forma, ma anche nei contenuti per risultare interessanti, mai sgradevoli. Non è certo auspicabile che si dica che si è noiosi quanto M.me Necker, benchè il suo salotto sia così ben frequentato, la sua incapacità di parlare di altro che non sia il marito è cosa dolorosamente nota. Dio solo sa quanto si senta la mancanza dei bollettini di M.me Doublet! Il suo encomiabile lavoro consentiva a tutti di discernere tra le notizie e quelli che erano volgari pettegolezzi. Non si può certo rischiare di danneggiare la reputazione di una persona per la voce di un amante inopportuno perché non al suo livello...”
“… e non si può nemmeno condannare ingiustamente chi ha cercato l’amore nella migliore società! Si sa … in amore solo l’inizio è incantevole. Non c’è da stupirsi se ci si diverte a ricominciare spesso… (5)”, continua il Conte con fare da uomo di mondo guardando il Generale, che alza nuovamente la mano per farsi versare da bere.
Il Padre non beve mai più di un bicchiere di vino a cena, si trova a considerare Oscar.
“… caro suocero, mia moglie, con l’amore che vi porta, si addolora che voi conduciate una vita così ritirate e non siate un uomo a la mode, ma io le faccio sempre notare che avete precorso i tempi delle più moderne idee di questo secolo per come avete educato vostro figlio Oscar! Meritereste di entrare all’Academie per come avete scientemente e metodicamente piegato la sorte ai vostri voleri!”
L’espressione di suo padre è indecifrabile mentre rivolge al conte un segno di ringraziamento dovuto alla cortesia delle sue parole.
Si raddrizza sulla sedia mentre si chiede cosa c’entri lei con quelle insulse discutibili chiacchiere di salotti, ricevimenti e amanti, mentre Suzanne incalza nuovamente con voce flautata.
“Mio Marito, che sicuramente è in grado di giudicare meglio di me, ha indubbiamente ragione nell’apprezzarvi Padre… ma converrete che averle messo a fianco un attendente la espone al rischio di chiacchiere quanto mai sgradevoli, che potrebbero danneggiare irrimediabilmente la sua reputazione!”
Di nuovo Jerome di avvicina per riempire il bicchiere alla richiesta del Generale, quando sua Madre interviene tranquilla, quasi non curante.
“La condotta di Andrè è sicuramente irreprensibile e svolge i suoi compiti con la massima responsabilità e dedizione!”
“… ma sicuramente non svolgerà tutti i compiti che il vostro attendente Padre o quello di mio Marito svolgono per i loro padroni…”
Lo sguardo che il Generale rivolge a Marie-Suzanne sembra andare a segno, lei esita un attimo prima di voltarsi nuovamente a guardare Oscar e continuare.
“… e poi … sta troppo all’aria aperta e al sole… finirà con il rovinarle l’incarnato! Cara, dovresti avere maggiore cura di te… ti farò portare dalla mia cameriera un’ottima crema di zoccolo di pecora (6) per mantenere il biancore del tuo bel viso…”
“Oscar è stato educato per essere e sarà un soldato! Che importanza volete che abbia il colore del suo incarnato…”, sbotta alla fine il Generale, che viene interrotto dall’improvvisa risata del Conte verso il quale si gira sbigottito.
“oh, caro suocero, la purezza del vostro rigore militare è ammirevole quanto impagabile. L’incarnato di vostro figlio è d’importanza fondamentale! Tutti sanno che a Corte una pelle candida e una conversazione interessante possono consentire di acquisire le più alte onorificenze…”, la sua voce assume un’inflessione come se stesse spiegando una cosa ovvia a un bambino, e voltandosi a guardarla negli occhi, “… così eccentrica e così bella se curasse maggiormente la conversazione potrebbe addirittura diventare Ministro!”
Prima che chiunque possa aprire bocca, Marie si fa avanti nella sala schiarendosi leggermente la voce con il capo chino.
“Per la comodità di Lor Signori il caffè, gli spiriti e i dolci saranno serviti nel salotto. Se volete fare l'onore di accomodarvi...”
Se sua Madre è un ottimo comandante in seconda, la nonna di Andrè è indubbiamente il migliore degli attendenti di campo.

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Finalmente le prime luci cominciano a filtrare al di sotto delle pesanti tende di broccato, che qualche cameriera avrà slegato per coprire le finestre preparando la camera per la notte la sera precedente. Si rigira ancora e osserva le nuove ombre che si vengono a formare tra i panneggi del baldacchino che ricopre il suo immenso letto, si aggiusta i cuscini sotto la testa, scalcia le lenzuola che le danno l’impressione di costringerle le gambe oramai libere anche dalla camicia da notte, che è arrotolata intorno alla vita per il continuo agitarsi. Non le sembra di avere fatto altro da quando si è infilata nel letto dopo essersi spogliata la sera prima: studiare la forma delle ombre negli angoli più nascosti della stanza e combattere con la biancheria del letto, alla ricerca di una posizione abbastanza comoda, che le facesse passare quel senso di costrizione, così da potersi finalmente abbandonare al sonno e sgomberare la mente.
Appena si erano alzati da tavola per spostare l’intrattenimento nel salotto, si era congedata. Aveva chiesto il permesso al Padre di ritirarsi nelle sue stanze, adducendo la stanchezza per la lunga giornata. Il Generale non aveva esitato a lasciarla libera, forse credendo alla scusa della stanchezza, forse sperando di poter fare lo stesso il prima possibile, forse reputando che i discutibili argomenti di conversazione della figlia più grande e del marito non fossero adatti a Oscar, l’erede designato della onorevole stirpe militare degli Jarjayes.
Qualunque fosse stata la ragione, per la quale era stata autorizzata ad abbandonare la piacevole compagnia, aveva provveduto a ringraziare e salutare il Padre con un inchino, analogo a quello che aveva rivolto al Conte, con l’auspicio di avere al più presto l’onore di incontrarlo nuovamente, a baciare la madre su entrambe le guance augurandole la buonanotte, e infine a fare lo stesso con la sorella, che però l’aveva trattenuta più del necessario abbracciandola e ripetendo per l’ennesima volta, in modo teatrale, quanto l’amasse. Si era quindi diretta verso la porta con passi lunghi ma composti, si era nuovamente girata con espressione distesa per rivolgere un cenno di saluto alla compagnia, dopo di che aveva girato la lucida maniglia di ottone, aperto la porta intarsiata, varcato la soglia.
Appena richiusa la porta alle sue spalle, ci si era appoggiata con la schiena e aveva respirato profondamente affondando lo sguardo nel buio della galleria, rischiarato solo dalla tenue luce della luna che filtrava attraverso le finestre. Poi si era spinta nuovamente in piedi e aveva cominciato a camminare con passi sempre più lunghi e veloci fino a ritrovarsi a correre alla ricerca di un posto in cui ritrovare il mondo come lo conosceva lei.
Si era trovata così davanti alla porta di André, nell’ala della servitù. Era da quando aveva nove anni che non ci andava più di sera, dall’ultima sfuriata di Marie, dall’ultima volta che li aveva trovati a dormire insieme al mattino, l’ultima d’innumerevoli volte che era andata a rifugiarsi in camera sua a giocare, a mangiare dolci, a leggere un libro a loro proibito, e avevano finito con l’addormentarsi insieme.
Come sempre quell’ultima volta Marie li aveva svegliati strillando e li aveva travolti con tutte quelle motivazioni fondamentali che, secondo lei, avrebbero dovuto capire, espresse con parole come madamigella e servo, che per loro erano semplicemente la loro normalità da sempre. Le grida della nonna non li avevano sconvolti più di tanto, oramai ci erano abituati, ma quella volta lei aveva insistito con il Generale perché comminasse loro una punizione esemplare. Come risultato non erano riusciti a sedersi o a cavalcare per una settimana.
Da allora era sempre stato André a sgattaiolare in camera sua la sera e, tutto sommato, si erano chiesti perché non ci avessero pensato prima: i suoi appartamenti erano tanto grandi da permettere loro dei giochi molto più interessanti che non doversi accartocciare nel letto di André. Se poi gli capitava di addormentarsi, il tappeto o il divano erano sufficientemente scomodi da farli svegliare abbastanza presto da tornare per tempo nei rispettivi letti.
Quando erano diventati troppo grandi per i giochi e i furti di biscotti, André aveva semplicemente cominciato a salire in camera sua, con la scusa di portarle qualcosa di caldo da bere dopo cena, per poi rimanere lì a chiacchierare o semplicemente a farsi compagnia mentre leggevano un libro; allora era stata addirittura sua nonna a chiedergli di farlo. Evidentemente il fatto che lui entrasse nella sua camera portando un vassoio rendeva il tutto assolutamente accettabile, la cosa l’aveva fatta sorridere la prima volta che ci aveva pensato.
Quella sera, il fiume di parole con cui sua sorella e il marito l’avevano travolta a cena l’aveva trascinata di nuovo lì, davanti alla porta di André, dopo tanto tempo.
Nel buio dello stretto corridoio aveva esitato un attimo prima di bussare, poi aveva scrollato la testa dandosi della stupida e aveva battuto con le nocche leggere sulla superficie di legno grezzo. Ci era voluto un po’ perché da dentro la voce di André rispondesse “Avanti” con una nota interrogativa, così che lei si sentisse autorizzata ad abbassare la maniglia e finalmente mettere dentro la testa, nella stanza illuminata dalla luce di una lampada a olio.
“Oscar... Cosa ci fai qui?”, aveva esclamato alzandosi a sedere sul letto e appoggiando, aperto su una coscia, il libro che aveva in mano. Evidentemente non si aspettava visite, era scalzo, con i capelli sciolti e la camicia mezza sfilata dai pantaloni, “… pensavo saresti rimasta a fare compagnia agli ospiti. Potevi mandarmi a chiamare, ti avrei portato un tè in camera …”, mentre si legava i capelli con il nastro blu preso dal comodino.
Lei intanto si era chiusa la porta alle spalle, appoggiandovisi contro, con le mani dietro la schiena.
“Oh, cielo, no… non sarei riuscita a sopportare quella tortura un secondo di più… e non credo che nelle mie stanze sarei stata più al sicuro…”, si era avvicinata al letto tenendo lo sguardo basso, “… molto meglio qui, non credo che a Suzanne verrebbe mai in mente di cercarmi qui… e nel caso … non credo che si avventurerebbe in quest’ala della casa…”, incurvando gli angoli della bocca verso l’alto, “…come un demone su suolo consacrato.”
Si era seduta sul letto accanto a lui.
“Cosa leggi?”
Aveva allungato la mano per vedere meglio la copertina del libro e aveva alzato un sopracciglio leggendo il titolo ad alta voce “Le diable amoureux(7)
Aveva trattenuto a stento una risatina.
“Un romanzetto d’amore? Che lettura da donnicciole... ne hai approfittato perché stasera credevi di essere solo!”
“La solita saputella…”, aveva ripreso il libro, scostando la sua mano, e glielo aveva sventolato davanti al viso con aria di finta sfida, “… si dà il caso che questa sia una delle famose novità da Parigi che tu disprezzi tanto… e non è un romanzetto d’amore, parla di spiriti e demoni!”
Lo aveva guardato in faccia con un’espressione ostentatamente dubbiosa.
“Mah, e chi ti avrebbe fornito questo… capolavoro?”
“Mai detto che sia un capolavoro, solo una novità. Me l’ha prestato Jacob, il valletto personale del Conte, glielo devo rendere prima che partano per Versailles domani mattina.”
“Mmmm,…”, si era sfilata le scarpe,”... vediamo allora di capire se questa novità…”, aveva ripreso il libro dalle sue mani, “… sia dunque un capolavoro!”, si era spostata sul letto fino a sedersi con la schiena appoggiata alla testata e aveva cominciato a sfogliare le pagine.
Lui non si era mosso, rimanendo in silenzio a osservarla come in attesa di qualcosa. Dopo poco lei aveva alzato lo sguardo, e gli aveva fatto cenno di venire a sedersi a fianco, con aria un po’ spazientita, come aspettandosi che lui lo facesse senza essere invitato o addirittura esortato.
Allora le si era affiancato, aggiustandosi il cuscino dietro la schiena per stare più comodo. Spalla a spalla avevano cominciato a leggere il libro ad alta voce, una pagina per uno, come facevano da bambini.
A venticinque anni ero capitato nelle guardie del re di Napoli….”, aveva cominciato lui.
Avevano continuato così per poco più di un’ora, cambiando più volte posizioni per stare più comodi, fino a ritrovarsi più stesi che seduti, con le teste appoggiate sullo stesso cuscino, proprio come quando erano piccoli.
 


 
“… E se colei che terrete per mano dovesse avere grazie e talenti celesti, non sarete mai tentato di scambiarla per il diavolo.”, aveva concluso lei la lettura, chiudendo infine il libro con un sonoro schiocco.
Erano rimasti un attimo in silenzio, poi lei si era girata quel tanto da incontrare gli occhi di lui che la fissavano, come in attesa di un qualche responso.
“Dunque…”, aveva interrotto lei il silenzio con tono serio, “… credo possiamo convenire che non si tratti certamente di un capolavoro, anche se…”, una pausa significativa, “… posso capire che tu ti sia identificato con questo giovincello che rischia di vendersi l’anima per un rinfresco a base di dolciumi e vino di Cipro! (8)
Aveva appoggiato il libro sul comodino e mentre tornava a girarsi verso di lui, le veniva da ridere, immaginava già l’espressione di finta offesa sulla sua faccia, senza averla ancora vista.
“Non posso negare di identificarmi abbastanza con Alvaro… anche se …”
Non sembrava affatto offeso, piuttosto compiaciuto, come se stesse tramando qualcosa che lei non si aspettava.
“… è più per la convivenza con un demonio dai capelli biondi, cara la mia Biondetta…”
Una cuscinata, all’improvviso l’aveva colpita in pieno volto!
Era rimasta spaesata per un attimo, prima di impossessarsi del cuscino, l’unica arma a disposizione, che lui le aveva incautamente ceduto, e partire con la controffensiva.
“Brutto impudente!”
Si era trovata così a sovrastarlo, in ginocchio sul letto, mentre lui rideva e sdraiato cercava di ripararsi dalla raffica dei suoi colpi, fino a quando era riuscito a strapparle il cuscino dalle mani. Lo aveva lanciato lontano e l’aveva afferrata per i fianchi, tirandola giù sul letto e cominciando a farle il solletico.
Da quel momento era stata la confusione: risa e gridolini isterici, mani sulle mani a tentare di liberarsi, calci in aria e gambe intrecciate a cercare di frenarli.
Avevano riso e gridato, tanto da chiedersi come mai nessuno fosse accorso per vedere cosa stesse accadendo, fino a quando tutta quell’agitazione si era spenta gradualmente e le risa erano scemate in singhiozzi, che interrompevano a tratti il respiro affannato di entrambi.
Si era trovata così sdraiata su un lato di fronte a lui, le mani a stringere le sue, ancora aggrappate ai suoi fianchi, le gambe intrecciate, mentre il sorriso sfumava in un’espressione disorientata sul viso di entrambi.
Era rimasta immobile, con il respiro spesso, il cuore accelerato, la testa vuota, quel calore che le invadeva il viso e il petto, fino a che lui non si era scostato un po’ alzandosi su un gomito, le aveva scostato una ciocca di capelli dal viso e se l’era passata tra le dita più volte, osservandola con aria intenta.
“Si è fatto tardi, è meglio se vai adesso Oscar.”
Lo aveva detto guardandola negli occhi, la voce bassa, un tono dolce, forse un po’ triste.
Dopo un attimo si era riscossa, seduta sul letto dandogli le spalle, infilata le scarpe e alzata incamminandosi verso la porta. Solo quando era stata sulla soglia con la maniglia in mano, si era girata e l’aveva guardato.
“Buonanotte, André.”
Lui era ancora sul letto, appoggiato sul gomito, che la osservava con un’espressione indecifrabile. Le aveva risposto con un lieve sorriso.
Aveva chiuso la porta alle sue spalle e si era ritrovata nuovamente al buio, lungo un corridoio stretto che la riportava verso i suoi appartamenti.

“Stupida, stupida, stupida!”
Se lo dice da sola ad alta voce, mentre scalcia definitivamente lontano le lenzuola e si alza dal letto. Nessuno è ancora passato per aprire le tende e svegliarla, ma oramai è chiaro che non riuscirà a riposare, per cui tanto vale prepararsi e scendere.
“Una notte insonne per essermi fatta riempire la testa dalle insulse sciocchezze di mia sorella. Sono proprio una stupida!”
Apre il portoncino a fianco della testata del suo letto che, mimetizzato dal broccato a righe celesti che tappezza le pareti, conduce allo spogliatoio. Qui le tende sono state lasciate aperte, e la prima tenue luce di un sole non ancora sorto rischiara l’ambiente dando a tutto una sfumatura grigiastra, anche alla vasca in rame sistemata alla sinistra della finestra. Si sofferma un attimo a osservarla, pensando che forse un bagno caldo le restituirebbe un po’ di tranquillità, ma la poca servitù già alzata sarà tutta ancora nei dintorni delle cucine, e se si mette a suonare rischia di svegliare tutta la casa prima di ottenere qualcosa. Decide allora di ripiegare sul lavabo posto all’angolo opposto e mentre vi si avvicina si sfila la camicia da notte, abbandonandola a terra. Si china a sollevare la brocca, sistemata sul supporto più basso della struttura metallica che sostiene il catino. È pesante, piena di acqua pulita, ne versa una parte a riempire il bacile e poi la posa a terra. Si rimanda indietro i capelli con le dita senza prestare troppa attenzione al proprio riflesso nello specchio tondo fissato sul lavabo, quindi si china e si sciacqua più volte il viso prima di afferrare l’asciugamano appeso sul lato e incamminarsi tamponando le guance verso la parete opposta alla finestra, dove si trova una grande cassettiera sostenuta da piedi di leone.
Nessuno le ha preparato i vestiti disponendoli ordinatamente sul letto ancora, per cui si deve arrangiare questa mattina. Apre il cassetto più in alto e comincia a rovistare alla ricerca di una camicia: fazzoletti… calze, nessuna camicia, ma le calze le serviranno e ne appoggia un paio sul mobile. Passa allora al cassetto sottostante: camice! Ne prende e spiega una, ma è più lunga di una camicia normale, è una camicia da notte, la ripiega in modo approssimativo e la rimette sulla pila da cui l’ha presa prima si passare a quella a fianco. Apre il nuovo fagotto di tessuto bianco, ma non trova nessuna manica, nessuna cucitura, quella che ha in mano è solo una lunga striscia di tessuto.
La riconosce come una di quelle fasce che Marie si era affrettata a recuperare dopo che una mattina era entrata mentre usciva dalla vasca, mentre Colette le si avvicinava, tenendo aperto il telo con cui l’avrebbe avvolta. La governante si era allora fermata a osservarla, o meglio, a fissare un punto preciso del suo corpo a un’altezza intermedia tra la gola e l’ombelico, con una sguardo tra il rassegnato e il meditabondo. Senza prestare alcuna attenzione alla sua espressione interrogativa, aveva sospirato e si era allontanata, per tornare poco dopo, prima che lei si fosse finita di vestire, con una di quelle fasce (9). Alle sue richiesta di spiegazioni aveva sbrigativamente risposto che oramai era tempo, senza meglio specificare, e le aveva mostrato come avvolgerle e fermare intorno al torace. A poco erano servite le sue rimostranze sulla scomodità di quel nuovo pezzo di vestiario; per quella giornata le aveva dovute tenere addosso, sotto la camicia, così da avere tutto il tempo per constatare che … no, non ci si sarebbe mai abituata!
Tutto questo era successo circa un anno prima, e da allora tutte le mattine aveva trovato una di quelle fasce stesa sul letto, insieme agli abiti per la giornata, e tutte le mattine lì l’aveva lasciata. L’unica cosa che era cambiata da allora era che aveva cercato di capire meglio il significato di quel lapidario “Oramai è tempo!”. Aveva osservato quindi con maggiore attenzione la porzione tra la gola e l’ombelico delle persone che la circondavano, constatando che in alcune persone aveva subito cambiamenti decisamente più drastici che in altre.
Alza gli occhi dalla fascia srotolata tra le sue mani, per dirigerli verso l’angolo alla sua destra, incontrando l’immagine intera del suo corpo nudo riflessa nella grande specchiera a tre ante. Si sistema meglio di tre quarti e raddrizza la schiena, portando il petto in fuori. Certo il suo petto è cambiato più di quello di André, soprattutto negli ultimi mesi, da quando una mattina, dopo una notte di mal di pancia, era stata presa dal panico ritrovando le lenzuola macchiate di sangue… e in quell’occasione le poco comprensibili direttive di Marie erano state provvidenziali. Ma sicuramente quei delicati rilievi sormontati di rosa, che le riempiono a mala pena il palmo della mano, non sono minimamente paragonabili al prosperoso seno di Marie-Suzanne! Lascia cadere a terra la fascia e si piega ad aprire l’ultimo cassetto, dove finalmente trova una camicia. Se la infila e apre le ante dell’armadio a sinistra della cassettiera, dove recupera i suoi pantaloni e il suo lungo gilet color salvia, che è sicuramente più che sufficiente per farla apparire in ordine. Indossa tutto, recupera le scarpe sistemate a fianco della specchiera, passa le dita tra i capelli controllando velocemente nel suo riflesso che tutto sia a posto, e si avvia con passo deciso attraverso la camera da letto, il salotto e l’anticamera, fuori da suoi appartamenti e poi giù dallo scalone verso le cucine.

È il vociare allegro proveniente dalla sala da pranzo della servitù, il cui ingresso precede quello della grande cucina lungo il corridoio senza finestre che sta percorrendo, a porla davanti all’evidenza, che in molti sono già svegli e operativi in casa a quell’ora per lei così inusuale.
Si ferma in ombra, sporgendo appena la testa dietro lo stipite della porta e osserva la scena: sono una decina, seduti sulle panche ai due lati del lungo tavolo che occupa quasi interamente la stanza lunga e stretta illuminata dalla fila di basse finestre disposte al limite superiore delle pareti. Il posto di Marie a capotavola è vuoto, anche se il tovagliolo spiegazzato e qualche briciola nel piattino rivelano che la colazione è già stata consumata. Anche gli altri commensali hanno finito di mangiare, si stanno solo attardando in chiacchiere: le ragazze con la loro uniforme da cameriera, gli uomini in maniche di camicia e panciotto, le giacche delle livree appese a un gancio al muro dietro a ognuno.
Riconosce Colette, che tutte le mattine si occupa di salire a svegliarla e prepararle il bagno e gli abiti, Vivianne, che è diventata la cameriera personale di sua madre da un paio di anni, e Jerome, l’attendente di suo Padre. Sembrano divertiti dai racconti degli altri commensali, che non riconosce. Deve essere il personale di sua sorella, anche a giudicare dalla fattura degli abiti: non ha mai visto delle uniformi e delle livree con tanti nastri e ricami a palazzo Jarjayes. La narrazione di un qualche aneddoto su un tale ospite del Conte a Parigi si conclude con una sonora risata della comitiva, mentre Jerome si alza e si aggiusta la giacca dopo essersela infilata.
“Mi spiace interrompere, ma sono quasi le sei e mi devo occupare della sveglia del Generale.”
Le viene da sorridere pensando che suo Padre non deve essersi svegliato tardi al mattino un solo giorno in vita sua, probabilmente considera una grandissima concessione avere disposto che lei possa dormire fino alle sette.
Tutti si sono alzati e si sistemano per andare a dedicarsi ai loro compiti. È Colette che parla adesso “Anche io è meglio che vada, devo approntare il bagno per quando si sveglierà Madamigella Oscar…”, dicendo questo gira lo sguardo verso l’ingresso della sala e la vede, “Ma… Madamigella, oddio… potevate suonare… mandarmi a chiamare…”
L’allegria di un attimo prima si è dileguata, adesso hanno tutti assunto un’aria rigida, un’espressione vagamente spaesata e la fissano. Si sente strana, in imbarazzo… probabilmente è così che si sentirebbe se dovesse ritrovarsi improvvisamente nuda in piedi in mezzo al tappeto a fiori, mentre suo Padre le fa uno dei suoi discorsi nel suo studio… e suo Padre assumerebbe probabilmente la stessa loro espressione!
“Vi prego, continuate pure quello che stavate facendo. Non ti preoccupare Colette … io…”, le serve una scusa plausibile per giustificare la sua presenza lì a quell’ora, “… io stavo cercando André…”
“Credo lo troviate in cucina, Madamigella.”, tiene le mani raccolte in grembo e la testa bassa mentre le parla, “Posso esservi utile in qualche modo?”
“Grazie Colette, non mi serve nulla, anche in camera ho fatto da sola questa mattina.”
“Vi ringrazio, Madamigella”, risponde Colette facendo la riverenza (10).
Dopo l’imbarazzante intermezzo torna a dirigersi verso la cucina, mentre tutti la salutano con un rispettoso inchino.
Quella che stia cercando André è una cosa detta per togliersi d’impaccio, perché suppone che sia ancora a letto, ma è proprio la sua voce quella che sente avvicinandosi alla meta.
“Ecco vedi… devi farlo scorrere così, e poi lo puoi inclinare per riempire i secchi…”
Le parole le arrivano sempre più distinte, mano a mano che si avvicina, e quando attraversa la soglia finalmente lo vede. È in camicia, le maniche arrotolate, in piedi accanto al camino, e sta mostrando come movimentare il paiolo di rame per avere l’acqua calda a una ragazzina in abito grigio. Lei avrà undici o forse dodici anni, non gli arriva neanche alla spalla ed è tanto magra che sembra perdersi dentro all’uniforme da sguattera. Ha un’espressione estremamente concentrata mentre osserva l’acqua che scorre dentro i secchi, con le mani nascoste sotto al grembiule.
“Allora Nanà (11), non è adorabile il nostro André?”, la voce argentina che pronuncia queste parole è quella di Annette, che sta impastando qualcosa sul tavolo antistante i fornelli, “… ma è sempre stato un bambino adorabile, dalla prima volta che ha messo piede qui dentro, non è vero Agnes?”, chiede girando il capo verso le pentole che sobbollono.
“Oh, sì, un frugoletto adorabile, … che è diventato anche più bello di quello che ci saremmo aspettate!”, esclama con la sua vocina squillante prima di esplodere in una risatina acuta e sonora.
Si è sempre chiesta Oscar, come quella voce così acuta e sottile potesse fuoriuscire da un mastodonte come Agnes. Se possibile con il tempo è diventata ancora più massiccia. Sicuramente non la si può definire bella, ma Jean-Luc non si stanca mai di decantare il buon carattere di sua moglie.
Gli ultimi anni sembrano essere invece stati molto generosi con Annette. Cominciare a occuparsi della cucina sembra aver ammorbidito anche le sue forme, ma solo nei punti giusti. Probabilmente Jerome avrà apprezzato anche questo oltre al suo colorito roseo e al temperamento dolce, quando l’ha sposata l’anno prima.
“Come sempre le signore sono troppo gentili con me”, è la risposta di André a tutti quei complimenti, accompagnata da un profondo inchino e dal suo sorriso da furfante.
La ragazzina intanto si è messa a fissarlo con un sorriso incerto, le sue guance sembrano avere preso fuoco.
Mentre continua ad avvicinarsi, André si tira su e finalmente si accorge si lei.
“Oscar! Cosa ci fai qui a quest’ora?!”
“Non riuscivo a dormire, così ho deciso di alzarmi”, risponde sorridendo semplicemente quando lo raggiunge.
“Allora non possiamo che fare le presentazioni! Questa è Nanà, che si occuperà delle mansioni che fino a qualche mese fa erano di Annette.”, dice allegro indicando la piccola.
“Piacere di fare la tua conoscenza, Nanà.”
Si è girata quel tanto che serve per guardarla in volto e quella che scorge è un’espressione di puro… terrore!
“Ma-ma-madamigella…”, balbetta facendo una tremante riverenza, mentre sul suo viso si alternano il panico per lei e un’espressione di speranzosa supplica per André.
Ecco cosa il mostro marino deve aver visto sulla faccia di Andromeda incatenata allo scoglio….”, pensa Oscar mentre la vede allontanarsi in tutta fretta (12).
“… scu-scusate devo andare a sparecchiare…”, la frase scema mentre si dirige di fretta verso la sala da pranzo.
“Ecco… con questa inaspettata apparizione l’hai spaventata…”, la voce di Andrè è vagamente divertita, mentre segue con lo sguardo la ragazzina che si allontana prima di puntare lo sguardo su di lei e sfoggiare uno dei suoi radiosi sorrisi, “… e tu Oscar? Perché non riuscivi a dormire? … dopo le letture di ieri sera i demoni ti tormentavano?”
“Mah, quali demoni… dopo le letture di ieri sera mi ha tormentata solo l’idea che ti devo proprio dare una lezione!”
Adesso è lei ad avere un’aria compiaciuta mentre gli dà le spalle e s’incammina verso l’esterno.
“Vai a prendere le spade André”
“Ma io ho fame….”, ribatte lui lamentoso mentre la segue.
Mentre lo aspetta sullo spiazzo, contemplando la luminosità brillante del primo mattino, si sofferma a pensare che qualunque cosa l’abbia tormentata dalla sera prima si sia improvvisamente dileguata.

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Va tutto bene finché giochi e corri, ma poi quando diventi più grande e devi scegliere diventa tutto più difficile, cominci a chiederti perché…. perché nel giro di un paio di giorni può succedere che … tutto il tuo mondo si trasformi in quello che hai sempre saputo sarebbe stato…
Questo pensiero le rimbomba in testa mentre fissa la sua espressione vuota riflessa nello specchio.
Il suo piccolo mondo sembrava essere tornato in equilibrio la mattina di due giorni prima, dopo il trambusto della sera precedente. André l’aveva raggiunta nello spiazzo sul retro del palazzo portando le spade, le aveva chiesto perché non andasse anche lei a Versailles, aveva liquidato l’argomento in modo sbrigativo; si erano scambiati qualche battuta da sbruffoni, come sempre, poi si erano affrontati e lei aveva potuto dare sfogo a tutta quella frustrazione che le covava dentro dalla cena con sua sorella. Aveva parato i suoi assalti e si era avventata su di lui per allentare quella tensione, come sempre, fino a che Marie non si era affacciata a una delle finestre del piano terra per riprenderli, strillando come un’aquila che era pericoloso, che André era solo un servo, che doveva chiamarla Madamigella… tutto negli schemi della sua familiare quotidianità, … tutto, nella sostanza, quello che le aveva dato tanto fastidio dalla bocca di sua sorella.
Avevano così concluso il loro duello mattutino, per buona quiete della nonna e perché i loro stomaci avevano cominciato a brontolare rumorosamente reclamando la colazione. La giornata era proseguita secondo una rassicurante consuetudine: cioccolata e biscotti nell’orangerie, lo studio in biblioteca, il pranzo nella sala piccola al piano terra… fino quando, nel pomeriggio, suo Padre era tornato dalla reggia e l’illusione di quel rassicurante ritorno alla normalità si era definitivamente infranta.
L’aveva convocata nel suo studio e lei si era trovata a fissare nell’ombra, adagiata su una delle poltrone vicino al camino, la concretizzazione delle aspettative di una vita, il risultato di un’esistenza programmata nella forma materiale di qualche metro di stoffa bianca, bottoni e mostrine dorate: un’uniforme militare.
“Stai per diventare Capitano delle Guardie Reali e dovrai proteggere sua Altezza Reale la principessa Maria Antonietta.”
Glielo aveva comunicato con tono neutro, non come un ordine, piuttosto come la constatazione ovvia di quello che doveva necessariamente essere.
“… ma prima dovrai affrontare in duello il giovane Girodelle. Io non ho dubbi sull’esito di questo scontro, infatti sei stato addestrato per quattordici anni a questo scopo… e ora vorrei indossassi questa divisa”
Le era andato incontro e forse per la prima volta gli aveva letto negli occhi la gioia dell’aspettativa di condividere la soddisfazione per la realizzazione della comune aspirazione.
Non si era dunque sorpresa della sua reazione quando gli aveva risposto.
“… io non ho alcuna intenzione di difendere una donna… ”
Con una reazione violenta e disperata l’aveva spinta fuori dallo studio e poi giù dalle scale, se la aspettava, la capiva, aveva chiesto perdono prima di allontanarsi, aveva bisogno di pensare.
“… difendere una donna… una donna…”
Non sapeva veramente perché le fosse venuta fuori una risposta del genere. Aveva sempre saputo di essere stata allevata per diventare un militare; avere addirittura il compito di difendere la Delfina era il più grande onore per un membro di una famiglia da sempre al fedele servizio della famiglia reale. Ma non aveva detto “la Delfina”, aveva detto “una donna…”. Una donna, come quella che, per quanto bella, non avrebbe voluto affrontare Girodelle il pomeriggio successivo e invece si era trovato costretto a fronteggiare, ingoiando il suo orgoglio e avendo alla fine la peggio, mentre il suo attendente fuggiva per andare ad avvertire il Re.
Come diavolo le era saltato in mente di aspettarlo e sfidarlo, disobbedendo a un esplicito ordine del Re?!
Disobbedire al Re è un atto di tradimento, lo sapeva, lo ha sempre saputo, non c’era certo bisogno che il Padre glielo ricordasse che la conseguenza di un simile gesto è il disonore e potenzialmente la morte.
Certo che lo sapeva, e nonostante tutto lo aveva fatto… tutto per non difendere “una donna”.
Una donna come sua Madre, una donna come sua sorella, una donna plasmata sulle aspettative dell’uomo a cui è andata in moglie.
Potrebbe essere una donna così lei? ... Certo che no… ma non è certo neanche un uomo! Anche questo lo sa da tempo, anche se nessuno lo ha mai detto in quella casa. Ma se fosse stata un uomo avrebbe avuto un attendente a passarle l’asciugamano dopo il bagno tutte le mattine e non una cameriera personale, quale è Colette, anche se nessuno la chiama così; se fosse stata un uomo Marie non sarebbe andata su tutte le furie perché dormiva nella camera di André.
“… fermati e diventa una donna…”
Questo le aveva urlato André quella mattina, mentre lei fuggiva a cavallo, dopo che le aveva stretto la mano dicendo che preferiva lasciarla libera di scegliere, mentre sdraiati a terra respiravano affannati e lei sentiva quel calore oramai così familiare dentro. Lo aveva aggredito quella mattina al lago, dopo la cavalcata, dopo esserselo trovato nelle stalle all’alba. Lo aveva colpito perché lo sapeva che doveva cercare di convincerla, che glielo aveva ordinato suo Padre, che il Re l’aveva perdonata e quindi doveva obbedire e diventare Capitano delle Guardie Reali per difendere una donna. Lo aveva colpito perché era confusa e furiosa, perché voleva sentirlo addosso … se era vero che lui capiva cosa provava.
“… fermati e diventa una donna…”
Cosa voleva dire? Una donna come sua Madre? Una donna come sua sorella? Una donna come quella che non avrebbe voluto affrontare Girodelle?
Lei era Oscar, era sempre stata Oscar, che tirava di scherma, che aveva un attendente, che era libera di passare le giornate a scorrazzare in giro con André e le serate con lui a bere davanti al camino, ma che aveva una cameriera personale… davvero André le stava dicendo di diventare altro da Oscar?
Lo scatto della serratura e il cigolio dei cardini di una porta che si apre la riscuotono dai suoi pensieri. Si gira verso la sua sinistra, una piccola figura in grigio compare dietro l’armadio dello spogliatoio portandosi dietro un secchio.
“Nanà…”
La piccola alza di scatto lo sguardo verso di lei.
“Oddio…. Mi scusi Madamigella…”, è spaventata, la sua voce trema, “io non sapevo, pensavo che… ero venuta per… ”, guarda il secchio… guarda il mobiletto che contiene il pitale… si gira nuovamente verso di lei con aria incerta.
E’ entrata dal portoncino della servitù, quel piccolo ingresso nascosto che lei non attraversa mai, e che permette alla sguattera e alle cameriere di far si che ci sia sempre acqua fresca, biancheria pulita, il pitale svuotato, così che lei possa beneficiare di quelle comodità senza preoccuparsi di cosa è stato necessario fare per ottenerle.
“Non ti preoccupare Nanà, fai quello che devi, ti ringrazio.”
Cerca di sorriderle in modo rassicurante.
La ragazzina dopo la prima esitazione si muove e si avvia a svolgere le sue mansioni.
Lo sguardo di Oscar la segue e poi scivola poco lontano sull’uniforme appoggiata in bella mostra sul servo muto accostato al muro, suo Padre deve averla fatta mettere lì.
Fare quello che è necessario… per assecondare le aspettative di un Padre?
Fare quello che è necessario per continuare a essere Oscar… per avere quello che è importante per Oscar.
Si sfila la camicia con un unico gesto, va verso la cassettiera e dal secondo cassetto estrae una delle fasce.
“Nanà ti prego, aiutami.”
Lo dice avvolgendosi il primo giro intorno al petto.
“… ma io non…Madamigella vi chiamo Colette…”
“No, aiutami tu, ti prego…”
La piccola le si avvicina, ha le mani nascoste nel grembiule, la guarda dubbiosa.
“Aiutami, tienila ben tesa… stringi…”
Un giro poi un altro.
“Oddio,… Madamigella scusate… vi… vi ho fatto male?”
“No, non mi fai male…”
“Ma… state piangendo…!”
Lo dice in un sussurro, e i suoi occhi diventano lucidi mentre li alza verso i suoi.
Allora si guarda nello specchio Oscar e con una mano porta via la lacrima che le riga la guancia.
“Non è niente, non ti preoccupare…”
Continua a guardarsi mentre le fasce l’avvolgono e le lacrime adesso rigano le guance di Nanà, che non capisce,… forse.

Percorre a grandi passi la galleria che conduce allo scalone principale, chiusa nelle fasce, chiusa nell’uniforme, la spada al fianco e lo sguardo altero. I colpi regolari dei suoi stivali sul marmo riempiono l’aria fino a quando in lontananza è la voce stentorea del Padre che richiama la sua attenzione “… non può essere… non è così…”, seguita da quella di Andrè “Signore, aspettate…”
Ora li vede, la fissano, sono rimasti bloccati in fondo alla scala e fissano il Capitano delle Guardie Reali.
Nessuno dice niente mentre scende le scale, mentre dall’espressione di stupore di suo Padre emerge la soddisfazione, potrebbe quasi dire che le sembra commosso. Neanche Andrè, poco più in la dice nulla, ma il suo sguardo si è fatto serio, non è triste, non è arrabbiato… sembra solo… compito, nessuna emozione, lo sguardo che ci si aspetta da un bravo servitore… si gira e si allontana André, senza aspettare che lei raggiunga la fine delle scale.

Le ha detto che lo sapeva il Generale, che sapeva che avrebbe fatto la cosa giusta, lei ha ringraziato suo padre, lo ha salutato e si è diretta verso l’uscita. Deve andare alla Reggia, obbedire al Re, prendere servizio e diventare quello che ha sempre dovuto essere.
André la aspetta nello spiazzo antistante il palazzo, i cavalli sellati, l’espressione composta. Le fa un leggero inchino passandole le redini, l’aiuta a salire in sella poi monta a sua volta.
“Andiamo André.”
Lei parte al passo, lui la segue.
Mi vedi vero Andrè? La vedi Oscar chiusa qui dentro?
Se lo chiede mentre lo sente da quel familiare calore nel petto il verde degli occhi di Andrè che la fissano.



E ora
tocchi l’acqua con i tuoi piccoli piedi,
con il tuo piccolo cuore,
e non sai che fare!

Son migliori
certi viaggi notturni,
certi scompartimenti,
certe divertentissime passeggiate,
certi balli senz’altra conseguenza
che continuare il viaggio!

Muori di paura o di freddo,
o di dubbio;
io, con i miei grandi passi,
la troverò,
dentro di tè,
o lungi da tè,
e lei mi troverà,
lei che non tremerà davanti all’amore,
lei che sarà fusa
con me
nella vita o nella morte!


Da “Le Ragazze” di Pablo Neruda



(*) Lo so che all’inizio della puntata “La grande scelta” dicono che è il ’69 … ci ho rimuginato un po’ e sinceramente alla fine ho deliberato per la primavera del 1770. Un po’ per alcuni riferimenti che mi facevano gioco, un po’ perché nella primavera del 1969 Oscar aveva 13 anni e non 14 come viene detto (13 per diventare capitano erano pochini anche per l’epoca… in realtà anche 14), inoltre nella primavera del ’69 il fidanzamento di Maria-Antonietta non era ancora ufficiale (l’annuncio è di metà giugno) e con il tasso di mortalità delle principesse Asburgo … Torna su
  1. è un po’ una che tende a tagliare le cose con l’accetta la nostra Oscar! Romeo e Gulietta parlano di rose… la giovane Oscar fa quel che può e parla di querce. Torna su
  2. Questo dettaglio è preso dalla storia del vero Conte Francois Augustin Reynier, che ha ereditato il titolo di Conte di Jarjayes dal padre, che lo aveva ottenuto grazie all’acquisizione della proprietà e al conseguente reintegro nel Secondo Stato. Titolo piuttosto recente nonostante la lunga tradizione militare a servizio della casa reale, nella storia vera il Conte “stabilizzò” la propria condizione tramite il fedele servizio a corte e un secondo matrimonio con una giovane contessa vedova prediletta dalla regina. Torna su
  3. In realtà il vero La Pouplinier non c’era più da mo’… ipotizziamo un discendente, sempre finanziere e sempre estremamente ricco. Torna su
  4. La conversazione circa i bottoni dei loro panciotti era molto alla moda tra i gentiluomini settecenteschi (da cui l’espressione “attaccare bottone”) Torna su
  5. Frase vera d’epoca presa da “Guida pettegola al settecento francese”, Bonci, Ed. Sellerio. Con i coniugi di Clermont volevo dare uno scorcio della società francese dell’epoca, dato che a Palazzo Jarjayes i costumi non sembrano essere stati aggiornati da prima dell’avvento di Luigi XIV! Non era mio intento farli sembrare solo fatui e stupidi. Diciamo che sono un super-bignami di una serie di concetti di base della società dell’epoca con cui sicuramente Oscar non ha nessuna familiarità (oltre che emotivamente è anche socialmente un po’ disadattata): l’esistenza ha una dimensione sociale e non individuale; la promiscuità sessuale è assoluta, l’amore è una cosa divertente non qualcosa per cui valga la pena struggersi e sicuramente non rovinarsi o morire, per cui abbi tutti gli amanti che vuoi, purchè socialmente accettabili se non addirittura graditi e gestiti con l’opportuno garbo; attraverso una buona gestione della sua vita sociale, una donna poteva acquisire un grande potere; puoi dire le peggio cose a chiunque, purchè tu lo faccia con in modo apparentemente amabile ed elegante. Spero che nella sintesi siano riusciti a fare entrare un po’ di leggerezza a palazzo. Torna su
  6. Nell’autobiografia dell’abate di Choisy, “Storia di un abate vestito da donna”, parla continuamente di questa crema miracolosa con cui lui mantiene un incarnato come quello di una giovinetta, non ho resistito e infilarcela. Torna su
  7. “Il diavolo innamorato” di Jacques Cazotte in realtà è stato pubblicato la prima volta nel 1772 ed è uno dei primi romanzi gotici. Mi prendo la licenza di farglielo leggere con due anni di anticipo, ma mi piaceva l’idea d metterli a fare qualcosa di comparabile a guardare un film horror di nascosto e la trama mi pareva particolarmente azzeccata (il diavolo tenta di sedurre il giovane Alvaro prendendo la forma di una bellissima ragazza bionda che all’inizio si presenta spacciandosi per un paggio, a un certo punto poi Biondetta, il nome che viene dato alla ragazza-demone, fa tutto un panegirico sulla difficoltà di gestire le percezioni della forma di femmina che ha deciso di assumere). È una storiella un po’ stupida, ma l’ho preferita a quei polpettoni dei romanzi gotici inglesi (tipo The mistery of Udolfo .. bleah) ed è stato ripubblicato insieme a una novella di Camilleri Ref. “Il diavolo. Tentatore. Innamorato”; Camilleri, Cazotte; ed. Feltrinelli Torna su
  8. Il primo desiderio che nella storia Alvaro, il protagonista, esprime quando invoca il demone è appunto quello di avere da mangiare e bere per lui e i suoi compagni. Torna su
  9. Secondo me sono assolutamente un’idea di Nanny. Vuoi che il Generale si sia messo a dare indicazioni sulla gestione degli acerbi seni della figlia!? Dei quali sicuramente preferisce ignorare l’esistenza. Non potendo mettere in nota spese l’ordine di un corsetto a una bustaia… Torna su
  10. Chissà se Colette se lo immagina il casino che le ha lasciato Oscar nello spogliatoio mentre la ringrazia… Colette è ovviamente la cameriera personale di Oscar, anche se a palazzo non è permesso chiamarla così. Jerome è l’attendente del Generale, quindi si occupa personalmente di lavarlo e vestirlo… mentre non è André che passa l’asciugamano a Oscar quando esce dalla vasca… anche se probabilmente… suppongo lui avrebbe apprezzato una maggiore coerenza del Generale nell’imporgli di occuparsi anche di questa mansioni previste per un qualsiasi altro attendente. Torna su
  11. Mi piaceva solo il suono del nome, niente a che fare con quello schifo di donna del romanzo di Zolà Torna su
  12. Va da se, che in questo quadretto André avrebbe il ruolo di Perseo! … avevo ipotizzato di far formulare anche questo pensiero a Oscar… ma poi ho realizzato che era ben al di la delle sue capacità di presa di coscienza. Torna su



Angolo dell’autore:
Come detto questa raccolta è una rilettura, quindi il mio intento è di rimanere fedele alla storia originale (prevalentemente dell’anime, a volte del manga che in certi passaggi mi pare più… logico). Ho rimuginato parecchio se includere questo passaggio nella raccolta, ma alla fine l’ho ritenuto necessario perché: “crescere” insieme è un punto essenziale della costruzione di qualunque rapporto; è una svolta fondamentale nella vita di entrambi. Mi sono interrogata parecchio sull’opportunità di inserire questo stralcio di vita anche per la recente pubblicazione della bellissima ff di trilli75 “Un destino d’amore” che ripercorre proprio “La grande scelta” completando in modo fedele l’anime. Alla fine ho deciso che avevo bisogno di includerla per tutta una serie di aspetti complementati che volevo includere (con la mia testa bacata) e spero che siano risultati comprensibili, dovendoli esporre dal punto di vista di Oscar, che, come sappiamo, è la campionessa assoluta dello sport tradizionale della famiglia Jarjayes: se le cose non le chiami con il loro nome, puoi fare finta che siano qualcos’altro. Se razionalizzasse quello che vede e sente non sarebbe lei… per cui … spero non ne sia uscito solo un grande guazzabuglio.


“Come possiamo intenderci se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro?” (cit. Pirandello)

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Capitolo 3
*** Anello 3: Fiducia ***


Anello 1.3: Fiducia

 
Premessa dell’autore:
Prima di tutto come sempre ringrazio chi ha inserito la mia storia tra le seguite/da ricordare o addirittura preferite… grazie, grazie, grazie ;-) e ovviamente chi ha la pazienza di recensire, mi aiuta veramente tanto a capire quello che effettivamente arriva delle mie balorde idee!
Dopo di che mi scuso infinitamente per il ritardo con cui pubblico, un po’ per la carente disponibilità di tempo, ma soprattutto perché … comincia la fase difficile della storia, difficile nel senso che loro due cominciano a stare male… e ci sto male anche io scrivendo (perché sono una pazza)… per cui ho dovuto interrompere ogni tanto la scrittura di questo capitolo per “ristorarmi” con parti più gratificanti di capitoli successivi…
In compenso il capitolo è smodatamente lungo (lo dico sempre, ma… significativamente più dei precedenti… se non c’è la qualità sicuramente c’è la quantità), spero sinceramente non risulti noioso, e pieno di note (leggibili comunque tutte alla fine o … non da leggere se non vi va XD)…
Spero di non sfinirvi … incrociamo le dita e buona lettura …
 
 

 
Voglio che tu sappia
una cosa.

Tu sai com'è questa cosa:
se guardo
la luna di cristallo, il ramo rosso
del lento autunno alla mia finestra,
se tocco
vicino al fuoco
l'impalpabile cenere
o il rugoso corpo della legna,
tutto mi conduce a te,
come se ciò che esiste,
aromi, luce, metalli,
fossero piccole navi che vanno
verso le tue isole che m'attendono.

Orbene,
se a poco a poco cessi di amarmi
cesserò d'amarti a poco a poco.
Se d'improvviso
mi dimentichi,
non cercarmi,
ché già ti avrò dimenticata.

Se consideri lungo e pazzo
il vento di bandiere
che passa per la mia vita
e ti decidi
a lasciarmi alla riva
del cuore in cui ho le radici,
pensa
che in quel giorno,
in quell'ora,
leverò in alto le braccia
e le mie radici usciranno
a cercare altra terra.

Ma
se ogni giorno,
ogni ora
senti che a me sei destinata
con dolcezza implacabile.
Se ogni giorno sale
alle tue labbra un fiore a cercarmi,
ahi, amor mio, ahi mia,
in me tutto quel fuoco si ripete,
in me nulla si spegne né si dimentica,
il mio amore si nutre del tuo amore, amata,
e finché tu vivrai starà tra le tue braccia
senza uscire dalle mie.

 
Pablo Neruda
 
 
 
Venerdì 25 Maggio 1770, Versailles
 
 
Candida e affusolata è la mano sinistra di Oscar, elegantemente adagiata sulla sobria scrivania in radica, mentre lei rilegge attenta il rapporto che ha appena finito di redigere, esitando con l’altra mano sulla penna già infilata nel calamaio.
L’immagine del Capitano delle Guardie della Delfina seduto alla scrivania del suo ufficio, incorniciato dalla tenue luce della sera, che filtra dalla grande finestra alle sue spalle, è composta e controllata. Solo il mignolo che si agita appena, sfregando contro l’anulare, tradisce un certo nervosismo, o almeno questo è quello che si è soffermato a osservare André, fermo ad aspettarla sulla soglia, dopo aver avvertito il responsabile dei mozzi di stalla di far preparare i loro cavalli.
Ha imparato da bambino il significato dei piccoli dettagli, che rivelavano cosa girava davvero nella testolina della piccola Oscar quando rivestiva i panni del composto soldatino, e il ricordo del significato di quel ditino nervoso ora lo fa sorridere con tenerezza.
“Ho quasi finito André, tra poco possiamo andare.”
La voce tranquilla di Oscar lo richiama dai suoi dolci ricordi, mentre lei sparge uniformemente il polverino sullo scritto prima di soffiarlo via in un colpo.
“Non ti preoccupare Oscar, non c’è fretta. Ora che la richiesta dei cavalli avrà passato tutti gli ordini gerarchici della servitù di stalla e saranno finalmente pronti nello spiazzo, ci vorrà almeno un buon quarto d’ora. L’etichetta prima dell’efficienza… non ritieni sia ridicolo?[1]
“Questo non è ridicolo… è Versailles!”
Risponde Oscar con tono grave, senza tradire alcuna emozione, mentre un lieve fremito delle narici tradisce una risata perfettamente trattenuta e il deliberato intento di fare il verso a Madame de Noailles[2].
Abbassa lo sguardo a terra André, sforzandosi di contenere una risatina, mentre pensa che l’abilità di Oscar a non far trasparire i suoi pensieri sia veramente perfetta per il palcoscenico di Versailles.
“La crisi è dunque stata sventata?”
Le chiede avvicinandosi per porgerle i guanti, mentre lei si aggiusta la spada al fianco dopo essersi alzata.
“Non è stato immediato, ma a quanto pare sono riuscita a gestire la situazione senza morti né feriti.”
Nonostante il tono della voce rimanga neutro, il sopracciglio di Oscar si è alzato e le labbra hanno assunto una strana lieve smorfia.
“Come dici tu: questa è Versailles!”
Questa volta è lui a simulare un tono grave, mentre varcano l’ingresso del Salone delle Guardie, dove i valletti stanno già accendendo le candele del lampadario.
Non hanno mai lasciato la Reggia così tardi dalla celebrazione del matrimonio reale, una decina di giorni prima, quando era stato necessario perlustrare i giardini palmo a palmo durante il ricevimento, per assicurarsi che non fosse rimasto nessuno, dopo l’apertura al pubblico in occasione delle celebrazioni e la scomposta fuga della massa per la tempesta che si era abbattuta durante il pranzo reale[3], e poi gestire il deflusso del seguito reale dalle camere della Delfina dopo la cerimonia di benedizione del talamo nuziale.
Da allora le giornate si erano svolte tutte uguali, scandite da una tediosa regolarità imposta dal protocollo di corte: la levè della Delfina alle nove e trenta, la prima vestizione, le preghiere, la colazione, la visita alle zie[4] ed eventualmente al Re, l’acconciatura alle undici, l’ingresso del seguito per il trucco, il lavaggio delle mani e la vestizione pubblica, in cui il diritto di sangue regola rigidamente l’onore di passare alla Delfina una pantofola, una salvietta o una sottoveste, la messa, il pranzo pubblico con il Delfino e via così fino alla pubblica messa a letto.
Ogni fase del cerimoniale era controllata e diretta dallo sguardo vigile della severa Madame de Noailles e mediata dal lavoro delle Guardie comandate da Oscar, che dovevano seguire e vigilare negli spostamenti della Principessa, e gestire l’ingresso e l’uscita del seguito dalle sue stanze, riconoscendo il diritto dei singoli e annunciando con un colpo di tacco i principi del sangue, compito per il quale riconoscere grado e titolo di ogni individuo era di gran lunga più necessario che saper maneggiare una spada.
Quel pomeriggio, però si era verificata un’autentica catastrofe, almeno in base alla reazione della Prima dama d’onore! L’apocalisse si era abbattuta sulle stanze della Delfina nella forma di due bimbetti, figli di una cameriera. La futura regina di Francia l’aveva pregata di farli salire nel cabinet della chaise[5] dopo pranzo. Quando Madame de Noailles era entrata per condurla alle tre dalle zie, come ogni giorno, anziché trovare la Principessa intenta a leggere o a ricamare come previsto, era rimasta impietrita dall’orrore trovandola a rotolarsi a terra ridendo con i due piccoli[6]. Aveva quindi richiesto l’immediato intervento delle guardie come se ne andasse dell’integrità del regno, e Oscar era dovuta intervenire, in quanto ufficiale in comando, per cercare di ricomporre la vertenza.
“Dopo un lungo dibattimento siamo giunti a barattare la solenne promessa della Delfina di non farlo più con la libertà dei piccoli e l’assegnazione della cameriera in questione al servizio della Principessa di Lamballe[7]. Ho provveduto a verbalizzare il tutto in un apposito rapporto.”
L’espressione di Oscar tradisce una certa rassegnazione.
“Mi sorprende che a Madame non sia venuto un colpo assistendo alla scena!”, scherza lui.
“Sicuramente la cosa l’ha messa a dura prova, ma se è sopravvissuta alla cerimonia della consegna a Shüttern, quando l’Arciduchessa le si è gettata piangente tra le braccia[8], e al successivo attentato[9], credo che il suo cuore sia in grado di sopportare colpi peggiori!”
Mentre Oscar si allontana dirigendosi verso un sottotenente e le dodici guardie di turno per le ultime verifiche sulle consegne fino alla mattina successiva, lui la aspetta composto, come si addice a un buon attendente, lasciando vagare lo sguardo sulle decorazioni geometriche in marmo policromo delle pareti e sulle dorature che sovrastano le porte, che, confrontate con quelle delle stanze reali, possono essere definite minimali. La sua espressione deve essere un po’ perplessa perché si sente richiamare dalla voce di Oscar che gli si è nuovamente avvicinata.
“Qualcosa che non va?”
“Stavo solo osservando quanto più scarni siano i decori di questa sala pur così vicina alle stanze reali. Anche il tuo ufficio, non deve essere mai stato rinnovato negli ultimi cento anni.”
La sta guardando negli occhi ora, e le sue parole sembrano averla un po’ sorpresa.
“Probabile, ma se i mobili del mio ufficio andavano bene per mio Padre e i suoi predecessori non si spiega perché non dovrebbero andare bene per me. Questa sala, poi, viene usata solo dalle guardie, non c’è motivo per rinnovarne i decori. Le Dame e le Regine si occupano di questo genere di cose per le loro stanze e qui dentro certo non ne entrano!”, la sua espressione adesso è divertita.
 “Ecco per di qui, mi raccomando fate attenzione!”
La voce di Jacob, l’attendente del tenente Girodelle, richiama l’interesse di entrambi verso una delle due porte d’ingresso alla sala. Sta facendo strada a un gruppetto di valletti che trasportano dei mobili: una scrivania, due sedie, una poltrona e una consolle. Tutti i pezzi sono decisamente di ottima fattura e indubbiamente alla moda: lucidi legni laccati color miele, eleganti dorature, una finissimo broccato di seta verde per le sedute.
Jacob si è girato e guida il gruppetto verso l’ufficio di fianco a quello di Oscar, assegnato al suo secondo, quando si accorge della loro presenza. Allora si blocca, rivolge un profondo inchino, forse un po’ rigido, per salutare Oscar e uno sguardo veloce in direzione di André, prima di tornare alle sue mansioni, mentre i due si attardano un attimo a osservare la processione che entra nell’ufficio.
“Dicevi? …”, è la risposta divertita di André[10].
 
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Colette lo precede lungo la grande scala di marmo, reggendo un candelabro a tre bracci per illuminare il percorso verso la camera di Oscar. Sono passate le dieci e mezza e tutto è immerso nel buio, sua nonna è sempre stata molto attenta che le candele non venissero tenute accese in giro per la casa inutilmente.
 
Erano quasi le nove quando finalmente avevano raggiunto i cavalli, il sole era già molto basso sull’orizzonte e faceva allungare le loro ombre sulla fine ghiaia del cortile laterale.
Due mozzi di stalla avevano tenuto ferme le loro cavalcature mentre lui aiutava Oscar a salire in groppa a Caesar, sostenendole saldamente lo stivale sinistro tra le mani avvolte nei guanti di camoscio, per poi montare su Alexander. Si erano quindi avviati verso le cancellate dorate, al passo, composti ed eretti sulla sella; Oscar faceva strada, lui la seguiva, entrambi prestando attenzione solo alla strada davanti a loro.
Avevano superato i cancelli, portando l’andatura al trotto, ma sempre con la stessa compostezza, fino a quando non erano stati sufficientemente lontani dalla vista delle guardie, allora Oscar si era girata quel tanto da farsi notare da lui, strizzando gli occhi per il sole che si stava incendiando alle loro spalle e alzando appena un angolo della bocca. La reazione era stata immediata, un colpo secco ai fianchi dei cavalli ed erano partiti al galoppo, reggendosi sulle staffe con il cuore leggero per vedere chi sarebbe arrivato primo a casa.
Avevano smesso di spronare i cavalli solo una volta superato il traguardo dei cancelli del palazzo, e avevano continuato a discutere, tra il serio e il faceto, su chi fosse arrivato prima fino a raggiungere lo spiazzo dove avevano trovato la nonna, che era stata sicuramente attirata dalle loro voci e dallo scalpiccio degli zoccoli, ma doveva essere rimasta di vedetta ad aspettarli per essere già li.
Avevano atteso, nella luce violacea del sole ormai sprofondato all’orizzonte, di cedere a Jean-Luc le redini, mentre Marie li rimbrottava sul fatto che non fossero più dei bambini e se fosse quella l’ora di arrivare, senza badare minimamente alla contraddizione.
“Il Generale e Madame hanno già cenato.”
Aveva detto precedendoli attraverso l’ingresso delle cucine.
“Do subito ordine di apparecchiare per la cena nella sala piccola mentre Colette ti aiuta a cambiarti … ”[11]
“Non serve. Ti ringrazio, ma preferisco mangiare qualcosa nelle mie stanze e andare a letto presto. Può portarmi qualcosa André e farmi compagnia.”, l’aveva interrotta Oscar sfilandosi i guanti e allentando il colletto dell’uniforme.
“Il Generale ha ordinato di mandarlo nel suo studio non appena foste arrivati.”, aveva obiettato titubante.
“Nessun problema, aspetterò che abbiano finito e intanto mi darò una rinfrescata.”, aveva concluso Oscar con un lieve sorriso, prima di girarsi e dirigersi attraverso l’uscita delle cucine nelle sue stanze, senza attendere repliche.
A quel punto la nonna si era finalmente rivolta direttamente a lui, ma solo per dirgli con tono brusco, “Non hai forse sentito? Il Generale ti sta aspettando, forza muoviti!”, poi dirigendosi verso Annette, in attesa di ordini, aveva chiamato, “Nanà, porta qui il vassoio grande che hai lucidato ieri.”
Aveva valutato un attimo se replicare, prima di voltarsi e dirigersi verso lo studio scuotendo la testa con un mezzo sorriso, incrociando la servetta, che gli aveva rivolto un veloce saluto lievemente imbarazzato mentre trasportava un vassoio grande quasi quanto lei.
 
Dopo aver bussato ed essere stato autorizzato a entrare, aveva trovato il Generale comodamente seduto in una delle poltrone davanti al camino, intento a leggere alla luce di un candelabro appoggiato sul tavolino. Il tenue bagliore e la brezza lieve che entrava dalla finestra aperta, rendeva la stanza inusualmente accogliente. O forse era semplicemente lui che si era abituato a quell’ambiente e aveva cominciato a trovarlo familiare. Effettivamente, si trovò a considerare, c’era da stupirsi che al centro di quel grande tappeto a fiori non si fosse formato un buco considerando quante volte ci si era trovato a pestare i piedi con e senza Oscar. Da quando lei aveva preso servizio come Capitano delle Guardie Reali, il più delle volte senza. Il Generale lasciava detto a sua nonna di raggiungerlo nello studio, come se fosse un’eccezione, come se quelle convocazioni serali non fossero diventate, di fatto, una regola.
“Tutto bene Andrè?”
Un incipit cortese ma vago, come ogni sera, riportando lo sguardo sul libro dopo un veloce cenno di saluto, a cui lui aveva replicato con un sintetico, seppur accurato, resoconto delle attività della giornata, prestando, come sempre, particolare attenzione nel mettere in risalto le occasioni in cui Oscar si era distinta.
Sin dalla prima di quelle convocazioni, aveva pensato che il Generale volesse discretamente assicurarsi che il figlio facesse tutto quello che era necessario per rendere onore al nome dei Jarjayes.
Da quando però gli aveva riportato i dettagli del salvataggio della Delfina a Shüttern, qualcosa nel suo atteggiamento sembrava essere cambiato. La fedele descrizione delle azioni compiute da Oscar, per trarre in salvo Maria Antonietta, sprezzante del pericolo, sembrava aver offuscato la luce di orgoglio, che aveva illuminato il suo sguardo in seguito alle numerose attestazioni di stima ricevute per l’eroismo del figlio.
Gli era parso come se l’uomo, che aveva chiesto a Oscar di indossare un abito per impersonare la Delfina, facendo da bersaglio per un possibile attentato, e che si era indignato al suo rifiuto, si fosse improvvisamente trovato a fare i conti con qualcosa che forse non aveva mai realmente considerato, con la concretezza dei rischi che avrebbe dovuto fronteggiare sua figlia per il giuramento di adempiere sempre con onore ai suoi doveri, così come lui le aveva insegnato[12].
Nulla di concreto in quello che il Generale aveva fatto o detto aveva confermato questa sensazione, ma l’apparente soddisfazione del Padre di Oscar, che certo non era mai stato un assiduo frequentatore della Corte se non per dovere, nell’ascoltare i resoconti della rassicurante e non particolarmente eroica monotonia delle attività di quegli ultimi giorni a Versailles, aveva in qualche modo rafforzato quell’impressione.
“Tutto bene Generale.”
Era la frase rassicurante con cui aveva concluso come sempre il breve incontro prima di accomiatarsi.
 
Il suono del pianoforte di Oscar filtra da dietro la porta, non sta suonando nulla in particolare, solo arpeggiando accordi sulla tastiera in modo apparentemente casuale, come fa a volte quando è sovrappensiero, sicuramente è per questo, che non ha risposto quando Colette ha bussato.
La cameriera si è girata a guardarlo in viso con aria interrogativa, come a chiedere a lui l’autorizzazione per entrare in camera di Oscar.
“Apri pure, mi sta aspettando.”
La rassicura con un garbato sorriso, mentre considera che a nessuno fuori da li verrebbe mai in mente di chiedere a lui il permesso per qualcosa.
L’anticamera delle stanze di Oscar è completamente avvolta nell’oscurità tranne che per l’alone luminoso del candelabro nelle mani di Colette, che li avvolge, e il lieve bagliore che proviene dalla sala attigua, verso la quale si dirigono dopo aver richiuso la porta.
“Madamigella, è permesso?”
La cameriera, chinando il capo, richiama l’attenzione di Oscar, seduta al piano posto di fronte alla grande portafinestra di destra del salon, una delle tre che consentono l’accesso al balcone. Dopo un attimo sembra riemergere dai suoi pensieri e alza finalmente il viso dai tasti rivolgendo al richiamo un sorriso garbato.
“Abbiamo portato la cena, Madamigella. Se qui non serve altro, andrei a preparare la camera per la notte.”
“Grazie Colette, vai pure.”
Mentre la ragazza scompare attraverso l’arcata che conduce alla camera, Oscar si alza e con un sorriso impertinente si dirige verso di lui, che, dopo aver appoggiato il vassoio sul tavolo posto di fronte alla finestra centrale, sta apparecchiando per entrambi.
“André, avevi forse deciso di farmi morire di fame?”
 
“Posso avere un altro po’ di vino?”
Glielo chiede agitandogli davanti al viso il calice, mentre si regge il mento con l’altra mano. La luce soffusa delle candele fa scintillare il cristallo, i cui bagliori risaltano nella penombra della grande sala illuminata solo da pochi candelabri, la cui luce esalta i toni dorati del broccato che ricopre le pareti al di sopra della boiserie.
“Solo se finisci quello che hai nel piatto.”
Risponde lui, divertito al pensiero di quello che direbbero a Corte se lo sentissero rivolgersi in quel modo al Capitano delle Guardie. In fondo il nuovo incarico alla Reggia non ha cambiato nulla, pensa, ogni giorno rispettano il compito di impersonare i ruoli a loro assegnati, ma alla fine sotto quelle maschere rimangono sempre loro.
“Ma non ho più fame…”, ribatte lei lamentosa, fissando con aria sconsolata gli avanzi di pollastra e timballo di riso che occupano ancora buona parte del suo piatto, “… e poi tu, hai mangiato per due!”
“… e mia nonna aveva fatto preparare cibo per quattro, richiederà ad Annette sicuramente un accurato rapporto sugli avanzi, dei quali io verrò ritenuto responsabile. Quindi impugna la forchetta e mangia, e avrai il tuo vino.”
Le prende il calice dalle mani per riempirlo, mentre la osserva portare il cibo alla bocca con aria svogliata, lanciandogli di tanto in tanto delle occhiate in tralice.
La leggerezza della situazione lo diverte, benché si renda conto che non sia assolutamente da Oscar un comportamento così forzatamente infantile, che stranamente gli ricorda un po’ quello di Maria Antonietta. Si è atteggiata così per tutta la cena, come se ne avesse bisogno per scrollarsi di dosso a forza gli ultimi brandelli del Capitano, per scacciare dalla mente qualche pensiero fastidioso.
“Ecco, questo è veramente l’ultimo!”, e spalanca la bocca per infilarci in boccone gigantesco, che mastica ostentatamente per un po’ con le guance gonfie fissandolo negli occhi, per poi mandarlo giù con una generosa sorsata di vino.
“Va bene, vorrà dire che non ti andranno nemmeno queste…”, lo dice allungando la mano verso una ciotola ancora posta sul vassoio e coperta da un tovagliolo. La sposta sul tavolo in mezzo a loro e ne svela il contenuto.
Gli occhi di Oscar s’illuminano mentre si affretta a prendere una manciata di ciliegie e se ne porta una alla bocca. Staccando il picciolo, però, abbassa gli occhi e la sua espressione si fa improvvisamente pensierosa. Dopo un attimo alza nuovamente lo sguardo su di lui: la sconosciuta bambina capricciosa è scomparsa, lasciando nuovamente il posto a Oscar.
“Di cosa avete parlato?”
Ha sputato fuori quella frase come adesso, un po’ accigliata, sta sputando nel piatto i noccioli delle ciliegie mentre attende la sua risposta, come qualcosa che proprio non riusciva a mandare giù.
“Di cosa vuoi che abbiamo parlato Oscar? Di te, o meglio… ho fatto il solito resoconto sulle attività della giornata, come sempre. Non credo possa essere definita una conversazione.”
Gli viene da sorridere appena, continuando a osservarla mentre tortura un picciolo tra le dita, lo sa quanto la disturbi non aver tutto sotto controllo, dover scendere a patti con quelle che considera le sue debolezze, e dover ammettere una simile curiosità la deve far sentire tremendamente esposta.
Quello che non capisce è perché, proprio quella sera. I suoi rapporti al Generale non sono certo una novità, e lei somiglia talmente tanto al suo marziale genitore che questa comunicazione indiretta è sempre sembrata andare più che a genio a entrambi: un po’ come se la sua capacità di interpretarli e la sua facilità di parola fossero sempre servite a sopperire alla scarsa propensione del padre a formulare domande esplicite e della figlia a fornire risposte articolate, o tutto quello che esulava dal repertorio di cenni, sguardi significativi e ordini asciutti che, da sempre, era stato il protocollo concordato per la comunicazione tra i due.
“Ecco… mi controlla…”
Lo dice stizzita, alzandosi di scatto, spingendo la sedia indietro fino a farla quasi cadere, per poi dirigersi a lunghi passi verso la finestra, spalancarla e sporgersi dal balcone appoggiando le mani sul parapetto in pietra dandogli le spalle.
Rimane un attimo perplesso a fissarla nel quadro della finestra spalancata, la sua sagoma che si staglia nel buio luccicante di una notte stellata, con i capelli lievemente mossi dalla brezza, poi si china lentamente a raccogliere il tovagliolo che lei ha fatto cadere a terra e raggiungerla con calma all’esterno.
Le si pone a fianco, dando però le spalle al parco, appoggiandosi a sua volta alla balaustra e incrociando le braccia, prima di voltarsi per osservare il suo profilo.
“S’interessa a te e a quello che accade durante la giornata, come ha sempre fatto.”
Lo dice con voce calma, lo sguardo sempre fisso su di lei, che ora scuote la testa.
“No, mi controlla, vuole essere sicuro che io non faccia nulla che possa in qualche modo macchiare il buon nome della famiglia… come se fosse possibile coprirsi di onore… con i compiti assegnati alla Reggia…”
Proprio nel mezzo di quello sfogo si è improvvisamente interrotta, come se in realtà quella frase non l’avesse voluta dire, o come se suonasse nuova anche a lei.
Lui rimane per un attimo sorpreso, ma poi non riesce proprio a trattenere una fragorosa risata, che gli sgorga dal cuore.
Oscar si gira a guardarlo, appare vagamente oltraggiata, si scosta un po’ da lui, che continua a ridere quasi con le lacrime agli occhi.
“Mi fa piacere che trovi tanto divertente la situazione!”, esclama piccata, “… che trovi esilarante il fatto che io mi preoccupi di non dimostrarmi all’altezza delle giuste aspettative di mio Padre!”
“Oddio, Oscar, perdonami, non riderei mai di te…”, articola a stento, cercando si riprendere il controllo di se, “… è solo… che mi avevi fatto preoccupare… e invece…”
“…e invece? Non ritieni che il fatto che mio Padre si senta in dovere di controllarmi sia una cosa seria?”, continua lei sempre più infastidita.
“Tuo padre ti controlla…”, inala abbondante aria e si schiarisce la voce per cercare di calmarsi, “… così come controllerebbe anche la turnazione delle lenzuola a palazzo, se mia nonna glielo permettesse… ”
Oscar ha assunto un’espressione interrogativa mentre lui continua con aria rassegnata.
“… come tu controlli che i bottoni della divisa siano girati tutti nello stesso verso la mattina nello specchio, e come rileggi ogni singolo rigo dei rapporti di Girodelle, semplicemente perché non potresti fare altrimenti!”
Lei ha spalancato gli occhi e forse… è un po’ a disagio adesso, mentre lui distoglie lo sguardo dal suo viso per rivolgere la sua attenzione a un immaginario sasso con il quale sembra stia giocando con il piede.
“… e per quanto concerne la scarsa gloria che può derivare dallo svolgimento delle mansioni a Versailles…”, la guarda di nuovo negli occhi, “… non mi risulta che tuo padre quando serviva alla Reggia, si sia mai trovato a dover difendere a spada tratta Maria Leszczyńska da un assalto della cavalleria austriaca! Sa benissimo quali sono le tue incombenze, considera servire e proteggere la Delfina il più grande onore, e sa perfettamente che svolgerai il tuo compito alla perfezione[13].”
Le sue parole sembrano averla sorpresa ma tranquillizzata, forse un po’ imbarazzata, mentre si gira verso la finestra imitando la posizione di lui, quasi spalla a spalla.
“Inoltre, nessuno dei tuoi predecessori ha mai dovuto fronteggiare le situazioni d’urgenza generate dal temperamento artistico[14] dell’attuale Delfina!”, ha raddrizzato la schiena assumendo un’espressione forzatamente seria e formale, “ Quali ad esempio: il salvataggio dei pargoli dalle ire di Madame Etiquette, il contenimento delle fughe dalle lezioni dell’Abate di Vermont[15], per non dimenticare la più importante in assoluto….”
Tutta l’apprensione di poco prima è sparita, e un sorriso divertito ora le illumina il viso, mentre con aria attenta aspetta di capire dove voglia andare a parare.
“… la campagna della vasca da bagno!”
“Hai ragione! Me ne ero quasi dimenticata!”, e continua cercando di apparire estremamente seria, “Effettivamente l’inserimento dell’utilizzo della vasca da bagno nel ruolino di marcia quotidiano è stato un problema quasi insormontabile!”
“Infatti… e a Versailles servirebbero invece molte più vasche da bagno… e soprattutto persone che le usassero.”
Quello che era cominciato come un gioco è quasi diventato un discorso serio.
“Per la Corte l’esempio del Re è la legge assoluta! Dopo che Luigi XIV ha trasformato la sua nella fontana dell’Orangerie per mancanza di utilizzo, e Sua Maestà Luigi XV ha dichiarato ufficialmente che non si sarebbe più lavato nel ’50, disponendo che la sala da bagno venisse tramutata in un armadio… i fedeli cortigiani non potevano che obbedire, non credi?”
E’ lei ora ad avere l’aria allegra.
“Non ci resta che sperare che la nuova abitudine della Delfina diventi a la mode!”
E continua, questa volta veramente serio.
“Comunque Oscar, non credo che tu abbia nulla da dimostrare dopo aver scongiurato l’attentato alla Principessa. Se non ti fossi resa conto dello scambio e non l’avessi portata in salvo, Dio solo sa cosa sarebbe accaduto. Tutta la Corte parla del coraggio che hai dimostrato, e nessuno oserebbe mai mettere in dubbio le tue capacità.”
Oscar appare strana, interdetta, apre leggermente le labbra come per dire qualcosa, ma esita, allora è lui a soccorrerla alleggerendo l’atmosfera.
“Sei diventata il sogno, non particolarmente segreto, di quasi tutte le dame e i cavalieri della Reggia.”, il tono è vagamente insinuante e ha alzato un sopracciglio, “E’ solo perché sono il più devoto degli attendenti che non ho mai ceduto agli innumerevoli tentativi di corruzione per estorcermi qualche segreto sull’irraggiungibile Capitano Oscar Francois de Jarjayes!”
“Ma che sciocchezze…”
Scuote la testa lei abbassando lo sguardo a terra, e una cascata di anelli dorati scivolano a nasconderle il viso.
“Sciocchezze? Sei tu che non li vedi, come ti osservano, affamati di nuovi succulenti pettegolezzi!”
Le da un colpetto con la spalla per attirare la sua attenzione, e quando finalmente riesce a guardarla di nuovo negli occhi le lancia un giocoso sguardo di intesa.
Sorride lei, in risposta, prima di farsi di nuovo seria e sospirare.
“Come se avessero bisogno di fatti per avere qualcosa di cui parlare…”, poi cercando di assumere nuovamente un tono scherzoso, “… ma sentiamo da un esperto. Quali sono al momento gli argomenti a la mode negli angoli oscuri di Versailles?”
“Mah, … negli angoli oscuri si fa ben altro che chiacchierare a Versailles…”, si rende conto di averla spiazzata con quella risposta da come ha spalancato gli occhi, allora torna sul sentiero tracciato, “Dunque… ovviamente la Delfina e tutto quanto la riguarda è inevitabilmente l’argomento del momento. Volendo essere più specifici, direi che le lodi sulla sua bellezza e la sua grazia nel muoversi fungono solo da decorativo contorno alla pietanza principale, che al momento è il matrimonio non ancora consumato, nonostante la benedizione del Vescovo e gli auguri e le raccomandazioni di sua maestà sul talamo nuziale: perché, per come,… per colpa di chi e di cosa…”
“Ah, possibile che non abbiano niente di meglio da fare?! … come se la cosa li riguardasse!”, sbotta lei con aria sdegnata.
Adesso è lui a essere perplesso, come può proprio Oscar fingere di non capire l’influenza delle aspettative altrui e del ruolo che si ricopre? Allora continua con voce pacata, “Un matrimonio reale, soprattutto come questo, è sempre un fatto politico, così come l’aspettativa di un erede che sancisca l’alleanza…”, e poi nuovamente scherzoso, “… inoltre i cortigiani sono da sempre abituati a parlare di cosa accade nell’alcova del Re e dei suoi congiunti, per occupare il tempo tra una passeggiata e l’altra! E l’attuale Re certo li ha un po’ viziati, a partire dalla sua prima notte di nozze[16] per arrivare fino alla Dubarry!”
“Già, la Dubarry…”
“… più che altro, qualcuno ha cominciato a notare che la Delfina non le ha ancora rivolto la parola, anche se non c’è da stupirsene, visto che è sotto la tutela delle Mesdames, che certo non la amano.”
“Non la amano?! Più che diplomazia questo è decisamente un eufemismo!”, controbatte lei rivolgendo gli occhi al cielo, “Inutili chiacchiere fastidiose…”
Rimangono in silenzio, ancora spalla a spalla, a godersi cielo stellato e la brezza della sera. Si è fatto tardi e l’aria è decisamente fresca, un leggero brivido scorre sulla pelle di Oscar, che indossa solo la camicia.
“Hai freddo… ”, lo dice cingendole le spalle e cominciando a sfregare le braccia con le mani per scaldarla. Dapprima lei sembra godersi il tepore di quel gesto affettuoso, ma dopo poco la sente irrigidirsi leggermente.
“Che c’è Oscar?”, le sussurra, “… giuro che non dirò mai a nessuno che al Capitano delle Guardie può capitare di tremare per il freddo.”
Dopo un attimo di titubanza lei ricambia il suo sorriso, quando l’orologio dall’interno batte la mezzanotte.
“Si è fatto tardi André.”, si scosta leggermente da lui, “E’ il caso di andare a dormire.”, si avvia verso l’interno e lui la segue.
Lei spegne le candele sulla mensola del camino, per poi andare a prendere il doppiere vicino al pianoforte, mentre lui raccoglie i piatti per impilarli sul vassoio d’argento.
“Lascia, sgombereranno domani, vai a dormire. Dovremo alzarci presto.”
Lui annuisce, e, prendendo il candeliere dal tavolo, si gira verso di lei.
“Buonanotte Oscar.”
“Buonanotte.”, risponde lei che si sta già avviando verso la camera da letto.
E’ già quasi nell’anticamera lui, quando la sente richiamarlo.
“Andrè…”
Si gira per guardarla, avvolta nella penombra della stanza, le luci delle candele si riflettono sul candore del suo viso e conferiscono un bagliore soffuso ai suoi capelli biondi.
“Grazie…”
Sorride lui, “Dovere…”, prima di tornare a girarsi per immergersi nell’oscurità dell’anticamera, e, mentre abbassa la maniglia per uscire, pensa “Piacere, Oscar… è stato un piacere…
 
 
Lunedì 15 Aprile 1771, Versailles
 
 
Si alza dalla panca appoggiata al muro e comincia a misurare la stanza avanti e indietro a grandi passi. Sarà quasi un’ora che aspetta in quella saletta, spoglia e poco illuminata da due piccole finestrelle un po’ sudice, che arrivi il suo turno per consegnare l’ordine per il pranzo[17].
Era parsa innocua e sensata la proposta di Girodelle a Oscar di mangiare qualcosa nel suo ufficio mentre organizzavano i turni di guardia per il mese successivo, fino a quando non si era trovato lui a dover risolvere il problema di mutare il corso della programmata distribuzione dei pasti alla Reggia.
Comincia a credere che sarebbe stato molto più semplice sfidare una possibile accusa di tradimento, abbattere uno dei pavoni nei giardini e arrostirlo nel camino della sala delle guardie! Gli verrebbe quasi da pensare che l’abbia fatto apposta il tenente a esiliarlo a vagare in quel limbo nei pressi delle cucine per tutta la mattina, se non si rendesse conto che lo considera meno rilevante della foggia dei suoi bottoni.
Gli altri sventurati relegati in quell’antro sono tre valletti e due cameriere, tutti più vecchi di lui tranne uno, ma sembrano quasi apprezzare quell’obbligata inoperosità e pare anzi si divertano mentre chiacchierano dell’unico argomento che monopolizza l’interesse di tutti gli strati della Corte da diversi mesi.
“… dunque dite che la Delfina continuerà a non rivolgere la parola alla Contessa[18], nonostante abbia la protezione del Re?!”, esclama sporgendosi in avanti sulla panca la cameriera più giovane con i capelli rossi.
“Oh, mia cara… come siete garbata! La protezione… siamo tra di noi, chiamiamo pure le cose con il loro nome: nonostante sia la sgualdrina del Re!”, risponde l’altra mentre si aggiusta la crinolina sulla chioma castana.
“Oh, sgualdrina e sgualdrina… come se le altre così dette gran dame di Versailles non si infilassero nel letto di chi conviene per ottenere questo o quel favore!...”, interviene il più anziano dei tre uomini, l’unico seduto, mentre si accarezza l’addome prominente.
“… o come se i gran signori non ci spingessero le loro sorelle, figlie e addirittura mogli in quei letti!”, anche il suo coetaneo fornisce il giusto apporto alla conversazione.
“Certo, solo che queste signore ritengono che i loro commerci siano nobili semplicemente perché hanno un albero genealogico titolato….”
“… e che grandi arie si danno! Come se avere sangue nobile cambiasse la forma e i versi di una bestia a due schiene[19]….”, interviene l’altro valletto che sta in piedi, con aria di superiorità, rinfrancato dal riuscire con questa battuta a strappare una grassa risata al gruppetto.
“Lasciate dire a me! L’unico vero motivo, per cui sparlano tutti della Dubarry, è che non ha sangue nobile! Tutte queste gran signore che facevano a gara per saltare nel letto del Sovrano non sopportano di essere state soppiantate da una piccola borghese solo perché più bella e giovane, ed è riuscita ad accaparrarsi addirittura il titolo di favorita ufficiale[20]!”
“… e brava! Non dimentichiamo la passione del Re per le belle cavalcature… ”, un’altra interruzione dovuta alle risa, “… non è certo cavaliere da apprezzare delle puledrine da mostra, per quanto di ottimi ascendenti.
“… e indubbiamente la Contessa deve essere una cavalla di temperamento … capace di stimolare l’interesse di un vecchio cavaliere di tanta esperienza.”
Le cameriere sghignazzano nascondendo la bocca con la mano.
“Ammettiamolo, sono tutte indignate perché non sono state ammesse a rotolarsi tra le regali lenzuola, queste pie e moralissime signore!”
“Beh, non potrete dire che valga anche per le Mesdames! Non si può certo dire questo per l’avversione delle figlie del Re per la Dubarry!”, obietta con aria quasi innocente la rossa.
“Oh, certo non hanno mai fornito spunti per nutrire i pettegoli, le tre pie principesse.”
“Sì, le tre pie comari che non si è mai voluto prendere nessuno, nonostante fossero delle principesse, neanche per cercare di arrivare al Re! Buone quelle…”[21]
“Sicuro, sono tanto acide e rinsecchite che l’unica voglia che gli è rimasta è di rovinare la vita a chiunque sembri in grado di trarre vantaggio e piacere dalle proprie grazie.”
“Sempre d’invidia si tratta! Adesso non par loro vero di avere per le mani un’arma come la Delfina. Affidata alle loro cure, hanno riempito la giovane inesperta di tanto di quel fiele da farla traboccare.”
“Inesperta sicuramente! Le sarebbe stato certo molto più utile che la Contessa si occupasse della sua istruzione viste le sue lacune…”
“Già la Dubarry governa la Francia cavalcando il Re e la deliziosa Delfina non riesce neanche a farsi salire in groppa dal legittimo regale consorte!”, un altro scroscio di risa.
“Fiele e invidia non la fanno ragionare. Se fosse più saggia non solo dovrebbe parlare alla Contessa… dovrebbe pregarla di farle da maestra!”
“Non so… sotto le gonne della piccola austriaca deve tirare un vento gelido…”
“Caro il mio giovane amico, un vero uomo sa sempre come attizzare il focolare, soprattutto quando si parla di una così graziosa magione.”, osserva lapidario il più anziano scambiando uno sguardo d’intesa con il suo compare.
 “Sante parole, il giovane principe è tanto appassionato di chiavistelli e serrature, ma dovrebbe forse studiarne un po’ meno la teoria e applicarsi un po’ più nella pratica…”
Il capo del gruppo appare parecchio compiaciuto osservando la reazione ilare che questa sua ultima uscita ha suscitato nella comitiva. Sembra accorgersi solo ora di lui, che ha continuato a camminare avanti e indietro in quella grigia stanzetta arredata solo con qualche squallida panca in legno lungo le pareti, e che non ha mostrato il benché minimo interesse per la loro entusiastica contesa di metafore.
“Voi, giovane! Come mai avete un’aria così seria? Non credo di avervi mai visto qua giù, nelle budella della Reggia!”, lancia un’occhiata ai suoi compari.
“No, avete ragione, non mi è mai capitato di dovermi recare in questo luogo finora. Il mio nome è André Grandier e sono l’attendente di Oscar Francois de Jarjayes, Capitano delle Guardie Reali.”, come prima cosa meglio fare le presentazioni, il rispetto dell’etichetta può sopperire alla carenza di argomenti di conversazione.
“Ah, siete dunque l’attendente del Signore”, una risatina della comitiva fa da sottofondo all’ultima affermazione, ”che si occupa della sicurezza della nostra futura Regina e servite nell’ala dei Principi… non c’è certo da sorprendersi che non ci siamo incontrati prima… e che non vi abbiano divertito le nostre innocue chiacchiere!”.
Gli sembra ci sia una sfida velata nel sorriso che ora gli sta indirizzando.
“Scusate se non vi sono sembrato cortese, ma sono stato preso dai miei doveri.”, decide di tergiversare.
“Certo, certo… un così bel giovane sarà sicuramente dedito a provvedere ai bisogni speciali del suo signore!”, un’altra occhiata d’intesa verso la combriccola, accompagnata da una risatina.
Dopo un attimo di esitazione, sta quasi per aprire bocca e invitare l’attaccabrighe a parlare chiaramente, se ha proprio qualcosa da dirgli, quando con un cigolio si apre il portoncino di collegamento alle cucine e ne sbuca una figura curvilinea che indossa l’uniforme bianca e celeste delle cameriere della Reggia e regge tra le mani un libricino.
“La richiesta di servizio per il Salone delle Guardie della Delfina?...”
Tolto d’impiccio finalmente dalla chiamata tanto attesa, lancia un’ultima occhiata al suo contendente, prima di dirigersi verso la nuova occupante della stanza.
“Eccomi… è richiesto di servire il pranzo nell’ufficio del Tenente Girodelle per lui e il Capitano.”
La ragazza prende nota della sua richiesta con un carboncino nel suo libretto, prima di alzare su di lui due grandi occhioni neri adornati da folte ciglia, che sembrano farsi vagamente languidi mentre lo squadra come per prendergli le misure e le sue labbra s’incurvano in un sorriso appena accennato.
“Dunque voi siete l’attendente del nuovo Capitano…”, prende ad attorcigliarsi un ricciolo bruno intorno all’indice scurito dal carboncino, mentre con il libricino picchietta sul bordo del busto dal quale fa capolino un florido decolté, “… faremo tutto il possibile per soddisfare i vostri desideri.”
 
Cammina lungo lo stretto corridoio poco illuminato con passo spedito per raggiungere il più velocemente possibile la scala che porta ai piani nobili. Quella specie di cunicolo sembra non finire mai, non c’è da stupirsi che i pasti non riescano mai ad arrivare caldi ai piani superiori[22]; gli sembra di fare quasi fatica a respirare, sarà il soffitto basso, la leggera patina che ricopre il pavimento e le pareti, o forse l’aria stessa lì sotto a dargli quella sensazione di sporco.
Aveva ordinato velocemente, appena Valentine, questo il nome con cui si era presentata la cameriera, gli aveva snocciolato l’elenco di quanto disponibile; aveva scelto tutte pietanze fredde, che sapeva sarebbero piaciute a Oscar, per cercare di velocizzare il servizio e perché non aveva idea di quali fossero i gusti del tenente, e in fondo non gli interessavano. Si era poi allontanato velocemente, rivolgendo solo un cenno verso il gruppo degli altri occupanti della saletta, così da rendere chiaro che non aveva intenzione di approfondire ulteriormente la conversazione iniziata.
Dopo tanti mesi di servizio quotidiano avrebbe dovuto abituarsi al tono delle conversazioni e ai diversivi della Reggia, dovrebbero scivolargli addosso come acqua fresca anziché continuare a lasciare quella scia di sudicio. Evidentemente la differenza rispetto all’ambiente in cui è cresciuto e a cui torna ogni sera è troppa per riuscire ad adeguarsi.
A Palazzo nessuno della servitù aveva mai e mai avrebbe fatto discorsi e tenuto comportamenti simili, e non perché sua nonna non avrebbe certo lasciato correre, ma come se l’impronta di onorevole decoro del Generale e della sua famiglia pervadesse tutti gli ambienti, non solo nell’aspetto elegante e sobrio dei piani nobili, ma anche nella dignitosa pulizia degli ambienti dei domestici.
A Versailles, analogamente, la sostanza ultima di argomenti e comportamenti è la stessa ovunque, solo che ai piani superiori viene camuffata dal protocollo e dagli opulenti decori dorati, mentre ai piani inferiori gli ambienti squallidi e il lieve strato di sporcizia faticano a nasconderla.
Non è il sesso in sé a metterlo a disagio: è oramai da qualche anno che è venuto a patti con le necessità del suo corpo, e certo il Generale non ha mai promosso moralismi fini a se stessi nell’educazione di Oscar e sua, così come sua nonna, probabilmente per il pragmatismo e la schiettezza che li hanno sempre accomunati. Quello che lo disturba è che venga sistematicamente inteso, offerto e consumato come moneta di scambio, come mezzo per ottenere vantaggi di ogni genere.
Considera che il modo in cui si è evoluta la situazione tra la Delfina e la Dubarry, e soprattutto il modo in cui tutti, senza distinzione di casta, se ne interessano e ne parlano, ne è la chiara dimostrazione.
Quello che avrebbe potuto essere un piccolo incidente di protocollo da far passare sotto silenzio, nel giro di qualche mese si è trasformato nell’aperto conflitto tra la prima donna di corte de iure e quella de facto. La Delfina, aizzata e spalleggiata dalle figlie del Re, ha reso il suo rifiuto di rivolgere la parola alla favorita ufficiale sempre più evidentemente volontario; la Dubarry, sentendosi minacciata nella sua posizione non fondata su alcun diritto di sangue, ha richiesto la protezione del Re per confermare il suo potere di fronte alla corte. I cortigiani, digiuni da tempo di una fonte di pettegolezzi tanto succulenta, hanno pungolato le contendenti fino a tramutare il bisticcio in un delicato affare di politica estera. Nella sostanza, erano anni che i cortigiani non si divertivano tanto per qualcosa che era stato determinato dal tedioso protocollo di corte.
Per quanto insensata tutta la faccenda gli appaia, per lui si è rivelata un’ottima lezione su come le cose funzionino in quella contorta macchina politica che è Versailles, e su quanto la stessa cosa possa assumere forme e dimensioni diverse a seconda del punto di vista.
L’aspetto didattico della vicenda, non era stato invece condiviso da Oscar, che, come sempre faceva con quello che non voleva o non poteva gestire, aveva semplicemente deciso di prendere le distanze, rifugiandosi nella sua corazza da perfetto soldatino e dichiarando che era proprio curiosa di vedere come si sarebbe conclusa questa “lite tra donne”.
 
Rallenta il passo assumendo un incedere più composto quando finalmente raggiunge la galleria sud, ne percorre il pavimento a losanghe bianche e nere, su cui si alternano nell’ombra i riquadri di luce delle finestre che danno sul parco. Finalmente intravede Oscar in lontananza, la Delfina è in passeggiata con il suo seguito e lei sta verificando che tutto si svolga come prestabilito, tutto secondo le regole, come sempre. Si ferma poco lontano da lei, accostato alla parete di pietra, tra i piedistalli, abbastanza lontano da non sentire cosa stia dicendo, ma sufficientemente vicino da essere sicuro di incrociare il suo sguardo quando si girerà.
L’ambiente è costellato di capannelli di cortigiani: chi passeggia pigramente, chi è fermo vicino alle vetrate ammirando il panorama, chi rimane in disparte accostato alla parete opposta rifilata di statue. Sotto le acconciature impomatate e incipriate, sotto i gioielli, le sete, gli ori e i ricami però, gli stralci di conversazione che rimbalzano tra le pareti adorne riguardano immancabilmente il medesimo argomento.
“… non si è ancora vista la Contessa questa mattina in passeggiata? Si è fatto molto tardi!”
“Sarà sicuramente nelle stanze del Re per sollecitarlo a intervenire più fermamente nei confronti della Delfina.”
“Maria Antonietta deve stare attenta, la Dubarry ottiene tutto quello che desidera da Sua Maestà, ne è molto preso.”
“Il Re ne è tanto preso semplicemente perché non è mai stato in un bordello a Parigi!”
“Come se fosse questo il fulcro della questione! I benpensanti le danno della puttana, ma ben pensano principalmente ai loro interessi. Se non avesse tanto potere nessuno s’interesserebbe di come ha ottenuto il titolo o da dove venga!”
“La Pompadour non era certo di più nobili natali, poco importa che la madre l’avesse allevata appositamente per diventare l’amante del sovrano facendola mirare direttamente al suo letto, invece di farla transitare per tanti altri! Come lei la Dubarry può fare il bello e il cattivo tempo, far nominare e destituire ministri.”
“La Pompadour supportava Choiseul e l’alleanza con l’Austria è diventata un fatto, la Dubarry avversa l’Austria e Choiseul viene destituito![23]
“Oh, mia cara! Alla Paompadour poteva interessare la politica e l’alleanza con l’Austria, ma l’avversione della Contessa per Choiseul dipende esclusivamente dalle malignità che la Duchessa di Gramont, sua sorella, va spargendo su di lei per essersi vista sfilare il ruolo di favorita, dopo aver speso tanto impegno per cercare di ottenerlo!”
“Già, l’invidia non porta mai buoni consigli! Anche M.me de Genlis ambiva a quella posizione, e cosa avrà mai ottenuto esiliandosi volontariamente nel suo palazzo di Parigi come una sacerdotessa offesa?”
“Assolutamente nulla, tanto più che la Contessa è sempre estremamente generosa e grata, con chiunque si dimostri ossequioso con lei. In fondo sa perfettamente da dove viene!”
“Perdere il potere a un passo dal conquistarlo rende le persone poco lungimiranti. Avere avuto il potere e non averlo mai saputo sfruttare le rende vendicative.”
“Già, come le figlie del Re, sono state le prime donne di Corte per tanto tempo senza mai avere il coraggio di far valere la loro posizione con il padre, e adesso manipolano questa giovane e inesperta Delfina aizzandola contro la Dubarry.”
“Certo la giovane è superba e poco attenta. Il suo matrimonio non posa certo su basi solide, fino a che non sarà consumato almeno!”
“Poverina, non riesce neanche a ottenere che il Delfino compia il suo dovere in camera da letto, non c’è da sorprendersi se l’unica soddisfazione che riesce a prendersi è di far andare su tutte le furie l’amante del Re.”
“Bisogna però vedere se alla fine avrà lei la meglio. Fino a che il Re è in vita, la Contessa è la donna più potente a corte, non si può certo rischiare di inimicarsela.”
“Sicuramente, ma il Re è anziano, e quando non sarà più, Maria Antonietta farà scacciare la Dubarry, se non peggio. Non possiamo certo compromettere il nostro futuro per non aver avuto un atteggiamento cauto.”
Sicuramente tutti questi marchesi, conti e duchi, non immaginano neanche come i loro discorsi seguano le tracce di quelli dei loro servitori, d’altra parte non sembrano avere la più vaga idea di quello che accade al di fuori del loro mondo dorato guidato dall’opportunismo. Tutto sommato la sua invisibilità e il suo non appartenere a nessuno dei due universi gli fornisce un’occasione unica di osservarli entrambi, senza bisogno della complessa rete di informatori del Conte Mercy[24].
 
Finalmente Oscar congeda le sue guardie, che si dirigono verso le postazioni assegnate. Solo un fuggevole lampo nello sguardo tradisce un cenno d’intesa, rivolto solo a lui, nell’espressione per il resto imperscrutabile, tanto che gli viene quasi da chiedersi se non se lo sia solo immaginato.
S’incamminano per tornare alla Sala delle Guardie, lei lo precede, lui la segue, senza dire una parola, solo il battito regolare e sincrono dei loro tacchi sul pavimento di marmo si accompagna al brusio diffuso nella galleria.
In direzione opposta vedono avvicinarsi la Delfina, avvolta in una nuvola di nastri e seta celeste avanza con la grazia di una ballerina, affiancata alla dolce e riservata principessa di Lamballe e seguita da un piccolo gregge di altre dame. Appena si accorge di Oscar strizza leggermente gli occhi, rivolgendole un sorriso radioso e si avvicina per parlarle.
“Cara Oscar, buongiorno! Che immenso piacere vedervi!”
Oscar le risponde battendo i tacchi e piegandosi in un appropriato inchino, che lui imita.
“Vostra Altezza, mi onorate con il vostro saluto.”, poi girandosi leggermente, “Principessa di Lamballe.”
“Dicevo giusto ora alla mia cara amica, che è un vero peccato che voi non ci offriate il piacere della vostra compagnia qui a Corte. Perché questo pomeriggio non vi unite a noi nel mio salotto?”, cinguetta come un uccellino la Delfina, scuotendo leggermente la testa per quello che le permette la costruzione di ricci alta due spanne che si erge sul sottile collo adorno di perle.
“Vostra Altezza, il vostro invito è troppo onore per me. Il mio compito qui alla Reggia non è di fare vita di società, ma di occuparmi della vostra sicurezza. Il dovere mi obbliga pertanto a dover declinare.”
La voce di Oscar è ferma ma garbata, quasi carezzevole, come se stesse parlando a una bambina anziché alla futura Regina di Francia.
Dopo un attimo di esitazione Maria Antonietta risponde sgranando un po’ gli occhi, “Oh, capisco.”, anche se la sua espressione non sembra per nulla corrispondere alle parole appena pronunciate con una lieve sfumatura di delusione.
“Se ora mi concedete di allontanarmi, tornerei al mio servizio.”, un altro inchino, la stessa voce ferma e gentile.
“Vi prego… vi auguro una buona giornata.”, lo stesso tono vagamente smarrito.
Aspetta di essersi allontanato abbastanza dalla comitiva reale, per rompere quel silenzio formale e rivolgerle finalmente la parola.
“Ma come Oscar, rifiuti un espresso invito della Delfina? L’ingresso nel suo salotto può garantire la carriera assicurata!”, il suo tono è scherzoso, nonostante sappia perfettamente di aver pronunciato una verità assoluta.
La reazione quasi violenta di lei lo coglie totalmente di sorpresa. Si gira di scatto e lo fronteggia, tanto che gli viene da arretrare di un passo.
“Ma bravo André! Anche tu come tutti questi nobili corrotti! Bada, se non fossi il nipote della mia governante ti avrei già picchiato!”, glielo ringhia contro con uno sguardo freddo e tagliente, come se lui per lei … veramente non fosse altro che il nipote della sua governante![25]
Con altrettanta velocità si gira nuovamente e torna a dirigersi a grandi passi verso la sua destinazione.
Esita un attimo lui prima di riuscire a seguirla. Allora neanche lei riesce a ignorare tutto il veleno che li circonda, nonostante le rigide difese che ha schierato, nonostante il distacco simulato, solo che anziché cercare di ingoiarlo a piccole dosi per diventarne immune, ne ha raccolto tanto da non riuscire più a contenerlo e glielo ha sputato addosso tutto in una volta.
 
Quando attraversano la soglia del Salone delle guardie hanno ripreso il contegno dei loro ruoli: l’altero Capitano Jarjayes e il suo composto attendente.
“Ben arrivato Capitano, vi stavamo aspettando.”, Jacob la saluta come sempre con un perfetto inchino, non più rigido come i primi tempi, ha superato il vago senso di terrore che gli incuteva il ricordo di quando lei aveva teso l’agguato al suo padrone, “Se volete accomodarvi è tutto pronto per il pranzo.”
E’ piuttosto sorpreso della celerità del servizio, aveva creduto di dover aspettare almeno un paio d’ore perché la mastodontica macchina delle cucine della Reggia riuscisse a smuoversi.
Oscar, senza tradire alcuna reazione, ringrazia semplicemente varcando la soglia dell’ufficio del suo secondo, che la accoglie con il più affascinante dei suoi mezzi sorrisi.
“Signore, se volete accomodarvi…”, le scosta la sedia.
Mentre si siede, Oscar alza leggermente le sopracciglia, e un cenno di sorpresa soddisfazione sembra quasi balenarle in volto mentre osserva la tavola imbandita.
L’elegantissima consolle di Girodelle è stata tramutata in un tavolo per due[26] in un angolo della stanza, e sulle ceramiche e l’argenteria elegantemente disposte fanno bella mostra di se le pietanze da lui ordinate per Oscar: una terrina di coniglio, asparagi e petit pois, fragranti panini bianchi e, all’interno di una ciotola di cristallo al centro del tavolo, una montagna di fragole rosse e lucenti diffondono il loro profumo invitante. Non sa se i cibi incontrino il gusto del Conte, ma sarebbe pronto a giurare che sia compiaciuto di come si abbinino elegantemente agli arredi e al tessuto verde delle sedute!
“Dato che dobbiamo lavorare non credo avremo bisogno di voi.”, sedendosi a sua volta, Girodelle rivolge lo sguardo verso Oscar a chiedere conferma, mentre una cameriera dall’aria familiare e due valletti impilano su un carrello i vassoi con cui devono essere state portate le vivande.
Oscar rivolge finalmente uno sguardo sereno verso di lui, “Certo! André, puoi andare.”
Dopo un cenno di saluto lui e Jacob escono dalla stanza, uno per lato tengono aperte le ante della porta per agevolare l’uscita della servitù prima di richiudere. Solo Valentin si ferma di fronte a lui uscendo, un po’ troppo vicina, lo fissa negli occhi da sotto in su.
“Spero che voi e il vostro signore sarete rimasti soddisfatti dei nostri servigi…”, una pausa con le labbra leggermente schiuse, “… e che vorrete approfittarne ogni qual volta ve ne aggradi.”
Si allontana poi subito, senza più guardarlo; lui cerca di ostentare indifferenza, avvicinandosi a Jacob, mentre accostano le due ante.
Si siedono sugli sgabelli imbottiti ai due lati della porta, in silenzio, lui eretto e composto, Jacob più rilassato, con la schiena appoggiata al muro. L’attendente di Girodelle sembra non riuscire a distogliere lo sguardo dalle sottane della cameriera bruna che si allontana insieme ai due valletti.
“Certo che…”, un profondo sospiro, “quando una così polposa pernice si mostra tanto disponibile… sarebbe veramente un atto di scortesia non impallinarla!”, allunga le gambe infilandosi i pollici nei taschini del panciotto che fascia il ventre rotondo.
Lui sbuffa e chiude gli occhi, si porta le mani alle tempie, chinandosi in avanti e appoggiando i gomiti sulle ginocchia, come a cercare di allentare il cerchio che improvvisamente gli stringe la testa. Sentiva proprio la mancanza di una bella metafora sulla caccia quella mattina.
 
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“No Padre, non dovete permetterlo!”
La voce di Oscar gli giunge chiaramente, dura, quasi stridula attraverso la porta del salotto principale al piano terra. Sta gridando contro suo Padre, mai avrebbe immaginato di assistere a una scena simile.
Tutto era cominciato subito dopo pranzo, un lacchè aveva recapitato per lei un biglietto. Lui glielo aveva consegnato mentre era seduta alla sua scrivania, intenta a redigere gli ultimi ordini di servizio, si era aspettato che glielo leggesse a voce alta, come faceva sempre, invece l’unica cosa che era uscita dalle sue labbra era stato un secco “André, fai preparare i cavalli, torniamo a Palazzo.”, mentre si alzava velocemente per dirigersi con uno sguardo scuro verso l’ufficio del suo secondo per ordinargli di prendere il comando, dato che lei si sarebbe assentata per il resto della giornata.
Aveva continuato a non rivolgergli la parola, a non spiegargli nulla; l’aveva seguita fuori dalla Reggia, aiutata a salire a cavallo, seguita nella galoppata verso casa adeguandosi alla sua andatura, servendola come chiunque si sarebbe aspettato da lui, e come lei sembrava aspettarsi da lui. Finalmente erano arrivati a Palazzo, era smontata con la stessa irruenza e si era precipitata attraverso l’ingresso delle cucine, lui sempre dietro, una richiesta secca a Marie senza quasi guardarla in faccia, “Dove sono?”
“Nel salotto…”
Aveva proseguito senza voltarsi Oscar, come se niente a nessuno avesse importanza in quel momento. Allora lui si era fermato un attimo, guardando la sua schiena sparire attraverso la porta delle cucine, e si era girato verso sua nonna alla ricerca di una spiegazione.
Dopo aver esitato un attimo fissando con aria preoccupata il punto in cui Oscar non era più, si era girata finalmente verso di lui. Le sue mani torcevano il grembiule.
“è giunto un messo con un ordine dalla Reggia…”, esitava con lo sguardo basso, come per raccogliere le idee,” Sia la Contessa Dubarry che la Principessa Maria Antonietta hanno chiesto al Re che Madame Marguerite fosse nominata loro dama di compagnia esclusiva…”, aveva alzato gli occhi e lo guardava fisso, “… il Re ha informato il Generale che lascia Oscar libera di scegliere quale posizione accettare…”, e dopo un attimo ancora continua, “… è un grande onore!”, ma non gli era chiaro se lo stesse dicendo a lui o a se stessa.
 
Lo investe quasi precipitandosi fuori dalla stanza e fuggendo verso il parco. Alla fine non ce l’ha fatta Oscar a sfuggire da questa ‘lite tra donne’. Per quanto si sia arroccata sui suoi principi, alla fine le due donne hanno avuto ragione del capitano, mettendo in gioco sua madre in questa specie di tiro alla fune. Hanno certo dato dimostrazione di buone competenze tattiche forzando un personaggio tanto popolare presso la Corte per la sua particolarità, a schierarsi, ma non pensa che si rendano conto di quanto particolare sia in realtà il rapporto che Oscar ha con i suoi genitori e con sua madre, così diverso da quello di tutti i figli di aristocratici passati dalla balia alla scuola o al convento per poi uscirne solo per il matrimonio o il grand tour, per i quali i genitori non sono altro che due persone a cui dovere rispetto.
“… ma cosa le prende?”, nella voce di Madame Marguerite risuona di una nota di apprensione.
“Niente, deve solo calmarsi.”, la rassicura il Generale, che sa per indole personale quanto sia difficile a volte riportare negli argini della forma e delle regole il tracimare di un carattere impetuoso.
 
“Non ho bisogno dei tuoi consigli!”
Glielo sbatte in faccia il suo rifiuto, ritirata nel suo guscio, tenendo lo sguardo fisso sugli alberi quando lo sente avvicinarsi.
“Non ti preoccupare Oscar…”, non riesce a nascondere un velo di rabbia trattenuta nella voce, “…voglio solo misurarmi con te.”
“Bene, è un po’ che non ti do una lezione!”, risponde sbruffona alzandosi dal bordo della fontana, e afferrando la spada che lui le ha lanciato.
Gli sguardi s’incrociano prima delle lame, c’è rabbia in entrambi ma sicuramente non per le stesse ragioni.
Un affondo e una stoccata, rumore di metallo che striscia, gli attacchi si susseguono serrati, intervallati da brevi pause in cui si sente il respiro che si fa sempre più pesante. C’è troppa furia perché il duello possa risultare elegante come al solito. Le spade si incrociano di nuovo, scorrono, fino a incastrare le else vicino ai viso. È tanto vicina da sentire il suo fiato sulle labbra, tese sui denti serrati per lo sforzo. Un lampo negli occhi e la spinge lontano. Si fronteggiano girando in cerchio, la guardia bassa, temporeggiano e si studiano.
“Tu sei più fortunata di me…”, attacca, cogliendola quasi impreparata nella parata per quella frase inaspettata, che sembra non capire.
“… io non ho più una madre di cui occuparmi…”
Parte subito un altro affondo, ma questa volta la difesa è pronta e il contrattacco immediato.
“… devi decidere Oscar…”, una schivata, ”… decidere da che parte stare senza danneggiare tua madre.”
La rabbia monta, gli si scaglia contro con una serie di affondi che lo costringono ad arretrare.
“Non capisci? Qualunque delle due scelga, l’altra si vendicherà su mia madre…”, c’è una nota di disperazione adesso nella sua voce, per l’incapacità di gestire una situazione che non appartiene al mondo ideale di regole in cui tutto è distinguibile in bene e male, in cui bisogna invece scendere a compromessi con la realtà del male minore.
“Non capisci? Se non obbedisci all’ordine del Re sarai accusata di tradimento! …”, è lui che attacca adesso, “… Il Re è stato tanto generoso da permetterti di scegliere, ma devi scegliere in modo tale da non danneggiare i tuoi genitori.”, un altro affondo che lei para per poi contrattaccare con colpi potenti ma sempre più scomposti, arrendendosi un po’ alla volta a qualcosa di cui fatica ad accettare l’esistenza.
Mano a mano la stanchezza porta ad abbassare la guardia, gli affondi si indeboliscono, gli attacchi si diradano, fino a che rimangono solo i respiri affannati, la pelle imperlata di sudore che luccica sotto i raggi del sole che si inclinano filtrando tra gli alberi, il cuore rallenta verso una scelta necessaria: la Principessa Maria Antonietta ha vinto il duello.
 
 
Mercoledì 1 Gennaio 1772, Versailles
 
 
La rivincita della Contessa è arrivata sotto forma di una vuota frase di circostanza.
“C’è molta gente oggi a Versailles!”
Queste parole, pronunciate con voce atona da Maria Antonietta in occasione dei tradizionali auguri di buon anno alla corte nella galleria sud, hanno sancito la fine di una contesa durata più di un anno.
Dalla sua posizione alle spalle di Oscar, osserva le espressioni sul volto dei convenuti, esasperate dalle ombre che proietta sui volti la grigia luce di una mattina d’inverno filtrando dalle grandi finestre. Gli occhi della Delfina sono vuoti come quelli di una bambola, guardano senza apparentemente vederla la Dubarry, che fatica a non incurvare gli angoli della bocca verso l’alto mentre risponde con una frase altrettanto insignificante “Sì, molta gente.”, lanciando uno sguardo al suo protettore, accostato al suo fianco, tributandogli un tacito doveroso ringraziamento per la sua protezione. Il Re sorride apertamente, finalmente soddisfatto dalla scena che gli si para di fronte, fa scorrere lo sguardo dalla Principessa alla sua favorita, rassicurato dalla dovuta conferma della sua autorità e del suo potere.
Perché in fondo è stato tutto un gioco di potere, per quanto apparentemente insensato: le figlie del Re hanno esercitato il loro sulla Delfina sentendosi usurpate dalla favorita del padre e non avendo il coraggio di affrontarla apertamente; la Principessa si è rivalsa sulla Dubarry per arrogarsi, in virtù della sua nobiltà di nascita, quel poco di dominio che le consentivano il protocollo e un marito irrimediabilmente debole; la Contessa ha difeso con i denti la posizione di potere conquistata sulla Corte grazie al suo protettore; il Re, oramai anziano e stanco, si è trovato incredulo a dover esercitare la propria influenza sulla piccola austriaca che sembrava aver voluto mettere in discussione la sua posizione e la sua condotta morale.
Probabilmente la Principessa non si è neanche resa conto, nella sua ostinata avversione per la Contessa, di quanto le sue azioni potessero apparire non tanto dettate da uno scrupolo morale nei confronti di una donna di dubbie origini, quanto un’aperta critica nei confronti del Re. Sicuramente non ha colto questo aspetto nei primi inviti alla moderazione da parte del Conte Mercy, ma neanche nel rigore di un formale consiglio giunto con un’ufficialissima lettera del Ministro Kaunitz o nella convocazione dell’ambasciatore austrico nelle stanze della Dubarry per incontrare il Re.
Con l’usuale leggerezza ha perseverato ostinatamente nel mantenere la sua posizione, lasciandosi toccare solo dalla minaccia della possibile ripresa delle ostilità tra la Francia e l’Austria paventatale, come estrema conseguenza, dall’ambasciatore Mercy. Il rischio di una guerra non l’ha però spaventata a sufficienza da farle portare a compimento la messa in scena organizzata una sera di Luglio per porre finalmente termine a questa crisi diplomatica: tutta la Corte era stata avvertita, tutti gli sguardi fissi su di lei attendevano che venisse messo in scena il copione prestabilito per cui la Delfina avrebbe finalmente rivolto la parola alla favorita del Re per mediazione del Conte Mercy durante una partita di carte, ma una parola di Madame Adelaide era stata sufficiente a farla tornare sui suoi passi, lasciando la Contessa e tutti i cortigiani increduli a fissarla mentre si allontanava.
Dopo altri sei mesi di tensione politica e lavoro diplomatico, solo l’esplicito invito di Maria Teresa D’Austria è riuscito dove tutti gli altri avevano fallito, il terrore per la disapprovazione materna alla fine ha indotto la Principessa a piegarsi al volere del Re, finalmente soddisfatto per il dovuto riconoscimento della sua favorita. Poco importa se questo diversivo lo ha portato a trascurare come l’amica Polonia sia stata nel frattempo smembrata da Russia, Prussia e Austria[27].
In un attimo, lo scambio di due semplici e inutili frasi ha fatto svanire tutto. Persino i cortigiani, che fino a poco fa fissavano con sguardo ingordo le due donne, ansiosi di assistere alla nuova puntata di questa assurda pantomima, cominciano a sembrare un po’ spaesati mentre osservano, orfani di un nuovo pettegolezzo, la Principessa che asserisce la sua ferma intenzione di parlare mai più ‘a quella donna’ rivolgendosi al marito. Il Delfino la sostiene con il braccio ma mostra sul volto l’espressione distratta di chi forse non ha compreso, ma certamente non è minimamente interessato a quanto è appena accaduto.
“Anche la Principessa alla fine ha dovuto piegare la testa di fronte al Re…”
Si sorprende un po’ anche lui, mentre lo dice nonostante credesse di averlo solo pensato. Lo dice quasi tra se e se, una frase per suggellare quel momento definitivo detta a bassa voce. Oscar però lo ha sentito, perché si gira e lo fissa per una attimo negli occhi. Non è arrabbiata, non è triste, sembra solo rassegnata, solo per un attimo, prima di riprendere l’espressione fiera e composta del Capitano e, senza dire nulla, allontanarsi al seguito di Maria Antonietta.
 
 
Giovedì 22 Luglio 1773, Versailles
 
 
È abbagliante questa calda mattina d’estate. I raggi del sole ormai alto nel cielo invadono la sala degli specchi, si moltiplicano sulle innumerevoli superfici riflettenti e acquistano calore sulle ricche dorature; perfino il lucido pavimento in legno laccato sembra quasi emettere luce propria.
La corte, ammessa al piano del Re, è raccolta intorno al Sovrano, che, a un estremo della lunga sala, rivolge uno sguardo distratto al Delfino e la sua regale consorte, che si avvicinano per rivolgergli il saluto mattutino, gratificando i cortigiani lungo il percorso con formali cenni e frasi di saluto.
Il Delfino strizza leggermente gli occhi, quando il riflesso di uno specchio lo colpisce in pieno viso, ha l’aria infastidita e tutta questa luce non fa altro che mettere in evidenza la sua corporatura pesante e sgraziata, che il ricco abito alla moda non riesce certo a nascondere. Il portamento però sembra più eretto del solito, non mostra le solite spalle leggermente incurvate, che, in quelle occasioni, tradiscono la noia di dover adempiere a un compito istituzionale mentre preferirebbe di gran lunga dedicarsi all’inseguimento di un cervo nei boschi con il suo seguito. Questa mattina lo si potrebbe quasi definire fiero, mentre procede lungo la galleria sostenendo la mano di sua moglie.
Maria Antonietta invece fluttua in tutta questa luce, che sembra il suo elemento naturale. Da qualche tempo all’usuale grazia nel suo incedere si è aggiunto un che di altero, una fierezza che non era propria della ragazzina giunta a corte per essere data in sposa al futuro Re. È come se il seme dell’orgoglio innato nella figlia di un’imperatrice avesse bisogno di essere nutrito dalla grandiosa manifestazione dell’ammirazione delle masse per poter germogliare e crescere, e sicuramente l’acclamazione di tutti i cittadini francesi, accorsi da ogni dove per renderle omaggio nella sua prima visita ufficiale alla città di Parigi, le ha per la prima volta fatto toccare con mano il vero significato di quello che prima era solo per lei il titolo onorifico di Madame la Dauphine; le hanno fatto sentire cosa significhi essere la futura regina di Francia.
Nella Principessa che avanza altera lungo la galleria è rimasto poco della stizza della bambina che a maggio si era impuntata per ottenere finalmente l’autorizzazione per visitare Parigi e uscire da quella gabbia dorata, poco dell’irriverenza della monella che, due settimane prima della visita ufficiale fissata da lei per l’8 Giugno, aveva deliberatamente infranto tutte le regole trascinando il marito nottetempo in incognito a un veglione in città.
 
“Non riesco a credere che abbiate la stessa età… non sembra una ragazza di 17 anni, sembra una bambina!”, aveva detto lui a Oscar, mentre si allontanavano dagli appartamenti della Delfina, dopo che lei, alle indicazioni del Capitano delle Guardie per l’organizzazione del servizio di sicurezza in occasione della visita ufficiale, non aveva saputo contenere il suo infantile entusiasmo, chiedendo inspiegabilmente consiglio su quello che avrebbe dovuto indossare.
Aveva sorriso la sua Oscar, rivolgendogli uno sguardo divertito, “Cos’è André? Un tentativo di farmi un complimento?”, per poi proseguire verso l’uscita.
“Smettila, non volevo adularti”, aveva ribattuto lui, per minimizzare.
Solo quando erano stati soli nei giardini, lei aveva ripreso il discorso.
“A me piace molto la Principessa Maria Antonietta, anche se tutti la ritengono una bambina. È un’istintiva e agisce seguendo la propria natura.”
Gli era sembrata strana, questa manifesta dichiarazione di ammirazione da parte di Oscar, che si era sempre imposta il rispetto della disciplina e delle regole per tenere sotto controllo la sua indole, che lui sapeva essere fin troppo impetuosa.
“Certo Oscar, ma non puoi negare che lei abbia anche qualche debolezza…”, aveva obiettato, credendo di fare così leva sul suo rigore.
“Hai ragione… ,” era stata costretta ad ammettere prima di continuare, “… però se si passa un po’ di tempo con lei non si può fare a meno di volerle bene.”
Non era solo dovere quello che legava Oscar alla Principessa che aveva il compito di difendere, ma affetto e un’inaspettata indulgenza verso questa ragazzina che incarnava tutte quelle caratteristiche caratteriali che mai avrebbe perdonato a se stessa.
 
La trasformazione si è compiuta, come se lungo il tragitto ogni acclamazione, ogni fiore lanciato, ogni segno di ammirazione per la futura Regina avesse portato via un po’ della ragazzina che si era lasciata imbrigliare dal protocollo.
Una bambina vestita a festa era partita dalla Reggia varcando le cancellate dorate e si era tramutata in una Principessa piena di orgoglio, percorrendo la strada che da Versailles conduce a Parigi, profilata da un’ininterrotta siepe umana multicolore echeggiante di saluti, ricevendo le chiavi d’argento della città alla porta dal Maresciallo Brissac, avanzando in corteo lungo quai delle Tuileris fino a Notre Dames, tra la folla festante, salutata dalle salve di cannone sparare a Palazzo des Invalides, all’Hotel de Ville e alla Bastiglia.
La metamorfosi era risultata completa quando Maria Antonietta si era affacciata al balcone delle Tuileris e, tra gli applausi e le grida di gioia, il Maresciallo di Brissac le si era accostato dicendole “Signora, non se ne dolga il Delfino: vedete qui duecentomila Parigini innamorati di voi.”
La graduale trasformazione della Principessa in quella giornata, era risultata tanto più evidente a lui, che dalla sua posizione defilata l’aveva confrontava con l’espressione di immutabile distacco del suo Capitano delle Guardie, che aveva affiancato la berlina di gala dei Principi per tutto il percorso, prestando attenzione solo ai possibili pericoli per la coppia reale.
È questa nuova orgogliosa Principessa che ora china il capo in segno di saluto e deferenza di fronte al Re. Un lampo nuovo sembra però illuminarle lo sguardo, quando il Delfino, ancora chinato di fronte al nonno enuncia per la prima volta una nuova formula di saluto.
“Sire, questa mattina ho l’onore di presentarvi mia moglie!”
Un largo sorriso di sorpresa e soddisfazione si allarga sul viso del sovrano, che rivolge al nipote uno sguardo finalmente compiaciuto.
L’annuncio ha liberato nella sala un ronzio quasi assordante, il brusio concitato dei cortigiani i cui occhi ora sono fissi sulla coppia dei Delfini, che tiene nuovamente la testa alta rivolgendo sorrisi compiaciuti ai convenuti.
Lui si gira leggermente per osservare l’espressione di Oscar. Anche lei sta fissando la Principessa, lo sguardo altero e imperscrutabile come sempre, solo una certa rigidezza nella mandibola tradisce il disagio. Evidentemente, benché ne conosca l’importanza, non condivide l’entusiasmo della corte e il manifesto orgoglio per una macchia di sangue su un lenzuolo[28].
 
 
Venerdì 22 Aprile 1774, Versailles
 
 
È una splendida mattina di primavera, la luce brillante fa scintillare il verde giovane delle siepi perfettamente modellate in complicate geometrie, che contornano le variopinte isole floreali dei giardini della Reggia. La Principessa Maria Antonietta si aggira per gli ordinati vialetti, muovendosi con la grazia di una farfalla e facendo svolazzare il ventaglio in modo vezzoso, mentre conversa con aria divertita con le dame del suo seguito delle ultime follie del suo parrucchiere.
All’ombra di un tiglio non è abbastanza vicino per distinguere tutte le parole, ma dall’attenzione che le signore stanno rivolgendo alla torre di ricci sfumati di cipria rosata e adorna di variopinte farfalle in seta, che troneggia sul capo della Delfina, non è difficile intuire che l’argomento sia l’estro artistico di Leonard, che grazie alla sua augusta protettrice è diventato il parrucchiere più ricercato non solo di Parigi, ma di tutta Europa, visto che anche la sorella della futura Regina se lo fa recapitare a Napoli una volta al mese[29].
Nonostante lo abbia sempre affascinato osservare e cercare di capire il comportamento delle persone, e Versailles costituisca certamente un bel campo di prova da questo punto di vista, questa nuova folle ossessione che la Principessa sembra aver imposto al gusto delle dame non riesce veramente a capirla.
Più che qualcosa che soddisfi effettivamente un innato gusto estetico, l’estremizzazione di questa nuova moda gli sembra un esercizio di potere: una sorta di sfida in cui possa vincere chi dimostra la maggiore determinazione e disciplina nel farsi montare sul capo la costruzione più originale e stravagante, più pesante, considerando la quantità di posticci, forcine e oggettistica varia, e più dolorosa, a giudicare da come tutte queste signore di lamentano di come tirino le ciocche, di quanto dolga il collo e delle irritazioni generate dalle pomate.
Maria Antonietta sembra risoluta nell’affermare il suo dominio nella capacità di motivare le sue seguaci in questa disciplina tricologica, e da buona guida dimostra un’innegabile determinazione nel primeggiarvi. Questo, in effetti, lo lascia piuttosto sorpreso, dato che dedita e disciplinata non sono certo i due principali aggettivi che gli verrebbe da usare per descrivere l’indole della Delfina, che, per come ha avuto modo di osservarla da vicino in questi ultimi anni, è più portata a librarsi sulle cose, cogliendo solo ciò che la può divertire o darle piacere, senza che però questo debba richiedere alcun impegno da parte sua, per non dire fatica, esattamente come una variopinta farfalla.
Distoglie lo sguardo dalla leggiadra comitiva per posarlo poco distante sull’elegante figura di Oscar fasciata nella sua uniforme bianca, che nella stessa ombra punteggiata di sole, un passo davanti a lui, fissa austera lo stesso soggetto, ma sarebbe pronto a giurare che non stia formulando gli stessi pensieri.
Dedita e disciplinata sono invece due aggettivi con cui chiunque definirebbe Oscar, l’impegno e la propensione al duro lavoro la hanno sempre distinta fin da bambina, non solo per soddisfare le alte aspettative paterne, ma come se in realtà avesse sempre trovato gratificante lo sforzo che conduce al risultato, più che il risultato stesso. Effettivamente anche lui ha sempre ritenuto che non ci sia poi particolare merito in quello che si ottiene senza alcuna fatica. Probabilmente è per questo che quando erano piccoli l’istitutore e il maestro d’armi non avevano mai dovuto spronarli troppo nello studio. Non era certo stato il rischio delle punizioni del Generale a farli impegnare tanto, visto che non aveva mai sortito alcun effetto nel dissuaderli dal portare a termine alcuno dei loro piani criminali. Riaffiora il ricordo di quando avevano devastato parte dell’argenteria di Palazzo per approfondire meglio come funzionasse il prodigioso fenomeno che gli aveva mostrato Monsiuer Douffort la mattina a lezione. Oscar era rimasta affascinata da quegli splendidi cristalli blu acceso, che scomparivano completamente se dissolti in acqua, lasciandola limpida, ma poi rendevano di un colore bruno rossiccio il pezzo di metallo immerso. Aveva provato a obiettare che l’istitutore gli aveva intimato di non cercare di ripetere il procedimento da soli, ma in fondo anche lui era curioso, per cui non aveva insistito più di tanto quando Oscar lo aveva trascinato fuori dalla sua camera in piena notte per … approfondire la questione. L’espressione della nonna che li aveva trovati la mattina successiva mentre cercavano di eliminare le macchie brune non solo dai vassoi e dalle posate d’argento trafugati, ma anche dalle loro camice da notte, dal tappeto e dalle loro facce e braccia[30] gli riaffiora alla mente, e riesce a stento a trattenere una risata.
Come se avesse percepito il suo sguardo su di lei, Oscar si riscuote e si gira a guardarlo con un’espressione interrogativa, lui fa per parlare, ma si rende subito conto che quello non è il luogo e il momento per mettersi a ridere dei guai combinati da bambini, il Capitano Oscar non apprezzerebbe, allora scuote semplicemente la testa per riportare lo sguardo sul parco.
Quando riesce nuovamente a posare gli occhi sul seguito della Delfina nota subito il gentiluomo che si è avvicinato e porge i suoi omaggi con un perfetto inchino. È straordinariamente alto rispetto alla media dei frequentatori della Reggia, tanto che la Principessa deve sbilanciare pericolosamente indietro la sua costruzione di ricci per poter godere in pieno del sorriso ammaliante che le sta rivolgendo. Tutte le dame del seguito appaiono non del tutto indifferenti al fascino del nuovo ospite a giudicare dagli sguardi che gli lanciano, dissimulando dei sorrisetti dietro lo svolazzare dei ventagli. Evidentemente la linea a piramide che sembra essere tanto di moda tra i signori di Versailles[31] non deve però essere considerata così necessaria dalle signore, dato che il nuovo ospite oltre all’altezza esibisce una corporatura decisamente atletica, nonostante la foggia dell’abito assolutamente alla moda che si allarga dai fianchi fino alle ginocchia.
In base a quello che ha captato dalle voci che corrono alla Reggia, le signore di Parigi lo hanno soprannominato ‘il bello svedese’, e in base alle stesse voci, numerose signore di Parigi hanno avuto ben più di una superficiale conoscenza del Conte di Fersen per decidere di chiamarlo con quel nome. Innegabilmente oltre al bell’aspetto sa come gratificare l’attenzione delle dame, visto che, per quanto può carpire dal suo punto di osservazione, sembra contribuire costruttivamente alla conversazione sui pionieristici sforzi degli acconciatori francesi.
È da qualche mese che il Conte frequenta assiduamente la Reggia, da quando la Delfina lo ha incontrato al ballo in maschera a Parigi il 30 Gennaio. Dalla prima visita ufficiale Oscar si è dovuta occupare sempre più spesso di scortare la Principessa e il suo seguito in incognito a questo o quel ballo in città, era inevitabile che prima o poi venisse riconosciuta.
Maria Antonietta sembra essersi perdutamente innamorata di Parigi, o almeno di quella Parigi che le offre innumerevoli occasioni di evasione e divertimento, dimostrando una sorprendente capacità di ignorare qualunque cosa la disturbi, dato che è quasi impossibile percorrere le strade che portano alla città per raggiungere l’Operà, Palais Royal o il Tempio, senza attraversare i miseri quartieri maleodoranti che li circondano.
Le sue scorribande notturne hanno generato parecchie chiacchiere alla Reggia e persino Madame de Noailles pare essersi data per vinta rispetto a queste palesi deviazioni dal protocollo. In questo la Principessa si è indubbiamente dimostrata determinata, come se l’umiliazione di rivolgere la parola alla Dubarry e l’immensa gratificazione per l’accoglienza trionfale durante la prima visita ufficiale a Parigi, l’avessero motivata a far valere in qualche modo la sua posizione.
Certo non si può dire che questa determinazione si sia espressa nel modo più costruttivo, considerando che si è concretizzata prevalentemente nel far uscire di senno la prima dama d’onore, nel rimpinguare le casse di Leonard e nel perseverare ostinatamente nel non rivolgere la parola alla Dubarry, nonostante gli innumerevoli tentativi di riavvicinamento di questa, che è arrivata addirittura a offrirle in dono dei diamanti.
André si chiede se ora, a tre giorni dall’ufficiale riconoscimento del suo potere, la Principessa si possa sentire finalmente soddisfatta, dopo il successo della prima della ‘Ifigenia in Aulide’ del suo protetto Gluck.
Lo spettacolo, cui ha assistito al seguito di Oscar dal fondo del palco reale, è stato sicuramente memorabile, ma non è sicuro che sia valsa la pena far infuriare, per metterlo in scena, praticamente chiunque, dall’ultimo degli addetti alle scene fino al più importante dei principi del sangue. Maria Antonietta sarà sinceramene affezionata al suo vecchio istruttore di pianoforte, raccomandatole come compositore dalla madre, ma nel difenderlo senza riserve sembra aver tratto molta più gratificazione dal piegare al suo volere i sostenitori dell’Opera francese e italiana, concordi solo sul fatto di considerare l’austriaco un barbaro, i compositori di corte, che reputavano l’opera ineseguibile, gli aristocratici protettori delle cantanti, che il burbero compositore ha maltrattato malamente durante i mesi di prove, e l’intera corte che si è vista posticipare la prima programmata per il 13 Aprile al 19 per un’assurda presa di posizione. Spera veramente che la Principessa si senta finalmente rassicurata nella dimostrazione del suo potere dall’aver consentito, in virtù della sua protezione, una simile serie di vessazioni. È persino riuscita a trascinare a teatro per l’occasione il marito, che di suo non rinuncerebbe a una caccia neanche per la musica delle sfere celesti[32].
Deve ammettere, in effetti, che qualcosa in comune con Oscar la Principessa sembra averla: l’ostinazione. Questo pensiero interrompe improvvisamente il flusso del suo ragionamento, e questa volta proprio non ce la fa a trattenere la risata, che gli esce solo soffocata, quando improvvisamente nella mente gli compare l’immagine di Oscar bambina imbronciata e con le braccia strettamente incrociate sul petto che scuote la testa in segno di diniego.
Oscar allora si volta nuovamente verso di lui e questa volta glielo chiede apertamente, “Allora Andrè, mi vuoi dire cosa c’è oggi che ti diverte tanto?”, con un tono piuttosto piccato.
“Niente, scusa Oscar, … mi limitavo a osservare il parco e pensavo…”, è evasivo perché sa perfettamente che quello non è il luogo adatto per mettersi a discutere dei comportamenti della Delfina, e anche perché, benché fatichi a spiegarselo, Oscar dimostra sempre nei suoi confronti un’indulgenza, che non ha mai avuto nemmeno per le sue sorelle e, men che meno, per se stessa.
“Guarda Oscar…”, attira di nuovo la sua attenzione verso Maria Antonietta. Il Conte ha raccolto per lei una rosa da un cespuglio e gliela porge con un gesto galante. La principessa lo osserva rapita, senza fare assolutamente nulla per dissimulare l’evidente interesse, che è andato crescendo negli ultimi mesi. Forse è una fortuna che fino ad ora sia stata tanto presa dall’organizzazione della prima di Gluck da essere costretta a trascurare il bel Conte, vista la situazione.
“La principessa sembra innamorata del Conte di Fersen!”
“Sua Altezza Reale non è capace di nascondere se ha in simpatia una persona e io spero che questo non le procuri dei guai… ”
… in simpatia o in antipatia…”, pensa lui, che si limita a replicare tentando di alleviare le sue preoccupazioni, “Scusa se te lo dico, ma stai diventando strana, non è la prima volta che ti preoccupi per cose che poi non accadono!”
Il tentativo evidentemente non va a segno, perché lei si volta nuovamente a guardarlo, rivolgendogli uno sguardo di rimprovero, che lo sorprende.
Abbassa lo sguardo, cercando di dissimulare la delusione, soffiando uno ‘scusa’, appena udibile.
“Senti sei tu che sei strano oggi, che cosa c’è che non va?”
“Niente… sciocchezze…”, risponde evasivo, non sapendo in realtà cosa replicare al comportamento distaccato di lei.
“Bene, allora cerca di non fare quel viso triste.”
Mentre ancora sta finendo la frase, che dovrebbe forse rassicurarlo, Oscar si è già voltata e sta nuovamente dedicando tutta la sua attenzione alla Principessa, che si dirige verso le scalinate per rientrare realisticamente nei suoi appartamenti. S’incammina per seguirla, aspettandosi sicuramente cha lui la segua a sua volta, senza però dirgli nulla, senza neanche rivolgergli nuovamente uno sguardo.
 
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Annette sta versando da un pentolino in rame il caffè bollente attraverso un colino nella caffettiera d’argento, presta particolare attenzione a non sporcare, reggendo l’impugnatura con entrambe le mani con un canovaccio di lino grezzo.
Vicino al tavolo da lavoro della cucina in prossimità dei fuochi, Jerome e il giovane Mathieu attendono che la caffettiera sia piena per finire di preparare il vassoio per il Generale. L’apprendista sembra non riuscire a distogliere lo sguardo dal ruscello nero e fumante che scompare all’interno del lucido pozzo d’argento, mentre gli occhi dell’attendente sembrano non riuscire a non ritornare a più riprese sul viso intento della sua graziosa moglie.
André sta osservando la scena appoggiato allo stipite della portafinestra che collega le cucine al cortile. Hanno finito di cenare anche nelle sale della servitù e hanno riordinato tutto, oramai fuori si è fatto buio e lui deve decidere come impiegare la serata. Oscar lo ha lasciato nuovamente tornare a Palazzo da solo, la Principessa ha organizzato un intrattenimento nei suoi appartamenti per pochi prescelti, per cui lei ha reputato non fosse necessario anche per lui rimanere fino a notte fonda e lo ha congedato, tanto più che sarebbe rimasto il tenente Girodelle ad assisterla in caso di necessità, e il giorno dopo dovrà invece aiutarla nell’organizzazione della cavalcata della Delfina nel parco della Reggia.
Nel pomeriggio Maria Antonietta aveva improvvisamente espresso il desiderio di tornare a cavalcare; poco erano valse le obiezioni di Madame de Noailles, che le aveva fatto presente che il costume per cui le Delfine non erano use andare a cavallo fosse fondato sul pericolo di un aborto. La Principessa aveva colto la palla al balzo, sottolineando come non ci fosse in tal caso nessun rischio e alle ulteriori obiezioni aveva detto che si sarebbe rivolta direttamente al Delfino suo marito, che, ovviamente, aveva capitolato senza alcuna resistenza, come sempre. Per rincarare la dose poi, la futura Regina aveva espresso il desiderio di non cavalcare all’amazzone, come aveva imparato in Austria, ma come un cavaliere: ‘esattamente come Madamigelle Oscar’. Il tutto aveva determinato la necessità di trovare la cavalcatura più adatta, l’abbigliamento più consono, oltre ovviamente a organizzare l’evento per il pomeriggio successivo in modo tale da consentire alla corte di assistere, garantendo comunque un adeguato livello di sicurezza.
In tutto questo turbine di lavoro che comporta l’organizzazione della vita della Principessa, comunque, il risultato è che lui si trova ancora una sera a Palazzo senza Oscar. Potrebbe prendere il libro che sta distrattamente sfogliando e andare a leggere in camera sua, non sarebbe certo la prima volta che passa la serata così, ma il fatto che lei non sia sotto lo stesso tetto gli instilla una strana inquietudine, non vuole rimanere da solo; assistere alle ultime attività della cucina gli pare un accettabile compromesso.
“Ecco così, il bricco alla tua destra e la tazza alla sinistra, così quando poserai il vassoio sul tavolino sarà tutto a portata di mano.”
Jerome sta supervisionando il suo successore, per istruirlo secondo le necessità del Generale, per il quale l’ordine e la regolarità nella vita quotidiana sono essenziali per tenere a bada un carattere altrimenti fin troppo irruento.
“La zuccheriera?”
“No, niente zucchero per il Generale!”
Jerome pronuncia queste ultime parole come se fosse una cosa ovvia, mentre Mathieu lo guarda con aria perplessa, sembra non essergli chiaro perché non mettere comunque il contenitore sul vassoio anche se il contenuto non verrà necessariamente utilizzato, ma sembra un ragazzo sveglio, sicuramente se la caverà.
Deve avere circa la sua età, forse un anno in meno, i capelli rosso Tiziano sono tagliati corti sotto la parrucchetta incipriata con il codino, che fa parte dell’uniforme degli attendenti di Palazzo. Si trova a considerare come sia veramente una fortuna che a Oscar non sia mai venuto in mente che anche lui, in teoria, sarebbe tenuto a rispettare lo stesso canone di abbigliamento, non crede si sentirebbe a suo agio con quell’ammennicolo sulla testa o inguainato in tutto quel velluto rosso ciliegia bordato di passamanerie dorate.
“Ecco perfetto, ora puoi avviarti verso lo studio, ti raggiungo subito.”
Segue il giovane con lo sguardo Jerome, e quando lo vede varcare la soglia si gira verso Annette, le posa la mano sulla guancia in una tenera carezza e si avvicina per baciarle la fronte.
“Come va?”, le chiede con un filo di voce.
“Scalcia … come sempre.”, non riesce a trattenere un largo sorriso lei, mentre lo guarda negli occhi portandosi entrambi le mani al grembo, la cui rotondità appare evidente fasciata nel candido grembiule.
“Speriamo che si sfoghi ora e ti lasci un po’ dormire stanotte!”
“Speriamo, ma se ha preso dal padre…”, un sorriso malizioso.
Ostenta un sospiro Jerome, sorride mentre si allontana per raggiungere l’apprendista, “Adesso devo andare, ci vediamo più tardi.”
Annette rimane per un po’ fissa a osservare il marito che si allontana, e appena lo vede scomparire nel corridoio declama, “Hai intenzione di rimanere tutta la sera a fare finta di leggere mentre invece guardi me?”, si gira poi finalmente, e lo fissa negli occhi con l’aria divertita di chi ha colto sul fatto un bambino con le mani nel barattolo dei biscotti.
Gli viene da ridere, un po’ imbarazzato, per essere stato scoperto, ma in fondo lo sa che lì a Palazzo le sue doti d’invisibilità non funzionano particolarmente bene, men che meno con Annette.
“Non ti si può proprio nascondere nulla!”, risponde scherzoso mentre le si avvicina, facendo scivolare la mano sinistra sul tavolo, mentre nell’altra tiene il suo libro, con l’indice infilato tra le pagine come per tenere il segno.
“Sicuramente non tu, soldo di cacio!”
Benché abbia sette anni più di lui, la supera oramai di tutta la testa, ma lei continua a chiamarlo in quel modo tutte le volte che vuole prenderlo in giro o chiarire chi sia la sorella maggiore. Dopo tanti anni si stenta quasi a riconoscere la ragazzina mingherlina, che lo aveva accolto il giorno del suo arrivo a Palazzo, nella donna che gli sta di fronte; da quando è incinta, poi, è ancora più bella, gli sembra una madonna: il viso luminoso, le labbra piene e le gote rosate, le ciocche chiare che le contornano il viso sfuggendo dalla cuffietta, gli occhi nocciola che sembrano risplendere di una luce nuova.
L’espressione serena si contrae improvvisamente in una smorfia.
“Hufff… mamma mia questo era proprio forte!”, esclama massaggiando un punto preciso sul pancione e spalancando gli occhi.
“Vedi… anche lui è dalla mia parte!”, le risponde con un sorriso sornione, “Posso?”, chiede allungando la mano.
Gli fa cenno di sì con la testa, “Visto come ti difende sarà sicuramente una femmina!”, esclama divertita.
“E perché mai non potrebbe essere un maschietto, che simpatizza con me per puro cameratismo?”, chiede sinceramente sorpreso, mentre trattiene la mano ad ascoltare i movimenti lievi della vita che cresce.
Si gira nuovamente verso il tavolo Annette, scostando la pancia dalla sua mano, e mettendosi a ordinare i canovacci sparsi sul piano di lavoro.
Sbuffa, “Come se non ti accorgessi che ti svengono tutte dietro, caro il mio bell’addormentato…”
Aggrotta la fronte, e scuote il capo lui, “Che sciocchezze…”
Prima che riesca a completare la frase, la loro attenzione viene attirata da qualcuno che si schiarisce la voce, è la piccola Nanà che si è materializzata nella sua nuova uniforme bianca, silenziosa come una brezza, e li fissa con le mani nascoste sotto il grembiule e le guance in fiamme.
“N-nella dispensa io avrei terminato di riordinare…”, sembra non avere voce per continuare la frase.
“Perfetto tesoro, domani mattina alle quattro ti aspetto qui per impastare il pane, ti puoi ritirare per oggi… a meno che…”, la ragazzina osserva la sua insegnante con un filo di apprensione mentre Annette si gira verso di lui con un’espressione significativa, “… il nostro caro André non voglia fornirci il suo parere di esperto sulla torta che hai preparato oggi!”, e rivolta di nuovo alla sua pupilla, “La nostra Nanà oggi ha preparato la sua prima Pont Neuf[33] tutta da sola!”
Anche le orecchie della nuova apprendista cuoca adesso sembrano andare in fiamme oltre alle guance, mentre stenta a rivolgere lo sguardo verso di lui.
Dopo aver esitato un attimo, cercando di capire cosa stia combinando Annette, decide di rispondere cortese, “Grazie Nanà, sono proprio curioso di assaggiarla!”
Senza esitare lei si dirige verso il tavolo più piccolo alle sue spalle, alza una campana in vetro e torna verso di lui con lo sguardo basso, porgendogli un piatto con entrambe le mani. Mentre lei lo guarda con aria ansiosa, lui addenta la fetta dorata cosparsa di zucchero a velo.
“Complimenti, è buonissima!”
Un largo sorriso soddisfatto compare sul viso di Nanà, il cui sguardo continua a rimbalzare dal viso di lui a quello di Annette.
“Visto tesoro? Te lo avevo detto! Ora puoi andare, buonanotte!”
“B-b-buonanotte…”, replica con un filo di voce allontanandosi, lanciando solo un fugace timido sguardo alle sue spalle prima di uscire definitivamente dal locale.
Mentre lui finisce la sua fetta di torta Annette continua, “Non è diventata deliziosa Nanà? Con quei morbidi capelli color miele, quegli occhi blu così dolci … e sicuramente l’abito adesso lo riempie proprio nei punti giusti!”
Si blocca improvvisamente e deglutisce a forza sbarrando gli occhi, “Ecco dove voleva andare a parare!
“È una bambina!”, esclama e si passa la mano tra i capelli.
“Ha due anni meno di te!”, replica immediatamente, e dopo un attimo di esitazione, “… uno meno di Madamigella Oscar... e ti adora!”
“Ma se mi rivolge a malapena la parola!”, si allontana un po’ da lei.
“… e ogni volta che ti vede diventa tutta rossa, chissà perché?! ”, si porta le mani sui fianchi sporgendosi un po’ verso di lui.
“Bah… lasciamo perdere…”, scuote la testa e sospira.
Annette sbuffa, ma non insiste oltre.
“Allora… quando partirete?”, cambia esplicitamente argomento.
“Tra un mese.”, lo asseconda, “Appena Mathieu e Nanà saranno in condizioni di prendere il nostro posto qui a Palazzo.”
“Mi mancherai, lo sai vero?”, glielo confessa di tutto cuore, anche se è contento per lei e Jerome. Per loro è una grande fortuna che il Generale gli abbia offerto di subentrare ai custodi della tenuta di Arras, oramai troppo vecchi per occuparsi di tutto, soprattutto ora che sta per arrivare il bambino.
“Anche tu…”, lo abbraccia teneramente, “… soldo di cacio.”
Si sorridono scambiando in silenzio uno sguardo pieno di sottintesi, prima che lei riprenda la conversazione, “La vita va avanti… le cose cambiano… tutti dobbiamo crescere, e abbandonare le favole in cui credevano da bambini…”
Non risponde mentre lei continua a fissarlo negli occhi.
Con un bacio leggero sulla guancia lo lascia andare.
“Buonanotte…”
“Buonanotte…”
Esita un attimo prima di girarsi e dirigersi verso la porta finestra, ha bisogno di una boccata d’aria, di un ambiente aperto in cui essere libero di respirare. Appena fuori inspira profondamente, l’aria fresca gli riempie i polmoni, gli fa scorrere un brivido sulla pelle, ma non gli basta, una cavalcata… forse una cavalcata lo farà sentire meglio; sprofonda nel buio di una notte senza luna, si avvia verso le scuderie accelerando il passo… una cavalcata verso Parigi, … forse gli schiarirà la mente e scalderà il sangue… potrebbe andare a Parigi e accettare per la prima volta l’invito di Jacob, che per l’ennesima volta lo ha invitato ad andarsi a divertire in una taverna in città… forse allora sentirà meno freddo… si sentirà meno solo…
 
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Non riesce a distogliere gli occhi da Oscar mentre si nasconde quasi, dietro la colonna del baldacchino. Non riesce a distogliere lo sguardo dal suo viso che sembra risplendere di luce propria, accarezzato dal sole del primo mattino, da lei che siede sprofondata tra i cuscini come una perla nell’ostrica del suo enorme letto, da quel bagliore luminoso e puro che gli scalda il cuore.
L’alba e il suo risveglio hanno dissolto l’incubo: la paura di non vederle più aprire gli occhi, l’immagine del sangue scuro che macchiava il suo candore. La luce del mattino non ha però dissipato la colpa.
Non riesce a partecipare all’allegra conversazione con cui gli ospiti, riunitisi nella camera da letto, la stanno intrattenendo, esprimendo la gioia per la sua pronta ripresa. Nessuno di loro è colpevole quanto lui: non sua nonna che ha pregato, versato calde lacrime e vegliato tutta la notte quella che è sempre la sua bambina; non il Generale, che è accorso e si è commosso invocando la possibilità di continuare a essere orgoglioso di una figlia che tutti amano e rispettano; non Fersen che, pur non sapendo nulla di lei, non ha potuto fare a meno di ammirare una persona tanto eccezionale.
Lui invece, che non ricorda quasi di avere avuto una vita prima di lei, che avrebbe dovuto fidarsi di lei più di chiunque altro, ha creduto che il Capitano delle Guardie avesse veramente preso il posto della sua Oscar, mentre lei era rimasta sempre la stessa, rifugiata dentro quel castello di forma e regole per non lasciarsi toccare.
Sa di essere colpevole per aver creduto di non contare più nulla per lei quando, la mattina dopo la nottata passata con Jacob a Parigi, gli aveva detto che avrebbe dovuto vergognarsi per aver dormito nelle stalle, quando lui aveva ancora addosso l’odore di vino scadente e carne in vendita; è colpevole del fatto che Oscar abbia rischiato la vita ferendosi per salvare la Delfina, a causa della sua poca attenzione nel prendersi cura del cavallo; ma soprattutto è colpevole di non aver capito che lei, in tutto quel tempo, si era semplicemente fidata di lui, del fatto che non gli servissero prove o rassicurazioni per sapere che tra loro tutto sarebbe sempre rimasto come quando erano bambini.
Si vergogna di essere stato tanto debole e insicuro da aver avuto bisogno di vederla sfidare il Re, arrivare a offrire la vita per lui, per comprendere questa semplice verità. Non si sente degno dello sguardo amorevole e arreso, che lei ha donato a lui per primo, risvegliandosi da quella notte di delirio e attesa, come per consolarlo della tristezza da cui lo aveva sentito oppresso in sogno.
La vergogna gli strozza le parole in gola mentre gli sorride, rassicurata dal Conte di Fersen sulla buona salute della Principessa, quando gli rivolge la parola per strapparlo da quell’inusuale mutismo.
“Dimmi André, anche tu ti sei preoccupato per me, non è vero?”
La sua voce è chiara e argentina e gli allarga il cuore.
Non ricevendo risposta, se non uno sguardo fugace, lo incalza, decisa ad approfittare di questa singolare occasione in cui non sembra intenzionato a tenerle testa se lo prenderà un po’ in giro.
“Tu sì che sei stato fortunato, hai scampato la morte nonostante tu abbia messo a repentaglio la vita della Principessa!”
Ride ora la sua Oscar, ride di gusto per quella battuta un po’ infantile, e con lei tutti gli ospiti. Solo lui non ride, fatica anche ad accennare un sorriso, giurando che farà qualunque cosa per espiare la colpa. Sente le lacrime che spingono alla soglia degli occhi per la felicità di sentirla nuovamente ridere, mentre vorrebbe che, a portare via la goccia salata sulla sua guancia, fosse la candida e affusolata mano di Oscar.
 
 
 
Non è il tuo amore che voglio
voglio soltanto saperti vicina
e che muta e silenziosa
di tanto in tanto, mi tenda la tua mano.
 
Federico Garcia Lorca
 
 
 
Angolo dell’autore:
… e come diceva Alanis Morissette “… take me down from this pedestal, that I am afraid to fall!”, solo che Oscar sul piedistallo ci è salita da sola, lui le ha dato una mano e adesso ha deciso che gli pare proprio una buona soluzione fin tanto che lui può stare da basso a fare la guardia. Benedetti disfunzionali ragazzi… ma si sa, i giovani sono propensi alle affermazioni assolute con assoluta leggerezza.
Onore agli impavidi che sono arrivati fino in fondo (spero che ci sia stato qualche prode XD… forse siete tutti in vacanza…). Mi scuso nuovamente per l’indecente ritardo (anche rispetto a quanto indicato a qualcuno, ho il flagello pronto), ma come detto a scrivere ‘sta parte ci soffro… di buono, per rispettare fedelmente la storia originale, secondo la struttura malata del mio progetto ho fatto i compiti e definito i dettagli dei contenuti: 10 capitoli in tutto… fino al 6 si continua a scavare (oddio… L), dal 7 in poi si comincia a intravedere un po’ di luce (no non cambio la storia… ma narrandola dal punto di vista di quello che vedono e sentono i nostri beneamati fanciulli… li ho già iniziati per riprendermi dalla spirale discendente).
Come avrete visto, seguo la storia dell’anime per tutto quello che mi serve a far evolvere Oscar e André (si capisce?) ma ho eliminato/sostituito/inserito alcuni eventi della fiction a favore della ‘veridicità storica’ e la definizione dei caratteri (e questo? Si capisce?). A questo scopo ho preso come riferimento la biografia di Maria Antonietta di Zweig, che è la mia preferita ed è anche quella che lesse (a quanto tramandato) la Ikeda prima di imbarcarsi nello sviluppo della storia (realistico visto che le prime puntate la seguono fedelmente).
Bla bla bla… tempo che ci dia un taglio, come sempre ringrazio chi sarà così gentile da recensire e aiutarmi a capire quello che arriva delle mie precise ma contorte idee sull’evoluzione della psiche dei nostri due e del loro rapporto ;-)
Un bacio e a presto ... Le vacanze non hanno accelerato nulla... sto finendo di riordinare le idee... ma non emordo ... non disperate che la finisco... piano, ma la finisco... avevo scelto la sequenza di oneshot conscia del fatto che mantenedo la storia originale.. dovevo trattarla con estrema cura....
 
Sabre

I MIEI DISEGNI: SABREdeviant
 

SABATO 7/11/2014: ORE 17.50 scusate (lo so, sempre scuse.. perdono) tornata a casa ora devo uscire di nuovo, per cui oggi non riesco a pubblicare, confido di riuscire al più martedì... perdono... credo veramente di aver perso ogni credibilità...

 
 
[1] Mi spiace ma non ho saputo resistere a inserire almeno un riferimento a “Ridicule”. Detto ciò, lungi da me voler ridurre il ruolo del ridondante protocollo di Versailles a un’inutile manierismo. O meglio è sicuramente anche quello, ma come tutti i dogmi nasceva per delle robuste ragioni pratiche e politiche! La fondazione del parco a tema Re Sole che è Versailles da parte di Luigi XIV è prima di tutto uno stratagemma politico da parte di un leader forte (che ha avuto come maestri dei geni politici come Mazzarino e Richelieu) che voleva risolvere alla base il problema di una classe di nobili con ancora l’impronta del signorotto feudale, con una parte dei quali si sarebbe sempre dovuto trovare a discutere e contrattare per ottenere il loro appoggio in guerra e che si interponevano nella gestione delle classi sottostanti. Convincere duchi, conti e marchesi che fosse più importante stare in un palazzo di campagna fuori dal mondo (qual è Versailles) alloggiati in maniera indecente (le stanze reali occupano 1/3 del palazzo e nel resto stavano 10000 persone, in stanzette buie nel migliore dei casi, in dormitori promiscui nelle mansarde per la maggior parte degli ospiti paganti; inoltre la reggia è priva di fognature, i prodigi dell’idraulica erano impegnati solo per l’appariscente spettacolo delle fontane e non per lo smaltimento dei liquami) a contendersi l’onore di passare una ciabatta al sovrano, piuttosto che starsene nei loro castelli a fare il signore assoluto del loro feudo è una mossa politica non da poco! Per un leader assoluto come Luigi XIV quindi Versailles e il suo protocollo costituivano un formalismo che sottendeva molta sostanza (unita e un ego spropositato ovviamente). Qualcuno potrebbe obiettare che la sostanza prevale sulla forma… vero fino a un certo punto, prima di tutto perché la sostanza per essere capita da tutti deve essere presentata in una forma semplificata, in secondo luogo perché se c’è la forma i più non si accorgono del fatto che manchi la sostanza e quelli che se se accorgono lo fanno dopo un po’. Pertanto, Luigi XV, che di sostanza ne aveva pochina, grazie alla forma è riuscito a navigare piuttosto sereno, Luigi XVI e la sua signora che di sostanza non ne avevano nessuna, mandando a ramengo la forma, non capendone l’importanza, hanno ottenuto solo di rimanere nudi nella loro pochezza davanti al popolo, facendo si che fossero proprio i nobili di corte, non più tenuti a bada dal protocollo a diffamarli per primi puntando il dito sui difetti della loro nudità ed esasperandoli.
[2] Prima dama d’onore della casa della Delfina, già prima dama d’onore della Regina Maria Leszczyńska, moglie di Luigi XV, doveva vigilare sul fatto che tutto si svolgesse secondo il rigido cerimoniale istituito a Versailles da Luigi XIV. Irrispettosamente soprannominata dalla giovane Maria Antonietta Madame Etiquette.
[3] È sempre facile fare della dietrologia, ma per questo matrimonio reale le coincidenze sono talmente tante: il padiglione della consegna decorato con arazzi raffiguranti il mito di Giasone e Medea, e di Creusa, che per un matrimonio!?!?; la macchia sul documento di nozze; il diluvio universale che devasta il parco di Versailles, aperto per l’occasione al pubblico, scacciando il popolo mentre l’alta nobiltà è al coperto a guardare in silenzio gli sposi che mangiano…
[4] Madame Adelaide, Madame Victoire e Madame Sophie, le tre vecchie comari (mai state mogli senza più voglie se non quella di rovinare la vita altrui) figlie di Luigi XV, alle quali era stata assegnata la responsabilità della formazione della giovane Delfina.
[5] Uno dei salotti delle stanze private della Delfina/Regina. Nelle stanze pubbliche gli “aventi diritto” potevano entrare e assistere alla vita dei reali (da cui la necessità di un parapetto intorno al letto), mentre nelle stanze private l’accesso era più ristretto.
[6] L’aneddoto è vero, è riportato nella biografia di Zweig.
[7] Maria Teresa Luisa di Savoia, Principessa del sangue per matrimonio. Era stata scelta per il suo carattere mite e la sua moralità per sposare l’intemperante giovane Principe di Lamballe. Gli effetti benefici sul marito durano poco e questi la lascia, a far compagnia al padre, per darsi al gioco e alle prostitute. Rimane vedova giovane per una provvidenziale malattia venerea e fa vita di Corte al seguito del suocero. Di sei anni più grande di Maria Antonietta è forse l’unica vera amica. Si allontanerà solo quando verrà soppiantata negli interessi della giovane Regina dalla Contessa di Polignac (la capacità di MA di giudicare le persone è un chiaro sintomo del suo pigro, se non vogliamo dire scarso, intelletto… come diceva anche sua madre). La Lamballe comincerà quindi a viaggiare continuando a dedicarsi alle opere di carità, ma tornerà dalla Regina allo scoppio della rivoluzione (quando la Polignac pensa bene di battersela all’estero), seguendola e assistendola a le Tuileries. Dopo il fallimento della fuga a Varenne si impegnerà in un “giro delle sette chiese” presso le case reali europee in cerca di aiuto. Non avendo ottenuto alcun riscontro decide di tornare a Parigi a le Tuileries. Quando i reali vengono imprigionati, come il resto del seguito, lei viene incarcerata. Durante i massacri di settembre del ’92 (inizio del Terrore), la folla assalta il carcere: la principessa di Lamballe viene trascinata fuori, spogliata, stuprata (definizione riduttiva), squartata e la sua testa imbellettata montata su una picca e portata sotto le finestre della regina perché potesse salutare la sua amica.
[8] Vero
[9] Fiction
[10] Ci tengo a precisare, io adoro Girodelle e non voglio assolutamente prenderlo in giro. Trovo che impersoni l’unico vero gentiluomo autenticamente settecentesco di tutta la storia: sempre garbato, corretto, onorevole, ma comunque elegante e alla moda. Perché la regola è di essere sempre gradevoli al prossimo sia nella sostanza che nella forma, al gentiluomo settecentesco è richiesto di essere in grado di apprezzare il gusto nell’abbigliamento e nell’arredamento … insomma la metrosessualità non è esattamente un’invenzione della nostra epoca. Gli altri o sono personaggi negativi, o si sono persi … un paio di secoli prima (come il Generale) o hanno già un piede nel secolo successivo. È ovvio che è perso per Oscar, ed è l’unico che sembra percepire che il solo vero competitor sia André, benché non se ne possa ovviamente fare una ragione. Anche nell’anime, dalle prime puntate la schermaglia verbale tra i due è sempre presente (ci manca che si mettano a farle la pipì sugli stivali per segnare il territorio). Girodelle non è il predestinato, ma combatte con onore e rimane fedele sempre, è come Aiace Telamonio nell’Iliade … ma con il gusto per i ricami e l’arredamento ;-)
[11] Con Oscar a questo punto sarebbe obbligatorio il “Voi”, ma mi suona veramente troppo strano…
[12] Visione basata sulla frase che poi arriverà a dire il Generale ad Andrè in occasione della visita a Parigi “… comincio a preoccuparmi per Oscar, comincio a chiedermi se il suo compito non lo esponga a troppi pericoli.” Si confidata con Andrè dopo aver congedato Oscar.
[13] Visione basata su quanto dice il Generale a Oscar a letto priva di sensi dopo l’incidente “… mi hanno detto che sono tutti disperati per te, che vogliono che tu ti salvi, sono orgoglioso di te e desidero tanto continuare a esserlo…” con le lacrime agli occhi e tenendole la mano davanti alla nonna!
[14] L’indicazione di “temperamento artistico” era l’eufemismo più gentile utilizzato per caratterizzare Maria Antonietta e il suo comportamento prima della diffusione di tutte le altre innumerevoli voci e conseguenti denominazioni (l’austriaca usato da subito ma poi Madame Scandale, lesbica, sterile, puttana dedita alle orge etc etc etc), che derivava dalla sua propensione più che approssimativa a rispettare l’etichetta (che le aveva inimicato la maggior parte della corte, fonte prima delle voci), oltre che dal fatto che oltre ad essere decorativa, MA sapeva fare bene solo due cose: ballare/muoversi con grazia e suonare l’arpa. Per il resto non parlava un francese accettabile, figuriamoci alto, e non era in grado di scrivere una lettera senza riempirla di strafalcioni, quindi se le faceva scrivere dall’abate di Vermont, suo tutore.
[15] Istitutore della Delfina
[16] Anche Luigi XV si era spostato a 15 anni, in realtà si erano affrettati a farlo sposare per timore che morisse di malattia, cosa che aveva portato a propendere per la scelta di Maria Leszczyńska, di 7 anni più vecchia, che tra tutte le candidate era quella già in età per avere figli (per le altre avrebbero dovuto aspettare che raggiungessero almeno la pubertà). Il malatino quindicenne comunque … tanto malatino non era, visto che ha fatto il suo dovere e ha tenuto continuativamente la moglie incinta per i successivi dieci anni, fino a che lei non ha detto “Bbbbbasta!”, anche perché di anni lui ne aveva 25 ma lei 32 e 10 gravidanze a carico di cui la prima gemellare. Da cui via al periodo delle amanti ufficiali, da considerare però nell’ottica del tempo, Luigi XV è stato estremamente morigerato rispetto a quello che combinavano la maggior parte degli altri sovrani contemporanei.
[17] In realtà ai tempi il pranzo si chiamava colazione e la nostra cena pranzo, ma per non incasinare la percezione temporale, teniamo le diciture moderne.
[18] La visione che do della Dubarry è meno semplificata di quella dell’anime e più storica, prima di tutto perché mi è utile per quello che voglio rendere, in secondo luogo, perché non me la sento proprio di sparare a zero su una poveretta che: era stata iniziata alla prostituzione da bambina dalla madre, era finita nelle grinfie di un protettore come Jean Dubarry che l’aveva infilata nel letto di chiunque gli potesse fare un favore e per infilarla in quello del Re l’aveva LUI sposata al fratello per nobilitarla, solo perché tre vecchie zitelle e una ragazzina di 14 anni che hanno sempre avuto tutto per nascita senza neanche applicarsi nel mettere a frutto i vantaggi avuti la reputassero indegna. Il fatto che lei non si possa permettere di essere apertamente umiliata davanti alla corte non è stizza, ma coscienza di non essere li per diritto di nascita, quindi costretta a difendere il territorio. Si riferisce in realtà che la Dubarry fosse molto generosa con chiunque la trattasse decentemente, doveva essere sufficientemente amabile con la corte, altrimenti sarebbe finita avvelenata come Madame de Chateauroux (che era veramente una stron*a dispotica), non doveva essere bizzosa con il Re, che altrimenti si sarebbe liberato di lei come Luise O'Murphy che per quanto bella lo aveva sfinito di irritazione, non doveva essere in realtà neanche particolarmente sgodevole con la famiglia, dato che dopo l’esilio a Louvenciennes Luigi XVI le assegnerà una rendita mensile (nonostante sua moglie). La sua tanto stigmatizzata passione per i gioielli poi era semplicemente la pratica consolidata delle mantenute, coscienti che la loro fortuna poteva finire da un momento all’altro, in un’epoca in cui le donne erano eterne minorenni, che non potevano avere nulla di intestato che non venisse amministrato da un uomo, gioielli, abiti e mobilio erano gli unici beni di cui potevano disporre in modo indipendente e che potevano, all’occorrenza, monetizzare. Da signora di Louvenciennes poi, si è sempre occupata di curare i feriti e sfamare i poveretti, per cui piano a sputare sulla Dubarry per aver messo a frutto l’unica cosa che aveva (e Luigi XV era un vecchiaccio grasso che non si lavava da 20 anni!!!), quando poi a Versailles tutti si infilavano nel letto di tutti per ottenere questo o quel favore!!
[19] Ok, sono servi ma pur sempre servi di corte! Si suppone che abbiano un vocabolario adeguato anche per dire oscenità (“Sono uno, signore, che viene a dirvi che vostra figlia e il Moro stanno facendo adesso la bestia a due schiene W. Shakespeare, Otello, Atto I)
[20] Era proprio una posizione ufficialmente riconosciuta, non una moglie morganatica, ma quasi.
[21] Queste affermazioni possono apparire forti da parte dei servitori di corte, ma se si considera che in seguito alla nascita del figlio del Duca di Artois hanno dato nei corridoi della puttana sterile alla Delfina senza conseguenze, diciamo che l’unico diritto garantito sembrava essere la libertà di insulto.
[22] Dalle memorie di Saint Simon.
[23] Da cui appare evidente come Luigi XV non avesse esattamente una sua linea politica.
[24] Maria Antonietta era sempre stupefatta dal tempismo e dalla contestualità delle lettere materne, sembrava quasi che lei la riuscisse a vedere da Vienna… o che avesse qualche strano potere! In realtà Mercy aveva istituito una rete di informatori impressionante, che lo teneva costantemente informato dei minimi dettagli della vita della Delfina e di tutto quello che avveniva a corte. Inviava poi regolarmente dei plichi speciali a Vienna, che venivano letti direttamente da Maria Teresa. (che MA non fosse arrivata a supporlo viste le lettere della madre, non depone particolarmente a favore del suo intelletto)
[25] Io questa frase l’ho detestata, la detesto e la riporto fedelmente dall’anime. Non tanto per il raptus isterico, che ci può stare, ma per il “nipote della mia governante”, che è proprio puro distillato di stronzaggine inteso per fare male!
[26] Mi è piuttosto incomprensibile il motivo per cui nei mobili antichi, settecenteschi e ottocenteschi in particolare, fosse tanto diffusa l’usanza del “transformer”! Consolle che diventano tavoli da pranzo, tavolini da caffè che si tramutano in multi-tavolo da gioco (12 giochi in uno siore e siori…), scrittoi che si tramutano nel caveau di una banca… Dubito che il problema fosse il medesimo dei designer moderni che progettano sgabellini per arredare il tuo monolocale di 30mq, che possono tramutarsi in un comodo tavolo con sedie per il pranzo di natale a cui inviterai non solo tutti i parenti ma anche i vicini. Dato che questi ammennicoli erano articoli di lusso per persone che normalmente abitavano in qualche migliaio di metri quadri, più realisticamente erano uno status simbol per chi poteva permettersi di aver fatto uscire di testa un ebanista e dimostrare di averlo pagato. Detto ciò… volete che un fashionista come Girodelle non ne abbia uno nel suo uffico!?!?
[27] Maria Teresa era una bacchettona tremenda, per cui ha cercato fino all’ultimo di non dire lei esplicitamente alla figlia che non era il caso di generare tutto quel casino per un ciao a una prostituta. Alla fine però il guaio più grosso (la spartizione della Polonia), combinato dal figlio maschio l’ha indotta a mettere personalmente una pezza a quello combinato dalla figlia femmina (abbiam fatto 30 facciamo 31!). Il fatto che la fine del casino nel pollaio tra le sue galline abbia indotto il vecchio gallo a ignorare il fatto… che si stavano fregando una parte del pollaio!... la dice lunga su quanto allo sbando fosse l’amministrazione francese (Apres moi le deluge… e già sta facendo sue gocce in effetti!).
[28] Disambiguazione: il Delfino ha annunciato al Re e alla Corte che quella notte ha finalmente deflorato Maria Antonietta! Evento reale, l’ho inserito perché agli occhi moderni è un fatto che rasenta il disgustoso, ma credo che possa dare come pochi l’idea della corte, del contesto, dell’epoca e dei personaggi coinvolti, Maria Antonietta in particolare (che se non si fosse capito mi serve per definire Oscar). Aggiungo però che il problema della consumazione del matrimonio tra i principi è lungi dall’essere concluso, dato che Luigi Augusto come si sa tentenna e diciamo che… questa notte ha bussato e ha messo un piede sulla soglia, ma prima che entri in casa e rimanga fino alla fine della cena… beh per quello ci vuole ancora parecchio.
[29] Vero, Maria Carolina, molto legata alla sorella minore e totalmente insoddisfatta dei parrucchieri napoletano, che non erano in grado, a quanto pare, di esibirsi nelle ardite costruzioni verticali ma solo in strutture orizzontali, ottenne che la sorella ordinasse a Leonard di andare a Napoli ad acconciarla una volta al mese. Maria Carolina e Maria Adelaide, a Napoli e Parma sono state altre due fulgidi esempi di dilapidazione di patrimonio. Maria Teresa era chiaramente capace di fare l’imperatrice, ma sulla formazione delle nuove leve… parecchio scarsa (benché lei giustificasse l’evidente fallimento della sua progenie al debole sangue dei Lorena che ci aveva messo suo marito).
[30] Regalare il piccolo chimico ai bambini è un’ottima idea, ma come prima cosa REQUISITE IL SOLFATO DI RAME!
[31] La linea a piramide per gli uomini era quella dichiarata di moda all’epoca per gli uomini e che veniva usata come riferimento per il taglio degli abiti. In sostanza: spalle strette e spioventi, addome un po’ prominente e giacca e gilet lunghi e spioventi che si allargavano sui fianchi. Detto che ogni gusto è soggettivo, a mio avviso questa moda era solo un’idea dei sarti per rassicurare i danarosi signori senza fisico che gli pagavano i conti. Le raffigurazioni di nudo anche dell’epoca non hanno poi mai proposto come riferimento l’uomo a pera (pera .. piramide, il morfotipo è quello), per cui reputo che da un punto di vista anatomico, la “fisicatura” da arte greca classica abbia sempre incontrato maggiormente anche il gradimento femminile dal punto di vista meramente anatomico.
[32] Espressione fantastica di Zweig ;-)
[33] La torta di mele più buona dell’universo ;-)

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Capitolo 4
*** Anello 4: Aspettative (parte1/4) ***


Premessa dell’autore:
E come tutti sanno sono in un ritardo che non si può più neanche definire mostruoso! Per cui chissà se qualcuno ancora si prenderà la briga di leggere questa storia.
Comunque, per gli assidui, che ringrazio infinitamente, dato però che non riesco a pubblicare il capitolo completo entro oggi e visto che il capitolo stesso è smodatamente lungo come al solito, pubblico intanto la prima metà (alla seconda serve un po’ di editing, ma vista la carenza di tempo lo pubblicherò in un paio di giorni.. scusate… la gallina domani).
Non per giustificarmi, ma perché tanta lungaggine per questo capitolo (oltre alla oramai arcinota carenza di tempo): alla fine del capitolo 3, visto dal punto di vista di Andrè, io che la amo, ma non incondizionatamente quanto lui, avevo un certo desiderio di darle due sberle, legarla a una sedia e chiederle urlando “Ma tu, che problemi hai!?!?!”. Come sempre in queste circostanze, mi è servito un po’ di tempo per calmarmi e un altro bel po’ per sforzarmi di mettermi nei suoi panni e cercare effettivamente di capire, che problemi avesse. Perché diciamocelo, la ragazza non è stupida, forse un pochino rigida, per cui ci doveva essere una logica nella sua evoluzione (se tutte amiamo tanto questa storia un senso dovrà averlo nella sua forma originale!!). Questo capitolo (nella sua interezza) è figlio di questo tentativo di comprensione di Oscar, o meglio, della sua formazione in una fase in cui il fatto che sia così giovane (periodo 74-78, 18-22 anni) credo abbia un peso notevole.
Oltre a questo, un po’ di tempo mi è servito per cercare di mettere un po’ di ordine cronologico negli eventi rispetto agli eventi storici, dato che, per ovvie necessità di copione, nelle puntate dell’anime alcune cose sono state rese contemporanee, alcuni personaggi importanti tagliati, alcuni eventi un po’ “artificiosi” aggiunti, per riuscire a rendere alcuni aspetti con il mezzo scelto.
Non mi resta che augurarvi buona lettura, ringraziandovi per la pazienza e confidando che sia accettabile (al solito... se non c'è la qualità, sulla quantità non lesino)
 
Mercoledì 14 Gennaio 2015: ciao tutte, non mi dilungo a giustificarmi sui vari imprevisti che hanno causato la mia latitanza, volevo solo dire che non ho abbandonato la storia, sono solo in immenso ritardo, confido di riuscire a pubblicare al più presto...


Anello 1.4: Aspettative
 
 
Vorrei sedermi vicino a te in silenzio,
ma non ne ho il coraggio: temo che il mio cuore mi salga alle labbra.
Ecco perché parlo stupidamente e nascondo
il mio cuore dietro le parole.
Tratto crudelmente il mio dolore per paura che tu faccia lo stesso.
 
Il mio cuscino mi guarda di notte
con durezza come una pietra tombale;
non avevo mai immaginato che tanto amaro fosse
essere solo e non essere adagiato nei tuoi capelli.
 
Federico Garcia Lorca
 
 
 
Lunedì 9 Maggio 1774, dintorni di Versailles
 
Il verde degli occhi di André che la fissano, lo distingue nonostante sia ancora così lontano. È ancora solo una figura minuta, che si avvicina conducendo i cavalli per le briglie, sulla destra dell’ampio spiazzo antistante al piccolo castello di Rueil. Riesce a vederlo chiaramente quel getto verde, anche se le lame di luce del sole impietoso, in questo pomeriggio di un maggio innaturalmente caldo, le feriscono gli occhi e fanno tremare i contorni delle basse siepi rigidamente scolpite, che delineano lo spazio aperto. Anche i profili delle ali del sobrio palazzetto, che ancora le costringono lo sguardo mentre si allontana, sembrano agitarsi irrequieti in questo pomeriggio soffocante.
La canicola le serra la gola. Forse si sentirebbe meno oppressa se potesse respirare a pieni polmoni, riempiendosi di aria il petto costretto nelle fasce e nella giubba pesante e strettamente allacciata. Allentare almeno il rigido amoerro che cinge il collo, le darebbe un po’ di ristoro, ma niente deve scomporre l’immagine del Capitano delle Guardie di Sua Maestà nel suo incedere marziale, fiero ed elegante.
Continua a battere sul terreno gli stivali con ritmo netto e regolare, anche se ora quello che le arriva alle orecchie non è più il rintocco chiaro dei suoi tacchi sul marmo, cui, fino a poco fa, faceva da sommesso contrappunto quello degli scarpini del lacchè che la sta scortando, ma il suono ruvido e indistinto della piccola ghiaia che scricchiola sotto le suole, esalando sbuffi di polvere biancastra.
Li vede gli occhi di André che le scorrono sul viso, anche se si chiede come sia possibile che riesca a distinguerlo così chiaramente, ora che si è fermato al centro del piazzale davanti a lei, mentre il mozzo si stalla che lo affianca non è ancora altro che una figura in livrea scura dal volto indistinto, sormontato da una massa di capelli rossicci.
Eppure lo sente il suo sguardo che le scivola sulla guancia destra e si sofferma sullo zigomo, dove si concentra una lieve sensazione di calore. Li percepisce chiaramente i suoi occhi su di se andandogli incontro, così come li sentiva quella mattina, mentre gli dava le spalle sulla piazza d’armi, in sella a un irrequieto Caesar, tenendo lo sguardo fisso sulle nuove reclute, che tentavano di marciare in formazione sullo sfondo dell’ala nord della Reggia, secondo i suoi ordini asciutti e precisi.
Per tutta la durata dell’addestramento, i soldati non erano stati in grado di eseguire i compiti più elementari: non mantenevano il ritmo, una falcata regolare, una distanza misurata e costante tra di loro nella formazione, la postura e l’incedere dovuti da un membro della Guardia Reale.
“In due settimane non avete neanche imparato a marciare. Se continuate così, non diventerete mai delle Guardie di sua Maestà!”
Alla fine si era ritrovata a urlare, cercando di far leva sul loro amor proprio, mentre tirava con decisione le redini, perché neanche Caesar sembrava intenzionato a rispondere agli ordini e continuava a pestare gli zoccoli muovendosi avanti e indietro.
Si era aspettata, che il sole battente e quel caldo soffocante e inaspettato, avrebbero reso l’esercitazione di quella mattina più faticosa, per questo aveva deciso di occuparsene lei in persona, invece di lasciare l’incombenza al suo secondo.
“Cosa succede a Madamigella Oscar? È molto strana… avrebbe fatto meglio ad affidare a me l’addestramento!”
La frase rivolta da Girodelle ad André, proveniente da un punto poco distante all’ombra delle arcate alle sue spalle, le aveva rivelato che anche lui la stava osservando e, a quanto pareva, la situazione non sembrava incontrare la sua approvazione. Probabilmente riteneva che sarebbe riuscito a ottenere dei risultati migliori in quelle circostanze, o molto probabilmente sarebbe semplicemente stato più indulgente, come se l’eccezionalità del clima potesse giustificare una maggiore tolleranza con quelle reclute indisciplinate.
Un soldato deve sempre compiere il suo dovere, rispettare un codice, non fare nulla che possa in alcun modo ledere il suo nome, la sua immagine e il suo onore in ogni più piccola incombenza, e lei non sarebbe stata certo un buon comandante se non avesse insegnato questo alle sue reclute, dando per prima il buon esempio.[i]
Caesar aveva improvvisamente scartato di lato, e lo sbuffare attraverso le froge e lo scalpiccio, che erano seguiti alla sua pronta reazione per trattenerlo, le avevano quasi impedito di cogliere la risposta.
“Oscar non è capace di stare senza far niente”, condivideva quell’affermazione di André, ma poi lo aveva sentito continuare, “ma voi non la conoscete bene come me…”
Per quanto dovesse ammettere che anche questo probabilmente fosse vero, c’era qualcosa nel tono con cui aveva pronunciato quell’ultima frase che l’aveva infastidita! Probabilmente anche il suo secondo aveva colto quella sfumatura, perché lo aveva sentito ribattere piccato, “Credo di conoscerla abbastanza… ma allora spiegatemi, se ne siete capace, perché è tanto nervosa in questi giorni!”
Era come se lo stesse sfidando, come se si stessero affrontando in una sorta di competizione nella quale lei sembrava avere un ruolo incomprensibile[ii]. Come se ci fosse qualcosa da capire oltre al fatto che il caldo insopportabile[iii], improvvisamente esploso in quegli ultimi giorni, rendeva più faticoso portare a termine i compiti quotidiani. Lei semplicemente s’impegnava, come sempre, nell’adempiere al suo dovere, anziché perdere tempo in chiacchiere nell’ombra dei giardini e dei corridoi della Reggia.
Sono quasi due settimane che sembra i cortigiani non si dedichino ad altro, nascondersi negli angoli a discutere, fingendosi intenti alle usuali facezie, per valutare, pianificare, decidere quali parti prendere.
 
Le consultazioni tattiche erano cominciate in sordina il 27 Aprile, quando il Re era caduto da cavallo durante una battuta di caccia, ed era stato subito chiaro che non si trattasse di una sciocchezza, visto che si era deciso di trasportalo in tutta fretta dal Trianon alle sue stanze a Corte, prestando ben poca attenzione alla sua comodità e all’effettiva cura della sua salute.
Il protocollo aveva come sempre prevalso, anche sul benessere del Sovrano; era così risultato palese a tutti ciò che si temeva, senza dichiararlo e nascondendosi sotto i rassicuranti augurii di lunga vita: non si poteva lasciare spazio all’eventualità che il Re di Francia morisse al di fuori del Palazzo Reale di Versailles[iv].
Sempre in ottemperanza al protocollo, a tutti gli eredi al trono era stato impedito qualunque contatto con Luigi XV: non si poteva allo stesso modo rischiare di mettere in pericolo la legittima discendenza. Gli angoli ombrosi della Reggia si erano fatti ancora più animati quando poi era risultato evidente che si trattasse di vaiolo, dopo che il folto consesso di luminari[v] accorsi, per mettere a disposizione del Regno tutta la loro conoscenza, si era praticamene dichiarato impotente. La strenua resistenza opposta al male dal Sovrano aveva alimentato il nervosismo degli abitanti della Reggia, ancora combattuti tra il desiderio di essere i primi a manifestare la propria fedeltà al nuovo Re e il rischio di non mostrarsi assolutamente devoti a quello vecchio con eccessivo anticipo.
 “Sono preoccupato… sono tutti preoccupati per la salute del Re.”
Glielo aveva detto André una sera della settimana appena trascorsa, riscuotendola dai suoi pensieri, trovandola assorta a fissare la Reggia in lontananza dalla finestra centrale del salon delle sue stanze. Era rimasta interdetta, senza sapere cosa rispondere, un po’ per la sorpresa di quella frase inaspettata, un po’ perché le sarebbe quasi venuto da ridere amaramente, ma non se l’era sentita, trovandosi di fronte la sua espressione sinceramente angosciata. Sicuramente erano tutti preoccupati a causa della salute del Re, non per essa.
“La tempra del Re è forte, non dobbiamo ancora disperare.”, aveva continuato lui.
Lei non era riuscita a dire nulla, aveva semplicemente distolto lo sguardo, tornando a lasciarlo vagare oltre i vetri della finestra.
La forte tempra del Re, a quanto pareva, era il vero motivo di disperazione dei cortigiani, che avrebbero preferito di gran lunga un decesso repentino o una chiara sentenza di morte, piuttosto che quest’agonia di attesa, che sembrava non trovare fine.
Il rischio del contagio e i miasmi della corruzione del corpo rigonfio[vi] avevano scacciato anche i medici; la servitù di stanza sembrava riuscire ad adempiere ai suoi doveri solo tenendo le finestre continuamente spalancate.
Unicamente le Mesdames[vii] e la Du Barry erano rimaste devote a condividere lo strazio del loro Re, continuando a vegliare stoicamente la spoglia vivente: le principesse erano rimaste le uniche componenti della vecchia corte in disfacimento insieme alla donna, che più di tutte avevano disprezzato e odiato. La morte prolungata di Luigi XV le aveva messe di fronte al destino comune, quando il loro Re non fosse stato più, anche loro avrebbero smesso di esistere per la Corte: non figlie, non mogli, non madri le une, non più favorita protetta l’altra. Apparentemente ignare di questo destino comune avevano continuato a ignorarsi educatamente al cospetto del loro Signore fino a sabato.
Dopo dieci giorni di strenua resistenza, il Sovrano si era improvvisamente aggravato e aveva chiesto un confessore. Dopo trentotto anni[viii]  si era piegato e aveva invocato il perdono.
Quello, che per tanto tempo era stato il più disoccupato di tutti i membri della Corte[ix], aveva allora imposto l’allontanamento della Contessa, costretta all’esilio temporaneo nel vicino castello di Rueil, fino a quando la sorte del suo protettore non si fosse compiuta, così come tutte le donne che l’avevano preceduta.
I sacerdoti, però, si erano rifiutati di concedere i sacramenti al Re peccatore, che per tanto tempo li aveva rifiutati, vivendo nell’empietà tra i suoi piaceri. La confessione nella segretezza delle pareti della sua stanza, a quanto pareva, non era sufficiente a consentirgli di beneficiare della misericordia divina. Per quegli alti prelati, l’uomo che per trentotto anni si era ritenuto al di sopra della sacra legge doveva abbassarsi fino a terra, dando prova della sua sincera contrizione, dichiarando il suo pentimento pubblicamente di fronte ai suoi sudditi.
La mattina successiva niente era riuscito a tenere i cortigiani lontani da quello spettacolo, non il rischio del contagio, non i miasmi che esalavano dalle stanze reali, non il caldo soffocante, che sembrava essere stato mandato per accelerare quel putrido sfacelo: il corteo era accorso ad occupare tutto il percorso dalla cappella alla camera del morente, illuminata dal sole nascente. Non era rimasto uno spazio libero, tutti gli abitanti della Corte, che fino a pochi giorni prima competevano per dimostrare chi fosse in grado di genuflettersi più profondamente, erano sciamati come mosche per compiacersi dello spettacolo raccapricciante dell’umiliazione imposta a un vecchio morente esposto su un altare cremisi e oro.
 
Quel leggero senso di nausea, che l’aveva tormentata da quando quello strano caldo li aveva assaliti, si era improvvisamente intensificato dopo tante ore a cavallo sotto il sole battente. Aveva girato leggermente la testa, sollevandola in cerca di aria, e con la coda dell’occhio aveva scorto un uomo, un servitore in parrucca e livrea rosso scuro, accostato al suo secondo per dirgli qualcosa, tenendo lo sguardo fisso su di lei. Aveva allora tirato la briglia destra, per far girare Caesar e osservare direttamente il tenente, che si avvicinava seguendo l’uomo, non più tanto giovane, che avanzava a piedi.
“Madamigella Oscar[x]” l’aveva salutata senza riferirsi al suo grado, esibendosi in un compito inchino, come chi era sicuramente abituato a servire a Corte, e aveva atteso un suo cenno del capo per proseguire “Ho un messaggio della Contessa Du Barry, avrebbe necessità di parlare con voi. Chiede se possiate andare a farle visita.”
Si era quindi congedato e lei era rimasta a fissare le sue spalle mentre si allontanava, scomparendo nell’ombra di una delle arcate del porticato che profilava lo spiazzo, fino a quando non aveva sentito Girodelle esclamare “La cosa non mi convince.”
Si era girata a guardarlo in volto stupita da quell’intervento non richiesto, e non si aspettava certo lo sguardo risoluto che le aveva rivolto continuando, “Permettetemi di venire con voi.”
“No, non è affatto necessario” aveva cercato di porre subito un freno con una risposta netta a quel suo eccesso di zelo.
“Ma… potrebbe essere un tranello!” l’aveva incalzata, apparentemente senza cogliere il suo disappunto “Potreste trovarvi in pericolo!”
“Tenente…” aveva declamato il suo grado, sottolineando la differenza tra di loro nella gerarchia militare “… so badare a me stessa!”
Si era trovata a dover ribadire quest’ovvietà, dato che il suo secondo sembrava essersene dimenticato.
Aveva affondato i talloni nei fianchi di Caesar, lasciando Girodelle a occuparsi di qualcosa che gli competeva, quale l’addestramento delle reclute, così che la smettesse di preoccuparsi di cose, che certo non lo riguardavano, come se lei avesse avuto bisogno di venire difesa… dalla Contessa poi! Sapeva esattamente cosa aspettarsi da quella visita, e sicuramente non aveva nulla da temere da una donna, che era sicuramente in cerca di nuova protezione, ora che aveva perso quella dell’uomo che l’aveva difesa e innalzata.
Mentre si allontanava al trotto lungo il colonnato, aveva girato appena la testa, per lanciare un ultimo sguardo alle sue spalle: il suo secondo ancora fermo a fissarla con le braccia lievemente spalancate e un’espressione incredula, mentre André, poco distante, era montato a sua volta a cavallo. Non si era più voltata lungo il tragitto fino ai cancelli e poi quando aveva spronato Caesar al galoppo per coprire la breve distanza verso nord. Non aveva avuto bisogno di girarsi ancora per sapere che André la stava seguendo.
 
Lo vede trattenersi a stento dall’andarle incontro quando finalmente lo raggiunge accanto ai cavalli in mezzo allo spiazzo antistante al castello. Lo fissa diritto negli occhi, con un’espressione severa affiancandosi a Caesar e appoggiando sulla sella la mano destra guantata. Lui si frena, sembra tornare calmo e rilassato, mantenendo l’atteggiamento tranquillo e composto, che si richiede al suo attendente, ma lo sguardo esita ugualmente sulla sua guancia per un attimo, prima che si abbassi per afferrarle lo stivale e aiutarla a salire a cavallo.
“Se non posso esservi utile in altro, Capitano, non mi rimane che rinnovarvi i saluti della Contessa.”
La voce del lacchè, che l’ha seguita in silenzio fino a quel momento, richiama la sua attenzione. Abbassa lo sguardo su di lui senza tradire alcuna emozione, osservandolo abbassarsi in un profondo inchino.
“Presentate alla Contessa i miei omaggi.”
Con questa frase di circostanza lo congeda, ma non si attarda a osservarlo allontanarsi. Alza lo sguardo e lo fa scorrere sull’edificio dal quale è appena uscita, sul profilo lineare e ordinato del corpo centrale in pietra color avorio, delimitato dalle due ali, che abbracciano la corte, adorna di due basse aiuole semicircolari simmetriche, sulle tre file di finestre squadrate, intervallate con passo regolare, la cui altezza decresce progressivamente dal basso verso l’alto, sul tetto spiovente e spigoloso, coperto da riquadri di ardesia grigia, e profilato di zinco, dietro al quale si ergono le chiome delle querce immobili nell’aria ferma. Difficile per chiunque immaginare che quell’immagine così perfettamente ordinata possa custodire tanta disperata opposizione a un futuro inevitabile.
“Torniamo a Versailles?” André è montato a sua volta in groppa e le si è affiancato. Non gli risponde subito, si gira solo un attimo a guardare il suo profilo, trovandolo a fissare anche lui il castello.
“No, torniamo a Palazzo…” guida la sua cavalcatura a girarsi imponendo una tensione appena accennata alle briglie ”non c’è alcun bisogno di tornare alla Reggia.”
La sua presenza non è più necessaria per oggi, ormai Girodelle porterà a termine l’esercitazione. Non c’è più nulla che lei possa fare se non lasciarsi assalire nuovamente da quella nausea, che non sembra volerle dare tregua. Da giorni le carrozze sono pronte nei giardini e i palafrenieri in allerta per scortare il nuovo Re e la sua consorte a Choisy, non appena il vecchio Re morirà.
 
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All’interno delle scuderie la luce filtra solo attraverso gli spiragli intorno agli scuri, lasciati abbassati per proteggere i cavalli dalla calura eccessiva, e dalla singola anta del portone aperta all’ingresso, senza riuscire a penetrare troppo in profondità.
Lascia vagare lo sguardo a inseguire una pagliuzza di pulviscolo, che danza in una delle lame di luce che fendono l’ombra fresca, mentre il respiro torna regolare e il cuore rallenta, lasciando scorrere le dita sulla criniera di Caesar, perché anche lui si calmi.
Hanno cavalcato a perdifiato per tutta la distanza fino a casa. Lo ha spronato al galoppo lungo le strade profilate di alberi, come se questo potesse riuscire a farla sfuggire dal senso di oppressione. Attraversando il cancello d’ingresso aveva tirato il morso, per portare l’andatura al trotto, non si era però fermata per smontare e lasciare le redini a Philemon, che le era andato incontro nello spiazzo riarso dal sole. Aveva continuato fino all’ingresso delle stalle per poi smontare e condurre Caesar da sola per le briglie fino alla selleria.
Le è sempre piaciuta la tranquillità di quel lungo e basso edificio di legno e pietra, la luce tenue e morbida, il silenzio ovattato, interrotto solo dallo sbuffare sommesso dei cavalli e lo scricchiolio leggero della paglia. Persino l’odore pungente del fieno, del cuoio dei finimenti e delle selle, e degli animali è capace di infondere calma[xi] al mare burrascoso dei suoi pensieri.
Non sa esattamente quanto, ma devono essere passati almeno una decina di minuti, perché il cuore e il respiro si sono calmati, e anche Caesar adesso sembra semplicemente godersi le sue coccole, dandole di tanto in tanto un colpetto leggero con il muso. Ancora appoggiata alla parete di legno, sente il rumore sordo di stivali e zoccoli, che si avvicinano con passo tranquillo sul tufo battuto a coprire la pietra.
“Se avevi intenzione di seminarmi, ci sei quasi riuscita!”
Alza lo sguardo verso quella voce dal caratteristico tono scherzoso e calmo, ed è ovviamente il viso di André che le compare davanti. Strizza leggermente gli occhi, senza distoglierli dai suoi, mentre le regala un sorriso prima di voltarsi per legare velocemente le briglie di Alexander al gancio accanto a quello cui lei ha legato Caesar[xii]. Lo vede scomparire un attimo dietro la groppa del cavallo, solo per riapparire subito dopo, avvicinandosi a lei con passo tranquillo reggendo qualcosa in mano. È solo quando le è vicino, che vede un lampo di apprensione oscurare il suo sguardo sereno. Si è andato nuovamente a posare sulla sua guancia e la mano si è sollevata in fretta per andarlo a raggiungere.
La sua reazione è immediata, con un movimento minimo ma secco solleva il mento e la mano si blocca in aria a un soffio.
“Non è niente e non ho bisogno del tuo aiuto.”
Ha aggrottato la fronte e irrigidito la mascella e lui risponde, dopo un attimo di esitazione, sollevando un angolo della bocca e socchiudendo leggermente gli occhi per esibirsi in un sorriso sornione.
“Lo so perfettamente Oscar! Infatti non lo faccio certo per te, ma solo per me.” tarda a proseguire, per soffocare una leggera risata, che quasi gli sfugge perché lo sguardo accigliato di lei da minaccioso si è fatto interrogativo “Hai una vaga idea di cosa mi farebbe mia nonna se ti vedesse tornare a casa con un rivolo di sangue rappreso in pieno volto?”
Ha sollevato le sopracciglia dicendolo, per sottolineare l’ovvietà della sua affermazione, e ora la fissa con quella strana espressione preoccupata e ostentatamente fasulla, mentre le affiorano alla mente tutte le volte in cui si è finto terrorizzato dalle minacce di sua nonna, come se fosse ancora un bambino e non un uomo alto quasi due volte quella piccola furia.
“Ti prego, Oscar, sii buona…” l’ha vista cedere, probabilmente si è accorto che ha dilatato le narici nel tentativo di non mettersi a ridere, perché ancora non vuole dargliela vinta “… abbi pietà di me tapino e vieni in mio soccorso, concedendomi di ripulire dal tuo volto le prove della mia inadempienza!”
Dopo aver pronunciato quelle parole, con intonazione ed espressione ancora più enfatiche, è rimasto immobile, sempre fissandola con occhi fintamente spaventati e tristi, e alla fine la risata finisce col tracimare, anche se trattenuta, in uno sbuffo.
Non trova parole per controbattere, allora si mette dritta fronteggiandolo, gira appena il viso così da mettere in piena evidenza lo zigomo offeso.
Solo a questo punto la mano di lui riprende a muoversi, appoggia appena il pollice e l’indice sulla punta del mento per spostarlo leggermente, come per poterlo vedere meglio, e si avvicina ancora un po’, perché in quell’ombra fresca è difficile distinguere i dettagli.
“Sei il solito buffone.” riesce a dire lei a questo punto, con un vago tono di rimprovero. Scorge appena il suo volto con la coda dell’occhio, dalla posizione in cui si trova.
“Come sempre al vostro servizio!” controbatte lui, aprendo ancora di più il sorriso, con le palpebre che quasi nascondono del tutto gli occhi rivolti verso il basso. E’ tanto vicino, che il fiato di quella frase le solletica la guancia e l’orecchio. Sente il pollice, che si è spostato, scorrerle lo zigomo lieve, mentre l’indice le sostiene ancora appena il mento.
“Non è nulla…” lo dice scostandosi appena, ma velocemente “…un po’ d’acqua e non si vedrà più nulla.”
Libera di abbassare la testa, può seguire con lo sguardo la sua mano, s’infila in una tasca per estrarne un fazzoletto. Lo bagna con il contenuto della borraccia, che deve essersi portato appresso prendendola dalla sella. Appoggia poi il contenitore afflosciato su una mensola della parete.
“Te lo avevo detto!” non riesce a trattenersi dal ribadirlo, sollevando le sopracciglia, mentre lui le rivolge uno sguardo rassegnato e le afferra di nuovo il mento per riportarla nella posizione precedente, senza troppi complimenti.
“A maggior ragione, meglio cancellare le prove.”
Sente la stoffa umida detergerle la guancia con delicatezza, il contatto è fresco e gradevole. Si rilassa, socchiude gli occhi mentre il respiro rallenta. Poi il sostegno del mento viene meno e lei riesce a voltarsi per vedere i suoi occhi che continuano a seguire la mano, che guida il fazzoletto verso la tempia e la fronte, per poi scorrere verso il basso.
“Va meglio?”
Dopo un attimo di esitazione in cui ha ricambiato il suo sguardo, vedendola annuire appena, si allontana definitivamente, rimettendosi il fazzoletto in tasca. Si accosta a Caesar, per abbassarsi ad allentare il sottopancia, solo dopo averlo gratificato con una carezza e una pacca sulla groppa e aver fatto scorrere verso l’alto la staffa.
“Non mi vuoi raccontare cosa è successo?”
La voce, per quanto chiara, è spezzata per la posizione in cui sta lavorando.
“Niente…”, torna ad appoggiarsi al legno della parete, incrociando le mani dietro la schiena, “…non è successo niente.”
“Scusa, ma… ”, un ultimo sforzo e si risolleva per afferrare la sella con entrambe le mani e sollevarla, portandola verso uno dei supporti alla parete, “… sicuramente sono io a essere poco perspicace…”, torna indietro e afferra il sottosella, che batte leggermente dopo averlo sfilato, mentre continua a parlare, “… ma faccio un po’ fatica a comprendere come tu possa recarti a far visita alla Du Barry, in risposta a un suo esplicito invito… “ appoggia l’imbottitura piegata su una mensola ”… e uscirne con un taglio sul viso, presentando educatamente i tuoi ossequi alla padrona di casa.” si avvicina al muso del cavallo e slaccia la fibbia, allentando i finimenti.
Si gira per incrociare il suo sguardo, mentre sfila la testiera aiutato dalla docile collaborazione di Caesar, ma lei lo rivolge alla punta del suo stivale sinistro, che sposta avanti e indietro un filo di paglia abbandonato sulla terra battuta. Scrolla il capo, come per ribadire l’irrilevanza della cosa.
Sospira sonoramente lui, mentre va ad appendere i finimenti accanto alla sella, a un gancio contraddistinto da una piccola placca sulla quale è inciso il nome del nobile quadrupede.
“Ti prego, spiegami…”, le si è posto nuovamente di fronte, si è sbilanciato leggermente verso destra, appoggiando il braccio piegato sul manto bianco del cavallo, che non sembra trovare proprio nulla da ridire, “… sarei proprio curioso di capire come siete passate a uno scontro all’arma bianca partendo da un invito, in cui la Contessa aveva tutto l’interesse a ottenere la tua benevolenza, perché tu intercedessi con la Principessa in suo favore!”
Alza di scatto la testa sbarrando gli occhi per guardarlo in faccia, sorpresa da quell’ultima affermazione. Si trova ancora una volta di fronte quel suo sorriso scanzonato, di chi sembra sapere sempre tutto, senza che gli sia stato detto. Come al solito le verrebbe voglia di strangolarlo per cancellare dalla faccia quell’espressione allegramente compiaciuta, e come sempre, allo stesso tempo, le viene da ridere, ma non ha nessuna voglia di dargli questa soddisfazione, per cui respira profondamente per rispondere con voce neutra.
“Le ho risposto, che non potevo esserle di aiuto.”
“… a questo c’ero arrivato, e…”
“… e lei ha cercato d’intimidirmi, ritenendo che la minaccia di sfregiarmi potesse essere sufficiente a farmi cambiare idea…”
“…e… come siete passate dalle minacce al sangue?”
“… ho reputato, che appoggiare la guancia alla sua lama fosse una risposta più efficace di mille parole.”
“Diplomatica come sempre!” scrolla la testa ridacchiando, portandosi nuovamente verso il muso di Caesar per infilargli il capezzone e legarlo, mentre aspetta di condurlo nel suo box.
“Ha sortito l’effetto desiderato.” risponde un po’ piccata “E’ rimasta senza parole e io mi sono accomiatata.”
Lo segue prima con lo sguardo, mentre passa sull’altro fianco dello stallone bianco, dandole le spalle per occuparsi di Alexander senza dire altro, poi fa qualche passo, passando sotto la morbida fune che lega il muso del suo cavallo e appoggiando poi la mano sinistra sulla fronte tra i ciuffi della criniera, facendola scorrere lentamente verso il naso, in una carezza leggera che ripete.
“Era ubriaca…”, lo dice con un tono incerto.
“E’ disperata.” risponde lui, continuando a darle le spalle, piegato a slegare il sottopancia.
“La situazione in cui si trova non è altro, che il risultato delle sue scelte e delle sue azioni.” dalla sua voce è scomparsa qualsiasi nota di possibile indulgenza.
Dopo aver imbracciato la sella, si gira a guardarla. La fissa negli occhi per un attimo, con uno sguardo che fatica a decifrare. Le risponde solo quando le da nuovamente le spalle, muovendosi per andare ad appendere il fardello al suo posto.
“Certo, ma a volte le scelte che le persone fanno sono influenzate dalle circostanze. Che scelte ha avuto in fondo? Ha sfruttato quella che considerava un’opportunità. Il cognato ha fatto tutto quanto era in suo potere per farla entrare a Corte, assecondare le sue mire, dedicandosi solo al Re, le sarà parsa una condizione decisamente migliore, che venir fatta transitare per tutti i letti di Parigi.”
Il sollievo temporaneo dato dall’ombra delle scuderie è passato, comincia nuovamente a sentire caldo, avverte un rivolo di sudore affiorare sulla tempia e scorrere poi giù verso la gola.
“Vorresti dire che non poteva avere altra scelta se non quella di soddisfare i desideri del cognato e del Re? Come se lei stessa non avesse assecondato i propri? Vuoi dire che avrei dovuto concederle la mia protezione?”
Caesar scrolla il muso nervoso, allontanando la sua mano, che lei lascia ricadere lungo il fianco prima di stringerla a pugno.
“Non ho detto questo.” le lancia uno sguardo veloce mentre solleva il sottosella, prima di girarsi di nuovo a sbatterlo e riporlo “la tua risposta è stata coerente, non credo potessi fare altrimenti. Solo, mantenendo il contenuto, avresti potuto scegliere una forma un po’ meno… rigida.”
Le lancia un sorriso di sottecchi.
Lei sbuffa allargando le braccia, solo per farle ricadere nuovamente sui fianchi.
“È già sorprendente che abbia chiesto aiuto a te… anche se probabilmente l’ha fatto perché non è riuscita a trovare nessun un altro nobile protettore.” continua liberando il muso di Alexander dai finimenti “Suppongo rimangano ben poche alternative a chi è stata la favorita di un Re.”
“Vuoi dire che non ha altra possibilità, che venire salvata da un uomo?... magari uno di quei gentiluomini che fino a qualche giorno fa si sfidavano per omaggiarla, così da entrare nelle sue grazie e ottenere la benevolenza del suo protettore, e che ora fingono di non conoscerla?” ha alzato la voce.
Torna a guardarla negli occhi, appendendo anche le redini di Alexander. Ha un’espressione tranquilla mentre le si avvicina dopo averlo legato, le si pone di fronte, senza smettere di fissarla.
“Travisi ancora le mie parole.” anche la sua voce è calma “Credo solo che sia l’unica via d’uscita, che è in grado d’immaginare. Il fatto stesso che abbia considerato la peggior minaccia che potesse muoverti, quella di deturparti, la dice lunga su ciò cui dà valore…”, le avvicina l’indice allo zigomo, con un gesto tranquillo, senza arrivare a sfiorarla, se non con lo sguardo “… e anche sulla sua capacità di giudicare le persone!”
Pronuncia quell’ultima frase con un po’ di esitazione, poi torna a guardarla negli occhi e accenna un sorriso.
Fa un respiro profondo, non riesce a impedire anche agli angoli della sua bocca di piegarsi leggermente verso l’alto, scrolla il capo come per schermirsi.
Prima che riesca a formulare una risposta, la sua attenzione viene attirata da un rumore di passi, che si avvicinano dall’ingresso delle stalle. Alza la testa e André si gira quasi completamente, affiancando il suo sguardo.
“Scusate… Madamigella Oscar…”, la voce di Philemon è esitante, e tiene le spalle un po’ sollevate, come se cercasse di nascondercisi, “... vi… vi posso essere utile?”
Crede che non si abituerà mai alla timidezza del nuovo stalliere, che suo Padre ha assunto per affiancare il vecchio Jean-Luc da qualche mese, soprattutto perché niente nel suo aspetto sembrerebbe rivelare un temperamento tanto mite e arrendevole.
La prima volta, che lo aveva trovato nelle scuderie, le aveva dato l’impressione che avrebbe potuto con tutto agio sollevare Caesar, qualora non avesse collaborato per entrare nel suo box. Quasi le aveva messo un po’ di soggezione quel ragazzone alto due metri e con la corporatura di un titano, ma poi, appena si era accorto della sua presenza, si era prostrato in un inchino tanto profondo e tremante, e l’aveva salutata presentandosi con una tale titubante deferenza, che, a dispetto della stazza, le era parso un bambino spaurito, con quei grandi occhi chiarissimi, dall’espressione così semplice e sincera, su un viso ampio dai lineamenti marcati e regolari, tipico di chi viene dalla Normandia, come quei capelli di un biondo rosato, che ricorda quello, così caratteristico, delle fluenti chiome, che Maria Antonietta[xiii] solitamente nasconde sotto strati e strati di posticci, creme e cipria.
Non riesce a fare a meno di rivolgergli un sorriso rassicurante, perché sembra che qualunque altra cosa potrebbe ferirlo a morte. Prima però che possa rispondere è André a parlare.
“Grazie Philemon, ho già provveduto io a togliere i finimenti.” anche lui con un’espressione calda e confortante sul viso.
“Oh… sì… certo Monsieur Grandier… ” sulla faccia di André è comparsa una giocosa espressione di rimprovero a quell’appellativo, e il nuovo arrivato ha preso a fregarsi i palmi delle mani sul camoscio delle brache con maggiore insistenza “… p-posso occuparmi io di strigliarli…”
“Quante volte ti ho detto di chiamarmi per nome e che il mio nome è André?” gli si avvicina sorridendo e assestandogli un’amichevole pacca sulla massiccia spalla.
Effettivamente non ricorda più neanche lei quante volte glielo ha sentito ribadire, e non si spiega come quell’invito continui a rimanere disatteso. Benché lo superi in altezza di tutta la fronte, ha almeno un paio di anni meno di lui, forse è questo che continua a tenerlo tanto in soggezione.
Quell’invito amichevole sembra però avergli nuovamente rubato le parole di bocca e allora è André a parlare, mentre lui lo fissa con gli occhi spalancati, lanciando di tanto in tanto un’occhiata verso di lei.
“Veramente, caro Philemon…” ha fatto scorrere la mano fino a cingergli le spalle con il braccio, e lo guida lentamente verso i cavalli “… come vedi Madamigella Oscar ha pensato bene di farci fare una bella sudata, galoppando fino a casa…”, gli indica il fianco di Caesar, dove sono ancora evidenti le chiazze schiumose; storce la bocca e aggrotta le ciglia in modo teatrale “dubito sinceramente che un strigliata sarà sufficiente. Potremmo approfittare di questo bel caldo, per dargli una bella lavata, se mi dai una mano. Tu puoi occuparti di Alexander, mentre io me la vedrò con quello scorbutico di Caesar.”
“C-certo!” la richiesta ricevuta sembra improvvisamente sollevarlo e toglierlo da qualunque impaccio. Raddrizza bene la schiena, le rivolge un veloce cenno con il capo e si dirige a grandi passi decisi verso i ganci alla parete, da cui prende una longia, che attacca al capezzone del cavallo assegnatogli, per poi liberarlo e condurlo fuori.
 “Bene, Oscar… ”, André torna a guardarla in viso con un’espressione vagamente divertita, dopo aver seguito per un attimo con lo sguardo Philemon, che si allontana borbottando qualche segreto all’orecchio di Alexander, “credo che anche tu possa andare in casa a darti una rinfrescata, ” inizia a sbottonarsi il gilet “io e Caesar ne avremo per un po’.”
Annuisce per poi superarlo e dirigersi verso l’uscita. Appena prima di superare la soglia dell’ombra si ferma per girarsi a guardarlo: ha appeso giacca e panciotto ordinatamente a uno dei ganci sulla parete, si sta arrotolando le maniche della camicia fronteggiano il suo stallone bianco, che scuote il capo e sbuffa come se avesse capito quello che lo aspetta e volesse comunicare il suo entusiasmo. Poi torna a dargli le spalle e s’immerge in quel sole impietoso.
L’afa ancora le mozza il respiro, la luce le offende gli occhi mentre avanza sullo spiazzo retrostante il palazzo, così come quella mattina a Corte, come poco più di un’ora prima davanti al temporaneo esilio dorato della Du Barry. Si ritrova a pensare alle scelte, a come suo Padre le abbia insegnato che non possano esistere dubbi o alternative quando è l’onore a guidare la scelta; poi pensa a quello che le ha detto André solo un attimo prima sulla Contessa, sul fatto che sia possibile che non abbia visto altra scelta, se non liberarsi dal controllo di un uomo innalzandosi grazie a un altro e che ora non possa fare altro che precipitare insieme a lui. Accelera il passo, senza però scomporsi, per raggiungere al più presto l’ingresso ombroso del palazzo.
 
 
Venerdì 5 Maggio 1775, Versailles
 
Scricchiola la punta appena tagliata della penna d’oca scorrendo sulla carta, mentre appone la sua firma in fondo al rapporto sull’organizzazione della scorta per il trasferimento dei Sovrani a Reims per la prossima incoronazione[xiv]. Attende che l’inchiostro asciughi e lascia scivolare lo sguardo sulla grafia del Capitano Girodelle[xv], sorprendendosi ad apprezzare ancora una volta quanto riesca a risultare gradevole. Non può certo ricordare, dopo anni, quanti rapporti e note scritte di suo pugno abbia avuto tra le mani, ma fin dalla prima volta era rimasta colpita da come il suo tratto riuscisse a unire all’ordine e alla regolarità, proprie di chi abbia ben curato la calligrafia ricevendo un’educazione di alto livello, un che di elegante e ricercato, senza però mai risultare lezioso. Forse l’aveva colpita perché era così diverso dalla suo, che, pur caratterizzato dallo stesso ordine e regolarità, rimane a tratti spigoloso, quasi irrequieto. Era come se dal segno dell’inchiostro sulla carta, disciplinato dagli innumerevoli esercizi si scrittura, assegnati e rigorosamente ricontrollati dai precettori, alla fine non potesse fare a meno di filtrare qualcosa dell’indole personale dell’autore, capace di distinguere quanto appare tanto simile al primo sguardo.
Solleva il foglio e si deve fermare prima di soffiare via la polvere, perché, anche se solo un attimo, gli angoli della bocca le sfuggono, incurvandosi verso l’alto, trovandosi a considerare che certo non si potrebbe dire lo stesso per la grafia della nuova Regina.
Nei pochi biglietti sfuggiti al provvidenziale filtro di un copista, che le era capitato di ricevere in virtù dell’affetto speciale che Maria Antonietta le riservava, non vi era traccia di ordine o regolarità, come se i protratti tentativi dell’Abate di Vermon[xvi] non fossero riusciti in alcun modo a instillare un minimo di disciplina alla sua grafia. Il tratto della penna frammentario e disordinato, le tante macchie e sbavature sembravano dichiarare apertamente un’indole perennemente irrequieta e insoddisfatta, non disposta ad attardarsi a spendere un minimo di attenzione o impegno per il conseguimento del più semplice risultato, come persa nella perenne ricerca di altro[xvii].
Adagia il rapporto vergato dalla sua firma sulla pila di carte nell’angolo destro della scrivania, insieme a tutti i documenti pronti per essere archiviati. Sollevandolo, lo sguardo inciampa inevitabilmente nel coordinato da scrittoio, su cui poco prima ha distrattamente riposto la penna e il contenitore del polverino, posto poco lontano dalla pila di fogli, proprio al centro del margine superiore del piano in legno.
Si sofferma solo un istante, lasciando scorrere gli occhi sul fine cesello dell’ottone dorato, sulle squame dei delfini le cui code sostengono le due ampolle di cristallo sfaccettato, le piccole rose dei coperchi, uguali a quelle delle ghirlande che adornano tutta la base del supporto. Ancora una volta non può che constatare come quell’oggetto, per quanto di pregio, fatichi ad abbinarsi con le linee sobrie e solide del mobilio di legno scuro del suo ufficio e con la rigida e imponente regolarità dei riquadri di marmo policrono alle pareti.
Come spesso accade, la sua mente torna a un tardo pomeriggio dell’anno precedente: Luigi XV era morto da due giorni ed era stato velocemente tumulato nella Basilica di Saint-Denis, senza nemmeno estrarre il cuore e il fegato, viste le condizioni della salma[xviii]; non potendo risiedere alla Reggia un Re vivo ed un Re morto, immediatamente dopo il decesso Luigi XVI e la nuova Regina erano stati trasferiti a Choisy-le-Roi, scortati dalla Guardia del Re.
In assenza di una Delfina, i suoi impegni a Corte si erano drasticamente ridotti e aveva approfittato di quel pomeriggio finalmente fresco per tornare presto a Palazzo e misurarsi con André con la spada, come da troppo tempo non riusciva a fare.
Con il sudore che le imperlava la fronte, il cuore accelerato e i muscoli tesi nello sforzo di affondare le stoccate e parare i colpi, le era sembrato di tornare a quando la vita era così semplice. Con le orecchie piene solo del clangore delle spade, delle provocazioni pronunciate con il sorriso a fior di labbra e il suono dei loro respiri affannati, le erano apparsi così lontani la Reggia, il protocollo, l’affannarsi dei Cortigiani, tutte quelle cose al di sopra delle quali si sforzava di galleggiare ogni giorno, ma nelle quali percepiva inevitabilmente di affondare.
Si era sentita così leggera, quando, con i muscoli doloranti e appesantiti dalla fatica per il lungo duello, aveva lanciato ad André la sua spada, ammettendo per la prima volta che aveva dovuto faticare per riuscire a disarmarlo e che cominciava ad avere quasi paura di battersi con lui. Non era riuscita a evitare di sorridere, con le labbra schiuse per lasciar fluire il respiro ancora affannato, quando lui si era schermito, dicendo che nonostante tutto però ancora non riusciva a resisterle[xix].
Erano rimasti così, ad aspettare che il cuore rallentasse, immersi nella luce rossa del tramonto a godersi la brezza che stormiva le foglie degli alberi sul retro del Palazzo. Era tutto talmente rassicurante e familiare da sembrare fuori dal tempo: difficile distinguere il presente dalle mille volte in cui si erano trovati così in una vita insieme.
La voce di suo Padre era arrivata a riscuoterla, a riscuotere entrambi, considerando come anche lui si era girato di scatto in direzione di una delle finestre del primo piano. Erano rimasti attoniti per più di un attimo, non sapeva se per il drastico risveglio o per lo sgomento di vedere il Generale protendersi dal davanzale urlando, chiaramente in balia di troppa emozione.
 “Oscar, grande notizia!… sei stata nominata Comandante delle Guardie Reali, hai il grado di Colonnello ora.[xx]
Questo le aveva urlato senza riuscire ad attendere di mandare qualche membro della servitù a chiamarla perché lo raggiungesse nel suo studio.
 “Il primo desiderio che Maria Antonietta ha espresso come Regina è stato di chiedere al Re la tua nomina a Comandante delle Guardie.”
Aveva continuato senza trattenersi, senza attendere che lei entrasse, con il petto gonfio e il viso illuminato da qualcosa d’indefinibile tra l’autentica gioia e l’orgoglio per il raggiungimento di un obiettivo insperato, così diverso dalla soddisfazione composta per la sua tanto attesa nomina a Capitano.
Lei era rimasta senza parole, probabilmente perché, a parte la normale sorpresa per qualcosa d’inaspettato, non aveva provato nulla, nessuna gioia, nessuna delusione, come se quella nomina per lei non fosse altro che un dettaglio puramente formale in un percorso ormai tracciato da una decisione presa da tanto tempo.
Ancora nella sua uniforme di Capitano si era recata subito alla Reggia, cosciente della necessità di manifestare alla Regina la gratitudine dovuta per un segno tanto tangibile dell’affetto e della fiducia che riponeva in lei.
Nonostante fosse appena rientrata a Corte l’aveva ricevuta subito, senza troppo badare alla forma, e si era trovata a doverle esprimere la sua gratitudine per l’onore di quella nomina nella forma del netto rifiuto all’aumento dei suoi emolumenti. Era cosciente della gioia, che Maria Antonietta traeva dall’essere fin troppo generosa con le persone che amava, non l’aveva sorpresa quindi la delusione sofferta sul suo volto mentre la esortava a rivolgersi a lei per qualunque cosa potesse desiderare. Allora non aveva esitato a chiedere molto più di quello che le era stato offerto.
“Desidero che la Regina Maria Antonietta diventi una magnifica regina.[xxi]
Seconda per rango solo a un marito, che sembrava non poter fare altro che soddisfare ogni sua richiesta[xxii], finalmente libera dal controllo delle vecchie e intriganti Signore della Corte, sostenuta dall’affetto dimostratole da tutto un popolo, che non desiderava altro che poter sperare in un futuro migliore, la sua Regina era libera di innalzarsi come nessun’altra, per quanto di stirpe reale.
Solo quando era tornata a Palazzo aveva indossato la nuova uniforme, recapitata nel pomeriggio dal messo di Corte insieme all’annuncio del suo nuovo incarico; sua Maestà doveva aver esercitato la sua influenza perché venisse realizzata così in fretta.
Non aveva cenato, aveva chiesto ad André di far preparare la carrozza per andare a Parigi, così da portare a termine quello che considerava il suo primo compito al servizio della sua Regina.
 
“Sono qui per darvi un consiglio Conte di Fersen… dovete lasciare immediatamente la Francia e tornare in Svezia.”
Questo gli aveva detto senza troppi giri di parole e sembrava averlo sorpreso, molto più di quella visita senza invito a un’ora così inusuale.
“Dunque stanno già cominciando a malignare…”
I consueti pettegolezzi della Corte sembravano per lui la sola motivazione ragionevole per la sua richiesta. Lei aveva minimizzato, ribattendo con quella che considerava l’unica giustificazione.
“Maria Antonietta adesso è la Regina di Francia.”
Cosa che a lui non doveva apparire altrettanto ovvia, dato che aveva ancora ribattuto.
“Non vi sentite mai sola? Intendete passare tutta la vita indossando un’uniforme? Siete una bella donna, non vi sentite a disagio?”
Si era accomiatata senza dargli ulteriori spiegazioni: non si era mai sentita a disagio indossando un’uniforme; benché fosse una donna, per lei non era un problema passare la vita indossando un’uniforme, perché a differenza della maggior parte delle altre donne era stata educata per ottenere un obiettivo e le erano stati forniti gli strumenti per ottenerlo[xxiii]; non si era mai sentita sola.
C’era André ad attenderla accanto alla carrozza, non le aveva chiesto nulla, si era limitato a osservarla tenendole lo sportello aperto. Prima che potesse salire, si era avvicinata loro una ragazza, quasi una bambina, così magra e vestita di stracci era difficile darle un’età, avrà avuto undici, forse dodici anni. Non sapeva perché l’avesse colpita tanto, forse per quello che le era successo quel giorno, forse per la disperazione che aveva scorto in quegli occhi di un blu così profondo. Aveva detto di chiamarsi Rosalie, la sua storia non era diversa da quella di tanti poveri disperati, che sempre più spesso capitava di incontrare in giro per le strade di Parigi: una madre malata, l’impossibilità di trovare un lavoro per guadagnarsi il pane, l’angoscia per un futuro che non le sembrava possibile. L’aveva esortata ad avere fede, deponendole tra le mani una moneta d’oro.
Mentre la carrozza abbandonava sussultando la città, riportandola verso le confortevoli mura della sua casa, non era riuscita a togliersela dalla testa. Aveva continuato a pensare quali tragedie potesse provocare la miseria, come potesse togliere qualunque libertà anche solo di immaginare un futuro, come questo fosse tanto più vero per una donna, per la quale era pressoché impossibile guadagnarsi onestamente il pane; aveva sperato, che quella moneta d’oro potesse preservare l’innocenza scorta in quegli occhi, almeno fino a quando non si fosse realmente concretizzata la possibilità di un futuro migliore. Aveva sollevato lo sguardo, incrociando il verde di quello di André, sempre adagiato su di lei, calmo e rassicurante.
Maria Antonietta aveva la possibilità di diventare una magnifica Regina, la grande Regina che tutti speravano avrebbe finalmente donato alla Francia un futuro migliore; il suo compito era quello di proteggerla, così da consentirle di realizzare il suo potenziale, tutto quello in cui tutti speravano, e nessuno meglio di lei era in grado di comprendere le rinunce che richiedeva la disciplina necessaria al conseguimento di un obiettivo.
Le era stato riferito che il Conte era partito la mattina dopo[xxiv].
Nei giorni seguenti si era trovata costretta a rimandare indietro i numerosi doni recapitati a Palazzo dalla Reggia; perfino André in quel caso le aveva chiesto spiegazioni di tanta determinazione nel rischiare di offendere con un simile rifiuto la Sovrana. Gli aveva detto che lo faceva per non rischiare di alimentare i pettegolezzi, già visti nascere ogni qual volta Maria Antonietta aveva mostrato in modo tanto tangibile il suo affetto per le persone che le erano care, che lo faceva perché non dovevano dimenticare che quei doni erano pagati con l’appannaggio reso disponibile ai Sovrani dal versamento delle tasse da parte della povera gente. Era tutto vero, ma oltre a questo lei sapeva di aver già privato sua Regina qualcosa, che per lei aveva molto più valore delle carrozze, dei cavalli, dei mobili alla moda e che rischiava di costituire un ostacolo.
Solo su una cosa nessuna delle due aveva dovuto particolarmente insistere, sul fatto che, nonostante la promozione lei conservasse il suo vecchio ufficio adiacente al Salone delle Guardie della Regina, invece di trasferirsi nella caserma delle Guardie di Sua Maestà posta al di fuori della Reggia, vicina alle Grandi Scuderie. Lei aveva rinunciato ai sontuosi locali destinati a rappresentare la posizione del Comandante delle Guardie e la Regina era rimasta soddisfatta di poterla avere ancora vicina, benché in quegli anni, ovviamente, fosse sempre stata lei a recarsi nei suoi appartamenti ogni qual volta era stato necessario.
La prima mattina che era tornata a sedersi alla scrivania del suo solito ufficio, indossando il cremisi del nuovo comando, si era trovata di fronte quel prezioso oggetto. Nonostante la poca attenzione, che solitamente dedicava a quel genere di cose, non aveva potuto proprio ignorarlo per quanto spiccava rispetto alla semplicità quasi spartana del resto. Non aveva avuto dubbi su chi l’avesse mandato, nonostante non fosse accompagnato da alcun biglietto, cosa che le aveva reso impossibile anche rifiutarlo, essendone formalmente ignota la provenienza.
 
Il suono leggero ma sicuro di qualcuno che bussa la riscuote da quell’ennesima divagazione tra i ricordi. Alzando gli occhi verso il riquadro della porta, lo sa già che vedrà comparire André da dietro all’anta che si sta schiudendo, senza attendere il suo esplicito invito a entrare.
“Scusa Oscar, sono le undici. Sua Maestà ti attende nei suoi appartamenti.”
Non gli risponde se non con un lieve cenno del capo prima di alzarsi, afferra il documento contenente i dettagli relativi al trasferimento a Reims e gira intorno alla scrivania per raggiungerlo. Non c’è bisogno di altre parole, perché lui ha già tra le mani la spada, che le porge, dopo aver preso i fogli così da consentirle di allacciare l’arma al fianco. Esita solo un attimo per regalarle un sorriso appena accennato, quasi solo una contrazione intorno agli occhi, prima di girarsi e precederla lungo la Sala delle Guardie, dove i soldati si erigono rigidi sull’attenti al suo passaggio, e la guardia preposta provvede ad aprire la porta di passaggio diretta agli appartamenti della Regina, per poi richiuderla immediatamente alle loro spalle.
Attraversano l’anticamera senza che la servitù, intenta nel disporre la sontuosa argenteria e i cristalli secondo la scenografia preparata per il pranzo pubblico, prestino loro la benché minima attenzione.
Quando varcano la soglia del salone dei Nobili però è piuttosto sorpresa di non trovare nessuno, se non un paio di cameriere intente a riordinare le numerose poltroncine di seta verde acqua lungo la parete. Mentre sta per rivolgere lo sguardo un po’ perplesso verso André, che si è fermato al suo fianco, scorge, con la coda dell’occhio, una personcina infiocchettata affrettarsi uscendo dalla camera da letto della Regina. Accorgendosi della loro presenza, si blocca e si piega in una profonda riverenza in segno di saluto.
“Scusate Comandante, Sua Maestà è impegnata nei suoi appartamenti privati, ha disposto pertanto di ricevervi nel Grand Cabinet.”
La dama, che non riconosce, deve avere più di vent’anni, ma così piccola, con quel faccino tondo adornato da due pomelli rosei e dagli occhi ridenti, avvolta in quel vortice di seta lucida di uno sgargiante color magenta, adorno di candidi nastri, pizzi e roselline, potrebbe sembrare una bambina o meglio ancora una bambola. L’impressione, che si tratti di uno di quei complessi giocattoli caricati a molla, si accentua mentre si apprestano a seguirla, osservando come si gira di scatto, dirigendosi a piccoli passi frenetici oltre la soglia, per poi girare e destra e scomparire oltre il portoncino aperto nel disimpegno, che introduce alle stanze private della Regina.
Procedendo non fa neanche in tempo a girarsi verso André, che lo sente rispondere alla sua domanda non formulata con la consueta voce pacata.
“Marchesa di Boufflers, l’entusiasta acquisto della settimana.”
Lo vede distogliere lo sguardo impassibile dalla direzione in cui si è eclissata la loro guida cinguettante, per dirigerlo nei suoi occhi solo un attimo, prima di abbassarlo di scatto nello sforzo di trattenere una risata, probabilmente dovuta all’espressione smarrita che deve avere colto nei suoi occhi sbarrati.
“Sua Maestà sembra apprezzarla particolarmente per lo spirito allegro e le battute brillanti… anche se a volte un po’ scollacciate.”
Detto questo le cede il passo per poi seguirla.
Visto il suo ruolo, dovrebbe conoscere, o almeno riconoscere, tutte le persone ammesse a frequentare gli appartamenti dei Sovrani, ma negli ultimi mesi la composizione del seguito di Maria Antonietta è diventata così freneticamente variabile da trovarla spesso del tutto impreparata davanti a volti sempre nuovi, che prendono il posto di altri, dei quali non aveva ancora fatto in tempo a imparare il nome. Fortunatamente sembra che gli impegni di André non gli impediscano di tenere il passo dell’avvicendarsi nel ristretto, ma estremamente dinamico, seguito, di chi riesce a entrarvi per una qualche caratteristica particolarmente amabile o divertente agli occhi della Regina o di chi ne viene allontanato per essersi fatto inavvertitamente sfuggire qualcosa di pedante o noioso.
Varcando l’ingresso delle stanze private, quello che attrae immediatamente la sua attenzione è il disordine, sulla sinistra l’ingresso della biblioteca è aperto, lasciando intravedere come sulle sedie e gli scaffali siano accatastare scatole, variopinte pezze di tessuto e piume, intorno alle quali si stanno affaccendando un numero di ragazze in un’uniforme blu, che non è quella bianca e azzurra prevista per la servitù assegnata a quelle stanze. Altre scatole, altre montagne di stoffe, nastri, pizzi e merletti ricoprono ogni supporto lungo lo stretto corridoio illuminato dalle finestre che a sinistra affacciano sul Cour de Monseigneur. Evidentemente è una delle giornate in cui si da udienza a Rose Bertin.
Erano passate un paio di settimane dall’ascesa al trono del nuovo Sovrano, la prima volta che aveva visto le sue lavoranti sciamare cariche di pacchetti verso le stanze reali; era rimasta interdetta chiedendosi chi fossero, anche in quell’occasione era dovuto intervenire André ad aggiornarla su quella novità. Da allora le visite della sarta preferita da Maria Antonietta le erano diventate più che familiari, come se si fossero tramutate in una sorta di nuova voce del protocollo di Corte, che aveva finito col fare decadere buona parte delle vecchie.
Due ragazze in divisa blu le si parano davanti all’ingresso della sala, per poi superarla in tutta fretta una per lato, permettendo, come due quinte che si aprono, di osservare la scena all’interno. Anche lì altri variopinti cumuli nascondono del tutto o in parte le poltroncine avorio e oro, lo scrittoio, le sedie, la mensola del camino tra le due grandi finestre. Altre operose ragazze in blu sono affaccendate chine lungo l’orlo delle gonne di Maria Antonietta, che, eretta in mezzo alla stanza, allunga il collo in direzione dello specchio che sovrasta il camino, con l’aria intenta di chi deve valutare una questione estremamente importante mentre muove le braccia, nascondendo dietro la schiena prima una e poi l’altra.
“Mmm… non riesco veramente a prendere una decisione. Voi cosa ne pensate, Madame Bertin?”
“Vostra Maestà, non credo sia possibile scegliere, addosso a voi qualunque abito appare perfetto!”
La melliflua risposta è arrivata dalla donna spavaldamente eretta accanto alla nicchia in cui è incastonata la dormeuse, sulla quale si è appollaiata la Boufflers con una tazza e un pasticcino, accanto alla serafica Principessa di Lamballe.
Si stenterebbe a riconoscerla come una comune sarta, visto l’abbigliamento sontuoso, i gioielli e l’acconciatura ricercata, se l’occhio non cadesse sulle mani, che, per quanto ben curate ora, tradiscono per dimensioni e forma il passato di chi è stato costretto a usarle. Difficilmente quelle dita riuscirebbero a entrare in uno dei minuscoli e delicati guantini disposti a mazzi sopra al tavolino da caffè.
“E voi, Conte Mercy? Cosa ne pensate?”
La prima donna di Francia ha finalmente distolto gli occhi dallo specchio per dirigerli, con l’espressione di chi veramente si aspetta una risposta, alla sua destra, dove l’ambasciatore austriaco siede serio e composto, come se si trovasse su uno scranno della sala del Consiglio anziché appollaiato su una poltroncina dalle eleganti e delicate volute dorate, sulla cui spalliera è adagiata una pezza di seta ricamata come un prato fiorito, reggendo tra le mani una ceramica di Sevre fragile come una corolla primaverile.
“Vostra Maestà, v’invito a considerare con attenzione le raccomandazioni della vostra Augusta Madre. Comprenderete in quale grave costernazione l’abbia gettata la lettera che voi avete scritto al Conte Rosenberg[xxv]!”
Nonostante il tono del Conte Mercy[xxvi] sia fermo e sicuro, ma privo di qualunque sfumatura ostile come sempre, Maria Antonietta si fa improvvisamente seria, gli angoli della bocca le si piegano verso il basso, spingendo le labbra in avanti in un broncetto tremante, che sembra preannunciare lacrime. Dopo tanti anni le critiche dell’imperatrice Maria Teresa, affidate alle lettere consegnate dall’ambasciatore Mercy, riescono a far tremare la figlia, ora Regina, come se fosse ancora una bambina.
“Vi prego Conte di rassicurare mia Madre, che mai più cadrò in una simile leggerezza…” fa una breve pausa prima di continuare con maggiore slancio “… e rassicuratela anche sul fatto che non ostenterò, limitandomi a non sfigurare per l’eleganza richiesta dalla Corte di Francia… che certo è molto più esigente di quella di Vienna… e sarò più oculata nella gestione delle mie spese, esattamente come lei mi ha raccomandato più volte…” un'altra pausa come se cercasse di raccogliere le idee “… questo mese ho dato ordine di non acquistare altri diamanti, e anzi, ho provveduto a mettere in vendita alcuni vecchi gioielli[xxvii], così da coprire parte delle spese…” si gira a cercare con lo sguardo quello della Principessa di Lamballe seduta alle sue spalle… “… vero, cara Luise?!”
La nobile amica si limita ad annuire con decisione in direzione del Conte, che però sembra non vederla nemmeno. Continua a parlare tenendo lo sguardo fisso sulla Sovrana, con un’espressione intenta ma quasi paterna.
“Mi raccomando infine di tenere bene a mente le raccomandazioni di vostra Madre anche in merito all’atra questione, ora che siete Regina di Francia è ancora più essenziale che doniate un erede alla nazione!”
Pronunciate queste ultime parole esista solo un attimo a osservare la Regina solennemente, prima di abbassare gli occhi cercando intorno a se una superficie libera su cui appoggiare la tazza intonsa. Dopo aver guardato a destra e a sinistra più volte, provvede a spostare leggermente un piattino colmo di macaron bianchi e rosa, così da guadagnare un po’ di spazio sul tavolino, tra un manicotto di velluto violetto e una cappelliera.
Alzatosi in piedi, sorride incoraggiante.
“Sarò felice di rassicurare vostra Madre sul fatto farete del vostro meglio e cercherete di trarre il massimo beneficio dai suoi consigli.”
Quindi si esibisce in un perfetto inchino e si gira andandole incontro per raggiungere la porta.
“Comandante…” un cenno del capo in segno di saluto “è un vero piacere vedervi, scusate se ho ritardato la vostra udienza, spero vorrete perdonarmi.”
“Non c’è nulla da perdonare, Signor Conte. Vi auguro una buona giornata.”
“Così io a voi, Comandante.”
Sempre affabile e mai aggressivo, il Conte Mercy è sicuramente il diplomatico più efficiente presente a Corte. Sotto le spoglie del più accomodante dei gentiluomini, chi non lo sa, stenterebbe a riconoscere la persona, che in realtà gestisce una rete d’informazione tale da renderlo edotto, in tempo reale, anche degli eventi all’apparenza più insignificanti.
Quell’ultimo scambio ha attirato l’attenzione della Regina, che sembra essersi accorta del suo arrivo solo ora.
“Mia carissima Oscar! Perdonerete il ritardo e il cambio di programma, ma i preparativi frenetici di questi giorni mi stanno veramente mettendo a dura prova. Come vedete gli impegni sono tali che ho dovuto assegnare delle incombenze anche alla maggior parte delle mie dame di compagnia, purtroppo neanche vostra Madre è qui, avendola io dovuta gravare di una commissione.”
Accompagna quell’affermazione sollevando graziosamente le mani e facendo ruotare il capo a percorrere il perimetro della stanza, in un gesto teatrale a sottolineare l’evidenza di quanto appena affermato.
Qualunque compito abbia assegnato sua Maestà a sua Madre, dubita che possa essere qualcosa di più impegnativo di una di quelle interminabili sedute con Rose Bertin. In realtà non ha mai avuto, comprensibilmente, occasione di discutere con lei di questo genere di cose, ma considerato che gli acquisti di abiti e biancheria a Palazzo sono sempre stati pianificati con regolare scadenza semestrale e la velocità ed efficienza di una campagna di approvvigionamento, dubita che sua Madre tragga da quelle estenuanti sessioni sartoriali lo stesso piacere della Regina. Benché la toilette di Madame Marguerite sia sempre considerata da tutti impeccabile, probabilmente si tratta più del risultato dell’impegno che si può dedicare a mantenere un’uniforme consona alle circostanze, più che dell’esercizio creativo di un temperamento artistico come quello di Maria Antonietta.
“Come vedete, oltre alla mia cara Luise e alla nostra nuova deliziosa amica, la Marchesa di Boufflers, che mi ha fatto l’immenso piacere di venirvi ad avvertire…” uno scambio di sorrisi accompagna l’incontro degli sguardi “… solo Madame de Noailles è rimasta con noi, onorandoci della sua presenza e vigilando come sempre.”
Benché quelle parole siano formalmente legittime, suonano vagamente intrise di una presa in giro nei confronti di quella che, in sua assenza, viene ormai sempre chiamata Madame Etiquette. Si stenta quasi a riconoscere la fiera guardiana del protocollo di Corte, nella figura ingrigita, che eretta e composta in un angolo le rivolge un cenno di saluto con il capo. Nonostante l’abito elegante e vistoso, come la moda sembra imporre, quasi scompare in quel turbinio di stoffe e nastri variopinti. Forse è la rigidezza del suo contegno a farla apparire come parte dell’arredamento.
Da quando Maria Antonietta è diventata Regina, non è più stata nella posizione di poterla riprendere nelle occasioni in cui il suo comportamento violava le regole del protocollo di Corte, potendo solo rivolgerle dei suggerimenti, che il più delle volte venivano ignorati; oramai non si spende più neanche in quello. Semplicemente sembra osservare e assistere, quasi come se ne soffrisse fisicamente, alla sistematica infrazione delle regole di forma su cui aveva costruito il suo ruolo a Corte e la sua vita. Probabilmente tutti quei dogmi, datati e svuotati della loro funzione originaria, oramai dimenticata, non hanno più ragione di essere, ma indubbiamente assistere al fatto che una sarta, per quanto apprezzata dalla Regina, sia diventata l’ospite abituale degli appartamenti privati, ai quali, in passato, non era stato consentito l’accesso neanche a grandi artisti o accademici, rifiutando lo stesso Voltaire, deve realmente lasciarla senza parole.
“Dunque, mia cara Oscar, vi prego, accomodatevi…” le indica la poltrona su cui era seduto il Conte Mercy fino a poco prima “… di cosa mi dovete parlare oggi?”
“Vi ringrazio Maestà, ma se consentite rimarrei in piedi.” piega leggermente il capo “Vi devo aggiornare sul programma del trasferimento a Reims per l’ incoronazione.”
“Certo, Oscar, per la prossima ora avrete tutta la mia attenzione.” strizza gli occhi rivolgendole un aperto sorriso “Ma prima consentitemi di approfittare un attimo del vostro attendente.”
La richiesta la sorprende tanto da non sapere cosa rispondere, per cui si limita a fare un cenno di assenso.
“Mi serve proprio il parere di un uomo, giacché il Conte Mercy non ha voluto aiutarmi… ” solleva entrambe le braccia ai lati del busto, ruotando leggermente da un lato e poi dall’altro “ditemi André, la manica con la ruche o senza?”[xxviii]
 
                                                     -+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-
 
CONTINUA……
 
 
[i] Qui Madame Teyllerand ironizzerebbe “Appoggiamoci sui principi, prima o poi cederanno!”
[ii] Benedetta ragazza! Certo che se non ti mettono le istruzioni per filo e per segno… non ti fai bastare neanche il supporto audiovisivo. Meno male che ti hanno fatto fare il soldato, perché se dovevi fare l’investigatore…
[iii] Certo non sei nervosa e non hai a luna per traverso… se ne è accorto anche il cavallo!
[iv] Il protocollo prescriveva che il re dovesse morire nella Reggia, era un dovere/onore che spettava a lui e ai membri della famiglia reale. Solo per la Pompadour Luigi XV ottenne l’impensabile strappo alla regola di consentirle di morire a Versailles. Imponendo la sua autorità proibì che venisse portata via quando si ammalò e anche quando fu chiaro che era in punto di morte.
[v] Ben 6 medici, 5 chirurghi e 3 farmacisti…. che di fatto non erano in grado di combinare nulla e che se la sono anche data a gambe quando la salma vivente ha cominciato a puzzare come se si stesse decomponendo da viva (e considerando che Luigi XV non doveva essere particolarmente profumato di suo, visto che aveva deciso di smettere di lavarsi da più di 20 anni… se si notava la differenza…).
[vi] La morte di Luigi XV fu parecchio disgustosa, viene descritta come se si sia decomposto da vivo.
[vii] Le tre figlie di Luigi XV
[viii] Erano 38 anni che Luigi XV non si confessava.
[ix] Il confessore di Sua Maestà… l’espressione è di Zweig e mi è sempre piaciuta molto.
[x] Sinceramente, che un servitore della Du Barry si rivolga a lei con l’appellativo di Madamigella Oscar, anziché di Capitano De Jarjayes mi pare dal punto di vista formale una follia. L’ho lasciato perché è il è la forma usata nell’anime e perché in questo caso mi fa gioco rispetto al tema del capitolo.
[xi] Una stalla tenuta adeguatamente pulita ovviamente, ed essendo casa del Generale, questa è sicuramente la stalla più impeccabile di Francia.
[xii] Nel box si “parcheggia” dopo sella, finimenti e possibilmente strigliata.
[xiii] Motivo per cui la Du Barry la chiamava la piccola rossa, realisticamente era quello che oggi avremmo definito una bionda fragola.
[xiv] L’incoronazione, per ovvi motivi burocratico logistici annessi all’organizzazione di un simile evento, si svolse l’11 Giugno del 1775, quindi poco più di 1 anno dopo la morte del precedente Sovrano e la successione di Luigi XVI
[xv] Scusate, ma l’ho promosso d’ufficio, d’altra parte se lei la hanno fatta comandante di sta che sia stato promosso anche il suo secondo, porello, non può rimanere tenente a vita!
[xvi] Istitutore assegnato alla Delfina, quanto cominciò la trattativa per il suo fidanzamento, dalla madre, che si era improvvisamente resa conto che la bambina era semi-analfabeta. La seguì anche quando diventò Delfina di Francia.. con scarsissimi risultati vista la propensione all’impegno della sua discepola.
[xvii] Ok, scusate, fine della parentesi grafologica… spero di non avervi tediato, ma visto che la cacografia di MA è ben nota, mi pareva una forma un po’ meno prosaica di raccontare … le solite cose sul personaggio, messo a confronto con gli altri.
[xviii] Era usanza estrarre cuore e fegato per seppellirli altrove, visto però lo stato del corpo venne tumulato in tutta fretta.
[xix] Confesso, sono colpevole, ho deliberatamente scelto un termine ambiguo XD
[xx] Forse la mia visione è troppo personale, ma seriamente… il Generalissimo che si mette a urlare dalla finestra!?!?
[xxi] E qui consentitemi di fare una battuta (di cui può compiacersi solo una malata mentale come me XD) sull’importanza della scelta della parole (visto che sono le letterali parole dell’anime), soprattutto nel momento in cui si dicono cose importanti che rischiano di essere fraintese, senza considerare con chi si sta parlando! Sicuramente Oscar ha inteso la parola “magnifica” nella forma letterale del suo etimo “che si dimostra grande”. Purtroppo MA, di indole più artistica e meno erudita, ha invece interpretato il termine nella sua accezione meno letterale “che è splendido, sontuoso in donativi e nelle grandi spese, soprattutto nelle cose pubbliche” … non si può dire che non l’abbia presa in parola!!
[xxii] Luigi XVI era affetto da un rovinoso complesso di inferiorità nei confronti di sua moglie, in realtà nei confronti di quasi chiunque.
[xxiii] È una visione assoluta, troppo assoluta, ma in questa fase Oscar è tanto giovane e si sa “i giovani usano parole assolute con estrema facilità”, spesso senza pensare alle conseguenze e senza valutare che ci possono essere delle soluzioni di compromesso.
[xxiv] Fersen parte 2 giorni dopo la morte di Luigi XV, momento in cui Maria Antonietta diventa Regina. Non s’incontreranno che quattro anni dopo, quando lei è già incinta di Madame Royal, dopo che a lui non sono andati in porto un paio di tentativi di matrimonio con fanciulle facoltose (una delle quali è la figlia di Jacque Necker, che diventerà la futura Madame de Stael). È da osservare che il rapporto con Fersen non fu mai oggetto dei numerosi libelli scandalistici che avevano come oggetto le millantate relazioni di Maria Antonietta, che proponevano come amanti il conte di Artois, la principessa di Lamballe e più tardi la Polignac, Essendo questi pettegolezzi pilotati ad arte ed avendo finalità politiche.
[xxv] Nella lettera in questione a un Conte Austriaco, Maria Antonietta si riferiva a suo marito, il Re di Francia (!!), con l’appellativo “quel pover’uomo”, comprensibile che la Madre Maria Teresa, che di poveruomo ne aveva spostato uno, ci aveva fatto un vagone di figli per garantire la discendenza e aveva dimostrato ampiamente il suo merito e il suo valore guidando una superpotenza nel contempo, e mai si era sognata di violare il rispetto della forma e del ruolo, ne sia rimasta sconvolta e si sia sentita in dovere di ammonirla, non tanto per l’espressione sconveniente, quanto per il sintomo che manifestava. Nella lettera in questione le faceva osservare come in simile atteggiamento intrigante sarebbe stato molto più adatto a una Pompadur o a una du Barry (non sarebbero mai state così stupide in realtà, visto che quello che avevano se lo erano guadagnato con il sudore della fronte e non solo). Al seguito di tali critiche MA si mise a piangere, si disperò, giurò che mai più si sarebbe comportata in quel modo… croce sul cuore, che potesse morire… poi dopo 5 minuti dimenticò tutto ed andò a fare shopping (se non fosse un personaggio storico tragico sembrerebbe una concorrente di “Uomini e donne”… Mariantoniettiana).
[xxvi] Tanto orami… due paroline anche su Mercy, io lo adoro! L’uomo più committed della storia, imperturbabile e inamovibile nella sua devozione alla sovrana per la quale ha un’ammirazione e una devozione totale (Maria Teresa, non la figlia, ovviamente… e che ammira proprio per le straordinarie capacità dimostrate, proprio come persona assolutamente fuori dalla norma), pur avendo le competenze e l’elasticità mentale di un diplomatico di assoluto livello. Si sobbarca la mission impossible di gestire in quell’enorme casino (secondo ogni significato possibile) che era Versailles, e anche la Francia del tempo, una boccia persa come MA (su questo conveniva anche la madre, che confidava che almeno non facesse troppi danni mirando a galleggiare… ma che chiaramente aveva prodotto una pessima infornata considerando anche le altre 2 sorelle piazzate a Napoli e a Parma.. forse non si può essere nel contempo una grande imperatrice e una brava allevatrice di prole). È la cosa più simile a una figura paterna cha MA abbia avuto.
[xxvii] Nel tentativo di coprire le sue spese folli probabilmente MA è riuscita a combinare guai peggiori che se si fosse limitata a battere ulteriormente (perché già lo faceva) dal marito, ogni qual volta sforava il suo appannaggio. Oltre al gioco (è ben noto a tutte come il gioco d’azzardo sia il modo migliore per cercare di sanare un bilancio traballante!!), un’altra grande idea fu quella di vendere dei vecchi gioielli (xchè quando si era sposata, come da tradizione, aveva ricevuto tutti i diamanti di famiglia… che considerando che la famiglia era la stessa di Luigi XIV e XV… non dovevano essere pochi) per coprire le spese dei nuovi… facendosi spesso buggerare sul prezzo dai gioiellieri, che le sottopagavano i vecchi di maggior pregio, per rifilarle delle pietre peggiori montate alla moda a prezzi esorbitanti, anche questo ovviamente giunse alle “orecchie” di Maria Teresa, grazie all’ineffabile Mercy, che scrisse alla figlia l’ulteriore improduttiva reprimenda (anche in questo caso, la du Barry MAI e poi mai si sarebbe fatta fregare dai gioiellieri, i suoi vistosi diamanti, per cui tutti le davano della burina, poteva quotarli meglio di un perito del tribunale)
[xxviii] Andrè arbiter elegantiarum XD citazione dall’anime della richiesta sul color pulce (vero colore lanciato dalla Bertin) e dal film della Coppola che in certi momenti ha dei veri colpi di genio, nonostante trovo tenda a giustificare troppo Maria Antonietta (perché poverina non si rendeva conto!?!?)

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Capitolo 5
*** Anello 4: Aspettative (parte2/4) ***


Premessa dell’autore:
… e incredibilmente rieccomi. Mi scuso, come sempre, ma ormai mi sento anche in colpa a scusarmi. Come ho detto ad alcune di voi in privato il lavoro in questi ultimi mesi ha raggiunto dei regimi deliranti, per cui trovare il tempo di dedicare tempo a questa mi ‘passione’ è diventato difficoltosissimo. Forse avete notato che anche nel recensire sono diventata colpevolmente latitante, ma quasi sempre se riesco a leggere è di straforo sul cellulare tra un impegno e l’altro.
Ho scritto un sacco di roba, in realtà, ma necessita di un sostanziale lavoro di revisione, viste le condizioni di testa cotta in cui è stata scritta… spero sinceramente di riuscire al più presto, ma l’orizzonte lavorativo si prospetta piuttosto tempestoso ancora per alcuni mesi.
Ammesso e non concesso che vogliate ancora leggermi… ecco qui la parte 2 del quarto anello della mia catena che ripercorre la storia originale. Se ricordate, avevamo lasciato Oscar e André negli appartamenti della Regina, impegnati nel tentativo di distrarla dallo shopping per farle prestare attenzione al programma per l’incoronazione.
Ringrazio chiunque abbia ancora la pazienza di leggermi…
 
 

 
Indice:
 
Venerdì 12 Maggio 1775, Versailles
Martedì 4 Luglio 1775, Palazzo Jarjayes
Mercoledì 5 Luglio 1775, presso la chiesa di Favre
 
 
Anello 1.4: Aspettative
(Parte 2)
 

Venerdì 12 Maggio 1775, Versailles

 
….
 
Il rubino ondeggia, mentre giocherella con il bicchiere, riflettendo ora la luce del lampione ora quella più flebile della candela accesa sulla ruvida superficie del tavolaccio. Il vino, che servono nelle taverne di Parigi, non può sicuramente competere con quello della riserva di suo Padre a Palazzo, ma non è certo per degustare delle bevande ricercate, che chiede ad André sempre più spesso di portarla a bere da qualche parte in città la sera.
Quello che era stato un diversivo saltuario quando erano solo dei ragazzini, più finalizzato a sfruttare la nuova libertà concessa con il raggiungimento del tredicesimo anno di età, che a trovare un vero divertimento, era diventato una fonte di svago sempre più abituale da quando aveva preso servizio a Versailles, per farsi quasi una consuetudine, ogni qual volta riesce a essere libera da impegni, da quando è stata nominata Comandante.
Percorrere il dedalo delle strade cittadine, così simili e al tempo stesso caratteristiche, mischiarsi a quel fiume di persone, troppo prese dalla necessità di sopperire ai loro bisogni e troppo abituate a cercare di vivere e lasciare vivere, per trovare il tempo o anche solo avere la voglia di interessarsi a lei, essere finalmente invisibile, anche solo per un paio d’ore, senza avere intorno nessuno che si aspetti niente da lei o che abbia una qualche idea riguardo a ciò che dovrebbe essere o fare, le è sempre più necessario.
Molti frequentatori abituali della Corte sono assidui visitatori della città, per le serate all’Operà, a Palais Royal, per gli innumerevoli balli pubblici e privati, per il brivido del gioco o l’arguta conversazione dei tanti salotti[i]. Anche a lei è capitato di frequentare quei luoghi alla moda, quasi sempre nel suo ruolo di membro della Guardia Reale, come scorta di una delle scorribande notturne della Delfina prima e della Regina ora, qualche volta per un invito che proprio non si poteva esimere dall’accettare, mai per elezione personale.
Quando sente il bisogno di evadere alza gli occhi, incontra quelli di André e si limita a dirgli “Ho voglia di bere, portami da qualche parte a Parigi.”
In fondo lo sa benissimo che neanche lui apprezza particolarmente i beveroni di certe bettole in cui a volte finiscono col passare la serata, seduti su un paio di sgabelli scomodi, chiacchierando di qualche evento della giornata, spesso prendendolo come spunto per conversazioni più serie, a volte semplicemente rimanendo in silenzio a osservare distrattamente la vita che scorre intorno a loro.
Le è capitato di pensare che quella consuetudine non sia altro che un’evoluzione di quanto facevano da bambini, quando si allontanavano da casa senza dire niente a nessuno, alla ricerca di un angolo inesplorato dell’immenso parco di Palazzo, dove nessuno li avrebbe assillati dicendo cose come a lei di stare dritta, a lui di chiamarla madamigella o a entrambi di comportarsi come si deve. Probabilmente è per questo, che nessun altro sembra condividere il loro gradimento per quei diversivi così spartani, sicuramente non il povero Girodelle.
Se la ricorda ancora l’espressione quasi sofferente per il disagio, che, nonostante l’impegno, non era riuscito a dissimulare del tutto, l’unica volta, che si era unito a loro per una di quelle serate. Era capitato nel periodo in cui stavano organizzando la prima visita in città dei Delfini. Avevano fatto particolarmente tardi alla Reggia e, lasciando la Sala delle Guardie insieme, le era sembrata normale cortesia chiedere al suo secondo se si volesse unire a loro per andare a bere qualcosa in città.
Il tenente aveva stentato a nascondere il suo turbamento, quando si erano seduti a un grezzo tavolo di legno fuori da una taverna in mezzo ai popolani, che si concedevano un bicchiere di vino alla buona per dimenticare le fatiche della giornata con un po’ di allegria. Si era sforzato ancor più di fingere di bere, portandosi il bicchiere ogni tanto alle labbra, mentre li intratteneva conversando, amabile e arguto come sempre. L’aveva perfino ringraziata per la piacevole serata quando si erano separati appena abbandonata la città, ma la volta successiva aveva garbatamente declinato l’invito.
Probabilmente avrà considerato il suo comportamento eccentrico, se non proprio strano, decisamente poco appropriato per una persona del suo rango e abituata agli agi garantiti dalla sua posizione sociale. Gli sarà parso inadeguato il suo modo di evadere dalla vita di Corte, come a tutti appare inadeguato quello di Maria Antonietta, che sembra essere impegnata a rincorrere qualunque cosa possa farla divertire, distraendola dalle sue responsabilità, infrangendo deliberatamente tutte quelle regole alle quali era stata obbligata a sottostare quando era ancora solo la Delfina. Forse è sempre uno svago… sicuramente il suo è decisamente più a buon mercato.
 
“Si può sapere a cosa stai pensando?”
La voce di André la richiama dalle sue elucubrazioni, solleva gli occhi dal bicchiere per trovarsi di fronte il suo viso. La osserva con il mento appoggiato al palmo della mano e l’espressione intenta di chi sta cercando di risolvere un rompicapo.
“A niente!”
Spalanca gli occhi scuotendo il capo, come a voler dare maggiore forza a quell’affermazione, ma non deve essere particolarmente convincente, visto che lo sguardo di lui si fa più tagliente mentre continua a parlare.
“Davvero?! Allora devi avere visto delle cose particolarmente interessanti in fondo al tuo bicchiere. Prima sembravi quasi ipnotizzata, poi hai sorriso e, dopo un attimo, hai aggrottato la fronte.”
Inspira e apre la bocca per controbattere, ma si blocca vedendo l’espressione di lui distendersi in paziente attesa di una spiegazione. Allora espira e inclina leggermente la testa di lato, riportando gli occhi sul rozzo calice, con cui ricomincia a giocherellare facendolo oscillare con entrambe le mani.
“Niente di nuovo, pensavo a Maria Antonietta…”
“…vuoi dire che pensavi a come oggi si è concentrata sul programma per l’incoronazione, valutando, nel contempo, se si possa decorare con delle piume la scollatura di un abito da sera?”
Lo sa che sta scherzando e alzando solo per un attimo lo sguardo non si sorprende si trovarlo con gli occhi ridenti e un angolo della bocca sollevato. Scrolla la testa, accennando un sorriso anche lei prima di tornare seria.
“Pensavo che, a volte, le persone trovano modi strani per cercare di evadere dalle proprie responsabilità.”
Si aspetterebbe una replica immediata, ma non sentendolo rispondere alza ancora gli occhi, trovando stampata sulla sua faccia un’espressione tra il sorpreso e il perplesso.
“Vuoi affrontare ancora quest’argomento? Non vuoi proprio mai darti per vinta, vero Oscar?” distoglie lo sguardo per un attimo, come a cercare di trattenersi “Non credi che abbiamo già discusso fin troppe volte delle assurde spese di sua Maestà? La mia opinione non è cambiata a riguardo, e il tempo ha dimostrato che non era solo un capriccio passeggero, come tu avevi auspicato.”
Lo sa benissimo come la pensa, la prima volta che avevano affrontato l’argomento, dopo essersi allontanati dagli appartamenti privati invasi da Rose Bertin e dalle sue creazioni, quasi un anno prima, era anche la prima volta in vita sua che lo aveva sentito condannare così apertamente il comportamento di qualcuno.
“Non intendo certo minimizzare la gravità di un simile atteggiamento. Ma hai potuto osservare direttamente, quanto Maria Antonietta abbia sempre mal tollerato il continuo controllo delle Mesdames e di Madame de Noailles, l’essere sempre sottoposta all’esame e alle critiche dei cortigiani quando era Delfina. Dico solo che si può comprendere come, diventata Regina, possa essere stata spinta dalla necessità di sentirsi libera da tutte quelle costrizioni… almeno per un periodo…”
“Un periodo, che nel frattempo è diventato quasi un anno…”
“Hai ascoltato anche tu la conversazione con il Conte Mercy oggi…” fa una pausa per cercare nei suoi occhi un barlume di comprensione, che però non trova “…le continue critiche che le arrivano dalla madre… forse, se le riservassero un po’ più di fiducia, non cercherebbe rifugio nell’approvazione di cortigiani compiacenti, la distrazione di feste sfarzose e acquisti sfrenati di abiti e gioielli…”
Si frena, rendendosi conto di aver messo fin troppa foga in quella perorazione, che in fondo non convince più di tanto neanche lei, e vedendo comparire sulla faccia di lui un’espressione vagamente divertita e finalmente comprensiva, anche se ha la netta sensazione, che quella comprensione non sia per la sua Regina.
“Oscar… vorresti dire che trova conforto per il peso di quelli che sarebbero i suoi doveri e le pressioni delle aspettative, impegnandosi diligentemente nello svuotare le casse del tesoro reale?” il suo sorriso si allarga, ma non c’è traccia di scherno nei suoi occhi “Se questa fosse la soluzione, non capisco perché tu abbia rifiutato così sistematicamente i doni che ti sono stati offerti quando sei diventata comandante!”
Arriccia solo per un attimo il naso, perché non vuole dargliela vinta, poi risponde, ostentando l’espressione di sufficienza di chi espone una cosa ovvia a qualcuno che proprio non vuole capire.
“Ho accettato il calamaio!”
“Ah, dimenticavo…” solleva le sopracciglia e annuisce solennemente “… dimenticavo quel pregevolissimo oggetto!”
“E poi…” alza il bicchiere “… tutto il denaro del mondo non può certo competere con la squisita ospitalità delle osterie di Parigi!”
E’ cosciente che sia una battuta debole, se non proprio stupida, deliberatamente finalizzata a evitare un argomento scomodo, ma non ha tempo di attendere la reazione di André, che continua a fissarla con un sopracciglio sollevato, perché, improvvisamente, il rumoreggiare continuo della strada viene sovrastato dal fragore di legno infranto. Si girano entrambi di scatto verso la sorgente dello schianto, da dove ora una voce un po’ strascicata tuona.
“Gilbert, figlio di una gran baldracca… sei proprio ubriaco!”
Dopo aver così chiosato la causa di quel frastuono, un omone gigantesco con indosso una lurida e logora casacca blu, che dovrebbe essere parte di un’uniforme militare, scoppia in una fragorosa risata. Quello che sembra un suo commilitone si è sbilanciato all’indietro, andando a schiantare uno dei claudicanti tavoli della taverna, trovatosi malauguratamente sulla traiettoria della sua schiena in caduta libera verso il selciato sudicio.
Rimangono per qualche istante in silenzio ad assistere alla scomposta ilarità alcolica di quei due individui, che parrebbero soldati, ma il cui contegno e aspetto non ricorda neanche lontanamente quello che lei pretende anche dall’ultimo dei suoi sottoposti, fino a quando non sopraggiungono altri due commilitoni, evidentemente meno alticci, ad allontanarli a braccia, assecondando le accorate richieste dell’oste, che si è precipitato fuori, richiamato da quel frastuono, e sembra in procinto di esplodere mentre continua a sbracciarsi urlando epiteti irripetibili.
“Magari, potremmo valutare d’invitare anche sua Maestà a unirsi a noi per distrarsi la prossima volta…”
Sposta di scatto gli occhi su di lui trovandosi a fissare la sua nuca, lo osserva girarsi nuovamente verso di lei con tutta calma, continuando a parlare.
“… anche se dubito che nel suo sconfinato guardaroba troverebbe qualcosa di adeguato da indossare per mischiarsi con il suo popolo.”
Le sembra di percepire in quella battuta infelice una sfumatura amara, in cui fatica a riconoscere l’indulgenza che André dimostra sempre nei confronti di chiunque.
“André!” le mancano le parole, si limita a fissarlo stupita. Vede quel mezzo sorriso irriverente sfumare in un’espressione triste, quasi dispiaciuta, mentre distoglie lo sguardo.
“Perdonami Oscar… non avrei dovuto… ” fa una breve pausa continuando a fissare la superficie del tavolo, come se potesse leggerci come proseguire “… capisco quello che dici. Il ruolo della Regina è sicuramente gravoso, l’ambiente e il protocollo della Corte opprimenti, soprattutto per una persona spesso fin troppo cristallina come Maria Antonietta. Ma non riesco a non pensare quanto questa situazione ricalchi e, se possibile, esasperi errori già commessi in passato.”
Solleva finalmente gli occhi, accesi dalla sincerità che sta mettendo in quelle parole.
”Il popolo ha salutato con gioia l’ascesa al trono dei giovani Sovrani, sperando che avrebbero regalato alla Francia un futuro migliore, tanto fiorente e giusto da spazzare via anche il ricordo del loro predecessore[ii]. E’ troppo vivo nella memoria di tutti il malcontento per il denaro dilapidato nell’acquisto di doni favolosi per le sue amanti. Anche il nuovo Re, e chi lo consiglia, sembra rendersi conto della necessità di manifestare la rottura con il passato: l’abolizione del droit de joyeux avènement[iii], il reinsediamento del Parlamento[iv], persino l’esilio imposto alla Dubarry a Saint-Vrain[v] ha lo scopo di fare dimenticare a tutti, il più velocemente possibile, lei e tutto quello che ha rappresentato.”
Approfitta di una breve pausa per cercare un varco in quel fiume di parole.
“André, Maria Antonietta non è certo la Dubarry…”
“Certo, Oscar, ma dopo averla così aspramente disprezzata, ora sembra quasi volerla superare, facendo sempre più spesso ricorso al suo ascendente sul marito per coprire le spese, che ormai sistematicamente superano il cospicuo appannaggio riservato alla Casa della Regina…” incrocia le braccia al petto e distoglie lo sguardo, girando la testa e facendolo perdere tra i passanti, come se cercasse di nasconderle l’espressione di disgusto che si sforza di trattenere “E’ evidente che può ottenere dal Re qualunque cosa…”
Ha ascoltato rassegnata quello sfogo, lo ha sentito tante volte e dopo quasi un anno non trova più argomenti per controbattere, tranne che per quell’ultima affermazione.
“Sicuramente il Re non riesce a rifiutarle nulla quando si tratta di coprire i conti e assecondare quanto possa essere considerato un capriccio, ma questo certo non vale quando si tratta di decisioni importanti. Non è vero, come molti a corte malignano, che la Regina guida la mano del Re nell’interesse dell’Austria, se così fosse Choiseul sarebbe stato nominato a dirigere il Consiglio della Corona e non certo Maurepas!”
La sorpresa sul volto di André, tornato a fissarla, le fa realizzare di essersi probabilmente lasciata un po’ troppo trascinare[vi]. Ha alzato la voce, sporgendosi verso si lui e battendo i palmi sul tavolo, cosa che non rientra certamente nell’algido contegno che ci si attende da lei, e che di solito riesce a tenere senza particolare sforzo.
Inspira profondamente e schiarisce leggermente la gola, accomodandosi meglio sullo sgabello, raddrizza la schiena e finge di non notare l’angolo della bocca di André, che si è sollevato, nonostante l’evidente tentativo di dissimulare il divertimento per quella sua momentanea perdita di controllo. Dopo un attimo riprende a parlare con il consueto tono profondo e pacato.
“… è evidente, che la nomina è stata guidata dall’influenza della Principessa Adelaide[vii] sul Re.”
“Beh, Oscar, su questo non posso che darti ragione, anche se dubito dipenda dal fatto che Madame abbia davvero un maggiore ascendente sul regale nipote della sua graziosa consorte.” Alza le sopracciglia e sbuffa leggermente.
“Credi veramente che basti così poco…”
“Non credo affatto che l’influenza di una Regina sia poca cosa…” adesso è lui che sembra essersi fatto prendere da quella conversazione ”…dico che se a Maria Antonietta fossero veramente interessate le indicazioni del Conte Mercy, Maurepas[viii] sarebbe ancora al confino impostogli da Madame Pompadour.”
S’interrompe un attimo, per poi riprendere con meno foga e una vaga espressione di sfida.
“Maurepas était impuissant/ Le Roi l’a rendu plus puissant…[ix]
“Smettila, Andrè! Sai benissimo che non la sopporto!”
Ha sbottato. Ricorda perfettamente quell’odiosa filastrocca. Aveva girato per mesi a Corte dopo le nomine dei nuovi ministri, riportando in voga anche le ormai esauste malignità sull’impotenza del Re. Se la ricorda talmente bene che ha cominciato a ronzarle in testa appena è stato pronunciato quel nome. Ha provato a scacciarla, riuscendo solo a sentirsi ancora più nervosa e tesa.
Rivolge nuovamente tutta la sua attenzione al bicchiere, che oscilla nervoso tra le sue mani, minacciando di esondare da un momento all’altro. Tiene le labbra serrate e la fronte aggrottata, come se cercasse di trattenersi.
Non riesce a guardarlo in questo momento. Come sempre le sta semplicemente raccontando la stessa realtà che scorre sotto i suoi occhi ogni giorno, e che riesce a fingere di ignorare così bene con tutti gli altri, nascondendosi dietro al suo scudo di algido distacco. Solo lui sembra essere sempre in grado di trovare qualche varco, come se, conoscendo quello che si nasconde dietro, quelle difese non risultassero poi così inespugnabili come si sforza di farle apparire. Si sente tremendamente esposta, quasi indifesa, e questo la fa infuriare, finirà solo con lo sputargli contro qualche malignità per cercare di respingerlo.
Continua a tenere gli occhi persi nell’ondeggiare del vino, ma lo sente che la sta fissando. Si rende conto che basterebbe una parola farla scattare, ma aspetta, in un silenzio teso graffiato solo dai rumori della strada. L’affondo tarda ad arrivare e dopo un’attesa, che le sembra interminabile, è un profondo sospiro a farle sollevare lo sguardo, e l’espressione arresa di lui a far scemare la rabbia, facendo scomparire anche il suo cipiglio con la carezza nella voce.
“Scusami, Oscar, non volevo litigare, ma tutte le volte che affrontiamo questo argomento non riesco proprio a evitare di farti arrabbiare…” le estorce un mezzo sorriso, stentando a trattenere il suo “…quello che intendevo dire è che il Re è un uomo di buon cuore, ma fin troppo mite. Spesso finisce con l’assecondare le richieste, quando gli vengono rivolte con sufficiente decisione, non per debolezza d’animo, ma semplicemente per evitare qualunque contrasto[x] e come sai, per quanto amabile, questa difficilmente può essere considerata una qualità per un uomo di potere.” Fa una pausa come se attendesse una sua reazione prima di proseguire.
Ha imparato a conoscere fin troppo bene l’indole del giovane Sovrano, tanto diversa da quella autoritaria del suo predecessore, di cui è molto più facile cogliere l’impronta nel temperamento dei fratelli minori[xi]. Le è stato insegnato e ha avuto modo di sperimentare, che, nell’esercitare il comando, la buona volontà si rivela inutile senza un polso fermo.
Ancora non parla, si limita ad annuire impercettibilmente e questo sembra bastargli.
“Se solo la Regina prendesse coscienza del ruolo che potrebbe avere, circondandosi dei giusti consiglieri[xii]…” forse le loro speranze non sono così diverse “… ha dimostrato quanto, per indole, riesca a essere determinata. Nessuno sarebbe in grado di interferire sull’ascendente che potrebbe avere su di lui, consigliandolo e sostenendolo.”
A quanto pare la critica tanto aspramente a causa della stessa speranza, per la quale lei si sente in dovere di difenderla con altrettanta decisione.
“Potrebbe essere una grande Regina[xiii]…” accenna un sorriso, che fa illuminare quello di lui.
“L’Europa sarebbe guidata da tre grandi sovrane[xiv]…”
“Non so, André…” la condivisione di quella speranza le dà il coraggio di parlare apertamente “... è come se non riuscisse a trovare pace, alla frenetica ricerca di qualcosa che le manca. Sembra che nessuno riesca veramente a comprendere, che lo slancio e la generosità con cui sente il bisogno di dimostrare il proprio affetto[xv] alle persone che ama, sono sinceri e privi di malizia. L’attaccamento che ha per la Principessa di Lamballe, la dedizione che mostra nei confronti dei bambini che ha adottato[xvi]…” Solleva gli occhi in quelli di lui, che senza dire nulla la rassicura “Sembra così … sola…” sospira ed esita ancora un attimo “ forse, veramente, come tutti auspicano… un figlio…”
Quelle ultime parole le sono uscite a stento, tanto che quasi crederebbe di averle solo pensate, se non fosse per lo sguardo malinconico che le rivolge André e la sua voce in un sussurro.
“Oscar…”
Con un accenno di sorriso, quasi una smorfia, abbassa gli occhi e scrolla il capo, per confermargli che non c’è alcun bisogno che continui. Non è certo un gran mistero che un matrimonio non consumato non può certo generare degli eredi. Tutti a Corte, e probabilmente in tutta Europa, ormai non dedicano alla cosa più che uno stanco e abituale interesse, come a qualcosa che è diventato una consuetudine, infervorandosi al più per la comparsa di qualche filastrocca o libello particolarmente maligno e sagace nella forma, non potendo ormai esserlo più nel contenuto. Da tempo i medici consultati hanno ufficialmente sentenziato, che nulla preclude la nascita di un erede, facendo accantonare, almeno per il momento, l’ipotesi di un annullamento del vincolo, ma dopo cinque anni è difficile immaginare che la situazione possa evolvere autonomamente, tanto più essendo diventata consuetudine per i Sovrani occupare lit a part, dato che la Regina si corica di ritorno dalle sue nottate parigine, quando il Re si è già alzato per andare a caccia.
Si sente così stanca. Incurva leggermente le spalle, mantenendo il capo basso, come se cercasse di isolarsi dallo scalpiccio dei passanti, dai volti rubizzi e segnati dalla fatica, dal chiacchiericcio e dalle risate saltuarie e scomposte degli altri avventori, dai rumori e dalle immagini della vita che le scorre intorno, totalmente estranea ai problemi della Regina, nascosti sotto il guscio della sua esistenza dorata.
“Comunque…” la voce quasi esitante di lui la richiama “hai ragione…”
Solleva lo sguardo, in attesa che prosegua e per cercare di capire meglio la leggerezza del tono che gli ha sentito usare.
“… tu non hai certo bisogno di un ufficio più grande, stanze più belle a corte, o mobili più sfarzosi… ”
Aggrotta leggermente la fronte, vedendolo inspirare profondamente e allargare le braccia.
“… tu hai me!”
Il respiro le si blocca per un attimo in gola e spalanca gli occhi, mentre l’espressione di lui si apre in un grande sorriso, fino a erompere in una risata liberatoria.
Si rilassa appoggiando di nuovo i gomiti al tavolo, trattiene un sorriso e scrolla la testa avvicinando il bicchiere alle labbra nell’attesa che lui si ricomponga. Beve un sorso e non riesce a trattenersi dall’arricciare il naso per come il gusto tannico sembra asciugarle la bocca. Decisamente, il vino di questa sera compete con uno dei peggiori in cui si siano mai imbattuti.
Aspetta di vederlo riprendere fiato per apostrofarlo con tono di finto rimprovero.
“Non riesci proprio a rimanere serio per più di cinque minuti, vero André?”
“Oh, ma io sono serissimo!” annuisce con ostentazione mentre anche lui avvicina il bicchiere alle labbra “Chi altro ti accompagnerebbe a svagarti in questi deliziosi posticini…”
Incrocia le braccia al petto e solleva un sopracciglio, in attesa della sua reazione. Stenta a trattenere lo sbuffo di una risata, vedendo il suo volto contrarsi in un’espressione di disgusto mentre si obbliga a deglutire un’incauta abbondante sorsata.
“Uah,… Dio, ma è orrendo!” strizza gli occhi come percorso da un brivido, prima di fissarli di nuovo su di lei con aria contrariata “Potevi avvertirmi…”
Solleva le spalle con finta innocenza.
“Lo terrò a mente la prossima volta che ti servirà aiuto per riconoscere qualche nuovo frequentatore della cerchia di Sua Maestà!”
Sbuffa, come per minimizzare l’importanza della sua giocosa minaccia.
“Ricordo chi ha senso ricordare.”
“Oscar, Oscar…” Scrolla il capo con un’espressione di amabile rassegnazione, ma sembra non voler infierire.
Sa perfettamente che, visto il suo ruolo, sarebbe tenuta a interessarsi e a mantenersi continuamente informata dell’identità di chiunque si aggiri intorno ai Sovrani. Qualunque frequentatore della Corte lo sa e vi si applica con diligenza. Lo stesso Girodelle ha sempre dimostrato di avere piena coscienza dell’importanza di questo genere d’informazioni. Nel suo caso invece, questo sembra essere l’unico campo in cui il rigore della sua disciplina personale non pare sortire alcun effetto, probabilmente perché in fondo ha sempre confidato nel supporto di André.
“Dimmi piuttosto, visto che sei sempre così bene informato, come mai Madame Bertin oggi aveva un atteggiamento così dimesso?”
Per quanto quel pomeriggio l’avesse piacevolmente sorpresa il contegno trattenuto della sarta prediletta di sua Maestà, in fondo potrebbe tranquillamente limitarsi a essere grata per essere stata risparmiata, almeno una volta, dalle sue solite maniere. Indubbiamente, però, deve esserci un motivo se il suo comportamento, di norma caratterizzato dalla stessa chiassosa opulenza[xvii] delle sue creazioni oltre che da una spesso inopportuna invadenza, si è fatto d’improvviso così stranamente adeguato.
Porta una mano a sostenerle il mento, mentre osserva divertita il compiacimento comparire sul volto di lui.
“Ah, lo hai notato anche tu!” inarca le sopracciglia come per evidenziare la sorpresa, ma l’assenza di una sua reazione lo fa proseguire subito “A quanto pare, la moglie del Duca di Never[xviii] aveva convocato Madame Bertin per avvalersi dei suoi servigi, ma lei non si è mai presentata. Quando ha mandato la sua cameriera personale a sollecitarla, questa ha risposto che, per quanto sia una modista, è pur sempre la modista di cui si avvale la Regina e pertanto non aveva tempo da perdere con un ex-attrice dell’Operà.”
Fa una breve pausa come per dare maggiore enfasi a quell’ultima frase.
“Quindi…”
“Beh, Madame è pur sempre moglie di un Duca, oltre che buona amica di una cerchia di dame molto influenti, che in passato erano state sue ammiratrici. Queste hanno provveduto a far giungere la voce a sua Maestà, che è intervenuta consigliando alla Bertin di scusarsi.”
Per quanto quell’aneddoto possa sembrare inoffensivo[xix], il fatto, che la Regina di Francia si preoccupi della cattiva educazione della sua modista più che delle responsabilità associate al suo ruolo, la riempie di sconforto.
Non sentendolo più parlare, riporta su di lui lo sguardo che si era perso per un attimo tra la folla, trovandolo incerto, come se avesse colto il velo di tristezza sul suo volto. Allora si sforza di sorridergli, schermendosi.
“… e Madame Bertin? Cos’ha fatto?”
“L’unica cosa che poteva fare: si è presentata a casa del Duca, dove però è stata accolta dalla cameriera, che l’ha apostrofata come ‘la merciaia’ e l’ha fatta attendere a lungo prima di condurla da Madame.”
Continua a fissarla in attesa, allora torna a sorridergli, perché non vuole dare nuovo spunto a discorsi malinconici.
“Beh, credo allora che, almeno per qualche tempo, beneficeremo di questo nuovo contegno composto della nostra Madame Bertin!”
Tiene gli occhi nei suoi ancora per po’, in silenzio sente tornare la calma, come se i rumori della strada intorno si allontanassero, fino a quando non è lui a parlare.
“Si è fatto tardi, Oscar, vuoi tornare a casa?”
Annuisce appena e subito lo vede sollevare lo sguardo in cerca del garzone, che richiama con un cenno del braccio.
Si alza, riordinando la giubba dell’uniforme, mentre lui mette alcune monete nella mano del ragazzino, che si allontana con un frettoloso inchino.
S’incamminano dirigendosi verso i cavalli, legati poco lontano a uno degli anelli metallici incastonati sul muro scrostato sulla destra dell’ingresso della taverna, al limitare della distesa di tavolacci e sgabelli a disposizione degli avventori, dove la luce del lampione fatica ad arrivare.
Procedono affiancati senza parlare, fino a raggiungere un gruppetto di uomini sparpagliati sul loro percorso, particolarmente euforici. André accelera precedendola di un passo, allarga le braccia a separare quella piccola folla animata, si gira quel tanto da consentirle il passaggio continuando ad arginarla.
Allarga la mano prima di stringere il pugno per spegnere il leggero formicolio che avverte mentre quasi lo sfiora passandogli accanto nello stretto passaggio, poi è lei a precederlo raggiungendo i cavalli.
Rimane ferma in piedi nella penombra infilandosi pigramente i guanti. Lo osserva come sempre, mentre fa scorrere le staffe verso il basso, aggiustando i finimenti, carezzando di tanto in tanto la groppa e sussurrando parole incomprensibili per tranquillizzare sia Caesar che Alexander.
Un rumore di travi cadute attira la sua attenzione verso il fondo della stradina. La luce tremante di un altro lampione rivela una piccola piazza, in cui alcuni operai stanno finendo di ammassare il materiale per quello che sembra un palco in costruzione.
“Non hanno ancora finito di ricostruirli.”
La voce di André inaspettatamente vicina la fa quasi sobbalzare. Girandosi se lo trova accanto, intento a guardare nella medesima direzione.
“Già, devono affrettarsi. Devono essere pronti per il giorno dell’Incoronazione.”
Gli ha risposto senza tornare a rivolgere gli occhi al palco in costruzione. Lo vede voltarsi con tutta calma fino a regalarle un sorriso appena accennato.
“Ti va di camminare ancora un po’?”
Annuisce, l’aria della sera è dolce e per le strade sembra tornata, per la prossima celebrazione dei Sovrani, la medesima euforia esplosa un anno prima per il loro insediamento. È come se i preparativi per la grande festa avessero cancellato ogni traccia di malcontento, così come quel palco, sul quale verranno esposti i nuovi ritratti del Re e della Regina, ha preso il posto di quello distrutto poco più di una settimana fa, quando i forni e i magazzini di farina della città erano stati saccheggiati[xx] per tre giorni dalla folla in rivolta per l’aumento del prezzo del pane.
Abbassa lo sguardo sulla grande mano aperta a porgerle le briglie di Caesar.
“Dopo l’Incoronazione…” le afferra lentamente e torna a sollevare gli occhi in quelli di lui “Dopo la cerimonia d’Incoronazione del Re diventerà veramente la Regina di Francia…”
Le sembra che esiti un attimo, ma poi lo vede annuire.
“Certo, Oscar, dopo l’incoronazione…”
Si avviano fianco a fianco verso la stradina, che piega conducendo alla riva sinistra della Senna. Camminano in silenzio, allontanandosi dai rumori allegri a scomposti della taverna, accompagnati solo dallo scalpiccio dei loro stivali e degli zoccoli sul selciato.
 
 

Martedì 4 Luglio 1775, Palazzo Jarjayes

 
L’odore acre, così caratteristico della polvere da sparo esplosa, non riesce più a sentirlo. Se ne rende conto, mentre spinge lo stoppaccio giù per la canna della seconda pistola[xxi] per pressare la polvere nera prima di far rotolare dentro la pallottola e premere nuovamente con quel cilindro di metallo lungo e sottile. La cosa non la sorprende, non ricorda bene quando si sia resa conto che non esiste odore abbastanza forte o sgradevole da non diventare impercettibile, se si ha la determinazione di non rifuggirlo e ce ne si riempie coraggiosamente le narici per abbastanza tempo, ma ringrazia tutte le mattine il Signore per questo provvidenziale curioso fenomeno fisiologico, quando entra nei saloni di Versailles.
Con ancora sulla pelle il delicato profumo delle essenze fiorite[xxii], che Marie le fa sciogliere ogni mattina nel bagno, il lezzo delle sale e dei corridoi della Reggia la assale sempre alla gola e non le rimane che inspirare a pieni polmoni, attendendo fiduciosamente che scompaia. Evidentemente la fragranza di rosa, lavanda o fresia non si accorda molto con quella dell’alcool e del cibo stantii, delle deiezioni, abbandonate in giro da tutti i graziosi animaletti da compagnia infiocchettati, lasciati liberi di scorrazzare senza controllo, e non solo[xxiii]. La servitù riesce, con grande abilità, a far scomparire ogni traccia visibile all’occhio dai fini tappeti, dai ricchi broccati e dai legni pregiati, ma il fetore… per quello sembra non esserci nulla da fare.
Anche l’odore della polvere da sparo riesce a sovrastare il profumo di fiori, ma non lo ha mai trovato sgradevole, anzi. Non le infonde alcun senso di serenità e rilassatezza, ma le risveglia i sensi e la mente, le trasmette vigore.
In fondo non le dispiacerebbe sentirlo ancora nelle narici, anche se non si sorprende che sia scomparso, considerando da quanto tempo si sta allenando nel tiro a segno, e da quante volte ha già ricaricato e scaricato contro il bersaglio le due pistole che sta usando.
Probabilmente sarebbe già riuscita a esplodere un maggior numero di colpi, se avesse permesso ad André di aiutarla, occupandosi di ricaricare dopo ogni tiro, sfruttando al meglio la disponibilità di due armi. Ha preferito fare da sola: la gestualità ripetitiva del ricaricare, il mantenimento dell’ordine schematico della polvere, delle pallottole, degli stantuffi e delle armi sul piccolo tavolo di legno la aiuta a liberare la mente, mantenendo la concentrazione, essenziale per riuscire ad andare a segno a ogni colpo. Anche se le riuscirebbe molto meglio, se non dovesse cercare di estraniarsi dal borbottio continuo che sente alle sue spalle.
Appoggia la seconda pistola, appena caricata, con il calcio diretto verso il suo ventre, perfettamente parallela alla prima, già adagiata sul tavolo posto sul prato accanto alla postazione di tiro. Impugna l’altra, per rispettare l’ordine formale che si è imposta; carica il cane e piega il gomito, per mantenere la bocca di fuoco in alto, mentre muove un paio di passi verso la sua sinistra, così da portarsi esattamente di fronte alla sagoma conficcata nel terreno a venti passi di distanza, per replicare le condizioni stabilite dai padrini per il duello[xxiv].
Posiziona i piedi a cavallo della linea di tiro, bilancia su di essi equamente il peso del corpo, raddrizza bene la schiena, rilassa le spalle e piega il braccio sinistro così da farlo aderire alla curva della schiena, scaricandone il peso sui fianchi; inspira profondamente chiudendo gli occhi, stendendo il braccio destro verso il bersaglio, risolleva le palpebre ed espira parte dell’aria, mentre aggiusta con movimenti minimi la direzione della canna. Quando ha preso la mira, ferma il respiro, lo trattiene, smette di battere le palpebre e blocca ogni singolo muscolo, tranne quelli dell’indice, che contrae il minimo necessario a far scattare il grilletto, senza imporre alcuna rotazione all’arma.
È come se i suoi occhi anticipassero la pallottola, come se fosse il suo sguardo a raggiungere per primo in centro del fante di picche fissato sul cuore della sagoma, guidando la piccola sfera di piombo nel punto esatto[xxv] in cui ha stabilito l’attraversi, facendolo cadere a terra.
Riprende a respirare regolarmente abbassando il braccio, e vede ricomparire i fili d’erba del prato, il cui verde intenso risalta nella calda luce del sole estivo, le foglie stormite dal vento degli alberi d’alto fusto del bosco sul retro del palazzo dietro al bersaglio[xxvi], che sembravano essere scomparsi mentre prendeva la mira.
Si accosta nuovamente al tavolo con incedere tranquillo. Mentre pulisce la canna, prima di ricaricare, cerca di ritrovare la concentrazione, sforzandosi ancora di estraniarsi dai tre uomini che alle sue spalle la osservano, continuando a scambiarsi opinioni su di lei.
Da come continuano a parlare non sembrano ritenere che la cosa possa disturbarla, o semplicemente non si aspettano che possa sentirli o ascoltarli. In fondo è lei che dovrebbe distogliere la sua attenzione da qualunque cosa non sia la sua arma e il bersaglio.
Di nuovo appoggia ordinatamente sul piano la pistola appena ricaricata e afferra l’altra, si sposta sulla linea di tiro e mentre prende la mira tutto sembra scomparire, fino a che la pallottola attraversa il bersaglio facendo riapparire il sole caldo e brillante di un tardo pomeriggio estivo, il prato di cui riesce a sentire la consistenza soffice anche attraverso le suole delle scarpe, lo stormire delle foglie e di nuovo tornano le voci alle sue spalle.
Per quanto ci provi proprio non riesce a estraniarsi da loro per più di qualche secondo, ma se l’autocontrollo fosse veramente un suo talento innato[xxvii] non si starebbe neanche allenando per un duello!
In mezzo a quella piazza di Parigi André aveva stentato trattenerla, l’aveva spinta a forza in carrozza dando al cocchiere l’ordine perentorio di ripartire. Il cuore le correva ancora furioso nel petto e il sangue pulsava nelle tempie dopo quel viaggio in carrozza, che era parso interminabile, durante il quale il sedile era sembrato imbottito di piccole pietre acuminate, e aveva continuato ad agitarsi come una fiera in gabbia, facendo vagare lo sguardo irrequieto sui dettagli della tappezzeria e fuori dal finestrino, come se fosse alla ricerca di una via di fuga, eludendo gli occhi di André, rimasto tutto il tempo seduto di fronte a lei, fissandola impassibile. Appena arrivati a Palazzo, si era precipitata fuori dalla carrozza e poi su per le scale, spalancando le porte delle sue stanze e divorando il pavimento a passi feroci da un angolo all’altro senza una meta. Con il respiro affannato alla fine aveva quasi dato un pugno a una parete, schiudendo il palmo solo un attimo prima di colpirla con forza, come se avesse potuto trasferire alla pietra tutta la sua furia.
 “Maledetto, ma perché lo ha ucciso? Che bisogno c’era di ucciderlo… e poi perché a un nobile è permesso fare certe cose impunemente…”
Lo aveva ringhiato, con voce resa tremante dal respiro affannato, forse a se stessa, forse ad André, perché lo sapeva che era fermo alle sue spalle in attesa che si calmasse.
“Cosa credi di fare? Neanche il Re, lo può toccare…” questo le aveva detto mentre la spingeva a forza in carrozza, non c’era altro che potesse aggiungere. Lo sapeva anche lei, e forse anche per questo era tanto furiosa.
Chiunque altro sarebbe stato messo in ceppi, probabilmente condannato a morte, se fosse riuscito a uscire vivo dal linciaggio della folla, per aver ucciso a sangue freddo un bambino, sparandogli alle spalle nel mezzo di una piazza gremita. Invece non era successo nulla, il Duca di Germain si era potuto allontanare salendo tranquillamente sulla sua carrozza, dopo essersi attardato a osservare con aria compiaciuta il risultato delle sue azioni: in corpo esanime di un bambino vestito di stracci, abbandonato nella pozza del suo stesso sangue tra le braccia di una madre in lacrime. Era arrivata quando oramai era troppo tardi, la povera donna, ma forse era stato meglio così, neanche lei avrebbe potuto fare nulla se non assistere, forse venire uccisa a sua volta.
La folla l’aveva trattenuta, aveva faticato a fendere quel muro di corpi ammassati nel disperato tentativo di raggiungere il figlio. Nessuno si era mosso, centinaia di persone erano rimaste immobili, in silenzio, forse spaventate, forse semplicemente perché quello cui stavano assistendo non appariva loro poi tanto sconcertante, forse lo consideravano quasi giusto.
Di tutta quella moltitudine, solo una ragazzina si era fatta avanti, era accorsa a fronteggiare il Duca, cingendo tra le braccia il bambino che piangeva terrorizzato, di fronte a quel signore che si ergeva impettito, lanciando accuse tonanti. Non l’aveva riconosciuta subito, era la stessa cui aveva dato una moneta d’oro uscendo dalla casa di Fersen l’anno prima.
Aveva cercato di convincere quel nobiluomo a essere clemente, a lasciare andare il piccolo Pier, anche se sicuramente non aveva idea per che tipo di pena stesse chiedendo clemenza. Non aveva mai fatto niente del genere, erano stati i morsi della fame a indurlo a cercare di rubargli quelle monete, così aveva detto.
Era sembrato lo avesse convinto, dopo un attimo di esitazione il Duca sembrava aver deciso di lasciarlo andare, ma si era rivelato solo uno scherzo crudele. Lo aveva perfino ringraziato, la ragazzina, aveva esortato il piccolo a fare altrettanto, prima di esortarlo a correre a casa. Poi un lampo maligno aveva acceso lo sguardo del Duca, la canna della pistola aveva riflesso la luce di mezzogiorno, un colpo era esploso, Pier aveva lanciato un grido accasciandosi a terra.
Ancora nessuno si era mosso, come se nessuno dubitasse che fosse veramente suo diritto fare una cosa simile. Nessuno lo avrebbe toccato. Neanche il Re poteva fargli nulla, perché era un membro della famiglia reale. Come sempre, André aveva ragione.
Nel silenzio delle sue stanze alla fine il respiro era tornato regolare, il cuore aveva finito col rallentare, ma la rabbia, quella non era riuscita a farla defluire, l’aveva solo riportata dentro di sé. Nei giorni successivi a Versailles aveva fatto ricorso a tutta la sua autodisciplina per riuscire a tenerla imprigionata un quel luogo buio e nascosto in fondo al suo petto, tutte le volte che, per ragioni di servizio, si era dovuta trovare in presenza del Duca. Aveva imparato bene, suo Padre le aveva insegnato bene. Nei giardini, nei corridoi, nelle adorne sale della Reggia nessuno avrebbe mai potuto scorgere nulla di quello che si celava dietro l’espressione e il contegno fieri e impassibili del Comandante delle Guardie Reali, certo non la furia che si sentiva ribollire dentro in ognuna di quelle occasioni.
Le era capitato di riuscire a fingere di non provare nulla talmente tante volte in quelle occasioni ufficiali, che si era quasi convinta che veramente quella rabbia alla fine si fosse dileguata. Credeva di essere finalmente riuscita a tornare pienamente padrona di sé, ma l’evidenza di quanto fosse in errore l’aveva colta con la guardia abbassata lungo la via per la Reggia.
Era successo una mattina della settimana precedente, si era da poco levato il sole e procedeva al passo, assecondando il rilassante dondolio di Caesar, godendosi la carezza dell’aria giovane sulla pelle, il fruscio delle foglie, l’allegro cinguettio degli uccelli, cui faceva da controcanto il borbottio sommesso di André dietro di lei. Le veniva da sorridere, pensando come ricordasse tanto sua nonna quando faceva così, e, a sua memoria, non c’era niente che alimentasse tanto il suo disappunto, che strapparlo anzi tempo dal morbido abbraccio di Morfeo. La sera prima era stata lei a disporre di recarsi alla Reggia così presto, per necessità di servizio, ma anche per cercare di evitare il caldo, che lei tollerava molto meno di una sveglia mattiniera.
Le piaceva lasciar scorre lo sguardo sulla natura circostante, sfiorata dalla luce delicata del primo sole, così gentile prima dell’arrivo dei raggi impietosi delle ore centeali in quelle giornate estive. Cullata dall’atmosfera morbida, lasciando la mente vagare tra i ricordi di André bambino imbronciato, aveva esitato prima di sollevare distrattamente lo sguardo verso il sordo rumore di zoccoli sul terreno battuto.
Aveva rivolto un composto cenno di saluto, riconoscendo il Duca di Orleans venirle incontro a cavallo con un fucile sulla spalla, sicuramente per una battuta di caccia. Aveva adeguatamente atteso che le rispondesse, prima di distogliere lo sguardo e dirigerlo verso la figura che lo seguiva. Improvvisamente tutta quella rabbia l’aveva nuovamente travolta, rinvigorita dall’essere stata covata così a lungo il quel luogo sicuro e nascosto dentro di lei. Era riuscita a rompere l’argine non presidiato del suo rigoroso controllo, trascinata dal lampo maligno che aveva riconosciuto negli occhi del Duca di Germain. A un tratto si era ritrovata al bordo di quella piazza, nelle orecchie una risata compiaciuta che sovrastava un pianto disperato.
“Ferma!...”
Il suono secco della voce di André l’aveva riportata in quel viale ombroso. Si era girata incredula, trovandoselo improvvisamente accanto, proteso verso di lei, gli occhi severi e impauriti fissi nei suoi. Solo allora si era accorta della presa ferma della sua mano, aveva abbassato lo sguardo, sorprendendosi quasi a trovarla saldamente stretta intorno all’impugnatura della spada, parzialmente sfilata dal fodero.
Da quel momento le era stato chiaro che si era solo illusa di aver addomesticato la rabbia. Era come uno degli animali del serraglio Reale. Una volta la Regina vedendoli accettare così docilmente il cibo dalle mani dei loro guardiani dietro le sbarre, aveva commentato che apparivano così mansueti e obbedienti da rendere una crudeltà inutile tenerli in gabbia. Chinando il capo, il custode le aveva risposto.
“Maestà, per quanto possano apparire addomesticate, rimarranno sempre bestie selvatiche, basta una distrazione e morderebbero la mano che le nutre per riguadagnare la libertà.”
Lei si era distratta e la rabbia era tornata a morderle la gola.
Da quel momento aveva capito che era solo questione di tempo perché la trovasse nuovamente impreparata o troppo stanca di resistere per riuscire a tenerla a bada. Non si era quindi sorpresa quando la sera precedente aveva cominciato a sentire le mani prudere, mentre il sangue pulsava nelle tempie al suono della voce del Duca, che arringava i commensali su come andassero trattati i contadini per ottenere un vino di qualità.
La Famiglia Reale era riunita a cena nella Sala delle Porcellane, negli appartamenti interni del Re, e a lei spettava il compito e l’onore di prestare servizio di guardia per l’occasione.
Aveva sentito la mascella contrarsi quando il Duca aveva plaudito all’idea della Regina di cancellare l’udienza per il popolo programmata per la mattina successiva. Aveva respirato a fondo attraverso le narici, come se l’aria potesse disperdere il calore che si sentiva diffondere nel petto, ma evidentemente non era stato sufficiente, perché lo sguardo, solitamente fisso e impassibile, era sfuggito, dirigendosi tagliente su quel nobiluomo. Era risultato tanto evidente che Maria Antonietta stessa se ne era accorta. L’aveva invitata a parlare, difendendola quando era stato proprio lui a cercare di interromperla, lamentandosi che gli ufficiali delle Guardie Reali non sapevano più stare al loro posto.
Allora aveva dato sfogo al suo fervore sostenendo l’importanza, per i Reali, di dare ascolto anche alle fasce più basse della popolazione, così da dare nuova linfa alla loro devozione e alla loro fiducia. La piccola rivalsa che quelle parole avessero sortito maggior effetto delle lusinghe del Duca, era riuscita a farle ritrovare il controllo, per quanto fragile.
Quando due ore dopo aveva attraversato la sala del biliardo per tornare verso il suo ufficio, la voce supponente era aumentata deliberatamente di volume al suo passaggio, vantandosi con le Contesse di Provenza e Artois.
“Forse si esagera parlando della mia abilità con la pistola, ma potrei dare tranquillamente lezioni a una giovane che parla come una persona matura.”
Il tono si era fatto ancora più stentoreo nel proseguire, dopo che lei si era fermata continuando a dargli le spalle “è una vera assurdità che una donna sia diventata comandante di un reggimento delle Guardie Reali, anche se è la figlia di un generale!”
Sicuramente riteneva che lei si sarebbe allontanata, fingendo di non aver sentito, come ci si aspetterebbe da una donna.
Quelle parole non avevano fatto altro che infrangere l’ultimo velo del suo autocontrollo, si era girata di scatto e sovrastando una risata compiaciuta.
“Cosa avete detto?” aveva letto lo stupore nei suoi occhi “E io vi dico che è un’assurdità che un uomo che ha ucciso a sangue freddo un povero bambino, un uomo che non conosce la differenza tra il bene e il male possa fregiarsi del titolo di Duca!”
A quel punto non era più riuscita a fermarsi, non ci sarebbe riuscita anche se avesse voluto, la furia l’aveva travolta e aveva portato tutto in superficie. Gli aveva sputato in faccia tutte le orrende immagini di quel giorno: la disperazione, la povertà, la perdita dell’innocenza, la crudeltà, l’impotenza, l’orrore di una morte inaccettabile.
Erano stati deboli gli argomenti opposti dal Duca, nonostante avesse cercato di dare loro forza alzando ancora la voce impettito: l’intransigenza, la punizione come esempio a prescindere dalle circostanze.
Alla fine doveva essersi reso conto di essere talmente in difficoltà in quel violento confronto verbale, sotto lo sguardo imbarazzato delle due consorti di stirpe reale, che aveva attaccato con quello che considerava il suo indiscutibile vantaggio.
“Badate bene a quello che dite.” come rivolgendole una minaccia “State parlando a un Duca!”
“Chi non ha coscienza, non merita rispetto.” aveva replicato, per nulla impressionata dall’esibizione del suo rango.
Al lancio dell’insulto, lui aveva risposto con quello del guanto.
Lo aveva raccolto, perché non desiderava altro che portare a termine quanto aveva cominciato. Non aveva atteso che fosse lui a dichiarare l’arma scelta.
“Scelgo la pistola, in cui siete così abile.”
Una sbruffonata, ecco cosa era stata quella risposta, ma più di tutto desiderava ferirlo lì dove gli avrebbe fatto più male ed era sicura, che non sarebbe stato certo lui ad appellarsi alla sciabola, che secondo il codice sarebbe stata l’arma prescritta in base all’offesa per cui esigeva soddisfazione.
Non era riuscita a evitare di compiacersi dell’espressione incredula e soddisfatta per la troppa sicurezza del suo sfidante.
“Non vi tirerete indietro all’ultimo momento!”
“In vita mia non sono mai venuta meno alla parola data…”
Non aveva colto l’ulteriore sfida nascosta in quella frase, si era semplicemente allontanato, sicuramente ansioso di vederla svergognata o morta, finalmente ridotta al posto che lui riteneva competerle.
 
“Gli uomini in universale giudicano più agli occhi che alle mani, perché tocca a vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognun vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei.”[xxviii]
Affiora da qualche anfratto della sua memoria questa frase, mentre cerca di ritrovare la concentrazione prendendo la mira, allontanando l’immagine del Duca, cercando di ignorare le voci degli uomini alle sue spalle.
 “Non riesco a capire perché Oscar abbia deliberatamente scelto la pistola.[xxix]
Al quesito lasciato sospeso da Giroldelle è Andrè a rispondere sicuro, anche se una nota di apprensione gli vela la voce.
“Questo mette in risalto l’onestà di Oscar. Ha fatto così perché con la spada l’avrebbe battuto troppo facilmente.”
Al giudizio troppo generoso di André, torna a controbattere il suo secondo.
“… ma dovrà affrontare un rischio troppo grande, il Duca di Germain spara bene con la pistola!”
è suo Padre a intervenire, fermando ogni discussione con la sua consueta sicurezza.
“Non dovete preoccuparvi, è abile con la pistola così come lo è con la spada, sono stato io il suo istruttore, quindi so perfettamente quello che vale.”
Nuovamente tutto intorno a lei sembra scomparire un attimo prima che prema il grilletto, per riapparire subito dopo che la pallottola ha attraversato il centro dell’asso di cuori.
Mentre torna a caricare pensa che lei non è certo bisognosa di protezione come la ritiene Girodelle, che vorrebbe essere veramente all’altezza dell’immagine di puro onore dipinta da André, ma che può solo garantire tutto il suo impegno per rispettare i requisiti del perfetto soldato istruito da suo Padre.
 
 

Mercoledì 5 Luglio 1775, presso la chiesa di Favre

 
È fresca l’aria in quella radura, a un’ora così acerba del mattino, tanto diversa dalla calura del giorno in quella stagione e dall’afa pesante, che si attarda dopo il calar del sole.
Inspira godendosi la carezza dolce della brezza, stenta a ricordare come solo poche ore prima fosse sdraiata sul prato al limitare della boscaglia sul retro di Palazzo Jarjayes, confidando in un po’ di ristoro nel buio della notte.
Cercava di godersi il fresco dell’erba morbida, che le solleticava la pelle della nuca, appena sopra il collo della camicia, e il dorso delle mani incrociate a sostenere il capo. Faceva scorrere lo sguardo sul cielo stellato, faticando a riconoscere le geometrie note delle costellazioni, in quello che le appariva solo un meraviglioso caos, mentre cercava di portare ordine e calma nell’agitarsi affannoso delle sue emozioni.
Non aveva sentito i passi avvicinarsi, ma, ugualmente, non aveva sussultato sentendo la voce di André, familiare e calma come sempre.
“Non riesci a dormire Oscar?”
Una domanda retorica, in quella serata così calda, per cercare di afferrare il bandolo dei suoi pensieri.
“Non devi preoccuparti per me.”
Sentiva che la stava osservando, ma non lo aveva guardato, cercando con quella frase di chiuderlo fuori dal luogo in cui si stava sforzando di mettere ordine.
Si era accomodato sull’erba al suo fianco, con gesti rumorosi e un po’ scomposti, allungando le gambe e poggiando i palmi aperti dietro la schiena, le dita intrecciate ai fili d’erba, invadendo il suo spazio con fare incurante.
“Ah, non mi preoccupo per te, so che vincerai tu!”
Parole apparentemente casuali, pronunciate con il tono leggero ed evasivo che usava per trovare un varco. Sapeva cosa stava cercando di fare.
“Magnifico… tutto bene allora.”
A quella nuova resistenza lo aveva sentito sospirare e poi di nuovi i suoi occhi su di lei.
“Sarà meglio che tu vada a dormire…”
Ancora un tentativo andato a vuoto seguito da una lunga pausa.
“Sai a cosa stavo pensando? Che tu all’età di sette anni hai sotterrato ai piedi di quella quercia il tuo piccolo tesoro.”
 
Una trottola e un coltellino dal manico rosso, una sera d’estate esattamente come quella. Qualche settimana prima Monsieur Duffort aveva fatto una lezione su come Francia e Inghilterra avevano finanziato i vascelli corsari per saccheggiare i mercantili spagnoli, che trasportavano casse colme di tesori nel mar dei Caraibi, il Generale li aveva poi arringati sulla valenza tattica di una simile iniziativa; loro avevano passato i giorni successivi a fantasticare di una vita avventurosa tra le isole, solcando il mare a bordo di una nave pirata. Tutte le sere lo raggiungeva in camera, sgattaiolando per i corridoi bui, dopo che Marie le aveva rincalzato le coperte augurandole la buonanotte. Trascorrevano la serata e spesso buona parte della nottata seduti a terra a raccontarsi delle loro scorribande alla tenue luce delle notti estive, che filtrava dalla finestra spalancata.
Nessuno sospettava della loro vita segreta quando sbadigliavano stropicciandosi gli occhi, cercando di stare svegli seduti al banco. Una notte aveva conquistato il suo tesoro in un arrembaggio vittorioso e aveva deciso di correre fuori a sotterrarlo in giardino, seguita da André. Quando la mattina successiva erano emersi entrambi dalle lenzuola dei rispettivi letti con i piedi e le mani sporche di terra smossa e le camice macchiate d’erba, la loro avventurosa vita da fuorilegge notturni era stata svelata e la carriera da pirati si era conclusa con una solenne sculacciata.
 
Aveva finto di essersene dimenticata, cercando di rimanere arroccata nel suo rifugio, dicendogli con voce risoluta, che non serviva che venisse anche lui quella mattina, che c’era già Girodelle a farle da padrino. Quando però lo aveva sentito alzarsi e allontanarsi, non ce l’aveva fatta e lo aveva fermato, come se al capo di quel ricordo, cui si era aggrappato, fossero legati tutti i suoi pensieri.
“Cosa c’è, hai paura forse?”
Glielo aveva chiesto come se fosse uno scherzo, forse nel tentativo di schermirsi, forse perché lo sapeva che stava cedendo, che gli avrebbe detto tutto quello che la turbava, anche se la prima reazione era stata di dirgli che no, lei non aveva paura!
Poi lo aveva ammesso, e raccontandolo a lui improvvisamente l’agitazione era passata, i suoi pensieri avevano preso posto e tutto era stato chiaro. Sì aveva paura, ma non per il duello, o forse in parte anche per quello, ma più di tutto aveva paura delle possibili conseguenze. Il Duca meritava di essere punito perché considerava la povera gente alla stregua di oggetti di poco conto, ma la vita umana è sacra. Se fosse sopravvissuta, aveva paura di non riuscire a convivere con le conseguenze di ciò che aveva deciso di fare per difendere un principio, perché rischiava di violarne un altro.
“… se per caso dovessi morire, puoi prendere tu il tesoro che ho sepolto ai piedi della grande quercia…” solo in quel momento era riuscita a guardarlo negli occhi, leggendovi una paura completamente diversa dalla sua ”… una trottola e un coltello dal manico rosso.”
Lasciava la sua unica eredità al mondo all’unica persona capace di comprenderne il valore.
Finalmente calma era andata a letto, aveva dormito profondamente come non le capitava di fare da tempo e quando aveva aperto gli occhi si era sentita serena.
Aveva attraversato la casa ancora addormentata. Uscendo dalle cucine si era imbattuta solo nella piccola Nanà con le mani affondate nell’impasto morbido del pane. La ragazza aveva stentato a salutarla per la sorpresa di trovarsela di fronte a quell’ora, facendola anche sorridere per il suo manifesto imbarazzo. Nello spiazzo ancora avvolto nel buio che accennava appena a impallidire, aveva trovato André ad accoglierla tenendo per le briglie i cavalli sellati, come ogni mattina, nonostante quanto detto la sera prima.
Avevano percorso la strada fino alla chiesa di Farges in un silenzio calmo, ascoltando il rintocco ritmico degli zoccoli al passo sulla terra battuta, mentre il cinguettio degli uccelli aumentava mano a mano che la luce argentata guadagnava il posto dell’oscurità.
 
Nella radura sul retro della chiesa tutto sta assumendo una sfumatura rosata: le fronde degli alberi tutto intorno, la superficie del tavolo, posizionato sul prato per l’occasione da due lacchè del Duca d’Orlean, persino la scatola con le pistole, appena aperta dal Conte Girodelle, sembra assumere una tonalità meno fredda e tagliente.
La natura che si risveglia, illuminata dal sorgere del sole ancora nascosto dietro la linea dell’orizzonte, riesce a rendere solenne e quasi irreale un’immagine tanto inesorabile quanto quella di due duellanti che si fronteggiano impugnando una pistola.
Distingue chiaramente la voce del Duca d’Orlean declamare le regole concordate con Girodelle per lo svolgimento del duello, ma è come se le giungesse da lontano, come se lei in realtà fosse altrove.
Mentre attende l’ordine di girarsi tiene gli occhi fissi in quelli del Duca di Germain, non vi legge nessuna paura, nessun dubbio, solo una sorta di arrogante compiacimento.
“I duellanti si diano le spalle.”
Quelle parole preannunciano un momento inesorabile, mentre davanti le compare lo spettacolo del cielo, che si tinge di tutte le sfumature del rosa e del viola sopra le cime frondose degli alberi stormite dalla brezza leggera.
“Uno”
L’inizio dei dieci passi che la porteranno verso un gesto inevitabile deciso la sera prima sull’onda di un ricordo di lei e André bambini, che ne ha riportati a galla altri, come se fossero tanti indivisibili anelli di una catena[xxx].
“Due”
Lei e André la prima volta che Jean-Luc li spronò al galoppo in groppa a Julius e Golia…
“Tre”
L’espressione felice, grata al limite della commozione, di André, quando gli aveva consegnato la spada a lui destinata da suo Padre dalla collezione di famiglia…
“Quattro”
… e poi lei e André, che si misurano con la spada sul retro del palazzo, loro all’ombra del grande albero sulle rive del laghetto, loro al galoppo lungo la strada per Versailles, André seduto di fronte a lei a chiacchierare sorseggiando un bicchiere di vino, loro in carrozza per le vie di Parigi… una folla raccolta in una piccola piazza, un bambino che piange chiedendo scusa, uno sparo, il rosso del sangue sul selciato. Rosso come il sangue che sente pulsarle nelle tempie quando il cuore accelera appena quell’immagine le riaffiora alla mente. Rosso come il disco del sole che sta sorgendo all’orizzonte.
“Nove”
Una foglia attraversa una lama di luce riflessa a un passo da lei.
“Dieci”
Si gira, il calcio della pistola, sollevata a ripararle gli occhi da quel riflesso, devia il proiettile diretto al suo volto con una scintilla. Tutta la sua rabbia si accende come la polvere della sua arma puntata verso l’avversario. Lo scoppio la fa defluire da lei seguendo il colpo che esplode fuori dalla canna.
Poi finalmente è solo pace quello che prova, mentre il chirurgo, i lacchè e il Duca d’Orlean si affrettato a correre in soccorso del Duca di Germain, seduto a terra reggendosi la mano sanguinante. Inveisce contro di lei, la offende, mette in dubbio il suo onore, ma niente la può più toccare, le grida giungono come da un luogo lontano.
Cede la pistola a Girodelle, accorso al suo fianco, perché il cerusico ha sancito che il suo sfidante non è in condizioni di proseguire.
“Non sei ferita, vero?”
André le è corso incontro, fatica a trattenere un tremito nella voce. Gli sorride.
Distoglie solo un attimo lo sguardo da lui, attratta dal rumore di zoccoli e ruote di una carrozza adorna delle effigi reali che si avvicina a gran velocità.
Ha punito il Duca, non l’ha ucciso, ha vinto, ma aver rispettato fino in fondo i suoi principi la porterà a perdere quello per cui è stata pianificata tutta la sua esistenza, è certa che le sarà chiesto di abbandonare il suo posto nella Guardia Reale. Sa perfettamente che suo Padre sarà furioso, ma per qualche strano motivo niente di tutto questo sembra importarle.
Mentre vede la paura svanire dagli occhi di André, risponde finalmente serena “No, non ti preoccupare, non mi ha nemmeno sfiorata.”
 
CONTINUA…
 
 
Angolo dell’autore:
Ringrazio come sempre chi abbia avuto la pazienza di arrivare in fondo a questo contributo, così come chi vorrà recensire, fornendomi spunti sempre molto apprezzati... visto che io sono nella mia testa e non sempre quello che scrivo rende come vorrei…
Ovviamente la mia gratitudine va sempre a chi abbia inserito la mia storia tra le seguite/da ricordare o addirittura preferite.
Spero di pubblicare il nuovo blocco di ‘creazione’ della nostra bionda al più presto, ma come detto il mio controllo al momento è peggiore del solito per via del lavoro. (per chi si domandi come sono messi i nostri beniamini in “Era una notte…” vi comunico che si sono svegliati, hanno avuto modo di parlare, scherzare,…e scendere a fare colazione… al momento però il capitolo come detto, necessita di essere rifinito.. spero di pubblicare anche quello al più presto, tempo e livelli di stanchezza permettendo)

 
 
 
 
[i] Sicuramente anche per la frequentazione delle case di piacere, ma non ritengo sia la prima idea che possa saltare in mente a Oscar.
[ii] Indubbiamente Luigi XV non era dotato della leadership brillante e creativa del suo predecessore, in più, ormai anziano, aveva esaurito anche qualunque propensione all’impegno di facciata, era vecchio, si era fatto le sue guerre, era il Re per cui aveva palesemente deciso di tirare i remi in barca e spassarsela nel suo parco giochi di Versailles. Più che per consuetudine di una vita che per altro però aveva continuato a osservare (e all’occorrenza aggirare) il protocollo di corte, cosa che gli aveva tenuto vicini i nobili.
[iii] Tassa prevista quando un nuovo Re saliva al trono (paga per il gioioso avvenimento XD).
[iv] Era stato destituito da Luigi XV nel 1771, viene reinsediato da Luigi XVI il 12 Novembre del 1774.
[v] Subito dopo la morte del Re, la Dubarry non viene fatta ritirare a Louvencienne (otterrà il permesso solo alcuni anni dopo) ma a Saint-Vrein, più lontano da Versailles per cercare di farla dimenticare il più velocemente possibile. Le venne accordata una rendita e consentito di conservare i suoi gioielli. Al piccolo castello riceveva ospiti e faceva feste, ma non dimenticava comunque di occuparsi dei poveri del borgo, per i quali distribuiva pane, carne e legno, e forniva assistenza a chi ne faceva richiesta.
[vi] Si sembra un po’ una matta, ma in questa fase nell’anime è un po’ così ‘umorale’ e spesso eccessiva con lui, lo sfrombola giù dalle sedie, gli fa lo sgambetto, prende e fugge al galoppo mollandolo in mezzo a qualunque conversazione la irriti… evidentemente avrebbe avuto  bisogno di rilassarsi e di sfogarsi in altra maniera… XD
[vii] Una delle tre vecchie zie, figlie del deceduto Luigi XV. Durante i primi anni del regno, ha influenzato significativamente la politica del nipote.
[viii] L’avvicendamento ai vertici negli anni era stato abbondantemente deciso dalle donne che si avvicendavano al potere: è la Pompadour a propendere per l’alleanza con l’Austria determinando l’allontanamento di Maurepas a favore di Choiseuil e l’organizzazione del fidanzamento con una principessa austriaca, anziché con una prussiana; è la Bubarry a fare allontanare Choiseuil, per le malignità che la sorella, soppiantata nel suo tentativo di diventare la favorita del Re, spargeva su di lei; Madame Adelaide, alla morte del padre, spinge di nuovo avanti Maurepas, antiaustriaco… un po’ era anche una rivalsa post-mortem contro la più importante detestata favorita del padre.
[ix]… Le Ministre reconnaissant/Dit: Pour vous, Sire,/Se que je désire,/D’en faire autant. (vero, dei tempi della nomina di Maurepas) Più o meno: Maurepas era impotente,/ il Re lo ha reso più potente./ Il Ministro riconoscente/ ha detto: Per voi, Sire,/ Ciò che desidero,/ è fare altrettanto. Non credo che ‘l’elegantissimo’ gioco di parole abbia bisogno di commenti ;-)
[x] Luigi XVI è davvero un tipo strano, non lo si può definire propriamente un debole, nel senso che non asseconda gli altri in segno di sottomissione, semplicemente segue il flusso, cercando di evitare qualunque turbolenza (peccato che più in giù lungo il corso ci siano le cascate!!). In realtà, a mio avviso, non sembra proprio aver alcun desiderio di collocarsi in alcuna posizione gerarchica nel branco, semplicemente… vuole stare tranquillo, non desidera in alcun modo affannarsi. Non si sente né superiore, né inferiore, gli possono dire cose orrende e lui non si offende MAI, ma allo stesso modo non fa nulla per affermare la sua posizione, neanche quando sarebbe necessario. È colto, ha i suoi interessi (meccanica, orologi… ma soprattutto la caccia) e gli interessano SOLO quelli, ama Maria Antonietta, ma semplicemente accetta seraficamente che non abbiano niente in comune e non si aspetta di conseguenza in alcun modo che lei lo assecondi (cosa che si aspetterebbe qualunque marito, soprattutto dell’epoca), per certi versi la considera superiore per tutte quelle capacità (indole artistica, capacità sociali, grazia) che sa non appartenergli, ma… per quanto si senta inferiore su questi aspetti la cosa non sembra disturbarlo affatto, si compiace serafico di lei. È come se il suo principio guida fosse “purché non mi si rompano i c*glioni” ma non intendo affannarmi per evitare che non lo facciano, più che un uomo è… un muro di gomma montato su ruote!?!? Come i suoi problemi con il sesso, non sono organici (quella della fimosi era una palla di giustificazione, nessuno torna operativo in dieci giorni dopo una circoncisione) e anche dopo che ha “rotto gli indugi” non sembra poi essere tanto esaltato dal sesso, come se in fondo proprio l’eccitazione in senso lato non facesse per lui.
[xi] Il Duca di Provenza e il Duca di Artois sono decisamente più “rapaci”, non che il loro arrivismo sia basato su alcuna effettiva competenza o talento (Napoleone definirà Maria Teresa, primogenita sopravvissuta di Maria Antonietta, ‘l’unico uomo della famiglia’ XD… certo napoleone non era un monarchico, ma ancor meno un femminista). Più contegnoso il primo, tanto da volersi distinguere dalla condotta di MA Regina, più godereccio l’altro, che invece nella godereccia anarchia istituita dalla regale cognata di sguazza, tanto da essere sulla bocca di tutti come suo amante (solo un pettegolezzo anche se dei più longevi), salvo poi spargere lui stesso malignità, entrambi sbavavano per la posizione del mite fratello maggiore. Gli anni di sterilità del matrimonio reale, i dubbi sull’impotenza del fratello li avevano ringalluzziti parecchio, la prima gravidanza di MA gli arriverà in testa come un macigno, tireranno un sospiro di sollievo per la nascita di Madame Royal, manca poco che si suicidino per la nascita del Delfino (in realtà il Duca di Provenza non ne fa segreto, tanto da mettere per iscritto tutta la sua delusione in una lettera). Si insomma… la Ikeda concentra tutte queste mire al trono nel Duca di Orleans, che qui nella linea di successione è ben lontano! Il Duca diventerà un candidato solo quando verrà messa in discussione la casa reale stessa, in quanto figura di compromesso tra l’Ancient Regime e un certo mondo intellettuale riformista.
[xii] Alla morte di Luigi XV in realtà era la viva speranza degli aspiranti riformatori di venire accolti nella cerchia della Regina, per guidare, attraverso di lei, la Francia in una nuova era. Probabilmente confidavano che prima o poi si rivelasse il germe della sua grande madre… purtroppo, come sappiamo, rimasero delusi, soppiantati da sarte, stylist, parrucchieri e compari di shopping sfrenato, gioco e scorribande in discoteca… sarà, come diceva Maria Teresa, stata colpa del debole sangue dei Lorena!?
[xiii] In realtà, no, MA poteva essere un’ottima comunicatrice, questo sì. Lui era un buon uomo, lei era una gran PR (tutta la mitologia della dignità alla fine era basata su questo), ma in quanto a leadership e idee, in due erano a quota zero. Cmq, ancora così giovani e tutto sommato amati, per il semplice fatto di essere altro da quello che c’era stato prima, furono in molti all’inizio a sperare che avrebbero dato un grande risultato… e invece no.
[xiv] Maria Teresa e Caterina di Russia e Maria Antonietta … purtroppo la terza carta del tris è mancata all’appello.
[xv] Al di là della propensione a fare regali e donazioni folli alle persone a lei vicine (come se i soldi non fossero suoi… e in effetti… ma non credo che questo concetto fosse in alcun modo familiare a MA), MA era anche molto fisica nelle sue manifestazioni, abbracciava e baciava tutti con slancio e disinvoltura come fanno i bambini piccoli. Già tra adulti questo comportamento è discutibile in società, figurarsi poi in un ambiente formale come quello di corte e in un’epoca come quella settecentesca (non per pruderie, intendiamoci, ma perché dimostrarsi in balia di sensi e sentimenti era considerato segno di poco intelletto).
[xvi] MA amava molto i bambini (probabilmente anche perché ne condivideva la maturità intellettuale… lo so, sono cattiva, ma quando si hanno grandi responsabilità una simile accidia e svagatezza diventano colpe), nella lunga attesa di averne di suoi ne adottò un po’ (dove il termine adozione assomiglia in accezione più a quello che noi oggi utilizziamo per un cane, che per un bambino), alcuni vennero mantenuti agli studi in convento, altri crebbero a corte, diventando compagni di giochi dei figli legittimi.
[xvii] La moda del momento vira già sui colori primaverili vivaci e i fiorellini, ma in un tale tripudio di fiocchi, pizzi, trine, sbirluccichii da rendere l’effetto bomboniera minimal a confronto (per intenderci, è il periodo in cui ancora vanno i galeoni o le gabbie con gli uccellini vivi incastonati nella parrucca).
[xviii] La moglie morganatica (matrimonio religioso riconosciuto, che però esclude ogni diritto ereditario) del Duca di Never era Mademoiselle Quinault ex-attrice dell’operà.
[xix] L’aneddoto è reale.
[xx] A Marzo del ’75, esplode la Guerra delle Farine: a settembre Turgot (ministro delle finanze) aveva varato una legge sulla liberalizzazione del prezzo del grano (Turgot era un fisiocratico, quello che oggi chiameremmo un liberista, in soldoni riteneva che il mercato lasciato libero si assesti da solo nella condizione migliore). Come sempre le idee sono buone, ma inciampano nella realizzazione pratica e nella natura umana. In alcune regione di Francia il raccolto non era andato bene, ma in altre era stato abbondante, quindi in teoria la libera circolazione avrebbe dovuto compensare, mantenendo il prezzo del grano basso. Turgot non aveva però tenuto conto dell’esistenza degli accaparratori (speculatori in un’economia prevalentemente agricola) che, non avendo supportato l’azione sul mercato con un’adeguata azione di controllo e gestione della circolazione delle merci, determinarono l’impennata del prezzo dei cereali e la conseguente reazione a catena di rivolte e saccheggi. A Marzo cominciarono in provincia, gli interventi nei confronti degli accaparratori furono tardivi e non sistematici, e le ripetute richieste d’intervento inviate a Versailles dalla guardia distribuita sul territorio vennero ignorate (il commento era “Si sa che le cose nuove all’inizio non piacciono, bisogna solo lasciare che ci si abituino”!!?!? … Turgot era pieno di buone intenzioni, ma decisamente scarso sui ‘preliminari’). Il risultato fu che il prezzo del grano, del pane e della farina s’impennò, e la rivolta arrivò fino a Parigi il 3 di Maggio. Di fronte alla ‘frittata fatta’ il Re, come sua indole, calò indiscriminatamente le braghe, imponendo l’abbattimento forzato del prezzo del pane, il che generò nella folla, ormai fuori controllo e di fronte all’evidenza di nessuna prevedibile azione di forza, l’iniziativa di saccheggiare i forni e i magazzini della città, raggiungendo il picco della devastazione il 6 Maggio. La guerra delle farine è quella a cui viene associata la famosa frase “Se non hanno il pane, che mangino le brioche” di Maria Antonietta, che è notoriamente un solenne falso. Che sia un falso però non è che supporti il fatto che la sovrana, e con lei tutta la corte, fosse particolarmente toccata dall’evento, e non ha neanche la parziale scusante di esserne ignara! Ai tempi infatti andava di moda ‘celebrare’ qualunque evento con delle acconciature a tema molto alla moda (ne avevano fatta una anche in occasione della brucellazione del sovrano per proteggerlo dal vaiolo, che aveva ucciso il predecessore), ecco… in occasione della rivolta delle farine venne lanciata appunto un’acconciatura a tema ‘Le bonnet de la revolt’… boh, forse una battuta di cattivo gusto detta magari senza pensarci sarebbe stata… meno di cattivo gusto!?!?!
[xxi] Probabilmente di questo aspetto non ve ne frega nulla ;-) ma… vista l’epoca si tratta di pistole ad avancarica, che hanno un colpo singolo. La pallottola è una singola sfera di piombo, che va infilata dopo aver inserito nella canna la polvere da sparo e lo stoppaccio (che è un pezzetto si stoffa o feltro), che vanno pressati prima di inserire la pallottola nella canna e pressati ancora dopo (la pistola carica va tenuta con la bocca da fuoco in alto quando è carica, altrimenti perde la carica, e la pallottola deve rimanere a contatto con la polvere perché lo scoppio prodotto dallo fregamento della pietra focaia montata sulla punta del cane). Curiosità… se si vuole portare a spasso l’arma carica o sparare verso il basso è necessario inserire un altro stoppaccio per cercare di tenere la “roba” al suo posto.. che però può ridurre le già esigue caratteristiche di affidabilità e precisione di queste armi.
[xxii] Questo vezzo può essere inteso come prettamente femminile, in realtà non è che ai tempi esistessero delle essenze considerate prettamente maschili o femminili… si insomma il profumo per “l’uomo che non doveva chiedere mai” poteva tranquillamente essere il mughetto… viste le consuetudini igieniche suppongo fosse già accettabile che non puzzasse come un cadavere di tre giorni… in estate.
[xxiii] Nelle memorie di Saint Simon si fa riferimento a questo dettaglio edificante. Il “non solo” si riferisce al fatto che, viste l’inadeguatezza (per non dire quasi totale assenza) dei servizi igienico a Corte, i cortigiani erano usi farla in giro, come le bestioline (per Luigi XIV era un ruolo di rappresentanza, per cui gli idraulici erano stati pagati per lo scenografico impianto delle fontane nei giardini, ma tubi nella reggia nisba).
[xxiv] In un duello sono i padrini a definire le regole “d’ingaggio”
[xxv] Ok, con le armi dell’epoca qui parliamo di fantascienza, la precisione e l’affidabilità era tale che Dio grazie già se non ti esplodevano in mano e entravano nei bordi della sagoma… ma facciamo finta che sia così, a favore della narrazione. Ancora in epoca napoleonica le armi da fuoco forniscono prestazioni ben inferiori a quelle che erano dei temibili archi lunghi inglesi, il motivo della loro grande diffusione deriva dal fatto che con un fucile bastava prendere un qualunque coglione di passaggio e fargli una settimana di addestramento, mentre a formare un buon arciere ci volevano 5 anni (gli archi lunghi inglesi erano però quelli che avevano costituito il vantaggio competitivo contro la cavalleria francese, tanto che quando catturavano un arciere i francesi come prima cosa gli mozzavano indice e medio della mano destra… da cui il segno di spregio inglese con queste due dita alzate, che non è una versione snuff del solo dito medio XD). Si insomma … alla fine la carne da cannone ha prevalso sulla qualità di pochi professionisti di alto livello.
[xxvi] Per le puriste, ho invertito l’ordine della linea di tiro rispetto all’anime… scusate, ma chiaramente Dezaki non andava al tiro a segno, anche se c’è un bersaglio è impensabile che si spari verso una zona di passaggio, non si può mai sapere cosa fa una pallottola vagante; già è piuttosto anomalo che lo faccia nei pressi di casa ma almeno facciamola sparare in direzione del fitto degli albero in cui non dovrebbe aggirarsi nessuno.
[xxvii] guarda te a volte come la visione, che una persona ha di se, non collima con quella che hanno tutti gli altri! XD A parte le facezie, questo è uno degli aspetti su cui mi sono arrovellata parecchio nella scrittura di questo capitolo “becoming Oscar” e alla fina ho deciso di dargli questo taglio, che trovo più supportato da evidenze: secondo me l’aria di estremo distacco e controllo che ha è un atteggiamento appreso (dal padre) e autoimposto in anni ed anni di disciplina, alla lunga diventerà automatico tanto che faticherà a scrollarselo di dosso, ma in gioventù ci si impegna parecchio. A supporto tutti gli scatti d’ira e altro che caratterizzano il suo comportamento giovanile (il duca, la mangiata di faccia a monsieur Sugan, la crisi isterica quando la madre deve scegliere di chi fare la dama di compagnia… etc) e non solo (nei momenti più tesi la Oscar intemperante risbuca tipo quando le viene da infilzare Diane in piena aula di tribunale !?!?). Nel capitolo/periodo precedente anche Andrè si era quasi convinto che quella ingessata fosse la nuova Oscar, ma la sua uscita con il Re dopo l’incidente gli ha dato una visione più circostanziata della situazione. Tutti gli altri conoscono solo la versione compassata, il rigido involucro esterno della nostra pentola a pressione bionda :-P
[xxviii] Macchiavelli
[xxix] Nel duello è l’offeso (sfidante) a scegliere l’arma, lo sfidato al più può invocare l’arma prescritta dal codice in base all’offesa… quindi non è vero che Oscar poteva scegliere l’arma, per cui ho segato la seconda parte della frase di Girodelle. Nel caso di un’offesa grave, riguardante l’onorabilità della persona, quale quella rivolta da Oscar al Duca, l’arma prescritta è la sciabola, la spada lo è per le offese considerate non gravi. La pistola sarebbe l’arma per offese atroci, che coinvolgano gli affetti familiari (supponiamo che il Duca sia il solo affetto familiare di se stesso XD).
[xxx] Mi scuso per l’autocitazione, ma dopo essermi scervellata su quale immagine usare per l’effetto che volevo rendere non ho trovato di meglio.

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Capitolo 6
*** Anello 4: Aspettative (parte3/4) ***


Premessa dell’autore:
ciao a tutte… eh già rispetto ai miei tempi questa pubblicazione è fulminea! Ma come detto l’anello è finito, le sezioni necessitano più che altro di un po’ di revisione… e cmq non avrei mai potuto pubblicarlo tutto intero (già le parti sono smodatamente lunghe, ma ormai mi conoscete XD). Beh, spero che la lunga lettura (come al solito le note sono opzionali… sono più che altro le mie elucubrazioni durante la scrittura) risulti accettabile …
 

 
Indice
Lunedì 10 Luglio 1775, dintorni di Arras
Mercoledì 6 Agosto 1775, Versailles
 
 
Anello 1.4: Aspettative
(Parte 3)
 

Lunedì 10 Luglio 1775, dintorni di Arras

 
Il sole basso sulla linea dell’orizzonte tinge il paesaggio di tutte le sfumature dell’oro e del rame, tanto che gli alberi e i campi sembrano ardere in lontananza, tremando al calore che si solleva dal terreno. Anche l’alto muro di cinta, dietro il quale si nasconde la villa in fondo al viale, è delineato da un alone fiammeggiante che evidenzia il profilo a tratti irregolare dei blocchi di pietra a spacco.
Strizza e poi spalanca gli occhi quando Caesar supera il confine della nuvola di torrida luce, addentrandosi nella fresca sagoma d’ombra che l’edificio, anticamente fortificato[i], proietta nella loro direzione, come a volerli accogliere prima ancora di varcare l’arcata d’ingresso attraverso lo spesso muro di pietra.
Procedono al passo, senza fretta, e lei si lascia finalmente trasportare dal dondolio dell’andatura, rilassando i muscoli, le spalle, inclinando il collo da un lato e poi dall’altro. Lo sguardo si sofferma quasi per caso a osservare una famigliola di germani mentre sguazzano compiaciuti tra i giunchi disposti a ciuffi lungo il greto del fossato, che affianca il muro rendendo possibile l’accesso solo attraverso quell’ultima lingua di terra che stanno percorrendo.
Sente il sorriso affiorare alle labbra soffermandosi sul blu e verde brillante del piumaggio imperlato di gocce luccicanti, in armonia con i colori del fogliame delle piante lacustri disposte con studiata casualità a rendere grazioso quanto era stato concepito per essere inaccessibile e dare un’immagine di forza.
Per un attimo le sembra che uno dei paperi, affaccendati a lisciare e rendere lucido il sontuoso piumaggio, la guardi per poi subito girarsi e allontanarsi agitando il codino nervoso, come disturbato dall’importuna invadenza del suo sguardo. Allora lo solleva verso la schiena di André, che oscilla poco distante avanti a lei, assecondando la groppa di Alexander.
Superando la spessa volta, nota le scalfitture riempite di calce appena visibili, unica memoria dei possenti cardini del vecchio portone, ormai sostituito da tempo dall’elegante cancello in ferro battuto, poi è di nuovo la luce ad avvolgerli all’interno dell’ampio cortile recintato, così accogliente, diversa dall’impietoso sole che hanno lasciato all’esterno.
Mentre percorrono l’ultimo breve tratto a cavallo, torna a guardarsi intorno, lasciando lo sguardo scorrere sulle grandi aiuole dai colori vivaci e sui vialetti coperti di candida ghiaia, che le abbracciano, profilando il muro di cinta alle sue spalle, il sobrio casino del custode e le cucine sulla sinistra, il basso e lungo edificio delle scuderie e i magazzini sulla destra, e le separano, ripartendo rigorosamente in quattro lo spazio racchiuso. Al centro si distendono placide le acque della grande vasca circolare, appena smosse dallo zampillo, che gorgoglia ricadendo dalla bocca di un leone rampante[ii], dietro al quale si staglia l’essenziale ma signorile palazzetto padronale, con le volute della ringhiera dell’ampio balcone al primo piano, unico vezzo a coronare l’ingresso principale.
Riconosce ogni dettaglio, così diverso dalla raffinata eleganza di Palazzo e dallo sfarzo della Reggia in cui ha trascorso quasi ogni giorno negli ultimi cinque anni, eppure ancora così familiare, come se non fosse passato un giorno dall’ultima volta. Le sembra solo ieri che lei e André, prodi vedette a difesa di quel castello, si rincorrevano sconsideratamente per i vialetti impugnando le prime spade da addestramento, che s’intrufolavano di nascosto nel magazzino per ingozzarsi gaufre[iii] trafugati dalle cucine, o ridevano spensierati trascinando i piedi e spruzzandosi, immersi fino alla vita nella fontana mentre Marie intimava a entrambi di smetterla.
Tenendo lo sguardo perso nel luccichio dell’acqua, le sembra che l’immagine di allora si sovrapponga a quella presente. La luce del sole fa risplendere il verde degli occhi di André mentre le sorride, solo che il sorriso aperto di lui bambino sfuma in quello scanzonato e vagamente perplesso di questo momento.
E’ smontato da cavallo, lasciando Alexander ad abbeverarsi, e si è messo a fissarla con un angolo della bocca e un sopracciglio alzati, nell’apparentemente vano tentativo di attirare la sua attenzione.
“…Oscar…”
Ha la sensazione che non sia la prima volta che pronuncia il suo nome da quando si sono fermati, ma è sicuramente la prima volta che lo sente emergere dalla superficie di quel flusso di ricordi.
Sembra riprendere consistenza mentre lo vede avvicinarsi, sempre con la stessa espressione tra il divertito e l’interrogativo, e si rende improvvisamente conto di avere gli occhi socchiusi e le labbra piegate in un sorriso, che deve apparire tanto stupido[iv] quanto immotivato.
Raddrizza la schiena e aggrotta la fronte, cercando di darsi un contegno, come quando si piega la carta in senso contrario nel tentativo di cancellare un’increspatura indesiderata. Lo vede afferrare le redini di Caesar poco sotto il morso e poi offrirsi di aiutarla a smontare porgendole l’altra mano, ma lei scrolla il capo risoluta, a sottolineare l’assurdità di una simile proposta.
Allora ritira la mano e se la porta al fianco senza dire una parola, come in attesa di qualcosa, mentre lei sfila i piedi dalle staffe sbilanciandosi a sinistra. Solleva la gamba di slancio, per scendere veloce e disinvolta, ma il contatto improvviso dei piedi con il terreno le rimbalza alla base della nuca in un dolore sordo. D’un tratto tutto intorno accelera, o forse è lei che è sul punto di cadere, ma non accade, anche se non saprebbe dire se sia per le mani, istintivamente serrate sul cuoio della sella, o per André, improvvisamente vicino, che la sostiene.
“Ehi, attenta!”
Sorride ancora, ma le sembra di cogliere un velo di apprensione nel suo sguardo e nel tono vellutato di quel richiamo.
“Ti senti bene?”
Annuisce, riportandosi in posizione eretta, assicurandosi di essere ben salda sui piedi. Sente il braccio staccarsi dalla sua schiena e la sensazione del contatto affievolirsi lentamente, anche se lui non pare intenzionato ad allontanarsi. Sostiene il suo sguardo mentre schiude le labbra per ripetergli per l’ennesima volta che non c’è proprio nulla di cui debba preoccuparsi, che lei sta benissimo, ma il rumore della ghiaia smossa da passi frettolosi la anticipa, attirando l’attenzione di entrambi.
“Madamigella Oscar, bene arrivata! Vi attendevamo per pranzo e, sinceramente, non vedendovi comparire, cominciavamo a preoccuparci.”
André si è scostato velocemente, tornando a reggere le redini di Caesar e voltandosi verso lo stesso rumore.
È la figura slanciata di Jerome quella che si fa loro incontro a grandi passi, seguito a breve distanza dalla moglie, lungo il vialetto sulla sinistra. Quasi stenta a riconoscerlo nella sua nuova veste, senza la parrucca e la livrea che erano la sua divisa a Palazzo. È appena un anno che non lo vede e certo non è cambiato molto. Probabilmente dipende solo dal fatto che l’ha sempre visto in quel modo.
Jerome è stato l’attendente di suo Padre per ben quattordici anni. Non ha ricordi di chi l’abbia preceduto, se non per qualche frase o commento fatto da sua Madre o da Marie, accennando a come il Generale in precedenza si fosse sempre dimostrato insofferente rispetto all’inadeguatezza dei suoi predecessori, che, pur avendo maggiore esperienza, non erano mai riusciti a mantenere quell’impiego più di qualche mese. Alla fine aveva deciso di reclutare quel ragazzo, poco più che quindicenne e senza nessuna preparazione, reputando che, l’unico modo per ottenere quello che voleva, fosse addestrare il proprio valletto[v] personale esattamente come faceva con i soldati e gli ufficiali a suoi ordini.
Jerome aveva evidentemente imparato bene e in fretta: arrivato a Palazzo pochi mesi prima di André, non ricorda di aver mai sentito suo Padre rivolgergli richiami di alcun rilievo[vi]. Negli ultimi anni sembrava addirittura che fosse capace di prevenire i suoi desideri, senza che lui avesse più neanche bisogno di chiedere[vii].
Quando Monsieur Blanchard aveva espresso la volontà di ritirarsi, perché il ruolo di amministratore della tenuta di Arras si era fatto troppo gravoso per l’età avanzata sua e della moglie, suo Padre non aveva esitato un attimo a offrire quella responsabilità a Jerome.
E’ certamente la persona più indicata per amministrare al meglio i miei interessi. In questi anni ha imparato più di quanto gli serva.” Aveva sentenziato lapidario per poi continuare ”Inoltre si è sposato, è tempo che metta su famiglia e viva la sua vita.
L’aveva stupita non poco che avesse deciso di privarsene. Sia lui che Annette avrebbero potuto continuare a svolgere le loro mansioni a Palazzo[viii], invece il Generale aveva disposto solamente che rimanessero abbastanza da addestrare i loro sostituti. Alla fine il cambiamento era risultato pressoché impercettibile: le cucine di Palazzo avevano continuato a sfornare pietanze più che soddisfacenti e solo i ciuffi rossicci, che a volte si rivelavano sul limitare della parrucca, sembravano suggerire che Mathieu non fosse lo stesso vecchio attendente. Non solo aveva appreso tutto quanto fosse necessario sapere sulle abitudini e le preferenze del padrone, ma anche il suo atteggiamento, come quello di Jerome, non aveva nulla di quell’eccessiva deferenza che tanto infastidiva suo Padre.
Più che il nuovo abito color cioccolato, elegante ma opportunamente sobrio, e i capelli raccolti solo con un nastro sulla nuca, è proprio l’espressione del volto del nuovo amministratore, che stenta a farle riconoscere in lui il vecchio attendente. È aperta e cordiale, sicura e appropriata come sempre, ma le appare ammantata di una fierezza, priva di alcuna boria, che le è del tutto nuova, rendendole naturale, e non solo doveroso, rivolgersi a lui in modo tanto diverso.
“Monsieur Dumont, buonasera.”
Lo saluta con un lieve movimento del capo, cui lui risponde, fermandosi a qualche passo, con un inchino, per poi sollevarsi e rivolgere un muto cordiale cenno ad André, tornando infine a dedicarle tutta la sua attenzione.
“Mi spiace avervi messo in agitazione, ma non ci è stato possibile avvertire. Abbiamo avuto un piccolo incidente con i cavalli, che ci ha imposto una sosta imprevista…” alleggerisce deliberatamente il tono per minimizzare “… dopo di che André, per il suo solito eccesso di zelo, ha insistito perché procedessimo al passo fino alla villa.”
Non ha bisogno di voltarsi a guardarlo per sapere che le sta rivolgendo un’espressione di rimprovero, ma lo fa ugualmente, destinandogli una fugace, quanto esplicita, occhiata, perché non ha alcuna intenzione di discutere ancora di quello che dovrebbe o non dovrebbe fare dopo la sua caduta da cavallo, soprattutto di fronte a Jerome e sua moglie.
“Perdonate se m’intrometto, Madamigella…” è Annette che si è fatta avanti a fianco del marito, c’è una nota d’apprensione nella sua voce, “…confido non sia stato nulla di grave. Vi serve qualcosa? …Volete che faccia chiamare un medico?”
Prima di rivolgersi a lei, l’ha vista attardarsi con lo sguardo sul viso di André. Lo conosce bene, lo ha visto crescere, deve essere riuscita a dedurre dalla sua espressione preoccupata più di quanto lei non abbia desiderato rivelare.
“Vi ringrazio per la premura, ma veramente non serve. Tutto quello di cui ho bisogno è di un po’ di riposo dopo questo lungo viaggio, Madame Dumont.”
Ha cercato di pronunciare quelle parole nel modo più rassicurante possibile, ma per un attimo sembra che s’irrigidisca per poi tornare a rilassarsi. Probabilmente però non è tanto per la sua risposta quanto per l’appellativo, che le ha spontaneamente rivolto. In fondo è la prima volta che la chiama così, nonostante fosse già sposata da tempo quando ancora lavorava a Palazzo. Eppure anche nel suo caso, non crede riuscirebbe più a chiamare Annette quella che inaspettatamente le appare in tutta la sua maturità di giovane donna.
“In questo caso allora…” fa un passo avanti sentendosi richiamata nel ruolo di governante della casa “... la vostra camera è pronta per accogliervi e Florie è stata istruita per essere a vostra disposizione come cameriera personale in questi giorni. Se desiderate andarvi a rinfrescare, provvederò a far sì che vi raggiunga immediatamente in camera.”
“Vi ringrazio molto, mi ritirerò subito.” le fa un cenno di approvazione, per poi continuare a parlare rivolgendo lo sguardo in direzione di André “Credo ci serva proprio un po’ di ristoro prima di cena, con questo caldo.”
“A questo proposito… ”
La voce di Annette sembra esitare, allora annuisce invitandola a proseguire.
“Ecco, vedete, le stanze nella mansarda in questi giorni sono molto afose, per cui essendo la casa vuota, mi sono presa la libertà…”
“Vi prego, dite pure.”
Inarca le sopracciglia, perché non riesce a immaginare cosa possa renderla così nervosa. Anche Monsieur Dumont ora tiene lo sguardo sulla moglie, in evidente attesa che comunichi qualcosa di cui lui deve essere già al corrente.
“… mi sono presa la libertà di far preparare per André la camera in fondo al corridoio al primo piano. Se però lo ritenete poco opportuno…”
Interviene prontamente a frenare quello che si preannuncia un fiume di parole nervose.
“Credo sia la soluzione migliore, non avete ragione di preoccuparvi. Anzi, non posso che ringraziarvi per la vostra premura…” e girandosi verso di lui “… credo che André ve ne sarà molto grato.”
Ricorda bene quanto riuscisse a diventare calda la stanza in soffitta, proprio sopra la sua grande camera al primo piano. Quasi sempre di notte neanche la finestra spalancata riusciva a far entrare un po’ di ristoro e loro due finivano con l’arrampicarsi fuori da quell’asola sul tetto per godersi la brezza e guardare le stelle su una coperta stesa sulle lastre di ardesia ancora tiepide dal giorno.
Si ritrova a sorridergli ricambiata, ma subito distoglie lo sguardo, rivolgendolo a Madame Dumont per rassicurarla definitivamente, vedendola finalmente allentare la stretta delle mani giunte in grembo.
“Beh, forse un po’ mi mancherà la mia piccionaia… ” al solito, il tono di André assume una nota scherzosa “… anche se ormai sono troppo vecchio per andare a dormire sui tetti.”
Quel vago riferimento la fa sentire stranamente a disagio, mentre ad Annette sembra quasi sfuggire una risatina, per poi subito ricomporsi.
“Permettete allora che vi scortiamo in casa, Madamigella.” Monsieur Dumont si fa avanti, indicando la via con un garbato gesto della mano “Potete lasciare i cavalli a Lucien, si occuperà lui di prendersene cura e di farvi avere il bagaglio in camera.”
Istintivamente si volta nella direzione in cui punta lo sguardo di Jerome, trovandosi di fronte un ragazzo dagli occhi scuri e i lunghi capelli castani, dall’apparenza aperta e cordiale, che si piega in un composto inchino salutandola.
“Al vostro servizio, Madamigella.”
Indossa un panciotto di spesso cotone grezzo sulla camicia dalle maniche gualcite e le condizioni degli stivali, in cui sono infilate le brache di fustagno verde scuro, supportano la ragionevole ipotesi che si tratti del nuovo stalliere della villa. È alto quanto André, ma allampanato quel tanto da suggerire che sia decisamente più giovane di quanto non appaia dal viso dai tratti spigolosi e segnato dal sole.
“Vi ringrazio.”
Arretra, scostandosi da Caesar così da consentire ad André di passargli le redini. Anziché assecondarla, però, lui va a recuperare anche quelle di Alexander, per poi farsi incontro a Lucien.
“Se ti aiuto, faremo sicuramente più in fretta…”
Il ragazzo appare sorpreso, mentre riceve dalle sue mani le briglie dello stallone bruno, ma non quelle di Caesar.
“… e poi Caesar ha un caratteraccio…” il tono amichevole di André sembra metterlo subito a suo agio, mentre gli si affianca “… e oggi è anche piuttosto nervoso, sarebbe capace di morderti, non conoscendoti.”
Il cavallo bianco scarta e comincia a scrollare la testa proprio in quel momento, facendo apparire la sua innata irrequietezza quasi un segno di dissenso a quanto si sta dicendo di lui, ma subito torna calmo non appena la mano di André si accosta decisa e gentile a carezzare il muso.
Rimane per un attimo come incantata a fissare il movimento ritmico delle dita sul naso del cavallo ormai tranquillo, ma subito si riscuote girandosi in favore di Monsieur Dumont, proteso in attesa verso l’ingresso della villa. Ricambia velocemente il sorriso cortese e dà il suo assenso ad avviarsi. Le sembra di scorgere con la coda dell’occhio Annette fare un qualche cenno in direzione di André, ma è solo un attimo perché subito le si affianca. L’espressione dolce e composta, le mani giunte in grembo, cammina mezzo passo dietro a lei e al marito, con passo leggero, senza fare rumore, mentre quello che sente è solo il macinare della ghiaia sotto gli zoccoli e gli stivali, che si allontanano verso le scuderie, frammisto al tono di una conversazione amichevole non più intellegibile.
 
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Appena poggia il piede oltre la soglia, sente la pietra levigata risuonare sotto i tacchi dei suoi stivali e la frescura familiare del grande atrio ad accoglierla. La calura esterna sembra non riuscire a espugnare le spesse pareti, nonostante le ampie finestre facciano entrare la luce in fasci squadrati, proiettando rigide geometrie sul pavimento, la cui superficie levigata, più dal tempo che dalla mano dell’uomo, è quasi totalmente coperta dai grandi tappeti, che riprendono nei colori le scene venatorie degli arazzi alle pareti.
Si fermano dopo qualche passo, raggiunto il centro della lunga passatoia che conduce allo scalone aggrappato alla parete sinistra.
“Madamigella,” la voce di Jerome la richiama, mentre piega il capo preannunciando il suo commiato, “lascio che sia mia Moglie a scortarvi nella vostra stanza.”
Secondo una coreografia nota, Annette fa un passo avanti, pronta a precederla su per le scale che conducono al primo piano.
“Vi ringrazio,” lo saluta adeguandosi alla forma, ma subito aggiungendo “avrei però necessità di parlarvi…”
La frase sembra sorprenderlo.
“Naturalmente, sono a vostra disposizione…” o forse è un velo di agitazione quello che traspare dal contegno impeccabile “… avete forse un messaggio di vostro Padre?”
 “No, nessun messaggio da parte del Generale…” scrolla prontamente il capo, per dissipare quell’ombra, che coglie impreparata anche lei, e riprende con tono calmo “… desidererei solo avere da voi alcune informazioni… un aggiornamento. È da molto tempo che sono assente.”
“Come desiderate, appena vi sarete rinfrescata, potrete trovarmi nello studio in fondo al corridoio dell’ala sud. Devo finire di aggiornare alcuni registri.”
“A più tardi allora.”
Risponde con un cenno al suo inchino e lo osserva girarsi e poi allontanarsi con passo sicuro imboccando la galleria sud, fino a quando è la voce di Annette a richiamarla.
“Scusate, Madamigella, se volete seguirmi…”
Lascia che la preceda di un gradino, salendo in silenzio vicino all’ordinata fila di colonnini in pietra della balaustra. Osserva le sue dita, che sfiorano senza gravare sul corrimano con grazia, la figura minuta racchiusa nell’abito, il cui blu pavone accentua il candore della pelle, che affiora dalle maniche poco sotto al gomito e dal fichu di mussola ricamata, adagiato sulle spalle lasciate altrimenti scoperte dal rigido corpino.
Nel silenzio rotto solo dal rumore delle suole dei suoi stivali e dal frusciare della gonna vaporosa, si trova a considerare quanto sconosciuta le appaia ora la giovane Madame Dumont, pur avendo fatto parte del personale di Palazzo da quando era una bambina. Non ha però tempo di attardarsi a considerare quei pensieri, perché la sente riprendere a parlare.
“Confido che le condizioni della casa soddisfino le vostre aspettative, Madamigella.”
Le si affianca appena raggiungono il pianerottolo e svoltano sulla destra lungo il corridoio dell’ala nord, per raggiungere la sua stanza, speculare per posizione, anche se non per dimensioni, a quella del Padre nell’ala sud.
“La casa non riceve i Padroni da diversi anni, ma Madame Blanchard ha provveduto a mantenere tutto in ordine e io ho cercato di rispettare le sue indicazioni.”
Percorrono la breve distanza lungo il corridoio, attraversando i riquadri di luce proiettati dalle finestre sulla sinistra, fino a raggiungere la prima robusta porta di solido legno di fronte alla quale si fermano.
Mentre Annette abbassa la maniglia per spalancare l’anta e cederle il passo, le risponde.
“Mi pare non avreste potuto fare di meglio…” avanza verso il centro della stanza prima di continuare, facendo scorrere lo sguardo intorno, sul massiccio letto a colonne poggiato sulla sinistra, ricolmo di candidi cuscini, sul piccolo scrittoio-secreteire a fianco della grande finestra, sul camino di pietra occupato dall’alare in ottone, sulle massicce sedie di legno e cuoio di fronte, sorride appena “… è come se non fosse trascorso neanche un giorno dall’ultima volta che sono stata qui.”
“Mi fa molto piacere sentirvelo dire…”
Si gira di mala voglia per tornare a rivolgerle la debita attenzione, mentre le parla ferma appena oltre la soglia.
“… ho provveduto a ordinare alcune camice e della biancheria nuova per il vostro arrivo, supponendo che avreste viaggiato con poco bagaglio, venendo a cavallo. Se non avete altri ordini, vi chiederei il permesso di ritirarmi. Provvederò immediatamente a far salire Florie per assistervi.”
“Vi ringrazio.”
Non servono altre parole, neanche un movimento del capo, perché la veda flettersi in una composta riverenza e allontanarsi richiudendo la porta.
Comincia ad allentare alla gola il morbido nodo della sciarpa di seta e a slacciare il gilet, tornando con lo sguardo a vagare sugli oggetti che la circondano e la riportano a tanti sereni ricordi di un passato che non le pare poi così lontano.
Ha improvvisamente la sensazione che sia esattamente per questo, che aveva scritto quella lettera appena giunta nelle sue stanze, dopo aver lasciato André sul prato dietro al Palazzo. L’aveva consegnata nelle mani di un’assonnata Colette, disponendo che venisse spedita ad Arras con urgenza la mattina seguente. Poi si era coricata e aveva dormito di un sonno profondo e sereno in attesa del duello.
Era certa che, se fosse sopravvissuta allo scontro e all’ira vendicativa del suo avversario, avrebbe comunque dovuto abbandonare il suo incarico alla Reggia. Probabilmente era già rassegnata, per questo non aveva provato nulla, né vedendo Maria Antonietta accorrere in suo soccorso, né sentendola graziarla, nonostante il tono severo, con appena un mese di consegna.
Era rimasta in silenzio, chinando il capo davanti alla sua Regina, poi per tutto il tragitto verso casa e a Palazzo, dove André si era finalmente sentito libero di esternare tutto il suo dissenso per la punizione comminatale.
Vedendolo divorare il pavimento della cucina a grandi passi, sbraitando e sbracciandosi, sotto gli occhi attoniti di sua nonna e accompagnato dai suoi rimproveri e dalle sue lamentele, si era sorpresa a sorridere, considerando che la ragione di tanta furia era paradossalmente la stessa che aveva indotto Maria Antonietta a condannarla a una pena che lei riteneva tanto lieve, violando per l’ennesima volta tutte le regole, di cui avrebbe dovuto essere la custode.
Era rimasta ad assistere per qualche minuto alle drammatiche esternazioni di Marie e alle sue invettive contro il povero André, a suo dire unico responsabile di questa tragedia, che faceva sentire lei così stranamente leggera, poi d’un tratto l’aveva interrotta, chiedendole senza troppi preamboli di preparare i bagagli, perché il mattino seguente sarebbero partiti per Arras.
Aveva ascoltato appena le sue accorate obiezioni sulla pericolosità di disattendere all’ordine di consegna della Regina, sul dovere d’informare il Generale dell’accaduto, sulla necessità di avvertire alla villa perché potessero organizzare la dovuta accoglienza. Aveva colto prontamente l’opportunità di ribattere, girandosi solo un attimo a metà della rampa di scale per affermare risoluta che aveva già provveduto a inviare un messaggio, per poi subito girarsi e dirigersi verso le sue stanze senza essere seguita.
L’aveva lasciata senza parole, povera Marie. L’avevano fatta sorridere i suoi timori sulla possibilità che mandassero qualcuno dalla Reggia a verificare che rispettasse il suo mese di consegna, ma quando aveva nominato suo Padre era stata assalita dall’impulso di allontanarsi.
La sera precedente aveva deciso, si era preparata ad affrontare le conseguenze del gesto che stava per compiere. In fondo anche il suo augusto genitore avrebbe chinato il capo di fronte alla revoca del suo incarico come conseguenza di un vincolo d’onore. La sua partenza per Arras sarebbe servita a mitigare lo scandalo, manifestando a tutti la sua obbedienza alla casa Reale e il doveroso allontanamento dalla vita di Corte come massimo segno dell’accettazione di una giusta punizione.
Inaspettatamente però, la somma clemenza della sua Regina aveva trasformato quello, che doveva essere un esilio necessario a difendere il buon nome dei de Jarjayes, in un’indebita infrazione della consegna imposta. Era una fortuna che il Generale fosse dovuto partire quella mattina, come spesso accadeva per ragioni di servizio, perché certo non avrebbe considerato accettabile una simile libertà, anche se nessuno fosse mai venuto a saperlo. Ne era sicura.
Anche lei avvertiva il vincolo di un ordine, ma, da quando aveva preso quella decisione la sera precedente, era come se già si sentisse lontana. Era però altrettanto cosciente che un confronto con suo Padre avrebbe finito col riportarla alla realtà dell’onere delle sue responsabilità, della fedeltà alla Casa Reale e alla Famiglia, facendola tornare sui suoi passi.
Era stata una notte agitata, aveva faticato a prendere sonno e si era svegliata spesso, tanto che aprendo gli occhi all’alba aveva sentito le membra e la testa appesantite da una spossatezza tale da renderle gravosi anche i gesti più semplici. Poi però, via via che la sagoma del Palazzo si faceva più piccola, fino a scomparire dietro la linea dell’orizzonte alle loro spalle, quel peso si era affievolito lasciando gradualmente il posto a un’inusuale euforia.
Anche l’iniziale sorpresa di André per quel viaggio inatteso e gli ultimi strascichi delle sue lamentele erano velocemente sfumati nell’entusiasmo. Dietro ad ogni curva lungo il tragitto avevano ritrovato luoghi e ricordi che entrambi credevano ormai perduti, ancora così familiari, eppure completamente nuovi. Per la prima volta si trovavano a percorrere quelle strade senza il seguito delle carrozze cariche di bagagli e servitù per la villeggiatura.
Seduta al tavolo della locanda nei pressi di Chantilly, dove si erano fermati per mangiare qualcosa e concedere un po’ di ristoro ai cavalli nelle ore più calde del primo giorno di viaggio, si era trovata a pensare come le sembrasse già distante la stanca quotidianità di quella, che solo fino a poco più di un giorno prima era stata la sua vita a Versailles. Poi André aveva sollevato gli occhi dal piatto di carne fredda e formaggio, incrociando il suo sguardo con una strana espressione tra l’interrogativo e l’imbarazzato, e a lei era venuto da ridere senza riuscire a rispondere nulla, perché non sapeva come spiegargli che era rimasta incantata a fissarlo mentre divorava quel pasto frugale con la stessa entusiastica voracità di quando era bambino.
Cuvilly, Roye, Liancour-Fosse, Peronne… ogni tappa, ogni sosta per concedersi un po’ di riposo all’ombra di un albero ammirando il paesaggio, ogni parola scambiata sugli argomenti più disparati in quei giorni di viaggio[ix] avevano contribuito ad alimentare la sensazione che quello fosse un percorso a ritroso verso un tempo più spensierato, prima delle scelte, prima della vita a Corte, tanto che, quando, mollemente seduta sul prato durante una sosta per far abbeverare i cavalli, si era vista venire incontro Monsieur Sugane con la zappa sulla spalla, aveva veramente creduto di essere tornata al passato o forse semplicemente di sognare.
Era stata la voce di André, scattato in piedi per andargli incontro e salutarlo, a riscuoterla da quell’illusione. Li aveva raggiunti, il saluto dell’uomo era stato la conferma, che fosse lì in carne ed ossa, e il rivelarsi del piccolo Gilbert da dietro il nascondiglio delle gambe paterne la riprova degli anni trascorsi.
Lo aveva riconosciuto subito, nonostante non fosse più un bimbetto a malapena stabile sulle gambe, che dispensava grandi sorrisi a tutti. Si era chinata per salutarlo, come per permettergli di leggere nei suoi occhi il piacere di ritrovarlo così cresciuto, ma lo aveva visto solo aggrottare la fronte e tornare a nascondersi diffidente dietro il rifugio paterno. Poi Sugane si era educatamente ma sbrigativamente congedato, proseguendo subito per la sua strada.
“Non capisco… non gli ha fatto piacere vedermi...”
Lo aveva detto quasi a se stessa mentre lo osservava allontanarsi con il bambino stretto per mano, proiettando a fianco ombre lunghe e tremanti sulla superficie scabra della terra battuta. In lontananza le era parso stranamente scuro, magro e curvo, quasi solo un’ombra lui stesso nella luce densa.
Imputando il comportamento schivo alla timidezza del bambino e alla stanchezza per una lunga giornata di lavoro nei campi per il padre, quella nuvola di perplessità condivisa, che aveva per un attimo offuscato la loro spensieratezza, si era velocemente dileguata.
André era ansioso di raggiungere la locanda di Monsieur Alaste, dove avevano programmato di cenare e passare la notte. Mancavano poche miglia[x] alla villa e spronando i cavalli probabilmente sarebbero riusciti a giungere a destinazione poco dopo il tramonto, ma aveva accettato di buon grado quella piccola deviazione. Anche lei aveva voglia di tornare ad assaporare le pietanze semplici e gustose della cucina di Alaste, che difficilmente sarebbero state servite alla tavola della nobile magione, ma, soprattutto, parte del piacere del mangiare in quel luogo era sempre stata l’espressione di compiacimento sul volto di André, inscindibile, nei suoi ricordi, dal gusto della Carbonnade Flammande[xi], della quale lui aveva cominciato a fantasticare appena usciti da Parigi.
Non avevano particolari scadenze da rispettare e alla villa non li avrebbero attesi prima della mattinata del giorno successivo in base al programma comunicato nel suo messaggio, che non aveva fatto troppo conto sulle buone condizioni in cui avevano trovato le strade grazie al bel tempo. La locanda non doveva essere altro che il recupero di un altro piacevole ricordo.
 
Sfila dalle spalle la giacca insieme al gilet e li sistema con cura sull’alto schienale di una delle poltrone davanti al camino. Lascia che le dita si attardino sulla superficie liscia del broccato carminio, lungo il profilo rigido dei ricami dorati, poi le scosta di scatto infastidita.
Si gira avanzando spedita verso la luce della grande finestra, e di nuovo rallenta, poggia la fronte contro la lastra trasparente, tiepida e liscia, aggrappa la punta delle dita alla piombatura del vetro, lasciando che lo sguardo fugga all’esterno.
Dall’alto torna a percorrere velocemente i profili del grande cortile recintato, vaga sulle aiuole variopinte, la fontana luccicante, i vialetti candidi senza una meta precisa, fino a quando dal vano scuro di uno degli archi d’accesso alla scuderia non vede emergere André. Tiene lo sguardo rivolto all’indietro, ancora sprofondato nell’ombra prima di girarsi, dirigendosi a lunghi passi verso il centro dello spiazzo.
Lo vede spostare entrambe le sacche di cuoio sulla mano sinistra e alzare il braccio libero accelerando. Segue la linea invisibile del suo sguardo, per identificare il destinatario di quel caloroso saluto e a poca distanza riconosce la figurina blu pavone, che gli sta andando incontro, seguita da quella che suppone essere una cameriera, fasciata nella divisa blu scuro con cuffietta della casa.
Li osserva raccogliersi in prossimità della fontana, ma la sconosciuta, quasi subito, si allontana, dirigendosi verso la casa appena ricevuto dalle mani di André il bagaglio e il lungo fascio di stoffa a tracolla, in cui erano state cinte le loro spade per il viaggio[xii]. Si trova a considerare con vaga sorpresa la disinvoltura con cui la piccola cameriera si è fatta carico di tutto quel peso, ma è solo un pensiero fugace, perché subito torna a rivolgere la sua attenzione alle figure rimaste vicine in prossimità della grande vasca.
Riesce a percepire il calore del sorriso rivolto ad Annette e più in particolare al frugoletto dai ricci biondi avvolto in una vaporosa vestina a balze, che accoglie dalle braccia della giovane madre.
Spalanca gli occhi e sente il respiro fermarsi per un attimo: come ha potuto dimenticarsene? Sa che sua Madre non ha certo mancato di inviare un presente e suo Padre una lettera di felicitazioni per la nascita della prima figlia di Monsieur Dumont, nuovo responsabile della tenuta e fedele servitore per anni, lei invece non si è neanche ricordata di rivolgere una frase di cortesia incontrandoli. Eppure André le aveva detto che era nata una bambina un paio di mesi dopo il loro trasferimento.
Si scosta dalla luce e torna a osservare la camera in ombra. È strano come la rassicuri ritrovare ogni più piccolo oggetto esattamente dove si aspetta, pur dopo tanto tempo. Persino la bottiglia, sormontata dal piccolo bicchiere di cristallo, è la stessa di quando aveva dieci anni ed è posizionata nell’angolo del comodino più prossimo al letto, colma di acqua limpida così da prevenire un suo eventuale desiderio.
Scrolla la testa superando il letto e raggiunge il lavabo parzialmente celato nell’angolo dietro il paravento di legno intarsiato. Si piega a sollevare la brocca e riempie per metà il bacile prima di risistemarla nel suo vano. Affonda le mani nell’acqua fresca e se la porta al volto, una volta e un’altra, poi si solleva fissando le piccole gocce che scivolano via dal suo viso riflesso nello specchio incorniciato d’ebano.
In fondo, se veramente avesse insistito per proseguire fino alla villa la sera precedente, avrebbe continuato a crogiolarsi nella convinzione, che lontano dalla Reggia tutto fosse rimasto cristallizzato nella perfezione dei suoi ricordi infantili.
 
Il sole sfiorava la linea dell’orizzonte quando erano arrivati alla locanda, tingendo di sfumature quasi innaturali il basso edificio che non appariva minimamente cambiato. La solida facciata era sempre coperta di calce e attraversata da vecchie travi di legno scurito dal tempo come il basso portoncino. A differenza dell’ultima volta che erano stati lì, André era stato costretto ad abbassare leggermente il capo per varcare la soglia, ma all’interno la sala quadrata, sparsa di semplici tavoli e sedie intorno al focolare centrale, era sempre la stessa, come l’espressione aperta e cordiale sul largo volto del locandiere. Era andato loro incontro rivolgendogli un caloroso saluto, che non aveva mancato d’intessere con qualche riferimento personale. Si era congratulato per la sua nomina a colonnello, apparendo lui stesso compiaciuto del supposto orgoglio del Generale suo Padre per un simile risultato. Tutti particolari che erano serviti a infondere all’atmosfera un che di rilassato e familiare, intrecciando il presente con il passato, tanto che probabilmente non lo avrebbe neanche notato quel giovane, seduto in ombra a un tavolo d’angolo, se non avesse distolto da loro l’attenzione di Alaste, chiedendo ad alta voce un altro boccale[xiii].
Le era parso stranamente familiare, ma aveva esitato, come se stentasse a credere di poter trovare in quel luogo un brandello della sua vita a Parigi. Si era avvicinata presentandosi, quasi a cercare conferma che si trattasse veramente dello studente di legge, visto pronunciare il discorso in occasione dell’Incoronazione del Re presso la Scuola Luis le Grand poco più di un mese prima.
“Avete ragione, mi chiamo Maximilien Robespierre. Anche io mi ricordo di voi…”
Aveva riconosciuto immediatamente il tono di voce, che tanto l’aveva colpita assistendo all’esibizione oratoria a Parigi, nonostante le parole successive si fossero banalmente soffermate sulla sorpresa di trovare una bella donna tra le file della guardia reale.
Nella scontata cortesia di quella conversazione, le era venuto naturale supporre che anche lui si trovasse lì per un periodo di riposo. Solo allora si era resa conto del perché non lo avesse riconosciuto subito, non tanto per il contesto inconsueto, ma per la durezza sconosciuta nel suo sguardo tracimata poi nelle parole, che le aveva scagliato contro, quasi prima si fosse sforzato di trattenerle.
Mentre le raccontava orgoglioso della sua battaglia in difesa dei contadini della zona, alla mercé di un clero intenzionato a derubarli anche dei loro pochi diritti sulla terra, era rimasta in silenzio, incredula. Ma sentendolo poi esprimere tutto il disprezzo per la debolezza del Re e l’irresponsabile egoismo della Regina, colpevoli delle aspettative disattese, la rabbia aveva prevalso sull’iniziale sconcerto ed era scattata in piedi, con il rumore secco della sedia precipitata a terra a fare da contrappunto.
Quasi fosse veramente sorpreso di averla in qualche modo offesa, si era scusato, prevenendo le sue parole. Aveva pagato il dovuto in un silenzio teso, infine, fermo nel riquadro della porta, le si era nuovamente rivolto, questa volta con voce calma, come a cercare di presentare un argomento difficile a qualcuno che si sia dimostrato impreparato ad affrontarlo.
“Tenete bene a mente queste parole, vi assicuro che io salverò questa Francia che sta morendo, ma che io ancora amo con tutto me stesso.”
Senza poter controbattere, non le era rimasto che rifugiarsi nel conforto delle rassicurazioni prontamente dispensate da Monsieur Alaste, che, però, aveva finito col confermare e ribadire la sostanza di quelle accuse amare, pur condannandone la forma, quando André aveva finalmente rotto il suo silenzio, chiedendo spiegazioni.
Nonostante le parole e il tono dolente, quasi rassegnato, del vecchio locandiere, la rabbia aveva finito col scemare, come se il quadro dipinto da Robespierre non potesse realmente appartenere a quel luogo. Quando si erano messi a tavola, si era lasciata trasportare dalle chiacchiere allegre, dalle risate e dagli aneddoti della loro infanzia, che Monsieur Alaste aveva regalato, ripulendo i folti baffi dalla densa schiuma della birra tra un sorso e l’altro con un gesto familiare, seduto con loro in assenza di altri avventori. Avevano mangiato di gusto, sicuramente più del dovuto, e la conversazione aveva finito col languire sorseggiando un bicchierino di troppo di Genièvre[xiv].
Quando si erano ritirati nelle solite stanze attigue al piano superiore, era talmente esausta da considerare di mettersi a letto completamente vestita. Aveva speso quelle, che sembravano essere le ultime forze, per sfilare stivali, calze e brache, e si era coricata con solo la camicia, lasciando finalmente cadere la testa pesante sul cuscino. Stranamente però non era riuscita ad addormentarsi subito, si era rigirata più volte nella leggera ruvidezza delle lenzuola profumate di bucato, lo sguardo perso nelle ombre scure proiettate dal semplice mobilio alla luce della luna, che entrava dalla piccola finestra spalancata. Forse era stato il canto insistente dei grilli o più probabilmente il troppo cibo e il troppo alcool a renderle tanto difficile abbandonarsi al sonno e a renderlo poi così agitato. Si era svegliata ripetutamente, tormenta da sogni dei quali non ricordava alcun dettaglio, ma che la lasciavano preda di uno sgradevole senso di oppressione, incapace di distinguere la realtà tra la veglia e il sonno.
Per l’ennesima volta aveva schiuso gli occhi nell’oscurità della stanza fattasi inaspettatamente densa. Si era trascinata a sedere sul letto. Il contatto con la superficie irregolare del legno sotto le piante dei piedi nude le aveva restituito un po’ di consistenza, allora si era alzata, infilandosi gli abiti alla cieca con gesti sconnessi, dirigendosi verso la porta dalla quale vedeva filtrare una flebile lama di luce, attirata da quelle che le sembravano voci, non intellegibili, soffocate e concitate al tempo stesso.
Aveva trovato André sullo stretto ballatoio appena varcata la soglia. Si era girato solo un attimo verso di lei, ma non era riuscita e distinguere i tratti del viso inondato d’ombra, alla luce tremula della lampada a olio che reggeva tra le mani. Si era limita ad affiancare il suo sguardo, immerso nel pozzo buio e stretto delle scale, dal cui fondo emergeva quel vociare ancora indistinto, ma sempre più impregnato d’angoscia.
Lo aveva seguito un gradino dopo l’altro, avvolta nella sua bolla di luce. Si era sorpresa a considerare come l’oscurità riuscisse a far sembrare irreale quello che solo qualche ora prima si era compiaciuta di ritrovare familiare dopo tanto tempo.
Conosciuti e al tempo stesso estranei, come a volte accade nei sogni, le erano sembrati anche i volti dei due uomini, trovati a discutere animatamente da basso sul limitare della soglia schiusa. Forse per la flebile luce del moccolo tenuto distrattamente in mano, forse per le espressioni di rabbia e disperazione, i tratti noti di Alaste e Sugane erano parsi distorti, quasi delle maschere, come in un incubo.
A un certo punto, aveva veramente confidato che si trattasse solamente un brutto sogno. Poi però, a poco a poco, la luce rosata aveva sostituito i primi bagliori metallici dell’alba, dissipando definitivamente l’oscurità. Le venature delle assi di legno si erano fatte più definite davanti ai suoi occhi fissi sul pavimento. Come se si risvegliasse in quel momento, si era chiesta da quanto fosse seduta su quella panca, le dita tra i capelli, il capo tra le mani, i gomiti pesantemente poggiati sulle ginocchia.
Sollevandosi aveva rivolto gli occhi alla sua destra, oltre il vetro della finestra, come se le servisse assistere al consueto mutare dei colori del cielo per riprendere contatto con l’inesorabile scorrere del tempo. Allora, lentamente lo guardo era tornato all’interno, scorrendo sul metallo dell’infisso, l’intonaco grigiastro sulla parete… si era soffermata solo un attimo a osservare una piccola crepa, prima di proseguire profilando la porta scura e solida di fronte a lei. Ci si era attardata, scorrendone le modanature semplici, i cardini e la maniglia di ottone annerito, come per accertarsi che fosse reale, e ancora solidamente chiusa, come era rimasta nelle ultime ore.
Alla fine, quasi rassegnata, si era girata a sinistra, scandendo la spaziatura regolare delle porte lungo il corridoio al secondo piano del Hôpital Saint-Jean-en-l'Estrée. Nonostante la sua attenta disamina, nulla aveva supportato la speranza che quello fosse solo un incubo. Alla luce del giorno tutto appariva nella sua cruda banale consistenza e lei non si sarebbe svegliata sollevata nel suo letto alla locanda, perché stava veramente aspettando che qualcuno aprisse quella porta per dirle se il piccolo Gilbert sarebbe sopravvissuto.
Era stata di nuovo travolta dal medesimo senso d’impotenza della notte, quando si era inaspettatamente trovata ad assistere incredula al dramma di un padre, condannato da una vita di stenti a dover scegliere tra la sopravvivenza di un figlio malato o del resto della sua famiglia, alla perdita dell’innocenza di un bambino, capace di trovare la forza per consolare quel padre nonostante la febbre.
Sopraffatta, non era riuscita a fare di meglio che alzare la voce, supportando le esortazioni di Alaste alla locanda prima e poi battendo i pugni sul tavolaccio grezzo, che costituiva quasi tutto il mobilio nella piccola casa di Sugane. Non aveva saputo cos’altro fare davanti alla disperazione e all’impotenza, come se le sue parole da sole potessero dare al povero contadino la possibilità di pagare un medico per curare il figlio minore gravemente malato senza togliere il pane di bocca al resto della famiglia. Aveva sentito il bisogno di gridare, poi aveva ceduto alla necessità di agire, non potendo sopportare neanche il pensiero della tragedia cui stava assistendo. Aveva chiesto ad André di preparare i cavalli, preso tra le braccia il bambino e si era lanciata al galoppo verso Arras. Poi era stata solo ansia, agitazione, e attesa, perché l’unica speranza era che il piccolo riuscisse a superare la notte.
Aveva riportato lo sguardo vicino, soffermandosi sulle ciglia di André chiuse a coprire gli occhi. Non stava dormendo, lo capiva dal tono del viso, dalla leggera tensione nelle labbra, dal corrugarsi della fronte appena visibile sotto la massa di ricci scuri scomposti. Era semplicemente lì al suo fianco, il capo e le spalle appoggiati alla parete e le braccia incrociate sul petto, con gli occhi chiusi, come aveva cercato ti fare lei per non vedere.
Poi uno scrocchio aveva annunciato l’aprirsi della porta e lei aveva visto il verde riemergere dal nascondiglio delle palpebre, prima di voltarsi ad assistere allo spettacolo di Monsieur Sugane, che andava loro incontro con gli occhi inondati di lacrime e gioia, perché Gilbert si era svegliato, sarebbe sopravvissuto.
Erano balzati in piedi, sollevati e inaspettatamente euforici, poi però non era rimasto altro che lasciare la famiglia a una felicità che non era la loro. Si era sentita a disagio nell’accogliere i ringraziamenti commossi, trattenendosi il minimo imposto dalla cortesia prima di congedarsi.
Aveva osservato, come non faceva mai, il denaro passare dalle mani di André a quelle di una suora, per le cure e per qualunque cosa fosse stata necessaria, molto più di quello dovuto, un’inezia per lei.
Si era improvvisamente sentita piombare addosso tutta la stanchezza di quella notte insonne, aveva necessità di prendere aria. Era corsa fuori e, montata a cavallo, lo aveva spronato al galoppo e continuato a incalzarlo, come se il vento che le sferzava il viso potesse spazzare via l’angoscia che le opprimeva il petto, il senso d’impotenza e la vergogna, per essere stata tanto debole da rifugiarsi di una realtà che non era più, ammesso che fosse mai stata.
Come se stesse fuggendo, aveva lanciato lo sguardo oltre la linea dell’orizzonte, scorgendo appena il grigio dei palazzi in pietra diradarsi e sfumare nel profilo dolce delle colline tinte di verde e oro, seguita dall’incalzare noto di zoccoli. Aveva stretto le ginocchia e strattonato le redini più volte, per mantenere il controllo dell’andatura di un irrequieto Caesar. Poi aveva visto la linea della strada piegare morbidamente sulla destra, in mezzo all’erba appena smossa dalla brezza mattutina. Tirando la briglia per guidare il percorso, le era parso che la seguisse docilmente, ma a metà della curva lo aveva inaspettatamente sentito scartare di lato e sgroppare. Sbalzata in aria, il respiro si era bloccato in gola, poi lo schianto sordo aveva spinto a forza l’aria fuori dai polmoni, il dolore atteso l’aveva trafitta, ma era stato solo un attimo perché subito l’aveva soccorsa un accogliente oblio.
Aveva spalancato gli occhi ed era scattata a sedere, scossa da un grido, il suono disperato di una voce che chiamava il suo il suo nome.
“L’hai sentita anche tu!” era riuscita a dire quasi senza fiato, girando la testa velocemente da un lato all’altro, angosciata.
“Cosa, Oscar? Io non ho sentito niente…”
Lo sguardo preoccupato e dubbioso negli occhi di André, inaspettatamente seduto al suo fianco, l’aveva lasciata interdetta. Era così sicura di aver sentito quel lamento, ma la testa aveva preso a girare e quel dolore sordo alla base del collo a pulsare, allora si era convinta che fosse stato solo uno scherzo della sua mente, o forse un ricordo riemerso da chissà dove.
Si era portata la mano alla nuca e guardandosi attorno. Erano seduti sulla morbidezza del prato, all’ombra di un albero, i cavalli pascolavano tranquilli poco distanti e il sole fattosi basso in cielo le aveva rivelato le ore trascorse. Doveva averla portata lì lui, e poi l’aveva vegliata, lasciandola riposare.
“Come ti senti?”
Le era parso esitante e apprensivo, allora si era alzata in piedi velocemente, rispondendo secca “Benissimo.”
Era quasi sicura non si fosse accorto che aveva dovuto aggrapparsi al tronco, per evitare di cadere.
“Andiamo, si è fatto tardi.”
Si era allontanata verso i cavalli senza tornare a guardarlo, ostentando sicurezza.
Avevano ripreso la strada al passo, André non aveva alimentato discussioni, ma si era dimostrato irremovibile e lei non aveva insistito. L’andatura tranquilla le consentiva d’immergersi nuovamente nelle linee morbide e i colori accoglienti di quel paesaggio sempre familiare, che però, anziché rasserenarla, ora la faceva sentire nostalgica e vagamente ansiosa, perché, per la prima volta, nella sua apparente perfezione, ne notava una sfumatura scabra.
 
Passa per un’ultima volta il telo di lino a detergere il collo, prima di riappenderlo al gancio del lavabo con un gesto nervoso. Si gira di scatto e avanza di qualche passo distratto, mentre sfila la camicia dalle brache tenendo lo sguardo perso in un angolo indefinito del focolare.
Come ha potuto essere tanto sciocca e cieca? Eppure in quegli anni ha avuto modo di vedere con i suoi occhi come si viva a Parigi non appena ci si allontana dalle strade eleganti tra i giardini des Tuileries e l’Hotel de Villes. L’ha quasi potuta toccare con mano la disperazione della povera gente: la ragazzina cui aveva fatto l’elemosina l’anno prima subito fuori dalla casa di Fersen, il bambino… il piccolo Pier, ucciso dal Duca per aver rubato qualche moneta per fame, e solo qualche mese prima la città era stata travolta dalla sommossa per l’aumento del prezzo del pane, dopo che per mesi le richieste d’intervento inviate alla Reggia dalle province più lontane erano state ignorate in base all’ottimistica aspettativa, che le proteste avrebbero finito con lo spegnersi, secondo il supposto ordine naturale delle cose. Al tempo aveva giudicato superficiale un simile atteggiamento, ma, a quanto pare, lei non si è rivelata molto diversa da chi aveva, almeno in teoria, tanto criticato.
Il bussare deciso di nocche sul legno la richiama.
“Madamigella, è permesso?”
La voce le giunge squillante, per nulla attutita dal legno spesso della porta, tanto che voltandosi per metterla a fuoco si sorprende di trovarla ancora chiusa.
“Avanti.”
Si trova a osservare quella, che l’uniforme le suggerisce essere la sua nuova cameriera, mentre si piega in una composta riverenza, dopo aver richiuso l’anta alle sue spalle. È una ragazzina, piuttosto piccola di statura e certo guardandola non ci si aspetterebbe, che sia dotata di una voce, che poco ha da invidiare a una soprano dell’Académie Royale de Musique!
“Madamigella, il mio nome è Florie, per servirvi.”
Il sorriso che le rivolge sollevando infine il capo, la sorprende, costringendola a considerare quanto poco abbia del composto e distaccato garbo, che ha sempre considerato proprio della servitù a Palazzo e alla Reggia. È così aperto, sincero e solare da diradare l’oscurità dei suoi pensieri e non riesce proprio a evitare di sorridere a sua volta rispondendo.
“Piacere di fare la tua conoscenza, Florie.”
Quelle poche parole di circostanza sembrano riuscire a rendere l’espressione della piccola ancora più allegra, oserebbe dire soddisfatta, se non addirittura compiaciuta.
La vede strizzare gli occhietti luminosi, mentre sulle guance, rosee e leggermente spruzzate di efelidi, fanno la loro comparsa due graziose fossette. Deve avere almeno quindici anni, ma sarà per la piccola statura o per il viso rotondetto, incorniciato dalla candida cuffietta dalla quale sfugge qualche riccio color rame, le pare una bambina, nonostante l’evidente morbidezza del seno, che sembra fiorito di recente all’interno di un corpino troppo stretto, probabilmente indurrebbe molti a considerarla già una donna.
Il silenzio si protrae un attimo più del dovuto, come se Florie non sapesse come procedere. Schiude le labbra per pronunciare una frase di circostanza, che possa sbloccare quell’attimo d’impasse, ma subito la vede spalancare gli occhi riscuotendosi, mentre porta in avanti le mani, a mostrare quello che fino a un attimo prima era rimasto parzialmente celato tra le pieghe delle gonne.
“Ho portato il vostro bagaglio!”
Riconosce la sacca di cuoio rimasta legata alla sella di André a fare da contrappeso alla sua gemella durante tutto il viaggio.
“Ho lasciato il resto nella stanza di Monsieur André, come lui mi ha ordinato.”
L’idea di André, che ordina qualcosa anziché chiederlo con garbo, le fa sgranare leggermente gli occhi, ma non vi si sofferma, perché subito provvede a impartire una disposizione, che consenta alla piccola di evitare un altro immobile imbarazzo.
“Hai fatto bene, Florie, puoi sistemare tutto nella cassettiera vicino al paravento.”
Accompagna la voce calma con un lieve cenno della mano, che gli occhi della ragazzina seguono, così come fa il resto del corpo dopo aver annuito con decisione.
La segue con lo sguardo fino a destinazione, come per accertarsi che non abbia bisogno di altre indicazioni, e appena le vede poggiare la sacca sul pianale e mettersi a sistemare con cura gli indumenti nei cassetti, lo distoglie, tornando a vagare per la camera sbottonando i polsi della camicia.
La quiete però non dura a lungo perché subito la voce di Florie riprende a trillare.
“Perdonatemi Madamigella, se mi permetto, ma io devo proprio dirvi una cosa...” pronuncia quelle parole ancora apparentemente concentrata sul suo compito, poi solleva lo sguardo con una titubanza, che certo non traspare dal tono “… posso?...”
La richiesta le giunge tanto inattesa[xv], che quasi esce da se incerto un “Prego….”
Il seguito però tarda ad arrivare. La vede aggrottare la fronte, drizzare la schiena, congiungere le mani in grembo e sospirare profondamente abbassando lo sguardo. Non sa veramente immaginare a cosa possa preludere una tale solennità, ma non deve attendere a lungo, perché subito solleva il mento, fissandola con quegli occhietti di un serissimo color salvia.
“…io lo so, che non mi dovrei permettere, ma devo proprio dirvelo, Madamigella… Grazie, grazie, grazie!”
Nonostante la risoluta serietà con cui sono state pronunciate le parole, fatica decisamente a capirne il senso, ma lo sguardo, ancora fisso su di lei, sembra esigere una replica.
“Sei molto cara, Florie, ma io veramente non…”
Il fatto che non sappia bene come proseguire non è un problema, perché subito la ragazzina riprende, sporgendosi in avanti.
“…voi siete stata tanto generosa… e anche il vostro Signor Padre naturalmente e se un giorno ci farà l’onore di recarsi alla Villa, non esiterò a ringraziare anche lui…”
Le parole si fanno più concitate e l’espressione intensa, mano a mano che procede in quello sproloquio, ma l’idea, di come potrebbe reagire suo Padre a una simile esternazione di gratitudine, riesce a distoglierla dal cercare di fermarla o di capire di cosa stia parlando.
“… ecco, sì, perché veramente non so cosa avrei fatto se non mi aveste presa a servizio qui insieme a mio fratello…” sembra esitare, ma è solo una fugace impressione”… Lucien è bravo con i cavalli, mentre io so che non so fare la cameriera per i Signori… ma Madame Dumont mi ha insegnato tanto in queste settimane!” spalanca gli occhi e annuisce, ma non saprebbe dire se sia per cercare la sua approvazione o tentare di convincere se stessa“…e sono forte, sapete? Quando papà era vivo alla fattoria, riuscivo anche a condurre l’aratro per l’intero campo… vi prometto che lavorerò tanto… e diventerò brava…”
Temporeggia, un po’ per essere certa che quel fiotto di parole si sia esaurito, un po’ perché fatica a trovare come replicare. È l’espressione convinta e speranzosa della ragazzina a suggerirglielo. Sorride appena e parla con voce pacata.
“Ne sono certa, Florie.”
Sembra che basti così poco a tranquillizzarla. Sul visetto ricompaiono le fossette, e subito torna ad affaccendarsi per sistemare la biancheria.
Il silenzio però non si protrae troppo a lungo.
“Sì, Madamigella, io lo dico a tutti, sempre, anche quando li incontro la domenica alla Santa Messa: il Signor Conte è tanto buono e generoso, come tutta la sua famiglia…”
Questa volta però le parole non hanno lo stesso accorato slancio, per quanto sonore sembrano più un fluire costante, come a lasciare andare qualcosa, che proprio non è possibile arginare.
“… io, lo so!... non come tutte quelle persone che dicono cose cattive, senza sapere nulla…”
Ormai non riesce più a distogliere lo sguardo, segue i movimenti che accompagnano le parole, in quello che oramai è diventato un monologo, apparentemente indirizzato alle calze di seta nel primo cassetto.
“…maligni, ecco cosa sono… e commettono anche peccato, quindi io glielo dico, perché il Conte ha preso a servizio alla Villa me, anche ero solo una povera orfana e non sapevo fare nulla… e grazie alla sua generosità diventerò la migliore delle cameriere… e non come nelle locande…” calca quelle parole come per un ovvio sottinteso “no, una cameriera per le case dei Signori, perché avrò la fortuna di seguire gli insegnamenti di Madame Dumont…”
Chiude con un colpo secco il cassetto e sfila dalla tasca della sacca le sue scarpe, le tiene in mano mentre si gira, rivolgendolesi assertiva. Lei, incantata, tace.
“… perché io ascolto tutto quello che mi dice Madame Dumont, sapete?! Mi ha insegnato come si veste una signora, un signore, come si serve a tavola… e come ci si comporta!… anche prima di mandarmi qui, si è raccomandata ‘Florie, ricorda i tuoi compiti e soprattutto parla solo se esplicitamente interpellata…’”
Nel riferire quanto le è stato detto, aggrotta un po’ la fronte e da maggiore profondità al tono, quasi stesse recitando, mentre agita davanti a se l’indice della mano libera con fare esortativo. Basta un attimo, però, perché la manina si sposti a coprire la bocca, improvvisamente silenziosa a contratta a formare un piccolo cerchio sorpreso quanto le sopracciglia inarcate, come se il senso di quelle parole le fosse giunto solo dopo aver finito di pronunciarle.
“Oh, mio Dio, perdonatemi…” ma l’improvviso imbarazzo scompare in fretta, per lasciare posto al pragmatico tentativo di riparare all’errore “… ditemi Madamigelle, volete che vi prepari un bagno?”
Per quanto inappropriato sia quel comportamento, sente solo una risata amorevole salirle alle labbra, ma la trattiene limitandosi a sorridere bonariamente.
“No, Florie, farò un bagno prima di coricarmi. Per ora desidero solo liberarmi di questi stivali e cambiare camicia e calze.”
La vede farsi seria, quasi compita, posare le sue scarpe con la fibbia a terra, tornare a dirigersi silenziosa e risoluta verso la cassettiera.
 
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Il tappeto che ricopre quasi tutto il pavimento della galleria sud a piano terra è morbido, ne riesce a percepire la consistenza attraverso la suola delle calzature leggere e la carezza delle calze. Procede con le sue falcate lunghe ma rilassate, accompagnata solo dal rintocco sordo dei suoi passi e dal lieve fruscio della seta della camicia fresca, libera di sfiorarle la pelle.
Ora quasi le sembra strano non avere più nelle orecchie le chiacchiere della sua nuova loquace cameriera. Non ce l’aveva proprio fatta a mantenere il suo proposito di silenzio. Svolgendo le sue mansioni, aveva ripreso a dare voce al flusso continuo dei pensieri.
Non l’aveva richiamata all’ordine, un po’ perché non avrebbe saputo come riuscirci efficacemente senza ferire il suo amor proprio, un po’ perché, abituandocisi, quel suono aveva un che di musicale e allegro a dispetto del contenuto.
Era poi stata costretta ad ammettere, che, per il resto, la ragazzina aveva veramente appreso bene le lezioni impartitele, assistendola come non si sarebbe attesa neanche da Colette. Si era presa cura di lei soddisfacendo anche le necessità non espresse. Aveva preparato accuratamente sul letto camicia, calze e culotte pulite, suggerendo che sarebbe stata meglio e lei avrebbe provveduto a rinfrescare gli indumenti esausti dopo il lungo viaggio. L’aveva aiutata a spogliarsi e le aveva passato sulla pelle un telo leggermente inumidito con alcool ed essenza di rose, dicendo che le avrebbe dato ristoro dal caldo. Infine l’aveva rivestita, sistemando fino all’ultimo laccio e bottone, come se non avesse fatto altro in vita sua. Neanche davanti alle fasce aveva battuto ciglio, si era limitata a interrompere il suo soliloquio un attimo, per chiederle se desiderasse indossarne di nuove, anche se non doveva più cavalcare per quella sera.
Probabilmente non c’era molto che potesse sorprendere la piccola Florie, nonostante la sua giovane età. In quell’apparentemente garrulo fiume di parole aveva visto passare una madre morta di parto, un padre consumato dagli stenti, il duro lavoro con il fratello poco più che bambino per conservare la fattoria, il senso d’impotenza… perché due ragazzini orfani non potevano certo subentrare alla concessione della terra sui cui erano nati e cresciuti. Apparentemente c’era anche ben poco che la potesse abbattere. Riesce perfino lei a capire perché l’essere stata presa a servizio alla Villa le possa apparire un’occasione degna di tanta gratitudine, solo le piacerebbe averne realmente il merito.
 
“Cosa te ne pare?... mi sono forse dimenticata qualcosa?”
La voce velata di apprensione di Madame Dumont le arriva attutita dalla porta dello studio semiaperta a meno di un passo da lei. Accostandosi per battere le nocche sullo stipite non riesce a evitare di scorgere all’interno[xvi] la giovane governante della casa fissare assorta un vassoio d’argento su cui ha allestito un piccolo rinfresco all’angolo della massiccia scrivania di legno scuro. Tiene un braccio serrato alla vita reggendo il gomito dell’altro, che a sua volta sostiene l’ovale di un viso leggermente corrucciato.
“È perfetto, non ti devi preoccupare.”
La voce del marito emerge dallo spazio ancora celato dietro l’anta, anticipandolo. Le si affianca, osservando lo stesso oggetto con un’espressione più che altro divertita.
Il pugno lento, sollevato in procinto di percuotere il legno, rimane sospeso a mezz’aria. Non riesce a imporsi di arretrare di un passo, così da consentire agli occupanti della stanza di concludere quello scambio familiare in privato, prima di rivelare la sua presenza. È come se non potesse distogliere gli occhi dalla naturalezza con cui li vede muoversi ora che sono soli, quasi sorpresa di fronte al fatto che possa celarsi altro dietro alla semplice facciata, nella vita di persone che crede di conoscere da sempre[xvii].
“Oh, la fai facile tu!” la vede sollevare per un attimo gli occhi al cielo spalancando le braccia, per poi portare le mani ai fianchi fronteggiandolo “… e se non mi dovessi dimostrare all’altezza? Se una semplice cuoca alla fine non si dimostrasse…”
Le parole nervose vengono spente dal braccio, che repentino le stringe la vita, e dalla mano, che le solleva gentile ma ferma il mento. Rimane solo un mugolio sommesso e una debole resistenza, quasi una scia, che svanisce in fretta, lasciando il posto solo all’abbandono.
Come se fosse stata d’un tratto tramutata in pietra, le ci vuole un po’ per rendersi conto del calore che ha inondato il viso, sente le tempie pulsare mentre si sforza di sbloccare il respiro, ma ancora non riesce a muoversi con gli occhi fissi su quel bacio, che da possessivo si fa languido, e poi tenero, fino ad abbandonare le labbra per posarsi sulla fronte, quasi fraterno. Annette gira la testa, accomodando la guancia e il palmo della mano sul petto del marito, protetta nel suo abbraccio.
Finalmente si sblocca e, scostandosi dal vano della porta, sente di nuovo la voce di Jerome, nonostante sia poco più di un sussurro.
“Non c’è motivo che ti preoccupi, ricopri il tuo ruolo con impegno e in modo impeccabile. Andrà tutto bene, devi solo stare calma.”
Anche lei deve calmarsi! Fa un respiro profondo e poi un altro, per fare rallentare il cuore e defluire il rossore, che ancora sente colorirle le guance. È lei che ha sbagliato, non manifestando la sua presenza come l’etichetta impone. Sarà per questo, o anche per la stanchezza, che ha avuto una reazione tanto esagerata di fronte a una cosa così innocente, quando alla Reggia, ormai, riesce a non venire neanche sfiorata dagli spettacoli a cui capita di assistere[xviii].
Si ravvia i capelli e aggiusta il collo della camicia, poi, finalmente composta, esce dall’angolo in cui si è rifugiata, tornando a un braccio dall’anta socchiusa, sulla cui superficie uniforme e scura si obbliga a tenere fissi gli occhi, mentre assesta due colpi discreti, ma perfettamente udibili, prima di fare pressione sul legno.
Apre la porta lentamente, ignorando il fruscio che l’accompagna. Tiene gli occhi bassi, per sollevarli solo nel momento in cui la via, finalmente sgombra, le consente di avanzare oltre la soglia.
“Prego, Madamigella, vi stavo aspettando.”
Il quadro, che le si para di fronte, rispetta ora tutti i canoni della forma. Sullo sfondo della libreria, ingombra di tomi e registri rilegati in cuoio e tenuti chiusi da robusti lacci, Monsieur Dumont è fermo al centro, eretto e compito dietro la scrivania ricoperta per buona parte da ordinate pile di documenti. Lo vede chinare il capo in un cenno di saluto, cui lei subito risponde, per poi girarsi ad accogliere la riverenza di Madame, che, nella luce ormai soffusa, proveniente dalla grande finestra incorniciata dal ricco tendaggio verde oliva, l’attende sulla sinistra.
“Madamigella” congiunge le mani in grembo, rimettendosi diritta, ma continuando a tenere lo sguardo basso in segno di deferenza “ho pensato che vi potesse far piacere un piccolo rinfresco, dopo il lungo viaggio.”
Rivolge gli occhi al vassoio su cui fanno bella mostra di sé una ciotola di cristallo colma di pesche vellutate, dei biscottini alle nocciole, ordinatamente impilati nel loro delicato piattino, e una bottiglia, che, dalle calde sfumature ambrate, deve contenere malvasia[xix].
“Posso servirvi qualcosa?”
“Gradirei un po’ di vino, grazie.”
Dopo averle rivolto un sorriso garbato, si avvicina alla poltrona di fronte alla scrivania e si accomoda sull’imbottitura vellutata, poggiando entrambi i gomiti sui morbidi braccioli. Osserva Monsieur Dumont fare lo stesso dall’altro lato del mobile massiccio.
“Spero siate rimasta soddisfatta dei servigi di Florie… ” raccoglie lo stelo del bicchiere di cristallo che le porge, e il liquido ondeggia, anticipando nella pastosità del movimento la dolcezza del gusto “… è giovane, ma tanto volonterosa…”
Parla accomodandole in grembo un candido tovagliolo di lino, e le sembra di cogliere un filo di apprensione, quasi una giustificazione.
“Si è dimostrata assolutamente all’altezza.”
È come se l’apprezzamento sciogliesse una lieve tensione nelle labbra, che si distendono in un sorriso morbido mentre porge al marito un bicchiere gemello.
“Piuttosto, io devo porgervi le mie scuse…”
La vede spalancare leggermente gli occhi e irrigidirsi, ma questa volta è per la sorpresa, probabilmente la stessa che le sembra di vedere affiorare anche sul volto sempre cortesemente imperscrutabile di Monsieur Dumont.
“… la mia scortesia è stata imperdonabile. Non mi sono premurata di felicitarmi con voi, seppure in ritardo, per il lieto evento della nascita di vostra figlia!”
E’ il marito a intervenire per primo, mentre la madre si limita a scrollare leggermente la testa, con un sorriso di circostanza.
“Nessuna scortesia, Madamigella, ci onorate con il vostro interesse per la nostra piccola Camille.”
“Purtroppo non ho colto l’occasione di farlo prima, ma ora…” si volta a cercare gli occhi di Annette “… sarà diventata una signorina![xx]
A quelle parole, la vede finalmente sollevare lo sguardo, illuminato da una luce tra la pura gioia e l’autentico orgoglio e fatica a contenere il sorriso nei limiti consentiti dalla cortesia.
“Compirà un anno il prossimo sabato.”
“Allora almeno potrò farmi perdonare facendole un regalo per il suo primo compleanno. Mi auguro di avere la possibilità di vederla prima di allora.”
“Madamigella, ci onorate. Sicuramente non mancheranno le occasioni in questi giorni, se lo desiderate.”
Le risponde Monsieur Dumont, mentre la moglie annuisce soddisfatta per poi cambiare espressione e argomento.
“Scusate, prima ritirarmi e lasciarvi ai vostri affari, mi permetto di chiedervi se abbiate idea di quanto tempo intendiate dedicarvi. Ho predisposto che la cena venga servita per le sette[xxi], ma se ritenete che un’ora non sia sufficiente, provvederò a disporre di conseguenza in cucina.”
Anche Monsieur Dumont, a cui certo non ha fornito particolari dettagli, sembra attendere la sua risposta.
“Vi ringrazio, ma non serve. Non sarà certo una cosa lunga e, in ogni modo, se servisse potremo certo continuare la conversazione a tavola.”
Benché la risposta fosse intesa a generare il minor disturbo possibile, le sembra che torni a tendersi. Lancia un’occhiata fugace al marito, fino a che, torcendo leggermente le mani, si decide a parlare.
“Veramente… avevo predisposto che venisse apparecchiato per voi ed André nel saloncino azzurro.”
“Non vi unirete a noi per cena dunque?”
La domanda le esce con un tono sorpreso, anche se certo non quanto Madame, che sembra non sapere cosa o più probabilmente come rispondere e cerca con lo sguardo l’intervento del marito, apparentemente non meno smarrito.
“Vedete, Madamigella…” per la prima volta le sembra che Jerome fatichi a trovare le parole “…non è mai successo che i membri della famiglia cenassero… che i custodi della Villa…”
Effettivamente non sa spiegare neanche lei, perché abbia dato per scontato che avrebbero cenato insieme, non essendo certo consuetudine.
“Perdonate, capisco che la mia richiesta possa giungervi inaspettata, ma se non arreca troppo scompiglio ai vostri programmi, mi farebbe piacere se voleste farci compagnia. Sarebbe certo occasione per informarmi meglio sulla situazione generale alla tenuta e sono certa che anche André ne sarebbe contento. Se ben ricordo, eravate molto amici.”
Fa scorrere lo sguardo dal volto di Jerome, ragionevolmente soddisfatto dalla risposta, a quello di Annette, sorpreso ma compiaciuto.
“In tal caso, vi ringrazio. Provvederò subito a fare aggiungere due coperti e ad avvertire in cucina.”
Si piega in un’ultima riverenza e si allontana spedita.
“A più tardi” è l’ultimo saluto che le rivolge prima di uscire e chiudere la porta alle sue spalle lasciandoli soli.
“Veramente, voi ci fate troppo onore con quest’invito.”
“Non ditelo nemmeno, Monsieur. Da quello che ho visto, non vi sareste potuto prendere maggiore cura della Villa, non c’è motivo di essere tanto formali in queste circostanze.”
Beve finalmente un sorso dal calice, che finora ha solo tenuto in mano. La sorprende una nota fresca e fiorita oltre la morbida dolcezza e la sferzata dell’alcool, che le scorrono piacevolmente sulla lingua e poi giù per la gola. Fa oscillare quell’ambra liquida un’ultima volta prima di allungarsi per posarlo sulla scrivania.
“Ma ora veniamo a noi. Vi sarei grata, se poteste aggiornarmi sulla situazione.”
Si accomoda meglio sulla poltrona, lasciando che la schiena affondi per tutto quello che le consente l’imbottitura del tessuto fittamente ricamato a motivi floreali.
Di fronte a lei l’amministratore siede eretto, abbassa gli occhi sul voluminoso registro aperto dietro al bicchiere poggiato sul piano di legno senza essere stato neanche toccato, gira una pagina mentre sembra riassumere i pensieri prima di cominciare a parlare.
“Come ho scritto nei resoconti periodici inviati a vostro Padre, il raccolto di grano dell’anno scorso è stato più che soddisfacente, per fortuna in questa regione il clima è stato mite, e anche per quest’anno ci attendiamo risultati analoghi. Per quanto riguarda il rendimento dei frutteti…”
“Scusate se mi permetto di interrompervi. Sono assolutamente certa, che abbiate tenuto un registro puntuale delle entrate e uscite di ogni singola concessione della tenuta e che abbiate provveduto ad aggiornare puntualmente mio Padre sui conti. In realtà…” cerca i suoi occhi non appena lo vede sollevarli dal foglio ingombro di una calligrafia regolare e minuta “… è un’altra la situazione cui mi riferivo.”
Lascia quella frase in sospeso, perché qualcosa nello sguardo del suo interlocutore le ha dato l’impressione, che non siano affatto necessarie ulteriori spiegazioni. Non è cambiato nulla nel suo aspetto, ma le pare diverso. C’è qualcosa di diverso nel suo sguardo. Tarda a darle una risposta.
Si limita a osservarlo, mentre allunga la mano per afferrare il bicchiere e si accomoda anche lui sullo schienale della poltrona ancora non sfiorato. Beve un sorso, attardandosi un po’ ad apprezzare il gusto prima di deglutire, poi abbassa il calice, tenendolo con entrambe le mani, sorrette dai gomiti poggiati sui braccioli. Sembra concentrarsi sull’unghia brillante del vino ancora per un attimo, infine solleva gli occhi.
È veramente come se fosse un'altra persona, sempre compito, ma lo sguardo appare più profondo, rivelando una nuova dimensione.
“E ditemi, Madamigella, vostro Padre è a conoscenza del fatto che avete affrontato questo lungo viaggio per approfondire questo tipo di situazione.”
Non c’è alcuna insinuazione in quella frase, solo il chiaro sottinteso di quello a cui entrambi sanno di riferirsi, e, probabilmente, l’offerta di lasciar cadere un argomento scomodo prima che le parole lo rendano ufficiale.
“In realtà, non era affatto questo l’intento del mio viaggio, ma durante il percorso ho sentito cose… ho visto cose, che mi hanno convinto della necessità di farlo. Non credo sia utile a nessuno continuare a fingere che nulla stia accadendo.”
Lo vede tornare ad abbassare gli occhi sull’ondeggiare del vino e gonfiare il petto in un profondo respiro. Non è nervoso, non è intimorito, sembra solo prepararsi a superare un confine dal quale non sarà possibile fare ritorno.
“Se è questo che desiderate….” Solleva finalmente gli occhi per dirigerli nei suoi “… è inutile negare. Le condizioni dei contadini non sono andate che peggiorando negli anni. Le tasse sono aumentate a dismisura, erodendo il margine della loro rendita e deteriorando le condizioni di vita loro e dei piccoli artigiani e commercianti delle zone rurali come questa. Come vi ho detto, in questa regione il raccolto è stato più che buono, ma il varo della legge per la liberalizzazione del prezzo dei cereali, ne ha prodotto un’impennata e di conseguenza anche del pane…”
“Perdonatemi, ma non riesco veramente a capire come questo sia potuto accadere, se il raccolto è stato così buono come dite!”
Forse ha messo un po’ troppa enfasi nell’interromperlo, ma questo certo non giustifica l’espressione che gli vede comparire in volto: sorride quasi nostalgico, o forse intenerito. Non continua subito, abbassa gli occhi e scrolla il capo.
“Siete voi a dovermi perdonare, Madamigella…” Torna a guardarla. “… a volte dimentico quanto somigliate a vostro Padre.”
È come se quell’osservazione la pungesse, instillandole al tempo stesso un senso di fastidio e un moto d’orgoglio, ma non ha tempo di prestarvi troppa attenzione, perché subito riprende a spiegare.
“Come vostro Padre, avete il massimo rispetto delle regole, quale mezzo per definire il ruolo di ognuno nella società. Probabilmente, in questo l’ordine sociale non si discosta molto dalla disciplina militare. Purtroppo, però, non tutti, o forse farei meglio a dire molto pochi, danno al rigore e all’onore il valore, che dà vostro Padre, e quando un ingranaggio di un meccanismo così complesso non funziona a dovere, tutto smette di funzionare. Quando si è diffusa la voce che in altre regioni di Francia il raccolto era invece stato estremamente scarso, molti hanno visto nella nuova legge l’occasione di facili guadagni, speculando sul prezzo del grano.”
“Ma… è stato promulgato in editto Reale che imponeva esplicito divieto di accumulare derrate.”
La sua sorpresa fa ricomparire quel sorriso, che la fa sentire tanto a disagio.
“Purtroppo, così come il rigore e la disciplina, per molte persone anche gli editti reali hanno veramente poca importanza, se non vengono accompagnati dalla convincente esortazione dell’ordine costituito e delle armi.”
“Infatti è stato inviato l’esercito a ispezionare i granai.”
“Troppo tardi, purtroppo. Non sono certo io a dovervi insegnare, che per mettere in opera un piano non sono importanti solo le azioni che si compiono, ma anche i tempi.”
Non le rimane che annuire di fronte all’ovvietà di una nozione tattica elementare. Inoltre, aveva assistito a quanto accaduto a Parigi. Nonostante il Re avesse imposto l’abbassamento del prezzo come richiesto, la folla aveva saccheggiato i magazzini e i forni per tre giorni, come se ormai fosse troppo tardi e la rabbia alimentata per mesi dovesse comunque trovare sfogo.
“Quando l’esercito è arrivato per svuotare i granai dei colpevoli, il prezzo ormai era schizzato alle stelle, la povera gente si era già rovinata solo per garantirsi la sussistenza, e molti fattori avevano perso le concessioni terriere per l’impossibilità di pagare le imposte.”
“Volete dire, forse, com’è accaduto al padre di Florie…”
Le è sfuggito quel commento, l’ha pronunciato a voce bassa e si stupisce di come quelle poche parole riescano a bloccarlo e rabbuiarlo in viso.
“No…” scuote energicamente la testa “la storia di Monsieur Bernard non ha a che vedere con questo, per quanto banalmente tragica. Era malato da tempo, e quando è morto, qualche mese fa, il suo contratto di concessione è stato automaticamente rescisso.”
“… e quindi avete buttato due ragazzini per strada? Avreste potuto…”
“Avrei potuto fare cosa? Violare la legge? Lucien non ha ancora diciassette anni. Il mancato raggiungimento della maggiore età non gli consente di sottoscrivere un simile vincolo. Avrei dovuto fare un’eccezione per lui e la sorella? Sapete meglio di me che Vostro Padre non me lo avrebbe mai concesso e vi dico una cosa, in fede, io non glielo avrei mai chiesto. Non si può stabilire quali leggi debbano essere rispettate e quando…”
Il tono che non ammette repliche, con cui lo sente pronunciare quelle ultime parole, la destabilizza, perché vi riconosce l’impronta del Generale, ma soprattutto perché le condivide, al di là di tutto e nonostante l’onda di emotività per la triste condizione della sua giovane cameriera.
“… e poi a che scopo? Lucien e Florie non hanno certo le forze o l’esperienza, nonostante la buona volontà, per sobbarcarsi un simile onere, avrebbero finito col rimanere schiacciati nel tentativo solo per fallire… sono poco più che ragazzini…”
A dispetto della compassione per i due giovani fratelli, non può che ragionevolmente condividere quello che le viene detto. Abbassa il capo a nascondere le labbra, che si piegano in un sorriso amaro, perché non riesce a fare a meno di pensare ad altri due ragazzini, per i quali non erano valse queste giuste regole e per cui nessuno aveva speso altrettanta considerazione.
“La terra è stata subito riassegnata. Bastien Masson ha una moglie e due figli grandi, che lo aiutano nel lavoro, oltre ad altre quattro bocche da sfamare. Avrei forse dovuto lasciare in mezzo a una strada loro, dopo che erano stati mandati via dal Marchese de Sibonne, che ha deciso di alienare parte delle terre per finanziare il suo ingresso a corte?”
Nonostante il tono neutro con cui le ha pronunciate, il sottinteso di quelle parole la costringe a guardarlo di nuovo negli occhi. Mai si sarebbe aspettata una simile impudenza, come sicuramente qualcuno la definirebbe, da Jerome. Quello che più la sorprende, però, è il senso di colpa che prova per la sua superficiale arroganza.
“Pertanto avete deciso di assumere i ragazzi qui alla Villa…”
Parla con voce pacata, invitandolo a continuare. In fondo è stata lei a chiedergli di rendere conto della situazione, e non è certo colpa sua se il quadro, che le sta accuratamente dipingendo, si sta rivelando meno banalmente tragico di quanto lei non si aspettasse.
 “Il personale alle scuderie era sottodimensionato e Lucien aveva una buona esperienza con i cavalli. Mia moglie mi ha poi fatto notare come anche in casa un altro aiuto sarebbe stato utile. Da quando la Famiglia non viene più con regolarità a passare qui la villeggiatura estiva, portando con sé la servitù da Parigi, la manutenzione della Villa si è fatta più impegnativa. Pertanto, assumere anche Florie come apprendista è stata la scelta più ovvia. Sono certo che mia moglie confidasse di avere maggior tempo per istruirla a dovere, il vostro arrivo è stato un banco di prova inatteso, e l’apprezzamento espresso l’ha sicuramente gratificata.”
Annuisce. Il pensiero dell’ingenuo entusiasmo della giovane cameriera la fa inevitabilmente sorridere, ma dopo una breve pausa non può fare a meno di fare un appunto.
“Però voi gli avete fatto credere che sia stata un’iniziativa di mio Padre assumerli…”
Per la prima volta sembra essere lei a stupirlo con quell’osservazione. Lo vede riscuotersi e spalancare leggermente gli occhi, poi subito tornare a rilassarsi. Continua a fissarla e quello strano scambio non verbale si protrae, mentre la bocca gli si contrae in strana smorfia, che sembra celare il tentativo di nascondere una risata.
“… allora la condotta della piccola Florie non è stata poi così impeccabile come avete riferito a mia moglie.”
Anche lei sente d’un tratto il bisogno di serrare le labbra per trattenere il riso.
“In realtà, io ho doverosamente provveduto a informare vostro Padre delle circostanze…”
“… e lui esattamente cosa vi ha risposto…”
“… che per problemi di questo genere potevo agire come meglio ritenevo opportuno.”
Per come conosce suo Padre, quella risposta le sembra più celare l’intento di demandare un affare di scarso interesse, più che un’effettiva manifestazione di fiducia, ma non vede l’utilità di esternare questa perplessità, anche se il sopracciglio sollevatosi sfuggendo al suo controllo deve aver fatto intendere a Jerome, più di quello che avrebbero potuto le parole.
“Vedete, Madamigella, io sono alle dipendenze del Generale da sempre, nutro per lui la massima gratitudine e stima, e ho la presunzione di credere di avere imparato a conoscere, almeno per quello che mi è stato consentito nel mio ruolo di attendente, i suoi pregi e quelli, che alcuni potrebbero considerare, i suoi difetti.”
Fa una breve pausa, come a voler verificare l’effetto prodotto dall’ultimo termine prima di procedere, evidentemente rassicurato dalla sua mancanza di reazioni.
“Vostro Padre è un uomo giusto, e questo credo sia opinione di tutti. È considerato da molti severo, ma chiunque lo conosca davvero, sa che non lo è mai con gli altri più di quanto non sia con se stesso.[xxii] Giudica e apprezza le persone per i loro meriti effettivi, senza lasciarsi fuorviare dalle apparenze. Riconoscerete, che è per questo che non è mai stato un affezionato frequentatore della Corte, benché, probabilmente, ne avrebbe ricavato maggiori onori di quanto non abbia ottenuto distinguendosi nel suo ruolo di militare. L’unica volta che ha chiesto udienza al Re per reclamare una carica è stato per Voi…”
Si trova per la seconda volta, nel corso della conversazione, fastidiosamente combattuta tra il compiacimento e l’irritazione, sentendolo riferire un fatto noto della sua vita.
“Per quanto condivida, che gli uomini[xxiii] vadano sempre giudicati solo in base alle loro azioni, mio malgrado, so che questo spesso non avviene. L’animo umano non sempre è dotato della forza, che richiede aggrapparsi alla ragione e ai fatti. Il più delle volte ha bisogno di essere nutrito di apparenze e spesso sono le persone meno meritevoli a sfruttare questa umana debolezza. Considerate ciò di cui parlavamo pocanzi, gli accumulatori smascherati dall’intervento dell’esercito sono stati evidentemente i diretti responsabili della crisi legata all’aumento del prezzo del pane, vanificando una legge introdotta per calmierarlo, ma parlando con i contadini, con persone del tutto ragionevoli, vedrete come sia opinione diffusa che tutto sia stato solo il risultato del malgoverno e dell’avidità della nobiltà e della famiglia reale.”
Non riesce a evitare di corrugare la fronte, avvertendo come quelle parole la feriscano più di quanto non vorrebbe ammettere, ma non controbatte, visto come i recenti avvenimenti l’hanno inesorabilmente posta di fronte all’evidenza di quale sia la realtà.
“Mi spiace dirvi questo, Madamigella, e sono certo che vostro Padre non mi perdonerebbe mai sentendomi pronunciare queste parole, ma anche io penso, che in larga parte  i principali responsabili dell’attuale situazione siano i sovrani e la nobiltà, anche se non per gli stessi motivi.”
Fa un’altra lunga pausa, incerto se procedere.
“Vi prego, continuate, sono stata io a chiedervi di fornirmi la vostra opinione e non mi aspettavo certo un racconto gradevole.”
“L’avidità, come la maggior parte dei vizi e dei pregi umani, non fa certo distinzioni di casta. La colpa in questo caso sta proprio nel non essersi preoccupati di anticipare un comportamento tanto prevedibile e di non aver poi gestito con tempestività la situazione. Questo, a mio parere, è solo un sintomo di una condizione infinitamente più grave. I sovrani e la nobiltà hanno perso il contatto con le necessità del loro popolo, come se quello che accade al di fuori di Versailles non fosse reale.”
Nonostante sappia che non è questo l’intento di Jerome, si sente chiamata in causa, perché i fin dei conti neanche lei, fino al giorno prima, si era resa veramente conto di cosa stesse accadendo.
“Perdonate questa lunga digressione, ma serviva a giustificare la mia scelta di fare intendere a Lucien e Florie, che la gratitudine per il loro impiego qui alla Villa fosse da destinare al Generale e a voi.”
“Scusatemi, ma non vedo come…”
“Lasciatemi spiegare. Vostro Padre si premura si essere puntualmente informato e va a lui il merito delle decisioni principali per la buona gestione della tenuta, a differenza di quanto accade per la maggior parte degli altri padroni della zona, che si limitano a demandare la gestione agli amministratori, con l’unica direttiva di ottenere il massimo profitto per finanziare la loro costosa vita a corte. Per le tante persone, le famiglie che qui lavorano per la famiglia Jarjayes, però, il Conte rischia solo di essere una figura distante, come tutti gli altri.”
“Quindi avete reputato opportuno mentire, attribuendo a lui e a me un merito, che in realtà era solo vostro. Non è forse violare le regole questo?”
Già si pente del tono polemico di quelle parole, appena ha finito di pronunciarle. Non sa da dove le sia venuto quello sfogo, ma ciò che la sorprende veramente è la reazione del suo interlocutore, che, anziché piccato, appare bonariamente comprensivo, se non quasi divertito, come se, in fondo, se lo aspettasse dopo tutto quello che le ha detto.
“Mentire… non ritengo sia il termine corretto. A volte, semplicemente, il troppo dettaglio finisce col far perdere la corretta visione d’insieme. Se considerate che né io né mia moglie, avremmo mai potuto ricoprire questa posizione, se non fosse stato per la fiducia di vostro Padre nelle nostre capacità, non ritengo, in fede, di aver detto altro che la verità. Ho semplicemente fatto in modo, che Florie e suo fratello sapessero che il loro impiego, di fatto, è merito solo della lungimiranza del Conte Jarjayes…”
Per quanto comprenda il senso di quanto le sta dicendo, dubita fortemente che suo Padre riuscirebbe ad essere altrettanto elastico nel cogliere quello che Jerome definisce visione d’insieme. Paradossalmente però, è probabile sia proprio per questo che negli anni si è dimostrato così talentuoso nell’assecondare i suoi desideri e le asperità del suo carattere.
“… anche se certo non m’illudo che possa bastare così poco a sopperire alla prolungata assenza del padrone.”
Le pare strano vederlo distogliere lo sguardo, improvvisamente velato da un’ombra.
“… e questo per voi è fonte di preoccupazione?”
La domanda, posta più che altro per interrompere un silenzio protrattosi un po’ troppo a lungo, sembra riscuoterlo, riportando la sua attenzione su di lei. Lo vede annuire, portare il calice alle labbra e poi subito appoggiarlo senza bere neanche un sorso.
“Vedete, è molto difficile riconosce il valore di un Signore che non si sia quasi mai incontrato, molto più facile incolpare delle proprie disgrazie un’idea che un uomo in carne ed ossa. La fedeltà si nutre di fiducia.”
Capisce perfettamente quello che sta dicendo. Lei stessa sa che l’obbedienza e il rispetto, che i suoi uomini le tributano, dipendono dalla sua presenza e dalla sua condotta più che dal suo grado ed è stato proprio suo Padre a insegnarglielo.
Si solleva dallo schienale per posare il tovagliolo sulla scrivania.
“Allora forse non vi sembrerà tanto strana la richiesta che voglio farvi…”
Jerome si limita a rivolgerle una domanda muta, mentre siede a sua volta eretto con le mani giunte sostenute dai gomiti poggiati al solido piano di legno.
“…desidererei visitare della tenuta, incontrare le persone che ci vivono, per avere modo di vedere di persona cosa accada. Certo se foste voi a farmi da guida riuscirei a farmene un quadro più completo pur in così poco tempo…”
Non è necessario che aggiunga altro, perché subito vede il volto di Jerome distendersi.
“Madamigella, ne sarò ben felice. Se per voi non è un di disturbo alzarvi all’alba, potremo uscire a cavallo già domani mattina presto.”
Si alza e subito lo vede imitarla.
“Nessun disturbo, figuriamoci. Allora è stabilito.” si sposta di lato arretrando di un passo “Allora direi che possiamo tranquillamente definire i dettagli più tardi a tavola. Se ora mi volete scusare.”
Lo osserva piegarsi nel suo usuale impeccabile inchino.
“Come desiderate. A più tardi.”
Ricambia con il solito cenno del capo, prima di girarsi e raggiungere la porta. È solo quando poggia la mano sulla maniglia, che si volta, cogliendolo nuovamente seduto alla scrivania intento a scorrere il registro.
“Scusate…”
Il richiamo lo fa scattare in piedi.
“Ditemi, Madamigella.”
“Sapete dove possa trovare André?”
“Mia moglie mi ha riferito che lo aveva lasciato in cortile con Camille… suppongo lo possiate trovare ancora lì.”
 
                                                            -+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-
 
Superando la soglia dell’atrio in penombra deve sollevare la mano a riparare gli occhi, abbagliati dai raggi inclinati del sole. Per quell’attimo di cecità può solo percepire il tepore, che le carezza la pelle del viso, e il cinguettio concitato degli uccelli, che si affrettano verso i loro nidi per trovare rifugio per la notte. È scomparso l’insistente frinire delle cicale, che fino a quel pomeriggio era stato il contrappunto estenuante al caldo. Sente l’aria fattasi amabile, profumata dell’aroma dolce dei fiori, invaderle le narici e un po’ alla volta vede ricomparire i contorni del grande cortile.
Il sole, ormai solo una lama incandescente, che si propaga in un profilo ardente e sottile al di sopra del muro di cinta in fondo allo spiazzo, illumina ogni cosa di una sfumatura calda, abbracciandola, al tempo stesso, in una bassa ombra.
Strizza un’ultima volta gli occhi e torna lentamente a riaprirli, mentre abbassa la mano. Si è già abituata a quella luce nuova, che rende tutto più nitido e saturo, come se a irradiare quel tepore avvolgente fosse il recinto protettivo delle quattro mura coperte dallo spesso strato di calce, ora dorato come la ghiaia dei vialetti, o i colori preziosi delle siepi, che delineano, e dei fiori, che adornano le aiuole.
Non deve cercare molto per distinguere al centro la sagoma della schiena di André, seduto sul bordo opposto della vasca, parzialmente celato dallo scintillare dello specchio d’acqua e dallo zampillo, che ricade disperdendosi in un arco di piccoli gioielli.
Mano a mano che si avvicina, è prima il gorgogliare liquido a mescolarsi allo scricchiolio della ghiaia sotto le suole, per poi rivelare gradualmente il fluire della voce in un rincorrersi di toni gravi e acuti. Appena lo distingue crede sia la distanza a privare di senso il suono, ma, quando raggiunge il limitare della fontana, riconosce solo il ripetersi cadenzato di un nome, pronunciato da lui, che le dà le spalle, chino in avanti sostenuto sui gomiti.
“Andrè… Aaandrè… Aaaaaandrè…”
La cantilena è inframmezzata da saltuari gridolini, tanto sottili da tramutarsi in squittii.
Rende più lieve il passo, compiacendosi che le calzature morbide e leggere le consentano di aggirare quel breve tratto senza essere udita. Procede lenta, per essere certa di non attirare l’attenzione, fino a vedere emergere quello che si cela dietro la spalla di André.
Due grandi occhi scuri, di quella che deve essere la piccola Camille, fissano, rivolti in alto, il volto del loro custode, spalancati e attenti come a cercare di carpire qualcosa di nuovo e terribilmente interessante, che di tanto in tanto si fa irresistibilmente divertente, costringendoli a serrarsi in una gioiosa fessura. Al centro del visino paffuto, circondato da una bruma di riccioli dorati, talmente impalpabili da sembrare un’aureola, la boccuccia, sempre spalancata, segue in medesimo alternarsi di allegria e stupore, rivelando due candide perline incastonate sul bordo inferiore della gengiva rosea. Il modo in cui si sbilancia in avanti, in equilibrio apparentemente precario tra le ginocchia di André, manifesta la totale fiducia nel sostegno delle grandi mani che la cingono sotto le braccia.
Rimane in silenzio e immobile, inaspettatamente incantata da quello spettacolo alieno e semplice, fino a che i grandi occhi scuri e brillati si spostano, rivolgendo il loro stupore nei suoi, accompagnati dalla piccola mano, che si solleva dal ginocchio di André a indicare la nuova scoperta, debitamente annunciata da un gorgheggio d’avvistamento.
“Dada….”
Nel tentativo di fingersi appena arrivata, lo anticipa mentre ancora si sta girando, alzandosi per capire cos’abbia polarizzato l’interesse della sua piccola protetta, subito sollevata al sicuro tra le sue braccia.
“Beh, non mi pare molto intenzionata ad assecondare i tuoi desideri!”
Incrocia le braccia, cercando di assumere un’espressione di contegnoso disappunto, ma il suo proposito è di breve durata. Non riesce a trattenere la risata, che sente sgorgare dal petto e sfuggire dalle labbra di fronte allo stupore misto a imbarazzo dipinto sul volto di lui. Porta le mani a coprire la bocca come se potesse aiutarla a fermare il fluire del suono argentino, che sembra sorprenderlo. Serve qualche secondo perché riesca a rispondere alla sua provocazione.
“Non è certo la prima… ci sono abituato.”
Fatica a decifrare lo sguardo che le rivolge. Deve essere per l’ombra che gli vela il viso, proiettata dal sole calante alle sue spalle. Per quel vago disagio, abbassa gli occhi ritrovando il visino della piccola, entusiasta della nuova attenzione rivoltale. Sorride, riprendendo i suoi vocalizzi e tendendo verso di lei le braccia rotondette, che sfuggono dalle balze di mussola ricamata della vestina.
Allunga la mano e Camille prontamente cattura il pollice e l’indice. Istintivamente cercare di liberare le dita, sentendosi però opporre una resistenza sorprendentemente tenace.
“Ha una presa forte!”
“E’ una bambina...”
Solleva di sfuggita lo sguardo su di lui, indispettita da quell’osservazione, un po’ per il tono di divertita sufficienza con cui gli è sfuggita, più ancora perché non ne capisce il senso, ma si limita a un lieve sollevarsi delle spalle e una scrollata di capo, mentre torna rivolgere la sua attenzione alla piccola.
Un ulteriore gentile tentativo le permette di liberare il pollice, ma la manina in cui era imprigionato corre subito a dare man forte alla compagna, per conservare almeno la presa salda sul dito rimasto, tirandoselo più vicino, mentre un cipiglio contrariato compare sul piccolo viso per la recente perdita.
Allora stringe appena, accennando un compito baciamano[xxiv].
“Piacere di fare la vostra conoscenza Mademoiselle Dumont.”
Il tono flautato, che accompagna il gesto, sembra compiacerla, incoraggiandola a continuare.
“Mi hanno riferito che sabato sarà il vostro compleanno…” il sorriso che si apre mette nuovamente in mostra i due solitari dentini “… avete qualche particolare desiderio, che io possa soddisfare con un mio regalo?”
Anche se dubita sia per il significato delle parole, quel gioco sembra riscuotere un successo insperato. Camille spalanca gli occhi, alternando alle risate gridolini acuti, in un’esternazione di gioia un po’ scomposta. Si sorprende a sorridere quando libera le sue dita, per portare le manine a coprire il volto, in un gesto timido e involontariamente vezzoso.
Torna a guardare André, trovandolo perplesso, o forse addirittura stupito più che divertito, come si sarebbe aspettata.
“Dici che è troppo presto per una spada?...”
Non ha nessun problema ora a interpretare la risposta attesa nascosta nell’occhiata, che le rivolge affilando lo sguardo. Sa che lo spirito non è certo il suo migliore talento.
“O magari un cavallo…” sospende la frase per attendere l’inarcarsi delle sopracciglia, ma anticipa lo schiudersi delle labbra “... a dondolo! Ci sarà ad Arras un artigiano in grado di vendercene uno.”
Si gode l’effetto, continuando a guardarlo negli occhi mente l’espressione si distende e il sorriso affiora. Ostenta un sospiro.
“Oscar…”
“Mamà!”
Il sonoro entusiasmo interrompe la risposta, attirando l’attenzione di entrambi sull’improvvisa irrequietezza della bambina, che sembra intenzionata a sfuggire dalle braccia di André, tendendosi nella direzione in cui ora puntano gli occhi scuri, spalancati e trepidanti.
L’oggetto di tanta brama è ovviamente Annette, che si sta avvicinando, sollevando l’orlo della gonna per affrettare il passo.
“Perdonate Madamigella,…” dice trafelata appena la distanza le consente si essere udita “…non era certo mia intenzione che Camille vi arrecasse disturbo...”
Si ferma, piegandosi in un’adeguata quanto nervosa riverenza.
“Nessun disturbo…” parla quasi con lo stesso tono morbido, usato poco prima per tranquillizzare la bambina “anzi, è stato un vero piacere per me poter fare finalmente la conoscenza di una così graziosa signorina.”
Le parole e il sorriso, che le accompagna, riescono a far rilassare almeno le mani ancora strette a gualcire il cotone leggero delle gonne, mentre vede comparire un lieve rossore imporporarle le guance.
“Credo che questa bambolina non ne voglia proprio più sapere di me…”
Il tono divertito di André richiama l’attenzione di entrambe sulla piccola, protesa nel tentativo di sgusciare dalla presa sicura, quasi la stesse deliberatamente privando dell’amorevole abbraccio della madre. Basta il contatto delle sue mani a far ricomparire il sorriso, che anticipa l’espressione di placido abbandono sul viso della bambina, finalmente al sicuro tra le esili braccia materne. La testolina abbandonata sulla spalla, il pollice in bocca, le palpebre che quasi si chiudono, le gambine abbandonate a cingere la vita sottile, tutto in lei trasmette fiducia.
Annette si attarda in una morbida carezza sui riccioli impalpabili, sufficiente a far scoccare un profondo sospiro compiaciuto.
“Vi faccio i miei complimenti, Madame Dumont, è una bellissima bambina.”
Il blu profondo degli occhi di Annette appare finalmente calmo così come la voce.
“Vi ringrazio, Madamigella, siete troppo gentile.”
È sbilanciata un po’ verso sinistra, e oscilla appena di un moto continuo e fluido, tanto naturale da trasmettere calma anche a chi la osserva.
“Sembra sul punto di cedere al sonno…”
L’accenno di una risata di André sembra responsabile un lieve fremito nelle palpebre quasi completamente chiuse.
“Se permettete, Madamigella, lascio la bambina ad Adeline e provvedo subito a far servire…”
“Non vi angustiate…” frena prontamente il riaffacciarsi dell’apprensione “…occupatevi pure di vostra figlia, vorrà dire che ci metteremo a tavola un po’ più tardi. Non c’è nessuna fretta, vero André?”
Si gira verso di lui in attesa di una conferma, trovandolo inaspettatamente a fissarla dubbioso.
“Madamigella Oscar, è stata tanto gentile da invitarci a unirci a voi per la cena.”
Lo sguardo si sposta per un attimo su Annette, per tornare subito a lei, senza cambiare espressione.
“Ho chiesto a Monsieur Dumont di accompagnarmi a visitare la tenuta domani e ho pensato che potessimo discutere i dettagli con maggiore tranquillità a tavola.”
“Oh, certo… certo…”
Sorride ora, ma non riesce a capire perché continui a fissarla sorpreso, come se quell’invito, per quanto inusuale, non fosse pienamente giustificato dalla sua spiegazione. Le viene spontaneo aggrottare la fronte, come rivolgendogli una domanda che rimane però muta per la presenza di Annette, che provvede subito a interrompere quel momentaneo imbarazzo.
“Se permettete…” con una veloce riverenza subito si accomiata.
Rimangono fermi ancora un attimo, quasi spalla a spalla, seguendo con lo sguardo la figurina esile con la piccola tra le braccia che si allontana nella morbida luce della sera.
È lei a interrompere il silenzio.
“Sembra una bambina felice.”
“E’ una bambina molto amata.”
Gira il capo e solleva gli occhi su di lui, ritrovando il verde, accogliente e riconoscibile come sempre, anche velato d’ombra.
“Come ti senti?”
Nonostante l’espressione serena, un filo di apprensione gli sporca la voce.
“Bene, non ti devi preoccupare…” il tono morbido sembra rassicurarlo “… non è certo la prima volta che cado da cavallo battendo la testa!”, ma forse è quello scherzoso in quelle ultime parole a convincerlo.
Lo vede distogliere lo sguardo e scrollare il capo. “Oscar, Oscar…” sorride “… uno di questi giorni mi farai morire…” sospira, o forse stenta a trattenere una risata.
Sono tanto vicini, che le basta piegare il braccio per afferrare il suo poco sotto al gomito. Per un istante le sembra sentirlo tendersi attraverso la stoffa della camicia, mentre lo tira scostandosi di un passo.
“Andiamo o faremo tardi per cena.”
Si gira, dirigendosi verso l’ingresso della villa, e sente il braccio sollevarsi passivamente mentre il palmo lo scorre lungo la manica, supera il polso, fino a che la mano non afferra la sua opponendo una piccola resistenza. Torna a guardarlo per capire perché non la stia seguendo, ma di nuovo l’ombra le impedisce di carpire la risposta nei suoi occhi, fissi su di lei. Esita un attimo prima di chiedere meravigliata “Cosa c’è?”
“C’è ancora tempo Oscar… rimaniamo ancora un po’ qui… si sta bene…”
Ha ragione, il sole è calato e l’aria si è fatta fresca e carezzevole sulla pelle, i grilli cominciano timidamente a frinire, mentre il cielo si prepara per la notte. Non sono più le lunghe ombre a nasconderle l’espressione del suo viso, ma le avvisaglie del buio.
“Non c’è poi tanto tempo… ti devi dare una rinfrescata, non vorrai certo venire a cena così!? … almeno per riguardo ai nostri ospiti.”
Il tono scherzoso che ha usato sembra riuscire a richiamarlo. Le si avvicina, e un passo dopo l’altro la flebile luce, che li raggiunge dall’ingresso della villa, rischiara il suo viso, consentendole di distinguere nuovamente i suoi tratti, le sorride.
“Certo, Oscar, hai ragione… andiamo…”
Qualcuno deve avere provveduto a far accendere le candele in casa. Mentre procedono affiancati verso l’ingresso illuminato lasciandosi alle spalle il cielo violaceo, appena punteggiato dalle prime stelle della sera, le sembra si faccia un po’ più salda la stretta della mano.
 
 

Mercoledì 6 Agosto 1775, Versailles

 
Una lieve brezza soffia attraverso le grandi portefinestre spalancate nella galleria bassa, offrendole un minimo di ristoro dalla calura di quella giornata opprimente. La Contessa di Artois ha dato alla luce il suo primogenito proprio la mattina del suo ritorno in servizio alla Reggia, rendendo necessario organizzare in tutta fretta un servizio di guardia speciale, per regolare l’accesso alle stanze della famiglia del fratello del Re nell’ala sud.
Il primo Borbone della sua generazione è un maschio, e, come paventato dall’annuncio della gravidanza, non è stata la Regina di Francia a donare al paese per prima un nuovo erede, il terzo nella linea di successione al trono dopo il Conte di Provenza e il Conte di Artois, suo padre.
Come da tradizione, subito dopo il parto, è cominciata la processione dei visitatori, per rendere omaggio al piccolo duca d'Angoulême, tra le braccia della sua nobile madre, orgogliosa di avere portato a termine il suo compito, superando in questo la legittima Regina, cui era rimasto solo l’onore di essere testimone dello svolgersi del lieto evento e di congratularsi per prima insieme al suo augusto marito. Dopo i sovrani era stato il turno di tutti gli altri membri della famiglia reale, poi, in ordine di rango, i cortigiani, a seguire le rappresentanze del clero e dell’alta borghesia, giù giù fino a quelle del popolo.
È per questo, che oggi si possono incontrare, camminando per le gallerie basse e per i giardini della Reggia, piccoli gruppi di uomini e donne, che non hanno nulla dell’abbigliamento e del portamento ricercato, il più delle volte artificioso, degli abituali frequentatori della Corte.
Gli abiti neri, sobri ma dignitosi, dei rappresentanti dei fabbri, dei macellai, degli spazzacamini e così via fino alle donne del mercato, non possono certo passare inosservati tra gli ori, le fini sete ricamate, i broccati, i merletti e i gioielli sfarzosi, così come non possono passare inosservati gli occhi sgranati, che si attardano su ogni statua, ogni specchio, ogni doratura, quasi increduli davanti a tanta ostentazione.
Deve essere a causa di questo evento eccezionale, che ha la strana sensazione che tutto sia diverso. Dopo cinque anni di regolare servizio, non può essere altro il motivo di una simile sensazione di estraneità, essendo rimasta assente solo un mese.
 
Aveva preso in giro André sentendolo dichiarare di essere felice di trovarsi nuovamente a casa, appena avevano raggiunto la periferia nord di Parigi. In fondo erano stati lontani solo due settimane, ma lui aveva dato voce ai suoi pensieri: le esperienze fatte in quel breve viaggio gli sarebbero bastate almeno per dieci anni. Aveva anche riso in risposta a quella, che era stata detta come una battuta, ma poi, procedendo al passo per le strade cittadine, le erano tornati alla mente la ragazzina a cui aveva dato una moneta d’oro uscendo dalla casa del Conte di Fersen, il bambino che era stato ucciso dal Duca per aver cercato di rubare per fame, le rivolte che avevano raggiunto Parigi la primavera precedente. Era come se quel viaggio di pochi giorni le avesse permesso di osservare tutto da una prospettiva più favorevole, permettendole di vedere il quadro d’insieme e smettere di considerare quegli eventi come inevitabili tragedie isolate, rivelandoli, come tasselli di un’immagine molto più grande e complessa. In quei pochi giorni alla villa, le era sembrata possibile un’altra vita.
Sull’onda di quella rivelazione si era diretta nello studio di suo Padre, appena arrivata a casa, formalmente perché lo doveva avvertire di essere tornata, come segno di rispetto, nella sostanza perché sentiva che lo doveva informare di quella sconcertante realtà, che appariva tanto lontana e sfocata da risultare quasi invisibile dal punto di osservazione della loro confortevole quotidianità.
Nonostante la passione che aveva messo nel raccontargli di quello che aveva visto, dello sdegno per la vita che erano costretti a subire i contadini che vivevano anche sulle loro terre, dell’importanza di informare il Re e la Regina di quella situazione, della necessità di un intervento, il Generale non era stato minimamente impressionato dalle sue parole. Sembrava quasi non avere sentito nulla di quello che aveva detto. Appena aveva finito di parlare l’aveva aggredita, furioso per il fatto che avesse disobbedito all’ordine di rimanere consegnata a Palazzo, preoccupato solo che non si fosse resa conto delle possibile conseguenze per la Regina, che era stata così magnanima con lei, se qualcuno si fosse accorto di questa sua follia.
Allora aveva insistito, perché forse era solo per la troppa rabbia, che lui non aveva inteso il peso di quello che gli aveva detto, ma ancora aveva minimizzato. Aveva messo un punto a quell’irritante conversazione, ponendola di fronte a quelli che ci si aspettava fossero i suoi doveri. Niente altro doveva riguardarla, perché ognuno aveva il suo ruolo e il suo compito e occuparsi di quel genere di cose non era certo il suo[xxv].
“Non voglio più sentire una parola su questo argomento. È un ordine, Oscar. Se qualche volta non hai proprio niente da fare pensa a esercitarti con la spada.”
Erano le ultime parole che le aveva gridato, puntandole contro l’indice in segno di ammonimento. Era talmente furiosa che non aveva salutato, non gli aveva chiesto scusa per il suo comportamento indisciplinato. Per la prima volta in vita sua si era limitata a correre fuori dallo studio, violando qualsiasi regola del rispetto e della buona creanza, quasi travolgendo André, che era accorso probabilmente attirato dalle loro grida.
Riprendere il controllo aveva richiesto una notevole quantità di tempo, e di sudore, suo e di André, che non aveva commentato quando l’aveva raggiunta vicino alle scuderie, trovandola scostante e irrequieta come una fiera in gabbia.
Non aveva detto nulla, si era limitato ad aspettare di catturare il suo sguardo, poi le aveva lanciato la spada e si era messo in guardia.
Era talmente stanca alla fine che non aveva neanche cenato, si era fatta preparare un bagno per cercare di distendere i muscoli, e con il corpo indolenzito, ma la mente lucida, si era infilata sotto le coperte.
Nonostante quello di cui era convinta, aveva dato all’uomo che l’aveva allevata il beneficio del dubbio. Forse era vero che si era solo lasciata trasportare dall’onda delle emozioni, che visto in una prospettiva differente quello, che l’aveva colpita come una grande rivelazione, in realtà risultasse nettamente ridimensionato.
Nei giorni successivi si era imposta di rispettare in maniera rigorosa quello, che ci si aspettava essere il programma della sua vita: le letture, le cavalcate, gli allenamenti con la spada e le armi da fuoco. Non aveva più affrontato l’argomento neanche con André, nel tentativo di ritrovare la pace perduta.
Non era servito a nulla, anzi, se possibile quello che era sempre stato il conforto della regolarità della sua vita, le era parso improvvisamente ancora più insensato.
Aveva disposto di alzarsi prestissimo quella mattina per il suo ritorno a Versailles. L’avevano fatta sorridere le teatrali rimostranze di André, come sempre l’aveva fatta sentire più leggera… come la decisione ormai presa.
Non aveva fatto in tempo a raggiungere la Sala delle Guardie, non il suo ufficio, non era riuscita a chiedere udienza alla Regina con la scusa formale di porgerle i suoi omaggi e ringraziarla per ma generosità dimostrata.
Ai piedi della grande scale si era vista venirle incontro Girodelle, con tutta la fretta che gli consentiva di mantenere un’andatura consona al luogo e al suo ruolo, salutandola, dichiarando la sua felicità per il provvidenziale ritorno e annunciandole il lieto evento, che richiedeva la sua immediata supervisione del servizio di guardia preposto.
Nonostante il caldo, che andava aumentando col passare delle ore, avevano percorso di buon passo quasi tutta la Reggia, verificando che le postazioni di guardia fossero adeguatamente presidiate, predisponendo i turni per l’accesso degli ospiti, assegnando nuovi drappelli di soldati ad aree della Reggia e dei giardini solitamente lasciati sguarniti.
Dopo l’ultima tappa nei pressi della Cappella, avevano deciso si avventurarsi sotto il sole ormai alto, attraversando il Cour Royal, per raggiungere più velocemente l’ala opposta e il suo ufficio.
Esauriti gli argomenti di conversazione inerenti al loro dovere, Girodelle aveva preso un tono più informale, sebbene sempre consono alle regole della buona creanza.
“Comandante cosa provate tornando alla Reggia, dopo essere stata lontana un mese?”
Una domanda ovvia e assolutamente lecita, viste le circostanze, ma le era sembrata quasi un’indebita intromissione nei suoi pensieri, per tutto quello che aveva vissuto in quei giorni.
“In un certo senso è come se la vedessi per la prima volta, è come se mi trovassi in un luogo completamente nuovo!”
Era una verità assoluta quella che gli aveva confidato, ma dubitava che si rendesse conto della portata di quell’affermazione, considerandola più di una mera frase di circostanza.
Non aveva avuto però tempo di approfondire, visto che improvvisamente si era dovuta scostare per evitare di essere investita da una carrozza che aveva attraversato i cancelli dorati a gran velocità, senza minimamente accennare a rallentare.
Aveva quasi imprecato, tanto era incredula per un simile comportamento. Quando si era girata verso il suo secondo, non aveva però scorto nei suoi occhi il medesimo sconcerto. Con l’espressione seria e gli occhi fissi in direzione della vettura, che si allontanava, aveva parlato con voce calma.
“La contessa di Polignac… è una donna molto potente a Corte, è un modo per farsi notare…”
Aveva poi continuato raccontandole, che era comparsa a Corte durante un ricevimento a metà luglio, sentendola cantare la Regina ne era subito rimasta affascinata e l’aveva nominata sua Prima Dama di Compagnia. Conoscendo la volubilità della Sovrana questa cosa non l’aveva preoccupata particolarmente. Però, quando aveva aggiunto, che in così poco tempo era riuscita ad ottenere il risarcimento degli ingenti debiti di tutta la sua famiglia e il pagamento del suo sontuoso mantenimento a Corte a carico delle casse Reali, non aveva potuto che condividere l’opinione di Girodelle, che si trattasse di una persona molto pericolosa. Conosceva fin troppo bene, quanto Maria Antonietta tendesse a mostrarsi generosa con le persone nelle quali credeva di trovare l’affetto che tanto bramava, ed era solo un caso se ancora nessuno era stato tanto scaltro da abusare fino in fondo di questa sua debolezza.
Aveva affrettato il passo, sempre più convinta di dover parlare al più presto con la sua Regina. Quando era arrivata nel suo ufficio, dopo che Girodelle si era ritirato, André l’aveva avvisata che Maria Antonietta non era ancora tornata dalle stanza dei Conti di Artois. Le aveva proposto di prendersi una pausa, andando a cercare un po’ di ristoro nella galleria affacciata sui giardini, visto che, nel suo ufficio rivolto a oriente, la temperatura era diventata intollerabile.
 
In quella mezz’ora, trascorsa a lasciare gli occhi vagare sulle aiuole variopinte e simmetriche, sull’acqua scintillante sotto il sole, che zampilla dalle complesse sculture delle fontane e scorre placida nei canali, godendosi la brezza leggera nell’ombra della grande galleria, è riuscita a ritrovare la calma. Ha scelto con cura le parole più adeguate da pronunciare alla Regina, per cercare di farle comprendere la gravità della situazione e la necessità di un suo intervento, facendo leva sul suo buon cuore, senza turbare un’indole a volte troppo propensa al dramma.
Si gira verso André, che è rimasto in silenzio al suo fianco e leggermente arretrato, come chiunque si aspetta che faccia un buon attendente. Basta uno sguardo perché le ceda il passo, seguendola in direzione est lungo la galleria.
Nella sala da cui si accede alla Scala della Regina si stupisce di vedere, ancora distante, un gruppetto di sei donne vestite di nero, non avrebbero dovuto riuscire ad arrivare così vicine agli appartamenti di sua Maestà. Non se ne preoccupa troppo, sembrano del tutto innocue, prese solo dagli intarsi in marmo colorato delle pareti, fino a quando il ticchettio di passi sul marmo, proveniente dalla direzione opposta non attira la loro attenzione e la sua.
È Maria Antonietta che avanza di ritorno dall’ala dei Principi. Sorride alla vista di quelle visitatrici inusuali, che si sono girate tutte verso di lei. Rivolge loro lo sguardo, disponibile all’omaggio, che sono tenute a renderle.
Non si muovono, non si inchinano al passaggio della loro Regina. Avvicinandosi sente che le stanno dicendo qualcosa, ma ancora non riesce a capire cosa. Un passo dopo l’altro vede quel sorriso appena accennato scomparire. Prosegue fino a raggiungere la scala e poi cominciando a salire, Maria Antonietta non accelera, ma le sembra che dal suo incedere, sempre così elegante, sia scomparsa la consueta grazia, per lasciare il posto a una certa rigidezza.
Con gli occhi segue solo lei, sale lungo la scala, ma quando è abbastanza vicina sente cosa quelle donne le hanno detto, cosa le stanno ancora dicendo, sibilando rabbiose.
“… sgualdrina austriaca…”
“… frigida…”
“… quando vi deciderete a dare alla Francia un erede…”
“… puttana sterile…”
Non riesce a credere a quello che sente. Posando il piede sul primo gradino si gira a osservare con gli occhi spalancati i volti delle donne rimaste immobili ai piedi della scala, lo sguardo intriso d’odio fisso sulla figura delicata, che sta scomparendo dietro il portone a fregi aperto e richiuso dalle guardie.
“Allontanatele!” un ordine secco a due soldati che le sono corsi incontro, vedendola affrettarsi lungo la salita.
Supera la soglia, sente una porta sbattere in lontananza, osserva le dame del seguito che tornano a sedersi incuranti dopo essersi alzate al passaggio della Regina, così nell’anticamera, che percorre a grandi passi, come nel salone dei Nobili. La porta della camera da letto è stranamente chiusa[xxvi], si avvicina velocemente, appoggia la mano sulla maniglia, ma un attimo prima di abbassarla si blocca. Ha sentito qualcosa, un rumore provenire da dietro l’anta, accosta l’orecchio, un singhiozzo, un altro… un pianto dirotto.[xxvii]
Solleva la mano dalla maniglia d’ottone per appoggiarla delicatamente sul legno, la fa scivolare come in una carezza prima di girarsi tenendo gli occhi bassi. Quando li solleva, si trova davanti quelli di André. Da come la guarda capisce, che sul suo volto è dipinto qualcosa che certo non vorrebbe nessun altro vedesse. Allora solleva il mento, inspira, aggrotta leggermente le sopracciglia.
“Parlerò domani con sua Maestà.”
Si scosta per lasciarla passare, senza dire nulla. Sa che quella frase non era per lui. La segue mentre procede con passo solenne verso la Sala delle Guardie.
 
 
Angolo dell’autore:
Terza parte di questo lunghissimo anello. È stato necessario dividerlo in favore di lettura, confido che alla conclusione (quarta e ultima parte) risulterà chiaro il senso unitario di questo anello dedicato alla formazione di Oscar e … a un tema molto preciso. Come sempre ringrazio che dedicherà del tempo a recensire, visto che i feedback a questi miei lunghissimi monologhi, mi aiutano a rifinire i miei deliri ;-) e come sempre ringrazio chi abbia inserito questa mia intricata rilettura della storia tra seguite/da ricordare o addirittura preferite. A presto…

 
 
 
 
[i] Il distretto di Calais, in cui si trova Arras, è zona di confine (si nota anche dalla cucina, che è molto fiamminga e caratterizzata dal consumo di ottime birre più che di vino) lungamente contesa, inoltre ha una storia molto antica (come testimonia la tradizione degli arazzi). In Francia (come un po’ ovunque, ma qui per me la cosa appare molto netta) le ville tendono ad avere una caratteristica architettonica che le distingue per luogo ed epoca storica, che è la fortificazione, ossia la presenza intorno alla villa/castello di un muro di cinta e di un fosso di protezione o meno, eventuale memoria del periodo + o - feudale pre-Luigi XIV, quando il signore era veramente signore delle sue terre, le governava/amministrava e poteva doverle difendere da nemici esterni o interni. Dopo l’azione politica accentratrice di Luigi XIV (di cui Versailles e il suo protocollo sono strumento e simbolo) i nobili guardano alla Reggia come centro di potere, il potere militare si concentra nelle mani del Re e le fortificazioni delle ville perdono ragione di essere, molto più importante avere un grazioso palazzo di campagna in cui fare al limite la villeggiatura ospitando amici. Ne consegue che le ville di nuova costruzione non hanno più fortificazioni e quelle che le hanno vengono ristrutturate in modo tale da risultare più ‘alla moda’ che rassicurantemente solide. Per questo, la location e la natura del proprietario (il generalissimo), ho immaginato la villa di Arras come una di queste ville fortificate però non ristrutturata secondo i dettami della moda se non con un addolcimento del fosso circostante (che in molte ville diventa uno stagno poco profondo per ninfee e graziose anatre) e nella mancanza delle fortificazioni delle mura (si insomma, merli e feritoie almeno li ha tolti XD).
[ii] Probabilmente un delfino sarebbe stato più settecentesco, ma ‘saltante’ stava male, e il simbolo di famiglia ha un leone… per cui in fase di ristrutturazione per me ci stava che il generalissimo abbia commissionato un leone per la fontana.
[iii] Sono di fatto i waffle, serviti ripieni di burro e zucchero, tipici della regione.
[iv] Io non credo affatto che André lo trovi stupido, e probabilmente neanche immotivato, ma essendo questo il punto di vista della nostra bionda.
[v] Su questo aspetto, a mio avviso c’è un po’ di casino dovuto alla figura di Andrè: un militare, come il generale e come Oscar avrebbero si dovuto avere un attendente, che però a sua volta avrebbe dovuto essere un militare e non un civile, tipo valletto/segretario personale, come di fatto è André (uomo civile a seguito di donna militare… fuori da qualunque schema sociale, certo che spettegolavano). Cmq, assodata questa anomalia a casa Jarjayes, mantengo l’ambiguità anche per l’attendente-valletto del Generale.
[vi] Ok, il Generale è evidentemente particolarmente bravo nel reclutamento del personale ;-)
[vii] Per questo dettaglio mi sono ispirata al discorso che il personaggio di Helen Mirren in Ghosford Park, quando dice che lei è la cameriera perfetta, che anticipa i desideri dei padroni, perché lei sa quello che vorranno ancora prima di loro. Con il Generale mi sembrava una cosa fattibile per uno sveglio e con un buon spirito di osservazione, perché, a parte qualche idea balzana tipo allevare la bambina come un maschio, deve essere un po’ maniacal ossessivo come tutti i militari nelle sue abitudini.
[viii] Per me Oscar ha un grosso problema (nel senso che è un problema per lei di base e di conseguenza per gli altri), non concepisce l’evolversi delle cose. Le cose sono così, io ho imparato a gestirle così, per cui vanno bene così. Il fatto che non le venga in mente che André possa avere bisogno di avere una vita semplicemente perché lei si è cristallizzata nel suo ruolo, è veramente una negazione ai limiti del patologico!
[ix] So che di norma questo viene descritto come il viaggio di una giornata, ma Arras dista circa 200Km da Parigi e se non si cambiano i cavalli alle stazioni di posta, non si può chiedere a un animale di percorrere più di una sessantina di km al giorno, se non lo si vuole uccidere. In ogni caso, non credo che in questo caso abbiano alcuna fretta ;-)
[x] In realtà nel ‘700 il miglio romano viene dismesso come unità delle misura della distanza a favore del Km, ma qui, con il POV di Oscar, mi suonava meglio.
[xi] Stufato di manzo alla birra con cipolle e spezie, tipico della zona del Pais de Calais, la cui cucina ha chiare influenze fiamminghe.
[xii] Portare la spada al fianco era un diritto regolamentato e uno status simbol. Nel periodo trattato non era più solo un diritto dei nobili portare la spada al fianco, ma cmq è poco realistico, che in un viaggio così rilassato le spade venissero tenute a portata di mano.
[xiii] La zona è decisamente più da birra che da vino.
[xiv] Liquore al ginepro della zona.
[xv] … non è che la voglio far sembrare incerta di suo la nostra bionda, è solo che secondo me in generale non è per niente brava a gestire le situazioni che escono dagli schemi, o almeno da quelli a cui non è abituata. Non che non sia in grado di gestirle, è solo che per indole mi pare preferisc non farlo, per cui evita proprio di pensare alle possibili alternative. Florie, che all’inizio doveva essere solo una camerierina di sfondo, un po’ alla volta mi si è rivelata un tipino interessante: con l’innocente brutalità di contadinella di paese è decisamente un’esperienza nuova per Oscar trovarsela in casa, dice cose banali e a sproposito, che però rivelano scenari nuovi per chi, come nostra bella, sia in grado di capire… quando vuole, e poi… mano a mano che scoprivo cose su di lei… a me Florie ricorda tanto qualcuno XD… anche se non abbiamo mai avuto il bene di conoscerla a questa età!
[xvi] Eh, lo so… l’espediente di Oscar che assiste alla vita degli altri come una guardona l’ho già usato, ma proprio mi pare l’unico modo di mettere una cocciuta e con una vita strampalata come lei a parte di una certa ‘normalità’, costringendola nel contempo a prendere atto di certi suoi … atteggiamenti ;-) Confido comunque apprezziate lo sforzo con cui cerco di rendere il più naturali possibile questi trucchetti narrativi XD
[xvii] eh, già… arriva a 30, ma per il 31 ci vogliono ancora una dozzina di anni. D’altra parte, non sempre a cercare di fare la cosa giusta autotutelandosi, si finisce sempre poi col fare la migliore… d’altra parte se nascessimo tutti ‘imparati’ sai la noia!
[xviii] La nostra Oscar confonde l’intimità con il sesso, ma ovviamente la perdoniamo, perché le si vuole bene, e soprattutto perché … è un errore pandemico.
[xix] Probabilmente è a causa delle carenze nelle modalità di conservazione del cibo, per il consumo di selvaggina… i forse solo per moda alimentare, sta di fatto che i gusti corposi e dolci andavano in generale per la maggiore. Qui la zona è più che altro da birra, ma non ce la vedevo Annette, con la sua ansia da prestazione, a offrire birra scusa alle ciliegie… anche se probabilmente sarebbe stata apprezzata. Siamo troppo a nord per Sauterne, la malvasia cresce praticamente ovunque, da cui la scelta
[xx] Si, lo so sono le solite frasi di circostanza, ma d’altra parte, cercando di riparare per essere stata una cafona preterintenzionale….
[xxi] In realtà il termine d’epoca sarebbe stato ‘pranzo’, ma ho deliberato per il moderno termine ‘cena’. Per l’orario, siamo a nord e in campagna, si cena presto, le sette è già un’ora parecchio ‘elegante’, nonostante non siano le 10 delle case alla moda di Parigi
[xxii] Sì, non ne ho mai fatto particolare mistero, a me il Generale piace! Perché è la figura che incarna l’originale concetto di nobiltà, in cui il titolo non era un vuoto vanto accompagnato solo da dei diritti, ma un privilegio e un onore, del quale si doveva dimostrare di essere degni, e un onere nei confronti del Re, della famiglia e di tutti quelli di cui si era responsabili. In questa visione i privilegi di cui gode sono garantiti dalle persone di cui si fa garante, e servono a non farlo cadere in balia di facili corruzioni. L’attaccamento del Generale al codice d’onore di fatto deriva da questo, la sua unica colpa è rimanere aggrappato a questo codice in una realtà storica in cui il patto sociale ormai è decaduto (grazie alla deliberata opera di Luigi XIV). Insomma, è inutile giocare secondo le regole, quando tutti gli altri barano. Sicuramente poco malleabile alle circostanze, ma non riesco a condannare qualcuno solo perché non si capacita di dover buttare alle ortiche quello su cui ha fondato la sua intera esistenza. Per me questo è in parte il problema anche di Oscar, che però si trova di fronte al biovio in età decisamente più precoce.
[xxiii] Ci andrebbe persone… ma nel ‘700 manco uno di mentalità aperta come Jerome avrebbe usato persone… neanche Oscar avrebbe usato persone.
[xxiv] All’inizio avevo mimato una stretta di mano… ma non avrebbe avuto senso, per l’epoca, per salutare una Mademoiselle in modo formale… da Oscar educata per comportarsi come un gentiluomo.
[xxv] Questa reazione può sembrare in contrasto con quello che ha raccontato Jerome, in realtà è figlia della stessa visione. Jerome descrive il Generale che a differenza degli altri nobili esegue diligentemente i suoi compiti. Il problema però è che lo fa dando per scontato che gli altri componenti dell’ingranaggio facciano il loro (Re e Regina compresi) e non gli passa neanche per l’anticamera del cervello di metterlo in discussione. Lui fa quello che deve, Oscar non se ne deve occupare perché non è compito suo e tanto meno, per lui, deve mettere in discussione l’operato dei sovrani.
[xxvi] Sono gli appartamenti pubblici, dove l’accesso è libero per gli aventi diritto.
[xxvii] L’aneddoto delle donne del mercato, a corte per rendere omaggio al nuovo erede, che insultano la Regina, che poi si rifugia piangente nei suoi appartamenti è vera. Per quanto orribile, poteva essere uno proficuo spunto di riflessione, visto che è piuttosto improbabile che fossero state scelte tra i soggetti più riottosi e antimonarchici.

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Capitolo 7
*** Anello 4: Aspettative (parte4/4) ***


Premessa dell’autore:
Ciao a tutte, un'altra pubblicazione fulminea per i miei standard, ma come avevo detto questo infinito anello era solo da revisionare. Dopo questa dovrò uscire dalla testa della bionda, per traghettare in quella del nostro bel moro. Ammesso che ancora questa storia c’interessi, vi auguro buona lettura dell’ultima parte di questo infinito anello dedicato alla formazione di Oscar.
 
 
 
Indice (per assistere la frammentazione del lungo capitolo con accessi diretti)
 
Venerdì 3 Novembre 1775, Versailles
Venerdì 25 Ottobre 1776, dintorni di Parigi
Domenica 20 Aprile, 1777, Palazzo Jarjayes
Giovedì 26 Giugno 1777, Versailles
Sabato 19 Dicembre 1778, Versailles
 
 
 
Anello 1.4: Aspettative
(Parte 4)
 
….

Venerdì 3 Novembre 1775, Versailles

 
Sono caldi e avvolgenti i colori delle chiome oramai rade, che adornano il morbido profilo dei prati e delle colline spenti dall’autunno. Quelle macchie di borgogna, che sfumano nell’ocra transitando per il carminio, fanno apparire opulenta la terra già spoglia e pronta per il freddo riposo invernale, ingannano gli occhi, facendo sembrare accogliente quello che oramai è privo di vita, come se volessero fissare l’ultimo ricordo di ciò che si nasconde, addormentato sotto le brulle zolle, stagliandosi contro un cielo apatico, sgombro da nubi ma freddo come l’acciaio, tanto che persino il sole sembra faticare a risplendere, rimanendo di un pallore luminoso alto nel cielo.
Come un dipinto quel paesaggio scorre, fuggendo lentamente da lei, davanti ai suoi occhi persi oltre il vetro del finestrino, mentre è solo l’alternarsi dei fusti scuri e il sommesso dondolio della carrozza a scandire quell’apparente immobilità.
Le sembra tutto nuovo, come se non lo avesse mai visto, eppure percorre quella strada ogni mattina per andare alla Reggia e ogni sera per tornare a Palazzo, ma lo fa a cavallo, accelerando il passo per giungere a destinazione il più velocemente ed efficientemente possibile, magari pensando alle incombenze della giornata, piuttosto che prestando attenzione a quello che la circonda e che si aspetta di trovare lì anche il giorno successivo come tutti quelli precedenti.
Oggi invece questo inaspettato viaggio in carrozza, a un’ora così inusuale, le fa apparire tutto alieno, come se il tempo vissuto lentamente fosse in grado di cambiare la natura delle cose, di renderle sorprendenti, mentre sa benissimo che non può esserci nulla di nuovo in quel paesaggio, trasformato dalla stagione come ogni anno. Le cose sono sempre solo ciò che sono, possono solo raggiungere la loro pienezza, esattamente come le persone, ma bisogna attendere che giunga il loro tempo, che maturino e che le condizioni siano propizie.
 
Quella mattina era giunta a Versailles presto, come ogni giorno, forse un po’ prima del solito, perché lei e André avevano spronato i cavalli al galoppo, per sfuggire al freddo pungente; avevano varcato i cancelli, e si erano diretti verso l’ingresso sud, come sempre, dove erano smontati per affidare Caesar e Alexander a due mozzi di stalla, che li avrebbero condotti alle scuderie. Avevano salito la grande scala di marmo, senza troppa fretta, limitandosi a qualche considerazione sul tempo, mentre si sfilavano i guanti e slacciavano i mantelli, ma, diversamente da ogni altra mattina, il tenente Gaillard le era corso incontro, anziché aspettarla all’interno del Salone delle Guardie per farle rapporto sul turno di notte quando interpellato. Non aveva neanche atteso che lei lo autorizzasse a parlare.
“Comandante, Vostra Madre… vostra madre si è sentita male questa mattina… al cospetto della Regina…”
Al solo sentirla nominare con quella voce spezzata dal nervosismo, il respiro si era fermato, come bloccato dal macigno che improvvisamente sembrava costringerle il petto.
“Dove…”
Non era riuscita a dire altro mentre passava frettolosamente mantello e guanti ad André, nei cui occhi aveva trovato rifugio solo per un attimo, mentre sentiva il suo sottoposto rispondere.
“L’hanno condotta nei suoi appartamenti…”
Si era voltata, affrettata giù per le scale e diretta verso la galleria, per uscire all’aria gelida e attraversare il Cour Royal, così da raggiungere il più velocemente possibile l’ala nord[i]. Non ricordava i gradini, non ricordava il freddo, non aveva idea di chi fossero le numerose sagome indistinte, che aveva incontrato lungo il suo percorso. Ricordava solo il rimbombare nelle orecchie dei tacchi sul marmo e del suo cuore, che batteva furioso,  stentava a capire come avesse fatto a trattenersi dal correre lungo tutto il tragitto e poi di nuovo su per le scale, che conducevano al primo piano, infine attraverso l’anticamera. Era entrata spalancando la porta, senza neanche bussare, facendo sobbalzare Viviane[ii].
“Madamigella… vostra Madre è in camera da letto, le vostre sorelle sono con lei.”
Glielo aveva detto per rassicurarla, senza nemmeno salutare, semplicemente scostandosi in fretta per non intralciarla mentre attraversava il saloncino a grandi passi, dirigendosi verso l’altra porta, davanti alla quale si era costretta a fermarsi, alzando la mano per battere le nocche leggere ma decise sulla superficie del legno, cercando di rallentare il respiro e riprendere il controllo. Le era sembrato, che anche il tempo si fosse fermato, fino a quando qualcuno dall’interno non l’aveva autorizzata a entrare, allora aveva ripresto a scorrere mento e viscoso, mentre abbassava la maniglia e varcava la soglia ansiosa.
Non era riuscita a mettere subito a fuoco la scena, i suoi occhi avevano vagato nervosi nella stanza in penombra, fino a quando non avevano incrociato quelli di sua madre, sdraiata sul letto, il capo sostenuto da una pila di morbidi cuscini.
“Oscar…”, non le aveva dato il tempo di parlare, o forse si era resa conto che non ci sarebbe riuscita, rivolgendole uno sguardo rassicurante anche se ancora un po’ appannato, “… non è stato nulla, solo un po’ di stanchezza…”
Solo allora avevano preso consistenza i dettagli della scena: Marie-Suzanne le teneva una mano, passandole leggera un panno sulla fronte con l’altra, seduta accanto a lei sul materasso, circondata dal broccato celeste del copriletto e dei tendaggi del baldacchino, mentre Marie-Anne[iii] si era allontanata per scostare un po’ le tende della grande finestra ai piedi del letto per lasciare entrare più luce. Gli occhi di entrambe si erano rivolti su di lei, appena era entrata, identici nell’espressione, pieni di una stessa muta richiesta più che di timore o apprensione.
“Madre, mi hanno avvertito appena sono arrivata…”
“Non dovevano, non è nulla di grave, sto già meglio.”
Aveva pronunciato quelle parole con un tono dolce, quasi un sussurro, facendosi aiutare per sollevarsi un po’ di più sui cuscini da Marie-Suzanne, che le aveva passato un braccio dietro la schiena. Il viso della sorella più grande, così simile a quello della madre per la dolcezza dei tratti, i grandi occhi di un blu profondo e calmo, l’ovale gentile, tanto da sembrarne la copia più giovane, così vicino al suo aveva reso ancora più evidente quando fosse stanca e provata, nonostante facesse di tutto per rassicurare lei e le sorelle.
“é rimasta ancora in piedi tutta la notte, aspettando il ritorno di sua Maestà… uscendo dalle sue stanze… questa volta, è svenuta… ”
Si era girata di scatto a guardare Marie-Anne, perché nel sentire il tono duro con sui erano state pronunciate quelle parole si era quasi aspettata di vedere il viso di suo padre. Anche lei è sempre stata molto somigliante alla madre, lo stesso incarnato, gli stessi occhi, lo stesso tono di biondo così caldo dei capelli, così diverso dal suo, ma quella minima rigidezza nei tratti aveva reso sempre così stranamente evidente l’impronta paterna.
 
Anche le sue sorelle più giovani si potrebbe dire che somiglino tutte alla Madre, ma una dopo l’altra il marchio di suo padre è parso sempre più evidente, fino a Emilie-Laure, che ha solo un anno più di lei ed è l’unica ad essere bruna come era il Generale da giovane.
Anni prima aveva sentito un vecchio zio fare una battuta, osservandole per una volta tutte riunite, una accanto all’altra, non ricorda bene in occasione del matrimonio di quale delle sue sorelle. Aveva detto che il desiderio del Padre per la nascita di un maschio, così da poterne fare un soldato, era diventato tanto più insistente, una gravidanza dopo l’altra, da far somigliare sempre di più a lui quelle bambine, che si ostinavano a nascere uguali alla madre[iv]. Ricordava di non aver condiviso l’ilarità generata da quell’uscita nei convitati, il suo sguardo era andato agli occhi del Generale, che tradivano la bocca, piegatasi in un sorriso per pura disciplina sociale. Era diventato ancora più tagliente, quando qualcun altro aveva ribattuto dicendo, che invece con lei aveva smesso di sperare e aveva deciso di agire per realizzare il suo ideale del perfetto soldato, poiché così androgina ed eterea aveva esattamente l’aspetto che avrebbe dovuto avere la personificazione di un’idea[v].
 
“Forse è il caso che ci spostiamo a discutere nell’anticamera mentre Viviane aiuta nostra Madre a vestirsi.”
Marie-Suzanne aveva parlato con tono calmo, sollevandosi in piedi e invitando entrambe a uscire con un composto gesto delle mani, mentre con lo sguardo faceva cenno alla cameriera, fermatasi vicino alla porta, di avanzare per assistere la sua padrona.
Si era attardata in un ultimo sguardo apprensivo alla Madre, che aveva semplicemente annuito sorridendo, allora si era girata tornando sui suoi passi seguita dalle sorelle.
Suzanne aveva chiuso la porta alle sue spalle prima di accomodarsi su una delle poltroncine del salotto. Era rimasta in silenzio ad aggiustare con cura il ricco tessuto fiorato dell’abito, riportandolo simmetricamente sui braccioli foderati di verde giovane e facendolo ricadere ordinatamente a terra, come se cercasse di prendere tempo prima di parlare, mentre Anne, anche lei seduta in poltrona, con le mani raccolte in grembo, si limitava a fissarla. Lei era rimasta eretta e altera di fianco al canapè.
“Se non ti crea troppo disturbo, sarebbe opportuno che ti prendessi l’incombenza di riaccompagnare nostra Madre a Palazzo in carrozza…”
Anche Suzanne aveva sollevato gli occhi alla fine, ma quelle parole sembravano più che altro un ulteriore tentativo di temporeggiare.
“Certo, avvertirò il capitano Girodelle di prendere le consegne al mio posto per oggi. Posso occuparmi del suo trasferimento a Palazzo… e del suo ritorno qui alla Reggia quando si sarà ripresa, naturalmente.”
“Ecco…” Anne, solitamente così decisa, sembrava esitare“… forse sarebbe più opportuno prendere in considerazione la possibilità che nostra Madre torni a risiedere a Palazzo Jarjayes stabilmente.”
Quella precisazione aveva fatto nuovamente accelerare i battiti del suo cuore.
“Come…” il suo sguardo ansioso era rimbalzato dal viso di una a quello dell’altra, in cerca di qualche indizio dietro le loro espressioni garbatamente imperscrutabili “… avevate detto che non è niente, che è stato solo un mancamento dovuto alla stanchezza…”
La mano di Suzanne si era sollevata con grazia per fermarla “Calmati Oscar, non c’è motivo di preoccuparsi. È vero, nostra Madre starà bene, non ha nulla di grave, ha solo bisogno di riposo.”
Aveva lasciato andare l’aria di cui si era gonfiato il petto per poi girarsi di scatto, vigile, appena era stata Anne a parlare.
“Non è però necessario che tutti lo sappiano…” aveva fatto subito una pausa, probabilmente per l’espressione interrogativa, che le era comparsa in volto, “… se una volta a palazzo il medico dovesse visitare nostra Madre, trovandola troppo indebolita per riprendere le sue mansioni di Dama della Regina a Corte, certo la nostra buona Sovrana troverebbe più che giusto concederle di privarsi dei suoi servigi.”
“Cosa… perché mai dovrebbe… ” non riusciva neanche a trovare le parole per controbattere quell’argomentazione, che non le sembrava avere alcun senso “… essere al servizio di sua Maestà è il più grande degli onori!”
Quell’affermazione le sembrava così ovvia che l’espressione, tracimata dalla garbata impassibilità del viso di sua sorella, l’aveva lasciata ancor più interdetta. Il lampo nei suoi occhi ricordava il fastidio di qualcuno, che sta cercando di far intendere qualcosa di assolutamente ovvio a una persona inesorabilmente lenta[vi].
“Questo è bene inteso, e per le persone meno attente alla rispettabilità del proprio buon nome, la rendita, associata a questi servigi[vii], è un altro buon motivo per cui nessuno dovrebbe ragionevolmente decidere di abbandonare un simile incarico di propria volontà.” le aveva sorriso “Ragione per cui è lecito supporre, che nessuno possa sospettare, che l’abbandono del servizio regolare a Corte della moglie del Generale Jarjayes, madre del Comandante delle Guardie di sua Maestà, sia imputabile ad altro che non sia il suo delicato stato di salute!”
“Ma perché…” continuava a non capire cosa avessero in mente “…perché fare una cosa del genere, perché una simile menzogna…”
“Oscar…” era stata Suzanne a quel punto a intervenire “… quella che oggi ti sembra una menzogna, è semplicemente quello che rischia di accadere domani! La Regina ormai torna quasi sempre all’alba, dopo aver passato la notte a qualche ballo o a giocare a Parigi e quando non rimane fuori organizza feste e intrattenimenti per le sue sempre giovani e spesso discutibili[viii] frequentazioni a Corte…”
La cruda esposizione dei fatti l’aveva fatta sobbalzare. Nonostante il dovere di ribattere, non era riuscita a trovare le parole per farlo.
“… quando si corica dorme solo qualche ora, per tornare subito a dedicarsi alla sua frenetica ricerca di qualcosa che la diverta. Nostra Madre non è in grado di resistere a una simile situazione, e, come ha dimostrato quanto accaduto questa notte, non accetterebbe mai di disattendere a quelli che considera i suoi doveri…”
“Ma perché mentire! Se ne parlassi a sua Maestà sicuramente capirebbe, sicuramente le permetterebbe…”
“Sicuramente la Polignac ne approfitterebbe…” di nuovo la voce severa di Anne l’aveva richiamata “… è vero Oscar, tu hai un notevole ascendente sulla Regina, che la Polignac in breve tempo è però riuscita a eguagliare, se non a superare, grazie a un grande impegno e pochissimi scrupoli. A differenza di te, e di nostra Madre, ha molto chiari i vantaggi, che questa posizione di amicizia privilegiata con la nostra Sovrana, comporta e, a differenza della Principessa di Lamballe, non ha alcun interesse a condividere questa posizione con nessuno. La sua insofferenza nei confronti dell’affetto, che la Regina ti porta, non è un segreto per nessuno, tranne che per la nostra Sovrana, e questo, inevitabilmente, espone nostra Madre a potenziali rischi.”
“Ma sua Maestà non permetterebbe mai…”
“La Regina ha in grande considerazione i consigli della Polignac, e il Re ascolta sempre l’opinione della sua Regina.” Anne aveva sentenziato interrompendola, mettendo un punto a ogni possibile ulteriore discussione “Non si tratta di prendere una posizione, ma semplicemente di constatare un dato di fatto e adeguarsi alle circostanze. La contessa ha ottenuto più benefici e regalie per sé stessa e per tutta la sua famiglia di quanto sia stato concesso alle favorite di Luigi XV, Dio lo abbia in gloria. Che il Re fosse disposto ad andare incontro a tutte le richieste della sua augusta consorte per quanto riguardava il denaro, nonostante le precarie condizioni delle casse della Casa Reale e del Regno, non era certo una novità, anche se era la prima volta, che le richieste servivano a ripagare i debiti di un’intera famiglia ridotta sul lastrico, ma prima d’ora questo non aveva influenzato le ragioni di Stato. La nomina del marito della Contessa, la cui unica esperienza è quella di aver servito nei Dragoni Reali da giovane, addirittura alla carica di Ministro delle Poste…”
“Dunque è questo? È per via del fatto che al marito della Contessa è stato assegnato un incarico cui ambiva tuo marito?”
Il marito di Marie-Anne era sempre stato il preferito di suo Padre, benché non fosse un militare, la dedizione sua e della sua famiglia, che aveva sempre ricoperto cariche importanti a servizio dell’amministrazione del Regno, incontrava la sua piena approvazione, per cui non mancava mai di aggiornarla sulla sua carriera, quasi vantandosi, cosa che non era certo nella sua indole, di essere riuscito ad allearsi con quella famiglia con un’unione così ben riuscita.
“Se puoi credere veramente, che si riduca tutto a questo, mi conosci meno di quello che credevo, Oscar, e ti devo dire che questo mi offende.”
Aveva smesso di parlare, limitandosi a fissarla, fino a che lei non aveva scrollato la testa, come a voler ritirare l’insinuazione sfuggita sull’ondata del momento.
“Mio marito non ha ottenuto quell’incarico, ma le sue competenze non sono mai state in discussione, per cui gli verrà assegnata una posizione nel Consiglio. Questo evento mi ha solo reso più cosciente della serietà della situazione. Nostra Madre non sarebbe certo la prima persona ad adeguarsi alle circostanze. Dall’arrivo della Contessa di Polignac, la frequentazione della Principessa di Lamballe si è fatta sicuramente meno assidua, e la Contessa di Noailles si è ritirata nel castello d’Arpajon[ix]…”
“Madame de Noailles ha abbandonato temporaneamente la Reggia, per i problemi di salute dell’anziana madre…”
“Certo la Marchesa di Saint-Germain-lès-Arpajon non sta bene ed è anziana … da moltissimo tempo. A questo si aggiunge che una dama maestra del protocollo non ha più motivo di risiedere a Versailles, dopo essere stata soppiantata alla Sovrintendenza della Casa della Regina e se chi dovrebbe dare l’esempio non rispetta più le regole, che dovrebbero governare la vita di Corte. Tutti sono a corte con uno scopo, ognuno ricopre un ruolo… ognuno dovrebbe svolgere il suo compito, se qualcuno non lo fa, perde senso anche quello che fanno gli altri… la forma ha uno scopo quando sottende una sostanza… nessuno è mai venuto a Versailles con l’aspettativa di divertirsi.”
“Dunque suggerite di lasciare la Corte, abbandonare il Re e la Regina, come tutti quei cortigiani opportunisti…”
“Non stiamo dicendo questo, Oscar…” sentendo il suo tono amaro, Suzanne era intervenuta con fare conciliante “siamo da sempre fedeli alla famiglia Reale, confidiamo, come te, che la Regina trovi finalmente modo di placare il suo animo inquieto e dia alla Francia un Delfino, per diventare la grande Sovrana in cui tutti confidiamo, ma non possiamo nasconderci dietro le convenzioni, ignorando quello che sta accadendo. Noi continueremo a frequentare la Corte, come sempre, ma non ha alcun senso che nostra Madre rimanga, ricoprendo il suo incarico, in queste circostanze.”
“Gliene avete già parlato?”
Alla sua risposta atona fa eco la voce di Anne.
“Le abbiamo detto che siamo preoccupate per la sua salute.”
“Non condivide forse le vostre preoccupazioni in merito alla Polignac e alla condotta di sua Maestà?”
“Non ne abbiamo discusso con lei. Sai meglio di noi quale sia la sua devozione nei confronti della famiglia Reale, non lo accetterebbe… non capirebbe.”
La constatazione di questo dettaglio ovvio la porta a evidenziarne un altro.
“Come vi aspettate, dunque, che lo faccia nostro Padre…”
“Sappiamo che non ci ascolterebbe mai… ma sicuramente se fossi tu a fargli notare le precarie condizioni si salute di nostra Madre…”
Alla vista dell’espressione speranzosa comparsa negli occhi di Suzanne aveva soffocato a fatica una risata amara.
“Credo che voi decisamente sopravvalutiate quanto nostro Padre tenga in conto le mie parole.”
Era stata Anne allora a intervenire.
“Potresti parlare tu con il dottore, potresti semplicemente portare alla sua attenzione in merito ai rischi per la sua salute…” aveva parlato con calma, come se fossero suggerimenti casuali, poi aveva sollevato una mano, apparentemente incurante come il sopracciglio “… sono certa che comprenderà la gravità delle circostanze. Non sarebbe certo la prima volta che uno svenimento giunge provvidenzialmente ad aiutare una signora a uscire da una situazione incresciosa!”
Il bussare alla porta aveva anticipato la sua replica e Suzanne si era affrettata ad autorizzare l’ingresso. Non si era girata a verificare chi fosse entrato, aveva continuato a tenere gli occhi fissi in quelli di Anne, che non aveva dato alcun segno di cedimento, nella più assoluta naturalezza. Era stata la voce di Suzanne a interrompere quel confronto silenzioso.
“Oh, benvenuto André!”
Il saluto allegro e familiare l’aveva costretta a voltarsi per verificare chi fosse effettivamente entrato. Incrociando il suo sguardo sorpreso, le aveva sorriso appena prima di piegarsi in un inchino a salutare le sue sorelle.
“Duchessa di Clermont, Contessa de Friege.”
“Suvvia, è vero che, benché frequentiamo regolarmente la Reggia, ci incontriamo di rado, ma qui siamo tra di noi, non serve essere tanto formali.”
L’espressione aperta e familiare comparsa sul viso di entrambe l’aveva spaesata, considerata la conversazione appena affrontata, e il contegno distaccato che Suzanne aveva sempre tenuto con André nei loro rari precedenti incontri in presenza del marito da quando si era sposata. Lui invece non sembrava affatto sorpreso, sorrideva rilassato, come se l’invito di sua sorella gli avesse semplicemente fornito la chiave per interpretare la situazione.
“Confido che Madame de Jarjayes stia bene e questo malessere non sia nulla di grave.”
Le aveva rivolto uno sguardo rassicurante, come una carezza a cercare di calmare la sua apprensione, poi si era rivolto alle sue sorelle.
“Confidiamo sia stata solo un po’ di stanchezza, e certo il riposo potrà fare molto…” le era parso strano, che lui non sembrasse cogliere il tono ostentatamente lamentoso con cui Suzanne stava pronunciando quelle parole “… anche se certo è il nostro affetto di figlie ad alimentare l’ottimismo su qualcosa, per cui non ci è dato avere abbastanza conoscenza per esprimere un parere fondato.”
Come se avesse colto un senso in quel contorto giro di parole, si era voltato verso Anne per attendere il seguito, pronunciato con voce pacatamente afflitta.
“Sicuramente, dopo il trasferimento a Palazzo, il medico potrà giudicare, con maggiore cognizione di noi, quali siano le effettive condizioni di nostra Madre e quando, se Dio vorrà, la sua salute delicata le consentirà di tornare a beneficiare dell’onore di servire sua Maestà qui a Corte. È certo una fortuna, per noi, avere un fratello come Oscar, che possa prendersi cura della nostra cara Madre, supportando il nostro saggio Padre nel valutare le circostanze.”
Aveva sostenuto per qualche secondo in silenzio gli occhi di entrambe, rivoltisi a lei con quell’ultima frase in una muta esortazione. Poi si era voltata per trovare quelli di lui pieni di un’inattesa comprensione.
“Tutti faremo del nostro meglio per il bene di Madame de Jarjayes.” una breve pausa, come in attesa delle sue disposizioni, poi l’aveva anticipata “Vuoi che avverta il capitano Girodelle e faccia preparare la carrozza? Io vi seguirò con i cavalli.”
“Grazie André… provvederò io ad informare Girodelle.”
 
Uno scossone fa vibrare il vetro nel vano dello sportello, probabilmente una ruota è finita in una buca o su un sasso sulla strada. Riporta lo sguardo all’interno dell’abitacolo, sulla figura di sua Madre adagiata sul sedile di fronte. È ancora assopita con il capo, sormontato dall’acconciatura incipriata alla moda, appoggiato all’imbottitura della parete alle sue spalle. Anche nell’abbandono è impeccabile, come sempre, non un ricciolo fuori posto, non un che di casuale o scomposto nell’espressione del volto, perfino le braccia, affondante nel ricco manicotto raccolto in grembo, esprimono grazia, come se la disciplina di una vita a controllare l’immagine di sé esposta agli altri fosse divenuta parte di lei.
Eppure ora, sprofondata tra i cuscini disposti da Viviane per sostenerla, avvolta nella morbida coperta di pelliccia argentata le sembra solo così fragile. La sfumatura bluastra, che vela le palpebre e scava le guance, ha tramutato il candore del suo incarnato in pallore. Sente nuovamente insinuarsi in lei l’angoscia, nonostante le rassicurazioni ricevute sulla sua salute, che alimenta il desiderio di fare qualunque cosa sia necessario a proteggerla. Per quanto la soluzione proposta dalle sue sorelle le sembri poco onorevole, non riesce a ignorare che i loro timori siano più che fondati.
“Come mai continui a fissarmi, Oscar?...”
La voce morbida di sua Madre la fa sobbalzare, porta gli occhi ai suoi, trovandoli ancora chiusi. Osserva le palpebre sollevarsi lentamente, rivelando il blu profondo e calmo reso leggermente liquido dal torpore delle membra.
“… il mio aspetto è così terribile?”
“Oh,… no, Madre… certo che no…”
La risposta frettolosa le esce incerta e frammentaria, mentre osserva affiorare sulle sue labbra un lieve sorriso, dolce come sempre, ma vagamente divertito.
“Allora cosa tormenta i tuoi pensieri? Le disposizioni delle tue sorelle?”
Si sorprende ancor più per quella domanda, posta con voce calma, resa appena un po’ ruvida dal recente sonno. Ha sempre considerato con ammirazione la capacità della Madre di prevedere le reazioni di suo Padre e, all’occorrenza, di smussarne le asperità prevenendole con delicata naturalezza, ma essere per una volta lei l’oggetto del suo talento la sconcerta.
“Madre… ma come fate…”
Il suo stupore sembra quasi riuscire nell’impresa di farle sfuggire una piccola risata, che viene però subito addomesticata in un sorriso composto a decorare le parole.
“Come faccio a sapere? Anche tu allora non mi ritieni in grado di capire? Mi reputi, dunque, tanto sprovveduta, Oscar?”
Approfitta dell’attimo, che le serve per prepararsi a pronunciare una convinta negazione, per tornare a chiudere gli occhi e continuare con voce pacata.
“Il garbo, atteso da una signora, rende solitamente più consono tacere in merito a certi argomenti. D’altronde, palesare a parole situazioni poco gradevoli non costituisce, di per se, alcun vantaggio il più delle volte.” schiude gli occhi e si solleva leggermente, come se per un momento tutta la sua attenzione fosse dedicata al tentativo di cercare una posizione più comoda nella sua nuvola di cuscini “Il diritto di poter esprimere la propria opinione liberamente su qualunque cosa, è un privilegio spesso sottovalutato e a volte utilizzato a sproposito da chi lo ha…” la fugace intensità dello sguardo che le rivolge la fa tendere “… anche per un gentiluomo è buona norma imparare a padroneggiarlo e non abusarne mai.”
Si abbandona nuovamente nel suo morbido nido, e il viso torna a rilassarsi.
“La posizione di una Dama di Corte consente di osservare e confrontarsi con le più svariate situazioni e manifestazioni della natura umana. Il talento, che le viene richiesto, è di comprendere e adottare il comportamento più consono. Le mie figlie non fanno certo eccezione.” la tenerezza, che illumina il suo sguardo con quelle ultime parole, viene attraversata per un attimo dal baluginare di un dubbio ”O, forse… ti ha sorpreso che le tue sorelle non siano poi così sprovvedute?”
“Madre… veramente io non ho mai…”
Nel tentativo di formulare una risposta, che sia tanto garbata quanto sincera, percepisce il lieve calore, che accompagna il rossore, affiorarle sulle guance. Non riesce a spiegarsi come negli anni possa avere imparato a fronteggiare impassibile i confronti, a volte violenti, con suo Padre, mentre così spesso si trovi, suo malgrado, indifesa e spaesata come una bambina di fronte alla dolce arguzia materna.
“Dimmi, Oscar, dove hanno studiato le tue sorelle?”
Benché non le sia immediatamente chiaro il senso di quella domanda, risponde fiduciosa.
“Al Saint-Cyr[x].”
“E sai perché, nonostante non sia più una scuola alla moda come un tempo?”
“E’ stata la vostra scuola e può essere frequentata solo da ragazze appartenenti a famiglie nobili di antica stirpe[xi]…”
Il sollevarsi appena accennato delle sopracciglia la invita a continuare.
“… e l’educazione del Saint-Cyr è più completa di quella fornita da altre scuole.”
“Quando Madame de Maintenon la fondò, sapeva bene quanto importante fosse per una fanciulla avere un’istruzione tale da consentirle di farsi onorevolmente una posizione nel mondo a dispetto delle circostanze. Per quanto io desideri il meglio per le mie figlie, non mi è dato di decidere della loro vita. Avranno sempre il mio sostegno e il mio consiglio, ma la mia speranza è di averle messe in condizione di scegliere per il meglio.”
“Per quanto può essere concesso a una donna…”
Non serve l’espressione degli occhi di sua Madre fissi nei suoi per rendersi conto del tono amaro con cui l’è uscita quell’inopportuna osservazione.
“Ognuno nasce su un sentiero più o meno tracciato, Oscar. Famiglia, doveri, circostanze vincolano chiunque, uomo o donna che sia. Non sono gli ostacoli a limitare la libertà, è l’incapacità di superarli, perché difettano la volontà, l’impegno o gli strumenti necessari.”
Per un attimo le sembra che quelle parole si confondano con il ricordo delle innumerevole esortazioni rivoltele da suo Padre, per spronarla ad impegnarsi e a eccellere in tutto quello che faceva.
“L’idea di poter disporre della vita dei propri figli è l’illusione in cui si crogiolano i genitori. Quando viene meno, rimane la speranza che facciano buon uso dell’educazione, che ci si è premurati di dare loro in dote. La coscienza di aver cercato di fare questo al meglio, per quanto possibile, è la mia sola consolazione, accompagnata dalla certezza di poter essere orgogliosa di tutte le mie figlie.”
Vorrebbe dire qualcosa, ma non ci riesce per il groppo che improvvisamente le serra la gola. È una fortuna che il rallentare della carrozza distolga gli occhi di sua Madre attirandoli all’esterno, perché qualcosa di nuovo nel sorriso dolce, che ha accompagnato quelle parole, le ha fatto sfuggire una lacrima.
“Siamo arrivate…”
Riesce detergere la guancia con la mano guantata, prima che torni a guardarla. Allora è lei ad avvicinarsi alla portiera per vedere dal finestrino André lanciarle una fugace occhiata mentre le affianca e supera, spronando Caesar con Alexander al seguito, così da superare la cancellata prima della loro carrozza.
Si aggiusta il mantello sulle spalle mentre la vettura si ferma in prossimità dell’entrata padronale. Scende spalancando lo sportello, senza attendere l’aiuto del lacchè. Abbraccia con lo sguardo lo spiazzo antistante al Palazzo, illuminato da un inaspettato raggio di sole. Vede il vecchio Jean-Luc farsi avanti per accudire il tiro a quattro e André cedere le redini dei loro cavalli a Philemon. Riesce persino a scorgere Marie affrettarsi giù per i dieci gradini, che scendono dall’ingresso principale, per andare loro incontro, prima di girarsi velocemente e aggiustare personalmente il predellino, sotto lo sguardo un po’ stupito del cocchiere e di Vivianne, ancora intenta a scendere da cassetta per prepararsi ad assistere la sua padrona.
Solleva entrambe le braccia verso l’apertura dell’abitacolo dalla quale vede farsi avanti Madame Merguerite pallida e delicata come un raggio di luna imprigionato nella seta blu del ricco abito, ricamato di fiori tanto piccoli e delicati da sembrare timide stelle.
“Madre, lasciate che sia io ad aiutarvi.”
Si limita a sorriderle e ad affidarsi a lei, fiduciosa. Afferra le piccole mani e quasi la solleva, tanto è fragile e leggera, sostenendola mentre scende dalla carrozza.
Non riesce a trattenersi dal ricambiare il suo sorriso, felice di porgerle il braccio mentre si gira per ricondurla finalmente a casa. Poi tutto sembra infrangersi con un grido disperato, il baluginare del riflesso di una lama, un’imprecazione, il rumore tagliente di metallo che cade a terra e calde lacrime, che accompagnano un pianto disperato.
 
 

Venerdì 25 Ottobre 1776, dintorni di Parigi

 
La tenue luce delle lanterne trema, seguendo il sussultare della carrozza, riflettendosi sullo specchio nero dei finestrini mentre si allontanano dalla città in una notte senza stelle. Le ombre disegnano morbide geometrie sulle impunture dell’imbottitura borgogna degli interni.
Si lascia scivolare sul velluto morbido della seduta fino a poggiare il fianco alla parete. Sfila il cuscino da dietro la schiena per posarlo sul sedile e adagiarvi delicatamente il capo, che solo un attimo prima si era abbandonato sulla sua spalla, vinto dal sonno. Scosta i capelli, raddrizza l’orecchino, perché non le ferisca la guancia, e sistema meglio la cappa, perché copra bene le spalle, per tenerla al caldo.
Jules, il cocchiere, ha tenuto il braciere acceso nella cabina fino alla loro partenza, ma il freddo pungente di questa notte sta cominciando a infiltrarsi in quel tiepido scrigno.
“Si è addormentata come un sasso.”
Si gira a guardare André, seduto sul sedile opposto con le braccia incrociate al petto nascoste sotto il mantello. Sorride, attardandosi con lo sguardo sul volto abbandonato della piccola Rosalie, dopo aver pronunciato quella frase quasi sotto voce. Gli sorride di rimando, appena sposta lo sguardo su di lei.
“é stata una serata impegnativa…” risponde a bassa voce, alzandosi “fammi un po’ di spazio.”
Si accomoda al suo fianco, condividendo il sedile più stretto, che dà le spalle al senso di marcia. Torna a posare gli occhi sulla graziosa figurina avvolta nella cappa color lavanda bordata di volpe argentata, dalla quale fa capolino un mare di seta lilla e candidi veli ricamati in una cascata di minuscoli fiori, come i guanti di raso che fasciano le piccole mani, giunte quasi in preghiera sul cuscino a un soffio dalle labbra appena schiuse. Il velo di belletto che Madame Marguerite aveva considerato accettabile e necessario, supervisionando i preparativi per la serata, è ormai svanito, così come qualche riccio è riuscito a sfuggire dall’acconciatura ancora velata di cipria.
Si stenta a riconoscere in quell’elegante damina la ragazzina coperta di stracci, che era sbucata dai cespugli di Palazzo Jarjayes avventandosi su sua Madre neanche un anno prima.
 
L’aveva fatta sfogare, lasciandola piangere disperata con il volto nascosto tra le mani, inginocchiata sulla pietra gelida della pavimentazione antistante al Palazzo. Tra i singhiozzi aveva raccontato una storia frammentaria, su una misteriosa donna con i capelli incipriati[xii] e un abito a fiori, della madre malata investita dalla sua carrozza e lasciata morire in mezzo alla strada da quella donna, del fatto che credesse di essere arrivata a Versailles dove quella donna aveva detto di essere diretta. Nessuno si era mosso, tutti avevano atteso che quel pianto dirotto si tramutasse in singulti, poi l’aveva aiutata ad alzarsi.
La sua stretta sulle spalle era stata ferma ma delicata, e comunque, quando aveva sollevato lo sguardo, aveva visto la paura invadere tra le lacrime quegli occhi di un blu così profondo da sembrare quasi viola. L’aveva sentita resistere, prendendola per mano. “Cosa… cosa mi volete fare…” aveva gridato più volte tremante, certa che non le potesse accadere nulla di buono in una casa nobile.
L’aveva condotta attraverso l’ingresso principale, il grande atrio splendente di marmo, specchi e ori, fino al primo piano e poi ancora su per la scala a chiocciola che porta alla terrazza coperta della torre panoramica, al centro del corpo principale del Palazzo.
Le aveva mostrato la vera Versailles, che si levava, seppur in lontananza, in tutta la sua grandiosità. Aveva smesso di piangere, di gridare, di tremare per la paura e il freddo. Era semplicemente rimasta in silenzio, gli occhi e la bocca spalancati di fronte all’evidenza di un mondo del quale aveva a malapena immaginato l’esistenza in una breve vita, tutta racchiusa in un borgo popolare di Parigi.
Si era avventurata fuori dal suo mondo senza sapere a cosa andava incontro, senza considerare le possibili conseguenze, spinta solo dal coraggio disperato e rabbioso, e dal desiderio di vendetta o di giustizia.
Non aveva più nessuno al mondo, allora aveva deciso che se ne sarebbe presa cura lei.
“Ti darò un’educazione completa…” questo le aveva detto.
La ragazzina aveva distolto lo sguardo dalla Reggia per dirigerlo, forse ancor più stupito, su di lei; aveva ringraziato, perché probabilmente non sapeva cosa altro dire. Dubitava si rendesse conto di quello che voleva veramente offrirle.
“… stando insieme a me potrai frequentare spesso la reggia di Versailles, e magari un giorno potrai incontrare quella donna, allora forse sarai più matura e potrai giudicare meglio quello che è successo.”
Questo le offriva, la possibilità di decidere per se stessa, non per povertà, non per disperazione, non per ignoranza. Le offriva i mezzi per essere libera di scegliere.
Così era cominciata la nuova vita di Rosalie a Palazzo, ufficialmente come figlia di un ramo cadetto dei Quetpée di Labord[xiii], accolta per fornirle un’educazione degna del suo rango[xiv] e per essere di supporto alla povera zia, che era stata costretta ad abbandonare il suo incarico a causa della salute, fattasi troppo cagionevole.
Improvvisamente disoccupata dei numerosi impegni di Corte, sua Madre si era offerta di buon grado volontaria per affiancarla nell’organizzazione della formazione della nuova piccola ospite, occupandosi di tutti quegli aspetti per i quali lei non era sicuramente in grado di fornire un contributo, ma che rientravano in quella che considerava la definizione di un’istruzione completa. Suo Padre non aveva sollevato obiezioni e non aveva fatto troppe domande, non manifestando particolare interesse per quello che, con tutta probabilità, riteneva ora un diversivo necessario a occupare le lunghe giornate di Madame Marguerite.
Vennero assunti due istitutori e un maestro, in aggiunta al cappellano di Palazzo, per tutto quello che concerneva l’istruzione prevista per una ragazza nobile: matematica, storia, geografia, disegno, canto, musica, danza, teatro, catechismo, morale, latino, araldica e storia della chiesa. A tutto quanto richiesto per non sfigurare nei salotti, aveva aggiunto la scherma, l’equitazione e l’uso delle armi da fuoco, di cui si occupava personalmente con il supporto di André, così come suo Padre aveva insegnato a loro.
Nonostante tutte le volte, in cui l’aveva presa in giro per l’impraticabile numero di ore di lezione programmato per le impegnative giornate della piccola Rosalie, anche André alla fine aveva dovuto ammettere, che i risultati erano stati evidenti già dopo pochi mesi. Rosalie aveva dimostrato di avere una mente avida e una grande dedizione, cui avevano contribuito la continua supervisione di sua Madre e sua nel motivarla ed assisterla.
Sicuramente, però, il segreto di un tale risultato, che rasentava il prodigioso, era stato l’impegno instancabile, necessario per il raggiungimento di qualunque obiettivo. La sua pupilla, per quanto apparentemente tanto più delicata ed emotiva, evidentemente condivideva questa sua propensione alla disciplina, difficile sapere quanto per indole innata o per esperienza di vita, ma la stessa cosa si sarebbe potuta dire di lei.
In parte poteva essere per questa propensione a rispettare gli impegni, che si dedicava con tanta dedizione all’educazione di Rosalie, ma doveva ammettere che questo lavoro aveva cominciato a gratificarla e a divertirla, come non si sarebbe aspettata da principio. Benché non avessero mai affrontato l’argomento, doveva essere lo stesso per sua Madre, vista l’abnegazione mostrata nel fare ciò, che non le era mai stato consentito con nessuna delle altre figlie[xv], mandate in collegio in tenera età come si conviene per delle ragazze nobili di buona famiglia, o con lei, la cui educazione era stata dominio quasi esclusivo del Generale.
 
“Rosalie ha proprio attirato l’attenzione di tutti questa sera. Si può affermare che il suo ingresso in società sia stato un vero successo.”
Non sa perché, ma l’osservazione di André richiama il sentore di qualcosa di molto simile all’orgoglio, che aveva cominciato a insinuarsi in lei dopo che il loro ingresso nel salone era stato annunciato.
“Anche Madame Elisabette si è venuta a complimentare per le sue buone maniere e la sua bellezza.”
Le viene da sorridere, mentre tiene lo sguardo fisso sulla piccola profondamente addormentata. Pensare che le era parsa così incerta, quando le aveva proposto di prendere parte a quel ballo privato a Parigi. Sua Madre l’aveva già fatta partecipare, come sua accompagnatrice, a dei piccoli ricevimenti a Palazzo e in visita a nobildonne sue amiche. Ma in quelle occasioni, quello, che tutti si aspettavano da lei, era semplicemente che si comportasse con grazia e modestia, limitandosi a sorridere gentilmente, dando, al più, brevi risposte di circostanza se direttamente interpellata[xvi].
L’aveva dovuta sfidare, insinuando con aria divertita che avesse paura. Il suo approccio aveva funzionato, perché punta sull’orgoglio aveva finito con l’accettare, investendo tutto il suo impegno nei giorni successivi nel perfezionamento della conversazione e della danza, approfittando della collaborazione di André, che le era sembrato divertirsi molto più di quanto si sarebbe aspettata[xvii].
Innegabilmente quella sorta di prova generale era stata un successo. Non solo Rosalie aveva dato prova di padroneggiare le discipline richieste dall’occasione, ma nel farlo aveva dimostrato una grazia, in cui aveva riconosciuto l’impronta di sua Madre.
“Peccato che tutta l’attenzione dedicatale, abbia finito col provocare la gelosia della piccola Polignac.”
Si gira finalmente verso di lui aggrottando un po’ la fronte, alla ricerca di un indizio su come dovrebbe interpretare quell’osservazione. Lo trova a fissarla con un che di sinceramente divertito nello sguardo, che non si sente affatto di condividere.
“È del tutto inappropriato che una ragazza così giovane[xviii] prenda parte a un ballo senza essere accompagnata dalla madre!“
“Neanche Rosalie era accompagnata dalla madre…”
Non saprebbe dire perché, ma l’argomento la infastidisce particolarmente, e il fatto che lui lo prenda deliberatamente alla leggera non migliora le cose.
“Non è la stessa cosa! Rosalie ha quasi quattordici anni, era accompagnata da un componente responsabile della sua famiglia e non da una qualunque dama di compagnia, e ha danzato solo con uno chaperon scelto dalla famiglia…[xix]
Non riesce a concludere quella sua accorata perorazione, perché lo vede scoppiare in una risata, che inizialmente si sforza di trattenere con le labbra serrata, ma che, appena lei smette di parlare, sempre più accigliata, lascia erompere di tutto cuore.
“Si può sapere cosa ti fa tanto ridere?”
Ci mette un po’ a riprendere il controllo, e ha quasi le lacrime agli occhi quando le risponde.
“Niente Oscar, scusami.” Inspira profondamento, lanciando solo uno sguardo a Rosalie, che ha emesso un piccolo lamento agitandosi nel sonno per quel baccano.
Appena è chiaro, che stia continuando a dormire placidamente, torna a rivolgersi a lei.
“Scusami veramente, è solo che non credevo ti avrei mai visto prendere una posizione così rigida nei confronti di una ragazzina di appena undici anni[xx].”
“Si è comportata in maniera inaccettabile con Rosalie.”
Per quanto lei si mostri seria, lui non riesce a non apparire divertito.
“Era gelosa di non essere al centro dell’attenzione e si è comportata in modo infantile, insultandola. Rosalie ha risposto e tutti hanno compreso la situazione. Non è certo stata la piccola Charlotte a uscirne nel modo migliore.” Il tono si è fatto quasi pacato, ma dopo una breve pausa un lampo gli attraversa lo sguardo, riportando quella nota scanzonata “Certo che però arrivare a lanciarle il ventaglio!”
“Se fosse stata un uomo, avrebbe dovuto sfidarla a duello per aver insinuato che non fosse nobile.”
Torna a guardare il sedile di fronte, sentendolo sospirare.
“Sarà… ma a me, nonostante tutto, piace la piccola Charlotte, è fresca e vitale. Ha spirito e non ha paura di nulla…”
“È maleducata, e si permette cose del tutto inadeguate per la sua età.”
Continua deliberatamente a non guardalo, ma lo sente, che lui invece tiene gli occhi fissi su di lei.
“Lo hai detto tu, ha solo undici anni. L’esempio che le viene dato dalla madre è che il solo modo per dimostrare il proprio valore è ostentare la propria ricchezza e porsi al si sopra degli altri con ogni mezzo. Come potrebbe comportarsi altrimenti?”
Come al solito, sa benissimo che quanto sta dicendo è vero, lo condivide. In fondo anche lei ha sempre provato simpatia per la piccola Polignac: trascinata troppo giovane dalla madre nella giostra di Versailles, ha affrontato la Corte col coraggio e la sfrontatezza innocente della sua età. Così diversa dalla maggior parte delle titubanti educande, che escono dal collegio impaurite e acriticamente affascinate da qualunque cosa. Sicuramente, però, è troppo inesperta per rendersi conto delle insidie nascoste dietro allo sfarzo, ai divertimenti superficialmente innocenti, agli eleganti e, solo apparentemente, sventati abitanti della Reggia.
Non è Charlotte a farla infuriare, per quanto si sia comportata in modo odioso con Rosalie, lei si è saputa difendere, dimostrandosi ancor più degna dell’ammirazione tributatale. Ciò che le dà veramente fastidio è l’aver riconosciuto in quel comportamento l’impronta della madre. Ancora una volta si è trovata di fronte a una prova del pessimo influsso della Contessa di Polignac. È come se la sua smania di possedere e di prevaricare gli altri fosse un morbo che finisce col danneggiare le persone che la circondano e che manipola senza scrupoli per il suo interesse personale… perfino la figlia.
Non ci vuole molta fantasia per capire perché la Contessa abbia fatto tornare Charlotte dal collegio così presto: per esporla adorna di abiti costosi e gioielli alla fiera della buona società di Parigi. Intende ovviamente piazzarla al migliore offerente. Priva di qualunque scrupolo com’è, avrà sicuramente considerato l’età acerba della sua bambina una possibile attrattiva per qualche scapolo o vedovo particolarmente appetibile, un vantaggio nella competizione per il reperimento di un ottimo partito, rispetto alla maggior parte delle famiglie nobili di Francia, legate al tradizionale riguardo di attendere almeno i quattordici anni prima di dare le figlie in matrimonio[xxi].
“Ha sulla figlia la stessa pessima influenza che ha su Maria Antonietta.” abbassa lo sguardo, rilassandosi quasi rassegnata “Per mantenere i suoi favori la asseconda e la incoraggia in tutti quei comportamenti, cha non fanno altro che renderla ancor più impopolare: le spese, le feste, il gioco d’azzardo.”
“La Regina però non è più una bambina…”
Lo ha sentito esitare prima di pronunciare quella frase, e non si sorprende di trovarlo a osservarla con un’espressione di rassegnata attesa, come se fosse preparato allo sguardo tagliente che non può fare a meno di lanciargli, ma frena la lingua. A cosa servirebbe sforzarsi di negare?
“No, ma abusa deliberatamente delle sue debolezze, del suo desiderio di attenzioni, isolandola da chiunque possa ostacolarla, per ottenere potere e vantaggi economici per se e per tutta la sua famiglia”
“Indubbiamente le spese della casa della Regina prima dell’arrivo della Contessa sembrano nulla rispetto a quelle dell’ultimo anno. L’acquisto degli orecchini di brillanti da 460.000 livres [xxii]sembrava l’apice, ma a quanto ho sentito i costi di ristrutturazione del Trianon[xxiii] stanno raggiungendo cifre da non rendere più sufficiente neanche l’intervento del Re con il suo appannaggio.”
“Il Re finisce come sempre col cedere di fronte a qualunque richiesta della moglie. La Polignac attraverso Maria Antonietta riesce persino a influenzare il Re.”
Lo dice con un filo di voce, sconsolata per quello che si trova a dover ammettere. Quello che solo fino a qualche mese prima era stato un preoccupante abuso delle finanze della casa Reale è diventato qualcosa di decisamente più grave. Sotto le pressioni della Polignac, Maria Antonietta è addirittura riuscita a convincere il Re a ritirare il suo appoggio alle leggi varate da Turgot per cercare di contenere le spese e risolvere la pesante crisi finanziaria in cui versa il paese. Certo era stato sommerso da un coro di proteste, ma ugualmente aveva imposto la nuova legge attraverso in lit de justice. Quando però era stata la Regina a manifestare apertamente la sua ostilità, vedendosi negare la concessione di privilegi per i suoi favoriti, aveva finito col ritirarlo, e licenziare il ministro delle finanze[xxiv] colpevole di una simile iniziativa, sostituendolo con il più accomodante de Clugny-Nuys[xxv]. Alla fine si era avverato quello di cui in precedenza tutti avevano ingiustamente accusato la Regina.
“Se ammetti che la Contessa può tanto sulla Regina e sul Re, che possibilità potrà mai avere una bambina come Charlotte?”
Solleva lo sguardo e vede gli occhi di lui velati di comprensiva malinconia, ma è solo un attimo perché subito si riscuote. Inarca le sopracciglia e fa emergere il braccio destro dal mantello a indicare Rosalie addormentata.
“Inoltre, non credo che Charlotte abbia mai ricevuto dalla madre, per la sua educazione, un decimo dell’interesse dedicato a Rosalie.”
“Ha frequentato ottime scuole, su questo certo la Contessa non ha lesinato. Rosalie era grande, come già detto, è ovvio che sia necessario dedicarle maggiore attenzione.”
Raddrizza la schiena e incrocia le braccia al petto dicendolo, come se sentisse in qualche modo il bisogno di sostenere le parole.
“Posso capire gli istitutori e il programma intensivo, ma che addirittura tu la convochi nelle tue stanze ogni sera per ricontrollare le lezioni…” fa una breve pausa, come se si aspettasse una risposta spontanea che però non arriva “Non ti sembra di esagerare un po’?”
Arretra leggermente, serrando la posizione.
“Mi sembra solo il mio dovere.”
Sospira lui.
“Ma c’è già Madame Marguerite, che se ne occupa…”
“Mia Madre è troppo indulgente.”
Quella risposta così sollecita sembra sorprenderlo per un attimo, ma subito torna a sorridere scrollando la testa e rivolgendo lo sguardo su Rosalie.
“Ho capito, meglio lasciar perdere questo discorso.”
Ha come l’impressione di percepire una nota di condiscendenza nel suo tono, ma non ha nessuna voglia di discutere ancora di quell’argomento, per cui si rilassa contro lo schienale, rivolgendosi anche lei verso l’oggetto della loro contesa, imperturbabilmente addormentata sul sedile di fronte.
Cala un silenzio rilassato, sporcato solo dallo scalpiccio degli zoccoli del tiro a quattro e dal rotolare delle ruote sul selciato, punteggiato di intanto il tanto da un deboole cigolio dei giunti della carrozza, che procede a velocità sostenuta verso casa. Il dondolio la culla, un leggero torpore comincia a invaderle le membra, rendendola stranamente cosciente del contatto lieve e ritmico del braccio di lui contro la sua spalla. Quasi sobbalza quando lo sente parlare di nuovo.
“Hai riconosciuto quella donna?”
Sbatte le palpebre fattesi pesanti, mentre cerca di mettere a fuoco quelle parole prima di girarsi verso di lui, sorpresa.
“Quale… quale donna?”
Lo trova a guardarla con la testa inclinata e appoggiata all’imbottitura della carrozza. Anche lui ha l’aria assonnata, probabilmente vuole solo chiacchierare un po’ per rimanere sveglio.
“Quella donna bruna… mentre ci dirigevamo verso l’uscita, che si è accostata a Rosalie…”
Deve raccogliere un attimo le idee, ma annuisce appena l’immagine confusa comincia a prendere forma nella sua mente.
“Sì… mi pare… deve essere la moglie di uno dei miei sottoufficiali, probabilmente qualcuno agli ordini di Girodelle. Perché?”
Aggrotta leggermente la fronte, solo per vederlo scuotere il capo.
“Niente d’importante.” distoglie lo sguardo dirigendolo fuori dal finestrino “Mi chiedevo solo se ti fossi accorta che era la stessa, che avevamo notato in compagnia del Cardinale di Rohan al funerale della Marchesa di Bramberie.”
Si aggiusta sul sedile e torna a guardarla sorridendo, probabilmente per l’espressione un po’ smarrita che deve riconoscerle stampata in volto.
Ogni volta la sorprende la capacità di André di prestare attenzione e ricordare dettagli delle persone che li circondano, di cui lei stenta anche solo ad accorgersi. Non ha però il tempo di replicare, perché sente la carrozza rallentare e poi fermarsi, ed è di nuovo lui a parlare.
“Bene, siamo arrivati. Sarà il caso di svegliare Rosalie.”
Assecondando quell’esortazione, si china verso la giovane addormentata per sfiorarle la fronte e sussurrarle all’orecchio.
“Rosalie… siamo arrivati a Palazzo, svegliati.”
La sola risposta che riceve però è un brontolio infastidito, accompagnato da una smorfia non particolarmente elegante. Torna allora alla carica con maggiore decisione, le scrolla la spalla e alza il tono della voce.
“Svegliati, non vorrai dormire in carrozza…”
E’ solo la sua prontezza di riflessi a farla arretrare abbastanza in fretta da schivare la manina che si solleva, senza troppo garbo, a scacciare qualcosa di fastidioso, prima di tornare a posarsi a coprire gli occhi, spegnendo un confuso lamento.
Arriccia il naso e stringe le labbra per trattenere la risata che sente sfuggirle. Esita un attimo e si schiarisce la gola.
Proprio mentre Jules apre lo sportello si gira verso André, sforzandosi di rimanere impassibile di fronte alla sua espressione di rassegnata intuizione, e di nascondere la risata nella voce.
“Credo, che se non vogliamo lasciarla dormire all’addiaccio, dovrai portarla dentro tu.”
 
 

Domenica 20 Aprile, 1777, Palazzo Jarjayes

 
Osserva distrattamente l’alternarsi regolare, sul pavimento di marmo a losanghe, delle pozze di luce e ombra proiettate dalla fila di finestre alla sua sinistra lungo la galleria del primo piano. Mentre finisce di abbottonare il panciotto color salvia, accelera il passo per raggiungere più velocemente le scale, richiamata dal rumore familiare, anche se ancora distante, del clangore di spade, che le fa presagire il discutibile spettacolo che si troverà davanti nell’atrio.
Anche alle funzioni riservate solo alla famiglia nella cappella di Palazzo, suo Padre non è mai stato disposto a transigere sul fatto che s’indossasse un abbigliamento formale.
L’immagine che offriamo è il riflesso del rispetto che portiamo all’onore della famiglia e a noi stessi, e non uno spettacolo per gli altri’, non ricorda neanche quante volte se lo sia sentito ripetere, soprattutto da bambina, ogni qual volta le era capitato di ritrovarsi in sua presenza con una macchia, un nastro o un bottone fuori posto, magari dopo una cavalcata o un allenamento con la spada. Così ogni domenica, anche durante le sue frequenti assenze, Colette le prepara l’uniforme e lei la indossa solo per la messa del mattino, per poi andarsi a cambiare subito dopo, prima ancora di fare colazione.
Avendoli lasciati ad aspettare per poi sedersi a tavola, sospetta già come André avrà trovato il modo di non sprecare il tempo della piccola Rosalie e le frasi smozzicate, che comincia a distinguere in lontananza, non fanno altro che supportare le sue attese.
“Dove guardi?... Sono qui!”
“Adesso vedrai… in guardia…”
“Che fai fuggi?”
“Forza avanti combatti…”
Mano a mano che si avvicina, il rumore metallico delle lame, che sbattono e sfregano, si fa più forte e le voci diventano più chiare, lasciando riconoscere il tono scherzoso di quel duello improvvisato.
Da principio era stata lei a occuparsi delle lezioni e degli allenamenti di Rosalie nella scherma, si era sorpresa della sua stessa pazienza nel cercare di formare la ragazza in una disciplina che, a quanto pareva, le risultava estremamente ostica. Benché non si fosse ovviamente sottratto alla richiesta di affiancarla in quel compito, André le era parso inizialmente non troppo motivato e paziente nel cercare di migliorare con il costante esercizio l’equilibrio, la forza e il controllo della sua pupilla nel maneggiare l’arma bianca. Nonostante i momenti di sconforto, però, anche in quella materia alla fine l’impegno e la dedizione avevano dato i loro frutti, e, nonostante non potesse esibire uno stile particolarmente elegante, Rosalie aveva sviluppato una tecnica, che non aveva nulla da invidiare a quella della maggior parte dei rampolli, per i quali la spada al fianco non era altro che un appendice necessaria del loro nobile lignaggio[xxvi].
Alla comparsa dei primi progressi lei si era fatta immediatamente meno indulgente, fiduciosa che lo spronarla a perseguire un costante miglioramento avrebbe dato i suoi frutti, così come era stato per lei sotto la costante spinta di suo Padre. André, dal canto suo, sembrava aver cominciato ad accettare di buon grado quell’impegno, nonostante non sembrasse prenderlo minimamente sul serio, svuotando i suoi allenamenti con Rosalie della serietà e della disciplina che lei riteneva essenziali[xxvii].
È come se già li avesse davanti agli occhi, ancora prima di superare l’orizzonte delle scale e, quando comincia a scendere i primi gradini, la scena che si trova a osservare dall’alto sembra solo la concretizzazione di quella immaginata: André balza da una lastra di marmo bianca a una nera ostentando di schivare gli attacchi della giovane sfidante con gesti che sembrano ispirati più dalle improbabili rappresentazioni del teatro di Corte, che dalla sua matura esperienza di schermidore, mentre Rosalie gli si fa contro con un’espressione enfaticamente minacciosa e una postura scomposta, che in nulla ricorda la tecnica tanto faticosamente guadagnata.
Sente già l’irritazione fare capolino, trovandosi costretta, per l’ennesima volta, a essere lei a richiamarli come usava fare suo Padre, quando trovava lei e André ad affrontarsi con la spada senza la necessaria serietà e concentrazione, ma la voce di lui la anticipa, frenando quelle parole sulla soglia delle labbra.
“Puoi fare meglio, Rosalie.” lo vede aggiustare la guardia prima di continuare “Così non riuscirai mai a vendicare tua madre!”
Il tono di sfida sembra aver sancito la fine del gioco che stava per interrompere.
“Adesso vedrai…” è la risposta, che non ha più niente di melodrammatico.
Senza bisogno di ulteriori richiami, la ragazzina assesta il peso sui piedi e ruota il busto, così da bilanciare al meglio il braccio nel pericoloso affondo e nella stoccata che seguono, dai quali André riesce a difendersi solo grazie alla sua maggiore esperienza e forza fisica.
“L’atrio di Palazzo non è decisamente il luogo più consono per affrontarsi con la spada.” declama quelle parole con voce stentorea, scendendo tranquillamente le scale, per manifestare la sua presenza “André, non vorrai farti richiamare come sempre da tua nonna!”
Le sembra che il verde dei suoi occhi s’illumini mentre li solleva verso di lei, afferrando alla cieca la spada dalle mani che Rosalie ha raccolto dietro la schiena, mettendosi sull’attenti con un’espressione decisamente più titubante.
“Bentornata, Oscar.” fa una breve pausa per regalarle un luminoso sorriso “Assolutamente no, aspettavamo che lo facessi tu!”
Rivolge un fugace segno d’intesa alla ragazzina, spegnendo lo sguardo intimorito che gli ha rivolto sentendolo pronunciare quelle parole, e il colpetto che le dà sulla spalla sembra rinfrancarla.
Appena si trova di fronte a loro, infatti è lei a parlare, senza che però dalla voce trapeli una particolare incertezza nonostante abbia chinato il capo.
“Scusate, Madamigella Oscar.”
“Non ti preoccupare Rosalie,” aspetta che sollevi gli occhi, così da vedere il sorriso rassicurante, che le sta rivolgendo, poi si gira verso di lui “Se però il vostro allenamento è concluso, io andrei a fare colazione.”
 
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La luce brillante del sole irradia dalla parete vetrata dell’orangerie un calore accogliente. Li avvolge così come la fresca fragranza dei fiori d’arancio appena sbocciati, che si mescola all’aroma pieno e morbido della cioccolata, inebriandola mentre ancora avverte sulle labbra solo il vago tepore del liquido denso che si sta portando alla bocca.
Una brezza leggera e profumata filtra attraverso le due grandi porte finestre aperte da Sandrine, ai lati del candido tavolo a volute, per farli godere appieno di questa bellissima mattinata di primavera. Li ha lasciati soli dopo aver disposto, al centro della superficie apparecchiata, i bricchi di porcellana bianca e blu, decorati in oro, contenenti la cioccolata e il caffè, oltre ai consueti biscotti e panini con burro e marmellata, oggi inaspettatamente affiancati da un’invitante quanto colorata tarte aux fraises.
“Anche se continui a fissarla con tanta intensità non riuscirai a mangiarla con gli occhi!”
Come al solito André non è riuscito a resistere alla tentazione di prendere in giro Rosalie, la cui attenzione, da quando l’ha vista, sembra essere stata polarizzata da quella dolce sorpresa, ma che, come sempre, pare non avere l’ardire di dare voce ai suoi desideri.
Sente gli angoli della bocca incurvarsi verso l’alto mentre considera come quella ragazzina, che ha avuto il coraggio di affrontare il Duca di Germaine e avventurarsi a cercare vendetta a rischio della vita, possa rimanere impietrita dalla timidezza di fronte alla sfida di chiedere una fetta di torta. Non ha però tempo di crogiolarsi in questi pensieri, che le infondono una strana tenerezza, perché l’intenso rossore che inonda improvvisamente il viso della piccola innesca immediatamente il premeditato riso di lui, la cui usuale conseguenza è l’espressione imbronciata di Rosalie, accompagnata dai suoi piccoli pugni stretti e sollevati e dall’erompere della voce sottile e penetrante.
“Non è giusto!” sbotta con la familiare intonazione cantilenante “Madamigella Oscar, André si prende sempre gioco di me!”[xxviii]
Il rossore ancora più accentuato dall’ira non frena certo l’ilarità del provocatore, e anche lei ora non trova alcun motivo per trattenere la risata che sente salirle alle labbra, allora la lascia andare, spegnendo le lamentele della ragazza, che serra le braccia al petto, esibendo un cipiglio ombroso, che, chiunque non la conosca, difficilmente immaginerebbe poter comparire su quel visino da bambola. Come da consuetudine spetta a lei l’inusuale ruolo di mediatrice ragionevole in queste zuffe. Si ricompone, per consentire alla colazione di rientrare nei canoni di rilassata spensieratezza suggerita dalla splendida mattinata e dalla singolare assenza d’impegni.
“Suvvia Rosalie, ormai dovresti conoscere André!” aspetta solo che rivolga lo sguardo su di lei, rilassando un po’ l’espressione “Dovresti saperlo che in fondo è solo un buffone dispettoso…”
“Heiiii…”
Si gira solo un attimo per lanciare uno sguardo d’intesa in risposta a quella contenuta protesta.
“… e dovresti sapere anche che non si lascia mai indifeso il fianco all’avversario.”
Dopo qualche secondo, durante il quale ha continuato a dedicarle un sorriso calmo e rassicurante, la vede sciogliere le braccia e rilassarle in grembo, infine abbassare lo sguardo nella sua consueta manifestazione di resa.
“Avete ragione, perdonatemi, Madamigella Oscar.”
“Benissimo, allora in segno di pace…” si gira verso di lui “… André, vuoi essere così gentile  da tagliare una fetta di torta per Rosalie?”
Come al solito la scaramuccia si spegne senza lasciare strascichi e il tempo riprende a scorrere sereno, avvolto nei colori delicati e luminosi di una stupenda mattinata di primavera, sullo scorrere delle chiacchiere familiari, punteggiato dal saltuario tintinnare delle posate d’argento sulla fine porcellana, che sovrastano il cinguettio vivace proveniente ovattato dall’esterno.
“Dunque, Oscar, alla fine il tanto atteso Conte Falkestein è giunto a Versailles!”
Le pare di riconoscere una certa ostentazione nella noncuranza con cui André ha pronunciato quella frase, mentre sembra dedicare tutta la sua attenzione a riversare una generosa cucchiaiata di lucida marmellata sul panino abbondantemente imburrato. Non risponde subito, ma si limita a continuare a girare il cucchiaino, lasciandolo tintinnare nella tazza, osservandolo vaga, in cerca di capire se quella sia solo un’osservazione buttata lì a caso, o se abbia intenzioni particolarmente bellicose su quell’argomento. Lo sguardo divertito che le lancia affondando i denti nel suo ricco boccone non le lascia alcun dubbio a riguardo, per cui ricambia l’occhiata, sicura che lui abbia capito che accetta di buon grado il confronto.
“Già, ” appoggia il cucchiaino e si mostra intenta ad analizzare il piattino ordinatamente ricolmo di biscottini gemelli candidi di zucchero, all’apparente ricerca di quello perfetto “è arrivato venerdì come da programma e ha preso possesso dei suoi alloggi.”
Il ritmo di quello scambio di assaggio viene però interrotto dalla voce curiosa di Rosalie, ancora lievemente impastata dal boccone di torta appena deglutito.
“Madamigella Oscar, chi è il Conte Falkestein?”
Ha pronunciato quella domanda senza pensarci, ancora intenta a tagliare con la forchetta un altro pezzo dalla sua bella fetta coperta di lucide fragole, tanto che, quando alza gli occhi, si sorprende di trovarli entrambi a fissarla e subito torna ad arrossire.
“Oh, scusate…” copre la bocca con la mano libera, facendo rimbalzare lo sguardo incerto da lei ad André “… non avrei dovuto… chiedere… parlare con la bocca piena…”
In realtà la sua domanda è del tutto lecita, solo che entrambi sembravano non averla considerata quale interlocutore in quel discorso, come non capitava dai primi tempi del suo arrivo a palazzo, per cui si sente subito in dovere di rassicurarla.
“No…” scrolla leggermente la testa “… scusa tu, Rosalie. Non c’è nulla di male nel chiedere.” uno sguardo fugace a lui “Conte Falkestein è in realtà lo pseudonimo con cui ha scelto di viaggiare in incognito il fratello della nostra Regina, l’Imperatore Giuseppe II d’Austria, che è venuto in Francia in visita alla sorella.[xxix]
Mentre la piccola annuisce, apparentemente soddisfatta, André dà il suo contributo.
“Già, l’imperatore ha deciso di viaggiare in segreto, come un comune borghese[xxx].”
Dopo un po’ di titubanza, però, la ragazzina aggrotta la fronte con aria interrogativa, esita ancora un attimo come nel tentativo di meglio comprendere le parole udite e poi rompe gli indugi e dà voce al dubbio che la attanaglia.
“Scusate, ma… un Conte non è un comune borghese!?”
Effettivamente, non trova una risposta pronta da fornire a questa sensata perplessità, mentre André non esita un attimo a replicare con apparente casualità.
“… se è per questo, il viaggiare in incognito comporterebbe anche che nessuno sappia chi in realtà si è e cosa si stia facendo.”
Lascia l’insinuazione sospesa, portandosi la tazza di caffè alle labbra e, inarcando le sopracciglia, abbassa lo sguardo sulle vivande, come se in realtà tutta la sua concentrazione fosse impegnata nel decidere se tagliarsi una fetta di torta o aggredire un altro fragrante panino. È lei allora che si sente in dovere di intervenire.
“Non capisco cosa tu voglia dire, André, sai perfettamente quanto sia difficile mantenere il riserbo su questioni ufficiali. I documenti finiscono col passare per le mani e sotto gli occhi di decine di persone, per cui è molto facile che si diffondano chiacchiere anche su fatti che s’intendeva tenere segreti.”
Continua a torturare tra le dita il biscottino prescelto, come se lo scopo fosse di eliminare per usura tutta la sua scintillante glassa di zucchero.
“Me ne rendo perfettamente conto, Oscar, trovo solo curioso il dettaglio con cui queste informazioni segrete sono venute a conoscenza di tutti.” alla fine la scelta è ricaduta sul panino, nel quale affonda i pollici per aprirlo “Il Conte ha viaggiato servendosi di carrozze a nolo e senza scorta, sarebbe prevedibile che tutti sapessero quando è partito e approssimativamente quando sarebbe dovuto arrivare.” tiene gli occhi bassi, sul coltello con cui spalma il burro “Mi sarei aspettato anche che girassero diverse ipotesi sul percorso seguito, formulate speculando su quello che poteva essere il più veloce o il più sicuro…” di nuovo distribuisce la marmellata con cura, così da cercare di non smarrire neanche una goccia di quel goloso carico “… ma sinceramente, sono stupefatto dalla puntualità e precisione degli orari e delle tappe del suo programma di viaggio,” richiude il suo fagottino afferrandolo con entrambe le mani “tanto più avvalendosi esclusivamente di mezzi presi in affitto lungo il percorso!” infine lo addenta, lasciando trapelare dall’espressione tutta la sua soddisfazione.
Rosalie sposta lo sguardo da lui a lei, come se non avesse ben chiaro cosa stia succedendo e fosse in attesa degli sviluppi.
“Ciò non toglie, che possa essere un caso. In fondo lungo il tragitto non è stata organizzata alcuna accoglienza ufficiale, come sarebbe stato necessario in occasione dell’arrivo di un Imperatore.”
È abbastanza soddisfatta della sua replica, ma ancora il biscottino continua a perdere briciole agitandosi tra le sue dita. André beve con tranquillità un altro sorso di caffè prima di rispondere.
“Beh, il modo più semplice e sicuro di servire il proprio signore è assecondare i suoi desideri e non metterli in discussione.” Fa una breve pausa, prima di dire qualcosa che spieghi quell’affermazione sibillina. “A quanto si dice, il Duca di Wurttemberg deve saperlo bene. Pare che in occasione dell’arrivo dell’ospite nella sua Stoccarda abbia fatto togliere le insegne a tutti gli alberghi, così che al Conte non rimanesse altra alternativa che accettare l’ospitalità offertagli a palazzo ducale.[xxxi]” Finisce di svuotare la tazza. “Uomo molto generoso il Duca, per avere tante premure nei confronti di un Conte[xxxii]!”
Abbassa lo sguardo sul suo biscottino, il cui aspetto è decisamente peggiorato dopo il trattamento che gli ha riservato, valuta un attimo se portarselo finalmente alla bocca, ma delibera di abbandonarlo sul suo piattino innevato di zucchero.
“Comunque sia, ha poca importanza.” Solleva la tazza il cui contenuto nel frattempo si è intiepidito “Alla fine il Conte è giunto a Versailles come da programma.”
“E ditemi, Madamigella, sono molto belle le stanze che gli hanno riservato alla Reggia?”
Presa com’era dal cercare di capire dove volesse andare a parare André con i suoi discorsi circonvoluti, si è dimenticata di nuovo di Rosalie, che ora la osserva con lo sguardo acceso dalla curiosità.
“Veramente, l’Imperatore… cioè, il Conte non risiede alla Reggia, o in un castello. A Parigi ha alloggiato presso l’Hotel Treville, mentre a Versailles ha preso in affitto una casa modesta…”
“… dove alloggerà dormendo al bivacco su un letto da campo, coperto solo dal suo mantello.[xxxiii]
Si gira di scatto trafiggendolo con uno sguardo affilato per aver osato completare la sua frase con tanta malcelata ironia. Lui però non appare minimamente ferito, anzi le sorride riprendendo a sorbire il liquido caldo dalla sua tazza, con l’aria soddisfatta di chi assiste al proprio colpo andare a segno. Rosalie, infatti, interviene prontamente con una nuova domanda.
“Ma perché…” di nuovo con l’espressione dubbiosa, di chi ha l’impressione di aver perso qualche dettaglio importante “… non ci sono letti nelle case a Versailles?”
Sospira, beve un sorso di cioccolata sbirciandolo da sotto in su, come a volergli fare intendere di aver capito a che gioco stia giocando, infine riappoggia la tazza e torna a rivolgersi alla ragazza.
“Certo che sì. Vedi Rosalie, l’immagine che si offre agli altri spesso risulta più efficace di tante parole. Come sai, avere cura del proprio aspetto è segno di rispetto per se stessi e per gli altri, mentre eccedere può essere interpretato come un segno di vanità.” Dall’espressione sul suo viso sembra che quelle parole siano servite solo a confonderla di più, per cui continua “Può essere lecito supporre che le scelte inusuali dell’Imperatore siano dettate, almeno in parte, più che dalla sincera indole personale, dal desiderio di dare una certa immagine di sé e un certo messaggio.” Si gira verso di lui sorridendo e prosegue insinuando una sfumatura di sfida nella voce. “Probabilmente quello, che il nostro André voleva spingermi ad ammettere, è che l’Imperatore manifesta un certo… desiderio di mostrarsi come un democratico, un uomo vicino al popolo prima che un sovrano. Mi sbaglio forse?”
Tiene gli occhi sulla sua espressione soddisfatta, mentre continua a sorbire il suo caffè senza affrettarsi a darle una conferma esplicita.
Le singolari richieste dell’Imperatore erano state oggetto di lunghi carteggi scambiati nei mesi precedenti con il Re e la Regina; avevano generato non pochi problemi per cercare di trovare un compromesso con il tradizionale protocollo di Corte, che, come ogni cosa, regolamentava ogni singolo dettaglio relativo a come avrebbe dovuto essere organizzata la visita ufficiale non solo di un membro di una casa regnate, ma addirittura di un sovrano.
Per la prima volta, il metodico impegno, che Maria Antonietta aveva dimostrato negli anni trascorsi per rendere cedevoli i vincoli del protocollo, sembrava aver prodotto un qualche risultato: sia i dignitari che il Re alla fine avevano finito con l’assecondare tutte le richieste dell’Imperatore austriaco, forse per rassegnazione al fatto che le rigide regole della Reggia avessero fatto il loro tempo, forse per conoscenza della natura ostinata del sangue da cui le numerose deroghe venivano richieste. L’unico punto, su cui Luigi XVI si era mostrato particolarmente poco propenso a cedere, era la pretesa del fratello della Moglie, che venisse usato nei suoi riguardi il semplice appellativo di Monsieur, ma anche su questo alla fine la sua natura poco incline ad affrontare qualunque contrasto aveva finito col prevalere.
Decaduti i precetti del protocollo, le alte cariche avevano considerato la visita cosa fatta, e la responsabilità di trovare soluzioni tanto originali ed efficaci, quanto poco manifeste, tali da garantire l’adeguata accoglienza e soprattutto protezione al Conte Falkestein, era ricaduta sui diretti responsabili della loro implementazione.
La pianificazione della scorta per la sicurezza del fratello della Regina l’aveva impegnata in maniera particolare nei mesi trascorsi, richiedendo, per via della mancanza di ufficialità e delle numerose visite informali che intendeva fare a Parigi, un’estenuante opera di coordinazione con la Guardia Cittadina, totalmente non avvezza per scopo e consuetudine a gestire simili compiti, e con gli amici al seguito del Conte. Il risultato di tutti questi sforzi organizzativi era stato però che la troppo vistosa Guardia Reale avrebbe partecipato alla scorta solo in presenza dei Sovrani.
Dato che per quella domenica il programma prevedeva la casuale visita degli ospedali cittadini per assaggiare la zuppa offerta ai poveri, lei non ha alcun impegno ufficiale e si può concedere finalmente di disporre liberamente del proprio tempo per un’intera giornata. André non aveva nascosto il suo entusiasmo di fronte a questa insperata novità, ma sembra comunque ancora mostrare i sintomi di quella sottile insofferenza, che nei mesi trascorsi aveva associato agli estenuanti turni alla Reggia, più che alle vaghe osservazioni avanzate sulle strane pretese del regale ospite.
Mentre continua ad attendere che posi la tazza, per chiarirle finalmente perché sembri avere nei confronti dell’ostentata modestia dell’Imperatore austriaco il medesimo atteggiamento critico più volte manifestato per i costosi capricci della Regina sua sorella, è Rosalie, che interrompe con un’inusuale sicurezza quell’attimo di silenzio, attirando l’attenzione sorpresa di entrambi.
“Lo sanno tutti che l’Imperatore Giuseppe è un grande benefattore e amico del popolo.”
L’espressione che le trova stampata in viso la lascia un po’ spaesata. Schiude le labbra nel tentativo di chiedere spiegazione di una tale granitica certezza, ma è André, senza alcuna esitazione, a dare voce alle parole che lei stenta a pronunciare.
“Veramente?!”
Il risoluto sguardo violaceo[xxxiv] si dirige su di lui annuendo, prima di continuare.
“Certo, lui disdegna lo sfarzo, si veste come un uomo comune per mescolarsi al suo popolo e aiutare i bisognosi… ” dirige da André a lei e poi ancora a lui gli occhi illuminati per l’entusiasmo di poter finalmente contribuire fattivamente alla conversazione “… quando potrà finalmente governare farà grandi cose per il suo popolo!”
Quelle parole piene di una tale incrollabile fiducia rimangono come sospese, fino a che è sempre André a riuscire per primo a rompere gli indugi.
“… e dimmi Rosalie, come fai a sapere tutte queste cose?”
La piccola non sembra percepire la sfumatura diffidente del suo tono e risponde sollecita.
“Me ne ha parlato Bernard[xxxv], lui è un ragazzo molto intelligente e istruito che abitava con la madre nel mio stesso palazzo a Parigi. Studia dai Gesuiti![xxxvi]” spalanca ancor più gli occhi, facendo un attimo di pausa, come per dare maggiore enfasi a quell’affermazione.
“E questo Bernard da dove ha tratto tutte queste informazioni? In fondo è a prima volta che l’Imperatore viene in visita in Francia.”
Sa che non la criticherebbe mai apertamente, però le sembra evidente che stia cercando di insinuarle qualche dubbio per scardinare quella stessa ingenua innocenza con cui, fino a un attimo prima, era stato lui a giocare.
“Ah, Bernard sa un sacco di cose! Quando avrà finito gli studi vuole diventare un giornalista e per adesso ha trovato un impiego presso… un giornale indipendente, così mi ha detto. È per questo che sa tante cose!”
Si schiarisce leggermente la voce, riportando su di sé l’attenzione della piccola, i cui occhi continuano a brillare di soddisfazione e che non sembra cosciente della gravità[xxxvii] di quanto ha appena detto. Fa un profondo respiro per prendere tempo e tentare di nascondere il sorriso che sente affiorare di fronte all’espressione d’impotenza di André, infine parla.
“Vedi, André…” di nuovo si deve fermare per evitare di ridere per l’occhiata vagamente disperata che le ha rivolto “… evidentemente sei l’unico a essere così diffidente nei confronti del buon Fratello della nostra amata Regina!” non riesce a trattenersi dal pungolarlo “D’altra parte sei diffidente anche nei confronti di Necker, considerato da tutti il salvatore dell’economia Francese e della Guerra Americana[xxxviii]. In questo periodo sembri proprio non fidarti di nessuno, vero Andrè!”
Semplicemente non capisce il perché si mostri così critico nei confronti di un comportamento, sì inusuale, ma decisamente inoffensivo. Lo vede abbassare gli occhi e sbuffare leggermente per poi tornare a guardarla con l’abituale espressione serena.
“Sarà…” apre le braccia, come in segno di resa, ma solo per farle subito ricadere in modo teatrale”… forse sono solo diffidente nei confronti di qualcuno disposto a rinunciare, pur avendone diritto, a un letto comodo!”
La smorfia che rivolge a Rosalie, la fa ridere, strizzando gli occhi e le spalle e nascondendo le labbra arricciate dietro la manina.
Poi però prosegue con tono più serio.
“O forse, semplicemente, credo che per giudicare chiunque sia necessario valutarne nella pratica le azioni… e le loro conseguenze…”
Di nuovo quel tono grave si dilegua per farsi spensierato.
“… per il momento mi accontenterei di vederlo riuscire in quello per cui il Conte Mercy ha invocato per mesi il suo arrivo!”
Le richieste dell’Imperatore in fondo sono dettagli di una visita diplomatica estremamente singolare di per sé. Non è certo cosa comune, che un sovrano regnante abbandoni il proprio paese per recarsi all’estero, tanto più per occuparsi di compiti di comune competenza di un ambasciatore. Aveva avuto però modo di constatare in prima persona, e con lei André, come dall’autunno dell’anno precedente l’ambasciatore austriaco sembrasse aver perso via via anche quel poco ascendente avuto in passato su Maria Antonietta. I richiami riportati dalle quotidiane lettere dell’augusta Madre non avevano più sortito alcun effetto e la condotta della Regina, fiancheggiata dalla Contessa di Polignac, aveva subito una deriva tale da far quasi rimpiangere le passate leggerezze e intemperanze, raggiungendo l’apogeo in occasione dei festeggiamenti per il carnevale.
“Non credo che l’Imperatore incontrerà alcuna difficoltà nel confermare e rinsaldare i già ottimi rapporti tra l’Austria e la Francia. Questa visita è il segno tangibile della grande amicizia che lega i due paesi. Indubbiamente questo è stato reso possibile dal fatto che l’Imperatrice Maria Teresa continua efficacemente ad affiancarlo[xxxix] nel tenere le redini dell’Impero.”
Il sopracciglio lievemente sollevato di André sembrerebbe indicare, che quella risposta di circostanza non lo abbia particolarmente convinto, ma prima che riesca a intervenire è nuovamente la loro giovane commensale a farlo.
“E ditemi, Madamigella, la Regina si è emozionata vedendo il fratello?” si sporge leggermente in avanti spalancando gli occhi, ansiosa di sentirsi descrivere una scena di cui probabilmente si è fatta già un’immagine precisa in mente “Sarà stata felicissima di poterlo finalmente rivedere dopo più di sette anni!”
Sorride, perché quella domanda, del tutto fuori luogo per la maggior parte dei nobili di Francia, risulta così innocentemente adeguata per la progenie degli Asburgo-Lorena. A causa della voluta informalità della visita, la Regina aveva scelto di ricevere per la prima volta l’Imperatore per un tè nelle sue stanze private. Era stata sua incombenza fargli strada, e si era trovata del tutto impreparata di fronte alla scena, cui si era trovata ad assistere. Il viso di Maria Antonietta si era acceso di un sorriso luminoso appena il fratello aveva varcato la soglia del Grand Cabinet. L’aveva vista fare un impercettibile scatto in avanti, come nel tentativo di trattenersi e mantenere il contegno richiesto, ma poi anche lui aveva sorriso aprendo le braccia e lei allora si era lasciata andare, correndogli incontro per abbracciarlo e baciarlo, con un innocente trasporto e un’intimità, che sembrava essere per loro tanto normale quanto per lei sconcertante. Aveva avvertito la necessità di congedarsi, sentendo il rossore affiorarle in viso, provando imbarazzo come un intruso più che lo spettatore silenzioso di quelle sincere e spontanee manifestazioni d’affetto.
“Sì, per la Regina è stata una grande gioia poter rivedere il fratello.”
Una risposta così sintetica non sembra soddisfare Rosalie, che continua a fissarla con gli occhi spalancati in attesa di ulteriori dettagli. È però André a interrompere quel silenzio sospeso.
“L’imperatore è stato molto affettuoso e galante con la sorella…” Rosalie si volta prontamente verso di lui “… si è complimentato più volte per la sua bellezza e la sua eleganza, non mancando di divertirla con qualche affettuosa presa in giro per la sua complicata acconciatura.”
La ragazzina muove le mani in un accenno di muto applauso per l’entusiasmo, che si trova quasi a condividere di fronte alla capacità di André di dare un colore autentico al suo scarno resoconto. Poi però lo sente continuare.
“E’ riuscito a dissipare qualunque traccia del nervosismo che affliggeva la Regina in attesa di questo incontro. Sicuramente l’Imperatore non è uno sciocco e la conosce abbastanza da sapere come affrontare con lei argomenti poco piacevoli.”
“Quali argomenti poco piacevoli?”
La curiosità di Rosalie è immediatamente innescata dalle parole lasciate in sospeso da André, che stenta a considerare casuali. Lo vorrebbe fulminare con lo sguardo, ma non può perché ha abbassato gli occhi sulla tazza, portandosela nuovamente alle labbra mentre si abbandona sullo schienale della seduta.
“André si riferisce ovviamente ad argomenti di natura formale, che sicuramente non saranno per la Regina piacevoli quanto discorrere dei loro ricordi infantili.”
La ragazzina incurva le spalle, silenziosamente insoddisfatta da quella risposta di circostanza, mentre la tensione nella voce riesce finalmente ad attirare lo sguardo di André. L’occhiata di disapprovazione, che gli lancia, riesce però solo a fargli arricciare le labbra nel vano tentativo di trattenere un sorriso compiaciuto.
Evidentemente l’atmosfera rilassata di questa giornata inaspettatamente libera dagli usuali impegni, come non accadeva da tanto tempo, ha ravvivato in lui il desiderio di pungolarla e prendersi un po’ gioco di lei. Per quanto quelle schermaglie in fondo la divertano, riportandola alla spensieratezza di quando erano ragazzi, non reputa decisamente opportuno discutere di fronte a Rosalie il fatto che l’Imperatore d’Austria sia giunto in visita per ‘sgridare’ la Regina di Francia come si farebbe con una ragazzina indisciplinata o, ancor meno, dibattere di quali consigli intenda dare al Re per cercare di smuovere l’immobilità del talamo nuziale.
Fortunatamente André decide di darle tregua cambiando argomento.
“Bene, dunque, cosa vogliamo fare oggi?” sposta gli occhi ridenti da lei alla loro giovane protetta per tornare da lei “Vista la splendida giornata propongo di fare una lunga cavalcata fino al laghetto e passare lì la giornata.”
L’espressione speranzosa, che le rivolge Rosalie in attesa della sua approvazione, per un attimo la fa esitare.
“Veramente... dovremmo ancora finire di rivedere le lezioni di ieri…”
La ragazza non replica, ma certo non riesce a evitare, che la delusione traspaia dal suo sguardo.
“Beh...” André attende che entrambe gli prestino attenzione per proseguire “una cosa non necessariamente esclude l’altra. Rosalie potrebbe portare con se i libri…”
Sa benissimo che, rimanendo fuori tutta la giornata a cavallo e magari godendosi la dolce aria primaverile alla fresca ombra degli alberi, le lezioni finiranno con l’essere trascurate, ma l’aspettativa dipinta sul volto della giovane è tale da far cedere la sua ragionevole resistenza.
“E va bene…” il sorriso le illumina gli occhi “se Rosalie promette…”
Non ha il tempo di terminare, perché subito la vede balzare in piedi appoggiando frettolosamente il tovagliolo sul tavolo.
“Ve lo prometto, Madamigella, porterò con me i libri e studierò. nNon sprecherò la giornata, lo prometto…”
Stenta a trattenere una risata davanti a quell’incontenibile entusiasmo.
“Certo, Rosalie, ti credo. Ora vai a cambiarti e a prendere le tue cose.”
“Oh, grazie … grazie, Madamigella.”
Non ha modo di replicare, perché subito la vede allontanarsi in tutta fretta in direzione dell’uscita. È in prossimità della vetrata d’ingresso quando si accorge che sta accelerando un po’ troppo il passo, allora la richiama alzando appena la voce.
“Non si corre, Rosalie.”
La vede improvvisamente trattenersi, rivolgerle un fugace sguardo imbarazzato e voltarsi nuovamente, procedendo con passo controllato e composto.
Sorride ancora osservandola scomparire oltre la soglia.
“Non intendi ancora dirglielo, vero?”
Le parole di André la richiamano alla realtà. Si gira per incrociare il suo sguardo, tranquillo e rassicurante a cercare di compensare l’argomento scomodo.
Sono passati mesi, ma per un attimo le sembra, che il tepore luminoso di quella mattinata primaverile scompaia per lasciare posto al freddo uggioso di una mattinata di fine Ottobre e quasi sente un brivido attraversarle la schiena.
 
Rosalie le stava spazzolando i capelli seduta alla toletta della sua camera, come d’abitudine da poco dopo essere arrivata a Palazzo. Costituiva l’occasione per scambiare qualche parola prima che lei si recasse a Corte, lasciandola alle cure di sua Madre e degli istitutori. Quella mattina le era parsa particolarmente silenziosa, cosa che aveva imputato alla stanchezza per l’ora tarda, cui si era coricata la sera prima, e la troppa eccitazione per il suo primo ballo, ma sentendo la sua mano esitare e un sospiro sfuggirle, aveva sentito il bisogno che chiedere.
“Dimmi Rosalie, c’è qualcosa che non va?”
I loro occhi si erano incrociati nel riflesso dello specchio, solo allora era riuscita a leggervi l’incertezza delle parole trattenute e inspiegabilmente aveva capito di cosa avesse bisogno. Aveva abbassato lo sguardo con fare incurante prima di parlare.
“Rosalie, voglio dirti che al ballo ti sei comportata con grande intelligenza.”
Le aveva parlato con voce calma e rassicurante, e, come atteso, le barriere erano cadute.
“Dite davvero? Io ero convinta che…”
“Sei stata molto furba a dire che sei nobile di nascita, altrimenti quella gente spinta dalla curiosità sarebbe potuta risalire alle tue vere origini, e se avessero scoperto la verità difficilmente saresti potuta entrare a Corte per cercare quella donna come desideri.”
Tornando a guardarla nella superficie riflettente, l’aveva ritrovata illuminata dalla gioia trattenuta a stento per la sua approvazione, attraversata subito dopo da una nuvola di preoccupazione. Non eraso serviti inviti questa volta, perché vincesse l’esitazione.
“Scusate, Madamigella Oscar, io volevo chiedervi… conoscete una donna nobile il cui nome è Martin Gabriel?”
Era rimasta lievemente interdetta per quella domanda, e quel nome pronunciato dalle sue labbra, con l’immagine che le riportava alla mente, le era sembrato quasi sporcare la loro quiete familiare. Aveva però deciso di non darvi troppa importanza, cercando di convincersi che in fondo fosse solo un nome.
“Martin Gabriel è solo il nome, non sai a quale famiglia appartenga?”
Non aveva risposto subito, come se cercasse di ricorrere a tutte le sue forze per trattenere le lacrime, che le avevano inondato gli occhi. Si era portata le piccole mani a coprire il viso per cercare di contenerle, ma alla fine avevano tracimato e con esse le parole, rotte dai singhiozzi.
“Questo io… non lo so.”
Si era alzata di scatto, facendo quasi cadere lo sgabello imbottito nella foga di soccorrerla e consolarla, stringendola appena per le spalle.
“Rosalie!”
Non sapeva cosa la potesse sconvolgere tanto, ma aveva come l’impressione che tutto quello non fosse altro che l’effetto dell’influsso venefico del nome appena pronunciato.
“Mi hanno detto…” la stretta sembrava riuscire almeno in parte a darle la forza di vincere i singhiozzi “Mi hanno detto che questo è il nome della mia vera madre.”
“Eh!? Chi è stato a dirtelo?”
L’aveva quasi aggredita con quella domanda, incapace di trattenersi di fronte a una verità che stava prendendo forma nella sua mente e della quale si rifiutava di accettare anche solo la possibilità.
“La donna… la donna che mi ha allevato e che credevo mia madre.” le parole fluivano ruvide attraverso le mani e le lacrime “Prima di morire vicino alle ruote della carrozza mi ha detto, che la donna che mi ha dato alla luce era nobile.”
“Non capisco, se quello che affermi è vero, perché me lo dici soltanto adesso?”
Non poteva credere, o forse non voleva credere a quanto le stava dicendo.
“Non potevo credere di avere una madre nobile, ma se quella donna è ancora viva, vorrei tanto almeno vederla, almeno una volta.”
Le aveva stretto gentilmente i polsi, obbligandola a liberare il viso e a guardarla con gli occhi inondati di lacrime, di tristezza e di speranza. Quegli occhi di un blu tanto profondo da sembrare viola.
“Capisco… Rosalie capisco, ma ora calmati.” il desiderio di consolarla era stato una necessità, tanto forte da vincere il rifiuto per quello che aveva appena scoperto “Ti prometto che farò di tutto per rintracciare questa donna, che si chiama Martin Gabrielle. Sei contenta?”
Rivedere la gioia illuminare il suo sguardo le aveva scaldato il cuore.
“Grazie, Madamigella Oscar, grazie!”
Aveva sorriso.
“Di niente Rosalie.”
Aveva atteso che facesse scomparire ogni traccia di quelle brutte lacrime. Si era soffermata a osservare la grazia nei suoi gesti, ripensando a come in fondo avesse sempre pensato che in lei ci fosse davvero una nobiltà innata[xl]. Le aveva detto che poteva ritirarsi, perché era ormai giunta l’ora di recarsi alla Reggia, seguendo con lo sguardo la riverenza composta e il passo trattenuto, che non riuscivano a nascondere l’eccitazione della speranza.
Fino a che l’aveva avuta davanti, era riuscita a conservare il sorriso materno, immediatamente cancellato dal chiudersi della porta. Si era girata di nuovo allo specchio e senza sorprendersi di trovare sul suo volto un’ombra dura a oscurarne i tratti. Aveva fissato i suoi stessi occhi, diventati freddi e tristi come un’uggiosa mattina di fine ottobre, di un colore così diverso dal blu tanto profondo da sembrare viola di quelli di Rosalie. Viola come quelli della Bella Gabriel[xli], come tutti la chiamavano a Corte. Per quanto lo rifiutasse, non aveva bisogno di avere l’indicazione della famiglia per sapere a chi appartenesse quel nome: Yoland Martin Gabriel de Polastron, la bella e gentile Polignac dagli occhi viola, che guida invisibilmente la mano della Regina[xlii].
 
“Non ancora.”
Aveva abbassato gli occhi, sulla tazza quasi vuota, come se il problema fosse decidere se riempirla nuovamente.
“Prima o poi dovrai farlo. Rosalie darebbe la vita per sapere e resterebbe molto delusa se tu non la trovassi per lei.”
“Per non dire se venisse a sapere che le ho nascosto di sapere chi fosse!”
Non riesce a nascondere la nota amara in quella risposta e, nello sguardo nuovamente rivolto a lui, la durezza, che però immediatamente si dissolve. Non c’era accusa nella voce e negli occhi di André, solo il tentativo di darle la forza necessaria a fare ciò, che sa essere il suo dovere. Si sforza di regalargli un sorriso.
“Glielo dirò, certo… quando sarà il momento.”
Lo vede annuire e si aggrappa a quel verde pieno di comprensione, che non la abbandona, mentre si alza, torna a scherzare e si allontana per chiedere in cucina, che preparino un pranzo da portare via, e disporre, che vengano preparati i cavalli. La conforta che sia lui, come sempre, a occuparsi delle disposizioni per la loro giornata spensierata.
Glielo dirà… quando sarà il momento...
 
 

Giovedì 26 Giugno 1777, Versailles

 
Una brezza leggera, rinfrescata dall’acqua scrosciante delle fontane, fluisce attraverso le grandi finestre spalancate della Galleria degli Specchi. Il brusio continuo dei cortigiani fa da contrappunto alla melodia degli archi, confondendosi con l’incessante frinire delle cicale, che sembrano quasi voler prendere parte dai giardini al ballo organizzato per salutare la prossima partenza dell’Imperatore.
Il fratello della Regina aveva condisceso di buon grado alle insistenze della sorella almeno per questa celebrazione ufficiale, facendo felice il Re per la possibilità di assecondare finalmente il protocollo di Corte.
Si avvicina con incedere composto al davanzale, lasciando scorrere lo sguardo indifferente sulla variopinta distesa di sete, gioielli e ricercate acconciatura in trepidante attesa dell’arrivo dei Sovrani e del loro Ospite.
Il servizio di guardia è stato predisposto, ha verificato personalmente che tutto si stia svolgendo come da programma e il Capitano Girodelle ha già provveduto a fare rapporto. In fondo la sua presenza non è altro che di rappresentanza per un ingranaggio, che funzionerebbe perfettamente anche senza di lei.
Poggia entrambe le mani sulla pietra ruvida del parapetto, si sporge leggermente, sollevando il mento quel tanto da permettere all’aria di lambire la gola, infiltrandosi nel varco angusto lasciato scoperto dal rigido collo dell’uniforme. Alle centinaia di candele accese nella galleria, che si moltiplicano all’infinito nel gioco di specchi, fanno eco nei giardini le torce e i bracieri, che punteggiano e rischiarano una serata ancora pallida, delineando i profili delle terrazze, delle aiuole e dei sentieri, rifrangendosi negli zampilli e sulle superfici riflettenti dei giochi d’acqua, come lungo il Grand Canal, che si distende quasi fino alla linea dell’orizzonte, dove un alone rosato si attarda, sfumando nella distesa di velluto scuro punteggiato di stelle via via più brillanti, mentre la luna si fa ancora attendere come la Regina.
Qualche ora, e tutto sarà finito. Rimarrà solo la servitù a fare in modo che per il sorgere del sole non sia rimasta traccia delle manifestazioni di giubilo per l’indiscusso successo della visita dell’Imperatore.
 
Indubbiamente il fratello della Regina padroneggia l’arte di riuscire a farsi amare da chiunque. Con il suo intenso programma d’impegni non ufficiali per assaggiare negli ospedali la zuppa dei poveri, per assiste a sedute accademiche e a i lavori del parlamento, per visitare i marinai, i commercianti, l’istituto dei sordomuti, il giardino botanico, la fabbrica del sapone è riuscito a toccare, sempre impeccabile e dignitoso, ma nel contempo accessibile, tutti gli strati della popolazione. Ha visto molte cose, compiacendosi al tempo stesso di farsi vedere, sempre come un uomo semplice[xliii], non saprebbe dire se per modestia o per calcolo, come ha più volte ironizzato André, comunque riuscendo con così poco a instillare nel popolo un entusiasmo e un affetto tale da superare quello alimentato in occasione festeggiamenti per la successione al trono e l’incoronazione dei Sovrani con grandi concessioni e donazioni celebrative.
In un paio di mesi, pur non producendo alcun risultato concreto, è riuscito a diventare più popolare dello stesso Necker, celebrato come il salvatore delle finanze del Regno, tanto da riuscire farsi nominare al fine Controllore, nonostante la confessione protestante avrebbe dovuto renderglielo formalmente impossibile.
Il popolo si è innamorato dell’Imperatore austriaco apparentemente desideroso di condividere la vita semplice, la borghesia guarda a lui come la promessa delle riforme tanto attese, la nobiltà lo rispetta e lo celebra in virtù del suo rango, ma soprattutto per la capacità di far sentire ognuno elevato alla dignità delle sua presenza. Perfino il Re, inizialmente restio ad accettare le tante deroghe a protocollo in cui lui trova tanto conforto, ha finito col provare per il fratello della moglie grande affetto e una tale ammirazione da cancellare persino l’ombra della maligna voce fatta circolare per Parigi dal Barone di Goltz alla vigilia del suo arrivo[xliv].
L’unica persona che sembra non essere uscita completamente rapita dal fascino di Giuseppe II è proprio sua sorella la Regina. Nonostante i modi galanti e amorevoli fossero riusciti immediatamente a dissipare l’iniziale nervosismo, dissolvendolo nei ricordi dell’infanzia e nelle facezie sugli argomenti alla moda, il desiderio di lui di fare tutto quanto necessario per piacere lo aveva indotto a compiere nei suoi confronti un gesto imperdonabile. L’Imperatore non aveva, infatti, mancato di recarsi a Louvencienne per rendere omaggio alla Contessa Dubarry, ancora parte integrante della vita della buona società, nonostante il dovuto esilio impostole. A questo smacco si era poi aggiunta la memoria consegnatale, accompagnata dalle sue raccomandazioni, pochi giorni prima.
Era rimasta sinceramente stupita sentendone il contenuto declamato con disappunto dalla viva voce di Maria Antonietta, perché mai si sarebbe attesa, che un uomo, tanto talentuoso nel conquistare il favore di chiunque, potesse dimostrarsi così maldestro nello scegliere il modo migliore per indurre la sorella a seguire i suoi consigli.
 
Il pomeriggio di due giorni prima aveva raggiunto la Regina, dietro suo invito, nel primo salotto delle stanze assegnate alla Contessa di Polignac. Nonostante comprendesse l’indignazione generale della Corte per il fatto, che le fossero state assegnate addirittura le stanze della Maintenon[xlv], non poteva negare, che la vicinanza alla Sala delle Guardie e l’assidua frequentazione di sua Maestà, le rendessero molto più semplice essere ammessa alla sua presenza.
Varcando la porta aperta dalla guardia, l’aveva trovata in piedi al centro della stanza, il mento sollevato e l’espressione solenne esasperata da un leggero cipiglio nello sguardo, concentrato sui fogli tenuti alti da una manina, mentre l’altra sottolineava l’intonazione usata per dare maggiore enfasi alle parole, descrivendo complesse traiettorie in aria con fare teatrale. La contessa di Polignac, da spettatrice attenta, non mancava di ostentare con l’espressione del volto la disapprovazione per il contenuto dello scritto, seguendo fedelmente gli accenti della sua Signora.
“Maestà, ” si era piegata nell’inchino necessario a rendere omaggio alla Regina di Francia “vengo per rispondere al vostro invito.”
Aveva reagito al suo saluto, facendolesi incontro.
“Oh, Oscar, che piacere avervi qui.” aveva sorriso, facendo cenno di avvicinarsi.
“Contessa.” Aveva rivolto il cenno di saluto dovuto all’altra occupante della stanza prima di accostarsi, come richiesto, posizionandosi accanto a una delle poltrone a riccioli dorati del salotto.
“Sentite, Oscar! Sentite anche voi come mi si rimprovera…”
Subito Maria Antonietta aveva ripreso a declamare quella memoria, in cui l’Imperatore stigmatizzava i suoi comportamenti errati in forma di domanda.
Di che cosa v’immischiate? Fate destituire un ministro, mandate un altro in esilio nelle sue terre, create una nuova carica dispendiosa a corte…[xlvi]
Non aveva resistito dal rivolgere uno sguardo alla contessa. Le era sembrato per un attimo che si tendesse, mentre continuava a ignorarla ostentatamente.
“… Vi siete domandata con quale diritto vi intromettete negli affari del governo? Quali studi avete mai compiuti, quali cognizioni acquistate per osare immaginare che il vostro parere o la vostra opinione possa comunque avere importanza e esplicitamente nelle faccende che esigono competenze particolarmente estese?…
Si era sentita in imbarazzo nell’assistere indebitamente alla lettura di quel testo, che certo l’Imperatore aveva redatto considerandolo strettamente riservato alla sorella. Allo stesso tempo, le era venuto spontaneo chiedersi come un uomo tanto attento a compiacere chiunque avesse potuto pensare che quel memoriale, intriso da un tono tanto professorale, potesse riuscire a porre rimedio alle sue intemperanze.
“… Voi, personcina giovane e graziosa, che in tutta la giornata non pensate ad altro che a frivolezze, alle vostre vesti e ai vostri divertimenti, che non leggete nulla…” l’aveva vista roteare gli occhi in cerca del supporto della contessa “… e neppure per un quarto d’ora al mese ascoltate un discorso ragionevole, che non riflettete né meditate- ne sono certo- mai, né mai considerate le conseguenze di ciò che avete fatto o detto?...[xlvii]
Aveva abbassato le braccia di scatto, rivolgendosi a lei con un’espressione d’indignato stupore.
“Dite, Oscar,… ditemi, merito dunque una simile durezza da un fratello che mi ama?” senza attendere la risposta, si era girata verso la contessa “Ditemi, amica cara, sono tali i miei difetti?”
La voce si era rotta, preannunciando qualcosa di molto simile al pianto, ma subito la Polignac le era andata in contro allargando le braccia.
“Oh, no, mia Signora.” l’aveva cinta, avvicinando la guancia alla sua “Certo che no! Nessuna delle colpe stigmatizzate in questo scritto può certo essere attribuita a voi, che agite solo spinta dal vostro animo gentile e dall’innato giudizio.” Si era scostata fissandola amorevolmente negli occhi prima di continuare “Sono certa che l’intento del vostro augusto fratello, fosse solo quello di premunirsi per quanto dovrà lasciarvi sola.”
Lo sguardo risoluto, che le aveva rivolto, sembrava essere riuscito convincerla di quella spiegazione forzata. Le aveva sorriso, lasciando scorrere le mani lungo le braccia, fino a stringere le sue con fare rassicurante, innescando un sospiro.
“Oh, mia cara amica, avete certo ragione…” tutta l’apprensione di poco prima sembrava essere svanita come per incanto “… non so veramente come farei senza di voi.”
Nuovamente serena, si era allontanata da lei, lasciando cadere i fogli sul tavolino da caffè.
“Oscar…” le si era fermata di fronte, unendo le mani al seno, sorridendo come se qualcosa di nuovo ed eccitante fosse intervenuto a polarizzare la sua attenzione, cancellando qualunque precedente preoccupazione “… mi è al fine giunta notizia di una giovane molto bella, che vive da qualche tempo a casa Jarjayes e che, con il suo debutto in società, sembra aver affascinato tutti con la sua grazia!”
Prima di rispondere le viene spontaneo lanciare uno sguardo alla contessa, che fatica a nascondere il suo disappunto. Appare evidente che la fonte di una simile informazione non sia lei.
“E’ vero, Maestà, si tratta di una lontana parente. È giunta a Palazzo per assistere Madame Jarjayes quando la salute l’ha obbligata ad abbandonare il vostro servizio a Palazzo.”
“Magnifico! È mio desiderio fare la conoscenza di questo grazioso fiore, dunque.” lo sguardo si era illuminato al solo pensiero della novità “V’invito a condurla con voi alla Reggia in occasione del prossimo ballo.”
Non era neanche riuscita a ringraziare, perché subito la contessa si era fatta avanti.
“Maestà, “ il tono insolitamente duro aveva fatto nascere un’espressione di sorpresa sul volto della Regina, certo poco abituata a ricevere da lei altro che non fosse una controllata gentilezza “ io non credo, che voi dovreste invitare a corte una persona di quel genere…
Non aveva replicato subito, perché stentava a credere alle parole che stava sentendo.
“… mi è stato riferito, con dovizia di particolari, quello che è avvenuto in occasione del suo debutto al ballo di Madame Elisabette.” poi, rivolgendosi direttamente a lei, era scomparso nei suoi gesti anche quel minimo di deferenza che aveva conservato avvicinandosi alla Regina “La vostra protetta, in mia assenza, ha tenuto un comportamento irriguardoso nei confronti di mia figlia!”
Di fronte a un’accusa tanto diretta non era riuscita a trattenersi.
“Irriguardoso?”
Nonostante la presenza di sua Maestà le era quasi uscito un ringhio. La Polignac aveva cercato di contenere la reazione, limitandosi ad arretrare con il busto, assumendo una postura eretta e composta, quasi le servisse a difendersi.
“…le ha lanciato contro il ventaglio!”
“La responsabilità è di vostra figlia Charlotte, che non avete educato con la dovuta cura!”
Anche lei si era ricomposta pronunciando quelle ultime parole, certa che il colpo sarebbe andato a segno. L’espressione indignata della sua sfidante, infatti, non si era fatta attendere.
“Che cosa? Come osate! Non avete il diritto di dire così… voi…”
Forte del vantaggio non l’aveva lasciata proseguire.
“Tengo a farvi sapere che è stata vostra figlia a offendere per prima la mia parente, e spero che la contessina Charlotte le presenterà le sue scusa, alla prima occasione.”
“Non direte sul serio spero!”
 “Suvvia,…” la voce della Regina aveva richiamando entrambe al contegno richiesto in sua presenza “… comprendo la passione di entrambe nel difendere le vostre piccole dame, ma sono certa che si tratti solo di uno sgradevole malinteso, che sarà sicuramente possibile conciliare con l’occasione di un prossimo incontro.”
Aveva sorriso garbatamente, come se la scena cui aveva appena assistito non fosse stata del tutto inaccettabile per il rispetto dovuto alla sua persona.
Si era sentita in imbarazzo senza riuscire a trovare una spiegazione per come aveva potuto lasciarsi andare in quel modo in presenza di sua Maestà. Si era limitata a chinare il capo prima di accomiatarsi, mentre Maria Antonietta prendeva sotto braccio la Polignac, invitandola a fornirle la sua opinione su quale abito avrebbe dovuto indossare in occasione del ballo in onore dell’Imperatore, come se l’increscioso spettacolo che le avevano appena offerto, non fosse altro che qualcosa di così poco interessante da essere già stato dimenticato.
 
Si sorprende a considerare come la lucentezza della seta celeste, riccamente ornata di candidi nastri, valorizzi l’incarnato luminoso e fresco della piccola Rosalie, così come la parure di perle e diamanti, che sua Madre le aveva offerto d’indossare per quell’importante occasione. Quando si era trovata a dover scegliere nel mare variopinto di pezze preziose, disposte dalla sarta negli appartamenti di Madame Jarjayes quando era stato tempo di ordinare gli abiti da ballo per il suo nuovo guardaroba, aveva esitato su una pezza di un caldo color arancio, ma subito sua Madre l’aveva dissuasa, sentenziando che non avrebbe avuto alcun senso commissionare un abito di un colore, che non sarebbe stato comunque possibile indossare a Corte, dato che sua Maestà aveva proibito a tutte le sue dame quella particolare sfumatura, a lei tanto in odio.
Muove qualche passo verso il centro della sala per andare incontro a lei e André, che si stanno avvicinando di ritorno da una gavotta e un minuetto. La vede portarsi la piccola mano alle labbra a nascondere il riso per qualcosa di divertente che lui deve averle detto.
“Dimmi, ti stai divertendo Rosalie?” glielo chiede non appena le è abbastanza vicina, perché quasi stenta a credere di vederla così allegra e a suo agio dopo che si era mostrata tanto insicura e recalcitrante all’idea di partecipare a quel ballo a Corte.
“La nostra Rosalie ha un vero talento per la danza, e gli occhi di tutti erano puntati su di lei.”
Quell’affermazione, che riempirebbe d’orgoglio qualunque giovane presente in quella sala, riesce solo a farla arrossire vistosamente, ma neanche quello sembra riuscire a intaccare la sua grazia innocente.
“Smettila, André…” lo rimprovera con fare scherzoso “non è carino che tu la metta deliberatamente in imbarazzo.”
In realtà anche lei non ha potuto fare a meno di notare come la sua giovane protetta sembri attrarre gli sguardi curiosi dei cortigiani, e il più insistente di tutti sembra essere quello della piccola Charlotte, che poco lontano continua a parlare fitto alla madre, cercando di nascondere la sua eccessiva attenzione dietro un grazioso ventaglio finemente dipinto.
Cerca lo sguardo della Contessa in lontananza, come nel tentativo di ammonirla, ma in un attimo l’attenzione di tutti è polarizzata dall’annuncio dell’ingresso dei Sovrani, che induce quel mare di persone a dividersi, compattandosi sui due lati della sala, così da consentire il loro passaggio.
Si chinano lei e André ai due lati della piccola Rosalie, che si esibisce in una perfetta riverenza, abbassando lo sguardo al passaggio della Regina. Questa, riconoscendola si stacca dal braccio del Re per farsi loro incontro.
“Madamigella Oscar! E’ dunque questa la vostra giovane protetta, di cui tutti parlano!”
“Sì, Maestà, il suo nome è Rosalie Lamorliere.”
La riverenza si Rosalie si fa un po’ più profonda mentre risponde come le è stato insegnato.
“Per me è un onore, Maestà, essere ammessa alla vostra presenza.”
Non c’è nessuna particolare intonazione nella sua voce, se non la dovuta deferenza, ma quando si gira per vederla sollevare lo sguardo sulla sua Regina, rimane sorpresa dall’espressione rapita sul suo volto. Anche lei, come tutti, non è riuscita a rimanere impassibile trovandosi di fronte per la prima volta la bellezza e l’amabile grazia di Maria Antonietta. Inaspettatamente, però, questo le instilla una vaga malinconia, considerando quanto labile possa essere l’effetto di un simile fascino.
L’onore dell’attenzione dedicata loro dalla Sovrana accende ulteriormente l’interesse della Contessa di Polignac, che prontamente si avvicina, reclamando quella stessa attenzione per la sua piccola Charlotte.
Cerca per un attimo di estraniarsi dallo scambio di vuote frasi di circostanza, per evitare di essere ancora una volta sopraffatta dalla crescente insofferenza per quella donna. Si limita a chinare nuovamente il capo, appena la Regina accenna ad allontanarsi per proseguire lungo la galleria al braccio del marito.
D’un tratto è la rigida immobilità, che sembra essersi impossessata di Rosalie, a colpirla. Segue la traiettoria del suo sguardo, che punta fisso davanti a lei, tagliente come una lama, e trova la contessa di Polignac. La contraccambia con altrettanta incredula durezza, con quegli occhi così sorprendentemente simili ai suoi.
Qualcosa in quello scambio di sguardi la mette in allarme, tanto che riesce ad anticipare la giovane afferrandola per un braccio, fermando la sua avanzata minacciosa prima che riesca a muovere un passo. C’è solo rabbia e disperazione nello sguardo che le rivolge.
“Lasciatemi andare, Magamigella. È lei… è lei quella donna!”
Il cuore manca un battito. La sente quasi sfuggirle, ma subito rinsalda la presa.
“… e, dimmi, cosa credi di fare? Cosa pensi di poter fare qui?”
Il tono duro di quella domanda sembra riportarla alla realtà, inondando i suoi occhi di disperazione e sconforto. La lascia alle cure di André, fattosi subito vicino, senza bisogno che lei lo chiami. Si volta verso la Contessa, che si riscuote, voltandosi in fretta per raggiungere la Regina. Le bastano due lunghi passi per pararsi davanti a lei.
“Cosa credete di fare?” per un attimo sostiene la minaccia nel suo sguardo “Volete informare sua Maestà di aver lasciato morire una donna in mezzo a una strada di Parigi, dopo averla investita con la vostra carrozza?” bastano quelle poche parole sibilate  a farla desistere, facendo affiorare la paura nei suoi occhi.
Dopo un attimo d’esitazione la contessa di allontana, ostentando indifferenza nel raggiungere sua figlia Charlotte, mentre lei torna da André e Rosalie.
“Madamigella, vi prego, torniamo a casa.”
Glielo chiede con voce tremante, per la rabbia o forse il pianto incombente.
“André, puoi accompagnarla tu?”
Si rifugia nel suo sguardo, certa di vederlo annuire.
“Vi raggiungerò appena mi sarà possibile.”
Li segue con lo sguardo fino a che non li vede scomparire oltre l’ingresso della galleria, allora si dirige con passo celere verso una delle finestre spalancate.
In fondo non è necessario che rimanga, avrebbe potuto tornare con loro, ma ora sa che non può più rimandare, che deve confessare a Rosalie chi è la donna che l’ha messa al mondo. E’ quella donna, la contessa di Polignac. Glielo deve dire, ma non subito.
Glielo dirà domani mattina, perché sarà tardi quando tornerà a Palazzo e la troverà già addormentata.
Un colpo secco e una voce stentorea annunciano l’arrivo dell’ospite d’onore. Tutti i presenti rivolgono la loro attenzione all’Imperatore, tutti tranne lei che procede fino a raggiungere la finestra, perché improvvisamente le sembra che le manchi l’aria.
 
 

Sabato 19 Dicembre 1778, Versailles

 
Il caldo è insopportabile, nonostante sia pieno inverno e una spolverata di neve ricopra i vialetti, le aiuole e le spoglie chiome degli alberi nei giardini della Reggia, che sembrano giacere addormentati sotto quel candido velo fuori dalle grandi finestre di fronte a lei. Alza leggermente il mento cercando di respirare. Allentare il collo della giubba le darebbe un po’ di tregua, ma non può certo farlo, è a Versailles, nelle stanze della Regina, in cui si sono ammassati quasi tutti i componenti della Corte.
Si sposta leggermente lungo il Salone dei Nobili, allontanandosi dall’ingresso della camera da letto, alla ricerca di un po’ d’aria per respirare. Sono ore che attende lì in piedi, ma non può fare altrimenti, non le è concesso per diritto di sangue assistere all’evento e sinceramente non ha alcun desiderio di unirsi a quella ressa per assistere allo spettacolo.
Lascia scorre lo sguardo sulle pareti tappezzate di broccato verde acqua, gli innumerevoli sgabelli imbottiti, ricoperti dello stesso tessuto, ornati da nappe dorate, inciampa nel grande camino di marmo bianco a volute, dove scoppietta il fuoco per via della stagione, ma che desidererebbe tanto ordinare di spegnere, se questo non comportasse una violazione del protocollo. Alza gli occhi sopra la mensola, sul grande specchio incorniciato in riccioli d’oro, stenta quasi a riconoscersi: impeccabile come sempre nella sua uniforme, ha il viso arrossato per quel caldo insopportabile e gli occhi lucidi e un po’ gonfi per la notte insonne.
 
Era passata la mezzanotte quando aveva sentito suonare le campane della cappella reale. Annunciavano che finalmente il travaglio era iniziato, tutti i nobili e i dignitari, accorsi a Versailles da tutte le province di Francia[xlviii], avrebbero finalmente assistito allo spettacolo che tanto si era fatto attendere.
Lei era comodamente seduta sul divano insieme ad André, con lo sguardo perso nelle fiamme danzanti nel camino della sua stanza. Erano tornati tardi, avevano ancora nelle ossa il freddo della lunga cavalcata, e cercavano di scacciarlo sorseggiando pigramente un bicchiere di cognac.
Aveva fatto chiamare Philemon perché le preparasse nuovamente Caesar. Quando André si era apprestato ad andarsi a preparare, gli aveva detto che non importava, sarebbe stata una lunga nottata di attesa, le sarebbe stato più utile rimanendo a casa e venendola a prendere con la carrozza il giorno successivo. Non aveva discusso, si era limitato a seguirla fino alla soglia, rimanendo a osservarla mentre montava a cavallo strettamente avvolta nel mantello, probabilmente conscio, che non sarebbe comunque stato ammesso alle stanze della Regina in una simile occasione.
Quando aveva raggiunto la Sala delle Guardie aveva trovato Guillard e Girodelle. Avevano già predisposto i turni e le stazioni di guardia secondo quanto programmato ormai da mesi. Si era fermata solo un attimo nel suo ufficio per liberarsi di mantello e guanti e ravviarsi i capelli, umidi e arruffati dopo la cavalcata, così da avere un aspetto consono all’onore di quanto spettava a lei come Comandante delle Guardie Reali: regolare l’accesso degli aventi diritto alla camera della puerpera.
Quando era giunta nella stanza, accanto alla Regina c’era solo Madame de Lamballe a tenerle la mano. Maria Antonietta senza belletto, senza vistosi gioielli, abiti pomposi o acconciature elaborate, sembrava così piccola e fragile, in mezzo alle ricche coltri di quel gigantesco letto, adorno di fregi dorati e ricchi ricami floreali totalmente privi della delicatezza del prato fiorito che avrebbero voluto imitare. Con i capelli sciolti e sparsi disordinatamente sul cuscino, la camicia leggermente aperta, vedendola arrivare le aveva sorriso, ma una smorfia di dolore si era portata via le parole che sembrava volerle rivolgere.
In quel momento erano arrivate tutte le altre Dame d’Onore, abbigliate come se dovessero intervenire a un ballo, la Polignac orgogliosamente in testa. Si erano dirette immediatamente oltre la balaustra, rivolgendole un veloce saluto di circostanza. Con quell’entrata in scena lo spettacolo era ufficialmente iniziato e lei si era allontanata per prendere il posto assegnatole a guardia dell’ingresso.
Quasi subito era arrivato il medico, in base alle sue indicazioni alle tre era stato fatto alzare il Re insieme ai principi ed erano stati inviati i messaggeri per avvisare tutti i testimoni di sangue reale o principesco.
Alle cinque il medico aveva solennemente dichiarato che era giunta l’ora suprema. Da quel momento tutti i cortigiani avevano cominciato ad accorrere, assiepandosi all’ingresso, per essere da lei ammessi in base al diritto di sangue. Mano a mano si andavano a sedere sulle poltrone sistemate nella stanza per l’evento, quelli che non avevano trovato posto nelle ultime file si erano addirittura messi in piedi sulle sedute di fine broccato, pur di essere certi di non perdere nessun dettaglio dello spettacolo.
A dispetto dell’annuncio del medico, la pubblica agonia si era protratta per ore. Il sole era sorto, le campane avevano battuto le ore fino a dodici rintocchi, ma nessuno si era mosso, nessuno aveva rinunciato alla posizione conquistata, nonostante l’aria si fosse fatta irrespirabile a nessuno era venuto in mente di aprire una finestra.
 
Un lamento prolungato, un grido, qualche esclamazione di stupore, che però torna a essere un brusio sommesso. Dopo ore di attesa, quelle schiene pigiate l’una accanto all’altra, fasciate in fini tessuti ricamati e sovrastate da parrucche incipriate, stanno dimostrando una resistenza fisica e una tenacia che non avrebbe loro mai riconosciuto proprie!
Si accosta al vetro della finestra, tanto da percepire col viso il piacevole ristoro del gelo emanato dalla superficie trasparente. Sembra tutto in attesa là fuori, le geometrie dello spiazzo dell’orangerie, sgombro dalle piante, portate al riparo per l’inverno, e immobile come la fontana ghiacciata al centro, lo specchio grigio del Lago degli Svizzeri, che riflette in maniera irregolare la luce livida del cielo, come un gigantesco vassoio di peltro.
La natura aspetta la primavera, così come la Corte e tutta la Francia hanno lungamente aspettato questo momento. L’attesa fiduciosa dei primi tempi dopo il matrimonio dei Delfini era sfumata in quella sempre più sfiduciata e punteggiata di malignità degli anni successivi, per trovare nuovo entusiastico vigore dopo la visita del fratello della Regina.
Benché nessuno conosca nel dettaglio, che tipo di consigli abbia dato l’Imperatore Austriaco al Re di Francia durante la loro peripatetica conversazione nei Giardini di Versailles, le settimane successive alla sua partenza si erano rivelate più ricche di concrete promesse per la possibile nascita di un erede, di quanto non fossero stati gli anni precedenti.
Tutta la Corte, e non solo, non discuteva di altro, che dei quotidiani aggiornamenti sulle sempre più efficaci manovre di avvicinamento del Sovrano per espugnare la più indifesa delle fortezze. Le notizie lasciate trapelare dai copisti, dalle quotidiane lettere in cui la Regina aggiornava la madre[xlix], e dalla servitù delle stanze reali, avevano dato nuovo vigore alle ottimistiche aspettative di riuscire ad assistere alla nascita di un Delfino di Francia.
Persino gli ambasciatori, che risiedevano a Versailles, avevano ripreso, dopo tanti anni, ad aggiornare i rispettivi Sovrani dello stato di avanzamento dei lavori nell’alcova dei regali consorti, fino a quando, i primi giorni di settembre dell’anno passato, era stato inviato dall’ambasciatore spagnolo al suo governo l’annuncio, che finalmente il matrimonio era stato consumato il 25 Agosto[l] 1777. Lo stralcio di quella lettera ufficiale era circolato lungamente a Corte e in giro per tutta Europa.
L’entusiasmo ritrovato aveva vacillato con il tardare della gravidanza e quando era stato chiaro, che il giovane Re ancora preferiva la caccia alla condivisione del talamo nuziale. Fortunatamente ad aprile la Regina aveva manifestato i primi sintomi, Mercy aveva cominciato a confidare a maggio. Si era però atteso di avere la certezza prima di comunicare la lieta notizia. Dopo aver sentito il bambino muoversi, i primi di agosto Maria Antonietta si era presentata dal marito fingendosi offesa e lagnandosi di aver ricevuto un calcio nel ventre da un suddito impertinente. Il Sovrano aveva stentato a capire il significato di quello scherzo, poi aveva riso di orgogliosa soddisfazione, abbracciando la moglie e complimentandosi per le sue doti di attrice.
L’annuncio ufficiale era riuscito a cancellare ogni traccia di tutti i pettegolezzi, delle critiche, degli insulti: il parlamento inviava gli auguri per il sereno svolgimento della gravidanza, venivano celebrati riti di ringraziamento in tutte le chiese di Francia, il popolo, benedetto dalla distribuzione di centomila livres, acclamava il Re e la Regina, che donavano un nuovo futuro al paese.
Maria Antonietta appariva finalmente serena, addirittura felice, per la gravidanza in sé, ma anche per come finalmente riusciva a soddisfare tutto quanto ci si attendeva da lei. Così come si era trasformata nell’orgogliosa Delfina di Francia dopo aver assistito alla dimostrazione dell’amore del suo popolo nella sua prima visita a Parigi, l’approvazione e il rispetto, tributatole per l’attesa di un principe, sembrava aver placato tutta la sua irrequietezza, ponendo fine all’affannosa ricerca dei piaceri effimeri delle feste, del gioco, degli acquisti fuori controllo di abiti e gioielli. La nuova Maria Antinietta aveva sorpreso tutti, rifiutando la più spettacolare collana di diamanti[li] mai vista da occhio umano, offertale dal suo augusto consorte a concreta testimonianza della gioia per l’evento tanto atteso. Aveva declinato l’offerta, proponendo che la cifra esorbitante per quell’acquisto potesse essere investita nell’acquisto di un vascello, nel migliore interesse della nazione[lii], alimentando anche in lei la speranza di veder finalmente sorgere la grande Regina, che tutti attendevano, da una donna finalmente sodisfatta.
Si era convinta, che finalmente avesse tutto quello che desiderava fino al venticinque agosto. I Sovrani stavano dando udienza nella galleria degli specchi, affollata dalle tante persone accorse a rendere omaggio. Gli infiniti riflessi alle pareti amplificavano l’illusione di una folla sconfinata su cui scivolavano aggraziati e sereni lo sguardo e il sorriso di Maria Antonietta. Anche lei teneva gli occhi fissi sulla massa dei cortigiani dalla sua posizione di sorveglianza, con le spalle alla parete, riportando a intervalli regolari lo sguardo sulla Regina.
Improvvisamente l’aveva vista bloccarsi, concentrando tutta la sua attenzione in una direzione specifica. Aveva seguito il suo sguardo e quello che aveva visto l’aveva lasciata senza parole.
Non l’aveva sorpresa riconoscere il volto del Conte di Fersen a Corte, sapeva che era tornato, le aveva fatto visita a Palazzo non appena arrivato, quasi considerasse un dovere avvertire per prima del suo ritorno la persona responsabile della sua partenza.
Lo aveva invitato a cena, avevano desinato in modo informale, chiacchierando amabilmente nella sala piccola al piano terra, con le finestre aperte per godere della brezza del giardino, seduti intorno al tavolo tondo insieme ad André e Rosalie. Quando la sua giovane protetta si era congedata per ritirarsi nelle sue stanze, si era complimentato con entrambi per quanto fosse graziosa e ben educata.
Si erano spostati nel salotto, loro tre, a conversare e a sorseggiare un buon bicchiere di vino. Era come se il condividere il segreto del motivo della sua partenza avesse instaurato un clima di familiarità, che non avevano mai avuto prima che partisse. Aveva raccontato loro di quei tre anni: aveva servito come diplomatico il Re Gustavo; era stato in Inghilterra per valutare la possibilità di un matrimonio con una ricca ereditiera, Catherine Leyell, che però era sfumato; era tornato in Francia per un’altra candidata, Germain Necker[liii].
Quel pomeriggio di agosto ciò, che l’aveva colpita come un fulmine a ciel sereno, era la certezza di quanto aveva letto nella sguardo della sua Regina nel momento in cui aveva riconosciuto il Conte di Fersen in mezzo a quella folla.
Si era diretta verso di lui, al braccio del Re, suo marito, con l’erede tanto atteso nel ventre, contornata da una Corte adorante.
“Ah, è una vecchia conoscenza!” aveva esclamato e lo aveva salutato. Nessun altro componente della famiglia reale gli aveva rivolto la parola.
Da allora lo aveva incontrato quasi quotidianamente a Corte, era diventato un frequentatore assiduo del seguito di sua Maestà. Per assecondare un suo desiderio, un giorno si era anche presentato indossando l’uniforme dei dragoni svedesi. La Regina stentava a controllarsi in sua presenza, tanto che quando, in un’occasione, lui le si era avvicinato cogliendola impreparata, l’aveva addirittura vista tremare[liv].
Evidentemente, a dispetto di ciò di cui si era convinta, c’era ancora qualcosa che Maria Antonietta desiderava, qualcosa di cui sentiva la mancanza.
Un mite pomeriggio di settembre lo aveva avvicinato sul terrazzo fuori dalla galleria bassa, affacciato alla balaustra sui giardini. Gli aveva chiesto come procedessero le trattative per il possibile matrimonio. Le aveva sorriso prima di rispondere, poi aveva distolto lo sguardo per tornare a dirigerlo sulla Regina, che passeggiava in lontananza insieme al suo variopinto seguito.
 “Sono molto contento che il matrimonio con Modemoiselle Necker sia sfumato, e che Miss Leyell si sia sposata. Non mi verranno più nominate e spero di non trovare nessun'altra. Ho preso una decisione. Non voglio contrarre legami coniugali: sono contrari alla natura. Non posso appartenere alla sola persona alla quale voglio appartenere, quella che mi ama davvero, perciò non voglio appartenere a nessuna.[lv]
Le aveva sorriso di nuovo prima di allontanarsi e scendere le scale verso i giardini.
 
I lamenti si sono fatti più sonori, le grida soffocate più serrate, le esortazioni del medico a sua Maestà più concitate, non ci sono più intervalli, il brusio cresce d’intensità, le esclamazioni di sorpresa lasciano il posto a delle distinguibili esortazioni, la ressa sembra comprimersi, lasciando alle sua spalle uno spazio che prima non sembrava esserci.
Ancora un lamento prolungato, un’esclamazione del medico e poi il silenzio. Per un interminabile istante, poi è solo un vagito a interrompere la calma, che però si protrae, il bambino è vivo, ma ancora la tensione è palpabile.
“Date il benvenuto a Madame Royale!”
L’annuncio è dato con voce gioiosa ma nessuna solennità, e il vociare riprende per le felicitazioni di rito, ma viene subito interrotto dalla voce del medico che tuona.
“Aria… e acqua calda. È necessario un salasso!”
La Regina è svenuta, si affretta oltre la soglia della camera, scontrandosi contro quel muro di schiene, che sembra essersi ricompattato, attirato dal nuovo spettacolo, non riesce a passare. Fortunatamente è il Re che vede emergere, fendendo la folla raggiunge una finestra e aprirla.
 
                                                     -+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-
 
“Venite Oscar, venite a vedere la mia bambina…”
Non c’è più nessuno nelle stanze della Regina, la folla dei principi e dei cortigiani si è dileguata, ufficialmente per lasciare riposare la Sovrana, in pratica per prendere parte ai festeggiamenti, che si terranno alla Reggia e in ogni angolo del paese, anche se in forma ridotta non essendo nato un maschio. Solo dodicimila livres di pensione per il medico che ha assistito al parto di una principessa, contro le quarantamila per la nascita di un Delfino, solo ventuno salve di cannone anziché le centouno per un erede al trono.
La gioia annunciata dalle campane di tutte le chiese di Francia è grande ma incompleta, per tutti tranne che per la madre apparentemente. Nella grande camera, ora quasi deserta, Maria Antonietta è distesa al centro del letto, sostenuta da una pila di candidi cuscini, i capelli pettinati, la camicia pulita e ordinata. Il pronto intervento delle cameriere ha cancellato ogni traccia del sudore, del sangue, del dolore… del malore, che aveva seminato il panico dopo il parto. L’acqua non era riuscita ad arrivare e il medico aveva dovuto salassare il piede a freddo, ma la Regina si era ripresa, generando un corale sospiro di sollievo.
È totalmente scomparso il pallore dalle guance, rimpolpate dal sorriso, gli occhi luminosi fissi sul fagotto di pizzi che regge tra le braccia. Dopo essere stata portata via per essere lavata e vestita, Madame Royale è stata riconsegnata alla madre, su sua insistenza, anche se la balia e la governante stazionano vigili poco lontano in attesa che venga riconsegnata alle loro cure.
Si avvicina al letto, André rimane sulla soglia. L’aveva raggiunta dopo che la folla si era dileguata, per avvertirla che, se desiderava tornare a Palazzo, la carrozza era pronta. Lei gli aveva chiesto di aspettare, voleva prima rendere omaggio alla Regina e alla principessa.
“... anche tu, André, avvicinati…”
Maria Antonietta solleva solo per un attimo lo sguardo, osservandoli chinarsi sulla piccola placidamente addormentata, per poi riportarlo subito a lei. Sono entrambi abbastanza vicini da sentirla sussurrare.
“Non sei quello che tutti desideravano, ma, se fossi stata un maschio, saresti stata della Francia… così invece sarai solo mia…”
Quella frase all’apparenza così dolce, le fa mancare un battito. Spera veramente che quell’esserino riesca a riempire finalmente il vuoto, che sembra così difficile colmare nella vita della madre, anche se forse non è compito dei figli sopperire a quelle che i genitori considerano le loro mancanze.
Scostandosi dal letto gira il capo anziché attardarsi sulla bambina, come se lo sentisse, fisso su di lei, il verde degli occhi di André.
 
 
 
E finalmente ho trovato
chi mi è necessario:
qualcuno ha bisogno di me
- come aria.
 
Quanto più nero e mortale –
più necessario è il bisogno
dell'altro – di te. Di chi
non può fare a meno
di me – suo pane e respiro.
 
Occorro – a qualcuno:
accorro, rispondo
al primo richiamo.
 
Più alto, più certo e sicuro
delle montagne: a qualcuno
serve una mano: la mia!
sulle piaghe!
 
E tutto il braccio – nel fuoco!
Più della luce degli occhi
mi serve l'umano bisogno
di me – come fiato.
 
 
Marina Ivanovna Cvetaeva
 
 
 
Angolo dell’autore:
Ammesso che qualcuno sia arrivato a leggere queste note, e non mi abbia, realisticamente mandato a quel paese prima… ecco il capitolo 4 completo, dopo tale spropositato ritardo.
Qualcuna dirà… ci potevi fare 8 capitoli! Sicuramente si dal punto di vista della lunghezza, purtroppo no dal punto di vista di come l’ho scritto e per il fatto che il tema di questo “anello” è unico: le aspettative, appunto, la teoria su ciò che si dovrebbe essere in base ai principi, lo scontro con la realtà, i limiti ambientali e personali, la proiezione delle proprie aspettative su altri, etc etc… insomma tutta una fase che a mio avviso fa diventare Oscar quello che è nella fase successiva della sua vita e contro cui il povero André, che le idee se le è chiarite nel capitolo scorso, dovrà sbattere la testa, prima della, tardiva, nuova fase evolutiva. E in tutto questo, sono riuscita a trovare un ruolo sensato anche a quella frignona di Rosalie!! Che sono stata lungamente tentata di amputare, ma che in questa fase di “trasferimento di quello che si è imparato su altri” è molto funzionale. E come sempre… DIO, COME SONO PALLOSA! Mi annoio da sola… cmq..
Spero abbiate apprezzato i gioiellini (incastonati per impreziosire il mio rozzo lavoro di bulino) in apertura e chiusura, trovo che il primo descriva bene l’atteggiamento di Andrè in questo periodo (nelle puntate dell’anime dalla 9 alla 18) sembra lo faccia a posta a fare il buffone, l’ultima invece … è per le signore… La Cvetaeva mi piaceva molto quando avevo vent’anni, crescendo… ho cominciato a non apprezzarla più tanto, per il suo atteggiamento spesso troppo orgoglioso, ai limiti dell’odioso autolesionismo, nei confronti degli altri e dei sentimenti… ma qui .. ci stava proprio come un fagiuolo nel baccello!! XD
Ecco… adesso mi potete mandare liberamente a cag*re L
Cmq, per le coraggiose e volonterose … ringrazio chiunque mi abbia dedicato… un SACCO di tempo per leggere questo capitolo, chiunque abbia ancora la forza e la voglia di recensire, come sempre i feedback mi sono di grande aiuto per meglio focalizzare… e ovviamente chi ha inserito la mia storia tra le seguite/da ricordare o addirittura preferite. Grazie mille !!
 
 
 Aggiornamento 29/12/2015:  Per chi fosse ancora interessato ringrazio e prometto che prima o poi arrivo... scusate . 
 
[i] Dovevo decidere dove infilare gli appartamenti di Madame Marguerite, alla fine ho deciso per il primo piano del corpo nord, di sufficiente prestigio per una dama della Regina, madre del suo adorato Comandante delle guardie. Il corpo centrale è per il nucleo della famiglia reale (2/3 del Re, resto per la Regina ed eventuale Delfino.. principi.. al momento assenti, ma che andrebbero al piano sottostante le camere dei sovrani), la grande ala sud è per gli altri componenti della famiglia reale, la massa dei cortigiani è stipata in quella nord, con livelli di comodità estremamente diversi, a seconda del ruolo ricoperto a corte e di quello che si potevano permettere (stare a Versailles era sommamente scomodo e ancor più costoso!)
[ii] Memento: cameriera personale di Palazzo che l’ha seguita a corte.
[iii] Se non ve la ricordate (vista la mia lentezza è passato un secolo dal capitolo 2 in cui veniva citata e poi era solo un veloce accenno) è la sorella numero 2, circa 4 anni più di Oscar, andata in sposta nei ranghi dell’aristocrazia amministrativa.
[iv] La battuta rasenta… anzi supera la soglia della crudeltà (stando orgogliosamente in piedi in mezzo al dominio del politicamente scorretto… ma diciamocelo, è un’invenzione piuttosto recente, che spesso è imparentata con l’ipocrisia, quindi con il ‘700 c’entra proprio pochino XD) ma mi è parsa molto calzante rispetto all’epoca: si potevano dire le cose più abominevoli, purché piene di spirito e curate nella forma.
[v] Nel ‘700 secondo me è garantito che in società il Generalissimo venisse bersagliato di battute per la sua iniziativa, lo sarebbe stato anche il Re in persona… da cui la giusta supposizione che di vita di società, visto il suo temperamento, facesse solo quella strettamente necessaria! Non c’è da stupirsi che non vada d’accordo con il marito di Marie-Suzanne ;-)
[vi] non lapidate Anne! Sono sorelle è normale un po’ d’insofferenza. Loro due poi sono due diverse declinazioni delle signore settecentesche in positivo, sono figlie del generale e di Madame, non ci riesco a farne delle oche deficienti (e a Corte non sarebbero sopravvissute a lungo), semplicemente si attengono al loro ruolo nella forma (come d’altra parte fa Oscar, più insofferente) e si muovono all’interno di questo vincolo al meglio. Sono più coscienti di Oscar della distanza che passa tra ideale e reale, apparenza e sostanza, hanno imparato a muovercisi per necessità. Ci sta che la sorella grande ribalti un po’ gli occhi con lei XD
[vii] A scanso di equivoci, tutti i servizi resi dai nobili ai membri della famiglia reale, erano abbondantemente ben retribuiti (tramite rendite, pensioni, lasciti etc.)! La nobiltà ricca per le rendite dei possedimenti terrieri era ormai, per la maggioranza, un ricordo, visto che più nessuno se ne stava a fare il signorotto sulle proprie terre, occupandosi si amministrarle facendole fruttare al meglio (è vero anche oggi, il padrone che demanda la gestione agli amministratori solitamente non guadagna gran che).
[viii] Uno dei problemi della piccola ‘corte della Regina’ era che l’unico requisito era quello di essere divertenti. Questo aveva fatto sì che MA non frequentasse nessuno che fosse significativamente più vecchio di lei (che già non è proprio il massimo per una che dovrebbe essere la Regina di tutti i francesi) e che nella sua selezione fossero compresi individui più che discutibili (soggetti di dubbia moralità, che non avrebbero dovuti essere ammessi a Corte, figuriamoci a fare parte della cerchia ristretta della regina). Questa mancanza di considerazione per il merito (perché non è che tutti i nobili fossero dei facinorosi idioti) nell’accesso alla cerchia ristretta finirà con l’allontanare la nobiltà e in particolare la migliore dalla famiglia Reale. (l’accesso alla cerchia ristretta dovrebbe essere gestito come un premio nei confronti di chi si da maggior lustro per comportamento, fedeltà e servizio e non a quello che fa le battutacce più divertenti, è uno strumento di valenza politica)
[ix] Nell’anime viene citata una nonna, la Noailles è del ’29 e siamo nel ’75… viste le aspettative di vita dell’epoca per donne che avevano una mezza dozzina di figli… una madre mi parepiù plausibile
[x] Il padre di Francoise de Aubigne, poi Marchesa di Maintenon (che diventerà la governante dei figli che la Montespan aveva dato al Re, e di seguito favorita e poi moglie morganatica di Luigi XIV), era un affezionato delle carceri per debiti, tanto che lei ci nacque e crebbe. Avendo sperimentato le umiliazioni di ciò che voleva dire essere una ragazza nobile senza fortuna, fondò una scuola Maison Royal de Saint-Louis (nota anche come Sait-Cyr) in cui queste ragazze (che dovevano appartenere a una famiglia nobile da almeno 140 anni) imparavano come farsi onorevolmente una posizione nel mondo. Oltre all’istruzione prevista per una ragazza nobile (matematica, storia, geografia, disegno, canto, musica, danza, teatro, catechismo, morale, latino, araldica e storia della chiesa), per non sfigurare nei salotti, il programma prevedeva che imparassero a cucinare, cucire abiti, pettinare e acconciare i capelli, gestire i domestici e curare gli ammalati. Le insegnati erano nobili laiche, che prendevano temporaneamente i voti fintanto che vi lavoravano, le ragazze vi passavano 7 anni, e ne uscivano con una dote di 3000 livre, così da poter contrarre un matrimonio dignitoso o di prendere i voti in un convento di buon livello, molte sceglievano di rimanere a insegnare, almeno per un periodo. Molto di moda per un lungo periodo, tra i nobili di alto rango, perse popolarità quando Luigi XV decise di non mandarci le sue figlie, perché ”l’educazione del Saint Cyr le faceva venire su con troppe pretese” XD
[xi] Il fatto che qui si faccia riferimento alla famiglia Jarjayes come famiglia nobile di antica stirpe, non è in contrasto con il fatto che l’acquisizione del titolo sia relativamente recente, come ho inserito nell’anello 2, facendo riferimento alla storia del vero Conte de Jarjayes. I titoli erano solitamente legati a una proprietà e non tutti i discendenti di una famiglia nobile ereditavano (ereditano) un titolo. In sostanza, si può essere privi di un titolo e poveri in canna, ma pur sempre appartenenti a nobiltà di antichissima stirpe, situazione non semplice, visto che un nobile non poteva procacciarsi la sussistenza facendo un lavoro qualunque.
[xii] Ho deciso i dare alla Polignac l’aspetto di quella vera e non di quella dell’anime, tanto più che in questo periodo tendenzialmente il colore originale dei capelli era prevalentemente invisibile alle masse, sotto gli strati di cipria. La vera Polignac poi aveva un tratto somatico più caratteristico, la bella Yolande dagli occhi viola XD (in realtà veniva chiamata come d’uso con il suo ultimo nome, ossia Gabrielle)
[xiii] sarebbe la famiglia della Marguerite vera seconda moglie del vero A.R. de Jarjayes.
[xiv] La società dell’epoca, per quanto divisa in classi, era connotata in modo “assistenziale”, era … socialmente bene accetto e incentivato, che i parenti ricchi si occupassero dell’educazione della prole di quelli poveri (la stessa Polignac aveva beneficiato di questo), così come l’abitudine di tenere la tavola imbandita per ricevere ospiti a ogni ora del giorno e della notte per ricevere “gli amici” era il modo in cui nobili e intellettuali sull’orlo dell’indigenza, potevano mantenere un livello di vita accettabile, ripagando gli ospiti solo con la loro buona conversazione e la loro arguzia.
[xv] Secondo le convinzioni dell’epoca, la madre era in assoluto l’essere più inadeguato cui affidare l’educazione dei figli, non la donna (infatti spesso avevano governanti donne, o insegnanti donne nei collegi) proprio la madre… aveva qualcosa a che fare con il troppo coinvolgimento emotivo, che si riteneva non giovasse alla formazione dei piccoli. D’altra parte l’emotività non era ben vista.
[xvi] Una ragazza non sposata, accompagnata da una dama più anziana non era previsto che partecipasse attivamente alla conversazione, ma che ascoltasse e osservasse per apprendere sul campo le buone maniere e la buona conversazione.
[xvii] Secondo me ad André, piacerebbe un sacco andare alle feste a ballare…  o forse sto solo proiettando sui nostri due beneamati l’immagine di quel Grizzly delle SS di mia madre, accompagnata con mio padre che ballerebbe fino a farsi sanguinare i piedi (che considerato che per la stragrande maggioranza delle coppie è il contrario… necessita del carnè quando vanno a qualche serata celebrativa)
[xviii] ho rispettato l’evento come nell’anime, ma in realtà non esisteva che una ragazza di buona famiglia partecipasse a un ballo senza essere accompagnata da una parente responsabile. In realtà se non sposata non era proprio previsto che prendesse parte a un ballo. Charlotte poi ha 11 anni, il che è ancora più “inappropriato”, anche per i canoni dell’epoca. A questo proposito, la cosa veramente fantascientifica della storia di Oscar è che venisse mandata in giro da sola dai 14 anni in società, senza una donna più anziana di accompagnamento (anche un maschio avrebbe avuto un accompagnatore). Avendo “rotto” questa convenzione sociale, non aveva più importanza se fosse effettivamente vergine o meno… a quel punto poteva andare a letto con chiunque (è un po’ come i diamanti certificati da investimento, non importa che sia lo stesso diamante perfetto… una volta aperta la bustina sigillata, buona parte del valore è perso).
[xix] Sono cosciente che qui l’atteggiamento possa apparire troppo rigido anche per la nostra Oscar. In realtà la mia idea è che quando Oscar si mostra così intransigente sulle regole, è perché in realtà ha la tendenza a trincerarvisi dietro perché c’è qualcos’altro che le rode… che ne sia cosciente o meno.
[xx] Nel mio malato tentativo di incastrare la finzione con la realtà storica, ho dato a Rosalie un’età sensata rispetto agli eventi e all’età della Polignac (nata nel ‘49), per cui suppongo che sia nata nel ’63 (la vera Rosalie Lamorliere è del ’68, davvero troppo giovane per comparire in questo periodo e avere il ruolo che ha in questa storia), da madre circa quattordicenne che ci poteva stare (nell’anime dice che ne aveva 16, ma allora veramente non mi tornavano le date). Charlotte ovviamente non esiste nella realtà, ma direi che per certi versi ricalca parecchio la figura di Aglaè primogenita, unica femmina della Polignac, fatta sposare a 12 anni il duca di Gramont e Guiche (che non era il vecchiaccio dell’anime, è del ’55 quindi nel ’80 ha 25 anni, per cui grandicello per una bambina di 12, che partorirà l’anno dopo). Per obblighi di incastro, pertanto, sovrappongo Charlotte ad Aglaè, supponendo che la madre però si sia sposata prima dei 18 anni (come in realtà), pertanto ipotizzando che la Polignac di sia sposata nel ‘64 e Charlotte/Aglaè sia del ‘65. Che dite? Che mi faccio dei problemi che non esistono? Probabilmente avete ragione, ma sono fatta così, e cmq mi serviva per incastrare bene gli eventi del prossimo capitolo ;-)
[xxi] Essendo i fidanzamenti dei contratti di fusione tra famiglie, poteva capitare, anche se non spesso come si crederebbe, che venissero fatti accordi quando i “fidanzati” erano ancora molto giovani (undici-dodici anni), di norma però il fidanzamento ufficiale avveniva quando i ragazzi erano più grandicelli e solitamente dopo un incontro tra i due, per valutarne il gradimento reciproco. Ovviamente non era veramente contemplata l’eventualità che nessuno dei due si potesse opporre, ma di solito la ragazza, chiusa fino alla settimana prima in un collegio, dove la disciplina lo rendeva quasi una forma di carcerazione, entusiasta per l’improvvisa attenzione fatta di begli abiti, gioielli, feste, farcita di idee sull’amore coniugale in un’età in cui di norma si è innamorate dell’amore, allettata dall’idea di essere finalmente “padrona”, era piuttosto entusiasta di convogliare a nozze, tanto più che era stata allevata con quell’unico obiettivo. I fidanzati erano solitamente abituati a obbedire ai genitori, e tutto sommato non avevano nulla da perdere sposandosi. Per quanto concerne l’età, di norma la differenza non era tanta, essendo l’interesse delle famiglie di norma unire dei patrimoni e garantire una discendenza sana e numerosa (vista la mortalità infantile anche per i nobili i numeri erano importanti, non solo per il proletariato), il più delle volte il marito designato non era molto più vecchio della ragazza. I matrimoni con uomini molto anziani, non erano la prima scelta delle famiglie delle ragazze di solito, a meno che non fossero economicamente alla canna del gas, perché di norma un uomo anziano aveva già altri figli con diritti sul patrimonio. La Polignac, quella vera, fa sposare la figlia Aglaè a 12 anni con il Duca Gramont et Guiche venticinquenne.
[xxii] Se si considera che un buon reddito annuo di un “diperndente” si palazzo tipo Andrè poteva essere sulle 100 livres, gli orecchini li ha pagati qualcosa si simile a 50.000.000 di euro odierni. (considerati che erano solo degli orecchini la mitica collana a 1.600.000 livres… era un affarone!!)
[xxiii] Regalato a Maria Antonietta dal marito nell’estate del ‘75
[xxiv] quando fu licenziato Turgot mandò al Re una lunga lettera di cui un estratto « Sua Maestà ha bisogno di una guida più lungimirante per evitare gli errori di Carlo I Stuart, finito decapitato, e del sanguinario Carlo IX. Non dimenticate, Sire, che fu la debolezza a mettere la testa di Carlo I sul ceppo e a rendere crudele Carlo IX »… Più che un economista Turgot era un profeta!
[xxv] Il decesso del controllore generale Clugny di Nuits che è successo a Turgot, drà a Necker l'opportunità di accedere al governo. Essendo di religione protestante, non può essere nominato controllore generale delle finanze perché questa funzione porta di diritto l'accesso al Consiglio. Il 22 ottobre 1776, a quarantaquattro anni, è quindi nominato consigliere delle Finanze e "direttore generale del Tesoro reale". Il 21 ottobre Louis Gabriele Taboureau dei Réaux, è nominato ufficialmente controllore generale, ma in pratica, è Necker che esercita il potere.
[xxvi] Portare la spada al fianco era un diritto originariamente concesso solo alla nobiltà, all’epoca di questa storia erano state concesse una serie di deroghe (cmq Andrè non avrebbe potuto), ma ancora era considerato uno ‘status simbol’.
[xxvii] Ok… è il punto di vista della nostra rigida bionda, evidentemente non le è chiaro l’istinto pedagogico di André nel cercare di controbilanciare il suo ruolo ;-)
[xxviii] Ok, è insopportabile, ma è pur sempre Rosalie, non potevo epurarla completamente da queste sue gnole così distintive.
[xxix] Il fratello di MA arriva a Versailles il 18 Aprile 1777, dopo abbondanti insistenze del Conte Mercy, che non sapeva più cosa fare per tenere a freno la fanciulla e terrorizzato dall’idea che se Luigi XVI non si decideva a fare il suo dovere a letto, prima o poi lo avrebbe fatto qualcun altro con le ovvie disastrose conseguenze a livello di politica internazionale. Giuseppe viene quindi spedito dalla madre con il compito ufficiale di chiarire quale fossero i problemi di ‘penetrazione’ del cognato, fare una ramanzina alla sorella e, ovviamente, rinsaldare il rapporti tra i due paesi. Dal canto suo però, lo pseudo-imperatore (perché fino alla morte della madre lo era di nome, ma, come dice lui stesso, in pratica era l’ultima ruota del carro) decide di approfittare di questo ‘palcoscenico internazionale’ per esibirsi nella cosa che gli riesce meglio ‘la propaganda di se stesso’. Il culto della personalità non è certo nato con i grandi dittatori della storia moderna, i curatori d’immagine con i politici contemporanei, Giuseppe non era uno stupido, ma neanche un genio, cmq come PR e interprete della sua immagine aveva le idee molto chiare. Dovendo ritagliarsi un’identità all’ombra di cotanta madre, che era per definizione LA GRANDE IMPERATRICE con un ruolo eroico, decide di impersonare IL GRANDE DEMOCRATICO, benefattore del popolo, padre del Paese, filantropo amato dagli illuministi (semplicemente perché accettava qualunque idea gli passassero, e infatti dopo la morte della madre combinerà anche dei grossi casini, non valutando nel merito scelte fatte per smania di coerenza di immagine e frettolosa e acritica pulsione a innovare). In pratica Giuseppe va in giro a impersonare ‘l’imperatore operaio’ XD : va a spingere gli aratri, vaga in incognito vestito da borghese, ama le ragazze del popolo, corre in aiuto dei bisognosi, ma guarda caso alla fine si svela sempre!!! Si, insomma una bella operazione immagine tipo ricco e famoso che va ‘in incognito’ a servire la zuppa ai poveri, ma il cui ufficio stampa provvede a informare i paparazzi perché diffondano testimonianza della cosa, un modesto, purché sia certò che la modestia venga comunque rivelata e pubblicizzata. La sua mamma (che invece intelligente lo era davvero e tanto) lo definisce ‘una civetta dello spirito’. Si insomma, in occasione della visita a Parigi non gli pare vero poter impersonare il suo personaggio in ‘mondovisione’, tanto più che in Francia sarebbe spiccato ancora di più, visto che i sovrani erano percepiti dal popolo come molto più isolati nel loro empireo di sfarzo di quanto non fosse in Austria.
[xxx] Sia la dichiarazione di viaggiare come un comune borghese, che il preteso titolo di conte sono fatti reali, benché evidentemente il contrasto (se sei conte non sei borghese!?!?), cmq, rientrando nella sceneggiata storica, li riporto come sono… probabilmente voleva ostentare di essere modesto anche per un conte… boh, Maria Teresa è stata una gran donna, ma certo allevare i figli non rientrava nei suoi tanti talenti.
[xxxi] L’aneddoto è vero e io l’ho sempre trovato esilarante… e tantissimo settecentesco nel suo incrollabile rispetto della forma pur nell’ottica di ‘Io so, che tu sai, che io so’, ma nessuno lo dice ;-)
[xxxii] Gerarchicamente Duca batte Conte (cfr. Parole del Duca di Germain “Voi state parlando con un Duca!!!”)
[xxxiii] Una delle grosse attrattive di André è che è uno intelligente! Benché sia di fatto un democratico, mi è parso ovvio fargli manifestare una palese ironica diffidenza di fronte a una tale demagogia spicciola, evidentemente finalizzata a manipolare la massa ignorante (che ne dovrebbe essere offesa e non affascinata capendo).
[xxxiv] Ho deliberato d’ufficio che abbia gli occhi della madre.
[xxxv] Anche nell’anime Bernard è un vicino di casa di Rosalie, fa un paio di fugaci apparizioni (l’ultima sulla tomba della madre di lei prima che si diriga a cercare vendetta) prima di comparire al fianco di Robespierre nella taverna quando pestano Oscar e André, subito prima dello scandalo della collana, parecchio prima di quell’improbabile storiaccia del cavaliere nero (ovviamente la metterò in quanto punto cardine… anche se fa taaanto feuilleton ottocentesco). Nel manga addirittura la rapisce in veste di cavaliere nero, mentre nell’anime non si incontrano a casa di Oscar… in ogni caso, si conoscono da prima e si vede benissimo che lui le sbava dietro dalla più tenera età. Gli uomini si giudicano dalle loro azioni e… dalle donne di cui s’innamorano, pertanto… Bernard sarà un buon ragazzo, ma diciamocela tutta, non è un genio!! Soprattutto, sarà anche la giovane età, è uno con l’anima del ‘fan’, s’infervora subito per le idee più strampalate, senza soffermarsi un attimo a considerarle criticamente (solo il fatto che vada in giro mascherato a rubare… cioè davvero!?!?)
[xxxvi] Anche Robespierre è un prodotto dei Gesuiti, che tra il ‘600 e il ‘700 sembrano aver istruito praticamente tutti in Francia. Luigi XIV aveva introdotto l’istruzione obbligatoria e sostanzialmente gratuita, demandandola alla chiesa con l’idea di estirpare il protestantesimo, sicuramente che sarebbe stata fornita un’istruzione di così alto livello e tutto quello che ne è derivato. Cmq, Bernard avrà un paio d’anni più di lei, quindi ora, diciamo 16-17, Andrè ne ha 22; l’incidente con il cavaliere nero dovrebbe essere nel’86, quindi tra 9 anni.
[xxxvii] In Francia vigeva la censura, per cui teoricamente potevano pubblicare sono testate autorizzate dopo un vaglio estremamente stringente di quanto si desiderava pubblicare. Il risultato di un sistema tanto rigido, lento e stringente, era che alla fine veniva pubblicato un mare di roba illegale da ‘giornali indipendenti’ illegali, che potevano stampare un patria (con annessi rischi di chiusura confisca e arresto, ma in fondo se ci sei abituato ti organizzi e se non scrivevi chissà cosa bastava corrompere qualche guardia) o all’estero (più per libri e libelli) per poi importare le copie di contrabbando. Cmq la nostra biondina ha appena detto che il suo amico fa un lavoro assolutamente illegale al Comandante delle Guardie Reali.
[xxxviii] Necker viene spesso dipinto come una figura salvifica. In realtà, almeno a mio avviso, ha saputo giocare bene la sua immagine rispetto a Turgot, visto che verrà mandato via per lo stesso motivo, ossia nel momento in cui cerca di tagliare le spese (cosa intentata anche dal Turgot appunto). Entrambi si trovano a dover far fronte a una situazione economica disastrosa, Turgot ha un approccio di economia reale che prevede la liberalizzazione del mercato, che in fondo non era sbagliato, semplicemente non è stato supportato da una corretta gestione accessoria (come in Russia dopo la caduta del muro, non è che liberalizzi dall’oggi al domani e tutti stanno bene, perché se lo fai ci sono una minoranza di squali che speculano e una maggioranza che non capisce subito il nuovo sistema che muore di fame…), il suo approccio però, essendo basato sull’economia reale, si basava sulla ricchezza prodotta internamente, principalmente dall’agricoltura, e sul fatto che il territorio francese era molto esteso, quindi era lecito supporre che una carestia in una zona potesse essere compensata da una buona produzione altrove, che, in assenza di speculatori (beato ottimismo), in un mercato libero avrebbe permesso una ridistibuzione della produzione con un prodotto medio accettabile tale da soddisfare le esigenze interne. Necker invece è un finanziere svizzero! E quindi adotta un approccio finanziario, necessitando le casse del regno di denaro, per funzionamento ma anche per finanziare la costosissima guerra americana (costo finale 1 miliardo di livre), prende una marea di denaro (530 milioni di livre) in prestito dalle banche a una tasso da strozzinaggio. Tutti gridano al miracolo, per la sconvolgente capacità di quest’uomo di produrre liquidità (è evidente che erano abituati a un’economia basata sull’agricoltura… perché è la reazione di uno che non ha mai visto una banca e riceve il soldi del mutuo senza aver capito cosa ne seguirà e senza essersi informato sulle condizioni… un po’ l’effetto primi tempi delle carte revolving). Necker era fiducioso che le capacità produttive del paese fossero in grado di consentire di restituire gli interessi anche se molto alti… ovvio però che una carestia (teoricamente gestibile se non indebitati con l’approccio di Turgot) non consentendo di produrre eccedenza, manda in palla il programma di restituzione. La carestia ci fù, ma lui era stato già mandato via e sostituito da soggetti convinti che la liquidità da lui lasciata non la dovesse restituire nessuno, la guerra americana non produsse nessun introito per rimborsare le ingenti spese, etc etc… la catastrofe finanziaria conseguente è storia …
[xxxix] Questo è un eufemismo.
[xl] La forma ambigua è deliberata, non mi è mai piaciuto molto che Oscar attribuisse la grazia di Rosalie alla necessaria presenza di sangue blu nelle sue vene (come se servisse il pedigree), preferisco pensare che le attribuisse nobiltà in senso lato, che si concretizza poi nella coscienza del fatto sia effettivamente nobile di nascita.
[xli] La Polignac era chiamata da tutti Gabriel, dalla famiglia e da tutti a Corte (La bella Gabriel dagli occhi viola). La conoscenza dei nomi, e l’araldica, era una ‘materia obbligatoria’ per i nobili, e non è pensabile che Oscar non conoscesse i nomi di una donna così in vista a corte, per quanto più disinteressata sull’argomento rispetto ad Andrè.
[xlii] Affermazione tratta dalle memorie di Madame Campan.
[xliii] Prima di partire l’Imperatore scrive al fratello “Tu vali più di me, ma io sono più ciarlatano, e in questo Paese bisogna esserlo. Io sono per calcolo o per modestia un uomo semplice, ma lo esagero con intenzione: ho suscitato qui un entusiasmo che mi riesce già davvero penoso. Lascio questo regno molto soddisfatto, ma senza rimpianti, perché ne ho già abbastanza dalla mia parte”… trovo inquietante come questo estratto possa essere considerato ‘un classico’
[xliv] Federico il Grande aveva istruito il barone Goltz perché facesse correre a Parigi il preteso motto di Giuseppe: ‘Io ho tre cognati e tutti e tre fanno pietà: quello di Versailles è un imbecille, quello di Napoli e un pazzo e quello di Parma uno stupido”. Il cattivo vicino aveva attizzato inutilmente il fuoco, giacchè il modestissimo Luigi non era permaloso e la freccia rimbalzò contro la sua mancanza di vanità. I due cognati si parlarono con leale franchezza, e come sempre Luigi conosciuto da vicino, malgrado la sua goffaggine, indusse una certa simpatia. L’imperatore scrisse “Quest’uomo è debole ma non uno sciocco. Ha cognizione e discernimento, ma è apatico nel corpo come nello spirito. Tiene discorsi ragionevoli, ma non ha desiderio di istruirsi e non ha curiosità; insomma il fiat lux non è ancora giunto per lui, la materia è ancora massa informe.” Dopo alcuni giorni Giuseppe II aveva completamente in mano il cognato.
[xlv] La Maintenon era moglie morganatica di Luigi XIV, pertanto non aveva diritto a occupare a corte le stanze della Regina. Per tale motivo le sue stanze sono sul medesimo piano all’estremità dell’ala. Maria Antonietta destinò quelle stanze alla Polignac così da poterla avere sempre vicina, non c’è da sorprendersi del malcontento che questa decisione generò in tutta la corte, visto che comunque, se pur morganatica, si trattava di stanze spettanti per diritto alla moglie di un Re, e considerato che i nobili a corte vivevano stipati in stanzette spesso buie e anguste, il diritto ad appartamenti più grandi era si norma una ricompensa per il servizio reso, e si loto non superavano mai l’estensione di 3-4 ambienti, mentre l’appartamento destinato alla Polignac, comparsa dal giorno alla notte, aveva l’estensione paragonabile solo alle stanze dei principi di sangue.
[xlvi] Estratto dal memoriale lasciato da Giuseppe II alla sorella per continuare ad ammonirla dopo la sua partenza: un pippone socraticamente in forma di domanda, che riuscirebbe a vanificare i giusti consigli con chiunque, figuriamoci a una scarsamente propensa all’autocritica quale MA! (evidentemente nei suoi studi aveva trascurato che Socrate era un grande filosofo, ma sicuramente non una persona particolarmente popolare ed apprezzata per la sua simpatia!)
[xlvii] Continua in forma di sequenza di domande rimproverandola per come si comporta con il marito, per le troppe feste, la frequentazione di persone a dir poco discutibili, il cattivo comportamento rispetto alla corte, le spese eccessive, etc. etc. etc.
[xlviii]Il sovraffollamento era tale che i prezzi degli alimentari triplicarono.
[xlix] il 19 Agosto del 1777 Maria Antonietta è ancora vergine, però scrive fiduciosa alla madre: “il grande attacco non è riuscito, ma non perdo tuttavia le speranze, perché vi è un miglioramento, cioè il re manifesta più interesse che un tempo, il che è già molto per lui.” :-O ogni commento credo sia superfluo…
[l] a questo proposito MA scriveva alla madre: “Mi trovo immersa nella felicità più essenziale per tutta la mia vita. Da oltre otto giorni le mie nozze sono perfettamente consumate; la prova è stata rinnovata e ieri ancora più completamente della prima volta. Avevo pensato dapprima di mandare un corriere alla mia cara mamma. Ho temuto poi che ne nascesse troppo chiasso e pettegolezzo. Confesso inoltre che volevo essere ben sicura del fatto mio. Non credo di essere ancora incinta, ma ho almeno la speranza di poterlo divenire da un momento all’altro.” Al di la dell’argomento dell’aggiornamento alla madre, l’idea di volerle dire qualcosa quando è proprio sicura, se non fosse tragica nella sua tenerezza, da un’idea dello stato di esasperata incredulità che si può raggiungere! Avendo la tecnologia avrebbe probabilmente messo online un video virale dell’atto.
[li] Sì, LA fantomatica collana, fu offerta a MA per la prima volta in occasione della prima gravidanza, prima di venire portata in tour per l’europa da Bohmer e Bassenge, venire rifiutata anche da Caterina II di Russia, e tornare a ‘casa’ per venire riproposta alla Regina dopo la nascita del Delfino Luis Joseph, per essere nuovamente rifiutata.
[lii] In realtà, tutta la mitologia per la santificazione di Maria Antonietta imbastita durante la restaurazione non rendono chiarissimo se sia stata veramente lei a rifiutarla o Luigi XVI a ripensarci, visto il costo esorbitante (1.600.000 livres, corrispondenti circa a 500 Kg d’oro; per fare una altro paragone tutta la guerra in America è costata alla Francia cinca un miliardo di Livres). Che il mitico ReTentenna ci possa aver ripensato non è un eventualità tanto remota, lo faceva continuamente con nomine di ministri, leggi firmate, parola data... di solito però per evitare di discutere. Visto il complesso di inferiorità che aveva nei confronti della moglie  non ci credo tanto, (opinione personalissima) non credo neanche tanto al moto di saggezza della regale testolina leggera, ritengo che in quest’occasione, come in quella successiva, abbia pesato molto di più il fatto che il gioiello fosse stato originariamente pensato per la Dubarry (in questo periodo sarà anche felice per la gravidanza, ma continua a sperperare denaro in quantità industriali in regalie, favori e ristrutturazioni, così come dopo la nascita del Delfino… quando la cosa era anche più tragica, perché anziché dilapidare il denaro in diamanti, che almeno avevano un valore intrinseco, lo dilapiderà in abiti e gioielli finto povero… come cantava Elio “… pantaloni che costavano al mercato euro 23, ora li trovi alla boutique, comprati dalle donne ricche…”)
[liii] La figlia di quel Necker, che poi sposerà il barone de Stael, la scrittrice Madame de Stael.
[liv] vero
[lv] Solito notorio estratto da una lettera che Fersen scrisse alla sorella. Qui lo facciamo dire a Oscar, che deve ancora imparare tante cose dalla vita.

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Capitolo 8
*** Anello 5: Affinità (Parte 1/5) ***


Premessa dell’autore:
Ciao a tutte, scusate la lungaggine, ma al solito per narrare la storia originale il difficile è non cadere nella banalità (ansia), non sp*ttanare un il sacro testo (doppia ansia) e centrare la ‘chiave’ di ogni anello… questo e il prossimo poi, sono un po’ come… essere sui binari ed essersi accorti che ne manca una sezione, non ci si può fare nulla e sta arrivando il treno… di fatto non resta che attendere l’inevitabile e assistere al deragliamento di un treno, non so se mi spiego.
Ci tengo a precisare che come al solito, benchè la narrazione sia in terza persona (per evitare deliberatamente un’introspezione troppo esplicita e per mantenere una certa continuità formale, pur cambiando POV da un anello all’altro), il POV è di un personaggio specifico, in questo caso Andrè, per cui spesso l’inghippo è descrivere le cose nella prospettiva imposta dal POV, lasciando intendere che in realtà sono altro... si insomma, probabilmente sono trip miei, ma come al solito la scelta dei termini e dei tempi non è casuale, poi se è efficace o tatolmente inutile… me lo direte voi ;-)

Per chi ancora mi segue spero che la lettura sia comunque gradevole, al solito le allegorie in questa ff si sprecano, spero che arrivino.
Come sempre ringrazio chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare e chi mi dedica il tempo per recensire ;-). Non mi rimane che augurarvi buona lettura, sperando che sia gradevole… ovviamente lunga... ma essendo io...

 
 
Indice
Sabato 9 Marzo 1779, Palazzo Jarjayes
 
 
 
Anello 1.5: Affinità
 
 
La porta è socchiusa,
dolce respiro dei tigli...
Sul tavolo, dimenticati,
un frustino e un guanto.

Giallo cerchio del lume...

tendo l'orecchio ai fruscii.
Perché sei andato via?
Non comprendo...

Luminoso e lieto
domani sarà il mattino.
Questa vita è stupenda,
sii dunque saggio cuore.

Tu sei prostrato, batti
più sordo, più a rilento...
Sai, ho letto
che le anime sono immortali.


Marina Ivanovna Cvetaeva
 
 
 
Sabato 9 Marzo 1779, Palazzo Jarjayes
 
La candida mano di Oscar avvolge il cristallo panciuto, ondeggia appena in bilico sul gomito stancamente incuneato nel sontuoso broccato del bracciolo. Il movimento fluido e rotondo si amplifica nel vortice morbido del liquido ambrato e l’unghia[i] si accende ad ogni voluta dell’oro delle fiamme, che colmano il grande focolare, divorando pian piano i nodi di un imponente ceppo, voraci e alte. Arrivano a strappare all’oscurità lembi di ogni superficie dell’immenso salon, conferendole nuova vita. Tingono di calda ocra gli intagli del candido marmo, accendono di tepore lo scintillio della tappezzeria in seta, si moltiplicano disordinate sui legni, negli specchi e negli argenti perfettamente lucidati, fino a insinuarsi e penetrare impudenti sulla soglia dell’arco, che conduce alla camera da letto[ii].
In ogni angolo perfettamente ordinato, lingue di luce danzano irrequiete e scomposte con le ombre scure, infrangendosi contro la trasparenza delle grandi finestre, oltre le quali non sembra esserci altro che un impenetrabile e solido buio, screziato dal rumore della pioggia battente, cui fa da contrappunto solo il crepitio del fuoco.
André avanza silenzioso di un altro passo, avvicinandosi al divano. La osserva starsene immobile con lo sguardo tra le fiamme, come se non si fosse accorta della sua presenza. Eppure sa che è lì, anche se probabilmente non ha neanche sentito il suo bussare leggero alla porta dell’anticamera, anche se non lo guarda ancora, ma lo stava aspettando, come sempre.
“Vuoi che accenda le candele, Oscar?” una domanda consueta, la cui risposta, forse scontata, tarda ad arrivare. E’ solo un istante, ma gli basta per perdersi nei riflessi perlacei accesi dalle fiamme sul candore della sua pelle, nello scintillio dell’oro nei capelli, la linea pensierosa e perfetta del profilo. Ritrova quel filo di tensione nel lungo collo, le membra flessuose, i polsi sottili, leggera ma sempre intuibile, almeno per lui, anche quando se ne sta così, apparentemente rilassata, con lo sguardo sfavillante e perso, da sempre lo stesso, ma sempre come se qualcosa sfuggisse.
“No…” lo coglie alla sprovvista “…non serve.”
Si riscuote appena e le labbra prendono quella piega leggera, cortese e familiare, che riconosce come l’allusione di un sorriso “E’ già passata Genevieve[iii], le ho detto che preferisco così.”
Un altro breve silenzio, di cui approfitta per scrutarla ancora nella penombra, come se nella posa della gamba accavallata o nell’inclinazione delle sopracciglia potesse leggere cosa stia realmente pensando. Ancora un attimo fino a che finalmente si gira.
“Cosa stai aspettando?” gli sorride davvero adesso.
Appare divertita e anche un po’ interdetta per quell’insolita esitazione, che le fa aggrottare appena la fronte “Versati da bere e fammi un po’ di compagnia qui vicino al fuoco. Non ti metterai a fare complimenti proprio stasera!?”
“Ah, certo non io!”
Con decisione scrolla il capo e si china sul tavolino da caffè, dove, al centro di un labirinto d’intarsi, troneggia già aperta una delle pregiate bottiglie di cognac dalla riserva privata del Generale, affiancata da un secondo ballon in fine cristallo, inappropriatamente lasciato lì per lui, ma certo degno di raccogliere una generosa dose di quel prezioso nettare.
Si lascia andare sulla seduta morbida, in quello che dopo tanti anni oserebbe definire il suo posto, all’estremo opposto dell’elegante divanetto a ventaglio[iv]. Sospira, rumorosamente compiaciuto, e si agita un po’, fino a ritrovare la sua posizione perfetta tra lo schienale e il bracciolo.
Oscar non commenta, c’è abituata ed è tornata a perdersi tra le fiamme inquiete. Sua nonna piuttosto troverebbe da ridire, ora come quando era un ragazzino, per le gambe distese e un po’ scomposte, e più ancora per quel braccio allungato sul bordo dello schienale. La sua solita posa un po’ troppo ‘protesa’, solo che la mano, un anno dopo l’altro, è arrivata quasi a sfiorare la spalla di Oscar. In effetti ora gli basterebbe stendere appena il gomito per farsi scorrere tra le dita quella ciocca setosa, che gli solletica la punta dell’indice.
Invece avvicina il bicchiere alle labbra per godersi il profumo caldo e voluttuoso del liquore, e un po’ anche per nascondere la smorfia agrodolce innescata da quel pensiero malandrino, come se Oscar si potesse mai accorgere di una cosa simile.
Ne approfitta per riempirsi ancora per un po’ gli occhi del suo distratto fulgore e intanto inspira profondamente. L’aroma inebriante gli fa pregustare il piacere, il leggero pizzicore sul labbro screpolato, la consistenza amabile e pastosa che riempie la bocca, la carezza di velluto sulla lingua. Indugia finche può, prima di lasciare che il calore gli scorra giù per la gola, per poi irradiarsi alle membra e rarefarsi in testa.
Infine la lascia, almeno con gli occhi, per dedicarsi a quello sciocco gioco che fa sempre. Posa il bicchiere in precario equilibrio sul ginocchio, sostenendolo appena con un dito, lasciandolo oscillare, ogni volta un po’ di più. Prima o poi finirà col farlo traboccare, o gli sfuggirà dalle mani e quel prezioso cristallo andrà in mille pezzi cadendo a terra, e non ci sarà più niente da fare per rimediare.
Trattiene un mezzo sorriso, dandosi dello sciocco tra sé e sé. Non sa perché continui a farlo. Non è certo particolarmente divertente, né minimamente sensato, ma ha cominciato quando era un ragazzino e un po’ alla volta è diventata una sorta di rituale necessario a quelle pigre serate con Oscar, finalmente solo loro due, sempre uguali. Sa perfettamente che non ha alcun senso, e chissà perché proprio stasera sente l’altrettanto insensato bisogno di trovarne uno.
Sospira oziosamente e solleva lo sguardo, abbandonando l’equilibrismo del suo bicchiere e cercando di spegnere il brulicare di quei pensieri importuni nelle fiamme del camino, decisamente troppo alte e troppo vicine.
“Lo hai fatto di nuovo!” esclama, perturbando la quiete ferma e ovattata con un tono forse un po’ troppo divertito.
“Cosa!?”
Si gira di scatto Oscar, ma non saprebbe dire se il modo cui lo fissa sia più sorpreso o piccato, e lo sbuffo di risata, che stenta a trattenere, certo non migliora la situazione.
Si sforza di ricomporsi prima di proseguire.
“Hai spostato di nuovo il divano per avvicinarlo al fuoco.”
E’ sempre una strana sensazione, come se fosse in grado di vederla un istante prima. Prima che raddrizzi la schiena, sollevi il mento, affili lo sguardo. Prima che si forzi improvvisamente in quella compostezza eccessiva, che qualcuno definirebbe portamento, ma che il serrarsi appena percettibile della mascella e delle labbra trasforma nella sua posa di elegante inflessibilità, quella per cui viene considerata da tutti algida e distaccata, o addirittura altezzosa e superba. Almeno da tutti quelli che non la conoscono quanto lui.
“Non capisco di cosa tu stia parlando.”
Riconosce nella sua voce tutto l’aristocraticissimo distacco di cui è capace. ‘Scostante’ è il termine più indulgente con cui possa definire quel tono, eppure lui non può fare a meno di sorridere. Gli riempie il cuore di una dolce malinconia quando fa così, perché la rivede bambina, quando si rifugiava dietro l’apparenza del perfetto soldatino forgiato dal Generale, perché si sentiva insicura, o troppo esposta e disorientata, o magari solo in imbarazzo per essere stata colta in flagrante a commettere una qualche marachella.
Appena arrivato a Palazzo l’aveva detestata[v]. Crescendole accanto, aveva cominciato a comprendere, ma aveva sofferto[vi] all’idea che in quei momenti cercasse di tenere a distanza anche lui. Ora, dopo tanti anni, lo intenerisce e, allo stesso tempo, gli instilla uno strano senso di privilegio, perché ha la presunzione di essere uno dei pochi, se non l’unico, capace d’intravedere la sua fragilità anche dietro a quell’apparentemente impenetrabile durezza.
Forse ha solo imparato a non farsi intimorire o distrarre da quello sguardo tagliente. Gli balza agli occhi l’impercettibile fremito, che tradisce lo sforzo di sostenere la maschera, richiamando all’ordine l’angolo della bocca. Sa che si sente un po’ sciocca e, se non fosse per l’orgoglio ferito, si concederebbe di ridere per essere stata scoperta ancora una volta. A dispetto di tutto è comunque e sempre la sua Oscar.
“Oscar…”
La richiama come se avesse ancora cinque anni e come non oserebbe mai fare fuori di lì. Sorride e sostiene il suo sguardo fino a vederla cedere. La tensione si dilegua con uno sbuffo sonoro e rassegnato. È come se si sgonfiasse, ricadendo contro lo schienale. Non lo guarda neanche più in faccia, ma ancora trattiene il riso in quel broncio contrariato, perché ancora non è disposta a dichiarare apertamente la resa.
“Non so come te ne sia accorto questa volta!” osserva contegnosa.
“In effetti mi ci è voluto un po’.” le concede doverosamente prima di puntualizzare “Ho notato che ti sei persino premurata di mettere a posto le pieghe del tappeto.”
Porta la mano a sostenere il mento per continuare più comodamente a osservarla e lei lo sa. La scorge mordersi il labbro per non concedergli di vederla ridacchiare, come invece sta già facendo lui.
Non ricorda neanche più quando sia cominciata quella specie di gioco delle parti. Da piccoli era sua nonna a redarguirli sistematicamente ogni qual volta li trovava accucciati troppo vicini al fuoco. Crescendo avevano smesso entrambi di stravaccarsi sul pavimento, ma Oscar non aveva perso l’abitudine di avvicinarsi oltre il consentito, seppur accomodata su una seduta degna del suo rango, e lui, per qualche motivo, aveva assunto quel ruolo di ragionevole censore[vii] senza rendersene neanche conto.
È perfettamente cosciente che non lo riguarda, ma non riesce a fare a meno di richiamarla all’ordine per quel vizio infantile e la cosa lo diverte, anche se forse non quanto sembra motivare lei a continuare a farlo, cercando comunque di non farsi scoprire.
“Non ti fa bene stare così vicina… ” la solita ammonizione.
“Avevo freddo… ” risponde da consuetudine.
“Ne avrai ancora di più dopo.”
“Non è vero!”
Sbuffa, non ha mai trovato una replica convincente a quell’obiezione finora.
“Forse dovresti solo evitare di andare in giro sotto il diluvio.” ma non stasera.
Non risponde subito, ma quel silenzio non ha più niente in comune con la morbida e pigra quiete di appena un istante prima, così come la smorfia contratta delle labbra o la nota secca e sbrigativa nella sua voce.
“Non sapevo sarebbe venuto a piovere.”
Le parole affogano nell’abbondante sorsata con cui svuota il bicchiere, riappoggiato immediatamente sul bracciolo con un gesto stizzoso.
Il viso è sempre rivolto alle fiamme, ma in un istante si è velato di un’ombra scura, come quel pomeriggio nello spiazzo antistante all’ala sud della reggia, mentre la aspettava con i cavalli, pronto per tornare a casa.
 
Neanche mezz’ora prima si stavano già avviando lungo lo scalone, quando una delle guardie assegnata alle stanze della regina li aveva raggiunti, accelerando il passo e richiamando l’attenzione del suo Comandante con una certa apprensione, seppure sempre nel rigido rispetto della forma.
La sovrana richiedeva urgentemente la presenza di Oscar per un’udienza privata.
“Comunicate a sua Maestà che sarò subito da lei.”
Aveva replicato autoritaria, rivolgendo però a lui un’occhiata, che gli aveva quasi fatto sfuggire un accenno di risata. Un po’ perché aveva costretto il sottoufficiale a fare un ulteriore palese sforzo per ignorare la sua presenza, ma soprattutto perché non era certo un’abitudine per Oscar lasciarsi andare a un gesto così informale a corte. Subito prima di quell’imprevisto, però, stavano giusto scherzando su quanto fosse incredibile, dopo mesi, riuscire a lasciare la reggia prima del tramonto[viii].
“A quanto pare avevi ragione tu.” lo aveva apostrofato seguendo con lo sguardo il suo sottoposto, che si affrettava per obbedire all’ordine “Non avrei dovuto cantare vittoria troppo presto.”
“Vuoi che dia disposizioni perché riportino i cavalli alle scuderie e ti aspetti nel tuo studio, Oscar?”
“No” finalmente si era girata “cerchiamo di non essere troppo disfattisti.” aveva sorriso, come se le chiacchiere di poco prima l’avessero già riportata un po’ a casa “Potrebbe non richiedere molto tempo. Precedimi nel piazzale, se sarà necessario ti farò avvertire.”
Era rimasto a guardarla mentre accelerava appena l’andatura su per lo scalone, decidendosi a riprendere la discesa solo quando l’aveva vista scomparire oltre la balaustra.
All’esterno aveva ricevuto formalmente le briglie di Caesar da un mozzo di stalla, mentre un altro rimaneva poco arretrato con Alexander. Come al solito si era posizionato in composta attesa, confidando di vederla ricomparire al più presto dal grande arco a vetri.
Si era accorto subito che c’era qualcosa di diverso nell’aria. Era stata una giornata luminosa e tiepida, e quella mattina, per la prima volta dopo tanto tempo, gli era sembrato di percepire un delicato sentore di primavera, di cui però non era rimasta traccia. Spirava invece una brezza cruda e uggiosa, che lo faceva rabbrividire.
Lo scalpiccio nervoso degli zoccoli di Caesar lo aveva costretto a rinsaldare la presa sulle briglie e a lambire il collo del candido[ix] stallone di Oscar con il suo tocco confortante ma fermo, per cercare di ammansirlo. Nel farlo aveva abbandonato per un attimo la sorveglianza dell’uscita, sollevando gli occhi al cielo. Da dietro il profilo della reggia, dove si apprestava a ritirarsi il sole, si stavano affacciando grosse nubi scarmigliate e gravi. Con molta più urgenza dell’avvicinarsi del tramonto, sul pallore dorato del selciato si allungavano ombre dense e scure. Era stato allora, che ne aveva visto riemergere Oscar.
 
“Mia Madre e Rosalie? Sono già tornate?”
La domanda lo coglie un po’ alla sprovvista, ma è solo un attimo.
“Mentre salivo ho sentito arrivare la carrozza. Non si trattengono mai troppo alle cene della Marchesa di Lambert, e con questo tempo… Probabilmente, ora saranno negli appartamenti di Madame a discutere della serata[x] prima di ritirarsi per la notte.”
La risposta sintetica ed esaustiva ha mandato in fumo il tentativo un po’ maldestro di cambiare argomento, ripiombandoli in quel silenzio teso, in cui lei si trincera.
“Allora… ” cerca d’insinuarsi con cautela “… non mi vuoi raccontare dove sei andata?”
“Te l’ho già detto… niente d’importante, dovevo solo consegnare un messaggio a Parigi.”
“Così poco importante da rischiare la vita a cavallo sulle strade allagate?[xi]” un ultimo tentativo, che sa perfettamente non sortirà alcun risultato, perché già le ha viste le sue dita sottili serrarsi come una morsa d’acciaio intorno al cristallo, esattamente come quel pomeriggio.
 
Avrebbe dovuto già capire dal passo grave con cui si era avvicinata, dall’ombra che aveva offuscato la spensieratezza di poco prima, dal fatto che non avesse risposto al suo cenno di saluto, dal modo in cui evitava il suo sguardo, ma erano a corte. L’aveva aiutata a montare, sostenendole lo stivale, come richiedeva il suo ruolo benché lei non ne avesse alcun bisogno. Solo cedendole le briglie se ne era reso conto, la piccola mano custodita nel guanto le aveva strette nervosa e tirate con violenza, tanto da far nuovamente agitare Caesar.
“Oscar…”
Aveva fatto appena in tempo a scansarsi per non essere colpito, quando aveva scartato di lato. Poi era stato solo uno sbuffare di froge, un colpo secco sui fianchi, il rumore incalzante di zoccoli al galoppo e un ordine stentoreo.
“Precedimi a Palazzo, André…”
La voce era svanita come l’immagine di lei, che si allontanava veloce, spronando sempre di più il cavallo e lasciandolo lì. Non gli era rimasta altra scelta che obbedire.
Già varcati i cancelli dorati di Versailles, il cielo si era fatto cupo e opprimente. Aveva cominciato a cadere a terra in grosse e gelide gocce non appena imboccata la deviazione che conduceva a Palazzo, allontanandosi dalla strada principale, quella che certamente Oscar stava percorrendo per raggiungere Parigi.
Il buio della boscaglia era stato improvvisamente rischiarato a giorno da un lampo, subito seguito dal rombo del tuono. Nonostante il temperamento mansueto, aveva sentito Alexander farsi nervoso sotto la sella ed era dovuto ricorrere e tutte le sue risorse per costringerlo a mantenere l’andatura, ma quando un fulmine era caduto poco lontano, schiantando un grosso ramo in un fragore di fuoco, non era riuscito a evitare che s’imbizzarrisse, impennandosi sulle zampe posteriori e ricadendo a terra in direzione opposta per fuggire, tornando sui suoi passi.
Aveva strattonato il morso una volta e poi ancora, per farlo girare, costringendolo sul giusto percorso, e lo aveva spronato al galoppo fino a non avere più fiato per raggiungere il Palazzo il più velocemente possibile, prima di rischiare di rimanere impantanati, sfidando la pioggia sempre più violenta e insistente, e un vento avverso e gelido, che gli offuscava la vista e penetrava nelle ossa.
Era stato immensamente grato a Philemon, che gli era corso incontro nello spiazzo sul retro anche sotto quel temporale per occuparsi del cavallo.
“Madamigella Oscar?…” aveva chiesto mentre smontava, rivolgendo lo sguardo in un punto indefinito e scuro oltre la cancellata.
“Arriverà più tardi.” aveva tagliato corto.
Gli aveva ceduto le redini senza neanche ringraziare ed era corso verso l’ingresso delle cucine, richiudendo la porta vetrata in fretta, nel tentativo di lasciare fuori la tormenta e il gelo.
Si era sentito subito carezzare le guance dal tepore familiare del grande camino sempre acceso, ma era stato un sollievo fugace, perché sentiva ancora il peso di tutta la tensione accumulata lungo il tragitto, e quel freddo penetrante, che era arrivato troppo in profondità per dileguarsi così facilmente.
Anche lì dentro poi, dove aleggiava sempre un confortante profumo di brace, di pane e di qualche manicaretto tenuto in caldo, si era insinuato un sentore di umidità e muffa, un che di stantio, che gli procurava un vago senso di disgusto. Le responsabili dovevano essere le due grandi ceste ricolme di biancheria malamente ripiegata, stranamente sistemate nei pressi del focolare. Aglaè e Thecle[xii] vi si affaccendavano intorno con estrema dedizione, apparentemente incuranti del suo arrivo e del fango, che inzaccherava l’orlo delle loro uniformi di lavanderia, solitamente candide e perfette.
“Tieni!”
Per quanto lieve quel richiamo lo aveva fatto sussultare.
Era bastato girare appena il capo per trovare fissi su di lui i grandi e rassicuranti occhi blu di Nanà, tanto vicini da chiedersi come avesse potuto non accorgersi, che gli si era fatta incontro.
Gli aveva sorriso ed era stato impossibile non ricambiare un’espressione tanto sincera e gentile. Per lui sarebbe rimasta sempre la bimbetta fragile, timida e timorosa, arrivata a palazzo dieci anni prima, anche ora che aveva compiuto ventidue anni ed era diventata la cuoca di Palazzo[xiii], dando prova di una tenacia e un temperamento inaspettati.
Aveva abbassato lo sguardo, trovando nella sua manina protesa l’offerta di un canovaccio candido e ancora profumato di bucato.
“Grazie.”
Gli era uscito un tono flebile, quasi un sussurro, tanto da dubitare che l’avesse sentito, mentre si passava il telo leggermente scabro sul viso e ci si frizionava i capelli, per scrollarsi di dosso almeno un po’ dell’acqua gelida di cui era zuppo.
“Bel temporale, eh? Ha colto tutti di sorpresa.”
“Già… mia nonna?”
“Madame[xiv],…” gli faceva uno strano effetto sentirla chiamare così, per quanto dovuto e usuale“…sta facendo il giro della casa con Genevieve e Clodine, per verificare che tutte le finestre siano ben chiuse e per attizzare il fuoco nelle stanze. Vuoi che ti prepari qualcosa di caldo mentre l’aspetti?”
“No, ti ringrazio…” le aveva restituito il canovaccio con un gesto fin troppo sbrigativo “… preferisco andare subito in camera a cambiarmi.”
Si era già allontanato di un lungo passo prima di finire la frase, e in un attimo era fuori dalla cucina, nel lungo corridoio malamente illuminato. Gli era parso piccolo e opprimente, troppo affollato di cameriere e lavandaie, servitori e lacchè, che si affrettavano dentro e fuori dalle stanze di servizio sui due lati, richiamandosi a vicenda, discutendo sul da farsi; un disordine di persone, rumori e voci, che lo riportava all’insistenza inesorabile della tempesta da cui era appena sfuggito.
Aveva allungato il passo, opponendosi al flusso turbolento, schivando l’improvviso cambio di direzione di Mathieu[xv] mentre dalla lavanderia Yvette tuonava un qualche ordine o rimprovero, e finalmente era riuscito a dileguarsi, girando a destra e imboccando la stretta scala, che conduce alle stanze della servitù, al momento deserte.
Con gli stivali ancora fradici era scivolato sul primo consunto gradino in pietra, e solo aggrappandosi con forza al ferro freddo del corrimano aveva evitato di cadere. Era buio lì, nessuno si era certo ancora premurato di accendere la sola lampada sistemata in una piccola nicchia a metà strada. Avrebbe dovuto portare con sé una candela, magari tornare indietro a recuperarne una, ma non ne aveva nessuna voglia.
Aveva bisogno di un po’ di tranquillità. Non voleva ributtarsi in quella bolgia e non gli serviva alcuna candela. Gli era talmente familiare quella scala, così come ogni più recondito anfratto del Palazzo, che avrebbe potuto percorrerla a occhi chiusi.
Soprattutto non aveva nessuna voglia di rischiare d’incontrare sua nonna, non ancora, non fino a che non si fosse calmato almeno un po’. Lo sapeva già cosa gli avrebbe detto e, in quel momento, non ce l’avrebbe fatta ad affrontare ancora una volta i suoi rimproveri.
Come hai potuto lasciarla sola… sei uno sciagurato, un irresponsabile… un servo incapace e ingrato!’
Non aveva alcun bisogno di averla di fronte per sentire le parole, che gli ronzavano in testa da quando aveva varcato i cancelli. Tra le pareti ruvide d’intonaco di quel passaggio buio e angusto, poi, era come se rimbombassero, come se scricchiolassero sotto i suoi passi tra le travi di legno del ballatoio e poi della sua stanza.
Si era chiuso la porta alle spalle rabbrividendo di nuovo. Un altro lampo aveva rischiarato ogni cosa, stagliando nel quadro della finestra la sagoma irrequieta di un albero battuto dal vento.
‘…sotto questo nubifragio poi… chissà cosa le accadrà…
Si era scollato di dosso con forza le maniche fradice della giacca, e l’aveva gettata sulla sedia, subito seguita dal panciotto.
… dovevi andare con lei…
Aveva afferrato l’acciarino dalla mensola del camino e si era inginocchiato per accendere il fuoco. Per il tremore gli era sfuggito un paio di volte dalle mani, prima di riuscire a far prendere l’innesco. Le fiamme erano presto divampate vivaci, nutrendosi della piccola e ordinata catasta di legna, ma lui continuava ad avere freddo.
 ‘… dovevi correrle dietro… raggiungerla…
Si era strappato di dosso la camicia appiccicosa, frizionato vigorosamente la pelle con un asciugamano di lino, divorando il pavimento a grandi passi, avanti e indietro in cerca di un po’ di calore e sollievo.
… dovevi fare qualcosa… qualunque cosa, ma non lasciarla andare sola…
Un fulmine aveva squarciato di nuovo il buio, facendo tremare i vetri.
Come se non lo sapesse già da solo o non se lo fosse ripetuto mille volte dal momento in cui l’aveva vista scomparire oltre l’oro delle cancellate di Versailles.
Era balzato in sella e aveva lanciato il cavallo al galoppo nell’estremo tentativo di raggiungerla, in barba al rispetto della forma e del protocollo. Aveva corso fino a perdere il fiato, ma alla fine la ragione gli aveva imposto di arrendersi alla realtà. Ormai era scomparsa oltre la linea dell’orizzonte e non sarebbe più riuscito a recuperare il distacco. Gli era stato fatale quell’interminabile istante d’incertezza, in cui era rimasto immobile con gli occhi fissi sulla sua immagine che si allontanava, incredulo.
Cosa avrebbe dovuto fare? Gli aveva ordinato di tornare a Palazzo, aveva fatto tutto quanto in suo potere per lasciarlo indietro, non lo voleva con sé, non voleva essere seguita, non gli aveva neanche detto dove sarebbe andata.
Ancora non riusciva a crederci, neanche di fronte all’evidenza. Come aveva potuto comportarsi in quel modo… trattare lui in quel modo?
Un altro lampo aveva attirato il suo sguardo fuori dalla finestra e subito era seguito un tuono, tanto forte da farlo sussultare. La pioggia continuava a cadere incessante, pesante e violenta, mentre il vento costringeva anche le chiome degli alberi secolari del parco a piegarsi alla sua veemenza. Lui sapeva solo che sentiva sempre più freddo.
Aveva spalancato le ante dell’armadio e si era buttato addosso una camicia pulita e una giacca asciutta. Afferrato il mantello, si era lanciato oltre la porta e poi giù per le ripide scale.
Era stato come se all’improvviso il tempo avesse ripreso a scorrere, per mettesi poi a correre, sempre più svelto, come lui oltre la cucina, attraverso il cortile in mezzo al fango, verso le scuderie.
Erano stati solo brevi istanti, il mantello di Oscar preso dalle mani di Genevieve, l’espressione interdetta di Philemon riportando fuori Alexander, solo frammenti sconnessi, che in qualche modo lo avevano riportato su quella strada per correre da lei il più in fretta possibile.
Lanciato al galoppo, era certo che presto l’avrebbe raggiunta, sapeva perfettamente dove andare, anche se non glielo aveva detto o forse proprio per questo. Più si allontanava da Palazzo, più aveva l’impressione di procedere spedito e sicuro come il vento alle sue spalle, nonostante il fondo fangoso. Era quasi sulla strada maestra, quando l’aveva vista.
L’aveva riconosciuta subito, anche se da principio era solo un movimento indistinto, poco più di un’ombra oltre la cortina di pioggia, poi era diventata un flebile alone di luce nel buio. Gli era parsa così fragile, rannicchiata con il capo chino in equilibrio sulle staffe per proteggersi dalla pioggia e dal freddo. Aveva assestato un altro colpo ai fianchi Alexander e lui aveva risposto immediatamente, accelerando ancora un po’, nonostante fosse esausto, ma ormai era lì.
Non le aveva staccato gli occhi di dosso, come se avesse paura che potesse svanire da un momento all’altro, esattamente com’era apparsa. Poi, a un tratto, si era accorta di lui, anche se era troppo lontana per distinguere il rumore degli zoccoli nel fango in mezzo allo scrosciare della pioggia. Aveva sollevato il mento, spalancando gli occhi pieni di sorpresa.
In un attimo era corso al suo fiancato e Oscar si era lasciata accogliere nel tiepido rifugio del mantello, continuando a fissarlo, mentre facevano rallentare l’andatura. Sembrava così delicata e incredula, o forse erano solo i suoi occhi ad apparire ancora più grandi e la pelle più candida e trasparente nella cornice dei capelli resi scuri e pesanti dall’acqua.
Le era rotolata sulla guancia una goccia, una delle tante che imperlavano le ciglia folte. Aveva voluto credere fosse solo pioggia. Poi non aveva avuto più alcuna importanza, perché gli aveva regalato un sorriso malinconico e arreso, gli si era fatta ancora un po’ più contro e gli aveva permesso di riportarla a casa.
 
Recupera il cognac dal tavolino e si allunga per rabboccarle il bicchiere, attento a non sfiorarla. Il liquore defluisce e ondeggia morbido nel cristallo con uno sciacquio sordo, che si mescola al crepitio delle fiamme, al fruscio dei loro respiri, al picchiettare ormai sommesso della pioggia in lontananza.
Si è già servito anche lui e sta riponendo la bottiglia quando finalmente la sente.
“Grazie.”
Poco più di un sussurro ma sufficiente a spazzare via la tensione e a riportarli a quella calma tiepida e soffusa, accogliente e familiare. La stessa di sempre quando sono solo loro due, da sempre, da quando erano solo due bambini, a dispetto degli anni e degli eventi.
Sospira e sorride, lasciandosi di nuovo andare contro lo schienale.
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Come sta il Conte di Fersen?”
“Ma… come…?”
Alla fine c’è riuscito. Si è girata di scatto riportando su di lui i suoi grandi occhi, sgranati di sorpresa e di qualcosa che assomiglia a un certo disappunto. Non crede si renda conto della sua mancanza di attitudine a mantenere un segreto, almeno con lui. Almeno in quello avrebbe molte cose da insegnarle. Ridacchia, e distoglie lo sguardo, seguendo per un attimo le sinuose volute del liquore nel suo bicchiere.
“Non era poi così difficile da immaginare…” beve un sorso, quasi potesse ammorbidire le parole “… l’urgenza con cui sei stata convocata in udienza privata… il modo in cui ti sei allontanata senza dirmi una parola… cos’altro avrebbe potuto essere?”
Risolleva il mento solo per vedere i suoi occhi sfuggire di nuovo. Scintillano del riflesso delle fiamme, dando l’illusione che il ghiaccio possa ardere come fuoco.
“Era necessaria la massima segretezza.” un sorso anche per lei “Credo tu possa comprendere.”
“Comprendere… certo capisco, anche se dubito, che una cosa simile possa destare particolare scalpore in mezzo alle tante voci, che già circolano e che sono sempre circolate a corte e non solo.”
“Non ti rendi conto…”
“Di cosa? Del fatto che questa sarebbe in qualche modo ‘vera’? Sai meglio di me che non è certo questo ad alimentare la diffusione di certi pettegolezzi.”
Sfugge di nuovo Oscar, sospira e tace, perché lo sa anche lei, anche se preferirebbe ignorarlo.
Improbabile che il nome di un altro amante possa destare più di un fugace interesse in mezzo alla moltitudine di quelli, che negli anni sono stati attribuiti a Maria Antonietta. Già troppi illustri signori hanno, a detta di tutti, goduto di tale privilegio. Decisamente troppi, per non giungere a noia anche del cortigiano più pettegolo, sono gli aneddoti di prima mano confidati in segreto da testimoni d’indiscutibile credito, divulgati di bocca in bocca o addirittura pubblicati sugli innumerevoli libelli, che regolarmente sfuggono alla tanto inflessibile quanto inefficace censura[xvi].
Ormai non c’è in Francia un muro, dalle magioni della grande aristocrazia alle più putride stamberghe, che non abbia sentito almeno una volta delle prodezze del barone Desenval, dei sospiri per il duca di Guines e il duca di Cologny, delle languide occhiate per il conte Esterhazy. Quando ai quattro fu poi affidato il singolare incarico di assistere la regina malata di risipola[xvii], si sprecarono le oscenità e in tutta la corte fu solo uno speculare maligno su quali quattro dame avrebbe scelto il re per assisterlo, qualora si fosse trovato anche lui costretto a giacere tanto a lungo. Poco era importato, che nessuna di queste storie avesse alcun fondamento.
Poi c’erano già stati anche pettegolezzi più ‘plausibili’, anche se solo per l’ingenua frivolezza di una ragazzina troppo giovane e forse impreparata a rivestire il ruolo di regina di Francia. Il bel Dillon e quella giovane testa calda del Duca di Lazun avevano preoccupato non poco il conte de Mercy, che aveva provveduto opportunamente a invitarli ad allontanarsi da Versailles, mentre il conte Adhemar, il cui talento nel suonare l’arpa e nella recitazione non avevano potuto lasciare indifferente il temperamento artistico della sovrana, era stato spedito come ambasciatore prima a Bruxelles poi a Londra.
Questi e tanti altri si erano avvicendati, mentre lo sventato e frivolo conte di Artois[xviii], da sempre inseparabile angelo custode di Maria Antonietta e complice fraterno nella ricerca di nuovi divertimenti, è rimasto, nelle chiacchiere e nell’immaginario dei francesi di ogni estrazione, il suo eterno innamorato e il reggente del fratello maggiore tra le lenzuola.
Altre voci, per quanto anche circostanziate, che portassero alla ribalta il nome del conte di Fersen non aggiungerebbero molto al mare di maldicenze, che già è stato riversato sulla reputazione della regina. Al contrario, probabilmente il conte verrebbe considerato fin troppo prevedibile, se non addirittura noioso. Attraente, colto e amabile, dotato di spirito e di un ottimo lignaggio, rispettato membro della corte svedese e vicino allo stesso Re Gustavo, è un uomo alla moda[xix], l’oggetto più ovvio dell’ammirazione di tutte le più nobili dame. Non può certo alimentare pettegolezzi più accattivanti, dopo tanti blasonati cortigiani, dediti al gioco e pieni di debiti, sfacciati e vanagloriosi, sprovvedutamente accolti nella ristretta cerchia di Maria Antonietta solo per la loro fatua capacità di saperla divertire.
Per quanto incompatibile con il suo senso della giustizia e dell’onore, persino Oscar si è quasi arresa. Dopo tutta la rabbia e le frustrazioni dei primi anni, anche lei ora si sforza d’ignorare quello che si è resa conto di non poter combattere, soprattutto da quando, dopo la principessa di Lamballe e la contessa di Polignac, anche lei si è ritrovata inclusa nel millantato circolo saffico della sua Regina[xx].
“È solo che… questa volta è diverso.”
Inspira profondamente, come per dare più peso alle parole, che però non sembrano riuscire a varcare la soglia delle labbra. Scruta ancora per un attimo il suo profilo pensieroso, poi si gira anche lui ad assistere al contorcersi delle stesse fiamme.
Non è sicuro di cosa voglia dire e, in questo caso, non è neanche certo di volerlo sapere. Affoga in un’abbondante sorsata un sorriso amaro.
Sicuramente Fersen è diverso o almeno così gli è sembrato la domenica precedente, presentandosi in visita a Palazzo.
 
‘Una visita di cortesia dovuta ad amici di lunga data’, così l’aveva definita il conte con fare scherzoso da uomo di mondo, mentre Richard si allontanava, dopo averlo introdotto nel salotto accanto all’ingresso principale.
“Vi prego di perdonarmi, Madamigella. E’ davvero troppo tempo che non vengo a porgervi i miei omaggi[xxi]. Sono imperdonabile.”
“Non dovete neanche pensarlo, Hans. In fondo ci incontriamo quasi ogni giorno a Versailles.”
“… ma certo, tra amici, non è la medesima cosa!”
Perfetto come sempre, il conte si era premurato di porgere i suoi saluti al Generale, d’informarsi sulla salute della Contessa de Jarjayes e di chiedere anche della piccola Rosalie, certo che dovesse essersi fatta ancor più graziosa e bene educata in quegli ultimi mesi, in cui non aveva avuto il bene d’incontrarla. Divertente, disinvolto e amabile, senza mai apparire affettato o lezioso, si era unito a loro in quel pomeriggio finalmente libero da impegni, come era accaduto tante altre volte da quando era tornato in Francia, sebbene non di recente.
Avevano chiacchierato a lungo, di tutto e di niente, godendosi il piccolo rinfresco di bevande calde e liquori, prontamente allestito per l’occasione. Poi, si erano spostati in giardino, nel grande spiazzo lastricato vicino alla fontana sul retro, perché Fersen aveva espresso il desiderio di confrontarsi nella spada con Oscar ed era lì che loro due erano soliti esercitarsi. Era stato un bello scambio, per tanti versi equilibrato, ma alla fine Oscar non aveva potuto che primeggiare e il conte manifestare galantemente il suo compiacimento per la fortunata occasione di imparare qualcosa di nuovo.
Una visita come tutte le altre, identica nel copione e nel tempo trascorso piacevolmente, eppure qualcosa gli era sembrato diverso dall’istante stesso in cui lo aveva visto varcare la soglia del salotto e cedere guanti e mantello a Richard.
Non aveva capito subito cosa fosse, forse qualcosa nella sua espressione e nei gesti, che, anche nell’eccitazione del duello, lo faceva apparire malinconico e stanco, come quel cielo velato e screziato di nubi, che, in un tardo pomeriggio, non si era ancora scrollato completamente di dosso i rigori invernali.
“André, la prossima volta vorrei avere l’occasione di battermi con voi.”
Lo aveva sorpreso con quella richiesta, attirando inaspettatamente la sua attenzione dal gradino su cui era rimasto in disparte ad ammirare l’inevitabile trionfo di Oscar.
“Mi hanno detto che siete molto abile con la spada…”
Si era chiesto chi mai avesse potuto informarlo di una cosa simile.
“… anche se certo il vostro stile lascia un po’ a desiderare.”
Aveva chiosato con una risata apparentemente un po’ scomposta, una spontaneità maturata per conferire leggerezza a una battuta, che sarebbe suonata scortese sulle labbra di qualunque gentiluomo che non fosse Fersen.
Eppure, per quanto sempre impeccabile, il conte Hans Axel di Fersen non sembrava lo stesso uomo, che aveva visto solo due giorni prima animare con leggerezza il seguito della regina nei giardini di Versailles.
Non sembrava nemmeno lo stesso di tutti i giorni precedenti, da quando era tornato in Francia e aveva preso a frequentare la reggia con un’assiduità e una devozione, ormai difficili riscontrare anche nei rappresentanti della grande nobiltà francese, storicamente più legati alla famiglia reale. A differenza della maggioranza di questi fedeli sudditi era entrato nella ristrettissima cerchia della nuova società[xxii] della sovrana e, diversamente dalla maggior parte degli altri selezionati accoliti, non sembrava correre il rischio di esserne estromesso con la stessa volubile imprevedibilità con cui si veniva ammessi. A differenza dei tanti che lo avevano preceduto, Fersen non fondava certo la sua devozione sulla volatilità di un capriccio, eppure questo non sembrava comunque renderlo felice.
Per la prima volta il conte aveva declinato garbatamente l’ormai usuale invito di Oscar a trattenersi per cena. Si era congedato, ma era come se non se ne fosse andato del tutto. Aveva  lasciato dietro di sé un vago senso d’inquietudine, che si era insinuato e continuava ad aleggiare persistente tra di loro anche più tardi nell’orangerie, dove attendevano come d’abitudine che venisse annunciata la cena. Oscar gli dava le spalle, osservando al di là della vetrata l’avanzare del crepuscolo, senza dire una parola.
“Oggi ho notato uno strano sguardo negli occhi di Fersen…” aveva pronunciato quel nome come per esorcizzare il silenzio “… sembra che il suo grande amore gli dia più sofferenza che gioia.”
Aveva azzardato per riscuoterla e lei finalmente era tornata a guardarlo, ma non aveva risposto.
“Prendi la tua spada André, voglio battermi ancora.”
Non ne era rimasto sorpreso.
“André, farò sul serio questa volta.”
Glielo aveva gridato fendendo l’aria con la spada, mentre la raggiungeva sul lastrico macchiato di ombre e tinto di rosso dal tramonto.
“Come vuoi Oscar.”
Come sempre.
Oscar voleva dissipare i pensieri che l’assillavano, ignorare quello che non era in grado si affrontare, accettare o combattere. Lui non poteva che obbedire, aiutarla a scacciare quella mesta insoddisfazione, che si era insinuata tra di loro. Anche lui ne aveva bisogno, voleva scacciarlo con tutte le forze, tenere lontana la frustrazione di quell’uomo, che si era reso conto di non poter essere felice accontentandosi di rimanere silenziosamente accanto alla donna amata, senza poterla mai dire veramente sua[xxiii], che non riusciva a capacitarsi che anche l’essere riamato potesse rivelarsi una tortura.
Per lui era diverso, doveva essere diverso.
 
“Penso che tu ti stia preoccupando troppo, come al solito.”
Vorrebbe solo che smettesse di pensarci.
“Lo credi davvero?”
“Beh, non sarebbe certo la prima volta.”
Si sforza di ricambiare la sua occhiata sbieca con un sorriso rassicurante e un po’ beffardo.
“Vorrei tanto poterci credere, ma…”
“La gente sparla semplicemente perché Fersen è uno dei pochi eletti della cerchia della Regina, sparge malignità solo per invidia.”
Nonostante la confortante sicurezza che ha cercato di ostentare, la smorfia che gli restituisce è intrisa di un certo scetticismo.
“In fondo, non è diverso per te e la Polignac…”
Netta disapprovazione.
“… se dovessimo attenerci a quello che si dice, non c’è poi molta differenza tra di voi…”
Palese indignazione.
“… entrambe dissolutamente coinvolte in una torbida relazione con la nostra licenziosa sovrana.”
Il tono è platealmente teatrale, ma non sembra bastare a mitigare l’effetto di un simile azzardo.
“Andrè!!! Io… io non… tu non puoi… ”
Oltraggiato disgusto è quello che trasuda ora dalla sua espressione, e decisamente ira quella che lo sta dardeggiando dai suoi occhi. Non è certo però se l’improvviso rossore, che le ha incendiato il viso fino alle orecchie, sia figlio della stessa furia o piuttosto del pudico imbarazzo, che, per come la conosce, al momento è l’unica cosa a trattenerla dal riempirlo di improperi e batterlo come un tappeto.
 “Perdonami, Oscar, forse ho esagerato, ma per quanto tu lo voglia ignorare, sai benissimo che questo è il tipo di voci che circolano, e converrai con me, che hanno davvero poco a che fare con la verità.”
Almeno è riuscito nell’intento di distoglierla dai quei pensieri e, in fondo, sa anche lei che, a onor di cronaca, avrebbe potuto dire ben di peggio.
Sbuffa contrariata, ma in qualche modo rassegnata.
“È disgustoso…”
“Ne convengo.”
“… e tu sei il solito pettegolo.”
Lo fa ridere.
“Decisamente dissento, ma ammetto che è così che posso apparire.”
“Ah, buona questa!”
Sa che non gli concederà la soddisfazione di ammettere che ha ragione, per cui si limita a godersi un altro sorso del suo liquoroso nettare e il modo un po’ infantile, che ha, di mordicchiarsi il labbro quando è nervosa.
“Se ci pensi bene, è un paradosso.”
“Cosa intendi?”
“Fersen è invidiato per il semplice fatto di essere uno dei pochissimi nella corte della regina, e tutte queste voci vengono messe in giro da chi se ne è sentito ingiustamente escluso.”
“Dove sarebbe dunque il paradosso?”
La fissa per un attimo negli occhi, chiedendosi se veramente voglia sentirglielo dire, sembra quasi lo stia sfidando.
“… che se Maria Antonietta non avesse, di fatto, abbandonato la vita di corte, ora sarebbe sotto gli occhi di tutti quello che davvero prova per il bel conte svedese[xxiv] e lo scandalo sarebbe veramente inevitabile.”
Eccola di nuovo, la piccola mano nervosa che si serra intorno al cristallo.
“Scandalose menzogne, che nascondono una verità scandalosa… è questo che intendi?”
Si limita ad annuire.
“Forse hai ragione…” già si sorprende di una simile concessione “… Maria Antonietta non è capace di nascondere quello che prova… né di ignorarlo.”
Gli verrebbe voglia di chiederle, se veramente creda che possa esistere qualcuno capace d’ignorare i propri sentimenti, ma ancora una volta non è sicuro di voler sentire la risposta. Preferisce limitarsi a osservarla, illudendosi d’indovinare quello che va cercando tra le fiamme.
“Ha pianto sai?”
E’ appena un sussurro, tanto da non essere certo che abbia veramente detto qualcosa.
“Chi?”
“Maria Antonietta...” alza un po’ la voce, ma ancora non lo guarda “… quando mi sono presentata nelle sue stanze.” inspira profondamente prima di continuare “Si è nascosta il viso tra le mani ed è scoppiata in lacrime… come una donna qualunque[xxv].”
È come se i troppi pensieri trovassero finalmente un varco per gocciolare nelle parole e lei ha solo bisogno che l’ascolti. Si limita a sostenerla con lo sguardo mentre si sistema meglio contro lo schienale, porta il bicchiere alle labbra solo per riabbassarlo subito.
“Aveva congedato anche Madame Campan[xxvi], eravamo sole… fortunatamente…” come se all’improvviso ci avesse ripensato, lo risolleva e prende un piccolo sorso “… mi sono dovuta avvicinare e stringerle le mani… confortarla… aspettare che si calmasse… rassicurarla, ricordandole che non potrei mai rifiutarle nulla...”
Non sembra neanche lo stia raccontando a lui, poi finalmente si gira per ritrovare il suo sguardo.
“… e stato come se…”
“Cosa, Oscar?” un piccolo incoraggiamento, perché trovi il coraggio di dire quello che preferirebbe ignorare.
“… avesse bisogno che le ricordassi di essere la Regina di Francia.”
“Non credi sia questo il problema?”
Sgrana gli occhi e lo fissa, come se avesse detto qualcosa d’incomprensibile.
“Ma lei è la Regina, cosa…”
Non riesce neanche a finire la frase.
“Ma non credi, che preferirebbe non essere…”
“Ciò che dici, non ha alcun senso!” addirittura inconcepibile “Non si può cambiare ciò per cui si è nati, questo è un fatto. Si tratta solo di dimostrarsi all’altezza.”
Inutile insistere, sembra di sentire parlare il Generale, come sempre quando non vuole affrontare un argomento scomodo, probabilmente neanche con se stessa.
“Come credi, Oscar. In tal caso, anche Maria Antonietta sembra trarre più sofferenze che gioia dal suo amore per Fersen.”
“Non può dare gioia ciò su cui non si ha alcun controllo…” un’altra delle massime del Generale, declamata con la medesima insindacabile sicurezza “… e comunque… soffre di più chi ama senza essere riamato.” la voce scema, fino quasi a scomparire nel crepitio sommesso del fuoco.
Non dice altro, si limita a tornare a cercare il suo sguardo e lui ha l’impressione, che quell’azzurro si sia fatto più profondo e liquido, tanto che quasi ci si sente affogare.
“Credi…” la voce gli esce ruvida, un altro sorso per addolcire la gola “… credi dunque che non lo ami?”
La vede aggrottare la fronte.
“Chi?”
“Sua Maestà il Re.” sembra ancora non capire, esattamente come non vorrebbe “Credi che Maria Antonietta non ami il Re?” un azzardo “E’ questo che vuoi dire?”.
“Ma cosa… no… ma certo… certo che lo ama, è suo marito.”
Si rifugia nelle parole consuete, ma subito prosegue quasi tra sé e sè.
“Certo che lo ama…” come se davvero ci stesse pensando solo ora “…lo ama per il modo in cui lui la ama, esattamente per ciò che è… con Fersen… è diverso... ”
Fersen è sempre stato diverso.
“Diverso come, Oscar?”
“…forse… per tutto quello che vorrebbe essere.”
Ha di nuovo quello sguardo corrucciato, quello con cui sembra perdersi lontano in cerca di qualcosa che le sfugge.
“André… credi davvero che sia possibile?”
“Cosa?”
“Credi sia veramente possibile soffocare l’amore?... come hai detto l’altro giorno, riguardo a Fersen.”
Torna a cercare l’appiglio dei suoi occhi, ma ora è lui a sfuggire, perché non ce la fa a sostenere quello sguardo.
“Non lo so, Oscar… cosa vuoi che ti risponda? Credo che a volte sia necessario farlo… o almeno provare… con tutte le nostre forze.”
Serve un altro lungo silenzio prima che si decida. La ritrova con la fronte aggrottata e quello sguardo lontano.
“Si è fatto tardi.”
“C… cosa!?”
“Dicevo che si è fatto tardi. Forse è il caso di andare a dormire.”
“Sì, certo hai ragione.”
La osserva bere l’ultima goccia ambrata sul fondo del suo bicchiere, che appoggia sul tavolino mentre si alza.
“Lascia...” lo anticipa “… ci penserà domani Genevieve a portare via tutto.”
“Come preferisci.”
Prima di abbandonare il salon si gira un’ultima volta.
“Buonanotte, Oscar, e a domani.”
È appoggiata con entrambe le mani alla mensola del camino, sempre troppo vicina al fuoco. Gli regala quel sorriso appena accennato, lo stesso di ogni sera da quando erano piccoli. Ricambia di tutto cuore senza dire nulla, tanto lo sa già che non andrà a letto subito e rimarrà ancora po’ lì da sola con i suoi pensieri.
Chiude la porta con cautela, attento a non fare rumore, più per abitudine che per l’effettivo rischio di disturbare qualcuno. A quell’ora sono già tutti a letto a Palazzo, dove il costume, per quanto poco alla moda, è da sempre di alzarsi presto, ma le altre stanze di quell’ala sono tutte vuote, benché sempre perfette, come se una delle sorelle di Oscar potesse tornare a occuparle da un momento all’altro, come se non se fosse mai veramente andata.
Anche la servitù si è ritirata e lungo la galleria, giù per la maestosa scala e nell’atrio, sul marmo lucido e gli specchi non rimangono che i pallidi riflessi proiettati da tremule fiammelle, in precario equilibrio sugli ultimi mozziconi di candela. Sono quasi tutte spente, ma il temporale è passato e dalle grandi vetrate filtra nuovamente la luce argentata della luna.
La casa apparentemente deserta, il languore della notte, quella luminosità bluastra e quasi irreale, che sottrae ogni superficie all’oscurità, l’eco del silenzio, inframmezzato solo dai rintocchi dei suoi passi, regolari e sicuri come il battito del suo cuore, gli danno l’impressione di muoversi in un luogo alieno, fuori dallo spazio e dal tempo, i cui esistono sono lui e Oscar, che immagina esattamente come l’ha appena lasciata, dietro quella porta con lo sguardo perso e troppo vicina al fuoco.
Il cigolio stridulo del discreto portoncino, che ammette agli ambienti di servizio, lo riporta fastidiosamente alla realtà. Deve ricordare a Clodine di oliare i cardini, prima che sua nonna se ne accorga e chiami a rapporto tutte le gerarchie della servitù di palazzo per capire cosa non abbia funzionato o chi abbia mancato per non riuscire prevenire una simile imperfezione.
Gli serve un attimo per abituarsi al buio, la fila di piccoli lucernai in alto sulla destra non riesce a catturare abbastanza luce e lui, come al solito, ha dimenticato di portarsi una candela.
Posa il palmo sul muro a sinistra e avanza a tentoni, seguendo i rintocchi dei suoi passi sulla pietra e l’alone di luce che balugina all’altro capo del lungo corridoio. Un po’ lo sorprende che a quell’ora nel camino della cucina possano ancora ardere fiamme e non solo braci, ma si limita ad avanzare cercando lo stipite del varco, che ammette alla scala. A un tratto, però, un rumore secco, forse una sedia o uno sgabello caduto, lo fa sobbalzare.
Si blocca, smette anche di respirare e rimane in ascolto. Per un po’ è solo il sibilo del silenzio, poi il lieve fruscio del suo respiro che torna, sta quasi per rinunciare e muovere un passo quando la sente.
”Fate attenzione, vi prego…” una voce strozzata che non riconosce “…Finiranno per scoprirci!”
Segue da un verso strano, forse un lamento o una risata strascicata.
“Per carità…”
“Chi è… chi va là!” declama stentoreo, precipitandosi verso le cucine, dove, da quello che sente, gli intrusi hanno rinunciato a qualunque velleità di non attirare l’attenzione. Certo però quel baccano disordinato non lo prepara allo spettacolo, che gli si para davanti appena svoltato l’angolo.
“Perdonate, Mons… Andrè sono io, sono Philemnon!”
Si blocca alla vista di quel ragazzone con gli occhi sbarrati e l’aria spaurita, che tiene una mano spalancata e protesa in segno di resa, mentre con l’altro braccio si sforza di sostenere qualcuno. Un altro uomo mezzo accasciato sull’estremo opposto del tavolaccio grande[xxvii] e palesemente malfermo sulle gambe.
“Philemon, ma cosa…”
“E’ Monsieur Jena-Luc… l’ho trovato così… nelle scuderie.” riabbassa il braccio per cingerlo meglio e quello ribalta la testa all’indietro rivelando, pur nella luce fioca, il viso familiare del vecchio capo-stalliere di Palazzo.
“Ma… cosa è successo?!”
Non fa in tempo a rispondere, perché quel verso disarticolato e indistinto riemerge dalla sua gola.
“Baaash.. shlasciami… shlasciami andjare…” biascica, tentando di divincolarsi dalla sua stretta.
“Vi prego… ” Philemon di affanna per trattenerlo “… vi prego non fate così…”
Accorre in suo aiuto, ma non fa in tempo.
“Shalashiami, ho detcho… ”
L’ha già spinto indietro con violenza, si protende per afferrarlo, ma barcolla pericolosamente. È troppo tardi, riesce appena ad acciuffare un lembo della giacca, mentre rovina a terra trascinando con sé nello schianto un’altra sedia. Si china con urgenza, ansioso di accertarsi che non si sia fatto nulla di grave.
“Jean-Luc… Jean-Luc… rispondetemi…”
Accartocciato e inerme sul pavimento nudo, non reagisce. Lo scrolla con cautela.
“Jean-Luc … vi prego… ”
Di nuovo quella specie di lamento, che non fa che accrescere la sua angoscia, ma almeno ha girato la testa, solleva per un attimo le palpebre. Lo sguardo è liquido, vuoto da principio.
“Jean-Luc, sono io, André… mi riconoscete?”
Una scintilla negli occhi, che fa affiorare un lieve sorriso, ma subito la testa ricade di lato con un brontolio indistinto, che in breve si trasforma in un rassicurante e sonoro russare.
“Si è addormentato…ma… è ubriaco fradicio!”
Solleva gli occhi incredulo, incrociando l’espressione sconfortata di Philemon, stretto nelle spalle possenti. Torce con quelle gigantesche mani un angolo della giacca, come potrebbe fare un bambino, e annuisce.
“Ho aspettato… ho aspettato, sperando che tutti fossero già a letto… ma faceva troppo freddo fuori, dovevo… dovevo portarlo in camera… ”
Philemon parla a scatti, quasi balbetta facendo oscillare lo sguardo da lui all’uomo accasciato sul pavimento. Andrè si sofferma a osservarlo a sua volta, cercando in quel vecchio inerme, con i vestiti in disordine, i pochi capelli arruffati e la barba sfatta sul viso scavato, il Jean-Luc che ha sempre conosciuto, quello che gli era sembrato un gigante, la prima volta che l’aveva visto, che si era rivelato gentile e paziente nell’insegnargli a cavalcare e a prendersi cura dei cavalli, che parlava poco, ma con pacata saggezza, che non perdeva mai la pazienza, ma nessuno avrebbe mai osato sfidare, il Jean-Luc che gli era sempre sembrato solido e imperturbabile come una montagna.
Per entrambi è stato un maestro e un mentore, per lui, in certi momenti, quasi un padre. Non avrebbe mai creduto possibile vederlo ridotto in quello stato, comprende, ma è tremendamente penoso.
“Non… non lo direte a nessuno vero?”
La faccia gli si contrae in una smorfia, offeso da quell’insinuazione. Si solleva di scatto, pronto a replicare, ma subito si blocca, trovando lo stesso impotente sconforto sulla faccia di Philemon. Sospira.
“No… naturalmente…” gli assesta una bonaria pacca sulla spalla, con cui riesce a strappargli un timido sorriso “… adesso però vediamo di portarlo via di qui, prima che arrivi qualcun altro.”
Faticano non poco per risollevarlo da terra. La stazza di Jean-Luc è sempre stata imponente, e così, a peso morto, gli viene da chiedersi come Philemon sia riuscito a trascinarlo fin lì tutto da solo.
Si caricano sulle spalle un braccio ognuno e muovono barcollanti i primi faticosi passi, ma a metà del tavolo il loro fardello sembra rianimarsi.
“Lasschiatemij… vho detcho…”
Torna a divincolarsi con violenza.
“No, Jean-Luc… per favore non fare così… ”
“Noooo… vjia… via..”
Con un ultimo strattone libera il braccio sinistro dalla sua stretta, compromettendo il loro già precario equilibrio. Philemon non molla la presa e Jean-Luc gli si avvita addosso, parandoglisi davanti e costringendolo a cercare il sostegno del tavolo, aggiungendo al trambusto un fragore di cocci infranti.
“Si può sapere cosa sta succedendo qui?”
Li fulmina una vocetta imperiosa, proveniente dalla sagoma, che si staglia impettita tra il varco d’ingresso e il camino. Sulla veste da camera si stringe uno scialle di lana troppo grande, che riesce a farla apparire ancor più minuta, ma l’espressione adirata, incorniciata nella cuffietta da notte, riesce comunque a risultare sorprendentemente minacciosa sotto il baluginare irrequieto delle fiamme.
“Mmmadmm…mmmadmmm… non.. noi non…”
Philemon si è improvvisamente fatto tutto rosso e la fissa con gli occhi sgranati senza riuscire ad articolare una parola.
“Oh, mio Dio… ma è Monsieur Jean-Luc!”
“Sì, non sta bene… stavamo cercando di riportarlo in camera. Puoi darci una mano, Nanà?”
Non c’è bisogno che le spieghi altro. Gli è corsa incontro e dall’espressione addolorata con cui lo fissa, ha già capito.
“Certo… non c’è neanche bisogno di chiederlo…”
La interrompe un altro di quei versi sofferenti.
“Forza Jean-Luc…” si sistema di nuovo il braccio sulle spalle “… un ultimo sforzo e potrai riposare.”
Un altro ancora, che però comincia a farsi intellegibile.
“chesserve… ormai è morta… a che serve…” un ultimo sussurro e un singhiozzo, prima di perdere di nuovo conoscenza.
A un tratto si sente solo il debole crepitio delle fiamme, mescolato al respiro ruvido e pesante di Jean-Luc. Quelle poche parole strascicate sono bastate a paralizzarli.
“Beh… muoviamoci da qui, prima che tua nonna se ne accorga.”
Nanà è la prima a muoversi. Recupera la bugia dalla mensola sopra il camino e si avvia, facendo loro strada lungo il corridoio e poi su per le scale. Nessuno dice una parola, per evitare di svegliare qualcuno, ma soprattutto perché, in fondo, non saprebbero che dire. Forse è solo strano che una cosa del genere non sia successa prima.
 
Da quello che poteva ricordare Agnes aveva sempre sofferto di quella tosse fastidiosa. Quando lui e Oscar erano piccoli, si era anche inventata per loro un’assurda storia su una fatina che abitava nella sua gola e le faceva il solletico battendo le ali[xxviii]. A suo dire anche la sua vocina stranamente sottile era dovuta alla magia della stessa fatina.
“Non mi credete forse, Madamigella?” diceva sempre di fronte al faccino diffidente e imbronciato di Oscar “Eppure dovreste!” poi faceva trillare una di quelle sue risate argentine, che per loro due bambini solo un incantesimo poteva liberare da un simile donnone. Quella fatina era stata per anni una presenza costante delle loro merende di latte e biscotti, trasformandosi un po’ alla volta da una bella favola a un malinconico ricordo della loro infanzia.
Agnes era stata veramente male per la prima volta l’ultimo inverno, che Annette e Jerome avevano passato a Palazzo[xxix]. La stagione particolarmente inclemente aveva trasformato la tosse in una brutta febbre polmonare, che l’aveva costretta a letto per settimane. Era stato allora che Jean-Luc aveva accettato, dietro suggerimento del medico, la proposta del Generale di abbandonare il villino vicino alle scuderie, per trasferirsi in una delle camere della servitù a Palazzo. Doveva essere una soluzione temporanea, per consentirle di ristabilirsi, invece la casetta assegnata al capo-stalliere e sua moglie era rimasta disabitata.
Agnes non si era mai rimessa del tutto, la febbre era passata, aveva ripreso le sue mansioni, ma sempre più spesso le mancava il respiro e a volte era troppo debole per fare qualcosa di più, che impartire direttive a un’instancabile Nanà, seduta su una vecchia poltrona di cuoio sistemata appositamente per lei vicino alle stufe.
Le febbri si erano ripresentate sempre più di frequente, Agnes si era fatta via via più debole e nell’ultimo anno era dimagrita vistosamente.
Nonostante tutto, non aveva mai perso quel carattere amabile e il suo sorriso, mentre Jean-Luc appariva saldo e imperturbabile come una roccia, come era sempre stato.
“Com’è stata oggi il mio uccellino?” Era la frase che le rivolgeva ogni sera, rientrando prima di cena, la stessa che tutti avevano sentito per anni. Da bambino lo aveva fatto sorridere, con il tempo era diventata un’abitudine, a volte aveva provocato qualche risatina o battuta inopportuna tra i nuovi servitori di Palazzo. Negli ultimi tempi aveva assunto un che di penoso, perché Agnes aveva cominciato a sembrare veramente un uccellino tra le braccia di suo marito, quando la portava su e giù dalle scale.
“Non ti devi preoccupare, oggi sto meglio, passerà.” gli rispondeva ogni volta con quella vocina delicata, che le si addiceva ogni giorno di più.
Forse Jean-Luc se l’era sentito ripetere tante di quelle volte, che alla fine aveva finito col crederci, o forse semplicemente aveva deciso di farlo, perché era l’unico modo per andare avanti.
A novembre la febbre era tornata senza più andarsene e la tosse si era fatta nera. Agnes se n’era andata l’ultima domenica di Febbraio[xxx].
L’avevano sepolta nel piccolo cimitero sul retro della chiesetta di Palazzo. Al funerale c’erano tutti, anche Madame la Contessa e il Generale erano intervenuti per presentare le condoglianze a chi li aveva serviti fedelmente per tanti anni. Jean-Luc aveva ringraziato con un inchino impeccabile, senza versare mai una lacrima.
 
Nanà richiude la porta in fretta alle loro spalle e accende le candele, mentre lui e Philemon adagiano Jean-Luc sul materasso.
“Torno giù un attimo a riordinare e a preparare qualcosa per farlo stare meglio, voi intanto mettetelo a letto.”
André provvede a chiudere a chiave dietro di lei, mentre Philemon accende il fuoco. Le fiamme divampano in fretta nel piccolo focolare, illuminando un po’ meglio quella stanza dignitosa ma un po’ spoglia, non tanto diversa dalla sua.
“Togligli gli stivali, io intanto prendo la camicia.”
Il giovane stalliere esegue in silenzio, mentre lui si dirige senza incertezze verso il piccolo armadio. Sulla destra sono appesi i pochi altri abiti di Jean-Luc, una giacca con panciotto di buona fattura per la domenica, un mantello pesante e uno più leggero. L’unica differenza rispetto al suo armadio è che sul lato opposto si trovano ancora l’uniforme di cucina e un abito in mussola di Agnes, manca l’abito buono, quello con cui l’hanno sepolta.
Afferra la camicia dal gancio sul retro dell’anta e la richiude in fretta.
“… mmmmè sholo colpa mia…” ha ripreso a lamentarsi.
“Shhhh… Monsieur Jean-Luc non dite così… non è vero… ”
Lo regge per le spalle mentre Philemon gli sfila le brache.
“… solo colpa mia… via… dovevo portarla via di qui… e ora è troppo tardi…”
Le parole si fanno via via più intellegibili, anche se quello che dice sembra ancora solo il delirio di un ubriaco.
“Non dire così… Agnes è stata felice qui con te… ”
Lo tirano su per sfilargli la camicia e fargli indossare quella da notte e lui intanto continua.
“… no… è solo colpa mia…non era abbastanza… non ho fatto abbastanza…”
Lo sistemano sotto le coperte, sperando che si tranquillizzi. Andrè gli sta sistemando i cuscini, quando bussano delicatamente alla porta.
“Deve essere Nanà, apri tu?”
Philemon però non si muove e dopo un attimo i colpi sul legno tornano un po’ più decisi.
Solleva lo sguardo, trovandolo ancora immobile e seduto sul bordo del letto. È di nuovo tutto rosso in viso, come poco prima nelle cucine, e fissa con i grandi occhi azzurri sgranati prima lui, poi la porta, solo per tornare a lui.
“Aprite, sono io…” un sonoro sussurro da dietro l’anta chiusa.
Andrè si affretta ad andare ad aprire, rivolgendo a quel ragazzone un’occhiata incredula.
Nanà entra reggendo una tazza fumante e si dirige senza indugi verso il letto.
“Posso?”
“P… pprego!”
Philemon scatta in piedi cedendole il posto.
Jean-Luc riprende ad agitarsi, ma lei gli posa una mano morbida sulla fronte, che sembra subito tranquillizzarlo. Lo aiuta a sollevarsi un po’, accostandogli con cautela la tazza alle labbra.
“E’ verbena. Bevetene un sorso, vi aiuterà a stare un po’ meglio.”
Forse è l’effetto ristoratore di pochi sorsi dell’infuso caldo, o forse è per il tono lieve come una carezza di Nanà, ma il vecchio stalliere sembra tornare presente.
Riapre gli occhi e la fissa. Lei ricambia con un sorriso dolce.
“Va un po’ meglio?”
Sospira.
“Devi trovarti un brav’uomo… uno che ti porti via di qui.”
La ragazza scrolla lievemente il capo e allarga il sorriso.
“Voi dite? Ma io sto bene qui.”
“Bene non è abbastanza… bene è solo per un po’ poi è passato… non torna…”
“Ma cosa dite?”
“…non si può solo sperare di rimanere aggrappati… un giorno ci si sveglia ed è perso tutto, nell’illusione di non lasciare andare qualcosa… è tutta colpa mia… non ho avuto coraggio… e non ho fatto abbastanza…”
“Non dite così… voi siete un brav’uomo e Agnes vi amava tanto.” un’ombra fugace offusca il suo sorriso, ma è solo un istante “Io lo so… i brav’uomini sono merce rara.”
Jean-Luc però si è già riaddormentato.
“Qualcuno può restare un po’ con lui? Per assicurarsi che non si svegli?”
“I..io… resto io.”
Philemon si è fatto avanti dall’angolo in cui si era rintanato, lo sorprende una volta di più con quel fare stranamente deciso e forse un po’ anche Nanà.
“Beh… allora… vi auguro una buonanotte.”
“Buonanotte.”
La ragazza è la prima a lasciare la stanza.
“Sei sicuro di voler rimanere?”
Ma il giovane si sta già sistemando su una vecchia poltroncina, che lo contiene a malapena.
“Non vi preoccupate, Andrè. Per me non è un problema, potete andare. Vi auguro la buonanotte.”
“Philemon…”
“Si?”
“Pensi che non riuscirai mai a darmi del tu? Neanche dopo stanotte?”
Sorprendentemente non arrossisce e non tentenna, è perfino riuscito a strappargli un sorriso.
“Credo… che a ogni cosa serva il suo tempo.”
 
La stanchezza gli piomba addosso tutta in una volta appena si richiude alle spalle la porta della sua camera. Ci si appoggia con la schiena per un attimo come se gli servisse un sostegno e lascia lo sguardo vagare tutto intorno. È tanto che non si sofferma a farlo e per uno strano caso la mente torna alla prima volta, quando era solo un bambino smarrito e triste e tutto gli era apparso nuovo e ostile. Adesso invece è tutto così familiare da dargli l’impressione di non essere mai stato altrove, eppure da allora non è cambiato molto: qualche libro in più sul piccolo scrittoio, una mensola per sostenerne qualche altro, un nuovo calamaio, poco altro. È esausto e la mente divaga, lasciandosi trasportare da quelle considerazioni senza senso. Ovviamente è lui a non essere certo più un bambino.
Si spoglia in fretta e s’infila a letto, lo stesso che un tempo gli sembrava tanto grande, mentre ora lo contiene appena. Lancia un’occhiata al volumetto appoggiato sul comodino, ma è tardi e lui è così stanco. Spegne la candela e si lascia ricadere pesante sul cuscino, come faceva da bambino.
Per un attimo quell’angoscia torna ad aggredirlo, il pensiero di Lean-Luc, della sua disperazione per Agnes, per l’idea di non aver fatto abbastanza, si essersi aggrappato al passato, ma è stanco e il sonno lo trascina via in fretta. Meglio così. Ha bisogno di riposare, è stata una giornata lunga e faticosa, e domattina dovrà alzarsi presto. Ci sarà Oscar ad aspettarlo, come sempre da quando era solo un bambino.
 
continua... 


 Aggiornamento 5/11/2016: Work in progressssss... 
 
[i] Del liquore non della mano ;-)
[ii] Sulla struttura delle stanze di Oscar, e in particolare del salon mi sono già ampiamente dilunga all’inizio dell’anello 3, quindi qui andiamo solo per ‘impressioni’
[iii] Il tempo scorre e c’è stato un avvicendamento nella servitù (ammesso che qualcuno si ricordi che la cameriera personale di Oscar era Colette), ma ci torneremo più il là.
[iv] In realtà questo modello di divano, con dei bei graccioloni imbottiti inclinati a 45° su cui stravaccarsi, è più Luigi XV, ma certamente Oscar non è una fashionista. Al più se lo sarà fatto rifoderare con una stoffa alla moda, ma dubito abbia preferito un divanetto Luigi XVI, sicuramente più elegante e leggero nella linea, ma con quei braccioletti in legno appena foderati… scoooooomodi!!
[v] Vedi anello 1
[vi] Vedi anello 3
[vii] Per quanto decisamente meglio… ‘apparecchiato’, Andrè è sempre un po’ il grillo parlante di Oscar. Quello che ha sempre fatto in modo che lei evitasse di fare in età opportuna le tipiche stupidaggini formative… certo ha i suoi motivi, ma… non mi addentro oltre perché questo concetto verrà dipanato fino al nono anello… per cui!
[viii] Il 9 Marzo del 1779 il sole è tramontato a Parigi alle 17.55 ;-)
[ix] Lo denomino candido per ovvi motivi, ma in realtà un cavallo bianco è considerato grigio a meno che non sia albino, cmq … dettagli
[x] Essendo l’uomo settecentesco un animale sociale (ok, non Oscar e Andrè, ma è parte dei loro problemi) anche per una ragazza la formazione in tal senso era di centrale importanza. Una ragazza nobile, che seguisse una trafila di educazione ‘standard’ spesso veniva promessa in sposta subito prima di abbandonare il collegio (in cui entrava tra i 5 e i 6 anni, essendo stata prima di allora affidata prima a una balia e poi a una governante). Quando usciva dalla scuola iniziava la sua ‘educazione alla società’. Se era già sposata se ne occupava la suocera, in caso contrario la madre, o una ‘protettrice’ (che poteva essere un’amica di famiglia più nobile o meglio introdotta). Di fatto era una sorta di ‘tirocinio’, per due anni la ragazza seguiva la sua protettrice in diverse occasioni mondane (the, pranzi, cene, visite… se non sposata non avrebbe in realtà mai partecipato a un ballo e non sarebbe stata portata a corte, ma su quello devo svicolare altrimenti cadono pezzi essenziali della storia) con il solo compito di osservare e imparare (a comportarsi, a osservare, a capire, a parlare), rispondendo solo qualora interpellata (La donna del XVIII Secolo, F.lli Goncourt). E’ lecito supporre pertanto che Madame Marguerite (amabile ex dama di compagnia della Regina, moglie di un Generale e madre del Comandante delle guardie Reali, quindi socialmente papabilissima) faccia questo con Rosalie (di certo non la bionda!), che è stata presentata a tutti come protetta della famiglia. Fino a che non si sposerà se la porta dietro, come pupilla, a cene, the, visite varie, e poi al ritorno se la porta in camera per commentare il comportamento della serata e quello che è accaduto.
[xi] Da un punto di vista moderno questa osservazione può apparire esagerata, ma in realtà non è affatto. Andare a cavallo su strade coperte da lastre di pietra o in terra battuta sotto la pioggia non è per niente sicuro, il cavallo può scivolare o affondare nel fango, tanto più in una città come Parigi, il cui sistema fognario è stato realizzato nel ‘800, per cui si allagava (fatto ampiamente fruttato in un'altra ff “Era una notte buia e tempestosa…” XD). In presenza di un temporale poi, e di notte per giunta, il rischio che il cavallo s’imbizzarrisca e disarcioni il cavaliere non è affatto remoto.
[xii] Personale di lavanderia di Palazzo, fanno parte del mio repertorio di personaggi apocrifi, e hanno rischiato di far arrabbiare di brutto Oscar in “Un sorso d’acqua di Fontebranda” XD
[xiii] Che fine ha fatto Agnes?? (che se non ve lo ricordate, come è lecito, era la cuoca di Palazzo di cui era diventata aiuto Annette prima di trasferirsi ad Arras e poi è diventata Nanà)
[xiv] Anche io ho parecchio abusato l’uso del tu, sicuramente più familiare per noi, ma all’epoca ci si dava del voi anche tra marito e moglie, genitori e figlio, amici, amanti… gli altri membri della servitù avrebbero per forza chiamato la governante Madame, mentre la madre di Oscar sarebbe stata chiamata Contessa.
[xv] Attendente del Generale, subentrato a Jerome, trasferito come nuovo amministratore ad Arras con la moglie Annette, li abbiamo visti in Anello 4 (parte2) che era nata da 1 anni la prima figlia Camille.
[xvi] La propaganda, più o meno studiata a questo scopo, è stata un elemento essenziale, se non l’elemento essenziale che ha condotto alla rivoluzione. Il popolo non era sicuramente meno affamato o sofferente sotto Luigi XIV, con tutte le sue guerre, ma il Re Sole aveva perfettamente presente l’importanza della propaganda, come gli aveva ben insegnato Mazzarino. Una delle armi a doppio taglio che ha alimentato la disaffezione e poi l’odio viscerale nei confronti dei regnanti e in particolare della Regina è stata, paradossalmente, la censura, che ha contribuito alla proliferazione di informazioni false, ma soprattutto non attribuibili alla fonte, cosa che ovviamente non permetteva un contraddittorio. In questo calderone, si incontravano le voci messe in giro dai nobili esclusi dalla vita di corte dalla gestione ‘leggera’ di MA (dalle figlie del Re agli esponenti delle più importanti famiglie di Francia), i vari aspiranti al trono (in primis i fratelli, entrambi, di Luigi, più che il Duca di Orlean, che anche durante la prigionia hanno contribuito parecchio dall’estero, con la loro millantata estrema accorata difesa, a spingere Luigi XVI e congiunti sul patibolo), i borghesi e gli intellettuali che volevano riforme più o meno consistenti, un aspirante ministro delle finanze protestante, che nel dubbio sputtanava tutti quanti (perché il tema del ‘Ah, se avessero lasciato fare a me… invece quegli incompetenti…’ non è certo che ce lo siamo inventato noi)… questa pioggia associata a due sovrani non cattivi come persone, ma decisamente inadeguati al ruolo, una classe politica altrettanto inadeguata (per responsabilità anche dei suddetti), un’incidentale paio di cattivi raccolti e, ovviamente, il tempismo (perché in Europa le riforme erano nell’aria e il sostegno del regno di Francia all’indipendenza americana è stato un poco lungimirante suicidio economico e politico) hanno scatenato la tempesta perfetta. Libro interessante sul tema della censura e delle modalità di diffusione dell’informazione è “Poetry and the Police: Communication Networks in Eighteenth-century Paris” di Robert Dalton.
[xvii] Termine desueto per l’erisipola, che di fatto non è altro che un’infezione batterica (da streptococco o stafilococco) del derma. Di fatto un graffio che s’infetta, generando una macchia rossa e gonfia e febbre. Nelle condizioni igieniche del tempo e in assenza di antibiotici, ai tempi aveva una mortalità quasi del 100% in vecchi e bambini.
[xviii] Fratello minore di Luigi XVI e del duca di Provenza (poi Luigi XVIII), che salirà al trono, sepolti tutti gli altri, come Carlo X
[xix] Fare follie per un ‘uomo alla moda’ era considerato pressoché ovvio nella società francese del XVIII secolo. Ovviamente mantenimento di una ‘dignitosa discrezione’ per quanto riguarda i costumi sessuali era essenziale, per non turbare le regole della buona società, ma fare parte del ‘carnè amoroso’ di un uomo simile era quasi ambito quanto un abito della sarta più in voga (tipo la Bertin). Emblematico ‘uomo alla moda’ dell’epoca è il III duca di Richelieu (1696-1788), non particolarmente bello, ma ambitissimo, le donne e le nobildonne di Francia facevano, appunto, follie per lui, arrivando a sfidarsi a duello.
[xx] Ok, qui vi sembrerà che io stia partendo per la tangente rispetto alla storia originale, ma in realtà… non è così. Come ho detto lo scopo di questa storia è di rimanere fedele rispetto alla storia originale per quanto concerne i nostri due amati protagonisti, inserendoli in un contesto più storicamente ‘reale’ e cercando di approfondire i personaggi. Questa ‘modifica’ rientra in questo tipo di approccio. Vista l’audience cui si rivolgeva e per la necessaria semplificazione richiesta da manga e anime, è piuttosto ovvio, che la Ikeda prima e Dezaki poi abbiano delineato una MA investita solo dai pettegolezzi per il rapporto con Fersen e che la puntata 20 “un amore impossibile” Oscar pensi di ‘proteggerli’ ballando con lei tutta la sera al ballo. Rispetto alla realtà storica però, i pettegolezzi messi in giro su MA dai 15 anni in poi erano tali e talmente sudici, che nell’immaginario di quasi tutti lei era già una sorta di puttana ninfomane, che si era ammucchiata con tutti nei peggio modi (poco importa che questo fosse in contradizione con altri pettegolezzi che la definivano una frigida incapace di dare un erede… è il bello delle voci infondate XD) per cui il nome di Fersen girò anche ai tempi, ma ne fregò poco e niente a tutti (una sorta di al lupo, al lupo al contrario, suppongo). Dopo averle attribuito una tale schiera di uomini, alle malelingue non rimaneva che darle della lesbica, oltre alle fondate critiche per le spese folli, per danneggiare ulteriormente la sua immagine e cercare di colpire una sua favorita pericolosa. Nel ’79, subito prima della partenza di Fersen per l’America, da pettegolezzo MA si arrovogliava tra le lenzuola con la Polignac, per cui non sarebbe stata una grande idea ballare tutta la sera con la sua cara amica comandante della guardia reale! Per tutti questi motivi ho scelto di eliminare quelle scene, rispettando però lo sviluppo dei personaggi.
[xxi] Per noi oggi che uno ti piombi in casa senza essere stato invitato non è esattamente il massimo dell’educazione, mentre all’epoca in assenza di telefoni e vista l’importanza del rapporto sociale, la casa era sempre aperta agli ospiti, di norma anche per il pranzo e al cena gli ‘amici’ potevano presentarsi ed era ovvio essere pronti e contenti di accoglierli.
[xxii] La ‘nuova società’ istituita da MA è un problemino che può apparire solo formale, ma i realtà sarà sostanziale. Luigi XIV aveva istituito Versailles con lo scopo di ‘disinnescare’ il potere di delegittimazione del potere costituito dei nobili di Francia. Di fatto, se stavano tutti a corte e impegnavano tutte le loro risorse per muoversi in quel complesso meccanismo e per ottenere i favori del Re, non avrebbero avuto tempo e non gli sarebbe venuto in mente di mettersi a cospirare! (come avevano sempre fatto fino all’avvento del Re sole). Ovviamente questo giochino funziona, fintanto che il Re e la Regina fanno la loro parte, visto che, nonostante appaiano superficialmente solo come ornamento, sono l’ingranaggio fondamentale di tutto il meccanismo. MA scardina il tutto, non tiene più impegnati i nobili con il cerimoniale di Corte, si fa la sua cerchia ristretta di ‘amichetti’, spesso di discutibilissima reputazione, che sommerge di regalie, mentre prima nel bene e nel male era necessario essere stati di una qualche utilità al Re per ottenere una rendita o una pensione, allontanando così dalla corte la nobiltà. I nobili tornano semplicemente a fare quello che facevano prima di Luigi XIV, a ordire trame per delegittimare un Re che non li soddisfa, solo che è troppo tempo che non sono più signori delle loro terre e generali dei loro eserciti, la corte ha insegnato loro a chiacchierare e che a volte una parola ferisce più della spada, e questo fanno scatenano una guerra civile di voci diffamatorie.
[xxiii] Ok, qui si inserisce un concetto chiave e storicamente fondato, che non collima con la visione semplificata e modernizzata del manga e dell’anime, ma che invece si combina molto meglio con lo strano rapporto tra Andrè e Oscar. Al di là della profusione di leggende, romanzi rosa, fantasiose sceneggiature cinematografiche e fanta-biografie scandalistiche e rosate che la storia di MA e Fersen ha alimentato, Fersen e MA non andava a letto insieme. Lui era palesemente innamorato di lei, lei platealmente di lui, ma non facevano sesso. La trasformazione del loro rapporto in un rapporto anche fisico è ipotizzata solo dopo lo scoppio della rivoluzione, dopo il trasferimento a Parigi e realisticamente con il tacito consenso del Re. Tutta la mia comprensione perché la cosa possa apparire strana a un occhio moderno, ma per quanto ci si ostini a negarlo l’educazione che si riceve e la società in cui si vive condiziona sostanzialmente i nostri comportamenti (infatti a noi sembra inconcepibile nutrirci dei nostri morti e sposarci tra consanguinei, ma sono retaggi assolutamente culturali). Detto ciò, Fersen era sicuramente un gran vanesio e questo deve aver giocato un ruolo essenziale nella sua attrazione per MA, ma era altrettanto un aristocratico di formazione impeccabile, assolutamente alla moda, ma non ha mai dato adito a scandali, non avrebbe mai fatto una cosa come scoparsi una regina, senza il consenso del re (anche perché scoparsi la regina è un reato comparabile attentare alla vita del Re)… e infatti, passava le sue giornate con la sua amata e nel frattempo si scopava tutte, ma proprio tutte le altre, socialmente collocate nella fascia consentita al suo rango. Maria Antonietta era leggera e frivola, anche un po’ civetta se vogliamo, ma come una bambina, in fondo lo è rimasta per buona parte della sua vita, non era un genio, sua madre le aveva inculcato in testa 3 concetti, ma quelli erano inamovibili, al limite, e spesso oltre, l’autolesionismo: cortigiane brutto (da cui l’inusitato casino con quella povera donna della Dubarry, ma solo perché aveva anche il marchio di cortigiana, perché della cerchia delle sue care amiche l’unica a non essere in fondo una gran puttana era la principessa di Lamballe, e quelle le andavano benissimo); cardinale di Rohan brutto (nonostante la Ikeda e Dezaki lo rappresentino come una specie di barattolo burino, il cardinale era in realtà un uomo socialmente molto ambito, ricco e generosissimo fino a rovinarsi, divertentissimo in società, ambito nei salotti… insomma, nella sua ristretta cerchia di amici avrebbe fatto la sua porca figura e a lei sarebbe piaciuto un sacco perché era estremamente divertente e alla moda e invece… il problema era proprio questo, Rohan era stato in passato assegnato alla corte di Vienna, che, sotto la direzione dell’austera e bigottissima Maria Teresa era meno divertente di un convento di clausura francese. Al suo arrivo, in questa landa di noia, tedio e uso del cilicio come svago, Rohan divenne immediatamente popolarissimo insinuando nella nobilità viennese la sconvolgente idea che… ci si potesse anche divertire!?!? Ma davvero!??!? Ovviamente Maria Teresa, preoccupata che i suoi nobili potessero deviare dalla vita di penitenza e morigeratezza che lei reputava loro consona, scacciò immediatamente Rohan da Vienna con ignominia. A MA è rimasto questo imprinting, ma rispetto al conte di Artois, Rohan era una specie di santo.); non lo far per piacer tuo, ma per dare figli a Dio ed eredi al regno (nel settecento si parlava liberamente di sesso, e a ogni fanciulla con responsabilità dinastiche era chiaramente spiegato che PRIMA si garantiva una discendenza legittima, POI con un marito compiacente ci si poteva dedicare ai propri diletti). In realtà, tutto il discorso di Fersen nella lettera alla sorella del ‘non posso avere colei che amo’, rientra poi proprio in questo quadro. È ovvio che un conte, per quanto socialmente ben collocato, non potesse sposare una principessa di stirpe reale (le figlie di Luigi XV sono rimaste zitelle proprio per questo), ma ai tempi il fatto che matrimonio e amore fossero due concetti distinti era piuttosto chiaro, ma Fersen non può ‘avere’ colei che ama, e lo sa, nonostante sappia di essere corrisposto ‘colei che amo, e mi ama’. Si insomma… questo per la solita pippa della contestualizzazione storica, che come detto però funziona anche meglio rispetto al parallelismo con Oscar e Andrè, perché Fersen ama MA rimanendo nei limiti della differenza di rango esattamente come fa Andrè, a differenza di lui ha anche la certezza di essere riamato,… ma lo stesso non è soddisfatto… e… sì il soggetto è deliberatamente ambiguo ;-)
[xxiv] Contestualizzando all’epoca, Fersen non appare nei libelli che elencano gli amanti di MA, non nelle lettere degli ambasciatori (se non in quella dell’ambasciatore svedese al Re, che elogia il suo comportamento impeccabile e la decisione di lasciare la corte nel ‘75), non nelle cronache dell’epoca. Fersen è sicuramente un uomo sociale e ‘alla moda’, ha anche tante amanti, ma non è uno che genera scandali e si tiene alla larga da situazioni che possono apparire ambigue, ad esempio di tiene alla larga dal salotto della Polignac. L’epica della storia d’amore tra Fersen e MA scoppia solo quando verrà pubblicato, seppur censurato dagli eredi, il carteggio tra i due, che rivela per la prima volta la profondità del legame, la rilevanza di Fersen e l’attenzione di entrambi a celare il segreto per prudenza e dovere. Sicuramente quello abile nel mantenere il segreto e dal comportamento socialmente ineccepibile è Fersen, MA probabilmente è stata paradossalmente aiutata dal fatto di aver abbandonato la vita di corte. Ovviamente Manga e Anime fanno la scelta di sintetizzare nella figura di Fersen tutto lo scandalo intorno al MA, ma la vicenda è molto più complessa e, a mio avviso, interessante.
[xxv] Questo punto mi ha sempre colpito, o meglio… mi ha sempre colpito che lo noti lei, e lo trovo piuttosto… rivelatore (o almeno, io lo concepisco così nelle mie elucubrazioni XD). La bionda ha chiaramente dei problemi a gestire i diversi ‘livelli’ della personalità di una persona. È come i bambini, vorrebbe vedere la gente in 2D, o bianca o nera… forse perché lei stessa ha qualche problema a gestire i suoi di ‘livelli’ e semplicemente preferirebbe ignorarli, facendo finta che ci sia il comandante e basta. Per certi versi è una sorta di rifiuto di crescere, in cui Andrè la asseconda.
[xxvi] Premiere femme de Chambre di Maria Antonietta. Nata come Jeanne Louise Henriette Genet, sebbene la sua provenienza non fosse nobile, ricevette per merito del padre un'ottima educazione e a quindici anni sapeva comporre in versi, suonare e parlare italiano e inglese. Il suo maggior talento era la lettura, motivo per cui ebbe a Versailles la carica di lettrice delle figlie del re: Vittoria, Sofia e Luisa. Nel 1770, quando a Versailles arrivò la giovane Maria Antonietta, Jeanne Louise fu nominata première femme de chambre, un'importante carica nella quale il titolo di cameriera non era inteso in senso servile come adesso, ma piuttosto come direttrice di camera, ovvero di tutte le attività legate alla vita della principessa nei suoi appartamenti. Nel 1774 convolò a nozze con François Bertholet-Campan, maestro del guardaroba della contessa d'Artois. Mantenne la sua carica sino al 20 giugno 1792, quando la folla in tumulto assalì il palazzo delle Tuileries; in seguito a un secondo assalto Maria Antonietta e la sua famiglia furono imprigionati nella Torre del Tempio, Madame Campan chiese di poter assistere la sovrana, ma la sua richiesta fu rifiutata.
[xxvii] A chi interessasse, la disposizione delle cucine di palazzo la trovate nell’Anello 1.
[xxviii] Le storie di fate sono una grande tradizione del seicento-settecento, spesso scritte da donne che si erano sudate un’istruzione da autodidatte, apparentemente innocue, in realtà non erano destinate ai bambini. Dipingevano un mondo ‘singolare’, in cui gli uomini rimanevano un secondo piano e il potere era amministrato da donne, fate appunto, sagge, istruite, potenti e spesso comprensive nei confronti delle debolezze umane. Ovviamente i vari favolatori uomini hanno rimodellato questa tradizione, lasciandola a margine delle loro belle fiabe incentrate sulle principesse in attesa di un principe, in cui le fate sono state retrocesse a donne di servizio atte a propiziare l’idillio finale.
[xxix] Inverno 1774-75, che precede la guerra delle farine.
[xxx] All’epoca la pneumoconiosi dovuta all’esposizione prolungata ai fumi di carbone era la morte più comune per il personale di cucina, che vi era esposto per anni. Persino Marie-Antoine Careme, ‘padre’ della Haute Cusine, cuoco di Talleyrand e figura chiave nel suo uso della cucina per intessere relazioni diplomatiche, partito come garzone per diventare ricchissimo e chef de cusine conteso dalle case regnanti di tutta Europa, muore della stessa malattia.

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Capitolo 9
*** Anello 5: Affinità (Parte 2/5) ***


Venerdì 26 Ottobre 1781, Versailles

 
I preziosi marmi disposti in motivi geometrici e il soffitto a volta imitano la severa maestosità del Salone delle Guardie, ma, come al solito, l’algido rigore è stato ben confinato oltre la porta chiusa dell’ufficio di Oscar. Dopo tanti anni, anche la servitù di corte ha imparato a conoscere e anticipare i desideri del Comandante delle Guardie Reali, e un tepore avvolgente aleggia sempre in questa stanza, senza che sia necessario dare disposizioni. Oggi, però, il fuoco è stato alimentato e ravvivato forse con un po’ troppa generosa solerzia e arde tanto alto nel camino da rendere l’aria quasi irrespirabile.
Si avvicina alla grande finestra rivolta a est[i], incrociando pigramente le mani dietro la schiena, e subito un brivido a fior di pelle gli solletica il viso, invitandolo ad accostarsi di più al vetro freddo in cerca di un po’ di ristoro. Trattiene per un attimo il fiato, poi riprende a respirare, piano per non appannare la superficie trasparente, lasciando lo sguardo perdersi oltre.
È quasi una settimana che non si scorge la più piccola nube, come se anche il cielo avesse deciso di attenersi all’etichetta e festeggiare degnamente il lieto evento, offrendo per l’occasione un orizzonte limpido, di un azzurro intenso per quanto metallico e crudo. Sotto, la piazza d’armi brulica di vita, come non accadeva da tempo. Le ricche toilette all’ultima moda e le livree di gala si mischiano al sobrio fasto della seta nera degli abiti delle corporazioni; qualcuno si attarda per un ultimo cerimonioso commiato, mentre altri già sciamano in direzione degli ampi viali. I più s’incamminano lungo Avenue de Paris, alcuni trovano posto sui carri, orgogliosamente addobbati per l’occasione, che procedono affiancati alle più eleganti e sfarzose carrozze. Meno affollate Avenue de Saint Cloud e Avenue de Sceaux[ii], percorse da chi deve raggiungere villaggi o palazzi fuori città.
Con l’approssimarsi del tramonto, l’ombra della reggia si allunga sulla piazza come se volesse seguirli e non lasciarli andare, timorosa di non vederli tornare come promesso l’indomani per nuovi festeggiamenti e onori.
Dopo tanta attesa, la Francia ha finalmente il suo Delfino, a dispetto dei molti che avevano rinunciato a sperare, e dei pochi che avevano ricominciato[iii] dopo la lunga sterilità seguita alla nascita di Madame Royale[iv]. Come allora i festeggiamenti dureranno mesi a corte, a Parigi e in ogni angolo del paese, con maggior fasto di quanto fatto per la nascita della principessa quasi tre anni fa, anche se forse non con più autentica gioia[v]. Comunque, l’arrivo dell’erede al trono ha imposto ai sudditi di ripopolare Versailles.
Anche les Mesdames si sono viste costrette a lasciare il loro castello[vi] per tornare a occupare, almeno per qualche tempo, i vecchi appartamenti, seguite dalla sempre più nutrita schiera di nobili, che negli ultimi anni ha via via disertato la reggia[vii].
La corte di Bellevue e quella di Palais Royal sono accorse, loro malgrado, per rendere omaggio al Delfino e al Re, e da cinque giorni non abbandonano le sale e le gallerie, alimentando l’illusione che i fasti e la gloria di Versailles fossero solo temporaneamente sopiti. Persino i giardini, nonostante l’autunno inoltrato, sono stati allestiti con decori e bracieri per consentire alla folla di ospiti aristocratici e residenti privilegiati d’intrattenersi festeggiando a ogni ora del giorno e della notte.
A differenza di Oscar, lui ha sempre amato le feste. L’allegria e la leggerezza di chi lo circonda riesce in qualche modo a contagiarlo ogni volta, anche se per indole, o forse per educazione, non è certo propenso a farsi trascinare nel turbine o a prendere parte alle piccole grandi follie di Versailles, cosa che comunque non si confarebbe in alcun modo al suo ruolo. Eppure, dopo cinque giorni di celebrazioni ininterrotte, di delegazioni festanti, di canti, di balli e di brindisi, di salve di cannone e di fuochi d’artificio, tutta quella confusione è diventata un po’ troppa anche per lui, e non gli spiace affatto trovarsi costretto ad aspettare nella quieta solitudine di quella stanza, con la prospettiva di tornare finalmente al Palazzo e alle sue immutabili consuetudini, estranee a ogni mondanità.
Abbandona oltre il vetro la frenesia, che ancora anima la Piazza d’Armi, e si gira, abbassando lo sguardo sui pochi oggetti disposti sulla scrivania di Oscar: un cumulo di documenti, già revisionati e firmati, impilati sulla destra del piano in radica, una piccola risma di carta purissima sulla sinistra e accanto un tagliacarte d’argento, tutto perfettamente allineato come sempre.
Gli viene da sorridere, perché se non fossero passati tanti anni e Monsieur Douffort[viii] non fosse ormai solo un malinconico ricordo d’infanzia, giurerebbe di trovarsi di fronte al banco di Oscar nello studio vicino alla biblioteca: minuta ed elegante, spigolosa a tratti, come a tradire un’irrequietezza trattenuta a forza, la sua grafia inconfondibile sui compiti finiti da una parte e dall’altra tutto il resto, sempre disciplinatamente ordinato e a portata di mano. Solo quell’improbabile completo da scrittoio[ix] troneggia al centro, disturbando l’illusione.
Si morde le labbra nel tentativo di contenere una mezza risata.
Per quanto di fine fattura e innegabile pregio, si è sempre chiesto come Maria Antonietta abbia potuto pensare che un oggetto tanto inutilmente sfarzoso potesse essere un regalo adatto a Oscar. Anche se le deve riconoscere delle insospettabili capacità di stratega per il modo in cui ha costretto il suo incorruttibile Comandante delle Guardie ad accettarlo!
“Si può sapere cosa c’è da ridere?!”
Sobbalza, sollevando di scatto lo sguardo e trovandosi di fronte Oscar, che già si sta chiudendo la porta alle spalle e lo fissa con un’espressione tra il perplesso e il divertito.
“Non… non ti ho sentita entrare…”
La osserva accostarsi al camino, fregandosi le mani, e allungare i palmi verso il fuoco, come se il calore della stanza non fosse già più che sufficiente.
“Allora?” lo incalza.
“Niente… niente d’importante.”
“Però sembrava divertente, ma se non me lo vuoi dire…” ostenta indifferenza, ma subito si gira a catturare il suo sguardo ”… da quando in qua mi nascondi dei segreti, André?”
Conosce bene il luccichio di sfida nei suoi occhi, ma quel mezzo sorriso lo lascia interdetto e incerto. Sarebbe quasi tentato di definirlo malizioso, se non fosse impensabile per la sua Oscar, per come lui la conosce. Schiude le labbra, senza riuscire ad articolare una parola e si limita a replicare sorridendo e scrollando il capo per schermirsi.
Quando risolleva il viso, lei è di nuovo persa tra le fiamme che si agitano nel camino. Rimangono per un po’ così, sospesi in quel silenzio rotto solo dal crepitio del fuoco, fino a che non è lui finalmente a parlare, esibendo un tono fintamente cerimonioso.
“Piuttosto ditemi Comandante, la Regina ha apprezzato il resoconto della sfilata delle corporazioni di oggi, resole come di consueto dal suo Augusto Consorte?”
Non ha dubbi questa volta su come interpretare l’occhiata di divertito rimprovero che gli restituisce, incrociando le braccia al petto e sforzandosi si assumere un contegno.
“Beh, possiamo dire che… ha dato prova di tutto il suo impegno nel cercare di prestare la dovuta attenzione a un racconto estremamente lungo e dettagliato, anche se certo Madame Campan e Madame Poitrine[x] si sono dimostrate più entusiaste e partecipi.”
Non è certo una novità riservata all’arrivo del tanto sospirato erede al trono, il fatto che il Re trascorra ogni momento disponibile nelle stanze della Regina per starle accanto e tenerle compagnia. Dopo la nascita di Madame Royale vi si è trattenuto per tutte le due settimane del puerperio, rinunciando persino alla sua amata caccia e dedicando a lei e alla piccola principessa ogni momento lasciato libero da impegni ufficiali inderogabili.
Già in quell’occasione il puntuale resoconto dei festeggiamenti era diventato da subito un rito quotidiano. Secondo il costume di corte, qualcuno si era dilettato a malignare su un comportamento tanto inusuale per un padre e ancor più per un Re, altri avevano rincarato la dose insinuando che non fosse altro che l’ennesima dimostrazione di come Luigi XVI fosse succube della moglie. Alla fine tutte queste voci erano decadute prima della costante dedizione del Sovrano, lasciando il posto ad altre, se non più fondate certo più nuove.
“Ha gradito particolarmente la descrizione del comignolo portato in trionfo e dei piccoli spazzacamino cantanti[xi], ha trovato adorabili le scarpine regalate dai calzolai[xii] e anche il dono[xiii] dei meccanici da principio l’ha incuriosita. Certo… non ha mostrato lo stesso entusiasmo, quando il Re ha cominciato a descrivere il meccanismo in tutti i minimi dettagli, ma quando, preso dall’eccitazione, è arrivato a sedersi accanto a lei sul letto per illustrarle meglio il modo in cui era riuscito ad aprire quel complicatissimo lucchetto, è parsa… teneramente divertita e lo ha elogiato con fare quasi… materno.”
La vede aggrottare appena la fronte e una nube sembra velare di preoccupazione il cielo dei suoi occhi o forse… d’incertezza.
Neanche le più velenose malelingue metterebbero mai in dubbio l’amore di Luigi XVI per la sposa che altri hanno scelto per lui per ragione di stato, quando erano entrambi poco più che bambini. Da principio, è stato rapito, come tutti, dalla grazia leggiadra della giovane Maria Antonietta. Ben presto, però, si sono palesate le incolmabili distanze tra due caratteri, che non avrebbero potuto essere più diversi, ma l’affetto e la devozione del giovane Re non ne sono stati minimamente scalfiti, anzi. Sono cresciuti, trasformandosi in un amore fatto di totale comprensione e accettazione. Il Sovrano ha imparato a conoscere profondamente l’indole della sua adorata sposa, non perde occasione per elogiarne le virtù e non ha mai una parola di rimprovero per quelli che i più criticano come mancanze o difetti. Non li nega né li ignora, semplicemente li accoglie come parte di lei e vi si adegua. Per contenere la sua passione per le piume, che lui detesta, le ha regalato la più preziosa aegrette[xiv] in diamanti; per darle un luogo nel quale sfuggire all’etichetta di corte, che lei non tollera, il rifugio del Petit Trianon, dove è sovrana assoluta.
“Lo capisce, sai…”
“Cosa?”
“… che lo fa solo per lei...”
Cerca i suoi occhi, come se le servisse un appiglio per continuare.
“…raccontare ogni dettaglio delle celebrazioni, degli abiti, dei gioielli… non gli è mai piaciuto… parlare di queste cose, essere al centro dell’attenzione… lo fa solo per lei, perché sa che ama tanto le feste e quanto la opprima dover rimanere confinata nelle sue stanze.”
“Penso tu abbia ragione, ma… per come la ama non credo potrebbe fare altrimenti, pur di vederla felice.”
“Felice…” sospira profondamente “sono certa che capisca e gliene sia grata. Ha un grande affetto per lui, è suo marito. Solo…” aggrotta la fronte.
“Cosa…”
“… a volte mi chiedo se possa davvero bastare.”
Quelle parole lo colgono alla sprovvista e deve fare uno sforzo per sostenere il suo sguardo. A un tratto, ha l’impressione di vacillare e annegare in quell’azzurro che si fa troppo trasparente e profondo, e non gli concede scampo. Non dice nulla. Si schiarisce la gola e deglutisce a forza. Sente la bocca secca e quel caldo sempre più opprimente.
“Bah…” Oscar si porta una mano alla fronte e scrolla il capo con una smorfia “… che pensieri assurdi.” ridacchia, schernendosi.
L’ombra si dilegua, improvvisa come era comparsa, lasciando un cielo di nuovo limpido come lo conosce e alleggerendogli il cuore.
“Sono state giornate lunghe e faticose… deve essere la stanchezza a farmi dire certe sciocchezze. Perdonami.”
Gli sorride complice e lui non può che ricambiare, andandole incontro.
“Ancora qualche giorno e le udienze straordinarie si concluderanno. I turni di guardia torneranno regolari e potrai tirare un sospiro di sollievo.”
“Già, anche se…” solleva un sopracciglio dubbiosa “… tra poco più di una settimana la Regina ricomincerà a uscire. Allora ci saranno gli impegni ufficiali: la visita alla cattedrale, i balli in onore del Delfino a Parigi...”
Mentre parla si allontana, aggirando l’ostacolo del mobilio e andando a prender il posto che lui ha appena lasciato, tra lo scrittoio e la finestra. Si è fatta di nuovo seria, ma come è abituato a vederla quando si concentra per organizzare mentalmente il lavoro.
“Hai già gestito tutto egregiamente tre anni fa e non ci sono stati problemi, non c’è motivo di preoccuparsi.”
Oscar scosta la sedia, lasciandovisi cadere un po’ scomposta, come certo non farebbe mai di fronte ad altri.
“Effettivamente potremmo replicare il medesimo programma e lo stesso servizio di guardia, limitandoci a perfezionare qualche aspetto logistico…”
Meditabonda afferra un foglio e intinge veloce la penna nell’inchiostro, ma si attarda a tergerla con cura tra il bordo di cristallo e i petali di una piccola rosa finemente cesellata, prima di aggredire senza esitazioni il candore della carta.
“…nel frattempo Girodelle si occuperà di perlustrare i percorsi verso Parigi, così da verificare se siano necessari ulteriori provvedimenti. Per il Delfino il protocollo prevede una maggiore solennità, ma il primo evento sarà comunque la cerimonia di consegna delle vesti a Notre Dame…”
Lo strano verso che gli sfugge interrompe bruscamente il flusso dei suoi pensieri e della penna sulla carta, attirando su di lui un’occhiata sbieca, questa volta per niente divertita.
“Beh… cosa c’è di così spassoso adesso?”
Fa appena in tempo a scuotere il capo, che subito lo anticipa.
“… e non dire niente, come al solito. Se ti fa tanto ridere, sarà qualcosa!”
“Niente…” gli scappa, facendo comparire sul viso di lei una rassegnata insofferenza.
“Allora!?”
“Perdonami, Oscar… ” inspira profondamente cercando di ricomporsi“… è solo…”
“Cosa!” Impaziente e indispettita, ma stranamente anche questo non fa che alimentare la sua strana allegria.
“Mi è solo tornata in mente la cerimonia di tre anni fa.”
“Quindi?”
Quell’espressione interrogativa esige ulteriori spiegazioni.
“Niente… ” la sente sbuffare e si affretta a rimediare “ consideravo che… per il battesimo del Delfino è stato convocato addirittura il Cardinale di Rohan[xv], il cannone ha potuto finalmente sparare tutte le sue centouno salve e il medico di corte sarà rimeritato con una pensione decisamente più cospicua e adeguata, ma non riesco a immaginare come il ministro della polizia potrà riuscire a fare di meglio della volta scorsa!”
“Non so veramente cosa tu voglia dire.” aggrotta la fronte, tornando al suo foglio ” Cento coppie di fidanzati scelte tra i popolo, cui la Regina ha donato le vesti per il matrimonio… niente di più. Non credo sarà difficile trovarne altre.”
“Non è a questo, che mi riferivo.”
“A cosa allora?”
“Davvero non lo indovini, Oscar? Davvero non è parso anche a te, che i prescelti fossero tutti insolitamente… belli?!”
Cerca d’imprimere a quell’ultimo aggettivo una certa ironica solennità, che però lei non pare cogliere, limitandosi a liquidarlo con un brontolio vago.
“Bah, sciocchezze.”
In realtà, per quanto nessuno l’avesse pubblicamente ammesso, in molti avevano notato la particolare avvenenza delle due ali di giovani festanti, che avevano accolto in cattedrale la loro regale benefattrice. La ragionevole ipotesi era stata che le autorità competenti avessero fatto di tutto per reclutare solo bella gente, così da assecondare le ben note preferenze della sovrana. L’unica a non aver notato la felice coincidenza, oltre a Maria Antonietta, sembrava essere proprio Oscar.
“Sarà come dici tu…” inutile insistere “… vedremo che aspetto avranno questa volta i fortunati.” ma può sempre punzecchiarla ancora un po’.
Sta già sorridendo, quando l’occhiataccia attesa lo dardeggia da sotto in su, tra lo scoppiettare del fuoco e il ruvido crepitio degli ultimi tratti del pennino.
“Sei il solito insopportabile pettegolo, sai?” lo apostrofa con pretesa indifferenza, mentre sparge accuratamente il polverino sulla carta.
“Lo so…” sospira e si accomoda impettito su una delle due sedute di fronte alla scrivania, sporgendosi in avanti per mettersi a giocherellare col lezioso coperchio del calamaio ancora aperto “non è certo la prima volta che mi rivolgi una simile immeritata accusa e, come sempre, mi permetto di dissentire.” attende un attimo prima di proseguire, il tempo necessario perché lei torni a guardarlo, dopo essersi accertata, che l’inchiostro si sia asciugato in ogni punto del foglio “Non è certo colpa mia se sono un così acuto osservatore!”
Sa che quell’impertinenza è sufficiente a provocarla, ma, non pago, si attarda un attimo di troppo a trastullarsi dispettoso con i preziosi fronzoli del suo completo da scrittoio, abbastanza da farsi cogliere alla sprovvista. Uno sbuffo di polvere lo costringe ad arretrare di scatto, senza riuscire a trattenere un violento starnuto, subito seguito da un altro.
“Heiiii.”
“Perdonami... non l’ho fatto a posta.” un tono fintamente innocente accompagna lo sguardo tagliente e compiaciuto, che lo spia sopra al foglio, da cui gli ha appena soffiato dritto in faccia tutto il polverino.
Le restituisce una smorfia, spolverandosi la giacca con ostentazione mentre si accomoda contro lo schienale, soddisfatto di riuscire a strapparle un sorriso.
“Comunque sia…” continua Oscar, apprestandosi a porre il sigillo in calce al documento “la cerimonia rientra nella tradizione dei festeggiamenti per rendere il popolo partecipe della felicità per la nascita di un Principe di Sangue Reale ed è sempre stata accolta con gioia dalla popolazione di Parigi. Non vedo perché non debba esserlo anche questa volta.”
“Non lo metto in dubbio! Per le prossime due settimane, ne saranno tutti entusiasti, come dei fuochi d’artificio, del vino che spilla dalle fontane, della distribuzione di pane e salsicce, e dell’ingresso gratuito a La Comedie Francaise!”
“Quindi?” lo incalza, vagamente acre, come l’odore della cera lacca appena colata.
“Non mi fraintendere, non credo ci sia niente di male, solo penso che sarebbe necessario dare un minimo di continuità a queste esplosioni di giubilo e magari sostenere più in concreto le speranze del popolo.”
“La nascita di un Delfino!” sbotta, pestando con un po’ troppa irruenza ed enfasi il piccolo cilindro di ottone nel rosso fuso di resina. Inspira profondamente prima di continuare “La nascita di un Delfino, che garantisca un futuro alla Francia, cosa ci può essere di più concreto per dare speranza al popolo?”
Ha recuperato il suo solito contegno, ma lo vede dal modo in cui ancora stringe il sigillo tra le dita, dallo sbiancare delle nocche, quello che le si agita dentro.
“Certo, hai ragione, solo… ” esita “ mi auguro che dopo tanta attesa non arrivi il giorno in cui al popolo non basti più il ricordo dei carbonai seduti per qualche sera nel palco del re e delle pescivendole in quello della regina.”
Tace, in attesa della sua reazione, limitandosi a sostenere quello sguardo limpido come il cristallo e acceso di rabbia, ma non accade nulla. Basta un istante perché il fuoco si tramuti in ghiaccio, gelido e duro come il tono della sua voce.
“Ora che la Francia ha finalmente il suo Delfino, tutto sarà diverso.” Non lo guarda neanche più, ma qualcosa tra le parole comincia a scricchiolare “Ora che la Francia ha finalmente il suo Delfino, tutto sarà esattamente come avrebbe sempre dovuto essere.”
“Oscar…”
“Sarà così, André. Vedrai… ne sono certa.”
Gli occhi tornano, fissi nei suoi, per dare maggiore slancio alle parole, ma non è così sicuro di essere lui quello che vuole convincere, e per un attimo ha l’impressione che il ghiaccio sia sul punto di sciogliersi e tracimare.
Sospira “Lo spero, Oscar. Spero con tutto il cuore, che tu abbia ragione.”
Non ha il cuore di aggiungere altro.
Già dopo la nascita di Madame Royale in molti avevano sperato che la giovane sovrana, finalmente madre felice, avrebbe abbandonato la sua vita sregolata per diventare seria e coscienziosa come si confà a una regina, modello e ispirazione per il suo popolo, sostegno e conforto per il suo re. Il paese intero aveva gioito tra feste e cerimonie, nel miraggio di una vita coniugale finalmente salda e sicura, specchio dell’unità della corte e di tutta la Francia. Nonostante tutto, nel giro di qualche mese Maria Antonietta aveva ripreso le vecchie abitudini; le feste, le amicizie discutibili e il gioco erano tornati a rubare tempo alle udienze e agli impegni ufficiali, e certo l’aver ricevuto in dono dal marito per il lieto evento il Petit Trianon, non aveva favorito la sua dedizione alla vita di corte. La moglie del re era anche la sua favorita e ne riceveva in dono la dimora. Qui, sovrana assoluta, si era concessa in spese per la ristrutturazione e intrattenimenti, con la tanto ristretta quanto famigerata cerchia della sua nuova società, quello che nessuna prima di lei aveva mai neanche osato chiedere. Da sempre la favorita di un re è per utilità o consuetudine il bersaglio prediletto del malanimo della corte e del risentimento del popolo, ma nessuno può perdonare a una regina quello che concederebbe con sdegnata indulgenza a un’amante.
“Ne sono certa…” ribadisce e stenta un sorriso speranzoso “non sarà come l’altra volta… le aspettative di tutti, l’insistenza sempre più incalzante dell’Imperatrice Madre per una nuova gravidanza[xvi], per un erede maschio, al più presto… sono state troppe le pressioni, poi l’incidente[xvii]… troppo, non ce l’ha fatta a sopportare. Ma adesso, l’erede tanto atteso è finalmente arrivato! Tu non l’hai vista… era così tesa, quando ancora non sapeva … poi il Re è rientrato e con voce tonante ha annunciato ‘Monsieur le Dauphin demande de entrer[xviii]… una luce nuova le ha illuminato il volto e ha cominciato a ridere tra le lacrime… lacrime di gioia! Era così felice… Davvero, non c’è più motivo per cui non debba andare tutto per il meglio.”
Annuisce e si sforza di sorridere anche lui, ma non ce la fa e abbassa lo sguardo. Per quanto si sforzi e lo desideri, non riesce proprio a condividere l’ottimistica visione del futuro di Oscar, ma non riesce neanche a trovare il coraggio d’infrangere quello scampolo di speranza, cui lei sembra aggrapparsi con tanta innocente tenacia.
Non saprebbe dire quante volte gli abbia raccontato quella storia negli ultimi giorni, talmente tante da avere l’impressione di esserci stato anche lui, un attendente qualunque, tra i pochi eletti ammessi ad assistere al parto.
Il re, solitamente così restio a imporre il suo volere e propenso ad aggrapparsi al rigido sostegno delle regole imposte dal protocollo di corte, questa volta si era mostrato irremovibile, opponendosi all’antica tradizione del parto pubblico per la nascita di un principe di sangue reale[xix]. Troppo il tormento e l’umiliazione, cui era stata sottoposta la prima volta la sua amata sposa durante il lungo travaglio, troppo lo spavento per il malore che l’aveva colta subito dopo aver dato alla luce la loro primogenita. In questa occasione, era stato concesso di presenziare solo ad una cerchia estremamente ristretta, in cui era stata inclusa Oscar, più per il sincero affetto che la legava a Maria Antonietta, che per il suo titolo o l’incarico di Comandante della Guardia Reale.
Forse proprio per il contesto più conciliante o semplicemente perché le cose dovevano andare così, si era giunti al parto senza lunghe attese o particolari problemi. Il piccolo era stato immediatamente portato via per essere lavato e vestito, e la regina, nuovamente madre, era rimasta ad attendere con serena apprensione come ogni altro suddito, che il re tornasse per annunciare alla Francia l’avvento del tanto atteso erede al trono, innescando l’esplosione di giubilo, che avrebbe animato tutta la corte e l’intero paese ancora per settimane e mesi. Quasi tutti i presenti si erano riversati immediatamente fuori dalle stanze della regina, disperdendosi per le gallerie, le sale e i giardini al grido di ‘Un Dauphin… Le Dauphin de France!’. Oscar ovviamente non si era lasciata travolgere da quelle scomposte e rumorose esternazioni. Aveva atteso in disparte di poter presentare per prima le proprie felicitazioni alla sua regina, trovandosi testimone, suo malgrado, di un raro e prezioso momento d’intimità concesso ai sovrani. Erano rimasti a lungo a fissarsi, senza dire una parola, con gli occhi umidi e le guance rigate di lacrime di gioia per la benedizione di quel figlio o per il sollievo di aver finalmente adempiuto agli obblighi dinastici, questo non l’aveva saputo dire. Sicuramente qualcosa l’aveva colpita, perché appena arrivata a Palazzo era corsa a cercarlo per raccontargli ogni cosa la prima volta, poi ancora tante altre nei giorni successivi, aggiungendo a ogni occasione nuovi dettagli.
“… però… è un peccato…”
è quasi un sussurro, ma sufficiente a riscuoterlo e a riportarlo da lei, che giocherella distratta con il foglio ormai ripiegato e sigillato, come se stesse solo pensando ad alta voce.
“Cosa, Oscar?...“ lo occhieggia di sfuggita, quasi fosse sorpresa di trovarlo lì “Cosa è un peccato?”
“… che l’Imperatrice Madre non abbia vissuto abbastanza per assistere alla nascita di un erede al trono di Francia del suo sangue… ”
Aggrotta istintivamente la fronte, interdetto.
“… dopo avere tanto atteso e sperato…” continua frammentaria “… l’avrebbe resa tanto felice…”
“… chi? L’imperatrice madre?”
“Eh?… chi?…” sembra riscuotersi “Oh, sì certo… Sua Altezza Imperiale se ne sarebbe immensamente compiaciuta, ma mi riferivo alla Regina… la mia Regina…“ sorride ”l’avrebbe resa veramente felice riuscire finalmente a dare una simile gioia alla Madre… l’erede maschio tanto atteso, finalmente...”
Schiude le labbra, ma non trova parole. Scrolla il capo “Sarà… ” sospira.
“Non credi?” è lei ora, che sembra non capacitarsi di come lui possa non capire “Io ne sono certa.”
“Sicuramente sei in grado di giudicare meglio di me, Oscar…” sonda in silenzio l’inquietudine, che si agita nella profondità dei suoi occhi, fino a che, troppo indiscreto, non la vede sfuggire. Allora continua brusco, per quanto riesce ad essere con lei “… dubito però che questo bambino sarebbe mai nato se l’imperatrice non fosse venuta a mancare[xx].”
È sufficiente perché lo fulmini senza però controbattere. Scatta in piedi, con tanta irruenza da far quasi precipitare a terra la sedia, che arretra in uno stridio sordo di legno.
“Si è fatto tardi.” taglia corto infilandosi frettolosamente i guanti “Sarà il caso di sbrigarsi, mia Madre ci sta già aspettando nella Galleria degli Specchi.”
Non aggiunge altro, non lo guarda nemmeno, passandogli accanto e affrettandosi verso la porta.
Gli è fin troppo familiare quel repentino arroccarsi in un algido distacco e troppe volte è capitato d’inciampare in quello sgradevole argomento, per non sapere quanto la disturbi.
Come spesso accade, la semplice realtà è più triste e sconfortante delle mille storie assurde inventate ad arte e passate di bocca in bocca per anni, delle falsità maligne pubblicate in libelli osceni per farsi beffe di un giovane uomo, fin troppo mite per essere re, e per gettare fango su una ragazzina, che, nonostante l’alto lignaggio, forse non era nata per essere regina. Come per tanti prima di loro, non è certo l’amore coniugale ad aver portato alla Francia questi Figli[xxi], ma, a differenza di tanti, neanche la cosciente dedizione prestata al servizio di una dinastia reale[xxii]. La devozione di Luigi XVI per la sua sposa è tanto incondizionata e assoluta quanto deferente e distante. Per essere felice sembra bastargli contemplarla da lontano, servire ogni suo desiderio, quasi la considerasse una dea o un ideale, che non osa o non si sente degno nemmeno di sfiorare. L’affetto di Maria Antonietta per il marito è come lei, tenero e semplice, a tratti infantile, spesso capriccioso e volubile. La giovane regina è irrequieta e smaniosa di vita; leggiadra e incostante come una farfalla cerca ogni modo per sfuggire alla gabbia dorata della corte e alla monotonia di un amore troppo disadorno, massiccio e immutabile per affascinarla. La costringe, la annoia, non ne ha mai fatto segreto[xxiii], ma è in quel solido rifugio che corre a cercare certezze e conforto ogni qual volta si ritrova smarrita di fronte alla brutale realtà del mondo. È accaduto la prima volta quando ormai tutta Europa attendeva solo il momento in cui sarebbe stata ripudiata e addirittura l’Imperatore suo fratello era accorso per cercare di salvare la sempre più fragile alleanza. L’incertezza e l’apprensione avevano finalmente suggellato il legame con la nascita di Madame Royale. Poi il Conte di Fersen[xxiv] era partito per le Americhe e, anche se nessuno[xxv], o quasi, sembrava aver notato la coincidenza, lo sconforto e la solitudine avevano riportato Maria Antonietta a dedicarsi alla cura dei suoi prediletti amici con più generosità e dedizione di quanto mai visto prima, alienandole così la devozione, che la nascita della principessa le aveva fatto riconquistare. La maggior parte della corte e dell’aristocrazia francese, esclusa dai privilegi riservati a pochi favoriti, l’aveva disconosciuta, arrivando ad accusare l’Austriaca di finanziare le guerre del fratello con il denaro della tesoreria reale[xxvi]. Allora erano state le accuse di tradimento a portare un bambino mai nato, così come la morte della tanto amata quanto temuta madre aveva ricondotto la regina tra le braccia del marito in cerca di conforto, tributando finalmente al regno l’agognato Delfino. Pare ormai evidente che solo infelicità e sventure riescano a donare questi Figli alla Francia.
Forse è come ha detto Oscar, non può veramente bastare. Una vita di dedizione assoluta, un amore incondizionato che non chiede nulla per sé, assecondare il solo desiderio di sostenerla, averne cura, tenerla al sicuro, non può bastare, a nessuno. Per quanto si creda di non poter fare altrimenti o che nessun altro potrebbe fare di più, è chiedere troppo ed è inutile illudersi.
Di nuovo quel caldo opprimente, che gli toglie il fiato. Porta la mano alla gola, affannato, e può solo seguire con lo sguardo i ricci dorati, che s’inanellano e ondeggiano sul broccato carminio della giubba, la sua schiena che si allontana verso il quadro della porta chiusa. Non si alza da quella sedia, ha l’impressione che le gambe non lo reggerebbero. Gonfia il petto, infila le dita tra la pelle e la mussola, cercando di allentare il nodo che gli stringe la gola. Poi finalmente la serratura scatta, l’anta si apre e una ventata gelida s’insinua, fendendo l’aria ferma, schiaffeggiandogli il viso e restituendogli lucidità.
“Allora?...” lo fissa interdetta “Non vieni, André?!”
“Certo!...” scatta in piedi “Eccomi, Oscar.”
Allunga il passo per raggiungerla. Lei ha già varcato la soglia.
 
Un colpo secco e sonoro accoglie l’ingresso di Oscar nel Salone delle Guardie. I tacchi dei soldati scattano sull’attenti sui due lati e il tenente Ponthieu al centro alla comparsa del Comandante interrompe qualunque cosa stesse facendo. Le figure rigide e impettite sullo sfondo degli spigolosi decori in marmo alle pareti, gli sguardi alti e sospesi in attesa di ordini, l’aria pungente di quell’ambiente impossibile riscaldare, lo riportano alla realtà.
“Riposo.” il comando netto dell’altra voce di Oscar “Tenente…” ergendosi fiera di fronte a Ponthieu.
“Sì, Signore.”
“Il Capitano Girodelle sta passando in rivista la ronda nei giardini, appena tornerà consegnategli queste disposizioni e riferitegli, che discuteremo meglio i dettagli domani.”
“Agli ordini, Signore” chiaro e netto, privo d’inflessioni o dubbi, come dovuto rispondendo a un ordine.
Il giovane tenente sta già sollevando la mano per ricevere il documento da Oscar, quando una voce lo blocca, intromettendosi nella ritualità del protocollo.
“Signor Comandante…” morbido e garbato, opportunamente deferente, senza però tradire alcuna incertezza “… perdonate l’intromissione, ma, se me lo concedete, posso provvedere io a consegnare il vostro messaggio al mio Signore.”
La palese impudenza è accompagnata da una riverenza profonda, abbastanza ossequiosa e sottomessa da prevenire reazioni piccate.
“Voi siete?...”
André, rimasto opportunamente arretrato di un passo, fissa la sua schiena, ma non ha alcun bisogno di vederla in viso per sapere quale espressione di altero distacco stia rivolgendo la sua Oscar all’intruso. Dal tono riesce a immaginare, come se l’avesse davanti agli occhi, il sopracciglio diffidentemente arcuato e la mascella serrata come l’elegante mano guantata, che osserva chiudersi a pugno dietro la schiena eretta e rigida.
“Etienne Vincent, per servirvi Signore.” Si solleva, esibendo il più decoroso eppure accattivante dei sorrisi, e facendo bella mostra di un’altezza invidiabile e una corporatura longilinea ed elegante, che ben valorizza la ricercata livrea verde e oro, rendendo quasi accettabile anche la parrucca, un po’ troppo rigida e incipriata per la sua giovane età.
“Etienne è il nuovo attendente del Capitano Girodelle, Oscar.”
“Oh!” Si è girata di scatto, richiamata dalla sua voce, e lo fissa perplessa, come in attesa di ulteriori numi.
“Ho ricevuto disposizioni di raggiungere il mio Padrone proprio ora…” di nuovo la sua nuca, attenta al nuovo venuto “… se foste così generoso da accordarmi la vostra fiducia[xxvii], potrei farmi carico io di questa incombenza.”
“Orbene, certo è una soluzione poco ortodossa…” e sa bene quanto il solido appiglio delle regole rassicuri la sua Oscar “…ma suppongo in questo caso sia la più efficiente e ragionevole.”
Il foglio ripiegato tentenna un’ultima volta tra le sue lunghe dita prima di venire consegnato nelle mani del solerte servitore.
“Vi ringrazio infinitamente per la fiducia che mi fate l’onore di accordarmi.” un’altra profondissima riverenza “Se ora mi consentite, Signore.”
“Certo, potete andare.”
Etienne si avvia spedito.
“Voi Ponthieu sapete già quali siano gli ordini. Vi potete ritirare.”
“Signore.”
Un altro colpo di tacchi accompagna il saluto militare, cui Oscar risponde con un distratto cenno del capo, per rivolgere di nuovo lo sguardo verso figura in verde che si appresta a uscire dal salone.
Appena Ponthieu si è allontanato, le si affianca, contempla per un attimo il suo profilo leggermente corrucciato, poi si gira, fingendo di prestare attenzione alla medesima scena. Oltre le ante spalancate, Etienne ha già superato l’ampio ballatoio e posato il piede sul primo gradino. Rimangono a guardarlo scomparire giù per la scalinata, fianco a fianco, in silenzio.
È quasi un mese che il giovane attendente ha sostituito Jacob al seguito del Capitano Girodelle. Gli si è presentato il primo giorno in modo estremamente cortese, com’è lecito aspettarsi per buona creanza, trovandosi a prestare servizio in simili circostanze, e per tacita regola, essendo il suo padrone in posizione di subordine a quella che per tutti è da sempre la sua padrona.
Quello che l’aveva subito colpito era l’abissale differenza rispetto al suo predecessore. Non che Jacob non fosse preparato o pronto nello svolgere le sue mansioni, anzi. Dopo una decina d’anni al servizio del padre del giovane tenente, poi diventato capitano, era fin troppo accostumato al servizio e alla corte per commettere errori. Probabilmente il vecchio Conte, che come il figlio era uomo di mondo per quanto di un'altra generazione, gliel’aveva assegnato proprio per facilitarlo nell’orientarsi in quell’intricato dedalo di regole scritte e non, che è da sempre la reggia di Versailles. Tanta esperienza sembrava però aver alimentato nel tempo anche una sua certa naturale predisposizione a risparmiare le forze, totalmente estranea a Etienne, che, al contrario, si distingue per l’estrema, a volte eccessiva, propensione a voler essere sempre più che impeccabile nell’adempiere ai suoi compiti. Questo poteva dipendere tanto da un’innata intraprendenza quanto, probabilmente, dall’apprensione per il trovarsi a ricoprire una simile posizione in così giovane età. Non era questo però che lo aveva colpito inizialmente e che continuava a stupirlo, quanto la sua capacità di apparire sempre come il perfetto complemento del Conte Victor Clement de Girodelle. Sicuramente giovane e gradevole nell’aspetto, ma soprattutto elegante, rampante, tanto intraprendente da arrischiarsi ad allentare qualche regola, ma sempre con tanto garbo e fascino da non risultare mai sgradevole; decisamente niente a che vedere con il pragmatismo a volte un po’ grossolano[xxviii] e decisamente poco a la mode del suo appesantito predecessore.
Sarebbe pronto a scommettere siano queste le caratteristiche, che hanno indotto Girodelle a sceglierlo come suo attendente a dispetto della scarsa esperienza, tanto quanto potrebbe giurare non siano certo questi i pensieri, che gli sembra di sentire macinare come gli ingranaggi di un automaton[xxix]nella testa della sua Oscar, data la sua scarsa propensione a curarsi di certe apparenze.
“Da quando…” la sua Signora interrompe il silenzio, con lo sguardo sempre concentrato nella medesima direzione.
“Quasi un mese.” anche lui sempre rivolto verso la figura ormai scomparsa.
“Ed è sempre così…”
Intraprendente?” gli viene da sorridere, perché è sicuro che non sia il termine, cui stava pensando “Oh, sì! Anche molto più di così.”
“E che fine ha fatto…”
“…Jacob.” non che Oscar abbia mai mostrato di apprezzarlo di più, ma probabilmente col tempo ci si era abituata “Ha preso moglie e il Conte ha provveduto ad assegnargli un incarico presso i loro possedimenti in Borgogna.”
“Ah…” temporeggia, come se stesse cercando una frase di circostanza a proposito di un argomento estraneo o comunque di scarso interesse “… beh, suppongo certi cambiamenti siano nella natura delle cose.”
Non aggiunge altro, avviandosi semplicemente verso l’uscita, certa che lui la segua.
 
Scesi nell’atrio, Etienne è già scomparso oltre le guardie schierate per l’occasione ai piedi della scala della Regina, disperdendosi tra i capannelli di donne fieramente racchiuse nelle austere ed eleganti vesti di seta nera. La loro attenzione viene immediatamente attirata dalla comparsa di Oscar o forse, più probabilmente, dall’ aristocratica autorità che traspare tanto dalla sua uniforme quanto dal suo portamento.
“Dio benedica la Regina e il Delfino!” acclama quella che pare la più anziana, andandole incontro e subito le altre fanno eco.
Pour le bonheur des Francais,
Puor répandre en notre coeur
Félicité parfaite
Conserve, o ciel protecteur,
Les jours d'Antoinette.[xxx]
Oscar si limita a rispondere con un composto cenno del capo e allunga il passo tra le due ali di donne, che si aprono al suo passaggio, quasi non osassero nemmeno sfiorare l’aria che la circonda, piegandosi in profonde riverenze e continuando a declamare versi in onore della loro amatissima Sovrana.
Hanno già raggiunto la galleria semideserta, quando riesce ad affiancarla.
“È da quando sono arrivate questa mattina che declamano versi di Le Harve in onore della Regina.”
Oscar non risponde subito, come se le servisse tempo per soppesare il significato di quella semplice affermazione, infine tutto quello che le esce è “Sorprendente…”
“Cosa?”
“Come le cose cambino.”
Il tono amaro trasuda inevitabilmente dal contegno apparentemente impassibile ed è tutto troppo simile ad allora perché lui possa non capire: lo stesso luogo in occasione di un’altra celebrazione per la nascita di un erede di sangue reale, le stesse donne del mercato abbigliate a festa. L’aria impregnata del sole d’agosto di sei anni fa rendeva tutto più caldo e accogliente, ma certo non aveva trattenuto quelle stesse donne dal dare della puttana e scagliarsi con ferocia contro la stessa Anoinette, che ora celebrano augurandole ogni felicità.
Comprende, ma non riesce a trattenersi dall’osservare “Almeno loro sono qui.”
È tagliente e fulmineo come un fendente lo sguardo con cui lei lo trafigge prima di accelerare e lasciarlo nuovamente indietro di un passo.
Sospira, ma non aggiunge altro, limitandosi a seguirla.
Lungo il percorso, a intervalli regolari le uniformi salutano marziali il loro comandante, in ordine sparso altre vesti nere si piegano in inchini più profondi che appropriati, mentre le livree di corte scivolano via operose, invisibile e silenziose. Le prime ricche vesti aristocratiche compaiono solo nella prima anticamera, qualcuna si attarda a conversare lungo la scala in pietra e nella seconda anticamera al piano superiore, ma il crepitare sonoro e indistinto delle voci, che sovrasta la melodia degli archi, anticipa la moltitudine blasonata che affolla la galleria degli specchi.
Sono tutti lì per rendere omaggio al Re e al Delfino. Poco importa che probabilmente si nasconda proprio tra i convenuti chi, negli ultimi mesi, tanto si è speso per diffondere quegli scandalosi libelli, in cui viene messa in dubbio la legittimità di questa discendenza[xxxi]. Ognuno è tornato a recitare la sua parte e a competere nell’impresa di meglio esaltare i sovrani che finalmente hanno fatto il loro dovere, garantendo la continuità della linea di sangue e il futuro della monarchia.
Oscar avanza, lasciando scorrere lo sguardo tra la folla con consumata indifferenza, senza prestare attenzione alle occhiate indiscrete che come sempre la seguono, scrutano, indagano, solo per tornare fugaci a condividere i segreti, che sembrano convinte di avere carpito.
“André, riesci a vedere mia Madre?”
Tutt’intorno è una fitta selva di fogge alla moda, sete finissime, tessuti ricercati, pregiati merletti, e poi ricami, gioielli, oro e bottoni, cappelli e nastri, acconciature gonfie e boccoli incipriati. Nessuno si è certo risparmiato nell’esibirsi al meglio. Curioso è però come un tale sforzo nel primeggiare in apparenza, alla fine produca esattamente l’effetto opposto. Difficile distinguere qualcuno, che non sembri semplicemente parte di una scenografia uniforme, solo l’ennesimo costoso orpello in mezzo a una profusione di fregi, stucchi e specchi.
“Eccola, Oscar… lì, sulla sinistra, accanto alla finestra.”
Parzialmente nascosta da una ninfa dorata, che presidia la sala con la sua cornucopia, dà loro le spalle intenta a conversare, ma sarebbe in grado di riconoscere ovunque il portamento nobile e aggraziato di Madame Marguerite, che certo non dipende da quello che indossa, esattamente come quello della figlia.
Oscar fende la folla per raggiungerla e, appena è abbastanza vicina, si piega in un composto inchino, come ha imparato a fare sin da bambina.
“Madre.” rispettosa, ma, risollevando lo sguardo, quasi si scompone tanta è la sorpresa “… ma… cosa… !”
Voltandosi la Contessa svela l’identità della sua compagnia.
“… Rosalie!”
Il sorriso sempre amabile e garbato di Madame si accende di una scintilla di divertita malizia di fronte all’autentico stupore del Comandante. “Hai visto Oscar!? Solo un futuro Re di Francia poteva riuscire a ricondurre a Corte una suddita tanto caparbia.”
La giovane al suo fianco ricorre al ventaglio per nascondere la risatina importuna che proprio non riesce a contenere.
“Rosalie, ci sei anche tu, ma…”
“Semplicemente in quest’occasione desideravo venire, Madamigella, così l’ho fatto.”
Lo sguardo che Rosalie restituisce è sereno e semplice, come la sua risposta.
“Mi fa molto piacere.” sorride senza aggiungere altro, ancora incredula.
 
È da più di quattro anni, dalla sera del ballo in onore dell’Imperatore d’Austria, che Rosalie non mette piede a corte. Appena rientrata a Palazzo, Oscar l’aveva convocata nelle sue stanze e lei era arrivata subito, ma, nonostante l’ora tarda, non indossava la veste da camera. Si era liberata dei gioielli, del ricco abito e dell’acconciatura ricercata, solo per infilarsi un vestito vecchio e spoglio, troppo logoro anche per essere indossato in casa. La faceva tanto assomigliare a una bambina, alla stessa bambina che quasi avevano dimenticato, comparsa a Palazzo poco più di un anno prima, stanca, disperata e arrabbiata.
“Rosalie, ti prego siedi, ti devo parlare.” aveva cominciato.
“Ditemi Madamigella, vi ascolto.” era rimasta in piedi, seria e impassibile al centro del salon.
Si era mosso per lasciarle sole, ma Oscar lo aveva bloccato.
“Rimani, André.”
Rosalie non aveva battuto ciglio. Sicuramente si era preparata a venire aspramente rimproverata, magari anche punita per il suo comportamento a corte alla presenza dei sovrani, trovandosi di fronte la Contessa di Polignac. Certo non si aspettava le venisse rivelato che quella donna e la sua vera madre erano, dopo tante ricerche, la stessa persona. Nonostante tutto era rimasta ancora immobile, impassibile, limitandosi a sollevare gli occhi da terra per rivolgere a Oscar uno sguardo distante.
“Madamigella…”
“Sì, Rosalie, dimmi…”
“Se non avete più bisogno di me, mi ritirerei.”
Il tono era limpido, ma non lasciava trasparire nulla.
“Certo… vai pure.” non era riuscita ad aggiungere altro.
La voce si era spenta nel silenzio pietrificato, in cui l’avevano guardata scomparire oltre la soglia. Solo dopo aver visto l’anta chiudersi, Oscar si era girata a cercare i suoi occhi.
“Dovevi dirglielo, non potevi rimandare oltre.”
“Sì, certo. Lo so.” con lo sguardo altero e l’intonazione sicura di quando impartiva ordini ai suoi soldati, subito prima di sfuggire e sprofondarsi nel divano.
“Ho sete, versami da bere.”
Aveva riempito generosamente il bicchiere di entrambi e si era seduto accanto a lei, come tante altre sere, senza dire una parola, a guardare la candida mano stringersi e torturarsi intorno alla fragile perfezione del cristallo.
La mattina successiva si erano ritrovati tutti e tre nell’orangerie, immersi nel fulgore di un’altra meravigliosa giornata estiva. Come d’uso, Sandrine li aveva lasciati appena completato il servizio ed erano rimaste solo le piante cariche di frutti acerbi ad assistere alla rappresentazione fatta di familiari frasi di circostanza, stralci di cortese conversazione e persino qualche battuta impertinente, capace di strappare un sorriso o una risata nel tentativo di smuovere l’aria ferma. Nessuno aveva più sfiorato l’argomento che continuava a stagnare come l’aroma stucchevole degli ultimi fiori tardivi. Dalle grandi vetrate spalancate non un refolo a concedere un po’ di ristoro, solo un’inondazione di luce impietosa e la dissonanza incessante del canto degli uccelli e del frinire delle cicale.
Come se niente fosse successo, il fitto programma di lezioni, allenamenti, impegni in società, all’interno della ristretta cerchia selezionata da Madame, aveva ripreso a scandire le giornate di Rosalie. Sembrava dedicarvisi con ancora più dedizione e disciplina, quasi a volersi aggrappare all’apparenza di una consuetudine sempre più gravosa e tesa, fino a che una sera era voluta uscire per una passeggiata a cavallo prima del tramonto, sola, come mai prima. Era accaduto di nuovo dopo qualche giorno, poi ancora, sempre più di frequente, fino a che l’eccezione era diventata una nuova abitudine. Tornava ogni volta più irrequieta e turbata, ogni volta un po’ più tardi. Poi una sera il sole era scomparso oltre l’orizzonte senza che lei fosse ancora rientrata.
 
“E tu, André?” la voce carezzevole di Madame lo richiama dalla sua posizione opportunamente defilata “Non sembri sorpreso quanto Oscar del ritorno a Corte della nostra Rosalie. Te lo aspettavi, dunque?”
“Veramente, Madame…” contraccambia il delicato sorriso, abbassando lo sguardo. “… non posso affermare che me lo aspettassi, ma non direi nemmeno che la cosa mi colga alla sprovvista. Davvero, non saprei cosa rispondere.”
“Veramente?” lo scruta per un attimo, quasi non fosse convinta delle sue parole “Non ti si può dunque più sorprendere? Se tu stesso lo affermi, deve proprio essere così! D’altra parte, dopo tanti anni sarai fin troppo avvezzo ai colpi di testa e alla natura volubile delle donne di questa famiglia.” osserva tra il serio e il faceto.
“Voi credete, Madame? Certo ne sapete più di me, quindi non posso che darvi ragione.” accenna un inchino, stando al gioco.
“Naturalmente,” sorride lanciandogli uno sguardo, che non è certo di come interpretare “anche se non sono sicura, che con questo ti sia stato poi reso un così buon servigio.”
“Ritenete dunque, Madame, che io sia oramai rovinato?”
“Forse…”
“Beh, allora vorrà dire che mi dovrete tenere con voi per forza.” ostentando un’espressione di eccessiva, quanto palesemente finta, rassegnazione.
“Madre, davvero non capisco cosa…” s’intromette Oscar, infastidita da quell’insolito intermezzo teatrale, ma subito interrotta dal sopraggiungere di una voce argentina e flautata, che parrebbe appartenere a una bambina.
“Madame de Jarjayes! Non sapete quale gioia sia rivedervi finalmente a Corte!”
Piccola di statura e di una morbidezza vagamente fanciullesca, sembra veramente possedere ancora tutta l’innocenza dell’infanzia la giovane, che si fa loro incontro con passo leggiadro dal centro della sala, attraversando quel mare di personalità blasonate, che si separa e inchina al suo passaggio.
“Madame… ” la Contessa presenta i suoi rispetti con un’impeccabile riverenza, imitata da Rosalie “mi fate troppo onore, considerato il piacere che è per me rivedere Voi.”
Sorride con occhi scintillanti di gioia sincera e rivolge un cenno di saluto al resto della piccola compagnia, ancora in doverosa attesa “Comandante… ”
“Madame.” anche Oscar s’inchina composta e rispettosa.
L’abito elegante e di finissimo pregio è appropriato per l’occasione, ma lo si potrebbe quasi definire modesto rispetto a tanti altri, se non fosse corredato dal ricco decoro di un volto che palesa il lignaggio e lo stretto legame con il Re. Come il fratello maggiore, Madame Elisabeth non si può certo dire bella, nonostante la freschezza dell’età[xxxii], ma con lui, oltre ai tratti, condivide uno sguardo luminoso e gentile, tanto da renderla irresistibilmente amabile.
“Sono felice di vedervi in salute[xxxiii], Madame, e di poter condividere con Voi la gioia di questo lietissimo evento.” allunga la piccola mano per stringere quella di una buona amica, mettendo in evidenza l’unico gioiello che indossa, un anellino da mignolo “Ditemi, avete già goduto il bene di vedere il Delfino, mio nipote? Non è il bambino più bello di sempre? Oh, credete possa esserci gioia più grande?!”
“è una gioia immensa per tutta la Francia salutare l’arrivo del Delfino, e non posso che darvi ragione, Madame, è un bambino bellissimo.”
Tanto sembra bastare per rendere, se possibile, il suo sorriso ancor più luminoso.
“Oh, lo so, non potrebbe essere altrimenti. L’ho scritto subito anche a Madame Clotilde, sapete? È il bambino più bello e dolce del mondo, non c’è dubbio e quando lo vedrà…” d’un tratto un velo di malinconia sembra rabbuiarle il viso e le dita corrono ad aggrapparsi all’anellino[xxxiv].
Non è un segreto per nessuno quanto Madame Elisabeth sia legata alla sorella maggiore e quanto ancora le manchi. Il distacco, per vederla andare in moglie al Principe di Sardegna, l’ha fatta soffrire immensamente. Un po’ l’ha consolata negli anni sapere che quel matrimonio, arrangiato per interesse politico come sempre accade per una principessa di sangue, si sia rivelato invece estremamente felice, regalando alla sua amata Clotilde quel rifugio familiare, sicuro e accogliente, che, sotto tanti aspetti, le era mancato nella casa natale[xxxv].
Da principio, forse, aveva sperato di ritrovare nell’allora delfina una nuova sorella, ma, che sia per indole o per educazione, la giovane Principessa di Borbone è sempre stata troppo giudiziosa e pacata per condividere la volubile irrequietezza di Maria Antonietta, e, a dispetto dei nove anni in meno, troppo ponderata e salda nei suoi principi anche per lasciarsi momentaneamente sedurre e trasportare dalla leggerezza del suo fascino. Troppo spesso la pacatezza, di quella che appare come una timida bambina, è stata liquidata dalla Regina con la superficiale condiscendenza che si potrebbe riservare a una zia un po’ pedante.
È la Contessa questa volta a farsi avanti per confortarla con una stretta delicata della mano.
“Sono certa che il calore della vostra lettera riuscirà a trasmetterle tutta la gioia di questo momento, benché le circostanze non le consentano di presenziare. Chi meglio di una sorella?”
Il sorriso dolce e comprensivo riesce a dissipare un po’ della malinconia che offusca lo sguardo di Madame Elisabeth.
“Avete ragione, non c’è legame più forte di quello tra sorelle.” ricambia la stretta, tornando a illuminarsi.
“Come madre di sei figlie non posso che confidare nel vostro saggio responso.” replica la Contessa con tono rispettosamente divertito, lanciando di sottecchi un’occhiata alla figlia Comandante.
A lei, come ad André, non deve essere sfuggita l’impercettibile fugace ombra di disappunto balenata nello sguardo di Oscar, che probabilmente non ritiene l’idillio descritto corrispondere esattamente alla sua esperienza con tutte le sue sorelle.
“Ne potete essere certa! Su questo anche la Regina[xxxvi] è assolutamente del mio stesso parere: l’amore di una sorella può competere solo con quello di una madre. Infatti anche Maria Teresa è già irrimediabilmente innamorata di suo fratello.” ribadisce compiaciuta.
“Dite davvero?“
“Certo è ancora una bambina[xxxvii], ma anche in così giovane età si può ben vedere la costanza di un carattere buono e nobile come quello della nostra piccola. La Regina afferma di riconoscere nella nostra Mousseline la Penseuse[xxxviii] il temperamento di sua Madre l’Imperatrice, anche se io certo su questo non posso esprimermi.”
“Il sangue certo non mente.”
“Ve lo posso assicurare, Madame Royale è già affezionata e devota a suo fratello Louis Joseph e sempre lo sarà, come ogni buona sorella.” annuisce per dare maggior forza alle parole “Anche Madame Clotilde certo già lo ama e la renderà felice ricevere il ritratto di nostro Nipote che le ho promesso, appena sarà pronto.”
“Un ritratto è certo il modo migliore per celebrare e conservare memoria di un tale evento.” conviene Madame Marguerite “Credo però che vostra sorella sarebbe ancor più felice di riceverne uno di vostra mano.” azzarda.
“Madame, cosa dite!” arrossisce, abbassando per un attimo lo sguardo “Voi mi lusingate, ma non ho certo le capacità per una simile impresa. Monsieur Leclerc e, naturalmente, Madame Vigeè-Le Brun hanno già ricevuto incarico… io non sono all’altezza…” si schermisce.
“Voi siete troppo modesta, Madame.” la pungola amabile “Ditemi voi se sbaglio, Mademoiselle Grosholtz[xxxix].”
“Naturalmente non sbagliate, Contessa.” Risponde, avanzando di un passo, la giovane un po’ anonima se non fosse per i grandi occhi scuri, che finora è rimasta silenziosamente in disparte, di scorta a Madame Elisabeth “La Principessa è sempre troppo modesta. Posso affermare con certezza che in quest’impresa non sarebbe certo da meno di tanti maestri.”
“Oh, Marie…” sorride e arrossisce ancora di più, lasciando trasparire tutta la familiarità del legame che le unisce “… siete sempre troppo indulgente con me. Come potrò mai migliorare, se non sarete una Maestra più severa?”
“Sarò molto severa, se continuerete a sminuire i vostri talenti.” la rimbrotta scherzosa.
“Vedete? Un talento non può sbagliare a riconoscerne un altro.” sentenzia Madame Marguerite, compiacendosi di riuscire quasi a strappare un’importuna risatina a entrambe le giovani.
“Sapete quale sarebbe veramente una grande idea?” la principessa pare sul punto di lasciarsi travolgere dall’entusiasmo “Se Voi, Marie, realizzaste un ritratto in cera!”
“Oh, Madame, veramente io non so…” ora è la giovane maestra d’arte ad apparire titubante.
“Vi prego, non dite subito di no. Così avrei anche la possibilità d’imparare almeno un po’ da voi quest’arte. Lo desidero da tanto senza che ce ne sia mai occasione.”
“Madame sapete, che non è previsto…” stenta a opporsi Mademoiselle Grosholtz.
“Ah, lo so. Ma ditemi voi, Contessa, lo riterreste così sconveniente?”
“Mia cara, davvero non saprei, certo dovreste chiedere l’avvallo di Vostro Fratello il Re.”
“Naturalmente, ma non avete avuto occasione di ammirare le opere in mostra a Parigi? Sono sicura che un vostro parere positivo sarebbe tenuto in debita considerazione anche da sua Maestà.”
“Mi trovo costretta ad ammettere di non avere avuto l’opportunità di farmi un’opinione in merito. Con gli impegni a Corte prima e per via della mia salute poi, sono anni che non ho il piacere di frequentare Palais Royal. è un vero peccato e certo un’occasione mancata anche per la mia Rosalie, non è vero cara?”
André solleva lo sguardo cercando in Oscar qualcosa che tradisca la stessa sorpresa che lui si sta impegnando a dissimulare.
“Naturalmente zia[xl], ma, come avete detto voi, con la vostra salute…” replica la giovane protetta, con un’espressione compassionevole tanto ben riuscita da apparire come il frutto di un copione già inscenato molte volte.
Tanto basta per far comparire nell’impassibile perfezione del volto di Oscar una lieve increspatura tra le sopracciglia, che però è quasi certo di essere stato l’unico a notare.
“Dimmi Oscar, cara, tu hai avuto il piacere? Tu frequenti Parigi sicuramente più di me.”
“Io…” la domanda della Madre sembra coglierla alla sprovvista “… no, Madre. Mi reco raramente a Palais Royale e solo per dovere. Mi spiace, ma non posso esservi di aiuto.” composta e deferente verso la Madre e la Principessa.
André la osserva, divertito nel vederla accampare la scusa del dovere per svicolare sulla natura decisamente poco aristocratica delle loro visite in città, esattamente come la Madre ha approfittato con disinvoltura della sua millantata salute cagionevole per non approfondire la sua diffidenza rispetto alle mode parigine.
Nonostante la sua lunga esperienza e il suo ruolo alla reggia, Madame non è certo mai stata particolarmente amante delle mode e della mondanità, se non per quello che serve a mantenere buoni rapporti e una rispettabile reputazione in società. È uno dei tanti aspetti su cui si è sempre trovata in perfetta sintonia con suo marito il Generale, e la frequentazione di Palais Royale, la cui dinamica vivacità distilla il meglio come il peggio della vita parigina, è sempre stata considerata con una certa diffidenza a Palazzo.
“… e tu, André? Tu, ne avrai almeno sentito parlare.”
Anche Oscar si gira verso di lui e non c’è proprio niente di trattenuto nell’occhiata che gli rivolge, trovandolo a fissarla in simili circostanze.
“Sì…” si ricompone in fretta, trattenendo una smorfia divertita e importuna “…sì, Madame. Ne ho sentito parlare, naturalmente, e ho anche avuto la fortuna di ammirare i lavori del Dottor Curtius e di Mademoiselle Grosholtz.” e voltandosi verso la giovane “Devo farvi i miei complimenti, Mademoiselle, avete un grande talento. Se mi consentite, il ritratto Rousseau, in particolare, è davvero notevole…” e continua con un sorriso ammirato “… dà l’impressione di poterlo sentir parlare da un momento all’altro. Questa è sicuramente un’arte!”
“Vi ringrazio, Monsieur, ma mi fate troppo onore.”
“E cosa ne pensi, André?” interviene nuovamente la Contessa “Ritieni che una simile arte si addica all’educazione di una Principessa o possa essere considerata sconveniente?”
“Suppongo sconveniente quanto lo può essere mostrare la realtà per ciò che è in ogni dettaglio, senza trucchi o abbellimenti, Madame.” accenna un inchino “Ma chi sono io per giudicare se questo si addica alla formazione di una fanciulla di nobili natali?”
“Vorrà dire che ci dovremo necessariamente fare un’opinione di persona.” lo asseconda “Dimmi, Rosalie, ti farebbe piacere se organizzassimo una visita uno di questi giorni?”
“Se voi lo ritenete opportuno, zia.”
“Bene, allora vedremo di organizzare al più presto e, se Oscar crede di poter fare a meno dei tuoi servigi per un giorno, ci potresti fare da guida, André.”
“Naturalmente, Madame.” un altro deferente inchino, prima di continuare “Ma, perdonate se mi permetto, Mademoiselle Grosholtz, ho saputo che vostro zio sta preparando una mostra del tutto nuova.”
“Veramente, Marie? Non me lo avevate detto.” si sorprende, Madame Elisabeth, incuriosita.
“È vero, Madame, ma non mi pareva cosa di alcun interesse o rilevanza.” minimizza “Siete davvero bene informato, Monsieur, anche se ci vorrà ancora qualche mese prima che sia pronta l’esposizione.”
“Allora noi, nel frattempo, ci accontenteremo di Palais Royale. Vero, Rosalie?”
“Certo, zia.”
“Ma, se potete anticiparci qualcosa, Mademoiselle, sapete già quali illustri personaggi saranno riprodotti in questa nuova esposizione?”
“Veramente, Madame…” tentenna, stranamente imbarazzata “… non credo che illustri sia la definizione più appropriata…” ancora più incerta, riuscendo solo ad alimentare l’interesse.
“Famosi forse?” azzarda Rosalie.
“Famigerati...” interviene André, prendendosi la responsabilità di rinunciare al pudore “… credo sia questa la definizione più calzante. Sbaglio forse, Mademoiselle?”
“No, non sbagliate affatto.” in qualche modo sollevata, senza però concedere nulla alla crescente palpabile curiosità.
“Se mi consentite…” le viene in aiuto.
“Ve ne prego.”
“La nuova mostra sarà intitolata ‘La Ceverne des Grande Voleurs [xli]’ e sarà allestita in Boulevard du Temple[xlii]. Il solo annuncio ha destato molto interesse.” conclude, divertito per l’eccitazione, malamente camuffata da sdegno, comparsa sul volto delle dame più giovani.
Ladri dunque.” si limita a commentare sollevando un sopracciglio Oscar, non altrettanto impressionata.
“Sicuramente se, come si dice, l’arte del Dottor Curtius è tanto eccezionale, sarà un grande successo.” interviene pacatamente Madame Marguerite “D’altronde, è opinione comune che troppa eccitazione non si addica a una fanciulla, che non dovrebbe mai avere motivo d’interessarsi a ladri e malfattori, ma suppongo… dipenda dalla fanciulla! Noi comunque, nel dubbio, per questa volta ci limiteremo ai personaggi illustri. Concordate, Madame?”
“Naturalmente.” replica la Principessa, ricambiando il sorriso dell’amica, ma qualcosa, dal fondo della sala, distrae la sua attenzione.
Lo scattare di un portone, una risata o forse solo il ronzare più intenso del brusio e buona parte dei presenti sciamano verso l’ingresso laterale a sud, quello da cui sono arrivati, poco prima, André e Oscar direttamente dall’ala della Regina. L’assembramento rende difficile distinguere l’oggetto di tanto interesse, ma l’espressione improvvisamente algida di Madame Elisabeth lascia pochi dubbi su chi abbia appena fatto il suo ingresso, a chi la conosce abbastanza.
“È tempo per me di tornare alle Stanze della Regina e rimettermi al servizio del Delfino e di sua Madre.” dichiara di nuovo sorridente, come se nulla fosse accaduto.
“Comprendiamo, Madame.”
Un ultimo cenno del capo, in risposta a riverenze e inchini, e la Principessa scompare con Mademoiselle Grosholtz verso il passaggio finalmente sgombro tra il diradare della folla.
“La carrozza oramai dovrebbe essere pronta.” osserva distrattamente Madame Marguerite distogliendo lo sguardo “Rosalie…” ma ecco altre due dame avvicinarsi, reclamando la sua attenzione.
“Madame de Jarjayes, quale gradita sorpresa!”
“Madame de Frontenac, Madame de Fiesque, che insperato piacere.
“Comandante…”
“Signore…”
Riverenze e inchini a scandire il protocollo.
Carissima, è davvero troppo tempo che non ci concedete il piacere della vostra compagnia.” ingaggia la più corpulenta, facendo frusciare i metri e metri di seta viola del suo ricco abito e agitando il capo quel tanto da far oscillare i vistosi pendenti di diamanti che le adornano le orecchie.
“Mi costringete a dichiararmi colpevole, Madame de Frontenac.” la Contessa vela il sorriso, dispiegando parzialmente il prezioso ventaglio d’avorio, finemente inciso con le iniziali di Maria Antonietta, dono della Regina a una Dama e amica prediletta “Incredibile a dirsi, ma temo siano oramai… oh, cielo, almeno sei anni che non ci è dato il bene d’incontrarci!”
“Davvero!” interviene l’altra, segaligna, ostentando un’espressione di cordoglio e portando la mano al petto, adorno di topazi “Quasi sette, se ben ricordo. Da quando vi siete vista costretta ad abbandonare il seguito di Sua Maestà, vostro malgrado.”
“Dite, Madame de Fiesque? Mi pareva di ricordare che Voi aveste già deciso di ritirarvi dalla vita di Corte qualche mese prima del mio allontanamento, in seguito alla mancata nomina di vostro marito… ma ricorderete certo Voi meglio di me. Sarà la memoria a ingannarmi, alla mia età… “realisticamente non molto dissimile da quella delle altre due.
“Già, la memoria… che strumento prodigioso, a volte gioca brutti scherzi, mentre in altre occasioni ci protegge provvidenzialmente da fatti che sicuramente è meglio dimenticare.” si tende eretta, ancor più contegnosa, stringendo le mani in grembo “Ma in fondo, che importanza potrà mai avere tenere a mente ciò che è dipeso solo dal capriccio e dal caso?”
“Come avete ragione, mia cara amica. Perché mai dovremmo noi darci la pena di ricordare, quando nemmeno chi avrebbe il compito di custodire e garantire la tradizione e il diritto acquisito per nascita e onorato servizio, li tiene più in alcun conto?” sorride con pretesa leggerezza Madame de Frontenac “Se questa è la nuova regola che governa la Corte, non ci rimane che adeguarci.” un’occhiata d’intesa all’amica, prima di dirigere platealmente lo sguardo verso il centro della sala, dove la Duchessa di Polignac è giunta alla guida del suo nutrito seguito, che intrattiene con divertita indulgenza, offrendosi tanto agli sguardi ammirati e complici quanto a quelli invidiosi e mal celatamente astiosi, con la generosità e la sfrontatezza di chi oramai non nutre più alcun dubbio sul proprio potere.
“Inutile rimpiangere i tempi in cui il Tabouret era privilegio riservato solo al più elevato lignaggio.[xliii].” stride inevitabilmente la nota acida, che Madame de Fiesque si sforza di nascondere dietro la più squisita cortesia.
“In vero, a voler ben ricordare, anche allora molte sono le signore che se lo sono guadagnato[xliv]…” insinua divertita la compare “… anche se per i servizi resi al Re e non certo[xlv] alla…”
“Signore, io n…” s’intromette Oscar, con l’irruenza di un granatiere che all’improvviso si abbatta su duellanti intenti a sfidarsi in punta di fioretto.
“Oscar, mia cara!” la stoccata di Madame de Jarjayes la blocca tempestivamente “Saresti così gentile da andare ad assicurarti che stiano preparando la carrozza?” elegante e morbida.
“Ma… Madre…” colta alla sprovvista.
“Mi rendo conto di chiederti molto, ma è stata una lunga giornata e sento veramente il bisogno di ritirarmi al più presto…” e rivolgendosi di nuovo al resto della compagnia “… mi perdonerete, sapete, la mia salute.” sollevando appena di lato la mano che Rosalie si affretta a stringere, come per garantirle il necessario sostegno.
“Ma certo, Madame, come potremmo non comprendere…”
“Naturalmente…”
Replicano premurose le altre due, evidentemente use a interpretare lo stesso copione.
“Ti spiace?”
“No… certo Madre, provvedo subito.” abbassa lo sguardo in un accenno di inchino, per poi risollevarlo a catturare fuggevolmente quello di André nell’abituale tacito accordo.
“Oscar, cara… ”
“Sì, Madre…” sollecita.
“… se non ti è indispensabile, ti chiederei anche di lasciare André qui con noi, in caso io o Rosalie dovessimo avere bisogno di assistenza. Certo comprenderai.” sorride amabile, apparentemente delicata e arrendevole, come sempre.
“Co… come desiderate, Madre.”
André restituisce il dovuto cenno di assenso, fingendo d’ignorare l’occhiata perplessa lanciatagli da Oscar.
“Qualunque cosa Vi possa essere di conforto, Madre.” e con un ultimo inchino si congeda.
André la segue con lo sguardo mentre attraversa la sala fiera e risoluta, come sempre all’apparenza, ma è quasi certo che quelle falcate lunghe e decise siano alimentate più dalla frustrazione per essere stata così autorevolmente richiamata all’ordine, che alla determinazione di portare a termine, suo malgrado, l’improbabile quanto inutile compito affidatole.
“Perdonate, Signore, stavamo dicendo…” approfittando con destrezza della tempestiva interruzione, Madame Marguerite riprende elegantemente il comando della conversazione “… mi pare vi riferiste ai privilegi che è nella totale discrezione dei nostro amati Sovrani accordare, in base alla loro generosità e saggezza, per rimeritare la fedeltà e il doveroso servizio, cui noi tutti siamo vincolati nei loro confronti. Sbaglio forse?”
Un’espressione dolce affiora a illuminarle il volto, mentre le Mesdames sembrano avere qualche problema a dissimulare con altrettanta grazia di aver accusato il garbato affondo.
“Parlate bene Voi Madame…” tenta un sorriso la Fiesque, ma le riesce più un ghigno “… ma quando la Tradizione e il Protocollo vengono sviliti a un… gioco!” non aggiunge altro, limitandosi a puntare di nuovo uno sguardo pieno di altero sdegno sulla signora che domina il centro della sala.
“Un gioco dite…” Madame de Jarjayes corruga lievemente la fronte, meditabonda, come se veramente avesse bisogno di raccogliere i pensieri rivolgendo l’attenzione al medesimo soggetto.
La Duchessa di Polignac si gira, quasi le occhiate affilate della sua detrattrice fossero arrivate a solleticarle la nuca. In lontananza sorride e china appena il capo in segno di riconoscimento e saluto a Madame de Jarjayes, che subito ricambia con misura, serenità e garbo prima di continuare “… non è lecito pensare che, in fondo, sia sempre stato un gioco?”
“Un gioco dite?” replicano in coro, stridenti di perplessità e indignazione.
“In un certo qual modo… come un gioco ha regole cui è necessario attenersi e vi si può prendere parte animati da motivazioni molto diverse.”
“Motivazioni diverse? E quali sarebbero, di grazia!” più per sfida che per sincero interesse.
“Certo noi tutti vi prendiamo parte per dedizione e fedeltà alla Famiglia Reale, c’est les noblesse oblige[xlvi]” una piccola pausa per conferire il giusto peso alle parole “in questo caso sapere di avere adempiuto al proprio dovere è la più grande ricompensa.”
“Naturalmente!”
“Certo, la più alta e l’unica che veramente importi!”
Si affrettano a sottolineare le mesdames, improvvisamente memori del loro antichissimo lignaggio.
“Non si può però negare che alcuni abbiamo perso memoria del loro dovere e, orfani del conforto e della guida dell’onore, si limitino a seguire per consuetudine le regole della buona società. Per questi solo l’approvazione e l’ammirazione degli altri serve a ripagare i loro sforzi anziché la propria buona coscienza.”
André deve ricorrere a tutta la sua forza di volontà per non farsi sfuggire la risatina che sente pungere alla soglia delle labbra di fronte alle teatrali espressioni di disapprovazione comparse sui volti imbellettati delle due nobildonne al pensiero di questi ‘nobili indegni’.
“Certo è una moneta leggera e incostante, ma serve comunque a compensare un animo fragile e conservare l’ordine e la tradizione, fino a che la buona società conserva memoria di quale sia il suo dovere.”
“Madame, a Corte si sente proprio la mancanza del vostro saggio consiglio.” la blandisce Madame de Fiesque, prima che abbia concluso.
“Infine, ci sono quelli che non tengono più in alcun conto né il dovere né la reputazione e competono solo per l’ambizione di un premio.”
“Indegno.”
“Inaccettabile.”
Sentenziano, ma Madame Marguerite pare ignorarle.
“Orbene, forse non sono la persona più adatta a dare consigli, perché senza dubbio siete più esperte di me nell’arte del gioco,” sorride incrociando lo sguardo di Madame de Fiesque, le cui imprese a Faraone[xlvii] e relative disfatte sono da tempo uno dei segreti peggio custoditi di Parigi “ma per il poco che ne so, se quel che interessa è solo la posta in palio, occorre assoggettarsi al capriccio del banco. Sbaglio forse?”
“Dite bene, Madame.” interviene André, visto che le due signore sembrano rimaste a corto di parole “Impossibile vincere e inutile lamentarsi, se non ci si adegua alle regole stabilite da chi tiene il banco, la posta è persa in partenza.”
Se gli sguardi fossero lame, è sicuro che il suo sangue e le sue budella starebbero già imbrattando il prezioso legno ambrato del pavimento.
“Grazie, André. Ero certa di poter contare sul tuo prezioso supporto per queste cose di mondo.” Madame accorre in sua difesa, sorridendo graziosa alle sfidanti “Ma a ben considerare, mie care amiche, che rilevanza può mai avere il premio, se non si apprezza il gioco? Un privilegio, un titolo… non vale più della persona che lo porta, non credete?”
Per un interminabile istante, le signore rimangono in silenzio, forse incerte se tentare un ulteriore assalto.
“Cosa potremmo mai aggiungere, Madame…” temporeggia ancora la Frontenac, facendosi avanti per prima, “… se non ripetere che parlate con grande saggezza.”
“Il vostro giudizio è prezioso, come sempre.”
Chiosano entrambe, evidentemente soddisfatte dell’occasione offerta di rassegnare le armi, conservando però l’onore dei loro antichi titoli conquistati per diritto di sangue e matrimonio, come da tradizione.
Sinceramente ammirato dalla maestria della Contessa, André corre con gli occhi a Rosalie, rimasta per tutto il tempo in silenzio e un po’ arretrata al seguito della sua tutrice, attenta e pronta a intervenire, solo se direttamente interpellata, come si conviene a una signorina bene educata. L’espressione sul giovane volto è serafica e imperturbabile, come sempre, tanto che gli viene da chiedersi se in quell’apparenza da bambola si sia resa conto della portata del duello appena tenutosi.
Sta quasi per distogliere lo sguardo quando carpisce un guizzo: solo una lieve increspatura delle labbra e una scintilla di compiacimento negli occhi sfuggono alla compostezza, lasciandogli intendere che la competenza della Contessa nel conquistare la vittoria su terreni tanto insidiosi non sia certo una novità per la piccola Rosalie.
Per la prima volta è lui a trovarsi a considerare tutte le colazioni, le cene, i ricevimenti in selezionatissimi salotti, cui la giovane è stata diligentemente accompagnata in quegli anni, alla stregua delle interminabili sessioni di allenamento impartite dal Generale a Oscar, le serate chiuse nelle stanze della Contessa a perfezionare l’arte della conversazione come lezioni di strategia militare. Con una disciplina che nulla ha da invidiare a quella del Marito, e la stessa dedizione riservata in passato alle sorelle di Oscar, la Contessa ha preparato la sua giovane protetta per un campo di battaglia forse meno evidentemente cruento, ma certo non meno irto d’insidie per la reputazione e il successo di una fanciulla. Un po’ lo fa sorridere il pensiero di quanto maldestra si sia dimostrata la sua sempre elegantissima Oscar in quella circostanza, ma la spensieratezza non fa in tempo ad arrivare alle labbra, spazzata via da un fiotto di malinconica amarezza.
“Perdonate,” riprende la Frontenac, evidentemente non intenzionata ad abbandonare comunque il campo “sbaglio o un attimo fa era Madame Elisabeth a farvi l’onore della sua compagnia?”
“Affatto. La Principessa è stata così generosa da venirci a salutare ed intrattenersi con noi per un’amabile conversazione. Un’esperienza deliziosa, vero Rosalie, mia cara?”
“Davvero, zia, e sicuramente un grande onore. Ma più ancora, la Principessa è così dolce e gentile che non si può fare a meno di amarla al primo sguardo.”
Il portamento fiero ma aggraziato, un sorriso appena accennato, lo sguardo diretto abbastanza da accompagnare degnamente le prevedibili parole, ma non tanto da risultare sfrontato, solo per poi tornare ad abbassarsi timidamente. A decoro del tutto affiora anche un lieve rossore, la perfezione che ci si attende da una signorina bene educata. È innegabile che Rosalie abbia fatto enormi progressi dalla sua ultima visita a Corte, tanto da non apparire quasi come la stessa persona.
“Madame! Le nostre comuni amiche a Parigi ci avevano già decantato le grazie e i talenti di vostra nipote, ma devo dire che le parole non bastano a renderle giustizia. È veramente adorabile, vi devo fare i miei complimenti.”
“Così graziosa e bene educata, e con tanto garbo e misura nelle parole. Ma come potrebbe essere altrimenti con una Maestra come Voi.”
“Mi riconoscete meriti non miei, Signore. Le lodi vanno tutte e solo a Rosalie.”
“Zia cara, siete sempre troppo buona con me.” di nuovo un umile sorriso e un adeguatissimo pudore a imporporare le gote.
“Davvero deliziosa…” cinguetta Madame de Frontenac “… e dite, piccola cara[xlviii], siete felice dell’occasione di presenziare a Corte?”
“è un onore e una gioia che non so descrivere a parole, più che un dovere, tanto più in occasione una così fausta circostanza.” declama sotto lo sguardo vigile e compiaciuto di Madame.
“Dite bene, cara, è la più grande gioia per tutti noi che il futuro della Francia sia stato finalmente benedetto dalla nascita del Delfino,” anche Madame de Fiesque si adegua, dando il suo contributo alla sequela di frasi di circostanza, ma ancora con qualche intento bellicoso “… specialmente dopo una così lunga attesa!”
“Non è in nostro potere affrettare ciò che dipende solo da Dio.” interviene Madame, non intenzionata a lasciare spazio a ben note malignità “La Francia è stata benedetta dalla nascita del Delfino e noi possiamo solo gioirne.”
“Com’è naturale.” la asseconda la Frontenac, stranamente arrendevole dopo un simile rimbrotto “Noi tutti ne siamo sommamente lieti e siamo qui oggi per rendere il dovuto omaggio al Delfino e al Re.” una brevissima pausa, che riesce solo a rendere più evidente l’assente tra i destinatari di tanta devozione, ma subito continua con più leggerezza “…anche se credo la nostra grande gioia sia ben poca cosa a confronto di quella che deve colmare il cuore di Madame Elisabeth. Sbaglio forse, Madame?” Sorride invitante, come a voler condurre la Contessa su un terreno apparentemente più confortevole per tutte.
“Non sbagliate affatto. Credo di non averla mai vista più felice, neanche in occasione della nascita di Madame Royale, che pure è tanto cara al suo cuore. Si è infatti trattenuta solo per poco, per tornare in tutta fretta a mettersi a disposizione del Delfino e di sua Madre, la Regina.” contraccambia il sorriso.
“Certo, non potrebbe essere altrimenti…” ossequiosa “anche se…” s’interrompe bruscamente, come se un pensiero la cogliesse alla sprovvista.
“Cosa, amica cara?” pronta la sua spalla.
“Oh, nulla d’importante, davvero…” minimizza “… se non fosse assurdo anche solo pensarlo, si potrebbe trovate curioso che Madame si sia allontanata in tutta fretta proprio nel momento in cui è arrivata la Duchessa di Polignac.” con tutta la pretesa innocenza di cui è capace.
“Una semplice coincidenza.” taglia cortesemente corto Madame.
“Naturalmente sarà così. Notavo solo quanto sia singolare che il caso sembri sempre condurre la Principessa il più lontano possibile da questa Signora. È quasi impossibile incontrarle nel medesimo luogo… si potrebbe tranquillamente supporre siano anni che Madame Elisabeth non trova occasione di rivolgerle un cenno di saluto. Non lo trovate sorprendente?” ma il suo tono insinuante lascia intendere tutto tranne la sorpresa.
“Oh, mie care Signore…” replica divertita la Contessa, cogliendola alla sprovvista “se così fosse, cosa mai si potrebbe dire di noi?”
“Di noi?” le fa eco la Fiesque, incauta.
“Certo! Nonostante frequentiamo abitualmente la buona società di Parigi, sono anni che non abbiamo occasione d’incontrarci e rivolgerci un saluto. Suggerite, dunque, che si dovrebbe supporre ci sia stata dell’intenzione nell’evitarci? Che solo le circostanze ci abbiamo costrette qui oggi a rivolgerci la parola, nostro malgrado?” ostentando la finzione di un’espressione corrucciata.
“Ma… Madame, cosa dite… certo che no!” con un diletto degno del palco de La Comedie Francaise.
“Chi mai potrebbe credere a una cosa simile?!” stupore da Operà.
Corrono ai ripari entrambe, arricchendo l’interpretazione di una risatina arginata da un vezzoso gesto della mano, appena troppo affettato.
“Certo nessuno.” le rassicura la Contessa “…ma come ben sapete, è sempre meglio essere cauti nel dare voce alle supposizioni. C’è sempre il rischio che labbra meno nobili e con minor giudizio ne facciano odiosi pettegolezzi.”
“Per carità, non sia mai!”
“Dio non voglia!” la Frontenac con una venatura di sdegno, neanche l’insinuazione fosse stata avanzata da qualcun altro “Non possiamo che concordare con Voi. Si tratta ovviamente di una casualità, imputabile al fatto che la Principessa è semplicemente troppo riservata e giudiziosa per intrattenersi in frivolezze tanto popolari tra altre signore qui a Corte. Il fatto può apparire curioso a un osservatore superficiale, ma non certo a chi, come noi, conosce bene i suoi meriti e la sua devozione alla Famiglia.”
“Dite bene.” si limita a chiosare la Contessa, ma Madame de Fiesque non sembra necessitare di ulteriori spunti per insistere.
“Tanto devota da rifiutare l’occasione di diventare Imperatrice[xlix]… certo una disposizione d’animo più unica che rara!” butta lì e incrocia lo sguardo di Madame de Jarjayes, che ricambia impassibile senza proferire verbo “Madame Cotilde non si è opposta a un’unione certo meno vantaggiosa e dubito che neanche le Mesdames, a loro tempo, avrebbero ardito declinare una simile proposta.”
“… ma noi non possiamo saperlo per certo.” interviene la Frontenac con maggior giudizio nell’interpretare l’ostinato silenzio di Madame Marguerite “Noi possiamo solo ammirare e prendere a esempio la modestia dimostrata dalla Principessa, la sua vocazione a sacrificarsi per rimanere al servizio della Famiglia Reale e di suo fratello, il Re” sorride conciliante, ma non riesce proprio a trattenersi dall’aggiungere “… tanto più considerando che c’è chi invece non si fa alcuno scrupolo pur di conquistare un titolo e un patrimonio.” e torna a bersagliare il centro della sala, traboccante di supponente sdegno come la sua aristocratica compare.
Non particolarmente interessato al solito spettacolo offerto dalla Polignac e dalla sua corte, André approfitta dell’intervallo e della posizione defilata per soffermarsi a osservare Madame Marguerite che si guarda intorno con pretesa indifferenza. Le membra flessuose e il volto disteso, occhi come un cielo terso e quelle labbra appena arcuate nell’idea di un delicato sorriso, Madame ha sempre avuto il dono d’infondere calma al primo sguardo. Senza alcun apparente sforzo, riesce a trasmettere la rassicurante sensazione che non possa accadere nulla di tanto grave da scomporre o anche solo sfiorare tanta amabile eleganza, al riparo della quale parrebbe aver trovato quel riparo, in cui Oscar cerca inutilmente di rifugiarsi, arroccandosi nella pretesa del suo algido distacco.
Sicuro dell’invisibilità concessa a un umile attendente, lascia correre lo sguardo fino alle mani adagiate tra le morbide pieghe dell’abito, lievi e appena conserte come in preghiera per custodire il prezioso ventaglio.
“Nessun ritegno, neanche a sacrificare l’innocenza del proprio stesso sangue!” stride insistente la Fiesque e le stecche d’avorio scricchiolano nella stretta improvvisa di quelle dita lunghe e nervose, dita da pianista, le stesse di Oscar.
André deve mordersi le labbra per dissimulare il piacere di una simile sorpresa. Solleva veloce lo sguardo, ansioso di cogliere qualche altro dettaglio sfuggito a quel capolavoro di compostezza, ma niente nell’espressione o nel contegno di Madame tradisce la stessa irritazione, nessuna di quelle minuzie, invisibili a chiunque altro, che però sfuggono ogni volta al marziale controllo della figlia. La linea del lungo collo, la curva delicata della mascella e il rilievo lieve delle narici non tradiscono la stessa tensione, benché ritrovi in ogni tratto la sua Oscar, perché nessuna delle figlie della Contessa ha ereditato la bellezza e la grazia della Madre con più generosità di quella destinata dal Padre a diventare il suo erede. Si è sempre chiesto come sia possibile che nessuno, a parte lui, sembri rendersene conto, come se un’uniforme potesse bastare a non riconoscere una goccia della stessa acqua. Lo stesso mare, che si agita tempestoso in Oscar, è fluido e luminoso in Madame Marguerite, tanto placido e calmo da far naufragare inesorabilmente ogni volta persino l’indomabile irruenza del Generale.
“Ma guardate, le bambole della regina[l] oggi sembrano scintillare di delizia!” l’ennesimo strale diretto questa volta alle fanciulle, poco più che due bambine, che scortano la Duchessa di Polignac, attirando non meno attenzione e non solo per la ricercatezza dei loro abiti o la ricchezza dei loro gioielli “Curioso… sembrano non provare poi tanta nostalgia dei diletti privati del loro piccolo castello dei balocchi[li], ora che gli è precluso.”
“La gioventù è volubile, ma sappiamo bene chi certo non si starà risparmiando per intrattenerle. Monsieur[lii] è ben esperto in questo genere di divertimenti.” la mano della Frontenac si solleva a velare un sorrisetto maligno, sicuramente più per vezzo che per pudore.
“Monsieur però non è qui…” obietta la Fiesque.
“Oh, certo non sarà lontano. Monsieur de Polastron è stato provvidenzialmente trattenuto a Parigi per impegni inderogabili.”
“Certo il Visconte sa bene[liii] come amministrare i propri beni a suo vantaggio.”
“Il sangue non è acqua...” la mezza occhiata della Frontenac sembra voler sfidare apertamente Madame a fermare quel fuoco di fila, senza però sortire alcun effetto “… anche se solo per metà[liv]. Si può dire lo stesso della sua giovane Signora, un simile talento non si può improvvisare e lei mette a buon frutto la sua eredità[lv]. Avete ammirato i rubini che indossa oggi Madame de Polastron?”
“Come non notarli, spiccano meravigliosamente sul candore del suo incarnato. La rendono ancor più pallida e languida.”
“Contribuiscono a far risaltare i risultati della sua dedizione ai salassi[lvi].” inevitabilmente acida “Con un simile regalo Monsieur[lvii] l’avrà voluta rimeritare per ogni stilla di sangue versata per compiacerlo, adora l’apparenza di tanta innocente voluttà.”
“Alla fine la civetteria ammantata di fragilità lo ha affascinato più del fresco fiore dell’innocenza.”
“Forse… certo anche la ragione lo avrà indotto a considerare che un giovane Duca non si sarebbe mostrato accomodante quanto un Visconte[lviii] nel cedere ad altri l’innocenza del proprio fiore.”
André corre istintivamente con lo sguardo a Rosalie. Nonostante la sua età ed esperienza a Corte, lui stesso fatica a nascondere l’insofferenza per simili discorsi, ma su quel volto non è comparsa neanche l’ombra di un lieve rossore. Quasi fosse plasmata nella porcellana, con lo stesso immutabile timido sorriso, Rosalie si guarda svagatamente intorno come se quelle sudice parole per lei non avessero alcun significato. Sarebbe disposto a credere all’illusione, se si trattasse di una delle giovani aristocratiche allevate in convento per essere consegnate illibate ed ignare al marito, ma sa fin troppo bene che una ragazza cresciuta in miseria per le strade di Parigi non può non comprendere di quale commercio stiano parlando. Vorrebbe dire qualcosa, farle smettere, ma non c’è niente che possa fare.
“Perdonate, Signore,…” fortunatamente è Madame a intervenire “ sono desolata, ma ora proprio ci vediamo costrette ad abbandonarvi.”
“Madame, ve ne preghiamo, concedeteci ancora per un poco il piacere della vostra compagnia.” la invita la Frontenac, ma qualcosa nel tono rende evidente che sono solo parole.
“Non sapete quanto mi farebbe piacere…” altre vuote parole “… ma la nostra carrozza è pronta e proprio non ci possiamo trattenere oltre.” sorride cortese all’espressione un po’ piccata delle altre due, limitandosi a sollevare graziosamente la mano a indicare vagamente qualcosa all’altro lato del salone “Stanno già venendoci a chiamare.”
Anche ad André serve un attimo per riuscire a identificare, oltre la folla disordinata, l’elegante figura di Oscar, che, senza alcuna fretta, sta tornando da loro.
“Confidiamo di rincontrarci al più presto.” asserisce la Frontenac.
“Certo non mancherà occasione.” sorride rassicurante Madame.
“Avremo il piacere di rivedere anche voi, Mademoiselle de Laborde[lix].”
“Magari in occasione di qualche fausto annuncio, che certo non mancherà di arrivare.[lx]” aggiunge cinguettando la Fiesque.
Altri convenevoli, ossequiosi augurii, muti e vezzosi sorrisi, riverenze e inchini per adempiere alla cerimonia di commiato e subito si avviano per andare incontro a Oscar, lasciando le Mesdames a presidiare la loro postazione di vedetta tra una ninfa dorata e una grande finestra a cornice del panorama dei giardini imporporati dal tramonto. Avanzando tra il folto dei convenuti, al seguito di Madame e Rosalie, André ha come l’impressione di avvertire le loro occhiate maligne punzecchiargli la schiena.
“Madre…” s’inchina Oscar, fermandosi appena la raggiungono al centro della sala “la carrozza non è ancora pronta, c’è molto traffico nel piazzale in questo momento. Appena disponibile ci avvertiranno, stavo giusto venendo ad informarvi, non era necessario che vi affrettaste.”
“Grazie, Oscar, per la tua premura,” sorride garbata come sempre, ma c’è una dolcezza ben diversa nello sguardo che rivolge alla figlia “… non fartene un cruccio, avevamo concluso la nostra conversazione con le Signore.” si gira appena e flette il capo in cenno di saluto, certa com’è di ritrovarle allo stesso posto con lo sguardo ancora fisso su di loro “Non è vero, Rosalie?”
“Sì, Zia.” imitandola graziosamente nel ricambiare il saluto in lontananza, una piccola pausa e aggiunge “Certo è un vero peccato.”.
“Cosa, cara?” aggrottando impercettibilmente le sopracciglia.
“Che dopo questa fortunata circostanza, non avremo più occasione di godere del piacere della loro compagnia per molto tempo.” sospira, come rassegnata all’ineluttabilità degli eventi.
Ad André sembra di cogliere un impeto di divertita malizia nella fugace contrazione della bocca di Madame, ma è tanto veloce da farlo persino dubitare di averla vista veramente.
“Ah,” sospira “credo tu abbia ragione, mia cara, non le rivedremo per molto tempo, forse per anni.” si fa seria “Sono così poche le cose in nostro potere e non possiamo che assoggettarci ai capricci della sorte.” conclude solenne.
Questa volta è certo di aver carpito quel mezzo sorriso, anche se elegantemente nascosto dietro le falde del ventaglio. Non potrebbe addurre alcuna prova, ma sarebbe disposto a scommettere la sua anima immortale che i capricci della sorte abbiano avuto ben poco a che fare con la mancata frequentazione della Fiesque e della Frontenac negli ultimi sette anni, o che, nel caso, la sorte abbia avuto la creanza di attenersi puntualmente ai desideri della Contessa.
Per un lunghissimo istante Madame rimane in silenzio, lasciando scivolare lo sguardo sul panorama offerto dalla sala tutto intorno, via via più pensierosa.
“È curioso…” osserva a mezza voce, quasi tra sé e sé, poi sorridendo scrolla appena il capo “…è curioso come qualcosa di tanto familiare possa all’improvviso apparire estraneo, pur rimanendo esattamente lo stesso…”
“Madre...” perplessa.
“Oh, perdonami, Oscar. Non dare troppo peso alle mie parole.” rassicurante “È troppo tempo che non frequento la Corte ed è stata una lunga giornata, deve essere la stanchezza a farmi dire cose senza senso.”
“Non…” s’intromette Rosalie, arrossendo vistosamente, questa volta, di fronte ai loro sguardi sorpresi. Deve schiarirsi la voce per racimolare coraggio e riprendere “Io credo… credo di capire cosa intendete, Zia.”
“Dici davvero, cara?” la incoraggia.
“È come… credo sia come quando si osserva un grande quadro: può affascinarci da lontano, senza sapere il perché, ma è necessario avvicinarsi molto per capire come sia fatto, per riconoscere le pennellate, perderci nello studiarne i dettagli. Per avere la visione d’insieme, però, occorre allontanarsi di nuovo, e può capitare che non ci piaccia più quanto la prima volta, perché oramai ne conosciamo i pregi, ma anche tutti i difetti.” conclude eloquente, solo per poi arrossire di nuovo e balbettare “O almeno… almeno credo.”
“Rosalie!” esclama Madame, facendola sobbalzare “Piccola cara, davvero mi lasci senza parole…” ma non è certo un rimprovero quello che intende rivolgerle. È ammirazione, forse anche orgoglio, a illuminarle il viso mentre la fissa come se la vedesse veramente per la prima volta “… non avrei saputo esprimermi in modo più appropriato!”
L’apprezzamento non sembra però bastare a farle riprendere coraggio e Madame deve allungare la mano per sollevarle delicatamente il mento.
“Ecco, così…” riuscendo finalmente a catturare i suoi occhi “mai abbassare lo sguardo e tradire incertezze.” quasi sottovoce, poi riprendendo il tono consueto “Dico bene, Oscar?”
“Benissimo, Madre, come sempre.”
C’è una complicità singolare nello sguardo che si scambiano al di là delle parole.
“La nostra Rosalie è diventata una vera Signorina, impeccabile nei modi e nella conversazione, tanto da figurare al meglio anche qui a Corte.”
“Era ciò in cui confidavo, Madre, e di cui non ho mai dubitato in questi anni.”
“Io… io…” di nuovo quel sincero imbarazzo che le fa abbassare lo sguardo.
“Ah ah, Rosalie… ” un tenero rimbrotto, che la costringe a mantenere il giusto contegno “la modestia è sempre una virtù, mentre l’incertezza… è un peccato mortale!” ammicca “Ho ragione, André?”
“Assolutamente, Madame, specialmente qui a Corte…” e, sentendosi forse un po’ troppo coraggioso, continua con fare cospiratorio “… la fiutano, come fiere la preda.”
“André!” esclama Oscar, per niente divertita.
“Oh, che impudente!” lo ammonisce scherzosamente la Contessa puntandogli contro il ventaglio, mentre Rosalie solleva graziosa una mano per nascondere una risatina.
È un momento d’intimità singolare, tanto più in quel luogo, ma troppo esposto perché subito qualcuno non arrivi a interromperlo.
“Madame de Jarjayes, mi concedete l’onore di porgervi i miei omaggi?”
“Monsieur, è mio l’onore.” replica all’inchino con una riverenza ancor più profonda.
“Comandante… Mademoiselle…” impeccabile il giovane Duca nel premurarsi di rivolgere un cenno di saluto a chiunque meriti la sua attenzione.
Antoine VIII Louis-Marie di Gramont, Duca de Guiche[lxi], si destreggia a corte con la disinvoltura che ci si attende da un Pari di Francia. Indiscutibilmente bello, ha il dono di affascinare tanto le donne quanto gli uomini, forse per un che di impalpabilmente femmineo, anche se non ci si può certo ingannare sul suo sesso. Alto ed elegante, ispira naturalmente rispetto, anche se la deferenza che gli viene tributata è imputabile, più che al portamento, al titolo, concessogli in uso dal Re da appena un paio d’anni, che pone un giovane uomo della stesa età di André ai vertici della gerarchia sociale, dentro e fuori da quella sala. Certo i gradi sulla giubba grigio argento della sua uniforme sono solo quelli di un Colonnello in seconda del Reggimento di fanteria della Regina, ma nessuno dubita che ben presto gli verrà concesso di elevarsi anche nella carriera militare, recuperando il divario che ancora, come ufficiale, lo sottometterebbe a Oscar per aver cominciato la sua carriera due anni più tardi e per non aver beneficiato delle particolari simpatie di Maria Antonietta.
“Mi spiace interrompere quella che appare come una gradevolissima conversazione, ma desideravo approfittare della tanto rara quanto fortunata occasione di trovarvi a Corte per presentarvi finalmente mia Moglie, Charlotte Louise Françoise Gabrielle Gramont, Duchessa de Guiche.” Si china leggermente, porgendo il braccio e la mano aperta alla graziosa dama al suo fianco, che avanza di un passo.
“Madame, sono veramente felice di rivedervi a Corte.” per prima la Duchessa, che poco più di un anno fa avrebbe dovuto attendere di essere interpellata per rivolgere la parola alla Contessa de Jarjayes.
“Madame, è un piacere e un onore.” Madame Marguerite replica, affondando in una profondissima riverenza.
I grandi occhi, così simili a quelli della madre, come due viole umide[lxii], sono sempre gli stessi, l’incarnato luminoso e roseo ha ancora tutta la freschezza dell’infanzia, mentre l’altezza e la figura flessuosa sono quelle di chi si appresta a fiorire in una giovane donna. Il seno in boccio affiora dalla profonda scollatura, l’avorio cangiante della seta fascia la vita sottile per poi schiudersi in un’opulenta corolla, che si allarga fino a terra. La giovane Duchessa de Guiche risplende nella sala come i fiori di diamanti che le adornano i capelli e il lungo collo, offuscando l’immagine della piccola Charlotte come un diamante può offuscare il fuoco: il diamante, per quanto luminoso, è semplice riflesso, mentre il fuoco era vivo[lxiii].
“Ci è molto dispiaciuto che non abbiate potuto presenziare alle nostre nozze qui a Versailles.”
“È stato un grande dispiacere anche per me non poter prendere parte alla vostra felicità. Purtroppo la salute, come sapete, me lo ha impedito.”
Annuisce solennemente, quella che non è più la piccola Charlotte.
La Contessa de Jarjayes è certo una delle poche, se non la sola componente dell’aristocrazia francese ammessa a Corte, con l’eccezione di infanti, infermi e impegnati in territorio di guerra, a non aver partecipato alle grandiose nozze dell’estremamente ambito Duca de Guiche con la figlia dell’amica prediletta di sua Maestà la Regina. In virtù di tale legame, la celebrazione si era tenuta in via del tutto eccezionale a Versailles, con una solennità e uno sfarzo degni di un matrimonio regale, ufficializzando, oltre al legame tra due antiche linee di sangue, l’apice dell’ascesa di Madame de Polignac.
“Mi è stato riportato che si sia trattato di una cerimonia e una celebrazione magnifica, e che anche la vostra presentazione a Corte non sia stata certo da meno.”
“Oh, davvero! È stata un’esperienza che non potrò mai dimenticare.” cinguetta Madame de Guiche compiaciuta e vezzosa “E siete anche venuta a sapere che la Regina per l’occasione ha concesso a Maman, Madame de Polignac e a me l’immenso onore di essere ospitate nel suo padiglione al Petiti Trianon?” tradendo l’eccesso di entusiasmo di una bambina eccitata per il dono di una meravigliosa casa delle bambole.
“Grazie all’amicizia e alla generosità della nostra Sovrana, il debutto della mia adorabile Signora è stato un successo senza eguali.” interviene il giovane Duca, gonfio di orgoglio “Credo di poter tranquillamente affermare di essere il più fortunato degli uomini e uno più invidiati del regno per il dono di possedere un simile gioiello.” chinandosi per sfiorare con le labbra la piccola candida mano della sua moglie bambina.
“Non posso che cogliere l’occasione per augurarvi ogni felicità.”
“Vi ringraziamo, Madame, e siamo felici di rivedervi finalmente in salute.”
“Certo non potevo mancare di rendere omaggio ai sovrani in occasione della nascita del Delfino.”
“Certo che no.” conviene Monsieur “Come tutti noi, d’altra parte.”
“Speriamo dunque che in futuro per un battesimo ci vorrete fare l’onore della vostra presenza. Certo se sarà un maschio, si terrà a Versailles!” Madame de Guiche, una bambina eccitata all’idea di una nuova grandiosa festa.
“Madame, voi…” stenta la Contessa, sforzandosi di dissimulare un certo disagio nella sorpresa.
“Oh, non ancora, ma sono certa presto. Non può essere altrimenti!” con l’adamantina sicurezza che solo la mancanza di esperienza può instillare.
“Oh, mia cara, forse…” cerca di trattenerla il giovane marito.
“Madame, vi auguro di tutto cuore di realizzare ogni vostro desiderio.” ma c’è un che di malinconico nella voce e soprattutto nello sguardo di Madame de Jarjayes.
“Vi ringrazio.” sorride di delizia “Confido ci sarà occasione di rivederci al più presto, Madame, e anche voi, Mademoiselle…” punta oltre la spalla destra della Contessa dritto su Rosalie, rimasta finora debitamente silenziosa e in disparte. Madame de Guiche aggrotta appena la fronte, come nel tentativo di richiamare qualcosa che le sfugge, ma certo il suo talento di attrice non eguaglia quello nell’essere graziosa ed evanescente “Madamoiselle de… Laborde, se non sbaglio…”
“Madame,…” Rosalie affonda a sua volta in una riverenza impeccabile “… ricordate perfettamente.” e solleva lo sguardo per guardarla dritta negli occhi, ma non c’è astio né sfida.
“Conoscete mia nipote, Madame?” interviene pretendendo ignoranza la Contessa, che ben conosce i loro trascorsi.
Annuisce solennemente, quella che un tempo era la piccola Charlotte de Polignac, prima di continuare altera “Mio caro, permettimi di presentarti, Mademoiselle Rosalie de Laborde, nipote e protetta di Madame de Jarjayes.”
“Mademoiselle, è un piacere fare la vostra conoscenza.”
“Monsieur, è un onore.” composta e appropriata.
“Io e Mademoiselle de Laborde, ci siamo conosciute qualche anno fa…” ancora come fingendo di riafferrare un ricordo lontano, poi all’improvviso si porta la mano alle labbra e sorride vezzosa al marito “… oh, mi pare di rammentare che finimmo col bisticciare dando spettacolo in pubblico. Pensate!”
Il Duca pare compiacersi del diletto della sua bambina “Dite davvero? Non vi credo!” asseconda il gioco.
“Purtroppo mi vedo costretta a confermare questo fatto increscioso.” misurata Rosalie “Colgo l’occasione per scusarmi, non avrei dovuto mostrare tanto poco giudizio.” seria.
“Oh, non c’è ragione di scusarsene, Mademoiselle,” garrula, la giovane Duchessa “e non fatevene certo un cruccio. In fondo allora eravamo solo due bambine” si potrebbe certo dire che almeno una lo sia ancora “E io oramai sono una donna sposata!”
Rosalie la fissa per un attimo con quelle due identiche viole umide prima di rispondere “Madame, vi ringrazio per la comprensione.” con il garbato distacco che si riserva a una sconosciuta.
“Perdonate… Madame de Jarjayes…” li coglie alla sprovvista come se sbucasse dal nulla un lacchè racchiuso nella livrea bianca, rossa e blu di corte “… la vostra carrozza vi attende.”
 
Oscar alla destra della Madre, Rosalie appena arretrata di un passo e André di scorta seguono in un silenzio composto la loro guida oltre le anticamere e giù per la scala, fino alla terza vetrata della galleria sud, che si affaccia sulla Court Royale nel punto esatto in cui si è fermata la carrozza recante lo stemma dei de Jarjayes. Oltre il vetro Joseph, il cocchiere, strettamente avvolto nel suo mantello e con il tricorno ben calcato in testa, sta facendo un ultimo controllo ai finimenti dei cavalli prima di montare in cassetta, mentre Jules, l’ultimo giovanissimo lacchè assunto a Palazzo, sistema le coperte e aggiunge qualche carbone al piccolo braciere all’interno della cabina. Il cielo non è ancora scuro, ma il sole è ormai scomparso, conferendo all’orizzonte il colore del peltro e irrigidendo l’aria, che si addensa in piccole candide nubi alle froge dei cavalli. Clodine li attende all’interno, accanto all’uscita, armata di guanti, mantelli e manicotti bordati di pelliccia, ordinatamente sistemati su un piccolo tavolo.
“Buonasera, Contessa…” s’inchina prontamente andando incontro alla padrona “se mi consentite di assistervi…”
“Grazie, Clodine.” Madame, apre leggermente le braccia e solleva il mento per facilitarle il compito.
Costretta dall’attesa, Oscar finalmente sembra trovare il coraggio di parlare.
“Rosalie…” le si accosta.
“Si? Ditemi, Madamigella” voltandosi come in attesa di ordini.
“Come… come ti senti?” incerta su un argomento poco confortevole.
“Benissimo!” un po’ sorpresa, come se non capisse il senso della domanda “Forse anche io un po’ stanca dopo una giornata così lunga, ma niente che un po’ di riposo non possa risolvere.” sorride, come se veramente fosse una giornata come tante altre.
Oscar sembra spiazzata e per un attimo la osserva, prima di proseguire “Bene…” inspira profondamente, portando le mani dietro la schiena e André non riesce a evitare di pensare quanto quel gesto gli ricordi il Generale “… devo farti i miei sinceri complimenti, sono veramente orgogliosa dei tuoi risultati e di come ti sei comportata oggi, soprattutto viste le circostanze. Non posso nascondere che sia esattamente quello in cui speravo quando sei arrivata a Palazzo, che con la maturità un giorno avresti capito che non ha senso…”
“Vi riferite forse alla Cont… no, scusate, alla Duchessa di Polignac?... Magari a Charlotte?...” la interrompe come mai era accaduto prima, ma non c’è astio, né tensione, né risentimento nella sua voce. Non c’è nulla esattamente come nel suo sguardo, mentre la fissa senza esitazione.
“Beh… sì… ora che sai chi sia…” cerca di riprendere, ma subito la interrompe nuovamente.
“Ve l’ho già detto, Madamigella. Ve l’ho detto quella notte, Madame de Polignac e Charlotte non sono nessuno per me.” la stessa intonazione, lo stesso sguardo impassibile di quella notte.
L’avevano cercata a lungo, quella notte. Dopo essersi resi conto che non era tornata, avevano percorso in lungo e in largo a cavallo le strade e i sentieri intorno a Palazzo, allontanandosi sempre di più. Poi, chissà come l’avevano trovata. Lungo la strada che conduce alla reggia avevano sentito un grido e poi lamenti, suppliche, una voce di donna. L’avevano trovata così, oltre la boscaglia in mezzo a una radura illuminata solo dalle stelle e dalla flebile luce delle lanterne montate sulla carrozza dei Polignac. Il cocchiere era svenuto cadendo da cassetta, probabilmente quando i cavalli avevano trascinato la carrozza fuori strada. Madame era in ginocchio in mezzo all’erba alta, in lacrime chiedeva pietà al più esile dei briganti, che con il volto coperto da un fazzoletto sembrava tentennare nell’abbattere sulla sua vittima la spada che teneva sguainata sopra la testa.
“Rosalie!” aveva gridato Oscar riuscendo a spazzare via l’ultimo scampolo di rabbia e lasciando in lei solo la paura e la disperazione che trasparivano dallo sguardo smarrito con cui l’aveva fissata girandosi e lasciando cadere la spada.
“Madamigella, io…” aveva tentato, fermandosi subito per non lasciar traboccare le lacrime.
“Tu… sei tu…” era balzata in piedi la Contessa rianimata dall’ira e dal desiderio di vendetta “piccola pezzente, ma questa volta la pagherai… io ti farò…”
“Voi non farete proprio niente!” si era fatta avanti Oscar, balzando giù da cavallo “Avete forse cambiato idea? Avete finalmente deciso di far sapere a sua Maestà che razza di donna siete? Che avete lasciato morire una donna per strada dopo averla investita con la vostra carrozza? È questo che volete?” tanto era bastato per frenare la rabbia della Contessa e farla arretrare, ma Oscar non si era fermata. Dopo aver aiutato Rosalie a salire in groppa Cesar ed essere montata a sua volta, si era soffermata a fissarla dall’alto in basso prima di continuare “Volete che si sappia che avete ucciso la donna, cui quattordici anni fa affidaste la vostra figlia appena nata? La donna che si è sacrificata per allevarla come se fosse carne della sua carne?”
La Contessa aveva sbarrato gli occhi e per un attimo aveva smesso di respirare “Lei… tu… mia... Oh, mio Dio... Oh, mio Dioooo...” tutto quello che era riuscita a balbettare prima di accasciarsi a terra e scoppiare in lacrime “… mia figlia… la mia bambina…” continuava a ripetere tra i singhiozzi, soffocata da una rivelazione troppo gravosa e improvvisa per essere sopportabile, troppo evidente oramai per essere ignorata.
Oscar aveva condotto Caesar vicino alla carrozza e, indicandole qualcosa oltre il finestrino, le aveva detto “Vedi Rosalie? Quella ragazza addormentata è tua sorella, se tu non ti fossi fermata, ora anche lei starebbe piangendo la morte di sua madre.”
Rosalie non aveva risposto nulla, era rimasta immobile, come svuotata fissando la piccola Charlotte addormentata.
“Torniamo a casa, Andrè.” gli aveva detto, tirando le briglie per far voltare Caesar, e per la prima volta l’aveva visto, lo sguardo di Rosalie che da smarrito e vuoto, si faceva affilato e impenetrabile.
“Madamigella…” la voce limpida, ma atona.
“Dimmi, Rosalie.”
“Quella ragazza addormentata per me non è niente. Non sono cresciuta con lei. L’ho vista si e non un paio di volte. Non sarà mai mia sorella, così come la Contessa non sarà mai mia madre.”
Lo stesso sguardo di allora, le stesse parole e quel volto di porcellana, perfetto quanto impenetrabile, troppo perfetto per essere vero.
“Mademoiselle… permettete…” finito di sistemare il manicotto della Contessa, Clodine si avvicina con il mantello di Rosalie.
“Grazie, Clodine, ma posso fare da sola.” sorride, perfetta e garbata, infilandosi in tutta fretta i piccoli guanti e il ricco mantello bordato di volpe, portole dalla cameriera, prima di aiutarla a far salire Madame in carrozza e sistemarle bene addosso la coperta.
“Sali pure, Clodine, aiuto io Mademoiselle Rosalie.” si fa avanti Oscar, sfidando il freddo pungente della sera, e André la segue per reggere lo sportello.
Le stringe la mano per aiutarla a salire, la fissa negli occhi e lei, tra le nuvole di fiato che si fanno più dense, non si sottrae, quasi in segno di sfida, quasi dovesse dimostrare qualcosa, anche se non si sa a chi.
È oramai dentro la cabina, al riparo nel calore confortante di quel piccolo guscio, ma ancora non la lascia ed è in quel momento che accade. Una prima scalfittura, prima solo un tremito del labbro, appena percettibile in quel volto di porcellana, poi è una lieve smorfia, solo un altro istante e va in frantumi. Sono calde lacrime quelle che le solcano le guance, mentre si abbandona singhiozzando tra le braccia di Madame.
“Nessuno... non sono nessuno…” continua a ripetere, a ripetersi.
“No, piccola mia… non fare così, non qui…” cerca di consolarla Madame, stringendosela al petto, mentre lancia alla figlia uno sguardo che non ha bisogno di parole per rassicurarla che andrà tutto bene, che ora se ne occuperà lei.
Appena André ha chiuso e assicurato lo sportello, Oscar ordina al cocchiere “A Palazzo, in fretta!”
Rimangono fianco a fianco a sfidare il gelo e fissare la carrozza, che si allontana in fretta nella luce color del piombo che sta per farsi notte.
“Doveva succedere, Oscar.” si arrischia lui a parlare per primo, ricevendo in cambio solo una fugace occhiata “Non importa quanto si sia abituati o bravi a fingere… non si può sempre fingere che vada tutto bene…” senza cogliere alcuna reazione, se non un lieve tremito, probabilmente dovuto al freddo penetrante “… non si può sempre fingere di non provare sentimenti, per quanto non desidereremmo provarli.”
“André…”
“Dimmi, Oscar…”
“Fai preparare i cavalli, andiamo a Parigi… ho voglia di bere.”
“Come desideri, Oscar.”


[i] L’ufficio di Oscar a Versailles, da me totalmente inventato per questa storia, ha fatto la sua comparsa nell’anello 3, immaginato come una stanza annessa al Salone delle Guardie che realmente si trova al piano della Regina nell’ala sud. La cosa è inventata perché in realtà le aree destinate agli ufficiali erano al di fuori del palazzo, in edifici appositamente destinati (http://www.handelforever.com/VersaillesSuprema/quartieri/versaillespercorsosaintlouis.htm) e le due sale delle guardie, per il Re e per la Regina ospitavano solo la guardia di turno. Detto ciò, la stanza aggiunta è funzionale alla narrazione, per cui è immaginata sul fondo della sala con un grande finestra rivolta a est dietro la scrivania, che di conseguenza da sulla piazza d’armi antistante alla Reggia, avendo a dx l’accesso laterale ai giardini.
[ii] Ho trovato un fantastico sito con le mappe storiche, tra cui una del 1789 della Reggia e di Parigi (http://www.lib.utexas.edu/maps/france.html). Le Avenue che partono dalla Place d’Armes non hanno cambiato nome da allora, a differenza di altre.
[iii] Non è un gran segreto che entrambi i fratelli minori di Luigi XVI avessero ambizione di regnare, a dispetta del legittimo erede, che si è sempre sentito l’usurpatore del posto del fratello maggiore di 3 anni, il Duca di Borgogna, morto all’età di 10 anni. La lunga sterilità di Maria Antonietta era tornata ad animare in entrambi la speranza di poter un giorno ascendere al trono. Il più fatuo Conte di Artois, nonostante, le sue mire, non mancava di intrattenersi partecipando a tutti i divertimenti offerti dalla compagnia dell’irrequieta cognata, sia per temperamento, sia perché forse è rassicurato dalla sterilità di entrambi i fratelli maggiori. Il Conte di Provenza invece rimaneva in disparte, mostrandosi altezzosamente distaccato da certe intemperanze, ma certo non faceva segreto dei suoi desideri, tanto da esternare apertamente nella sua corrispondenza la delusione per la nascita dei nipoti.
[iv] A noi tre anni possono apparire un’inezia, ma all’epoca, visto il tasso di mortalità infantile, per garantire una discendenza la norma erano le gravidanze in serie, come per Maria Teresa d’Austria (che visti gli esiti del vaiolo tra la sua prole…) e come era stato per Maria Leszcynska, moglie di Luigi XV, che venne scelta di sette anni più vecchia di lui, perché si temeva che l’erede al trono quindicenne potesse morire senza discendenza. La regina polacca dal 27 (anno del matrimonio con il suo sposo quindicenne) al 37 partorì dieci figli (poi dopo due aborti in cui rischio di lasciarci anche le penne decise che il suo dovere lo aveva fatto ed estromise il Re dal suo letto) e nonostante ciò nessun figlio di Luigi XV arrivò a salire al trono.
[v] Louis Joseph Xavier Francois nasce a Versailles il 21 Ottobre 1781, primo figlio maschio di Luigi XVI e Maria Antonietta ed erede al trono. I festeggiamenti di rito infervorano tutto il paese, ma gli anni appena trascorsi, con l’abbandono della corte da parte della Regina e l’allontanamento del nobili da Versailles, a causa dello strapotere dei favoriti di Maria Antonietta ha pesantemente minato la popolarità della Regina stessa, tanto da minare anche l’effetto popolarità della nascita tanto attesa del Delfino di Francia.
[vi] Il castello di Bellevue, dimora delle figlie di Luigi XV, era diventato la ‘nuova corte’ per la vecchia aristocrazia esclusa dalla nuova società di Maria Antonietta, che non vedeva più lo scopo di trattenersi a vivere a Versailles.
[vii] Dopo la nascita di Maria Teresa e la partenza di Fersen, Maria Antonietta di isola ancora di più con la sua ‘nuova società’ di favoriti al Petiti Trianon. Senza una Regina che ne sostenga la forma, Versailles si spopola della sua corte. I nobili riconoscono ancora l’autorità del Re, ma non vedono più il senso di affrontare tutti i sacrifici che comporta risiedere a corte, vista l’impossibilità di venire riconosciuti e di accedere ai benefici, riservati ai favoriti di Maria Antonietta. Nascono di fatto due nuove ‘corti’ quella della vecchia aristocrazia al castelleo di Bellevue, abitato dalle Mesdames, e quella di Palais Royal a Parigi, sostenuta dal Duca d’Orleans e più vicina al mondo degli intellettuali sostenitori delle riforme. Anche se con visioni politiche diametralmente opposte, entrambi le ‘corti’ fanno la stessa cosa, ossia alimentano con voci e libelli l’avversione popolare verso Maria Antonietta, che certo i fratelli del Re, rimasti a Corte, ma sempre frustrati nelle loro pretese al trono, non cercano di dissipare.
[viii] Se non ve lo ricordate, come è lecito, Monsieur Douffort era il precettore di Oscar e poi anche di Andrè quando erano bambini. Ha fatto una fugace ma essenziale comparsata nel primo anello di questa lunga e lenta storia XD
[ix] Anche in questo caso, se non ve la ricordate, trovate la descrizione del calamaio e la sua storia nella prima parte dell’anello 4 (Venerdì 5 Maggio 1775).
[x] Genevieve, soprannominata Madame Poitrine (seno) fu la nutrice di Louis Joseph, che secondo alcuni è responsabile di avergli trasmesso la tubercolosi.
[xi] Portato in trionfo dagli spazzacamino; i portatori si presentarono con una portantina su cui i erano montate due bambole che rappresentavano il Delfino in braccio alla nutrice,; i macellai si presentarono con un bue gigantesco, i fabbri con un’incudine su cui battevano a ritmo di musica.
[xii] Mentre i sarti un’uniform in miniatura del suo futuro reggimento.
[xiii] Essendo il sovrano un collega dilettante, i meccanici portano una sorpresa speciale: un lucchetto complicatissimo a chiusura segreta, che, quando Luigi XVI grazie alla sua esperienza riesce ad aprirlo, fa saltare fuori un piccolo delfino forgiato in acciaio.
[xiv] Un gioiello e a forma di piuma da fissare sui capelli o sul cappello.
[xv] In realtà il cardinale di Rohan è una costante nella vita di Maria Antonietta, c’è al passaggio a Strasburgo, celebra la messa all’arrivo in Francia, c’è quando la delfina arriva a Corte, celebra il battesimo del Delfino… considerata la sua indole festaiola e la sua estrema generosità è piuttosto inspiegabile perché Maria Antonietta lo detestasse tanto… cioè in realtà una giustificazione c’è, per quanto poco sensata, ma ci torneremo tempo debito XD
[xvi] La nascita della principessa aveva sicuramente messo fine alla fase della sterilità, preoccupando non poco il Duca di Provenza, che di figli non ne aveva, ma si vedeva comunque come il secondo in successione, ma non aveva di fatto risolto il problema della linea di discendenza di Luigi XVI, lasciando al suddetto fratello ancora qualche speranza. Di fatto comunque quasi tutti all’inizio confidavano che una volta ‘saltato il fosso’ non ci sarebbero stati grossi problemi, e invece… una nuova gravidanza si era fatta attendere e Maria Teresa, che aveva ben chiara la criticità del problema della discendenza (e dal canto suo si era impegnata parecchio), aveva cominciato a insistere parecchio su questo punto nelle lettere che inviava quotidianamente alla figlia. “Abbiamo assolutamente bisogno di un Delfino” ripete come una litania, esortandola a non fare ‘lit a part’ e a non commettere imprudenze. Quando sono passati mesi senza una nuova gravidanza si infuria anche, visto che la figlia non riesce a mettere a frutto le notti coniugali “Il re di ritira di buon’ora e si alza presto, la regina fa il contrario. Come ci si può aspettare qualcosa di meglio?... a vedersi così di sfuggita, come si può sperare in un successo?” e poi ancora “Finora fui discreta… ” (ah si!?!?) “ma finirò per divenire importuna. Sarebbe un delitto non avere più bambini di questo sangue.” per aggiungere poi, tanto perché non vuole essere importuna XD “L’impazienza mi prende, alla mia età non si può più aspettare.” Eh, quando la mamma si incista su una cosa…
[xvii] Maria Antonietta prima della morte di Maria Teresa ha in realtà una seconda gravidanza, che però non fa a buon fine. Si parla di un incidente per un movimento brusco aprendo il finestrino di una carrozza.
[xviii] Dopo il parto il bambino viene immediatamente portato via per essere lavato e vestito, senza comunicare a nessuno il sesso, solo al Re quando gli viene riconsegnato, e lui lo annuncia alla madre e ai pochi presenti con questa formula rubata alla formalità del protocollo di corte ‘Monsiuer il Delfino chiede il permesso di entrare.’ Luigi XVI era innegabilmente troppo mite, passivo e poco brillante per la posizione che si trova a ricoprire, ma ogni tanto aveva delle uscite piuttosto brillanti.
[xix] Il parto pubblico di Madame Royal, è l’evento che conclude la parte 4 dell’anello 4 http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3073867
[xx] L’imperatrice Maria Teresa muore di polmonite un anno prima della nascinta di Louis Joseph. La sua morte colpisce tanto la figlia da farla riavvicinare al marito conlesito, poco fortuito, della successiva gravidanza.
[xxi] Filles de France è il titolo riservato ai figli del Re.
[xxii] Il concetto di garantire una discendenza era un dovere essenziale, preso molto sul serio praticamente da tutti, anche considerata la mortalità del tempo: Luigi XIV ebbe sette figli dalla regina e sette, di cui sei legittimati, dalla Montespan; persino suo fratello il Principe Filippo, che era gay e non era un segreto per nessuno, neanche per le sue due mogli, essendo in linea dinastica si prese la briga di produrre tre figli con la prima e tre con la seconda moglie; Maria Leszczyńska aveva 22 anni quando le fecero sposare in fretta e furia Luigi XV ancora quindicenne, perché vista la moria in famiglia temevano potesse morire prima di riprodursi, e in 12 anni mise al mondo 11 figli, poi solo dopo 2 aborti, in cui quasi ci lasciò le penne, decise che il suo dovere l’aveva fatto per cui non avrebbe più condiviso il letto con il marito; Maria Teresa D’Austria ebbe 17 figli.
[xxiii] Maria Antonietta non è cattiva, non è neanche ‘stronza e viziata’ come viene descritta a volte in certe ff, è solo tremendamente infantile, in ogni aspetto della sua vita: nel suo essere dolce ed affettuosa, come nell’essere capricciosa e volubile; nell’essere premurosa e morbosamente attaccata alle persone che ama, come nell’essere quasi crudele con chi crede di odiare; nel ribellarsi alle regole del protocollo si corte, essendo nello stesso tempo assolutamente irremovibile e acritica riguardo ad altre ‘regole’ che le sono state insegnate, quali ciò che le è dovuto per diritto di sangue e quello che ‘dovrebbe’ essere il ruolo di una regina. Per tanti, forse troppi versi è per quasi tutta la vita una bambina, per cui non c’è malizia, per quanto sia del tutto imperdonabile (come le fa brutalmente notare sua Madre redarguendola aspramente in una lettera… anche se forse avrebbe fatto meglio a insegnarle a discernere prima) il fatto che lei si riferisca in pubblico al marito re di Francia come a “quel pover’uomo”, o che al Petit Trianon lo tratti come un ospite, neanche particolarmente desiderato, cui viene dato un coprifuoco e di cui capita anche si faccia beffe (probabilmente sentendosi semplicemente spiritosa) con la cerchia dei suoi ‘amichetti’, spostando indietro le lancette degli orologi per farlo andare via prima e potersi ‘divertire’ (senza niente che implichi il sesso, perché dell’infanzia ritengo avesse anche la brutale sincerità, fino all’autolesionismo), come un’adolescente un po’ scema quando le lasciano la casa libera i genitori.
[xxiv] Fersen era tornato ad Agosto, che MA era già di 5 mesi, e parte poco più di 4 mesi dopo la nascita di Maria Teresa.
[xxv] Ricordo che l’idea di Fersen come amante della Regina è assolutamente moderna, ed è stata svelata sostanzialmente dalla pubblicazione di parte dell’epistolario del Conte, conservato gelosamente fino al secolo scorso dalla famiglia e poi malamente censurato.
[xxvi] La voce prende le mosse, oltre che dallo scontento generale per la cattiva gestione della corte e per la propensione di MA a farsi raggirare dagli approfittatori, per la concomitanza degli scontri dell’esercito austriaco al confine Belga, quando poi a Luigio ‘81 Giuseppe è in ‘tour’ per l’Europa (sempre travestito da Falkestein, una genia di aspiranti attori!!) e dopo aver visitato le truppe nel Belgio austriaco torna a fare visita alla sorella (e anche alla Dubarry a Louvencienne, che poi tanto odiosa non doveva essere visto che tutti continuano farle visita, come mai successo prima a una favorita ormai decaduta), le accuse prendono sostanzialmente piede. Le voci sono ovviamente false, perché come scrive Mercie, volendo molto sintetizzare i concetti, MA per tutto quello che può avere un’utilità non sa fare e comunque non ne ha voglia, per cui dal lato austriaco meglio che la dessero per persa come arma diplomatica da cui trarre vantaggi, che tanto meno faceva, meno danni rischiava di causare… in estremissima e brutalissima sintesi.
[xxvii] Etienne è un po’ barocco lo so, ma Girodelle è tanto alla moda quanto Ancient Regime… ed Etienne è il suo attendente, non quello che gli aveva rifilato il padre ;-)
[xxviii] Jacob ha fatto solo un breve ‘cameo’ che però dovrebbe aver reso l’idea ;-) nellanello 3 http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2735852
[xxix] devo averlo infilato altrove, ma vabbè… ;-) Il termine è greco e descrive una macchina automatica, nel XVIII secolo ne vengono progettate e realizzate diverse, e, sull’onda del pensiero illuminista diventano particolarmente popolari. Potremmo chiamarli robot (che però è un termine forgiato nel 1920), e sono macchine automatiche che svolgono un compito. Nel ‘700 in realtà niente di produttivamente utile, tendenzialmente sono oggetti stupefacenti frutto dell’ingegno e tecnica di orologeria, con un occhio alla bellezza e alla grazia (il cigno d’argento the pesca in un lago di cristallo https://www.youtube.com/watch?v=C7oSFNKIlaM&t=172s, il bambino che scrive https://www.youtube.com/watch?v=bY_wfKVjuJM , la dama che suona il cembalo https://www.youtube.com/watch?v=75CXFwgslsY , quella che suona l’armonium https://www.youtube.com/watch?v=WofWNcMHcl0 , il turco che gioca a scacchi https://www.youtube.com/watch?v=0DbJUTsUwZE ).
[xxx]Per la felicità dei francesi/per diffondere tramite il nostro cuore/felicità perfetta/conserva, o cielo protettore/i giorni di Antoinette” In realtà questo è un estratto da un’opera teatrale in onore de ‘L’augusta Principessa la cui bontà e le cui virtù hanno conquistato tutti i cuori’ e scritta per l’occasione da Collot d’Herbois, all’epoca attore a Lione, che poi firmerà la condanna a morte di Luigi XVI. In realtà sono poesie di Le Harve quelle che recitano per l’occasione le donne del mercato, le stesse che anni prima avevano schernito la regina con gli insulti più volgari (compaiono nella III parte del IV anello http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3066028), le stesse che poi marceranno su Versailles per linciarla, salvo poi inneggiare al suo nome di fronte all’inchino sul terrazzo si insomma, un rapporto che potremmo definire un po’ bipolare XD.
[xxxi] Già prima della nascita di Louis Joseph cominciano a circolare i primi libelli che insinuano dubbi sulla legittimità del nascituro. Dalla Corte di Bellevue? Da quella di Palais Royal? Dalla stessa Corte di Versailles (dove i fratelli di Luigi XVI erano già parecchio agguerriti)? Non ci è dato sapere ;-)
[xxxii] Nel ’81 ha 17 anni.
[xxxiii] In caso qualcuno non lo ricordasse, le sorelle de Jarjayes avevano orchestrato il ritir della madre dagli incarichi a corte, per allontanarla dalle grinfie della Polignac, approfittando di un malore e mettendo in giro la voce che il suo cuore debole non le consentiva più di rimanere come dama di compagnia della Regina.
[xxxiv] Madame Elisabeth ha 1 anno quando muore la madre e 3 quando muore il padre, si lega tantissimo alla sorella di soli 5 anni più grande e a 11 anni vivrà con estrema difficoltà la sua partenza per andare in moglie al Principe di Sardegna (1775). Non ho mai capito perché Madame Elisabeth venga praticamente sempre cancellata dalle varie narrazioni del periodo! Non c’è in VersaillesNoBara, non c’è neanche nel film della Coppola… forse perché mal si ‘incastra’ nelle sceneggiature un po’ stile soap opera che solitamente vengono fatte, mentre io la trovo un gran bel personaggio. La principessa Elisabeth è un personaggio positivo sotto ogni punto di vista direi, dolce, colta estremamente attaccata e soprattutto devota alla famiglia, per niente frivola, amorevole e compassionevole come il fratello Re, ma a differenza di lui assolutamente ferma nelle sue convinzioni, di una rettitudine che non ha mai neanche sfiorato gli altri due fratelli maschi (perché i Duchi di Provenza e di Artois sono entrambi, seppur in modo diverso, due curiosi pezzi di merda!). Alla prospettiva di essere data in moglie all’Imperatore Giuseppe II (per rinsaldare il legame con l’Austria) prega il fratello di non concedere la sua mano per non lasciare la famiglia. Per ovvi motivi non legherà mai molto con Maria Antonietta, anagraficamente è nove anni più giovane di lei, ma infinitamente più matura e posata, e spesso si ritrova a cercare di darle saggi consigli e conforto dopo le catastrofi, ma non l’abbandonerà mai. Insomma, come personaggio, se proprio le devo trovare un corrispettivo letterario, la si può caratterialmente accostare alla Fanny di Mansfield Park, per quanto di assai più elevati natali, solo che alla fine i suoi sforzi non vengono rimeritati dal tanto agognato matrimonio con quella palla di piombo a due gambe del cugino Edmund (che per carità, i gusti sono gusti), ma finisce decapitata in Place de La Revolution nel ’94… SOB… purtroppo è solo in francese, ma se avete delle bimbe (o dei bimbi) cui volete fare imparare la lingua, c’è una graziosa collana di libri ‘storici’ per bambini dal titolo Elisabeth, Princesse a Versailles, che si trova anche su Amazon.
[xxxv] Maria Clotilde va in sposa a 16 anni, per motivi essenzialmente politici ovviamente. Il matrimonio però è fortunatissimo. Il rapporto con il marito Carlo Emanuele IV di Savoia, di 8 anni più vecchio, è da subito molto affiatato, in buona parte fondato sulla comune devozione. Purtroppo non avranno figli, per cui dopo circa 30 anni di matrimonio decideranno di abbracciare insieme la regola del terzo ordine domenicano. Andando in sposa in così giovane età è un po’ difficile definire una sua identità a Versailles, dove viene descritta come passiva e apatica. Certo è che era molto legata alla sorella minore, allevata come lei da Madame de Marsan dopo la morte dei genitori, per cui può anche essere che, come nel caso di Elisabeth, si trattasse di ‘educazione’ più che di mancanza di carattere, soprattutto considerato ‘l’amorevole’ trattamento riservatole dal resto della famiglia, che in virtù del fatto che era sempre stata un po’ corpulenta, aveva pensato bene di assegnarle ‘l’adorabile’ nomignolo di corte de ‘La Gros Madame’. È noto come possa rendere felice un’adolescente essere chiamata da tutti ‘La principessa grassa’! Che poi da che pulpito! L’essere longilinei non era certo un tratto di famiglia, con la sola eccezione di quel puttaniere impenitente del Duca di Artois. Vabbeh…
[xxxvi] Maria Antonietta era estremamente legata alle sorelle, in particolare a Maria Carolina, Regina a Napoli (cui spedica una volta l’anno Leonard a Napoli… perché a quanto a suo giudizio, e anche secondo il marchese de Sade, i parrucchieri napoletani non avevano l’eleganza dei francesi, perché i loro parrucconi di estendevano in larghezza, ma non in altezza… che dite? È una cosa fatua?? Eh ragazze mie, ognuna ha la sua scala di valori! E Parigi-Napoli ai tempi era roba seria!).
[xxxvii] Quando nasce Louis Joseph, Maria Teresa non ha ancora compiuto 3 anni.
[xxxviii] Il carattere di Maria Teresa adulta è certo stato influenzato da tutta la sua terribile esperienza durante la Rivoluzione, ma anche da bambina pare mostrasse un temperamento che poco assomigliava a quello della madre. Maria Antonietta certo la amava molto, ma il nomignolo che le riservava la dice lunga: Mousseline-mussola era l’appellativo amorevole, la Penseuse- la seria/meditabonda la caratterizzava. I figli di Maria Antonietta diventarono l’unico vero punto in comune con Elisabeth, che era legata a loro come al fratello per estrema dedizione alla famiglia, poi la morte di Louis Joseph porterà il vero avvicinamento.
[xxxix] Mademoiselle Marie Grosholtz è il nome da nubile di quella che nel 1795 diventerà sposandosi Madame Tusseaud. La madre rimane vedova molto presto e diventa governante di un medico svizzero, Philippe Curtius, al seguito del quale nel 1767 si trasferiscono a Parigi, dove lui ha un laboratorio per la produzione di statue in cera di una certa fama, tanto che ha realizzato anche una statua della DuBarry commissionatagli dal Re. Nel 1770 il dottore organizza la prima mostra di successo, che poi nel ’76 viene spostata addirittura a Palais Royal. Marie chiama il Dr. Curtius zio e comincia prestissimo a imparare l’arte della lavorazione della cera nel suo laboratorio, mettendo in mostra il suo talento quando nel ’78, a soli 17 anni, realizza la sua prima statua di Rousseau, poi seguita da altre. Grazie a questo talento nel 1780 la giovanissima Marie Gorsholtz viene assunta come maestra d’arte di Madame Elisabeth, di soli 3 anni più giovane di lei, ed è in tali buoni rapporti con la famiglia reale da venire invitata a risiedere a Versailles.
[xl] Considerato che per il pubblico Rosalie è una protetta appartenente a un ramo cadetto della famiglia di Madame e che è da qualche anno che la segue negli impegni in società, è ragionevole che la chiami zia, così come è normale che le rimanga accanto senza parlare se non interpellata (adesso che ha imparato), come si conviene a una fanciulla in ‘formazione’.
[xli] La Caverne des Grande Voleurs aprì nel 1782 e fu un grande successo, di fatto la prima galleria degli orrori di sempre.
[xlii] Andrè di secondo nome fa RadioServa.
[xliii] Qui in riferimento è inevitabilmente indiretto, perché ‘tutti i presenti’ sanno di cosa si sta parlando ;-) : la Polignac è diventata Duchessa! Non per meriti particolari o lignaggio, ma per il ‘caso o capriccio’ di cui si parlava prima, ossia per le insistenze di Maria Antonietta con il marito (ribadisco, non era cattiva, ma era scema scema scema, totalmente incapace di capire il suo ruolo! E lui un gran buon uomo, ma un invertebrato). Dopo la partenza di Fersen per l’America nell’Aprile del 79 (pochi mesi dopo la nascita di Madame Royale, ed era tornato solo ad agosto del ‘78) comincia il dominio assoluto della Polignac, la Contessa ottiene quello che vuole dalla Regina, tra cui, massima dimostrazione e fonte di estremo malcontento tra la nobiltà, la nomina a Duca del marito (senza un motivo al mondo per giustificare una simile scalata sociale) che attribuisce a lei il titolo di Duchessa, unitamente al diritto del Tabouret, che letteralmente è uno sgabelletto pieghevole, ma che nei fatti è il diritto di sedere in presenza dei sovrani. A differenza di quanto mostrato nel manga/anime, il sovrano qui non era dotato di sala del trono, e non aveva uno ‘scranno rialzato’ su cui sedere, il contesto della corte era apparentemente informale (come il fatto che non venissero usati titoli, ma appellativi semplici come Monsieur e Madame, perché non serve nominare il titolo quando tutti sanno chi sei e ricordano/tengono a mente il rispetto che ti devono), stava ai sudditi adeguarsi al protocollo, non rivolgendo la parola se non esplicitamente invitati, chinandosi e non potendosi sedere in presenza dei sovrani per nessun motivo. Il diritto di tabouret era riservato ai principi di sangue e a pochissimi privilegiati, ed era la dimostrazione pratica di essere ‘elevati’ a livello della famiglia reale.
[xliv] Il diritto di Tabouret in realtà era stato usato ed abusato da Luigi XIV per le sue amanti, che appunto in qualche modo se lo erano ‘guadagnato’, tanto che a un certo punto (visto che nel caso di Luigi XIV si parla di GRANDI numeri) decise di risolvere il problema dischiarando che chi era impegnato in un ‘lavoro’ poteva sedersi in presenza del Re. Visto che ovviamente i obili della corte non ‘lavoravano’, attività borghese, ma nel caso ‘prestavano servizio’, nessuno poteva sedersi tranne le nobildonne per cui era considerato lavoro intrecciare nastri. Insomma, Luigi XIV così aveva salvato il protocollo, che era alla base dell’immagine di sovrano assoluto che si era costruito, e poteva concedere alle sue donne di sedersi in sua presenza semplicemente tenendo in mano un nastro. Con Luigi XV invece sarà solo Madame di Pompadour a ricevere il titolo di Duchessa e il diritto di Tabouret (che poi essendo lei certo non stupida, non userà mai continuando a usare il titolo di Marchesa… ma come si dice, quando tutti sanno…). Credo sia quindi evidente a cosa ci si riferisca con il termine ‘guadagnarselo’, anche se in questo caso non lo si è ‘guadagnato’ con ‘servizi’ al Re.
[xlv] È dell’epoca dello strapotere della Polignac il pettegolezzo delle relazioni saffiche di MA con le sue amiche più care, in particolare la Polignac appunto (anche la Lamballe entra nel pettegolezzo, ma trascinata dalla compagnia XD). Ridondante ribadire che ovviamente era una palla, nata dalla propensione che MA aveva sempre avuto di baciare a abbracciare tutti (che diventata grandina poteva anche smettere di fare in un contesto finto-casual-ma-in-realtà-iperformale come Versailles… ma poi fosse stata così sveglia…) e dal malanimo che il suo comportamento irrispettoso del protocollo e delle tradizioni e le sue manifeste preferenze e smodate regalie per i suoi amici aveva generato tra l’aristocrazia (qualcuno dirà ‘poverina, voleva solo essere libera’ e io rispondo “fare la regina è un lavoro, usi e abusi di tutti i vantaggi?? Cara mia, ti toccano pure le responsabilità! Non è che puoi demolire una nazione perché vuoi fare la contadinella di lusso con le tue amiche a spese degli altri”). Sì, insomma… un giorno nei suoi moti affettuosi abbraccia di slancio la Polignac in pubblico, una fa una battuta un po’ scollacciata e tanto basta, come un cerino in una distesa di paglia. Sta di fatti, che se MA fosse stata un centesimo della ‘pornodiva ninfomane’ di cui narravano i pettegolezzi, certo non ci avrebbe messo 7 anni a farsi deflorare da quel bolso di suo marito! E non c’entra la giovane età (vedi Cixi, da concubina di V grado a 15 anni a imperatrice reggente della Cina per quasi 50 anni, per essere riuscita a farsi mettere incinta da un imperatore che non aveva avuto altri figli, perché palesemente disinteressato ‘all’articolo’ offerto da tutte le altre sue mogli e concubine!)
[xlvi] spesso nel gergo comune questa espressione viene usata in modo antifrasico in riferimento a qualche comportamento particolarmente anomalo o idiota che dovrebbe essere perdonato in virtù di rango o ricchezza, in realtà il significato è del tutto opposto: la nobiltà comporta obblighi. Il titolo conferisce distinzioni, eventualmente anche privilegi, ma prima di tutto è una responsabilità, bisogna dimostrarsene all’altezza, con la fedeltà ai sovrani e alla patria, senza dare scandalo, ponendosi sempre come un esempio e assumendosi la responsabilità delle persone che ‘dipendono da te’. Sì, insomma, nascere nobile corrisponde a nascere con un credito, ma anche con un’enorme cambiale che dovrai passare tutta la vita a ripagare… questo è il proprio concetto Ancient Regime (e anche molto giapponese) e il razionale di una società concepita per essere diretta dall’aristocrazia. Ovvio che il tutto crolla, come molti altri costrutti, quando che beneficia del diritto, non tiene presente che questo deve sempre essere controbilnciato dal dovere.
[xlvii] Gioco d’azzardo a carte popolarissimo per tutto il XVIII secolo in Europa (e prediletto da MA, benchè proibito da Luigi XVI), tanto da diffondersi anche nei saloon del far west nel XIX… e in qualche casinò si gioca ancora… le brutte abitudini sono dure a morire XD
[xlviii] In realtà qui Rosalie è già un po’ ‘stagionatella’ per gli standard dell’epoca, ma facciamo che porta bene i suoi annetti ;-)
[xlix] Alcuni anni prima, grosso modo ai tempi della prima gravidanza di MA, quando MT era ancora viva e Madame Elisabeth aveva circa 14 anni, c’era stato un ‘abbocco’ per farla sposare all’Imperatore Giuseppe II, fratello di MA. Da un lato c’era il desiderio di rinforzare ulteriormente l’alleanza, dall’altro Maria Teresa, ossessionata dall’idea della discendenza, visto che il figlio aveva mandato al creatore 2 mogli senza generare maschi. Sta di fatto che Madame Elisabeth non ne voleva sapere di lasciare la famiglia, per cui pregò il fratello di non concedere la sua mano, lui accettò la sua richiesta e del matrimonio non se ne fece nulla. Certo la cosa sollevò notevole scalpore a corte, visto che era una circostanza quanto mai singolare, soprattutto considerando che era una richiesta della ragazza; probabilmente nessuno si capacitava del fatto che una potesse non essere entusiasta di una simile proposta. Certo l’alternativa era quella di rimanere zitella a vita (ricordiamo che le Mesdames figlie di Luigi XV rimasero nubili principalmente perché in Europa non c’erano partiti abbastanza elevati da poter ambire alla mano di una principessa di sangue reale!), è anche vero che Giuseppe II, oltre ad avere 23 anni più di lei, si era anche comportato di merda con la II moglie: dopo la morte della prima, Isabella di Borbone-Parma, non ne voleva sapere di risposarsi, in barba alle necessità dinastiche, e sposò la povera Maria Giuseppa di Baviera per insistenza della madre, che doveva essere pesina quando ci si metteva; alla poverina però non riservò certo neanche il minimo della cortesia, e le diceva che era grassa e che aveva i denti storti, e per sua stessa ammissione, in lettere e diari, la trattava proprio di merda, per il solo fatto che gli stava sulle palle che non fosse la moglie di prima; lei, di contro, era una tipa mite, molto in soggezione di questo ‘stronzo egoista’ e subiva passivamente, soffrendone anche. Di fatto, comunque, muore anche lei senza aver messo alla luce figli maschi… sinceramente per me Madame Elisabeth ci ha visto lungo a rimanere principessa zitella e a non diventare l’imperatrice consorte di quella ‘civetta dello spirito’, come lo appellava ‘amorevolmente’ sua madre MT.
[l] Allora… qui necessita un retroscena che ho provato a inserire nella narrazione. Le nostre due ‘Dame’ si riferiscono a due componenti del seguito della Polignac, ossia la figlia Charlotte (Aglaè nella realtà storica) e la sua amica del cuore Louise de Polignac. Non avrebbe alcun senso far raccontare esplicitamente a nessuno dei presenti tutto quello che è successo negli ultimi 2 anni, in quanto tutti lo sanno per forza. Le Mesdames sparano frasi maligne a riguardo, ma non possono fare il riassunto, quindi tocca esplicitare qui l’antefatto: Charlotte de Polignac (Aglaè nella realtà storica) aveva frequentato il Collegio di Panthemont, dove era diventata molto amica di Louise d’Esparbes de Lussac. Nel 1780, Charlotte/Aglaè (dodicenne nella storia reale, quindicenne in questa mia versione per riuscire a incastrare le date di nascita e far essere Rosalie figlia della Polignac e di un età sensata per gli eventi nella cronologia della Ikeda) sposa a Versailles, in pompa magna visto il legame della madre con la regina, il venticinquenne Antoine de Gramont, cui il Re accorda il titolo di Duca de Guiche. A pochi giorni di distanza Louise sposa il fratellastro della Polignac, Monsieur de Polastron. Il matrimonio di Mlle de Polignac fa sorgere molte gelosie, Luigi XVI accorda alla giovane una dote equivalente a quella di una principessa, del valore di 800,000 livres. Per il suo matrimonio la Regina organizza un soggiorno al Trianon di cinque giorni dove solo la duchessa di Polignac, sua figlia e Louise de Polastron hanno il privilegio di dormire nel padiglione con la Regina. Da quel momento Marie-Antoinette prende in simpatia la figlia della favorita e le verrà dato, dagli amici intimi, il soprannome di “Guichette”. Dopo il matrimonio però, vista la tenera età di Charlotte/Aglaé, il duca de Guiche deve adorare la sua sposa solo da lontano, aspettando il via libera dei suoi suoceri per la consumazione del matrimonio. Guichette viene presentata a Corte otto giorni dopo la presentazione di Mme de Polastron (3 dicembre 1780). Per l’occasione la Regina, solitamente tanto maldisposta rispetto alle tradizioni della corte, vuole far rivivere l’antica forma della presentazione a Corte con più magnificenza e splendore (si dice, a causa delle rimostranze del commercio, a profitto delle manifatture di velluto e di dorature). Mme de Polatron viene quindi presentata a corte con il Grand Habit (il corsetto di velluto nero, la gonna di tessuto d’oro come pure la sciarpa e la cintura) ricoperto dai diamanti della Regina e di Mme la contessa d’Artois, che hanno la bontà di prestarglieli, come pure a Mme de Guiche (qui Charlotte) che sarà presentata la settimana dopo. E’ Mme de Polignac che, per regalo di nozze, fa il dono alla moglie del fratellastro del suo Grand Habit di presentazione a Versailles e mentre alla Guichette viene fatto lo stesso dono dalla contessa di Gramont, sua suocera. Madame de Guiche e di Polastron (dodicenni) si trovano unite nella vita di Corte. Sebbene di una bellezza differente le due ‘dame bambine’ infiammano il ‘cuore’ del giovane Conte d’Artois (che certo era di facile infiammabilità, come ben noto). Presto il fratello del Re non lascerà mai da sola Guichette; alla passeggiata o al gioco, al ballo, a teatro o alla caccia lo si vede sempre vicino a lei e si ripete a bassa voce e sorridendo che non sarà il marito a raccogliere per primo le primizie del matrimonio. Ma pare che l’avventura non abbia avuto le conseguenze che ci si aspettava e la Guichette venne velocemente ‘restituita’ al marito, onde evitare problemi. Ma se d’Artois non farà più parlare di sé riguardo una relazione con Guichette, la cronaca ci lascia un’avventura successa alla figlia di Mme de Polignac con il conte de Périgord, fratello cadetto del futuro principe di Benevento, che aveva già al suo attivo avventure rocambolesche con altre dame di corte. Notato da una guardia che scalava la finestra dell’appartamento al primo piano che Guichette occupava a Versailles, fu riconosciuto e fermato, al che il virtuoso Luigi XVI ebbe a dire una frase scherzosa (e qui è un IDOLO): “Dato che siamo assolutamente circondati da donne leggere, che almeno le si alloggi tutte al pianterreno, così almeno non si correrà più il rischio di rompersi il collo se, andandole a trovare, si fosse obbligati a passar dalla finestra”. Il duca de Guiche si batté a duello con il seduttore di sua moglie: ma la fortuna è cieca e il destino qualche volta ingrato: fu il marito che fu ferito dall’amante. (ref http://la-cour-royale.forumcommunity.net/?t=54383827) Sarà Louise a diventare poi l’amante del Conte di Artois, che ne farà la sua favorite ufficiale.
[li] Trianon chiuso per il pueperio.
[lii] Ovviamente si riferiscono al Duca di Artois
[liii] il Visconte de Polastron, marito di Louise
[liv] Il marito di Louise, che la amministra a proprio vantaggio, è il fratellastro della Polignac.
[lv] Qui si riferiscono alla ‘fu’ Madame Anne d’Esparbes, probabilmente una zia di Louise (la cui madre era morta alla sua nascita). Anne Thoynard de Jouy era una lontana cugina della Pompadour, viene introdotta a corte nella sua cerchia, sposa a 19 anni il Conte d’Esparbes e comincia la sua ‘carriera’, su cui non mi dilungo, limitandomi a ricordare un aneddoto di quando finalmente finisce nel letto di Luigi XV: Dopo aver fatto l'amore con madame d'Esparbès, Luigi XV constatò "sei stata a letto con tutti i miei sudditi". "Ma, sire..." "Ti sei fatta il duca di Choiseul..." "È così potente..." "Il maresciallo de Richelieu..." È così spiritoso..." "Monville..." "Ha delle gambe così belle..." "va bene, va bene, ma il duca d'Aumont non ha niente di tutto questo" "Ah sire, vi è tanto affezionato!" (Chamfort).
[lvi] Dopo la nascita di Madame Royale, la moda ‘vira’. Dall’opulenza del periodo precedente, con abiti e acconciature costruite e opulente, si passa a una fase ‘finto-naturale’, in cui va di moda apparire diafane e delicate, cosa che molte dame appunto ottenevano facendosi dissanguare.
[lvii] Artois.
[lviii] Gli ordinamenti locali possono portare qualche cambiamento, ma la gerarchia dei titoli da più basso al più alto è: Signore-Barone-Visconte-Conte-Marchese-Duca-Granduca-Principe.
[lix] Visto che non esiste che una Lamorielle nessuno possa essere condotta a Corte, se vi ricordate Madame in questa storia ha presentato Rosalie in società come una nipote del ramo cadetto della sua famiglia dei Quetpée de Labord.
[lx] E prima o poi doveva saltare fuori che Rosalie ancora non era fidanzata.
[lxi] Come per Charlotte/Aglaè di Polignac ho deciso di allinearmi alla realtà storica, meno semplice, ma più interessante, senza togliere nulla al succo della storia. Se volete qualche info in più sul Duca de Guiche potete trovare un bel sunto qui http://ladyreading.forumfree.it/?t=44661098
[lxii] Diciamo che questo è un ‘omaggio’, non proprio un plagio, all’eterna Virginia Wolf (chi era ad avere gli occhi come due viole umide??)… l’immagine era troppo calzante per lo sguardo violaceo che si dice avesse Yolande de Polignac e che suppongo abbiano ereditato entrambe le sue figlia.
[lxiii] Questo invece è proprio un plagio… o magari no, in realtà una citazione, visto che dichiaro apertamente che questa ‘immagine’ l’ho presa da ‘La rosa nera’ di Martin Cruz Smith, ma era troppo perfetta per non usarla qui.

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Capitolo 10
*** Anello 5: Affinità (Parte 3/5) ***


Angolo dell'autrice: Una seconda giornata più 'privata' da accompagnare alla precedente...


Sabato 21 Giugno 1783, Palazzo Jarjayes

 
‘... una nemica degna di me, lo scopo che voglio raggiungere: “E si de l’obtenir je n’emporte le prix, J’aurai du moins l’honneur de l’avoir entrepris[i].” Si possono citare versi mediocri, quando sono firmati da un grande poeta…’
Gli occhi seguono la forma delle parole, l’inchiostro nitido sul foglio chiaro, fresco di stampa. Ha sempre trovato piacevole quella consistenza compatta, le lievi irregolarità lasciate dalla pressa, l’odore dolciastro e vagamente pungente di una rilegatura recente, il fruscio crepitante della carta nuova, ma non è certo per il gusto di farlo, che gira quella maledetta pagina, solo per tornare subito indietro con un gesto stizzito per l’ennesima volta.
‘Quali versi mediocri? Di quale grande poeta?’
Fissa di nuovo quelle poche righe, rincorrendo il nome che continua a sfuggirgli, prudendo sempre più fastidiosamente sulla punta della lingua.
Le rilegge ancora, per quanto sia assolutamente inutile, visto che ormai le sa a memoria, riuscendo solo a far aumentare il senso di frustrazione, impossessatosi anche del suo piede destro, che scalzo e irrequieto ha preso a battere sempre più insistente contro il bordo del letto.
“Dio solo sa perché mi sia incaponito…”
Si blocca, colto di sorpresa dal tono aspro della sua stessa voce.
Sbuffa e continua sconsolato “Bah… adesso parlo anche da solo!”
Posa il libro aperto sul petto, inspira profondamente e chiude gli occhi, cercando di riportare in sé la calma. Si sforza di scacciare i pensieri irrequieti, lasciando che a riempirgli le orecchie e la testa siano solo il cinguettio allegro degli uccelli e lo stormire carezzevole delle foglie. Lo raggiungono attraverso la finestra spalancata, come la brezza leggera e profumata, che agita la mussola delle tende e gli sfiora il viso delicata, soffice, solleticante. Un po’ alla volta le membra tornano a rilassarsi, abbandonandosi al contatto confortevole e familiare del suo vecchio materasso.
Non c’è ragione di ostinarsi su un dettaglio tanto irrilevante, se neanche l’autore si è preso la briga di inserire una nota[ii], che importanza potrà mai avere? Prima o poi gli tornerà in mente e certo si darà dello sciocco.
Risolleva le palpebre e il libro aperto, determinato a proseguire. Metodico scorre nuovamente la frase incriminata, poi la successiva, un’altra ancora, fino a che il volumetto si richiude  con uno schiocco secco, ricadendo abbandonato sulla coperta sgualcita.
Inutile illudersi, è dalla prima riga che segue il sentiero nitido delle parole stampate, senza riuscire a coglierne veramente senso. Fissa per un po’ il soffitto, come se potesse trovare una risposta tra le crepe dell’intonaco o nell’ombra di quella vecchia macchia giallastra, ravvivata dal baluginare di un riflesso scintillante e liquido, che deve arrivare dalla fontana del cortile. Si solleva velocemente a sedere e indugia per un po’ con lo sguardo basso sui piedi ancora nudi, saggia la superficie consumata e scabra del vecchio pavimento in legno, indeciso sul da farsi.
Non erano esattamente questi i suoi programmi. È riuscito a procurarsi una copia di quel nuovo libretto appena pubblicato, di cui tutti parlano o sparlano, ma di cui nessuno sembra mancare di essersi fatto un’opinione. Finalmente ha un intero pomeriggio libero da dedicarvi, come non capita da non ricorda più neanche quanto tempo, e invece, a quanto pare, la sua testa non ha alcuna intenzione di assecondare i piani.
Si alza di scatto e allunga il solo passo che lo separa dalla finestra. Posa i palmi sul davanzale e si sporge di slancio, respirando a pieni polmoni l’aria dolce e profumata.
Nel cielo di un azzurro intenso e terso il sole brilla alto, ma i raggi non hanno ancora nulla dell’impietosa violenza dell’estate. Nel fulgore di una lussureggiante e tarda primavera, regalano a ogni cosa toni freschi e sgargianti: il verde vibrante delle foglie, il candore puro, che sfuma in tutte le gradazioni del rosa fino al rosso più acceso sulle ricche corolle nelle affollate aiuole del giardino, persino la ghiaia polverosa sembra avere ricevuto in dono una sontuosa sfumatura dorata. Farebbe meglio ad approfittare della meravigliosa giornata e andarsene a fare una bella cavalcata, invece di starsene rintanato in camera con i suoi pensieri.
Risoluto, si ributta a sedere sul letto per infilarsi in fretta calze e stivali. Sta per alzarsi, quando lo sguardo incespica sulla copertina di quel bel color carminio, che spicca sul panno slavato. Indugia, poi si decide, allunga la mano e l’afferra.
In un attimo è fuori dalla stanza e trotterella giù per le scale soppesando il suo volumetto. Una bella cavalcata e un po’ d’aria fresca gli sgombereranno la mente e forse finalmente riuscirà a godersi la tanto agognata lettura, quando si sarà liberato di quell’immagine, che per qualche inspiegabile motivo sembra non volergli uscire dalla testa!
 
Doveva essere passata da poco l’una, quando aveva varcato i cancelli, e non lo aveva particolarmente sorpreso non trovare nessuno ad accoglierlo nel grande spiazzo inondato di sole sul retro. Tutta la servitù a quell’ora di norma era impegnata in casa, chi per il pranzo, chi a occuparsi dei servizi e delle stanze. Non era usuale rimanesse di vedetta neanche un mozzo di stalla, visto che a Palazzo Jarjayes non si era certo abituati ad aspettarsi visite non annunciate. Per quanto propenso ad assecondare per disciplina le regole della buona società, il Generale, per indole, non era mai riuscito a conformarsi a quell’usanza tanto di moda in qualunque altra magione aristocratica o borghese[iii].
Tutto sommato non gli era dispiaciuto affatto, per una volta, passare inosservato anche lì, come accadeva abitualmente alla reggia. Sicuramente gli avrebbe risparmiato di doversi sobbarcare qualsivoglia incombenza sua nonna non avrebbe certo mancato di appioppargli, preoccupata, come sempre, che l’ozio potesse peggiorare il suo carattere, che già considerava fin troppo intemperante. Inoltre, non era particolarmente impaziente di spiegare per quale motivo, quel pomeriggio, la sua presenza a corte non fosse più richiesta, nonostante Oscar fosse stata costretta a trattenersi per un impegno inderogabile.
Aveva condotto Alexander al passo fino al limitare dello spiazzo sul retro, nel punto in cui si apre il vialetto sterrato che conduce alle scuderie, opportunamente facile da raggiungere, ma sapientemente celate dietro una barriera di boscaglia solo apparentemente impenetrabile, così da non disturbare l’armonia del panorama dei giardini, offerto alle finestre di Palazzo.
Era smontato di sella e si era incamminato con tutta calma, conducendo il cavallo per le briglie e regalandogli di quando in quando un buffetto sul muso, visto che sembrava insolitamente desideroso di attenzioni. Si era anche attardato nell’ombra punteggiata di spiccioli di luce, per concedergli di brucare qualche filo d’erba fresca, sfuggito chissà come alla disciplinata falce dei giardinieri di Palazzo, prima di condurlo finalmente oltre la soglia del basso edificio in legno e mattoni.
Aveva vacillato appena, superando il varco dell’unica anta lasciata scosta, e gli era servito qualche secondo per abituarsi alla poca luce, che riusciva a filtrare tra le assi degli scuri abbassati. Si era crogiolato nella familiarità dell’odore del fieno fresco e degli animali ben accuditi, dei suoni sordi, attutiti dalla paglia e dalla terra battuta, mentre i contorni tornavano velocemente nitidi e i dettagli distinguibili. Era avanzato di un passo, bloccandosi quasi subito.
Non aveva idea di quanto fosse rimasto così, immobile come una statua di sale. Un po’ alla volta i pensieri razionali avevano ripreso a fluire, come il fiato, trattenuto a gonfiargli il petto. Si era forzato a respirare, piano, mentre la mente riusciva finalmente comporre la scena esposta agli occhi da qualche istante, sorprendente per quanto inattesa, eppure via via quasi ovvia nella sua armoniosa naturalezza: due figure allacciate nella quiete della penombra, dita delicate a sfiorare la nuca, a giocherellare con ciocche dorate, palpebre sognanti e chiuse mentre le labbra si sfioravano, si cercavano in un bacio che era quasi un sorriso.
Continuava a fissarli e ancora stentava a credere ai suoi occhi, Nanà e Philemon si stavano baciando[iv]! Lei gli circondava il collo, le braccia flessuose affidate alle sue spalle larghe; lui le cingeva la vita con una stretta apparentemente inespugnabile, eppure delicata, quasi arresa, in una strana commistione di possesso e protezione. Nanà appariva ancora più minuta in quell’abbraccio, ma inspiegabilmente era Philemon a sembrare più indifeso, quasi fragile. Forse era per la posizione, perché lei rimaneva in piedi e lui doveva sollevare il mento per raggiungere le sue labbra, seduto com’era su quel piccolo sgabello claudicante.
Era così vecchio quello sgabello. Lo aveva riconosciuto subito, era quello che usava da sempre Jean-Luc quando doveva prendersi cura delle zampe dei cavalli, lo stesso su cui si era arrampicato lui da bambino per arrivare a sellare Golia[v], quando era ancora troppo piccolo anche per il suo piccolo vecchio pony.
Non sapeva perché avesse attirato la sua attenzione, o perché fosse riaffiorato proprio in quel momento un ricordo tanto lontano. Sapeva solo che a un tratto era stato travolto dalla sgradevolissima sensazione, che nell’armonia naturale di quella scena ci fosse una nota stonata e che quella nota stonata fosse solo lui. Si erano rifugiati in quella tiepida penombra per sfuggire a sguardi indiscreti e lui era arrivato ad interrompere l’incanto.
Nei tanti anni trascorsi da quando era solo un bambino, gli era capitato spesso d’imbattersi, suo malgrado, in convegni clandestini di amanti a corte, o nei ruvidi amplessi venduti o rubati senza troppa vergogna nei vicoli di Parigi. Per la prima volta in vita sua, però, non si sentiva un osservatore involontario e incolpevole di vite estranee, ma un vero e proprio intruso. Avrebbe dovuto semplicemente distogliere lo sguardo e andarsene, senza farsi notare come ogni altra volta, ma non ci riusciva.
Era dovuto ricorrere a tutta la sua determinazione per costringersi ad arretrare silenziosamente di un passo, poi di un altro, ed era quasi pronto a voltarsi, quando uno sbuffo di froge e il colpo impaziente di uno zoccolo, subito seguiti da un nitrito nervoso, avevano infranto la quiete ovattata. Alexander, per nulla rapito dalla magia del momento, aveva deciso di dare un chiaro segno della sua insofferenza per la protratta immobilità, attirando inevitabilmente l’attenzione di tutti.
Erano rimasti immobili per un interminabile istante di pietrificato imbarazzo, fino a che Nanà, per prima, non aveva sciolto l’abbraccio e si era girata verso di lui, aggiustandosi la cuffietta con noncuranza, mentre Philemon scattava in piedi alle sue spalle.
“Bentornato, André.” la stessa dolce espressione di sempre, accesa però di una luce nuova e adorna del lieve rossore, che le imporporava le gote.
“Io non…” aveva stentato una replica, tolto subito d’impaccio da lei, che non gli aveva consentito di proseguire.
“Scusatemi ma ora devo proprio tornare alle cucine. Si staranno chiedendo dove sia finita.”
Si era avviata con passo svelto, andandogli incontro per guadagnare l’uscita senza nessuna esitazione, neanche quando, passandogli accanto, aveva aggiunto nella fretta di un timido e radioso sorriso “Siamo fidanzati.” per poi dileguarsi velocemente in un alone di luce oltre la soglia.
Senza fiato o parole si era girato di scatto verso Philemon, che ancora non si era mosso, ma aveva sostenuto serenamente il suo sguardo. Si era limitato ad aggiustare il panciotto, fino a che neanche lui aveva più potuto evitare di sorridere, confermando solo con un cenno del capo.
“Congratulazioni! È una notizia meravigliosa!”
Lo aveva detto di tutto cuore, felice anche di riuscire finalmente ad articolare una frase di senso compiuto.
“Grazie.” aveva risposto asciutto, prima di gonfiare d’aria il petto ampio, ravviarsi i capelli, raddrizzare fieramente la schiena e parlare, al dunque, con una sicurezza che non gli aveva mai visto prima “Devo parlare con il Generale[vi].”
 
Una lama di luce fende l’ombra placida, incuneandosi nel cuoio bruno della sella appena risistemata sulla groppa di Alexander. La percorre con lo sguardo a ritroso fino alla sottile crepa che le ha consentito d’irrompere nella tranquillità di quel rifugio. La fissa come incantato, poi si riscuote e si piega per assicurare il sottopancia. Fa scorrere una carezza rassicurante lungo il collo teso del cavallo e torna a osservare la pigra danza del pulviscolo in quel fascio pallido e dorato. Proprio non riesce a impedirsi di tendere le labbra in un sorriso malinconico.
Quante volte da piccolo si era incantato a contemplare quello spettacolo di luce, aria e polvere. Certe sere gli sembrava un’eternità il tempo che doveva trascorrere appollaiato sul grosso ceppo nell’angolo della bottega di suo padre. Aspettava che avesse finito il lavoro per riaccompagnarlo a casa per cena[vii], come sua madre era solita chiedergli, e bisticciava con la noia, cercando distrazione nelle impalpabili volute che animavano il quadro della piccola finestra poco distante. Lo incuriosiva come apparissero casuali, eppure in qualche modo sempre uguali, quasi fossero costrette a obbedire a un’imperscrutabile regola. Le studiava per un po’, dilettandosi di tanto in tanto a passarci in mezzo un dito o la piccola mano, solo per assistere ancora una volta a come, gradualmente, quelle pagliuzze insignificanti tornassero necessariamente al loro tragitto, incuranti della sua dispettosa ostinazione[viii].
Gli sfugge l’accenno di una risata al riaffiorare improvviso del ricordo di una buffa smorfia stampata sul volto di suo padre, nitido, come non riusciva più a metterlo a fuoco ormai da tanto tempo. Una sera gli si era accostato, fregandosi le mani in uno straccio e cogliendolo di sorpresa, mentre se ne stava lì ad agitare le mani nel vuoto.
“Cosa stai cercando di fare? Addomesticare l’aria?” aveva chiesto, sforzandosi di non ridere, ma era evidente, che quel suo strano gioco doveva divertirlo molto più di quanto non lo incuriosisse. Imbarazzato, non aveva risposto nulla, limitandosi a raccogliere frettolosamente le mani in grembo e a scrollare il capo, imbronciato.
“Beh, allora andiamo, che tua madre ci sta aspettando.”
Era saltato giù dal suo rialzo, prima che la grande mano del padre arrivasse a scarmigliargli i capelli, come faceva ogni volta, e si era avviato in fretta, precedendolo a piccoli passi veloci e indispettiti. Non aveva aperto bocca per tutto il breve tragitto fino alla porta di casa, dietro l’angolo. Era arrabbiato. Si annoiava a starsene lì seduto ad aspettarlo, ma non aveva nessuna voglia di dirglielo, per l’ennesima volta, solo per vederlo scrollare il capo e sorridere bonariamente, ricordandogli di non fare capricci. Lo faceva infuriare: solo perché era un bambino non poteva decidere o cambiare nulla. Poi all’improvviso un giorno era cambiato tutto.
Aveva imparato a Bourges quanto veramente durassero le ore, sempre uguali, interminabili, quando doveva starsene in un angolo della sartoria senza fiatare, cercando di rendersi invisibile per non disturbare le lavoranti e non indispettire Madame Durier. Era tutto così diverso, tanto da chiedersi cosa ci facessero lì, ma sua madre gli aveva detto che era la soluzione migliore e si era sforzato di obbedire, anche perché lo aveva capito da solo che non c’era più un’altra casa cui tornare.
Quella specie di gioco solitario era tornato a occupare il lento scorrere del tempo. I vortici inconsistenti continuavano a seguire il loro percorso segreto anche lì, incuranti di tutto, ma di nuovo tutto era cambiato, senza che lui volesse o potesse farci niente. Li aveva ritrovati ancora, immutabili, si avviluppavano anche nella livida luce della luna, le notti in cui non riusciva a dormire, perché faceva troppo freddo o perché un nuovo arrivato ancora non si era rassegnato e continuava a lamentarsi e singhiozzare nella soffitta buia dell’orfanotrofio.
Era stato portato via anche da lì e si era ritrovato a Palazzo Jarjayes, un altro mondo, mai neanche immaginato nelle sue più fervide fantasie di bambino. Eppure anche in quel luogo la polvere danzava nella luce, incurante e ignorata: nelle cucine sconfinate, affollate di estranei indaffarati; nella stanza, la prima che avesse mai potuto dire sua e dove si era sentito smarrito e solo; persino nel maestoso studio del Generale, adorno di legni e marmi preziosi e lucidi. Si era sentito così piccolo e fuori posto quella prima volta al cospetto del padrone, come lo aveva chiamato quella nonna, che conosceva appena. Quando gli si era avvicinato fissandolo dall’alto in basso con occhi freddi e severi, aveva dovuto abbassare lo sguardo, ritrovando però nell’aria tremula quell’impalpabile conforto. Almeno quello non sarebbe mai cambiato. Poi avevano bussato e, in mezzo a un raggio di sole, era comparsa Oscar, spazzando via le pagliuzze dorate.
Il petto vibra liberando un verso strano, sorride e scrolla il capo. Quanto aveva detestato da principio quel luogo e quel bambino bellissimo e insopportabile, che aveva mandato in pezzi le poche certezze, cui ancora credeva di potersi aggrappare. Poi, in qualche modo, quel bambino era diventata la sua Oscar e Palazzo Jarjayes la sua casa.
Allunga la mano alla cieca per afferrare i finimenti, trovandoli come sempre al loro posto, ma diversamente dal solito si gira per far scorrere lo sguardo sul cuoio, che già sente familiare e liscio sotto i polpastrelli. Poco oltre, ordinatamente aggrappati alla parete, sono allineati i ganci di ottone, che sorreggono il corredo di testiere e redini delle scuderie di Palazzo. Sopra a ognuno una piccola targa riporta un nome: Leonida, Augustus, Cassiopea, Orlando, Ippolita... Nomi di cavalli, che hanno occupato quelle scuderie molto prima del suo arrivo, prima ancora della sua nascita, prima anche dell’arrivo di Jean-Luc.
Il vecchio stalliere glieli aveva fatti notare la prima volta che era entrato lì per imparare come sellare un cavallo. Poi tante altre, mentre lavoravano, gli aveva raccontato la storia di ognuno, di come il fu Jean Antoine Reyner, Monsieur de Jarjayes, li avesse scelti uno a uno, quando aveva preso possesso di quella casa dopo avere conquistato il titolo di famiglia, di quanto ne andasse fiero e di come, da allora, quei nomi fossero rimasti a indicare la posizione dei finimenti: Leonida[ix] per quelli del padrone, Augustus per quelli dell’erede designato e così via.
Non era altro che una regola per mantenere l’ordine, come aveva capito in seguito, ma era rimasta indelebilmente impressa nella sua fantasia di bambino, affascinata e alimentata da quelle storie, che sapevano di tradizione, di appartenenza, di continuità e di certezze immutabili passate da una generazione all’altra. Da tanto tempo non è più quel bambino, lui e Oscar sono cresciuti, il Palazzo e la tenuta non sono più il loro piccolo mondo inesplorato da conquistare, e di quelle storie non è rimasto altro che il fascino malinconico di un tempo che non tornerà più.
Alexander apre la bocca appena avvicina il morso e lo asseconda docilmente, abbassandosi per infilare la testiera, incurante di dover indossare i finimenti quasi nuovi della nobile giumenta lipizzana appartenuta alla sorella più piccola del Generale. Per quanto sciocco possa sembrare, quando gli era stata assegnata la postazione di Aretusa, lui, invece, aveva sentito riaffiorare un vago moto di orgoglio, eco di quello che lo aveva travolto a otto anni, ricevendo dalle mani di Oscar la prima spada da allenamento dalla collezione di Famiglia per espresso ordine del Generale.
Aggancia le redini e lascia scorrere pigramente la mano lungo la criniera e lo sguardo tutto intorno sul sentiero dei ricordi. Fatta eccezione per gli animali, non è cambiato praticamente nulla nelle scuderie dal giorno del suo arrivo a Palazzo, così come nei giardini e in casa, in ossequio alla rigida disciplina imposta dal Generale, fatta di un numero infinito di regole insindacabili. O almeno così gli erano parse appena arrivato, quando la nonna non la finiva mai di riprenderlo e correggerlo.
“Non così, ma così!” lo richiamava all’ordine ogni volta con tono perentorio.
I primi tempi aveva timidamente tentato di chiedere spiegazioni, solo per sentirsi invariabilmente rispondere “Perché è così che si deve. Perché così vuole il Generale.”
Non c’era voluto molto perché smettesse di obiettare, limitandosi a obbedire, considerando le regole del Generale alla stregua di un’emanazione divina, esattamente come i tanti divieti che Padre Jacques, il vecchio cappellano di Palazzo, non mancava di enumerare a lui e a Oscar, quasi fossero nuovi comandamenti, di cui però nessuno si era premurato di renderlo edotto al convento di Saint Pierre[x].
In breve si era semplicemente adeguato, un po’ perché tutti a Palazzo sembravano muoversi in armonia, seguendo la corrente imposta dalle tacite direttive del Padrone, un po’ perché non ne poteva più del modo in cui Oscar lo guardava ogni qual volta si azzardava a manifestare qualche dubbio: gli rispondeva piccata, fulminandolo, come se fosse troppo insolente o stupido per capire, poi gli toglieva la parola e teneva il broncio per un po’. Ci era voluto qualche anno perché smettesse di annunciare la fine di quella cura del silenzio, aggredendolo anche fisicamente per sfogare la rabbia residua. Con il tempo anche questo ha assunto la ritualità di una consuetudine: lui ha imparato e ad attendere pazientemente che lei torni a rivolgergli la parola come se niente fosse e che tutto riprenda a scorrere secondo la loro rassicurante regolarità.
“Cosa ne pensi? Per una volta infrangiamo le regole e ce la squagliamo di nascosto?”
Ridacchia, sentendosi un po’ stupido per il tono cospiratorio rivolto al suo fido destriero. Alexander, però, da l’impressione di apprezzare, sbuffando rumorosamente e scuotendo il capo.
“Sì, sì… adesso andiamo, non ti entusiasmare troppo!”
Lo accarezza sul naso per tranquillizzarlo, ma troppo tardi per evitare che si muova abbastanza da sfregare contro il parafianco, facendo cadere la coperta.
“Ecco, guarda cos’hai combinato.” lo rimprovera scherzosamente, spingendolo per riuscire a passare accanto alla parete e a raccogliere il panno dalla paglia.
“E adesso? Te la vedi tu con Jean-Luc, se se ne accorge!” intanto scrolla e batte il feltro spesso prima di risistemarlo sulla paratia.
Alexander torna subito calmo e immobile, come se la finta minaccia avesse colto nel segno.
“Te lo ricordi anche tu, eh?” gli sussurra, premiandolo con una grattatina dietro l’orecchio.
Lui sicuramente, anche perché non gli era mai capitato di vedere il vecchio stalliere, solitamente imperturbabile quanto una montagna, tanto fuori di sé.
Era autunno inoltrato, o forse già inverno, perché il fiato condensava in aria in piccole nuvole, mentre seguiva il Generale lungo il sentiero verso le scuderie. Lo aveva convocato prestissimo quella mattina. La sera precedente era tornato da una lunga missione e desiderava essere informato su come procedesse il nuovo incarico di Oscar a Corte, prima di venire ricevuto in udienza dal Re.
Ecco sì, era inverno, l’ultimo inverno di Luigi XV.
Aveva fretta e gli aveva chiesto di finire di aggiornarlo lungo il tragitto.
Stranamente, appena varcato il portone, non avevano trovato Jean-Luc con il cavallo già pronto per farlo montare in sella e persino il Generale si era lasciato sfuggire un impercettibile segno di sorpresa e titubanza, ma subito lo aveva esortato “Andiamo.” e si era avviato a passo di marcia per aggirare l’ala sud del Palazzo, continuando ad ascoltarlo sopra lo scricchiolio della ghiaia.
Certo è che nessuno si aspettava di sentire la voce di Jean-Luc risuonare già lungo il vialetto, né, tanto meno, di assistere alla scena, che gli si era parata davanti entrando. Il capo-stalliere incombeva sul giovane apprendista, arrivato da poche settimane dalla Normandia, che sembrava volersi fare piccolo, quanto mai avrebbe potuto, e subiva silenzioso i sonori rimproveri, stringendo al petto una delle coperte dei cavalli.
“Cosa sta succedendo?!” aveva tuonato il Generale, più come richiamo all’ordine che come un’effettiva domanda.
Entrambi erano scattati sull’attenti, cercando di ricomporsi.
“Signore… scusate Signore, il mio comportamento è imperdonabile, ma…”
Un cenno della mano, tanto era bastato al Generale per bloccare la foga con cui Jean-Luc tentava di giustificarsi, tenendo il capo basso in segno di rispetto, ma forse anche per nascondere il viso arrosato per l’agitazione.
Uno sguardo a Philemon e un garbato ma fermo “Dunque?” erano bastati per ottenere una risposta dal giovane palesemente atterrito, che, nonostante la stazza, con quei grandi occhi sgranati sembrava un bambino.
“Dovete perdonarmi, Padr… Signore, è solo colpa mia.” era affannato e la voce gli tremava, mentre i pomelli rossastri, che segnavano sempre le guance del viso ampio e candido, si facevano di un tono più acceso “Io non… Monsieur Jean-Luc me lo aveva già detto che non si fa così qui con le coperte, ma per l’abitudine… mi sono sbagliato e ho fatto come … come facevo…” tutto d’un fiato.
“Sì, Signore, gli ho spieg…” di nuovo solo un cenno della mano per bloccare il solerte intervento.
“Le coperte?” un sopracciglio si era appena sollevato, manifestando un insolito interesse “Cosa eri abituato a fare di diverso con le coperte dei cavalli da Monsieur Rennard?”
“Sì, da Monsiur Rennard, Signore…” Philemon aveva alzato il capo di scatto e quasi sorriso, come rassicurato dal solo nome, di quello che fino a un mese prima era stato il suo padrone e che lo aveva raccomandato per le scuderie di Palazzo Jarjayes “Da Monsieur Rennard le coperte vanno appese sui parafianchi, una per ogni cavallo. Monsieur Rennard dice che è per questo che i suoi cavalli soffrono il raffreddore e le coliche meno di quelli di ogni altro allevamento di Francia” orgoglioso e fedelmente certo della veridicità di quell’affermazione arbitraria.
“Signore, ve lo assicuro, gli ho spiegato che qui ha Palazzo non si è mai fatto. Bisogna mantenere l’ordine e vanno impilate come d’uso sugli scaffali vicino ai finimenti. Da ora in poi si farà come si è sempre fatto, ve lo garantisco.”
Il Generale non lo aveva interrotto, apparentemente preso da altri tutt’altri pensieri.
“Dimmi, Monsiuer Rennard fa altro, che qui non si fa?”
“Beh… l’aglio!”
“Aglio?”
“Monsieur Rennard fa aggiungere aglio essiccato al pastone dei cavalli in autunno e per tutto l’inverno, così non prendono mai la tosse.”
“Signore, qui non…”
“Sì, lo so, ma Monsieur Rennard è certo un allevatore di grande competenza. Da anni ci serviamo da lui per le bestie migliori senza mai rimanere delusi. Non c’è ragione per cui non dovremmo adeguarci alle sue buone pratiche. Bene, è deciso, da ora in poi le coperte saranno tenute sui parafianchi e… quell’altra cosa… ”
“L’aglio, Signore.”
“Sì, certo… provvedi a procurartelo e fatti indicare dal nostro bravo giovane, qui, come somministrarlo agli animali.”
“Certo Signore, provvederò immediatamente.” aveva replicato il capo-stalliere senza battere ciglio.
La decisione del Generale era bastata a spazzare via ogni traccia di quello che solo pochi minuti prima era parso un dramma insormontabile e di cui rimanevano le ultime tracce solo nell’espressione ancora un po’ titubante del giovane Philemon.
“Vi preparo subito il cavallo, Signore. Dovete perdonare la mia inadempienza…” si era premurato di anticipare Jean-Luc, cercando di riportare la mattinata alla ritualità consueta.
“No, non serve. Fatemi preparare la carrozza. Oggi mi recherò in carrozza alla Reggia.”
“La carrozza, Signore? Sì, certo, provvedo immediatamente.”
“Dunque André… mi stavi dicendo? …”
Da quel giorno il Generale aveva continuato a prediligere la sella per i suoi spostamenti, limitando l’uso della carrozza a occasioni particolari, ma le coperte nelle scuderie di Palazzo erano state sistemate sui parafianchi e l’aglio era comparso tra la biada all’inizio di ogni autunno, senza obiezioni o discussioni, come se fosse stato da sempre parte della tradizione su cui si regge la perfezione di un meccanismo apparentemente immutabile.
Nonostante le apparenze e la rassicurante regolarità delle consuetudini, che ha contribuito a rendere quel luogo la sua casa, la vita scorre e le cose cambiano inevitabilmente a Palazzo come in qualunque altro luogo. Forse è solo lui a non volerlo ammettere o a non essere poi un così acuto osservatore. Certo a Versailles e a Parigi sembra cogliere tutto quello che Oscar, più o meno deliberatamente, finisce con l’ignorare, ma a Palazzo, è ormai evidente, sono parecchie le cose, cui non è solito prestare la dovuta attenzione.
Sicuramente lo aveva colto alla sprovvista la Colette giubilante, che qualche anno addietro[xi] aveva fatto irruzione nelle cucine, facendogli andare di traverso il vino. Non la smetteva di saltellare e ripetere “Me lo ha chiesto e il Padrone ha detto di sì!!... Me lo ha chiesto e il Padrone ha detto di sì!!”
“Ma cosa…” aveva cercato di articolare, tossendo.
“Oh, insomma un po’ di contegno! Non è certo questo il modo di comportarsi, fosse poi una gran sorpresa!” era intervenuta lapidaria sua nonna.
Subito si erano fatte intorno chiocciando le cameriere presenti e qualche altra, accorsa espressamente per l’occasione.
“Oh, che meraviglia!”
“Avete già fissato la data?”
“E dove andrete a vivere…”
“Oh, avrai certo della servitù!”
“Cosa?... Chi?” aveva tentato d’intromettersi lui, unico non a parte di un evento evidentemente noto a tutti.
“Oh,… il nostro bell’addormentato[xii]!!” lo aveva apostrofato con insolito garbo Yvette[xiii], innescando la reazione della truppa al suo comando, appena evasa dalla stanza della biancheria.
“Ooooohh…. povero piccolo…”
“Vieni che te lo spiego io…”
“Certo non vede altro…”
“Oh, piantatela e tornatevene al lavoro voi!!” le aveva riportate nei ranghi la capo-lavandaia, prima che sua nonna prendesse provvedimenti e ricorresse a misure più drastiche in virtù del suo grado.
Nanà era stata la sola tanto gentile da degnarlo di un minimo di attenzione e dedicare un momento ad aggiornalo. A quanto pareva, Monsieur Roger, nipote ed erede di Monsieur Gaultier[xiv], da sempre sarto dei Signori de Jarjayes, faceva da mesi la corte alla graziosa Colette e non si attendeva altro che la protratta frequentazione si concludesse con il fortunato quanto incerto esito auspicato da tutti, soprattutto da Colette.
“Ma ti pareva normale che per delle usuali consegne si presentasse ogni volta il nipote del padrone?!” si era limitata a osservare Nanà, palesemente divertita dalla sua espressione ancora perplessa.
La verità era semplicemente che non aveva prestato la minima attenzione alla cosa, anche se, a volerci ripensare, ricordava perfettamente il giovanotto educato e ben vestito, che era stato presentato ufficialmente dallo zio alla prima occasione.
Le ordinazioni periodiche della biancheria e delle camicie erano la sola attività domestica da gentiluomo[xv], cui Oscar era solita presenziare e a lui, di conseguenza, toccava assistere. Sapeva benissimo che, per quanto sua nonna non avrebbe mai osato prendere iniziative per il guardaroba del Generale, certo, se lasciata sola a decidere, non si sarebbe lasciata sfuggire l’opportunità di aggiungere al corredo della sua bambina qualunque frivola novità alla moda Monsieur Gaultier avesse avuto l’ardire di proporle.
Quel giorno, stavano giusto discutendo di una nuova rouche da aggiungere ai polsini, di cui Oscar non voleva neanche sentire parlare e che lui era pronto a giurare di avere già visto sbucare dalle maniche di Girodelle qualche settimana prima.
“Ma bambina… per una volta… ”
“No, ho detto che non li voglio!” al solito, Oscar l’aveva censurata con decisione, seppur sforzandosi di tenere la voce bassa e un certo contegno, per non dare spettacolo di fronte all’anziano e distinto sarto, che poco distante era intento a pescare una nuova pezza di finissimo lino da uno dei suoi bauli, mentre il nipote prendeva nota dell’ordine in un libricino.
“Insomma, nonna, quando ti rassegnerai…” l’aveva pungolata lui, prendendola in giro.
“Mai… mai!... e piantala tu, insolente! Cosa ne vuoi sapere…” lo aveva rimbrottato, riordinando sconsolata le camicie sparpagliate sul tavolo del salon nelle stanze di Oscar.
“Madamigella, è questa che desideravate?” si era compostamente fatta avanti Colette, comparendo dall’arco della camera da letto.
“Sì, proprio questa. Le desidero esattamente così, come sempre.”
“Ma bambina mia, ancora quella camicia così vecchia… ” aveva tentato di lamentare la nonna nonostante l’impedimento delle circostanze.
“Monsieur Gaultier, questo modello nel nuovo tessuto.” aveva incalzato Oscar, ignorandola.
“Sempre ai vostri ordini, Comandante, sarà fatto.” si era limitato ad assentire il sarto con un lieve inchino, lasciando ricadere la pezza appena trovata nel baule “Segna, Jeremy… e dieci in cotone egiziano ritorto… Jeremy?!... Jeremy!!” si era voltato solo un istante a fulminare con lo sguardo il nipote distratto, per poi tornare subito a sorridere rassicurante al Comandante de Jarjayes.
“Sì?... Sì, certo… perdonate Zio… mi ero attardato un attimo… sì, ecco e altre dieci… ho provveduto ad annotare ogni cosa.” ricomponendosi in fretta.
Monsieur Gaultier si era accostato al tavolo per recuperare i suoi campioni e riassumere con la governante quanto stabilito, sotto l’irrequieta supervisione di Oscar, che andava avanti e indietro, rivolgendo sguardi sempre più impazienti ora a lui, ora fuori dalla finestra.
Tutti erano tanto presi dalla liturgia dell’ordine stagionale da non accorgersi di ciò su cui il giovane Jeremy Roger si era attardato, tutti tranne lui e il più che cosciente oggetto di tanto irresistibile interesse. Colette se ne stava conveniente in disparte, con le mani raccolte in grembo, in silenziosa attesa di ordini, esattamente come sua nonna e chiunque altro in quella casa davano per scontato, ma ricambiava senza esitazione gli sguardi, che tornavano di sfuggita a più riprese, sempre più insistenti quasi non potessero farne a meno.
Aveva trovato piuttosto divertente che nessuno sembrasse accorgersi nemmeno del leggero tremito nella voce di Monsieur Roger, alimentato dal sorriso malizioso, che scintillava come oro nei grandi occhi nocciola di Colette. Si era sorpreso a considerare che nemmeno la castigata uniforme di Palazzo riusciva a penalizzare la grazia della figura snella e minuta, e che l’incarnato rosero e l’ovale armonioso, incorniciato di ricci scuri, ricordava la perfezione di una delle costose bambole di porcellana appartenute alle sorelle di Oscar. La conosceva da anni e l’aveva sempre considerata una ragazza graziosa, ma gli occhi nuovi di Jeremy Roger gliela mostravano in una luce diversa, facendogli cogliere per la prima volta quanto fosse effettivamente attraente la piccola Colette.
In ogni modo, non aveva dato particolar peso all’evento, assumendo che non avrebbe potuto comunque perturbare l’affidabile consuetudine della vita a Palazzo e trovandosi, suo malgrado, colto alla sprovvista dagli inattesi sviluppi.
Naturalmente aveva sollevato una certa sorpresa anche tra la servitù, che Colette fosse riuscita ad accalappiare un così buon partito, ma sua nonna si era premurata di puntualizzare che non poteva esserci migliore garanzia di merito e serietà di una posizione a Palazzo Jarjayes. Dal canto suo, Monsieur Gaultier non aveva mosso obiezioni una volta incassata l’approvazione di Padroni, da sempre suoi così buoni clienti. Con tutta probabilità, aveva giocato a favore anche la dote, che per regola la Contessa de Jarjayes faceva mettere da parte per tutte le giovani nubili che lavoravano a Palazzo. Non erano certo le 3000 livres garantite alle nobili allieve del Saint-Cyr, ma nel solco della tradizione della sua vecchia scuola, Madame voleva che, quando le ragazze avessero lasciato il servizio, fossero dotate di un piccolo patrimonio, tale da consentire loro un matrimonio dignitoso o l’ingresso in un convento rispettabile.
Era così che Madame Rogerce l’aveva fatta’, arrivando a incarnare la speranza di un futuro migliore per le tutte le ragazze a servizio presso il Palazzo, tanto più per quelle assunte in seguito, che non l’avevano mai conosciuta semplicemente come la capace e puntuale femme de chambre di Madamigella Oscar, quello che lui aveva dato per scontato sarebbe rimasta per tutta la vita.
D’altronde non c’era poi molto da sorprendersi. Non era stato certo più attento con Annette, la prima persona amica che lo aveva accolto a Palazzo ed era diventata per lui una sorella, più di quanto avrebbe mai potuto essere una del suo stesso sangue. Amico e confidente, testimone dall’inizio del lusingato e timido stupore per le cortesi attenzioni dedicatele dall’attendente del Generale, era stato in apprensione per i suoi primi sospiri d’amore, poi felice di vederla ricambiata da un affetto altrettanto sincero e onesto. Ciononostante, anche lei lo aveva lasciato di stucco annunciandogli che se ne sarebbe andata[xvi].
“Non sei felice per me?” gli aveva chiesto con gli occhi colmi di lacrime di gioia di fronte al suo silenzio attonito.
“C…certo, che lo sono!” si era affrettato a rispondere, stringendosela al petto con urgenza e baciandole e capelli “… Sono felicissimo per te e Jerome. Felicissimo, veramente!”
Annette aveva forzato l’abbraccio per guardarlo in viso, allora si era costretto a ricambiare il sorriso, anche lui con gli occhi traboccanti lacrime. Avevano giurato di scriversi ogni giorno e rivedersi ogni estate ad Arras. Lei gli aveva fatto anche promettere di fare da padrino per ognuno dei figli che Dio avesse mandato a benedire quel matrimonio.
Da quel giorno sono passati anni, gli intervalli tra le lettere si sono fatti settimane, poi mesi, e la piccola Camille ha già compiuto nove anni senza che lui abbia neanche visto l’ultima sorellina venuta al mondo lo scorso inverno, né i due maschietti che l’hanno preceduta, il secondo dei quali porta persino il suo nome. L’affetto e la tenerezza, che ancora prova per Annette, non sono certo stati intaccati dal tempo o dalla lontananza fisica, ma la vita, la sua vita fuori dal Palazzo, raccontata una lettera dopo l’altra, è diventata per lui sempre più distante, come qualcosa cui può assistere, ma non condividere. Non riesce, magari non vuole, forse semplicemente non osa.
Ed eccolo di nuovo, spettatore della vita di Nanà. Gli sembra solo ieri che si aggirava come uno scricciolo spaurito per le cucine, timorosa di tutto e pronta ad arrossire appena le si rivolgeva la parola e ora… gli viene da ridere. Certo l’interesse di Philemon non era da tempo più un segreto per nessuno, ma che lei lo ricambiasse… beh, questa è tutta un’altra storia.
Viste le circostanze, si era aspettato qualche confidenza da parte del giovane stalliere, mentre lo aiutava a occuparsi di Alexander, prima di accompagnarlo a chiedere udienza al Generale. Invece era rimasto in silenzio, impassibile, come se la sella, il morso e i finimenti, fossero le uniche cose ad occupare la sua mente.
Con estremo tatto si era arrischiato a chiedergli come fosse andata. “C’è voluto un po’.era tutta la risposta che aveva ottenuto. Poi però Philemon si era bloccato e, sopra la groppa ormai nuda del cavallo, si era girato a fissarlo negli occhi, risoluto e serio, come mai lo aveva visto prima, solo per lasciarsi andare a uno di quei larghi sorrisi, che gli illuminavano il volto di una gioia fanciullesca. Infine aveva di nuovo distolto lo sguardo, scrollando il capo come per schernirsi e tornando a crogiolarsi serafico nei suoi pensieri.
“Se sei pronto, adiamo.” gli aveva detto appena finito di sistemare.
Il giovane aveva annuito con decisione “Andiamo.” e si era avviato a lunghi passi, precedendolo lungo il vialetto verso il Palazzo.
Era così, che nella galleria illuminata dalle grandi vetrate, fissando assorto le ante chiuse, dietro le quali era scomparso Philemon, si era trovato a ripensare a tutti i piccoli grandi accadimenti più o meno trascurati, che dai primi impacciati e titubanti approcci li avevano condotti a quel momento.
Praticamente nessuno, da principio, si era accorto che la frequentazione delle cucine da parte del giovane stalliere era diventata via via più assidua e che, soprattutto, in questo non c’era proprio niente di casuale. Nonostante la stazza, sempre così taciturno e timido, non si prestava mai particolare attenzione alla sua presenza nei locali della servitù ed era servita tutta la vigile malizia di Inès per palesare quanto stava accadendo da qualche tempo, totalmente ignorato, sotto gli occhi di tutti.
“Oh, rieccolo!” era sbottata un giorno, entrando nelle cucine con una pila di stracci lavati “Che vi avevo detto?” aveva buttato la voce alle sue compari “Il cavalier servente di Nanà è qui anche oggi.” alzando il tono abbastanza, perché la potessero sentire distintamente dalla stanza del bucato e tanto da portare sconquasso nella pigra quiete, che ha sempre caratterizzato il dopo pranzo nelle cucine di Palazzo.
Thècle e Aglaè erano accorse, trovando evidentemente la cosa più urgente del portare a termine il loro consueto lavoro di stiratura.
“Ma guarda un po’… chi se lo sarebbe mai aspettato dalla piccola…”
“Guarda, guarda il bambinone!”
“Eh, ma si sa che le acque chete…”
Avevano preso a chiocciare, richiamando la stupita attenzione dei presenti.
Nanà da principio le aveva ignorate, probabilmente perché non si era neanche resa conto di essere lei, per la prima volta, il bersaglio dei loro commenti inopportuni. Aveva continuato a vigilare accanto alla stufa sulle sue pentole borbottanti, fino a che, sollevando lo sguardo per rivolgere un cenno di ringraziamento a Philemon, che lì accanto issava suoi fuochi un gigantesco paiolo colmo d’acqua, non si era accorta della platea di occhi puntati su di loro.
“Ecco qui, Mademoiselle Nanà, posso fare altro? Vi serve un altro sacco di farina dalla dispensa prima che me ne vada?” aveva chiesto lui, ignaro e servizievole, senza però ricevere risposta, ma solo un’occhiata nervosa, che lo aveva fatto girare di scatto.
“Sì, ‘Mademoiselle’…” gli aveva fatto il verso Ines “… cosa può ‘fare per Voi’?” lordando le stesse innocenti parole dei peggiori sottintesi e innescando le sconvenienti risate delle sue due complici.
Philemon era avvampato, arretrando e stringendosi nelle spalle, come era solito fare nel vano tentativo di scomparire.
“Philemon è sempre cortese con tutti.” era sbottata Nanà, dritta e contegnosa, senza però riuscire a trattenersi dal torcere il grembiule tra le dita.
“Sì,… ‘cortese’… dice lei!” aveva ribattuto Thècle supponente, incrociando le braccia al petto.
“… sé! Altro che sacco di farina nella dispensa… ” rincarato Aglaè, piegandosi in avanti con le mani sui fianchi e un sorrisetto insinuante.
“Oh, che sciocchezze… è assurdo che possiate anche solo pensare…” quasi tremava Nanà, fissandole incredula, tra l’ira e l’imbarazzo.
“Scu… scusatemi…” era riuscito a sputare Philemon, a malapena udibile, piegandosi in un profondo quanto frettoloso inchino per poi dileguarsi in tutta fretta.
Nanà per qualche istante era rimasta a fissare attonita la sua ampia schiena che scompariva oltre la soglia spalancata sul parco, poi aveva lanciato un’occhiataccia alle tronfie lavandaie, rinunciando però a qualunque replica. Aveva allargato platealmente le braccia, lasciandole poi ricadere lungo i fianchi per dirigersi verso la dispensa con gli occhi rivolti al cielo.
“Si può sapere cosa ci fate qui?” aveva tuonato Yvette arrivando dal corridoio “Tornate subito al lavoro!”
Le tre erano rientrate svelte nella loro stanza, restituendo ogni cosa all’apparenza della solita quieta regolarità, in cui però, oramai, si era insinuata quella rivelazione come un dettaglio quasi impercettibile, ma irrimediabilmente evidente.
Tutti erano tornati a dedicarsi alle loro mansioni con la consueta dedizione e sollecitudine, chi in casa e nei locali di servizio, chi nelle cucine, chi, più rumorosamente, nella stanza della biancheria. Come era sempre stato, Philemon trascorreva quasi tutto il suo tempo nelle scuderie, facendo la sua comparsa nell’ala della servitù solo per le ore dei pasti e a tarda sera per ritirarsi, timido e silenzioso, ma, suo malgrado, non più invisibile.
Certo nessun altro si era azzardato a fare commenti o battute, forse per umana comprensione, più probabilmente per il ben radicato timore delle prevedibili conseguenze, nel malaugurato caso un simile comportamento fosse venuto a conoscenza di Madame Marie. Come il migliore degli ufficiali in seconda, la nonna di André vigilava, affinché tra i ranghi della servitù vigesse la stessa disciplina che il Generale esigeva da tutti gli abitanti di Palazzo e mai avrebbe lasciato correre su una tale mancanza di riservatezza e decoro. Purtroppo la truppa agli ordini di Yvette rimaneva da sempre la più propensa all’insubordinazione[xvii] e, se non era Inés, erano Thaecle o Aglaè a provvedere a pungere il povero Philemon con qualche frecciata maliziosa, ogni qual volta lo trovavano a rivolgere la parola o anche solo a passare accanto a Nanà, che finiva inevitabilmente con l’accusare il colpo, per quanto di striscio.
Con il passare dei giorni, non c’era neanche più bisogno che si trovassero nei paraggi, quasi le loro insistenti malignità avessero finito coll’impregnare l’aria. Il giovane stalliere era sempre più incerto e guardingo nella sua devota opera di assistenza, Nanà sempre grata e cortese, ma tanto nervosa che bastava il casuale attardarsi dello sguardo di qualcuno o l’accenno di una risata o un chiacchiericcio in lontananza per far avvampare lei e battere in ritirata lui.
Un’intirizzita e pigra sera di gennaio, però, qualcosa era cambiato. Faceva freddo fuori, quel freddo che rende l’aria limpida e fragile come cristallo e si appanna per un soffio di fiato. Troppo freddo per nevicare, anche se si poteva annusare distintamente l’odore della neve imminente nell’aria. Sotto un cielo gravido, oltre la grande vetrata sul fondo delle cucine, i giardini apparivano immobili, gelidi e scuri, come sculture di onice, rischiarati a tratti dal baluginare delle fiamme nel grande focolare.
Era troppo freddo anche per attardarsi nelle scuderie; tanto freddo che persino il vecchio Jean-Luc aveva preferito trattenersi con gli altri nel tempore avvolgente delle cucine, invece di ritirarsi solitario nella sua stanza appena finita la cena, come faceva da quando era rimasto solo.
Nanà aveva avuto la premura di far preparare a Lorelie del vino caldo e speziato, che continuava a sobbollire in un pentolone, diffondendo il suo aroma invitante. André ne aveva riempito due tazze fumanti e si era accomodato sulla solida panca di legno accanto al focolare a fianco del vecchio stalliere, porgendogliene una.
Oscar era uscita in carrozza con il Generale per prendere parte a una cena organizzata dal Generale Bouillet e non sarebbe rincasata fino a tardi, per cui anche a lui non sarebbe rimasto molto altro da fare, se non ritirarsi da solo a leggere nella sua stanzetta gelida. Erano rimasti per un po’ così, in silenzio, fianco a fianco a soffiare sulle loro tazze e sorbire lentamente quel tiepido conforto con lo sguardo perso nel dimenarsi delle fiamme, il cui crepitio si mescolava ai gesti e alle voci delle cameriere raccolte intorno al tavolaccio grande, intente a completare qualche lavoro di rammendo e scambiarsi confidenze, dei valletti e dei lacchè seduti sugli sgabelli all’angolo opposto del focolare, qualcuno impegnato a lucidare una fibbia o un paio di stivali, qualcun altro a commentare i fatti della giornata e dare consigli, non necessariamente richiesti. Saltuariamente, dal fondo dello stanzone, deflagrava una risata sguaiata, la cui origine era irrimediabilmente l’angolo vicino al girarrosto[xviii], in cui si erano assiepate le uniformi bianche della lavanderia per ascoltare dalla viva voce del giovane Jules[xix] non si sa quale divertentissima storia, palesemente troppo allegre e sicuramente troppo indulgenti con il vino. In sottofondo, di tanto in tanto, sentiva affiorare un profondo sospiro dal lato opposto della panca, oltre l’ancora massiccia figura di Jean-Luc, accompagnato ogni volta da un fastidioso tremito, propagato lungo la seduta.
“Che c’è… non bevi? Non ti piace il vino caldo, Philemon?” aveva chiesto Jean-Luc, appoggiato ai gomiti in equilibrio sulle ginocchia, con la sua voce profonda e un po’ ruvida, senza distogliere lo sguardo dal fuoco.
La sola risposta era stata un vago e indecifrabile mugugno, tanto che André aveva dovuto sporgersi in avanti e girarsi per cercare qualche ulteriore indizio, che lo aiutasse a capire se si trattasse di un sì o di un no. Con tutta probabilità neanche Philemon lo sapeva, forse non si era neanche reso conto fosse vino il contenuto della tazza che continuava a rigirarsi inutilmente tra le mani, che si allungava ad appoggiare sui mattoni caldi del focolare, solo per riprenderla un attimo dopo. Curvo come il vecchio Jean-Luc sulle ginocchia e ben nascosto nel suo angolo, anche lui aveva lo sguardo rivolto alle fiamme, ma sicuramente non perso. I suoi occhi puntavano oltre, sul lato opposto a sinistra, dritti su Nanà che, al tavolo da lavoro vicino alla stufa, stava finendo di dare la forma alle pagnotte da mettere a lievitare per essere informate da Lorelie alle quattro della mattina successiva.
Philemon continuava a fissarla senza perdere il minimo gesto, il più piccolo dettaglio, serio e attento, silenzioso e immobile. Solo per un attimo gli era sfuggito un mezzo sorriso, ricacciato indietro a fatica, quando l’aveva vista ridere per un’impertinente sbuffo di farina, che aveva imbiancato il viso della sua giovane aiutante. D’un tratto i muscoli si erano tesi, come se fosse sul punto di alzarsi o spiccare un balzo, ma era stato solo un istante. Un’occhiata fugace e mesta intorno, un sospiro sconsolato e aveva rinunciato, per tornare a seguirla solo con lo sguardo, lasciando scaricare la tensione nel tremito convulso della gamba.
“Cos’hai intenzione di fare?” aveva chiesto di nuovo Jena-Luc, sempre senza guardarlo, prima d’ingollare un’altra lunga sorsata di liquido caldo.
“Io non…” un altro profondo sospiro “… è… difficile.”
“Affatto! Cos’hai mai da perdere?”
“Ma… se non…” ancora un sospiro, solo per abbassare lo sguardo sulla tazza oramai fredda che continuava a rigirarsi tra le grandi mani.
“Bah… sciocchezze.” Jean-Luc aveva battuto il pugno sul ginocchio, in un inatteso gesto di stizza, per continuare più calmo, ancora rivolto alle fiamme “Non puoi perdere quello che non hai.”
Philemon allora si era bloccato e aveva drizzato la schiena per dirigere un’altra occhiata guardinga in giro per la stanza, indugiando sul gruppetto delle lavandaie.
“Hai forse qualcosa di cui vergognarti?”
“N… no!... Niente!”
“Allora cosa c’è mai da decidere?” un altro sorso.
Il giovane si era fatto serio “Ma…”
“Di chi t’importa veramente? Cosa vuoi veramente? Non c’è altro da capire.”
Non era servito altro. Philemon si era alzato in piedi calmo e deciso, e senza alcuna esitazione aveva scavalcato la panca.
“Non c’è altro che importi. Tutto il resto… bah, sono solo scuse! … inutili scuse… lasciatelo dire da qualcuno che lo ha capito troppo tardi.” e in una vorace sorsata Jean-Luc aveva svuotato la tazza e appoggiato la mano grave sulla spalla di André per aiutarsi a tirarsi in piedi a sua volta. Ma Philemon oramai era troppo lontano per sentire e forse non erano destinate a lui quelle ultime parole.
“Buonanotte, ragazzo.”
“Buonanotte…” aveva risposto André, seguendo per un attimo con lo sguardo il suo passo incerto, mentre gli girava attorno e si dirigeva verso il corridoio scuro. Solo per un attimo, prima di scomparire nel buio, si era girato e aveva sorriso malinconico, come a un’immagine lontana, forse a un ricordo.
Philemon si era diretto dritto come un fuso dalla parte opposta e con le sue lunghe falcate non gli ci era voluto molto per arrivare a destinazione.
“Desiderate altro vino, Monsieur Philemon.” si era affrettata a chiedere sollecita Lorelie, trovandoselo vicino.
“No, vi ringrazio, Mademoiselle.” garbato lui, limitandosi a porgerle la tazza, per risollevare subito lo sguardo su Nanà.
“Oh, ma non avete bevuto niente!” un po’ delusa nel trovarsi tra le mani la coppa di coccio ancora praticamente piena “Non vi è piaciuto il mio vino speziato?”
“Oh, no Lorelie. Sono certa che non sia questo il motivo…” premurosa, Nanà si era affrettata a rassicurare la sua giovane aiutante.
Philemon aveva sorriso “Assolutamente! Era molto buono, solo…” aveva abbassato lo sguardo e si era passato una mano dietro il collo, un po’ in imbarazzo “… temo di non essere un grande bevitore. Sidro[xx]… al più…” facendo spallucce “… dolce se possibile… come i bambini.” allargando il sorriso e lasciandosi arrossire un po’.
La leggerezza di quella confidenza era riuscita a sciogliere l’apprensione di Lorelie e a strapparle una risatina, che si era affrettata ad arginare con la mano.
“Oh, scusate… non intendevo certo ridere di voi… “arrossendo anche lei tra le lentiggini.
“Non ti preoccupare…” sempre rassicurante Nanà, cingendole le spalle “Monsieur Philemon non è certo tipo da…”
Grassa e sguaiata, la risata che era rigurgitata dal fondo della sala, interrompendola e facendola sobbalzare.
“Ma guardate!” sgradevole quanto poteva essere la voce di Ines, vagamente impastata “Il nostro ragazzone che torna a offrire i suoi servigi alla sua bella… a quanto pare il vino infonde coraggio!” sollevando la coppa con tanta foga da farne traboccare un fiotto.
“Vuoi mai che sia la sera buona!”
“Sì… nei suoi sogni!”
Altre risate e altre battutacce, ignorate dalla maggior parte dei presenti, avvezzi a certe rare seppur non inusuali intemperanze, ma che erano inevitabilmente riuscite a far irrigidire Nanà e ad accendere come un tizzone il visetto paffuto di Lorelie. Per la prima volta, invece, sembravano non sortire alcun effetto su Philemon. Gli aveva rivolto un’occhiata distratta, come a qualcosa di vagamente fastidioso, ma del tutto irrilevante, solo per poi girarsi quel tanto da dar loro le spalle, abbastanza ampie da eclissarle alla vista di chi aveva di fronte.
“Posso esservi di aiuto?” aveva provveduto a chiedere.
“No… beh, troppo gentile… ma oramai abbiamo fatto…” si era affrettata a replicare Nanà, evidentemente ancora un po’ nervosa, ma forse non più tanto per gli schiamazzi delle lavandaie “… dobbiamo solo…” sistemando il candido telo di mussola sul pane con l’aiuto di Lorelie.
“Permettete, ve ne prego.” si era fatto avanti e senza indugi aveva afferrato l’asse su cui le pagnotte erano allineate, per sistemarla, senza sforzo, sui supporti in alto sopra la stufa, dove da sempre a Palazzo veniva messo il pane a lievitare, con il tradizionale impegno della cuoca in carica e di una sua aiutante, oltre l’immancabile ausilio di un paio di sgabelli.
“Gr… grazie… ”
“Piacere mio.”
“Uhuuuu…” aveva attaccato a ululare Thecle, fortunatamente interrotta prima di poter proseguire.
Come una valanga, era precipitata nelle cucine la nonna di André “Il guardaportone ha annunciato che la carrozza del Generale sta già arrivando… presto! Presto! Tutti ai vostri posti!” aveva fatto scorrere velocemente lo sguardo autoritario sui presenti, per bloccarsi interdetta sul gruppetto delle lavandaie “Si può sapere cosa ci fate voi ancora qui? Non avrete anche bevuto!? Con tutto quello che avete da fare domani! Ah, ma provvederò io a parlare con Yvette… forza muovetevi, subito a letto. Veloci!” accompagnando l’esortazione con un il battito delle mani, al cui ritmo le aveva fatte marciare spedite e silenziose fuori dalle cucine.
“Philemon…”
Si era girata per indottrinarlo, ma lui l’aveva anticipata “Sì, Madame. Vado subito, mi assisterà Jules.” richiamandolo con lo sguardo e facendolo quasi cadere dalla sedia, prima di dirigersi verso l’uscita, aspettandosi chiaramente di venire seguito.
“Ottimo.” un po’ sorpresa, ma certo la governante di Palazzo non avrebbe mai redarguito nessuno per l’eccesso di sollecitudine.
“Tu, Clodine.” scattata sull’attenti “... l’acqua calda da portare nelle stanze. È troppo tardi per un bagno, ma certo i Signori la gradiranno, con questo tempo.”
La cameriera era partita immediatamente a preparare le brocche.
“Ah, Nanà…”
“C’è il vino caldo già pronto. Provvedo subito a mettere sul fuoco la cioccolata. Desiderate che prepari anche del caffè?”
“Mmmm…” pensosa, quasi l’avesse colta alla sprovvista, ma subito aveva ripreso “No. è troppo tardi anche per il caffè. Il Generale non lo prende mai a quest’ora. In caso il vino andrà benissimo. Bene, su, non c’è tempo da perdere.” e così come era apparsa era scomparsa, per tornare a mettersi a servizio nell’ala padronale.
In mezzo alla servitù improvvisamente indaffarata, André aveva svuotato con calma la sua tazza, si era alzato e aveva sistemato con cura il panciotto e la giacca per poi raggiugere anche lui l’atrio principale e allinearsi in composta attesa di disposizioni.
Oscar era tornata stanca e di cattivo umore, e lo aveva congedato subito. Solo, nella sua stanza riscaldata a fatica dal piccolo camino, aveva visto scendere oltre la finestra i primi candidi fiocchi di neve. Era sprofondato in fretta in un sonno pesante ma inquieto, forse per il freddo, forse per il vino. La mattina successiva, al risveglio, ogni cosa era sommersa da una spessa e sorda coltre di neve.
 
“Vi ringrazio, Signore. Vi garantisco che non ve ne pentirete.” Philemon continuava a ringraziare e a profondersi in inchini anche fuori dalla porta spalancata dello studio.
“Non ne dubito.” aveva sentenziato da dentro la voce del Generale “Ora fai entrare, André.”
“Certo, subito.” un altro inchino, oramai nella galleria, lanciando ad André un’occhiata che tradiva tutto il possibile entusiasmo faticosamente trattenuto “Ancora grazie, Signore.” e dopo avergli assestato una pesante pacca sulla spalla, si era dileguato lungo la galleria, dando quasi l’impressione di non toccare terra.
“Permettete, Signor Generale?” aveva esordito, fermandosi opportunamente sulla soglia.
“Vieni avanti, André, e chiudi la porta.”
Come innumerevoli altre volte, come la prima volta da bambino, si era fermato al centro della stanza, in mezzo al grande tappeto a fiori, di fronte al Generale, seduto alla scrivania, intento a scrivere qualcosa.
“Come certo sai, Philemon è venuto a chiedermi il permesso di prendere in moglie la nostra cuoca, Nanà.” aveva sollevato lo sguardo per un attimo, intingendo la penna d’oca nel calamaio, per tornare subito a farla scorrere veloce e decisa sul foglio “Non vedo motivi per oppormi a questa unione, quindi gli ho accordato il mio permesso… anche se… certo sarà una seccatura trovare chi li sostituisca!”
“Non rimarranno a Palazzo?!”
Gli era uscito così, senza pensare, e il Generale aveva alzato gli occhi di scatto, incredulo di fronte a una simile intemperanza.
“Perdonate, Signore.” era corso ai ripari.
“Comprendo e condivido il tuo stupore.” indulgente “Non è certo comune rinunciare a due così buoni impieghi, tanto più che gli avevo anche offerto la possibilità di prendere possesso del villino al di là delle scuderie.” si era soffermato a ricontrollare lo scritto “Neanche Jean-Luc era stato capace di rifiutare una simile offerta a suo tempo.” aveva inarcato le sopracciglia, spargendo meticolosamente il polverino “Ma, a quanto pare, il nostro Philemon è irremovibile.” aveva cercato il suo sguardo, aspettandosi conferme in merito all’assurdità di una simile presa di posizione “Non vuole assolutamente che la sua futura sposa continui a rimanere a servizio. Non posso certo non ammirare un simile senso di responsabilità, ma come detto…” piegando il foglio per sigillarlo, aveva aggiunto rassegnato “… simili cambiamenti sono sempre una seccatura.”
Si era allungato per porgergli, quindi, quella che appariva come una missiva “Provvedi a far recapitare questa presso la tenuta in Normandia.”
“In Normandia, Signore?” un’altra poco ortodossa intemperanza “Se mi posso permettere, ovviamente.” accostandosi per prendere in consegna la lettera.
“Non vedo perché no. Non è certo un segreto.” si era sistemato più comodamente contro lo schienale imbottito “Philemon ha espresso il desiderio di tornare in Normandia, per stare vicino alla sua famiglia, e mi ha fatto una proposta che considero interessante. Come ricorderai un tempo lavorava da Monsieur Rennard e ha espresso l’ambizione di avviare un piccolo allevamento di cavalli. Certo al momento non ha il capitale, né il terreno necessario, ma a questo posso provvedere io.”
“Un allevamento dite?!” non riusciva a credere alle sue orecchie. Aveva passato anni al fianco del giovane stalliere di Palazzo e mai lo aveva neanche sfiorato l’idea, che nella sua immensa mitezza potesse coltivare una tale iniziativa.
“Sorprendente, vero?” aveva sorriso compiaciuto, il Generale “Chi mai avrebbe pensato che avesse tanta ambizione. In ogni modo, in questi anni ha ben dimostrato di sapere il fatto suo a proposito dei cavalli, se poi saprà far fruttare questa attività… beh, questo si vedrà. Per il momento gli ho concesso l’utilizzo di un discreto appezzamento di terreno e un piccolo capitale per cominciare. Se si dimostrerà capace, potrà godere dei profitti della vendita degli animali. Male che vada, avremo chi provvederà a riprodurre le bestie impiegate nelle proprietà di famiglia.”
Aveva concluso così, senza troppa enfasi, ma André era rimasto senza parole.
“Cambiando argomento… ” evidentemente il Generale invece no “… Oscar non è rientrata con te oggi?”
Questo inusuale minimo dettaglio sembrava lasciarlo decisamente più perplesso degli ambiziosi propositi del suo giovane stalliere.
“No, Signore. Si è dovuta trattenere per occuparsi del servizio di guardia durante i preparativi del ricevimento organizzato in onore di Re Gustavo[xxi]. Essendo al Petit Trianon, come comprenderete, la mia presenza non era considerata… opportuna.”
“Sì, sì… comprendo il problema… ” a dispetto delle parole, un cipiglio preoccupato tradiva il fatto che ancora qualcosa lo infastidisse “… anche se non riesco a capire perché insistere con quest’idea di organizzare un ricevimento ufficiale nella residenza privata… bah… ” aveva sventolato una mano in un gesto infastidito, come se potesse scacciare un pensiero sgradevole come una mosca “… e le livree?”
“Le livree, Signore?” stentava a comprendere il senso della domanda.
“Sì, le livree…” aveva ribadito, considerando evidentemente la cosa di estrema rilevanza “sai che livree indosserà la servitù per l’occasione?”
“Non saprei… ” si era sforzato di raccogliere le idee, sotto lo sguardo apprensivo del Generale “Quando Oscar mi ha congedato, la servitù impegnata nei preparativi indossava le livree rosse e argento.”
“Ah! Che follia, in presenza di un Re straniero[xxii]…” aveva esclamato, portandosi la mano alla fronte nello sforzo di trattenersi dal dire altro. Gli ci era voluto un attimo per ricomporsi, poi con un profondo respiro aveva continuato, seppur ancora accigliato e grave “Per quanto… non è certo nostro compito giudicare. Se il Re ha disposto in questo modo, sarà certo la scelta più saggia.”
“Naturalmente, Signore.” lo aveva rassicurato, anche se comprendeva perfettamente e per certi versi condivideva le sue preoccupazioni.
La scelta delle livree par ordre de la Reine diverse da quelle del resto della Reggia, aveva già destato notevole scandalo a suo tempo tra la nobiltà, e negli anni non aveva fatto altro che alimentare il malcontento: il rosso e argento che rivestiva la servitù del Petit Trianon era il simbolo del Regno della Regina, del fatto che la piccola Austriaca non fosse tenuta a sottostare alle regole e al protocollo, cui era sottoposto ogni altro suddito del regno, che lei sola tra tutti potesse sfuggire all’autorità del Re. Se questa non era una bella immagine da mostrare al popolo di Francia, certo lo era ancor meno da esibire di fronte a un Re straniero, per quanto amico, come Gustavo di Svezia.
“Se non avete più bisogno di me..” si era arrischiato, interrompendo un altro pensieroso silenzio.
“Certo… naturalmente…” si era riscosso “Puoi andare, Andrè.”
“Signore…” con un inchino si era congedato, tenendo il futuro di Philemon e Nanà leggero tra le mani.
 
“Allora, che ne dici? Ti va di fare una bella galoppata fino al laghetto?”
Alexander scrolla il muso, come in deciso segno di approvazione. Si è sempre chiesto se sia solo il tono della sua voce a farlo reagire o se capisca veramente quando gli parla, ma in fondo non ha molta importanza.
Tira appena le briglie, quel minimo perché un cavallo docile e ben addestrato si lasci condurre fuori dalla stalla, ma una voce alle sue spalle lo coglie di sorpresa.
“Hai sentito la novità?!”
Si gira di scatto, per trovarsi di fronte il volto familiare, consumato dal tempo, dalla fatica a dalle sofferenze di Jean-Luc, sorprendentemente sereno e sorridente nella mezza luce delle scuderie in quel pomeriggio di tarda primavera.
“Su Philemon e Nanà? Certo! L’ho accompagnato io a chiedere il permesso al Generale.” preferisce soprassedere sul modo in cui è effettivamente venuto a conoscenza della cosa.
“Sono così felice per loro… ” continua il vecchio stalliere abbassando lo sguardo, quasi tra sé e sé “… è la cosa migliore.”
“Il matrimonio?” lo richiama dai suoi pensieri “Sì… credo… credo che saranno molto felici insieme.” in realtà non sa perché, ma gli viene naturale dirlo. È una sensazione impalpabile, che sconfina nella certezza. Si è insinuata in lui con quell’immagine che non riesce a togliersi dalla testa dal momento in cui li ha sorpresi. Forse è perché apparivano così autenticamente sereni e felici… e perché in quel preciso istante aveva sentito qualcosa mordergli lo stomaco, qualcosa che somigliava tanto all’invidia.
“Credo anche io…” sorride ancora Jean-Luc, di tutto cuore, come non lo vedeva fare da anni “… e la decisione di tornare in Normandia, di dedicarsi all’allevamento dei cavalli… di portarla via di qui…” una parola alla volta sembra andare di nuovo alla deriva tra i suoi pensieri.
“Certo è un grande cambiamento. Ci è voluto un bel coraggio a rifiutare l’offerta del Generale e fargli una simile proposta.”
“Coraggio dici?...” sembra perdersi per un attimo, ma subito riprende con più foga “Bisogna osare per ottenere ciò che si desidera. Non è coraggio, è una necessità.”
“Forse… ma per quanto lo si desideri… a volte… non sempre è possibile.” ora è André a divagare.
“Si può perdere, certo… ma almeno si ha la consolazione di aver tentato. A chi non tenta… rimangono solo rimpianti.” Si rabbuia per un istante, ma torna subito a sorridere e si avvicina, abbastanza da battergli la mano sulla spalla “Felici… saranno molto felici, sì.” prima di avviarsi verso il fondo della stalla.
André lo osserva allontanarsi con passo un po’ incerto, come non era un tempo, gravato dal peso di un corpo, che una volta era la sua forza.
“Felici… felici, sì… via, la porterà via e saranno felici…” lo sente ripetere tra sé e sé, fino a che la voce non è più distinguibile e lo vede scomparire dietro un angolo.
Ora sono le sue parole a rigirargli in testa.
‘Rimpianti… solo rimpianti per chi non tenta… si può perdere, ma almeno si ha la consolazione di aver tentato’
Suonano così familiari e ripescano qualcosa dalla sua memoria
E si de l’obtenir je n’emporte le prix, J’aurai du moins l’honneur de l’avoir entrepris’
Versi mediocri di una grande poeta…
“Porca miseria, ecco chi è! È La Fointaine! Maledetto…” sbotta.
“Scusa, e cosa avresti contro La Fointaine, di grazia?”
E' la voce di Oscar a coglierlo, di nuovo, alla sprovvista. Ancor prima di girarsi, già se la immagina l’espressione a dir poco perplessa, che le trova stampata in volto mentre lo fissa dal varco d’ingresso delle scuderie, con la mano guantata a sorreggere le briglie di Caesar. Inevitabilmente scoppia a ridere.
“André, sei forse impazzito?!” esclama, vagamente oltraggiata, facendosi avanti.
“No… scusa… veramente io…” sforzandosi di smettere di ridere. Un profondo sospiro e finalmente riprende il controllo “Perdonami, ovviamente non ho niente contro La Fontaine, è solo che è tutto il pomeriggio che cercavo di ricordare di chi fossero dei versi… e quando sei arrivata… sì, insomma. Una lunga e inutile storia, che certo non ti interesserà.” taglia corto di fronte al suo sguardo sempre più spazientito.
“Sai, André, a volte credo abbia ragione tua nonna. Startene senza far niente non ti fa affatto bene.”
Le risponde con lo stesso sguardo torvo che le rivolgeva da bambino, quando voleva mostrarsi tremendamente offeso, e lei, esattamente come allora, si mette a ridacchiare compiaciuta.
“Lascia… lasciate che vi aiuti con il cavallo, Madamigella.” per un po’ sta al gioco, affrettandosi a legare nuovamente le briglie di Alexander, per prendere deferente quelle di Caesar, ma poi continua di nuovo serio “Non ti è venuto incontro Philemon all’ingresso?”
“Certo, ma essendo così presto ho detto che avrei fatto da sola… ed eccomi qua.” incrociando le braccia al petto e appoggiandosi con la schiena alla parete di legno.
“In effetti… pensavo che avrebbe richiesto più tempo la supervisione dei preparativi per tanta sontuosa magnificenza…”
Lo ammonisce con un’occhiata più che eloquente e lui sorride impertinente per poi piegarsi a slegare il sottopancia.
“Sicuramente… ed è per questo che ho lasciato Girodelle a occuparsene.”
“Oscar!” esclama, riemergendo da dietro il cavallo, ma lei non gli da il tempo di proseguire.
“La Regina ha compreso perfettamente, quando le ho fatto presente che forse non ero la persona più adatta a vigilare sulla disposizione dei fiori e della cristalleria.”
“E lei?” curioso, sollevando la sella.
“Ha riso e ne ha convenuto, facendomi promettere però di presenziare questa sera al ricevimento, dopo la cena.”
“Ma quale onore!” la prende un po’ in giro, sfilando la cavezza “Allora domani mi potrai riferire tutti i particolari di questo magnifico ed esclusivo evento!”
“Ah,… ” ribatte lei, alzando gli occhi al cielo “il solito pettegolo!”
“Uff… le solite calunnie…” ridacchia per il solito gioco, cominciando a passare la striglia sul manto bianco “Piuttosto, credi che l’ospite d’onore apprezzerà a dovere tanto fasto e stravagante ricercatezza?”
“Mah… ” si spinge via dalla parete, per avvicinarsi a carezzare la criniera di Caesar “come detto, non sono la persona più adatta a giudicare se apprezzerà lo sforzo per la scelta di decori e stoviglie. Credo che Re Gustavo apprezzerà sicuramente un tale impegno da parte della Regina per intrattenerlo e metterlo a suo agio.”
“Oscar…” cattura il suo sguardo oltre la groppa “…ti ho chiesto se l’ospite d’onore apprezzerà… sappiamo benissimo che non è per il Re di Svezia che sta facendo tutto questo…”
Un’occhiata basta a spazzare via tutta la spensieratezza.
“Non capisco veramente a chi tu ti riferisca.” gelida.
Si allontana in fretta, ma ritorna quasi subito, facendo finta di nulla, accostandoglisi dallo stesso lato del cavallo.
“Tu piuttosto… cos’hai fatto oggi?” ansiosa di cambiare argomento.
“Mah, in realtà… molto poco di quello che avevo in programma.” continuando a spazzolare energicamente il manto “Volevo leggere quel libro…” e indica con il mento il volumetto carminio, che sporge dalla tasca della sua giacca appesa a un gancio lì vicino “… ma non sono ancora riuscito ad andare oltre le prime pagine.”
Oscar sfila il libro dalla tasca e comincia a sfogliarlo distrattamente, per sobbalzare all’improvviso “André! Ma che roba leggi!” esclama, fastidiosamente divertita.
“Come sarebbe a dire? È un libro appena uscito e ne parlano tutti, ero curioso di farmi una mia opinione.”
“’Les liaisons dangereuses’... per carità! È un libro da donnicciole, il solito scandaletto passeggero.” lo liquida malamente.
“Tu lo hai letto?” la provoca.
“Non è questo il punto.” sulla difensiva.
“Tu lo hai letto?” la incalza.
“No… ” ammette suo malgrado “… e non vedo perché dovrei, io non leggo libretti per donnicciole.” si difende con gli stessi argomenti che avrebbe usato a dieci anni, un po’ per gioco, un po’ per partito preso. Per come la conosce, per evitare argomenti che preferisce non affrontare.
“Quando lo avrai letto, ne discuteremo. Fino ad allora, non accetto commenti a riguardo.”
“Ah, è così?!”
“Proprio così.” ostentatamente irremovibile, ma un po’ gli scappa da ridere.
“Se la metti in questi termini… suppongo di vedermi costretta a leggerlo…” rimettendosi a sfogliare le pagine sottili con apparente disgusto “… anche se sono certa che potrei impiegare molto meglio il mio tempo.”
“Può essere…” mette via la striglia e assesta una pacca sulla groppa di Caesar.
Si gira per sfilare, senza troppi complimenti, il volumetto dalle mani di Oscar, s’infila la giacca e lo rimette in tasca per poi dirigersi con pretesa indifferenza dal suo Alexander.
“E dove avevi programmato di andare leggere questo… ‘capolavoro’.”
Quell’ultima parola e il tono, bastano a riportarlo indietro e far riaffiorare un lontano ricordo: un altro libro, la stessa discussione, loro, due ragazzini, una sera… prima di tante scelte.[xxiii]
Si gira per guardarla negli occhi.
“Mai detto che sia un ‘capolavoro’…” risponde esattamente come allora, un po’ più esitante e gli sembra di cogliere una scintilla nel suo sguardo. Per un attimo vuole illudersi che anche lei ricordi.
Si schiarisce la voce “Volevo… fare una cavalcata, magari fermarmi al laghetto per leggere, approfittando della bella giornata.”
“Mi pare un ottimo programma…” distoglie lo sguardo in fretta e si allontana di un passo “… aspetta che mi cambi e vengo con te.” si affretta verso l’uscita, senza attendere la sua risposta. Un attimo prima di varcare la soglia si gira, presa da una strana euforia “… ma non ho voglia di leggere. Vado a prendere le spade, è un po’ che non ti do una bella lezione, André.”
Quel sorriso di sfida, lo stesso da quando erano bambini.
“Chissà, magari questa volta sarò io a dare una lezione a te, Oscar.”
“Sogna pure, André… certe cose non cambiano mai.”
La vede correre lungo il sentiero verso il Palazzo e lui rimane lì ad aspettare.
Forse è vero che certe cose non cambiano mai, o forse sono solo loro a volersi illudere che possa essere così.


 Angolo dell'autore: a presto spero, anche se prima intendo finire 'Cicatrici' sempre su queti lidi ;-). Per le prossime due giornate, torniamo a Versailles il 19 Settembre 1783 e poi... l'11 Agosto 1784 in Normandia, per una vacanzina estiva ;-) a presto... spero....

 
[i] “E se pure non avrò il premio di ottenerlo/ avrò almeno il premio di aver tentato.” Di chi e dove… non è questo il momento ;-)
[ii] In realtà nell’ultima edizione la nota c’è esplicativa c’è e i versi in questione dono di La Fontaine, ma il libro ha subito diversi rimaneggiamenti dalla prima pubblicazione, anche piuttosto sostanziali. Che libro??  Beh, se lo avete già capito dalla data e da quella singola frase chapeau! Altrimenti, pazientate, arriverà… e tornerà.
[iii] L’ho già detto altrove, ma quella che può essere considerata un’usanza un po’ fatua ed esibizionistica, e forse anche un’inutile spreco, ossia l’usanza di avere sempre la casa aperta e la tavola imbandita per ricevere a qualunque ora un numero arbitrario di ospiti, era in realtà una componente fondamentale del tessuto sociale dell’epoca ed aveva un ruolo assistenziale non umiliante per chi aveva la necessità di essere assistito in assenza di risorse. Delle tavole sempre aperte di chi se lo poteva permettere, oltre che altri nobili intenzionati a intrattenere rapporti sociali, beneficiavano anche intellettuali, artisti o nobili caduti in disgrazia. Intellettuali e artisti venivano così praticamente sostentati ripagando chi aveva disponibilità con le arguzie del loro talento e del loro intelletto, scambio piuttosto inusuale oggi giorni, ma ritenuto assolutamente equo all’epoca, mentre i nobili decaduti, a cui comunque non era permesso di lavorare per guadagnarsi da vivere, di non doversi umiliare per garantirsi la sussistenza. Da sfatare anche il ‘mito’, l’ho letto anche in qualche fic, che gli avanzi di queste sontuose tavole imbandite potessero andare buttati. Lo spreco del cibo è assolutamente una perversione moderna, in una società per tanti versi opulenta come quella dell’ancient regime il cibo non andava certo sprecato. Quello che avanzava dalle tavole dei ricchi (nobili o borghesi che fossero), diventava in prima istanza nutrimento per la numerosissima servitù (anche in questo caso, lusso per i padroni di casa, ma fonte di lavoro e sostentamento per tantissime persone, oltre al fatto che la ‘contrattualizzazione’ in una casa nobile sottostava a regole e retribuzioni codificate, violare le quali avrebbe macchiato irrimediabilmente la reputazione del datore di lavoro), dopo di che si passava alla distribuzione ai poveri, alle mense, agli orfanotrofi e consimili. Niente era buttato, anche i frutti delle velleità bucoliche delle principesse del sangue non andavano sprecati, i prodotti degli orti delle Mesdames venivano distribuiti giornalmente alle mense dei poveri di Parigi, così come il latte delle mucche delle stalle di Madame Elisabeth finiva negli orfanotrofi.
[iv] Ebbene sì, questa volta è Andrè il guardone di turno!! Lo so che è un escamotage che ho già utilizzato, ma vista la vita strampalata e immobile di questi due, e la loro propensione a ‘rimanere immobili’ piuttosto che crescere come le persone normali, non posso fare altro che costringerli ad assistere alla vita altrui per smuoverli un po’.
[v] Per chi non se lo ricorda, Golia era nel primo capitolo, il connemara che era stato dato ad Andrè appena arrivato a palazzo.
[vi] Visto che le donne erano legalmente delle perenni minorenni, per le fanciulle della servitù il padrone formalmente fungeva anche da temporaneo tutore, inoltre spesso il salario era pattuito, ma non veniva corrisposto regolarmente per la sua interezza, ma andava ad alimentare un credito che il dipendente poteva chiedere per necessità o al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro. In realtà questo tipo di rapporto si è protratto a lungo, se qualcuna si ricorda anche in Assassinio sul Nilo di Agatha Christie, il movente della cameriera della deceduta sarebbe il fatto che voleva sposarsi, ma la sua padrona non approvava il ‘fidanzato’ e si rifiutava di darle il denaro dovuto, che costituiva la sua dote, e in quel caso di parla del periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale.
[vii] Così come nella vita di campagna fino a pochi decenni fa, erano le ore di sole a regolare le giornate per cui colazione al primo albeggiare e a nanna con il tramonto. Ovviamente questa regola la violava in città chi si poteva permettere il lusso di bruciare olio e candele, ma non certo ne classi meno abbienti.
[viii] Sfortunatamente per il piccolo André il grosso della formalizzazione delle leggi di base in ambito termo- e fluidodinamico e tutto ottocentesco.
[ix] Perdonate la stupidata, ma ce lo vedevo troppo bene il conte nel ruolo di un grande re spartano, trovo che gli si addica parecchio, o almeno alla visione che ho di lui ;-)
[x] Cedi cap.1, Il convento degli Oratoriani dove Andrè è andato a scuola prima di arrivare a Palazzo.
[xi] 3 anni per la precisione ;-)
[xii] ‘La bella addormentata’, nelle sue molteplici forme, appartiene alla tradizione delle storie di fate, che nella seconda metà del ‘600 vengono rimaneggiate e tramandate in forma scritta da un gruppo di donne colte e illuminate (alcune delle quali sono riuscite a guadagnarsi l’indipendenza economica, impensabile per il tempo, grazie alla srittura): storie in cui le figure femminili avevano potere e determinavano la loro sorte e in cui la conclusione non era sempre necessariamente ‘l’idillio matrimoniale’. Oggi sono più che altro sono note nella forma tramandata da Perrault (zio plagiario, desidero io definirlo, di una delle suddette scrittrici), che a fine ‘600 le ha ricondotte allo stereotipo della fanciulla che alla fine deve essere comunque salvata da un ‘principe’, anche se risultano certo più articolate e introspettive delle versioni moderne (La bella addormentata di Perrault poi, con la anche la sua seconda parte, la potremmo definire ‘Freudiana’ con più di 2 secoli di anticipo).
[xiii] Yvette è la capolavandaia di Palazzo, che ha fato la sua comparsa nel secondo capitolo si un’altra mia ff “Un sorso d’acqua di Fontebranda ovvero Giochi d’acqua”
[xiv] ma quanto sono scema ad aver dato questi nomi ed aver immaginato che Monsieur Gaurier sia signorino XD!?!?!?
[xv] La moda, con tutto ciò che comporta, è settecento, per cui ci si attendeva che un uomo, un gentiluomo in particolare, se ne intendesse e dedicasse attenzione alla cura del proprio aspetto e del proprio abbigliamento, dalla scelta della camicia e dell’abito, agli accessori, i pizzi, i ricami e i bottoni, per educazione e rispetto delle convenzioni sociali. Si, insomma l’uomo bestia che se la sua donna non lo veste va in giro con la tuta bucata non è settecentesco XD
[xvi] Per chi non se la ricorda Annette, era la giovane sguattera che lo aveva accolto e gli aveva fatto il bagno appena arrivato a Palazzo dall’orfanotrofio (anello1), quella che poi diventerà cuoca a Palazzo (anello 2 e 3), per poi trasferirsi a gestire la casa di Arras (anello 3) quando sposa Jerome, primo attendente del Generale in questa storia.
[xvii] La Compagnia B di Palazzo Jarjayes!!
[xviii] Per una dettagliata descrizione delle cucine rimando all’arrivo del piccolo Andrè a Palazzo all’Anello 1 ;-)
[xix] nuovo lacchè assunto un paio di anni prima… mi sa che questo ragazzo mi darà dei problemi…
[xx] Ricordiamo che Philemon viene dalla Normandia ;-)
[xxi] Nel Giugno del 1783 arriva in visita in Francia Re Gustavo di Svezia. In occasione di tale visita Maria Antonietta, normalmente così restia a occuparsi delle incombenze spettanti alla Regina per protocollo, pare essere colta dal desiderio irresistibile di organizzare lei stessa i festeggiamenti in onore del Re in visita e decide di organizzare un ricevimento estremamente sfarzoso e stravagante presso il Petit Trianon, anche se probabilmente la festa non era tanto per il Re quanto per il suo seguito. Il Conte di Fersen era infatti tornato dall’America (diversamente da quanto riportato nell’Anime), ma non era tornato in Francia, bensì si era messo a servizio di Re Gustavo come ambasciatore, dove rimarrà per 2 anni prima di tornare definitivamente in Francia e mettersi a servizio dei Reali (qui ci si riallinea con l’anime). Questa è un’altra deviazione di questa storia, allineata con la realtà storica e diversa dalla narrazione di fantasia, ma, come nel caso di Charlotte, non credo stoni in modo significativo, ma anzi aiuti ad approfondire i personaggi senza storpiarli (tanto poi Fessen sparirà cmq per altri 2 anni e tornerà a rompere le balle nel momento meno opportuno XD)
[xxii] Questa potrà sembrare una grossa cagata, in realtà è uno di quei casi in cui la forma sottende la sostanza. Il Re aveva regalato a Maria Antonietta il Petit Trianon perché fosse la sua piccola oasi fuori dal protocollo di corte, al di la del fatto che poi lei ne abbia ‘abusato’ disertando del tutto la vita di corte e le sue responsabilità, ci sono alcune cose che sicuramente si poteva risparmiare e una di queste è la scelta di adottare delle livree diverse per la servitù del Petiti Trianon. La livrea della servitù di Versailles (agli ordini del Re) era bianca-rossa-azzurra, mentre per ordine della Regina la livrea del Petit Trianon divenne rossa e argento. Al di la dell’aspetto formale, una simile decisione serviva ad affermare che il Re in quel luogo non aveva alcuna autorità, che era dominio esclusivo e assoluto della Regina… e questa non è per niente una bella cosa all’interno della reggia, in uno stato monarchico… e da parte di una che ha un ruolo solo in quanto moglie di quel Re! Si insomma, questa MA se la poteva decisamente risparmiare. Per quanto concerne il ricevimento, il Generale, da bravo militare, queste cose le capisce bene: di sicuro non è una brillante idea sbandierare ai quattro venti e soprattutto davanti a un Re straniero, per quanto amico come quello di Svezia, che il Re di Francia vale quanto il 2 di picche e che la sua consorte se lo rigira intorno al mignolo come e quando vuole… ma a questo MA non avrà neanche pensato, tanto lei la festa mica l’ha fatta per lui!
[xxiii] Lettura libro all’anello 2 prima della Grande scelta

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