Onirica realtà
Onirica
realtà
Le ginocchia di Hanna
cominciarono a tremare, la casa iniziò a girarle intorno e senza neppure
rendersene conto cadde a terra priva di sensi.
Era svenuta all’entrata
del bagno, eppure quando si risvegliò non era più lì ma nel salotto, distesa
sul tappeto. Con fatica, sollevò la schiena per mettersi seduta. Si portò una
mano dietro la nuca; le faceva male, probabilmente aveva battuto sul pavimento.
Avvertiva ancor una
sensazione di stordimento, non riusciva a ricordare perché fosse svenuta, poi
ad un tratto le tornò in mente, in un flash, l’immagine di un bambino con la
testa insanguinata e il lavello del bagno aperto.
Forse si era trattato
di un incubo. Forse, pensò, riacquistando lucidità, si era addormentata sul
divano e, girandosi, era caduta finendo sul tappeto.
Si convinse di ciò, ma,
suo malgrado, alzatasi in piedi si guardò attorno. Non udiva alcun rumore né le
sembrava che qualcosa fosse fuori posto.
Si diresse in cucina e
guardò l’orologio appeso alla parete: erano le 22:00 e suo marito non era
ancora tornato.
Ad un tratto udì una
vocina sottile, quasi un sussurro, la voce di un bambino.
D’istinto si
immobilizzò, sgranando gli occhi e concentrandosi solamente su quel suono. Nel
suo incubo il bambino stava in bagno ma quella voce proveniva dalla camera da
letto.
Uscì dalla cucina con
estrema lentezza nel tentativo di fare meno rumore possibile. La sentì con
maggiore chiarezza finché, avvicinatasi alla porta della camera da letto,
riuscì a distinguere ogni parola. “Le farfalle bianche sono morte. Le farfalle
bianche sono morte.” La voce continuava a ripetere la stessa frase ancora e
ancora.
Hanna rifletté per un
istante, non era la prima volta che udiva quelle parole; poi si ricordò: Ethel
aveva detto la stessa cosa, ma con tono molto più addolorato.
Aprì appena la porta
della camera. La stanza era completamente buia. Aprì la porta un po’ di più per
poter vedere qualcosa. La luce proveniente dal corridoio mostrò una figura
piccola, seduta per terra accanto al letto. Hanna socchiuse gli occhi per
mettere meglio a fuoco ed una morsa di terrore le prese lo stomaco perché il
bambino che vide era identico a quello che aveva sognato, ma stavolta non aveva
alcuna ferita. La guardò negli occhi “Le farfalle bianche sono morte. Le hai
uccise tu?” mormorò. Le sue pupille erano grigie e il suo sguardo era vuoto.
Hanna terrorizzata
chiuse immediatamente la porta, poggiandosi ad essa con la schiena. Chiuse gli
occhi per cercare di comprendere ciò che aveva appena visto. Possibile che
stesse ancora sognando? Hanna aprì gli occhi, corse verso la cucina e controllò
nuovamente l’ora: le 22:05. Si rese conto che era tutto eccessivamente realistico per essere un sogno; il tempo
scorreva in modo troppo regolare e in quel momento capì che mai si era
addormentata; era svenuta a causa di quel bambino e ciò significava che era
reale, doveva essere reale.
Si precipitò verso la
borsa, ancora poggiata sul divano e cercò il cellulare. Compose il numero di
suo marito. Due squilli, poi un suono gracchiante “Jack? Jack? Mi senti?”
“Pron-to? Han-na?” La
sua voce le arrivava ad intermittenza.
“Jack?”
“Han-na? Che co-sa…c’è?”
“Mi senti? Dove sei?”
la sua voce prese una tonalità isterica.
“No… non
ti…sen-to…a-aspet-ta che mi…”
Per un paio di secondi
lei non sentì più alcun suono, poi udì nuovamente la voce del marito e questa
volta distintamente.
“Hanna? Mi senti
adesso?”
Lei cercò di
tranquillizzarsi. “Sì, adesso sì.”
“Ti sento agitata. Che
cosa è successo? Perché mi hai chiamato?” non sembrava preoccupato, bensì
spazientito.
“C-come perché ti ho
chiamato?” non capiva. “Di solito non torni così tardi dal lavoro. Quando vieni
a casa?”
“Che vuol dire “quando vieni a casa?” Hanna, io sto
lavorando, non mi sto divertendo e poi ti ho lasciato anche un messaggio nella
segreteria per avvisarti che sarei tornato molto tardi.”
Era veramente
arrabbiato. Lei guardò il telefono poggiato sul mobile del corridoio e solo
allora si accorse che stava
lampeggiando.
“Ah! Mi dispiace. Io… non
ci ho fatto caso. È solo che…”
“Cosa? Che c’è? Senti,
devo tornare a lavorare.”
“È successa una cosa…
perlomeno, io credo che sia realmente accaduta. Comunque…”
Dall’altro capo del
telefono Jack fece una smorfia di disappunto, pensando che la storia di Ethel
avesse scosso seriamente i nervi di sua moglie.
La voce di Hanna
cominciò a tremare;ormai la controllava a stento. “Non mi sento molto bene. Ti
prego,” chiuse gli occhi, sperando di ricevere una risposta positiva “puoi
tornare a casa, adesso?”
“Come?! Tesoro,
ascoltami, sei molto stanca. Perché non vai al letto e ne parliamo con calma
domani?”
Hanna non riuscì a
trattenere le lacrime. “No, no jack, non ce la faccio a dormire. Sono troppo
spaventata!”
“Sei spaventata?
Perché?” si sentì terribilmente confuso dal comportamento di sua moglie
“Qualcuno è entrato dentro casa?”
“Sì, qualcuno è
entrato.” gli rispose, sentendosi estremamente rincuorata dal fatto che suo
marito le avesse fatto quella domanda.
Quello che aveva visto
era talmente surreale che ancora non era stata in grado di raccontarlo.
“Chi? Un ladro?”
“No, almeno non penso…”
“Allora chi?”
“Un bambino.”
“Un bambino?” in iniziò
seriamente a perdere la pazienza “Un bambino.” Ribadì “Tu mi hai chiamato
perché un bambino è entrato in casa nostra.” Il suo tono era diventato
sarcastico.
“Sì Jack, ma…”
“No Hanna.” la
interruppe bruscamente, con voce bassa nel tentativo di trattenere la rabbia
“Tu adesso vai a dormire e domani mattina, sperando che tu sia un po’ più
lucida, parleremo di questa storia.” Chiuse la telefonata.
Lei per qualche istante
rimase pietrificata, in piedi, davanti al divano. Senza neppure rendersene
conto si sedette. Aveva ancora il cellulare attaccato all’orecchio. Neanche
riusciva a pensare. Poi ad un tratto cominciò a realizzare la situazione: suo
marito quella sera non sarebbe tornato e lei non aveva la minima intenzione di
addormentarsi dentro quella casa, da sola. Fu presa da una crisi di panico e
cominciò a singhiozzare, talmente forte che quasi le mancò il respiro.
Non poteva lasciare che
la paura prendesse il sopravvento, doveva reagire. Improvvisamente fece un
altro numero di telefono.
“Pronto? Ben?”
desiderava tenere a bada i singhiozzi ma non riusciva a riprendere padronanza
di sé.”
“Pronto? Hanna? Ma…
stai piangendo?” Ben era perplesso.
“No, cioè… un po’.”
Alzò gli occhi al soffitto, cercando di calmarsi al fine di articolare una
frase che avesse senso compiuto.
“Hai da fare?”
“Intendi ora?”
“Sì.”
“No, veramente stavo
per andare al letto. Lucy credo si sia appena addormentata.”
“Posso venire da te?”
“Venire da me? Ora? Ma…
perché hai il respiro affannato? Jack non è in casa?” Ben non sapeva più quale
domanda rivolgerle.
“No, Jack non c’è. Ben,
ti prego, non riesco a rimanere qui da sola.”
Lui inconsapevolmente
sgranò gli occhi, stentando a credere a ciò che aveva sentito. Hanna sembrava
disperata e lo aveva appena implorato di starle vicino.
“Sì, sì certo. Vieni se
ti fa stare meglio.”
Lei riuscì finalmente
ad accennare un sorriso. “Grazie Ben, grazie.”
“Sei in grado di
guidare? Vuoi che ti venga a prendere io?”
“No, tranquillo. Ce la
faccio. Arrivo subito…grazie.”
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