The Wind is Crying.

di DK in a Madow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Can I take you, baby, to the show? ***
Capitolo 3: *** 2. It reminds me of the pain I might leave, leave behind. ***
Capitolo 4: *** 3. Grace ***
Capitolo 5: *** 4. And remember the smell of the fabric of your simple city dress. ***
Capitolo 6: *** 5. And if you feel that you can't go on... ***
Capitolo 7: *** 6. Well, there's a light in your eye that keeps shining. ***
Capitolo 8: *** 7. I lost myself on a cool damp night. ***
Capitolo 9: *** 8. Your eyes held a tender light and stars fell on Alabama last night. ***
Capitolo 10: *** 9. Nightmares ***
Capitolo 11: *** 10. Upon us all, a little rain must fall. ***
Capitolo 12: *** 11. Well, this is our last embrace, Must I dream and always see your face? ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


The Wind is Crying




And there will come a time, you'll see, with no more tears.
And love will not break your heart, but dismiss your fears.
Get over your hill and see what you find there,
with grace in your heart and flowers in your hair.
(Mumford and Sons – After The Storm)



















Prologo














È finita.

Una guancia contro il cielo, l’altra sull’asfalto. Intorno a me, l’abbraccio gelido della pioggia, i miei indumenti candidi ormai zuppi di stelle nere e, finalmente, tutto finisce.

Il dolore. Le urla deformi che abitano la mia mente. La musica. L’angoscia.

Abbandono tutto ciò e, per la prima volta in questa vita, sono felice.

Sorrido, sulla lingua il sapore del mio stesso sangue, le ginocchia doloranti dopo la caduta, i miei piedi che hanno abbandonato la velocità della corsa.

Non morirò, forse. Dipende dalle auto che mi corrono a fianco limitandosi a suonare impazzite, mentre aspetto che la più coraggiosa tra loro mi schiacci contro la strada, ma a quanto pare stanotte si sentono tutti un po’ santi nel lasciare un povero dannato disteso sotto la pioggia, al centro di una strada di New York, non sapendo che rimandare la sua anima al mittente lo renderebbe più euforico del sollevarsi da terra e mettersi in salvo.

Poi, il mio nome vola nell’aria, superando il rumore assordante del traffico newyorkese, e mi ritrovo a chiudere gli occhi come se questo bastasse per non sentire più quelle cinque lettere rimbombarmi nel petto. Ovviamente non serve e quel suono torna a far vibrare il timpano coperto dai capelli zuppi, mentre mi ritrovo a stringermi in posizione fetale, arricciando le dita dei piedi nei mocassini freddi.

- Lasciatemi qui. – sussurro, strascicando le parole, la guancia dolorante per via del taglio causato dalla caduta – Lasciatemi morire. – ma non mi sentono, nessuno mi ha mai veramente ascoltato. Si limitano tutti a chiamarmi per nome, come a voler fare un appello per esser certi che io sia ancora vivo ed è proprio per questo che non rispondo. Che mi credano morto, io non mi muovo.

- Jimmy.

Ancora. Ma questa volta è qualcun altro a chiamarmi. È la voce di chi mi ha portato ad abbracciare l’asfalto sperando di trovare le briciole di una vita che sia io, sia lei abbiamo perso. Mi porto le mani al petto, chiuse a pugno, e stringo le palpebre, sapendo che aprendole potrei scorgere i suoi lineamenti di fianco a me, i suoi occhi che mi scavano dentro con la loro malinconia.

- Lasciami dormire ancora un po’. – dico con la bocca impastata.

Un rumore, all’altezza del mio viso. Sembrava una risata.

- Non ancora, Jimmy. Svegliati.

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Capitolo 2
*** 1. Can I take you, baby, to the show? ***


1.

Can I take you, baby, to the show?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

New York, 26 Luglio 1973

 

Apro gli occhi, inspirando così forte da cacciar fuori uno sbadiglio. Mi passo una mano tra i capelli, soffermandomi sulla nuca tornata scoperta dopo anni passati sotto una nuvola corvina che non sopportavo più, le mie dita che trovano un lieve sudore.

- Svegliati, Page, stiamo per atterrare!

La voce di Peter rompe l’aria come un tuono, facendomi sobbalzare, un colpo di tosse che irruento mi rimbomba nella gola.

- Cazzo. Volete abbassare l’aria condizionata? – dico, alzandomi in piedi, un brivido che attraversa la mia schiena sudata facendomi imprecare sottovoce.

- Sei sempre il solito, Jimmy. – afferma una voce all’improvviso – Stai sempre a lamentarti.

- Parli facile, Plant! – esclamo, superando i sedili di fianco al mio e raggiungendolo sul corridoio – Tu potresti camminare sul ghiaccio a petto nudo e non faresti uno starnuto. Io sono un po’ più … delicato. – concludo con ironia, facendolo ridere.

- Delicato un cazzo, Page. Sedetevi tutti che stiamo atterrando! – annuncia Peter tornando dalla cabina di controllo – E tu. – esclama puntandomi un dito contro – Vedi di non buscarti qualche malanno. Ho la sensazione che le cose non andranno bene a New York, quindi non ti ci mettere pure tu.

- Tranquillo Peter. – dico, poggiando una mano sulla sua spalla – Nel caso mi dovessi ammalare, sicuramente sapresti trovarmi delle infermiere competenti, o sbaglio? – aggiungo ghignando, mentre Robert applaude in segno di approvazione.

- Tienitelo nei pantaloni Page o a furia d’infilarlo ovunque te lo scordi tra le gambe di qualcuna! – tuona improvvisamente un’altra voce provocando le risate dell’intero Starship.

- Buongiorno finezza, Bonzo! – esclama un’altra somigliante ad uno squittio.

- Menomale che ci sei tu, Jonesy. – dice Peter lasciando una violenta pacca sulla spalla del nostro bassista facendolo barcollare – Mettili in riga e vedi di farli sedere, o appena l’aereo s’inclina li ritroviamo tutti sul vetro della cabina di controllo schiacciati come moscerini.

- E tu, mio caro Peter. – inizia Robert, passandogli un braccio sulle spalle minuscole rispetto all’enorme ventre che si ritrova Grant – Cerca di non metterti sulla coda dell’aereo, altrimenti lo sbilanci e non atterriamo più! – esclama, facendo diventare la faccia di Peter scarlatta.

- Ringrazia tutte quelle ragazzine che ti guardano nei pantaloni e sganciano la grana per un vostro album. – sputa rabbioso – Altrimenti a quest’ora rimarresti senza lavoro e senza gioielli di famiglia, Plant. – conclude, allontanandosi, mentre noi continuiamo a ridere, Robert che cerca di chiedergli scusa, ma tra una risata e l’altra fallisce miseramente.

Venti minuti dopo, finalmente, atterriamo, io che continuo a tossire contro l’aria afosa e rovente di New York, la mia camicia verde che mi si appiccica addosso per via del sudore, mentre a terra ci aspettano le nostre auto e quelle della polizia, Robert che mi segue nei sedili posteriori con la sua giacchetta avana completamente sbottonata. Partiamo subito e venti minuti dopo siamo all’entrata posteriore del Madison Square Garden.

- Vestiti e strumenti sono nei camerini, ragazzi. Diamoci una mossa! – esclama Grant una volta scesi dalle auto, facendo tintinnare i suoi anelli tra le mani enormi, mentre il braccio di Robert si fa strada sulle mie spalle e insieme ci dirigiamo all’interno del palazzetto, noncuranti di fotografi, fan e agenti della polizia, tutti urlanti intorno a noi.

- Amo l’America. – sussurra Robert una volta arrivati nel backstage, liberandosi subito della giacca per poi dirigersi in bagno, l’idea di chiudere la porta che non lo sfiora minimamente, mentre Jonesy e Bonzo ci raggiungono affannati, quest’ultimo che, appena nota la figura di Robert nel bagno, ne approfitta per avvicinarlo silenziosamente. Veloce come un fulmine, gli tira un calcetto sul dietro delle ginocchia, facendolo piegare leggermente in avanti, l’imprecazione che arriva chiara e forte anche a me e Jonesy che scoppiamo a ridere.

- Fanculo, Bonzo! – esclama Robert, guardandosi in basso – Guarda come mi hai ridotto.

- Ma smettila di lamentarti per un po’ d’acqua. – tuona lui, uscendo dal bagno per poi stravaccarsi su una panchina con una risata soddisfatta.

- Eh certo, parla quello nascosto dietro una batteria …

Il battibecco continua, le loro frasi che sfociano nel classico repertorio d’asilo, mentre io e Jonesy ci avviamo nei camerini, lasciando che i due idioti se la vedano da soli e, arrivati davanti alle nostre porte, John si lascia sfuggire un sospiro sommesso. Credo non ci sia nemmeno bisogno di chiedergli cos’abbia, è così evidente, ma far finta di nulla sarebbe un gesto egoista.

- Ti mancano, vero? – dico dolcemente, rivolgendogli un sorriso.

- Non puoi nemmeno immaginare quanto. – sospira, mettendosi le mani sui fianchi mentre il mio pensiero va subito a Scarlet. L’ultima volta che l’ho vista, circa tre mesi fa, dormiva beata sotto le coperte lilla del suo lettino, il naso che sporgeva dal lenzuolo e la mia voglia mal frenata di stringerla forte, limitandomi a un bacio sulla sua fronte fresca, tenera d’innocenza, il suo odore così simile al mio.

- Scusami, Jim. – dice Jonesy improvvisamente arricciando le labbra e mi accorgo di aver cambiato umore, lo sguardo perso altrove e la faccia del mio amico sinceramente dispiaciuta.

- Tranquillo, John. – dico, dandogli una pacca sulla spalla – Non me la sono presa.

- Meno male! – sorride lui, grattandosi la testa.

- Dai, muoviamoci. – lo incito, per poi aprire la porta del mio camerino – Prima che arrivi Grant a farci la predica.

E così, ridendo piano, ci chiudiamo le porte alle spalle.

 

 

 

*

 

 

 

- New York! Goodnight!

E New York risponde con un urlo al saluto di Robert e sento che sarà davvero una buona notte per tutti quanti, sia per loro sotto il palco, sia per noi che l’abbiamo calcato, tutti uniti nella stessa stanchezza ed estasi, la musica che continua a rimbombare nei timpani esattamente come il rullante di John che, nonostante non stia suonando più, continua a vibrare impercettibilmente. Felici e tremendamente sudati, scendiamo dal palco, io che mi passo una mano sul petto accaldato, Robert dietro di me che ha già iniziato a fare battute idiote e io che ne rido. Ormai sono in preda all’euforia nonostante le gambe tremanti per la stanchezza, così senza tanti preamboli raggiungo l’auto che riporterà in albergo, fiondandomi sul sedile posteriore con un verso di sollievo. Pochi secondi dopo, l’abitacolo s’illumina, il sorriso di Robert che si accende contagiandoci tutti, Peter compreso, che inizia a darci strette di mano e complimenti.

Tre giorni sono passati in fretta e finalmente si torna a casa, lasciandoci alle spalle questi tre mesi passati a chiedermi continuamente dove cazzo fossi, la stanchezza, la folla e le loro urla. Credo che me le porterò nel cervello per tutta la vita come un disco in loop. A volte ho quasi paura di dimenticare ciò che succede fuori dal palco, che ogni cosa mi sfugga di mano e che ogni singolo gesto si stia svolgendo in qualche posto remoto della mia mente, dove un burattinaio immaginario riesce a muovere le fila contorte della mia vita. E poi i sogni. Sembra che nemmeno lì mi sia concesso un briciolo di pace e lucidità, mentre davanti ai miei occhi passano le immagini di terrore vissute sul Falcon Jet, il mio corpo che sobbalza sul sedile proprio come è successo un mese fa e poi, ogni maledetta volta, il sogno si conclude col mio corpo abbandonato al centro della strada, morente e bagnato dalla pioggia.

- Jimmy? – la voce di Robert mi riporta alla realtà e stancamente mi volto a guardarlo – Jimmy, amico mio, non è il momento di dormire. Siamo al Drake!

- Cosa? – chiedo con la voce impastata dal sonno. Non mi ero nemmeno accorto di essermi addormentato, così mi stropiccio gli occhi focalizzando il volto di Robert di fianco al mio, la sua espressione stanca ma felice allo stesso tempo.

- Siamo in albergo, compare! – esclama – Stiamo tornando a casa.

Istintivamente, gli sorrido. Poi lo sportello posteriore si apre, la faccia di Peter che scruta dentro.

- Smettetela di fare le checche voi due e datevi una mossa!

- Sembri geloso, Grant! – risponde Robert prontamente e, una volta sceso dall’auto, inizia ad infastidire Peter imitando moine degne di donnicciole da quattro soldi. Senza che se ne accorgano, scendo dal lato opposto al loro, guardandomi in giro e avvertendo un morso di malinconia. In fondo, l’America mi mancherà. Nonostante i clacson assordanti e la puzza del fumo di scarico delle auto, i problemi e il costante senso di disorientamento, sentirò comunque uno spazio vuoto all’altezza del petto, anche se misero in confronto a quello lasciato dalla lontananza da Londra. Mi mancherà il cielo limpido del Texas e le notti calde della Florida. Mi mancherà il tramonto della California, vedere il sole calare nel mare prima del concerto col naso nascosto tra i capelli di lei, le lenzuola stropicciate e il loro profumo di bucato che si mescola coi nostri odori.

- Jimmy!

Un paio di braccia esili e perfette si stringono attorno al mio collo, mentre avverto il calore di un seno accennato sulla mia schiena.

- Lori. – esclamo staccando lo sguardo dalla strada per posarlo sui suoi occhi che brillano intensamente, la mia mano destra che si stringe attorno al suo braccio – Non dovresti comportarti così in strada, lo sai …

- … che se ci vedono siamo fottuti. Sì, lo so. – risponde, con voce acutissima, imitando quella di una bambina – Ma non m’importa. – aggiunge con fare impertinente.

- Oh, sì, tanto quello che se ne va in gattabuia se lo beccano con una minorenne sono io. Che t’importa. – dico, pizzicandole l’avambraccio stretto ancora attorno il mio collo, Robert e Peter che discutono ancora mentre aspettiamo l’arrivo di Jonesy e Bonzo rimasti indietro.

- Non sono così insensibile.

- Oh, certo che non lo sei. Lo so bene. – dico con fare malizioso, allungando il collo per posarle un bacio sulle labbra – Sei solo egoista, bambina impertinente. – concludo severo, la sua bocca che subito si spalanca per poter replicare, quando viene interrotta dal rumore sinistro e angosciante delle ruote che frenano bruscamente sull’asfalto, seguite da un tonfo sordo, morbido, secco. Poi, solo il suono di qualcosa (o qualcuno) che striscia lontano, un gemito debole, lieve. Mi volto di scatto verso la strada sulla quale ora sono puntati decine di occhi, compresi i nostri. Il tempo di capire di cosa si tratti e già le prime urla rompono il silenzio, la prima quella di un’autista fermo al centro della strada, il parabrezza della sua auto completamente crepato e sporco di sangue, le sue mani nei capelli ispidi e gli occhi sgranati contro una figura a pochi metri da noi.

L’urlo soffocato di Lori mi riporta alla realtà e subito le porto una mano sugli occhi e il volto contro il mio petto, sperando che non abbia visto ciò a cui tutti stanno assistendo senza far nulla. Il corpo tremante, preso dagli spasmi, i lunghi capelli biondi impiastricciati di sangue, il volto sfigurato e il bacino rivolto su un fianco, evidentemente rotto. Nonostante il caldo asfissiante, un brivido mi percorre la spina dorsale, il sudore che torna a percorrermi le tempie come una carezza fredda che sa di morte. Mi sembra quasi di sentirne i passi mentre avvicina l’esile stelo tremante sull’asfalto, le braccia spalancate contro il cielo come ali di un angelo caduto, il suo petto che, ogni secondo che passa, trova l’immobilità dopo un ultimo sussulto.

- Merda! – sento sussurrare al mio fianco, le mie braccia strette attorno alle spalle di Lori. Quando mi volto, trovo l’espressione sconvolta di Bonzo, Jonesy di fianco a lui che guarda la strada con aria sofferta, le mani sui fianchi, mentre poco lontani da noi, Grant ha passato un braccio attorno alle spalle di Robert che, silenziosamente e senza aggrottare il viso, piange. E mentre il suono dell’ambulanza rompe il silenzio, mi obbligo a guardare il cielo ormai buio sotto il manto della notte, ricacciando indietro le lacrime che spingono tra le ciglia. Non un bagliore, nessun segno, solo un grande buco nero sopra le nostre teste.

Il cielo delle città non ha stelle.

 

 

*

 

 

 

- Peter?

Questo si volta con fare omicida, la mascella che sporge in avanti sotto la barba nera, la guancia poggiata sulla mano, il gomito puntellato sul bracciolo dell’ultimo sedile in fondo all’aereo.

- Vedi di sparire, Richard. – sputa freddo.

E questo se ne va, senza obiettare, sconfortato. È da ieri che tenta di parlare con Grant, ma questo, dopo il fattaccio del furto all’hotel, si rifiuta di parlargli.

Il silenzio è calato nello Starship, interrotto solo dal lieve russare di Robert seduto dietro di me, mentre sulla fila parallela alla mia, oltre il corridoio, Bonzo è intento a montare un piccolo camion giocattolo comprato apposta per Jason, mentre Jonesy, dopo aver impacchettato la bambola che ho comprato  per la mia Scarlet, si è immerso nella lettura di Jake e il fagiolo magico, intento a trovare il modo perfetto per leggerlo alle sue piccole quando tornerà nel Sussex.

La testa sulle mie gambe, Lori dorme tranquilla, una sua mano poggiata sul ginocchio, le sue gambe raccolte sul suo sedile di fianco al mio. Sotto di noi, l’Atlantico ci porta a Londra. Distolgo lo sguardo, non riesco a guardarla. Ho quasi paura di guardarmi le gambe e trovare il suo cranio costellato di sangue, l’immagine di quell’incidente che ritorna alla mia mente come il peggiore degli incubi, tant’è che ho paura di addormentarmi e dover rivivere tutto ancora una volta. Mi porto una mano sulle labbra, controllando una leggera nausea, cercando di equilibrare il mio respiro.

Stai tornando a casa, mi ripeto.

Stai tornando a casa. Al sicuro. Non avere paura.




















Angolo della pazza:
Eccomi! ^^
Ehm, eccoci al primo capitolo.
Come si sarà capito, questa è una storia che si svolge più dentro Jimmy che fuori. E' un tentativo di narrazione introspettiva che vorrei diventasse estrema, sperando che funzioni.
Non voglio dire molto su questo capitolo, vorrei lasciarvi viaggiare con la fantasia.
Ci si legge al prossimo capitolo.
Un abbraccio,
Franny

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Capitolo 3
*** 2. It reminds me of the pain I might leave, leave behind. ***


2.

It reminds me of the pain I might leave, leave behind.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dallas, 1 Aprile 1977

 

Di nuovo l’America e bentornata vita da nomade.

Potrei dire di sentirmi già stanco, voglioso di tornare indietro, ma non lo faccio, come da contratto. Così mi limito a scuotere violentemente la testa sotto il getto d’acqua della doccia, mille gocce che vanno ad infrangersi sui vetri, i miei pugni chiusi sulle orrende mattonelle a scacchi del bagno dell’hotel. Ho la sensazione di andare a fuoco e non è solo per l’acqua calda, le palpebre che si stringono sotto la voglia di esplodere, la confusione che affolla la mia mente. I minuti passano così velocemente da sembrare secondi e, dopo un po’ (chissà quanto), riapro gli occhi, puntandoli sul mio corpo nudo. Le gambe tremano, esili come fili di seta, e il ventre è scosso dai respiri, sempre più piatto, così sottile da scoprirne anche le ultime paia di costole. Osservo la mia trasformazione come se stessi negli occhi di un altro, estraniato, indifferente, così privo d’amor proprio da potermi buttare via senza tante esitazioni.

- Bene. – sospiro, richiudendo l’acqua e gettandomi addosso l’accappatoio, mentre s’infonde in me uno strano senso di pace, una leggerezza così profonda da sembrare quasi vera, naturale, salutare. È un’illusione così ben costruita da poterci vivere dentro.

- Page!

La voce di Peter, dall’altra parte della porta, mi fa sobbalzare, l’accappatoio che mi scivola di dosso, troppo largo per potersi sorreggere sulle spalle minute.

- Cristo, datti una mossa, tra mezz’ora dobbiamo essere all’Auditorium! – urla tutto d’un fiato.

- Ok! – dico con voce piccola, apatica, cercando di raccogliere l’accappatoio e asciugandomi. Quando anche la giacchetta bianca della mia dragon suite è al suo posto e l’ultimo dei riccioli è asciutto,  mi butto nel corridoio dell’hotel, trascinando i piedi e indossando un paio di occhiali da sole per nascondere le occhiaie fin troppo evidenti.

- Hey, Jimmy!

Quando mi sento chiamare, alle mie spalle incontro un sorriso bonario, genuino, che sporge dai baffi folti. Accanto a lui, un sorriso diverso, accennato, per non dire forzato.

- John, Jonesy! – li saluto, ritrovandomi il braccio di Bonzo attorno alle spalle – Pronti?

- Noi siamo sempre pronti, Jim! – esclama Bonzo, petto in fuori e sguardo fiero.

- E Robert? – chiedo, guardandomi intorno.

- È di sotto, ci sta aspettando. – sussurra Jonesy, così piano che devo piegarmi in avanti per sentirlo.

- Ok, scendiamo allora. – esclamo e cinque minuti dopo siamo in reception, Robert che, di spalle, parla al telefono con una mano su un fianco.

- E mi raccomando … - sta dicendo – Non fare arrabbiare la mamma. Sei tu l’uomo di casa quando io sono via! – esclama dolcemente mentre lo avviciniamo e così vedo i suoi occhi brillare di luce propria, quasi avesse Karac lì di fronte a lui. Ogni tanto dimentico. Scordo che siamo padri e mariti, oltre ad artisti e traditori nati. A volte dimentico che c’è una vita oltre le corde della mia chitarra, che c’è una realtà oltre le fantasie dell’eroina. Ci sono momenti in cui ho paura di dimenticare davvero tutto, specialmente quando chiudo gli occhi pensando a Scarlet e mi accorgo che non ricordo nemmeno il suo volto.

Quando Robert riattacca e si volta verso di noi col più raggiante dei sorrisi, ci trasciniamo fuori dall’hotel, in direzione delle auto. Quando sono sul sedile posteriore, per abitudine, mi volto verso lo sportello aspettando che entri Robert; invece, al posto suo, sono Richard e Bonzo ad entrare, mentre dallo specchietto retrovisore scorgo Robert, Jonesy e Peter che si avvicinano all’auto alle mie spalle. Da quando siamo partiti per Dallas, sembra quasi che il Dio Dorato voglia allontanarmi e con un moto di rabbia mi chiedo se tutto ciò è per impedire che le mie ombre oscurino la sua luce, se sia possibile che quello che consideri il mio migliore amico mi stia facendo questo. Inspiro lentamente, mentre un piccolo crampo inizia a torturarmi lo stomaco e non certo per la fame, l’auto che si accende e si avvia verso l’Auditorium, mentre Richard e Bonzo scherzano spensierati.

Fuori dal finestrino, le strade di Dallas sembrano tutte uguali come lapidi di cimitero, il fantasma di Kennedy che sembra aleggiare tra la gente insieme all’eco degli spari che l’hanno portato via.

- Matt, rallenta! – esclama improvvisamente Richard rivolto all’autista, intento a guardare la strada fuori dal cruscotto – Questa è Greenville Avenue!

- Intendi … - cerca di dire Bonzo, ma viene interrotto subito da Cole.

- Guarda con i tuoi occhi, amico! – esclama, indicando le ragazze sui marciapiedi che osservano le nostre auto sfilare tra di loro con sguardi famelici, Bonzo che ha già abbassato il finestrino e si sporge fischiando. Dietro di noi, Robert ha fatto la medesima cosa. Quando le ragazze si avvicinano, ormai le auto si fermano, mentre una serie di bocche, seni e occhi di tutte le forme e colori, si sporgono vicino ai finestrini, quasi fossero banconi pieni di carne a buon mercato. Riluttante, nascondo gli occhi sotto le palpebre, le lenti degli occhiali da sole che aiutano a rifugiarmi.

- Jimmy, Cristo santo, abbassa questo finestrino. – esclama Richard, afferrando la manopola e abbassando il vetro, lasciando spazio a un terzetto di voci stridule che iniziano a foderare il peggiore dei repertori da puttanelle da quattro soldi, quando una di loro, la più audacemente stupida, trascina la sua chioma rosso fuoco dentro l’abitacolo.

- Hey, ma tu sei Jimmy. – inizia  a sussurrare a pochi centimetri dal mio viso, i miei occhi ridotti a fessure che guardano un punto impreciso dell’abitacolo.

- Ma il vostro chitarrista ha perso la lingua? – chiede, rivolgendosi  a Richard.

- Prova a vedere, dolcezza! – esclama lui, dandomi una gomitata. Senza farselo ripetere, le sue labbra rosse si poggiano sulle mie muovendosi esperte, cercando una mia risposta che però non arriva, forzandomi ad aprire le labbra con la sua lingua, la mia che rimane muta alla richiesta d’intrecciarsi con la sua. Esasperata la sento sospirare seccata, la sua mano che piano si arrampica sulla mia gamba fasciata di bianco e raggiunge il cavallo dei pantaloni, dove niente si è mosso.

- Vai piccola! – incita Richard, Bonzo che invece continua a parlare con altre ragazze dal suo lato – Carica il nostro Jimmy.

E lei non se lo lascia ripetere, portando immediatamente la mano sulla zip dei pantaloni. Ed è qui che raggiungo il limite, una rabbia incommensurabile che furioso mi fa stringere una mano sul suo polso, stringendolo dolorosamente e girandolo da un lato, mentre i miei denti si sono stretti sul labbro inferiore di lei violenti e decisi, il sapore rugginoso del sangue che raggiunge la mia lingua. Impaurita, prende ad urlare, dimenandosi, cercando di chiedere aiuto.

- Jimmy, lasciala, che cazzo stai facendo? – urla Richard, Bonzo che si volta a guardare e subito mi afferra la mano, liberando il polso di lei che ormai ha iniziato a piangere. Così come è arrivata, la rabbia scompare, io che abbandono le sue labbra e ripulisco le mie col dorso della mano, mentre lei scompare dietro uno dei tanti bar del viale piangendo sconvolta.

- Si può sapere cosa diavolo ti prende, eh Page? – chiede Cole furioso, afferrandomi per la giacchetta e togliendomi gli occhiali da sole, scrutando il mio sguardo in cerca di un segno. E lo trova, insieme a Bonzo.

- Cristo santo, Jimmy! Ancora quella merda! – urla, Richard che preferisce distogliere lo sguardo, io che non riesco a guardare in faccia John – Rispondi almeno!

- Lascialo stare, John. – interviene Richard all’improvviso, poggiandogli una mano sul petto, l’auto che riparte – Avete un concerto. Pensateci dopo, ok?

No. Niente è ok. Torno a nascondermi dietro gli occhiali da sole, l’aria fredda che è calata nell’abitacolo è qualcosa di pauroso, che preannuncia parole non dette e troppe sputate per farsi male. Ma non posso impedirlo, non ora. Non ci riesco o, molto probabilmente, non voglio. Guidato dall’istinto ho perso la strada che percorrevo al fianco dei miei compagni, così convinto d’essere invincibile da risultare perdente.

Dopo mezz’ora di viaggio, l’Auditorium si staglia davanti a noi, io che scendo veloce dall’auto in cerca dei camerini, così vigliacco da volermi nascondere invece di affrontare gli altri, quando, all’improvviso, una mano mi ferma, poggiandosi sulla spalla.

- Robert! – esclamo, voltandomi spaventato.

Non risponde, la sua mascella che scatta pericolosamente in avanti, prima di afferrare entrambe le mie spalle, sbattendomi contro il muro.

- Ancora! – sussurra – Ancora! – questa volta è un urlo che rimbomba dentro il corridoio dei camerini, gli altri che rimangono fermi sulle porte, guardandoci preoccupati.

- Robert, io posso …

- No, tu non puoi! – sputa velenoso – Tu non puoi mandare tutto a puttane! Tu non puoi trascinarci all’inferno con te, chiaro?

Rabbrividisco, non tanto per le sue parole, quanto per la luce nei suoi occhi. Quello che ho di fronte non è più il giovane Robert spensierato e ingenuo, ma un uomo che ha iniziato a capire quanto sia difficile la vita, negli occhi la paura di un domani che forse non vede luminoso come un tempo. Rabbrividisco perché nei suoi occhi vedo lo specchio di me stesso.

- Resta con noi, Jimmy! – sussurra poi, quasi implorandomi mentre gli altri si chiudono nei loro camerini – Non ho nessuna voglia di farti del male, ma tu cerca di non farne a noi, te ne prego.

E così dicendo si stacca da me, scomparendo dietro la sua porta.

 

 

*

 

 

Non sembra vero. È tutto perfetto.

Le luci, il suono, la folla eccitata sotto di noi. I problemi di due ore fa sembrano scomparsi, andati via insieme all’ansia e la tensione, Robert che mi si avvicina, prende il palco e lo divide con me e insieme portiamo le persone alle porte del paradiso. Stairway si sprigiona nell’aria e mi ritorna addosso, carezzando dolcemente le mie ombre e portandosele via, lasciandomi sereno, le mie dita che si muovono decise accompagnate dalla delicatezza di Jonesy. E così i minuti passano veloci e anche Bonzo si aggiunge, come a volerci prendere tutti per mano e accompagnarci verso l’estasi finale della canzone.

Finalmente credo di sentirmi bene, leggero, così lieve da perdermi nella musica quando, in mezzo alle voci che cantano insieme a Robert, ne sento una, chiara e forte, appena di fronte a me, che grida il mio nome. D’istinto, apro gli occhi ma troppo tardi per cogliere la fonte di questa voce. Noncurante, continuo a suonare abbassando lo sguardo, giusto in tempo per vedere cadere, tra i vari fiori, biglietti e regali lanciati sul palco, una rosa bianca, l’unica tra quelle rosse già lanciate dalle prime file.

- Jimmy!

Di nuovo. E questa volta la vedo, esattamente in prima fila, un sorriso luminoso per farsi riconoscere, le guance rosee quanto le labbra, gli occhi blu come il cielo sopra il paradiso. Poi le luci si abbassano e lasciano cadere di nuovo l’oscurità sul pubblico, io che non perdo una nota nonostante tutto, dando inizio all’assolo e conquistando il centro del palco. Nascosto dietro i capelli, cerco nuovamente il suo volto, ma senza successo, e anche quando torno a guardare il punto in cui è caduta la rosa bianca, al suo posto trovo uno spazio vuoto. Stringo le labbra, infastidito, e scuoto la testa come a volermi dare una svegliata. Ci mancavano le allucinazioni, ora. Una morsa allo stomaco si fa sentire chiara mentre inizio a sudare freddo, la canzone che volge alla fine e Robert che riconquista il centro. Da qui, il resto è tutto normale, niente più allucinazioni fino alla fine del concerto. Almeno credo.

- Sono qui Jimmy! – sento esclamare e nuovamente mi volto verso il pubblico. Eccola lì, ancora, la sua mano che si solleva verso il cielo con un cenno di saluto. Istintivamente, ricambio e questa volta le rivolgo anche io un sorriso, sollevato più dal fatto di sapere che non si trattava di un’allucinazione, piuttosto che di rivederla. Risollevato, scendo dal palco insieme agli altri, Robert che sorprendentemente mi cinge le spalle con un braccio, sorridendomi teneramente.

- Bravo! – esclama per poi allontanarsi, diretto verso Audrey che lo aspetta raggiante, mentre con lo sguardo io cerco Richard.

- Audrey! – esclamo, distogliendo l’attenzione di questa dalle labbra di Robert – Hai visto Cole?

- È di là! – esclama, indicando l’uscita dell’Auditorium con un pollice, per poi tornare ad occuparsi di Robert. Veloce, raggiungo il punto indicato e subito m’imbatto in Richard, già mezzo ubriaco.

- Cole!

- Dimmi JimJam! – esclama strascicando le parole.

- C’è una in prima fila che …

- Ho capito. Dimmi com’è. – dice, lasciandomi una generosa pacca su una spalla, la puzza di birra che abbandona le sue labbra.

- Tu chiedile se ha lanciato una rosa bianca sul palco e poi portamela qui. – dico freddo.

- Ma che cazzo stai a dire? – chiede, barcollando – Dimmi il colore dei capelli almeno.

- Non lo so Richard, non si vedeva bene con le luci. – dico seccato – Me la vai a prendere o no?

- Agli ordini, capo! – e così dicendo scompare alle mie spalle diretto verso il palco, Jonesy che mi passa accanto, diretto ai camerini, senza degnarmi di uno sguardo, mentre Bonzo ha iniziato a bere insieme a Peter e ai roadies. È incredibile. Fino a qualche minuto fa eravamo lassù, uniti dalla musica e ci s’incontrava negli occhi con l’intesa di sempre. Poi si scende dal palco, le luci si spengono e la magia scompare, si ritorna soli, ognuno sulla propria strada. Mi chiedo se davvero la causa di tutto ciò sono solo io, se davvero le nostre vite sono così legate da poter essere spezzate insieme alla prima difficoltà, o se è solo una scusa per non dover ammettere che è il troppo successo che ci ha portati qui, a stare nella stessa stanza ed essere lontani chilometri.

Dopo pochi minuti, Richard è di ritorno, rosso in volto per la corsa e l’alcool.

- Niente amico. – mi dice, sconfortato – A quanto pare è andata via.

- Merda … - sussurro, quella morsa allo stomaco che si ripresenta fastidiosamente dolorosa.

- Però. – aggiunge, allungandomi qualcosa – Questa era ancora sul palco.

Una rosa bianca.

E dalle mie labbra sfugge un sospiro di sollievo, mentre l’afferro delicatamente, l’altra mano che fruga nel taschino della giacchetta in cerca delle sigarette.

- Io me ne torno in albergo. – dico a Richard che annuisce senza obiettare – Ho bisogno di dormire. – aggiungo, portandomi una sigaretta alla bocca e accendendola, facendo poi per andarmene, quando la voce di Robert mi blocca.

- Jimmy!

- Sì? – chiedo aggrottando la fronte, una nuvola di fumo che mi copre la faccia.

- Non fare cazzate! – esclama serio, la voce roca e stanca, i suoi occhi che, preoccupati, mi fissano insieme a quelli di Audrey seduta sulle sue gambe.

- Promesso! – dico, alzando la mano destra e senza aggiungere altro, torno in macchina.

- Cristo, Matt! – esclamo, stringendomi il collo della giacca attorno al petto – Abbassa l’aria condizionata.

- Oh, scusa Jim! – dice dispiaciuto – Dove ti porto?

- Voglio tornare in albergo. – sussurro stringendo i denti.

Quando l’auto è partita e l’aria è tornata calda, mi ritrovo a sfilare tra i miei stessi fan, incoscienti del fatto che mi trovo in mezzo a loro e, come incantato, mi ritrovo a sorridere, vedendo le loro facce estasiate e i loro corpi che brillano di sudore, gli occhi pieni di adrenalina. Poi, improvvisamente, sono costretto ad incollarmi al finestrino. Pochi metri più in là, vestito a fiori azzurri e capelli color grano, lei è lì, in piedi vicino all’uscita principale dell’Auditorium, che guarda in direzione dell’auto.

- Frena Matt! – esclamo voltandomi e lui inchioda bruscamente. Entusiasta mi volto di nuovo a guardare ma è sparita di nuovo. Guardo nella folla, in cerca dei fiordalisi che decorano il suo vestito candido, ma lei non c’è, nemmeno l’ombra.

- Che faccio Jim? – chiede Matt guardandomi perplesso dallo specchietto retrovisore.

- Andiamo. – dico, buttandomi contro lo schienale e chiudendo gli occhi, il cuore a mille mentre porto la rosa vicino al naso, annusandone il profumo delicato, così sottile da poter sparire se s’inspira troppo forte. Come lei. Da quando mi ha chiamato dal palco non faccio altro che rincorrerla e ogni volta è scomparsa nel nulla. Eppure è come le altre, niente di speciale se non fosse per quegli occhi così intensi, ma è destino che io non la incontri e forse è meglio così. Domani lascerò Dallas e la voglia d’iniziare una storia con qualcuno è pari a quella che hanno gli altri di stare con me. Così, do l’ultimo tiro alla mia sigaretta, scacciando via il pensiero di lei insieme al fumo, le palpebre che già si chiudono dalla stanchezza e, senza nemmeno accorgermene, cado in  un sonno profondo.

 






















Angolo della pazza:
Saaaalve! ^^
Bene, ecco il secondo capitolo ed è da qui che inizierà la vera storia.
Alloooora, per quanto riguarda la scena della prostituta, vi chiedo di perdonarmi nel caso risulti un po' "cruda", ma col passare dei capitoli capirete perché ci saranno altri "segnali" del genere.
Non voglio dire nulla nemmeno su questo capitolo perché non voglio poi rivelare cose che accadranno nei prossimi, visto che quando mi metto a parlare faccio spoiler a tutta forza! ^^'
Quindi, niente, spero vi sia piaciuto.
Ci si becca al prossimo, sperando che l'ispirazione arrivi un po' più presto.
Un abbraccio,
Franny

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Capitolo 4
*** 3. Grace ***


3.

Grace.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- You didn't have to make me a total disgrace, you didn't have to leave me with that beer in my face.

Qui, sul palco di Chicago, ho le sembianze di un’ombra. Seduto su uno sgabello, abbandono sospiri di fumo e nicotina sul mio volto sudato, la mano sinistra che si stringe attorno al manico della chitarra. Di fronte ai miei occhi si staglia un mare di facce che sembrano tutte uguali come il vociare che circonda l’unica, vera voce, quella inconfondibile di Robert, che vibra nell’aria come ali di colomba.

A occhi chiusi, cerco con le dita gli accordi che la memoria mi suggerisce, lo spettacolo che continua sul suo filo di perfezione fino alla fine di questa prima serata. Tre giorni a Chicago, sessantadue ore che vorrei passassero in un battito di ciglia e i miei denti che stringono nervosamente il filtro della sigaretta.

Con mia grande meraviglia, sembra che le cose stiano andando un po’ meglio, nonostante io continui ad aggrapparmi, debole, al pendio della vita. Nonostante questo, Robert mi sorride, ogni tanto mi passa un braccio attorno alle spalle, John che invece riesce a sollevarmi con un dito. Jonesy mi scansa, con una smorfia di paura mista a ribrezzo. Anche ora, sull’ultimo pezzo, cerco i suoi occhi come la mia chitarra chiede ritmo al suo basso, ma non li trovo, nascosti come sono dalle sue ciglia, le sue labbra strette che da tempo non sorridono più. Sconfitto, torno a guardare il pubblico, chiedendomi se ce la farò domani a stare di nuovo qui e anche il giorno dopo ancora, quando i miei occhi, spiando dietro un folto sipario di capelli, sono costretti a sgranarsi, increduli.

Ancora quel volto.

Ancora quegli occhi.

Ancora quell’espressione di richiamo che mi rivolge con le sue gote sollevate in un sorriso e che credevo di aver lasciato dentro i confini di Dallas, fuori dalla mia mente e dalle mie preoccupazioni. Eccola lì, invece, come un iris tra i papaveri, così reale che stavolta non può scappare. Quando termina il concerto e le luci si spengono, lei è ancora lì, in seconda fila, i suoi occhi che cercano i miei. Senza perdere tempo, le faccio un segno col palmo della mano rivolto verso di lei, mimando un “aspetta” con le labbra. Lei, sorpresa, annuisce, le altre intorno a lei che mi scagliano i loro ammiccamenti quasi ce l’avessi con loro, ma mentre scendo dalle scale del palco è solo lei quella a cui faccio cenno con la testa di avviarsi verso i camerini. E la sua testa mi dona un altro sì. E così, entro nel backstage, lei che scompare nella folla, mentre mi pervade la certezza che questa volta non potrà sfuggirmi.

 

 

*

 

 

I miei passi riecheggiano nel backstage ormai vuoto, da lontano il rumore delle donne delle pulizie che preparano tutto per dare una pulita a questo posto, mentre io ho lasciato che gli altri mi precedessero in hotel, rimanendo in compagnia di un’attesa ormai protrattasi fin troppo a lungo. Spazientito, abbandono il palazzetto, le mie labbra che si chiudono attorno all’ennesima sigaretta, negli occhi aloni gialli che potrebbero somigliare a lampioni che bruciano contro un cielo di un nero sbiadito, nell’aria il profumo di pioggia che si mescola con la puzza di fogna e catrame. Dalla bocca lascio andare anelli di fumo sopra la mia testa, i miei passi che graffiano sulla ghiaia come lo sconforto sul fondo dello stomaco, anche se, a dire il vero, sembra più una richiesta di svuotarsi in un conato di vomito, mentre le mie palpebre si fanno pesanti dal sonno.

- Jimmy!

I miei passi si bloccano e per un momento anche il respiro sembra fermarsi. Con uno scatto mi volto alle mie spalle, ma subito mi ritrovo a dover stringere i denti mentre un crampo mi morde un polpaccio, famelico.

- Sei qui. – dico, togliendo la sigaretta dalle labbra, in un tono che non fa trasparire traccia alcuna del dolore allucinante che mi sta torturando – Credevo fossi scappata, come l’altra volta.

- Stai bene? – mi chiede, ignorando la mia affermazione e abbandonando la parete sulla quale aveva appoggiato la schiena, apparendo sotto la luce fioca del neon che sovrasta l’uscita. Per un momento, sento lo stomaco muoversi di nuovo; sotto il freddo colore artificiale, il suo volto m’era parso per uno momento un teschio, qualcosa di molto vicino a un incubo. Poi si avvicina a me, lasciando la distanza di qualche metro, e finalmente rivedo le graziose guance che, questa volta, non permettono alle labbra di aprirsi in un sorriso, bensì a una smorfia di preoccupazione che, dopo questi momenti di esitazione, mi fanno rispondere alla sua domanda.

- Sì. Sto bene. – mento – Ma che fai, ci segui?

- Perché parli al plurale? – chiede, corrucciando le perfette sopracciglia disegnate sopra gli occhi blu che brillano come zaffiri.

- Qui le domande le faccio io, carina. – dico, tentando di avvicinarmi, ma subito fa un passo indietro, la faccia che subito fa trasparire un moto di paura – Che c’è adesso? Fai pure la schizzinosa? – chiedo infastidito, mentre lei scuote la testa in un “no” – E comunque, se non te ne sei accorta, sono in una band, piccola ingenua. – aggiungo, tentando di nuovo di avvicinarmi e questa volta rimane ferma, il suo petto stranamente fermo, come se stesse trattenendo il respiro – O era un modo carino per dire che hai solo occhi per me? – concludo, portando la sigaretta di nuovo tra le mie labbra, i miei di occhi che non abbandonerebbero i suoi nemmeno per un secondo.

- So … - balbetta, guardandomi in un modo strano, così impenetrabile da non poterne capire le sfumature - … chi sei. – conclude, spalancando gli occhi, quasi sfidandomi, io che mi lascio scappare una risata che somiglia più a un ringhio per via del dolore alla gamba diventato ormai allucinante.

- Nessuno sa chi sono veramente. – annuncio, sollevando il mento all’aria per lasciare l’ennesima boccata di fumo.

- Già. – annuisce seria – Nemmeno tu.

Cosa?

I miei occhi si trasformano in fessure di fronte alle sue labbra socchiuse in un cerchio.

- Prego? – chiedo, avvicinandomi pericolosamente a lei che, come mossa da uno stupido e strano coraggio, rimane al suo posto, perfettamente immobile sotto la chioma bionda che le copre le spalle.

- Se credi di sapere chi sei, sappi che stai solo mentendo a te stesso. – afferma, con una sicurezza che in me fa scorrere solo un fiume di dubbi, la sua voce così profonda e chiara che sembra non disperdersi nell’aria notturna, così limpida che sembra attraversare un microfono.

- Ah sì? – chiedo, ostentando una sicurezza che non posseggo solo per non mostrarmi vile di fronte alla sua sfacciataggine – Ma tu chi sei?

Abbassa la testa, come presa alla sprovvista, le sue mani che afferrano la gonna del vestito stringendola nervosamente. Poi i suoi occhi tornano sui miei, così vivi, così irreali.

- Grace. – risponde in un soffio.

Accenno a un sorriso senza denti, le labbra serrate che danno forma ad un ghigno.

- Strano. – dico, dando un tiro alla mia sigaretta – Da come parli si direbbe il contrario.

Stupita, spalanca la bocca, in un’espressione che nemmeno tenta di mascherare la sua delusione, ma che anzi l’accentua con una smorfia, come se l’avessi presa in faccia con uno schiaffo. Quasi mi fa tenerezza, così pallida e ferita da sembrare una bambina che ha smesso di credere alle favole.

- Scusami. – sussurro, gettando il mozzicone a terra e passandomi una mano tra i capelli – Non volevo offenderti. – balbetto, incapace di guardarla negli occhi. Quando poi ci riesco il suo volto sembra di pietra, così freddo e inespressivo da fare impressione – Ricominciamo tutto da capo, ok? – chiedo, quasi volendo sdrammatizzare, ma non sono bravo in queste cose – Io sono Jimmy, ma tu lo sai meglio di me, no? – faccio ironico, porgendole una mano.

Sorride, sia ringraziato il cielo. Mi piace quando lo fa.

Timidamente allunga una mano, quasi entusiasta di poter raggiungere la mia, ma poi sembra turbata, il suo volto che improvvisamente s’incupisce, sfumato di malinconia e frustrazione. Così come l’aveva avvicinata, fa sparire la sua mano dietro la schiena, le sue spalle minute che iniziano a tremare.

- Devo andare.

- Cosa? – chiedo sconvolto – Dove? Perché?

- Ho … - dice, come impreparata davanti alla domanda e in cerca di una bugia ben detta – Ho un impegno, me l’ero scordato. Perdonami. – e così dicendo fa per allontanarsi, per poi fermarsi subito – Ci vediamo domani! – esclama, salutandomi con la stessa mano che mi ha negato, i tacchi delle sue scarpette che battono sull’asfalto. Confuso, chiudo gli occhi, grattandomi la testa cercando di farle venire un’idea abbastanza buona per fermare Grace, ma tutto ciò che riesco a formulare è un: - Aspetta! – ma quando torno a guardare la strada di fronte a me, questa è vuota, percorsa solo da grosse ombre di alberi non ancora in fiore.

Sparita, inghiottita dalla notte.

Grace.

Il suo nome continua a vorticare tra le pareti della mia mente come una litania ripetuta all’infinito, la mia lingua che vibra contro il mio palato per poi sibilare piano tra i denti, in un sussurro simile alle foglie sfiorate dalla brezza notturna. Quel domani sembra già troppo lontano con l’impazienza che monta nel mio petto. Stupida ragazzetta  che se ne va in giro con gonne voluminose. Vieni a turbare la quiete di un uomo che vuol solo suonare in santa pace, seguendolo in ogni passo che fa, e poi sparisci, come inghiottita dalla notte, quando le mie dita erano a un tocco dalla tua pelle.

- Fanculo. – sussurro, gettando nervosamente il mozzicone che raggiunge la ghiaia, il crampo alla gamba che sembra svanito del tutto come anche il mal di stomaco, mentre una strana sonnolenza mi tira giù le palpebre. A polmoni aperti, mi lascio scappare uno sbadiglio, prima di incamminarmi verso il parcheggio in cerca di Matt e l’auto, ma più cammino, più le ginocchia sembrano volersi piegare, gli occhi che ormai si chiudono da soli, lasciandomi solo una fessura aperta sul mondo che, dopo secondi, mi chiude in una scatola buia.

 

*

 

 

- Jimmy?

Provo a dire qualcosa come “ancora cinque minuti”, ma dalla mia gola esce fuori solo un gracchiare indefinito.

- Jimmy, apri gli occhi!

Robert. La sua voce. La riconoscerei tra mille. Anche di più.

Lo sforzo che impiego per sollevare le palpebre è immane, ma è ancora più difficile abituarmi alla tenue luce calda che illumina il mio campo visivo, poiché gli occhi si rifiutano categoricamente di restare aperti, ancora troppo intrappolati tra sogno e realtà. Così, provo a farmi sentire, ma della parola “Percy”, solo le consonanti strascicate riescono a sorpassare la soglia secca e inaridita delle mie labbra.

Strano. Sembravano petali di rosa, tempo fa.

- Come ti senti? Stai bene?

La sento, la preoccupazione nella sua voce, ma non la comprendo. Ho solo sonno, perché non dovrei stare bene?

- Bene! – esclamo, questa volta i miei occhi si spalancano, rintracciando i lineamenti ellenici di Robert, così contrariati da sembrare una divinità in preda all’ira.

- Non si direbbe. – annuncia, freddo – Ad ogni modo, vedi di darti una mossa. Tra due ore siamo sul palco.

Riepilogando.

Non sto bene.

Ho un concerto.

Non ho tempo.

Tra tutte le negazioni che affollano la mia mente, l’unica affermazione mi fa tremare come in preda alla febbre, mentre Robert si alza in piedi, abbandonando quello che, adesso lo vedo, è il letto della mia camera d’albergo.

- Cosa … - tento di dire, prima che un feroce colpo di tosse mi spacchi la gola – Cosa è successo? – riesco a chiedere, aggrottando la fronte e stringendo gli occhi lucidi. Robert si ferma, le sue mani chiuse a pugno, le gambe divaricate. È arrabbiato, così mi dicono i suoi muscoli tesi di cui scorgo il profilo nella penombra.

- Hai anche il coraggio di chiedermelo? – sussurra, senza voltarsi – Hai ancora la faccia tosta di venirmi a chiedere cosa ti succede? – urla, voltandosi, mostrandomi il suo volto contratto, gli occhi colmi di lacrime, le mie gambe che sotto le coperte cercano rifugio stringendosi tra di loro, le mie mani che artigliano le lenzuola, mentre Robert continua il suo soliloquio – Sono mesi, mesi, che ti spacchi di quella merda. Ti avevo avvertito, ti avevo supplicato, Jimmy! – si ferma, la voce rotta dal pianto, cadendo in ginocchio di fronte a me, puntandomi i suoi occhi fin dentro l’anima.

Sì, ce l’ho ancora.

La sento vibrare ancora sotto i singhiozzi di Robert, schiacciata malamente dal mio senso di colpa e da un volto sfocato che appare nella nebbia degli ultimi ricordi. Occhi azzurri e scarpette bianche. Grace.

- Ero nel parcheggio. – sussurro, Robert che mi guarda quasi impaurito – Ho parlato con una … era in prima fila. Carina. – continuo, lo sguardo del mio amico che sembra scrutare un pazzo – E poi è diventato tutto buio. – concludo, grattandomi la testa, incontrando un nido di rondini al posto dei miei vecchi boccoli.

- Jimmy? – sussurra Robert, tornato severo.

- Cosa?

Mi scruta ancora negli occhi, come a volersi assicurare che io lo stia ascoltando davvero. Poi si alza in piedi, sfiorandosi il mento con le dita per poi dire: - Non ho intenzione di trovarti svenuto e sporco fin sopra alla schiena, in ogni fottuto parcheggio dell’America ogni maledetta notte che passeremo qui. Non ho la minima voglia di farti da balia. – sputa secco, dipingendo in me l’orrida immagine di me stesso, disteso a terra, tra polvere e ghiaia, mentre i miei reni si sfogano sul già sporco asfalto di un parcheggio.

- E adesso alzati. – riprende, passandosi il dorso della mano sugli occhi – Vestiti e andiamo. Non hai bisogno di lavarti, ci ho già pensato io.

 

 

*

 

 

Di fronte allo specchio, avvolto nella mia dragon suite bianca che profuma di bucato, non mi riconosco. Il fantasma di me stesso aleggia nel riflesso dello specchio e in quello degli occhi di Robert dietro di me, rimasto per assicurarsi che io non faccia ancora qualche stronzata.

Qualche minuto dopo, siamo di nuovo nell’affollato backstage del Chicago Stadium, Robert che scompare da qualche parte con Audrey. Io, Bonzo, John, Peter e Richard che, invece, chiacchieriamo indisturbati.

Nella tasca, la mia mano si stringe attorno alle mie promesse mancate.

- Ragazzi. Vado un secondo in bagno.















































Angolo della pazza:
Ciao! ^^
Sì, finalmente sono riuscita ad aggiornare e, come al solito, non ho un ciufolo da dire nelle note.
Dico solo che domani ho l'esame teorico della patente e sono nei cazzi!
Niente, finalmente sappiamo come si chiama sta benedetta donna che perseguita il Page e sappiamo che questo ha più di un problema da risolvere in questa storia.
D'ora in poi avrò da fare spremute (HAHAHA) di meningi per i capitoli, perché per rendere credibile l'idea che ho in testa, dovrò prima perdere quest'ultima.
Che cazzo sto a dì?
Va beh, ringrazio Ire (strano, non ti avevo ancora ringraziata) che, quando ha saputo cosa ho in mente, mi ha subito sostenuta per metterla in pratica.
GVazie, caVa! :'3
Un abbraccio a tutti e alla prossima.

Franny

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Capitolo 5
*** 4. And remember the smell of the fabric of your simple city dress. ***


4.

And remember the smell of the fabric of your simple city dress.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Sentirsi sospeso, fuori dal tempo e al di sopra dello spazio, niente che possa far male o far ricordare il dolore. Staccarmi dalla realtà e poterla dominare, nessuno se ne accorge. Nemmeno Robert, che canta indisturbato e incita la folla, il suo petto sudato che si allarga ad ogni respiro, mi ricorda i momenti passati in camera, in cui sembrava gli mancasse l’aria per la delusione. Nemmeno questo mi ha fermato; sapere che le costole di Robert potrebbero aprirsi fino a spezzarsi pur d’incamerare il mio malessere e tenermene lontano.

Non ero così, un tempo, e sapere cosa mi ha cambiato mi spinge ogni giorno a peggiorare, anche quando sono troppo stanco per farlo, sfinito dai concerti e dalle mie cattive abitudini. Così mi ritrovo di nuovo solo, la chiave della mia stanza d’albergo che ruota attorno al dito, i miei passi pesanti che rimbombano nel corridoio. Poi, il silenzio. I miei piedi si fermano, i miei occhi puntati sulla mia porta. La trovo lì, ferma, intenta a studiarsi le unghie con particolare interesse, un piede poggiato sul muro insieme alla schiena.

Grace.

Maligno un ghigno si disegna sulle mie labbra rinsecchite, le maniche che affondano nelle tasche dei pantaloni. Riprendo a camminare, avvicinandomi silenziosamente, il corridoio che si accorcia sotto i miei piedi mentre un motivetto risuona nella mia mente.

- “I'm gonna leave you baby about the break of day." – canticchio, stranamente intonato -  “On account of the way you treat me, I got to stay away. Come on now pretty baby, I told you to come on home.*

Si volta di scatto, presa alla sprovvista dal mio avvicinarmi, socchiudendo le labbra per sorridermi.

- Ciao. – sussurra, ma senza ombra di sensualità. Sembra quasi malinconica.

- Non eri al concerto questa sera. – dico deciso, piazzandomi di fronte a lei, un passo a separarci.

- Non … - balbetta, vedendo il mio volto avvicinarsi – Non ho fatto in tempo ad entrare.

- Capisco. – dico freddo, sollevando una mano per toccarle la guancia, ma velocemente si scosta e, come se non l’avessi messa alle spalle al muro, scivola di lato, di nuovo lontana da me.

- Si può sapere che vuoi? – dico irritato – Ti presenti qui, alla mia stanza, mi aspetti e poi appena cerco di toccarti scappi via? – ringhio e questa volta poggio le mani sul muro, ai lati della sua testa, sovrastandola con quel poco che è rimasto del mio corpo.

- James. – sussurra, sgranando gli occhi – Non puoi farlo.

- Perché? – chiedo con un gesto del mento, ma non risponde. Continua a sostenere il mio sguardo, ma senza sfida. Sembra quasi mi stia supplicando.

- Non ancora. – dice, poi – Arriverà quel momento, ma è ancora troppo presto.

- Che c’è? Sei vergine? – chiedo con aria di sfida – Stai tranquilla, non è un problema per me. – ghigno.

- No.

- E allora? – continuo – Hai un fidanzato, un marito, sei scappata di casa e ti cercano? Chi diavolo sei?

- Non ancora. – ripete scandendo bene le parole – Lascia che ti spieghi.

Sbuffo, spazientito. Come dissi al nostro primo incontro, questa è una vera e propria disgrazia. Ricomponendomi, impugno la chiave, facendola girare nervosamente nella serratura e invitandola ad entrare con un gesto della testa. Come una bambina impaurita, si stacca dal muro, gli occhi che seguono il percorso da me fino alla stanza, ma i suoi piedi si fermano incerti sull’uscio.

- Non ho tutta la serata, ragazzina! – dico acido, lei che sobbalza spaventata per poi entrare in punta di piedi, le sue mani che si stringono nervosamente alla gonna.

- Non lo cambi mai quel dannato vestito? – chiedo strafottente.

- Cosa? – chiede sorpresa, per poi guardarselo – Ah, no, non è come pensi. È il mio preferito, lo cucì mia madre qualche tempo fa e così, visto che mi piaceva così tanto, pensò di farmene due uguali, così posso usarlo per uscire quando l’altro è sporco. – conclude sorridendo imbarazzata.

- Oh. – sussurro scettico e senza credere una sola parola della frottola che mi sta rifilando, avvicinandomi al comodino per accendere l’abat-jour – Ma siete tutte così strane nella vostra famiglia?

- Sì. – risponde fredda, sedendosi sul bordo del letto – Tanto quanto tu sei arrogante.

- Oh, perfetto! – dico, battendomi le mani sui fianchi – Non solo mi perseguiti, ma lo fai solo per insultarmi. Sai che c’è? – dico minaccioso, le mani in vita – Quella è la porta. – esclamo indicandola con un dito.

- Sei tu che hai iniziato con le offese. Non io. – afferma fredda, decisa. È incredibile come un minuto prima sembrasse un cucciolo indifeso ed ora una fiera indomabile.

- Quindi ora dovrei anche chiederti scusa? – faccio sarcastico, mentre lei abbassa la testa, guardandosi le ginocchia, l’aria di chi è ferito profondamente.

- Ascoltami, Grace! – dico esasperato, portandomi i capelli indietro – Non puoi venire qui, come farebbe qualsiasi fan o groupie e poi comportarti così. Dammi una spiegazione, ti prego.

Alza la testa, i suoi occhi puntati nel vuoto. Poi appoggia i gomiti sulle ginocchia, il mento tra le mani, sospirando come non sapesse quali parole adottare.

- Non capiresti. Non ancora.

- Di nuovo con questa storia …

- E non smetterò di ripeterla fino a quando non capirai che devi lasciar perdere questo atteggiamento da star arrabbiata col mondo con manie di onnipotenza! – esclama, guardandomi furiosa - Sono qui per capire qualcosa in più di te e devi darmi tempo.

Sconvolto, prendo posto accanto a lei, stringendo le ginocchia tra le mani e guardandola inebetito. Non so cosa pensare, se non che questa pazza sto contribuendo enormemente al mio esaurimento nervoso.

- Tu … - balbetto – Da quale inferno spunti fuori?

Mi guarda con occhi che non lasciano trasparire emozione alcuna, gelidi.

- Dal tuo. – sussurra piano. Un brivido mi spacca la schiena al solo sentire la sua risposta, il suo volto una maschera liscia di cera, ma che sembra avere la freddezza e la durezza del ferro. Per un attimo, la stanza è abbagliata, come percorsa da un faro, il corpo di Grace che per un attimo sembra solo una statua di marmo, di quelli che useresti per una lapide, non per una scultura. Poi subito dopo, la stanza torna nella penombra dell’abat-jour e il rombo profondo di un tuono rompe il silenzio come se fosse stato John a dare uno dei suoi colpi di grancassa, seguito dal suono fragoroso e incessante della pioggia che sembrano applausi di una folla in ovazione.

- Allora raccontami tutto dall’inizio. – dico, quasi intimorito dall’espressione di Grace che non accenna a cambiare, se non alle mie parole, che le lasciano disegnare un sorriso impercettibile sulle labbra.

- Vengo da New York. – sussurra, portandosi indietro una ciocca di capelli, mentre io mi sistemo con la schiena contro la spalliera del letto, le braccia incrociate dietro la testa e la giacchetta bianca che lascia scoperto il mio petto ossuto.

- La città senza stelle. – dico roco, tossendo piano.

- Perché? – chiede incuriosita, aggrottando la fronte mentre distendo le gambe dietro la sua schiena.

- Vuoi dirmi che non hai mai guardato il cielo di New York? – chiedo sarcastico – Cristo, ci sono così tante luci per strada che sono in grado di annullare quelle delle stelle.

- Oh, sì, questo è vero. – sussurra nervosamente, la voce che trema – Ma io abito in periferia. Lì le stelle ci sono ancora. – aggiunge con occhi sognanti e un sorriso bello da morire. È così bella in questo momento che sono costretto ad inclinare la testa per godere meglio del suo viso, percorrendo con gli occhi l’armonia perfetta della linea del naso che si congiunge a quella del mento, unendosi su due labbra che sembrano disegnate da qualche pittore Neoclassico, le guance così rotonde da ricordare quelle di un cherubino.

- L’ho notato. – dico sincero, lei che distoglie lo sguardo imbarazzata, cogliendo in pieno il complimento – Dai, raccontami, è da molto che sei lontana da casa?

- Due anni. – esclama, annuendo – Da quando sono diventata maggiorenne.

- Strano. – dico, aggrottando la fronte – Quando hai detto che eri di New York l’hai detto con affetto. Non sembri una scappata di casa.

- No, infatti. – ride, sistemandosi meglio sul letto – Ho solo scelto una strada diversa, se così si può dire. – aggiunge, ritornando al suo solito tono malinconico – A diciotto anni ho deciso di andare in città. In periferia davo una mano a mia mamma nel suo negozio di fiori, mentre mio padre è un contadino. Siamo una famiglia semplice, viviamo bene. – dice col sorriso, quasi rivolgendolo ai propri ricordi – Ma, Dio, siamo negli anni Settanta e ci saranno una volta sola. Così ho deciso di cercare un lavoro in città.

- E come mai adesso non sei a New York? – chiedo confuso – Solo qualche giorno fa eri a Dallas e ora sei qui da due giorni. Devi aver trovato un ottimo lavoro per permetterti tutto questo. – osservo, mentre il secondo tuono sferza l’aria accompagnato dalla luce accecante del fulmine, mentre Grace mi guarda confusa, come se non sapesse cosa rispondere.

- Questo non posso dirtelo.

- Sei una prostituta? – chiedo, andandole incontro – Puoi dirmelo, non avere paura.

- Non sono niente di tutto ciò che potresti pensare. – dice, ma senza rabbia, ma con dolcezza, nostalgia, come se stesse parlando a qualcuno troppo lontano dal capire qualcosa di complicato – Si è fatto tardi, devo andare.

- Che? – dico, scattando a sedere mentre lei si alza – Fuori c’è il diluvio e tu non puoi uscire così. – aggiungo, inginocchiandomi sul materasso e guardandola negli occhi.

- Non posso.

- Rimani con me. Ti giuro che non ti sfioro.

- Di questo ne ero certa. – sorride.

- Allora rimani e raccontami ancora un po’ di te.

Silenziosamente, annuisce, mentre riprende il suo posto sul letto.

- Va bene. – acconsente – Però poi dormiamo. Sono stanchissima.

- Per me non c’è problema. – dico, accoccolandomi tra le coperte, l’aria divenuta improvvisamente fredda dopo l’inizio del temporale – Rimarrò sveglio tutto il tempo che vuoi. – affermo, proprio mentre sento le palpebre scendere giù.

 

 

*

 

 

Il riaprirsi dei miei occhi è dolce come non lo era da tempo. Non appena le mie pupille si schiariscono, ciò che trovano è il mio corpo, coperto dalle coperte e dalla dragon suite, il petto nudo accarezzato dai primi raggi dell’alba, la stanza colorata di un rosa rassicurante. Do un respiro profondo, stiracchiandomi piano; mi sembra quasi di esser tornato bambino, sereno nel suo risveglio, con le coperte calde e accoglienti e non più spigolose e inamidate come si è soliti trovarle negli alberghi. Sorridendo a labbra chiuse, mi giro su un fianco e, stesa di schiena, una lieve sottana bianca, i capelli arruffati resi splendenti dalla luce mattutina e il suo corpo che ha il particolare profumo dei mandorli in fiore, Grace dorme come un angelo che ha trovato la sua comoda culla di cielo.

- Grace? – sussurro roco, facendo attenzione a non spaventarla – Grace, svegliati!

Niente, il suo respiro è così piccolo, regolare, da risultare impercettibile, mentre non accenna a svegliarsi. La tentazione di svegliarla con un tocco è così forte che devo mordermi le labbra, ma cedo lo stesso. Così, lieve, alzo una mano sul suo viso, con l’intenzione di sfiorarle una guancia, quando i suoi occhi si spalancano, azzurri come se stessero riflettendo un cielo d’estate.

- Jimmy. – sussurra, mentre ritiro la mano come se mi fossi scottato – Che fai?

- Niente. – balbetto – Cercavo di svegliarti.

- Oh. – esclama, sollevando le ciglia e guardando il suo corpo esile e armonioso – Forse è meglio che mi metta qualcosa addosso. – dice poi, scendendo dal letto.

- Beh, se vuoi puoi rimanere. – dico, mettendomi a sedere in mezzo al letto – Così puoi restare solo con quella addosso. – aggiungo indicandola.

- No, meglio di no! – dice ridendo imbarazzata.

- Perché? – dico, raggiungendola e avvicinandola in pochi passi – Guardati.

- Jimmy, io devo andare. – dice, infilando dalla testa il suo vestitino tutto gonna e fiori.

- No, non devi. – dico, tentando per la seconda volta di carezzarle la guancia, ma lei si scansa, ma senza l’ira della notte precedente. La guardo silenzioso per poi dire: -Non ancora, ho capito.

Eccola che sorride di nuovo, sistemandosi i capelli alla meno peggio con l’aiuto delle mani, piegando la gonna e sistemando le spalline. Poi, quando è pronta, mi saluta con un cenno della mano, andando verso la porta.

- Aspetta! – la trattengo, facendole cenno con la mano – Vengo con te!

- Ma … - dice, presa alla sprovvista – Dove? – chiede a bocca spalancata.

Le sorrido, mentre mi libero velocemente della dragon suite, rimanendo nudo davanti a lei che non sembra curarsene, mentre cerco dei vestiti nelle valige con un entusiasmo che non possedevo da tempo. La guardo di nuovo e la vedo raddolcirsi, il volto disteso e paziente.

- Ovunque tu vada.

 

 

*

 

 

Il sole primaverile di Chicago sembra timido come il sorriso di Grace, mentre usciamo silenziosamente dall’albergo ancora immerso nel ronzio dei sogni di chi vi alloggia. Poche macchine percorrono le strade della città, anch’essa addormentata, mentre qualche gatto rovista nella spazzatura e il profumo del pane caldo si sprigiona nell’aria.

- Com’eri da bambina? – chiedo senza essere realmente curioso, giusto per dire qualcosa mentre mi stringo nella mia giacca a vento.

- Non t’interessa davvero. – sorride, portando le braccia dietro la schiena.

- Cosa te lo fa dire? – chiedo, sorpreso.

- Da come lo hai detto. – afferma altezzosa.

- Oh. – sospiro – Qualcosa dovrai pur dirmi o hai intenzione solo di apparire e sparire a tuo piacimento?

La vedo mordersi le labbra, mentre cammina di fianco a me dondolando le spalle.

- Hai ragione. – ammette amareggiata, corrucciando la fronte – Vedi, non è facile spiegare perché sono qui, o tanto meno perché trovo difficile parlarti di me. – continua a dire, evitando il mio sguardo – Ma ci proverò. – sorride, come a voler infondere a se stessa un briciolo di speranza.

Man mano che il sole si leva nel cielo, Grace sembra sciogliere ogni nodo contorto della sua insicurezza, parlando della sua infanzia, dell’amore indissolubile per suo padre e della complice intesa con sua madre. C’era l’ardore nel suo raccontare delle domeniche in spiaggia, passate grazie a suo padre che ogni fine settimana decideva di andare a pescare subito dopo la messa, mentre lei rimaneva seduta su uno scoglio meno aguzzo(potevo quasi vedere i suoi piedini dondolare, schizzati ogni tanto dalla schiuma marina), intenta a seguire il volo elegante di un gabbiano. Poi prendeva a parlare di sua madre come se fosse stata una fata, una di quelle che si aggirano per i giardini di Kensington; era stata lei a raccontarle di Peter Pan ogni sera e mi è sembrato di poter scorgere le sfumature del sogno nei suoi occhi quando, con naturalezza, le ho detto che abitavo a pochi passi da quei giardini.

- Davvero? – ha detto.

- Sì. – annuisco, stranamente imbarazzato.

- Quanto vorrei vedere Londra, prima o poi. – sospira, col tono di chi sa già non poterlo fare.

- La vedrai. – affermo, pronto come sempre a fare promesse che non posso mantenere – Ne sono certo. – continuo, lei che ha il tipico sguardo di chi non ti crede – Sei così giovane, energica e di certo non hai paura di viaggiare.

- No, questo no. – ammette, annuendo – Siamo arrivati. – dice poi, sollevando lo sguardo e scopro, con mia grande sorpresa, di essere di nuovo di fronte all’hotel. Istintivamente mi guardo intorno; abbiamo percorso l’isolato senza incontrare nessuno, eppure la strada adesso è animata di persone e macchine. Poi, porto il polso di fronte agli occhi, guardando l’orologio. Le sette. Possibile che sia passata un’ora ed io non me ne sia nemmeno reso conto?

- Adesso devo proprio andare, Jimmy. – dice, col tono di chi invece vorrebbe restare.

- Ti rivedrò? – chiedo, fermandola sul marciapiede.

- Sì. – annuisce – Puoi stare tranquillo. – assicura, scendendo in strada e attraversando, io che non mi rendo conto che la sto seguendo fino a quando non sento urlare un clacson, l’auto che inchioda a mezzo metro dal mio fianco.

- Guarda dove cammini, idiota! – esclama il tizio a bordo della macchina, io che lo guardo intontito prima di chiedere scusa e tornare sul marciapiede. Quando torno a guardare la strada, Grace è sparita.

- Jimmy!

Mi volto verso la porta dell’hotel, spaventato, il volto di Jonesy che mi osserva preoccupato.

- John. – dico, grattandomi la testa – Buongiorno.

- A te. – dice, avvicinandosi con aria poco tranquilla – Tutto ok?

- Sì, perché? – chiedo, poggiando il bacino contro le mie stesse mani.

- Beh, stai tornando adesso in albergo. – dice, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

- Cosa? No. – balbetto, sorridendo – Ho fatto una passeggiata con una ragazza.

- A quest’ora. – dice, sempre più incredulo.

- Sì, a quest’ora Baldwin. Che c’è? Non mi credi? – chiedo infastidito.

- No, Jimmy. – risponde subito, come un bambino spaventato - È che nessuno ti ha visto rientrare stanotte, tutto qui. – afferma con naturalezza. Questa sua aria da saputello pronto a fare la spia mi sta dando sui nervi, tanto che mi ritrovo a parlargli a pochi centimetri dal suo viso.

- Ascoltami bene Jonesy. – sussurro freddo – Ero da solo stanotte quando sono rientrato, alla porta della mia stanza c’era una ad aspettarmi e ci ho passato la notte. Sei soddisfatto ora o vuoi sapere altro? – chiedo, notevolmente alterato.

- No. – balbetta lui, impaurito, probabilmente dalla mia espressione. Devo sembrare esaltato in questo momento.

- Bravo. – sussurro, picchiettandogli una guancia con la mano – Bravo, Jonesy.

Poi lo lascio lì, con la sua espressione da ebete, entrando nell’hotel e prendendo l’ascensore. Qui, rimasto solo, sulla fronte iniziano a farsi strada perle di sudore freddo, mentre deglutisco di fronte a un ricordo che la mia mente non riesce a riafferrare.

Non ricordo più dov’ero ieri notte prima d’incontrare Grace.

















* la canzone citata è "Good Morning Little Schoolgirl" nella versione dei Greatful Dead. Però ascoltate quella di Muddy Waters perché è più bella.

Angolo della pazza:
Ciao! ^^
Qui è la Franny ventiduenne che parla! :'3
Finalmente questi due sono riusciti a dirsi più di quattro parole, era ora! u.u
Come avrete capito, Grace non è per niente un personaggio facile da definire e spero davvero che risulti anche vagamente credibile.
E Jimmy... povera creatura, quanto è confuso! :'D
Va beh, spero che il capitolo vi sia piaciuto e vado a mangiarmi un pezzo della torta di ieri. *Q*
Un abbraccio,
Franny

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Capitolo 6
*** 5. And if you feel that you can't go on... ***


5.

And if you feel that you can't go on…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Io dico che, appena arriverete lassù, voi due farete uno spettacolo di merda. – sbadiglia Bonzo, senza la premura di portarsi la mano alla bocca – Nel vero senso della parola.

- Sottovaluti le capacità del mio stomaco, Bonzo! – risponde fiero Robert, il braccio attorno alle spalle di una Audrey che, fingendo di analizzarsi le lunghe unghie, di tanto in tanto solleva le ciglia per guardarmi di nascosto. Mi sta dando sui nervi.

- Oh, del tuo no. – ammette Bonzo, sollevando le mani e sistemandosi meglio sul divanetto – Ma guarda quello lì. – continua, indicandomi – Quello ha un piede nella fossa, amico mio!

- Aaah. – faccio io con un gesto della mano – Sto bene.

Silenzio, gonfio di tutte le parole che in questo momento, nelle loro gole, hanno fatto dietrofront.

- Jimmy. – sussurra improvvisamente Audrey – Bonzo esagera, ma tu di certo non stai bene. – sentenzia, con quello che dovrebbe essere una specie di tono materno.

- Audrey? – la chiamo, imitando il suo stesso tono, lei che alza lo sguardo per guardarmi – Da quando il tuo lavoro è quello di dare opinioni? Di solito ti scopi Robert. – concludo velenoso, lui che mi lancia uno sguardo infuocato, ma stringe i pugni piuttosto che tirarmeli addosso.

- Almeno noi ancora ci sappiamo divertire, amico. – sputa arrabbiato – A te, invece, con tutta quella roba, nemmeno ti si solleva più.

Robert e la sua schiettezza.

Robert che mi ricorda che sono un miserabile.

Robert e le sue raccomandazioni, i suoi avvertimenti. Da assumere ad ogni ora del giorno. Da ripetere all’infinito ad ogni ora della notte, tra le lenzuola diventate troppo legnose sulla mia pelle sottile, tra i crampi delle mie gambe, tra i sottili spazi tra i denti dai quali l’aria passa con un fischio per poi morire a metà gola. Troppo poca per raggiungere i polmoni, questi troppo stanchi per raccoglierla.

Un crampo si affaccia alle porte dello stomaco.

Poi arriva l’ultima notte a Chicago, io che lascio il backstage fin troppo affollato di sensi di colpa, io che mi rifugio in un camerino. Anche lì, c’è silenzio. Di quelli vuoti, in cui le parole di Robert riecheggiano per qualche istante. Poi si perdono, le mie mani sulla mia Danelectro e, come per miracolo, trovo il coraggio di restare un po’ da solo con me stesso. Nessuna parola, nessuna colpa. Solo me, il mio cuore che batte lento e Ten Years Gone che scivola sul pavimento, le note che s’inseguono, le mie labbra che si stringono.

Questa volta non è un crampo. È proprio un morso.

Qualcosa cade dai miei occhi, ma non saprei spiegare. Non so come si piange, non credo di averlo mai fatto davvero in vita mia. Sarà accaduto da piccolo, forse, dopo essermi sbucciato un ginocchio o di notte dopo un incubo troppo brutto, ma le cose cambiano. E così, quelle mie paure tramutate in sogni, hanno spostato i confini tra sonno e veglia ed io, credendomi proprietario di un coraggio mai posseduto, ma solo di una buona dose di pace in polvere, mi sono vantato di poterci vivere dentro, di essere più forte di qualsiasi incubo e che piangere ormai non serve più. Sbaglio. Inciampo e cado su un sentiero di errori già percorso troppe volte. Dalle ginocchia ormai macellate, le mie ossa si affacciano ammaccate, segno di tutte le stronzate che mi hanno piegato le gambe.

Un ferro rovente. Cristo, fatelo smettere! Mi sembra di avere l’inferno in corpo.

Mi passo una mano sulle guance, scoprendole contratte, bollenti e umide, la mia chitarra che ormai non suona più, la mia voce rotta dai singhiozzi, da lamenti rauchi, le mie labbra impastate di saliva e muco, i denti che, come unghie sulla lavagna, graffiano tra di loro. Piango a dirotto, un gomito sulla Danelectro, una mano sulla fronte bagnata. Riapro gli occhi, ma è come guardare in una stanza buia. Non un suono, ma non è silenzio. È come una bolla, una specie di apnea che lascia un lieve brusio di suoni indecifrabili e un bruciore, all’altezza dello stomaco, così indomabile da accasciarmi in avanti, abbandonandomi a questa confusione che, al momento, sembra la migliore delle alternative alla mia vita. Poi due mani, sulla vita, la voce di John che tuona il mio nome, i miei piedi che si muovono come guidati da fili di un burattinaio. Da qualche parte, qualcuno sta dicendo che non sto bene, l’ho sentito con chiarezza. Sembrava Robert, ma non capisco a cosa si riferisca. Con chi sta parlando?

Un rumore ai miei piedi. Guardo. È la mia chitarra.

- John. – tento di dire – John, la mia chitarra … - sussurro, io che lotto contro gli occhi che però non vogliono aprirsi. Poi un morso ancora più forte, il mio stomaco che si contorce. Sento che potrei rimettere. Sento che potrei farmela addosso come un lattante.

- Vaffanculo la chitarra, Page. – urla Bonzo, mentre altre mani e altre voci si aggiungono alla sua – Lo capisci che stai male, eh?

- No, io … - tento di dire, prima che la mia gola venga squarciata da un urlo, il mio pugno che ripetutamente si scaglia contro la mia pancia, combattendo il dolore e favorendolo.

- Tenetelo fermo. – è il comando secco di quella che sembra la voce di Peter.

Poi i miei piedi abbandonano il pavimento, la mia schiena raggiunge qualcosa di morbido, il corpo ritrova il suo centro.

- Jimmy.

Il mio nome sulla bocca di tutti, ma questo ha il suono di qualche voce venuta dal paradiso.

- Jimmy. – ripete – Non avere paura.

- N-no …

- Dobbiamo farlo Jimmy, non puoi dire di no!

- Io sono qui. Apri gli occhi Jimmy!

Ma sono troppo stanco, voglio dormire. Ma voglio rassicurarla, farle sapere che ho capito.

- Lo so, Grace.

 

 

*

 

 

 

Buio. Storco la bocca mentre uno starnuto mi solletica il naso, ma sono abbastanza bravo da trattenerlo. Poi, al primo deglutire, sollevo lievemente le ciglia, uno spiraglio di luce fredda e celestina ci passa in mezzo, facendomi lacrimare gli occhi. Provo a respirare e questa volta è facile, forse perché sono disteso, ma non sul comodo e morbido dell’Ambassador East Hotel, bensì uno rigido come il cuoio di un pallone da calcio, freddo e scomodante come la luce a cui, poco a poco, mi sto abituando. Qualcosa pizzica all’altezza del mio avambraccio sinistro, così porto una mano per grattarmi, ma una voce dolce mi ferma.

- No, non farlo. Così sposti l’ago! – rimprovera materna – Sii paziente.

Inutile chiederselo. È lei.

- G-gra…

- Sssh, non sforzarti. – la sento dire, i miei occhi ancora socchiusi, mentre le mie spalle tentano inutilmente di sollevarsi, ma basta la sua voce a rimettermi a posto – Devi riposare, testone!

- Dove sono? – chiedo, con la voce impastata di sonno.

- Beh. – sussurra, e quasi la sento trattenere il fiato, mi sembra di vederla guardarsi attorno, le mani strette attorno all’orlo del vestito – Sei in ospedale, James.

Alle sue parole, i miei occhi finalmente si aprono sul soffitto sopra la mia testa. Poi cerco Grace, i suoi capelli color grano, i suoi occhi presi in prestito al cielo d’Agosto.

- Grace. – sorrido, vedendola ai piedi del letto, sulla destra, seduta con un ginocchio sul materasso, intenta a non perdere un’espressione del mio viso.

- James. – ricambia il sorriso, i suoi occhi che mi scrutano come a voler catturare in anticipo un mio improvviso malessere o qualsiasi mio bisogno. Poi guardo il mio braccio, un ago che sparisce sotto la mia pelle di neve, l’altro estremo che segue in un tubicino di plastica per finire in una flebo appesa di fianco a me. Torno a guardare Grace, così preoccupata da fare tenerezza.

- Sto bene. – la rassicuro, sollevando la mano destra, lei che si scosta, ma non la raggiungerei comunque.

- Non mentire. – afferma, abbassando lo sguardo, amareggiata – Sai di non poter continuare così, vero?

- Che ne sai? – sussurro, strascicando le parole in un’accozzaglia di consonanti e girando la testa dal lato opposto a quello in cui si trova lei.

- Lo so. – afferma, senza guardarmi – Più di quanto credi. Più di quanto tu stesso possa sapere. – sussurra mentre torno a guardarla, il collo sul suo mento, il labbro inferiore che sporge come se fosse imbronciata, quando è solo profondamente amareggiata. Muovo le dita, senza saper realmente cosa fare, il tempo che sembra una piuma sospesa a mezz’aria mentre i suoi occhi si aprono contro i miei. Fissarsi diviene la cosa più naturale, più esplicito di ogni parola, l’istinto che ci guida fino a incontrarci, capirci, a dirci tutto in silenzio.

- Hai paura che io muoia, Grace? – chiedo rauco, stringendo le labbra – Ma se mi conosci appena.

Sospira, guardandosi attorno, il suo sguardo che per un attimo si ferma sul mio braccio, quello con l’ago, e sembra quasi che sia su quel lembo della mia pelle che lei trovi il coraggio di dirmi quello che pensa.

- Non ne ho paura, Jimmy. – ammette, chiudendo gli occhi – Lo so. – aggiunge, lugubre, assente. Un brivido corre lungo la schiena, la graffia lasciando lividi appena sotto la pelle, lì dove il mio cuore è schiacciato dallo sterno e sembra voler scappare, salvarsi a quell’avvertimento che suona come una profezia.

- Tutti moriamo, Grace. – dico, tentando un tono di sicurezza e sarcasmo.

- Già. – sospira, guardandomi dritto negli occhi, i suoi che improvvisamente s’inumidiscono – Ma sembra quasi che tu voglia affrettare le cose. – sussurra, l’accento di ogni parola che sembra tinto di dolore, mentre il mio petto si solleva un po’, in un’inutile tentativo si sospirare a pieni polmoni.

- Perché tanta pena, me lo spieghi? – le chiedo, irritato – Mi conosci appena, anzi, potrei dirti che tu non mi conosca affatto ed io non so chi diavolo tu sia. Vieni qui, bella come un’illusione, e so già che te ne andrai, ormai ho imparato a riconoscere il momento in cui ti guardi attorno per poi sparire … - m’interrompo, prendendo fiato, lei che non smette di guardarmi, occhi e bocca spalancati – Cosa vuoi da me, Grace?

La sua risposta è il silenzio, mentre deglutisce pesantemente, le mani che si sono strette attorno al lenzuolo, l’unico che copre la mia pelle nuda e improvvisamente mi sento vulnerabile, come se l’innocente e fragile creatura seduta ai miei piedi possa guardare negli angoli più remoti del mio essere e scovarci qualcosa di sbagliato, una ragione sconosciuta anche a me stesso. Ho paura che possa essermi più vicina di qualsiasi donna che mi ha avuto dentro di sé, ma senza avermi davvero.

- Lasciati salvare, James. – sussurra roca, mordendosi le labbra, quasi si fosse pentita di quello che ha detto.

- E come? – chiedo io, la mia voce che trema. Per la prima volta, da quando l’ho conosciuta, ho paura.

- Questo non lo so nemmeno io. – ammette amareggiata – Ma se mi permetti di provarci, farò in modo di non fallire.

Sospiro, stringendo i denti nascosti sotto le labbra.

- Nessuno ci è riuscito. Nemmeno Robert. – ammetto, prima di sentire il cuore appassire di fronte a quello che sto per dire – Nemmeno Scarlet.

- E la cosa ti sorprende? – chiede retorica – Possibile che tu non abbia ancora capito? – domanda, questa volta amareggiata, come se l’identità del mio salvatore sia così evidente da risultare stupido il fatto che io non lo conosca.

- Bene. – dico, affondando la testa nel cuscino e chiudendo gli occhi – Aiutami a farlo, Grace.

Nel buio, la sento sorridere.

- Sono qui per questo.

Apro gli occhi, finalmente una certezza. Mi volto a guardarla, ma davanti a me trovo solo il profilo dei miei piedi sotto il lenzuolo, il passaggio di Grace delineato solo dalla stoffa stropicciata sul punto in cui era seduta.

- Sei sveglio?

Di scatto, mi volto verso la porta alla mia destra, scorgendo Robert in piedi sull’uscio, le mani poggiate sugli stipiti della porta, negli occhi la preoccupazione che si riserva nei confronti di un malato, i riccioli arruffati, segno evidente che troppe volte le sue mani ci sono passate in mezzo nervosamente, nell’attesa che mi svegliassi.

- Da un po’. – rispondo, abbozzando un sorriso, lui che lo ricambia con un’espressione indecifrabile, la sua bocca che si arriccia insieme alla fronte, nell’evidente tentativo di non piangere.

- Come fai? – mi chiede, battendosi una mano su un fianco – Come fai ad essere così sereno?

Poi entra nella stanza, sedendosi dove pochi secondi prima c’era Grace, con l’unica differenza che lui non si astiene dal toccarmi. La sua mano si posa decisa sul mio ginocchio destro, stringendolo dolcemente, i suoi occhi che cercano una risposta che non ho o non riesco a dare, il mio cuore che si fa sempre più pesante nel vedere le sue guance rigarsi. È come vedere un Dio piegato a un meschino dolore umano, a preoccupazioni che non dovrebbero appartenere a creature celesti come lui. È una tristezza gratuita quella che do a Robert e sentir crescere in me il senso di colpa non basterà a ricambiarlo di tante attenzioni, di un affetto che palesemente non merito. Così mi limito a sollevare il braccio destro con fare paterno, accennando con gli occhi un invito ad avvicinarsi.

- Vieni qui, Robert. – sussurro, mentre la sua testa si è già fiondata sulla mia spalla, i suoi riccioli che mi coprono il petto come una coperta dorata, le sue braccia che mi circondano la vita, più calde del misero lenzuolo che ho addosso, e per la prima volta mi sento davvero al sicuro.

- Non sei solo. – singhiozza, il suo volto che mi scruta all’altezza del mio collo – Che bisogno c’è? Perché arrivare a questo?

- Non lo so. – ammetto – Forse esser circondato da tutti mi fa sentire più solo di quanto tu possa credere, Robert.

- E Scarlet? – chiede con quell’affetto paterno che io non ho, con quella premura che lui dovrebbe riservare solo a Karac e invece rivolge anche alla figlia di un uomo che non la merita, che ha annegato la sua natura di padre dentro litri di whiskey, come se fosse stato uno dei tanti, meschini problemi della sua misera vita.

- Povera creatura. – sussurro funereo – A volte penso che crescerebbe meglio senza di me. Charlotte è una madre stupenda e … - ma non termino la frase, la mano di Robert che mi tappa la bocca, mentre le dita affondano nelle guance.

- Smettila. – ringhia – Il tuo non è dolore, o depressione. Da come parli sembri solo un egoista bastardo che non vede nulla oltre se stesso. – e ciò che mi resta da fare è sospirare contro la sua mano, mentre un nodo si stringe contro il mio pomo d’Adamo, ma non piango. Mi limito a guardare in fondo agli occhi di Robert, così azzurri e accesi, attraversati di vita. Come quelli di Scarlet.

- Credi che io non ami mia figlia, Percy? – chiedo, quando la sua mano mi libera la bocca.

- A questo punto mi chiedo se tu possa amare davvero qualcuno, Pagey. – ammette, abbassando lo sguardo – Ma mi rifiuto di crederti così. Ho conosciuto un ragazzo fantastico quel pomeriggio a Pangbourne e farò di tutto per riaverlo indietro. – aggiunge poi con determinazione, guardandomi con un’intensità che mi scuote fino a farmi sorridere.

- Sei stato sempre testardo, Robert. – sussurro teneramente, una mia mano che gli scosta una ciocca di capelli rimasta tra le sue labbra.

- Pensa che ti ho pure difeso. – dice poi, sorridendo imbarazzato – Ho detto ai giornalisti che hai avuto un’intossicazione alimentare e credo proprio che se la siano bevuta. – racconta, sollevando le sopracciglia con orgoglio, per poi tornare serio – Ma se ti succede qualcosa? Se il peggio dovesse arrivare …

- Non me ne fotte un cazzo di quella gente, Plant.

- Lo so. – annuisce – Ma non è di loro che ho paura. – afferma con voce sicura, tornando a guardarmi negli occhi - È che non saprei dove andare. Ero un ragazzo di campagna e tu mi hai messo al mondo. Se tu te ne vai, io e gli altri saremo orfani. Lo capisci, Jim?

Il sorriso muore sulle mie labbra e anche qualcosa in un angolo ancora vivo del mio cuore. A volte mi sento così pronto a lasciare questo mondo che lo farei senza voltarmi indietro, a volte ho così paura di quello che potrebbe succedere dopo che mi ci rifugio dentro, calando le tende della Tower House e restando in casa per giorni, lontano da tutto e scappando da me stesso, da quello che sono per gli altri e da ciò che vorrei essere.

- Dimmi che non te ne vai, Jim. Promettimelo.

Annuisco, la mia voce sembra quasi irraggiungibile per il mio fiato corto, mentre stringo le braccia attorno alle spalle di Robert, tornando a sentirmi felice come lo ero a Pangbourne mentre lui cantava per me, solo per me. Poi il momento si spezza, un rumore di tacchi che irrompe nella stanza, accompagnato dal sorriso tenero di una giovane infermiera, che ci osserva con la dolcezza che si riserverebbe ad una coppia di innamorati.

- Non è come pensi! – esclama Robert, mettendosi a sedere sul materasso, all’altezza della mia vita, mentre inizio a ridere sotto i baffi.

- Io non ho detto nulla. – dice lei, avvicinandosi per controllare la mia flebo, per poi appuntare qualcosa sulla sua cartellina – Anche se devo ammettere che eravate davvero teneri.

- No, tesoro, non parlare così. – supplica Robert, mentre continuo a gustarmi la scena – Senti, una sera di queste possiamo uscire se vuoi. – aggiunge, mentre io e lei iniziamo a ridere.

- Beh, se lui non è geloso. – scherza lei, indicandomi.

- Lo sono eccome! – esclamo io, scoppiando a ridere.

- Bastardo. – ringhia Robert tra i denti, mentre lei esce dalla stanza – Ti lascio il mio numero, se vuoi. – esclama poi, rivolto verso il corridoio dove lei è sparita.

Sparita.

Grace.

- L’hai vista? – chiedo improvvisamente a Robert.

- Fratello, non sono mica cieco. – risponde lui, fissando la porta – Aveva un c …

- Ma non l’infermiera! – lo correggo, tirandogli una gomitata – Grace!

- Chi? – chiede, voltandosi verso di me, la fronte corrucciata.

- Grace. Una ragazzina bionda, con un vestito a fiori. – dico io, mentre Robert solleva lo sguardo come a voler tentare di ricordare – Era qui, prima che entrassi tu.

- Cosa? – chiede sconvolto.

- Beh, sì, abbiamo chiacchierato per un po’ ed è andata via.

- Jimmy, frena! – mi blocca, mostrandomi il palmo di una mano – Non è entrato nessuno qui.

Non sta mentendo. Lo vedo nei suoi occhi pieni di fermezza, mentre io lo guardo spaesato.

- Devi credermi, amico. – dice, sollevando le spalle – Sono stato qui fuori per tutto il tempo e non è entrato nessuno a parte i dottori.

- Non può essere …

- È così, credimi! – dice, poggiandomi una mano sulla spalla – Devi averla sognata questa … come hai detto che si chiama?

- Grace.

- È carina? – chiede, incuriosito, un sorriso marpione che gli arriccia un angolo della bocca.

- Tanto. – sospiro – Un po’ strana, ma è stupenda. – dico, passandomi una mano tra i capelli – Sembrava così reale.

- Mi spiace. – dice, amareggiato – Però c’ero io, tesoro! – aggiunge con voce stridula da donnicciola eccitata – Che c’è, non ti basto? – conclude, pizzicandomi un fianco.

- Idiota. – esclamo, dandogli una spinta sul braccio, prima che uno sbadiglio mi spalanchi la bocca.

- Ti sei stancato, amico. – dice, mettendosi in piedi e sistemandomi il lenzuolo – Ti ci vuole un’altra riposata.

- Credo tu abbia ragione. – ammetto – Anche se vorrei la mia chitarra.

- Non essere stupido. – mi rimprovera – Devi riprenderti prima di tornare a suonare. Non puoi permetterti di sentirti male nel bel mezzo di un concerto una seconda volta. – aggiunge allontanandosi – Se hai bisogno di me, sono qui fuori. – conclude con un sorriso, prima di scomparire nel corridoio.

- Lo so, Robert. – sussurro. Non mi ha mai lasciato e mai lo farà. Nei suoi rimproveri, nei suoi sguardi amareggiati, c’è sempre quella tacita richiesta di non lasciarlo solo in un mondo così cattivo, che ha imparato a combattere solo con me a fianco. Poi un secondo sbadiglio, le palpebre che si abbassano, mentre in me cresce la speranza di rivedere il volto di Grace una volta abbandonatomi al mondo dei sogni.






















Angolo della pazza:

Eccomi! *arriva trafelata*
Bene, dopo due settimane di lavoro e di stress totale, finalmente ho sfornato sta cagata. ♥
Ok, non so quanto si possa capire di questo capitolo, so che in certi punti sembra una cosa masticata e sputata su un foglio, ma non ho saputo fare di meglio. .__.'
Quella raccontata, è la sera dell'ultimo dei quattro concerti suonati a Chicago nel '77, quella in cui Jimmy si è sentito male subito dopo Ten Years Gone fino al punto di essere ricoverato in ospedale. La motivazione che tutti conosciamo, è quella d'intossicazione alimentare, dato che lui e Robert avevano passato la notte precedente in un locale della città con i figli di Willie Dixon ingozzandosi, a quanto pare, di carne. In tutta sincerità, non so quanto questa versione possa essere attendibile (cioè, Jimmy s'intossica e Robert no?) dato che, in ogni caso, le condizioni di James erano catastrofiche già in partenza.
Comunque, qui trovate lo scan di un articolo che racconta l'accaduto: https://31.media.tumblr.com/cdc804b5ceab67fa328e3b5a4a5128fb/tumblr_n0qzo684Ei1s3s3rgo1_500.jpg
Ad ogni modo, pare sia stato Jimmy a parlare d'intossicazione alimentare, ma ho letto da qualche parte che anche Robert, sul palco mentre portavano Page nel backstage, abbia confermato la stessa versione. Comunque siano andate le cose, prendete ciò che è riportato nel capitolo come verosimile. ^^'
Ehm, nulla. Come ho già detto, non so quanto si possa capire di questo capitolo, quindi sorridete e annuite.
E recensite, che non vi cadono le dita. ♥
Un abbraccio forte,

Franny

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Capitolo 7
*** 6. Well, there's a light in your eye that keeps shining. ***


6.

Well, there's a light in your eye that keeps shining.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Louisville, 25 Aprile 1977

 

Blu. Rosso. Un giallo morente, dentro.

Dietro le case di legno e le criniere annodate dei cavalli di Louisville, il sole si veste di un ventaglio di tramonto e nuvole.

Kentucky, you are the dearest land outside of Heaven to me, cantavano Don e Phil. Niente di più vero, niente di più profondo, mentre le nuvole s’inghiottono il sole. Ed io con lui. Le mie dita ruotano meccaniche, calde contro il freddo pungente del cucchiaino argentato, immerso per metà nel mio tè. La città sembra pregna del profumo di bourbon fin dentro l’anima delle travi di legno e dei tetti scorticati dall’umidità dell’inverno. È un odore così intenso da poterne avvertire le gocce sulla punta della lingua, ma è un’illusione che mi lascia assetato. Così, avvicino la tazza alle labbra, scottandomi un po’, soffiando piano creando anelli sulla superficie color ambra del tè. Poi, un brivido di freddo, io che mi stringo dentro la giacca di lana, infilando in naso nel collo voluminoso. Nell’aria il profumo della pioggia.

- Sei in ritardo.

Sorride e sembra il suono del cristallo infranto.

- Ho avuto da fare. – risponde tranquilla, il rumore delle lenzuola che si schiacciano sotto il suo peso.

- La solita scusa. – rimbecco io, bevendo piano, scaldandomi.

- Come stai? – chiede, premurosa.

Sospiro, facendo tintinnare la tazza contro il piattino.

- Me lo chiedi da una settimana, Grace. – sbuffo – E la risposta è la medesima: lasciami in pace. – concludo acido, chiudendo le palpebre, gli occhi così pieni di tramonto che ormai vedono in negativo.

- Ho deciso. – dice improvvisamente, dura, sicura, così ferma che mi volto a guardarla, una mia mano ossuta che si stringe attorno al calore della tazza.

- Cosa? – chiedo, tentando di mascherare l’impazienza.

- D’ora in poi voglio darti le risposte che cerchi. – dice, stendendosi su un fianco e guardandomi intimidita, le sue scarpette che grattano una contro l’altra, i suoi occhi così azzurri da sembrare il cielo nascosto appena dietro il tramonto.

Cercando un equilibrio più interiore che fisico, prendo a muovere i piedi, per poi sedermi sul materasso, di fianco a lei, con la solita attenzione a non sfiorarla nemmeno con un dito.

- Sei sicura di averle tutte? – chiedo severo, i miei occhi che, specchiandosi nei suoi, somigliano a buchi neri, mentre la prima delle tante risposte che cerco tarda ad arrivare. Poi socchiude le labbra, come ad aver colto un senso che poteva trovare solo leggendo nei meandri della mia mente, si guarda intorno e accenna un flebile “sì”, la voce di una sposa certa del proprio amore, ma diffidente dell’uomo che ha accanto.

- Però devi farmi una promessa. – sussurra, evitando il mio sguardo.

- Quale? – chiedo, confuso.

- Che sarai forte, qualsiasi cosa accada. – dice come spinta da un moto di commozione – Che le tue mani non abbandoneranno mai la Musica e che tornerai a splendere come un tempo. Promettimi di provarci, James.

Mi ritrovo a deglutire, la lingua ancora pregna del sapore del te, adesso è secca e amara come se avessi bevuto cianuro.

- Cosa ti fa pensare che io possa fare qualcosa del genere? – chiedo stizzito – Lasciare la Musica? È … è la mia vita, Grace!

- E intanto non ti accorgi che quest’ultima la stai lasciando dietro un muro di onnipotenza che ti stai costruendo credendo che possa sorreggerti, ma non è così, James. – sussurra, i suoi occhi che vanno da un lato all’altro dei miei - È solo un’illusione.

Sorrido, sarcastico. Mi alzo in piedi, abbandonando la mia tazza ormai fredda sul comodino di fianco al letto, sorvolando sulle gambe di Grace che rimangono composte, non un accenno a socchiudersi, nessun invito ad avvicinarsi.

- A proposito. – dico, passandomi un dito sulle labbra – Da quando ti ho conosciuta non faccio altro che ripetermelo. – continuo, scattando in avanti, il mio corpo che in pochi secondi sovrasta il suo, le mie mani ai lati della sua testa – E se fossi tu un’illusione?

Deglutisce, il suo corpo è immobile. Trattiene il respiro, poiché non ne sento le onde infrangersi sulle mie guance.

- In cuor tuo. – sussurra, la voce che trema – Spera che io non lo sia.

- Avevi detto che avresti risposto. – ringhio, accennando a schiacciare il mio corpo contro il suo, ma basta il suo sguardo indifeso a fermarmi.

- L’ho fatto. – trema, come se la morte la stesse schiacciando contro il letto. Mi mordo le labbra, spazientito, per poi abbandonarla tra le lenzuola, il suo vestito intatto, il suo volto che poco a poco si distende. Le do le spalle, cercando di non cadere di nuovo in preda alla rabbia.

- Perché non provi a fidarti di me? – chiede all’improvviso.

Mi stringo tra le braccia, trascinandomi di fronte alla finestra e contemplando il suo riflesso e il mio.

- Mi basterebbe sapere chi sei. – sussurro, chiudendo gli occhi – Sentire che non ho nulla da temere. Vieni qui, bussi alla mia porta, ad ogni concerto e poi? Finiamo per parlare. Di me, qualche volta di te. Ma io non so niente di te. Non so chi sei, Grace.

Sospira, alzandosi dal letto e raggiungendomi vicino alla finestra, alla mia destra, le braccia incrociate al petto.

- Sei innamorata? – chiedo, d’istinto, giusto per strapparle qualcosa di bocca.

- No. – dice, col solito tono fermo che usa per non essere contraddetta – Io amo, è diverso.

Arriccio le labbra, in un sorriso sarcastico.

- Che differenza c’è? – chiedo, continuando a ghignare.

- Chi s’innamora ha a che fare con qualcosa di precario. – sussurra, guardandosi le unghie – Oscilla in continuazione tra l’egoismo di un’ossessione e l’amore vero.

- E cosa ti fa cadere dalla parte dell’amore? – chiedo d’istinto, interrompendo il suo discorso, avvolto da una strana quanto impaziente curiosità.

Sospira di nuovo, sorridendo malinconicamente, rivolgendomi occhi che non sono stati mai così nostalgici, così lontani, immersi in qualche strano ricordo. Sembra quasi che voglia farmi ricordare qualcosa che abbiamo vissuto insieme, forse in un’altra vita, ma che non riesco ad afferrare.

- Donarsi. – confessa, roca – Senza pretese. Chi s’innamora vuol sempre qualcosa in cambio. Chi ama perderebbe tutto, anche se stesso, per l’altro. – conclude, con un’intensità che mi fa tremare come un adolescente di fronte alla prima ragazza, al primo sfiorarsi di labbra, al primo amore.

- E tu … - tento di parlare, ma il mio è un balbettare frenetico.

- Io ti seguo, Jimmy. – dice sottovoce, gli occhi che brillano nella penombra della stanza ormai avvolta dalla sera – Perché senza di te non so dove andare. Perché per te ho perso tutto, James.

Aggrotto la fronte, le idee che si mescolano come colori sulla tela della mia mente componendo un quadro astratto di cui non conosco ancora l’interpretazione. Poi, un brivido mi taglia la schiena e subito dopo un tuono, in lontananza, riecheggia nel silenzio. Un freddo pungente si fa strada sulla pelle che veste la spina dorsale, mentre lei abbassa lo sguardo, dandomi le spalle e avviandosi verso la porta.

- Fa … - le labbra che tremano, gelate – Fa freddo quando sei qui.

Silenzio, i suoi lineamenti sconosciuti, inghiottiti dal buio della sua stanza.

Solo la sua voce.

- È perché non posso abbracciarti, Jimmy.

Poi il buio viene squarciato dalla luce del corridoio, la porta che si apre facendo uscire l’ombra di Grace, io che la inseguo fin sopra l’uscio, in tempo per fermarla a metà del suo tragitto.

- Puoi farlo, Grace. – dico, affannato, rivolgendomi alle sue spalle ricoperte dall’oro dei suoi capelli.

- No. – afferma aspra, stringendo i pugni, ma senza voltarsi - È il prezzo da pagare.

- Cosa? – sussurro, per poi ripeterlo ad alta voce – Per cosa Grace?

- Jimmy.

Mi volto di scatto, in tempo per vedere Robert arrivare dal lato opposto del corridoio.

- Con chi parli? – e alla sua domanda mi giro ancora, trovando il vuoto nel punto in cui poco prima c’era Grace, scomparsa, come se niente fosse, come se non …

- Hey. Ci sei? – insiste, vedendo che non lo sto considerando, una sua mano sulla mia spalla.

- Parlavo con Grace. – confesso – Ma è andata via.

- Hmm. – esclama, le labbra che protendono in avanti mentre mi guarda dubbioso - È tutto ok, Jim?

Annuisco, occhi ben fermi dentro i suoi: - Mi cercavi?

- Sì. – dice, iniziando a frugare nelle tasche dei pantaloni, io che entro nella mia stanza, tornando di fronte alla finestra, passando con lo sguardo dai lampioni, che spuntano come candele tra i tetti, al cielo coperto sulla mia testa, la pioggia che prende a scendere giù. Robert parla, ma non lo sento. Chiudo gli occhi e ripenso alle parole di Grace.

Cosa ha perso per me? E se è lei a seguirmi, dov’è che dobbiamo andare, quando nemmeno io so quale sia il punto d’arrivo del nostro folle viaggio?

- Jimmy, mi ascolti? – la voce di Robert taglia il filo dei miei pensieri e voltandomi vedo che è seduto sulla poltrona di fronte al letto. Ha anche acceso l’abat-jour, ma non me ne sono accorto. Richiudo di nuovo gli occhi.

Lei è di New York, mi dico, forse è lì che deve tornare.

- Robert, sai per caso quando saremo a New York? – chiedo, come illuminato.

- Tra più di un mese, amico. – dice, aggrottando la fronte – Ma cosa centra con la canzone?

- Quale canzone? – chiedo, confuso, mentre lui spalanca la bocca.

- Jimmy è da mezz’ora che te ne parlo. – sussurra, deluso, stringendo tra le mani un foglietto malridotto e sventolandolo per farmelo vedere – Ma a quanto ho capito non te ne frega un cazzo. – sbotta poi, buttando a terra il foglietto e alzandosi per uscire dalla stanza.

Io rimango immobile, la porta che sbatte violentemente ma senza interferire nel mio stato di trance, gli occhi immobili sul pezzetto di carta abbandonato sul pavimento, un racconto di Grace che sembra lontano, inarrivabile.

 

 

 

Bloomington, Minnesota, 12 Aprile 1977

 

- Tu sai cosa mi è successo, vero?

Annuisce, le dita che giocherellano con dei fili d’erba, il suo respiro calmo come lo scorrere Minnesota. Una luna malinconica si riflette sulla superficie.

- Eri sul palco quando ti sei sentito male.

Aggrotto la fronte.

- Ti sbagli, ero nello spogliatoio.

Prende fiato, mi guarda.

- Sicuro?

Interrogo la mia memoria, ma resta muta.

- Visto? – sospira.

Lancio una pietra nell’acqua, un tonfo così secco da fare un buco che non solleva gocce.

- Ti manca New York? – chiedo, stringendomi le gambe al petto con le braccia e inclinando la testa da un lato.

- Sì. – sorride con la solita malinconia – Mi manca andare in Morton Street Pier, stendermi su una panchina cotta dal sole e con le gambe penzoloni, mentre una scolaresca passa di fronte allo Hudson River. – racconta, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

- Lavori da quelle parti? – chiedo, preso dal momento raro in cui lei è pronta a raccontarsi.

- Non esattamente. – risponde, ma con l’imbarazzo tipico di chi vuol cambiare argomento. Così, per tenerezza, l’assecondo.

-Non mi hai ancora detto che lavoro fai, però.

- Lavoro in una caffetteria. – sorride, sollevata – A qualche isolato dal Battery Park. – aggiunge, cambiando poi improvvisamente discorso – Non dimenticherò mai l’apertura del World Trade Center. – esclama con occhi sognanti.

- Ma. – sussurro, aggrottando la fronte - È stato quattro anni fa, se non ricordo male. – puntualizzo, guardandola stralunato, lei che invece sembra essere impallidita, anche se non saprei dirlo con certezza con la poca luce che ci circonda.

-Sì. – la voce che trema – Ma è stato indimenticabile.

Mi soffermo ad osservarla, i suoi denti che mordicchiano il labbro inferiore, il suo imbarazzo che è evidente come quello di una bambina che ha appena detto qualcosa di stupido. Sottovoce, prendo a ridere, per poi sospirare a pieni polmoni.

- Ah, Grace. – dico, stendendomi tra l’erba – Sembri la nevicata di Miami. Insolita!

Alla mia affermazione, si volta a guardarmi, dubbiosa.

- Che c’è? – chiedo.

- Non ha mai nevicato a Miami.

- Su questo ti sbagli, ragazzina! – esclamo, mettendomi a sedere - È successo a Gennaio, poco dopo il mio compleanno. – dico, l’intenzione di suscitare qualcosa nella sua memoria, ma la sua espressione è sempre più persa – I giornali ne hanno parlato per giorni, Grace! Dicevano che potrebbe essere l’unica nevicata che Miami abbia visto in vita sua.

Silenzio, il suo capo che si abbassa. Le dita che stringono la gonna.

- Non me lo ricordo, Jimmy.

 

 

 

Piegandosi, le mie ginocchia schioccano sinistre. Con mano tremante, raccolgo il pezzetto di carta abbandonato da Robert, leggendo a bassa voce ogni parola scritta in modo sgangherato.

Il cuore di Robert che parla in versi.

 

 

And if you promised you'd love so completely
and you said you would always be true,
You swore that you would never leave me, baby:
What ever happened to you?

And you thought it was only in movies
As you wish all your dreams would come true.
It ain't the first time, believe me, baby
I'm standin here, feeling blue.
Yeah, I'm blue.

 

Un nodo alla gola.

La mia mancanza d’attenzione.

Le promesse infrante.

Tutto nelle poche parole di una canzone.

- Che sto facendo? – sussurro, sedendomi a terra, la schiena contro il materasso. Di fronte a me, il mio riflesso dentro lo specchio dell’armadio. Una mano tra i capelli, l’altra chiusa a pugno sul cuore.

- Che sto facendo?






















Angolo della pazza:
Salve! :3
Sono viva, zì!
Ok, dopo le mani impossibilitate a fare qualsiasi cosa, torno a scrivere. *^*
Sì, più o meno. Sto capitolo è stato un parto e non so nemmeno quanto ne sia valsa la pena sforzarsi, perché magari non ho reso nemmeno l'idea che avevo in mente, e cioè di rendere più nitido il quadro di Grace. Ci sono dettagli che dovrebbero aiutarvi a capire (qualcuno lo ha già fatto ^^'), però non voglio svelarvi nulla e, ovviamente, qualsiasi supposizione avanzerete, negherò fino alla morte. ♥
Ci si becca al prossimo aggiornamento!
Un abbraccio,

Franny

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Capitolo 8
*** 7. I lost myself on a cool damp night. ***


7.

I lost myself on a cool damp night.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pontiac, 30 Aprile 1977

 

Il Silverdome è un oceano di anime.

Settantaseimila duecentoventinove, per l’esattezza.

Tutte qui. Per noi. Per me.

Una costellazione di cuori che battono all’unisono e che fino a due ore fa nemmeno si conoscevano.

Quella della Musica è una magia così oscura da non poterla capire. Non l’avvicinerò mai, lascerò solo che mi trascini. Com’è possibile che basti un accordo sulla mia Gibson, le mani di Jonesy che scivolano sul piano o il piede veloce di Bonzo a far sì che il gemito di Robert sia quello di tante voci che non hanno nemmeno parlato tra loro? Com’è possibile essere così vicini, così uniti?

È in questi momenti che penso alla vecchiaia, a come sarà tutto ciò col passare degli anni. Se saremo qui, su questo palco o un altro, a spostare il sudore che gocciola da capelli ormai bianchi. È in questi momenti che potrei pregare. Pregare che Robert continui a sorridere con occhi sognanti, persi oltre il pubblico; pregare che Jonesy sia ancora lì, nascosto tra il suo basso e la grancassa, la sua quieta presenza, così decisa e fondamentale; pregare che John sia seduto lì dietro, forse un po’ più lento e qualche capello in meno sulla testa, ma felice, come ora, la sua batteria appendice naturale del suo cuore. Forse, pregherei anche per me.

Chiederei di esserci e di capire come farlo.

Butto via una nuvola di fumo, mi giro alla mia destra.

Robert. Splende di tutta la luce che nemmeno i fari sul palco hanno, il petto lucido rivolto al pubblico che si solleva inalando il fumo della mia sigaretta.

Per poche ore, siamo dèi che calpestano la terra.

 

 

*

 

 

- Dove vai?

- Ho bisogno d’aria, Robert, tutto qui.

Sembra incerto. Poi, le labbra di Audrey sul suo collo.

- Va bene, ma rimani nei paraggi. – dice per poi dedicarsi alla sgualdrinella.

Fuori dalle grinfie del festino in nostro onore, l’aria del Michigan mi soffia le guance il suo cielo limpido e freddo. Le piogge ci hanno abbandonati in Kentucky ed ora il sole e le stelle splendono alti sopra le nostre teste da ormai cinque giorni, passati nella monotonia totale, con voli che sembrano durare in eterno e canzoni che non decollano, con Robert che scrive, John che beve, Jonesy che mi scansa come un appestato.

- Ciao Jim!

Cole. Una mano in segno di saluto, l’altra che alza la zip dei pantaloni mentre una tizia dalle labbra decisamente gonfie lo segue a ruota con uno sguardo confuso, entrambi fatti della mia stessa merda, ma capaci di darsi una sistemata, di mascherarsi con un sorriso e tornare a festeggiare, come se niente fosse. Io non ci riesco. Al massimo mi rifugio dietro un paio di occhiali da sole troppo grandi per la mia faccia, mentre un’acne che prima non c’era mi rode le guance.

Eroina. Effetti collaterali: guardarsi allo specchio e non sapere chi hai di fronte. Prendi appunti, Page.

Pontiac è avvolta dal silenzio, non un passo ad infrangerlo, nemmeno l’arrivo di Grace, ormai lasciata a cinque giorni e cinque notti fa. Ho passato queste centoventi ore sperando che lei bussasse alla mia porta, di vederla in prima fila con le parole di ogni canzone imparate a menadito che le scorrono sulle labbra.

Come sempre.

Invece no. Sono ormai cinque notti che Grace è lontana da me, persa sotto chissà quale cielo; cinque notti insonni, occhi aperti contro il cielo sempre più limpido, capace di spostare le nuvole sopra di me, fino ad annebbiarmi i pensieri, e il nome di lei a squarciarle fino a farle piovere dentro di me come gocce di dubbi che a fine tempesta lasciano solo un fango di domande senza risposta.

- Vuoi?

Sorpreso, mi volto alla mia sinistra, la vista annebbiata da una lieve sonnolenza apparsa dal nulla, come lei; ma mi ci vuole qualche istante per capire che, quella che mi sta allungando una canna, è Audrey.

- Se ti becca, Robert ti sgozza. – borbotto, distogliendo lo sguardo.

- Per un po’ di erba? – ride – Di certo non ti cambia la situazione. – osserva, poggiandosi con una spalla al muro, rigirandosi tra le mani anche un accendino.

- Non parlo di quello. – sussurro, togliendole tutto dalle mani con gentilezza. Con calma, porto la canna alle labbra, illuminando lo spazio tra me e lei con la fiamma dell’accendino.

Un sorriso sarcastico mi attraversa le labbra, ma Audrey non capisce, non se ricambia. Infatti si ritrova a fare un verso di sorpresa quando una mia mano si stringe attorno al suo braccio, le gambe perfette che faticano un po’ a trovare l’equilibrio, per poi intrecciarsi con le mie. È bollente, una cagna in calore.

- Di cosa parli allora? – chiede con malizia, mentre i miei occhi la analizzano dalla testa ai piedi per poi fermarsi nei suoi, infuocati e folli. Come i miei.

- Sei una puttana, Audrey. – le sputo acido, ma in tutta risposta ricevo solo una risata compiaciuta.

- Dici? – sussurra impertinente, avvicinando il suo viso al mio e strusciandosi contro il mio inguine come farebbe una perfetta baldracca uscita dalla prima bettola dei sobborghi di una città anonima. Senza staccare i miei occhi dai sui, libero le mie labbra dalla canna, per scagliarle contro le sue, voraci, rudi, senza riservarle premura. Gliele mordo, le sue, che sanno ancora di Robert, così volgari, allenate e senza ombra di femminilità o grazia.

Grazia.

Grace.

Mi stacco, guardandola ancora una volta negli occhi, aspettandomi quasi di trovarli azzurri e di poter vedere le mie dita intrecciarsi tra spighe di grano. Ma questa non è Grace. Questo è solo l’ennesimo straccetto da buttar via una volta usato per bene.

- Andiamo. – dico, lasciandole una pacca sul culo che le fa stringere gli occhi.

La strada fino al nostro hotel è breve, fatta di mani contro pelle e i nostri corpi abbandonati contro il sedile posteriore, della mia canna che va a spegnersi sulla sua coscia destra e del suo urlo soffocato dalla mia lingua.

- Sta zitta. – le ringhio feroce, mordendole le labbra, e lei lo fa, almeno fino alla scala che porta al mio letto. Lì, abbandonata contro le lenzuola, si lascia fare qualsiasi cosa passi per la mia mente poco lucida, il mio corpo presente come non mai, in ogni morso, carezza o schiaffo, mentre lei si dimena e si abbandona, giocando col suo piacere e il mio, così consenziente da fare schifo, così dominabile da farmi passare tutte le voglie. Così, il mio nome riempie la stanza che ormai puzza di sudore, così incitato dalla sua voce e dalle sue azioni da risvegliare in me ogni minima perversione, fino a quando non le cado accanto, esausto, coprendomi con un lenzuolo per non dover mostrare ancora le mie ossa nascoste da una pelle così leggera da sembrare carta di riso.

Mi giro su un fianco cercando di riprendere fiato, lei che ansima ancora fino a quando non sento il suono riconoscibile del singhiozzo, segno forse di una coscienza che si risveglia insieme al dolore fitto tra le gambe, ma non è per quello che non riuscirà a dormire stanotte. Avrà il cuore colmo di sensi di colpa e faticherà a girarsi nel letto, pensando che quello di Robert era sicuramente più accogliente, che lì era stata trattata da donna, mentre qui è stata svelata per quello che è. Una stronza.

Come me del resto. Siamo fatti della stessa pasta, traditori nei confronti della stessa persona. Più una, lontana. Quanto, non lo so. So solo che mi sembrava di vederla sotto di me quelle poche volte in cui ho accarezzato il corpo di Audrey, invece che graffiarlo. Che mi sembrava sua la voce, che potevano essere suoi i capelli e suo quel calore che non sono ancora riuscito ad avvicinare, ma solo ad immaginarlo. Nelle ore di questa lunga notte, troppe volte mi sono ritrovato a pensare al corpo di Grace rimasto sconosciuto alle mie dita e a volerlo contro il mio, accogliente come il ritorno a casa dopo un lungo viaggio senza meta.

Poi, finalmente, il sonno arriva, con le mie mani strette attorno al lenzuolo. Alle mie spalle, Audrey sta ancora piangendo.

 

 

*

 

 

 

Un calore delicato mi sfiora la guancia destra, così sottile da sembrare una carezza. Mi ricorda la manina di Scarlet, quando la incontravo ogni mattina contro il mio naso, lei così piccola tra le mie braccia, profondamente addormentata dopo una notte insonne, la mia. Sorridendo al ricordo, apro gli occhi, quasi credendo di trovarci davanti i suoi capelli splendenti, ma trovo solo un sole alto fuori dalla finestra, segno che molto probabilmente è mezzogiorno e che tra poche ore saremo di nuovo in partenza. Immediatamente scatto in piedi, iniziando a raccogliere i primi indumenti che mi capitano a tiro e indossandoli, per poi fiondarmi nell’armadio, richiudendo tutte le valige con pochi gesti. Quando tutto è pronto, mi dirigo verso la porta ma, arrivatoci di fronte, mi rendo conto che a terra ci sono dei vestiti. Come fulminato, mi volto di scatto verso il letto; Audrey dorme profondamente, rannicchiata in posizione fetale, completamente nuda, la pelle bianca segno che ha dormito così per tutta la notte, soffrendo anche il freddo. Ma la rabbia che mi esplode dentro è così tanta da non riuscire a contenermi.

- Ma che cazzo ci fai qui? – urlo, svegliandola subito – Esci fuori, ora! – le ordino, raccogliendo furioso i suoi vestiti e tirandola giù dal letto.

- Jimmy, che succ…

- Ho detto fuori! – urlo, strattonandola, lei che riprende subito a piangere, afferrando i vestiti che le lancio addosso e tentando inutilmente di coprirsi. Mentre continua a blaterare parole senza senso, la trascino verso la porta, lottando contro di lei che vuol restare dentro per rivestirsi, ma non c’è sconto della pena. In pochi istanti spalanco la porta, facendoci passare sotto Audrey ancora svestita, le mani contro il seno e l’inguine, gli occhi gonfi di pianto, le urla e una porta che si apre sul corridoio, Robert che varca la soglia, i suoi occhi che si poggiano su di noi distanti pochi metri, la sua bocca che si spalanca muta.

- Robert, non è come pensi. – singhiozza Audrey, tentando di avvicinarsi, le mani di Robert che si chiudono a pugno.

- No, infatti. – sibila, per poi guardarmi - È peggio.

- Per favore. – supplica lei, io che rimango immobile a fissare Robert, deglutendo pesantemente.

- Entra. – le dice – Ma dopo che ti sei rivestita, fammi la cortesia di sparire. – conclude, il suo sguardo così freddo, così diverso da quello attraversato da una luce di calda malizia. C’è un disprezzo così profondo da non vederne la fine. Poi, un lampo. I miei occhi cambiano soggetto, qualcosa si muove in fondo al corridoio alle spalle di Robert. Mentre Audrey non accenna a voler entrare in camera, a pochi metri dall’ascensore, Grace mi guarda sconvolta, la bocca spalancata, la fronte aggrottata, la sua testa che ripete lo stesso no che io prendo a urlare, correndole incontro. Troppo tardi. Mentre Audrey e Robert si voltano a guardarmi, Grace ha già imboccato le scale, diretta al piano terra. Faccio la stessa strada, il cuore in gola, ma quando sono nella hall, è così affollata che sarebbe impossibile raggiungerla.

-Cazzo! – ringhio a denti stretti, piegandomi sulle ginocchia con le mani tra i capelli.

Dopo giorni passati a chiedermi che fine avesse fatto, ecco che riappare quando non avrebbe dovuto, quando avrebbe frainteso, quando avrebbe certamente creduto che sono il solito bastardo. E così è. Lo è sempre stato, con tutte.

Rassegnato, mi sollevo, guardando sconfortato la hall, fino a quando i miei occhi non rintracciano Bonzo, immobile di fronte alla porta d’uscita, intento a fissare un punto impreciso della strada.

- Hey Bonz! – grido, lui che si volta a guardarmi, incerto.

- Era lei? – chiede, indicando l’uscita, io che lo raggiungo con due passi, lieto finalmente che qualcuno l’abbia vista.

- L’hai vista? – gli chiedo, speranzoso.

- Bionda? Carina? – chiede, io che annuisco ad ogni descrizione – Un vestito a fiori.

- Sì, è lei! – sorrido, dandogli una pacca su una spalla – Grace.

- Hmm. – annuisce dubbioso – Non so se mi piace. – commenta, il suo tono stranamente serio.

- Perché? - chiedo, sconvolto.

- Non lo so. – borbotta, grattandosi il mento – Tu stai attento, però. – avverte, per poi andarsene, come perso nei suoi pensieri, il passo pesante e trascinato che lo porta fino a un divanetto della hall.

Che diavolo gli prende?

- Mr. Page?

- Sì? – chiedo, voltandomi alle mie spalle dove un fattorino un po’ impacciato mi porge le mie valige.

- I suoi bagagli.

- Grazie mille. – dico, afferrandole, mentre dall’ascensore compare Robert, serio in volto e seguito a sua volta da un altro fattorino. Attraversa la sala in silenzio, uscendo dall’albergo. Fuori c’è Jonesy, che lo aspetta con una sigaretta tra le labbra, mentre il mio stomaco inizia a bruciare esattamente come il suo mozzicone.

 

 

*

 

 

In aereo è calato il silenzio.

Solitario, accompagno il viaggio improvvisando sulla chitarra, gli altri poco lontano che chiacchierano spensierati.

Abbasso lo sguardo, tra i piedi il foglietto stropicciato che mi portò Robert qualche giorno fa. Mi chino in avanti, appuntandoci qualche frase in aggiunta e i rispettivi accordi, per poi ripeterli sulla chitarra, provando a canticchiarli.

- Eri calante.

Mi volto di soprassalto. Alla mia destra, Robert.

- E le parole sono mie. – aggiunge, sedendosi di fianco a me, con uno sguardo a metà tra il serio e il divertito – Il che mi fa incazzare parecchio.

- Sono stato uno stronzo. – mormoro, aggrappandomi alla mia chitarra.

- Figlio di puttana, per la precisione. – dice lui – Ma, in fondo, anche lei lo era.

- L’hai mollata? – gli chiedo, cercando un segno del suo rammarico, ma non lo trovo.

- Sì. – annuisce – Ma era deciso da tempo. Era già scritto. – dice, arricciandosi una ciocca di capelli attorno a un dito, per poi accasciarsi contro lo schienale del sedile – Ti ci sei divertito, almeno? – sorride, malizioso.

- No. – dico, storcendo la bocca – E sinceramente non saprei nemmeno dirti cosa è accaduto.

- Meglio. – acconsente, passandomi un braccio attorno alle spalle.

Robert. Quanta bontà, innocenza e virilità in un solo uomo.

- Ed ora abbandoniamoci alla dea, Pagey. – dice, afferrando il foglio e poggiandoselo sulle ginocchia.

Il resto è una canzone che nasce per caso, dalle sue paure, dalle mie incertezze, da un amore che forse non c’è mai stato e quello che ci sarà sempre. La Musica che non ci abbandona e mai lo farà.

- Ah. – dice, interrompendoci – Poi mi spieghi che diavolo hai visto stamattina.




















Angolo della pazza:
Holà!
Ehm, che dire? Era dai tempi di Tea che non aggiornavo così in fretta (seh).
Ok, questo capitolo è penoso, lo so, ma c'è un elemento imporante che avrete sicuramente notato.
Quindi, spazio alle opinioni, alle scommesse e ai vari insulti che riceverò per le pubblicazioni che avvengono sempre all'una di notte (no, Ire, non ce l'ho con te :'D).
Alla prossima,
Franny

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Capitolo 9
*** 8. Your eyes held a tender light and stars fell on Alabama last night. ***


8.

Your eyes held a tender light and stars fell on Alabama last night.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Birmingham (The Magical City), Alabama, 18 Maggio 1977

 

Diciotto giorni.

Diciotto, maledetti, giorni senza di lei.

Non un tocco, non un suono. Bastano poche settimane senza una chitarra per mandarmi fuori di testa e a darci dentro con la solita merda. Poi riprende il tour, finalmente la double neck tra le mie mani ansiose e sudate, ed ecco che arriva, puntuale come la morte. L’errore. Una nota inciampa, poi due. Cambiamo canzone. Di nuovo. Così, fino alla fine del concerto, fino allo sguardo esasperato di Jonesy che non sa se continuare a sopportare o provare a trovare il coraggio per darmi un calcio in culo.

Bonzo sorride. Poi beve, fine della storia. Dio solo sa in che condizioni è il suo fegato, ma sono l’ultimo che ha voce in capitolo al riguardo, specialmente mentre ingurgito l’ultimo sorso di Jack tutto d’un fiato. So solo che John è l’unico a parlarmi con gentilezza, così insolita per un orso come lui, e poi mi solleva da terra con un braccio, come se fossi un bambino, solo per vedermi ridere.

Poi c’è Robert e il nostro solito tira e molla. Le sue lamentele sulle mie esibizioni sono un’arma a doppio taglio che feriscono entrambi, ma sono necessarie come punti a carne viva che chiudono una ferita rimasta aperta. Le difficoltà ci allontanano, ma ci ritroviamo per provare a scalarle. Insieme. Da soli saremmo persi, non sapremmo dove andare, piume perse nel vento che non sanno più volare.

Silenziosamente, scendo dal palco, gli applausi che ci accompagnano fino a quando John non scompare nel backstage, io che imbocco il corridoio verso i camerini, stanco. Poi, un rumore di passi, così mi volto a guardare, ma lo sguardo alle mie spalle è troppo basso per ricambiare il mio.

- Jonesy!

Solleva la testa, una serie di rughe che va a ricamare il centro della sua fronte, in un’espressione di confusione così perfetta da farmi avvertire l’irritazione tra le dita dei piedi.

- Jim. – risponde freddo, facendo per aprire la porta del suo camerino, ma io lo blocco, il mio viso che cerca il suo.

- Non vuoi guardarmi in faccia?

Lo fa, con disprezzo. Per non dire disgusto.

- Ti sembra una faccia, quella? – chiede, indicandomi col mento – Io vedo solo la maschera di un uomo che gioca a fare l’onnipotente.

- Dimmi Jonesy, da quanto tempo pensi questo di me? – chiedo, il mio tono di voce che aumenta insieme alla rabbia e la voglia di sferrargli un pugno in faccia.

- Da quando il James che conoscevo ha abbandonato l’amore per la Musica per poter amare solo se stesso. – sputa fuori, la calma e la freddezza inglesi che da tempo ho lasciato perdere - Sei così preso dalla tua immagine che non ti rendi conto di non averne più una, di esserti lasciato solo il disegno di te stesso impresso nella mente malata che hai. Sei così impegnato a commiserarti che hai anche perso le palle per affrontarti. Guardati, James! Sei un fottuto morto che cammina! – termina, il fiato corto, la voce che inizia a diventare isterica, io che tremo furioso – Ed io non sono Robert, Jim! Io non verrò a farti da balia. Fosse stato per me, ti avrei già sferrato un calcio in culo e aspettato che tu ti riprenda. – dice, puntandosi un dito contro il petto, io che seguo ogni sua singola parola sulle sue labbra – Ma lui no. Lui dice che sarà la Musica a guarirti.

- E tu? – lo interrompo, per poi afferrare il colletto della sua camicia inamidata – Tu cosa consiglieresti, dottore? – chiedo sarcastico, a un centimetro dal suo volto.

- Dovresti andartene in riabilitazione.

- Io sto bene. – dico a denti stretti.

- Sì? – fa, sollevando le sopracciglia – Allora dimmi, da quant’è che non senti Scarlet?

- Cosa c’entra Scarlet adesso?

- Dimmi da quant’è che non le telefoni, che non le mandi qualcosa, che non le scrivi una lettera. Dillo, Jimmy! – urla, prendendomi per le spalle, la sua calma che va a pezzi insieme ai suoi nervi – Non ci sei più per nessuno, Jim, tranne che per te stesso. Sul palco dimentichi le note, non improvvisi più come un tempo. E l’amore. Quello che t’illuminava gli occhi quando ti nominavano la tua principessa. – aggiunge, arrochito, mentre inizio a deglutire solo per ignorare il vuoto all’altezza dello stomaco – Non c’è più. I tuoi occhi erano spenti, vuoti mentre ti parlavo di tua figlia. Come puoi abbandonarla? Come fai a mandare tutto a puttane come se niente fosse, James?

E così dicendo mi strattona via, aprendo e scomparendo dietro la porta del suo camerino, facendola sbattere con tutta la rabbia che ha nelle mani, le mie che tremano. Con lo sguardo perso nel vuoto, inizio a cercare il mio camerino a intuito, trovandolo dopo una manciata di secondi, muovendomi come se fossi una marionetta mossa da fili invisibili che, partendo dalle mie braccia e dai piedi, finiscono tra le mani di un cervello che ormai è perso in un labirinto di rimpianti, di cose e persone dimenticate, lasciate a metà strada, mentre io imboccavo quella che, secondo me, poteva condurmi verso quel firmamento sul quale avrei scritto il mio nome.

Mi rendo conto che John ha ragione, mentre mi libero della mia dragon suite. Ripenso a Scarlet, alle telefonate mancate, ai gesti negati, troppo preso da me stesso e dalla convinzione di fare sempre la cosa giusta. È dall’inizio del tour che non sento la sua voce, che non chiamo Charlotte per avere loro notizie, che arrivo alla reception di ogni hotel dando l’ordine di non farmi passare nessuna telefonata. Isolato, legato da una camicia di forza fatta da tutte le mie paranoie, le mie paure, in mano solo un rasoio di presunzione e autocommiserazione che, invece di liberarmi, mi taglia i polsi.

Respiro, mi faccio forza. Al nostro ritorno in hotel, la reception è deserta. Così, afferro una cornetta, compongo un numero e subito un telefono dall’altra parte dell’oceano prende a squillare.

Uno.

Due squilli.

Il quarto segue il terzo.

Forse non sono a casa.

- Pronto?

Una vocina così acuta, dolce, ma decisa. È il suono che fa la mia principessa quando corre alla cornetta più in fretta di sua madre. Nel petto, il mio cuore ha accelerato i suoi battiti.

- Scarlet! – balbetto, la voce arrochita dall’emozione – Amore mio.

- Papà! – urla, quasi posso vederla saltellare sul posto, tenendo la cornetta con due mani contro la testolina bionda – Papà, come stai?

- Bene, tesoro. – sussurro, passandomi una mano tra i capelli – Adesso sto bene. Tu?

- Benissimo, pà! – esclama, per poi prendere fiato, il suo tono di voce che cambia all’improvviso – Papà?

- Dimmi amore!

- Perché non hai più chiamato me e la mamma? – chiede, lasciando trasparire il suo essere ferita dalla mia assenza.

- Scarlet, papà non ha avuto molto tempo … - mento. Mi faccio schifo.

- Non ci vuoi più bene? – chiede, la voce che trema. Sta piangendo.

- Amore mio, non dirlo! – dico, affannandomi – Papà ti ama. Lo sai. Sei la mia vita, Scarlet.

- E allora perché non hai chiamato? – domanda di nuovo – Sei arrabbiato con me?

- Ma cosa dici, tesoro? – chiedo allarmato – No! Perché dovrei esserlo?

- Perché non ti ho salutato quando sei partito. – sussurra, tirando su col naso.

- Scarlet, ascoltami. – dico, tentando di restare calmo, di trattenere le lacrime – Cosa ti ho detto di fare ogni notte?

- Di guardare le stelle. – dice e quasi posso vederla asciugarsi le guance piene, il labbro inferiore sollevato in un broncio – Che lo avresti fatto anche tu, così ci incontriamo.

- Giusto, piccola mia. – dico, incoraggiandola - Non preoccuparti se non mi hai salutato. Io e te ci vediamo tutte le notti.

Non è convinta. Dall’altra parte, Scarlet continua a singhiozzare in silenzio.

- E molte notti sono venuto a trovarti. – sussurro dolcemente – Stanotte per esempio!

- Davvero? – esclama, stupita.

- Sì. – affermo – Ogni tanto vengo a trovarti nei sogni, non te ne sei accorta?

- È vero! – esclama entusiasta – Stanotte eri qui! Andavamo a Headley Grange e zio Robert mi portava sulle spalle.

- E se non sbaglio, ho intrecciato una corona di fiori per te!

- Sì! – dice, la voce acuta più che mai – Era bellissima papà!

- Come te, amore. – sorrido.

Penso che la mente umana sia strana. Raccontandole un mio sogno, ho scoperto che era anche il suo. Forse l’anima davvero è in grado di viaggiare. O forse è il sangue a tenerci uniti anche con l’oceano in mezzo. Oppure la mente è capace di grandi cose, anche di combinare un incontro a occhi chiusi tra padre e figlia.

- Ci sogneremo anche stanotte, papà?

- Certo amore. – prometto – Tutte le notti che vorrai.

- Mi porterai a Bron-y-aur? Voglio sedermi sulla sedia a dondolo di zio Robert e giocare a braccio di ferro con zio John! – esclama tutto d’un fiato, mentre dalla cornetta arriva la voce di Charlotte che chiama Scarlet.

- Prometto, Scarlet. – le dico – Ora vai, amore, la mamma ti sta cercando.

- Va bene, pà! – sussurra – Ti voglio bene. – aggiunge, con una sincerità disarmante che mi stringe un nodo alla gola. Ma riesco ancora a parlare.

- Ed io ti amo, piccola.

 

 

*

 

 

Quando entro nella mia stanza, le palpebre si abbassano sotto la pesantezza del sonno, ma qui l’aria è irrespirabile, così decido di aprire la finestra sul cielo dell’Alabama, così nero, così trapunto di stelle da richiamare lo sguardo per una notte intera. Sorrido, penso a Scarlet, tutta la voglia di vivere che io ho perso, sembra quasi voler ricominciare a scorrermi nelle vene quando penso a lei.

Poi, un lampo, qualcosa che si muove nella strada deserta e così abbasso lo sguardo, la mia bocca che si spalanca dall’incredulità.

È lei.

La riconoscerei anche al buio.

Solleva la testa, sembra quasi che abbia avvertito i miei occhi su di lei. Senza perdere tempo, abbandono la stanza, quasi cado per le scale, ma quando sono in strada, lei è lì che aspetta, immobile, l’accenno di un sorriso sulle labbra.

- Ciao James. – sussurra.

- Ciao. – sorrido, l’istinto innato che mi spinge ad avvicinarla, ma lei, come sempre, fa un passo indietro – Che fine avevi fatto? – chiedo col fiatone.

- Ho avuto da fare. – risponde con naturalezza.

- Cosa? – insisto contro la sua freddezza.

- Trovare il modo di starti lontana. – dice, le sue guance che si colorano teneramente, mentre un fiore d’orgoglio mi sboccia al centro del petto.

- Mi fa piacere vedere che non ci sei riuscita. – annuisco, passandomi la lingua sulle labbra – Mi dispiace per l’ultima volta. – aggiungo seriamente.

- Non preoccuparti. – dice lei, inclinando la testa da un lato e incrociando le braccia al petto – So chi sei. Non mi ha sorpreso vederti in una situazione del genere. – commenta, con una semplicità che mi fa sentire mediocre, mentre mette a nudo la mia natura, fatta di presunzione e menefreghismo.

- Non darti delle colpe. – sussurra, mentre mi accorgo di aver fissato il vuoto per un po’ di minuti – Sei buono, James. Il problema è che ancora non hai trovato il modo di dimostrarlo – Vieni con me. Parliamo.

Senza proferire parola, la seguo, lungo un percorso che solo Grace conosce, fino ad un parco, alberato e silenzioso, la luna e le stelle unici lampioni accesi nelle vicinanze. Dopo qualche minuto di trance, mi accorgo finalmente di essere nei Birmingham Botanical Gardens, mentre il profumo dolce e intenso di tutti i fiori che ci sono mi riempie le narici. Mi sembra di avvicinare un luogo segreto, sacro. È un qualcosa che somiglia all’entrare ad occhi aperti in un sogno.

Ma è la realtà e le parole di Grace tornano a rimbalzarmi nella mente.

- Ho paura che tu ti stia sbagliando. – dico – Oggi ho telefonato mia figlia dopo due mesi di silenzio. Le mancavo. Aveva paura che fosse colpa sua, che fossi arrabbiato con lei.

Grace non risponde, mi cammina accanto senza fare rumore, imitando i miei passi, mentre mi stringo nella mia giacca.

- Sono spregevole, Grace.

- E cosa proponi di fare? – chiede, arrestandosi, sedendosi tra l’erba. La imito, guardandomi intorno. Gli alberi formano un cerchio perfetto intorno a noi, delineando quello che sembra il centro del parco. Il vento si è fermato, tutto è quiete. Qui non arriva nemmeno il rumore del traffico. Mentre dentro di me si scatena una tempesta di pensieri e sensazioni, qui intorno tutto tace, creando armonia col volto di Grace, disteso e paziente, in attesa di una mia risposta.

- Non lo so. – dico.

- Bugiardo. – dice sarcastica – Il solito bugiardo. A furia di mentire, prendi in giro anche te stesso.

- Che ne sai? – chiedo, più insicuro che nervoso.

- Basta guardarti, James. – dice, mentre lo fa con un’intensità che mi fa sentire nudo, stranamente vulnerabile – Stai male e il tuo malessere lo trasmetti a chi ti sta intorno. Eppure rimani fermo, non fai nulla. Sai perfettamente qual è la decisione più giusta da perdere, ma ti rifiuti, perché sei così dipendente da quei momenti di invincibilità ed ebbrezza che dover smettere ti rincresce, facendoti dimenticare che continuando così non ti resterà abbastanza da vivere per poterne godere ancora di quell’effimera felicità.

Lo ha detto tutto d’un fiato, il mio corpo che prende a tremare come una foglia.

- Perché? – chiede – Avevi tutto. Talento, carisma. Eri bellissimo, James! – sussurra, le sue guance che tornano ad arrossarsi – E guardati ora. Sei debole, a malapena ti reggi in piedi e hai il volto scavato, deforme.

Serro la bocca, incapace di aggiungere altro. Continuo a tremare, quasi mi stesse torturando fisicamente con ogni parola che esce dalle sue labbra.

- Non sei più tu. – dice, aggrottando la fronte – Perché?

- Perché iniziavo a sentirmi stanco, Grace! – esplodo, la mia voce che esce dalla gola in maniera innaturale mentre urlo – Perché non trovavo l’ispirazione, perché non sopportavo più di essere indicato come un infame, di vedermi dipinto dei peggiori colori su qualsiasi rivista. Ho solo una fottuta passione per l’occulto, ma non sono quello che dicono loro. E non sono una razza di pedofilo depravato. Tanti altri si sono scopati ragazzine appena tredicenni! – continuo, le lacrime che iniziano a rigarmi le guance mentre sento le labbra gonfiarsi sotto lo sforzo del pianto – Volevo che mi ascoltassero. Volevo solo suonare. – ingoio saliva e muco ormai, mentre mi si apre il cuore e faccio uscire qualsiasi cosa ci sia stata al suo interno – Poi l’incidente di Robert, ho avuto paura per lui, i suoi figli e la mia Scarlet. Loro in Grecia ed io a Londra a farmi come un dannato per tentare di scrivere qualcosa. A Malibù, Robert era immobile in un letto col bacino a pezzi e io non sapevo che fare, mentre Bonzo e Jonesy erano in Europa, fuori da qualsiasi problema. – singhiozzo, buttandomi le mani sul viso – E a volte penso che venderei davvero l’anima al diavolo per non sentire più tutte queste voci intorno a me, che parlano, parlano e non dicono un cazzo. Voglio solo un po’ di pace, Grace.

Mi asciugo le guance con le maniche, mentre tiro pesantemente col naso, Grace che mi guarda con un’espressione affranta, ma comprensiva. Non c’è condanna sul suo viso, solo una tremenda voglia di fare qualcosa per me che le fa brillare gli occhi. È quello che sento, quello che provo mentre riprendo fiato.

- Questa vita grava sulle mie spalle, Grace. – sussurro, stringendo i pugni – Ormai non la vivo più da un bel po’. Me la porto dietro e basta. – concludo, per poi buttarmi contro l’erba, la schiena che raggiunge il suolo con un tonfo, le mie mani abbandonate sul grembo.

Da quando è iniziato il mio personale inferno, questa è la prima volta che mi sfogo, che sputo fuori  le mie amarezze, che mi sento finalmente libero di frignare come un bambino e sentirmi sollevato, di aver diviso questo peso e di potermi, anche se poco, rialzare. Chiudo gli occhi, mentre sento un rumore alla mia destra. Erba schiacciata.

- Ti senti meglio?

Annuisco ad occhi chiusi alla domanda di Grace.

- Sicuro?

- Sì. – dico, riaprendo gli occhi, incontrando il cielo sopra di noi – Anche se vorrei capire chi diavolo sei. – sussurro, senza guardarla – A volte ho paura che tu sia una mia allucinazione, uno scherzo del mio cervello. – mi volto a guardarla, giusto per vedere che reazione ha, ma il suo volto è di marmo, impassibile – Poi penso che a Pontiac anche Bonzo ti ha vista e questo un po’ mi rincuora. – dico, accennando una risata di sollievo, ma lei no. Grace scatta a sedere, gli occhi sgranati puntati su di me.

- Che succede? – domando allarmato, mettendomi a sedere anch’io.

- Nulla. – dice, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

- Non avrebbe dovuto vederti? – chiedo, mentre altre mille ipotesi si delineano nella mia mente.

- Non lo so, James. – dice, scuotendo la testa e fissando il vuoto – Non lo so più.

- Beh. – sospiro, vedendo la sua faccia buffamente amareggiata – Almeno siamo in due ad avere lo stesso dubbio. – dico, tentando un sorriso, ma lei rimane imbronciata, gli occhi blu che saettano veloci. Sta cercando una spiegazione, ma ha tutta l’aria di esserne ancora lontana.

- Hey. – sussurro, avvicinandomi un po’ - È tutto ok.

- No. Non lo è. – dice.

- Sì invece. – annuisco – A volte ho paura che tu sia una povera ragazzina che ha perso la memoria e non sa più dove andare, ma di certo non seguiresti me. – dico teneramente, mentre lei finalmente mi guarda – A volte credo che tu venga da chissà dove. – aggiungo, serio, facendola impallidire – Ma di certo non da questa terra.

- E cosa ti sei detto? – chiede, impaurita quanto me.

- Che preferisco non saperlo. – dico, deglutendo pesantemente, mentre i nostri occhi si chiamano, si cercano e i nostri volti, inconsciamente si avvicinano.

- Non farlo, James. – sussurra, a un passo dalle mie labbra.

- Perché?

- Ho paura di cosa potrebbe succedere. – ammette, ma da come lo ha detto, non si riferisce di certo a cosa potrebbe accadere tra noi. Ma a me.

- Lasciami provare. – sussurro, supplicandola, mentre intorno a noi cala una nebbia leggera, che fa brillare le punte dei fili d’erba e, all’orizzonte alle spalle di Grace, le stelle sembrano brillare più forte, quasi fossero fiamme incastrate nel cielo. Ho un brivido di paura, ma lo combatto, mentre una nuvola di fumo scappa dalle mie labbra. Vista da vicino, Grace è ancora più bella, la pelle liscia, bianca. La sua intera immagine richiama purezza, mentre una ciocca di capelli le ricade sul naso.

- James… - sussurra.

- Shh. – la zittisco, stringendo tra le dita alcuni fili d’erba – Qualsiasi cosa accada, sarà meno forte del rimorso che avrò per sempre se non lo faccio. – sussurro, mentre le sue guance che si colorano di nuovo e le mie labbra, tremando, si poggiano delicatamente sulle sue e si tendono in avanti. Ne cerco il sapore sulla punta della lingua. Sono dolci, quasi un frutto proibito, mentre iniziano a muoversi impacciate e innocenti, quasi non avesse mai baciato, quasi fossi il primo uomo che incontra sulla terra.

Grace, venuta da chissà dove, fragile contro le labbra di un uomo che ha conosciuto tante donne, ma mai nessuna strana quanto lei. E mai, potrei giurarlo, ho sentito il cuore così presente, quasi facesse le fusa contro i muscoli del petto, così felice di battere e di vivere. E mentre le mie labbra si mescolano con le sue, perdo fiato e lo riprendo da lei. Intorno a noi l’aria si è fatta calda, quasi come se questo posto stesse cercando di nasconderci, di isolarci, creando una bolla in cui il tempo è sospeso e non esistiamo altro che noi due, soli, piccoli, labbra contro labbra. Riapro gli occhi, felice, e mi stacco da lei, che mi guarda confusa e poi mi sorride, quasi sollevata. Una luce tenera invade i suoi occhi.

- Visto? Siamo ancora vivi. – dico, facendola ridere – Non è successo niente!

- Già! – dice, continuando a ridere piano, mentre osservo il cielo. La luce delle stelle è così intensa e grande che sembra ci stiano cadendo addosso, come a voler partecipare a questa strana unione, a questo bacio assurdo, che mi porterò nel cuore come il più bello della mia vita.

- Sono felice, Grace! – confesso.

- Anche io. – dice di rimando, sorridendo, quando noto qualcosa sotto il suo naso.

- Grace?

- Sì?

- Stai sanguinando. – dico, indicandole il naso con un dito.

- Cosa? – chiede, portandosi una mano alle narici, le sue dita che subito si sporcano di rosso.

- Aspetta, dovrei avere un f… - ma non faccio in tempo a terminare la frase, che una riga sottile di sangue prende a scorrere dalla sua tempia sinistra.

- Devo andare. – dice, allarmata e scattando in piedi, tamponandosi il naso con una mano.

- Ma dove, Grace? – chiedo, più agitato di lei – Tu… hai bisogno di aiuto. – urlo, mentre lei mi volta le spalle e scappa. D’istinto, prendo ad inseguirla, ma qualcosa intercetta il mio piede, facendomi inciampare e cadere a terra.

- Grace!!! – urlo, mentre la vedo sparire tra gli alberi, la gonna che svolazza da un lato all’altro dei suoi fianchi.

Poi, una pesantezza scura si accanisce sulle mie palpebre, un freddo incontrollabile e, senza più sapere chi o dove sono, abbandono la guancia contro l’erba, cadendo in un buio profondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Angolo della pazza:

Salve! ^^
Finalmente, non vedevo l'ora che arrivasse questo capitolo. *^*
Beh, potete immaginare perché. :'3
Ehm, nulla. Diciamo che da qui in poi si dovrebbero un attimo delineare le cose. Forse. Dipende da quanto sarò capace di rendere "su carta" ciò che ho in mente.
Bene, oggi sono in vena di ringraziamenti.
Innanzitutto, ringrazio Ire. Grazie perché m'incoraggi sempre, ma prima di tutto incoraggia te stessa. Sai a cosa mi riferisco. Spero che questo momento "no" passi in fretta, beddha! ♥
Ringrazio Zelda per le sue bellissime recensioni. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle per messaggi. Sei un tesoro, davvero! :*
Ringrazio Cimma e Slyth, le mie recensitrici "vedo, non vedo". Grazie anche a voi! ^^
Grazie ad Idra, che ogni tanto spunta dal nulla. Rivederti qui mi fa sempre sorridere, caVa.
E grazie a chi legge, segue e preferisce in silenzio. Certo, vedersi qualche parolina nelle recensioni fa sempre piacere, ma vedere sia il numero delle visite che quello delle preferenze crescere poco a poco mi fa sempre piacere.
E ringrazio anche voi, che magari leggete ma non volete dire nulla. E' anche per voi che continuo a scrivere. :3
Detto ciò, ESIGO (♥) che voi facciate un salto sulla cara, buona, vecchia Sweet Old Desire. Io e Ire stiamo buttando il sangue per quella storia e continuerò a pubblicizzarla perché ci sono troppo affezionata.
Bene, ho detto tutto. Credo.
Un abbraccio,

Franny

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Capitolo 10
*** 9. Nightmares ***


9.

Nightmares

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

- Non farmi cadere.

- Non lo farò.

Deglutii, tremai, mentre il vuoto che si apriva sotto di me sembrava voler trovare spazio nel mio stomaco. La vertigine, fastidiosa compagna di sempre, quella volta sembrò trasformarsi nella più pericolosa delle nemiche.

D’istinto strinsi con forza la mano che sfiorava la mia sinistra, trovandola gelata come il vento che mi tagliava le guance.

- Posso fidarmi?

La mia voce, più sottile del solito, tremò come le cime dei pioppi intorno a noi che si stagliavano contro il cielo al crepuscolo come nervose macchie d’inchiostro su un vestito di velluto blu.

- Da morire. – sussurrò lei, cattiva.

Così, mentre il terrore iniziava a rompermi la schiena, mi voltai alla mia sinistra. Di fianco a me si stagliava quello che sembrava l’Eremita, ma quando abbassai lo sguardo sulle nostre mani, trovai la sua ridotta in ossa, scheletrica.

- Grace! – urlai, ma contro il vento sembrò un sussurro – Aiutami Grace!

La figura incappucciata voltò il capo.

Non riuscii nemmeno ad urlare quando mi accorsi che quello sotto il cappuccio era il volto di Grace, un ghigno che le tagliava la faccia e gli occhi bianchi come attraversati dalla nebbia. Allargò ancora di più quel sorriso cattivo, per poi strattonarmi e tirarmi giù, insieme a lei. Questa volta urlai, mentre il dirupo scorreva sotto di noi e le cime dei pioppi si avvicinavano a noi come se fossero state le braccia della Morte, pronta ad accogliermi.

Poi, la caduta si arrestò.

La mia guancia si trovava contro qualcosa di umido e freddo.

- Jimmy!

Balbetto qualcosa, un “sto morendo” che resta solo nei miei pensieri.

Una risata, dolce e comprensiva.

- Non ancora, Jimmy. Svegliati!

 

 

*

 

Tampa, Florida, 2 Giugno 1977

 

Chiudo gli occhi, inspiro profondamente.

Sembra che il mare mi stia entrando nei polmoni, lasciando una sensazione di leggerezza di cui avevo nostalgia. Una libertà da qualsiasi preoccupazione che ormai non provo da quasi un mese, da quando Robert e Richard mi ritrovarono addormentato nel bel mezzo di un giardino di Birmingham. Ne susseguirono giorni di febbre, tosse, di altri chili persi e una nube di silenzio che mi ha isolato da tutti fino ad oggi. Poi arriviamo qui, nel caldo della Florida, e mi rifugio in spiaggia, in un posto appartato, isolato. Solo io, il mare, il sole e Grace.

Ormai non mi abbandona più e mi sono abituato al fatto che per lei finirò con l’impazzire per davvero. Nessuno la vede, solo io. Non parla con nessuno, solo con me. Sempre lo stesso vestito, sempre lo stesso sorriso. Una malinconia che si porta dietro come un segno di riconoscimento, che rende i suoi occhi sempre più blu, mentre la sua pelle non accenna ad abbronzarsi con l’avanzare dell’estate.

- Sei la Morte?

Deglutisco pesantemente, il mio petto nudo che trema, le mie gambe ossute che si piegano nervose. Una goccia di sudore scende dalla fronte, ma non di certo per il caldo soffocante.

- No. – dice con fermezza, continuando a camminare in punta di piedi sul bagnasciuga, le mani dietro la schiena come una bambina che gioca a campana – Avrei troppo da fare per stare con te. – aggiunge scherzosa.

- Giusto. – dico, grattandomi il mento – E allora?

- Allora cosa?

- Dimmi chi sei. – dico infastidito, picchiando un pugno nella sabbia.

- Se sapessi te lo direi. – sbuffa lei – Ma ormai ho capito che dobbiamo scoprirlo insieme.

- Tu sei matta. – rido sarcastico – Perché dovrei?

- Perché altrimenti lo diventi anche tu. – dice sedendosi di fronte a me.

- Mi ci stai già facendo diventare, ragazzina.

- Ah, adesso è colpa mia! – ride, stendendosi di fianco a me, il volto rivolto al sole.

È bellissima, eterea. Vorrei dirle che forse è un angelo, ma credo lo saprebbe.

- Sembri un’anima persa. – sussurro – Non sai da dove vieni, non sai dove vai.

- Ricordo chi sono. – dice, tenendo gli occhi chiusi – Ricordo perfettamente la voce di mia madre. Cantava bene. La mattina intonava sempre qualcosa della Fitzgerald o della James mentre preparava la colazione, poi si metteva ad intrecciarmi i capelli e a metterci dei fiori in mezzo, mentre mio padre mi dava un bacio sulla fronte e lo rivedevo solo la sera.

- Ti mancano? – chiedo.

- Sì. – annuisce, il suo tono che diventa serio – Mi manca l’odore di mio padre. Quando tornava a casa, profumava di terra e sudore. Aveva addosso l’essenza di tutta la fatica che aveva compiuto. Era un odore tutt’altro che fastidioso, mi trasmetteva forza e sicurezza.

- E tua madre? – chiedo, fissandole la punta del naso.

- Mi manca il rumore delle sue scarpe. – dice, aggrottando la fronte – Era il segno che c’era appena dietro alle mie spalle, pronta a proteggermi, oppure davanti a me per guidarmi. Una presenza costante sul mio cammino.

- Ami i tuoi genitori. – osservo, facendole aprire gli occhi.

- Sì. – sorride, voltandosi per guardarmi – Ho sempre sognato una famiglia come la loro. – e mentre lo dice, una luce che brilla di vita le passa negli occhi, il suo volto che parla di un sogno che l’avrebbe resa la persona più felice del mondo.

È bella. Da morire.

Una morsa allo stomaco, ma la ignoro.

- Cosa darei per baciarti ancora. – sussurro, una nota di tristezza che fa stonare la frase.

Fa di no con la testa, la sua bocca che si piega da un lato.

- Non permetterò che ti succeda qualcosa. – sospira, annegando lo sguardo nel mare, lontana da me, lontana da ciò che in questo momento ci sta tenendo così vicini da poterci quasi sfiorare con le mani.

- Ormai non mi spaventa niente. – rispondo severo – Ho già ricevuto tutto l’orrore che questa vita potesse darmi. Non ho paura.

Sospira, tracciando disegni immaginari nella sabbia con un dito, mentre i capelli le vanno davanti alla faccia, alcuni le si incastrano tra quelle labbra che non potrò più assaggiare. Sulla pelle bianca stanno passando dei brividi, lasciando sollevati i pori, mentre il vento ha iniziato a correre su di noi.

- Dovresti averne. – sussurra. La sua voce è così bassa che l’ho sentita appena tra le onde del mare. Sembrava l’eco di una voce sperduta negli abissi. Tale è la profondità con cui l’ha detto. Da sempre le parole di Grace mi sono sembrate insondabili, senza un briciolo di senso, azzardate, di una ragazzina fin troppo piena di sé, che crede di poter zittire un uomo con quattro stronzate inzuppate di enigmaticità.

Invece no. Lei sa. Lo ha sempre detto, e più la conosco, più mi convinco che lei riesca a vedere oltre il velo di nebbia che il presente pone tra me e il mio domani. Sembra che lei riesca a sondare col suo osservare silenzioso fino al più intimo fremito del mio cuore, mettendolo a nudo, fino a renderlo evidente anche a me che cercavo d’ignorarlo.

So chi sei.

Lo ricordo ancora, il modo in cui lo disse, per poi scomparire nel buio di un parcheggio sperduto dell’America. Mi disse che veniva dal mio inferno quando, nel bel mezzo di un temporale notturno, le chiesi da dove venisse. E solo ora mi rendo conto di quanto fosse sincera, che il suo non era un modo impertinente per non darmela vinta, ma che stava parlando sul serio. Grace è stata sempre sincera con me. Il problema è che mi rifiutavo di capirlo.

- A cosa pensi? – mi chiede, apprensiva, notando il mio silenzio.

- Devo avere paura di te? – le chiedo, ma in realtà la sto implorando che mi risponda con un “no”.

Sorride, abbassa la testa.

- Hai sempre quest’aria malinconica. – le dico – Perché non torni a casa?

Alza lo sguardo, puntandolo dritto nel mio, ma senza l’ombra di sfida. Sembra solo una bimba alla quale ho chiesto qualcosa che non conosce.

- Ormai ho perso la strada Jimmy. – dice con voce rotta – E non posso più tornare indietro.

Aggrotto la fronte, le mie dita che si stringono nella sabbia.

Le sue parole mi scuotono dentro come un uragano, mentre intorno a noi il vento si è fermato e delle nuvole iniziano a raccogliersi all’orizzonte, trasformando il blu intenso del mare in un grigio che sa di catrame.

Le chiederei il perché di questa affermazione, ma in qualche modo lo so.

Non saprei spiegarmelo, ma sento di sapere la risposta alla mia domanda.

O forse perché, un’altra più difficile mi risuona nel cervello e grande è lo sforzo che faccio per dirla.

- È per questo che sei qui? – sussurro, guardandola intimorito – Potrei non tornare nemmeno io?

Questa volta non sorride, anzi. Il suo volto è una smorfia che sa di dolore, angoscia, di poca voglia di ammettere la verità. Poi torna a guardarmi.

Trattiene il fiato.

E poi, annuisce.

 

 

*

 

 

Mi son rinchiuso in albergo. Le insulse strade di Tampa intrise di mondanità hanno messo a dura prova il mio sistema nervoso. Così, dopo aver abbandonato la spiaggia, Grace e dopo aver sonoramente mandato a fanculo Cole che insisteva per andare a puttane insieme, ho recuperato la mia chitarra acustica, rifugiandomi all’ombra  del giardino dell’hotel.

Improvviso, le note scivolano via da sole, senza la mia volontà. Sono loro che guidano le mie dita. Lei, la Musica. Mia padrona. Dea generosa e crudele allo stesso tempo, capace di regalarti la più grande felicità e le più profonde delle delusioni.

La Musica è una mamma gelosa, che ti culla, ti accarezza, ma non ti protegge dai dolori. Lei preferisce curarli. La Musica mi ha dato tutto, anche il senso d’onnipotenza che mi porto dentro come un cancro, ritrovandomi così a mani vuote, così ingordo di successo da riempirmi solo di quello, restando solo.

O forse no.

- Ciao.

Mi volto alle mie spalle, il rumore dell’erba schiacciata accompagnata dagli stivaletti di Robert, il capo chino, le mani nelle tasche dei pantaloni, una sigaretta tra le labbra.

- Ciao Robert. – sorrido.

Non risponde. Semplicemente si siede a terra, di fianco a me, gambe incrociate e mento all’aria, uno sputo di fumo che va a finire nel cielo, sigaretta tra i denti.

- Anche tu stanco della solita vita da tour? – chiedo, giusto per cercare d’intavolare una conversazione.

- No. – sussurra – Sai perfettamente di cosa sono stanco.

- E allora perché sei qui? – chiedo freddo, per poi stringere i denti contro la mia di sigaretta, le dita che impugnano più forte la chitarra – Ti prendi fin troppo fastidio per me.

Sorride sarcastico tra le labbra chiuse, lo sguardo infuocato mentre si volta a guardarmi.

- Stronzo. – ringhia – Sei solo uno stronzo, James Page. – continua, mentre il tono della sua voce si fa sempre più minaccioso – A furia di farti di eroina e magia nera ti sei fottuto il cervello, ma sono tutt’ora convinto che questo non sia un problema.

- Ah no? – dico, sputando via il mio mozzicone – E qual è? Sentiamo!

- Vuoi capire che non me ne fotte un cazzo di perdere un chitarrista, eh? – urla, le sue mani che conquistano le mie spalle e le inchiodano alla terra seccata dal sole – Il tuo genio, la tua pazzia, chiamala come cazzo ti pare, sono niente … niente … in confronto al Jimmy uomo che io vorrei accanto per questi e altri mille giorni, hai capito?

Si ferma, ma solo per riprendere fiato.

I miei tremori, invece, non si fermano affatto.

- Mi rifiuto di credere che la tua magia sia frutto della tua mente. Io lo sento il tuo cuore battere nella chitarra, lo sento, Cristo santo! – e così dicendo prende a scuotermi  forte – Ma non voglio nemmeno credere che le tue manie ti stiano fottendo anche l’ultimo segno della tua esistenza, Jimmy, porca puttana! – e questa volta mi lascia, rimettendosi a sedere, le mani fiondate nei capelli, i singhiozzi che gli scuotono il dorso ampio.

Io, invece, rimango immobile a fissarlo, i tremori scompaiono, mentre il cuore che ha menzionato sembra voler esplodere in gola.

- Credi io sia cattivo? – sussurro – Pericoloso?

- No. – afferma roco, asciugandosi le guance col dorso della mano – Non per me almeno, ma per te sicuro. Ho paura a lasciarti nelle tue stesse mani.

Deglutisco, le sue parole che sembrano pungermi il petto fino a iniettare fitte di dolore al cuore, i battiti che non accennano a rallentare, mentre la mia onnipotenza artificiale non fa altro che rendermi sempre più freddo, incredibilmente lucido, mentre Robert trema. Sembra che l’anima gli si stia contorcendo nel petto.

- Quella mattina. – tenta di dire, ma un colpo di tosse lo blocca – Quella mattina, a Birmingham, credevo fossi morto. – dice, recuperando fiato, fissando un punto impreciso di fronte a se. Sembra che mi stia ancora vedendo, ancora tra l’erba, addormentato, il respiro quasi inesistente, mentre una tavolozza di fiori mi circonda come una tomba – Il tuo corpo era così freddo tra le mie braccia che per un momento ho creduto davvero che fosse arrivata la fine.

Porta la sigaretta alle labbra con fare nervoso, le dita che tremano mentre aspira con avidità, la fronte che si arriccia. Sembra che voglia incamerare nei suoi polmoni tutto ciò che lo circonda, io che rimango muto a guardare, mentre i suoi occhi si perdono tra le palme del giardino. Una farfalla bianca volteggia nell’aria.

- Per fortuna mi sbagliavo. – riprende – Quando ti ho portato le dita alla gola, il tuo cuore sembrava scalciare. Tu non vuoi morire. – afferma, per poi guardarmi negli occhi – Ma sembra quasi che tu stia sfidando te stesso, che tu voglia portarti al limite per capire quanto sei bravo a non superarlo.

- Mi credi così incosciente? – faccio rauco, passandomi qualche filo di erba sotto le punte delle unghie.

- No. – sospira - È che vorrei capire quale colpa stai espiando. O quale dolore tu stia combattendo, di quale angoscia non riesci a liberarti.

Non riesco a rispondere.

Eppure con Grace era stato così semplice. Persino piangere non sembrava così umiliante di fronte al suo sguardo limpido. Confidarmi con lei è stato un qualcosa di naturale.

Con Robert, no.

Perché?

- Non lo so. – mento – Ho solo bisogno di farlo.

Non dice nulla. Spegne la sigaretta contro il tacco dei suoi stivali e butta il mozzicone lontano, i suoi occhi che si perdono nel cielo, confondendosi di colore. Sembra stia cercando le parole giuste, capire se sia meglio contraddirmi o assecondarmi.

- Toccare il fondo prima di risalire, eh Jim? – afferma dopo pochi istanti di silenzio.

- Credo di sì.

- Ci porterai anche me? – chiede poi, freddo, pungente, un gancio dritto allo stomaco, tant’è che lo sento accartocciarsi sotto le costole, quando all’improvviso vedo qualcosa muoversi sullo sfondo, percepibile appena con la coda dell’occhio.

Un gelo improvviso e una nuvola che passa davanti al sole, il giardino che si veste d’ombra.

Grace.

Proprio lì, in piedi, sulla mia sinistra, una spalla poggiata ad una palma.

- Che succede? – chiede Robert, allarmato, prendendomi il mento tra le dita e costringendomi a guardarlo.

Di sfuggita, rivolgo uno sguardo veloce a Grace, in tempo per vedere i suoi occhi sgranarsi e il suo dito indice raggiungere le labbra, intimandomi di fare silenzio.

- Nulla. – rispondo, ma la mia voce trema e non inganna nemmeno me stesso.

- Sicuro?

Annuisco, mentre Robert passa con lo sguardo ogni metro quadrato del giardino, cercando la fonte della mia inquietudine, ma nulla. Ben tre volte il suo sguardo passa su Grace, quasi incontra quello di lei, ma lui sembra solo un cieco che si muove a tentoni. Nel frattempo, io continuo a guardare lei, cercando di farle capire cosa sto pensando e, quasi come se mi stesse parlando in un orecchio, sento la sua voce amplificarsi nella mia mente quasi per magia.

Lui non può vedermi. Solo ora ho capito il perché.

Dimmelo, Grace. Maledizione!

Ti aspetto a New York, Jimmy. È lì che io e te abbiamo iniziato.

Cosa? Cosa abbiamo iniziato io e te, Grace? Cosa è successo a New York?

- Sembrava avessi visto un fantasma!

La voce di Robert riecheggia allegra, sporcata da una risata, distaccando i miei pensieri da quelli di Grace.

- Cosa? – chiedo, disorientato, Grace che rimane lì dov’è.

- Jimmy, ti senti bene?

Una sua mano sulla spalla, Grace che ci guarda.

- Sì. – balbetto, recuperando un po’ di lucidità per poter nascondere l’inquietudine – Ho avuto un giramento di testa. È tutto ok.

- Sicuro? – chiede ancora, per esserlo lui.

- Sì, Robert, tranquillo.

Sorrido. Mi imita.

Poi si alza, mi da un ultimo sguardo e si avvia dritto, davanti a me. In direzione dell’albergo. Dove Grace è ancora ferma a guardare.

Una morsa allo stomaco, tra un po’ le sarà addosso.

La raggiunge. Ci passa accanto, ma non la vede.

È a New York la risposta. È lì che ti aspetto, James!
















Angolo della pazza:
Rieccomi! ^^
Ehm, sì. Sto cercando di risolvere la trama, vi giuro che ci sto provando! >.<
Ovviamente, i prossimi capitoli saranno ambientati a New York, ergo tenetevi pronte (?).
Nulla, in questa storia voglio che siate voi a interpretarla, se lo faccio io non vale! ^^'
Quindi, mentre mi leggo con tanta calma il mio Doctor Sleep nuovo di zecca (aaaaah, zio Stephen), aspetto con anZia i vostri pareri.
E vi lascio anche una foto (finalemente l'ho trovata) di colei che "presta" il volto alla mia Grace.
Barbara Palvin
bp

Jimmy, caro, poi non dirmi che non ti tratto bene! u.u
Bene, ringrazio Irene, che come sempre rimane in piedi per leggere i miei aggiornamenti ritardatari, e Zelda, la mia fedele lettrice. Grazie della tua impazienza. Mi ricompensa molto più di qualsiasi recensione.
Detto ciò, vi aspetto al prossimo capitolo.
Vi aspetto a New York.
Un abbraccio,

Franny

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Capitolo 11
*** 10. Upon us all, a little rain must fall. ***


10.

Upon us all, a little rain must fall.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6 Giugno 1977

Sotto di noi, appena dietro nuvole basse, grigie e cariche d’afa, si nasconde New York. I miei occhi rintracciano, di tanto in tanto, punte di grattacieli che non vedevo da un po’, mentre a bordo domina il silenzio, interrotto solo dal russare soffiato di Robert e quello pesante di John. Jonesy, seduto nell’ultima fila, alle mie spalle, legge illuminandosi con una piccola torcia. Aveva la fronte corrucciata l’ultima volta che mi sono voltato a guardarlo, disegnando sulla pelle delle finte rughe fitte come le pagine di Lord Jim strette tra le sue mani. Non sopporto più il suo silenzio, è più pesante di qualsiasi colpa, più presente di qualsiasi rimprovero. Mi gratto il mento nervosamente, incontrando un leggero filo di barba, per poi scattare in piedi, dirigendomi verso di lui. È sempre lì, silenzioso, come immerso nel mare attraversato dalla nave di Lord Jim.

- Jonesy? – sussurro.

Alza lo sguardo come se stesse uscendo da una trance. Poi mi vede davvero e, stranamente, l’accenno di un sorriso attraversa le sue labbra.

- Hey, Jim! – dice a bassa voce, chiudendo il libro – Siediti! – dice, indicando il posto di fronte al suo. E così faccio, incoraggiato dal suo fare cordiale, mentre si mette il libro in grembo.

- Lettura interessante? – chiedo, indicando il romanzo con un cenno del mento, mentre Jonesy abbassa lo sguardo su di esso, l’ombra di un sorriso sulle labbra. Poi torna a guardarmi con aria malinconica e di rimprovero.

- Credo lo sarebbe di più per te. – risponde con calma – Somigli tanto al protagonista e non solo per il nome.

- Stronzate. – sussurro, buttandomi contro lo schienale del sedile – Lord Jim è un fottuto codardo travestito da marinaio che nel momento di pericolo abbandona la nave.

- E ti senti davvero così diverso? – sussurra Jonesy, abbassando lo sguardo, accarezzando la copertina con la punta delle dita – Non appena i giornali hanno iniziato a spalare merda su di noi ecco che ti rifugi nell’ero.

Sgrano gli occhi, fissandolo incredulo. Jonesy e i suoi occhi piccoli che mi osservano da lontano. Hanno capito tutto, molto più di Robert che mi segue e mi accudisce come una specie di balia.

- È così, vero? – chiede, severo.

Non ho nemmeno il coraggio di annuire. Sento solo le labbra tremare, nervose.

- Certo che è vero. Sei sempre stato fragile, Jim. – continua, come se stesse parlando ad un bambino – Ma sei troppo testardo per accettarlo. Così continui a sbagliare, a fare cazzate. Con la tua condotta non stai distruggendo solo te, ma anche noi. – aggiunge poi con tono di rimprovero, mentre serro la bocca e i pugni – E il peggio è che lo sai e non fai nulla per cambiare le cose. Proprio come Lord Jim. Lui ha posto rimedio quando ormai era troppo tardi, dopo anni passati a commiserarsi.

- Non lo è. – dico, il volto indurito – Non ancora.

- Certo che sì. – fa lui, guardandomi dritto negli occhi – Stiamo precipitando Jim, tu ci abbandonerai e, quando l’ero avrà compiuto il suo lavoro, finalmente ti libererai dei tuoi demoni. – e, nel momento in cui parla così, le luci si spengono, le mascherine dell’ossigeno pendono sopra le nostre teste, l’aereo viene inghiottito dal buio e il vento, che non si sa da dove proviene. John e Robert continuano a dormire, come se non stessero avvertendo nulla, Jonesy che mi fissa immobile, la torcia a illuminargli il viso, mentre io mi aggrappo al sedile, terrorizzato.

- Jonesy! – urlo – Jonesy, aiuto! Ti prego, John e Robert! Svegliamoli.

- Non puoi fare niente, ormai. – urla anche lui, anche se il volto resta disteso e inizia a ricamarsi di rughe e, nel momento in cui succede, l’aereo inizia a sbandare, il tetto che si apre squarciato dal vento, i miei capelli che vanno indietro. Butto un’occhiata sotto di noi.

L’oceano.

- Jonesy! – lo supplico – Aiutami, ti prego!

- È compito tuo. – dice, riaprendo il libro per leggerlo – Sta a te salvarci, o distruggerci Tuan Jim!

E, nel momento in cui sputa la sua sentenza, il mare è ormai a un soffio, mentre chiudo gli occhi, pronto a morire.

Ma non accade. Il mio corpo è bagnato, ma sotto di me c’è solo l’asfalto e la puzza di benzina e fogna.

Di nuovo la strada al centro di New York, la pioggia, io che muoio mangiando la polvere delle auto che mi sfrecciano intorno.

E sempre la stessa voce, una litania, le stesse parole.

Non ancora! Svegliati, Jim!

 

*

 

 

New York, 7 Giugno 1977

 

Ritorno al mondo, alla realtà. Sudato fradicio e i capelli incollati alla fronte. Mi libero delle lenzuola, rimasto intrappolato per via dell’agitazione, scalciandole fino a farle arrivare sul pavimento. Mi sollevo di scatto, mani tra i capelli, bocca spalancata per riprendere fiato.

- Cristo. – sbuffo, sputando a terra, pronto a digrignare i denti non appena sento una fitta sotto la pianta dei piedi, imprecando contro quello che è un crampo con i fiocchi. Gli occhi si stringono, mentre l’aria tra i denti ha il gusto amaro del cattivo risveglio.

- Vaffanculo! – urlo, buttandomi tra le lenzuola, lasciando che il dolore si mangi anche il polpaccio – Non ce la faccio più! – esclamo, mentre due lacrime mi rigano gli zigomi e qualcuno prende a bussare alla porta. Infastidito e dolorante, mi sollevo dal letto, zoppicando fino alla porta ma, quando la apro, ad aspettare c’è l’ultima persona che vorrei vedere.

- Hey Jim, ti ho portato qualcosa … - inizia a dire Richard, reggendo in mano, davanti ai miei occhi, una bustina stracolma di chissà quale merda.

- Vai all’inferno Cole! Tu e quella merda! – urlo e quasi potrei sputargli in faccia le corde vocali, ma l’unica cosa che chiudo sulla sua espressione da stronzo è la porta, che si chiude secca, con addosso la mia schiena che pian piano scivola verso il pavimento.

Sono stanco, provato, nemmeno la notte mi lascia riposo, così come l’ipocrisia si ostina a starmi dietro; così, mentre nel corridoio sento allontanarsi i passi di Richard, fisso le bottiglie di Jack abbandonate ai piedi del letto e ciò che resta delle mie “piccole” dosi di onnipotenza.

Vorrei sparire. Scappare.

Vorrei tornare a casa, oppure …

… morire.

 

 

*

 

 

- Quale onore! – tuona Bonzo, le guance piene di chissà cosa – Abbiamo Sir Page tra di noi.

Mi sforzo di sorridere, sedendomi tra lui e Robert.

- Ci siamo svegliati, bella addormentata? – sfotte, dandomi una pacca sulla spalla.

- Beh, direi. – sussurro, servendomi un cappuccino bollente e afferrando un pezzo di torta al cioccolato.

- Intanto. – continua Robert, dando un tiro alla sua sigaretta – Ieri non ti avrebbe svegliato nemmeno una bomba. Abbiamo dovuto prenderti in braccio per farti scendere dall’aereo. Sarebbe potuto precipitare e non te ne saresti nemmeno accorto.

Improvvisamente è come se nella sala di ristoro dell’hotel sia calato il gelo, mentre la tavola imbandita sembra sbiadirsi, un velo che si appoggia sui miei occhi mentre ritorna alla mente l’incubo di stanotte.

- Jim?

- Sì? – chiedo, stringendo gli occhi contro Robert.

- Ti senti bene? – fa, la sigaretta tra i denti – Sei impallidito.

- Ho sognato che l’aereo precipitava. – rispondo, senza nemmeno pensarci e sembra quasi che il peso dell’incubo stia pian piano svanendo.

- Sul serio? – chiede Bonzo – A noi sembrava che te la stessi spassando con Jonesy! – ride, battendo il pugno sul tavolo.

- Cosa?

- Hai urlato il suo nome. – dichiara Robert, sputando fuori il fumo e spegnendo il mozzicone sul piattino della sua tazza del caffè – E più volte. Che c’entrava Jonesy?

- Nulla. Gli chiedevo aiuto. – dico, omettendo gran parte del sogno. La conversazione sta diventando imbarazzante, mentre poco a poco mi rendo conto di non essere più in Florida. Il sogno mi aveva talmente sconvolto, da lasciarlo nei confini dell’irreale. Invece mi sbagliavo. Quando ho iniziato a sognare ero davvero sull’aereo. E nemmeno me lo ricordo. Così come non ricordo di essermi svegliato, scolato due bottiglie di Jack nella mia stanza, per poi crollare e riprendere a sognare lo stesso incubo.

Solo ora mi rendo conto di essere a New York.

A un passo da Grace.

- Bevi quel caffè, o si raffredda.

- Devo andare. – faccio, scattando in piedi e poggiando una mano sulla spalla di Robert.

- Ma … - fa, guardandomi con aria confusa e seguendo il mio percorso fino all’uscita - … dove?

Mi fermo, prendendo sul serio la sua domanda.

È stata sempre Grace a trovare me ed ora che sono nella sua città non so nemmeno dove andare a cercarla.

O forse sì.

- Mi sono appena ricordato che devo comprare una cosa per Scarlet. – sorrido, in pieno allenamento alla menzogna – Ci vediamo stasera.

 

 

*

 

 

Giro a vuoto. Le strade di New York sembrano tutte uguali mentre in una mano stringo una busta; dentro, un pacchetto dondola indisturbato, tenendo al sicuro la Polaroid che porterò a Scarlet una volta tornato in Inghilterra. Mi fermo al bordo di un marciapiede, sperando che un taxi si fermi davanti alla mia mano alzata.

- Mi porti allo Hudson River per piacere. – chiedo una volta riuscito nell’impresa.

 

 

*

 

 

È tutto come lo aveva descritto Grace.

Il fiume, New York, l’erba brillante sotto il sole e le panchine. Descritto alla perfezione. L’unica differenza è dettata da tante coppiette che si crogiolano al sole, sostituendo le scolaresche, mentre qui gli unici insegnanti, di vita, sono un gruppetto di vecchietti che si nascondono all’ombra degli alberi.

Niente tracce di un vestito a fiori o di capelli color grano lasciati sotto il sole. Nessun brivido ad annunciarla, a segnalare la sua presenza. Sbuffo, gli occhi che mi si stringono per via della luce, lasciandomi andare su una panchina.

Chissà se ci si è mai seduta.

Poggio il pacchetto di fianco a me, mentre con la mano sfioro distrattamente il legno del sedile con la punta delle dita, avvertendo sotto la pelle la presenza di incisioni lisce come graffi che si sono dolcemente trasformati in cicatrici.

Abbasso lo sguardo. Una scrittura sottile ed elegante.

JIMMY

Così è scritto.

- Sì. – sussurro – Sì, eri qui, Grace.

Rileggo le lettere incise, sfiorandole con dolcezza.

- Siamo qui. – sorrido – E ti troverò.

 

 

*

 

 

Ha iniziato a piovere. Anche qui, dal cuore del Madison Square Garden, il rumore dell’acqua è perfettamente udibile. Almeno per me. Sento come se mi portassi la pioggia proprio dentro al petto, da sempre. Una sorta di lavaggio dell’anima che, stranamente, invece di ripulirla, la insozza di fango denso, fino a rendermi solo una poltiglia di dubbi, rimorsi e colpe. Ogni tanto appare il sole; un accordo, un nuovo assolo, un giro di parole, il sorriso e il bacio della mia Scarlet, la voce di Robert. Attimi che mi ricordano il colore del cielo. Poi, il buio. Una malinconia che cade leggera, goccia a goccia, quasi silenziosa. La mia anima non ha bisogno di essere un temporale. Le piace rimanere un’incessante, sottile, pioggerella d’estate.

Mi guardo intorno, il mio sguardo che accarezza ogni volto in prima fila senza scorgere quello che sto cercando. Così mi avvento sulle corde, tentando di sfogare la rabbia e di scappare al senso di abbandono causate dall’assenza di Grace.

La Musica, lo spettacolo, il tempo intorno a noi, va avanti ed io sorrido, mi offro al pubblico. Lo avvicino per poi allontanarmi, in una sorta di danza di corteggiamento in cui gli unici a restare conquistati restano loro, che mi guardano con occhi vivi, lucidi o semplicemente sognanti. Robert è un fiume in piena e John ci trascina, dettando le regole del tempo. Jonesy, invece, sembra aver sotterrato l’ascia di guerra; mi guarda e, quando il suo basso incontra la mia chitarra, mi sorride, complice.

C’è qualcosa nell’aria.

E non è solo pioggia.

 

 

*

 

- Magnifico! – esclama Robert, entrando in macchina, il petto bagnato di sudore e pioggia, io che sistemo il mio ombrello ai piedi del sedile - È stato assolutamente incredibile.

- Già. – mi sforzo di sorridere, la dragon suite bianca ormai completamente appiccicata alla pelle.

- Finalmente ti ho riconosciuto stasera! – esclama, rivolgendomi un sorriso radioso e lasciandomi una pacca sulla spalla. Fuori piove ancora – Anche se dovresti mangiare qualcosa. Sei magro come un chiodo.

- E questo cosa c’entra? – dico, incrociando le braccia al petto con un sorriso sarcastico – Un passo alla volta, Percy.

- Già. – acconsente, abbassando il capo, per poi abbandonarsi sullo schienale.

L’auto parte, perdendosi nel traffico di New York.

- Sai. – dice Robert all’improvviso – Mi ricordo ancora quella volta nel ’73. Peter diventò una bestia quando scoprì del furto.

- Dio, che situazione di merda! – esclamo, seccato dal solo ricordo – Lui e Cole sembravano due fidanzatini adolescenti dopo che avevano rotto.

- Quando poi era colpa di quelli del Drake. Incompetenti del …

- Che cosa? – esclamo, il volto rivolto verso Robert, come pietrificato.

- Jimmy? – fa lui, scrutandomi stranito – Che succede?

- Il Drake! – esclamo, battendomi una mano sulla fronte – Era lì! È stato lì! – continuo, una mano che graffia il sedile sotto di me – Lei era lì! – sussurro, per poi guardarmi intorno, sotto lo sguardo confuso di Robert. Il Drake si trova solo a pochi isolati da qui.

- Ferma la macchina! – grido.

- Cosa? Ma, Jim…

- Ferma questa cazzo di macchina ho detto! – urlo, come impazzito, gli occhi di Robert che guizzano da me all’autista, mentre questo frena nel bel mezzo del traffico newyorkese ed io, senza nemmeno badare alla pioggia, mi tuffo tra le macchine che suonano impazzite, prendendo a correre come un folle. Dietro di me, il rumore di uno sportello che si chiude.

- Jimmy! – è Robert, ma non riuscirà a raggiungermi. Mi basta svoltare una volta a destra ed una a sinistra per ritrovarmi a pochi metri di distanza dal Drake, la sua insegna uguale come quattro anni fa. Fermo al centro della strada, le auto mi sfrecciano di fianco, le loro ruote che sollevano onde d’acqua che mi inzuppano le gambe. Domani avrò la febbre. Chi se ne fotte.

Davanti a me sembra si stia ripetendo un film a rallentatore. Anzi, un sogno. L’incubo che da molte (troppe) notti mi tormenta.

- Jimmy!

Mi volto. Robert è dietro di me.

Riprendo a correre, raggiungendo finalmente le strisce pedonali di fronte al maledetto hotel, credendo quasi di trovarci ancora delle strisce di sangue.

- Grace! – prendo a urlare, la pioggia che schizza sul mio volto – Grace!

Non c’è. Se n’è andata. Molto prima di questa notte.

Grace mi ha lasciato in una notte come questa, in cui a New York mancavano le stelle.

- Grace! – singhiozzo, il petto che mi si solleva, le mani contro la faccia. Lacrime e pioggia.

Poi un clacson, una luce accecante.

Non mi prende, ma cado comunque a terra.

- Jimmy! – l’urlo di Robert è straziato mentre il mio volto accarezza l’asfalto e chiudo New York fuori dai miei occhi, dietro le palpebre.

- Lasciami, Rob. – sussurro – Lasciami morire qui.

Una risata, all’altezza del mio volto. Ma non è la mia.

- Non ancora. – la sento sorridere, anche se non la vedo – Apri gli occhi Jim!

Lo faccio.

Poi, un urlo mi attraversa la gola.












Angolo della pazza:
Rieccomi!!! ^^
Ehm...sì, ecco... ce l'ho fatta.
Almeno spero.
Finalmente Jimmy ha capito chi è Grace! *^*
Questo capitolo è stato un tormento, nonostante lo avessi in mente da un sacco di tempo.
Ed è il penultimo...
Ehm, sì, la storia si avvicina alla fine! ç__ç
Ma avrà anche un epilogo, ergo mi aspettano ancora due capitoli.
Ehm, nulla. Spero tanto vi sia piaciuto questo e, come sempre, mi auguro di trovare tempo ed ispirazione per il prossimo.
Ringrazio Ire, che è ancora in piedi, e Zelda che aspetta e nel frattempo legge la biografia di Robbe! *^*
Awww, siete meravigliosi. Tutti quanti.
Vi aspetto al prossimo (ultimo, sigh) capitolo!
Un abbraccio,
Franny

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Capitolo 12
*** 11. Well, this is our last embrace, Must I dream and always see your face? ***


11.

Well, this is our last embrace,
Must I dream and always see your face?

 Jeff Buckley - Last Goodbye

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non capisco se sia più grande il disgusto, la paura o il dolore.

Eppure, i miei occhi non riescono a staccarsi dall’orrida immagine di fronte a me. Grace, il suo volto perfetto, il suo sorriso, completamente deformati, la mascella riversata da un lato, rotta, il volto completamente insanguinato, esattamente come i capelli, uno occhio gonfio e nero, ormai chiuso.

- Ci siamo Jimmy. – sussurra, ma senza muovere le labbra ormai diventate viola, io che prendo a tremare – Ora sei pronto. Chiudi gli occhi.

- Grace?

- Sì?

- Tutto questo. – mi ritrovo a piangere e a fremere, un bambino impaurito abbandonato in una città sconosciuta – Quello che vedo e vivo, è vero?

Sorride, alzando l’angolo della bocca in cui l’integrità della mascella non è stata compromessa, in un ghigno che mette i brividi.

- Chiudi gli occhi, Jim.

E lo faccio.

 

 

*

 

 

L’aria mi riempie i polmoni, pura. Sul volto e le palpebre chiuse, avverto il calore tipico del sole primaverile, mentre il suono della pioggia incessante è sostituito da un lieve cinguettio, la durezza dell’asfalto dalla dolcezza e il profumo dell’erba fresca.

- Grace?

- Puoi aprire gli occhi, James. – consiglia teneramente, leggendomi nel pensiero.

- Ho paura.

- Allora siamo in due. – ride – Ma dobbiamo alzarci. Coraggio.

Ammesso che ne abbia ancora. Eppure sento che non ho nulla da perdere, nulla da temere ormai. Ho guardato il fondo dritto negli occhi, trovandolo in quelli di Grace. Riapro i miei. Sta volta, sorrido.

- Ciao Grace.

- Ciao Jim – il suo labbro superiore che i solleva, finte rughe attorno agli occhi sorridenti.

Mi alzo, proprio come mi aveva consigliato, sentendomi improvvisamente agile. Mi guardo intorno e, nonostante il sole cocente, un brivido corre lungo la schiena.

- Sembra inquietante, vero? – chiede, apparendo accanto a me.

- Già. – sussurro, deglutendo pesantemente alla vista di una serie di croci di marmo piantate nel terreno e nell’erba – Dobbiamo proprio? – faccio, guardandola con fare supplichevole.

- Sì, James. – sospira, una nota amara attraversa la sua voce.

- Perché? – chiedo, tornando a guardarmi intorno con un filo d’ansia.

Non risponde. Semplicemente si avvicina, mi prende per mano, guardandomi intensamente. Una luce limpida, che traspare purezza, le attraversa le iridi celesti. Il cielo d’Agosto. Ad avercela accanto per una vita intera, potrei guardarlo anche in pieno inverno e sentirne il calore del sole che lo attraversa. Ma Grace, che mai mi aveva preso per mani, è lontana, lo sento. È qui, ma in realtà è distante miglia e miglia da me, mentre io sento come se una parte di me sia rimasta incollata all’asfalto umido di pioggia di New York, lì dove, in un giorno d’afa come questo, la mia Grace ha perso tutto.

- Ti riferivi a quello, vero? – dico, aggrottando la fronte.

Lei annuisce, si morde le labbra, poi osserva le nostre mani congiunte.

- Però – continuo, la voce che trema – Mi dicesti anche che avevi perso tutto per me. – continuo, i miei occhi che saettano sul suo volto rimasto impassibile – Cosa c’entro io? È … è stato un incidente … io …

- Abbracciami, Jim.

Il fiato si blocca.

- Cosa?

- Abbracciami. – fa lei, quasi sull’orlo del pianto, tendendo la mano libera dalla mia.

La fisso, cercando il perché nei suoi occhi, ma ciò che trovo è solo un’infinita tristezza.

- Cristo, va bene! – impreco, e in un lampo faccio passare una mano dietro la sua schiena esile e perfetta, il mio petto che si scontra contro il suo seno, mentre il mio naso affonda tra i suoi capelli. Il tempo di richiudere gli occhi ed ecco che torno a vedere la cinquantaseiesima strada, immersa in una serata senza pioggia, dipinta con colori vividi, psichedelici, tipici di un sogno o di un ricordo fin troppo vivido.

Il ricordo di Grace. Coi suoi occhi, in lontananza, vedo il Drake stagliarsi in tutta la sua altezza. Dentro al cuore, in ogni fibra del mio (suo) essere, sento vibrare la felicità, mista al fremito dell’attesa e al morso allo stomaco della paura. Ad ogni passo che mi avvicina al Drake, le mani (Dio, così sottili, così sudate) tremano. Poi, un’auto tirata a lucido, accosta esattamente all’entrata.

- Sono loro!

Le mie labbra sussurrano con una voce che non è la mia, la voce di Grace carica di emozione, la stessa che mi fa (le fa) tremare le gambe, scaldandole fin nell’intimo, quello che fino a quel momento era rimasto nascosto, segreto, lontano da qualsiasi carezza o piacere. Poi, si muovono, i piedi che abbandonano il marciapiede e incontrano l’asfalto. Dall’altra parte della strada, una copia di me stesso, sudato e sfiancato, esce dall’auto, guardandosi intorno.

Il cuore, dentro il petto di Grace, ha sussultato.

Un altro passo, le auto che sfrecciano veloci.

- Jimmy! – urla Grace, ma il me stesso dall’altra parte della strada ha appena avvertito le braccia di Lori attorno al suo collo e scambiato la voce di una sconosciuta per quella della ragazzina che all’epoca si sbatteva senza pudore.

- Jim … - sussurro, la voce di Grace che fuoriesce debole, pregna di delusione e incertezza. Poi, i pensieri di Grace si annebbiano, la sua immaginazione che prende il posto della lucidità, ricreando la sensazione perfetta delle mie mani sulla sua pelle, il desiderio di donare la propria innocenza ad un’artista pericoloso e praticamente folle, che del suo gesto ne avrebbe fatto l’ennesimo trofeo da ricordare e lucidare per il resto dei suoi giorni.

Ed ecco la determinazione, un sorriso determinato sulle labbra, l’intenzione di far sapere a quella meraviglia di ragazzo che al mondo esiste una ragazzina che lo desidera più chiunque altro al mondo, più di quella che lo sta volgarmente baciando nel bel mezzo della strada, quella che Grace ha preso ad attraversare con sicurezza.

Poi, il dolore. Una lama che attraversa il fianco destro.

Il buio.

Una lacrima che supera le ciglia.

- Grace! – mi ritrovo ad urlare. Apro gli occhi e trovo le mie braccia che stringono le spalle minute della ragazzina che un giorno, per un desiderio fino ad allora immaginato, ha perso la vita. Ha perso tutto. Per me.

- Grace, piccola mia. – piango, tento di respirare, le dita che si perdono tra i suoi capelli, le labbra che li attraversano con devozione – Perché?

Si scosta per guardarmi in faccia, il volto rigato di lacrime.

- Doveva essere così, almeno credo. – sussurra – Ma non ti sei ancora chiesto una cosa.

Alla sua affermazione sento la mente aprirsi, la realtà che mi si presenta così com’è.

- Sono morto? – sussurro, un groppo alla gola, le mie mani che si aggrappano a lei come disperate. Grace non risponde, il suo volto che si avvicina dolcemente al mio, il suo naso che sfiora il mio, i suoi occhi piantati nei miei.

- Non ancora, Jim. – sorride – Non ancora. – abbassa gli occhi, mordendosi un labbro – Ma devi decidere tu. In questo momento sei su una barella, diretto al Roosevelt Hospital, con Robert che ti chiede di restare. Col mondo che ti chiede di restare. Con tua figlia ignara di tutto e che ti aspetta, stretta al suo orsacchiotto, accoccolata nel suo lettino.

Alle sue parole, una nuova ondata di pianto mi contorce il viso e mi scuote il petto di singhiozzi forti come pugni.

- Io sono qui solo per farti capire cosa stai lasciando. – dice, carezzandomi una guancia – Ciò che ti stai facendo. – sospira, il suo respiro che mi sfiora le guance – Io ti venivo incontro quel giorno e, credimi, ti avrei amato. Molto più di me stessa. – confessa, le labbra che tremano – Ma ho fatto molto di più. Quando sono arrivata su quell’asfalto, ero felice. Il mio ultimo pensiero sei stato tu. Morivo per te e non m’importava niente, nemmeno del desiderio di averti che mi divorava, della felicità che mi avrebbe dato il solo incontrarti dopo tanto tempo passato a sognarti, ad ascoltarti parlare attraverso la tua chitarra e le tue canzoni.

- Eri solo una ragazzina. – sussurro, portandomi la sua testa al petto, cullandola come per farla addormentare – Avevi tutta la vita davanti e l’hai persa per nulla.

- Questo dipende solo da te.

Allontano il suo capo dal mio cuore, tornando a guardarla negli occhi.

- Avevo un conto in sospeso, Jim. Finalmente l’ho chiuso. Ma se tu superi questa soglia, se invece di tornare indietro, resti qui, seguirti sarà stato inutile. Ed io sarò morta per una persona vigliacca, capace di buttarsi via, restando fermamente convinta di essere onnipotente.

- A volte credo che starei meglio qui. – e quasi a conferma, ritorna forte il profumo inebriante dell’erba fresa, misto a quello di qualche fiore nascosto. Lei fa di no con la testa, guardandomi severa.

- Accompagnami a casa, Jim. – fa, per poi aggrapparsi al mio braccio – E poi torna indietro. – aggiunge, mentre ci muoviamo tra le varie tombe, arrivando al cospetto di una che ha una croce bianca come la neve. Al suo fianco, cresce una splendida pianta di rose bianche.

- Qui? – chiedo balbettando, tremando al pensiero che il suo corpo si trovi sotto i miei piedi.

- Sì. – sospira, un accenno di sorriso sulle labbra – Jim?

- Sì?

Non dice nulla, semplicemente vola tra le mie braccia che si chiudono attorno alla sua vita esile. Il mio cuore sussulta, incapace di restare tranquillo.

Ti avrei amata anch’io Grace. Profondamente.

- L’ultimo addio, vero? – sussurro tra i suoi capelli, le mie labbra che trovano la sua fronte fredda. Sembra più concreta, ora, come se la sua anima stesse recuperando la consistenza del corpo sepolto sottoterra.

Lei annuisce, mordendosi le labbra. Poi torna a guardarmi negli occhi. Di nuovo quella malinconia, quell’amore e quella vita mancati, tutto concentrato nelle sue iridi.

- Baciami Jimmy. – chiede, quasi mi prega – Baciami e poi torna indietro.

Non me lo faccio ripetere. Non ora.

Così, le mie dita scivolano dietro la sua nuca, le mie labbra che si combaciano perfettamente con le sue, dolci. Se un giorno dovessero chiedermi che sapore ha la morte, risponderei che è dolce. Un miele proibito. Ti basta un bacio per restarne sazio in eterno. E così la pelle di Grace, il suo sapore, si fanno spazio dentro di me fino a farmi sentire completo, al limite, come se la mia anima riuscisse a stento a stare nei confini del mio corpo.

- Abbi cura di te. – sussurra sulle mie labbra.

- Te lo prometto.

- Lo spero. – sorride – Ho visto la tua vita, la prima volta che ti ho toccato a Birmingham. Sarai più bello di quanto tu possa immaginare, James.

- Lo dici per convincermi? – rido, carezzando la sua guancia con un pollice.

Lei fa di no con la testa, sorridendo – Chiudi gli occhi James.

Appoggio la fronte contro la sua e lo faccio.

- Chiudi gli occhi e poi … - un vento improvviso, una luce fredda che supera la barriera delle palpebre, un urlo – Svegliati, Jimmy!

 

 

*

 

 

Oakland, California, 24 Luglio 1977

 

Mordo il filtro della sigaretta per non farlo scivolare dalle labbra. Dall’ultima volta che queste hanno incontrato quelle di Grace sembra passata un’eternità. Non l’ho vista più, abbandonata in un cimitero di New York, lontana come il giorno in cui la incontrerò di nuovo.

Il sole di Oakland brucia. Non mancano i problemi, i soliti casini, ma è bello rivedere gli altri sorridere. Soprattutto Robert. Anche la sua espressione addolorata, corrucciata sopra i miei occhi sembra essere svanita, lasciata dentro un’ambulanza a sirene spiegate che mi portava al Roosevelt Hospital. Sorride, ammicca, accanto a me è di nuovo quel ragazzo spensierato che cantando sembra voler sedurre ogni singola cosa sulla faccia della terra.

Non riusciva a credere alla mia storia, a quella di Grace (oh, sì, l’incidente!), mi guardava come se fossi impazzito. Lo ha pensato, lo so. E come ogni buon amico, ha aspettato che mi passasse “questa fissa”, che mi liberassi delle mie fantasie.

Leggi troppi libri strani, disse.

Peccato che l’immaginazione non abbia niente a che vedere con ciò che ho vissuto.

Ma ho lasciato correre, non pretendevo che qualcuno capisse, anche se ogni tanto mi sembrava che Bonzo, guardandomi da lontano, provasse una certa compassione, nascosta alla perfezione col suo fare burbero, ma simpatico, e la sua inesistente sobrietà.

Lui l’ha vista, mi ripetevo, forse perché beve come una spugna.

Fortunatamente, però, sembra non l’abbia vista più.

Non ho mai avuto coraggio di confessare, a nessuno di loro, che sono riuscito a vedere Grace solo perché in parte ero ormai andato via, proprio come lei. Una piccola omissione, per renderli più tranquilli, sicuri che la faccenda della magia nera, dell’occultismo o dell’eroina non mi abbia definitivamente fottuto il cervello.

Eppure, ogni tanto (mentre suono, sorrido, mi svesto e mi metto a letto), sento una morsa allo stomaco. E so perché.

La promessa fatta a Grace è stata la più grande che io abbia formulato.

Non l’ho mantenuta.

Prenditi cura di te.

Troppo difficile, impegnativo, soprattutto in tour, quando la stanchezza è più forte e risveglia i demoni.

- Oakland! Goodnight!

La sera scende sulla California. Le ombre si rialzano.

 

 

*

 

 

New Orleans, Louisiana, 26 Luglio 1977

 

- Cristo, quella fottuta cella puzzava di merda. – dice John, portando la sigaretta alla bocca, mentre restiamo davanti all’entrata del French Quarter Hotel, in attesa che gli altri, restati indietro, arrivino alla reception.

- Ma non m’importa. Se l’è meritato, quel figlio di puttana. – fa, sputando fuori una boccata di fumo -  Non si toccano i bambini. Mai.

- Ha avuto quello che si merita. – annuisco, ficcandomi le mani nelle tasche dei pantaloni e voltandomi verso la strada. Un’auto si avvicina e John e Robert ne escono sorridenti.

- Ho bisogno di una dormita! – fa Robert sbadigliando, lasciandomi una pacca sulla spalla, per poi dirigersi verso l’ascensore, ma la voce della receptionist lo ferma.

- Mr. Plant?

- Sì?

- Una telefonata per lei, dall’Inghilterra. – fa lei con tono monocorde – Dicono che è importante.

- Arrivo. – e mentre si avvicina, mi volto a guardare distrattamente la strada e subito sembra che un pugno mi sia arrivato allo stomaco.

Grace.

Oltre la strada, sul marciapiede di fronte.

In piedi, un’espressione di disgusto.

- Cosa? – sussurro tra me e me.

- Cosa? – la voce di Robert, dietro di me, dall’altra parte della stanza.

Poi, il suo urlo. Straziante.

I miei occhi abbandonano quelli di Grace e quando mi volto, Bonzo sta già abbracciando le spalle di Robert, inginocchiato, il telefono che pende dal tavolo della reception, in lacrime, i pugni conficcati nel ventre.

No. Non può essere. Karac.

Sento gli occhi allargarsi, il corpo irrigidirsi.

- Perché? Perché??? – urla, la sua voce che rimbalza sulle pareti, prima che lui si rialzi, diretto alla porta. Verso di me.

- Robert, calmati, fermo! – esclama Bonzo, stringendogli le spalle.

- Il mio bambino! Fatemi andare dal mio bambino o vi ammazzo tutti quant’è vero Iddio! – urla, divincolandosi, ma inutilmente – E tu! – fa, puntandomi un indice tremante di rabbia e disperazione – Pagherai per quello che hai fatto, Page, e prima o poi te ne andrai all’inferno, figlio di puttana!

Mi ritrovo a piangere, incapace di dire qualsiasi cosa.

Vorrei morire, penso, e riporterei indietro quell’angelo se potessi, Percy!

Ma lo tengo per me, mentre Robert mi volta le larghe spalle scosse dal pianto. Sembra così fragile visto da qui.

Nemmeno mi accorgo che John è venuto da me.

- Jim?

Mi volto a guardarlo in silenzio. Nei suoi occhi vedo il mio riflesso. Un folle.

- Andiamo. – fa, passandomi un braccio attorno alle spalle – Nessuno ce l’ha con te.

- Robert … - è tutto ciò che riesco a dire.

- Capirà. – sospira – Dagli tempo.

Già, tempo.

 

 

*

 

 

Clewer, Windsor, alba del 26 settembre 1980

 

Anche il tempo se n’è andato.


















Angolo della matta.
T__T
Ciao.
Il finale è questo. Ed è una merda, I know.
Volevo provare a dare un senso a tutta questa storia che potrebbe essere ri-intitolata "Come Jimmy Page sia convinto che sia stata colpa sua".
La verità è che la colpa non è di nessuno, ma ho provato ad immedesimarmi in Jimmy e credo che tutte queste paranoie mi sarebbero venute.
Arrivata alla fine, non so nemmeno io chi sia Grace.
Volevo che fosse il fantasma di una ragazza innamorata che però aveva un conto in sospeso.
La verità è che ho reso così ignoto il suo personaggio, che nemmeno io saprei più definirlo.
Ergo, dategli voi un senso, qualsiasi esso sia.
Per quanto riguarda ciò che dice Bonzo riguardo "la cella" ovviamente mi riferisco all'episodio del figlioletto di Grant avvenuto ad Oakland. Per chi non sa a cosa mi riferisco, trova tutto su Wiki. Mentre, le parole che sputa fuori Robert, vengono da un'antica leggenda, secondo la quale lui avrebbe accusato Jimmy della morte di Karac per via della sua mania della magia nera. Quanto ciò sia vero, non lo so, ma ho voluto comunque inserirlo.
Arrivati alla fine di questa storia (anche se manca l'epilogo) spero davvero che il tentativo di scrivere "qualcosa di diverso" mi sia riuscito. Ero partita con l'intenzione di creare una favola romantica, di quelle che si chiudono con un sorriso, ma la realtà dei fatti ha avuto il sopravvento, trasformandola in un incubo paranormale, di quelli in cui ti risvegli in lacrime.
Niente, non so davvero cosa dire. Avevo tutt'altro finale in mente all'inizio ed ora mi ritrovo a leggere le ultime parole col groppo alla gola.
Spero non mi detesterete, ecco.
Vi aspetto al prossimo capitolo.
Lì vi ringrazierò tutti quanti a dovere e vi fornirò un'elenco completo della "colonna sonora", che puntualmente non s'incula (♥) nessuno, anche sotto il titolo ho voluto lasciarvi il titolo-link della canzone a cui si ispira questo capitolo.
Vi abbraccio forte, sia che stiate piangendo o vi stiate pentendo amaramente di aver incontrato questa storia.
A presto,
Franny

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Capitolo 13
*** Epilogo ***


Epilogo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Australia, 17 Febbraio 1996

 

Quiete.

Non sembra vero, mentre questo freddo non accenna ad allentare la presa.

Di fronte ai miei occhi, il sole annega nell’Oceano Pacifico.

Se potessi rimanere qui, per sempre, dimenticherei chi e dove sono.

- Jimmy?

Mi volto lentamente, mani ficcate dentro i pantaloni di velluto, braccia ad arco attorno ad una pancia che prima non c’era.

Pazienza.

Guardo i suoi occhi. Un tempo brillavano di vita, forse per via di quei capelli che sembravano rubare la luce al sole. Nemmeno il sorriso è così smagliante come un tempo. Sono cose andate perse un’estate di tanti anni fa, quando il destino ha iniziato ad accanirsi su di lui. Sotto quella specie di caftano, anche lui ha una pancia che prima non c’era e il cuore ferito di un leone.

- Sei pronto? – chiede gentilmente, una mano che sposta i capelli indietro e un rubino che brilla sotto una delle sue dita.

Annuisco, m’inumidisco le labbra. Avrei bisogno di fumare, ma mi trattengo.

Prima o poi smetto, lo giuro.

Come sempre, vero Jim?

Scuoto la testa, sospiro pesantemente, cercando di scacciare via quella voce che troppe volte mi ha ricordato ogni singola disgrazia.

Sta zitta.

 

 

*

 

 

Improvvisamente, l’ansia.

Mi prende di più quando sono sotto il palco, da spettatore. Mi succede ogni volta, eppure non mi ci abituo. Mi guardo nervosamente attorno, attraversando con gli occhi gli angoli del teatro.

- Sarà sensazionale, lo sento! – dice Robert, dando un tiro alla sua sigaretta. Così, senza chiedergli nemmeno il permesso, infilo una mano nella tasca del suo caftano, afferrando il pacchetto di sigarette.

- Volevi smettere. – dice, freddo.

- Ho sempre voluto tante cose. – controbatto, ficcandomi una sigaretta tra le labbra e accendendola – Alcune non le ho avute mai.

- Tipo la coerenza e la forza di volontà?

- Sei in vena di rimproveri stasera? – sussurro, mentre altri spettatori come noi iniziano a guardarci con curiosità.

- Scusami. – fa, dandomi una pacca sulla spalla - È che …

È che non sei più tu Robert.

- Tranquillo! – gli sorrido - È tutto ok!

- Già. – sospira.

- E comunque sono sicuro che sarà impressionante. – continuo, osservando il palco ad occhi stretti - È da mesi che ascolto il suo album e ancora mi chiedo da quale pianeta arrivi un ragazzo così.

Sospiro, pensando per l’ennesima volta al giorno in cui, spulciando per caso l’ennesimo negozio di dischi a Londra, m’imbattei in un titolo particolare e un volto, stampato sul cartone del vinile, così affilato, le labbra disegnate e un microfono anni Cinquanta.

Il titolo era Grace.

Lui, Jeff.

Una risata lieve, comprensiva, proprio al mio fianco. Robert.

- Che c’è? – chiedo, accennando una risata – Perché ridi.

Non risponde subito. Aggrotta la fronte osservando il palco, aspirando piano dalla sua sigaretta fino a ritirare le guance. Poi butta fuori un filo sottile di fumo, tornando a guardarmi.

- Viene dal tuo stesso pianeta, Jim. – dice serio, ma senza rimprovero. Piuttosto con devozione – Era da tempo che non notavi un cantante. – aggiunge poi, rivolgendomi un sorrisetto impertinente.

- Idiota! – rido, dandogli un pugno sul braccio, per poi incrociare le braccia, voltandomi a guardare di nuovo il palco.

Le luci si abbassano, un silenzio irreale intorno a noi.

Poi, un faro si accende su un ragazzo magro, lo sguardo perso altrove, la voce di un angelo e le mani impazzite.

Inizia a cantare, incendiando l’aria attorno a noi.

Ai suoi piedi, una rosa bianca.

 

 

*

 

 

- Jeff?

Non si volta, probabilmente non mi ha sentito.

- Sì? – fa, senza smettere di armeggiare con la sua chitarra, riponendola nella custodia e continuando a darmi le spalle. Il resto della band, raccolta attorno a lui, mi guarda come se non credesse ai propri occhi.

- Posso rubarti un secondo?

Con uno scatto chiude la custodia.

- Un attimo sol … - si solleva sulle gambe, si volta verso di me - … tanto. – i suoi occhi si spalancano, allargando a dismisura le sue occhiaie, mentre una ciocca ribelle ricade sul suo naso. Potrebbe essere mio figlio, ma non solo per un fattore cronologico. Più lo guardo, più mi concentro sui suoi occhi, più sento qualcosa attrarmi verso di lui, come se mi stessi guardando allo specchio trovandoci dentro il riflesso della mia anima e non del mio corpo.

- Oh, Cristo! – fa, buttandosi le mani tra i capelli e mordendosi il labbro inferiore, le sue guance che si fanno di porpora.

- Vieni qui, Jeff! – faccio, aprendo le braccia – Sei stato … sublime! – gli dico, mentre si avvicina, ancora incredulo. Quando poi finalmente le nostre braccia si intrecciano, i nostri petti iniziano una danza scoordinata, i nostri volti che si bagnano, i singhiozzi che rompono il silenzio.

Non piangevo da tempo e mi ritrovo a farlo per un ragazzo che, con un semplice titolo, mi ha ricordato me stesso, mi ha fatto tornare alla mente il periodo peggiore della mia vita, riportando in una canzone il nome di colei che quasi era riuscita ad aprirmi gli occhi.

Grace. Il nome di tutti i miei rimpianti, la firma di tutte le mie colpe.

- Grazie Jeff! – sussurro al suo orecchio.

- Ancora non ci credo! – singhiozza, stringendomi ancora di più.

- È tutto vero Jeff. – gli dico.

Poi, il mio sguardo si perde sulla porta del backstage aperta sul palco. In prima fila, di spalle, una ragazza bionda. Vestito a fiori.

Jeff sta ancora singhiozzando.

Chiudo gli occhi, lo stringo più forte.

Riapro gli occhi.

Sparita, come un’allucinazione.

- Non può essere vero. – sussurra Jeff, staccandosi, tornando a guardarmi negli occhi.

- Lo è. – gli faccio, dandogli una pacca sul braccio. Sospiro, un sapore amaro in bocca.

È tutto vero, Jeff.

 

 

*

 

 

Memphis, 4 Giugno 1997

 

Impigliato tra i rami di un albero, gonfio dell’acqua sozza del Mississippi.

Non sembrava vero, eppure lo era.

Keith maledì la polizia arrivata troppo tardi, poi maledì se stesso per non avergli aperto gli occhi qualche notte prima, quando Jeff gli disse: “Fermati, voglio fare un bagno!”

Era la notte del 29 Maggio 1997.

Jeff Buckley moriva annegando tra le acque sozze del Mississippi.

Mentre entrava in acqua, cantava.

Una delle sue canzoni preferite.

 

 

 

Whole Lotta Love.
















Fine





Ogni capitolo (o quasi), la sua canzone ...

Mumford and Sons – After The Storm
Led Zeppelin - Houses Of Holy
Jeff Buckley - Grace
Jeff Buckley - So Real
Led Zeppelin - In The Light
Led Zeppelin - Fool In The Rain
Jeff Buckley - Lilac Wine
Ella Fitzgherald & Louis Armstrong - Stars Fells On Alabama
Led Zeppelin - The Rain Song
Jeff Buckley - Last Goodbye












Angolo della pazza:
Eccoci! ç__ç
Ok, è finita, bene o male.
Decidetelo voi, io ho fatto del mio meglio.
L'episodio riportato nell'epilogo è vero, ma non sono sicura sia successo in Australia, visto che Jimmy è andato più volte a vedere Jeff dal vivo.
A voi la parola, in ogni caso.
Io ho fatto un tentativo con questa storia. Spero sia andato bene. ^^
Ok, partiamo con i ringraziamenti!
Ringrazio Zelda. CaVa, hai letto questa storia con i miei occhi. Non ho altro da aggiungere, solo un grazie enorme.
Ringrazio Idra, Giorgia e Lucia. La storia è andata avanti anche grazie a voi ragazze. Spero leggerete questo straccetto di ringraziamento.
Ringrazio chi ha letto, preferito e anche chi non se l'è filata di pezza.
Ringrazio Ire (non rompere il cazzo in chat! ♥). Grazie sempre a te! Sei stata la promotrice di questa storia e ti ringrazierò sempre. Mi sostieni anche nelle peggiori delle mie idee, sei una favolosa compagna di scrittura. Grazie un mondo. E recupera presto la tua voglia di scrivere. Chi ti adora come autrice, io soprattutto, ha bisogno delle tue parole. ♥ Ti voglio bene.
Alla prossima,
Franny

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