The Wind is Crying. di DK in a Madow (/viewuser.php?uid=152458)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Can I take you, baby, to the show? ***
Capitolo 3: *** 2. It reminds me of the pain I might leave, leave behind. ***
Capitolo 4: *** 3. Grace ***
Capitolo 5: *** 4. And remember the smell of the fabric of your simple city dress. ***
Capitolo 6: *** 5. And if you feel that you can't go on... ***
Capitolo 7: *** 6. Well, there's a light in your eye that keeps shining. ***
Capitolo 8: *** 7. I lost myself on a cool damp night. ***
Capitolo 9: *** 8. Your eyes held a tender light and stars fell on Alabama last night. ***
Capitolo 10: *** 9. Nightmares ***
Capitolo 11: *** 10. Upon us all, a little rain must fall. ***
Capitolo 12: *** 11. Well, this is our last embrace, Must I dream and always see your face? ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
The Wind is
Crying
And there will come
a time, you'll see, with
no more tears.
And love will not break
your heart, but dismiss your fears.
Get over your hill and
see what you find there,
with grace in your heart
and flowers in your hair.
(Mumford and
Sons
– After The Storm)
Prologo
È finita.
Una guancia contro il
cielo, l’altra sull’asfalto. Intorno a me,
l’abbraccio gelido della pioggia, i miei indumenti candidi
ormai zuppi di
stelle nere e, finalmente, tutto finisce.
Il dolore. Le urla
deformi che abitano la mia mente. La musica.
L’angoscia.
Abbandono tutto
ciò e, per la prima volta in questa vita, sono felice.
Sorrido, sulla lingua il
sapore del mio stesso sangue, le ginocchia
doloranti dopo la caduta, i miei piedi che hanno abbandonato la
velocità della
corsa.
Non morirò,
forse. Dipende dalle auto che mi corrono a fianco limitandosi a
suonare impazzite, mentre aspetto che la più coraggiosa tra
loro mi schiacci
contro la strada, ma a quanto pare stanotte si sentono tutti un
po’ santi
nel lasciare un povero dannato disteso sotto la pioggia, al centro di
una
strada di New York, non sapendo che rimandare la sua anima al mittente
lo
renderebbe più euforico del sollevarsi da terra e mettersi
in salvo.
Poi, il mio nome vola
nell’aria, superando il rumore assordante del
traffico newyorkese, e mi ritrovo a chiudere gli occhi come se questo
bastasse
per non sentire più quelle cinque lettere rimbombarmi nel
petto. Ovviamente non
serve e quel suono torna a far vibrare il timpano coperto dai capelli
zuppi,
mentre mi ritrovo a stringermi in posizione fetale, arricciando le dita
dei
piedi nei mocassini freddi.
- Lasciatemi qui.
– sussurro, strascicando le parole, la guancia
dolorante per via del taglio causato dalla caduta –
Lasciatemi morire.
– ma non mi sentono, nessuno mi ha mai veramente ascoltato.
Si limitano
tutti a chiamarmi per nome, come a voler fare un appello per esser
certi che io
sia ancora vivo ed è proprio per questo che non rispondo.
Che mi credano morto,
io non mi muovo.
- Jimmy.
Ancora. Ma questa volta
è qualcun altro a chiamarmi. È la voce di chi mi
ha
portato ad abbracciare l’asfalto sperando di trovare le
briciole di una
vita che sia io, sia lei abbiamo perso. Mi porto le mani al petto,
chiuse a
pugno, e stringo le palpebre, sapendo che aprendole potrei scorgere i
suoi
lineamenti di fianco a me, i suoi occhi che mi scavano dentro con la
loro
malinconia.
- Lasciami dormire ancora
un po’. – dico con la bocca
impastata.
Un rumore,
all’altezza del mio viso. Sembrava una risata.
- Non ancora, Jimmy.
Svegliati.
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Capitolo 2 *** 1. Can I take you, baby, to the show? ***
1.
Can I take you, baby, to the show?
New York, 26 Luglio 1973
Apro gli occhi,
inspirando così forte da cacciar fuori uno sbadiglio. Mi
passo una mano tra i
capelli, soffermandomi sulla nuca tornata scoperta dopo anni passati
sotto una
nuvola corvina che non sopportavo più, le mie dita che
trovano un lieve sudore.
- Svegliati, Page, stiamo
per atterrare!
La voce di Peter rompe
l’aria come un tuono, facendomi sobbalzare, un colpo di tosse
che irruento mi
rimbomba nella gola.
- Cazzo. Volete abbassare
l’aria condizionata? – dico, alzandomi in piedi, un
brivido che attraversa la
mia schiena sudata facendomi imprecare sottovoce.
- Sei sempre il solito,
Jimmy. – afferma una voce all’improvviso
– Stai sempre a lamentarti.
- Parli facile, Plant! –
esclamo, superando i sedili di fianco al mio e raggiungendolo sul
corridoio –
Tu potresti camminare sul ghiaccio a petto nudo e non faresti uno
starnuto. Io
sono un po’ più … delicato. –
concludo con ironia, facendolo ridere.
- Delicato un cazzo,
Page. Sedetevi tutti che stiamo atterrando! – annuncia Peter
tornando dalla
cabina di controllo – E tu. – esclama puntandomi un
dito contro – Vedi di non
buscarti qualche malanno. Ho la sensazione che le cose non andranno
bene a New
York, quindi non ti ci mettere pure tu.
- Tranquillo Peter. –
dico, poggiando una mano sulla sua spalla – Nel caso mi
dovessi ammalare,
sicuramente sapresti trovarmi delle infermiere competenti, o sbaglio?
– aggiungo
ghignando, mentre Robert applaude in segno di approvazione.
- Tienitelo nei pantaloni
Page o a furia d’infilarlo ovunque te lo scordi tra le gambe
di qualcuna! –
tuona improvvisamente un’altra voce provocando le risate
dell’intero Starship.
- Buongiorno finezza,
Bonzo! – esclama un’altra somigliante ad uno
squittio.
- Menomale che ci sei tu,
Jonesy. – dice Peter lasciando una violenta pacca sulla
spalla del nostro
bassista facendolo barcollare – Mettili in riga e vedi di
farli sedere, o
appena l’aereo s’inclina li ritroviamo tutti sul
vetro della cabina di
controllo schiacciati come moscerini.
- E tu, mio caro Peter. –
inizia Robert, passandogli un braccio sulle spalle minuscole rispetto
all’enorme ventre che si ritrova Grant – Cerca di
non metterti sulla coda
dell’aereo, altrimenti lo sbilanci e non atterriamo
più! – esclama, facendo
diventare la faccia di Peter scarlatta.
- Ringrazia tutte quelle
ragazzine che ti guardano nei pantaloni e sganciano la grana per un
vostro
album. – sputa rabbioso – Altrimenti a
quest’ora rimarresti senza lavoro e
senza gioielli di famiglia, Plant. – conclude,
allontanandosi, mentre noi
continuiamo a ridere, Robert che cerca di chiedergli scusa, ma tra una
risata e
l’altra fallisce miseramente.
Venti minuti dopo,
finalmente, atterriamo, io che continuo a tossire contro
l’aria afosa e rovente
di New York, la mia camicia verde che mi si appiccica addosso per via
del
sudore, mentre a terra ci aspettano le nostre auto e quelle della
polizia,
Robert che mi segue nei sedili posteriori con la sua giacchetta avana
completamente sbottonata. Partiamo subito e venti minuti dopo siamo
all’entrata
posteriore del Madison Square Garden.
- Vestiti e strumenti
sono nei camerini, ragazzi. Diamoci una mossa! – esclama
Grant una volta scesi
dalle auto, facendo tintinnare i suoi anelli tra le mani enormi, mentre
il
braccio di Robert si fa strada sulle mie spalle e insieme ci dirigiamo
all’interno del palazzetto, noncuranti di fotografi, fan e
agenti della
polizia, tutti urlanti intorno a noi.
- Amo l’America. –
sussurra Robert una volta arrivati nel backstage, liberandosi subito
della
giacca per poi dirigersi in bagno, l’idea di chiudere la
porta che non lo
sfiora minimamente, mentre Jonesy e Bonzo ci raggiungono affannati,
quest’ultimo che, appena nota la figura di Robert nel bagno,
ne approfitta per
avvicinarlo silenziosamente. Veloce come un fulmine, gli tira un
calcetto sul
dietro delle ginocchia, facendolo piegare leggermente in avanti,
l’imprecazione
che arriva chiara e forte anche a me e Jonesy che scoppiamo a ridere.
- Fanculo, Bonzo! –
esclama Robert, guardandosi in basso – Guarda come mi hai
ridotto.
- Ma smettila di
lamentarti per un po’ d’acqua. – tuona
lui, uscendo dal bagno per poi
stravaccarsi su una panchina con una risata soddisfatta.
- Eh certo, parla quello
nascosto dietro una batteria …
Il battibecco continua,
le loro frasi che sfociano nel classico repertorio d’asilo,
mentre io e Jonesy
ci avviamo nei camerini, lasciando che i due idioti se la vedano da
soli e,
arrivati davanti alle nostre porte, John si lascia sfuggire un sospiro
sommesso. Credo non ci sia nemmeno bisogno di chiedergli
cos’abbia, è così
evidente, ma far finta di nulla sarebbe un gesto egoista.
- Ti mancano, vero? –
dico dolcemente, rivolgendogli un sorriso.
- Non puoi nemmeno
immaginare quanto. – sospira, mettendosi le mani sui fianchi
mentre il mio
pensiero va subito a Scarlet. L’ultima volta che
l’ho vista, circa tre mesi fa,
dormiva beata sotto le coperte lilla del suo lettino, il naso che
sporgeva dal
lenzuolo e la mia voglia mal frenata di stringerla forte, limitandomi a
un
bacio sulla sua fronte fresca, tenera d’innocenza, il suo
odore così simile al
mio.
- Scusami, Jim. – dice
Jonesy improvvisamente arricciando le labbra e mi accorgo di aver
cambiato umore,
lo sguardo perso altrove e la faccia del mio amico sinceramente
dispiaciuta.
- Tranquillo, John. –
dico, dandogli una pacca sulla spalla – Non me la sono presa.
- Meno male! – sorride
lui, grattandosi la testa.
- Dai, muoviamoci. – lo
incito, per poi aprire la porta del mio camerino – Prima che
arrivi Grant a
farci la predica.
E così, ridendo piano, ci
chiudiamo le porte alle spalle.
*
- New York! Goodnight!
E New York risponde con
un urlo al saluto di Robert e sento che sarà davvero una
buona notte per tutti
quanti, sia per loro sotto il palco, sia per noi che
l’abbiamo calcato, tutti
uniti nella stessa stanchezza ed estasi, la musica che continua a
rimbombare
nei timpani esattamente come il rullante di John che, nonostante non
stia
suonando più, continua a vibrare impercettibilmente. Felici
e tremendamente
sudati, scendiamo dal palco, io che mi passo una mano sul petto
accaldato,
Robert dietro di me che ha già iniziato a fare battute
idiote e io che ne rido.
Ormai sono in preda all’euforia nonostante le gambe tremanti
per la stanchezza,
così senza tanti preamboli raggiungo l’auto che
riporterà in albergo,
fiondandomi sul sedile posteriore con un verso di sollievo. Pochi
secondi dopo,
l’abitacolo s’illumina, il sorriso di Robert che si
accende contagiandoci
tutti, Peter compreso, che inizia a darci strette di mano e complimenti.
Tre giorni sono passati
in fretta e finalmente si torna a casa, lasciandoci alle spalle questi
tre mesi
passati a chiedermi continuamente dove cazzo fossi, la stanchezza, la
folla e
le loro urla. Credo che me le porterò nel cervello per tutta
la vita come un
disco in loop. A volte ho quasi paura di dimenticare ciò che
succede fuori dal
palco, che ogni cosa mi sfugga di mano e che ogni singolo gesto si stia
svolgendo in qualche posto remoto della mia mente, dove un burattinaio
immaginario riesce a muovere le fila contorte della mia vita. E poi i
sogni.
Sembra che nemmeno lì mi sia concesso un briciolo di pace e
lucidità, mentre
davanti ai miei occhi passano le immagini di terrore vissute sul Falcon
Jet, il
mio corpo che sobbalza sul sedile proprio come è successo un
mese fa e poi, ogni maledetta volta,
il sogno si
conclude col mio corpo abbandonato al centro della strada, morente e
bagnato
dalla pioggia.
- Jimmy? – la voce di
Robert mi riporta alla realtà e stancamente mi volto a
guardarlo – Jimmy, amico
mio, non è il momento di dormire. Siamo al Drake!
- Cosa? – chiedo con la
voce impastata dal sonno. Non mi ero nemmeno accorto di essermi
addormentato,
così mi stropiccio gli occhi focalizzando il volto di Robert
di fianco al mio,
la sua espressione stanca ma felice allo stesso tempo.
- Siamo in albergo,
compare! – esclama – Stiamo tornando a casa.
Istintivamente, gli
sorrido. Poi lo sportello posteriore si apre, la faccia di Peter che
scruta
dentro.
- Smettetela di fare le
checche voi due e datevi una mossa!
- Sembri geloso, Grant! –
risponde Robert prontamente e, una volta sceso dall’auto,
inizia ad infastidire
Peter imitando moine degne di donnicciole da quattro soldi. Senza che
se ne
accorgano, scendo dal lato opposto al loro, guardandomi in giro e
avvertendo un
morso di malinconia. In fondo, l’America mi
mancherà. Nonostante i clacson
assordanti e la puzza del fumo di scarico delle auto, i problemi e il
costante
senso di disorientamento, sentirò comunque uno spazio vuoto
all’altezza del
petto, anche se misero in confronto a quello lasciato dalla lontananza
da
Londra. Mi mancherà il cielo limpido del Texas e le notti
calde della Florida.
Mi mancherà il tramonto della California, vedere il sole
calare nel mare prima
del concerto col naso nascosto tra i capelli di lei, le lenzuola
stropicciate e
il loro profumo di bucato che si mescola coi nostri odori.
- Jimmy!
Un paio di braccia esili
e perfette si stringono attorno al mio collo, mentre avverto il calore
di un
seno accennato sulla mia schiena.
- Lori. – esclamo
staccando lo sguardo dalla strada per posarlo sui suoi occhi che
brillano
intensamente, la mia mano destra che si stringe attorno al suo braccio
– Non
dovresti comportarti così in strada, lo sai …
- … che se ci vedono
siamo fottuti. Sì, lo so. – risponde, con voce
acutissima, imitando quella di
una bambina – Ma non m’importa. –
aggiunge con fare impertinente.
- Oh, sì, tanto quello
che se ne va in gattabuia se lo beccano con una minorenne sono io. Che
t’importa. – dico, pizzicandole
l’avambraccio stretto ancora attorno il mio
collo, Robert e Peter che discutono ancora mentre aspettiamo
l’arrivo di Jonesy
e Bonzo rimasti indietro.
- Non sono così
insensibile.
- Oh, certo che non lo
sei. Lo so bene. – dico con fare malizioso, allungando il
collo per posarle un
bacio sulle labbra – Sei solo egoista, bambina impertinente.
– concludo severo,
la sua bocca che subito si spalanca per poter replicare, quando viene
interrotta
dal rumore sinistro e angosciante delle ruote che frenano bruscamente
sull’asfalto, seguite da un tonfo sordo, morbido, secco. Poi,
solo il suono di
qualcosa (o qualcuno) che striscia
lontano, un gemito debole, lieve. Mi volto di scatto verso la strada
sulla
quale ora sono puntati decine di occhi, compresi i nostri. Il tempo di
capire
di cosa si tratti e già le prime urla rompono il silenzio,
la prima quella di
un’autista fermo al centro della strada, il parabrezza della
sua auto
completamente crepato e sporco di sangue, le sue mani nei capelli
ispidi e gli
occhi sgranati contro una figura a pochi metri da noi.
L’urlo soffocato di Lori
mi riporta alla realtà e subito le porto una mano sugli
occhi e il volto contro
il mio petto, sperando che non abbia visto ciò a cui tutti
stanno assistendo
senza far nulla. Il corpo tremante, preso dagli spasmi, i lunghi
capelli biondi
impiastricciati di sangue, il volto sfigurato e il bacino rivolto su un
fianco,
evidentemente rotto. Nonostante il caldo asfissiante, un brivido mi
percorre la
spina dorsale, il sudore che torna a percorrermi le tempie come una
carezza
fredda che sa di morte. Mi sembra quasi di sentirne i passi mentre
avvicina
l’esile stelo tremante sull’asfalto, le braccia
spalancate contro il cielo come
ali di un angelo caduto, il suo petto che, ogni secondo che passa,
trova
l’immobilità dopo un ultimo sussulto.
- Merda! – sento
sussurrare al mio fianco, le mie braccia strette attorno alle spalle di
Lori.
Quando mi volto, trovo l’espressione sconvolta di Bonzo,
Jonesy di fianco a lui
che guarda la strada con aria sofferta, le mani sui fianchi, mentre
poco
lontani da noi, Grant ha passato un braccio attorno alle spalle di
Robert che,
silenziosamente e senza aggrottare il viso, piange. E mentre il suono
dell’ambulanza rompe il silenzio, mi obbligo a guardare il
cielo ormai buio
sotto il manto della notte, ricacciando indietro le lacrime che
spingono tra le
ciglia. Non un bagliore, nessun segno, solo un grande buco nero sopra
le nostre
teste.
Il cielo delle città non
ha stelle.
*
- Peter?
Questo si volta con fare
omicida, la mascella che sporge in avanti sotto la barba nera, la
guancia
poggiata sulla mano, il gomito puntellato sul bracciolo
dell’ultimo sedile in
fondo all’aereo.
- Vedi di sparire,
Richard. – sputa freddo.
E questo se ne va, senza
obiettare, sconfortato. È da ieri che tenta di parlare con
Grant, ma questo,
dopo il fattaccio del furto all’hotel, si rifiuta di
parlargli.
Il silenzio è calato
nello Starship, interrotto solo dal lieve russare di Robert seduto
dietro di
me, mentre sulla fila parallela alla mia, oltre il corridoio, Bonzo
è intento a
montare un piccolo camion giocattolo comprato apposta per Jason, mentre
Jonesy,
dopo aver impacchettato la bambola che ho comprato
per la mia Scarlet, si è immerso nella
lettura di Jake e il fagiolo magico,
intento a trovare il modo perfetto per leggerlo alle sue piccole quando
tornerà
nel Sussex.
La testa sulle mie gambe,
Lori dorme tranquilla, una sua mano poggiata sul ginocchio, le sue
gambe
raccolte sul suo sedile di fianco al mio. Sotto di noi,
l’Atlantico ci porta a
Londra. Distolgo lo sguardo, non riesco a guardarla. Ho quasi paura di
guardarmi le gambe e trovare il suo cranio costellato di sangue,
l’immagine di
quell’incidente che ritorna alla mia mente come il peggiore
degli incubi,
tant’è che ho paura di addormentarmi e dover
rivivere tutto ancora una volta.
Mi porto una mano sulle labbra, controllando una leggera nausea,
cercando di
equilibrare il mio respiro.
Stai tornando a casa, mi ripeto.
Stai tornando a casa. Al sicuro. Non avere paura.
Angolo
della pazza:
Eccomi! ^^
Ehm, eccoci al primo capitolo.
Come si sarà capito, questa è una storia che si
svolge più dentro Jimmy che fuori. E' un tentativo di
narrazione introspettiva che vorrei diventasse estrema, sperando che
funzioni.
Non voglio dire molto su questo capitolo, vorrei lasciarvi viaggiare
con la fantasia.
Ci si legge al prossimo capitolo.
Un abbraccio,
Franny
|
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Capitolo 3 *** 2. It reminds me of the pain I might leave, leave behind. ***
2.
It reminds me of the pain I might leave, leave behind.
Dallas, 1 Aprile 1977
Di nuovo l’America e
bentornata vita da nomade.
Potrei dire di sentirmi
già stanco, voglioso di tornare indietro, ma non lo faccio,
come da contratto.
Così mi limito a scuotere violentemente la testa sotto il
getto d’acqua della
doccia, mille gocce che vanno ad infrangersi sui vetri, i miei pugni
chiusi
sulle orrende mattonelle a scacchi del bagno dell’hotel. Ho
la sensazione di
andare a fuoco e non è solo per l’acqua calda, le
palpebre che si stringono
sotto la voglia di esplodere, la confusione che affolla la mia mente. I
minuti
passano così velocemente da sembrare secondi e, dopo un
po’ (chissà quanto),
riapro gli occhi, puntandoli sul mio corpo nudo. Le gambe tremano,
esili come
fili di seta, e il ventre è scosso dai respiri, sempre
più piatto, così sottile
da scoprirne anche le ultime paia di costole. Osservo la mia
trasformazione
come se stessi negli occhi di un altro, estraniato, indifferente,
così privo
d’amor proprio da potermi buttare via senza tante esitazioni.
- Bene. – sospiro,
richiudendo l’acqua e gettandomi addosso
l’accappatoio, mentre s’infonde in me
uno strano senso di pace, una leggerezza così profonda da
sembrare quasi vera,
naturale, salutare. È un’illusione così
ben costruita da poterci vivere dentro.
- Page!
La voce di Peter,
dall’altra parte della porta, mi fa sobbalzare,
l’accappatoio che mi scivola di
dosso, troppo largo per potersi sorreggere sulle spalle minute.
- Cristo, datti una
mossa, tra mezz’ora dobbiamo essere all’Auditorium!
– urla tutto d’un fiato.
- Ok! – dico con voce
piccola, apatica, cercando di raccogliere l’accappatoio e
asciugandomi. Quando
anche la giacchetta bianca della mia dragon suite è al suo
posto e l’ultimo dei
riccioli è asciutto, mi
butto nel
corridoio dell’hotel, trascinando i piedi e indossando un
paio di occhiali da
sole per nascondere le occhiaie fin troppo evidenti.
- Hey, Jimmy!
Quando mi sento chiamare,
alle mie spalle incontro un sorriso bonario, genuino, che sporge dai
baffi
folti. Accanto a lui, un sorriso diverso, accennato, per non dire
forzato.
- John, Jonesy! – li
saluto, ritrovandomi il braccio di Bonzo attorno alle spalle
– Pronti?
- Noi siamo sempre
pronti, Jim! – esclama Bonzo, petto in fuori e sguardo fiero.
- E Robert? – chiedo,
guardandomi intorno.
- È di sotto, ci sta
aspettando. – sussurra Jonesy, così piano che devo
piegarmi in avanti per
sentirlo.
- Ok, scendiamo allora. –
esclamo e cinque minuti dopo siamo in reception, Robert che, di spalle,
parla
al telefono con una mano su un fianco.
- E mi raccomando … - sta
dicendo – Non fare arrabbiare la mamma. Sei tu
l’uomo di casa quando io sono
via! – esclama dolcemente mentre lo avviciniamo e
così vedo i suoi occhi
brillare di luce propria, quasi avesse Karac lì di fronte a
lui. Ogni tanto
dimentico. Scordo che siamo padri e mariti, oltre ad artisti e
traditori nati.
A volte dimentico che c’è una vita oltre le corde
della mia chitarra, che c’è
una realtà oltre le fantasie dell’eroina. Ci sono
momenti in cui ho paura di
dimenticare davvero tutto, specialmente quando chiudo gli occhi
pensando a
Scarlet e mi accorgo che non ricordo nemmeno il suo volto.
Quando Robert riattacca e
si volta verso di noi col più raggiante dei sorrisi, ci
trasciniamo fuori
dall’hotel, in direzione delle auto. Quando sono sul sedile
posteriore, per
abitudine, mi volto verso lo sportello aspettando che entri Robert;
invece, al
posto suo, sono Richard e Bonzo ad entrare, mentre dallo specchietto
retrovisore scorgo Robert, Jonesy e Peter che si avvicinano
all’auto alle mie
spalle. Da quando siamo partiti per Dallas, sembra quasi che il Dio
Dorato
voglia allontanarmi e con un moto di rabbia mi chiedo se tutto
ciò è per
impedire che le mie ombre oscurino la sua luce, se sia possibile che
quello che
consideri il mio migliore amico mi stia facendo questo. Inspiro
lentamente,
mentre un piccolo crampo inizia a torturarmi lo stomaco e non certo per
la
fame, l’auto che si accende e si avvia verso
l’Auditorium, mentre Richard e
Bonzo scherzano spensierati.
Fuori dal finestrino, le strade
di Dallas sembrano tutte uguali come lapidi di cimitero, il fantasma di
Kennedy
che sembra aleggiare tra la gente insieme all’eco degli spari
che l’hanno
portato via.
- Matt, rallenta! –
esclama improvvisamente Richard rivolto all’autista, intento
a guardare la
strada fuori dal cruscotto – Questa è Greenville Avenue!
- Intendi … - cerca di
dire Bonzo, ma viene interrotto subito da Cole.
- Guarda con i tuoi
occhi, amico! – esclama, indicando le ragazze sui marciapiedi
che osservano le
nostre auto sfilare tra di loro con sguardi famelici, Bonzo che ha
già
abbassato il finestrino e si sporge fischiando. Dietro di noi, Robert
ha fatto
la medesima cosa. Quando le ragazze si avvicinano, ormai le auto si
fermano,
mentre una serie di bocche, seni e occhi di tutte le forme e colori, si
sporgono vicino ai finestrini, quasi fossero banconi pieni di carne a
buon
mercato. Riluttante, nascondo gli occhi sotto le palpebre, le lenti
degli
occhiali da sole che aiutano a rifugiarmi.
- Jimmy, Cristo santo,
abbassa questo finestrino. – esclama Richard, afferrando la
manopola e
abbassando il vetro, lasciando spazio a un terzetto di voci stridule
che
iniziano a foderare il peggiore dei repertori da puttanelle da quattro
soldi,
quando una di loro, la più audacemente stupida, trascina la
sua chioma rosso
fuoco dentro l’abitacolo.
- Hey, ma tu sei Jimmy. –
inizia a sussurrare
a pochi centimetri
dal mio viso, i miei occhi ridotti a fessure che guardano un punto
impreciso
dell’abitacolo.
- Ma il vostro
chitarrista ha perso la lingua? – chiede, rivolgendosi a Richard.
- Prova a vedere,
dolcezza! – esclama lui, dandomi una gomitata. Senza farselo
ripetere, le sue
labbra rosse si poggiano sulle mie muovendosi esperte, cercando una mia
risposta che però non arriva, forzandomi ad aprire le labbra
con la sua lingua,
la mia che rimane muta alla richiesta d’intrecciarsi con la
sua. Esasperata la
sento sospirare seccata, la sua mano che piano si arrampica sulla mia
gamba
fasciata di bianco e raggiunge il cavallo dei pantaloni, dove niente si
è
mosso.
- Vai piccola! – incita
Richard, Bonzo che invece continua a parlare con altre ragazze dal suo
lato –
Carica il nostro Jimmy.
E lei non se lo lascia
ripetere, portando immediatamente la mano sulla zip dei pantaloni. Ed
è qui che
raggiungo il limite, una rabbia incommensurabile che furioso mi fa
stringere
una mano sul suo polso, stringendolo dolorosamente e girandolo da un
lato,
mentre i miei denti si sono stretti sul labbro inferiore di lei
violenti e
decisi, il sapore rugginoso del sangue che raggiunge la mia lingua.
Impaurita,
prende ad urlare, dimenandosi, cercando di chiedere aiuto.
- Jimmy, lasciala, che
cazzo stai facendo? – urla Richard, Bonzo che si volta a
guardare e subito mi
afferra la mano, liberando il polso di lei che ormai ha iniziato a
piangere.
Così come è arrivata, la rabbia scompare, io che
abbandono le sue labbra e
ripulisco le mie col dorso della mano, mentre lei scompare dietro uno
dei tanti
bar del viale piangendo sconvolta.
- Si può sapere cosa
diavolo ti prende, eh Page? – chiede Cole furioso,
afferrandomi per la
giacchetta e togliendomi gli occhiali da sole, scrutando il mio sguardo
in
cerca di un segno. E lo trova, insieme a Bonzo.
- Cristo santo, Jimmy!
Ancora quella merda! – urla, Richard che preferisce
distogliere lo sguardo, io
che non riesco a guardare in faccia John – Rispondi almeno!
- Lascialo stare, John. –
interviene Richard all’improvviso, poggiandogli una mano sul
petto, l’auto che
riparte – Avete un concerto. Pensateci dopo, ok?
No. Niente è ok. Torno a
nascondermi dietro gli occhiali da sole, l’aria fredda che
è calata
nell’abitacolo è qualcosa di pauroso, che
preannuncia parole non dette e troppe
sputate per farsi male. Ma non posso impedirlo, non ora. Non ci riesco
o, molto
probabilmente, non voglio. Guidato dall’istinto ho perso la
strada che
percorrevo al fianco dei miei compagni, così convinto
d’essere invincibile da
risultare perdente.
Dopo mezz’ora di viaggio,
l’Auditorium si staglia davanti a noi, io che scendo veloce
dall’auto in cerca
dei camerini, così vigliacco da volermi nascondere invece di
affrontare gli
altri, quando, all’improvviso, una mano mi ferma, poggiandosi
sulla spalla.
- Robert! – esclamo,
voltandomi spaventato.
Non risponde, la sua
mascella che scatta pericolosamente in avanti, prima di afferrare
entrambe le
mie spalle, sbattendomi contro il muro.
- Ancora! – sussurra – Ancora! – questa volta
è un urlo che
rimbomba dentro il corridoio dei camerini, gli altri che rimangono
fermi sulle
porte, guardandoci preoccupati.
- Robert, io posso …
- No, tu non
puoi! – sputa velenoso – Tu non puoi
mandare tutto a puttane! Tu non puoi trascinarci all’inferno
con te, chiaro?
Rabbrividisco, non tanto
per le sue parole, quanto per la luce nei suoi occhi. Quello che ho di
fronte
non è più il giovane Robert spensierato e
ingenuo, ma un uomo che ha iniziato a
capire quanto sia difficile la vita, negli occhi la paura di un domani
che
forse non vede luminoso come un tempo. Rabbrividisco perché
nei suoi occhi vedo
lo specchio di me stesso.
- Resta con noi, Jimmy! –
sussurra poi, quasi implorandomi mentre gli altri si chiudono nei loro
camerini
– Non ho nessuna voglia di farti del male, ma tu cerca di non
farne a noi, te
ne prego.
E così dicendo si stacca
da me, scomparendo dietro la sua porta.
*
Non sembra vero. È tutto
perfetto.
Le luci, il suono, la
folla eccitata sotto di noi. I problemi di due ore fa sembrano
scomparsi,
andati via insieme all’ansia e la tensione, Robert che mi si
avvicina, prende
il palco e lo divide con me e insieme portiamo le persone alle porte
del
paradiso. Stairway si sprigiona
nell’aria e mi ritorna addosso, carezzando dolcemente le mie
ombre e
portandosele via, lasciandomi sereno, le mie dita che si muovono decise
accompagnate dalla delicatezza di Jonesy. E così i minuti
passano veloci e
anche Bonzo si aggiunge, come a volerci prendere tutti per mano e
accompagnarci
verso l’estasi finale della canzone.
Finalmente credo di
sentirmi bene, leggero, così lieve da perdermi nella musica
quando, in mezzo
alle voci che cantano insieme a Robert, ne sento una, chiara e forte,
appena di
fronte a me, che grida il mio nome. D’istinto, apro gli occhi
ma troppo tardi
per cogliere la fonte di questa voce. Noncurante, continuo a suonare
abbassando
lo sguardo, giusto in tempo per vedere cadere, tra i vari fiori,
biglietti e
regali lanciati sul palco, una rosa bianca, l’unica tra
quelle rosse già
lanciate dalle prime file.
- Jimmy!
Di nuovo. E questa volta
la vedo, esattamente in prima fila, un sorriso luminoso per farsi
riconoscere,
le guance rosee quanto le labbra, gli occhi blu come il cielo sopra il
paradiso. Poi le luci si abbassano e lasciano cadere di nuovo
l’oscurità sul
pubblico, io che non perdo una nota nonostante tutto, dando inizio
all’assolo e
conquistando il centro del palco. Nascosto dietro i capelli, cerco
nuovamente
il suo volto, ma senza successo, e anche quando torno a guardare il
punto in
cui è caduta la rosa bianca, al suo posto trovo uno spazio
vuoto. Stringo le
labbra, infastidito, e scuoto la testa come a volermi dare una
svegliata. Ci
mancavano le allucinazioni, ora. Una morsa allo stomaco si fa sentire
chiara
mentre inizio a sudare freddo, la canzone che volge alla fine e Robert
che
riconquista il centro. Da qui, il resto è tutto normale,
niente più
allucinazioni fino alla fine del concerto. Almeno credo.
- Sono qui Jimmy! – sento
esclamare e nuovamente mi volto verso il pubblico. Eccola
lì, ancora, la sua
mano che si solleva verso il cielo con un cenno di saluto.
Istintivamente,
ricambio e questa volta le rivolgo anche io un sorriso, sollevato
più dal fatto
di sapere che non si trattava di un’allucinazione, piuttosto
che di rivederla.
Risollevato, scendo dal palco insieme agli altri, Robert che
sorprendentemente
mi cinge le spalle con un braccio, sorridendomi teneramente.
- Bravo! – esclama per
poi allontanarsi, diretto verso Audrey che lo aspetta raggiante, mentre
con lo
sguardo io cerco Richard.
- Audrey! – esclamo,
distogliendo l’attenzione di questa dalle labbra di Robert
– Hai visto Cole?
- È di là! –
esclama,
indicando l’uscita dell’Auditorium con un pollice,
per poi tornare ad occuparsi
di Robert. Veloce, raggiungo il punto indicato e subito
m’imbatto in Richard,
già mezzo ubriaco.
- Cole!
- Dimmi JimJam! – esclama
strascicando le parole.
- C’è una in prima fila
che …
- Ho capito. Dimmi com’è.
– dice, lasciandomi una generosa pacca su una spalla, la
puzza di birra che
abbandona le sue labbra.
- Tu chiedile se ha
lanciato una rosa bianca sul palco e poi portamela qui. –
dico freddo.
- Ma che cazzo stai a
dire? – chiede, barcollando – Dimmi il colore dei
capelli almeno.
- Non lo so Richard, non
si vedeva bene con le luci. – dico seccato – Me la
vai a prendere o no?
- Agli ordini, capo! – e
così dicendo scompare alle mie spalle diretto verso il
palco, Jonesy che mi
passa accanto, diretto ai camerini, senza degnarmi di uno sguardo,
mentre Bonzo
ha iniziato a bere insieme a Peter e ai roadies. È
incredibile. Fino a qualche
minuto fa eravamo lassù, uniti dalla musica e ci
s’incontrava negli occhi con
l’intesa di sempre. Poi si scende dal palco, le luci si
spengono e la magia
scompare, si ritorna soli, ognuno sulla propria strada. Mi chiedo se
davvero la
causa di tutto ciò sono solo io, se davvero le nostre vite
sono così legate da
poter essere spezzate insieme alla prima difficoltà, o se
è solo una scusa per
non dover ammettere che è il troppo successo che ci ha
portati qui, a stare
nella stessa stanza ed essere lontani chilometri.
Dopo pochi minuti,
Richard è di ritorno, rosso in volto per la corsa e
l’alcool.
- Niente amico. – mi dice,
sconfortato – A quanto pare è andata via.
- Merda … - sussurro,
quella morsa allo stomaco che si ripresenta fastidiosamente dolorosa.
- Però. – aggiunge,
allungandomi qualcosa – Questa era ancora sul palco.
Una rosa bianca.
E dalle mie labbra sfugge
un sospiro di sollievo, mentre l’afferro delicatamente,
l’altra mano che fruga
nel taschino della giacchetta in cerca delle sigarette.
- Io me ne torno in
albergo. – dico a Richard che annuisce senza obiettare
– Ho bisogno di dormire.
– aggiungo, portandomi una sigaretta alla bocca e
accendendola, facendo poi per
andarmene, quando la voce di Robert mi blocca.
- Jimmy!
- Sì? – chiedo aggrottando
la fronte, una nuvola di fumo che mi copre la faccia.
- Non fare cazzate! –
esclama serio, la voce roca e stanca, i suoi occhi che, preoccupati, mi
fissano
insieme a quelli di Audrey seduta sulle sue gambe.
- Promesso! – dico,
alzando la mano destra e senza aggiungere altro, torno in macchina.
- Cristo, Matt! –
esclamo, stringendomi il collo della giacca attorno al petto
– Abbassa l’aria
condizionata.
- Oh, scusa Jim! – dice dispiaciuto
– Dove ti porto?
- Voglio tornare in
albergo. – sussurro stringendo i denti.
Quando l’auto è partita e
l’aria è tornata calda, mi ritrovo a sfilare tra i
miei stessi fan, incoscienti
del fatto che mi trovo in mezzo a loro e, come incantato, mi ritrovo a
sorridere, vedendo le loro facce estasiate e i loro corpi che brillano
di
sudore, gli occhi pieni di adrenalina. Poi, improvvisamente, sono
costretto ad
incollarmi al finestrino. Pochi metri più in là,
vestito a fiori azzurri e
capelli color grano, lei è lì, in piedi vicino
all’uscita principale dell’Auditorium,
che guarda in direzione dell’auto.
- Frena Matt! – esclamo voltandomi
e lui inchioda bruscamente. Entusiasta mi volto di nuovo a guardare ma
è
sparita di nuovo. Guardo nella folla, in cerca dei fiordalisi che
decorano il
suo vestito candido, ma lei non c’è, nemmeno
l’ombra.
- Che faccio Jim? –
chiede Matt guardandomi perplesso dallo specchietto retrovisore.
- Andiamo. – dico,
buttandomi contro lo schienale e chiudendo gli occhi, il cuore a mille
mentre
porto la rosa vicino al naso, annusandone il profumo delicato,
così sottile da
poter sparire se s’inspira troppo forte. Come lei. Da quando
mi ha chiamato dal
palco non faccio altro che rincorrerla e ogni volta è
scomparsa nel nulla.
Eppure è come le altre, niente di speciale se non fosse per
quegli occhi così
intensi, ma è destino che io non la incontri e forse
è meglio così. Domani
lascerò Dallas e la voglia d’iniziare una storia
con qualcuno è pari a quella
che hanno gli altri di stare con me. Così, do
l’ultimo tiro alla mia sigaretta,
scacciando via il pensiero di lei insieme al fumo, le palpebre che
già si
chiudono dalla stanchezza e, senza nemmeno accorgermene, cado in un sonno profondo.
Angolo della pazza:
Saaaalve! ^^
Bene, ecco il secondo capitolo ed è da qui che
inizierà la vera storia.
Alloooora, per quanto riguarda la scena della prostituta, vi chiedo di
perdonarmi nel caso risulti un po' "cruda", ma col passare dei capitoli
capirete perché ci saranno altri "segnali" del genere.
Non voglio dire nulla nemmeno su questo capitolo perché non
voglio poi rivelare cose che accadranno nei prossimi, visto che quando
mi metto a parlare faccio spoiler a tutta forza! ^^'
Quindi, niente, spero vi sia piaciuto.
Ci si becca al prossimo, sperando che l'ispirazione arrivi un po'
più presto.
Un abbraccio,
Franny
|
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Capitolo 4 *** 3. Grace ***
- You
didn't have to make me a total disgrace, you didn't have to leave me
with that
beer in my face.
Qui, sul palco di
Chicago, ho le sembianze di un’ombra. Seduto su uno sgabello,
abbandono sospiri
di fumo e nicotina sul mio volto sudato, la mano sinistra che si
stringe
attorno al manico della chitarra. Di fronte ai miei occhi si staglia un
mare di
facce che sembrano tutte uguali come il vociare che circonda
l’unica, vera
voce, quella inconfondibile di Robert, che vibra nell’aria
come ali di colomba.
A occhi chiusi, cerco con
le dita gli accordi che la memoria mi suggerisce, lo spettacolo che
continua
sul suo filo di perfezione fino alla fine di questa prima serata. Tre
giorni a
Chicago, sessantadue ore che vorrei passassero in un battito di ciglia
e i miei
denti che stringono nervosamente il filtro della sigaretta.
Con mia grande
meraviglia, sembra che le cose stiano andando un po’ meglio,
nonostante io
continui ad aggrapparmi, debole, al pendio della vita. Nonostante
questo,
Robert mi sorride, ogni tanto mi passa un braccio attorno alle spalle,
John che
invece riesce a sollevarmi con un dito. Jonesy mi scansa, con una
smorfia di
paura mista a ribrezzo. Anche ora, sull’ultimo pezzo, cerco i
suoi occhi come
la mia chitarra chiede ritmo al suo basso, ma non li trovo, nascosti
come sono
dalle sue ciglia, le sue labbra strette che da tempo non sorridono
più.
Sconfitto, torno a guardare il pubblico, chiedendomi se ce la
farò domani a
stare di nuovo qui e anche il giorno dopo ancora, quando i miei occhi,
spiando
dietro un folto sipario di capelli, sono costretti a sgranarsi,
increduli.
Ancora quel volto.
Ancora quegli occhi.
Ancora quell’espressione
di richiamo che mi rivolge con le sue gote sollevate in un sorriso e
che
credevo di aver lasciato dentro i confini di Dallas, fuori dalla mia
mente e
dalle mie preoccupazioni. Eccola lì, invece, come un iris
tra i papaveri, così
reale che stavolta non può scappare. Quando termina il
concerto e le luci si
spengono, lei è ancora lì, in seconda fila, i
suoi occhi che cercano i miei.
Senza perdere tempo, le faccio un segno col palmo della mano rivolto
verso di
lei, mimando un “aspetta” con le labbra. Lei,
sorpresa, annuisce, le altre
intorno a lei che mi scagliano i loro ammiccamenti quasi ce
l’avessi con loro,
ma mentre scendo dalle scale del palco è solo
lei quella a cui faccio cenno con la testa di avviarsi verso
i camerini. E
la sua testa mi dona un altro sì. E così, entro
nel backstage, lei che scompare
nella folla, mentre mi pervade la certezza che questa volta non
potrà
sfuggirmi.
*
I miei passi riecheggiano
nel backstage ormai vuoto, da lontano il rumore delle donne delle
pulizie che
preparano tutto per dare una pulita a questo posto, mentre io ho
lasciato che
gli altri mi precedessero in hotel, rimanendo in compagnia di
un’attesa ormai
protrattasi fin troppo a lungo. Spazientito, abbandono il palazzetto,
le mie
labbra che si chiudono attorno all’ennesima sigaretta, negli
occhi aloni gialli
che potrebbero somigliare a lampioni che bruciano contro un cielo di un
nero
sbiadito, nell’aria il profumo di pioggia che si mescola con
la puzza di fogna
e catrame. Dalla bocca lascio andare anelli di fumo sopra la mia testa,
i miei
passi che graffiano sulla ghiaia come lo sconforto sul fondo dello
stomaco,
anche se, a dire il vero, sembra più una richiesta di
svuotarsi in un conato di
vomito, mentre le mie palpebre si fanno pesanti dal sonno.
- Jimmy!
I miei passi si bloccano
e per un momento anche il respiro sembra fermarsi. Con uno scatto mi
volto alle
mie spalle, ma subito mi ritrovo a dover stringere i denti mentre un
crampo mi
morde un polpaccio, famelico.
- Sei qui. – dico,
togliendo la sigaretta dalle labbra, in un tono che non fa trasparire
traccia
alcuna del dolore allucinante che mi sta torturando – Credevo
fossi scappata,
come l’altra volta.
- Stai bene? – mi chiede,
ignorando la mia affermazione e abbandonando la parete sulla quale
aveva
appoggiato la schiena, apparendo sotto la luce fioca del neon che
sovrasta l’uscita.
Per un momento, sento lo stomaco muoversi di nuovo; sotto il freddo
colore
artificiale, il suo volto m’era parso per uno momento un
teschio, qualcosa di
molto vicino a un incubo. Poi si avvicina a me, lasciando la distanza
di
qualche metro, e finalmente rivedo le graziose guance che, questa
volta, non
permettono alle labbra di aprirsi in un sorriso, bensì a una
smorfia di
preoccupazione che, dopo questi momenti di esitazione, mi fanno
rispondere alla
sua domanda.
- Sì. Sto bene. – mento
–
Ma che fai, ci segui?
- Perché parli al
plurale? – chiede, corrucciando le perfette sopracciglia
disegnate sopra gli
occhi blu che brillano come zaffiri.
- Qui le domande le
faccio io, carina. – dico, tentando di avvicinarmi, ma subito
fa un passo
indietro, la faccia che subito fa trasparire un moto di paura
– Che c’è adesso?
Fai pure la schizzinosa? – chiedo infastidito, mentre lei
scuote la testa in un
“no” – E comunque, se non te ne sei
accorta, sono in una band, piccola ingenua.
– aggiungo, tentando di nuovo di avvicinarmi e questa volta
rimane ferma, il
suo petto stranamente fermo, come se stesse trattenendo il respiro
– O era un
modo carino per dire che hai solo occhi per me? – concludo,
portando la
sigaretta di nuovo tra le mie labbra, i miei di occhi che non
abbandonerebbero
i suoi nemmeno per un secondo.
- So … - balbetta,
guardandomi in un modo strano, così impenetrabile da non
poterne capire le
sfumature - … chi sei.
– conclude,
spalancando gli occhi, quasi sfidandomi, io che mi lascio scappare una
risata
che somiglia più a un ringhio per via del dolore alla gamba
diventato ormai
allucinante.
- Nessuno sa chi sono
veramente. – annuncio, sollevando il mento all’aria
per lasciare l’ennesima
boccata di fumo.
- Già. – annuisce seria
–
Nemmeno tu.
Cosa?
I miei occhi si
trasformano in fessure di fronte alle sue labbra socchiuse in un
cerchio.
- Prego? – chiedo,
avvicinandomi pericolosamente a lei che, come mossa da uno stupido e
strano
coraggio, rimane al suo posto, perfettamente immobile sotto la chioma
bionda
che le copre le spalle.
- Se credi di sapere chi
sei, sappi che stai solo mentendo a te stesso. – afferma, con
una sicurezza che
in me fa scorrere solo un fiume di dubbi, la sua voce così
profonda e chiara che
sembra non disperdersi nell’aria notturna, così
limpida che sembra attraversare
un microfono.
- Ah sì? – chiedo,
ostentando una sicurezza che non posseggo solo per non mostrarmi vile
di fronte
alla sua sfacciataggine – Ma tu chi sei?
Abbassa la testa, come
presa alla sprovvista, le sue mani che afferrano la gonna del vestito
stringendola nervosamente. Poi i suoi occhi tornano sui miei,
così vivi, così
irreali.
- Grace. – risponde in un
soffio.
Accenno a un sorriso
senza denti, le labbra serrate che danno forma ad un ghigno.
- Strano. – dico, dando
un tiro alla mia sigaretta – Da come parli si direbbe il
contrario.
Stupita, spalanca la
bocca, in un’espressione che nemmeno tenta di mascherare la
sua delusione, ma
che anzi l’accentua con una smorfia, come se
l’avessi presa in faccia con uno
schiaffo. Quasi mi fa tenerezza, così pallida e ferita da
sembrare una bambina
che ha smesso di credere alle favole.
- Scusami. – sussurro,
gettando il mozzicone a terra e passandomi una mano tra i capelli
– Non volevo
offenderti. – balbetto, incapace di guardarla negli occhi.
Quando poi ci riesco
il suo volto sembra di pietra, così freddo e inespressivo da
fare impressione –
Ricominciamo tutto da capo, ok? – chiedo, quasi volendo
sdrammatizzare, ma non
sono bravo in queste cose – Io sono Jimmy, ma tu lo sai
meglio di me, no? –
faccio ironico, porgendole una mano.
Sorride, sia ringraziato
il cielo. Mi piace quando lo fa.
Timidamente allunga una
mano, quasi entusiasta di poter raggiungere la mia, ma poi sembra
turbata, il
suo volto che improvvisamente s’incupisce, sfumato di
malinconia e
frustrazione. Così come l’aveva avvicinata, fa
sparire la sua mano dietro la
schiena, le sue spalle minute che iniziano a tremare.
- Devo andare.
- Cosa? – chiedo
sconvolto – Dove? Perché?
- Ho … - dice, come
impreparata davanti alla domanda e in cerca di una bugia ben detta
– Ho un
impegno, me l’ero scordato. Perdonami. – e
così dicendo fa per allontanarsi,
per poi fermarsi subito – Ci vediamo domani! –
esclama, salutandomi con la
stessa mano che mi ha negato, i tacchi delle sue scarpette che battono
sull’asfalto. Confuso, chiudo gli occhi, grattandomi la testa
cercando di farle
venire un’idea abbastanza buona per fermare Grace, ma tutto
ciò che riesco a
formulare è un: - Aspetta! – ma quando torno a
guardare la strada di fronte a
me, questa è vuota, percorsa solo da grosse ombre di alberi
non ancora in
fiore.
Sparita, inghiottita
dalla notte.
Grace.
Il suo nome continua a
vorticare tra le pareti della mia mente come una litania ripetuta
all’infinito,
la mia lingua che vibra contro il mio palato per poi sibilare piano tra
i
denti, in un sussurro simile alle foglie sfiorate dalla brezza
notturna. Quel
domani sembra già troppo lontano con l’impazienza
che monta nel mio petto.
Stupida ragazzetta che
se ne va in giro
con gonne voluminose. Vieni a turbare la quiete di un uomo che vuol
solo
suonare in santa pace, seguendolo in ogni passo che fa, e poi sparisci,
come
inghiottita dalla notte, quando le mie dita erano a un tocco dalla tua
pelle.
- Fanculo. – sussurro, gettando
nervosamente il mozzicone che raggiunge la ghiaia, il crampo alla gamba
che
sembra svanito del tutto come anche il mal di stomaco, mentre una
strana
sonnolenza mi tira giù le palpebre. A polmoni aperti, mi
lascio scappare uno sbadiglio,
prima di incamminarmi verso il parcheggio in cerca di Matt e
l’auto, ma più
cammino, più le ginocchia sembrano volersi piegare, gli
occhi che ormai si
chiudono da soli, lasciandomi solo una fessura aperta sul mondo che,
dopo
secondi, mi chiude in una scatola buia.
*
- Jimmy?
Provo a dire qualcosa
come “ancora cinque minuti”, ma dalla mia gola esce
fuori solo un gracchiare
indefinito.
- Jimmy, apri gli occhi!
Robert. La sua voce. La riconoscerei tra mille. Anche di
più.
Lo sforzo che impiego per
sollevare le palpebre è immane, ma è ancora
più difficile abituarmi alla tenue
luce calda che illumina il mio campo visivo, poiché gli
occhi si rifiutano
categoricamente di restare aperti, ancora troppo intrappolati tra sogno
e
realtà. Così, provo a farmi sentire, ma della
parola “Percy”, solo le
consonanti strascicate riescono a sorpassare la soglia secca e
inaridita delle
mie labbra.
Strano. Sembravano petali
di rosa, tempo fa.
- Come ti senti? Stai
bene?
La sento, la
preoccupazione nella sua voce, ma non la comprendo. Ho solo sonno,
perché non
dovrei stare bene?
- Bene! – esclamo, questa
volta i miei occhi si spalancano, rintracciando i lineamenti ellenici
di
Robert, così contrariati da sembrare una divinità
in preda all’ira.
- Non si direbbe. –
annuncia, freddo – Ad ogni modo, vedi di darti una mossa. Tra
due ore siamo sul
palco.
Riepilogando.
Non sto bene.
Ho un concerto.
Non ho tempo.
Tra tutte le negazioni
che affollano la mia mente, l’unica affermazione mi fa
tremare come in preda
alla febbre, mentre Robert si alza in piedi, abbandonando quello che,
adesso lo
vedo, è il letto della mia camera d’albergo.
- Cosa … - tento di dire,
prima che un feroce colpo di tosse mi spacchi la gola – Cosa
è successo? –
riesco a chiedere, aggrottando la fronte e stringendo gli occhi lucidi.
Robert
si ferma, le sue mani chiuse a pugno, le gambe divaricate. È
arrabbiato, così
mi dicono i suoi muscoli tesi di cui scorgo il profilo nella penombra.
- Hai anche il coraggio
di chiedermelo? – sussurra, senza voltarsi – Hai
ancora la faccia tosta di
venirmi a chiedere cosa ti succede? – urla, voltandosi,
mostrandomi il suo
volto contratto, gli occhi colmi di lacrime, le mie gambe che sotto le
coperte
cercano rifugio stringendosi tra di loro, le mie mani che artigliano le
lenzuola, mentre Robert continua il suo soliloquio – Sono
mesi, mesi, che ti spacchi di
quella merda. Ti
avevo avvertito, ti avevo supplicato,
Jimmy! – si ferma, la voce rotta dal pianto,
cadendo in ginocchio di fronte
a me, puntandomi i suoi occhi fin dentro l’anima.
Sì, ce l’ho ancora.
La sento vibrare ancora
sotto i singhiozzi di Robert, schiacciata malamente dal mio senso di
colpa e da
un volto sfocato che appare nella nebbia degli ultimi ricordi. Occhi
azzurri e
scarpette bianche. Grace.
- Ero nel parcheggio. –
sussurro, Robert che mi guarda quasi impaurito – Ho parlato
con una … era in
prima fila. Carina. – continuo, lo sguardo del mio amico che
sembra scrutare un
pazzo – E poi è diventato tutto buio. –
concludo, grattandomi la testa,
incontrando un nido di rondini al posto dei miei vecchi boccoli.
- Jimmy? – sussurra Robert,
tornato severo.
- Cosa?
Mi scruta ancora negli
occhi, come a volersi assicurare che io lo stia ascoltando davvero. Poi
si alza
in piedi, sfiorandosi il mento con le dita per poi dire: - Non ho
intenzione di
trovarti svenuto e sporco fin sopra alla schiena, in ogni
fottuto parcheggio dell’America ogni
maledetta notte che passeremo qui. Non ho la minima voglia di
farti da balia. – sputa secco, dipingendo in me
l’orrida immagine di me stesso,
disteso a terra, tra polvere e ghiaia, mentre i miei reni si sfogano
sul già
sporco asfalto di un parcheggio.
- E adesso alzati. –
riprende, passandosi il dorso della mano sugli occhi –
Vestiti e andiamo. Non
hai bisogno di lavarti, ci ho già pensato io.
*
Di fronte allo specchio,
avvolto nella mia dragon suite bianca che profuma di bucato, non mi
riconosco.
Il fantasma di me stesso aleggia nel riflesso dello specchio e in
quello degli
occhi di Robert dietro di me, rimasto per assicurarsi che io non faccia
ancora qualche stronzata.
Qualche minuto dopo,
siamo di nuovo nell’affollato backstage del Chicago Stadium,
Robert che
scompare da qualche parte con Audrey. Io, Bonzo, John, Peter e Richard
che,
invece, chiacchieriamo indisturbati.
Nella tasca, la mia mano
si stringe attorno alle mie promesse mancate.
- Ragazzi. Vado un
secondo in bagno.
Angolo della pazza:
Ciao! ^^
Sì, finalmente sono riuscita ad aggiornare e, come al
solito, non ho un ciufolo da dire nelle note.
Dico solo che domani ho l'esame teorico della patente e sono nei cazzi!
Niente, finalmente sappiamo come si chiama sta benedetta donna che
perseguita il Page e sappiamo che questo ha più di un
problema da risolvere in questa storia.
D'ora in poi avrò da fare spremute (HAHAHA) di meningi per i
capitoli, perché per rendere credibile l'idea che ho in
testa, dovrò prima perdere quest'ultima.
Che cazzo sto a dì?
Va beh, ringrazio Ire (strano, non ti avevo ancora ringraziata) che,
quando ha saputo cosa ho in mente, mi ha subito sostenuta per metterla
in pratica.
GVazie, caVa! :'3
Un abbraccio a tutti e alla prossima.
Franny
|
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Capitolo 5 *** 4. And remember the smell of the fabric of your simple city dress. ***
4.
And remember the smell of the fabric of your simple city dress.
Sentirsi sospeso, fuori dal tempo e al di sopra
dello spazio, niente che possa far male o far ricordare il dolore.
Staccarmi
dalla realtà e poterla dominare, nessuno se ne accorge.
Nemmeno Robert, che
canta indisturbato e incita la folla, il suo petto sudato che si
allarga ad
ogni respiro, mi ricorda i momenti passati in camera, in cui sembrava
gli
mancasse l’aria per la delusione. Nemmeno questo mi ha
fermato; sapere che le
costole di Robert potrebbero aprirsi fino a spezzarsi pur
d’incamerare il mio
malessere e tenermene lontano.
Non ero così, un tempo, e
sapere cosa mi ha cambiato mi spinge ogni giorno a peggiorare, anche
quando
sono troppo stanco per farlo, sfinito dai concerti e dalle mie cattive
abitudini. Così mi ritrovo di nuovo solo, la chiave della
mia stanza d’albergo
che ruota attorno al dito, i miei passi pesanti che rimbombano nel
corridoio.
Poi, il silenzio. I miei piedi si fermano, i miei occhi puntati sulla
mia
porta. La trovo lì, ferma, intenta a studiarsi le unghie con
particolare
interesse, un piede poggiato sul muro insieme alla schiena.
Grace.
Maligno un ghigno si
disegna sulle mie labbra rinsecchite, le maniche che affondano nelle
tasche dei
pantaloni. Riprendo a camminare, avvicinandomi silenziosamente, il
corridoio
che si accorcia sotto i miei piedi mentre un motivetto risuona nella
mia mente.
- “I'm
gonna leave you baby about the break of day." –
canticchio, stranamente
intonato - “On
account of the way you treat me, I got to
stay away. Come on now pretty baby, I told you to come on home.*”
Si volta di scatto, presa
alla sprovvista dal mio avvicinarmi, socchiudendo le labbra per
sorridermi.
- Ciao. – sussurra, ma
senza ombra di sensualità. Sembra quasi malinconica.
- Non eri al concerto
questa sera. – dico deciso, piazzandomi di fronte a lei, un
passo a separarci.
- Non … - balbetta,
vedendo il mio volto avvicinarsi – Non ho fatto in tempo ad
entrare.
- Capisco. – dico freddo,
sollevando una mano per toccarle la guancia, ma velocemente si scosta
e, come
se non l’avessi messa alle spalle al muro, scivola di lato,
di nuovo lontana da
me.
- Si può sapere che vuoi?
– dico irritato – Ti presenti qui, alla mia stanza,
mi aspetti e poi appena
cerco di toccarti scappi via? – ringhio e questa volta poggio
le mani sul muro,
ai lati della sua testa, sovrastandola con quel poco che è
rimasto del mio
corpo.
- James. – sussurra,
sgranando gli occhi – Non puoi farlo.
- Perché? – chiedo con un
gesto del mento, ma non risponde. Continua a sostenere il mio sguardo,
ma senza
sfida. Sembra quasi mi stia supplicando.
- Non ancora. – dice, poi
– Arriverà quel momento, ma è ancora
troppo presto.
- Che c’è? Sei vergine?
–
chiedo con aria di sfida – Stai tranquilla, non è
un problema per me. – ghigno.
- No.
- E allora? – continuo –
Hai un fidanzato, un marito, sei scappata di casa e ti cercano? Chi
diavolo
sei?
- Non ancora. – ripete
scandendo bene le parole – Lascia che ti spieghi.
Sbuffo, spazientito. Come
dissi al nostro primo incontro, questa è una vera e propria
disgrazia.
Ricomponendomi, impugno la chiave, facendola girare nervosamente nella
serratura
e invitandola ad entrare con un gesto della testa. Come una bambina
impaurita,
si stacca dal muro, gli occhi che seguono il percorso da me fino alla
stanza,
ma i suoi piedi si fermano incerti sull’uscio.
- Non ho tutta la serata,
ragazzina! – dico acido, lei che sobbalza spaventata per poi
entrare in punta
di piedi, le sue mani che si stringono nervosamente alla gonna.
- Non lo cambi mai quel
dannato vestito? – chiedo strafottente.
- Cosa? – chiede
sorpresa, per poi guardarselo – Ah, no, non è come
pensi. È il mio preferito,
lo cucì mia madre qualche tempo fa e così, visto
che mi piaceva così tanto,
pensò di farmene due uguali, così posso usarlo
per uscire quando l’altro è
sporco. – conclude sorridendo imbarazzata.
- Oh. – sussurro scettico
e senza credere una sola parola della frottola che mi sta rifilando,
avvicinandomi al comodino per accendere l’abat-jour
– Ma siete tutte così
strane nella vostra famiglia?
- Sì. – risponde fredda,
sedendosi sul bordo del letto – Tanto quanto tu sei arrogante.
- Oh, perfetto! – dico,
battendomi le mani sui fianchi – Non solo mi perseguiti, ma
lo fai solo per
insultarmi. Sai che c’è? – dico
minaccioso, le mani in vita – Quella è la
porta. – esclamo indicandola con un dito.
- Sei tu che hai iniziato
con le offese. Non io. – afferma fredda, decisa. È
incredibile come un minuto
prima sembrasse un cucciolo indifeso ed ora una fiera indomabile.
- Quindi ora dovrei anche
chiederti scusa? – faccio sarcastico, mentre lei abbassa la
testa, guardandosi
le ginocchia, l’aria di chi è ferito profondamente.
- Ascoltami, Grace! –
dico esasperato, portandomi i capelli indietro – Non puoi
venire qui, come
farebbe qualsiasi fan o groupie e poi comportarti così.
Dammi una spiegazione,
ti prego.
Alza la testa, i suoi
occhi puntati nel vuoto. Poi appoggia i gomiti sulle ginocchia, il
mento tra le
mani, sospirando come non sapesse quali parole adottare.
- Non capiresti. Non
ancora.
- Di nuovo con questa
storia …
- E non smetterò di
ripeterla fino a quando non capirai che devi lasciar perdere questo
atteggiamento da star arrabbiata col mondo con manie di onnipotenza!
– esclama,
guardandomi furiosa - Sono qui per capire qualcosa in più di
te e devi darmi
tempo.
Sconvolto, prendo posto
accanto a lei, stringendo le ginocchia tra le mani e guardandola
inebetito. Non
so cosa pensare, se non che questa pazza sto contribuendo enormemente
al mio
esaurimento nervoso.
- Tu … - balbetto – Da
quale inferno spunti fuori?
Mi guarda con occhi che
non lasciano trasparire emozione alcuna, gelidi.
- Dal tuo. – sussurra
piano. Un brivido mi spacca la schiena al solo sentire la sua risposta,
il suo
volto una maschera liscia di cera, ma che sembra avere la freddezza e
la
durezza del ferro. Per un attimo, la stanza è abbagliata,
come percorsa da un
faro, il corpo di Grace che per un attimo sembra solo una statua di
marmo, di
quelli che useresti per una lapide, non per una scultura. Poi subito
dopo, la
stanza torna nella penombra dell’abat-jour e il rombo
profondo di un tuono
rompe il silenzio come se fosse stato John a dare uno dei suoi colpi di
grancassa, seguito dal suono fragoroso e incessante della pioggia che
sembrano
applausi di una folla in ovazione.
- Allora raccontami tutto
dall’inizio. – dico, quasi intimorito
dall’espressione di Grace che non accenna
a cambiare, se non alle mie parole, che le lasciano disegnare un
sorriso
impercettibile sulle labbra.
- Vengo da New York. –
sussurra, portandosi indietro una ciocca di capelli, mentre io mi
sistemo con
la schiena contro la spalliera del letto, le braccia incrociate dietro
la testa
e la giacchetta bianca che lascia scoperto il mio petto ossuto.
- La città senza stelle.
– dico roco, tossendo piano.
- Perché? – chiede
incuriosita, aggrottando la fronte mentre distendo le gambe dietro la
sua
schiena.
- Vuoi dirmi che non hai
mai guardato il cielo di New York? – chiedo sarcastico
– Cristo, ci sono così
tante luci per strada che sono in grado di annullare quelle delle
stelle.
- Oh, sì, questo è vero.
– sussurra nervosamente, la voce che trema – Ma io
abito in periferia. Lì le
stelle ci sono ancora. – aggiunge con occhi sognanti e un
sorriso bello da
morire. È così bella in questo momento che sono
costretto ad inclinare la testa
per godere meglio del suo viso, percorrendo con gli occhi
l’armonia perfetta
della linea del naso che si congiunge a quella del mento, unendosi su
due
labbra che sembrano disegnate da qualche pittore Neoclassico, le guance
così
rotonde da ricordare quelle di un cherubino.
- L’ho notato. – dico
sincero, lei che distoglie lo sguardo imbarazzata, cogliendo in pieno
il
complimento – Dai, raccontami, è da molto che sei
lontana da casa?
- Due anni. – esclama,
annuendo – Da quando sono diventata maggiorenne.
- Strano. – dico,
aggrottando la fronte – Quando hai detto che eri di New York
l’hai detto con affetto.
Non sembri una scappata di casa.
- No, infatti. – ride,
sistemandosi meglio sul letto – Ho solo scelto una strada diversa, se così si
può dire. – aggiunge, ritornando al suo
solito tono malinconico – A diciotto anni ho deciso di andare
in città. In
periferia davo una mano a mia mamma nel suo negozio di fiori, mentre
mio padre
è un contadino. Siamo una famiglia semplice, viviamo bene.
– dice col sorriso,
quasi rivolgendolo ai propri ricordi – Ma, Dio, siamo negli
anni Settanta e ci
saranno una volta sola. Così ho deciso di cercare un lavoro
in città.
- E come mai adesso non
sei a New York? – chiedo confuso – Solo qualche
giorno fa eri a Dallas e ora
sei qui da due giorni. Devi aver trovato un ottimo lavoro per
permetterti tutto
questo. – osservo, mentre il secondo tuono sferza
l’aria accompagnato dalla
luce accecante del fulmine, mentre Grace mi guarda confusa, come se non
sapesse
cosa rispondere.
- Questo non posso
dirtelo.
- Sei una prostituta? –
chiedo, andandole incontro – Puoi dirmelo, non avere paura.
- Non sono niente di
tutto ciò che potresti pensare. – dice, ma senza
rabbia, ma con dolcezza,
nostalgia, come se stesse parlando a qualcuno troppo lontano dal capire
qualcosa di complicato – Si è fatto tardi, devo
andare.
- Che? – dico, scattando
a sedere mentre lei si alza – Fuori c’è
il diluvio e tu non puoi uscire così. –
aggiungo, inginocchiandomi sul materasso e guardandola negli occhi.
- Non posso.
- Rimani con me. Ti giuro
che non ti sfioro.
- Di questo ne ero certa.
– sorride.
- Allora rimani e
raccontami ancora un po’ di te.
Silenziosamente,
annuisce, mentre riprende il suo posto sul letto.
- Va bene. – acconsente –
Però poi dormiamo. Sono stanchissima.
- Per me non c’è
problema. – dico, accoccolandomi tra le coperte,
l’aria divenuta improvvisamente
fredda dopo l’inizio del temporale –
Rimarrò sveglio tutto il tempo che vuoi. –
affermo, proprio mentre sento le palpebre scendere giù.
*
Il riaprirsi dei miei
occhi è dolce come non lo era da tempo. Non appena le mie
pupille si
schiariscono, ciò che trovano è il mio corpo,
coperto dalle coperte e dalla
dragon suite, il petto nudo accarezzato dai primi raggi
dell’alba, la stanza
colorata di un rosa rassicurante. Do un respiro profondo,
stiracchiandomi
piano; mi sembra quasi di esser tornato bambino, sereno nel suo
risveglio, con
le coperte calde e accoglienti e non più spigolose e
inamidate come si è soliti
trovarle negli alberghi. Sorridendo a labbra chiuse, mi giro su un
fianco e,
stesa di schiena, una lieve sottana bianca, i capelli arruffati resi
splendenti
dalla luce mattutina e il suo corpo che ha il particolare profumo dei
mandorli
in fiore, Grace dorme come un angelo che ha trovato la sua comoda culla
di
cielo.
- Grace? – sussurro roco,
facendo attenzione a non spaventarla – Grace, svegliati!
Niente, il suo respiro è
così piccolo, regolare, da risultare impercettibile, mentre
non accenna a
svegliarsi. La tentazione di svegliarla con un tocco è
così forte che devo
mordermi le labbra, ma cedo lo stesso. Così, lieve, alzo una
mano sul suo viso,
con l’intenzione di sfiorarle una guancia, quando i suoi
occhi si spalancano,
azzurri come se stessero riflettendo un cielo d’estate.
- Jimmy. – sussurra,
mentre ritiro la mano come se mi fossi scottato – Che fai?
- Niente. – balbetto –
Cercavo di svegliarti.
- Oh. – esclama,
sollevando le ciglia e guardando il suo corpo esile e armonioso
– Forse è
meglio che mi metta qualcosa addosso. – dice poi, scendendo
dal letto.
- Beh, se vuoi puoi
rimanere. – dico, mettendomi a sedere in mezzo al letto
– Così puoi restare
solo con quella addosso. – aggiungo indicandola.
- No, meglio di no! –
dice ridendo imbarazzata.
- Perché? – dico,
raggiungendola e avvicinandola in pochi passi – Guardati.
- Jimmy, io devo
andare. – dice, infilando dalla
testa il suo vestitino tutto gonna e fiori.
- No, non devi. – dico,
tentando per la seconda volta di carezzarle la guancia, ma lei si
scansa, ma
senza l’ira della notte precedente. La guardo silenzioso per
poi dire: -Non
ancora, ho capito.
Eccola che sorride di
nuovo, sistemandosi i capelli alla meno peggio con l’aiuto
delle mani, piegando
la gonna e sistemando le spalline. Poi, quando è pronta, mi
saluta con un cenno
della mano, andando verso la porta.
- Aspetta! – la
trattengo, facendole cenno con la mano – Vengo con te!
- Ma … - dice, presa alla
sprovvista – Dove? – chiede a bocca spalancata.
Le sorrido, mentre mi
libero velocemente della dragon suite, rimanendo nudo davanti a lei che
non
sembra curarsene, mentre cerco dei vestiti nelle valige con un
entusiasmo che
non possedevo da tempo. La guardo di nuovo e la vedo raddolcirsi, il
volto
disteso e paziente.
- Ovunque tu vada.
*
Il sole primaverile di
Chicago sembra timido come il sorriso di Grace, mentre usciamo
silenziosamente
dall’albergo ancora immerso nel ronzio dei sogni di chi vi
alloggia. Poche
macchine percorrono le strade della città,
anch’essa addormentata, mentre
qualche gatto rovista nella spazzatura e il profumo del pane caldo si
sprigiona
nell’aria.
- Com’eri da bambina? –
chiedo senza essere realmente curioso, giusto per dire qualcosa mentre
mi
stringo nella mia giacca a vento.
- Non t’interessa
davvero. – sorride, portando le braccia dietro la schiena.
- Cosa te lo fa dire? –
chiedo, sorpreso.
- Da come lo hai detto. –
afferma altezzosa.
- Oh. – sospiro – Qualcosa
dovrai pur dirmi o hai intenzione solo di apparire e sparire a tuo
piacimento?
La vedo mordersi le
labbra, mentre cammina di fianco a me dondolando le spalle.
- Hai ragione. – ammette
amareggiata, corrucciando la fronte – Vedi, non è
facile spiegare perché sono
qui, o tanto meno perché trovo difficile parlarti di me.
– continua a dire,
evitando il mio sguardo – Ma ci proverò.
– sorride, come a voler infondere a se
stessa un briciolo di speranza.
Man mano che il sole si
leva nel cielo, Grace sembra sciogliere ogni nodo contorto della sua
insicurezza, parlando della sua infanzia, dell’amore
indissolubile per suo
padre e della complice intesa con sua madre. C’era
l’ardore nel suo raccontare
delle domeniche in spiaggia, passate grazie a suo padre che ogni fine
settimana
decideva di andare a pescare subito dopo la messa, mentre lei rimaneva
seduta su
uno scoglio meno aguzzo(potevo quasi vedere i suoi piedini dondolare,
schizzati
ogni tanto dalla schiuma marina), intenta a seguire il volo elegante di
un gabbiano.
Poi prendeva a parlare di sua madre come se fosse stata una fata, una
di quelle
che si aggirano per i giardini di Kensington; era stata lei a
raccontarle di
Peter Pan ogni sera e mi è sembrato di poter scorgere le
sfumature del sogno
nei suoi occhi quando, con naturalezza, le ho detto che abitavo a pochi
passi
da quei giardini.
- Davvero? – ha detto.
- Sì. – annuisco,
stranamente imbarazzato.
- Quanto vorrei vedere
Londra, prima o poi. – sospira, col tono di chi sa
già non poterlo fare.
- La vedrai. – affermo,
pronto come sempre a fare promesse che non posso mantenere –
Ne sono certo. –
continuo, lei che ha il tipico sguardo di chi non ti crede –
Sei così giovane,
energica e di certo non hai paura di viaggiare.
- No, questo no. –
ammette, annuendo – Siamo arrivati. – dice poi,
sollevando lo sguardo e scopro,
con mia grande sorpresa, di essere di nuovo di fronte
all’hotel. Istintivamente
mi guardo intorno; abbiamo percorso l’isolato senza
incontrare nessuno, eppure
la strada adesso è animata di persone e macchine. Poi, porto
il polso di fronte
agli occhi, guardando l’orologio. Le sette. Possibile che sia
passata un’ora ed
io non me ne sia nemmeno reso conto?
- Adesso devo proprio
andare, Jimmy. – dice, col tono di chi invece vorrebbe
restare.
- Ti rivedrò? – chiedo,
fermandola sul marciapiede.
- Sì. – annuisce –
Puoi
stare tranquillo. – assicura, scendendo in strada e
attraversando, io che non
mi rendo conto che la sto seguendo fino a quando non sento urlare un
clacson,
l’auto che inchioda a mezzo metro dal mio fianco.
- Guarda dove cammini,
idiota! – esclama il tizio a bordo della macchina, io che lo
guardo intontito
prima di chiedere scusa e tornare sul marciapiede. Quando torno a
guardare la
strada, Grace è sparita.
- Jimmy!
Mi volto verso la porta
dell’hotel, spaventato, il volto di Jonesy che mi osserva
preoccupato.
- John. – dico,
grattandomi la testa – Buongiorno.
- A te. – dice,
avvicinandosi con aria poco tranquilla – Tutto ok?
- Sì, perché? –
chiedo,
poggiando il bacino contro le mie stesse mani.
- Beh, stai tornando
adesso in albergo. – dice, come se fosse la cosa
più ovvia del mondo.
- Cosa? No. – balbetto,
sorridendo – Ho fatto una passeggiata con una ragazza.
- A quest’ora. – dice,
sempre più incredulo.
- Sì, a quest’ora
Baldwin. Che c’è? Non mi credi? – chiedo
infastidito.
- No, Jimmy. – risponde
subito, come un bambino spaventato - È che nessuno ti ha
visto rientrare
stanotte, tutto qui. – afferma con naturalezza. Questa sua
aria da saputello
pronto a fare la spia mi sta dando sui nervi, tanto che mi ritrovo a
parlargli
a pochi centimetri dal suo viso.
- Ascoltami bene Jonesy.
– sussurro freddo – Ero da solo stanotte quando
sono rientrato, alla porta
della mia stanza c’era una ad aspettarmi e ci ho passato la
notte. Sei
soddisfatto ora o vuoi sapere altro? – chiedo, notevolmente
alterato.
- No. – balbetta lui,
impaurito, probabilmente dalla mia espressione. Devo sembrare esaltato
in
questo momento.
- Bravo. – sussurro,
picchiettandogli una guancia con la mano – Bravo, Jonesy.
Poi lo lascio lì, con la
sua espressione da ebete, entrando nell’hotel e prendendo
l’ascensore. Qui,
rimasto solo, sulla fronte iniziano a farsi strada perle di sudore
freddo,
mentre deglutisco di fronte a un ricordo che la mia mente non riesce a
riafferrare.
Non ricordo più
dov’ero
ieri notte prima d’incontrare Grace.
* la canzone citata
è "Good
Morning Little Schoolgirl" nella versione dei Greatful
Dead. Però ascoltate quella di Muddy Waters
perché è più bella.
Angolo
della pazza:
Ciao! ^^
Qui è la
Franny ventiduenne che parla! :'3
Finalmente questi due
sono riusciti a dirsi più di quattro parole, era ora! u.u
Come avrete capito,
Grace non è per niente un personaggio facile da definire e
spero davvero che risulti anche vagamente credibile.
E Jimmy... povera
creatura, quanto è confuso! :'D
Va beh, spero che il
capitolo vi sia piaciuto e vado a mangiarmi un pezzo della torta di
ieri. *Q*
Un abbraccio,
Franny
|
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Capitolo 6 *** 5. And if you feel that you can't go on... ***
5.
And if you feel that you can't go on…
- Io dico che, appena
arriverete lassù, voi due farete uno spettacolo di merda.
– sbadiglia Bonzo,
senza la premura di portarsi la mano alla bocca – Nel vero
senso della parola.
- Sottovaluti le capacità
del mio stomaco, Bonzo! – risponde fiero Robert, il braccio
attorno alle spalle
di una Audrey che, fingendo di analizzarsi le lunghe unghie, di tanto
in tanto
solleva le ciglia per guardarmi di nascosto. Mi sta dando sui nervi.
- Oh, del tuo no. –
ammette Bonzo, sollevando le mani e sistemandosi meglio sul divanetto
– Ma
guarda quello lì. – continua, indicandomi
– Quello ha un piede nella fossa,
amico mio!
- Aaah. – faccio io con
un gesto della mano – Sto bene.
Silenzio, gonfio di tutte
le parole che in questo momento, nelle loro gole, hanno fatto
dietrofront.
- Jimmy. – sussurra
improvvisamente Audrey – Bonzo esagera, ma tu di certo non
stai bene. –
sentenzia, con quello che dovrebbe essere una specie di tono materno.
- Audrey? – la chiamo,
imitando il suo stesso tono, lei che alza lo sguardo per guardarmi
– Da quando
il tuo lavoro è quello di dare opinioni? Di solito ti scopi
Robert. – concludo
velenoso, lui che mi lancia uno sguardo infuocato, ma stringe i pugni
piuttosto
che tirarmeli addosso.
- Almeno noi ancora ci
sappiamo divertire, amico. – sputa arrabbiato – A
te, invece, con tutta quella
roba, nemmeno ti si solleva più.
Robert e la sua
schiettezza.
Robert che mi ricorda che
sono un miserabile.
Robert e le sue
raccomandazioni, i suoi avvertimenti. Da assumere ad ogni ora del
giorno. Da
ripetere all’infinito ad ogni ora della notte, tra le
lenzuola diventate troppo
legnose sulla mia pelle sottile, tra i crampi delle mie gambe, tra i
sottili
spazi tra i denti dai quali l’aria passa con un fischio per
poi morire a metà
gola. Troppo poca per raggiungere i polmoni, questi troppo stanchi per
raccoglierla.
Un crampo si affaccia
alle porte dello stomaco.
Poi arriva l’ultima notte
a Chicago, io che lascio il backstage fin troppo affollato di sensi di
colpa,
io che mi rifugio in un camerino. Anche lì,
c’è silenzio. Di quelli vuoti, in
cui le parole di Robert riecheggiano per qualche istante. Poi si
perdono, le
mie mani sulla mia Danelectro e, come per miracolo, trovo il coraggio
di
restare un po’ da solo con me stesso. Nessuna parola, nessuna
colpa. Solo me,
il mio cuore che batte lento e Ten Years
Gone che scivola sul pavimento, le note che
s’inseguono, le mie labbra che
si stringono.
Questa volta non
è un crampo. È proprio un morso.
Qualcosa cade dai miei
occhi, ma non saprei spiegare. Non so come si piange, non credo di
averlo mai
fatto davvero in vita mia. Sarà accaduto da piccolo, forse,
dopo essermi
sbucciato un ginocchio o di notte dopo un incubo troppo brutto, ma le
cose
cambiano. E così, quelle mie paure tramutate in sogni, hanno
spostato i confini tra sonno e veglia ed io, credendomi proprietario di
un coraggio mai
posseduto, ma solo di una buona dose di pace in polvere, mi sono
vantato di
poterci vivere dentro, di essere più forte di qualsiasi
incubo e che piangere
ormai non serve più. Sbaglio. Inciampo e cado su un sentiero
di errori già
percorso troppe volte. Dalle ginocchia ormai macellate, le mie ossa si
affacciano
ammaccate, segno di tutte le stronzate che mi hanno piegato le gambe.
Un ferro rovente.
Cristo, fatelo smettere! Mi
sembra di avere l’inferno in corpo.
Mi passo una mano sulle
guance, scoprendole contratte, bollenti e umide, la mia chitarra che
ormai non
suona più, la mia voce rotta dai singhiozzi, da lamenti
rauchi, le mie labbra
impastate di saliva e muco, i denti che, come unghie sulla lavagna,
graffiano
tra di loro. Piango a dirotto, un gomito sulla Danelectro, una mano
sulla
fronte bagnata. Riapro gli occhi,
ma
è come guardare in una stanza buia. Non un suono, ma non
è silenzio. È come
una bolla, una specie di apnea che lascia un lieve brusio di suoni
indecifrabili e un bruciore, all’altezza dello stomaco,
così indomabile da
accasciarmi in avanti, abbandonandomi a questa confusione che, al
momento,
sembra la migliore delle alternative alla mia vita. Poi due mani, sulla
vita,
la voce di John che tuona il mio nome, i miei piedi che si muovono come
guidati
da fili di un burattinaio. Da qualche parte, qualcuno sta dicendo che
non sto
bene, l’ho sentito con chiarezza. Sembrava Robert, ma non
capisco a cosa si riferisca. Con chi sta
parlando?
Un rumore ai miei piedi.
Guardo. È la mia chitarra.
- John. – tento di dire –
John, la mia chitarra … - sussurro, io che lotto contro gli
occhi che però non
vogliono aprirsi. Poi un morso ancora più forte, il mio
stomaco che si
contorce. Sento che potrei rimettere. Sento che potrei farmela addosso
come un
lattante.
- Vaffanculo la chitarra,
Page. – urla Bonzo, mentre altre mani e altre voci si
aggiungono alla sua – Lo
capisci che stai male, eh?
- No, io … - tento di
dire, prima che la mia gola venga squarciata da un urlo, il mio pugno
che
ripetutamente si scaglia contro la mia pancia, combattendo il dolore e
favorendolo.
- Tenetelo fermo. – è il
comando secco di quella che sembra la voce di Peter.
Poi i miei piedi
abbandonano il pavimento, la mia schiena raggiunge qualcosa di morbido,
il
corpo ritrova il suo centro.
- Jimmy.
Il mio nome sulla bocca
di tutti, ma questo ha il suono di qualche voce venuta dal paradiso.
- Jimmy.
– ripete – Non avere
paura.
- N-no …
- Dobbiamo farlo Jimmy,
non puoi dire di no!
- Io sono qui. Apri gli
occhi Jimmy!
Ma sono troppo stanco,
voglio dormire. Ma voglio rassicurarla, farle sapere che ho capito.
- Lo so, Grace.
*
Buio. Storco la bocca
mentre uno starnuto mi solletica il naso, ma sono abbastanza bravo da
trattenerlo. Poi, al primo deglutire, sollevo lievemente le ciglia, uno
spiraglio di luce fredda e celestina ci passa in mezzo, facendomi
lacrimare gli
occhi. Provo a respirare e questa volta è facile, forse
perché sono disteso, ma
non sul comodo e morbido dell’Ambassador East Hotel,
bensì uno rigido come il
cuoio di un pallone da calcio, freddo e scomodante come la luce a cui,
poco a
poco, mi sto abituando. Qualcosa pizzica all’altezza del mio
avambraccio
sinistro, così porto una mano per grattarmi, ma una voce
dolce mi ferma.
- No, non farlo. Così
sposti l’ago! – rimprovera materna – Sii
paziente.
Inutile chiederselo. È
lei.
- G-gra…
- Sssh, non sforzarti. –
la sento dire, i miei occhi ancora socchiusi, mentre le mie spalle
tentano
inutilmente di sollevarsi, ma basta la sua voce a rimettermi a posto
– Devi
riposare, testone!
- Dove sono? – chiedo,
con la voce impastata di sonno.
- Beh. – sussurra, e
quasi la sento trattenere il fiato, mi sembra di vederla guardarsi
attorno, le
mani strette attorno all’orlo del vestito – Sei in
ospedale, James.
Alle sue parole, i miei
occhi finalmente si aprono sul soffitto sopra la mia testa. Poi cerco
Grace, i
suoi capelli color grano, i suoi occhi presi in prestito al cielo
d’Agosto.
- Grace. – sorrido,
vedendola ai piedi del letto, sulla destra, seduta con un ginocchio sul
materasso, intenta a non perdere un’espressione del mio viso.
- James. – ricambia il
sorriso, i suoi occhi che mi scrutano come a voler catturare in
anticipo un mio
improvviso malessere o qualsiasi mio bisogno. Poi guardo il mio
braccio, un ago
che sparisce sotto la mia pelle di neve, l’altro estremo che
segue in un
tubicino di plastica per finire in una flebo appesa di fianco a me.
Torno a
guardare Grace, così preoccupata da fare tenerezza.
- Sto bene. – la rassicuro,
sollevando la mano destra, lei che si scosta, ma non la raggiungerei
comunque.
- Non mentire. – afferma,
abbassando lo sguardo, amareggiata – Sai di non poter
continuare così, vero?
- Che ne sai? – sussurro,
strascicando le parole in un’accozzaglia di consonanti e
girando la testa dal
lato opposto a quello in cui si trova lei.
- Lo so. – afferma, senza
guardarmi – Più di quanto credi. Più di
quanto tu stesso possa sapere. –
sussurra mentre torno a guardarla, il collo sul suo mento, il labbro
inferiore
che sporge come se fosse imbronciata, quando è solo
profondamente amareggiata.
Muovo le dita, senza saper realmente cosa fare, il tempo che sembra una
piuma
sospesa a mezz’aria mentre i suoi occhi si aprono contro i
miei. Fissarsi
diviene la cosa più naturale, più esplicito di
ogni parola, l’istinto che ci
guida fino a incontrarci, capirci, a dirci tutto in silenzio.
- Hai paura che io muoia,
Grace? – chiedo rauco, stringendo le labbra – Ma se
mi conosci appena.
Sospira, guardandosi
attorno, il suo sguardo che per un attimo si ferma sul mio braccio,
quello con
l’ago, e sembra quasi che sia su quel lembo della mia pelle
che lei trovi il
coraggio di dirmi quello che pensa.
- Non ne ho paura, Jimmy.
– ammette, chiudendo gli occhi – Lo
so.
– aggiunge, lugubre, assente. Un brivido corre lungo la
schiena, la graffia
lasciando lividi appena sotto la pelle, lì dove il mio cuore
è schiacciato
dallo sterno e sembra voler scappare, salvarsi a
quell’avvertimento che suona
come una profezia.
- Tutti moriamo, Grace. –
dico, tentando un tono di sicurezza e sarcasmo.
- Già. – sospira,
guardandomi dritto negli occhi, i suoi che improvvisamente
s’inumidiscono – Ma
sembra quasi che tu voglia affrettare le cose. – sussurra,
l’accento di ogni
parola che sembra tinto di dolore, mentre il mio petto si solleva un
po’, in
un’inutile tentativo si sospirare a pieni polmoni.
- Perché tanta pena, me
lo spieghi? – le chiedo, irritato – Mi conosci
appena, anzi, potrei dirti che
tu non mi conosca affatto ed io non so chi diavolo tu sia. Vieni qui,
bella
come un’illusione, e so già che te ne andrai,
ormai ho imparato a riconoscere
il momento in cui ti guardi attorno per poi sparire … -
m’interrompo, prendendo
fiato, lei che non smette di guardarmi, occhi e bocca spalancati
– Cosa vuoi da
me, Grace?
La sua risposta è il
silenzio, mentre deglutisce pesantemente, le mani che si sono strette
attorno
al lenzuolo, l’unico che copre la mia pelle nuda e
improvvisamente mi sento
vulnerabile, come se l’innocente e fragile creatura seduta ai
miei piedi possa
guardare negli angoli più remoti del mio essere e scovarci
qualcosa di
sbagliato, una ragione sconosciuta anche a me stesso. Ho paura che
possa
essermi più vicina di qualsiasi donna che mi ha avuto dentro
di sé, ma senza
avermi davvero.
- Lasciati salvare,
James. – sussurra roca, mordendosi le labbra, quasi si fosse
pentita di quello
che ha detto.
- E come? – chiedo io, la
mia voce che trema. Per la prima volta, da quando l’ho
conosciuta, ho paura.
- Questo non lo so
nemmeno io. – ammette amareggiata – Ma se mi
permetti di provarci, farò in modo
di non fallire.
Sospiro, stringendo i
denti nascosti sotto le labbra.
- Nessuno ci è riuscito.
Nemmeno Robert. – ammetto, prima di sentire il cuore
appassire di fronte a
quello che sto per dire – Nemmeno Scarlet.
- E la cosa ti sorprende?
– chiede retorica – Possibile che tu non abbia
ancora capito? – domanda, questa
volta amareggiata, come se l’identità del mio
salvatore sia così evidente da
risultare stupido il fatto che io non lo conosca.
- Bene. – dico,
affondando la testa nel cuscino e chiudendo gli occhi –
Aiutami a farlo, Grace.
Nel buio, la sento
sorridere.
- Sono qui per questo.
Apro gli occhi,
finalmente una certezza. Mi volto a guardarla, ma davanti a me trovo
solo il
profilo dei miei piedi sotto il lenzuolo, il passaggio di Grace
delineato solo
dalla stoffa stropicciata sul punto in cui era seduta.
- Sei sveglio?
Di scatto, mi volto verso
la porta alla mia destra, scorgendo Robert in piedi
sull’uscio, le mani
poggiate sugli stipiti della porta, negli occhi la preoccupazione che
si
riserva nei confronti di un malato, i riccioli arruffati, segno
evidente che
troppe volte le sue mani ci sono passate in mezzo nervosamente,
nell’attesa che
mi svegliassi.
- Da un po’. – rispondo,
abbozzando un sorriso, lui che lo ricambia con un’espressione
indecifrabile, la
sua bocca che si arriccia insieme alla fronte, nell’evidente
tentativo di non
piangere.
- Come fai? – mi chiede,
battendosi una mano su un fianco – Come fai ad essere
così sereno?
Poi entra nella stanza,
sedendosi dove pochi secondi prima c’era Grace, con
l’unica differenza che lui
non si astiene dal toccarmi. La sua mano si posa decisa sul mio
ginocchio
destro, stringendolo dolcemente, i suoi occhi che cercano una risposta
che non
ho o non riesco a dare, il mio cuore che si fa sempre più
pesante nel vedere le
sue guance rigarsi. È come vedere un Dio piegato a un
meschino dolore umano, a
preoccupazioni che non dovrebbero appartenere a creature celesti come
lui. È
una tristezza gratuita quella che do a Robert e sentir crescere in me
il senso
di colpa non basterà a ricambiarlo di tante attenzioni, di
un affetto che
palesemente non merito. Così mi limito a sollevare il
braccio destro con fare
paterno, accennando con gli occhi un invito ad avvicinarsi.
- Vieni qui, Robert. –
sussurro, mentre la sua testa si è già fiondata
sulla mia spalla, i suoi
riccioli che mi coprono il petto come una coperta dorata, le sue
braccia che mi
circondano la vita, più calde del misero lenzuolo che ho
addosso, e per la
prima volta mi sento davvero al sicuro.
- Non sei solo. –
singhiozza, il suo volto che mi scruta all’altezza del mio
collo – Che bisogno
c’è? Perché arrivare a questo?
- Non lo so. – ammetto –
Forse esser circondato da tutti mi fa sentire più solo di
quanto tu possa
credere, Robert.
- E Scarlet? – chiede con
quell’affetto paterno che io non ho, con quella premura che
lui dovrebbe
riservare solo a Karac e invece rivolge anche alla figlia di un uomo
che non la
merita, che ha annegato la sua natura di padre dentro litri di whiskey,
come se
fosse stato uno dei tanti, meschini problemi della sua misera vita.
- Povera creatura. –
sussurro funereo – A volte penso che crescerebbe meglio senza
di me. Charlotte
è una madre stupenda e … - ma non termino la
frase, la mano di Robert che mi
tappa la bocca, mentre le dita affondano nelle guance.
- Smettila. – ringhia –
Il tuo non è dolore, o depressione. Da come parli sembri
solo un egoista
bastardo che non vede nulla oltre se stesso. – e
ciò che mi resta da fare è
sospirare contro la sua mano, mentre un nodo si stringe contro il mio
pomo
d’Adamo, ma non piango. Mi limito a guardare in fondo agli
occhi di Robert, così
azzurri e accesi, attraversati di vita. Come quelli di Scarlet.
- Credi che io non ami
mia figlia, Percy? – chiedo, quando la sua mano mi libera la
bocca.
- A questo punto mi
chiedo se tu possa amare davvero qualcuno, Pagey. – ammette,
abbassando lo
sguardo – Ma mi rifiuto di crederti così. Ho
conosciuto un ragazzo fantastico
quel pomeriggio a Pangbourne e farò di tutto per riaverlo
indietro. – aggiunge
poi con determinazione, guardandomi con
un’intensità che mi scuote fino a farmi
sorridere.
- Sei stato sempre
testardo, Robert. – sussurro teneramente, una mia mano che
gli scosta una
ciocca di capelli rimasta tra le sue labbra.
- Pensa che ti ho pure
difeso. – dice poi, sorridendo imbarazzato – Ho
detto ai giornalisti che hai
avuto un’intossicazione alimentare e credo proprio che se la
siano bevuta. –
racconta, sollevando le sopracciglia con orgoglio, per poi tornare
serio – Ma
se ti succede qualcosa? Se il peggio dovesse arrivare …
- Non me ne fotte un
cazzo di quella gente, Plant.
- Lo so. – annuisce – Ma non
è di loro che ho paura. – afferma con voce sicura,
tornando a guardarmi negli
occhi - È che non saprei dove andare. Ero un ragazzo di
campagna e tu mi hai
messo al mondo. Se tu te ne vai, io e gli altri saremo orfani. Lo
capisci, Jim?
Il sorriso muore sulle
mie labbra e anche qualcosa in un angolo ancora vivo del mio cuore. A
volte mi
sento così pronto a lasciare questo mondo che lo farei senza
voltarmi indietro,
a volte ho così paura di quello che potrebbe succedere dopo
che mi ci rifugio
dentro, calando le tende della Tower House e restando in casa per
giorni,
lontano da tutto e scappando da me stesso, da quello che sono per gli
altri e
da ciò che vorrei essere.
- Dimmi che non te ne
vai, Jim. Promettimelo.
Annuisco, la mia voce
sembra quasi irraggiungibile per il mio fiato corto, mentre stringo le
braccia
attorno alle spalle di Robert, tornando a sentirmi felice come lo ero a
Pangbourne mentre lui cantava per me, solo per me. Poi il momento si
spezza, un
rumore di tacchi che irrompe nella stanza, accompagnato dal sorriso
tenero di
una giovane infermiera, che ci osserva con la dolcezza che si
riserverebbe ad
una coppia di innamorati.
- Non è come pensi! –
esclama Robert, mettendosi a sedere sul materasso,
all’altezza della mia vita,
mentre inizio a ridere sotto i baffi.
- Io non ho detto nulla.
– dice lei, avvicinandosi per controllare la mia flebo, per
poi appuntare
qualcosa sulla sua cartellina – Anche se devo ammettere che
eravate davvero
teneri.
- No, tesoro, non parlare
così. – supplica Robert, mentre continuo a
gustarmi la scena – Senti, una sera
di queste possiamo uscire se vuoi. – aggiunge, mentre io e
lei iniziamo a
ridere.
- Beh, se lui non è
geloso. – scherza lei, indicandomi.
- Lo sono eccome! –
esclamo io, scoppiando a ridere.
- Bastardo. – ringhia
Robert tra i denti, mentre lei esce dalla stanza – Ti lascio
il mio numero, se
vuoi. – esclama poi, rivolto verso il corridoio dove lei
è sparita.
Sparita.
Grace.
- L’hai vista? – chiedo
improvvisamente a Robert.
- Fratello, non sono mica
cieco. – risponde lui, fissando la porta – Aveva un
c …
- Ma non l’infermiera! –
lo correggo, tirandogli una gomitata – Grace!
- Chi? – chiede,
voltandosi verso di me, la fronte corrucciata.
- Grace. Una ragazzina
bionda, con un vestito a fiori. – dico io, mentre Robert
solleva lo sguardo
come a voler tentare di ricordare – Era qui, prima che
entrassi tu.
- Cosa? – chiede
sconvolto.
- Beh, sì, abbiamo
chiacchierato per un po’ ed è andata via.
- Jimmy, frena! – mi
blocca, mostrandomi il palmo di una mano – Non è
entrato nessuno qui.
Non sta mentendo. Lo vedo
nei suoi occhi pieni di fermezza, mentre io lo guardo spaesato.
- Devi credermi, amico. –
dice, sollevando le spalle – Sono stato qui fuori per tutto
il tempo e non è
entrato nessuno a parte i dottori.
- Non può essere …
- È così, credimi!
–
dice, poggiandomi una mano sulla spalla – Devi averla sognata
questa … come hai
detto che si chiama?
- Grace.
- È carina? – chiede,
incuriosito, un sorriso marpione che gli arriccia un angolo della bocca.
- Tanto. – sospiro – Un
po’ strana, ma è stupenda. – dico,
passandomi una mano tra i capelli – Sembrava
così reale.
- Mi spiace. – dice,
amareggiato – Però c’ero io, tesoro!
– aggiunge con voce stridula da
donnicciola eccitata – Che c’è, non ti
basto? – conclude, pizzicandomi un
fianco.
- Idiota. – esclamo,
dandogli una spinta sul braccio, prima che uno sbadiglio mi spalanchi
la bocca.
- Ti sei stancato, amico.
– dice, mettendosi in piedi e sistemandomi il lenzuolo
– Ti ci vuole un’altra
riposata.
- Credo tu abbia ragione.
– ammetto – Anche se vorrei la mia chitarra.
- Non essere stupido. – mi
rimprovera – Devi riprenderti prima di tornare a suonare. Non
puoi permetterti di sentirti male nel bel mezzo di un concerto una
seconda volta. – aggiunge allontanandosi
– Se hai bisogno di me, sono qui fuori. – conclude
con un sorriso, prima di
scomparire nel corridoio.
- Lo so, Robert. –
sussurro. Non mi ha mai lasciato e mai lo farà. Nei suoi
rimproveri, nei suoi
sguardi amareggiati, c’è sempre quella tacita
richiesta di non lasciarlo solo
in un mondo così cattivo, che ha imparato a combattere solo
con me a fianco.
Poi un secondo sbadiglio, le palpebre che si abbassano, mentre in me
cresce la
speranza di rivedere il volto di Grace una volta abbandonatomi al mondo
dei
sogni.
Angolo
della pazza:
Eccomi! *arriva
trafelata*
Bene, dopo due
settimane di lavoro e di stress totale, finalmente ho sfornato sta
cagata. ♥
Ok, non so quanto si possa capire di questo capitolo, so che in certi
punti sembra una cosa masticata e sputata su un foglio, ma non ho
saputo fare di meglio. .__.'
Quella raccontata, è la sera dell'ultimo dei quattro
concerti suonati a Chicago nel '77, quella in cui Jimmy si è
sentito male subito dopo Ten
Years Gone fino al punto di essere ricoverato in ospedale.
La motivazione che tutti conosciamo, è quella
d'intossicazione alimentare, dato che lui e Robert avevano passato la
notte precedente in un locale della città con i figli di
Willie Dixon ingozzandosi, a quanto pare, di carne. In tutta
sincerità, non so quanto questa versione possa essere
attendibile (cioè, Jimmy s'intossica e Robert no?) dato che,
in ogni caso, le condizioni di James erano catastrofiche già
in partenza.
Comunque, qui trovate lo scan di un articolo che racconta l'accaduto:
https://31.media.tumblr.com/cdc804b5ceab67fa328e3b5a4a5128fb/tumblr_n0qzo684Ei1s3s3rgo1_500.jpg
Ad ogni modo, pare sia stato Jimmy a parlare d'intossicazione
alimentare, ma ho letto da qualche parte che anche Robert, sul palco
mentre portavano Page nel backstage, abbia confermato la stessa
versione. Comunque siano andate le cose, prendete ciò che
è riportato nel capitolo come verosimile. ^^'
Ehm, nulla. Come ho già detto, non so quanto si possa capire
di questo capitolo, quindi sorridete e annuite.
E recensite, che non vi cadono le dita. ♥
Un abbraccio forte,
Franny
|
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Capitolo 7 *** 6. Well, there's a light in your eye that keeps shining. ***
6.
Well, there's a light in your eye that keeps shining.
Louisville, 25 Aprile
1977
Blu. Rosso. Un giallo
morente, dentro.
Dietro le case di legno e
le criniere annodate dei cavalli di Louisville, il sole si veste di un
ventaglio di tramonto e nuvole.
Kentucky,
you are the dearest land outside of Heaven to me, cantavano
Don e Phil. Niente di
più vero,
niente di più profondo, mentre le nuvole
s’inghiottono il sole. Ed io con lui.
Le mie dita ruotano meccaniche, calde contro il freddo pungente del
cucchiaino
argentato, immerso per metà nel mio tè. La
città sembra pregna del profumo di
bourbon fin dentro l’anima delle travi di legno e dei tetti
scorticati dall’umidità
dell’inverno. È un odore così intenso
da poterne avvertire le gocce sulla punta
della lingua, ma è un’illusione che mi lascia
assetato. Così, avvicino la tazza
alle labbra, scottandomi un po’, soffiando piano creando
anelli sulla
superficie color ambra del tè. Poi, un brivido di freddo, io
che mi stringo
dentro la giacca di lana, infilando in naso nel collo voluminoso.
Nell’aria il
profumo della pioggia.
- Sei in ritardo.
Sorride e sembra il suono
del cristallo infranto.
- Ho avuto da fare. –
risponde tranquilla, il rumore delle lenzuola che si schiacciano sotto
il suo
peso.
- La solita scusa. –
rimbecco io, bevendo piano, scaldandomi.
- Come stai? – chiede,
premurosa.
Sospiro, facendo
tintinnare la tazza contro il piattino.
- Me lo chiedi da una
settimana, Grace. – sbuffo – E la risposta
è la medesima: lasciami in pace. –
concludo acido, chiudendo le palpebre, gli occhi così pieni
di tramonto che
ormai vedono in negativo.
- Ho deciso. – dice improvvisamente,
dura, sicura, così ferma che mi volto a guardarla, una mia
mano ossuta che si
stringe attorno al calore della tazza.
- Cosa? – chiedo,
tentando di mascherare l’impazienza.
- D’ora in poi voglio
darti le risposte che cerchi. – dice, stendendosi su un
fianco e guardandomi
intimidita, le sue scarpette che grattano una contro l’altra,
i suoi occhi così
azzurri da sembrare il cielo nascosto appena dietro il tramonto.
Cercando un equilibrio
più interiore che fisico, prendo a muovere i piedi, per poi
sedermi sul
materasso, di fianco a lei, con la solita attenzione a non sfiorarla
nemmeno
con un dito.
- Sei sicura di averle
tutte? – chiedo severo, i miei occhi che, specchiandosi nei
suoi, somigliano a
buchi neri, mentre la prima delle tante risposte che cerco tarda ad
arrivare.
Poi socchiude le labbra, come ad aver colto un senso che poteva trovare
solo
leggendo nei meandri della mia mente, si guarda intorno e accenna un
flebile
“sì”, la voce di una sposa certa del
proprio amore, ma diffidente dell’uomo che
ha accanto.
- Però devi farmi una
promessa. – sussurra, evitando il mio sguardo.
- Quale? – chiedo,
confuso.
- Che sarai forte,
qualsiasi cosa accada. – dice come spinta da un moto di
commozione – Che le tue
mani non abbandoneranno mai la Musica e che tornerai a splendere come
un tempo.
Promettimi di provarci, James.
Mi ritrovo a deglutire,
la lingua ancora pregna del sapore del te, adesso è secca e
amara come se
avessi bevuto cianuro.
- Cosa ti fa pensare che
io possa fare qualcosa del genere? – chiedo stizzito
– Lasciare la Musica? È …
è la mia vita, Grace!
- E intanto non ti
accorgi che quest’ultima la stai lasciando dietro un muro di
onnipotenza che ti
stai costruendo credendo che possa sorreggerti, ma non è
così, James. –
sussurra, i suoi occhi che vanno da un lato all’altro dei
miei - È solo
un’illusione.
Sorrido, sarcastico. Mi
alzo in piedi, abbandonando la mia tazza ormai fredda sul comodino di
fianco al
letto, sorvolando sulle gambe di Grace che rimangono composte, non un
accenno a
socchiudersi, nessun invito ad avvicinarsi.
- A proposito. – dico,
passandomi un dito sulle labbra – Da quando ti ho conosciuta
non faccio altro
che ripetermelo. – continuo, scattando in avanti, il mio
corpo che in pochi
secondi sovrasta il suo, le mie mani ai lati della sua testa
– E se fossi tu
un’illusione?
Deglutisce, il suo corpo
è immobile. Trattiene il respiro, poiché non ne
sento le onde infrangersi sulle
mie guance.
- In cuor tuo. –
sussurra, la voce che trema – Spera che io non lo sia.
- Avevi detto che avresti
risposto. – ringhio, accennando a schiacciare il mio corpo
contro il suo, ma
basta il suo sguardo indifeso a fermarmi.
- L’ho fatto. – trema,
come se la morte la stesse schiacciando contro il letto. Mi mordo le
labbra,
spazientito, per poi abbandonarla tra le lenzuola, il suo vestito
intatto, il
suo volto che poco a poco si distende. Le do le spalle, cercando di non
cadere
di nuovo in preda alla rabbia.
- Perché non provi a
fidarti di me? – chiede all’improvviso.
Mi stringo tra le braccia,
trascinandomi di fronte alla finestra e contemplando il suo riflesso e
il mio.
- Mi basterebbe sapere
chi sei. – sussurro, chiudendo gli occhi – Sentire
che non ho nulla da temere.
Vieni qui, bussi alla mia porta, ad ogni concerto e poi? Finiamo per
parlare.
Di me, qualche volta di te. Ma io non so niente di te. Non so chi sei,
Grace.
Sospira, alzandosi dal
letto e raggiungendomi vicino alla finestra, alla mia destra, le
braccia
incrociate al petto.
- Sei innamorata? –
chiedo, d’istinto, giusto per strapparle qualcosa di bocca.
- No. – dice, col solito
tono fermo che usa per non essere contraddetta – Io amo,
è diverso.
Arriccio le labbra, in un
sorriso sarcastico.
- Che differenza c’è?
–
chiedo, continuando a ghignare.
- Chi s’innamora ha a che
fare con qualcosa di precario. – sussurra, guardandosi le
unghie – Oscilla in
continuazione tra l’egoismo di un’ossessione e
l’amore vero.
- E cosa ti fa cadere
dalla parte dell’amore? – chiedo
d’istinto, interrompendo il suo discorso,
avvolto da una strana quanto impaziente curiosità.
Sospira di nuovo,
sorridendo malinconicamente, rivolgendomi occhi che non sono stati mai
così
nostalgici, così lontani, immersi in qualche strano ricordo.
Sembra quasi che
voglia farmi ricordare qualcosa che abbiamo vissuto insieme, forse in
un’altra
vita, ma che non riesco ad afferrare.
- Donarsi. – confessa,
roca – Senza pretese. Chi s’innamora vuol sempre
qualcosa in cambio. Chi ama
perderebbe tutto, anche se stesso, per l’altro. –
conclude, con un’intensità
che mi fa tremare come un adolescente di fronte alla prima ragazza, al
primo
sfiorarsi di labbra, al primo amore.
- E tu … - tento di
parlare, ma il mio è un balbettare frenetico.
- Io ti seguo, Jimmy. –
dice sottovoce, gli occhi che brillano nella penombra della stanza
ormai avvolta
dalla sera – Perché senza di te non so dove
andare. Perché per te ho perso
tutto, James.
Aggrotto la fronte, le
idee che si mescolano come colori sulla tela della mia mente componendo
un
quadro astratto di cui non conosco ancora l’interpretazione.
Poi, un brivido mi
taglia la schiena e subito dopo un tuono, in lontananza, riecheggia nel
silenzio. Un freddo pungente si fa strada sulla pelle che veste la
spina
dorsale, mentre lei abbassa lo sguardo, dandomi le spalle e avviandosi
verso la
porta.
- Fa … - le labbra che
tremano, gelate – Fa freddo quando sei qui.
Silenzio, i suoi
lineamenti sconosciuti, inghiottiti dal buio della sua stanza.
Solo la sua voce.
- È perché non posso
abbracciarti, Jimmy.
Poi il buio viene
squarciato dalla luce del corridoio, la porta che si apre facendo
uscire
l’ombra di Grace, io che la inseguo fin sopra
l’uscio, in tempo per fermarla a
metà del suo tragitto.
- Puoi farlo, Grace. –
dico, affannato, rivolgendomi alle sue spalle ricoperte
dall’oro dei suoi
capelli.
- No. – afferma aspra,
stringendo i pugni, ma senza voltarsi - È il prezzo da
pagare.
- Cosa? – sussurro, per
poi ripeterlo ad alta voce – Per cosa Grace?
- Jimmy.
Mi volto di scatto, in
tempo per vedere Robert arrivare dal lato opposto del corridoio.
- Con chi parli? – e alla
sua domanda mi giro ancora, trovando il vuoto nel punto in cui poco
prima c’era
Grace, scomparsa, come se niente fosse, come se non …
- Hey. Ci sei? –
insiste, vedendo che non lo sto
considerando, una sua mano sulla mia spalla.
- Parlavo con Grace. –
confesso – Ma è andata via.
- Hmm. – esclama, le
labbra che protendono in avanti mentre mi guarda dubbioso -
È tutto ok, Jim?
Annuisco, occhi ben fermi
dentro i suoi: - Mi cercavi?
- Sì. – dice, iniziando a
frugare nelle tasche dei pantaloni, io che entro nella mia stanza,
tornando di
fronte alla finestra, passando con lo sguardo dai lampioni, che
spuntano come
candele tra i tetti, al cielo coperto sulla mia testa, la pioggia che
prende a
scendere giù. Robert parla, ma non lo sento. Chiudo gli
occhi e ripenso alle
parole di Grace.
Cosa ha perso per me?
E se è lei a seguirmi, dov’è che
dobbiamo andare, quando nemmeno io so quale sia il punto
d’arrivo del nostro
folle viaggio?
- Jimmy, mi ascolti? – la
voce di Robert taglia il filo dei miei pensieri e voltandomi vedo che
è seduto
sulla poltrona di fronte al letto. Ha anche acceso
l’abat-jour, ma non me ne
sono accorto. Richiudo di nuovo gli occhi.
Lei è di New
York, mi dico,
forse è lì che deve tornare.
- Robert, sai per caso
quando saremo a New York? – chiedo, come illuminato.
- Tra più di un mese,
amico. – dice, aggrottando la fronte – Ma cosa
centra con la canzone?
- Quale canzone? –
chiedo, confuso, mentre lui spalanca la bocca.
- Jimmy è da mezz’ora che
te ne parlo. – sussurra, deluso, stringendo tra le mani un
foglietto malridotto
e sventolandolo per farmelo vedere – Ma a quanto ho capito
non te ne frega un
cazzo. – sbotta poi, buttando a terra il foglietto e
alzandosi per uscire dalla
stanza.
Io rimango immobile, la
porta che sbatte violentemente ma senza interferire nel mio stato di
trance,
gli occhi immobili sul pezzetto di carta abbandonato sul pavimento, un
racconto
di Grace che sembra lontano, inarrivabile.
Bloomington, Minnesota,
12 Aprile
1977
- Tu sai cosa mi
è successo, vero?
Annuisce, le dita che
giocherellano con dei fili
d’erba, il suo respiro calmo come lo scorrere Minnesota. Una
luna malinconica
si riflette sulla superficie.
- Eri sul palco quando
ti sei sentito male.
Aggrotto la fronte.
- Ti sbagli, ero nello
spogliatoio.
Prende fiato, mi
guarda.
- Sicuro?
Interrogo la mia
memoria, ma resta muta.
- Visto? –
sospira.
Lancio una pietra
nell’acqua, un tonfo così secco
da fare un buco che non solleva gocce.
- Ti manca New York?
– chiedo, stringendomi le
gambe al petto con le braccia e inclinando la testa da un lato.
- Sì.
– sorride con la solita malinconia – Mi
manca andare in Morton Street Pier, stendermi su una panchina cotta dal
sole e
con le gambe penzoloni, mentre una scolaresca passa di fronte allo
Hudson
River. – racconta, portandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
- Lavori da quelle
parti? – chiedo, preso dal
momento raro in cui lei è pronta a raccontarsi.
- Non esattamente.
– risponde, ma con l’imbarazzo
tipico di chi vuol cambiare argomento. Così, per tenerezza,
l’assecondo.
-Non mi hai ancora
detto che lavoro fai, però.
- Lavoro in una
caffetteria. – sorride, sollevata
– A qualche isolato dal Battery Park. – aggiunge,
cambiando poi improvvisamente
discorso – Non dimenticherò mai
l’apertura del World Trade Center. – esclama
con occhi sognanti.
- Ma. –
sussurro, aggrottando la fronte - È stato
quattro anni fa, se non ricordo male. – puntualizzo,
guardandola stralunato,
lei che invece sembra essere impallidita, anche se non saprei dirlo con
certezza con la poca luce che ci circonda.
-Sì.
– la voce che trema – Ma è stato
indimenticabile.
Mi soffermo ad
osservarla, i suoi denti che
mordicchiano il labbro inferiore, il suo imbarazzo che è
evidente come quello
di una bambina che ha appena detto qualcosa di stupido. Sottovoce,
prendo a
ridere, per poi sospirare a pieni polmoni.
- Ah, Grace.
– dico, stendendomi tra l’erba –
Sembri la nevicata di Miami. Insolita!
Alla mia affermazione,
si volta a guardarmi,
dubbiosa.
- Che
c’è? – chiedo.
- Non ha mai nevicato a
Miami.
- Su questo ti sbagli,
ragazzina! – esclamo,
mettendomi a sedere - È successo a Gennaio, poco dopo il mio
compleanno. –
dico, l’intenzione di suscitare qualcosa nella sua memoria,
ma la sua
espressione è sempre più persa – I
giornali ne hanno parlato per giorni, Grace!
Dicevano che potrebbe essere l’unica nevicata che Miami abbia
visto in vita
sua.
Silenzio, il suo capo
che si abbassa. Le dita che
stringono la gonna.
- Non me lo ricordo,
Jimmy.
Piegandosi, le mie
ginocchia schioccano sinistre. Con mano tremante, raccolgo il pezzetto
di carta
abbandonato da Robert, leggendo a bassa voce ogni parola scritta in
modo
sgangherato.
Il cuore di Robert che
parla in versi.
And
if you promised you'd love so completely
and you said
you would always be true,
You swore that
you would never leave me, baby:
What ever
happened to you?
And you
thought it was only in movies
As you wish
all your dreams would come true.
It ain't the
first time, believe me, baby
I'm standin
here, feeling blue.
Yeah, I'm blue.
Un nodo alla gola.
La mia mancanza d’attenzione.
Le promesse infrante.
Tutto nelle poche parole
di una canzone.
- Che sto facendo? –
sussurro, sedendomi a terra, la schiena contro il materasso. Di fronte
a me, il
mio riflesso dentro lo specchio dell’armadio. Una mano tra i
capelli, l’altra
chiusa a pugno sul cuore.
- Che sto facendo?
Angolo
della pazza:
Salve! :3
Sono viva, zì!
Ok, dopo le mani impossibilitate a fare qualsiasi cosa, torno a
scrivere. *^*
Sì, più o meno. Sto capitolo è stato
un parto e non so nemmeno quanto ne sia valsa la pena sforzarsi,
perché magari non ho reso nemmeno l'idea che avevo in mente,
e cioè di rendere più nitido il quadro di Grace.
Ci sono dettagli che dovrebbero aiutarvi a capire (qualcuno lo ha
già fatto ^^'), però non voglio svelarvi nulla e,
ovviamente, qualsiasi supposizione avanzerete, negherò fino
alla morte. ♥
Ci si becca al prossimo aggiornamento!
Un abbraccio,
Franny
|
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Capitolo 8 *** 7. I lost myself on a cool damp night. ***
7.
I lost myself on a cool damp night.
Pontiac, 30 Aprile 1977
Il Silverdome è un oceano
di anime.
Settantaseimila
duecentoventinove, per l’esattezza.
Tutte qui. Per noi. Per
me.
Una costellazione di
cuori che battono all’unisono e che fino a due ore fa nemmeno
si conoscevano.
Quella della Musica è una
magia così oscura da non poterla capire. Non
l’avvicinerò mai, lascerò solo che
mi trascini. Com’è possibile che basti un accordo
sulla mia Gibson, le mani di
Jonesy che scivolano sul piano o il piede veloce di Bonzo a far
sì che il
gemito di Robert sia quello di tante voci che non hanno nemmeno parlato
tra
loro? Com’è possibile essere così
vicini, così uniti?
È in questi momenti che
penso alla vecchiaia, a come sarà tutto ciò col
passare degli anni. Se saremo
qui, su questo palco o un altro, a spostare il sudore che gocciola da
capelli
ormai bianchi. È in questi momenti che potrei pregare.
Pregare che Robert
continui a sorridere con occhi sognanti, persi oltre il pubblico;
pregare che
Jonesy sia ancora lì, nascosto tra il suo basso e la
grancassa, la sua quieta
presenza, così decisa e fondamentale; pregare che John sia
seduto lì dietro,
forse un po’ più lento e qualche capello in meno
sulla testa, ma felice, come
ora, la sua batteria appendice naturale del suo cuore. Forse, pregherei
anche
per me.
Chiederei di esserci e di
capire come farlo.
Butto via una nuvola di
fumo, mi giro alla mia destra.
Robert. Splende di tutta
la luce che nemmeno i fari sul palco hanno, il petto lucido rivolto al
pubblico che
si solleva inalando il fumo della mia sigaretta.
Per poche ore, siamo dèi
che calpestano la terra.
*
- Dove vai?
- Ho bisogno d’aria,
Robert, tutto qui.
Sembra incerto. Poi, le
labbra di Audrey sul suo collo.
- Va bene, ma rimani nei
paraggi. – dice per poi dedicarsi alla sgualdrinella.
Fuori dalle grinfie del
festino in nostro onore, l’aria del Michigan mi soffia le
guance il suo cielo
limpido e freddo. Le piogge ci hanno abbandonati in Kentucky ed ora il
sole e
le stelle
splendono alti sopra le nostre teste da ormai cinque giorni, passati
nella
monotonia totale, con voli che sembrano durare in eterno e canzoni che
non
decollano, con Robert che scrive, John che beve, Jonesy che mi scansa
come un
appestato.
- Ciao Jim!
Cole. Una mano in segno
di saluto, l’altra che alza la zip dei pantaloni mentre una
tizia dalle labbra
decisamente gonfie lo segue a ruota con uno sguardo confuso, entrambi
fatti
della mia stessa merda, ma capaci di darsi una sistemata, di
mascherarsi con un
sorriso e tornare a festeggiare, come se niente fosse. Io non ci
riesco. Al
massimo mi rifugio dietro un paio di occhiali da sole troppo grandi per
la mia
faccia, mentre un’acne che prima non c’era mi rode
le guance.
Eroina. Effetti
collaterali: guardarsi allo
specchio e non sapere chi hai di fronte. Prendi appunti, Page.
Pontiac è avvolta dal
silenzio, non un passo ad infrangerlo, nemmeno l’arrivo di
Grace, ormai
lasciata a cinque giorni e cinque notti fa. Ho passato queste
centoventi ore
sperando che lei bussasse alla mia porta, di vederla in prima fila con
le
parole di ogni canzone imparate a menadito che le scorrono sulle
labbra.
Come sempre.
Invece no. Sono ormai
cinque notti che Grace è lontana da me, persa sotto
chissà quale cielo; cinque
notti insonni, occhi aperti contro il cielo sempre più
limpido, capace di
spostare le nuvole sopra di me, fino ad annebbiarmi i pensieri, e il
nome di
lei a squarciarle fino a farle piovere dentro di me come gocce di dubbi
che a
fine tempesta lasciano solo un fango di domande senza risposta.
- Vuoi?
Sorpreso, mi volto alla
mia sinistra, la vista annebbiata da una lieve sonnolenza apparsa dal
nulla,
come lei; ma mi ci vuole qualche istante per capire che, quella che mi
sta
allungando una canna, è Audrey.
- Se ti becca, Robert ti
sgozza. – borbotto, distogliendo lo sguardo.
- Per un po’ di erba? –
ride – Di certo non ti cambia la situazione. –
osserva, poggiandosi con una
spalla al muro, rigirandosi tra le mani anche un accendino.
- Non parlo di quello. –
sussurro, togliendole tutto dalle mani con gentilezza. Con calma, porto
la
canna alle labbra, illuminando lo spazio tra me e lei con la fiamma
dell’accendino.
Un sorriso sarcastico mi
attraversa le labbra, ma Audrey non capisce, non se ricambia. Infatti
si
ritrova a fare un verso di sorpresa quando una mia mano si stringe
attorno al
suo braccio, le gambe perfette che faticano un po’ a trovare
l’equilibrio, per
poi intrecciarsi con le mie. È bollente, una cagna in
calore.
- Di cosa parli allora? –
chiede con malizia, mentre i miei occhi la analizzano dalla testa ai
piedi per
poi fermarsi nei suoi, infuocati e folli. Come i miei.
- Sei una puttana,
Audrey. – le sputo acido, ma in tutta risposta ricevo solo
una risata
compiaciuta.
- Dici? – sussurra impertinente,
avvicinando il suo viso al mio e strusciandosi contro il mio inguine
come
farebbe una perfetta baldracca uscita dalla prima bettola dei sobborghi
di una
città anonima. Senza staccare i miei occhi dai sui, libero
le mie labbra dalla
canna, per scagliarle contro le sue, voraci, rudi, senza riservarle
premura.
Gliele mordo, le sue, che sanno ancora di Robert, così
volgari, allenate e
senza ombra di femminilità o grazia.
Grazia.
Grace.
Mi stacco, guardandola
ancora una volta negli occhi, aspettandomi quasi di trovarli azzurri e
di poter
vedere le mie dita intrecciarsi tra spighe di grano. Ma questa non
è Grace.
Questo è solo l’ennesimo straccetto da buttar via
una volta usato per bene.
- Andiamo. – dico,
lasciandole una pacca sul culo che le fa stringere gli occhi.
La strada fino al nostro
hotel è breve, fatta di mani contro pelle e i nostri corpi
abbandonati contro
il sedile posteriore, della mia canna che va a spegnersi sulla sua
coscia
destra e del suo urlo soffocato dalla mia lingua.
- Sta zitta. – le ringhio
feroce, mordendole le labbra, e lei lo fa, almeno fino alla scala che
porta al
mio letto. Lì, abbandonata contro le lenzuola, si lascia
fare qualsiasi cosa
passi per la mia mente poco lucida, il mio corpo presente come non mai,
in ogni
morso, carezza o schiaffo, mentre lei si dimena e si abbandona,
giocando col
suo piacere e il mio, così consenziente da fare schifo,
così dominabile da
farmi passare tutte le voglie. Così, il mio nome riempie la
stanza che ormai
puzza di sudore, così incitato dalla sua voce e dalle sue
azioni da risvegliare
in me ogni minima perversione, fino a quando non le cado accanto,
esausto,
coprendomi con un lenzuolo per non dover mostrare ancora le mie ossa
nascoste
da una pelle così leggera da sembrare carta di riso.
Mi giro su un fianco
cercando di riprendere fiato, lei che ansima ancora fino a quando non
sento il
suono riconoscibile del singhiozzo, segno forse di una coscienza che si
risveglia insieme al dolore fitto tra le gambe, ma non è per
quello che non
riuscirà a dormire stanotte. Avrà il cuore colmo
di sensi di colpa e faticherà
a girarsi nel letto, pensando che quello di Robert era sicuramente
più
accogliente, che lì era stata trattata da donna, mentre qui
è stata svelata per
quello che è. Una stronza.
Come me del resto. Siamo
fatti della stessa pasta, traditori nei confronti della stessa persona.
Più
una, lontana. Quanto, non lo so. So solo che mi sembrava di vederla
sotto di me
quelle poche volte in cui ho accarezzato il corpo di Audrey, invece che
graffiarlo. Che mi sembrava sua la voce, che potevano essere suoi i
capelli e
suo quel calore che non sono ancora riuscito ad avvicinare, ma solo ad
immaginarlo. Nelle ore di questa lunga notte, troppe volte mi sono
ritrovato a
pensare al corpo di Grace rimasto sconosciuto alle mie dita e a volerlo
contro
il mio, accogliente come il ritorno a casa dopo un lungo viaggio senza
meta.
Poi, finalmente, il sonno
arriva, con le mie mani strette attorno al lenzuolo. Alle mie spalle,
Audrey
sta ancora piangendo.
*
Un calore delicato mi
sfiora la guancia destra, così sottile da sembrare una
carezza. Mi ricorda la
manina di Scarlet, quando la incontravo ogni mattina contro il mio
naso, lei
così piccola tra le mie braccia, profondamente addormentata
dopo una notte
insonne, la mia. Sorridendo al ricordo, apro gli occhi, quasi credendo
di
trovarci davanti i suoi capelli splendenti, ma trovo solo un sole alto
fuori
dalla finestra, segno che molto probabilmente è mezzogiorno
e che tra poche ore
saremo di nuovo in partenza. Immediatamente scatto in piedi, iniziando
a
raccogliere i primi indumenti che mi capitano a tiro e indossandoli,
per poi
fiondarmi nell’armadio, richiudendo tutte le valige con pochi
gesti. Quando tutto
è pronto, mi dirigo verso la porta ma, arrivatoci di fronte,
mi rendo conto che
a terra ci sono dei vestiti. Come fulminato, mi volto di scatto verso
il letto;
Audrey dorme profondamente, rannicchiata in posizione fetale,
completamente
nuda, la pelle bianca segno che ha dormito così per tutta la
notte, soffrendo
anche il freddo. Ma la rabbia che mi esplode dentro è
così tanta da non
riuscire a contenermi.
- Ma che cazzo ci fai
qui? – urlo, svegliandola subito – Esci fuori, ora!
– le ordino, raccogliendo furioso
i suoi vestiti e tirandola giù dal letto.
- Jimmy, che succ…
- Ho detto fuori! – urlo,
strattonandola, lei che riprende subito a piangere, afferrando i
vestiti che le
lancio addosso e tentando inutilmente di coprirsi. Mentre continua a
blaterare
parole senza senso, la trascino verso la porta, lottando contro di lei
che vuol
restare dentro per rivestirsi, ma non c’è sconto
della pena. In pochi istanti
spalanco la porta, facendoci passare sotto Audrey ancora svestita, le
mani
contro il seno e l’inguine, gli occhi gonfi di pianto, le
urla e una porta che
si apre sul corridoio, Robert che varca la soglia, i suoi occhi che si
poggiano
su di noi distanti pochi metri, la sua bocca che si spalanca muta.
- Robert, non è come
pensi. – singhiozza Audrey, tentando di avvicinarsi, le mani
di Robert che si
chiudono a pugno.
- No, infatti. – sibila,
per poi guardarmi - È peggio.
- Per favore. – supplica lei,
io che rimango immobile a fissare Robert, deglutendo pesantemente.
- Entra. – le dice – Ma dopo
che ti sei rivestita, fammi la cortesia di sparire. –
conclude, il suo sguardo
così freddo, così diverso da quello attraversato
da una luce di calda malizia. C’è
un disprezzo così profondo da non vederne la fine. Poi, un
lampo. I miei occhi
cambiano soggetto, qualcosa si muove in fondo al corridoio alle spalle
di
Robert. Mentre Audrey non accenna a voler entrare in camera, a pochi
metri dall’ascensore,
Grace mi guarda sconvolta, la bocca spalancata, la fronte aggrottata,
la sua testa
che ripete lo stesso no che io prendo a urlare, correndole incontro.
Troppo
tardi. Mentre Audrey e Robert si voltano a guardarmi, Grace ha
già imboccato le
scale, diretta al piano terra. Faccio la stessa strada, il cuore in
gola, ma
quando sono nella hall, è così affollata che
sarebbe impossibile raggiungerla.
-Cazzo! – ringhio a denti
stretti, piegandomi sulle ginocchia con le mani tra i capelli.
Dopo giorni passati a
chiedermi che fine avesse fatto, ecco che riappare quando non avrebbe
dovuto,
quando avrebbe frainteso, quando avrebbe certamente creduto che sono il
solito
bastardo. E così è. Lo è sempre stato,
con tutte.
Rassegnato, mi sollevo,
guardando sconfortato la hall, fino a quando i miei occhi non
rintracciano
Bonzo, immobile di fronte alla porta d’uscita, intento a
fissare un punto
impreciso della strada.
- Hey Bonz! – grido, lui
che si volta a guardarmi, incerto.
- Era lei? – chiede,
indicando l’uscita, io che lo raggiungo con due passi, lieto
finalmente che
qualcuno l’abbia vista.
- L’hai vista? – gli chiedo,
speranzoso.
- Bionda? Carina? –
chiede, io che annuisco ad ogni descrizione – Un vestito a
fiori.
- Sì, è lei! –
sorrido,
dandogli una pacca su una spalla – Grace.
- Hmm. – annuisce dubbioso
– Non so se mi piace. – commenta, il suo tono
stranamente serio.
- Perché? - chiedo,
sconvolto.
- Non lo so. – borbotta,
grattandosi il mento – Tu stai attento, però.
– avverte, per poi andarsene,
come perso nei suoi pensieri, il passo pesante e trascinato che lo
porta fino a
un divanetto della hall.
Che diavolo gli prende?
- Mr. Page?
- Sì? – chiedo,
voltandomi alle mie spalle dove un fattorino un po’
impacciato mi porge le mie
valige.
- I suoi bagagli.
- Grazie mille. – dico,
afferrandole, mentre dall’ascensore compare Robert, serio in
volto e seguito a
sua volta da un altro fattorino. Attraversa la sala in silenzio,
uscendo dall’albergo.
Fuori c’è Jonesy, che lo aspetta con una sigaretta
tra le labbra, mentre il mio
stomaco inizia a bruciare esattamente come il suo mozzicone.
*
In aereo è calato il
silenzio.
Solitario, accompagno il
viaggio improvvisando sulla chitarra, gli altri poco lontano che
chiacchierano
spensierati.
Abbasso lo sguardo, tra i
piedi il foglietto stropicciato che mi portò Robert qualche
giorno fa. Mi chino
in avanti, appuntandoci qualche frase in aggiunta e i rispettivi
accordi, per
poi ripeterli sulla chitarra, provando a canticchiarli.
- Eri calante.
Mi volto di soprassalto.
Alla mia destra, Robert.
- E le parole sono mie. –
aggiunge, sedendosi di fianco a me, con uno sguardo a metà
tra il serio e il
divertito – Il che mi fa incazzare parecchio.
- Sono stato uno stronzo.
– mormoro, aggrappandomi alla mia chitarra.
- Figlio di puttana, per
la precisione. – dice lui – Ma, in fondo, anche lei
lo era.
- L’hai mollata? – gli chiedo,
cercando un segno del suo rammarico, ma non lo trovo.
- Sì. – annuisce –
Ma era
deciso da tempo. Era già scritto. – dice,
arricciandosi una ciocca di capelli
attorno a un dito, per poi accasciarsi contro lo schienale del sedile
– Ti ci
sei divertito, almeno? – sorride, malizioso.
- No. – dico, storcendo
la bocca – E sinceramente non saprei nemmeno dirti cosa
è accaduto.
- Meglio. – acconsente,
passandomi un braccio attorno alle spalle.
Robert. Quanta bontà,
innocenza e virilità in un solo uomo.
- Ed ora abbandoniamoci
alla dea, Pagey. – dice, afferrando il foglio e poggiandoselo
sulle ginocchia.
Il resto è una canzone
che nasce per caso, dalle sue paure, dalle mie incertezze, da un amore
che
forse non c’è mai stato e quello che ci
sarà sempre. La Musica che non ci
abbandona e mai lo farà.
-
Ah. – dice,
interrompendoci – Poi mi spieghi che diavolo hai visto
stamattina.
Angolo
della pazza:
Holà!
Ehm, che dire? Era dai
tempi di Tea che non aggiornavo così in fretta (seh).
Ok, questo capitolo
è penoso, lo so, ma c'è un elemento imporante che
avrete sicuramente notato.
Quindi, spazio alle
opinioni, alle scommesse e ai vari insulti che riceverò per
le pubblicazioni che avvengono sempre all'una di notte (no, Ire, non ce
l'ho con te :'D).
Alla prossima,
Franny
|
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Capitolo 9 *** 8. Your eyes held a tender light and stars fell on Alabama last night. ***
8.
Your eyes held a tender light and stars fell on Alabama last night.
Birmingham (The
Magical City), Alabama, 18 Maggio 1977
Diciotto giorni.
Diciotto, maledetti,
giorni senza di lei.
Non un tocco, non un
suono. Bastano poche settimane senza una chitarra per mandarmi fuori di
testa e
a darci dentro con la solita merda. Poi riprende il tour, finalmente la
double
neck tra le mie mani ansiose e sudate, ed ecco che arriva, puntuale
come la
morte. L’errore. Una nota inciampa, poi due. Cambiamo
canzone. Di nuovo. Così,
fino alla fine del concerto, fino allo sguardo esasperato di Jonesy che
non sa
se continuare a sopportare o provare a trovare il coraggio per darmi un
calcio
in culo.
Bonzo sorride. Poi beve,
fine della storia. Dio solo sa in che condizioni è il suo
fegato, ma sono
l’ultimo che ha voce in capitolo al riguardo, specialmente
mentre ingurgito
l’ultimo sorso di Jack tutto d’un fiato. So solo
che John è l’unico a parlarmi
con gentilezza, così insolita per un orso come lui, e poi mi
solleva da terra
con un braccio, come se fossi un bambino, solo per vedermi ridere.
Poi c’è Robert e il
nostro solito tira e molla. Le sue lamentele sulle mie esibizioni sono
un’arma
a doppio taglio che feriscono entrambi, ma sono necessarie come punti a
carne
viva che chiudono una ferita rimasta aperta. Le difficoltà
ci allontanano, ma
ci ritroviamo per provare a scalarle. Insieme. Da soli saremmo persi,
non
sapremmo dove andare, piume perse nel vento che non sanno
più volare.
Silenziosamente, scendo
dal palco, gli applausi che ci accompagnano fino a quando John non
scompare nel
backstage, io che imbocco il corridoio verso i camerini, stanco. Poi,
un rumore
di passi, così mi volto a guardare, ma lo sguardo alle mie
spalle è troppo
basso per ricambiare il mio.
- Jonesy!
Solleva la testa, una
serie di rughe che va a ricamare il centro della sua fronte, in
un’espressione
di confusione così perfetta da farmi avvertire
l’irritazione tra le dita dei
piedi.
- Jim. – risponde freddo,
facendo per aprire la porta del suo camerino, ma io lo blocco, il mio
viso che
cerca il suo.
- Non vuoi guardarmi in
faccia?
Lo fa, con disprezzo. Per
non dire disgusto.
- Ti sembra una faccia,
quella? – chiede, indicandomi col mento – Io vedo
solo la maschera di un uomo
che gioca a fare l’onnipotente.
- Dimmi Jonesy, da quanto
tempo pensi questo di me? – chiedo, il mio tono di voce che
aumenta insieme
alla rabbia e la voglia di sferrargli un pugno in faccia.
- Da quando il James che
conoscevo ha abbandonato l’amore per la Musica per poter
amare solo se stesso.
– sputa fuori, la calma e la freddezza inglesi che da tempo
ho lasciato perdere
- Sei così preso dalla tua immagine che non ti rendi conto
di non averne più
una, di esserti lasciato solo il disegno di te stesso impresso nella
mente
malata che hai. Sei così impegnato a commiserarti che hai
anche perso le palle
per affrontarti. Guardati, James! Sei un fottuto morto che cammina!
– termina,
il fiato corto, la voce che inizia a diventare isterica, io che tremo
furioso –
Ed io non sono Robert, Jim! Io non verrò a farti da balia.
Fosse stato per me,
ti avrei già sferrato un calcio in culo e aspettato che tu
ti riprenda. – dice,
puntandosi un dito contro il petto, io che seguo ogni sua singola
parola sulle
sue labbra – Ma lui no. Lui dice che sarà la
Musica a guarirti.
- E tu? – lo interrompo,
per poi afferrare il colletto della sua camicia inamidata –
Tu cosa
consiglieresti, dottore? – chiedo sarcastico, a un centimetro
dal suo volto.
- Dovresti andartene in
riabilitazione.
- Io sto bene. – dico a
denti stretti.
- Sì? – fa, sollevando le
sopracciglia – Allora dimmi, da quant’è
che non senti Scarlet?
- Cosa c’entra Scarlet
adesso?
- Dimmi da quant’è che
non le telefoni, che non le mandi qualcosa, che non le scrivi una
lettera.
Dillo, Jimmy! – urla, prendendomi per le spalle, la sua calma
che va a pezzi
insieme ai suoi nervi – Non ci sei più per
nessuno, Jim, tranne che per te
stesso. Sul palco dimentichi le note, non improvvisi più
come un tempo. E
l’amore. Quello che t’illuminava gli occhi quando
ti nominavano la tua
principessa. – aggiunge, arrochito, mentre inizio a deglutire
solo per ignorare
il vuoto all’altezza dello stomaco – Non
c’è più. I tuoi occhi erano spenti,
vuoti mentre ti parlavo di tua figlia. Come puoi abbandonarla? Come fai
a
mandare tutto a puttane come se niente fosse, James?
E così dicendo mi
strattona via, aprendo e scomparendo dietro la porta del suo camerino,
facendola sbattere con tutta la rabbia che ha nelle mani, le mie che
tremano.
Con lo sguardo perso nel vuoto, inizio a cercare il mio camerino a
intuito,
trovandolo dopo una manciata di secondi, muovendomi come se fossi una
marionetta mossa da fili invisibili che, partendo dalle mie braccia e
dai
piedi, finiscono tra le mani di un cervello che ormai è
perso in un labirinto
di rimpianti, di cose e persone dimenticate, lasciate a metà
strada, mentre io
imboccavo quella che, secondo me, poteva condurmi verso quel firmamento
sul
quale avrei scritto il mio nome.
Mi rendo conto che John
ha ragione, mentre mi libero della mia dragon suite. Ripenso a Scarlet,
alle
telefonate mancate, ai gesti negati, troppo preso da me stesso e dalla
convinzione di fare sempre la cosa giusta. È
dall’inizio del tour che non sento
la sua voce, che non chiamo Charlotte per avere loro notizie, che
arrivo alla
reception di ogni hotel dando l’ordine di non farmi passare
nessuna telefonata.
Isolato, legato da una camicia di forza fatta da tutte le mie paranoie,
le mie
paure, in mano solo un rasoio di presunzione e autocommiserazione che,
invece
di liberarmi, mi taglia i polsi.
Respiro, mi faccio forza.
Al nostro ritorno in hotel, la reception è deserta.
Così, afferro una cornetta,
compongo un numero e subito un telefono dall’altra parte
dell’oceano prende a
squillare.
Uno.
Due squilli.
Il quarto segue il terzo.
Forse non sono a casa.
- Pronto?
Una vocina così acuta,
dolce, ma decisa. È il suono che fa la mia principessa
quando corre alla
cornetta più in fretta di sua madre. Nel petto, il mio cuore
ha accelerato i
suoi battiti.
- Scarlet! – balbetto, la
voce arrochita dall’emozione – Amore mio.
- Papà! – urla, quasi
posso vederla saltellare sul posto, tenendo la cornetta con due mani
contro la
testolina bionda – Papà, come stai?
- Bene, tesoro. –
sussurro, passandomi una mano tra i capelli – Adesso sto
bene. Tu?
- Benissimo, pà! –
esclama, per poi prendere fiato, il suo tono di voce che cambia
all’improvviso
– Papà?
- Dimmi amore!
- Perché non hai più
chiamato me e la mamma? – chiede, lasciando trasparire il suo
essere ferita
dalla mia assenza.
- Scarlet, papà non ha
avuto molto tempo … - mento. Mi faccio schifo.
- Non ci vuoi più bene? –
chiede, la voce che trema. Sta piangendo.
- Amore mio, non dirlo! –
dico, affannandomi – Papà ti ama. Lo sai. Sei la
mia vita, Scarlet.
- E allora perché non hai
chiamato? – domanda di nuovo – Sei arrabbiato con
me?
- Ma cosa dici, tesoro? –
chiedo allarmato – No! Perché dovrei esserlo?
- Perché non ti ho
salutato quando sei partito. – sussurra, tirando su col naso.
- Scarlet, ascoltami. –
dico, tentando di restare calmo, di trattenere le lacrime –
Cosa ti ho detto di
fare ogni notte?
- Di guardare le stelle.
– dice e quasi posso vederla asciugarsi le guance piene, il
labbro inferiore
sollevato in un broncio – Che lo avresti fatto anche tu,
così ci incontriamo.
- Giusto, piccola mia. –
dico, incoraggiandola - Non preoccuparti se non mi hai salutato. Io e
te ci
vediamo tutte le notti.
Non è convinta.
Dall’altra parte, Scarlet continua a singhiozzare in silenzio.
- E molte notti sono
venuto a trovarti. – sussurro dolcemente – Stanotte
per esempio!
- Davvero? – esclama,
stupita.
- Sì. – affermo –
Ogni
tanto vengo a trovarti nei sogni, non te ne sei accorta?
- È vero! – esclama
entusiasta – Stanotte eri qui! Andavamo a Headley Grange e
zio Robert mi
portava sulle spalle.
- E se non sbaglio, ho
intrecciato una corona di fiori per te!
- Sì! – dice, la voce
acuta più che mai – Era bellissima papà!
- Come te, amore. –
sorrido.
Penso che la mente umana
sia strana. Raccontandole un mio sogno, ho scoperto che era anche il
suo. Forse
l’anima davvero è in grado di viaggiare. O forse
è il sangue a tenerci uniti
anche con l’oceano in mezzo. Oppure la mente è
capace di grandi cose, anche di
combinare un incontro a occhi chiusi tra padre e figlia.
- Ci sogneremo anche
stanotte, papà?
- Certo amore. – prometto
– Tutte le notti che vorrai.
- Mi porterai a
Bron-y-aur? Voglio sedermi
sulla
sedia a dondolo di zio Robert e giocare a braccio di ferro con zio
John! –
esclama tutto d’un fiato, mentre dalla cornetta arriva la
voce di Charlotte che
chiama Scarlet.
- Prometto, Scarlet. – le
dico – Ora vai, amore, la mamma ti sta cercando.
- Va bene, pà! – sussurra
– Ti voglio bene. – aggiunge, con una
sincerità disarmante che mi stringe un
nodo alla gola. Ma riesco ancora a parlare.
- Ed io ti amo, piccola.
*
Quando entro nella mia
stanza, le palpebre si abbassano sotto la pesantezza del sonno, ma qui
l’aria è
irrespirabile, così decido di aprire la finestra sul cielo
dell’Alabama, così
nero, così trapunto di stelle da richiamare lo sguardo per
una notte intera.
Sorrido, penso a Scarlet, tutta la voglia di vivere che io ho perso,
sembra
quasi voler ricominciare a scorrermi nelle vene quando penso a lei.
Poi, un lampo, qualcosa
che si muove nella strada deserta e così abbasso lo sguardo,
la mia bocca che
si spalanca dall’incredulità.
È lei.
La riconoscerei anche al
buio.
Solleva la testa, sembra
quasi che abbia avvertito i miei occhi su di lei. Senza perdere tempo,
abbandono la stanza, quasi cado per le scale, ma quando sono in strada,
lei è
lì che aspetta, immobile, l’accenno di un sorriso
sulle labbra.
- Ciao James. – sussurra.
- Ciao. – sorrido,
l’istinto innato che mi spinge ad avvicinarla, ma lei, come
sempre, fa un passo
indietro – Che fine avevi fatto? – chiedo col
fiatone.
- Ho avuto da fare. –
risponde con naturalezza.
- Cosa? – insisto contro
la sua freddezza.
- Trovare il modo di
starti lontana. – dice, le sue guance che si colorano
teneramente, mentre un
fiore d’orgoglio mi sboccia al centro del petto.
- Mi fa piacere vedere
che non ci sei riuscita. – annuisco, passandomi la lingua
sulle labbra – Mi
dispiace per l’ultima volta. – aggiungo seriamente.
- Non preoccuparti. –
dice lei, inclinando la testa da un lato e incrociando le braccia al
petto – So
chi sei. Non mi ha sorpreso vederti in una situazione del genere.
– commenta,
con una semplicità che mi fa sentire mediocre, mentre mette
a nudo la mia
natura, fatta di presunzione e menefreghismo.
- Non darti delle colpe.
– sussurra, mentre mi accorgo di aver fissato il vuoto per un
po’ di minuti –
Sei buono, James. Il problema è che ancora non hai trovato
il modo di
dimostrarlo – Vieni con me. Parliamo.
Senza proferire parola,
la seguo, lungo un percorso che solo Grace conosce, fino ad un parco,
alberato
e silenzioso, la luna e le stelle unici lampioni accesi nelle
vicinanze. Dopo
qualche minuto di trance, mi accorgo finalmente di essere nei Birmingham Botanical Gardens, mentre il
profumo dolce e intenso di tutti i fiori che ci sono mi riempie le
narici. Mi
sembra di avvicinare un luogo segreto, sacro. È un qualcosa
che somiglia
all’entrare ad occhi aperti in un sogno.
Ma è la realtà e le
parole di Grace tornano a rimbalzarmi nella mente.
- Ho paura che tu ti stia
sbagliando. – dico – Oggi ho telefonato mia figlia
dopo due mesi di silenzio.
Le mancavo. Aveva paura che fosse colpa sua, che fossi arrabbiato con
lei.
Grace non risponde, mi
cammina accanto senza fare rumore, imitando i miei passi, mentre mi
stringo
nella mia giacca.
- Sono spregevole, Grace.
- E cosa proponi di fare?
– chiede, arrestandosi, sedendosi tra l’erba. La
imito, guardandomi intorno.
Gli alberi formano un cerchio perfetto intorno a noi, delineando quello
che
sembra il centro del parco. Il vento si è fermato, tutto
è quiete. Qui non
arriva nemmeno il rumore del traffico. Mentre dentro di me si scatena
una
tempesta di pensieri e sensazioni, qui intorno tutto tace, creando
armonia col
volto di Grace, disteso e paziente, in attesa di una mia risposta.
- Non lo so. – dico.
- Bugiardo. – dice
sarcastica – Il solito bugiardo. A furia di mentire, prendi
in giro anche te
stesso.
- Che ne sai? – chiedo,
più insicuro che nervoso.
- Basta guardarti, James.
– dice, mentre lo fa con un’intensità
che mi fa sentire nudo, stranamente
vulnerabile – Stai male e il tuo malessere lo trasmetti a chi
ti sta intorno.
Eppure rimani fermo, non fai nulla. Sai perfettamente qual è
la decisione più
giusta da perdere, ma ti rifiuti, perché sei così
dipendente da quei momenti di
invincibilità ed ebbrezza che dover smettere ti rincresce,
facendoti
dimenticare che continuando così non ti resterà
abbastanza da vivere per
poterne godere ancora di quell’effimera felicità.
Lo ha detto tutto d’un
fiato, il mio corpo che prende a tremare come una foglia.
- Perché? – chiede –
Avevi tutto. Talento, carisma. Eri bellissimo, James! –
sussurra, le sue guance
che tornano ad arrossarsi – E guardati ora. Sei debole, a
malapena ti reggi in
piedi e hai il volto scavato, deforme.
Serro la bocca, incapace
di aggiungere altro. Continuo a tremare, quasi mi stesse torturando
fisicamente
con ogni parola che esce dalle sue labbra.
- Non sei più tu. – dice,
aggrottando la fronte – Perché?
- Perché iniziavo a
sentirmi stanco, Grace! – esplodo, la mia voce che esce dalla
gola in maniera
innaturale mentre urlo – Perché non trovavo
l’ispirazione, perché non
sopportavo più di essere indicato come un infame, di vedermi
dipinto dei
peggiori colori su qualsiasi rivista. Ho solo una fottuta passione per
l’occulto, ma non sono quello che dicono loro. E non sono una
razza di pedofilo
depravato. Tanti altri si sono scopati ragazzine appena tredicenni!
– continuo,
le lacrime che iniziano a rigarmi le guance mentre sento le labbra
gonfiarsi
sotto lo sforzo del pianto – Volevo che mi ascoltassero.
Volevo solo suonare. –
ingoio saliva e muco ormai, mentre mi si apre il cuore e faccio uscire
qualsiasi cosa ci sia stata al suo interno – Poi
l’incidente di Robert, ho
avuto paura per lui, i suoi figli e la mia Scarlet. Loro in Grecia ed
io a
Londra a farmi come un dannato per tentare di scrivere qualcosa. A
Malibù,
Robert era immobile in un letto col bacino a pezzi e io non sapevo che
fare,
mentre Bonzo e Jonesy erano in Europa, fuori da qualsiasi problema.
–
singhiozzo, buttandomi le mani sul viso – E a volte penso che
venderei davvero
l’anima al diavolo per non sentire più tutte
queste voci intorno a me, che
parlano, parlano e non dicono un cazzo. Voglio solo un po’ di
pace, Grace.
Mi asciugo le guance con
le maniche, mentre tiro pesantemente col naso, Grace che mi guarda con
un’espressione affranta, ma comprensiva. Non
c’è condanna sul suo viso, solo
una tremenda voglia di fare qualcosa per me che le fa brillare gli
occhi. È
quello che sento, quello che provo mentre riprendo fiato.
- Questa vita grava sulle
mie spalle, Grace. – sussurro, stringendo i pugni –
Ormai non la vivo più da un
bel po’. Me la porto dietro e basta. – concludo,
per poi buttarmi contro
l’erba, la schiena che raggiunge il suolo con un tonfo, le
mie mani abbandonate
sul grembo.
Da quando è iniziato il
mio personale inferno, questa è la prima volta che mi sfogo,
che sputo
fuori le mie
amarezze, che mi sento
finalmente libero di frignare come un bambino e sentirmi sollevato, di
aver
diviso questo peso e di potermi, anche se poco, rialzare. Chiudo gli
occhi,
mentre sento un rumore alla mia destra. Erba schiacciata.
- Ti senti meglio?
Annuisco ad occhi chiusi
alla domanda di Grace.
- Sicuro?
- Sì. – dico, riaprendo
gli occhi, incontrando il cielo sopra di noi – Anche se
vorrei capire chi
diavolo sei. – sussurro, senza guardarla – A volte
ho paura che tu sia una mia
allucinazione, uno scherzo del mio cervello. – mi volto a
guardarla, giusto per
vedere che reazione ha, ma il suo volto è di marmo,
impassibile – Poi penso che
a Pontiac anche Bonzo ti ha vista e questo un po’ mi
rincuora. – dico,
accennando una risata di sollievo, ma lei no. Grace scatta a sedere,
gli occhi
sgranati puntati su di me.
- Che succede? – domando
allarmato, mettendomi a sedere anch’io.
- Nulla. – dice,
portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Non avrebbe dovuto
vederti? – chiedo, mentre altre mille ipotesi si delineano
nella mia mente.
- Non lo so, James. –
dice, scuotendo la testa e fissando il vuoto – Non lo so
più.
- Beh. – sospiro, vedendo
la sua faccia buffamente amareggiata – Almeno siamo in due ad
avere lo stesso
dubbio. – dico, tentando un sorriso, ma lei rimane
imbronciata, gli occhi blu
che saettano veloci. Sta cercando una spiegazione, ma ha tutta
l’aria di
esserne ancora lontana.
- Hey. – sussurro,
avvicinandomi un po’ - È tutto ok.
- No. Non lo è. – dice.
- Sì invece. – annuisco
–
A volte ho paura che tu sia una povera ragazzina che ha perso la
memoria e non
sa più dove andare, ma di certo non seguiresti me.
– dico teneramente, mentre
lei finalmente mi guarda – A volte credo che tu venga da
chissà dove. –
aggiungo, serio, facendola impallidire – Ma di certo non da
questa terra.
- E cosa ti sei detto? –
chiede, impaurita quanto me.
- Che preferisco non
saperlo. – dico, deglutendo pesantemente, mentre i nostri
occhi si chiamano, si
cercano e i nostri volti, inconsciamente si avvicinano.
- Non farlo, James. –
sussurra, a un passo dalle mie labbra.
- Perché?
- Ho paura di cosa
potrebbe succedere. – ammette, ma da come lo ha detto, non si
riferisce di
certo a cosa potrebbe accadere tra noi. Ma a me.
- Lasciami provare. – sussurro,
supplicandola, mentre intorno a noi cala una nebbia leggera, che fa
brillare le
punte dei fili d’erba e, all’orizzonte alle spalle
di Grace, le stelle sembrano
brillare più forte, quasi fossero fiamme incastrate nel
cielo. Ho un brivido di
paura, ma lo combatto, mentre una nuvola di fumo scappa dalle mie
labbra. Vista
da vicino, Grace è ancora più bella, la pelle
liscia, bianca. La sua intera
immagine richiama purezza, mentre una ciocca di capelli le ricade sul
naso.
- James… - sussurra.
- Shh. – la zittisco,
stringendo tra le dita alcuni fili d’erba –
Qualsiasi cosa accada, sarà meno
forte del rimorso che avrò per sempre se non lo faccio.
– sussurro, mentre le
sue guance che si colorano di nuovo e le mie labbra, tremando, si
poggiano
delicatamente sulle sue e si tendono in avanti. Ne cerco il sapore
sulla punta
della lingua. Sono dolci, quasi un frutto proibito, mentre iniziano a
muoversi
impacciate e innocenti, quasi non avesse mai baciato, quasi fossi il
primo uomo
che incontra sulla terra.
Grace, venuta da chissà
dove, fragile contro le labbra di un uomo che ha conosciuto tante
donne, ma mai
nessuna strana quanto lei. E mai, potrei giurarlo, ho sentito il cuore
così
presente, quasi facesse le fusa contro i muscoli del petto,
così felice di
battere e di vivere. E mentre le mie labbra si mescolano con le sue,
perdo
fiato e lo riprendo da lei. Intorno a noi l’aria si
è fatta calda, quasi come
se questo posto stesse cercando di nasconderci, di isolarci, creando
una bolla
in cui il tempo è sospeso e non esistiamo altro che noi due,
soli, piccoli,
labbra contro labbra. Riapro gli occhi, felice, e mi stacco da lei, che
mi
guarda confusa e poi mi sorride, quasi sollevata. Una luce tenera
invade i suoi
occhi.
- Visto? Siamo ancora
vivi. – dico, facendola ridere – Non è
successo niente!
- Già! – dice,
continuando a ridere piano, mentre osservo il cielo. La luce delle
stelle è
così intensa e grande che sembra ci stiano cadendo addosso,
come a voler
partecipare a questa strana unione, a questo bacio assurdo, che mi
porterò nel
cuore come il più bello della mia vita.
- Sono felice, Grace! –
confesso.
- Anche io. – dice di
rimando, sorridendo, quando noto qualcosa sotto il suo naso.
- Grace?
- Sì?
- Stai sanguinando. –
dico, indicandole il naso con un dito.
- Cosa? – chiede,
portandosi una mano alle narici, le sue dita che subito si sporcano di
rosso.
- Aspetta, dovrei avere
un f… - ma non faccio in tempo a terminare la frase, che una
riga sottile di
sangue prende a scorrere dalla sua tempia sinistra.
- Devo andare. – dice,
allarmata e scattando in piedi, tamponandosi il naso con una mano.
- Ma dove, Grace? –
chiedo, più agitato di lei – Tu… hai
bisogno di aiuto. – urlo, mentre lei mi
volta le spalle e scappa. D’istinto, prendo ad inseguirla, ma
qualcosa
intercetta il mio piede, facendomi inciampare e cadere a terra.
- Grace!!! – urlo, mentre
la vedo sparire tra gli alberi, la gonna che svolazza da un lato
all’altro dei
suoi fianchi.
Poi, una pesantezza scura
si accanisce sulle mie palpebre, un freddo incontrollabile e, senza
più sapere
chi o dove sono, abbandono la guancia contro l’erba, cadendo
in un buio
profondo.
Angolo della pazza:
Salve! ^^
Finalmente, non vedevo l'ora che arrivasse questo capitolo. *^*
Beh, potete immaginare perché. :'3
Ehm, nulla. Diciamo che da qui in poi si dovrebbero un attimo delineare
le cose. Forse. Dipende da quanto sarò capace di rendere "su
carta" ciò che ho in mente.
Bene, oggi sono in vena di ringraziamenti.
Innanzitutto, ringrazio Ire. Grazie perché m'incoraggi
sempre, ma prima di tutto incoraggia te stessa. Sai a cosa mi
riferisco. Spero che questo momento "no" passi in fretta, beddha! ♥
Ringrazio Zelda per le sue bellissime recensioni. Non solo
quelle pubbliche, ma anche quelle per messaggi. Sei un tesoro, davvero!
:*
Ringrazio Cimma e Slyth, le mie recensitrici "vedo, non vedo". Grazie
anche a voi! ^^
Grazie ad Idra, che ogni tanto spunta dal nulla. Rivederti qui mi fa
sempre sorridere, caVa.
E grazie a chi legge, segue e preferisce in silenzio. Certo, vedersi
qualche parolina nelle recensioni fa sempre piacere, ma vedere sia il
numero delle visite che quello delle preferenze crescere poco a poco mi
fa sempre piacere.
E ringrazio anche voi, che magari leggete ma non volete dire
nulla. E' anche per voi che continuo a scrivere. :3
Detto ciò, ESIGO (♥) che voi facciate un salto
sulla cara, buona, vecchia Sweet Old Desire. Io e Ire stiamo
buttando il sangue per quella storia e continuerò a
pubblicizzarla perché ci sono troppo affezionata.
Bene, ho detto tutto. Credo.
Un abbraccio,
Franny
|
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Capitolo 10 *** 9. Nightmares ***
- Non farmi cadere.
- Non lo
farò.
Deglutii, tremai,
mentre il vuoto che si apriva
sotto di me sembrava voler trovare spazio nel mio stomaco. La
vertigine,
fastidiosa compagna di sempre, quella volta sembrò
trasformarsi nella più
pericolosa delle nemiche.
D’istinto
strinsi con forza la mano che sfiorava
la mia sinistra, trovandola gelata come il vento che mi tagliava le
guance.
- Posso fidarmi?
La mia voce,
più sottile del solito, tremò come le
cime dei pioppi intorno a noi che si stagliavano contro il cielo al
crepuscolo
come nervose macchie d’inchiostro su un vestito di velluto
blu.
- Da morire.
– sussurrò lei, cattiva.
Così, mentre
il terrore iniziava a rompermi la
schiena, mi voltai alla mia sinistra. Di fianco a me si stagliava
quello che
sembrava l’Eremita, ma quando abbassai lo sguardo sulle
nostre mani, trovai la
sua ridotta in ossa, scheletrica.
- Grace! –
urlai, ma contro il vento sembrò un
sussurro – Aiutami Grace!
La figura incappucciata
voltò il capo.
Non riuscii nemmeno ad
urlare quando mi accorsi
che quello sotto il cappuccio era il volto di Grace, un ghigno che le
tagliava
la faccia e gli occhi bianchi come attraversati dalla nebbia.
Allargò ancora di
più quel sorriso cattivo, per poi strattonarmi e tirarmi
giù, insieme a lei.
Questa volta urlai, mentre il dirupo scorreva sotto di noi e le cime
dei pioppi
si avvicinavano a noi come se fossero state le braccia della Morte,
pronta ad
accogliermi.
Poi, la caduta si
arrestò.
La mia guancia si
trovava contro qualcosa di umido
e freddo.
- Jimmy!
Balbetto qualcosa, un
“sto morendo” che resta solo
nei miei pensieri.
Una risata, dolce e
comprensiva.
- Non ancora, Jimmy.
Svegliati!
*
Tampa, Florida, 2
Giugno 1977
Chiudo gli occhi, inspiro
profondamente.
Sembra che il mare mi
stia entrando nei polmoni, lasciando una sensazione di leggerezza di
cui avevo
nostalgia. Una libertà da qualsiasi preoccupazione che ormai
non provo da quasi
un mese, da quando Robert e Richard mi ritrovarono addormentato nel bel
mezzo
di un giardino di Birmingham. Ne susseguirono giorni di febbre, tosse,
di altri
chili persi e una nube di silenzio che mi ha isolato da tutti fino ad
oggi. Poi
arriviamo qui, nel caldo della Florida, e mi rifugio in
spiaggia,
in un
posto appartato, isolato. Solo io, il mare, il sole e
Grace.
Ormai non mi abbandona
più e mi sono abituato al fatto che per lei
finirò con l’impazzire per davvero.
Nessuno la vede, solo io. Non parla con nessuno, solo con me. Sempre lo
stesso
vestito, sempre lo stesso sorriso. Una malinconia che si porta dietro
come un
segno di riconoscimento, che rende i suoi occhi sempre più
blu, mentre la sua pelle
non accenna ad abbronzarsi con l’avanzare
dell’estate.
- Sei la Morte?
Deglutisco pesantemente,
il mio petto nudo che trema, le mie gambe ossute che si piegano
nervose. Una
goccia di sudore scende dalla fronte, ma non di certo per il caldo
soffocante.
- No. – dice con
fermezza, continuando a camminare in punta di piedi sul bagnasciuga, le
mani
dietro la schiena come una bambina che gioca a campana –
Avrei troppo da fare
per stare con te. – aggiunge scherzosa.
- Giusto. – dico,
grattandomi il mento – E allora?
- Allora cosa?
- Dimmi chi sei. – dico
infastidito, picchiando un pugno nella sabbia.
- Se sapessi te lo direi.
– sbuffa lei – Ma ormai ho capito che dobbiamo
scoprirlo insieme.
- Tu sei matta. – rido
sarcastico – Perché dovrei?
- Perché altrimenti lo
diventi anche tu. – dice sedendosi di fronte a me.
- Mi ci stai già facendo
diventare, ragazzina.
- Ah, adesso è colpa mia!
– ride, stendendosi di fianco a me, il volto rivolto al sole.
È bellissima, eterea.
Vorrei dirle che forse è un angelo, ma credo lo saprebbe.
- Sembri un’anima persa.
– sussurro – Non sai da dove vieni, non sai dove
vai.
- Ricordo chi sono. –
dice, tenendo gli occhi chiusi – Ricordo perfettamente la
voce di mia madre.
Cantava bene. La mattina intonava sempre qualcosa della Fitzgerald o
della
James mentre preparava la colazione, poi si metteva ad intrecciarmi i
capelli e
a metterci dei fiori in mezzo, mentre mio padre mi dava un bacio sulla
fronte e
lo rivedevo solo la sera.
- Ti mancano? – chiedo.
- Sì. – annuisce, il suo
tono che diventa serio – Mi manca l’odore di mio
padre. Quando tornava a casa,
profumava di terra e sudore. Aveva addosso l’essenza di tutta
la fatica che
aveva compiuto. Era un odore tutt’altro che fastidioso, mi
trasmetteva forza e
sicurezza.
- E tua madre? – chiedo,
fissandole la punta del naso.
- Mi manca il rumore
delle sue scarpe. – dice, aggrottando la fronte –
Era il segno che c’era appena
dietro alle mie spalle, pronta a proteggermi, oppure davanti a me per
guidarmi.
Una presenza costante sul mio cammino.
- Ami i tuoi genitori. –
osservo, facendole aprire gli occhi.
- Sì. – sorride,
voltandosi per guardarmi – Ho sempre sognato una famiglia
come la loro. – e
mentre lo dice, una luce che brilla di vita le passa negli occhi, il
suo volto
che parla di un sogno che l’avrebbe resa la persona
più felice del mondo.
È bella. Da
morire.
Una morsa allo stomaco,
ma la ignoro.
- Cosa darei per baciarti
ancora. – sussurro, una nota di tristezza che fa stonare la
frase.
Fa di no con la testa, la
sua bocca che si piega da un lato.
- Non permetterò che ti
succeda qualcosa. – sospira, annegando lo sguardo nel mare,
lontana da me,
lontana da ciò che in questo momento ci sta tenendo
così vicini da poterci
quasi sfiorare con le mani.
- Ormai non mi spaventa
niente. – rispondo severo – Ho già
ricevuto tutto l’orrore che questa vita
potesse darmi. Non ho paura.
Sospira, tracciando
disegni immaginari nella sabbia con un dito, mentre i capelli le vanno
davanti
alla faccia, alcuni le si incastrano tra quelle labbra che non
potrò più assaggiare.
Sulla pelle bianca stanno passando dei brividi, lasciando sollevati i
pori,
mentre il vento ha iniziato a correre su di noi.
- Dovresti averne. –
sussurra. La sua voce è così bassa che
l’ho sentita appena tra le onde del
mare. Sembrava l’eco di una voce sperduta negli abissi. Tale
è la profondità
con cui l’ha detto. Da sempre le parole di Grace mi sono
sembrate insondabili,
senza un briciolo di senso, azzardate, di una ragazzina fin troppo
piena di sé,
che crede di poter zittire un uomo con quattro stronzate inzuppate di
enigmaticità.
Invece no. Lei sa.
Lo ha sempre detto, e più la
conosco, più mi convinco che lei riesca a vedere oltre il
velo di nebbia che il
presente pone tra me e il mio domani. Sembra che lei riesca a sondare
col suo
osservare silenzioso fino al più intimo fremito del mio
cuore, mettendolo a
nudo, fino a renderlo evidente anche a me che cercavo
d’ignorarlo.
So chi sei.
Lo ricordo ancora, il
modo in cui lo disse, per poi scomparire nel buio di un parcheggio
sperduto
dell’America. Mi disse che veniva dal mio
inferno quando, nel bel mezzo di un temporale notturno, le chiesi da
dove
venisse. E solo ora mi rendo conto di quanto fosse sincera, che il suo
non era
un modo impertinente per non darmela vinta, ma che stava parlando sul
serio. Grace
è stata sempre sincera con me. Il problema è che
mi rifiutavo di capirlo.
- A cosa pensi? – mi
chiede, apprensiva, notando il mio silenzio.
- Devo avere paura di te?
– le chiedo, ma in realtà la sto implorando che mi
risponda con un “no”.
Sorride, abbassa la
testa.
- Hai sempre quest’aria
malinconica. – le dico – Perché non
torni a casa?
Alza lo sguardo,
puntandolo dritto nel mio, ma senza l’ombra di sfida. Sembra
solo una bimba
alla quale ho chiesto qualcosa che non conosce.
- Ormai ho perso la strada
Jimmy. – dice con voce rotta – E non posso
più tornare indietro.
Aggrotto la fronte, le
mie dita che si stringono nella sabbia.
Le sue parole mi scuotono
dentro come un uragano, mentre intorno a noi il vento si è
fermato e delle
nuvole iniziano a raccogliersi all’orizzonte, trasformando il
blu intenso del
mare in un grigio che sa di catrame.
Le chiederei il perché di
questa affermazione, ma in qualche modo lo so.
Non saprei spiegarmelo,
ma sento di sapere la risposta alla mia domanda.
O forse perché, un’altra
più difficile mi risuona nel cervello e grande è
lo sforzo che faccio per
dirla.
- È per questo che sei
qui? – sussurro, guardandola intimorito – Potrei
non tornare nemmeno io?
Questa volta non sorride,
anzi. Il suo volto è una smorfia che sa di dolore, angoscia,
di poca voglia di
ammettere la verità. Poi torna a guardarmi.
Trattiene il fiato.
E poi, annuisce.
*
Mi son rinchiuso in
albergo. Le insulse strade di Tampa intrise di mondanità
hanno messo a dura
prova il mio sistema nervoso. Così, dopo aver abbandonato la
spiaggia, Grace e
dopo aver sonoramente mandato a fanculo Cole che insisteva per andare a
puttane
insieme, ho recuperato la mia chitarra acustica, rifugiandomi
all’ombra del
giardino dell’hotel.
Improvviso, le note
scivolano via da sole, senza la mia volontà. Sono loro che
guidano le mie dita.
Lei, la Musica. Mia padrona. Dea generosa e crudele allo stesso tempo,
capace
di regalarti la più grande felicità e le
più profonde delle delusioni.
La Musica è una mamma
gelosa, che ti culla, ti accarezza, ma non ti protegge dai dolori. Lei
preferisce curarli. La Musica mi ha dato tutto, anche il senso
d’onnipotenza
che mi porto dentro come un cancro, ritrovandomi così a mani
vuote, così
ingordo di successo da riempirmi solo di quello, restando solo.
O forse no.
- Ciao.
Mi volto alle mie spalle,
il rumore dell’erba schiacciata accompagnata dagli stivaletti
di Robert, il
capo chino, le mani nelle tasche dei pantaloni, una sigaretta tra le
labbra.
- Ciao Robert. – sorrido.
Non risponde.
Semplicemente si siede a terra, di fianco a me, gambe incrociate e
mento
all’aria, uno sputo di fumo che va a finire nel cielo,
sigaretta tra i denti.
- Anche tu stanco della
solita vita da tour? – chiedo, giusto per cercare
d’intavolare una
conversazione.
- No. – sussurra – Sai
perfettamente di cosa sono stanco.
- E allora perché sei
qui? – chiedo freddo, per poi stringere i denti contro la mia
di sigaretta, le
dita che impugnano più forte la chitarra – Ti
prendi fin troppo fastidio per
me.
Sorride sarcastico tra le
labbra chiuse, lo sguardo infuocato mentre si volta a guardarmi.
- Stronzo. – ringhia –
Sei solo uno stronzo, James Page. – continua, mentre il tono
della sua voce si
fa sempre più minaccioso – A furia di farti di
eroina e magia nera ti sei
fottuto il cervello, ma sono tutt’ora convinto che questo non
sia un problema.
- Ah no? – dico, sputando
via il mio mozzicone – E qual è? Sentiamo!
- Vuoi capire che non me
ne fotte un cazzo di perdere un chitarrista, eh? – urla, le
sue mani che
conquistano le mie spalle e le inchiodano alla terra seccata dal sole
– Il tuo
genio, la tua pazzia, chiamala come cazzo ti pare, sono niente
… niente … in
confronto al Jimmy uomo che
io vorrei accanto per questi e altri mille giorni, hai capito?
Si ferma, ma solo per
riprendere fiato.
I miei tremori, invece,
non si fermano affatto.
- Mi rifiuto di credere
che la tua magia sia frutto della
tua
mente. Io lo sento il tuo cuore battere nella chitarra, lo
sento, Cristo santo! – e così dicendo
prende a scuotermi forte
– Ma non voglio nemmeno credere che le
tue manie ti stiano fottendo anche l’ultimo segno della tua
esistenza, Jimmy,
porca puttana! – e questa volta mi lascia, rimettendosi a
sedere, le mani
fiondate nei capelli, i singhiozzi che gli scuotono il dorso ampio.
Io, invece, rimango
immobile a fissarlo, i tremori scompaiono, mentre il cuore che ha
menzionato
sembra voler esplodere in gola.
- Credi io sia cattivo? –
sussurro – Pericoloso?
- No. – afferma roco,
asciugandosi le guance col dorso della mano – Non per me
almeno, ma per te
sicuro. Ho paura a lasciarti nelle tue stesse mani.
Deglutisco, le sue parole
che sembrano pungermi il petto fino a iniettare fitte di dolore al
cuore, i
battiti che non accennano a rallentare, mentre la mia onnipotenza
artificiale
non fa altro che rendermi sempre più freddo, incredibilmente
lucido, mentre
Robert trema. Sembra che l’anima gli si stia contorcendo nel
petto.
- Quella mattina. – tenta
di dire, ma un colpo di tosse lo blocca – Quella mattina, a
Birmingham, credevo
fossi morto. – dice, recuperando fiato, fissando un punto
impreciso di fronte a
se. Sembra che mi stia ancora vedendo, ancora tra l’erba,
addormentato, il
respiro quasi inesistente, mentre una tavolozza di fiori mi circonda
come una
tomba – Il tuo corpo era così freddo tra le mie
braccia che per un momento ho
creduto davvero che fosse arrivata la fine.
Porta la sigaretta alle
labbra con fare nervoso, le dita che tremano mentre aspira con
avidità, la
fronte che si arriccia. Sembra che voglia incamerare nei suoi polmoni
tutto ciò
che lo circonda, io che rimango muto a guardare, mentre i suoi occhi si
perdono
tra le palme del giardino. Una farfalla bianca volteggia
nell’aria.
- Per fortuna mi
sbagliavo. – riprende – Quando ti ho portato le
dita alla gola, il tuo cuore
sembrava scalciare. Tu non vuoi morire. – afferma, per poi
guardarmi negli
occhi – Ma sembra quasi che tu stia sfidando te stesso, che
tu voglia portarti
al limite per capire quanto sei bravo a non superarlo.
- Mi credi così
incosciente? – faccio rauco, passandomi qualche filo di erba
sotto le punte
delle unghie.
- No. – sospira - È che
vorrei capire quale colpa stai espiando. O quale dolore tu stia
combattendo, di
quale angoscia non riesci a liberarti.
Non riesco a rispondere.
Eppure con Grace era
stato così semplice. Persino piangere non sembrava
così umiliante di fronte al
suo sguardo limpido. Confidarmi con lei è stato un qualcosa
di naturale.
Con Robert, no.
Perché?
- Non lo so. – mento – Ho
solo bisogno di farlo.
Non dice nulla. Spegne la
sigaretta contro il tacco dei suoi stivali e butta il mozzicone
lontano, i suoi
occhi che si perdono nel cielo, confondendosi di colore. Sembra stia
cercando
le parole giuste, capire se sia meglio contraddirmi o assecondarmi.
- Toccare il fondo prima
di risalire, eh Jim? – afferma dopo pochi istanti di silenzio.
- Credo di sì.
- Ci porterai anche me? –
chiede poi, freddo, pungente, un gancio dritto allo stomaco,
tant’è che lo
sento accartocciarsi sotto le costole, quando all’improvviso
vedo qualcosa
muoversi sullo sfondo, percepibile appena con la coda
dell’occhio.
Un gelo improvviso e una
nuvola che passa davanti al sole, il giardino che si veste
d’ombra.
Grace.
Proprio lì, in piedi,
sulla mia sinistra, una spalla poggiata ad una palma.
- Che succede? – chiede Robert,
allarmato, prendendomi il mento tra le dita e costringendomi a
guardarlo.
Di sfuggita, rivolgo uno
sguardo veloce a Grace, in tempo per vedere i suoi occhi sgranarsi e il
suo
dito indice raggiungere le labbra, intimandomi di fare silenzio.
- Nulla. – rispondo, ma
la mia voce trema e non inganna nemmeno me stesso.
- Sicuro?
Annuisco, mentre Robert
passa con lo sguardo ogni metro quadrato del giardino, cercando la
fonte della
mia inquietudine, ma nulla. Ben tre volte il suo sguardo passa su
Grace, quasi
incontra quello di lei, ma lui sembra solo un cieco che si muove a
tentoni. Nel
frattempo, io continuo a guardare lei, cercando di farle capire cosa
sto pensando
e, quasi come se mi stesse parlando in un orecchio, sento la sua voce
amplificarsi nella mia mente quasi per magia.
Lui non può
vedermi. Solo ora ho capito il perché.
Dimmelo, Grace.
Maledizione!
Ti aspetto a New York,
Jimmy. È lì che io e te abbiamo
iniziato.
Cosa? Cosa abbiamo
iniziato io e te, Grace? Cosa è successo a New York?
- Sembrava avessi visto
un fantasma!
La voce di Robert
riecheggia allegra, sporcata da una risata, distaccando i miei pensieri
da
quelli di Grace.
- Cosa? – chiedo, disorientato,
Grace che rimane lì dov’è.
- Jimmy, ti senti bene?
Una sua mano sulla
spalla, Grace che ci guarda.
- Sì. – balbetto,
recuperando un po’ di lucidità per poter
nascondere l’inquietudine – Ho avuto
un giramento di testa. È tutto ok.
- Sicuro? – chiede ancora,
per esserlo lui.
- Sì, Robert, tranquillo.
Sorrido. Mi imita.
Poi si alza, mi da un
ultimo sguardo e si avvia dritto, davanti a me. In direzione
dell’albergo. Dove
Grace è ancora ferma a guardare.
Una morsa allo stomaco,
tra un po’ le sarà addosso.
La raggiunge. Ci passa
accanto, ma non la vede.
È
a New York la risposta. È lì che ti aspetto,
James!
Angolo
della pazza:
Rieccomi! ^^
Ehm, sì.
Sto cercando di risolvere la trama, vi giuro che ci sto provando!
>.<
Ovviamente, i prossimi
capitoli saranno ambientati a New York, ergo tenetevi pronte (?).
Nulla, in questa
storia voglio che siate voi a interpretarla, se lo faccio io non vale!
^^'
Quindi, mentre mi
leggo con tanta calma il mio Doctor
Sleep
nuovo di zecca (aaaaah, zio Stephen), aspetto con anZia i vostri pareri.
E vi lascio anche una
foto (finalemente l'ho trovata) di colei che "presta" il volto alla mia
Grace.
Barbara Palvin
Jimmy, caro, poi non
dirmi che non ti tratto bene! u.u
Bene, ringrazio Irene,
che come sempre rimane in piedi per leggere i miei aggiornamenti
ritardatari, e Zelda, la mia fedele lettrice. Grazie della tua
impazienza. Mi ricompensa molto più di qualsiasi recensione.
Detto ciò,
vi aspetto al prossimo capitolo.
Vi aspetto a New York.
Un abbraccio,
Franny
|
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Capitolo 11 *** 10. Upon us all, a little rain must fall. ***
10.
Upon us all, a little rain must fall.
6 Giugno 1977
Sotto di noi, appena
dietro nuvole basse, grigie e cariche d’afa, si nasconde New
York. I miei occhi
rintracciano, di tanto in tanto, punte di grattacieli che non vedevo da
un po’,
mentre a bordo domina il silenzio, interrotto solo dal russare soffiato
di
Robert e quello pesante di John. Jonesy, seduto nell’ultima
fila, alle mie
spalle, legge illuminandosi con una piccola torcia. Aveva la fronte
corrucciata
l’ultima volta che mi sono voltato a guardarlo, disegnando
sulla pelle delle
finte rughe fitte come le pagine di Lord
Jim strette tra le sue mani. Non sopporto più il
suo silenzio, è più
pesante di qualsiasi colpa, più presente di qualsiasi
rimprovero. Mi gratto il
mento nervosamente, incontrando un leggero filo di barba, per poi
scattare in
piedi, dirigendomi verso di lui. È sempre lì,
silenzioso, come immerso nel mare
attraversato dalla nave di Lord Jim.
- Jonesy? – sussurro.
Alza lo sguardo come se
stesse uscendo da una trance. Poi mi vede davvero e, stranamente,
l’accenno di
un sorriso attraversa le sue labbra.
- Hey, Jim! – dice a
bassa voce, chiudendo il libro – Siediti! – dice,
indicando il posto di fronte
al suo. E così faccio, incoraggiato dal suo fare cordiale,
mentre si mette il
libro in grembo.
- Lettura interessante? –
chiedo, indicando il romanzo con un cenno del mento, mentre Jonesy
abbassa lo
sguardo su di esso, l’ombra di un sorriso sulle labbra. Poi
torna a guardarmi
con aria malinconica e di rimprovero.
- Credo lo sarebbe di più
per te. – risponde con calma – Somigli tanto al
protagonista e non solo per il
nome.
- Stronzate. – sussurro,
buttandomi contro lo schienale del sedile – Lord Jim
è un fottuto codardo
travestito da marinaio che nel momento di pericolo abbandona la nave.
- E ti senti davvero così
diverso? – sussurra Jonesy, abbassando lo sguardo,
accarezzando la copertina
con la punta delle dita – Non appena i giornali hanno
iniziato a spalare merda
su di noi ecco che ti rifugi nell’ero.
Sgrano gli occhi,
fissandolo incredulo. Jonesy e i suoi occhi piccoli che mi osservano da
lontano. Hanno capito tutto, molto più di Robert che mi
segue e mi accudisce
come una specie di balia.
- È così, vero? –
chiede,
severo.
Non ho nemmeno il
coraggio di annuire. Sento solo le labbra tremare, nervose.
- Certo che è vero. Sei
sempre stato fragile, Jim. – continua, come se stesse
parlando ad un bambino –
Ma sei troppo testardo per accettarlo. Così continui a
sbagliare, a fare
cazzate. Con la tua condotta non stai distruggendo solo te, ma anche
noi. –
aggiunge poi con tono di rimprovero, mentre serro la bocca e i pugni
– E il
peggio è che lo sai e non fai nulla per cambiare le cose.
Proprio come Lord
Jim. Lui ha posto rimedio quando ormai era troppo tardi, dopo anni
passati a
commiserarsi.
- Non lo è. – dico, il
volto indurito – Non ancora.
- Certo che sì. – fa lui,
guardandomi dritto negli occhi – Stiamo precipitando Jim, tu
ci abbandonerai e,
quando l’ero avrà compiuto il suo lavoro,
finalmente ti libererai dei tuoi
demoni. – e, nel momento in cui parla così, le
luci si spengono, le mascherine
dell’ossigeno pendono sopra le nostre teste,
l’aereo viene inghiottito dal buio
e il vento, che non si sa da dove proviene. John e Robert continuano a
dormire,
come se non stessero avvertendo nulla, Jonesy che mi fissa immobile, la
torcia
a illuminargli il viso, mentre io mi aggrappo al sedile, terrorizzato.
- Jonesy! – urlo –
Jonesy, aiuto! Ti prego, John e Robert! Svegliamoli.
- Non puoi fare niente,
ormai. – urla anche lui, anche se il volto resta disteso e
inizia a ricamarsi
di rughe e, nel momento in cui succede, l’aereo inizia a
sbandare, il tetto che
si apre squarciato dal vento, i miei capelli che vanno indietro. Butto
un’occhiata sotto di noi.
L’oceano.
- Jonesy! – lo supplico –
Aiutami, ti prego!
- È compito tuo. – dice,
riaprendo il libro per leggerlo – Sta a te salvarci, o
distruggerci Tuan Jim!
E, nel momento in cui
sputa la sua sentenza, il mare è ormai a un soffio, mentre
chiudo gli occhi,
pronto a morire.
Ma non accade. Il mio
corpo è bagnato, ma sotto di me c’è
solo l’asfalto e la puzza di benzina e
fogna.
Di nuovo la strada al
centro di New York, la pioggia, io che muoio mangiando la polvere delle
auto
che mi sfrecciano intorno.
E sempre la stessa voce,
una litania, le stesse parole.
Non ancora! Svegliati,
Jim!
*
New York, 7 Giugno 1977
Ritorno al mondo, alla
realtà. Sudato fradicio e i capelli incollati alla fronte.
Mi libero delle
lenzuola, rimasto intrappolato per via dell’agitazione,
scalciandole fino a
farle arrivare sul pavimento. Mi sollevo di scatto, mani tra i capelli,
bocca
spalancata per riprendere fiato.
- Cristo. – sbuffo,
sputando a terra, pronto a digrignare i denti non appena sento una
fitta sotto
la pianta dei piedi, imprecando contro quello che è un
crampo con i fiocchi.
Gli occhi si stringono, mentre l’aria tra i denti ha il gusto
amaro del cattivo
risveglio.
- Vaffanculo! – urlo,
buttandomi tra le lenzuola, lasciando che il dolore si mangi anche il
polpaccio
– Non ce la faccio più! – esclamo,
mentre due lacrime mi rigano gli zigomi e
qualcuno prende a bussare alla porta. Infastidito e dolorante, mi
sollevo dal
letto, zoppicando fino alla porta ma, quando la apro, ad aspettare
c’è l’ultima
persona che vorrei vedere.
- Hey Jim, ti ho portato
qualcosa … - inizia a dire Richard, reggendo in mano,
davanti ai miei occhi,
una bustina stracolma di chissà quale merda.
- Vai all’inferno Cole!
Tu e quella merda! – urlo e quasi potrei sputargli in faccia
le corde vocali,
ma l’unica cosa che chiudo sulla sua espressione da stronzo
è la porta, che si
chiude secca, con addosso la mia schiena che pian piano scivola verso
il
pavimento.
Sono stanco, provato,
nemmeno la notte mi lascia riposo, così come
l’ipocrisia si ostina a starmi
dietro; così, mentre nel corridoio sento allontanarsi i
passi di Richard, fisso
le bottiglie di Jack abbandonate ai piedi del letto e ciò
che resta delle mie
“piccole” dosi di onnipotenza.
Vorrei sparire. Scappare.
Vorrei tornare a casa,
oppure …
… morire.
*
- Quale onore! – tuona
Bonzo, le guance piene di chissà cosa – Abbiamo
Sir Page tra di noi.
Mi sforzo di sorridere,
sedendomi tra lui e Robert.
- Ci siamo svegliati, bella addormentata? – sfotte, dandomi una pacca sulla spalla.
- Beh, direi. – sussurro,
servendomi un cappuccino bollente e afferrando un pezzo di torta al
cioccolato.
- Intanto. – continua
Robert, dando un tiro alla sua sigaretta – Ieri non ti
avrebbe svegliato
nemmeno una bomba. Abbiamo dovuto prenderti in braccio per farti
scendere
dall’aereo. Sarebbe potuto precipitare e non te ne saresti nemmeno accorto.
Improvvisamente è come se
nella sala di ristoro dell’hotel sia calato il gelo, mentre
la tavola imbandita
sembra sbiadirsi, un velo che si appoggia sui miei occhi mentre ritorna
alla
mente l’incubo di stanotte.
- Jim?
- Sì? – chiedo, stringendo
gli occhi contro Robert.
- Ti senti bene? – fa, la
sigaretta tra i denti – Sei impallidito.
- Ho sognato che l’aereo
precipitava. – rispondo, senza nemmeno pensarci e sembra
quasi che il peso
dell’incubo stia pian piano svanendo.
- Sul serio? – chiede Bonzo
– A noi sembrava che te la stessi spassando con Jonesy!
– ride, battendo il
pugno sul tavolo.
- Cosa?
- Hai urlato il suo nome.
– dichiara Robert, sputando fuori il fumo e spegnendo il
mozzicone sul piattino
della sua tazza del caffè – E più
volte. Che c’entrava Jonesy?
- Nulla. Gli chiedevo
aiuto. – dico, omettendo gran parte del sogno. La
conversazione sta diventando
imbarazzante, mentre poco a poco mi rendo conto di non essere
più in Florida.
Il sogno mi aveva talmente sconvolto, da lasciarlo nei confini
dell’irreale.
Invece mi sbagliavo. Quando ho iniziato a sognare ero davvero
sull’aereo. E nemmeno me lo ricordo. Così come non ricordo di essermi svegliato, scolato due bottiglie di Jack nella mia stanza, per poi crollare e riprendere a sognare lo stesso incubo.
Solo ora mi rendo conto
di essere a New York.
A un passo da Grace.
- Bevi quel caffè, o si
raffredda.
- Devo andare. – faccio,
scattando in piedi e poggiando una mano sulla spalla di Robert.
- Ma … - fa, guardandomi
con aria confusa e seguendo il mio percorso fino all’uscita -
… dove?
Mi fermo, prendendo sul
serio la sua domanda.
È stata sempre Grace a
trovare me ed ora che sono nella sua città non so nemmeno
dove andare a
cercarla.
O forse sì.
- Mi sono appena
ricordato che devo comprare una cosa per Scarlet. – sorrido,
in pieno
allenamento alla menzogna – Ci vediamo stasera.
*
Giro a vuoto. Le strade
di New York sembrano tutte uguali mentre in una mano stringo una busta;
dentro,
un pacchetto dondola indisturbato, tenendo al sicuro la Polaroid che
porterò a
Scarlet una volta tornato in Inghilterra. Mi fermo al bordo di un
marciapiede,
sperando che un taxi si fermi davanti alla mia mano alzata.
- Mi porti allo Hudson
River per piacere. – chiedo una volta riuscito
nell’impresa.
*
È tutto come lo aveva
descritto Grace.
Il fiume, New York,
l’erba brillante sotto il sole e le panchine. Descritto alla
perfezione.
L’unica differenza è dettata da tante coppiette
che si crogiolano al sole,
sostituendo le scolaresche, mentre qui gli unici insegnanti, di vita,
sono un
gruppetto di vecchietti che si nascondono all’ombra degli
alberi.
Niente tracce di un
vestito a fiori o di capelli color grano lasciati sotto il sole. Nessun
brivido
ad annunciarla, a segnalare la sua presenza. Sbuffo, gli occhi che mi
si
stringono per via della luce, lasciandomi andare su una panchina.
Chissà se ci
si è mai seduta.
Poggio il pacchetto di
fianco a me, mentre con la mano sfioro distrattamente il legno del
sedile con
la punta delle dita, avvertendo sotto la pelle la presenza di incisioni
lisce
come graffi che si sono dolcemente trasformati in cicatrici.
Abbasso lo sguardo. Una
scrittura sottile ed elegante.
JIMMY
Così è scritto.
- Sì. – sussurro –
Sì,
eri qui, Grace.
Rileggo le lettere
incise, sfiorandole con dolcezza.
- Siamo qui. – sorrido –
E ti troverò.
*
Ha iniziato a piovere.
Anche qui, dal cuore del Madison Square Garden, il rumore
dell’acqua è
perfettamente udibile. Almeno per me. Sento come se mi portassi la
pioggia
proprio dentro al petto, da sempre. Una sorta di lavaggio
dell’anima che,
stranamente, invece di ripulirla, la insozza di fango denso, fino a
rendermi
solo una poltiglia di dubbi, rimorsi e colpe. Ogni tanto appare il
sole; un
accordo, un nuovo assolo, un giro di parole, il sorriso e il bacio
della mia
Scarlet, la voce di Robert. Attimi che mi ricordano il colore del
cielo. Poi,
il buio. Una malinconia che cade leggera, goccia a goccia, quasi
silenziosa. La
mia anima non ha bisogno di essere un temporale. Le piace rimanere
un’incessante, sottile, pioggerella d’estate.
Mi guardo intorno, il mio
sguardo che accarezza ogni volto in prima fila senza scorgere quello
che sto
cercando. Così mi avvento sulle corde, tentando di sfogare
la rabbia e di scappare
al senso di abbandono causate dall’assenza di Grace.
La Musica, lo spettacolo,
il tempo intorno a noi, va avanti ed io sorrido, mi offro al pubblico.
Lo
avvicino per poi allontanarmi, in una sorta di danza di corteggiamento
in cui
gli unici a restare conquistati restano loro, che mi guardano con occhi
vivi,
lucidi o semplicemente sognanti. Robert è un fiume in piena
e John ci trascina,
dettando le regole del tempo. Jonesy, invece, sembra aver sotterrato
l’ascia di
guerra; mi guarda e, quando il suo basso incontra la mia chitarra, mi
sorride,
complice.
C’è qualcosa
nell’aria.
E non è solo pioggia.
*
- Magnifico! – esclama
Robert, entrando in macchina, il petto bagnato di sudore e pioggia, io
che
sistemo il mio ombrello ai piedi del sedile - È stato
assolutamente
incredibile.
- Già. – mi sforzo di
sorridere, la dragon suite bianca ormai completamente appiccicata alla
pelle.
- Finalmente ti ho
riconosciuto stasera! – esclama, rivolgendomi un sorriso
radioso e lasciandomi
una pacca sulla spalla. Fuori piove ancora – Anche se
dovresti mangiare
qualcosa. Sei magro come un chiodo.
- E questo cosa c’entra?
– dico, incrociando le braccia al petto con un sorriso
sarcastico – Un passo
alla volta, Percy.
- Già. – acconsente,
abbassando il capo, per poi abbandonarsi sullo schienale.
L’auto parte, perdendosi
nel traffico di New York.
- Sai. – dice Robert
all’improvviso – Mi ricordo ancora quella volta nel
’73. Peter diventò una
bestia quando scoprì del furto.
- Dio, che situazione di
merda! – esclamo, seccato dal solo ricordo – Lui e
Cole sembravano due
fidanzatini adolescenti dopo che avevano rotto.
- Quando poi era colpa di
quelli del Drake. Incompetenti del …
- Che cosa? – esclamo, il
volto rivolto verso Robert, come pietrificato.
- Jimmy? – fa lui,
scrutandomi stranito – Che succede?
- Il Drake! – esclamo,
battendomi una mano sulla fronte – Era lì!
È stato lì! – continuo, una mano che
graffia il sedile sotto di me – Lei era lì!
– sussurro, per poi guardarmi
intorno, sotto lo sguardo confuso di Robert. Il Drake si trova solo a
pochi
isolati da qui.
- Ferma la macchina! –
grido.
- Cosa? Ma, Jim…
- Ferma questa cazzo di
macchina ho detto! – urlo, come impazzito, gli occhi di
Robert che guizzano da
me all’autista, mentre questo frena nel bel mezzo del
traffico newyorkese ed
io, senza nemmeno badare alla pioggia, mi tuffo tra le macchine che
suonano
impazzite, prendendo a correre come un folle. Dietro di me, il rumore
di uno
sportello che si chiude.
- Jimmy! – è Robert, ma non
riuscirà a raggiungermi. Mi basta svoltare una volta a
destra ed una a sinistra
per ritrovarmi a pochi metri di distanza dal Drake, la sua insegna
uguale come
quattro anni fa. Fermo al centro della strada, le auto mi sfrecciano di
fianco,
le loro ruote che sollevano onde d’acqua che mi inzuppano le
gambe. Domani avrò
la febbre. Chi se ne fotte.
Davanti a me sembra si
stia ripetendo un film a rallentatore. Anzi, un sogno.
L’incubo che da molte
(troppe) notti mi tormenta.
- Jimmy!
Mi volto. Robert è dietro
di me.
Riprendo a correre,
raggiungendo finalmente le strisce pedonali di fronte al maledetto
hotel,
credendo quasi di trovarci ancora delle strisce di sangue.
- Grace! – prendo a
urlare, la pioggia che schizza sul mio volto – Grace!
Non c’è. Se
n’è andata.
Molto prima di questa notte.
Grace mi ha lasciato in
una notte come questa, in cui a New York mancavano le stelle.
- Grace! – singhiozzo, il
petto che mi si solleva, le mani contro la faccia. Lacrime e pioggia.
Poi un clacson, una luce
accecante.
Non mi prende, ma cado
comunque a terra.
- Jimmy! – l’urlo di
Robert è straziato mentre il mio volto accarezza
l’asfalto e chiudo New York
fuori dai miei occhi, dietro le palpebre.
- Lasciami, Rob. –
sussurro – Lasciami morire qui.
Una risata, all’altezza
del mio volto. Ma non è la mia.
- Non ancora. – la sento
sorridere, anche se non la vedo – Apri gli occhi Jim!
Lo faccio.
Poi, un urlo mi
attraversa la gola.
Angolo della pazza:
Rieccomi!!! ^^
Ehm...sì, ecco... ce l'ho fatta.
Almeno spero.
Finalmente Jimmy ha capito chi è Grace! *^*
Questo capitolo è stato un tormento, nonostante lo avessi in
mente da un sacco di tempo.
Ed è il penultimo...
Ehm, sì, la storia si avvicina alla fine!
ç__ç
Ma avrà anche un epilogo, ergo mi aspettano ancora due
capitoli.
Ehm, nulla. Spero tanto vi sia piaciuto questo e, come sempre, mi
auguro di trovare tempo ed ispirazione per il prossimo.
Ringrazio Ire, che è ancora in piedi, e Zelda che aspetta e
nel frattempo legge la biografia di Robbe! *^*
Awww, siete meravigliosi. Tutti quanti.
Vi aspetto al prossimo (ultimo, sigh) capitolo!
Un abbraccio,
Franny
|
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Capitolo 12 *** 11. Well, this is our last embrace, Must I dream and always see your face? ***
11.
Well, this is our last embrace,
Must I dream and always see your
face?
Jeff Buckley - Last Goodbye
Non capisco se sia più
grande il disgusto, la paura o il dolore.
Eppure, i miei occhi non
riescono a staccarsi dall’orrida immagine di fronte a me.
Grace, il suo volto
perfetto, il suo sorriso, completamente deformati, la mascella
riversata da un
lato, rotta, il volto completamente insanguinato, esattamente come i
capelli,
uno occhio gonfio e nero, ormai chiuso.
- Ci siamo Jimmy. –
sussurra, ma senza muovere le labbra ormai diventate viola, io che
prendo a
tremare – Ora sei pronto. Chiudi gli occhi.
- Grace?
- Sì?
- Tutto questo. – mi
ritrovo a piangere e a fremere, un bambino impaurito abbandonato in una
città
sconosciuta – Quello che vedo e vivo, è vero?
Sorride, alzando l’angolo
della bocca in cui l’integrità della mascella non
è stata compromessa, in un
ghigno che mette i brividi.
- Chiudi gli occhi, Jim.
E lo faccio.
*
L’aria mi riempie i
polmoni, pura. Sul volto e le palpebre chiuse, avverto il calore tipico
del
sole primaverile, mentre il suono della pioggia incessante è
sostituito da un
lieve cinguettio, la durezza dell’asfalto dalla dolcezza e il
profumo dell’erba
fresca.
- Grace?
- Puoi aprire gli occhi,
James. – consiglia teneramente, leggendomi nel pensiero.
- Ho paura.
- Allora siamo in due. –
ride – Ma dobbiamo alzarci. Coraggio.
Ammesso che ne abbia
ancora. Eppure sento che non ho nulla da perdere, nulla da temere
ormai. Ho
guardato il fondo dritto negli occhi, trovandolo in quelli di Grace.
Riapro i
miei. Sta volta, sorrido.
- Ciao Grace.
- Ciao Jim – il suo labbro
superiore che i solleva, finte rughe attorno agli occhi sorridenti.
Mi alzo, proprio come mi
aveva consigliato, sentendomi improvvisamente agile. Mi guardo intorno
e,
nonostante il sole cocente, un brivido corre lungo la schiena.
- Sembra inquietante, vero?
– chiede, apparendo accanto a me.
- Già. – sussurro,
deglutendo pesantemente alla vista di una serie di croci di marmo
piantate nel
terreno e nell’erba – Dobbiamo proprio? –
faccio, guardandola con fare
supplichevole.
- Sì, James. – sospira,
una nota amara attraversa la sua voce.
- Perché? – chiedo,
tornando a guardarmi intorno con un filo d’ansia.
Non risponde.
Semplicemente si avvicina, mi prende per mano, guardandomi
intensamente. Una
luce limpida, che traspare purezza, le attraversa le iridi celesti. Il
cielo
d’Agosto. Ad avercela accanto per una vita intera, potrei
guardarlo anche in
pieno inverno e sentirne il calore del sole che lo attraversa. Ma
Grace, che
mai mi aveva preso per mani, è lontana, lo sento.
È qui, ma in realtà è
distante miglia e miglia da me, mentre io sento come se una parte di me
sia
rimasta incollata all’asfalto umido di pioggia di New York,
lì dove, in un
giorno d’afa come questo, la mia Grace ha
perso tutto.
- Ti riferivi a quello,
vero? – dico, aggrottando la fronte.
Lei annuisce, si morde le
labbra, poi osserva le nostre mani congiunte.
- Però – continuo, la
voce che trema – Mi dicesti anche che avevi perso tutto per me. – continuo, i miei
occhi che saettano sul suo volto rimasto
impassibile – Cosa c’entro io? È
… è stato un incidente … io
…
- Abbracciami, Jim.
Il fiato si blocca.
- Cosa?
- Abbracciami. – fa lei,
quasi sull’orlo del pianto, tendendo la mano libera dalla mia.
La fisso, cercando il
perché nei suoi occhi, ma ciò che trovo
è solo un’infinita tristezza.
- Cristo, va bene! –
impreco, e in un lampo faccio passare una mano dietro la sua schiena
esile e
perfetta, il mio petto che si scontra contro il suo seno, mentre il mio
naso
affonda tra i suoi capelli. Il tempo di richiudere gli occhi ed ecco
che torno
a vedere la cinquantaseiesima strada, immersa in una serata senza
pioggia,
dipinta con colori vividi, psichedelici, tipici di un sogno o di un
ricordo fin
troppo vivido.
Il ricordo di Grace. Coi suoi occhi, in lontananza, vedo il Drake
stagliarsi in tutta la sua altezza. Dentro al cuore, in ogni fibra del
mio (suo) essere, sento vibrare la
felicità,
mista al fremito dell’attesa e al morso allo stomaco della
paura. Ad ogni passo
che mi avvicina al Drake, le mani (Dio,
così sottili, così sudate) tremano.
Poi, un’auto tirata a lucido, accosta
esattamente all’entrata.
- Sono loro!
Le mie labbra sussurrano
con una voce che non è la mia, la voce di Grace carica di
emozione, la stessa
che mi fa (le fa) tremare le gambe,
scaldandole fin nell’intimo, quello che fino a quel momento
era rimasto
nascosto, segreto, lontano da qualsiasi carezza o piacere. Poi, si
muovono, i
piedi che abbandonano il marciapiede e incontrano l’asfalto.
Dall’altra parte
della strada, una copia di me stesso, sudato e sfiancato, esce
dall’auto,
guardandosi intorno.
Il cuore, dentro il petto
di Grace, ha sussultato.
Un altro passo, le auto
che sfrecciano veloci.
- Jimmy!
– urla Grace, ma il me stesso dall’altra parte
della strada
ha appena avvertito le braccia di Lori attorno al suo collo e scambiato
la voce
di una sconosciuta per quella della ragazzina che all’epoca
si sbatteva senza
pudore.
- Jim …
- sussurro, la voce di Grace che fuoriesce debole, pregna di
delusione e incertezza. Poi, i pensieri di Grace si annebbiano, la sua
immaginazione che prende il posto della lucidità, ricreando
la sensazione
perfetta delle mie mani sulla sua pelle, il desiderio di donare la
propria
innocenza ad un’artista pericoloso e praticamente folle, che
del suo gesto ne
avrebbe fatto l’ennesimo trofeo da ricordare e lucidare per
il resto dei suoi
giorni.
Ed ecco la
determinazione, un sorriso determinato sulle labbra,
l’intenzione di far sapere
a quella meraviglia di ragazzo che al mondo esiste una ragazzina che lo
desidera più chiunque altro al mondo, più di
quella che lo sta volgarmente
baciando nel bel mezzo della strada, quella che Grace ha preso ad
attraversare
con sicurezza.
Poi, il dolore. Una lama
che attraversa il fianco destro.
Il buio.
Una lacrima che supera le
ciglia.
- Grace! – mi ritrovo ad
urlare. Apro gli occhi e trovo le mie braccia che stringono le spalle
minute
della ragazzina che un giorno, per un desiderio fino ad allora
immaginato, ha
perso la vita. Ha perso tutto. Per me.
- Grace, piccola mia. –
piango, tento di respirare, le dita che si perdono tra i suoi capelli,
le
labbra che li attraversano con devozione – Perché?
Si scosta per guardarmi
in faccia, il volto rigato di lacrime.
- Doveva essere così,
almeno credo. – sussurra – Ma non ti sei ancora
chiesto una cosa.
Alla sua affermazione
sento la mente aprirsi, la realtà che mi si presenta
così com’è.
- Sono morto? – sussurro,
un groppo alla gola, le mie mani che si aggrappano a lei come
disperate. Grace
non risponde, il suo volto che si avvicina dolcemente al mio, il suo
naso che
sfiora il mio, i suoi occhi piantati nei miei.
- Non ancora, Jim. –
sorride – Non ancora. – abbassa gli occhi,
mordendosi un labbro – Ma devi
decidere tu. In questo momento sei su una barella, diretto al Roosevelt
Hospital, con Robert che ti chiede di restare. Col mondo che ti chiede
di
restare. Con tua figlia ignara di tutto e che ti aspetta, stretta al
suo
orsacchiotto, accoccolata nel suo lettino.
Alle sue parole, una
nuova ondata di pianto mi contorce il viso e mi scuote il petto di
singhiozzi
forti come pugni.
- Io sono qui solo per
farti capire cosa stai lasciando. – dice, carezzandomi una
guancia – Ciò che ti
stai facendo. – sospira, il suo respiro che mi sfiora le
guance – Io ti venivo
incontro quel giorno e, credimi, ti avrei amato. Molto più
di me stessa. –
confessa, le labbra che tremano – Ma ho fatto molto di
più. Quando sono
arrivata su quell’asfalto, ero felice. Il mio ultimo pensiero
sei stato tu. Morivo per te e non
m’importava
niente, nemmeno del desiderio di averti che mi divorava, della
felicità che mi
avrebbe dato il solo incontrarti dopo tanto tempo passato a sognarti,
ad
ascoltarti parlare attraverso la tua chitarra e le tue canzoni.
- Eri solo una ragazzina.
– sussurro, portandomi la sua testa al petto, cullandola come
per farla
addormentare – Avevi tutta la vita davanti e l’hai
persa per nulla.
- Questo dipende solo da
te.
Allontano il suo capo dal
mio cuore, tornando a guardarla negli occhi.
- Avevo un conto in
sospeso, Jim. Finalmente l’ho chiuso. Ma se tu superi questa
soglia, se invece
di tornare indietro, resti qui, seguirti sarà stato inutile.
Ed io sarò morta
per una persona vigliacca, capace di buttarsi via, restando fermamente
convinta
di essere onnipotente.
- A volte credo che
starei meglio qui. – e quasi a conferma, ritorna forte il
profumo inebriante
dell’erba fresa, misto a quello di qualche fiore nascosto.
Lei fa di no con la
testa, guardandomi severa.
- Accompagnami a casa,
Jim. – fa, per poi aggrapparsi al mio braccio – E
poi torna indietro. –
aggiunge, mentre ci muoviamo tra le varie tombe, arrivando al cospetto
di una
che ha una croce bianca come la neve. Al suo fianco, cresce una
splendida
pianta di rose bianche.
- Qui? – chiedo balbettando,
tremando al pensiero che il suo corpo si trovi sotto i miei piedi.
- Sì. – sospira, un
accenno di sorriso sulle labbra – Jim?
- Sì?
Non dice nulla,
semplicemente vola tra le mie braccia che si chiudono attorno alla sua
vita
esile. Il mio cuore sussulta,
incapace di restare tranquillo.
Ti avrei amata
anch’io Grace. Profondamente.
- L’ultimo addio, vero? –
sussurro tra i suoi capelli, le mie labbra che trovano la sua fronte
fredda.
Sembra più concreta, ora, come se la sua anima stesse
recuperando la consistenza
del corpo sepolto sottoterra.
Lei annuisce, mordendosi
le labbra. Poi torna a guardarmi negli occhi. Di nuovo quella
malinconia, quell’amore
e quella vita mancati, tutto concentrato nelle sue iridi.
- Baciami Jimmy. –
chiede, quasi mi prega – Baciami e poi torna indietro.
Non me lo faccio
ripetere. Non ora.
Così, le mie dita
scivolano dietro la sua nuca, le mie labbra che si combaciano
perfettamente con
le sue, dolci. Se un giorno dovessero chiedermi che sapore ha la morte,
risponderei
che è dolce. Un miele proibito. Ti basta un bacio per
restarne sazio in eterno.
E così la pelle di Grace, il suo sapore, si fanno spazio
dentro di me fino a
farmi sentire completo, al limite, come se la mia anima riuscisse a
stento a
stare nei confini del mio corpo.
- Abbi cura di te. –
sussurra sulle mie labbra.
- Te lo prometto.
- Lo spero. – sorride –
Ho visto la tua vita, la prima volta che ti ho toccato a Birmingham.
Sarai più
bello di quanto tu possa immaginare, James.
- Lo dici per
convincermi? – rido, carezzando la sua guancia con un pollice.
Lei fa di no con la
testa, sorridendo – Chiudi gli occhi James.
Appoggio la fronte contro
la sua e lo faccio.
- Chiudi gli occhi e poi …
- un vento improvviso, una luce fredda che supera la barriera delle
palpebre,
un urlo – Svegliati, Jimmy!
*
Oakland, California, 24
Luglio 1977
Mordo il filtro della
sigaretta per non farlo scivolare dalle labbra. Dall’ultima
volta che queste hanno
incontrato quelle di Grace sembra passata
un’eternità. Non l’ho vista
più,
abbandonata in un cimitero di New York, lontana come il giorno in cui
la
incontrerò di nuovo.
Il sole di Oakland
brucia. Non mancano i problemi, i soliti casini, ma è bello
rivedere gli altri
sorridere. Soprattutto Robert. Anche la sua espressione addolorata,
corrucciata
sopra i miei occhi sembra essere svanita, lasciata dentro
un’ambulanza a sirene
spiegate che mi portava al Roosevelt Hospital. Sorride, ammicca,
accanto a me è
di nuovo quel ragazzo spensierato che cantando sembra voler sedurre
ogni
singola cosa sulla faccia della terra.
Non riusciva a credere
alla mia storia, a quella di Grace (oh,
sì, l’incidente!), mi guardava come se
fossi impazzito. Lo ha pensato, lo
so. E come ogni buon amico, ha aspettato che mi passasse
“questa fissa”, che mi
liberassi delle mie fantasie.
Leggi troppi libri
strani, disse.
Peccato che l’immaginazione
non abbia niente a che vedere con ciò che ho vissuto.
Ma ho lasciato correre,
non pretendevo che qualcuno capisse, anche se ogni tanto mi sembrava
che Bonzo,
guardandomi da lontano, provasse una certa compassione, nascosta alla
perfezione col suo fare burbero, ma simpatico, e la sua inesistente
sobrietà.
Lui l’ha
vista, mi ripetevo, forse perché beve come
una spugna.
Fortunatamente, però,
sembra non l’abbia vista più.
Non ho mai avuto coraggio
di confessare, a nessuno di loro, che sono riuscito a vedere Grace solo
perché
in parte ero ormai andato via, proprio come lei. Una piccola omissione,
per
renderli più tranquilli, sicuri che la faccenda della magia
nera, dell’occultismo
o dell’eroina non mi abbia definitivamente fottuto il
cervello.
Eppure, ogni tanto
(mentre suono, sorrido, mi svesto e mi metto a letto), sento una morsa
allo
stomaco. E so perché.
La promessa fatta a Grace
è stata la più grande che io abbia formulato.
Non l’ho mantenuta.
Prenditi cura di te.
Troppo difficile,
impegnativo, soprattutto in tour, quando la stanchezza è
più forte e risveglia
i demoni.
- Oakland! Goodnight!
La sera scende sulla
California. Le ombre si rialzano.
*
New Orleans, Louisiana,
26 Luglio
1977
- Cristo, quella fottuta
cella puzzava di merda. – dice John, portando la sigaretta
alla bocca, mentre
restiamo davanti all’entrata del French Quarter Hotel, in
attesa che gli altri,
restati indietro, arrivino alla reception.
- Ma non m’importa. Se
l’è
meritato, quel figlio di puttana. – fa, sputando fuori una
boccata di fumo
- Non si toccano i
bambini. Mai.
- Ha avuto quello che si
merita. – annuisco, ficcandomi le mani nelle tasche dei
pantaloni e voltandomi
verso la strada. Un’auto si avvicina e John e Robert ne
escono sorridenti.
- Ho bisogno di una
dormita! – fa Robert sbadigliando, lasciandomi una pacca
sulla spalla, per poi
dirigersi verso l’ascensore, ma la voce della receptionist lo
ferma.
- Mr. Plant?
- Sì?
- Una telefonata per lei,
dall’Inghilterra. – fa lei con tono monocorde
– Dicono che è importante.
- Arrivo. – e mentre si
avvicina, mi volto a guardare distrattamente la strada e subito sembra
che un
pugno mi sia arrivato allo stomaco.
Grace.
Oltre la strada, sul
marciapiede di fronte.
In piedi, un’espressione
di disgusto.
- Cosa? – sussurro tra me
e me.
- Cosa?
– la voce di Robert, dietro di me, dall’altra parte
della
stanza.
Poi, il suo urlo.
Straziante.
I miei occhi abbandonano
quelli di Grace e quando mi volto, Bonzo sta già
abbracciando le spalle di
Robert, inginocchiato, il telefono che pende dal tavolo della
reception, in
lacrime, i pugni conficcati nel ventre.
No. Non può
essere. Karac.
Sento gli occhi
allargarsi, il corpo irrigidirsi.
- Perché?
Perché??? –
urla, la sua voce che rimbalza sulle pareti, prima che lui si rialzi,
diretto
alla porta. Verso di me.
- Robert, calmati, fermo!
– esclama Bonzo, stringendogli le spalle.
- Il mio bambino! Fatemi
andare dal mio bambino o vi ammazzo tutti quant’è
vero Iddio! – urla, divincolandosi, ma inutilmente
– E tu! – fa,
puntandomi un indice tremante di rabbia e disperazione
– Pagherai per quello che hai
fatto,
Page, e prima o poi te ne andrai all’inferno, figlio di
puttana!
Mi ritrovo a piangere,
incapace di dire qualsiasi cosa.
Vorrei morire, penso, e riporterei
indietro quell’angelo
se potessi, Percy!
Ma lo tengo per me,
mentre Robert mi volta le larghe spalle scosse dal pianto. Sembra
così fragile
visto da qui.
Nemmeno mi accorgo che
John è venuto da me.
- Jim?
Mi volto a guardarlo in
silenzio. Nei suoi occhi vedo il mio riflesso. Un folle.
- Andiamo. – fa,
passandomi un braccio attorno alle spalle – Nessuno ce
l’ha con te.
- Robert … - è tutto
ciò
che riesco a dire.
- Capirà. – sospira
–
Dagli tempo.
Già, tempo.
*
Clewer, Windsor, alba del 26
settembre 1980
Anche il tempo se
n’è
andato.
Angolo
della matta.
T__T
Ciao.
Il finale è questo. Ed è una merda, I know.
Volevo provare a dare un senso a tutta questa storia che potrebbe
essere ri-intitolata "Come Jimmy Page sia convinto che sia stata colpa
sua".
La verità è che la colpa non è di
nessuno, ma ho provato ad immedesimarmi in Jimmy e credo che tutte
queste paranoie mi sarebbero venute.
Arrivata alla fine, non so nemmeno io chi sia Grace.
Volevo che fosse il fantasma di una ragazza innamorata che
però aveva un conto in sospeso.
La verità è che ho reso così ignoto il
suo personaggio, che nemmeno io saprei più definirlo.
Ergo, dategli voi un senso, qualsiasi esso sia.
Per quanto riguarda ciò che dice Bonzo riguardo "la cella"
ovviamente mi riferisco all'episodio del figlioletto di Grant avvenuto
ad Oakland. Per chi non sa a cosa mi riferisco, trova tutto su Wiki.
Mentre, le parole che sputa fuori Robert, vengono da un'antica
leggenda, secondo la quale lui avrebbe accusato Jimmy della morte di
Karac per via della sua mania della magia nera. Quanto ciò
sia vero, non lo so, ma ho voluto comunque inserirlo.
Arrivati alla fine di questa storia (anche se manca l'epilogo) spero
davvero che il tentativo di scrivere "qualcosa di diverso" mi sia
riuscito. Ero partita con l'intenzione di creare una favola romantica,
di quelle che si chiudono con un sorriso, ma la realtà dei
fatti ha avuto il sopravvento, trasformandola in un incubo paranormale,
di quelli in cui ti risvegli in lacrime.
Niente, non so davvero cosa dire. Avevo tutt'altro finale in mente
all'inizio ed ora mi ritrovo a leggere le ultime parole col groppo alla
gola.
Spero non mi detesterete, ecco.
Vi aspetto al prossimo capitolo.
Lì vi ringrazierò tutti quanti a dovere e vi
fornirò un'elenco completo della "colonna sonora", che
puntualmente non s'incula (♥) nessuno, anche sotto il titolo
ho voluto lasciarvi il titolo-link della canzone a cui si ispira questo
capitolo.
Vi abbraccio forte, sia che stiate piangendo o vi stiate pentendo
amaramente di aver incontrato questa storia.
A presto,
Franny
|
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Capitolo 13 *** Epilogo ***
Australia, 17 Febbraio
1996
Quiete.
Non sembra vero, mentre
questo freddo non accenna ad allentare la presa.
Di fronte ai miei occhi,
il sole annega nell’Oceano Pacifico.
Se potessi rimanere qui,
per sempre, dimenticherei chi e dove sono.
- Jimmy?
Mi volto lentamente, mani
ficcate dentro i pantaloni di velluto, braccia ad arco attorno ad una
pancia
che prima non c’era.
Pazienza.
Guardo i suoi occhi. Un
tempo brillavano di vita, forse per via di quei capelli che sembravano
rubare
la luce al sole. Nemmeno il sorriso è così
smagliante come un tempo. Sono cose
andate perse un’estate di tanti anni fa, quando il destino ha
iniziato ad
accanirsi su di lui. Sotto quella specie di caftano, anche lui ha una
pancia
che prima non c’era e il cuore ferito di un leone.
- Sei pronto? – chiede
gentilmente, una mano che sposta i capelli indietro e un rubino che
brilla
sotto una delle sue dita.
Annuisco, m’inumidisco le
labbra. Avrei bisogno di fumare, ma mi trattengo.
Prima o poi smetto, lo
giuro.
Come sempre, vero Jim?
Scuoto la testa, sospiro
pesantemente, cercando di scacciare via quella voce che troppe volte mi
ha
ricordato ogni singola disgrazia.
Sta zitta.
*
Improvvisamente, l’ansia.
Mi prende di più quando
sono sotto il palco, da spettatore. Mi succede ogni volta, eppure non
mi ci
abituo. Mi guardo nervosamente attorno, attraversando con gli occhi gli
angoli
del teatro.
- Sarà sensazionale, lo
sento! – dice Robert, dando un tiro alla sua sigaretta.
Così, senza chiedergli
nemmeno il permesso, infilo una mano nella tasca del suo caftano,
afferrando il
pacchetto di sigarette.
- Volevi smettere. –
dice, freddo.
- Ho sempre voluto tante
cose. – controbatto, ficcandomi una sigaretta tra le labbra e
accendendola –
Alcune non le ho avute mai.
- Tipo la coerenza e la
forza di volontà?
- Sei in vena di rimproveri
stasera? – sussurro, mentre altri spettatori come noi
iniziano a guardarci con
curiosità.
- Scusami. – fa, dandomi
una pacca sulla spalla - È che …
È che non
sei più tu Robert.
- Tranquillo! – gli
sorrido - È tutto ok!
- Già. – sospira.
- E comunque sono sicuro
che sarà impressionante. – continuo, osservando il
palco ad occhi stretti - È
da mesi che ascolto il suo album e ancora mi chiedo da quale pianeta
arrivi un
ragazzo così.
Sospiro, pensando per
l’ennesima volta al giorno in cui, spulciando per caso
l’ennesimo negozio di
dischi a Londra, m’imbattei in un titolo particolare e un
volto, stampato sul
cartone del vinile, così affilato, le labbra disegnate e un
microfono anni
Cinquanta.
Il titolo era Grace.
Lui, Jeff.
Una risata lieve,
comprensiva, proprio al mio fianco. Robert.
- Che c’è? – chiedo,
accennando una risata – Perché ridi.
Non risponde subito.
Aggrotta la fronte osservando il palco, aspirando piano dalla sua
sigaretta
fino a ritirare le guance. Poi butta fuori un filo sottile di fumo,
tornando a
guardarmi.
- Viene dal tuo stesso
pianeta, Jim. – dice serio, ma senza rimprovero. Piuttosto
con devozione – Era da
tempo che non notavi un cantante. – aggiunge poi,
rivolgendomi un sorrisetto
impertinente.
- Idiota! – rido,
dandogli un pugno sul braccio, per poi incrociare le braccia,
voltandomi a
guardare di nuovo il palco.
Le luci si abbassano, un
silenzio irreale intorno a noi.
Poi, un faro si accende
su un ragazzo magro, lo sguardo perso altrove, la voce di un angelo e
le mani
impazzite.
Inizia a cantare,
incendiando l’aria attorno a noi.
Ai suoi piedi, una rosa
bianca.
*
- Jeff?
Non si volta,
probabilmente non mi ha sentito.
- Sì? – fa, senza
smettere di armeggiare con la sua chitarra, riponendola nella custodia
e
continuando a darmi le spalle. Il resto della band, raccolta attorno a
lui, mi
guarda come se non credesse ai propri occhi.
- Posso rubarti un
secondo?
Con uno scatto chiude la
custodia.
- Un attimo sol … - si
solleva sulle gambe, si volta verso di me - … tanto.
– i suoi occhi si
spalancano, allargando a dismisura le sue occhiaie, mentre una ciocca
ribelle
ricade sul suo naso. Potrebbe essere mio figlio, ma non solo per un
fattore
cronologico. Più lo guardo, più mi concentro sui
suoi occhi, più sento qualcosa
attrarmi verso di lui, come se mi stessi guardando allo specchio
trovandoci
dentro il riflesso della mia anima e non del mio corpo.
- Oh, Cristo! – fa,
buttandosi le mani tra i capelli e mordendosi il labbro inferiore, le
sue
guance che si fanno di porpora.
- Vieni qui, Jeff! –
faccio, aprendo le braccia – Sei stato … sublime!
– gli dico, mentre si avvicina, ancora incredulo. Quando poi
finalmente le
nostre braccia si intrecciano, i nostri petti iniziano una danza
scoordinata, i
nostri volti che si bagnano, i singhiozzi che rompono il silenzio.
Non piangevo da tempo e
mi ritrovo a farlo per un ragazzo che, con un semplice titolo, mi ha
ricordato
me stesso, mi ha fatto tornare alla mente il periodo peggiore della mia
vita,
riportando in una canzone il nome di colei che quasi era riuscita ad
aprirmi
gli occhi.
Grace. Il nome di tutti i miei rimpianti, la firma di
tutte le mie colpe.
- Grazie Jeff! – sussurro
al suo orecchio.
- Ancora non ci credo! –
singhiozza, stringendomi ancora di più.
- È tutto vero Jeff. –
gli dico.
Poi, il mio sguardo si
perde sulla porta del backstage aperta sul palco. In prima fila, di
spalle, una
ragazza bionda. Vestito a fiori.
Jeff sta ancora
singhiozzando.
Chiudo gli occhi, lo
stringo più forte.
Riapro gli occhi.
Sparita, come un’allucinazione.
- Non può essere vero. –
sussurra Jeff, staccandosi, tornando a guardarmi negli occhi.
- Lo è. – gli faccio,
dandogli una pacca sul braccio. Sospiro, un sapore amaro in bocca.
È tutto
vero, Jeff.
*
Memphis, 4 Giugno 1997
Impigliato tra i rami
di un albero, gonfio dell’acqua
sozza del Mississippi.
Non sembrava vero,
eppure lo era.
Keith maledì
la polizia arrivata troppo tardi, poi
maledì se stesso per non avergli aperto gli occhi qualche
notte prima, quando
Jeff gli disse: “Fermati, voglio fare un bagno!”
Era la notte del 29
Maggio 1997.
Jeff Buckley moriva
annegando tra le acque sozze
del Mississippi.
Mentre entrava in
acqua, cantava.
Una delle sue canzoni
preferite.
Whole
Lotta Love.
Fine
Ogni capitolo (o quasi), la sua canzone ...
Mumford
and
Sons
– After The Storm
Led Zeppelin - Houses Of Holy
Jeff Buckley - Grace
Jeff Buckley - So Real
Led Zeppelin - In The Light
Led Zeppelin - Fool In The Rain
Jeff Buckley - Lilac Wine
Ella Fitzgherald & Louis Armstrong - Stars Fells On Alabama
Led Zeppelin - The Rain Song
Jeff Buckley - Last Goodbye
Angolo della pazza:
Eccoci! ç__ç
Ok, è finita, bene o male.
Decidetelo voi, io ho fatto del mio meglio.
L'episodio riportato nell'epilogo è vero, ma non sono sicura
sia successo in Australia, visto che Jimmy è andato
più volte a vedere Jeff dal vivo.
A voi la parola, in ogni caso.
Io ho fatto un tentativo con questa storia. Spero sia andato bene. ^^
Ok, partiamo con i ringraziamenti!
Ringrazio Zelda. CaVa, hai letto questa storia con i miei occhi. Non ho
altro da aggiungere, solo un grazie enorme.
Ringrazio Idra, Giorgia e Lucia. La storia è andata avanti
anche grazie a voi ragazze. Spero leggerete questo straccetto di
ringraziamento.
Ringrazio chi ha letto, preferito e anche chi non se l'è
filata di pezza.
Ringrazio Ire (non rompere il cazzo in chat! ♥). Grazie
sempre a te! Sei stata la promotrice di questa storia e ti
ringrazierò sempre. Mi sostieni anche nelle peggiori delle
mie idee, sei una favolosa compagna di scrittura. Grazie un mondo. E
recupera presto la tua voglia di scrivere. Chi ti adora come autrice,
io soprattutto, ha bisogno delle tue parole. ♥ Ti voglio
bene.
Alla prossima,
Franny
|
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