Cacofonia. Frammenti

di Elle Sinclaire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Cacofonia del silenzio. ***
Capitolo 2: *** 2. Se mi vuoi bene, piangi. ***
Capitolo 3: *** 3. Al di là del sangue. ***
Capitolo 4: *** 4. Viaggia sulla città un arcobaleno ***
Capitolo 5: *** 5. Fuga da un orologio rotto. ***
Capitolo 6: *** 6. Cacofonia del silenzio, parte 2. ***
Capitolo 7: *** Frammenti Sparsi. Il rumore dei baci a vuoto. ***
Capitolo 8: *** 7. Nel vuoto per mano. ***
Capitolo 9: *** 8. Tatuaggi monocromi sottopelle. ***
Capitolo 10: *** 9. Adesso che sai chi sono ***
Capitolo 11: *** 10. Coprimi i piedi di pioggia ***



Capitolo 1
*** 1. Cacofonia del silenzio. ***


La cacofonia del silenzio.

 m
A chi riempie i miei
silenzi.

Il primo giorno delle elementari non volevo allontanarmi dal fianco di mia sorella Giorgia, per paura che una volta entrata nell’aula al piano terra della scuola Tosi la maestra Adriana mi prendesse e portasse via per sempre da quella che a soli otto anni era già la mia eroina.
Alla fine nostra madre mi aveva spinto con poca gentilezza attraverso la soglia della porta su cui era appiccicato un foglio con scritto a caratteri cubitali I^A e da lì era iniziata la mia vita da studentessa.
Imparai presto a leggere e scrivere, Giorgia mi aiutava ogni sera, sul balcone di casa, mentre guardavamo sopra di noi il cielo scurirsi. Lei leggeva già i primi libri, il primo in assoluto era stato una versione per bambini dell’Odissea e io l’avevo presa in giro per settimane. Non aveva mai letto libri del Battello a Vapore né le fiabe dei Grimm illustrate. Quelle ce le leggeva nostro padre, di solito, quando metteva un panno bruciacchiato sulla lampada vicino al comodino, per creare l’atmosfera giusta, e cominciava a raccontare di principi e cigni, rospi e streghe cattive.
Alla fine quel primo giorno non era stato così brutto e avevo raccontato a Giorgia con entusiasmo di aver conosciuto tanti bambini interessanti, soprattutto Luca Presto, il mio compagno di banco, un bambino con i capelli neri ricci e due grandi occhi azzurri.
Giorgia mi sorrideva e basta. Non era una bambina di molte parole, la loquacità l’ha sviluppata verso i tredici anni; all’epoca si limitava a poche frasi e a leggere ad alta voce per me.
Avrei dovuto capire che la sua natura taciturna non era stata solo cancellata con un colpo di spugna, durante un’adolescenza turbolenta. Avrei dovuto capire che Giorgia non diceva quasi niente di tutto quello che in realtà avrebbe voluto e dovuto dire.
Forse se lo avessi capito ora tutto sarebbe diverso.

○○○

Ci sono giorni in cui respirare è più difficile del previsto.
Sono i giorni che odia di più perché imprimono la loro disperazione a fondo nella pelle e scavano le sue ossa e i suoi tendini, con violenza impetuosa.
Martina, quei giorni, si nasconde sotto strati di fondotinta per coprire le occhiaie sotto gli occhi verdi e si arma di sorrisi finti e della pazienza di chi sa di non poter commettere passi falsi. Si alza da letto con sospiri di sconforto, beve il caffè con apatia e abbandona il caldo rifugio della sua abitazione per avventurarsi nel traffico romano e raggiungere il blockbuster dietro i Granai.
Lavora lì da quando ha lasciato la casa dei genitori e si è trasferita all’eur, lontano dai ricordi di infanzia, dai sorrisi falsi dei genitori, da una colpa che sembra non aver motivo di essere lavata via.
È solo una macchia sulla sua camicetta bianca su cui è appuntato il suo nome, nessun cognome, una signorina Nessuno in un negozio in cui al giorno non entrano più di trenta persone.
Una videoteca, nel duemiladodici non ha più senso, lei lo sa, il suo capo lo sa, i pochi clienti che ancora noleggiano vecchi film di Ingmar Bergman lo sanno. Finché rimane aperto però lei non si lamenta, perché significa che può pagarsi le spese della casa in cui è andata ad abitare, quella che era dei suoi nonni e che avevano lasciato a lei e Giorgia.
La sorella non aveva fatto in tempo a trasferircisi ed era stato meglio così, perché altrimenti lei non avrebbe avuto il coraggio di vivere tra le mura del bilocale al secondo piano di una palazzina color pesca.
Vive al risparmio da mesi, sei per la precisione, e l’unica spesa superflua è la benzina per la vespa con cui si muove per Roma, con le cuffiette dell’ipod incastrate tra i capelli e attorcigliate intorno alle cinghie del casco verde metallizzato.
Anche in quei giorni, però, Martina si riveste di sorrisi cortesi, strizza gli occhi sempre freddi, anche con l’arrivo della prima vera, porta fiori tra i capelli, mimose, margherite, rose finte, e sembra comunque solo la pallida eco di chi vorrebbe essere. Nessuno fa più domande da tempo, perché ha capito che Martina non risponderebbe, scuoterebbe solo la testa e il suo sorriso diventerebbe più falso.
 “Va tutto bene.”
Risponde a Rebecca che la chiama durante la pausa pranzo come ogni ventiquattro del mese. Quella mattina Martina ha venduto due film di Tarantino e dato in prestito una commedia romantica che lei non guarderebbe mai, qualcosa di melenso e poco credibile; uno di quei film che piacciono tanto a Irene.
Rebecca è sveglia e, anche se la conosce da poco, ha capito che un tempo sorrisi più sinceri avevano illuminato il suo volto, ma Martina non le ha mai spiegato perché ora non ci sono più. Ha solo ignorato un’altra domanda, sorriso di nuovo, strizzato di nuovo gli occhi e cambiato discorso.
“Stasera vengo a cena da te.”
Rebecca non ribatte, perché sa che in fondo la paura più grande dell’amica è la solitudine durante la notte tra il ventiquattro e il venticinque di ogni mese. Si presenta sempre a casa sua con In The Mood For Love, un film che lei odia, lento e pesante, ma che sembra essere l’unica cosa capace di tirare fuori Martina dal suo bozzolo e allora lei non si lamenta. Solo, a metà film, si addormenta.
“Torna Stefano stasera.”
Martina annuisce. Stefano è il fratello di Rebecca e lei non si sente a suo agio con lui vicino.
“Porto giapponese pure per lui.”
Sa che non potrà piangere, se c'è anche lui, quando a metà film Rebecca si addormenterà, perché invece Stefano guarderà ogni fotogramma del film con attenzione maniacale. Non si lascerà sfuggire neanche una lacrima, perché lui sembrerà concentrato sul televisore e invece con la coda dell'occhio osserverà lei.
Lui la osserva sempre.

Martina odia il silenzio: lo sente urlare e premere tra le sue pareti craniche con una pressione che potrebbe ucciderla, se lei non si ostinasse a riempirlo di suoni, musica, parole e movimenti concitati.
Parla, parla continuamente, sopraffatta dalla voracità con cui la sua lingua ingolla pensieri e li risputa in parole. Non svela niente, Martina, che nelle parole non trova senso né conforto, solo l'assenza della paura del silenzio, un silenzio che inspiegabilmente ogni volta proietta nella sua mente un tonfo, sordo. Uno solo.
Non svela neanche quello, quando a cena chiacchiera con Rebecca che però la guarda preoccupata e quando rivolge frasi di circostanza a Stefano che sembra amare il silenzio meno di quanto faccia lei.
Quando si siedono sul divano ad angolo, Martina è attenta a posizionarsi il più lontano possibile da Stefano e per farlo è costretta ad accucciarsi contro il bracciolo. Il silenzio prima dei titoli di apertura è intenso e Martina strizza gli occhi per concentrarsi sul suono del respiro di Rebecca, sul battito ritmico del proprio cuore, sul piede di Stefano che tamburella sul parquet nocciola. Piccoli e flebili rumori che non coprono l'urlo che nella mente riecheggia forte, ma che presto viene smorzato dall'inizio del film.
In The Mood For Love è tutto ciò che le fa paura: è la fiera dei silenzi assordanti riempiti di tutto, in una cacofonia resa reale da movimenti lenti, sentimenti forti, musiche e poche incisive parole.
È l’unica cosa che aveva avuto la forza di fare il ventiquattro settembre precedente: sedersi sul proprio divano, mentre la madre si imbottiva di sonniferi e il padre si sdraiava su un materasso lasciato in salotto, muto, senza più lacrime. Non ha dormito nella stanza sua e di Giorgia per due settimane, dopo quella notte.
Non aveva più rivisto quel film, nonostante non ricordasse altro all’infuori dei primi minuti: aveva passato le ore fino all’alba a guardare il video sul computer portatile che ripartiva in loop ogni novantotto minuti. In realtà le immagini che scorrevano davanti ai suoi occhi erano diverse, frammenti di flash, di macchine e luci, sirene; con lo sguardo vitreo, aveva solo osservato uno schermo che proiettava nella sua testa una melodia che da allora avrebbe ricondotto per sempre a quella notte.
Ogni mese il rituale ricomincia da capo, ma la solitudine non è qualcosa che è in grado di affrontare Martina. Anche solo il vociare indistinto di Stefano e Rebecca che commentano il film è confortante.
“Non capisco come faccia a piacervi.”
Il plurale usato dall’amica incuriosisce Martina, perché non ha mai conosciuto qualcuno empatico tanto da carpire la bellezza del film.
 “È evocativo.” Risponde Stefano.
“Non parlano.”
Martina sorride e vorrebbe rispondere per l’ennesima volta a Rebecca, ma è interessata alla risposta che darà il fratello. Lei sa perché ama il film, non sa perché qualcuno come Stefano dovrebbe amarlo.
“A volte non c’è bisogno di parole,” dice e per un attimo la guarda negli occhi. “a volte abbiamo solo bisogno del silenzio, senza però rimanere soli con i nostri fantasmi.”
Martina sgrana gli occhi e distoglie lo sguardo e l’attenzione. Spegne di nuovo il pulsante che la tiene ancorata al mondo, chiude gli occhi per un istante quando il tonfo torna a farsi sentire nella sua testa.
Dieci minuti dopo Rebecca si è distesa sul divano e dorme, Stefano è attento alle immagini che scorrono sullo schermo e lei sente qualcosa di bagnato pungere le pupille e affacciarsi sulle ciglia, aggrapparsi a esse, non scendere giù.
Respira a fondo.
“Puoi piangere.”
È solo un sussurro quello di Stefano, ma lei lo sente come un grido amplificato da casse invisibili.
“Non lo farò.”
“Ok.”
Per un attimo si chiede chi sia, il trentunenne che lavora alla radio e fa scatenare masse sconosciute al ritmo di dance anni ’90 ogni lunedì notte. Dj Stez, Stefano Mengacci, il fratello di Rebecca, un archeologo.
Non che le interessi, è solo curiosa. Una domanda che per una notte ronza nella sua testa abbastanza forte da cancellare il silenzio.

 

Quando Stefano la mattina dopo si sveglia, ancora sul divano, la stanza è illuminata da una tenue luce che proviene dalla finestra accanto a lui. Non c’è alcun rumore intorno, nessuna musica lontana e proveniente da cuffiette sconosciute, nessun dito che ticchetta sul duro bracciolo, nessun passo strascicato in altre stanze, ante chiuse con delicatezza.
Martina non è più in casa.
Stefano si alza indolenzito, accende la radio a un volume basso, perché svegliare Rebecca di domenica mattina gli avrebbe fatto guadagnare la sua furia perpetua.
Si prepara con un caffè, sbatte il mignolo del piede contro la gamba del tavolo in cucina, si affaccia alla finestra: il vicolo brulica di persone indaffarate e vestite di giacche primaverili colorate, i san pietrini stridono contro i tacchi delle donne e lui sente il rumore sin dal quarto piano, quando apre la finestra.
Chiude gli occhi e ascolta il silenzio interrotto dal vociare ritmico dei negozianti, costretti a lavorare pure di domenica mattina, a Trastevere, dal verso di un gabbiano che plana sopra il palazzo, dal motore di una macchina che arranca prima di partire.
Confusi, i suoni vagano nella sua testa e formano una melodia rassicurante.
Sa che la pace non può durare a lungo, tra poco dovrà andare in radio, parlare due ore e lasciare gli ascoltatori con successi più o meno recenti della musica internazionale e il tempo per pensare si annullerà.
Tenere fuori qualsiasi preoccupazione dalla cabina radio è un mantra, un obbligo a cui non può rinunciare per non cominciare a balbettare davanti al microfono.
Dj Stez non esita. Stefano lo fa ogni volta che si ritrova davanti gli occhi inscuriti di Martina, ogni ventiquattro del mese. Di solito esce di casa dopo un fugace saluto, pochi minuti dopo il suo arrivo. Abbastanza tempo comunque per notare che quei giorni sembra sempre più triste di quanto non sia quando la incontra per strada o alle sue serate il lunedì notte.
C’è ancora la custodia del film, sul tavolino di legno davanti al divano, il telecomando abbandonato sopra, dai tasti smangiucchiati e i numeri sbiaditi; il televisore è spento, ma non il decoder. Una tazza è abbandonata accanto all’elettrodomestico, il tè dentro ormai è freddo, il cucchiaino ci annega dentro e sembra abitare lì da tutta la vita, tanto quella scena gli sembra familiare. Un deja vù.
La tazza è bianca, c’è disegnato sopra un gatto siamese e nessuna traccia di rossetto. Il manico è scheggiato e lui ci passa il dito sopra e gratta via un po’ di pelle.
La radio gracchia, una donna all’esterno urla qualcosa contro il marito, alcuni passi risuonano per il corridoio.
“Almeno di domenica mattina, potresti evitare tutto questo macello.”
La sorella appare sulla porta, in un pigiama dai pantaloni larghi a righe e una canottiera verde, i capelli rossi schiacciati da una parte e gli occhi assonnati.
Stefano le sorride e le augura il buongiorno, prima di tornare alla finestra e chiuderla e posare le tazze nel lavello.
“Devo andare. Il caffè è pronto.”
La bacia su una guancia, la ascolta parlare, sente il suono del suo sorriso infrangersi contro le pareti dei suoi timpani. Sa che tornerà a casa, dopo pranzo, e ci sarà Rebecca che parlerà, che farà rumore, ciabatterà per l’appartamento, guarderà la tv, canterà.
Non vivrà nel silenzio.
Per un fugace attimo, prima di chiudersi nella cabina del dj, si chiede come fa Martina a vivere nel silenzio di una casa vuota.

○○○

Il sushi è difficile da digerire e il sakè ancora gorgoglia in un punto imprecisato tra il mio fegato e il mio stomaco. Forse a voi di questo non frega un cazzo, d’altronde come passa i propri sabati sera di ritorno dalle trasferte Dj Stez non è la curiosità principale di nessuno.
Oggi voglio parlarvi del perché sono qui, in radio, perché lavoro nell’ambito della musica, perché spesso mi sentite dire che la musica mi ha salvato. Non c’è niente di romantico in questa frase, non sono un fottuto eroe di romanzi rosa per ragazzine, e non c’è niente di poetico.
La musica mi ha salvato dai silenzi densi, da quelli che fanno paura, di quelli che a volte la notte mi tengono sveglio e mi costringono a tenere accesa la televisione al buio, con mia sorella incazzata nell’altra stanza che impreca contro il mio bisogno di rumore. Ieri notte, il silenzio è stato riempito da una melodia nuova, fatta di piccole cose, come il respiro regolare di mia sorella che dormiva sul divano mentre guardavo un film, il sospiro di una sua amica durante una scena particolarmente intensa, il tamburellare del mio piede sul parquet e di un dito sul bracciolo del divano.
È  una nuova sinfonia, la stessa che mi accoglie ogni giorno quando ritorno a casa e ogni notte, quando fatico ad addormentarmi. Non potrei vivere nella solitudine di un silenzio tanto fitto da parlare con la mia coscienza.
Quella canzone oggi vorrei farvela ascoltare qui, questa domenica mattina, ma ero troppo impegnato a godermi l’orgasmo di piccoli suoni per poterli registrare. Ho comunque qualcosa che fa per voi, se il silenzio vi spaventa, ma se a volte sentite il bisogno di rifugiarvi in qualche anfratto scuro e vuoto, circondati dal nulla, pur avendo paura di voi stessi.
Dj Stez vi aspetta domani notte al Brancaleone come ogni lunedì, per oggi è tutto da Radio Cacofonia.

# In the mood for love.

 

Le note di una persona triste.

*si schiarisce la voce con imbarazzo crescente*
 Vorrei raccontarvi la storia di una ragazza che prometteva di non scrivere altro finché non avesse finito Der Himmel; ella scrisse addirittura un post nel suo gruppo, chiedendo pazienza per il ritardo di Sequins e scusandosi per l'infinito procrastinare di tutto, dicendo anche però che doveva trovare il tempo di ragionare sull'ultimo capitolo dell'altra sua storia. Aveva anche smesso di scrivere una oneshot tanto inquietante. Venti minuti dopo, aprendo word, ha cominciato a scrivere questa cosa, sotto velate minacce di più di una persona.
La fanciulla vorrebbe dedicare questa storia - che sarà triste, sarà molto personale e sarà molto introspettiva, tanto che non sono sicura rimarrà a lungo nella sezione romantico - a chi appunto l'ha spronata a tirare fuori pezzi di sé dal frigorifero e scioglierli un po' in pillole in una storia ambientata nella sua città - i Granai sono un centro commerciale, il blockbuster credo lo abbiano chiuso da qualche anno ma esisteva, la Tosi era la mia scuola elementare e la maestra Adriana la mia prima maestra, a Trastevere i negozi sono aperti anche la domenica e anche di notte e il chiacchiericcio è la cosa più fastidiosa del mondo.
Da qui nasce Cacofonia. Frammenti, la storia di due ragazzi - ma non saranno solo due - che in modi diversi tentano di riempire di suoni e rumori un silenzio che li spaventa. Da qui anche l'idea della radio, in cui Stefano lavora, che sarà protagonista di ogni capitolo, con un discorso finale pronunciato dal ragazzo. Quelli che apriranno il capitolo invece saranno sempre ricordi di Martina con la sorella Giorgia.
La foto iniziale è un fotogramma del film In the mood for love di Kar-Wai Wong, protagonista del capitolo. Per capire cosa intendo con i silenzi di questo film, vi invito a guardarlo, ma se proprio non vi va qui potete leggere qualcosa a riguardo.
Voglio ringraziare veramente Giulia, da cui è partito tutto, Matisse, che nella depressione di tale capitolo mi ha fatto sentir male dal ridere, Agnes, perché asseconda ogni mia follia con amore ed Emily, per lo shopping terapeutico, i comitati pro-ormoni e le belle parole che ogni volta escono dalla sua penna.
Se vi andrà di seguirmi in questa follia, ne sarò felicissima; intanto, sperando di poterci risentire presto, vi saluto.
Elle. 

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Capitolo 2
*** 2. Se mi vuoi bene, piangi. ***


Se mi vuoi bene, piangi 
b

A noi che insieme siamo state
invincibili,
con la speranza che lo sarai 
anche senza di me.

A Giorgia non piaceva andare a ballare. In realtà, all’epoca, neanche io provavo l’impellente bisogno di andare a scatenarmi in una pista tra corpi sudati e appiccicati tra loro, al ritmo di una musica dalle scarse capacità espressive.
Il caldo, le voci, la folla, i bassi ritmati, i vestiti scomodi, i capelli davanti agli occhi.
Non era il mio ambiente naturale, così come non lo era per Giorgia. A volte però Irene mi convinceva ad accompagnarla a qualche serata, soprattutto l’estate, e allora io la seguivo, pregando Giorgia di coprirmi con mamma e papà quando non tornavo a dormire.
Non era felice di farlo, si preoccupava per me e non le piaceva Irene. Mi aveva ripetuto più volte, l’ultima estate che passammo insieme, che non c’era da fidarsi troppo di una persona tanto volubile e influenzabile da cambiare idea su ogni cosa a seconda del ragazzo  di cui si dichiarava innamorata. Era fatta così, mi ripetevo, viveva le relazioni che aveva con un trasporto che di rado avevo visto in qualcuno. Lei e il suo ragazzo diventavano il centro del mondo ed io ero obbligata a gravitare loro intorno come un satellite niente affatto luminoso, come in un’eterna eclissi lunare.
All’epoca questo atteggiamento non mi sembrava indisponente come lo dipingeva mia sorella; era qualcosa che ero pronta ad accettare, qualcosa su cui non mi ero mai posta problemi o domande. Ma mi sarei ricreduta presto e Giorgia non ci sarebbe stata per dirmi “te l’avevo detto”.
Conoscendola, non l’avrebbe mai fatto.
Mi avrebbe abbracciata, lasciata piangere tra i suoi capelli e sulla sua spalla, avrebbe dormito nel mio letto e non avrebbe smesso di parlare finché non mi avesse vista dormire. Forse mi avrebbe letto una delle sue storie preferite, qualche passo di Calvino, due pagine di Hesse.
Mi avrebbe promesso, come aveva fatto altre volte, che ci sarebbe sempre stata lei, con me, accanto a me. Che non mi avrebbe mai lasciato sola.
Quella promessa, Giorgia, non la mantenne mai.

○○○


Irene è la migliore amica di Martina dal liceo. Dal quarto anno anche compagna di banco, da sempre unica compagna di scorribande in camposcuola o il sabato sera. Ricorda ancora la settimana di gita didattica a Praga, a sedici anni, in cui hanno rischiato di venire sospese per essersi ubriache di assenzio con dei ragazzi francesi. A Nicolas Martina aveva dato il suo primo bacio, sulle scale che portavano al settimo piano dell’hotel, davanti alla vetrata da cui si vedeva la Moldava e l’alba.
L’affetto che la lega a Irene è profondo, un legame forte di chi ha vissuto l’adolescenza al massimo e insieme, di chi ne ha passate tante e si è sempre sostenuto a vicenda.
Il problema di Irene è il suo egocentrismo e Martina ci ha messo anni per scendere a patti con questo lato del carattere dell’amica. Anni in cui se possibile è peggiorato, mettendo in ombra la vita di Martina, i suoi problemi, tenendola da parte. È questo che Giorgia aveva tentato di evitare, mettendola in guardia.
Quel lunedì mattina, Irene entra al blockbuster dietro ai Granai con il film che aveva noleggiato la settimana precedente e un sorriso tirato sul volto. Non le chiede come sta, come ha passato il ventiquattro notte, se ha guardato anche allora In The Mood For Love. Lei odia che a Martina piaccia In The Mood For Love, perché il suo ego la porta a ritenersi copiata in quella sua passione, quando a parte qualche film orientale Irene non sa neanche cosa sia il buon cinema. A Irene piace Avatar.
“Santo cielo, questa pioggia.” Impreca, mentre le bacia le guance e cambia argomento. “È stato un weekend fantastico, Marti. Perché non sei uscita con me e Marco?”
Irene non era andata al funerale di Giorgia. Le aveva detto che la conosceva appena e i funerali non le erano mai piaciuti; probabilmente era stato quello il momento in cui Martina aveva preso le distanze da lei, dal suo egocentrismo, dalla sua noncuranza nei confronti di chiunque altro non fosse lei stessa. Non ricordava che quello scorso era stato il weekend dei sei mesi.
“Ho visto un film con Rebecca e il fratello.”
Gli occhi di Irene scintillano sotto le luci gialline della videoteca, sorride famelica, si porta i capelli sulla spalla sinistra.
“Dj Stez?” chiede con entusiasmo. “Hai visto un film con Dj Stez?”
Il suo sorriso è inquietante. Talmente bello da poter stendere ragazzi nel raggio di metri, ma altrettanto subdolo. Martina pensa che, nonostante i suoi tanti sforzi, Stefano è uno dei pochi ragazzi su cui Irene ha messo gli occhi a non aver mostrato interesse o venerazione cieca.
“Sì, Stefano,” risponde, calcando con la voce sul suo nome completo.
Irene è fidanzata con Marco da nove mesi, ma si è incaponita su Stefano, forse proprio per il palese disinteresse che mostra nei suoi confronti. Una volta ha definito il non essere presa in considerazione frustrante; Martina invece ci è abituata. Non ha le gambe lunghe di Irene, ne i suoi occhi chiari o gli stessi particolari lineamenti.
“Ed è gay, vero?” chiede. “Voglio dire, la sua mania per i capelli e il suo modo di vestire erano un esempio lampante…”
“Non abbiamo parlato di questo,” la interrompe, divertita. “In realtà non abbiamo parlato affatto. Però non credo sia gay, l’ho visto con diverse ragazze all’AGM.”
Irene fa una smorfia infastidita. Le ha viste anche lei le ragazze di Stefano: sono tante, sono belle, ma non durano mai più di due o tre serate. Martina ormai conosce anche senza volerlo le abitudini del ragazzo, la scaletta musicale del lunedì sera, ogni scritta sulla porta del bagno del Brancaleone in cui Irene ha vomitato più volte. Un tempo non le piaceva andare a ballare, ora c’è qualcosa di liberatorio nel farlo; qualcosa che le permette di sfogare un’energia che quasi non si rende conto di avere altrimenti.
“Stasera.” Quella di Irene sembra una minaccia. “Passo a prenderti alle undici, beviamo qualcosa a Termini e andiamo.”
Non le lascia neanche il tempo di rispondere, le bacia di nuovo le guance e la saluta, già sulla porta automatica. Martina sbuffa.

 

Ogni lunedì sera, Stefano lavora come dj al Brancaleone, sulla Nomentana, dall’una alle tre del mattino, quando poi viene rimpiazzato da un dj diverso a settimana e lui può divertirsi in pista.
 L’Another Great Moretti è un appuntamento fisso degli alternativi perbenisti, quelli che non mangiano carne e indossano tronchetti di pelle, che non seguono la moda, ma si vestono tutti uguali, che si dipingono il corpo di tatuaggi colorati e rasano i capelli sulla tempia sinistra. Stefano sembra uno di loro, quando sale sul palco della sala principale: la canottiera con la bandiera inglese disegnata sopra è slabbrata e lascia scoperte le braccia; i jeans cadono perfetti sulle sue gambe e ai piedi un paio di mocassini neri gli tolgono qualche centimetro di altezza; i capelli biondi sono sempre sistemati in un ciuffo mosso che si piega verso destra e i suoi occhi sono velati da un filo di matita nera.
Al contrario di chiunque altro, non sfoggia tatuaggi in nessuna parte del corpo visibile, ma non per questo è meno apprezzato dalla finta gioventù alternative romana. Ha passato gli anni della sua adolescenza senza neanche una a ragazza: la sua prima esperienza la ha avuta a vent’anni, per questo non è ancora abituato a tutte queste ragazze che gli girano intorno. È sicuro sia solo il fascino del dj, ma non per questo intende non approfittarne. Da quando lavora al Brancaleone e in radio la sua vita sessuale ha subito un’impennata che non può che lusingarlo e soddisfarlo.
Lavora anche quella sera, dopo una partita a calcetto con i compagni di liceo che ancora vede ogni tanto, sale alla postazione ed è stanco, ma l’adrenalina rimbomba forte nelle sue orecchie, senza tregua, e il mondo intero con i suoi problemi è già cacciato fuori dal Branca dopo la seconda canzone.
Vede Martina, verso l’una e mezza, nei suoi shorts e calze a rete, i capelli sciolti sulle spalle e il volto poco truccato. È con Irene, la sua amica dai capelli corvini, quella che più volte ha tentato di farsi offrire da bere da lui, quella troppo bella e appariscente perché lui  possa trovarla interessante. La sua vanità fa a pugni con un’essenza annientata in favore del bisogno disperato di apparire: bella, interessante, intelligente, acculturata. Non ha importanza per lei, l’importante è come gli altri la vedono.
Lui la vede come un’illusione di perfezione, pronta a svanire al primo risveglio brusco, al primo sorgere del sole, al primo scavare più a fondo. Stefano ama scavare, scoprire la gente, conoscerne i segreti e i sogni e amarne gli angoli scuri e silenziosi; non potrebbe mai amare Irene.
Parlare con lei da sempre l’impressione di ascoltare un lungo panegirico personale, un’autocelebrazione che lui scambierebbe volentieri con una canzone. Forse anche alcuni silenzi sarebbero più piacevoli.
Irene è lì ogni lunedì, ma quella sera Martina è al suo fianco. Il suo sorriso è luminoso, in pista, come se tutto al di fuori non fosse altro che un brutto sogno, come se all’improvviso un raggio di sole avesse attraversato il buio del suo anfratto. Come se fosse finalmente viva e non avesse paura di guardare negli occhi le persone, di abbracciare Irene. A volte Stefano pensa che potrebbe anche piangere, in quei momenti, perché sarebbe troppo vera per nascondersi ai suoi occhi, troppo indifesa nella sua forza.
La osserva ancora un po’, finché lei non si allontana per bere, muovendosi al tempo dei bassi che escono fuori dall’amplificatore alla sua destra. Lui continua a suonare e nell’aria intorno a lui, coperto con forza dalla musica, si può udire il suo sbuffo divertito.

 

Stanno ballando da tre ore, ininterrottamente. Martina sorride e il sorriso ha l’odore di vodka e anche di rhum, ma è un bel sorriso, di quelli che da sei mesi è raro vederle in viso.
Irene balla poco lontano con un ragazzo dai capelli rasati sulla tempia sinistra e un tatuaggio colorato che gli copre il braccio come una maglietta etnica; ha un piercing al naso e uno al labbro. A Martina non piace, ma per fortuna hanno gusti diversi in fatto di ragazzi. O almeno li avevano prima di Marco.
Aveva una cotta per Marco da mesi, quando Irene ci si mise insieme. Senza una parola, nessuna finta preoccupazione, nessuna promessa che niente sarebbe cambiato tra loro, nonostante si fosse messa con il ragazzo che le piaceva. Semplicemente era arrivata a casa sua, una mattina, e le aveva detto che la sera prima era uscita con Marco e aveva deciso di lasciare il ragazzo di allora perché lui le piaceva veramente.
Giorgia l’aveva tenuta tra le braccia quando aveva pianto, dopo aver detto alla sua migliore amica che non importava, le andava bene ed era felice per loro. Lo era stata veramente, poi. Per Martina Irene era un fiore da trattare con delicatezza, convinta com’era dalle parole dell’amica della sua fragilità. Era una persona da proteggere e abbracciare nei momenti bui, era la persona che ci sarebbe sempre stata, qualsiasi cosa sarebbe accaduta.
Una sorta di ombra, una di quelle che ora le fanno paura e da cui si tiene lontana, perché non c’è luce abbastanza potente, nessun Max Demian a rischiare l’angolo in cui è relegata da sei mesi. Alla fine ha imparato che il silenzio non sarà spezzato dalla voce di Irene, o dai suoi passi nel buio, o dal fruscio della mano che scivola tra i suoi capelli prima di abbracciarla.
La luce e il silenzio sembrano muoversi a velocità doppia solo quando i bassi di una canzone dance anni ’90 risuonano nel suo sterno, con violenza, e lei può sentirli battere e il ritmico battito del suo cuore prendere il loro tempo. Per questo va a ballare con Irene, ancora, ogni lunedì e a volte anche nei fine settimana, nonostante ciò che la lega a lei è ormai solo un passato in comune.
Ciò che prima odiava, le voci, la folla, il rumore, le luci… Tutto acquista il senso giusto in una melodia che le batte al posto che bassa e roca le trapana i timpani e gli organi interni, mentre il fegato si bea della sensazione della vodka che scende giù per la gola.
Quella sera anche è divertita e il sorriso si allarga appena un po’ di più quando incrocia lo sguardo di Stefano e si salutano. Irene accanto a lei sembra non farci caso, impegnata com’è a ballare in modo esplicito con lo sconosciuto. Non sopporta di vederla comportarsi così, quando Marco non c’è. Non l’ha mai tradito, di questo ne è certa, ma non le piace allo stesso modo.
A volte pensa quasi che gli anni dell’adolescenza passati a piangere sul non avere un ragazzo, abbiano lasciato a Irene un’insicurezza latente che la spinge a cercare continua approvazione. Questo non la giustifica, però, e lei glielo ha detto più volte, ottenendo sempre in risposta solo un’alzata di spalle.
Irene fa così: ride, piange, parla, per sé e di sé, poi quando parlano gli altri alza le spalle,  indifferente, disinteressata, superiore.
La segue con lo sguardo quando va al bar e si fa offrire l’ennesimo cocktail colorato: non lo regge, l’alcol, ma ogni sera beve fino a stare male, tanto che Martina passa le ultime ore del mattino in un cesso a reggerle la fronte e scostarle i preziosi capelli dal viso. Probabilmente, schizzinosa com’è, se le si sporcassero, si raserebbe a zero.
La perde di vista un solo attimo, il tempo giusto per scomparire nella calca del locale, nascosta dalle luci intermittenti e dai corpi sudati. Una sorta di panico si fa strada dentro di lei, a ritmo di Kids si insinua tra i suoi polmoni, e nella sua cassa toracica, qualcosa arriva anche al fegato e fa reazione con l’alcol.
Il presentimento è rumoroso, è forte, ronza nelle sue orecchie, le stringe lo stomaco e la spinge a cercare l’amica nel locale. La trova poco dopo, in fila per i bagni.
La sua mano è intrecciata a quella dello sconosciuto, la schiena appoggiata al suo petto. Sorride alcolica, gli occhi annebbiati, le labbra aperte in una parola che Martina non può sentire. Sospira rasserenata e le fa cenno che si vedranno in pista più tardi. Irene annuisce e torna a ridere per qualcosa che il ragazzo sta dicendo vicino al suo orecchio.
La aspetta mezz’ora, continuando a ballare, il sorriso appena incrinato da quella solitudine a cui non è abituata. Scansa un ragazzo dalla camicia macchiata di sudore e Dio solo sa cos’altro, scambia due convenevoli con un tipo rasta, balla e ogni tanto si ferma a guardare Stefano.
Quando controllare il telefono per controllare l’ora si accorge che sono quasi le tre e che c’è un messaggio di Irene che le dice che si è sentita male e Francesco l’ha riaccompagnata a casa. Con la sua macchina.
Martina sente la rabbia montare e crescere come la musica scandita dai battiti dei bassi alle casse, gli occhi riempirsi di silenziose lacrime che non lascerà scendere, la testa della consapevolezza che da tempo ormai qualcosa si è spezzato nella sua amicizia con Irene.
Non darebbe più qualsiasi cosa per vederla felice; non a discapito della propria serenità.
Arrabbiata, stanca, delusa, si avvicina alla postazione del dj e aspetta.

Alle tre Dj Stez saluta e lascia il posto a Dj Moretti, colui da cui prende il nome l’intero format dei lunedì romani; lo saluta con una pacca virile sulla spalla, prende la bottiglietta d’acqua e ci si fa la doccia, poi scende dalle scale laterali.
Ci impiega un po’ a notarla, appoggiata al muro, le gambe incrociate una davanti all’altra coperte da calze a rete e gli shorts troppo larghi che le cadono male sui fianchi. È dimagrita molto dalla prima volta che l’ha vista. Si sta spazzolando i capelli con le dita, con aria contrita, quasi triste. Martina lo guarda, negli occhi una domanda che per orgoglio non vuole porre.
Puoi accompagnarmi a casa?
Stefano non sa cosa sia successo, perché sia là da sola, dove sia Irene, ma sa che la delusione che legge nel suo sguardo è quella che le ha dato lei, è quella di un’amicizia che si avvia alla fine. Non gli importa, non le risponde neanche, annuisce e le fa cenno di seguirlo. Si ferma a salutare un paio di persone, con urgenza, fretta, poi quando la calca di persone sembra raddoppiarsi la prende per un polso, per non perderla di vista, per non lasciarla sola. Non c’è nessun silenzio da cui doverla salvare, al momento, ma sa che nel suo piccolo sta facendo qualcosa per lei, anche solo darle un passaggio e tenerla stretta per paura di perderla.
Guarda i suoi piedi, Martina, attenta a dove li posa, le ciglia allungate dal rimmel ombreggiano le sue guance prive di qualsiasi altro tipo di trucco, così come le palpebre e le labbra.
È naturale, non è bella e provocante come Irene o chiunque altra dentro al Brancaleone quella sera, ma qualcosa di lei sembra brillare forte e accecante sotto il suo sguardo attento. Vorrebbe scavare anche lì, non solo in terre di conti al Lido dei Pini, tra archeologi famosi che ancora dopo cinque anni lo trattano come pezza da piedi quando va come volontario ad aiutarli; vorrebbe scavare a fondo nei suoi occhi, viaggiare attraverso la cornea e rispecchiarsi nella sua testa, osservarla da vicino, studiarla. Pulirla delle ragnatele, trovarla bella ed esporla in una teca di un qualche museo famoso. Sa che Martina non glielo lascerebbe fare.
Quando escono dal locale, la musica svanisce, le urla e le voci concitate non si distinguono più nel silenzio della notte. Martina si affretta a riempirlo.
"Grazie."
Stefano fa un gesto di noncuranza con la mano, prima di ricominciare a camminare e trascinarsela dietro. Il suo polso è sottile, ma lei gli sta facilmente dietro, mentre la porta alla macchina.
"Ho comprato 2046, vuoi vederlo?"
Martina lo osserva perplessa, sorpresa dalla proposta inaspettata. Sono le tre e mezza del mattino e lui la sta invitando a casa sua a guardare un film orientale, ben sapendo che non parleranno, che non ci sarà silenzio in casa, che il rumore sarà il suo unico conforto, che non potrà riposarsi.
"Sì." risponde come se fosse una cosa naturale farlo e Stefano sembra più stupito di lei, come se quella domanda fosse servita solo a spezzare il silenzio tutto intorno a loro, che sembrava mangiarsi le sensazioni, l'aria, i polmoni.
"Ok" sorride, di un sorriso lieve, ma quel suono arriva allo sterno di Martina più forte dei bassi dell'ultima canzone da lui mixata. "Piangerai?"
"No!" Il tono della sua voce è indignato e allo stesso tempo potrebbe sembrare divertito. È la conversazione più lunga che abbiano mai avuto da tre mesi a questa parte. "Ovvio che no."
Stefano non si spoglia del suo sorriso fastidioso e annuisce, mentre accende l’autoradio. Un gruppo rock emergente romano canta una canzone in francese maccheronico. "Meglio così.”

 

La mattina dopo Stefano si sveglia ancora sul divano, tra le sue mani il telecomando è rovesciato. Il collo gli fa male, è sudato e il cuscino su cui era seduto ha uno strappo su un lato.
Pensa che sia tardi, che perderà la trasmissione in radio; poi pensa che Martina è andata di nuovo via prima che qualcuno in casa si svegliasse. Rebecca sta sicuramente dormendo, ancora, dato che ha lezione solo il pomeriggio.
Poi un rumore di stoviglie lo rende d’improvviso più lucido, si accorge che sono solo le dieci, che è ancora in tempo per andare a lavoro, che accanto ai suoi piedi ci sono un paio di stivali in eco pelle, che la tazza di tè che era rimasta là dal sabato precedente non c’è più, ma c’è ancora il segno che ha lasciato sul legno del mobile.
Un’imprecazione viene dalla cucina, subito dopo il rumore dell’infrangersi di cocci. Si alza dal divano, pigro, apre la finestra e si gode qualche secondo il chiacchiericcio di Trastevere sotto di lui; poi va in cucina, convinto di trovare Rebecca che, ancora assonnata, non è riuscita a tenere in mano una tazza.
Quando varca la porta però gli sembra di sentire di nuovo i bassi del suo mixer sconquassare qualcosa al centro del suo petto, la voce di Chow che ripete “finché non si rinuncia si può sempre sperare”. Lui non sa in cosa dovrebbe sperare o se ha già rinunciato. Forse è Martina quella che ha rinunciato a qualcosa, quella notte: a un’amicizia, a un bel ricordo, alla volontà di essere sola e di sopravvivere al silenzio.
O forse è Martina quella che all’improvviso ha la forza di sperare, quando nella sua cucina insieme alla tazza di tè ha lasciato scivolare le lacrime, quel martedì mattina.

○○○

Buongiorno da Dj Stez, qui per voi dopo una notte passata al mixer del Brancaleone, a farvi divertire a ritmo di buona musica!
Sono stanco, ho un sonno che mi si porta via, a volte vorrei rimanere sotto le coperte fino a sera e alzarmi solo per cenare e per una birra con gli amici. Non troppa gente, solo quei due o tre gatti di cui sai di poterti fidare e che non ti hanno ancora rotto i coglioni dopo dieci anni di amicizia.
A volte sento il bisogno di lasciare la folla e ritrovarmi solo con loro, nel pub dove andavamo da ragazzini, a ridere per battute nonsense e prendere in giro quel vecchio compagno di scuola che ora non esce più perché la moglie è incredibilmente gelosa. Oh, bella Preziò! Se mi ascolti sappi che se riesci a cannarla a casa una sera, ti faccio entrare gratis a una serata…
Dicevo che amici del genere sono una fortuna, ma sono anche una rarità. Che spesso ci scordiamo di chi ci delude e tradisce. Altre volte invece non riusciamo a scordarcelo neanche sotto tortura e il bisogno di una spalla su cui piangere sarà sempre presente perché non avremo il coraggio di cercare quel sostegno nello sguardo di nessun altro.
Un amico che ci delude è peggio di un amore che ci tradisce; è la rabbia cieca di aver donato parti sconosciute anche a te di te stesso a qualcuno che non ha avuto abbastanza riguardo per la nostra persona e i nostri sentimenti, troppo occupati a elevare se stessi oltre i limiti della propria blanda personalità. Quando una delle persone più importanti per me mi deluse, impiegai mesi a capire che non ne valeva la pena e che tutto ciò che c’era stato prima era stata un’amicizia che andava in un verso, alla cui estremità principale c’ero io, da solo. Non eravamo insieme, in quel rapporto, ero solo, con il mio affetto e la mia fiducia.
Sapete, un giorno sono riuscito a rimpiazzare quella persona con altre, forse meno incisive nella mia vita, ma altrettanto importanti. Stavolta persone vere abbastanza da poter dire “Stasera siamo invincibili”. Vorrei essere per altri una di quelle persone a volte, anche solo per guardare un film alle tre di notte su un divano, a una distanza massima di sicurezza, come se una vicinanza fisica potesse essere preludio di una più profonda ed emotiva. Come se anche il solo sfiorarsi potesse ferire ancora una volta.
Prima o poi vi renderete conto che rinunciare è inutile e che in realtà non l’avete mai fatto veramente; che un po’ di speranza anche senza volontà brilla nell’anfratto buio e silenzioso in cui amate nascondervi, al ritmo dei bassi di una canzone abbastanza potente da farvi ballare.
Quel giorno ricordate questa canzone, io la dedico ai due o tre stronzi che adesso stanno a lavoro e mi stanno maledicendo. E pure a Preziosi. A dopo.

# Invincible.

 

Note di una persona che vorrebbe ficcarsi a letto e non alzarsi più.

Sono qui anche oggi, nonostante avessi detto che avrei aspettato di avere qualche altro capitolo pronto prima di aggiornare, perché è una cosa che ho bisogno di fare.
Oggi più che mai questo capitolo per me ha un altro senso, è un abbraccio che ho dato, ma che non è servito, è un "ci sono" che non è stato ascoltato. 
È un capitolo che parla di amicizia, della mia capacità di regalare il mondo a qualcuno. Parla di delusione, della fine di un'amicizia, del sentirsi invincibili insieme. 
Dovrebbe però parlare anche del bisogno disperato di essere vicino a qualcuno e potergli dare conforto, anche ora.
Spero vi piaccia il tutto, perché io ci tengo veramente tanto. E grazie a chi ha recensito e chi in questi giorni è stato sempre qui. Voi sapete chi siete.
Elle. 
Ps. I capitoli non sono betati e oltretutto questo l'ho riletto a mala pena. Se vedete oscenità grammaticali/sintattiche abbiate pietà, non ne ho la forza.
Pps. L'immagine iniziale è quella di uno dei due bicchieri di Nana e Hachico del manga Nana, il simbolo della loro amicizia. Quando qualcosa tra loro si spezzò, Nana per sbaglio ne fece cadere uno. "Irene" è sempre stata la mia Hachi.

Note al testo.

-L'AGM, anche detto Another Great Moretti, è ispirato a una serata romana che si svolge anch'essa ogni lunedì (quest'inverno al Qube, quest'estate al Roma Vintage), con dj a rotazione ogni settimana a parte Mokai che è fisso ogni lunedì. Il nome reale della serata è Any Given Monday e io qui prendo solo ispirazione dal format, ma niente che racconto è accaduto realmente e i personaggi non prendono spunto da nessuno conosciuto lì.
-Il Brancaleone è un locale storico di Roma che appunto si trova sulla Nomentana, in cui fanno anche concerti e serate sparse.
-Max Demian è il personaggio del libro Demian di Herman Hesse, uno dei libri che amo di più al mondo.
-Kids è una canzone dei MGMT. Qui se volete ascoltarla.  
- 2046 è un film di Wong Kar-wai, il seguito ideale di In The Mood For Love. 
-“Finché non si rinuncia si può sempre sperare” è una frase che dice Chow un personaggio di 2046 e a cui Stefano ripensa perché l'ha sentita la notte prima.
-"Cannarla", voce del verbo "cannare" è un modo romanaccio per dire "lasciarla lì" appunto a casa da sola mentre Preziosi va a divertirsi :D
-“Stasera siamo invincibili” è una frase della canzone che Stez mette alla radio, Invincible dei Muse. 

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Capitolo 3
*** 3. Al di là del sangue. ***


Al di là del sangue.

 a

A chi ha le ali,
anche se non dovrebbe.
a voi che siete
la mia famiglia.

Il primo ricordo della mia vita ha come protagonisti due bambine di cinque anni e un’altalena del parco di Don Bosco. C’era un sole pallido e tirava un vento da cui il mio giubbino non riusciva a proteggere completamente. Non credo avessi più di tre anni, perché Giorgia stava giocando con quella bambina antipatica che era in classe sua all’asilo e con cui poi aveva frequentato anche al liceo. Federica, era il suo nome.
Ricordo che la gelosia nei suoi confronti sfiorava livelli mai visti prima: per Giorgia, la mia sorella maggiore, il mio mito, ero solo una mocciosa balbettante con i pochi denti che avevo storti e i capelli più lisci dei suoi. Lei odiava i suoi capelli.
Eravamo diversissime, così tanto che la gente spesso non credeva neanche fossimo sorelle. Lei era troppo alta, troppo riccia, aveva occhi troppo azzurri ed era troppo bella. Non sono mai stata invidiosa di lei in quel senso. Era la mia sorellona, la preferita dei miei genitori, ma comunque l’unica persona su cui ero sempre stata certa di poter contare, sin dal primo ricordo che ho di noi, su quell’altalena, quando Federica mi spinse giù per poterci salire sopra lei.
Non piansi, non reagii semplicemente guardai Giorgia, sperando facesse qualcosa, con la sottile paura che lei non avrebbe mai scelto la sua piccola sorella goffa che camminava su zampette grasse e aveva qualche lentiggine sul naso e portava vestiti di seconda mano che erano stati suoi. Poi Giorgia si alzò e mi guardò.
Quello sguardo non lo dimenticherò mai. Era lo sguardo di mia sorella, quello che mi avrebbe rivolto ancora, nel tempo, ogni volta che qualcuno tentava di farmi del male; era quello che parlava al posto della voce che raramente lasciava uscire anche con me; era lo sguardo di una persona che mi amava ed era fiera di avere il mio stesso sangue.
Da quel giorno Giorgia non giocò mai più con Federica e il nostro rapporto crebbe ogni giorno di più. Non eravamo solo sorelle, eravamo soprattutto amiche.
Quel ventiquattro settembre persi la mia migliore amica.

○○○

Sono passate due settimane dalla notte in discoteca e Martina non è più tornata a casa di Rebecca e Stefano. L’imbarazzo dell’essersi scoperta a occhi nudi e dolore scoperto dal fratello della sua amica è qualcosa che le mangia lo stomaco ogni mattina appena si sveglia. Non ha mai piano davanti a nessuno, solo Giorgia conosceva la forma e il colore delle sue lacrime e sua madre forse non se le ricorda più.
Rimane a casa e va a lavoro, pranza dal cinese sotto casa un paio di volte quando torna a casa troppo tardi per aver voglia di cucinare, dorme alla luce di una lampadina e con le cuffiette nelle orecchie che ricalcano le note di una playlist che aveva creato con Irene.
L’amica l’aveva chiamata la mattina dopo, chiedendole di non raccontare niente a Marco e assicurandole che non era successo niente. Martina non aveva saputo crederle, ma le aveva detto che non avrebbe parlato con lui né avrebbe voluto farlo di nuovo con lei.
Non ha voglia di discutere ancora con Irene; non quando sa che sarebbe sempre lei quella dalla parte del torto, con una ghigliottina in bilico sul suo collo, pronta a scivolare giù e recidere vene al verdetto dell’amica.
Avrebbe pianto, se fosse abituata a farlo; quella telefonata sembrava un punto di non ritorno verso una separazione che sarebbe forse dovuta arrivare molto tempo prima, ma che Martina ha continuato a custodire con gelosia, nel tentativo di accettarla così com’era. Dopo quelle poche parole, dopo la rassegnazione dell’evitare una discussione che sembra non interessarle più, si sente come se avesse lasciato scivolare via da sé un pezzo di quella che era. Come se avesse abbandonato la strada giusta, indicata dall’ago di una bussola indicante il sud. Non si era resa conto, prima di allora, che la strada in realtà fosse sbagliata.
Ha visto poche persone, in quei quindici giorni; è uscita solo due volte con Rebecca, per una birra a Campo De’ Fiori, tra chiacchiere futili e sorrisi tirati. Rebecca non sa cosa quel martedì mattina fosse successo nella propria cucina, sa solo della litigata con Irene. Le ha dato una spalla su cui sfogarsi e la pazienza di ascoltarla imprecare per ore, fino a quando, stanca, non ha cambiato argomento.
Quel venerdì mattina lei è a casa per la giornata di riposo e la telefonata la coglie mentre sta cucinando una carbonara, tentando di non dare fuoco alla casa.
“Stefano stasera suona all’Orion” le dice Rebecca quando risponde al telefono, ancora prima di salutarla. “Non ti permetterò di pisciare un’altra volta. È una serata importante per lui, pensa che ci sarà pure Raffaele con la compagna!”
Raffaele è il fratello di mezzo di casa Mengacci. Rebecca lo adora, ne parla con entusiasmo sempre crescente e racconta aneddoti della loro infanzia che la fanno sentire ancora più sola, perché lei non ha più nessuno di cui parlare come se fosse un eroe. È felice però di conoscerlo finalmente.
“Credo proprio che verrò, se c’è anche lui. Sai che voglio conoscerlo.”
Sente la risata di Rebecca attraverso il telefono e un sorriso increspa anche il suo volto, quasi sereno, come quando erano per Giorgia, come quando erano veri.
“A più tardi, Marti,” dice entusiasta. “E so che stai sorridendo, fallo pure stasera.”
Martina accenna una risata più convinta e la saluta, poi torna a prepararsi il pranzo. Pensa al fatto che rivedrà Stefano e non sa come comportarsi, cosa dirgli, cosa fare. Forse però neanche riuscirà a incrociare il suo sguardo mentre lui lavora e lei balla nella calca, magari scambierà due chiacchiere con Raffaele e conoscerà qualcuno di interessante, che non la guarderà male quando scoprirà la sua passione per Harry Potter e il piccolo boccino che ha tatuato sulla scapola sinistra.
Stefano non dirà niente, comunque. Non ha detto niente neanche quella mattina, l’ha solo guardata stupita qualche istante, prima di accucciarsi ai suoi piedi e raccogliere i cocci e ferirsi una mano. Ha delle mani grandi, dalle unghie curate, tre anelli sulle dita; sono belle, di chi potrebbe suonare uno strumento, ma non la chitarra perché sono prive di calli. Non ha detto niente delle sue lacrime, però lei ha visto qualcosa nei suoi occhi troppo simile al dispiacere, troppo simile a una domanda inespressa. Uno stai bene? morto tra le labbra, chiuso in un sospiro sonoro.
Forse dovrebbe evitarlo anche quella sera, stargli lontana e non pensare di voler vedere un altro film con lui e poi parlarne sottovoce prima di cadere addormentati, sempre lontani, sempre impacciati, sempre due estranei.
Forse dovrebbe proprio dimenticare il senso di disagio che come un fugace sospiro le stringe la gola quando lo vede. Dovrebbe, ma non vuole farlo.

 

Un sospiro fumoso lascia le labbra di Rebecca, seduta sul vano della finestra con una sigaretta tra le dita e senza pantaloni. A volte pensa che ci vorrebbe una fotografia, di quelle in bianco e nero un po’ sgranate, con la messa a fuoco sulle volute che il fumo disegna nell’aria e che in controluce si vedono perfette, sullo sfondo nero. La sua reflex però è lontana e non vorrebbe essere lei la protagonista della foto, ma la fotografa. Chiude gli occhi, assapora la nicotina, scuote il fumo davanti a sé con la mano.
Le labbra sono incurvate in un sorriso, la testa sfiora pensieri distanti, i sospiri creano con il rumore del vento una melodia affascinante, Rebecca gioca con un suo boccolo.
Non vede Raffaele da due mesi, quando si è trasferito a Londra con la compagna, una certa Jane, bionda e slavata, ma molto dolce. All’inizio è stata gelosa di lei, l’ha odiata per averle portato via il fratellone, poi l’ha conosciuta e non ha potuto non adorarla. Hanno ventotto anni e vivono insieme ormai da  tre, da quando lei era a Roma per uno stage nel suo studio legale.
Ricorda ancora vivide le lacrime del giorno della partenza, il mezzo sorriso lucido con cui Raf l’ha salutata, il bacio sulla fronte e l’abbraccio con Stefano. Ricordi sfocati come il mondo attraverso il fumo che espira.
È contenta ci sarà anche lui, quella sera. Per Stez è importante ed è sicura che il fratello sarà l’unico a donargli la calma e la sicurezza necessaria per quella nottata che si prospetta di follia e delirio.
Ama avere due fratelli più grandi, essere la piccola e coccolata Reby che da piccola li implorava di poter giocare con loro a calcio. È sempre stata un maschiaccio.
Era fortunata ad avere due fratelli come Stefano e Raffaele: erano comprensivi, poco gelosi e iperprotettivi nel limite della decenza; la amavano come solo due fratelli più grandi avrebbero potuto fare e sapeva di poter contare sempre su di loro.
“Reb,” la voce di Raffaele la distrasse dai suoi pensieri e lei si apprestò a spegnere la sigaretta sul davanzale della finestra, ricordando quanto il fratello odiasse il fumo. Sospiro e dalle narici uscì un ultimo sbuffo grigiastro.
“Andiamo a prendere un gelato?”
Raffaele ama il gelato: quand’era bambino mangiava solo quello, anche a dicembre, anche quando andavano in settimana bianca con i genitori. Cioccolato e panna, sempre, non lo ha mai visto cambiare gusti o provarne altri.
Escono dieci minuti dopo e le strade di Trastevere brulicano di personaggi bizzarri: il Principe con la sua bicicletta sgangherata e il cappello da Cowboy la saluta, mentre si stira i buffi baffi tra le dita; parla in rima, come sempre, prova a spiegarle del perché non dovrebbe uscire quel giorno, perché Marte è allineata a Venere, gioca con i baffi, le prende le mani. Raffaele ride, non più abituato a questi gesti e all’espansività romana, dei matti del rione, si fa leggere la mano da Principe, ride più forte.
Quando vanno via e raggiungono il Blue Ice in piazza Santa Maria non hanno più fiato e gli occhi sono lucidi di divertimento.
“Allora Reb,” Raffaele parla solo una volta uscito dalla gelateria, il tono caldo e profondo che ricorda, i capelli biondi scompigliati dal venticello. “Come va qua da soli? Ve la cavate?”
Rebecca annuisce, pensando a quando avevano deciso di rimanere a Roma mentre i genitori tornavano a Torino, la città in cui entrambi avevano vissuto fino al matrimonio. “Va tutto bene. Mamma e papà ci mandano dei soldi e Ste guadagna bene in radio…” sorride. “Sai è bravo! Domattina dovresti ascoltarlo.”
Raffaele scuote la testa divertito, le passa un braccio dietro le spalle, sorride e gioca con il lembo della sciarpa. “E tu che mi dici? C’è qualche ragazzo che ti interessa?”
Rebecca per poco non si strozza con il gelato alla fragola e stracciatella, mentre lo guarda con aria sconvolta. Era sempre stato così, il fratello, con quelle domande indiscrete poste nei momenti in cui meno c’era da aspettarselo, senza il minimo pudore.
Sospira, ingoia una cucchiaiata gelida, guarda davanti a sé. “Lo sai chi c’è,” dice a bassa voce. “Ma non mi va di parlarne.”
Un sospiro lascia le labbra carnose di Raffaele, le stringe un po’ più le spalle, le bacia la fronte. È più alto di lei di parecchi centimetri.
“Dovresti fare qualcosa per questa cotta. Va avanti da quando avevi sedici anni e non gli hai mai detto niente.”
“Ho perso il mio momento,” sorride triste, Rebecca, e gioca con le dita di Raffaele. “Si è fidanzato e sembra parecchio felice. E sai che Stefano odierebbe questa cosa.”
La osserva per qualche istante scurirsi in viso, ripensare ai motivi che l’avevano convinta in passato a lasciar perdere il ragazzo di cui era innamorata da sempre, la vede dominare le lacrime e poi riprendere a sorridere, solare come sempre, come se niente fosse successo. Come se la nuvola fosse stata spazzata via immediatamente da un sole troppo luminoso.
“Vorrei aiutarti, Reb, e vorrei fare qualcosa pure per Stefano che mi sembra un po’… tra le nuvole. Tu ne sai qualcosa?”
“Spero non sia niente di grave.”
La ragazza nega con il capo, facendo volare i capelli mossi nell’aria, mentre svoltano nel Vicolo del Cinque e incontrano un altro personaggio noto: il Folle sorride sdentato, avvolto nella sua coperta nel suo solito giaciglio improvvisato, prima di tornare a guardare un film dal suo laptop.
“No, non me ne ha parlato, ma sai com’è fatto. A un certo punto lo farà.”
Rebecca ripensa al suo sguardo su Martina mentre guardavano il film, poi alla presenza di Martina due settimane prima, poi alla sua strana domanda su come Martina stesse, posta proprio un paio di giorni prima.
“Ma non preoccuparti. Magari ha solo trovato una ragazza abbastanza interessante che possa confermare a papà di non avere un figlio gay e a mamma di non averne uno puttaniere.”
Raffaele ride e la sua risata fa girare diverse turiste, incantate dal suono della sua voce e dalla sua bellezza.
“Quei due si preoccupano sempre troppo e in modo diametralmente opposto.” Aggiunge lei. “Ci preoccupiamo tutti troppo in famiglia. Anche tu, a volte mi metti l’ansia.”
“Sono il tuo fratello maggiore. È il mio lavoro.”
Rebecca ride e si lascia abbracciare di nuovo, mentre il gelato si squaglia nella coppetta e lei si sente come quando aveva sette anni e al ritorno da scuola l’unica cosa che voleva era abbracciare i suoi fratelli.

Martina non ha voglia di uscire quella sera, il malumore le sta mangiando lo stomaco tra i mille sospiri sconfortati. Non vuole però deludere Rebecca, cosi contenta di presentarle Raffaele, perciò si veste controvoglia ed esce.
Rebecca le piace, è una persona solare ed esuberante e spesso doma con incredibile maestria i suoi musi lunghi e i suoi silenzi; quando parla della sua famiglia, però, Martina vorrebbe non doverla ascoltare. La famiglia Mengacci sembra la famiglia perfetta della Mulino Bianco, nonostante la distanza fisica presente tra i fratelli e genitori. Ogni volta che Rebecca parla di Raffaele o Stefano, i suoi occhi brillano di orgoglio e felicità per essere cresciuta in una famiglia affettuosa e Martina non riesce a reprimere l'invidia e il moto di insofferenza che la coglie e che l'amica ha imparato a riconoscere. Sa che prima o poi dovrà affrontare l'argomento Giorgia, parlarne con qualcuno, non le importerebbe neanche chi. Ma ha paura delle parole che potrebbe dire e ascoltare, ha paura di vedere l'accusa negli occhi dell'amica, così come era stato con i suoi genitori.
Un giorno spiegherà a Rebecca o forse a qualcun altro perché vive da sola e si ammazza di lavoro per arrivare alla fine del mese, spiegherà cosa c'è nel silenzio delle sue labbra, quello che ama riempire di parole e voci non sue, ma sa che quel momento non è quella sera, non è davanti agli occhi chiari di Raffaele e al sorriso dolce della sua fidanzata.
Non è quando Stez comincia a suonare sul palco, tra i sospiri di troppe ragazze, né quando Rebecca la prende per mano e la trascina a bere shot e cocktails sempre più forti per dimenticare la presenza di Irene poco lontana, in compagnia di Marco. Non è il momento neanche quando Irene le si avvicina e la saluta come se non fosse successo niente.
Qualcosa la punge allo stomaco alla sua vista, è abbracciata a Marco mentre lei parla con Rebecca già ubriaca e Raffaele tenta di reggerla in piedi. È un bel ragazzo veramente, ma la sua aria seria lo fa sembrare più grande di Stefano, mentre invece è minore di tre anni. È simpatico, un tipo posato, il contrario dei fratelli. Rebecca è una forza della natura e Stefano nasconde dietro alla sua voglia di casino una personalità ben più complessa a cui lei cerca di non interessarsi.
Non è difficile capire perché tante ragazze facciano la fila sotto al palco alla ricerca di un suo sorriso, nonostante non sia una bellezza. Il suo carisma è visibile anche dalle retrovie del locale, a guardarlo da lontano sotto le luci intermittenti. Sembra un quadro di Monet, le pennellate discontinue e colorate create dai riflettori giocano con i suoi capelli e i suoi lineamenti: le ombre del suo viso parlano di lui più che le sue parole, sembrano raccontare storie di chi ha camminato tanto lungo una via impervia. Forse anche lui ne aveva presa una sbagliata, così come lei, forse anche lui aveva impiegato più tempo del previsto a capire dove dovesse realmente andare, forse erano solo ombre verdi e blu e bianche proiettate in un locale alla periferia romana.
Continua a ballare, osservandolo di sottecchi più volte, richiamata dal fascino che emana, senza però perdere la concentrazione in chi le sta intorno, nelle chiacchiere di Rebecca, nel proprio muoversi sinuosa tra tanti corpi, nel suo evitare Irene e Marco. L’adrenalina sospira stanca solo alle quattro, quando si allontana dalla calca con Raffaele per una sigaretta in compagnia dietro la porta d’emergenza che porta al fresco di inizio aprile.
Il ragazzo le porge l’accendino, la lascia accendere, le rivolge un sorriso a labbra strette, tra le quali una Winston blu pende pericolosamente verso il pavimento sudicio di vomito e alcol.
Non c’è alcun silenzio da dover spezzare, la presenza della musica e delle voci è ancora costante e riconoscibile attraverso la parete leggera, quindi non dice una parola. A metà sigaretta però Raffaele sospira e dalle narici esce fumo come se fosse un drago infuriato.
“Sei silenziosa…”
Sono due parole apparentemente innocue, ma nel tono curioso della voce, quasi perplesso, lei ritrova l’ironia di Stefano che le chiede se piangerà alla vista di un film. Vacilla per un attimo, poi sorride e si sente divertita per davvero, perché ha bevuto troppi Angelo Azzurro, perché adora ballare, perché è di buon umore, nonostante tutto.
“Non mi piace granché parlare.”
“Anche Stefano era così,” dice quasi sovrappensiero e Martina è all’improvviso più lucida nel captare le sue parole. “non parlava di nulla, io mi preoccupavo sempre troppo per lui e lui si chiudeva sempre più a riccio. Rebecca dice che non smetterò mai di essere un ansioso e forse ha ragione, ma sono i miei fratelli… Anche se Stez è più grande, a volte mi sembra ancora un ragazzino.”
Vomita parole su parole, tra un sospiro e l’altro, e a Martina quasi non sembra strano parlare con un estraneo delle abitudini di un semi estraneo. Non dovrebbero interessarle questi particolari sulla vita di Stefano, ma le piace guardarlo attraverso gli occhi di qualcun altro. Le sembra di poterlo fissare di sottecchi come fa lui ogni volta senza che lei se ne accorga.
“Crescendo è cambiato, ora parla a manetta. Questo lavoro lo ha aiutato molto.”
Continuano a sembrare pensieri sparsi, non nati per essere espressi ad alta voce a una ragazza di cui non si sa nulla. Non sembra disturbarlo però, anzi le sorride di nuovo. Lei non risponde, sospira ma non apre la bocca per replicare a nessuna parola, perché qualsiasi cosa le viene in mente le si aggrappa nella trachea non intenzionata a uscire dalle sue labbra.
Non parlerà di Giorgia con Raffaele, non dirà che anche lei si preoccupava per sua sorella quando non parlava, che aveva pensato che la sua improvvisa loquacità fosse un bene. Vorrebbe dirlo, parlarne con qualcuno, ma non è il momento neanche quando Raffaele le chiede inconsapevole una verità che ancora non riesce a confessare ad alta voce.
“E tu hai sorelle o fratelli?”
Vorrebbe dire che ne aveva una, che è morta da sei mesi e diciannove giorni, che la sente strappata dalla pelle ogni mattina quando si sveglia da un ricordo in cui lei era presente ed è convinta di trovarsela accanto. Se potesse direbbe come faccia fatica a respirare, ripensando alla sua voce e al suo volto, così diverso dal suo, ma altrettanto familiare.
Non apre bocca, però. Lascia che il silenzio risponda per lei, insieme ai suoi capelli che volano da destra verso sinistra al movimento della sua testa. No, non ha fratelli o sorelle.
Non ne ha più.


Stefano scende dal palco ancora esaltato. È stata una serata magnifica, ha fatto ballare centinaia di corpi senza mai essere monotono o ripetitivo, dimostrando per la prima volta di avere capacità nel mixare che all’Another Great Moretti non riesce mai a mostrare per il tipo diverso di musica.
Ha ricevuto applausi e quando si ritrova tra la folla sotto al mixer una decina di ragazze sono accalcate lì sotto e tentano di abbracciarlo e complimentarsi. Ne saluta qualcuna, ne bacia un paio sulle guance, si presenta a qualcun’altra. Finalmente riesce ad allontanarsi e abbraccia Rebecca e Raffaele che si complimentano con lui e istintivamente cerca un altro volto, capelli scuri e poche lentiggini sulle guance. L’ha vista prima parlare con il fratello, ballare con la sorella, ridere spensierata con un bicchiere sempre diverso in mano.
Vorrebbe non perdere tempo a chiedersi di lei e quindi non pone domande a nessuno. Sembra che Raffaele stia per parlare, forse proprio di Martina, ma vengono interrotti.
“Cazzone!”
Un ragazzo moro con grandi occhi scuri gli sorride malizioso, tra le labbra impreziosite da un piercing. Indossa una canottiera slabbrata e pantaloni lunghi a sigaretta, i capelli sono sistemati all’indietro e catalizza su di sé l’attenzione di tutte le donne nei dintorni.
“Leo, sei venuto!”
Leonardo Moretti è il fondatore dell’Another Great Moretti, colui che lo ha convinto a imparare a usare un mixer e a diventare un dj. Si conoscono da quando sono bambini, sono sempre stati inseparabili e incasinati, pronti a bere e urlare e cantare ai concerti dei loro gruppi preferiti, senza mai fermarsi e senza dormire per giorni interi. Era la loro concezione del vivere, fuori dalle regole imposte da genitori apprensivi, farlo al massimo senza perdere niente. È stato Leonardo a inserirlo nella scaletta del lunedì sera.
“Ti pare che mancavo? Ciao Reb, ciao Raf!”
Abbraccia entrambi e Stefano per poco non si strozza quando vede la sorella arrossire. C’è sempre stato qualcosa di strano tra loro, una complicità latente che nessuno dei due ha mai avuto il coraggio di mostrare e dimostrarsi, qualcosa che lui coglie negli sguardi sfuggenti, nei sospiri della sorella e nell’affetto di Leonardo.
Rebecca rimane vicino a lui, non si allontana, dopo l’abbraccio, solo non si toccano. Due calamite di polo opposto. Sorride rassegnato, pensa che forse avrebbe potuto mettere da parte la sua gelosia per la sorella anni prima e aiutarli in qualche modo.
Ora Leonardo è fidanzato e a volte sembra anche felice.
“Dov’è finita Martina?”
È Rebecca a chiederlo e lui vorrebbe ringraziarla. Leonardo chiede chi sia Martina, Raffaele alza le spalle.
“È diventata nervosa quando siamo andati a fumare, ha detto che preferiva rimanere fuori.”
Stefano si allontana dal gruppetto, dice loro che tornerà presto, si avvicina all’uscita di emergenza e prende un respiro profondo. Non sa perché la sta cercando, vorrebbe non farlo, non sbattere contro quel muro di omissioni dietro cui si nasconde Martina. Lei non parlerà, non racconterà niente di sé, ascolterà a mala pena cosa lui avrà da dire, ma saranno poche parole, convenevoli futili che saranno accantonati in un angolo remoto delle loro menti, troppo impegnate a pensare a tutt’altro.
La trova seduta sul gradino della scala antincendio e probabilmente sta morendo assiderata, scoperta com’è. Le si avvicina, le sorride, si siede vicino a lei.
“Sei bravo.”
Quasi sussulta Stefano, quando è lei la prima a parlare. Non se l’aspettava, non si aspetta neanche il suo sorriso vagamente alticcio sulle labbra e gli occhi socchiusi e lucidi. 
“Grazie.”
Sorride anche lui e la invita ad alzarsi. Ha voglia di ballare, non lo fa spesso da quando sul palco c’è lui. Vorrebbe prenderla per mano come quando l’ha portata fuori dal Brancaleone settimane prima, ma lei lo anticipa di nuovo, stringendo tra le dita la stoffa della sua canottiera nera, all’altezza del tatuaggio che nasconde agli occhi degli altri, lì sul fianco sinistro. Lei lo trova immediatamente, senza neanche rendersene conto, e a lui sembra giusto che sia stata Martina a toccarlo per la prima volta. Sembra come se quella rosa nera stesse aspettando solo la sua mano.
“Sono ubriaca.” Dice, ridendo. “Sul serio, lo sono così tanto che ho quasi voglia di parlare con te.”
“Ne sono onorato, Marti,” risponde lui, senza smettere di sorridere divertito. “Ma io vorrei ballare, ti va?”
Rifiuta un’occasione ghiotta, fugge dalla strada più facile per capire cosa nasconde e cosa la tormenta; non è così che la vuole conoscere, affogata nella vodka; vorrebbe farlo davanti a un film, con il giapponese finito sul tavolo davanti a loro, come in una commedia romantica, magari di quelle francesi, magari come in Amelie, tra gesti inconsueti e poche parole. Come in quella canzone di Dente che lui odia, che forse odia anche lei perché La presunta santità è di Irene e non di Martina, che ama ballare e di santo non ha davvero niente, perché si muove troppo fluida, troppo coordinata, troppo bella.
Ed è lì che forse Stefano la vede la prima volta, quando la osserva negli occhi ancora annebbiati dall’alcol, ma scorge al di sotto della patina fumosa il luccichio di chi un tempo era stata, la vede mentre allaccia le braccia al suo collo, mantenendo sempre una distanza di sicurezza, muovendosi complementare a lui.
Ridono entrambi, quando lei perde l’equilibrio. Ridono quando si avvicinano di nuovo, sfiorandosi con i petti affannati, ridono e Stefano nota Rebecca sorridere nella loro direzione mentre chiacchiera con un ragazzo e ogni tanto lancia occhiate tristi a Leonardo e alla sua ragazza. Per una volta non si preoccupa per lei, non si preoccupa di nessun altro.
L’unica cosa importante è continuare a guardare Martina ridere.

○○○

Buongiorno, radioascoltatori!
Sono in radio con un dopo sbronza epocale e non più die tre ore di sonno, perciò se balbetterò o rispolvererò le mie conoscenze di greco antico sarà colpa di ciò che ho ingerito ieri sera.
Mi sono addormentato stamattina ancora vestito e devo ammettere che è stato poco comodo. In compenso quel santo di mio fratello, che è qua in vacanza dalla piovosa Londra, mi ha levato almeno le scarpe e il cellulare che avevo incastrato tra le costole…
Non c’ho più l’età per ‘ste cose! Dovrei avere un lavoro rispettabile, cominciare a pensare a una famiglia, una casa tutta mia. Invece vivo ancora con mia sorella e dormo solo con la luce del sole ancora alta, visto che la notte sto in giro fino a tardi quasi tutti i giorni.
In realtà sono soddisfatto così. Non sto facendo quello che ho sempre sognato di fare nella vita, ma questa strada intrapresa quasi per caso mi ha dato modo di conoscere persone e rinsaldare i rapporti con altre. Mi sono costruito una famiglia al di fuori del sangue, ma ho tenuto stretti a me i miei due fratelli, perché nonostante tutto sono gli unici punti fermi della mia esistenza. Per questo non mi lamento quando Rebecca mi sveglia dal mio sonnellino pomeridiano o quando tiene la musica a tutto volume: è mia sorella.
Sono fortunato ad avere questa famiglia, me ne rendo conto. Però a volte penso che la famiglia si possa anche scegliere, incontrare qualcuno con cui si è affini e creare legami altrettanto importanti e forti. Il sangue non è tutto, giusto?
E allora questa canzone la dedico alla mia famiglia e a chi ne è entrato a far parte in punta dei piedi, magari in silenzio, a chi è dentro casa mia da quando abbiamo nove anni, a chi ne sta cercando una e non riesce a trovarla in nessuno. Arriverà anche il vostro momento, non disperate.
Ci sentiamo dopo qui a Radio Cacofonia con il vostro dj Stez! Ospite della puntata dj Moretti.

#Brothers&Sisters.

 

Note di un'autrice che riesce a rendere fluff i personaggi anche quando non parlano.

Buondì, donzelle e donzelli se ce ne sono!
Ebbene, ecco qui il terzo capitolo di Cacofonia. Frammenti, ovvero come passare dalla depressione nera al fluff in mezzo secondo :D
Come state? Spero tutto bene, io sono triste perché oggi sono andata a fare shopping e non ho comprato NULLA. Allo stesso tempo però il mio aver finito finalmente Der Himmel, mi ha reso la donna più produttiva della terra e quindi sto sfornando roba a destra e a manca, tanto per. A breve - metà settimana prossima credo, visto che questo weekend non ci sarò per niente - arriverà anche Sequins e poi appena la finisco una sorpresina per la mia amorottola che ha finalmente ceduto a tutte le minacce del mondo e ha scritto CIO'.  
Questo è un capitolo abbastanza più allegro dell'altro, in cui affronto il tema della famiglia, sia attraverso gli occhi di Stefano e Rebecca, sia anche se in maniera minore, attraverso quelli di Martina, che vive senza una famiglia per motivi che poi verranno affrontati più avanti. Conosciamo anche altri due personaggi, più o meno importanti, cioè Raffaele, che non sarà fondamentale, ma avrà la sua particina, e il Dj Leonardo Moretti, di cui si ringrazia Matisse come al solito per il nome. Scrivendo questa storia mi sono resa conto del perché non avevo mai scritto in Italia e il motivo è che ho gravi problemi con i nomi italiani xD
Comunque, ribadisco che Stefano e Martina riescono a essere fluff anche senza quasi parlarsi e questo mi disturba lol però voglio loro tanto bene, soprattutto a Stez che è un po' un soggettino.
Il prossimo capitolo è già iniziato, credo che per ora riuscirò a continuare ad aggiornare una volta a settimana/ogni 10 giorni. Nel frattempo ho aggiunto delle note al capitolo precedente che si riferiscono prettamente al testo, tipo citazioni o cose realmente esistenti un po' mascherate da altro, tanto per far capire cos'è che nomino.
Il capitolo è per nonna Em, mamma Agnes, moglie Erica, figlia Lyra, cognata Veronica. Non credo di dovervi dire di nuovo grazie.
Alla prossima settimana, credo, un bacio
Elle.
Ps: il capitolo come al solito non è betato, abbiate pietà.
Pps: sia in questo che nel precedente capitolo ci sono delle cose nascoste che nessuno ha trovato. Vediamo se qui lo trovate, lol!


Note al testo. 

-Don Bosco è un quartiere - tipo - di Roma, un po' periferico. C'è un parchetto bruttino in cui quand'ero piccola andavo ogni tanto :)
-L'Orion è un locale per concerti/discoteca di Ciampino.
-"Non ti permetterò di pisciare un'altra volta" espressione romana per dire "non darmi buca".
-Il boccino di Harry Potter tatuato ce lo aveva un tizio della mia università sul braccio. Il fatto di essere presi in giro per un tatuaggio del genere succede a me ogni volta che la gente scopre che un mio tatuaggio è la frase "Giuro solennemente di non avere buone intenzioni" >.<
-Trastevere è - ma penso che lo sappiate - un quartiere centrale di Roma, conosciuto soprattutto per la vita notturna. Il Principe è un personaggio che ho conosciuto veramente, che fa dei discorsi bellissimi, soprattutto a notte fonda, che parla in rima e ti dedica poesie che inventa sul momento e ti fa gli oroscopi più strani della storia. Lo adoro! Santa Maria in Trastevere è una piazza in cui c'è veramente il Blue Ice - o almeno c'era lol - e il Vicolo del Cinque è uno di quelli con più pub.  Il Folle non esiste invece; o meglio, c'è veramente un clochard che vive però a S. Cosimato, sotto una spece di mini-ponte che ogni sera lo becco a guardare film su un computer portatile. Questa cosa mi sconvolse, ora non ci faccio più caso xD Però non ha nome, il Folle gliel'ho dato io.
-Amelie è un famoso film francese di Jean-Pierre Jaunet, da cui alcuni spezzoni sono stati ripresi per fare un video della canzone di Dente, La presunta Santità di Irene, una canzone per me molto importante. 

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Capitolo 4
*** 4. Viaggia sulla città un arcobaleno ***


Viaggia sulla città un arcobaleno.

a

Alle fotografie fatte
insieme
su un lago puntinato.
Scriverei questa storia
anche solo per te. 

Odiavo farmi fotografare sin da quando avevo nove anni ed ero stata presa in giro da tutti per una polaroid scattata da mio padre in cui ero venuta malissimo.
Ho avuto la fobia delle macchine fotografiche per anni, almeno fino a quando i miei nonni non regalarono una reflex a Giorgia, ennesima vittima della moda di fotografare qualsiasi cosa le capitasse sott’occhio.
Mi piacevano le sue foto, i colori e le luci si armonizzavano tra loro in modo naturale e riposante, i paesaggi che spesso ritraeva erano veri e propri dipinti che spesso le facevo stampare per attaccare alle pareti della nostra stanza. Ritraeva punti di colori, li incastrava tra loro, tra le sfumature cromatiche più disparate, in silenzio, con passione, come quadri puntinisti in cui la luce illumina i paesaggi e non li lascia mai annegare nel buio.
Non c’era niente, nelle foto di Giorgia, che parlasse di tristezza o malinconia; neanche foto in bianco e nero, di quelle che di solito mi rendono inquieta solo a guardarle, per le luci e le ombre che formano. Non potevo capire neanche da quelle cosa stava accadendo nella testa di mia sorella.
Non so dove sia ora la sua Canon, forse in qualche scatolone a casa dei miei, forse è stata venduta da mio padre già da mesi. Forse ce l’ho addirittura io nascosta in qualche angolo del mio piccolo appartamento, celata alla vista e ai ricordi.
Giorgia odiava i ritratti, ma stranamente le piaceva fotografare me. È facile capire le persone se riesci a catturare l’attimo giusto e la luce giusta riflessa nelle loro pupille, diceva. Quando ero il soggetto di tali foto, riuscivo anche ad apprezzare il sorriso che mostravo solo per lei e lei era bravissima a cogliere esattamente la mia essenza. Le riusciva solo con me, pensava fosse perché mi conosceva bene, come le sue tasche.
A volte vorrei poter tornare indietro e prendere in mano quella reflex da settecento euro e puntarla verso di lei, verso i suoi occhi, coglierne ogni sfumatura e provare a carpire quel segreto che si portava dietro e che nessuno è mai riuscito a farle confessare.
A volte penso che se l’avessi fotografata, sarei riuscita a comprendere quella guerra che la agitava e a mettere fine a essa in un modo diverso.
Però non la fotografai mai.

○○○

Rebecca cammina per i vicoli della zona Pantheon con la reflex tra le mani e gli occhi curiosi puntati su ogni particolare e dettaglio che può catturare la sua attenzione. I vasi di gerani alle finestre dei vecchi palazzi, click, i fili di casa in casa a cui sono aggrappate mollette e panni puliti, click, gabbiani che volano e si appollaiano sui davanzali, mentre controllano con gli occhietti gialli i gatti nelle vicinanze.
Ama il centro di Roma, passeggiare senza una mèta, godersi il chiacchiericcio dei negozianti, dei turisti in pantaloncini corti anche d’inverno che cenano alle cinque del pomeriggio quando il sole è ancora alto e lei al massimo va nella sala da tè a Via del Babuino.
È da sola, senza alcuna fretta, immortala particolari colpiti dalla luce giusta, regola il diaframma, scatta: c’è quel bambino che ride con il volto sporco di gelato ed è un altro scatto, la mendicante dal volto ricoperto di sofferenza e ascolta il familiare click, le mani di due ragazzi strette tra loro.
Sorride e una punta di malinconia sembra attraversarle la schiena, infilarsi nel suo stomaco e allora fotografa una bottiglia di Corona lasciata sul muretto accanto a una bicicletta rossa, per togliersi di dosso quella sensazione. A volte vorrebbe avere qualcuno da fotografare, qualcuno che non sia Stefano davanti alla finestra in salotto con il tè tra le mani.
Vorrebbe poter ritrarre un sorriso solo per lei, imprimerlo su una pellicola, disegnarlo con la luce su ogni angolo della sua stanza dove lo esporrebbe. Vorrebbe un sorriso così e dei capelli ricci e scuri e degli occhi chiari.
Non deve pensare a Leonardo, si rimprovera, non deve ricordare il suo abbraccio e la sua vicinanza né il bacio che ha lasciato sulle labbra della bionda. Sempre felice, sempre perfetta, sempre bellissima.
Lei non è così, lei dopo una serata in discoteca ha il trucco colato sino mento, i capelli arricciati, lividi ovunque; lei non porta i tacchi, non ha tatuaggi, lei sorride senza riserve e ride con gusto. L’altra, invece, sembra non vivere, ma a confronto vince comunque lei, perché lei è l’unica che lo guarda ancora addormentato e lo bacia e gli tiene la mano, magari sotto l’obiettivo di qualcun altro che li trova belli.
Quando si sente chiamare, sta fotografando una pietra, piccola e tonda, mentre cerca di regolare la messa a fuoco del cinquanta millimetri. C’è bisogno che la voce pronunci il suo nome tre volte perché lei si giri e si accorga di lui; prima che sgrani gli occhi sorpresa.
Leonardo Moretti la guarda e sorride, divertito dalla sua distrazione, dal suo fissarlo attraverso il mirino, del suo ascoltare estasiata lo scatto prendere vita tra le sue dita allacciate intorno all’obiettivo. Vorrebbe premere in quel momento il pulsante dello scatto, vorrebbe catturare quel sorriso, renderlo eterno e stamparlo sulle pareti della sua calotta cranica, nella speranza di non dimenticarlo mai, di custodirlo per sempre lì, solo per sé.
Lui le da un bacio sulla guancia, per salutarla, le chiede come sta, le sorride ancora e ancora e nella testa di Rebecca suonano altre decine di click, in una sinfonia perfetta, mentre immagina di dipingere sulla pellicola le sue labbra, il suo naso, i suoi ricci.
“Dove andavi?”
Trova il coraggio di parlare, sente la voce ferma, vorrebbe che davanti a lui non ci fosse Leonardo a osservarla, ma un uomo qualunque, senza disagi.
“Camminavo.” Alza le spalle e guarda per un attimo il cielo e ci starebbe bene un altro click, click, girargli intorno e cambiare inquadratura del suo profilo, zoomare le sue labbra e cliccare di nuovo. “Avevo voglia solo di passeggiare un po’ per Roma.”
Rebecca annuisce e non si rende conto che ora stanno camminando, l’uno affianco all’altro, verso la stessa mèta sconosciuta a entrambi. La naturalezza del regolare il passo su quello dell’altro, nell’incoscienza di qualcosa che sognava di notte. Osserva i san pietrini, cammina quasi in punta dei piedi per evitare i bordi, in quel gioco che amava sin da bambina, ma adesso accanto a lei non c’è il padre a guardarla orgoglioso, ma un uomo, Leonardo, non un uomo qualunque, l’uomo che avrebbe sempre voluto avere lì, dov’era adesso, ma che non aveva mai cercato di afferrare, era solo scivolato via.
Click.
Non ha resistito, ha aspettato che lui si girasse verso di lei e ha scattato. Un solo secco suono e un’immagine su uno schermo, qualcosa che avrebbe avuto per sempre memoria di lui, di quel momento. Sono vicini, i passi sincronizzati, la destinazione vaga.
“Da quanto fotografi?”
Non sembra infastidito di quell’immagine rubata, non sembra neanche volerla guardare.
“Qualche anno,” borbotta in risposta, poi scatta di nuovo. “Stefano e Martina però odiano farsi fotografare e io finisco sempre da sola a girare per strada.”
Lui annuisce, distogliendo lo sguardo, come se stesse riflettendo su un concetto ostico. Poi torna a guardarla e sorride ancora. “Se vuoi ti faccio compagnia. Non ho niente da fare.”
Qualcosa nello stomaco di Rebecca si lamenta, gorgoglia, graffia le pareti e sale nella gola. Scuote la testa, dice che non ce n’è bisogno.
“Stavo per andare a prendere un tè…”
Lui sembra scrutarla con attenzione, forse capisce anche che lei non vuole averlo intorno o forse che lo vuole avere intorno così tanto che è meglio stargli lontano. Poi muove una mano in aria e afferra la sua macchina fotografica.
“Andiamo Reby, mi piace il tè.”
Click.
Spera che Leonardo, nella foto che le ha appena scattato, non veda i suoi occhi brillare.


Quando apre la porta del proprio appartamento, Martina non pensa che al di là di essa potrebbe esserci Stefano. Non si sarebbe mai aspettata una sua apparizione, qualcosa di così antitetico al suo essere sempre discreto, il suo non chiedere niente, il suo rispettare i silenzi altrui.
Rimane a osservarlo ferma, nello spiraglio lasciato dal cancelletto, appoggiata allo stipite della porta, mentre lui si passa le mani tra i capelli bagnati. Fuori ha appena smesso di piovere e lei si stava preparando il tè da bere davanti a un film di Lynch, senza pensare a niente, al suo corpo vicino a quello di Stefano la sera prima, o i suoi occhi nei suoi o la voglia che aveva avuto di ridere con lui. Ha anche detto a Rebecca che non sarebbe uscita con lei per non rivedere nei suoi occhi quelli di Stefano, luminosi e chiari e ridenti come non li aveva ancora visti.
Ora però lui è davanti a lei e continua a fissarla senza parlare, senza chiedere di entrare, senza salutare, senza scusarsi per il disturbo. Non è dispiaciuto di essere lì, per questo non si scusa.
Il silenzio sembra mangiarli vivi e allora lei fa scattare il cancelletto con un click, solo per ascoltare un rumore diverso da quello dei suoi pensieri che vagano come impazziti alla ricerca di motivi per esserselo trovato davanti.
“Grazie,” le dice lui quando entra, dopo essersi asciugato le suole bagnate sul tappetino a forma di gatto grasso e rosso.
Lei lo precede in cucina, braccata nella propria intimità domestica, colta nell’imbarazzo di una tuta e una canottiera slabbrata, con i capelli legati in una treccia sfatta.
“Vuoi un tè?”
Lui nega con la testa, sorride a un segreto che sembra conoscere solo lui, ignora la curiosità palpabile che sembra torturare Martina. La cucina è più piccola di quella in cui si sono trovati l’ultima volta, quasi un angolo cottura e lui rimane sull’uscio della porta, ipnotizzato dai suoi movimenti sicuri.
“Sono venuto per portarti in un posto.”
Lei si ferma a metà di un movimento, il cucchiaino con cui spingeva a fondo dell’acqua bollente la bustina di tè nero sospesa. All’improvviso si rende conto che lui non dovrebbe essere nella sua cucina, a vederla vestita comoda e preparare il tè, dovrebbe essere a casa sua, lontano da lei, non dovrebbe avvicinarsi né irrompere in casa sua annullando le barriere di privacy che sembrano crollare sotto i colpi della sua finta discrezione.
“Non vengo da nessuna parte,” risponde calma, senza girarsi a guardarlo.
Lui sbuffa un sorriso e si avvicina cauto.
“Sapevo lo avresti detto.” 
È divertito e Martina si innervosisce e si gira per guardarlo male. Lui è troppo vicino.
“E allora cosa sei venuto a fare? Due chiacchiere e ballare ubriachi non ti da il diritto di invadere la mia privacy in questo modo.”
Lui alza le mani in segno di resa, ma non sembra veramente intenzionato ad arrendersi. Vede brillare qualcosa nel fondo degli occhi, una piccola punta di spillo le si conficca nello stomaco, quando lui allarga il sorriso.
“Non ti lascerò qua a guardare Mulholland Drive per quella che sarebbe probabilmente la milionesima volta,” dice indicando il dvd sul tavolo poco lontano. “Se vuoi però potrai chiamarmi tutto il pomeriggio Betty e tu sarai Rita, alla ricerca della sua identità.”
“Non ho proprio niente da cercare,” sbuffa. Con una mano fa scattare l’accendino, click, e poi gioca con il fuoco, passandoci sopra il dito smaltato di nero. Non vuole fumare davanti a lui.
“Forse no,” concede lui, senza però arretrare di un passo, senza disindossare quel fastidioso sorriso saputo. “Ma non hai niente da perdere.”
C’è quella mano, di nuovo, tesa verso di lei, quella mano che avrebbe voluto tendere anche lei quando Giorgia cadeva, ma che non ha fatto in tempo a farle afferrare. La mano che le ha stretto le dita, toccata sui fianchi, spostato i capelli: la mano di Stefano è lunga e affusolata e bella.
Lei la allontana con uno schiaffetto leggero e la delusione sul volto di lui è palpabile, satura l’aria. Martina sorride.
“Aspettami qui, non toccare niente.”
E va a cambiarsi.

Il viaggio in macchina dura più di un’ora e Martina continua a chiedere dove sono diretti a intervalli regolari di cinque minuti. Nei sedili posteriori c’è una coperta e una borsa termica, il sole spezza la monotonia del cielo grigio e nuvoloso, un accenno di arcobaleno si mostra al di là del cartello autostradale che indica l’uscita per la Cassia del Raccordo.
Un pensiero comincia a solleticarla, qualcosa che non sa se definire piacevole o irritante, tanto è piacevole. Quando scorge il Lago di Bracciano davanti a sé, sta parlando di quanto avesse odiato la sua improvvisata a casa sua, tentando di nascondere con poco successo l’entusiasmo evidente nei suoi occhi.
Stefano continua a non parlare, a non svelare niente, ad ascoltarla affannarsi per spezzare il silenzio saturo di loro: non è Bracciano la sua mèta, perché Martina si sentirebbe accerchiata da sconosciuti turisti che ammirano l’immobilità delle sue acque anche in quel periodo dell’anno. Gli piace sentirla parlare, finta arrabbiata, gli sembra di vederla bambina e capricciosa, curiosa come davanti a un regalo ancora da scartare: finalmente qualcosa di Martina traspare nelle iridi scure, simile al sole tra le coltri di nuvole, gioca con i suoi riflessi e supera la patina malinconica che la contraddistingue.
“Non siamo ancora arrivati,” dice solo, quando lei gli chiede perché non parcheggia. Se sia un broncio quello che sta ostentando Martina in quel momento, Stefano non sa dirlo, perché evita di guardarla per non ridere apertamente.
Quando scendono dalla macchina, dopo un sentiero sterrato di campagna, sono circondati da covoni e da poche altre sparute macchine. Davanti a loro un lago più piccolo e meno frequentato riflette i deboli raggi di sole, la sua superficie piatta e mai incrinata dal vento fa impressione, scura e immobile, come se dalle sue viscere all’improvviso possa uscire un mostro, gemello di Nessie.
Stefano afferra la coperta e la borsa dai sedili posteriori della panda e chiude la portiera con un click rumoroso; si incammina, senza rivolgerle la parola, senza dirle di seguirlo. Lei lo fa ugualmente, ancora incantata alla vista di quel luogo.
L’erba su cui camminano è ancora bagnata, gli alberi creano ombre al riparo dal pallido sole, un’unica famiglia vicina all’entrata affonda i piedi nell’acqua, come a sfidarla a muoversi contro di loro, a bagnarli e portarli via. La calma invece imperversa sul lago, su di loro, su Martina che si lascia sopraffare da quel silenzio tranquillo per qualche istante, mentre si siede sulla coperta accanto a Stefano che continua a sorridere, con lo sguardo perso sulla  riva opposta.
Rimane zitto, appoggiato sui gomiti, socchiude gli occhi e le labbra. Sembra non notarla neanche e lei comincia a sentire l’ansia sprigionarsi dal fondo del suo stomaco, corrodendo ogni organo, sino a giungere al cervello. E allora sente di nuovo quel tonfo, ripetuto più volte, e il silenzio di nuovo la soffoca e le stringe la gola come un serpente velenoso pronto a sopraffarla.
È allora che Stefano torna a guardarla e senza parlare le tocca piano la spalla. Martina lo guarda e vorrebbe piangere, ma non ha dimenticato la pena nei suoi occhi e non ha voglia di parlare, di spiegare. Vorrebbe godere il silenzio di quel luogo di pace, dello sciabordio dell’acqua contro la riva del lago, i pochi uccelli che canticchiano sugli alberi sopra di loro.
Martina caccia indietro le lacrime, ma una scivola via e Stefano distoglie lo sguardo, puntandolo di nuovo al centro del lago, come se quel mostro fosse lui ad aspettarlo, come se lo riuscisse a vedere uscire dall’acqua e giungere da loro, spaventoso e maestoso, in un film costruito dalla sua mente, come se fosse una scatola blu in cui nascondere ogni realtà.
E mentre Martina si asciuga le lacrime, regolarizza il respiro e si sdraia sulla coperta, guardando il cielo sopra di sé, Stefano comincia a parlare.

Martina lo ascolta parlare, senza interromperlo neanche una volta, lasciandosi cullare da parole, ricordi, racconti di cui lei non capisce il senso, ma che la confortano, spazzano via il silenzio che sembra volerla inghiottire nel suo buio.
La voce di Stefano è tranquilla e calda, quasi suadente, mentre osserva gli alberi alla sua sinistra, senza guardarla in viso, quasi imbarazzato da quell’attacco di loquacità poco da lui. Lei lo ascolta e basta, tra il fruscio delle foglie e il muoversi dell’acqua, mentre srotola le parole sulla lingua con maestria, senza indugio, come se fosse normale essere lì con lei, come se lo avessero già fatto prima.
Parla dell’università, della difficoltà di trovare un lavoro, dell’inizio della sua carriera in radio e poi all’Another Great Moretti: non si ferma, non approfondisce, rimane in superficie, ai margini di una vita piena e non pienamente soddisfacente, lasciandola entrare di pochi passi, senza mai invitarla ad accomodarsi.
A Martina sembra di essere finita in un quadro puntinista, sulle rive di un lago con un gentiluomo, mentre i colori si mischiano nelle sue iridi con confusione crescente, mentre si lascia trasportare dalle parole di Stefano.
Le piace ascoltarlo, perché lui non si aspetta di essere interrotto né partecipazione; sembra capire il suo bisogno di non tirar fuori la voce spezzata dalla gola, volerla allontanare da quell’imbarazzo umiliante di altre lacrime che non vuole lasciar scorrere.
Il lago di fronte a loro è rischiarato dal sole, ancora fermo, e Martina potrebbe giurare di aver visto la stessa molecola d’acqua dieci minuti prima, quando si era alzata per guardarsi intorno, per ammirare il paesaggio, per comparare quel dipinto meraviglioso a La Grande-Jatte di Seurat. Vorrebbe spogliarsi dei vestiti ancora pesanti ed entrare in acqua, smuoverla con il suo corpo, ballare anche lì, come ha fatto con Stefano. Volteggiare e sentire di nuovo lo sciabordio, forse si lascerebbe addirittura fotografare da Rebecca, assaporando con serenità il click dello scatto, in un’immagine immortale di lei e lui, l’uno accanto all’altra, senza troppe parole, circondati da suoni che in una cacofonia crescente li porterebbe esausti ad abbandonarsi di nuovo sulla riva, tra le risate.
Non capisce perché lui l’abbia portata proprio lì, in uno di quei posti che Giorgia avrebbe voluto ritrarre e che solo lei sarebbe stata in grado di rendere con altrettanta maestria e cromaticità. Non importava l’assenza del sole, lei avrebbe creato i colori con la sua forza di volontà, la luce con la sua fantasia; avrebbe sviato nuovamente l’attenzione di Martina da problemi che ancora la sorella non conosce, avrebbe riso delle chiacchiere futili di Stefano, si sarebbe bagnata i piedi nell’acqua.
All’improvviso vuole saperlo, perché è lì. Perché Stefano è passato a prenderla a un orario improbabile, perché le ha sorriso e l’ha trascinata via, per un viaggio di più di un’ora verso il lago di Martignano, sulle cui rive siedono entrambi. Vuole chiedergli perché ha notato la delusione nei suoi occhi quando aveva pensato lei non lo avrebbe seguito.
“Cosa ci facciamo qui?”
Stefano sta parlando della sua voglia di visitare la Finlandia la prossima estate, ma lei lo interrompe. Stava aspettando quella domanda da quando erano scesi dalla macchina, si era aspettato quell’inclinazione nella voce e la punta di fastidio nell’aver ceduto alla curiosità. Per questo aveva continuato a parlare, nella speranza di nascondere il silenzio dietro parole non importanti, fin quando lei non avesse parlato.
“È un bel posto…”
Alza le spalle noncurante, ma non è quella la domanda che lei ha posto e lo sanno entrambi.
“Avevo voglia di conoscerti.”
Martina sussulta a quelle parole, un calore insolito che sembra invaderle le guance. Vorrebbe sentirsi lusingata da queste attenzioni, ma al tempo stesso ne è irritata, quasi spaventata, perché in fondo lasciarsi conoscere da qualcuno è ciò che rifugge da tempo e Stefano, lei lo sa, sarebbe in grado di capire.
“Mi conosci già,” risponde fredda, l’ombra del sorriso scaturito sulle sue labbra durante i suoi racconti completamente svanito. “Non c’è molto da sapere.”
Lui scuote la testa, quasi indignato nel sentire parole tanto rassegnate. Vorrebbe dire che non ci crede, vorrebbe costringerla a parlare di più, ma sa che l’unica possibilità che ha di ritrovarsi al di là del muro è quella di rispettare i silenzi e aspettare senza parlare e senza chiedere che qualcosa possa muoversi e non rimanere ancora fermo come quel lago. Che lei si muovesse dall’angolo buio in cui si rifugia, che accelerasse e sbandasse contro di lui, come una macchina a scontro impazzita.
“Non scherzavo quando dicevo che avrei potuto chiamarti Rita. Sei sola e confusa come lei, alla ricerca di qualcosa che forse non sai neanche cosa sia. Sembra tu abbia dimenticato chi sei…”
“E tu dovresti essere Betty?”
“Non io, qualcuno. Rebecca, se preferisci.”
Martina scuote la testa, sorride con malinconia, lo fissa nelle iridi e non distoglie lo sguardo neanche quando lui fa di nuovo quello sguardo, quello che sembra sapere scavare a fondo, da bravo archeologo quale è.
“Betty l’ha uccisa, Rita.”
Stefano ride, ride davvero, e lei si accorge che alle sue spalle un arcobaleno colora il cielo in un sorriso timido e cromatico che la rasserena quasi subito, così come le rughe di espressione che vengono al ragazzo quando ride. Lui la guarda e pensa che un giorno anche lei era stata così, inaspettata e spontanea come quell’accostamento dei sette colori, come una luce colorata che illumina il lago un pomeriggio qualsiasi di Aprile. Un tempo, forse, era lei a portare i colori e lui vorrebbe vedere di nuovo il suo arcobaleno.
“Dovresti rischiare.”

La sala da tè in Via del Babbuino è rosa. Troppo rosa, tanto rosa che a Leonardo quasi fanno male gli occhi a guardarla. Probabilmente l'avrebbe trovata meno inquietante se avesse avuto teste di cervi appese alle pareti.
Rebecca accanto a lui sembra invece perfettamente a suo agio, come non era stata quando si erano incontrati, e lui non riusciva a capire se il sorriso fosse di scherno per il suo sguardo terrorizzato o dovuto alla sicurezza che un posto del genere le trasmette.
Le sue guance sono ancora imporporate, ma lei indica come motivo la differenza di temperatura; Leonardo fa finta di crederci, sebbene ormai fuori non faccia più così freddo, e chiede a un cameriere dove possono sedersi.
Il tavolo vicino alla finestra è tondo e al centro ha un vaso con due rose finte che Leonardo, con fare civettuolo, le porge. Rebecca scuote la testa, non allunga neanche la mano per sfiorare la sua. Non sorride. Lui la osserva inclinando il volto sulla spalla.
C'è qualcosa nei suoi occhi che sembra luccicare, non capisce cosa sia, forse l'imbarazzo, ma non ricorda di averla mai vista imbarazzata prima. Non mangia mai le parole, le lascia sempre fluire fuori dalle labbra senza esitazione, sempre sincera, sempre se stessa e invece ora sembra non avere il coraggio di dar voce a pensieri, racconti. A Leonardo sembra di poter tastare quel velo di vergogna frapposto tra loro.
"Non ti senti a tuo agio."
Non è una domanda e Rebecca non risponde. Si porta dietro l'orecchio una ciocca di capelli rossi, mentre lui la fissa con attenzione, prima di bere un sorso di tè. Rebecca non capisce, vorrebbe farlo, ma rimane lì, in silenzio, a pensare a quanto in fondo anche i silenzi possano essere piacevoli, se condivisi. Vorrebbe condividerne altri, spezzarli senza parole, ascoltarli di nuovo. Se lui ci fosse.
Invece ha lasciato andare i suoi sorrisi anni prima, gli ha negato un assenso, perché non era il momento di sentirsi pronta. Aveva diciott’anni e lui, quando le aveva proposto di accompagnarlo a un concerto, già ventisette. Si era tirata indietro spaventata, come se un sogno che si avverasse potesse poi trasformarsi in un incubo, come se ciò che aveva sempre desiderato – uscire con Leonardo, stare con Leonardo – non fosse altro che un capriccio adolescenziale, così come ne aveva avuti altri, come se lui fosse qualcuno da poter solo idolatrare da lontano.
Lui sembrava non esserci rimasto comunque troppo male e Rebecca si era convinta di aver preso la decisione giusta a non voler vivere nell’angoscia che qualche ragazza più bella e procace di lei gli portasse via Leonardo, da tutti conosciuti come Dj Moretti.
Ora però Leonardo è davanti a lei e sembra cercare quella minima disinvoltura che legge nei suoi occhi ogni volta che parla con chiunque altro e il sorriso divertito che mostra ai fratelli o agli amici. Lui non fa più parte di quel novero, si sono allontanati, hanno smesso di prendere in giro Stefano per i film pallosi che guardo e non fumano più una sigaretta insieme alla fine di ogni serata.
C’è Federica adesso ad aspettarlo quando scende dal palco e Rebecca è sempre da qualche parte a notarli, felici, e potrebbe maledirsi per aver detto di no, quel settembre di tanti anni prima, ma si convince ogni giorno di aver preso la decisione giusta. Almeno fino a quando lui non è di nuovo lì e la fissa e le parla e sembra aspettarsi un gesto, una parola; sembra aspetti sempre e solo lei. È un filo che li lega da sempre e che Rebecca sente stringersi intorno al suo collo, come un cappio, tanto che le manca l’aria e vorrebbe solo che fosse lui, attraverso le sue labbra, a donargliene ancora.
“Stai bene?”
Forse dovrebbe parlare e smettere di fissare il fondo della sua tazza vuota; dovrebbe guardarlo, sorridergli, rassicurarlo, pregarlo di lasciare Federica, ammettere che non è meglio così, che ha sbagliato tutto, che vorrebbe che qualcuno fotografasse le loro mani intrecciate.
“Sì.” Annuisce, per dar valore a quella misera parola, troppo piccola per poter nascondere una bugia così grande. “Sì, sto bene.”
Un fulmine senza pioggia spacca in due il cielo fuori la finestra accanto a lei e l’arcobaleno che prima ha ammirato in silenzio mentre fuggiva agli occhi di Leonardo viene spazzato via con decisione, i colori si spengono e l’acqua ricomincia a scendere in gocce prepotenti.
Non sarà lei a portare altri colori nella vita di Leonardo, lo ha deciso molto tempo prima e non ha modo di tornare sui propri passi; non vuole farlo, vuole guardare avanti, bere tè e fotografare arcobaleni con qualcuno che non sia lui, farsi stringere la mano, guardarlo negli occhi la mattina appena sveglio e trovarlo bello comunque.
Si alza e lo saluta, accampa una scusa ed esce per le strade del centro di Roma, sotto la pioggia. È sicura che anche lui si sia accorto della bugia nei suoi occhi, ma fa finta di non sentirlo quando la chiama e ignora la sua presenza alle spalle, mentre viene bagnata dall’acqua scrosciante.
Copre la macchinetta con la giacca, si scosta i capelli appiccicati al volto, cammina veloce e sente i passi affondare in pozzanghere e schizzare le scarpe. Lui è ancora dietro di lei e per un momento lo guarda, una macchia di colori nel grigio di un pomeriggio piovoso, un arcobaleno luminoso come il suo sorriso pochi minuti prima. Ora non sorride più, la guarda solo andare via.

○○○

Il turno di notte qui in Radio mi uccide, ragazzi, ma come vedete sono qui, alle ventitré e zerouno, a parlare a buffo come al mio solito e ad accompagnarvi nel mondo dei sogni.
Da filo conduttore della nostra nottata farà il cromatismo, perché sapete come mi piaccia la confusione, la cacofonia, i colori e allora vorrei parlare con voi di questo. Mandate un messaggio al tre tre otto cinque tre tre nove sette due uno o scriveteci su facebook per parlarmi dei vostri colori preferiti o di un ricordo specifico legato a un colore particolare.
Io per esempio amo il verde. Soprattutto se acido, ma anche il verde smeraldo mi piace molto. Se dovessi pensare a un ricordo legato ad esso penserei sicuramente a quando mia sorella si è tinta i capelli di quel colore e mia madre per poco non l’ha cacciata di casa. Bei momenti.
La prima serata in discoteca in cui ho suonato indossavo una maglietta verde acido, a darmi forza. Mi ricordo che una tipa si fermò e mi fece i complimenti perché era proprio una bella maglietta e credo che quella sia stata la prima di una lunga serie di strappone che mi sono rimorchiato. Eh, il fascino del dj…
Ma comunque il verde è anche il colore della speranza, quella che è facile dimenticare in qualche angolo buio, ma che brilla sempre abbastanza forte da farsi vedere. Può essere il colore di un prato, delle rive di un lago, della montatura degli occhiali da sole di qualcuno, degli occhi di mio fratello, della macchina di mio padre e delle pareti della stanza in cui dormivo da bambino. È anche il colore dell’arcobaleno, uno dei colori che oggi spiccava su Roma con prepotenza, che spezzava il cielo in due metà perfette al centro delle quali sfoggiava la propria luminosità con vanto. Trovare quell’arcobaleno negli occhi di qualcuno è impossibile, ma io continuo a credere che possa esserci, che possa afferrare la Nikon di mia sorella per fotografarlo, vicino a un sorriso e alle parole che non si vogliono dire, ma che bisogna tirare fuori. Voglio ascoltare il click imprimersi nella memoria, nella storia, lasciare una prova tangibile che quel sorriso, che quei colori esistano anche nel grigio di una giornata di pioggia come quella di oggi e della tristezza silenziosa di qualcuno – non uno qualunque, quel qualcuno. Esistono e io li ho sfiorati, per un momento unico.
Mandatemi i vostri messaggi, li leggerò dopo la prossima canzone. Non fuggite, la notte è giovane qui su Radio Cacofonia.

#She's like a rainbow.

[Arriva un messaggio. Numero sconosciuto. “Il bianco. È la somma dei sette colori che oggi abbiamo visto sul lago.”]

 

Note di un'autrice che lascia foto nascoste che nessuno coglie.

Buongiorno! Che orari del cavolo per aggiornare, gente, sempre di mattina, sempre di corsa, sempre incavolata perché devo andare a lavoro e non mi va!
Però visto che mi è stato chiesto e io non sono una persona cattiva e sadica (...) ho deciso di postarlo ora invece di stasera dopo lavoro - che significava chissà quando.  Questo capitolo è diverso dagli altri, meno introspettivo, anche, soprattutto perché prendono piede gli altri due personaggi, Leonardo e Rebecca, che avranno il loro bel da fare, in futuro, ma che io amo tanto - soprattutto lui che è veramente un bel figo lol. Da qui sappiamo che Rebecca ha una cotta per lui da anni e che lui per un breve periodo è sembrato interessato ma poi tutto è sfumato nel nulla. So che vi sembrerà idiota, sembra idiota anche a me, però dobbiamo immaginarci una ragazzina che si è trovata davanti a quello che era già quasi un uomo e che ha paura di quello che il futuro potrebbe riservare loro. Io mi sono trovata in una situazione simile - anche se diversa - e quando vedi che qualcosa che desideri da così tanto ma che hai sempre considerato impossibile e per cui non hai mai nutrito speranze si avvera, non ti senti subito felice, più che altro spaesata, confusa e spaventata. Perciò la Rebecca ragazzina aveva semplicemente dato uno schiaffo a una bella opportunità e ora, piuttosto che crogiolarsi nell'autocommiserazione, tenta di convincersi che non le importi niente - come possiamo notare con scarsi risultati xD
Stefano e Martina invece... Sono fluff, c'è poco da fare, terribilmente fluff, ma anche se sembra che per loro le cose vadano bene, non sarà tutto così semplice, soprattutto perché nonostante siano "incuriositi" l'uno dall'altra, dovranno affrontare varie fasi di socialità lol. Martina è difficile, ha un peso che non riesce ad affrontare né gestire e Stefano non lo capisce fino in fondo, sia perché non sa cosa sia, sia perché non avendolo provato non può comprenderne la portata.
Per quanto riguarda le due parole chiave del capitolo - click e arcobaleno - si riferiscono a due cose diverse: la prima voleva essere un omaggio a Butterphil, una grande autrice, nonché un'amica, che nelle sue due storie ha spesso parlato di fotografie; la seconda perché l'altro giorno stavo sentendo la canzone dei Rolling Stones e ho pensato fosse una delle canzoni d'amore più belle mai scritte, nonostante non sia sicura lo sia xD Ho tanti ricordi legati a questa canzone, non tutti piacevoli, ma volevo appunto inserirla nel tutto. Per Butterphil è anche la scelta dell'ambientazione, ovviamente, perché in quel lago mi ha portato lei ♥
Ora, dopo aver detto tutto, vi lascio con le note al testo che ogni tanto fa bene lasciare qualcosa di spiegato u_ù
Come al solito mi trovate tra i fenicotteri e le serpi, oppure potete scrivermi qui o aggiungere Elle Sinclaire su facebook, specificando chi siete :)
Un bacio, alla prossima - settimana, spero xD
Elle.
Ps: ho fatto una playlist, è in work in progress, ma c'è! QUI

Note di una snob.

- Le strade che cito sono tutte al centro di Roma. Oltre al Pantheon, che è appunto in zona Pantheon lol, parlo di Via del Babuino che è la parallela a sinistra di Via del Corso venendo da Piazza del Popolo, famosa non tanto per la fontana del babuino quanto più per i negozi di marca che ci sono - Chanel e Tiffany tra gli altri. La sala da té di cui parlo c'è veramente, ma l'interno non credo sia rosa; la cosa bella è che ci sono anche stata una volta, ma non la ricordo minimamente XD
- Quando dico Uomo Qualunque è una citazione anche questa dalla mia Giul e dalla sua bellissima storia ♥ (il cuore è ovviamente per Italo, mica per te prrr)
-  Mulholland Drive è un film di Lynch del 2001 che cito anche in seguito parlando di Betty e Rita che sono le due protagoniste. Rita è quella delle due che ha perso la memoria e chiede a Betty di aiutarla a ritrovare la propria identità perduta. 
- La Grande-Jatte di Seurat è il quadro a inizio capitolo e il posto che ho descritto è veramente uguale!
- "era lei a portare i colori" è una citazione dalla canzone degli Stones.

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Capitolo 5
*** 5. Fuga da un orologio rotto. ***


Fuga da un orologio rotto. 

a 

A chi è rimasto
bloccato,
ma ha avuto il coraggio
di tornare a scorrere.

Il tempo passava con naturalezza e scorreva sulle nostre vite sempre uguale da più di ventidue anni.
Non ricordo momenti in cui era impazzito, rallentando o accelerando senza un senso preciso, secondo i suoi capricci.
Ogni compleanno cadeva preciso a un anno dal precedente, mi alzavo di qualche centimetro, dimagrivo qualche etto, Giorgia diventava più protettiva nei miei confronti, cresceva anche lei.
Ci piaceva passare le giornate insieme, spendere tempo facendo shopping o anche leggere un libro al parco vicino casa, quello poco frequentato.
Non avevamo mai pensato di non averne abbastanza, di tempo, convinte come ogni adolescente di avere la vita davanti e il tempo per realizzare i sogni e fare insieme ogni cosa.
Progettavamo di partire per la Russia, di aprire un locale insieme; Giorgia voleva iscriversi all’istituto di fotografia a San Lorenzo, quello che da fuori sembra uno scantinato, ma che lei sognava da quando lo aveva scoperto.
Forse se ci ripenso adesso mi rendo conto che in realtà il tempo correva troppo veloce, che ero io a non accorgermene, ma che scappava via e scivolava tra le nostre dita come sabbia, quando noi eravamo troppo impegnate a guardare qualcos’altro, a preoccuparci di qualcun altro, a  rimandare a un altro giorno.
Non abbiamo mai afferrato il futuro, convinte com’eravamo di averne tanto ancora da vivere insieme; ci crogiolavamo nel presente, come lucertole al sole.
La mia concezione del tempo è cambiata, da allora. È come se tutto avesse rallentato fino a fermarsi del tutto, come se fossi cristallizzata al 24 settembre, senza possibilità di movimento. Vedo la gente intorno a me correre impazzita, sbandare a destra e poi a sinistra, affrettarsi, lamentarsi del poco tempo.
Io invece sono ferma ancora lì, in un perpetuo immobilismo estenuante, come se la mia vita prima e dopo quel giorno non esistesse. Come se fossi nata quel giorno.
Come se fossi morta quel giorno.

○○○
 

Martina gira la cannuccia nello spritz annacquato appoggiato sul muretto su cui è seduta e ingolla di tanto in tanto una patatina.
Alla sua destra il traffico lungo il Tevere inquina la sua testa di frenate e clacson, dall’altro lato il vociare dei vicoli trasteverini copre le parole di Rebecca che per la prima volta da sempre sono quasi sussurrate.
Sono da Freni e Frizioni da dieci minuti e a fatica hanno parlato di niente: che l’amica parli così poco è strano e Martina si sente quasi a disagio mentre cerca i suoi occhi che fuggono pensierosi verso il nugolo di gente che cammina intorno a loro. Come se avesse paura che qualcuno potesse apparire all’improvviso, spaventarla, scuoterla ancora.
Non si vedono da una settimana, sette giorni senza mai riuscire a trovare un attimo per incastrarsi, o forse in fuga da parole che prima o poi avrebbero dovuto pronunciare entrambe, senza il coraggio di farlo veramente.
Rebecca ha le parole che premono sulle labbra e sono sillabe ricciolute, lettere dagli occhi scuri, accenti tatuati con colori allegri. Le sente lì, a metà tra la lingua e i denti che le mordono per ricacciarle indietro, con minacce poco velate. Rebecca parla e parla, senza interrompersi, ma la sua voce è smussata da qualcosa, dalla frase che nasconde e non rivela.
Sa che Martina l’ascolterebbe, non giudicherebbe, sarebbe solo lì a darle conforto silenzioso, forse qualche consiglio che lei stessa non saprebbe seguire, però non si muoverebbe da quel muretto, rimarrebbe lì per lei.
È  questo a convincerla a parlare, l’assenza di Raffaele tornato a casa sua, la presenza incoraggiante di Martina.
E allora racconta dall’inizio, di quella sensazione che sembra affondare i suoi denti nella carne con violenza e strappare via ogni volta un pezzo diverso, mentre il tempo si srotola via con indifferenza e Leonardo lo lascia passare abbracciato a un’altra, qualcuna che non ha avuto paura di crescere quand’è stato il momento e gli ha permesso di entrare, forse anche di accompagnarlo a un concerto.
Dice con voce rotta quanto tempo è passato, ma che non sembra mai abbastanza per dimenticare, che la prende in giro con le sue ore veloci e i suoi secondi impalpabili, ma alla fine resta sempre là, con un peso che cresce e una libertà che muore, perché la stretta al suo collo è più forte, come quella alla sua mano quando lui la afferra per non lasciarla scappare.
E allora racconta di come quella presa la settimana prima le abbia tolto il respiro, ma senza cappi e senza mani a stringere la gola. È stato uno sfiorarsi di dita appena accennato, mentre la pioggia ancora scendeva, anzi scendeva più forte, e lui l’aveva raggiunta e il tempo rallentava all’improvviso, perdendo la percezione di sé e del giorno, dimenticando se fosse pomeriggio o mattina, dei minuti che avrebbe dovuto far scorrere e che invece sembravano intrappolati come lei.
Martina l’ascolta in silenzio e guarda i suoi occhi velati, non parla e non sa cosa dire, mentre Rebecca vuole sciogliersi in lacrime che però non lascia cadere.
“Bella merda.” Le esce di getto e Rebecca ride e una stilla salata scivola sulla guancia.
Allora Martina la abbraccia e sembra non ricordare neanche come si fa. La abbraccia stretta e pensa che non può dirle del lago e di Stefano, ma solo sentire i suoi battiti scandire il tempo al ricordo di un contatto da cui è fuggita.
Sono mesi che non abbraccia nessuno e per un momento pensa che Stefano ha ragione: rischiare potrebbe non essere tanto brutto. Poi Rebecca si allontana con un sorriso e beve il suo spritz e Martina vorrebbe parlare, ma non ne ha più il coraggio.
“A te cos’è successo? Sei più musona del solito.”
Lei sorride e scuote la testa.
“È stata solo una settimana stancante a lavoro.”
Rebecca fa finta di crederci e l’aria torna distesa, il vento fresco di Trastevere scompiglia i loro capelli, si insinua sotto le giacche troppo leggere. Martina rabbrividisce e non sa se è per il freddo o perché alle spalle dell’amica è apparso Stefano.
“Buona sera, ragazze!”
Saluta la sorella con un bacio sulla testa e si avvicina a lei sorridente. Sembra facile sorridere di rimando quando lui la guarda negli occhi e ricambia il suo bacio sotto lo sguardo sospettoso di Rebecca.
C’è una confidenza strana tra loro, quasi palpabile, come se il tempo dell’indifferenza fosse finito seppellito da un’unica gita sul lago. Non si sono più visti né sentiti dopo il messaggio di Martina, ma lei sa che lui ci ha pensato quanto ci ha pensato lei.
“Che ci fai qui?” La voce di Rebecca si insinua nei suoi pensieri e Martina muovendo la mano si accorge che Stefano è ancora al suo fianco, tanto che lo sfiora.
“Mi devo vedere con Leonardo e altra gente,” dice tranquillo. Martina occhieggia preoccupata l’amica e sta per parlare, ma l’altro la anticipa, indicando un punto alle spalle di Rebecca. “Eccolo. Bella Leonà!”
Si salutano e poi il nuovo arrivato si accorge di loro: si presenta a Martina, perché l’unica volta che si sono visti non ce n’è stata l’occasione, e occhieggia Rebecca dopo averle baciato piano una guancia. Lei non lo guarda, rimane là, zitta. Il tempo sembra diradarsi come nebbia, rallentare nel loro silenzio, imbarazzarsi nelle loro pause.
“Reby, io vado, mi accompagni al motorino?”
L’altra annuisce e sembra urlarle grazie, mentre il tempo riprende a scorrere e salutano gli altri due, che sono stati raggiunti da altri volti anonimi, ma familiari.
Si volta un istante, prima di sparire per la gradinata che la porterà a piazza Trilussa, nella fiumana di gente che passeggia a qualsiasi ora. Stefano le sta ancora sorridendo.


Leonardo osserva Stefano curioso, senza chiedere niente del suo sorriso ancora rivolto verso l’amica di Rebecca. Preferisce non fare domande, quando non vuole ne vengano porte a lui.
Il suo volto probabilmente parla per lui, qualcosa come un leggero velo lo dipinge di amarezza per la freddezza che ha riscontrato nella sorella dell’amico, una freddezza che pesa come un macigno, pronta a ibernarlo. Gli piacevano i tempi in cui prima di tutto erano amici, complici di quell’alchimia di chi si conosce da una vita e sa come divertirsi in compagnia dell’altro e di cosa parlare.
Fino a qualche anno prima sembrava non esserci niente a dividerli, se non quel senso di pudore inconfessato che li teneva lontani anche a livello fisico, rosicchiati dalle remore del fare qualcosa di sbagliato.
Ora sentirla così lontano è frustrante, perché vorrebbe poterla abbracciare senza sentirla irrigidirsi al suo fianco, senza dover assaporare quell’attimo come se fosse l’ultimo.
Stefano sta parlando di laghi e arcobaleni e lui si chiede se non abbia fumato qualcosa e quasi se ne sente dispiaciuto che non abbia condiviso, ma avrebbe potuto dire qualcosa di troppo, come l’aver cercato di fermare Rebecca sotto la pioggia e aver desiderato solo baciarla, mentre lacrime non sue le scendevano sul volto.
“Ti piace la moretta?”
Inciampa su qualche parola, Stefano, senza sapere come rispondere. Convinto risponde di no, che qualcosa lo incuriosisce di lei, senza accennare al tempo che sembra troppo lento quando sono insieme, perché è lei ad essere ferma, immobilizzata in un attimo come un fotogramma del suo film preferito.
Un vociare indistinto lo riscuote dall’imbarazzo del sorriso malizioso di Leonardo e si volta con noncuranza verso il gruppo di persone che lo raggiunge parlando. Una ragazza minuta e bionda si aggrappa al collo dell’amico, gli stampa un bacio sulle labbra che zittisce le sue insinuazioni.
Leonardo la guarda perplesso, come se non la riconoscesse per qualche istante, poi si scioglie in un sorriso tirato. Federica non se ne accorge, troppo intenta a riempirlo di parole che lui fa fatica ad ascoltare.
A volte pensa di aver sbagliato tutto. Di essersi imbarcato in una storia senza sbocchi, solo per il bisogno di qualcuno accanto, con cui dividere il tempo e le serate fuori dalle discoteche; qualcuno che gli donasse lo stesso calore della massa di corpi danzante del Brancaleone il lunedì sera.
Ha conosciuto Federica alla fine dell’estate, dopo mesi di vagabondaggio per la Spagna con uno zaino e un sacco a pelo sulla spalla. I viaggi in solitaria sono belli, nessun orario o legame a lo teneva ancorato alla realtà, è come sospendere il tempo per giorni, anche mesi, senza curarsi di ciò che si lascia alle spalle, a casa. Solo un momento sospeso nel presente, ma quando Leonardo è tornato la solitudine ha sentito il bisogno di farsi sostituire da gente, rumore, parole. Il silenzio è diventato qualcosa di troppo potente, per sopportarlo ancora, e lui ha archiviato quei mesi con la compagnia di Federica, che nei suoi shorts rossi e trucco perfetto si è avvicinata a lui alla serata di apertura dell’Another Great Moretti di settembre e si è presentata, con spigliatezza, senza timori né remore.
Qualcosa di semplice, di naturale, finire a fare sesso nella macchina come se non potessero aspettare ancora, come se quelle pelli rimaste a lungo troppo sole si richiamassero a vicenda, a voce alta, in echi indistinti e sempre più vicini. Federica è la sua àncora in una realtà che spesso lo spaventa, quando si sveglia da solo nel suo letto a una piazza e mezzo o quando Stefano non si fa sentire per giorni, perché lui è fatto così e a volte la solitudine la ricerca come lui la rifugge.
Quell’amore che sembrava averlo divorato, quella fame insaziabile di Federica, di averla in tutto, in ogni istante, è ancora lì, nascosto da qualche parte, forse sotto i suoi gesti troppo affettuosi e il suo trucco troppo perfetto e i capelli troppo biondi.
Non è la noia a sopraffarli, ma pian piano le loro diversità si frappongono tra loro, senza che Leonardo riesca a muovere un dito per avvicinarsi a lei, per coprire quella distanza che sembra essere lui stesso a creare.
Federica gli sta dicendo che la sera successiva non andrà al Brancaleone, forse per la prima volta da quando sono insieme si perderà una serata in cui lui suona e lui sente un po’ di quella solitudine tornare a pungerlo.
Stefano però sarà lì, ancora una volta, nonostante il tempo passato, lui è sempre rimasto lì, accanto a lui. Come in quel momento, in cui lo guarda indagatore, perplesso dalla sua poca loquacità.
Federica lo bacia ancora, Leonardo risponde, con una mano tra i suoi capelli.
I capelli di Federica sono sempre troppo poco rossi.

 

Quando quel lunedì le squilla il cellulare, subito dopo aver venduto un film di Truffaut a un ragazzo sui vent’anni con i capelli rasati verdi, Martina non si aspetta la voce di Irene in linea. Sta piangendo e a malapena riesce a farsi sentire. Martina la immagina seduta sul suo divano rosso, mentre accarezza il gatto seduto sulle sue gambe e con un fazzoletto in mano, mentre tenta di arginare le lacrime che in realtà ama versare.
“Ho lasciato Marco…”
Martina riesce a capire solo queste parole tra le tante ed è tentata di premere il tasto rosso del suo telefono e mettere fine alla conversazione, ma alla fine rimane in ascolto e la sente chiederle di vedersi, perché ha bisogno di un’amica, di qualcuno che possa starle vicino.
La ascolta parlare, singhiozzare parole, a volte le risponde qualcosa, senza mai entrare troppo a fondo, senza sembrare troppo interessata a una vita che non dovrebbe più far parte della sua da tempo.
Quando Irene le chiede di vedersi quella sera, lei accampa una scusa, un impegno improrogabile e l’altra ci crede, o forse non le interessa poi così tanto vederla, ma voleva solo mettere in scena il suo teatro di sofferenza e smuovere a pietà qualcuno, come segno di orgoglio per aver vinto ancora le resistenze di Martina.
Ma lei non barcolla e ha già deciso che quel lunedì sera andrà con Rebecca al Brancaleone, hanno appuntamento alle undici e vuole stare vicino all’amica, non lasciarla da sola, con Leonardo troppo vicino e l’alcol troppo presente nel sangue.
“Oggi non posso, Ire,” dall’altra parte, la ragazza si zittisce all’improvviso, come se un pugno l’avesse colpita. “Mi vedo con Rebecca.”
Non da spiegazioni, non dice nient’altro, non la invita. Non la vuole lì, magari mentre fa gli occhi dolci a Stefano o qualche volto anonimo che le sussurrerebbe all’orecchio parole lascive a cui lei riderebbe maliziosa.
Non vuole farle da balia anche quella notte, mentre vomita in qualche cesso o non si regge in piedi per tutto ciò che ha ingerito.
Vuole passare del tempo senza preoccuparsi di altro, vuole vedere Rebecca, poterla ascoltare, schietta e ironica come suo solito, senza imbarazzi dovuti a terze persone. A volte le sembra di conoscerla da sempre, più di quanto abbia mai conosciuto Irene, come se il tempo avesse giocato anche con loro, privandole l’una dell’altra per poi riportarle lì, in una pista, a ballare e cantare, sovrastate dal rumore di tutto il resto e della vita che scorre.
“Marti, davvero non puoi pisciarla?”
Avrebbe detto di sì e ceduto solo poche settimane prima, l’avrebbe accontentata come si fa con una bambina viziata, ma non può farlo e non vuole neanche, perché vuole godersi quei giorni prima del 24 ancora in pace, nella poca serenità che riesce a racimolare ogni mese, ma che sembra portarla avanti, a una lentezza disumana, incurante del tempo che passa.
“No, Ire. Stasera non posso proprio, mi dispiace.”
La sua voce è fredda e l’altra non insiste più, però parla ancora un po’ della tristezza esistenziale che l’attanaglia per aver dovuto lasciare Marco. E nel frattempo ne ha già conosciuto un altro, un nome che Martina dimentica subito dopo averlo sentito, un’altra conquista che forse diventerà il prossimo fidanzato da presentare a casa e anche lui per i primi tempi sarà perfetto e poi quando la minima difficoltà si frapporrà tra loro sarà un mostro.
Lei questo gioco non vuole sentirlo più.
“Ire, scusa, devo staccare che sono a lavoro,” la interrompe a metà di un discorso, in cui era apparso anche il nome di Stefano e lei si era subito innervosita, come se non fosse un suo diritto parlare di lui, perché Irene non ha visto con lui un arcobaleno né un film su un divano su cui poi entrambi si sono addormentati.
Come se conoscerlo fosse solo una sua prerogativa, perché lui gliel'ha chiesto.
E lei, alla fine, potrebbe anche cedere.

 

Il motivo per cui a Martina piace bere è il senso di appartenenza che sente al tempo che si dilata e trasforma per tutti e non più solo per lei. I movimenti della calca rallentano e si espandono a macchia d’olio nei minuti, come se non ci fosse accezione corretta nelle lancette che scorrono incuranti della sua poca lucidità.
All’improvviso, con la vodka nel sangue, le sembra di tornare indietro di sette mesi, quando ancora la sua vita scorreva regolare, senza lancette incastrate in ingranaggi male oliati.
E allora il vociare intorno a lei prende a rimbombare ogni istante nella sua testa, il rumore si fa più forte, il ronzio dei pensieri sconnessi si fa latore di un silenzio piacevole e mai invasivo, sopportabile nel momento in cui il suo corpo si dimena a destra e a sinistra, in una danza fluida, su canzoni forse imbarazzanti, ma sinonimi del suo stato d’animo.
C’è Lady Gaga che canta, mixata dalle dita di Stefano che l’ha salutata con un occhiolino, quando l’ha vista;  c’è Rebecca che ubriaca si guarda intorno e ricerca qualcuno, mentre Martina tenta di distrarla, perché la vede precaria nel suo sorriso traballante. Come sull’orlo delle lacrime, l’amica si muove lenta, con gli occhi persi nel vuoto e a Martina piacerebbe essere come lei e avere le parole sempre giuste da dire per farla sentire meglio e farle capire che può contare su di lei.
La trascina nella calca, si uniscono al vociare indistinto, si avvicinano al palco. Spintonano una spilungona che urla il nome di Stez, cercando di attirare la sua attenzione e viene loro da ridere quando si accorgono che lui invece non l’ha degnata di un’occhiata.
C’è Leonardo, poco distante, sempre sul palco ma più defilato e stranamente è solo, senza la bionda slavata attaccata alle gambe come al solito. Prova a spostare Rebecca di spalle, perché finalmente ha recuperato il sorriso e non vuole che possa tornare malinconica. Non fa in tempo, però, perché è lui a vederla e alla fine scende dal palco, dopo un’occhiata strana che fa tremare Martina di preoccupazione.
L’amica le chiede scusa in un sussurro e si allontana, mentre Stefano finisce il suo turno alla consolle e beve il suo cocktail, defilato, nascosto ad attenzioni indesiderate. Non sa dove sia Rebecca né vede più Leonardo, ma quando Stefano le fa cenno di salire sul palco, è come se il tempo accelerasse di nuovo e abbattesse il vociare, per infiltrarsi nella sua testa e spingerla da lui, solo per poterlo ascoltare parlare ad alta voce per sovrastare il rumore.
Stefano la guarda avvicinarsi, nel suo vestito nero accollato, i capelli sciolti sulle spalle. Hanno delle ciocche rosa, ora, forse fresche di giornata e gli sembra strano quel colore su di lei e allo stesso tempo perfetto.
“Bei capelli.”
La sorprende con quelle due parole, quando lei si ritrova di fronte a lui. Gli sorride ubriaca, prima di baciargli una guancia e scuotere la testa per mostrare il nuovo colore.
“Grazie Stez!” risponde e si sente stupida a usare il soprannome perché sembra una qualsiasi ragazzina urlante sotto al palco, che lo acclama come un dio.
Lui ridacchia all’uso del nomignolo e la prende per mano e la porta al bar, dove prende da bere per sé e vorrebbe offrirle qualcosa ma lei rifiuta, già abbastanza brilla.
“Sei chiacchierona da ubriaca,” le dice, interrompendo il suo racconto della giornata lavorativa.
Ci sono le pareti colorate intorno a loro, con le stampe gialle fluo che le confondono di più i pensieri, complice una canzone drum’n’bass sparata a tutto volume dagli amplificatori sparsi per il locale. Una coppia è appoggiata contro il muro accanto a loro e lui sembra avere le mani nelle sue mutande che lei si lascia esplorare dalle dita tozze: forse è già troppo ubriaca per capire che uomo osceno si porterà a casa quella notte e la mattina dopo si sveglierà con un mal di testa terribile e un grassone nel letto. Il barista dalla cresta corta le fa l’occhiolino, come fa da mesi e mesi, caricando ogni volta sempre più forte il suo drink, nella speranza che lei ceda a lusinghe che non ha veramente il coraggio di esprimere.
Si gratta il naso che non sente più, guarda il palco riempitosi di gente anonima che balla scoordinata e senza ritmo, il loro vociare sembra arrivare anche sino a lei che li guarda quasi impietosita: inutile ricerca di attenzione, riflettori puntati su tutti, ma in fondo mai su nessuno in particolare, perché il lunedì dopo saranno di nuovo volti senza una storia abbastanza forte da rimanere impressa nelle menti di qualcuno.
“Non guardarli così.”
Si era dimenticata di Stefano e non sa quanto tempo è rimasta zitta a occhieggiare schifata ragazze poco vestite dimenarsi su quell’esiguo spazio che si sono ritagliate a forza di tacchi piantati nei piedi.
“Così come?”
“Come se fossero il motivo per cui esiste la fame nel mondo e la crisi economica.”
Martina ride, divertita e vuole lasciar cadere l’argomento così, senza spiegazioni, senza altre parole futili su gente ancora più futile. Lui però insiste.
“Andiamo.”
“Dove?”
“Non ti deve interessare, vieni.”
Martina tentenna e si guarda intorno come a cercare una via d’uscita, ma alla fine afferra di nuovo un lembo di maglietta, per non perderlo nella calca, lo stesso lembo dell’altra volta. L’ha già seguito una volta, senza remore, e ha potuto guardare un arcobaleno distesa su una coperta davanti a un lago silente, mentre le sillabe si accalcavano in voci familiari l’una sull’altra. Si è già fatta portare da lui in un posto e non se n’è pentita.
Quando però si ritrova davanti la piccola scalinata che porta sul palco, dopo aver scavalcato la fila di gente che vorrebbe salire al posto suo, si pente un po’ di avergli dato ascolto e prova ad allontanarsi infastidita da Stefano. Lui però le afferra la mano, intreccia le loro dita e le sorride, portandola lì, dove lei non vorrebbe mai trovarsi.
“Me la pagherai,” sibila al suo orecchio, sbilanciata dalla spinta di una ragazzina con un vestito blu elettrico. Lui la trattiene, ride, si fa largo tra la gente e la porta al centro di quel luogo per lui tanto familiare.
“Questo è il mio posto preferito,” dice. “Goditelo.”
Balla e la costringe quasi a seguire il suo ritmo e i suoi passi, senza fermarsi, con la forza di uno sguardo che sembra dire che non la lascerà là sopra da sola, ma condivideranno quel momento.
“Mi sento cretina.”
Stanno ballando da un tempo indefinito, non capisce quanto ne sia passato, se ore o pochi minuti, addirittura pochi secondi, né quando ha preso tanto gusto a dimenarsi lì sopra, ignara di chi la guarda, da sotto il palco.
“È qui che sbagli. Nessuno guarda te, tu sei qui solo per te stessa, per assaporare il momento. Non devi sentirti cretina se fai qualcosa che ti piace.”
Sono le sue parole, quasi urlate a pochi centimetri dal suo orecchio a farla ridere di più e quasi cadere, nell’equilibrio precario di una serata troppo alcolica. Lui la trattiene ancora, poi le posa una mano sul fianco, le fa fare una giravolta, mentre si improvvisano in un ballo di rock’n’roll, su una canzone di Grease.
E allora, per almeno una serata, il tempo sembra muoversi un po’, scorrere un po’ più veloce, come quando ci si diverte.
Il resto della serata vola via.

 

Leonardo l’ha vista muoversi come a rallentatore, mentre una vecchia canzone dei Planet Funk risuonava nella sua testa, battendo il ritmo con violenza, tanto da spingerlo a muoversi a tempo. Le sue braccia ornate di bracciali fini al cielo o intorno al collo di Martina con cui ride, i capelli sciolti con le ciocche davanti legate all’indietro, le gambe scoperte, sempre troppo nude, lunghe e piegate in una posa sensuale mentre muove il bacino.
Gli occhi azzurri che si spostano svagati, oppure si chiudono sulle guance, con le ciglia lunghe a tendere verso il soffitto nero e le labbra socchiuse in un respiro affannato.
Sembra quasi l’unica a muoversi, nel marasma di voci concitate e corpi scoordinati, l’unica illuminata dai faretti intermittenti e i flash del fotografo, mentre intorno tutto rallenta fino a fermarsi.
Vede Martina che tenta di spostarla, ora gli danno entrambe le spalle, ma lui vuole parlare con lei, chiederle scusa per qualcosa che non si è accorto di aver fatto la settimana precedente, dirle che se avesse voluto avrebbe potuto far finta di niente e che quel tocco di dita, sotto la pioggia, non si sarebbe verificato mai più.
Incrocia i suoi occhi per un istante e dice qualcosa a Martina allontanandosi e lui non si è accorto che è già a metà scalinata, pronto a seguirla, a toccarla di nuovo, solo sul polso con due dita, per fermarla e parlarle un secondo, come facevano anni prima, quando quel velo di malinconia non si era abbattuto su di loro, quando la solitudine non lo spaventava, quando Federica non esisteva e lui non aveva paura a sfiorarla.
La perde tra la folla, nel corridoio che porta alla sala principale, dove la gente è di meno e la musica è più bassa; la cerca nei bagni chimici e luridi, al bar all’entrata, al guardaroba. Alla fine torna indietro e qualcosa zoppica nella gabbia toracica, quando scorge le sue gambe velate da calze decorate, come compassi colorati che bilanciano un’armonia quasi dolce.
Si avvicina a lei con il cocktail blu ancora tra le mani, la prende alla sprovvista, le tocca una mano. Lei si ritrae, lo sguardo lucido di ebbrezza, ma vigile e attento alla sua presenza, come se lo registrasse con la pelle più che con gli occhi, nonostante non si stiano più toccando.
Leonardo la saluta, vorrebbe baciarle una guancia, ma ha paura potrebbe fuggire di nuovo, senza che lui ne capisca il motivo. Il pizzico del suo sguardo addosso sembra propagarsi attraverso i nervi, giungere da qualche parte fino alla testa, ubriacarlo dei suoi occhi chiari, simili a quelli di Stefano, ma più vivaci.
Vorrebbe esserne motivo, destinatario, scorgere quel sorriso ancora, invece del suo sguardo serio. Vorrebbe annullare quella solitudine che sente pervadergli lo stomaco nel loro essere insieme, per un istante solo, tra le sue labbra.
“Cosa ci fai qui?”
Non lo saluta neanche, sembra arrabbiata e per quanto lui possa percepirlo, non ne comprende il motivo. Prova a toccarla di nuovo, solo uno sfioramento di pelli, ma Rebecca fa un passo indietro e poi un altro.
“Volevo salutarti…”
Arranca scuse, false persino al suo udito, perché non l’ha mai seguita solo per dirle ciao e tornare dietro al palco. A volte neanche si salutano e non se ne è mai dispiaciuto; non è l’assenza di Federica, è solo un richiamo, una forza che non concepisce, ma che lo spinge lì, a toccarla di nuovo e afferrarle un polso, mentre lei tenta la via della fuga.
“Balla con me.”
Rebecca si sente affondare da queste tre parole, piccole e già sentite mille volte, ma non da quella voce né con quel tono. Non erano mai stati gli occhi di Leonardo a osservarla, quasi implorante, come se il tempo di attesa di una sua risposta potesse ucciderlo, prolungato nell’ansia di un rifiuto che si aspetta.
Dovrebbe dire di no e ritrovare Martina e andare via con lei; mettersi a letto con il trucco ancora addosso e il soffitto che girerebbe sulla sua testa, al ritmo dell’alcol ingerito; svegliarsi la mattina dopo e far cadere il cellulare mentre si scrive un messaggio, fare colazione con il pane e bere litri d’acqua.
Però non si ritrae più. Lascia la mano in quella di Leonardo, cerca le sue dita e lascia che lui le incastri con naturalezza, come se fossero sempre state là, delatrici di solitudini troppo a lungo combattute invano.
Lo segue in pista, si fa condurre come una bambina che segue il padre, fiduciosa e abbandonata. Non lo guarda, i suoi occhi cercano qualcuno, salutano qualcun altro, si fermano sulle loro mani. Lo evita anche ora, dopo che si è lasciata trovare e prendere.
Leonardo ordina un altro drink e gliene offre un sorso e il tempo corre via, mentre la gente sembra ferma e loro si muovono a velocità raddoppiata e ridono anche un po’, quando accanto a loro, fermi al bancone di un bar, passa un ragazzo ubriaco vestito da donna, con in testa una corona del Burger King.
Sono più sciolti e alla fine del cocktail si infilano nella calca, tra le voci sconosciute che hanno intorno e si muovono, senza pensare, senza l’assurda pretesa di ragionare su niente, con l’unica consapevolezza di essere lì e di poter ridere insieme e di nuovo, senza solitudini a interromperli o fantasmi a osservarli.
Con la leggerezza dell’alcol a offuscare il controllo e a inibire i problemi, a nascondere i ricordi di una donna che aspetta a casa, di un fratello geloso, di un futuro senza prospettiva, nei movimenti sempre più vicini di due corpi che si sincronizzano su un ritmo comune, mentre i bacini si scontrano e le dita si intrecciano ancora e i nasi si sfiorano.
Distanze minime, mentali e fisiche abbattute in pochi istanti, troppo veloci, in un tempo che sembra vorticare impazzito tra le sensazioni troppo intense e vivide, amplificate da una lucidità che sembra coglierli quando i loro sguardi s’incrociano ancora e Leonardo quella solitudine sembra averla dimenticata in un’altra vita.
Sposta una mano tra i suoi capelli, in un boccolo ramato che si attorciglia su se stesso, si avvicina ancora, stavolta con le labbra, secche di una sete che non l’alcol, ma solo lei può estinguere. Forse è lei ad avvicinarsi alla fine, a mettere un punto a quella ricerca spasmodica che sembra averli catturati, o forse è lui ad avventarsi con bramosia su quelle labbra fini ma sempre rosse.
Senza alcuna delicatezza, come uno sfogo dei denti mai sazi e delle lingue sempre pronte a rincorrersi, in un bacio senza tempo, intrappolato tra le pareti delle loro gole, insieme a parole che non vogliono ascoltare né dire. Sembrano fermarsi anche loro, proprio lì, al centro della sala, senza più musica nelle orecchie sorde né gente a contatto con i corpi stanchi, immobili nell’attimo e nell’apice di qualcosa di desiderato e spaventoso, mai avuto e insperato.
E poi la musica cambia, si spegne per un attimo, nel silenzio dell’intervallo tra la precedente e la nuova e qualcosa sembra penetrare nell’oasi atemporale in cui sono sprofondati; tutto riprende a correre troppo veloce e Rebecca si scosta, come bruciata dalla sua stessa voglia. Lo guarda quasi sconvolta e va via, mentre lui la segue con lo sguardo, incapace di rincorrerla, conscio di aver compromesso ogni cosa.
Sospira e l’odore della gente sudata impregna le sue narici, ma lui sente ancora il profumo di vaniglia invadere i suoi sensi e la consistenza dei capelli di Rebecca tra le dita.
La sua è la giusta tonalità di rosso.

○○○

Buongiorno, radioascoltatori e ben ritrovati questo martedì in cui il cielo su Roma sembra prendersi gioco di noi! Il sole fa capolino a minuti alterni e le temperature si sono abbassate notevolmente.
Come ogni altro martedì, non sono abbastanza sveglio da fare chissà che discorsi, dato che ieri sera al Branca la serata è stata folle e io ho avuto troppo poco tempo per riposarmi.
Troppo, troppo veloce scorre certe volte. Vorrei fermarlo ad alcuni attimi, proprio lì, magari mentre sono dietro la consolle. Invece in quei momenti è sempre troppo poco, sfugge via come un niente e io mi perdo ogni cosa con un battito di ciglia, senza rendermene quasi conto.
Come sarebbe potersi bloccare, senza paura di non avere abbastanza tempo, senza il bisogno impellente di fare tutto di fretta, per non dimenticare di vivere.
Mi sono chiesto spesso se fosseè facile dimenticarsene e ogni volta mi sono risposto di no, però forse mi sono sempre sbagliato, ho sempre fatto riferimento unicamente alla mia esperienza e, lo sapete, non sono uno che lascia fuggire le occasioni: le colgo tutte, non spreco tempo in domande o paranoie.
È banale dire che il tempo è relativo, che ognuno lo percepisce a seconda di quello che fa. Penso che non sia del tutto giusto, ma che il tempo relativo lo sia davvero.
Per me è solo uno scorrere ritmico e cadenzato di secondi, minuti e ore, qualcosa di naturale con cui fare i conti ogni mattina al suono della sveglia e ogni notte, quando conto le due ore di dj set sul palco del Brancaleone. Non so come sia possibile però che qualcuno sembri non conoscerlo affatto, ignaro completamente del suo solito scorrere. Come se il sole non sorgesse né tramontasse, come se non si nascesse o invecchiasse, come se l’ingranaggio fosse fermo e le lancette puntassero sempre e solo un’ora di un’unica data.
Cristallizzarsi in un istante, congelati. Non percepire prima né dopo, la confusione del presente e del passato, l’inesistenza di un vero futuro. Non sarebbe come bloccarsi realmente in un secondo di felicità assoluta e goderlo a ripetizione, a proprio piacimento. Sarebbe vivere in un perpetuo incubo, senza possibilità di fuga.
Vorrei augurarvi di trovarla, quella fuga, di cercarla bene, negli angoli più nascosti di voi stessi, quelli che vi piace celare agli occhi degli altri, ma che sono lì e si illuminano a intermittenza, quando vi distraete abbastanza da dimenticare di spegnere ogni luce.
Magari, un giorno, tornerete a scorrere.

#Time.

 

Note di un'autrice innamorata di Leonardo e Rebecca.

Buona domenica a tutt* e bentornat* nella fiera del fluff mascherato da roba triste!
Spero il capitolo vi sia piaciuto quanto mi è piaciuto scriverlo. Se devo essere sincera mi piace abbastanza e, ribadisco, il mio amore per Reb e Leo è salito a livelli vertiginosi. Avete notato comunque che è tornata alla carica Irene che riapparirà prima o poi, come farà la sua comparsa Marco.
Nel frattempo abbiamo conosciuto qualcosina di più di Leonardo che nella mia mente era un personaggio molto molto tranquillo e leggero, ma che appena ho cominciato a scrivere mi si è trasformato in un complessato della peggio specie. I fratelli Mengacci avranno parecchio da fare!
Il discorso sul tempo fermato al 24 settembre è un po' il cardine di tutta la storia, quindi tenetelo a mente. Martina è come bloccata a un punto della sua vita e non ha il coraggio né la voglia di muoversi, rimane lì come sospesa nel tempo, mentre intorno a lei tutto sembra andare a velocità raddoppiata, le altre persone continuano le loro vite come se niente fosse. Tra queste persone ci sono anche Rebecca e Leonardo, che sono un po' gli antipodi di Martina e Stefano, perché vorticano come una trottola impazzita senza essere in grado di fermarsi mai. Tutta la storia si baserà su questo contrasto e sui piccoli passi che vorrei far compiere a Martina, non verso Stefano, ma in generale verso una concezione del tempo che abbia un senso comune e non solo suo.
Comunque nonostante le poche recensioni, sono contentissima del riscontro positivo che sta avendo e dell'ammòre che dichiarate per questa storia soprattutto nel mio giardino zoologico multicolor. Oltre al mio immenso amore per Erica e Milla che mi hanno detto tante cose bellissime, a chi recensisce (siete poche ma vi amo immensamente e lo sapete), ho ricevuto veramente tanti complimenti e ne sono proprio felice... Inoltre un grazie gigante ad Aika che mi ha messo ansia da prestazione addosso con la segnalazione per le scelte <3 (Aggiornamento di cinque minuti dopo) E un altro grazie triggoloso a Trigger sempre per la segnalazione *w* *sbrodola amore e vi ama tutte*
Ora passiamo alla nota dolente, cioè questo è l'ultimo capitolo prima che io parta. Me ne vado a Barcellona venerdì per dieci giorni e quando tornerò probabilmente non avrò voglia di fare nulla, ma più che altro devo cominciare a fare qualche giro per l'università e robe varie. Credo che a settembre riapparirò con amore con il capitolo sei, che sarà ambientato di 24 aprile, cioè il settimo "mesiversario" della morte di Giorgia. Ho deciso - nel mio schema delirante della storia xD - che ogni tot capitoli ci sarà il racconto di questa giornata particolare e di come la vive Martina, anche in relazione a chi ha intorno e si chiameranno tutti Cacofonia del silenzio, come il primo capitolo. Vabè questa era un'informazione in più random :D I capitoli comunque dovrebbero essere più di venti, forse addirittura trenta, dipende bene da tutto, però finalmente ho delineato una trama quindi siate fiere di me!
Ora credo di aver straparlato abbastanza, vi ricordo l'aggiornamento della settimana scorsa di Sequins High - un capitolo delirantissimo, veramente - che spero di riaggiornare prima che parta e questa cosa folle che ho scritto per Giulia, un AU della sua storia Scorie di un disperato amore.
Ci sentiamo nel gruppo o forse no, ma in caso buone vacanze <3
Elle.
PS. Vi ricordo come al solito la colonna sonora di Cacofonia.Frammenti, proprio QUI

Note un po' snob che renderanno fiero Manuel.

 

- Freni e Frizioni è un locale sul Lungo Tevere, all'altezza di Piazza Trilussa, in cui ho fatto aperitivo ogni tanto. Non ci sono posti a sedere dentro, solo il buffet, però tu puoi prendere quello che vuoi e sederti o sulla gradinata che porta in un vicolo trasteverino o sul muretto tutto intorno. E' molto carino e li ho piazzati lì perché mi piaceva come posto :D
- La concezione del tempo di cui parlo è per molti certi abbastanza banale, perché il relativismo temporale è veramente una scemenza. Ho cercato di dargli però una connotazione un po' più specifica in relazione a Martina, che non sente il tempo diverso da come lo sentono gli altri, ma lo sente proprio. Il rallentare e accelerare random soprattutto quando si guarda qualcuno è una citazione un po' vaga da Big Fish, un film che amo.
- Dal "mi sento cretina" di Martina fino alla fine della scena, è un dialogo che ho avuto veramente con la persona che per molte cose ha ispirato Stefano, una delle prime cose che ci siamo detti in vita nostra. Non lo dico mai, ma questa storia è sempre un po' anche per lui, nonostante io passi le mie giornate a insultarmi e non mi fa gli auguri di compleanno.
- La frase "gambe velate da calze decorate, come compassi colorati che bilanciano un’armonia quasi dolce." è un giro di parole delirante che cita la frase "Le gambe delle donne sono come dei compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi, dandogli il suo equilibrio e la sua armonia" dal film L’uomo che amava le donne di François Truffaut - regista di cui Martina vende un film proprio quel giorno - perché avevo promesso a Manuel che avrei inserito anche lui <3

- Freni e Frizioni è un locale sul Lungo Tevere, all'altezza di Piazza Trilussa, in cui ho fatto aperitivo ogni tanto. Non ci sono posti a sedere dentro, solo il buffet, però tu puoi prendere quello che vuoi e sederti o sulla gradinata che porta in un vicolo trasteverino o sul muretto tutto intorno. E' molto carino e li ho piazzati lì perché mi piaceva come posto :D
- La concezione del tempo di cui parlo è per molti certi abbastanza banale, perché il relativismo temporale è veramente una scemenza. Ho cercato di dargli però una connotazione un po' più specifica in relazione a Martina, che non sente il tempo diverso da come lo sentono gli altri, ma lo sente proprio. Il rallentare e accelerare random soprattutto quando si guarda qualcuno è una citazione un po' vaga da Big Fish, un film che amo.
- Dal "mi sento cretina" di Martina fino alla fine della scena, è un dialogo che ho avuto veramente con la persona che per molte cose ha ispirato Stefano, una delle prime cose che ci siamo detti in vita nostra. Non lo dico mai, ma questa storia è sempre un po' anche per lui, nonostante io passi le mie giornate a insultarmi e non mi fa gli auguri di compleanno.
- La frase "gambe velate da calze decorate, come compassi colorati che bilanciano un’armonia quasi dolce" è un giro di parole delirante che cita la frase "Le gambe delle donne sono come dei compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi, dandogli il suo equilibrio e la sua armonia" dal film L’uomo che amava le donne di François Truffaut - regista di cui Martina vende un film proprio quel giorno - perché avevo promesso a Manuel che avrei inserito anche lui <3
- La frase finale del monologo radiofonico di Stefano - Tornerete a scorrere - è una citazione della canzone Ci sono molti modi degli Afterhours, che dice appunto "Torneremo a scorrere". 

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Capitolo 6
*** 6. Cacofonia del silenzio, parte 2. ***


6. Cacofonia del silenzio.
Parte 2.
gold

A chi costruisce
Con me
Nuovi ricordi.

Da bambina avevo paura che una strega cattiva potesse portarmi via di casa e separarmi da Giorgia, entrando di notte dalla grande finestra che dava sul cortile interno della casa. La mia era la stanza più piccola di casa, ma non mi importava e anzi mi piaceva molto. Le pareti erano azzurro cielo e su quella che dava a est Giorgia e io avevamo lasciato le impronte delle nostre mani e quelle di alcuni peluche a cui avevamo tinto le zampe di nero e rosso.
Sotto quella parete c'era il mio letto, dalle lenzuola sempre in tinta con i muri e i cuscini doppi perché la notte tossivo sempre forte. Passavo molto tempo sul letto, a testa in giù e gambe appoggiate al muro, facendo arrabbiare mamma e papà, e a volte Giorgia rimaneva lì con me, quando sapeva che non avrei dormito a causa degli incubi sulla strega.
Non parlavamo mai e io riempivo quel silenzio di versi strani o ticchettii che puntualmente la infastidivano e spingevano a giocare con me. Creavamo linguaggi silenziosi, nuovi rumori con cui riempire l'assenza di dialoghi e inventavamo giochi, come quello dell'assedio al castello. Prendevamo le zanzariere dall'armadio, quelle bucate che nessuno usava più da anni, ingrigite dal tempo e dalla muffa; le appendevamo al gancio sul soffitto e formavamo una tenda che poi immaginavamo fosse un castello.
Io mi chiudevo dentro, al sicuro dalla guerra che imperversava nella stanza, nelle sembianze di Giorgia. Vincevamo entrambe, a turno, e non ci preoccupavamo mai del dopo, degli stralci che la guerra lascia dietro di sé: le vittime, i lutti, la paura di uscire fuori dal proprio rifugio fatto di mura di tulle bucato. Non ci eravamo mai poste il problema di cosa ci fosse dopo, quando gli eserciti si sarebbero ritirare per piangere i propri morti, perché una vittoria o una sconfitta avrebbe significato in ogni caso la fine, senza mai pensare che le perdite avrebbe portato traumi e lasciato i suoi segni.
Prigionieri, schiavi, vite e città da ricostruire, familiari da piangere. Un'altra guerra, più silenziosa e latente, come quella che combatto io da quel ventiquattro settembre.
Sette mesi fa, la guerra che finì per Giorgia, iniziò per me.

○ ○ ○

Martedì, 24 aprile, ore 11.46:
"Martina, sono la mamma. Rispondi al telefono, siamo preoccupati...
Marti... Perché non vieni con noi al cimitero oggi pomeriggio?
A papà farebbe piacere vederti e anche a... A Giorgia. Lo sai.
Richiamami, tesoro."

Si sveglia tardi, quel martedì mattina. Il sole è già alto ed entra dalle persiane dimenticate alzate, al suo ritorno a casa, dopo un aperitivo con Rebecca e una passeggiata prima di cena; il silenzio è quasi assordante, appesantisce l’aria come in blocchi da poter tagliare, denso e spigoloso.
Lo scaccia, ciabbatta sul parquet, accende la radio. Lo morde con i denti che si chiudono al pronunciare delle dentali di una canzone inglese che conosce poco.
Per un attimo, con gli occhi ancora chiusi e la mente annebbiata dai sogni, il giorno era sembrato uno qualsiasi, un martedì come tanti, come si ripetono uguali ogni settimana di ogni mese di ogni anno. Osserva il calendario su cui un riquadro nero nasconde il giorno tra il ventitré e il venticinque aprile, è lì e la guarda di rimando, da sopra il lavello in cucina, con quei gatti neri; glielo ha regalato Irene a Natale, senza aver pensato al suo odio per quegli animali subdoli e calcolatori. 
Si siede al tavolo e immobile fissa il vuoto davanti a sé, circondata dai rumori di un quartiere già nel pieno del suo fermento a mezzogiorno. Sul cellulare lo schermo si illumina di un messaggio nella segreteria che non ascolterà, troppo impegnata a sopprimere la sua voglia di urlare per ascoltare altre voci oltre a quelle che nella sua testa sembrano tormentarla ogni istante da quando ha aperto gli occhi.
Non si trucca, prende l’Ipod e le chiavi del motorino ed esce di casa, tra il traffico della città in fermento, tra lo sfrigolare del sole sull’asfalto, tra le urla dei mercati e i pianti dei bambini nelle culle. Nella cacofonia confortante di una vita che ancora va avanti.

Martedì, 24 aprile, ore 13.03:
"Martina, sono papà. Richiama tua madre, è in pensiero, non ti sentiamo da mesi."

C’è un viale ciottolato, nascosto dall’edera e dalle alte mura di pietra, tra il Quirinale e il Colosseo, in cui il verde predomina tra i colori, illumina di riflessi selvaggi un angolo urbano, in cui il traffico non arriva.
La zona pedonale, poco popolata a quell’ora perché priva di ristoranti, si snoda tra le palazzine antiche, serpeggia nei vicoli, tra i piedi che battono sui sanpietrini consumati dalle suole di milioni di persone. 
Il cappotto celeste la copre dal vento che si è alzato, che rumoreggia tra le fronde che scendono come dal nulla a pochi metri dalla sua testa, come affacciati a balconi invisibili o a fili dei panni su cui sono state appese foglie sempre verdi.
L’odore di vecchio impregna ogni centimetro di strada, si annida tra i suoi capelli lasciati sciolti sulla schiena che si muovono al ritmo con l’aria che le infreddolisce le gambe coperte da calze leggere. Cammina con le mani affondate nelle tasche, attorcigliate ai fili vaganti della giacca. Ha lo sguardo rivolto verso il cielo, nella speranza di arginare i ricordi, chiuderli a chiave in una scatola da poter dimenticare in un cassetto, giorno dopo giorno. 
C’è l’impronta di Giorgia sulle pietre, la sua voce che canta una canzone sconosciuta nel vento, il suo sorriso caduto nel vuoto come quegli alberi, appeso anche lui, ricordato come è stato l’ultimo, sospeso nella memoria fotografica.
Scende verso il Colosseo, fermo nei suoi tre piani di colonne e archi: al suo interno le guerre vinte erano giochi, le lacrime e le perdite nient’altro che numeri da segnare negli annales e poi condannati a una damnatio memoriae involontaria, figlia del tempo. 
Cammina, Martina, con il telefono che vibra nella borsa, senza risposta ad attenderlo, tra le foto ricordo di turisti senza paura del dolore di una perdita impressa a fuoco su pellicola colorata.

Martedì, 24 aprile, ore 15.54:
"Marti, stasera porta Mac Donald's, ho bisogno di grassi e cibo spazzatura.
Io ho comprato il rum.
Ah, Stefano ha il turno alla radio, torna tardi. A dopo!"

Martedì, 24 aprile, ore 16.16:
"Stasera non ci sono, goditi il film anche per me.
La prossima volta lo scelgo io. Controlla mia sorella.”

Ha una vita da dimenticare, cancellata dalla memoria con un colpo di spugna, di quelle per la cucina che graffiano la pelle e scartavetrano il dolore. Ci sono i pomeriggi tra le vie del centro da rimuovere, lo shopping nei vicoli del Pantheon, i pranzi al bar dell’università, tra i capelli di colori improponibili di chi non ricorda neanche com’erano al naturale e piercing borchiati ovunque; Bacillario, a piazza del Popolo in cui Giorgia spendeva centinaia di euro, la vans per gli occhiali da sole e le scarpe, il Pincio e il tramonto dietro San Pietro, i turisti a cui dare informazioni sbagliate, i musei aperti di notte, i matrimoni al Campidoglio a commentare i vestiti delle spose sempre troppo incinte.
Seziona ogni immagine, fotogrammi sparsi, parole slegate da altre, le sposta una accanto all’altra, in un ordine nuovo, in ricordi nuovi. Se Giorgia fosse viva andrebbero a mangiare al Mac Donald’s di piazza di Spagna, mangerebbero il gelato sulla scalinata, forse entrerebbero  in un hotel a cinque stelle di via Veneto, vestite in jeans strappate e magliette slabbrate solo per chiedere di poter andare in bagno, tra la puzza di deodoranti d’ambiente al profumo di Chanel n°5 e pellicce di cui si sarebbero lamentate per ore.
Ricordi da rimuovere, fotografie cerebrali da strappare o bruciare, nascondere in cassetti dalla chiave spezzata e arrugginita, anche quella nascosta non si sa più dove.
Invece Giorgia è ancora lì, a tatuare la pelle di inchiostro disperato, azzurro e bianco dalla forma di cristallo di neve, sotto le ossa sporgenti del bacino, nei suoi occhi pregni della stessa tristezza, nella camminata lenta, la postura della schiena, in espressioni parlate inventate insieme come i giochi e i soprannomi.
Se Giorgia fosse ancora viva, tornerebbero a casa in metro, con una cuffietta a testa e lei leggerebbe il nuovo libro di Palahniuk o forse qualche autore italiano, dal nome banale e sempre sconosciuto.
Il cortile della loro vecchia casa non sarebbe il teatro degli orrori né un incubo ricorrente. Martina lo percorrerebbe anche prima che i genitori escano.

Martedì, 24 aprile, ore 16.23:
"Sono sempre la mamma, stiamo andando al Verano.
Ci raggiungi là? Sono convinta che porterai delle gerbere bellissime..."

Le mattonelle sono rialzate e la piccola fontana in pietra è vuota, priva dei pesci che la abitavano quand’era piccola e che si divertiva a catturare e poi lasciare immergere di nuovo. Una volta in quella fontana avevano fatto il bagno a un gatto randagio che avevano trovato fuori scuola; Faith, lo avevano chiamato così anche se era maschio, aveva graffiato Giorgia sul polso, facendo uscire copiosamente del sangue. C’è ancora la macchia rossastra e sbiadita, in cima alla discesa che porta in garage, larga quanto un anello da pollice e di taglia grande. La signora del palazzo di fronte ha ancora il gatto in casa, lo vede scorrazzare nel balcone del secondo piano, rotolarsi per terra e cercare di afferrare una farfalla che gli vola intorno.
Martina si siede sui tre scaloni della sua palazzina, accanto a una rosa bianca e a un biglietto vergato dalla calligrafia nervosa di sua madre. A quell’ora è al cimitero, a portare fiori che Giorgia odierebbe, davanti a una foto che non potrebbe parlare, sorridente come lei non si era mai sentita. Non lascia scendere lacrime, Martina, accucciata davanti alla fossa a mala pena profonda del vialetto, lunga e poco larga, dove le mattonelle sono crepate, rialzate, mancano. A eccezione della rosa, non c’è alcun segno del ricordo di quella notte, del rumore assordante che era stato il titolo di testa di un film che non avrebbe mai voluto vedere.
Suonano i Baustelle nella sua testa, attraverso le cuffiette smangiucchiate, chiude gli occhi, si stringe le braccia: i polpastrelli affondano nella carne e sembrano lacerarla e Martina vorrebbe scavare ancora più a fondo, arrivare dove ancora sente il cuore di Giorgia pulsare, falso e ingannevole, in realtà muto e sordo ai richiami del suo, estirpare la pianta cresciuta velenosa nel sangue.
Chiude gli occhi un attimo e sente una sirena strillare la sua fretta, vede le luci blu lampeggiare nel nero delle palpebre, annusa l’aria di fine estate, umida e pesante. È tutto uguale, immobile a quel giorno di settembre, il gatto, la fontana, il sangue, le piastrelle, i lividi sulle braccia dove preme troppo forte. Sono ricordi da cancellare, abitudini da dimenticare, sensazioni da annullare.
Non piange una lacrima, non parla né prega. Non chiede perché, mentre con una penna nera scrive sulla moleskine rossa.
Il silenzio della sua mente è un vuoto che stenta anche a spaventarla.

Martedì, 24 aprile, ore 17.23:
"Ti stiamo aspettando, probabilmente sei solo in ritardo, però fai in fretta.
Vengono a cena i Bianchi con i figli, devo andare a preparare.
Ti fermi anche tu? Richiamami."

Martedì, 24 aprile, ore 20.43:
"Tua madre è rimasta ad aspettarti un'ora davanti alla tomba di tua sorella.
Non hai nemmeno chiamato, neanche questa volta.
Abbi la decenza di venire a cena, ti aspettiamo."

Rebecca cena in silenzio, beve il rum a sorsi piccoli e pigri, come volesse essere da un’altra parte, immersa in un silenzio vero, non di quelli pieni di rumori creati dai piedi di Martina che battono sul pavimento né dalla musica alta dello stereo in salone. Nessuna delle due parla ed è insolito il mutismo della padrona di casa, che seduta per terra, fa a pezzi minuscoli il suo cheeseburger prima di mangiarlo, con difficoltà, nella perfetta imitazione di qualcuno che stia ingollando un sasso. 
Martina non chiede, non parla, oppressa dal senso di vacuo che ha invaso il suo mondo anche quel mese, senza lacrime sulle ciglia asciutte né conforto da saper donare a chi è evidente ne abbia bisogno. 
Il telefono continua a squillare, imperterrito, e il ronzio del suo vibrare non viene attutito neanche dalla sciarpa in cui è stato confinato e un altro messaggio apparirà sullo schermo retroilluminato. 
Anche quello di Rebecca ha suonato quattro volte e lei ha sempre fatto finta di non sentirlo, dopo un sussulto iniziale. I suoi occhi sono lucidi di stanchezza e di qualcosa che Martina non riconosce. 
C’è un messaggio anche nella sua segreteria e alla quinta chiamata Rebecca si scusa e rintana nella sua stanza, senza salutare, ma tra le lacrime che anche lei ha potuto scorgere, disegnate sulle guance pallide. Sibila qualcosa al di là della porta di legno, contro un destinatario sconosciuto, la voce collerica che non permettere di distinguere parole. Quando smette di parlare non esce, sente qualche singhiozzo, ma Martina non la raggiunge, perché non vuole insistere su una piaga fresca e forse più profonda di quanto possa immaginare o capire.
La serata Martina la passa sul divano, il Mac Donald’s aperto sul tavolino basso davanti la televisione, a mala pena consumato, così come il rum. La bottiglia è ancora sul legno, vuotata a metà, che lascia il suo alone appiccicoso sulla superficie, in una macchia che non andrà via domani né il giorno dopo ancora, incrostata in un anello indelebile come i ricordi che ancora consumano ossa.
Il film rimane muto e in pausa per minuti interi, fermo ai titoli di apertura, senza alcuno spettatore a goderne l’interezza. Martina si concentra sulla porta chiusa alle sue spalle, bianca. C’è un poster dei Bloody Beetrots sopra, un segnale di interdizione e il nome di Stefano disegnato a caratteri cubitali in verde. Vorrebbe entrare, spiare quel luogo, entrare sulle punte, invadere senza permesso parti di lui nascoste e tirarle fuori alla luce con arroganza, ma rispetto.
Rimane lì, spaventata da ricordi non suoi, incapace di accettarne l’estraneità. Il film parte.

Martedì, 24 aprile, ore 23.09:
"Buonanotte, Marti.
Mi dispiace che non hai fatto in tempo a venire.
Chiamami domani. Un bacio,
la mamma."

Stefano torna a casa a notte fonda, entra piano, nel silenzio interrotto a mala pena dal ronzio del computer e di una canzone che risuona a volume bassissimo nel salotto. Come un deja vù, Martina è sul divano a dormire, come l’ha vista altre quattro volte, accovacciata su se stessa, in un angolo; il suo volto coperto dai capelli lunghissimi e dal buio spezzato solo dallo schermo ancora acceso della televisione, messo in pausa sui titoli di coda di un film con Jim Carrey.
Martina non lo sente, obnubilata dalla stanchezza di una battaglia senza tregue, né lo vede sedersi sul divano, più vicino a lei del solito, ma sempre a una distanza di sicurezza imbarazzante, mentre afferra il telecomando, e riavvolge la pellicola. Il rumore del nastro che gira scavalca il silenzio e riempie le sue orecchie di ricordi di infanzia, dei litigi con Raffaele che voleva vedere i cartoni animati e lui i film d’azione, di Rebecca che li ascolta giocando con le macchinine appartenute a loro, maschiaccio anche a tre anni, i passi dei genitori e i loro litigi comuni, senza piatti lanciati né frasi sputate per offendere.
Stefano non la vede, Martina, aprire un occhio e spiarlo di nascosto, tra le ciglia e i capelli, intenta ad ascoltare il suo respiro veloce, in quel silenzio che con lui non pesa mai, ma che in sua assenza non ha sopportato a lungo, prima di ascoltare ancora il ronzio di un ricordo da dimenticare.
Come nel film che ha visto quella notte, inventare metodi nuovi per asportare un’esistenza e trasferirla su cassetta, la sua, quella di Giorgia, forse anche quella di Stefano. Non avere volti e vite da tenere a mente, nessun passato da cui fuggire, chiudere solo gli occhi dopo ogni tramonto e sapere che si ha la possibilità di afferrarlo e chiudere al di fuori di sé, tra i film che ama vedere, oppure in cantina, nella credenza chiusa a chiave in cucina, nella spazzatura che vengono a raccogliere il venerdì sera per la raccolta differenziata.
Dimenticare ogni cosa, come Clementine e Joel, nessun luogo da raggiungere in treno, nessuna pista di pattinaggio notturna né spiagge innevate, capelli arancioni. La voce della madre nella segreteria telefonica che piange ubriaca alle tre del mattino. L’oblio dal dolore. La fine della guerra.
Spingere un pulsante, click, e ricominciare da capo.

Mercoledì, 25 aprile, ore 3.23:
“Martina, ci manchi.
Torna a casa, ti prego, non voglio perdere anche te.”

Sente Stefano alzarsi e poi sollevarla, mentre nel dormiveglia le difese sono basse, mentre sembra ancora la stessa Martina che si lasciava convincere dalla sorella a dormire nello stesso letto, nonostante il caldo estivo.
Sorride tra le palpebre abbassate, mentre ispira un profumo che non riconosce, ma che sa di buono, come gli oleandri del parco dell'Eur, dove andava a correre con Giorgia e poi si sdraiavano sul prato, a osservare i cani giocare nel recinto, tra gli ostacoli e i tubi di gomma, con palloni di cuoio e code scodinzolanti.
Nel tepore di quel profumo dolciastro, riconosce il suo viso tra le ciglia tremanti di sonno, nei suoi occhi chiari e limpidi e le braccia dietro le sue ginocchia.
È un pesce rosso, Martina, in quell’unico istante e nell'incoscienza dimentica ogni cosa che ha preceduto quei cinque minuti e le mani di Stefano che la sfiorano con timore e la adagiano su un letto che non riconosce.
Vorrebbe che fosse così anche il giorno dopo, che dimenticasse ogni giorno, settimana, mese precedenti, per vivere una vita diversa al giorno, una raccontatole dalla voce tranquilla di Stefano, che alla radio parla di un lago, della sua famiglia, dell'attanagliante paura del silenzio scosceso che li annichilisce nel passato e non nell'attimo giusto per muoversi l'uno verso l'altro.
"Dove vai?"
Gli chiede quando lo vede allontanarsi, mentre lei è sdraiata sul letto e la sua maglietta è leggermente alzata sul fianco.
"Ho un film da vedere, oggi ho fatto tardi."
Lei scuote la testa e prova a sorridere, ma uno sbadiglio le fa chiudere gli occhi e sgorgare due lacrime di stanchezza.
Sono le quattro del mattino, un altro ventiquattro è passato.
"Buonanotte, Marti."
Mugugna una risposta, quasi sussurrata, senza un senso, ma lui la sente e sorride nel buio. Poi si sdraia sul divano e si copre con un plaid giallo, mentre il film comincia sullo schermo.
È il ventiquattro aprile e Martina dorme nel letto di Stefano, accoccolata nel piumone leggero, con il rimmel ancora sciolto sulle guance, ma la ruga sulla fronte meno marcata del solito.
Stefano sorride, nel buio, da solo, mentre il film inizia e lui poggia la testa sull'avambraccio. Sa che si addormenterà tra poco, che non guarderà che i primi minuti di pellicola, che non ricorderà le battute né con esattezza l'ultimo fotogramma visto.
Ci sarà un sorriso, però, sul suo volto, anche lui dimentico per pochi minuti di una guerra ancora da combattere.

Nove messaggi cancellati. Non ci sono nuovi messaggi. Un vecchio messaggio. 
Sabato, 24 settembre, ore 22.12:
 
"La guerra è finita, Mars.
Ti voglio bene."

○○○

Buongiorno, radio ascoltatori!
È il venticinque aprile, perciò sarò uno dei pochi stronzi a lavorare anche oggi, mentre voi tutti starete andando in campagna per qualche pic-nic sotto il sole a festeggiare la Liberazione.
Ricordatele, queste feste, ricordate sempre tutto, le guerre, i morti, chi ha combattuto per la nostra libertà e i nostri diritti e per la fine di una guerra che ha messo in ginocchio l’intero mondo. 
Ricordatele, per salvaguardare il futuro, per prendere l’utile dal passato, imparare, crescere. Non dimenticate nessun ricordo, per quanto spiacevole o imbarazzante, tenetelo sempre stretto al petto, tra le costole, non lo lasciate scivolare e infrangersi a terra e prendere i connotati di un mostro a fauci spalancate sotto di voi che cadete nel vuoto.
Combattete quel ricordo ogni giorno, per averlo ancora vivo e pulsante come un cuore che batte, per non annichilirsi nel suo oblio. Qualsiasi guerra sia stata combattuta, imparate da essa, ricordatela pure tra le lacrime, nei rimpianti, ma arginate quel dolore fisso. Se anche siete stati vinti, reinventate la vita, non fermatevi a guardare le mura distrutte e i fuochi appiccati né le lapidi bianche che svettano nei cimiteri; ogni guerra finisce, l’importante è tenere a mente e non dimenticarne un istante, per essere colui che impedirà l’inizio della prossima.
Non rinnegate i vostri ricordi.
Ci sentiamo più tardi, su Radio Cacofonia, intanto un gruppo italiano che stimo molto!

#La Guerra È Finita.

 

Mese sette.
Li ho piantati quei fagioli.
È nato un fiore e poi la pianta è cresciuta ed è là, sulla sua cima, che mi sono nascosta, più vicina a te perché la tua speranza che il fiore fosse sano senza te era vana.
È marcito anche lui e appassisce lento tra i giorni tutti uguali, davanti allo stesso film. Da lì il mondo però non può toccarmi, sono al sicuro da tutto tranne che dai ricordi. È la mia grotta magica, Giorgia.
Posso dimenticarti o mi odieresti?
Nascondere sotto cumuli di rumore il ricordo silenzioso dei nostri giorni al parco o della tua voce sorridente nella mia segreteria telefonica. Sorridevi anche nell’ultimo momento. 
Ti ricordi l'ultima frase che mi hai detto?
"La guerra è finita". Ma la combattevi senza di me e non sei riuscita a vincerla. Forse insieme ci saremmo riusciti a portarti da questa parte della trincea, quella di chi non soccombe davanti a un nemico fantasma.
Per me la guerra non è finita, è iniziata quel giorno. Sono io ora a combattere e tu non ci sei.
Non l'ha mai ascoltato nessuno, quel messaggio, ti ho custodita in quell'angolo solo mio, in cima a quella pianta di fagioli.
Sono passati sette mesi.
Non siamo mai state tanto tempo senza vederci.
Ti voglio bene anche io.”

 

Note di un'autrice che fa come glie pare.

Salve a tutti! 
E' venerdì sera quindi probabilmente non c'è nessuno e sono anche come al solito in anticipo, ma avevo il capitolo praticamente a metà e visto che era il 24, ci tenevo a postarlo proprio oggi.
E' un capitolo molto introspettivo, tutto incentrato su Martina e Giorgia e i ricordi disseminati in giro per la città. Ho voluto intervallare ogni scena con un messaggio della segreteria telefonica per dare un'idea anche di quello che le succedeva attorno, del rapporto con i genitori che è ormai inesistente - verrà spiegato in seguito - e per spezzare appunto le varie parti che penso che tutte di seguito avrebbero ucciso qualcuno. 
Questo è il fantomatico capitolo di cui parlavo, quello del mesiversario. La storia dovrebbe finire intorno al capitolo 30, il giorno - o il giorno dopo - dell'anniversario della morte di Giorgia quindi capitoli come questi dovrebbero esserci ogni cinque capitoli, sempre dal titolo Cacofonia del silenzio. Non so in realtà se saranno qualcuno di più perché probabilmente inserirò qualche capitolo extra sugli altri personaggi, come quello scorso con Leonardo e Rebecca nel passato.
Vi dico tra l'altro, visto che nessuno l'ha capito da sé manco per sbaglio finora, che se cliccate sulle immagini dei capitoli, si aprirà una pagina con un'altra immagine, sempre riferita al capitolo o a cosa mie correlate a esso.
Nel prossimo capitolo comunque non saranno solo comparse Leonardo e Rebecca - ovviamente al telefono di lei era lui...
So che non c'è nessuno in questi giorni, o comunque non avete voglia di recensire, però qualche parere in più non mi farebbe troppo schifo, giusto per capire se il tutto sta piacendo o sono solo io che amo scrivere la storia :D
Il capitolo comunque è soprattutto un immenso grazie ad Agnesina per la segnalazione per le scelte, che magari nessuno si cagherà ma veramente è stupenda ♥ e un grazie gigante anche a Giup, per come l'ha riutilizzata. Ovviamente adoro anche voi che leggete silenziose e recensite magari poco, perché a questa storia tengo molto e mi fa tanto piacere vedere che nonostante non sia una storia leggera da leggere né dai temi semplici abbia un riscontro così buono a livello di seguiti/da ricordare/preferiti.
Vi lascio con le note tecniche, il link al gruppo e alla playlist della storia, che poi devo andarmi a vestire che stasera se baila, 
baci Elle. 
Ps_ per il prossimo capitolo dovrei aver cambiato tutti i titoli precedenti, tranne di questo capitolo e del primo - e dell'extra lol - perché lo schema che gli stavo dando non va granché bene. 

Note incomprensibili.

- C'è questa strada veramente, tra Quirinale e Colosseo, che ho fatto con Cinnie ( ♥ ) che sbuca su un'altra da cui si vede appunto il monumento antico, un po' nascosto dalle piante rampicanti dei palazzi. Ci stanno proprio delle foglie che sembrano cadere dal nulla, è un bel posto, però non so quanto sia effettivamente trafficato perché io ci sono stata solo di notte :3
- Non so se c'è bisogno di specificare ma "annales" e "damnatio memoriae" sono termini latini che indicano rispettivamente l'elenco di eventi giorno per giorno che accadevano ogni anno a Roma, redatti dai pontefici massimi e quella "maledizione" che colpiva uomini illustri della città quando non erano considerati degni di stima (praticamente venivano cancellate, distrutte, riadattate le immagini dei loro volti sui monumenti pubblici).
-  Bacillario è un negozio di cose "dark" (lo metto tra virgolette perché odio queste etichette, tanto più che a volte anche io ci compro gonne o cose e sono la cosa più lontana allo stile dark che esista) che amavo quand'ero adolescente.
-  Il gatto Faith in realtà si chiamava Lucky - e voi direte sti cazzi, ma io ve lo dico comunque xD
-  Il film che Martina vede è Eternal Sunshine Of The Spotless Mind (il link è un video fan made che amo, con una canzone bellissima :3) che è un film che amo follemente e si collegava bene al discorso dei ricordi e del voler dimenticare; Joel e Clementine sono i protagonisti e la trama parla di loro che si fanno cancellare ogni ricordo riguardante l'altro alla fine della loro storia. Stranamente, stavolta non è una citazione del capitolo 19 de L'uomo Qualunque di Butterphil (io linko perché la consiglio a bestia, come al solito), ma una cosa capitata casualmente, io avevo già pensato di inserire questo film quando lei ha pubblicato :D 
- Il Parco degli Oleandri sta veramente all'Eur e tornerà nella storia, a un certo punto.
- Il riferimento al pesce rosso si riferisce al fatto che i pesci rossi abbiano appunto una memoria molto corta; infatti pare che ogni cinque minuti la loro memoria si resetti e loro non abbiano più ricordi di niente. Non so ora quanto questo sia scientificamente provato, però è una cosa che sento spesso e che mi affascina tantissimo quindi l'ho voluta inserire.
- Il pezzo finale è una specie di lettera che Martina scrive a Giorgia mentre è seduta sulle scalette del cortile di casa dei genitori, sulla moleskine. Una "risposta" al messaggio della sorella nella segreteria. Per il riferimento ai fagioli non prendetemi per matta, ma ha un senso se leggerete anche questa one shot, che Butterphil - dio santo, sempre lei xD - ha scritto su Giorgia. Vi consiglio di leggerla non solo perché è molto bella, ma anche per capire qualcosa di Giorgia. 678 fagioli nella bottiglia.

 

[undicimesi]

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Capitolo 7
*** Frammenti Sparsi. Il rumore dei baci a vuoto. ***


Frammenti sparsi:
Il rumore dei baci a vuoto.

a 

Ai baci venduti,
comprati, rubati.
A chi quel vuoto
lo colma.

Ricordo ancora l’anno in cui mamma e papà ci portarono a Riccione e Leonardo fu costretto da Stefano a venire con noi, perché non aveva, a suo dire, alcuna intenzione di cuocersi un mese su una spiaggia piena di coatti, con la sola compagnia dei genitori e della sorellina più piccola.
In effetti, aveva già ventuno anni, io solo dodici e probabilmente non ero la persona adatta con cui passare le giornate in Riviera, ma ricordo che rimasi comunque offesa da quella frase.
Poi però invitò Leonardo e mentalmente lo ringraziai decine, forse centinaia di volte. Avevo una cotta per il migliore amico di mio fratello da quando avevo memoria, passare un mese a stretto contatto con lui, vivere insieme era un sogno. Uno di quelli che si fanno da bambine, sul principe azzurro che dorme con te senza sfiorarti, perché a quell’età ancora non sai bene cos’altro può succedere. 
È stato forse il mese più bello della mia vita, se ci ripenso. Svegliarsi e fare colazione allo stesso tavolo, andare al mare, fare il bagno insieme, ridere con lui e Leonardo. Nonostante la differenza di età, entrambi mi adoravano e tentavano come potevano di inserirmi nelle loro giornate, di passare del tempo anche con me, di farmi ascoltare le canzoni dai cd che Leonardo comprava al mercatino sul lungomare, per educarmi, dicevano, già da subito alla buona musica.
Io sbuffavo, infastidita, ma segretamente contenta delle attenzioni di entrambi, per poi cadere nello sconforto quando la sera uscivano da soli, lasciandomi a casa con mamma e papà che giocavano a Pinnacolo, senza di me perché in tre secondo loro non si poteva fare.
Allora mi mettevo in un angolo e sognavo un bacio, uno di quelli da film, con la musica, magari qualche campana, un sorriso timido e la spiaggia illuminata da un falò.
Era un sogno che avrei conservato ancora per anni, che da qualche parte, in un cantuccio nascosto della mia coscienza, ancora custodivo in segreto. Fino al suo avverarsi, senza musica né romanticismo.
Senza speranza. Come un bacio lasciato cadere nel vuoto.


•••


Ci sono giorni in cui quel rumore persistente di cui si circonda diventa fastidio e la sua solitudine si acuisce a contatto con singoli frammenti di anime, senza volti, senza nomi.
Gli occhi che vagano tra i suoni, tra i colori, perdono di vista i corpi in pista, non riconoscono nessuno, nascosti tra le luci intermittenti e altri corpi, vestiti eccentrici, pelli coperte di tatuaggi come abiti colorati anni cinquanta.
Leonardo nella folla non li vede veramente, solo qualche minuzioso dettaglio fugace, degli occhi chiari, dei capelli rossi, delle scarpe senza tacco, una maglietta a maniche larghe.
Non li vede davvero, ma il primo giorno su quel palco le uniche voci che sente chiamare il suo nome sono le due che importano da sole, quelle che annichiliscono la sua fobia, che occupano i suoi vuoti solitari e lo tirano tra la gente, lo adottano come un fratello, quello freak, che si veste da checca, che si fa crescere i baffi.
È l'opening party della sua serata, di quell'Any Given Moretti che diventerà il must della Roma hipster, lui suda dietro a un mixer che nasconde a metà il suo volto barbato e la sua maglietta gialla. Vaga con lo sguardo, alla ricerca di familiarità in una massa informe di sconosciuti che batte le mani e muove le braccia e i capelli, in un'onda corale di corpi a tempo di dubstep. 
Vede Stefano, in un angolo accanto al palco, fissato da qualche ragazzina anoressica. Non se ne accorge neanche, troppo preso dal fissar truce un coatto che balla con la sorella. Leonardo la vede, al centro della pista, illuminata a intermittenza dalle luci stroboscopiche, ondeggiare su se stessa, con movimenti di bacino lenti e ritmati, gli occhi chiusi, forse poco sobria.
Ci sono fili del colore del corallo, tutti intorno a lei, lunghi e annodati, arricciati su se stessi, intervallati da forcine inutili, perché non contengono la massa rossa di capelli.
Ha una passione per loro, Leonardo, per quel colore acceso, per i riflessi dorati e i boccoli che si arrotolano tra le sue dita con naturale facilità; gli sfiorano il mento, quando la abbraccia, gli solleticano la pelle, la graffiano un po', scombinati e dolcissimi nella loro confusione.
Sono lo specchio degli occhi sbarazzini di una diciottenne dalle lentiggini chiare sul naso e la spensieratezza sulla pelle chiara e priva di tatuaggi, di colori a contrasto. 
Ride nella confusione e Leonardo non smette di osservarla dalla sua posizione privilegiata, soffrendo ancora la sua solitudine quando il buio la copre e i capelli si spengono come le luci del Branca, a intervalli irregolari.
Rebecca apre gli occhi e li volge verso di lui, riflessati di giallo, sorride ancora, con quella vena di dolcezza che le invidia, perché lui tutta quella bellezza non l'ha mai potuta sfiorare neanche attraverso la pelle di un polso.
Gli manda un bacio, sente quasi lo schiocco rimbombare nella testa, trapanare le costole e giungere sulla sinistra del torace tatuato. 
La sua bellezza non l'ha mai sfiorata, ma a volte si avvicina a un palmo di mano.

 

Casa Moretti è piccola, un trilocale su due piani dalle pareti color panna e l'angolo cottura inglobato da un salotto più grande delle altre stanze; ha finestre ovunque, piccoli punti luce che danno su una Roma illuminata dai lampioni delle strade di Prati e dalle prime luci di un'alba ostruita dalla nebbia che in onde si dipana all'orizzonte.
Rebecca ama i colori caldi che decorano l'appartamento, il giardino scalcinato davanti alla porta d'ingresso, la televisione sempre spenta e la radio sempre accesa su stazioni indipendenti che passano musica a lei sconosciuta.
Sembra di cambiare città, di entrare in una casetta di qualche paese straniero, come quella che avevano affittato due anni prima a Barcellona. 
Nel lavello ci sono ancora i piatti sporchi, forse lì da più di tre giorni, accatastati l'uno sull'altro in una confusione di metallo e acqua che travasa da una pentola piena all'altra.
Entrano ancora ridendo, lei e Leonardo, mentre prendono in giro Stefano che cerca parcheggio in fondo alla via. Si fermano davanti ai due specchi bordati di rosso, davanti alla poltrona con ciuffi di piume che spuntano dal sedile. Un'orribile brocca a forma di sirena è al centro del tavolo, regalo della signora Moretti per il trasferimento del figlio, e Rebecca quando la vede ride più forte. La tenda che separa l'angolo cottura è di quelle a frange, con perline colorate che rumoreggiano nel silenzio della notte e interrompono la loro risata ubriaca.
Leonardo sfiora i suoi ricci, con una delicatezza che lascia Rebecca immobile in uno stupore divertito; lo abbraccia alla vita, si appoggia al suo petto, senza parole da dire, con quella mano ancora tra i capelli rossi. Si rilassa in quel luogo, dove i rumori dei battiti più forti si confondono alla melodia che si schianta nelle loro teste. Il traffico scorre anche a quell'ora, fuori dalla finestra, Stefano cammina sul ciottolato, in giardino, il rubinetto perde gocce d'acqua nelle pentole abbandonate, i respiri appesantiti dall'alcol.
C'è il rumore della città che si sveglia, mentre loro si preparano a dormire, sussurrandosi una buonanotte in silenzio, nella vicinanza di un attimo eterno e spaventoso.
La porta si apre dietro di loro e Stefano appare, più serio di loro e li occhieggia perplesso. Le braccia cadono lungo i fianchi ed entrambi si spostano di pochi centimetri, senza allontanarsi davvero. Leonardo sfiora un suo polso con le dita quasi tremanti, il profumo del suo rosso ancora impresso nell'olfatto e tra le dita ancora la dolcezza del suo sorriso.
Ridono di nuovo e Stefano non capisce, ma è stanco e non importa. Saluta e va a dormire, mentre l'alcol li tiene svegli, in un'ebbrezza febbrile di restare vicini, come due solitudini che si incrociano pochi attimi, nel tocco leggero dei loro corpi.
L'orologio di Dalì che gli ha regalato Stefano, appeso sopra la porta, segna le sei e dieci, lo specchio riflette i loro vestiti e le scale di mogano che portano alle stanze, smozzicate sugli angoli. In cima manca una mattonella del pavimento, che un anno prima Leonardo ubriaco ha distrutto e sradicato, tra le risate di tutti. Rebecca non c'era, ancora piccola per partecipare alle feste degli amici del fratello.
In un angolo del muro, sulla tromba delle scale, c'è una foto di loro due e Stefano: Rebecca aveva dodici anni e già aveva una cotta per quel ragazzo più grande, tanto bello e gentile, che la adorava come una sorellina. Hanno le teste vicine, i capelli che si confondono insieme, ricci su ricci, nel contrasto del rosso e del castano che si intrecciano tra loro; Stefano è poco distante, alla sua destra, come un angelo custode che la vegliava anche a quei tempi, in silenzio, senza mai intromettersi.
"La ricordo quella foto."
Stanno aspettando che l'acqua per il tè bolla nel pentolino lavato alla buona due minuti prima. Rebecca indica l'immagine e Leonardo ride delle loro espressioni buffe.
"Eravamo al mare, l'estate che sei venuto con noi a Riccione... Stefano non voleva venire e si è convinto solo quando mamma e papà hanno invitato anche te."
"Eri così piccola..."
"Sei tu che eri già vecchio, Leo."
"Vediamo un film?"
"Voglio parlare. Possiamo parlare guardando il film?"
"Se il film fa cagare, sì."
"Guardiamo Se mi lasci ti sposo... Odio quel film, tutto questo amore nei film americani e il loro lieto fine a tutti i costi è surreale."
Leonardo ride.
"Sei una cagacazzi, Reb."
"Come sempre."
"Scelgo io la musica, allora. Dei tuoi gusti non mi fido."

 

Il secondo gradino ha l'asse traballante, che scricchiola sotto i piedi scalzi, spezzando il silenzio sonnolento della casa. Scende piano, nell'aria sospesa in una cortina di sonno pesante, illuminato dalla luce di mezzogiorno che entra dalle finestre dalle tende celesti; strizza gli occhi, per abituarsi alla luminosità accecante dei raggi del sole, quasi inciampa alla fine della scala.
Rebecca non ha dormito nella stanza che dividono quando rimangono lì e Leonardo non è nel suo letto e Stefano si preoccupa sempre troppo della vicinanza delle due persone più importanti della sua vita: troppo vicini, ma sempre divisi da età lontane e vite diverse che non vede conciliabili.
Si affaccia nel salotto, controlla l'angolo cottura vuoto, con i piatti ancora lì e l'aggiunta di un pentolino e due tazze, poi si gira verso uno dei due divani sulla parete opposta e li vede, uno accanto all'altro, abbracciati come li ha trovati la sera prima appena entrato in casa.
Le palpebre sono abbassate sulle pupille, tremano nei sogni, vicine quasi a intrecciarsi come fanno i loro ricci, come in quella foto sulle scale. Appoggiati l'uno all'altro, nella paura di una lontananza anche onirica, con l'ultimo sorriso della giornata ancora dipinto sulle labbra.
Vorrebbe dividerli, o scuoterli ancora, per avvicinarli di più e non lasciare spazio tra loro, neanche quello per respirare lontano dall'altro. Vorrebbe vederli così, come in quel momento, intrecciati come i capelli, senza paura di vederli svanire, uno alla volta, di spezzare un equilibrio che per lui è ormai famiglia, di raccogliere i cocci di Rebecca delusa, perché Leonardo non ha mai fatto sul serio con nessuna.
Vorrebbe poter credere che sarà diverso, forse lo sarebbe davvero, gli basta guardarli ancora e quasi se ne convince.
Ma poi Rebecca apre gli occhi, li strizza alla luce, lo mette a fuoco con difficoltà e poi sorride ancora, del sorriso che ama da quando lo ha visto la prima volta, diciotto anni prima e pensa che non vale la pena rischiare di non vederlo più.
Sorride anche lui, mentre anche Leonardo si sveglia e si allontana di poco da Rebecca, come scottato, gli occhi per un attimo attraversati da fugace confusione. 
A breve sarà di nuovo solo, in quella casa che adora, ma non sa vivere a pieno, vuota di lei quando uscirà da quella porta, vuota della sua voce e del rumore dei passi di Stefano che li cerca, preoccupato di chissà cosa.
Nella solitudine, la lascerà di nuovo entrare, a occhi chiusi, la immaginerà seduta al tavolo della cucina a bere tè e cantare quella canzone degli Slade che uscirà dall'impianto stereo che occupa la parete accanto al divano.
E allora rimarrà sempre lì, Rebecca. Nell'aria di casa, nel basso ventre che brontola d'assenza, nei rumori sonnacchiosi delle perline delle tende, nella tazzina di tè abbandonata sul tavolino e nella stazione radio impostata da lei.
Rimarrà lì, come un suono che impregna l'aria di sé e viaggia nel vuoto, solleticando i timpani e la pelle, che sfiora le dita dove sono rimaste le impronte del suo polso. 
Lì, in quella fame insaziabile e inconfessata, il cui urlo è ancora sovrastato dal rumore dei baci a vuoto.

 

•••

 

Buongiorno a tutti, oggi ci sono io, dj Moretti, su Radio Cacofonia, al posto di quello sfaticato di Stez, a letto con un febbrone da cavallo. Non c’ha più l’età!
Stanotte abbiamo fatto un orario improbabile e mi è caduto catatonico in camera prima ancora che io c’arrivassi a letto. Stranamente il sonno non s’è fatto sentire fino a tre ore fa, quelle che poi ho dormito. Perciò ora sono più di là che di qua, ma sapete bene che adoro stare da questa parte del microfono e dire tante idiozie, tanto per togliere un po’ di serietà alla radio di Stez, sempre così impostata, con tutti quei blabla seri, sulla vita, la gente, i colori.
Serve un po’ di fancazzismo, ragazzi! E a proposito di questo, il prossimo Any Given Moretti avrà come tema Zoolander, vi voglio tutti in tutine zebrate, coperti di trash fino al midollo, mentre baciate pure i pali della luce.
Vendeteli pure, 'sti baci, ragazzi, o regalateli, l’amore non ha un prezzo. Però datene tanti, a chi vi pare, ai vostri genitori, a chi vi scopate, a chi dorme con voi ogni notte da trent’anni o pochi mesi, agli amici che ci sono sempre.
Non lasciateli scivolare dalle labbra senza poggiarli sulla pelle di qualcuno, che sia una guancia, una mano, delle labbra. Il rumore che faranno vi suonerebbe nella testa per ancora troppo tempo e lo sapete che io sono uno a cui piace fare tutto, a costo di pentirsene in futuro. Ma fidatevi di me, non vi pentirete mai di un bacio.
Perciò ve ne regalo qualcuno e vi piazzo qua la prima canzone delle nostre tre ore insieme! A dopo!

#Then I kissed her.

 

Note di un'autrice che ha scritto questo extra in macchina di ritorno da Barcellona.

Ebbene sì, dovreste curarmi!
Avevo detto che non avrei più aggiornato fino a settembre, ma oggi ero in viaggio - troppe ore di caldo torrido e svomitazzi a destra e a manca -  e a un autogrill ho scoperto l'esistenza del nuovo libro di Ligabue, che poi ho pure scoperto che mio padre ha già.
Bene, premetto che a me le canzoni di Ligabue fanno cagare, ma i libri li adoro e anche i suoi film - l'idea della radio e del monologo di Stez della storia sono un po' un tributo a Radiofreccia -  perciò ce l'ho infilato, sebbene ancora non abbia letto questo fantomatico nuovo libro, che ha un titolo bellissimo che come vedete mi ha ispirato tutto il capitolo.
Bene, questo è un capitolo per così dire extra; ho deciso che ce ne saranno altri nel corso della storia, su ricordi di Rebecca e Leonardo, forse un paio anche di Irene, che sono i personaggi che non faccio parlare in prima persona nei capitoli canonici, chiamiamoli così. Ho comunque ripreso lo schema principale, con un ricordo di Rebecca al posto di quello di Martina ad aprire il capitolo e Leonardo in radio, alla fine, al posto di Stefano. In mezzo c'è una scena che si svolge circa cinque anni prima della timeline originale, quando i rapporti tra i due erano ancora sereni e io li amo follemente a prescindere ♥ Come vedete c'entra il tema del bacio - pietra dello scandalo del capitolo precedente, lol - da cui anche la canzone, che almeno nelle strofe iniziali sembra un po' la scena del bacio tra loro :)
Oddio, sto blaterando random come al solito, ma credo ci sia poco da dire. Il capitolo prossimo arriva veramente a settembre, anche se è per metà scritto, perché qua non c'è più nessuno e mi dispiace mollarvi al ritorno diciotto capitoli iniseme xD e poi così magari mi avvantaggio pure un po' con la scrittura.
Quindi alla prossima, tra un paio di settimane - potrei cambiare idea a momenti, sappiatelo - e buona fine di vacanze!
Elle di ritorno dal paese dove i fenicotteri sono anche sui portatrucco.

Mi stavo per dimenticare la cosa PIU' importante! Leggete questa OS scritta da Giulia Butterphil, su Giorgia, 678 fagioli nella bottiglia.
Io amo quella donna, amo questa one shot, amo Melancholia, Millais, Ofelia, Neve e Milza e tutto il resto. Perciò niente, leggetela, anche perché i fagioli torneranno nel prossimo capitolo e anche Milza e Neve, anche se parecchio più avanti! 

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Capitolo 8
*** 7. Nel vuoto per mano. ***


7. Nel vuoto per mano
a

A chi ha rubato spazio
dentro i miei vuoti.
A chi mi ha dato
il coraggio
di dormire di nuovo.

 

Giorgia soffriva di vertigini sin da quando era piccola: una volta a sei anni era quasi caduta dal balcone di casa dei nonni al mare, per sporgersi troppo mentre ammirava una farfalla che volava poco distante.
Io avevo solo quattro anni, ma ricordo ancora la paura negli occhi di mia madre e il sollievo quando si era accorta che non aveva un graffio e anzi si lamentava con il suo caratteristico broncio capriccioso del fatto che la farfalla fosse scappata.
Da allora poche volte l’ho vista affacciarsi a un balcone o a una finestra, non è mai salita su una scala né sulla cupola di San Pietro. Il vuoto la terrorizzava, l’idea che sotto di lei non ci fosse niente se non la possibilità di scivolare giù in caduta libera era una delle poche cose in grado di destabilizzarla.
L’anno del suo diciottesimo compleanno, decisi che avremmo dovuto provare a superare quella paura e la portai a fare bungee jumping, poco fuori Roma. Avevo sempre desiderato farlo, provare a lanciarmi nel vuoto, un modo come un altro per superare dei limiti che mi erano sempre andati troppo stretti.
Giorgia acconsentì riluttante, paralizzata dalla paura. Se mi concentro, sento ancora la stretta ferrea attorno a mio polso, in una richiesta d’aiuto che non le negai mai, ogni volta che potei.
Lei teneva gli occhi chiusi, le palpebre strizzate tra loro, io guardavo entusiasta sotto di me. Ci lasciammo cadere così, ancora per mano, insieme anche in quella follia.
Fu una delle giornate più belle della mia vita, ma se avessi saputo cosa avrebbe comportato il fatto che Giorgia superasse la sua fobia più grande, sarei rimasta a casa e le avrei regalato un gioiello, al massimo un viaggio. Perché quando saltò l’ultima volta, ormai immune alla paura e alle vertigine, non ci fu la mia mano ad accompagnarla nel vuoto e a trattenerla.
Solo, cadde.

○○○

Martina quella sera non vorrebbe uscire; la mattina dopo deve aprire il blockbuster ed è una settimana che dorme poco e male, tra ricordi e strani sogni che la tengono sveglia fino a tardi. Rebecca però le ha chiesto di accompagnarla al Brancaleone e lei la vede ancora scossa da qualcosa che non riesce a capire cosa sia, come un sottile senso di disagio nel sangue, che la spinge a chiudersi tra le pareti della sua stanza e in un mutismo che Martina non riesce davvero a sopportare.
Come quel silenzio che la imbriglia nei pensieri più spaventosi, anche quello di Rebecca la angoscia tanto da preoccuparsi per lei e accettare un invito indesiderato, per una serata che preferirebbe passare davanti a un film o ascoltando una canzone alla radio, di quelle che non le ricordano niente e nessuno, dai testi tanto frivoli da non avere alcuna presa sul suo umore altalenante.
Il pomeriggio lo passa sdraiata sul divano, con il telecomando in mano, ma la televisione spenta, il cellulare vicino all’orecchio, nella speranza di sentirlo suonare una canzone diversa da quella assegnata a Irene che la cerca ancora per il famoso aperitivo e per raccontarle del nuovo ragazzo con cui esce.
Quando suonano al citofono, si alza svogliata, senza l’ombra di un sorriso su nessun tratto del volto annoiato; apre senza chiedere chi è, aspetta che lo scocciatore salga le quattro rampe di scale e atterri sul suo zerbino nero e sfilacciato, su cui il gatto della vicina si fa sempre le unghie. Quando dallo spioncino scorge i capelli scarmigliati di Stefano, il sorriso tenta di sfuggire dalle sue labbra, ma lei lo imbriglia tra i denti, nella finzione che il telefono non fosse rimasto accanto a lei tutto il pomeriggio nella speranza di un messaggio che non era arrivato.
La mattina dopo il loro ultimo incontro si era svegliata nel suo letto, ma lui era già in radio e non si erano neanche salutati; aveva faticato qualche minuto a ricordare come fosse arrivata in stanza sua e ancora più tempo a spiegare a Rebecca cosa ci facesse lì, quando l’aveva trovata ancora avvolta nelle lenzuola, con uno strano sorriso sulle labbra.
Enigmatica come la Gioconda, Martina non aveva dato alcuna spiegazione, aveva fatto colazione di nuovo stretta nel suo silenzio umorale, ticchettando i tacchi degli stivali sul parquet e girando rumorosamente il cucchiaino nella tazza e poi era andata via, certa che Rebecca non desiderasse la sua compagnia quella mattina, troppo presa da pensieri e sensazioni che custodiva con gelosia in un angolo della sua testa.
Ora che Stefano è davanti a lei, con un sorriso aperto e gli occhi brillanti, Martina è contenta di non averlo trovato in casa al suo risveglio, perché sarebbe stato imbarazzante spiegare il buon umore che la sua presenza le infonde. Come una scarica di adrenalina doppia, come quando hanno ballato sul palco, come quando l’alcol la porta a uno stato mentale altro.
“Ciao,” la saluta, con un bacio sulla guancia e il sorriso inestinguibile. Martina non può far a meno di rispondergli con semplicità, come se fosse normale vederselo piombare in casa senza avvisi né messaggi.
“Potevo non essere in casa, lo sai?”
Lui si stringe nelle spalle, in un gesto di noncuranza che la farebbe ridere se riuscisse a vederlo dalla cucina dove già ha messo su l’acqua per un tè, il terzo del suo pomeriggio, quello che la dirimpettaia le porta ogni volta che torna a trovare i suoi genitori in India.
“Ti ho portato un film…”
“Te lo ricordi che lavoro in una videoteca?”
“Non me l’avevi detto, ma lo sapevo già.”
Stefano si avvicina e si guarda intorno, nella sua cucina, con l’aria di chi si sente a proprio agio in ogni situazione. Sembra quasi che quello sia il suo posto, come un utensile appeso sopra l’angolo cottura.
“A Rebecca non piacciono certi film.”
“Lo so.”
Martina sbuffa e si sposta una ciocca di capelli dall’occhio destro con il respiro. Per un momento vorrebbe cacciarlo e rintanarsi nella sua bolla casalinga, lontana dalle sue insistenze e le sue gentilezze, ma in qualche modo sotterraneo l’indiscrezione di Stefano le fa piacere. Come una compagnia inaspettata, ma mai invadente, come una mano tesa nel vuoto a guidarla.
Non è però come avere Giorgia accanto, mentre guardano in silenzio le immagini scorrere sullo schermo; non è il respiro della sorella a confondersi con i dialoghi e le musiche né la sua lontananza ha la consistenza dei ricci castani di Giorgia sparsi sulle gambe, su cui era solita sdraiarsi per comodità.
Stefano è solo una mano tesa nel vuoto, nell’attimo passato di una caduta libera.
 
Il Brancaleone sembra esplodere più degli altri venerdì, in una scia di corpi che si muove senza ritmo e senza senso, l’uno contro l’altro. Sta ancora suonando un gruppo semi sconosciuto che è riuscito a racimolare abbastanza adepti per un concerto solo, gente che inventa parole su melodie mai sentite prime e applaude a ogni pausa, nella speranza che finiscano presto e possano andarsi a ubriacare o a casa a dormire, per recuperare la stanchezza di una settimana lavorativa.
Stefano batte un piede per terra, al ritmo della batteria troppo lenta suonata da un ragazzo in carne e con i capelli tirati indietro da troppo gel; accanto a lei, Martina si guarda intorno, osserva la gente con falso disinteresse, incuriosita da una ragazza che si avvicina senza vergogna a un ragazzo che balla con una moretta, poi da un buttafuori che illumina le facce di qualcuno in cerca di sigarette che dovrebbero essere spente, ma che formano sempre una condensa di fumo palpabile sulle loro teste, e ancora una ragazza magrissima e dai capelli rosa che da sola, in un angolo, balla ad occhi chiusi, con una borsa a tracolla che ondeggia a ogni suo movimento.
Il ritornello della canzone di quel gruppo ormai lo conosce a memoria, al secondo ascolto e si morde le labbra per non canticchiare una canzone che non le piace; Stefano la guarda sorridente e divertito, come se non esistessero problemi al mondo all’in fuori della poca voglia di ridere di Martina.
In mano tiene un bicchiere pieno di liquido verde che puzza di alcol a chilometri di distanza, forse è addirittura assenzio, ma sembra ancora lucido, gli occhi svegli e attenti che non perdono un suo spostamento, neanche quello dei suoi occhi.
“Il batterista era un mio collega all’università… ”
Indica con gli occhi il ragazzo robusto che dietro il suo strumento è a mala pena illuminato dalle luci stroboscopiche, circondato da un alone di fumo giallastro. Le bacchette scattano sui tamburi con difficoltà, Martina nota il suo sguardo annebbiato e vuoto.
“Lui invece,” Stefano ora sta indicando il ragazzo che ballava con la moretta, che ora parla con la ragazza dai capelli rosa, in modo concitato, quasi arrabbiato. “Prima veniva sempre con degli amici più grossi di lui, parevano gorilla. Adesso sta sempre da solo ed è sempre incazzato, pronto a menare qualcuno.”
Martina lo guarda curiosa, un sorriso ironico che gli illumina il volto che sparisce quando le luci si spengono per l’ultima canzone. “Sei un pettegolo del cazzo.”
La musica copre la risata di Stefano, ma lei la sente infiltrarsi ovunque, tra i capelli sciolti sulle spalle, nelle orecchie liberi di rumori rassicuranti, tra tutti quei vuoti che non colma, ma copre, come un telo di plastica posato su una buca, dove puoi sempre cadere, ma che non è più visibile. Martina sente quel vuoto sempre lì, pronto a inghiottirla, ma vede anche la mano di Stefano davanti a lei, tesa e pronta in un invito.
“Andiamo a ballare?”
Guarda la folla, Rebecca in pista, tra la vita che pulsa nei corpi di tutti, accatastati l’uno sull’altro in un horror vacui esistenziale che non gli lascia scampo. Gli occhi di Stefano non la lasciano un attimo, spiano le reazioni, scoprono le carte; vorrebbe dirle qualcosa per convincerla, scrollarla per le spalle, urlare fino a sovrastare l’assordante canzone dei DeadMau5 che vuole solo che sorrida ancora, che lo sfiori ancora, che parli ancora.
Deve aspettare qualche secondo di troppo, ma alla fine Martina, quella mano, la afferra.

Federica è dietro il palco, nascosta al pubblico, che parla tranquilla con Stefano che si è avvicinato da pochi minuti; ha un bicchiere di coca-cola in mano, perché non beve e vorrebbe che non lo facesse mai neanche Leonardo, perché la puzza di alcol non le piace e lui diventa troppo sfacciato quando è brillo.
Ha quel vestito verde che le ha regalato qualche settimana prima la madre, che gli stringe la vita e slancia di più le gambe, senza tacchi alti o accessori vistosi. È semplice e bella e si guarda intorno, sorridendo di tanto in tanto a Leonardo che sul palco è troppo concentrato sulla musica e se stesso. Non si lascia mai sfiorare da lei in quei momenti, come se quel palco fosse un limite per lei invalicabile, una barriera che li tiene divisi, al di là di un muro fatto di silenzi tra loro sempre più frequenti.
Leonardo guarda ovunque ma non lei, alla ricerca di qualcosa che Federica ormai pensa di non poter più trovare per lui. Nessun palliativo né cura per quella solitudine di cui in realtà è lui stesso artefice e vittima.
Come se la sua presenza, tra le mura del suo bilocale fosse quasi accessoria, come il vecchio vaso nascosto tra i libri o le tendine rumorose che separano le stanze. Meno importante della foto incorniciata sulla parete delle scale.
“Fede, tutto ok?”
Stefano la distoglie dai suoi pensieri e lei allontana lo sguardo dall’uomo di cui vorrebbe essere la compagna e non solo una passeggera compagnia silenziosa, quando i rumori esterni diventano troppo forti e il ragazzo ha bisogno di pace. Stefano ha lo sguardo preoccupato, forse sa qualcosa, forse si è accorto di quel malessere sotterraneo che occupa lo sguardo del migliore amico. Forse ha soltanto notato le lacrime accalcate tra le sue ciglia coperte di mascara.
“Sì, tutto ok. Senti, io vado, dì a Leo che lo chiamo domani, ok?”
Stefano prima di annuire esita, tra pensieri sconnessi e sempre altruistici e un sorriso che profuma di comprensione. Ma prima che Federica possa andarsene, Leonardo saluta il pubblico, sulle note di Tarantula, e li raggiunge, con il sorriso entusiasta e gli occhi luminosi di chi la sua dimensione la trova lì, dove c’è chi lo acclama e balla con lui, per lui. Dove la sua solitudine diventa un privilegio e non un peso.
Dove persino essere solo con se stesso è meglio che stare con lei.
Il bacio con cui lo saluta è lento, ma ha il sapore di un addio che i suoi denti mordono in continuazione per non lasciarlo uscire e decretare la fine. Per aggirare ancora la propria paura di rimanere sola, gemella di quella di Leonardo, quella paura che ha assimilato con lui, per condividere anche quella.
Quella paura che lei interpreta come bisogno. Strisciante e disperato bisogno di non lasciarlo mai.
“Non è che tu sia molto presente con lei…”
Leonardo la guarda andar via perplesso, mentre ignora le parole di Stefano che risuonano come un piccolo allarme da qualche parte; ancora non ha dimenticato il sapore di Rebecca né l’esatta sfumatura dei suoi capelli tra le dita e ricordare il piacere di guardare un film sul divano con Federica appoggiata al petto è troppo difficile.
Rebecca però non ha risposto alle sue chiamate, se non per dirgli una volta sola di non chiamare più, in un sussurro rabbioso che lui ha sentito anche troppo forte. L’ha vista tra la folla, minuti prima, ballare con Martina dopo che Stefano le ha salutate, muoversi ignara del suo sguardo addosso, tra gli altri corpi, semi nascosta dai capelli disordinati e dalle mani altrui alzate al soffitto. Non può cercarla o salutarla tra la gente, avvicinarsi per un abbraccio veloce o scivolare con lo sguardo sul suo sorriso. È lontana pochi metri, amplificati da un errore commesso che li divide più delle persone che tra loro si agitano a tempo di musica. E allora decide di tornare a casa, Leonardo, dopo poche parole con Stefano, ammirato da lontano da una moretta con gli occhi chiari che gli sembra di aver già visto, ma di cui ha dimenticato il nome. Qualcuno che al suo amico non piacerà mai, troppo alta, troppo provocante, troppo truccata, ma a cui nonostante tutto da corda tra un sorriso e l’altro.
Li lascia alle spalle entrambi e anche Rebecca. In una fuga che profuma di rimpianto, ma anche di salvezza.
Il vuoto tra loro sembra pieno di gente, ma è sempre più vasto.

Le luci si accendono e spengono, colorate, psichedeliche, senza un senso. I corpi si muovono a rallentatore, come bloccati dal tempo, forse solo sconnessi, ubriachi, stanchi. I Justice pompano nelle casse, battiti potenti che feriscono la pancia, cadenzati, urla. Il pavimento trema sotto i suoi piedi, macchiato di alcol e bicchieri, sotto i salti della folla e della musica troppo alta, si ferma nel silenzio dei cambi canzone.
Sul palco un Dj sta cambiando dischi, con le cuffie appoggiate al collo e un sorriso ubriaco impigliato nelle labbra, circondato da qualche ragazza che balla senza pudore e vestita di sola pelle scoperta, ammiccando verso di lui, o Stez poco lontano o Moretti che sta andando via.
Rebecca, in pista, lontana dal palco, ha sentito lo stomaco contrarsi nella dolorosa disillusione di un bacio che Leonardo non ha dato a lei, ma alle labbra più carnose di Federica, stringendo i suoi fianchi più stretta e carezzando i suoi capelli più morbidi.
Un senso di inferiorità che la annichilisce sotto il peso di una speranza di nuovo uccisa, alimentata da uno scontrarsi di bocche che poi è stata proprio lei a rinnegare, perché ancora spaventata, perché non può fidarsi, perché, nonostante tutto, lui è ancora lì con Federica e non a ballare con lei in mezzo alla pista, non a combattere per qualcosa che lei ha sempre voluto ma che per lui è stato solo un gioco.
C'è il vuoto che si spalanca sotto i suoi piedi, mentre si sente precipitare, scivolare tra i ricordi di una vita, degli abbracci sul divano a sedici anni, le vacanze al mare, le guance arrossate di ingenuità ai primi complimenti, le sue dita a sfiorare il polso e tra i capelli.
Vorrebbe riempirlo, quel vuoto di lui che ha rubato ogni spazio e poi lo ha lasciato incustodito, abbandonato all'incuria e al decadimento della propria assenza, ma non sa come fare, a chi chiedere, con chi confidarsi.
Raffaele è di nuovo lontano, in quella Londra che a volte assomiglia al proprio desiderio di casa, ai disegni che faceva da bambina di case dai portoni colorati e dei sogni dell'adolescenza, tra le strade di Camden. Vorrebbe prendere un aereo e parlare con lui, fino al mattino, con la tazza di tè che si raffredda tra le loro mani, senza che loro bevano perché ubriachi della reciproca compagnia, e fotografarsi a vicenda con la vecchia analogica di loro padre, fino alla fine del rullino.
L'assenza di Leonardo sarebbe ancora lì, ad aprire baratri indesiderati, ma non ci sarebbe quel ronzio persistente a intasarle l'udito, a sovrastare la musica e a chiederle di essere colmato.
Sta ancora ballando, vicino a Martina, lontana da Stefano che ora è dietro al palco, quando vede una nuvola di capelli rosa in un angolo della sala, con la sua borsa tracolla, mentre dondola negli anfibi spaccati in più punti. Ha gli occhi incavati, cerchiati di trucco nero sbafato fino alle sopracciglia e occhiaie violacee; sembra quasi sparire nei vestiti fluo che porta, nella maglietta larga che lascia vedere le clavicole sporgenti, nelle calze che cadono male sul ginocchio coperto di lividi.
Lei e Fedra andavano insieme al liceo, quando l’altra aveva ancora i capelli scuri e un po’ di carne sui fianchi, studiavano insieme dopo scuola e ascoltavano musica nel silenzio delle loro stanze.
Ora Rebecca la incontra saltuariamente a qualche serata, scambiano poche parole, frasi di circostanza e pochi sporadici sorrisi. Si allontana da Martina, con un gesto di avvertimento e si avvicina a lei che pala con un ragazzo dai bicipiti tatuati e muscolosi.
‎"Ciao Bec!"
La saluta con aria stralunata e gli occhi arrossati, spostando da parte quello che sembra essere un incontro sgradito. Si passa un dito sotto al naso, strofinandolo con lentezza e le regala un sorriso aperto, prima di abbracciarla, in uno scontro di ossa troppo sporgenti e grovigli di capelli colorati.
Puzza di vodka ed erba tagliata male.
"Ciao Fè."
Le sorride anche lei, memore ancora degli anni di amicizia condivisa e pomeriggi chiuse in camera a cantare o solo parlare di ragazzi, musica e sogni. Non è come fermarsi e chiedersi come procede la vita, gli studi, il lavoro; ora Fedra è sempre al Brancaleone, tra le gambe di qualcuno nei bagni o a inghiottire pasticche della felicità in un angolo.
"È bello vederti, dovremmo prenderci una birra un giorno di questi."
Le dice sempre così, Fedra, ma è sempre una promessa che il giorno dopo dimentica tra gli strascichi di un'altra serata sul filo sospeso a cento metri di altezza, dove Rebecca non c'è davvero. Ma quella serata vorrebbe, solo per riempire un po’ di quel silenzio di sentimenti corrisposti, per avvicinarsi all’oblio, mossa dal bisogno di divertirsi senza di lui e i suoi sorrisi a tormentarle i pensieri o gli occhi.
“Sicuramente.”
Le sorride ancora, felice nonostante tutto di vederla ancora respirare, seppure a fatica tra le narici che pizzicano ancora per quello che ha sniffato poco prima.
“Volevo chiederti però se hai qualcosa per me…”
Fedra non si scompone, come se non avesse davvero capito la sua domanda, senza sapere che non l’ha mai fatto; tira fuori una bustina trasparente dalla borsa borchiata e le posa sul palmo della mano una pasticca tonda e verde, mentre Rebecca deglutisce, elettrizzata e spaventata, nella paura di finire svenuta in un bagno e nella speranza di poter non pensare per una notte sola.
La prima e ultima follia, si dice, la prima e ultima scorciatoia per non scivolare nel vuoto.
“Offro io.”


Stefano ricorda Fedra quando ancora aveva i capelli neri e le guance piene, confezionata nei vestiti sempre scuri e larghi. Si fermava spesso a pranzo a casa loro, si sedeva al tavolo in salotto e parlava con il cibo in bocca, ciancicava storie e aneddoti da cui la loro madre rimaneva affascinata ogni volta. Si chiudeva in stanza con Rebecca a studiare o a girare su internet, le consigliava canzoni hard rock che facevano venire il mal di testa al loro padre.
Sorrideva sempre, luminosa come non sarebbe dovuta essere nei suoi vestiti neri.
Ora l'ex compagna di banco di Rebecca ha le guance incavate e i denti gialli. È magra come un chiodo dalla testa rosa, indossa magliette colorate e attillate e calze a rete sempre distrutte. Ha una borsa a tracolla con le borchie che probabilmente ha rubato a qualche ragazzina che compra solo vestiti da Zara.
Tutti al Brancaleone conoscono il contenuto della borsa, bustine trasparenti e flaconi tintinnanti, contenitori di trip e sogni che lei non ha più, ma che vende agli altri sotto forma di cocaina e cristalli.
La nuvola rosa mangiata dall'anfetamina è a qualche metro dal palco, alla sua sinistra. Stefano la guarda curioso, scheletrica e pallida imitazione della ragazza sveglia che conosceva, mentre sorride con sguardo assente a un interlocutore che lui non vede. Tiene una pasticca tonda e rosa tra due dita ossute, tira sul con il naso, ciondola la testa a tempo di dubstep.
Quando la musica si ferma e la gente davanti a loro smette di muoversi, lui può guardarla meglio, un solo secondo per accorgersi a chi sta vendendo la droga. Ricci capelli rossi si stagliano di fronte a Fedra, la pusher più conosciuta di Roma, quella che Stefano l'anno prima ha riportato a casa in braccio in uno squallido appartamento a Centocelle, in cui vive da sola, tra vomito rappreso e carta da parati strappata.
Quando Fedra lascia la pasticca sul palmo aperto di Rebecca, Stefano corre.
“Offro io.”
“Non offre proprio nessuno.”
Rebecca si irrigidisce sul posto, chiude il pugno e tra esso l’ecstasy, schiacciata tra il palmo e le dita e quasi sbriciolata. Sente lo sguardo del fratello perforarle la nuca, non vorrebbe girarsi né guardarlo, far finta che non ci sia nessuno dietro di lei, che lui non abbia sentito né visto niente.
Ma lui attira ancora la sua attenzione, le colpisce con poca gentilezza una spalla, la chiama urlando il suo nome, mentre Fedra si allontana con un sorriso vacuo tra le labbra e indifferenza chimica.
“Cosa cazzo stai facendo?”
Si è avvicinata anche Martina, forse li ha seguiti o si è ritrovata lì per caso, forse anche lei vuole farle la paternale. Rebecca non risponde, ma lo fissa con sfida negli occhi, senza espressioni particolari, se non una voglia di scappare da lui, di raggiungere Londra, di fotografare il Tamigi, bere quel tè con Raffaele.
“Rebecca, rispondi!”
Sembra loro padre, quando le parla così, quando usa quel tono di voce; le ricorda quando scopriva che non andava a dormire da nessuna amica, quando non tornava a casa, ma usciva con lui e Leonardo a ballare, anche a quindici anni. Lei non rispondeva mai, a nessuna sfuriata, non alimentava rabbia con parole superflue, con scuse false. Rimaneva in silenzio, ad ascoltare ciò che doveva dire perché si sentiva in dovere, come lei era convinta di dover disubbidire, per affermare la propria indipendenza e autonomia.
“Ste, stai calmo…”
Martina tenta di calmarlo, posa una mano sulla sua spalla, in un’intimità che le è estranea, un gesto inconsueto: lo sente tendersi sotto le sue dita, come se stesse trattenendo il respiro e poi lo rilasciasse tutto insieme, in un sospiro fremente rabbia. Stringe i pugni, si tocca i capelli e morde le labbra.
“Non è successo niente,” dice alla fine, Rebecca, con indifferenza ostentata. Sente la pasticca ancora tra le dita, pulsare e bruciare, scavare un solco nella pelle, pesante come un macigno.
“Non è successo niente? Cristo, hai comprato dell’ecstasy, Rebecca!” Urla ancora, non solo per sovrastare la musica, ma per la paura e lo sconcerto. “Hai idea di che cazzo è?”
Rebecca sbuffa infastidita, nervosa per la scenata davanti a Martina e a qualche sconosciuto interessato ai fatti loro, non lo guarda in faccia e lascia scivolare dalle dita sul pavimento la pasticca.
“Non fare l’ipocrita, ti ho trovato in bagno fatto della peggio merda un sacco di volte,” sibila. Non può accettare un rimprovero da chi gli chiedeva cibo alle ore più impensabili della notte, quando la fame chimica disfaceva il suo stomaco. A volte capitava, quand’era più piccolo e lui chiedeva aiuto a lei, per non farsi beccare dai genitori né rimproverare dal sempre troppo responsabile Raffaele. Lei non ha saputo se anche lui aveva qualcosa da riempire, se fosse solo bisogno di distrarsi o voglia di provare, se si sentiva più interessante quando assumeva qualcosa ai concerti o nei centri sociali di Roma; non ha mai chiesto e ora vorrebbe che lui facesse lo stesso, la lasciasse andare via a mani vuoti, stomaco vuoto, cuore vuoto, senza possibilità di riempimento. In silenzio, tra la folla, scomparire per una notte e basta.
“Proprio perché lo so!” Stefano ancora urla, furioso anche con se stesso per non essere un esempio irreprensibile da seguire, per essere stato il ragazzino problematico, lo scapestrato della famiglia. “Il fatto che io sia stato un coglione non ti da diritto di esserlo a tua volta! Questa roba ti può ammazzare, Bec!”
“Lasciami in pace, Ste, non sei nostro padre! Fatti i cazzi tuoi!”
Stefano prova a ribattere e a fermarla, quando gli da le spalle, ma la perde di vista nella calca, all’uscita del Brancaleone, dove qualcuno lo ferma per salutarlo.
Martina, che lo ha seguito, rimane al suo fianco, in silenzio, beandosi di chiacchiere inutili, accorciando un po’  la distanza tra i loro corpi perché la sera fa ancora freddo e Stefano emana un calore naturale e piacevole.
Quando Stefano congeda il ragazzo tarchiato dai capelli rasati, le sorride dispiaciuto, nello sguardo la preoccupazione viva per la sorella. Non sa cosa le stia capitando, nelle ultime settimane, cosa la spinge a rinchiudersi in camera o nelle aule dove si svolgono le lezioni, chiudendo fuori lui, Martina e Leonardo. Addirittura Raffaele lo ha chiamato preoccupato, ma lui non è mai stato come il fratello: non sa come farsi ascoltare e farsi raccontare i problemi, sa solo come farla divertire e l’unica cosa che sente di averle insegnato è come masticare ecstasy per fuggire da un disagio di cui non si riesce a parlare.
“Sono senza passaggio,” dice Martina, per spezzare il silenzio sceso tra loro, ancora a pochi centimetri dal suo fianco. Sfiora appena una sua gamba con la propria e cerca con la solita discrezione e la poca capacità che ha di comunicare la propria presenza di risollevarlo da quella che è stata una fine serata da dimenticare.
“Ti accompagno io.”
“Starà bene.” Martina appoggia una mano sul suo braccio, in un contatto a cui nessuno dei due è ancora abituato e che li rende improvvisamente impacciati.
Lui annuisce e le sorride anche con gli occhi questa volta. Poi afferra di nuovo la sua mano e la porta via.

 

Non sa perché è lì, Rebecca, ma è stato l'unico posto dove ha pensato di poter andare. Neanche casa di Martina le era sembrata adatta, troppo silenziosa e cupa.
C'è una porta chiusa davanti a lei, il numero cinque è disegnato accanto e un quadretto con scritto "attenti al gatto" è esattamente davanti ai suoi occhi. Pensa che potrebbe averlo comprato Federica, che magari lei è dentro, che forse stanno facendo l'amore o anche solo guardando la televisione abbracciati, su un divano su cui migliaia di volte si saranno addormentati insieme.
Deglutisce il groppo di lacrime, il dito ancora ben chiuso nel pugno, troppo orgogliosa per alzarlo e premere il pulsante del campanello, posto proprio sotto il nome Leonardo Mengacci.
Non sa perché ha scelto proprio quel posto, Rebecca, dopo avergli detto di non volerlo rivedere né sentire, dopo essere fuggita per la seconda volta dal suo bisogno di lui. Sa solo di voler essere proprio lì, davanti quella porta. Non importa se rimarrà chiusa per sempre, se lui non la aprirà mai per lei, se dietro di essa lui non è da solo, ma con Federica. Ha sentito il bisogno di arrivare a quel punto, dove a volte ha anche dormito, quando era ancora piccola e Stefano la portava di nascosto ai genitori alle serate di Leo. Ha sentito il bisogno di percorrere quel filo su cui cammina con una gamba sola, sospeso a troppo metri da suolo.
E ormai che è lì, decide di muoverlo, quel dito, e di poggiarlo sul pulsante rettangolare, un istante solo, veloce, come se subito si fosse già pentita di averlo fatto. Vorrebbe girarsi e andarsene, ma sente dei passi, al di là della porta e forse non farebbe in tempo a non farsi vedere o forse questa è solo la scusa che si racconta per non giustificare il suo essere lì, con le zeppe ancorate a uno zerbino peloso rosso scuro.
Gli occhi di Leonardo si sgranano, vedendola, perché è l'ultima persona che avrebbe mai pensato di trovarsi davanti quella sera, in quel momento. Sono le tre del mattino e gli sembra quasi di poter vedere le lacrime che tenta di nascondere, sotto lo strato doppio di mascara e le parole che è sicuro non gli dirà.
Non risponde alla sua muta domanda, solo si fa da parte e la fa entrare, spostandosi in cucina e preparando un tè ai mirtilli, il suo preferito. Ne tiene una scatola nella credenza da quando è andato a vivere da solo, nell’eventualità che lei ancora varchi quella soglia e si fermi per due chiacchiere, un film, una canzone da ascoltare dal vecchio giradischi.
Lei sembra più piccola e minuta di quanto lo sia di solito, stretta in una felpa enorme, probabilmente di Stefano, raccattata chissà dove per ripararsi dal freddo; si toglie le scarpe che le stanno uccidendo i piedi, si siede sul divano su cui cinque anni prima ricorda sin troppo bene di aver dormito accanto a lui, porta le gambe al petto.
Leonardo si siede accanto a lei, nell’attesa che l’acqua bolla, e la copre con la coperta piena di peli di gatto in fondo al divano. Non sa cosa dire, se dovrebbe parlare, anche solo per chiedere quanto zucchero vuole nel tè. In realtà se lo ricorda, tre cucchiaini e una spruzzatina di limone.
“Non volevo tornare a casa.”
Inaspettatamente è lei la prima a parlare, a nascondersi dietro scuse che non interessano a nessuno dei due, consci del solo bisogno di vedersi. Litigare con Stefano  è stata solo la scusa perfetta.
“Puoi stare qui.”
Rebecca annuisce e chiude gli occhi, appoggiando la testa alla spalla di lui con uno sbuffo.
“Lo so.”
Ha sempre saputo che lui la avrebbe accolta, fatta addormentare, abbracciata. Come ha fatto per anni, quando non era altro che la piccola sorellina di Stefano, la pel di carota quattr’occhi che lui si divertiva a istruire musicalmente. Per questo è andata lì, perché sa che potrebbe capirla solo lui che la ascolta da quando ha tredici anni, la ascolta veramente, con le parole sempre pronte a colmare i suoi vuoti, a occupare gli spazi dentro di lei.
Vorrebbe dirgli che le dispiace per averlo ignorato, che vorrebbe solo baciarlo, tornare indietro nel tempo e accettare quell’invito anni prima; vorrebbe che non ci fosse Federica tra loro, che Stefano potesse capirla, che Martina si aprisse con lei e che Raffaele tornasse dall’Inghilterra, la abbracciasse e le dicesse che andrà tutto bene.
Poi però lui la bacia di nuovo, nell’attimo esatto in cui lei lo guarda negli occhi per poterlo ringraziare, per dire qualcosa, una cosa qualsiasi per giustificare il suo essere lì, quasi in lacrime, dove aveva giurato non sarebbe più tornata.
E quella notte non ha il coraggio di allontanarsi, uscire di casa e montare di nuovo in motorino, per dormire chissà dove. Non ha la forza di rifiutare quel bacio, quella mano tesa verso di lei, quel cemento che può coprire la voragine nel suo stomaco e nella sua testa. Lo trasforma quindi in anestetico, il placebo della mente, malattia e allo stesso tempo cura. E vorrebbe che quel bacio fosse un inizio, una promessa, che fossero sentimenti ancora troppo acerbi per poter essere espressi ad alta voce, o sussurrati all’orecchio, e allora si stringe al suo collo e al suo corpo, senza più distanze tra loro, niente che li tenga lontani più dei pochi centimetri che servono loro per respirare e spogliarsi dei vestiti.
Calze che si strappano, ossa che si scontrano, baci che divorano, occhi aperti sull’altro, nella certezza che siano proprio i loro respiri a confondersi e i loro ricci a intrecciarsi, unghie che incidono pelli.
Quasi impacciati, troppo affamati per godersi ogni istante, smaniosi di arrivare ovunque, insieme, fino alla fine, tra le coperte di un letto che dovrebbe ospitare un’altra donna, tra i sospiri che li mantengono vivi, tra le lacrime che vorrebbero versare sulle guance dell’altro, felici e colpevoli e insieme, fino alla fine.
Marchiati fino in fondo, a fuoco sulla pelle, nei segni dei denti e delle mani, lì dove la pelle è arrossata dai baci e le labbra tumide e gli occhi lucidi di piacere e felicità e rimpianto.
Rebecca lo stringe, Leonardo si muove su di lei, non allontana il suo sguardo dai suoi occhi, compensa con le mani, le tocca i capelli, quel rosso che ama sfumato nei ricci ribelli, sempre più disordinati. Pezzi di entrambi dispersi sul letto, tra di loro, riflessi negli occhi, nasi, denti, mani, in una Guernica emozionale che li spezza e ricompone insieme, l’uno sull’altro e l’uno nell’altro, come un puzzle sbagliato che si incastra alla perfezione.
Le bacia le labbra, il collo, le spalle, una spinta, ancora una e poi un altro bacio e poi i colori che esplodono insieme, come l’arcobaleno di quel giorno nella sala da tè, la sintesi del bianco quando chiude gli occhi e la bacia ancora, in una pace infine trovata, ma impossibile da afferrare.
Le si sdraia accanto affannato e Rebecca prova a ritrarsi, ancora scossa, con le ciglia umide d’emozione.
C’è il lembo di pelle del polso, lo stesso che già aveva sfiorato, ma che gli era sfuggito tra le dita che ora giace accanto alla sua mano, vicino ai suoi boccoli sparsi sulle lenzuola bianche in un contrasto fiabesco che lo incanta. Respira pesante accanto a lui, stesa sulla pancia a occhi chiusi, in una veglia pigra. Vorrebbe afferrarlo quel polso, prenderlo tra due dita e baciarlo, sospingere quel corpo verso di sé e abbracciarla di nuovo, come poco prima, ma senza la ricerca spasmodica di nudità, come se finalmente potessero abbandonarsi al silenzio, regolare i respiri l'uno sull'altro, senza vuoti da riempire o baci da rubare; nessun senso di colpa a schiacciarli, nessun altro a cui tenere conto.
La alza, la mano, Leonardo. Striscia sul letto, lenta, fende l'aria con docilità e alla fine la sfiora e la porta vicino a sé, la mano e poi Rebecca, entrambi ancora in silenzio. Lei trema, spaventata dal rumore del suo cuore e del futuro che incombe, incapace di rilassarsi davvero, neanche tra le sue braccia, dove da sempre avrebbe voluto abitare.
Poi lui in uno sbuffo sorride tra i suoi capelli, in un gesto così intimo e inopportuno che anche lei vorrebbe ridere, se non fosse troppo impegnata a contenere l’emozione di essere lì. Però in quel suono ovattato, in quello spiffero d’aria sulla nuca, vede le sue paure dissolversi e addormentarsi con loro.
Ancora per mano.

○○○

Buongiorno da Dj Stez, anche oggi in diretta da Radio Cacofonia!
Spero abbiate passato una buona serata o almeno migliore della mia che si è risolta con liti e motorini che non sono partiti all’uscita del Branca… Per fortuna ci hanno dato un passaggio, ma ora sono appiedato e non credo di esserlo più stato da quando ho sedici anni!
Perciò stamattina il viaggio fino alla radio l’ho fatto in metro e come se non bastasse la mia sfiga, sono dovuta scendere tre fermate prima perché un tizio si era buttato sotto un vagone.
E mentre camminavo per quella mezz’ora, a passo svelto per non arrivare in ritardo, per le vie trafficate di Roma, mi sono chiesto cosa possa spingere qualcuno a saltare. Forse sono solo stato fortunato nella vita, sempre circondato da chi i vuoti che mi porto dietro da quando sono ragazzo trovava la forza di colmarli, di fare un passo verso di me, a mano tesa, e tirarmi fuori da lì… Forse è una cosa che noi fortunati ragazzi medi non potremmo mai capire, che non vivremo mai sulla nostra pelle.
Vorrei poter far qualcosa a volte per ciò che invece non posso controllare; far sì che chi ne abbia bisogno si possa nascondere nei miei vuoti, piuttosto che rimanere da soli in quell’anfratto che si sono costruiti con le loro mani e da cui non riescono a riemergere.
Forse un giorno qualcuno farà questo per voi e sarete pronti a lasciarvi aiutare. Fino ad allora, provate ad aspettare, a rinchiudere le paure da qualche parte dove non potranno darvi fastidio.
A volte basta trovare un motivo.

#Dentro i miei vuoti

 

Note di una ritardataria affetta da horror vacui

Buon mercoledì, gente!
Allora, mi scuso terribilmente per il ritardo, come prima cosa, ma è un periodo un po' così a livello personale e questa storia non è sempre facile da portare avanti.
Intanto voglio ringraziare chi ha aspettato con pazienza ed è ancora qui a leggere i vaneggiamenti di questi quattro piccoli idioti - a cui probabilmente si stanno per aggiungere altri, devo ben capire - che io amo veramente tanto, ma a volte mi creano problemi mentali non indifferenti.
Mi dispiace se questa storia può risultare lenta, ma purtroppo non ci saranno grandi scossoni, perché l'ho pensata così. Stefano e Martina si avvicinano in modo lento e almeno per ora solamente come amici, nessuno dei due ha interessi altri a tal proposito. Però questo non li rende meno amorevoli ♥
Rebecca e Leonardo come avete potuto vedere invece bruciano qualche tappa - tra cui quella che sta sotto la voce "lasciare Federica" - ma anche loro voglio creare una specie di contrasto con l'esasperazione a cui portano quegli altri due.
Non sono convinta il capitolo mi piaccia, sicuramente mi piace verso la fine, prima ho qualche dubbio a riguardo. Spero non lo troviate noioso o altro e spero di aggiornare presto con il prossimo, ma comunque ho già scritto qualcosina quindi i tempi dovrebbero essere più brevi. 
Fedra, la nuvola rosa spacciatrice amorosa che io amo alla follia e che tornerà per forza anche qui, appare anche in questa oneshot "Respiravamo forte, come se stessimo morendo"
Al prossimo capitolo, sperando che ancora vorrete seguirmi in questa triste avventura,
Elle

*Il titolo del capitolo è anche il titolo di un album dei Subsonica.
*DeadMau5 è lo pseudonimo di Joel Zimmerman musicista di Electro/Progressive house
*Tarantula è una canzone dei Pendulum (Qui)
*I Justice sono un gruppo di musica elettronica/dance rock francese.

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Capitolo 9
*** 8. Tatuaggi monocromi sottopelle. ***


8. Tatuaggi monocromi sottopelle.

sno

A chi colora le mie
cicatrici
di tramonti sul lago.

Ho sempre amato i tatuaggi, sin da quando a dieci anni non vidi una ragazza, in un negozio, con un intreccio di fiori colorati su tutto il braccio, dalla spalla al polso. Ricordo mia madre scandalizzata, che si chiedeva come si potesse fare una cosa del genere, sapendo che rimarrà per tutta la vita, anche quando avrai novant’anni e la pelle cadente; Giorgia invece la guardava affascinata anche lei, forse più per il significato di ribellione che aveva ai suoi occhi un tatuaggio, che per la valenza estetica dello stesso. Ci mise meno di due anni a farsene uno anche lei.
Non ho mai scoperto come convinse il tatuatore che fosse maggiorenne, dato che aveva solo quattordici anni e non ne dimostrava parecchi di più. E ricordo di aver ammirato quelle due lettere tatuate all’altezza dell’osso sacro, sulla schiena, per ore, costringendola a stare ferma con la maglietta alzata abbastanza perché non coprisse l’inchiostro.
C’eravamo io e lei, in quello schizzo di china preciso e senza sbavature, le nostre iniziali intrecciate, in nero, addosso a lei per sempre. Continuava a dire che era la sua cicatrice, il suo monito a non lasciarmi andare mai, così come non si dovrebbe lasciare il manubrio di una bicicletta se non si è capaci a tenerla in piedi solo pedalando. Mi portò a farne uno appena compii diciotto anni e io sapevo già da tempo quale sarebbe stato il primo disegno che avrei portato per sempre addosso: un piccolo boccino d'oro, la storia di come lei e Giorgia sognassero di afferrarlo, volando sui campi di Hogwarts, quando leggevano quei libri che le avevano fatte innamorare.
La notte in cui Giorgia morì era troppo buia perché io potessi riconoscerla, lontana com’ero dal suo corpo. Non riuscivo a distinguerne le fattezze, i capelli, niente. Non ricordo altro, però, nel silenzio che aveva seguito il rumore sordo e terrificante della sua caduta né del resto di quella nottata. Non ricordo altro, solo la M e la G, intrecciate tra loro, poco più che una macchia sulla sua schiena.
Il suo tatuaggio, la mia cicatrice.

○ ○ ○

A Trastevere il silenzio non è reale, solo la proiezione della mente di chi si chiude tra le mura colorate di una stanza non propria. Martina lo ha riempito di musica soffusa, sputata fuori dal vecchio giradischi di Rebecca, nella stanza di cui ha dormito dopo aver visto l’ennesimo film seduta su un divano, sempre troppo lontana da qualsiasi contatto fisico con Stefano.
Si è stretta tutta la notte contro il muro, in quel letto a una piazza e mezzo dalle lenzuola gialle, nella speranza di chiudere gli occhi e concentrarsi finalmente sul vociare indistinto proveniente dai vicoli ancora illuminati e abitati di ragazzi ubriachi e condomini assonnati. Ha mandato un messaggio a Rebecca due ore dopo aver visto scorrere i titoli di coda di Eastern Promises, preoccupata, ma consapevole di dove potrebbe essere a quell’ora del mattino. Vorrebbe poterla capire, saperla ascoltare, vorrebbe cancellare dai suoi occhi la stanchezza che riconosce simile a quella di Giorgia, ma rimane come paralizzata, senza parole di conforto, senza la capacità motoria di abbracciarla e sollevarle l’umore.
Stefano è rimasto sveglio tutta la notte, davanti alla televisione; lo ha sentito parlare al telefono con qualcuno, pigiare frenetico con le dita sul touch screen del suo cellulare ultima generazione, camminare avanti e indietro tra la sua porta chiusa e il salotto, come se anche lui cercasse da lei qualcosa, senza avere il coraggio di chiederla. Magari ora è tardi per andare da lui, tra poche ore dovrà essere in radio, lei a lavoro e il vociare fuori dalla finestra chiusa si è fatto più intenso e rassicurante, segno della città che si sveglia e dei negozi che aprono. 
Qualcuno urla e allora lei si sente in dovere di alzarsi, di scambiare qualche parola con Stefano, di comportarsi come un essere umano, per una volta nella vita, almeno con lui che prova ad avvicinarsi in ogni modo, ma continua a scontrarsi con il suo silenzio.
Lo trova fuori dalla porta della stanza di Rebecca, appoggiato al muro e seduto per terra, lo sguardo stanco perso nel vuoto e il cellulare ancora in mano. Si siede accanto a lui e rimane in silenzio ancora un po’, cullata dal suo respiro e dal disco che ancora gira nella stanza. 
“È da Leonardo.” 
Martina annuisce, da una parte più tranquilla, dall’altra senza sapere cosa pensare. Non risponde però con altro che non sia un sospiro di sollievo, perché forse avrà fatto qualcosa di cui si pentirà tra poche ore, ma almeno non è tornata a cercare la strana ragazza dai capelli rosa.
“Quando abbiamo deciso di rimanere qua, ci siamo promessi che non saremmo stati dei surrogati dei nostri genitori. Avremmo continuato a vivere insieme per comodità, ma avremmo avuto il massimo della libertà, come se fossimo stati da soli…” 
La voce di Stefano rimane bassa, come se nella stanza di Rebecca ci fosse lei ancora addormentata, pronta a uscire e arrabbiarsi per il sonno perduto a causa delle loro chiacchiere. Sussurra, le accarezza l’udito con semplicità, come se stesse parlando da solo e non con lei che invece lo ascolta con attenzione, dimentica del silenzio che fino a poco prima sembrava assuefarla. 
“Non voglio che ci rimanga sotto. Non sono un santo, ho fatto di peggio che scoparmi una nei bagni o fumarmi una canna fuori dal Branca, ma ho visto che fa quella roba. Fedra c’è quasi morta e probabilmente ci morirà e io me la ricordo ancora quando aveva tutti i denti e delle tette da paura.”
Martina sente una vena quasi di fastidio o dispiacere nella sua voce, qualcosa che riconosce come affetto, magari dimenticato o forse nascosto, perché pensare a un mucchietto d’ossa ormai mangiate dall’eroina non dev’essere piacevole. 
“Stavate insieme?”
Si ritrova a chiederlo senza pensare che potrebbe essere indiscreta, senza nascondere la propria curiosità, senza trattenere il fiato alla risposta. Una domanda come un’altra, come se anche lei stesse cercando quel punto di incontro che li porti finalmente a sedersi vicini sul divano quando guardano un film.
“Siamo usciti insieme un paio di mesi,” sospira e rimane zitto qualche secondo di troppo, riordinando pensieri lontani. “Era divertente, una forza della natura. Quando era lucida, non faceva altro che ridere e fare cose folli, non mi dava il tempo di pensare a niente. Era quello di cui avevo bisogno in quel periodo.”
Sorride e pensa a quella volta in cui lo ha convinto a farsi il bagno al mare a inizio dicembre o quando lo ha spinto a prendere il primo treno che partiva da Termini, senza neanche preoccuparsi di dove sarebbero finiti. 
Si erano ritrovati a Bologna senza sapere cosa fare né dove dormire, perdendosi per le vie del centro storico e rubando una bicicletta per potersi muovere in tranquillità, sotto un po’ di pioggia impertinente, con il sorriso di Fedra stampato ovunque.
Martina lo ascolta parlare come sempre senza interromperlo, con gli occhi fissi sul muro davanti a loro e le gambe raccolte al petto. La sua voce è calda, un po’ roca per l’assenza di sonno, ma è confortante come una canzone poco nota ascoltata per caso. Forse perché è abituata a sentire la sua esse vagamente sibilante ogni venticinque mattina in radio, perché anche senza volerlo, senza avere l’intenzione di associarla a qualcosa di piacevole, già da prima di quel film nel salotto di casa sua o delle lacrime in cucina era diventata una presenza sicura. Una di quelle certezze che Martina sente scivolare via dalle dita da mesi, ma che a volte sente di poter afferrare tra le chiacchiere di Stefano.
“Non so cosa le sia successo, ma Rebecca non è così. È più forte di così.”
Martina annuisce, incapace di aggiungere altre parole o confortarlo. Non è brava, lei, a riempire i silenzi come quello. C’è un’intimità che la inibisce, come un doppio filo legato stretto ai loro polsi, come se si stessero incidendo a vicenda i propri nomi addosso.
Il telefono vibra sulle gambe di Stefano, proprio mentre Martina si appresta a dire qualcosa, per fargli capire che non è in grado di confortarlo, ma vorrebbe farlo. Lui si alza per rispondere e si allontana con passi leggeri, mentre parla sottovoce e lei non capisce con chi, ma sembra quasi che stiano dicendo qualcosa di divertente, perché lui soffoca una risata in uno sbadiglio.
Si sente inadeguata, per un attimo solo, perché lei non è riuscita a farlo ridere o a dire niente. Lei è rimasta in silenzio ancora una volta, allontanandosi di qualche altro immaginario centimetro su quel divano che li separa ancora.

L’impalcatura davanti ai suoi occhi copre la facciata di un vecchio edificio fatiscente di San Lorenzo, vicino alla piazzetta del paninaro Marino, il suo rifornitore notturno di carboidrati di fiducia. Stefano non è mai stato da quelle parti la mattina così presto, se non quando ha accompagnato Rebecca due anni prima a informarsi per la scuola di fotografia, per poi arrendersi all’evidenza che non avrebbero potuto pagare la retta neanche se avesse suonato al Branca tutti i giorni per sei mesi.
Aveva dovuto sopportare il malumore di chi si vede sgretolare il futuro davanti agli occhi, senza poter consolare a dovere la sorella, non sapendo cosa si provasse esattamente: lui non è un archeologo di fama mondiale, ma ha reinventato se stesso, creando sogni nuovi e sempre diversi da raggiungere e di cui appassionarsi, fino a quando non era approdato in radio e poi dietro la consolle. 
Alla fine, Rebecca aveva deciso di tornare ai suoi studi, di dare gli ultimi esami e laurearsi in filosofia, ma di non abbandonare mai la propria passione. A testimonianza di ciò, si era tatuata una macchina fotografica sul polso, il simbolo di qualcosa che per lei era una prosecuzione di sé, oltre che una seconda vista.
In quel momento vorrebbe saper fotografare anche lui, per dipingere sul rullino i riflessi del sole da poco sorto che si scontrano sulle superfici cadenti del palazzo che ha davanti e sul metallo dell’impalcatura su cui sta cercando il coraggio di arrampicarsi.
La telefonata che ha ricevuto è stata senz’altro tra le più strane della sua vita: dall’altro capo del telefono aveva sbiascicato una voce palesemente ubriaca, un po’ acuta e familiare: Stefano l’ha riconosciuta solo perché abituato a sentirla con quel tono cantilenante e pedante, quasi come quello di una bambina capricciosa. Fedra lo chiamava sempre quando era in quelle condizioni, abbastanza lucida da ricordare a memoria il suo numero, ma non così sobria da non combinare qualche disastro.
Hanno smesso di frequentarsi da mesi, si vedono poco e parlano ancora meno, ma quando lei ha qualche problema, la prima persona che chiama è lui. Non è opportunismo, solo non ha nessun altro di cui potersi fidare. 
L’ultima volta che l’ha chiamato, Stefano è dovuto farsi un’ora di macchina per recuperarla a una festa in una villa isolata fuori Roma, fatta come una pigna. Ha avuto veramente paura che morisse, sdraiata sul sedile posteriore della sua macchina e che quello che le aveva fatto vomitare non era stato abbastanza. Aveva ancora gli occhi rigirati ed era scossa ogni tanto da convulsioni e tremori innaturali. Era la prima volta che la vedeva in overdose, non solo lei, non aveva mai visto nessuno in quelle condizione: è stato impressionante. È stato quello il momento in cui ha smesso di comprare pasticche da lei, perché a lui piace avere tutti i denti e sopravvivere alle serate senza dover finire in ospedale per una lavanda gastrica e tre giorni di osservazione. 
Non è un santo neanche lui; vorrebbe raccontarlo a Martina, una volta o l’altra, magari davanti a una birra e non sotto il frastuono della dubstep in discoteca né una di quelle notti in cui lei non parlerà neanche se costretta. Vorrebbe raccontarle che non è solo la persona che ama il cinema coreano e parla alla radio, ma è anche un archeologo che ha rinunciato a scavare, ma ha cominciato a ballare e lavorare in discoteca, dove ha conosciuto altri piacere, lontani da quelli dei libri di Zanker. Forse un giorno lei sarà pronta ad ascoltare e a parlare davvero.
Avrebbe voluto rimanere con lei, magari sedersi al tavolo della cucina e fare colazione, senza preoccuparsi di rimanere in silenzio, di lasciarsi inghiottire dal rumore persistente del suo tamburellare sul legno o del suo ritmico battere del piede sul pavimento. Forse è per questo che le ha chiesto di accompagnarlo, perché c’è una strana pace che avvolge qualsiasi cosa, quando la osserva, lei che di pace sembra non conoscerne neanche la pallida imitazione. 
“Stez, se la tizia dai capelli rosa sta lassù, forse devi salire. Non penso che aspettare che si butti sia una buona idea.”
Alla fine lei ha accettato, senza neanche chiedergli cosa dovesse fare a San Lorenzo alle cinque e mezzo del mattino; forse non le interessava, forse non aveva voglia di tornare a chiudersi nel suo mondo fatto di note stonate e ticchettii di lancette lente; forse, in fondo, anche lei ha ancora voglia di passare del tempo con lui, solo a sentirlo parlare o a guardarlo salvare altre donzelle in difficoltà, come se quello per lui ormai fosse un lavoro.
“Non mettermi fretta, Lisboni, non sei tu che devi arrampicarti fino al quarto piano.” 
Non sa perché la chiama per cognome né perché gli esca così naturale farlo. È un modo scherzoso di fare, qualcosa che denota una certa intimità, una presa in giro sottile e amichevole; forse ha esagerato, ma Martina fa una smorfia e si stringe nel giubbotto di pelle, sorridendo appena.
“Io non soffro di vertigini, Mengacci. Salirei io, ma non credo sarei in grado di farla scendere con me.”
Anche Martina ha riso, quando in macchina Stefano le ha spiegato quello che era successo a Fedra: si era arrampicata su quell’impalcatura e poi aveva continuato a bere; ora non riesce più a scendere, perché impedita nei movimenti dal torpore alcolico e perché lei di vertigini ne ha sempre un po’ sofferto. Gli è piaciuto, far ridere Martina. È stato inaspettato e spontaneo, una reazione troppo umana, una di quelle che non si sarebbe aspettato da lei che dosa con ferreo autocontrollo ogni reazione. Comincia a pensare che in realtà non dosa niente, che magari le è difficile provare qualcosa, una cosa qualsiasi; vorrebbe sapere perché, una volta o l’altra, ma non lo ha chiesto, neanche in quel momento in cui lei sembrava una ragazza come un’altra, senza fantasmi nelle iridi. Dovesse aspettare tutta la vita, prima o poi sarà lei a parlare, senza sforzi o costrizioni, solo perché vorrà.
“Va bene, allora. Prima le signore!”
Martina sbuffa, ma si fa avanti e mette i piedi sulla prima asta di ferro orizzontale, stupendosi di come nell’aria ovattata del mattino gli sembri naturale questa complicità scherzosa e questi sorrisi a mezza bocca. C’è stata solo un’altra volta, quando lei era ubriaca e aveva voglia di parlare e ridere con lui; ma stavolta, seppur simile, la sensazione è diversa, più reale e sincera. Non è falsata dalla vodka né da brutti ricordi. Vuole solo stare lì, con un piede a mezz’aria e l’altro che fa perno sul primo piano dell’impalcatura, a ridacchiare della difficoltà di Stefano nell’arrampicarsi.
“Ma non sei mai salito su un albero da ragazzino?” Si gira appena a guardarlo e lo prende in giro, mentre lui arranca e la raggiunge. “Ho capito che sei vecchio e magari non te lo ricordi, ma dovrebbe essere come andare in bicicletta.” 
È strano sentirla scherzare così, ma gli piace. Ha un tono di voce leggero che non le ha mai sentito addosso e una luce particolare che la illumina, diversa anche da quella dell’alba che va spegnendosi. Sembra anche più bella della ragazzina semplice e un po’ trasandata che lega sempre i capelli in qualche strana treccia e Stefano rimane a guardarla qualche istante di troppo, prima di continuare a salire.
Quando arrivano al quarto piano, Fedra la vedono subito. È accucciata in un angolo e dorme, coperta malamente dal suo chiodo di pelle pieno di borchie metalliche e spille colorate. La nuvola di capelli rosa le circonda il volto e copre un occhio chiuso, le lunghe gambe ossute sono piegate davanti a lei e le improponibili zeppe sono puntate sul pavimento. A Martina fa tenerezza, a vederla così. Sembra una bambina denutrita che si è impiastricciata la faccia con i trucchi troppo forti della mamma, ma che li ha lasciati colare fino alle guance incavate.
Vorrebbe quasi scuoterla e dirle di combattere, di trovare qualcosa per cui farlo, qualsiasi cosa. Di non lasciarsi andare come ha fatto sua sorella, di chiudere quella guerra senza caderne vittima, di tornare a casa e lasciarsi salvare da qualcuno. Perché anche se non se ne accorge, qualcuno che vorrebbe salvarla sicuramente c’è, magari anche il ragazzo con cui litigava in discoteca la notte prima, magari Rebecca o forse Stefano, che nonostante tutto accorre ogni volta a tirarla fuori dalla merda in cui si lascia affogare.
Non le dirà niente, quando aprirà gli occhi, già lo sa. Lascerà che le cose facciano il loro corso. Non è come Stefano, non si interesserà a quel manichino senza carne né lucidità, non diventerà sua amica, perché probabilmente Fedra non supererà l’estate. Con o senza il suo aiuto, non si salverà.
“Dorme,” dice con voce piatta. Stefano accanto a lei annuisce e rimane a guardarla per qualche attimo, con un sorriso tra le guance. È la stessa tenerezza che ha provato anche lei, dipinta sul suo volto. Le piace come ammorbidisca i suoi lineamenti marcati di una dolcezza quasi paterna, è un’espressione che lo fa sembrare più giovane dei suoi trent’anni, ma allo stesso tempo qualcuno su cui poter sempre fare affidamento, quello che potrebbe chiamare a notte fonda e si lancerebbe a centoventi sulla sua Polo solo per condividere un po’ di silenzio insieme.
Martina si siede sul bordo del piano che scricchiola sotto il peso di tutti e tre e sotto i loro movimenti un po’ impacciati. Le gambe penzolano nel vuoto e lei guarda davanti a sé i palazzi che coprono la vista del sole che sorge al di là della giungla urbana che li circonda. Intorno non c’è altro che città e cemento, murales offensivi o decorazioni colorate: i tatuaggi di un quartiere popolare, le incisioni sulla pelle di chi vive nelle case per studenti e si arrangia come può fino alla fine del mese, solo per campare ancora un altro po’ nell’appartamento con vista sul cimitero.
Si massaggia le ossa del bacino, lì dove nasconde il tatuaggio che nessuno ha mai visto, neanche Giorgia perché l’ha fatto dopo la sua morte. Il giorno del suo funerale, dopo essere uscita da quello stesso Verano che ora si staglia a pochi metri da lei, aveva chiamato un suo amico tatuatore ed aveva corso come una pazza, in motorino, con gli occhi appannati dalle lacrime fino a Spinaceto. Un’ora dopo quell’osso bruciava ancora ed era ricoperto da uno strato di pellicola trasparente imbevuta di vaselina: sotto, il disegno senza colori di un fiocco di neve arrossava la pelle tra i suoi contorni precisi.
Una cicatrice, un ricordo, un simbolo.
“Hai tatuaggi?” Glielo chiede a bassa voce, a Stefano, dopo qualche istante che si è seduto accanto a lei, ancora guardingo per l’altezza che non lo lascia tranquillo.
Non è come quei finti alternativi tutti uguali che alle serate il lunedì sera sfoggiano tatuaggi colorati e senza senso in ogni dove. Lui non mostra niente, ma a lei sembra il tipo che possa tenerli nascosti solo per lui e chi avrà la fortuna di scoprirli.
“Sì,” risponde dopo la sorpresa iniziale. “Ne ho uno sul fianco.”
Martina annuisce e non parla più per un po’, assorta in pensieri da cui Stefano si sente escluso e di cui non si sente ancora in grado di chiedere. 
“Io ne ho due,” sussurra dopo un po’. “Uno lo avrai visto, è il boccino. L’altro è un fiocco di neve.”
Vorrebbe spiegarglielo, quel fiocco di neve, come quelli che amava guardare con Giorgia scendere dalla finestra quando andavano a trovare i nonni in montagna, quelli che scorgeva sempre negli occhi della sorella, azzurro ghiaccio, spaventosi e freddi; quelli a cui Giorgia assomigliava, quando restava in silenzio per ore, senza lasciar avvicinare nessuno che potesse riscaldare abbastanza il suo dolore da scioglierlo un po’. Vorrebbe raccontargli di come sia il segno tangibile di un corpo che non c’è più, ma che le era sempre stato accanto. Quello con cui aveva vissuto quasi in simbiosi per ventitré anni, come se fosse il suo gemello siamese che alla fine è stato strappato via: quel tatuaggio è la cicatrice, la striscia di pelle più chiara e opaca dell’assenza di Giorgia, di quel fiocco di neve silenzioso e apparentemente gelido che prima dell’arrivo del nuovo inverno si era sciolto. Vorrebbe davvero raccontargli di lei.
“Non è colorato,” aggiunge e basta, come se questo spiegasse quanto possa essere triste, un banale segno monocromo sulla pelle, una primavera che non torna. “A volte vorrei che lo fosse.”
Stefano la guarda negli occhi e a lei sembra che abbia capito quello che vorrebbe dire, ma non riesce. Rimane così qualche istante, poi si alza un lembo della maglietta e gli mostra il fianco e quella rosa nera che non ha visto nessuno al di fuori di Raffaele e Rebecca. Un piccolo fiore, scuro e minaccioso, bellissimo.
“Anche io vorrei fosse colorato, magari di rosso. Ma sarebbe una bugia.”
E Martina, mentre Stefano si aggiusta la maglietta e guarda il sole che finalmente si intravede tra i palazzoni diroccati, capisce che lui, nonostante tutto, potrebbe essere l’unica persona a capire davvero.

Il sospiro che accompagna il risveglio di Leonardo è tremante e di sollievo. Ancora nel dormiveglia ha sentito il peso piacevole che gli smorzava il respiro sul petto e aveva avvertito i capelli di Rebecca solleticargli il collo.
La paura che lei potesse essere fuggita o già sveglia e pronta ad andare via lo ha tenuto all’erta tutta la notte, in uno stato di sonno così leggero da non essere neanche sicuro di essersi addormentato davvero. Rebecca però è ancora lì, appoggiata a lui, e gli viene da ridere perché qualcosa di caldo sembra sciogliersi al centro della gola, come miele fuso quando si ha la tosse.
Sorride piano e la guarda tra gli spiragli lasciati dai suoi capelli disordinati che sembrano proteggerla dal mondo esterno. Le lascia un bacio leggero, attento a non svegliarla, per custodirla ancora accanto a sé, senza vederla fuggire.
Sente la tenerezza colpirlo al petto, aprire una ferita che sentirà pulsare ancora a lungo, fino a quando una cicatrice non lo coprirà, come un tatuaggio rosso sulla pelle chiara.
Vorrebbe rimanere così tutto il giorno, chiudere di nuovo gli occhi e lasciarsi cullare dalla sensazione calda di una paura che è quasi più grande di quella di restare solo, ma è anche più intensa, qualcosa che profuma di certezza e casa.
Rebecca si muove piano, in un passo senza fretta verso di lui, come se nel sonno lo avesse sentito allontanarsi e volesse raggiungerlo di nuovo. Leonardo sorride e con una mano intrappolata tra i suoi capelli vorrebbe spingerla verso le proprie labbra e baciarla ancora, piano, per tenerla tra le braccia, senza problemi o discorsi da affrontare senza sapere in che modo.
“Leo?”
Rebecca ha ancora la vista annebbiata, quando incrocia il suo sguardo: è bello anche così, di prima mattina, con gli occhi assonnati e la barba incolta sulle guance e vorrebbe dirglielo e baciarlo di nuovo, prima di mettere fine a quel sogno.
Lui la guarda e come un fulmine a ciel sereno, le passa per la testa il pensiero che quello stesso sguardo lo riserva ogni mattina a qualcun’altra, che su quel letto è lei l’intrusa e non Federica che probabilmente ha scelto le lenzuola e ha uno spazzolino in bagno e un cambio di biancheria nell’armadio, quello di fronte a lei, che ricordava in legno scuro e ora è stato pitturato di rosso.
“Buongiorno.”
La voce di Leonardo e la sua mano la raggiungono nello stesso momento, come se avessero intuito i suoi pensieri e la sua prossima mossa. Le sue dita si aggrappano al polso sottile di Rebecca, senza troppa forza né voglia di costrizione: la toccano con rispetto e le lasciano la possibilità di scegliere dove stare, se in quel letto ancora con lui, almeno un altro po’, oppure in casa a piangere e litigare con Stefano, per un motivo che neanche ricorda e che ora le sembra terribilmente stupido.
Si lascia avvolgere dalle sue braccia, Rebecca, e per un attimo solo si convince che non ci siano mondi estranei a loro al di fuori di quella stanza, lasciandosi andare contro il suo petto, senza pentirsi di un attimo di follia che gli porterà solo altri rimorsi.
“Devo andare…”
Lo dice piano, sfiorando appena la mano di lui stretta sul suo stomaco, con gli occhi chiusi, nella speranza che vivere possa sembrare più facile. Leonardo annuisce, sospira contro il suo orecchio, la sfiora ancora sulla pelle nuda, le bacia una spalla.
“Resta ancora.”
Scuote la testa, Rebecca, perché sa che più tempo si fermerà in quel sogno finalmente reale, più doloroso sarà tornare a casa, affrontare Stefano, dimenticare tutto. È quello che deve fare, dimenticare. Convincersi che sia stato tutto frutto della propria fantasia, smettere di credere alla fiaba del loro lieto fine, smettere di guardarlo con gli occhi innamorati di chi sa che il proprio amore non è richiesto.
“Non posso, lo sai.”
E il grumo di lacrime trattenute dalla notte prima sembra quasi soffocarla, in un’assenza di respiro che la uccide con lentezza esasperante, tra quelle lenzuola che l’hanno vista principessa, per una volta, e non l’amante rifiutata né la migliore amica senza parti da protagonista nella storia.
“C’è Federica e io…”
Leonardo posa le labbra sul suo collo, in silenzio, perché sa che ha ragione e di non poter pretendere niente, neanche un altro bacio, che tornerà dalla sua fidanzata e farà finta di dimenticare l’odore della sua pelle e il rosso in contrasto con le lenzuola bianche. La lascia andare piano, tenendole ancora le mani  tra le sue, mentre lei si allontana da lui, con gli occhi lucidi già di nostalgia e la pelle tatuata dalle sue labbra sul collo e sulle clavicole.
Si riveste in silenzio, macchiata di essere quella che fugge da un letto non suo la mattina dopo, in una passeggiata della vergogna che la porterà in luogo che non sarà mai bello come il rifugio contro il corpo di Leonardo, lontana da lui e da loro e dalla speranza remota che lui possa amarla anche solo la metà.
“Ci vediamo in giro…”
Lui annuisce e Rebecca sa che la sua stessa angoscia di perdersi tra altra gente e non sapersi ritrovare neanche amici è disegnata nei suoi occhi scuri, dove per una volta anche lei si è sentita grande e bella e giusta.
“Reb…”
Si gira sulla porta, nei suoi vestiti della sera prima e nel trucco colato, con la borsa tra le mani e i capelli che hanno perso il senso che lui è l’unico a trovare e gli mostra i solchi sulle guance di un addio che brucia forte.
“Ti voglio bene.”

Il ritorno a casa era stato elettrico e rumoroso, soffocato di chiacchiere e parole pronunciate veloci che lei faceva fatica a cogliere davvero, dai sedili posteriori dell'auto di Stefano, in cui si era relegata da sola. Fedra, davanti a lei, non aveva smesso di parlare un istante, di com'era salita su quel palazzo, di quanti soldi aveva alzato la sera prima, della nuova borsa che avrebbe potuto comprare. 
Ha una voce squillante, Fedra, intrisa di una spontaneità che Martina le invidia. Le sembra più viva di quanto non sia lei, nei suoi abiti troppo grandi e le ossa cadenti: il sorriso, per quanto giallo e rovinato dalla droga, è aperto e solare come ne ha visti pochi nella sua vita. Assomiglia a quello di Rebecca, a quello di ogni altra ragazza che ha ancora il coraggio di sorridere alla vita, nonostante tutto.
Martina aveva sentito una strana tenerezza scuoterla, all'idea di come potesse essere piacevole una ragazza come lei, quando ancora quel sorriso era sano. Le sarebbe piaciuto conoscerla prima, quando anche lei sarebbe stata in grado di tenere le redini di una conversazione come quella, di parlare di tutto e di niente, di ridere a un ricordo particolare o cantare a voce alta una canzone dei Mumford & Sons che passa alla radio. 
Stefano aveva cantato con Fedra, mentre guidava e si riparava dalla luce pigra del primo mattino; l'aria era fresca anche all'interno dell'abitacolo e Martina se ne era resa conto quando era rabbrividita al suono di quel sorriso che non era per lei. Era stato strano vederlo nelle vesti di un ragazzo normale, di qualcuno che aveva una storia da raccontare anche quando lei era girata dall'altra parte a far finta di non ascoltarlo. Le era improvvisamente sembrato di aver conosciuto solo la parte di Stefano che lui voleva che conoscesse, quella su cui lei avrebbe potuto contare quando sarebbe stata pronta. È un pensiero rassicurante, in qualche modo, un piccolo tarlo che le si insinua addosso per farle credere di poter parlare davvero con lui, anche solo per meritare di vederlo sorridere a lei come fa quando tutto il resto sembra dissolversi, senza lasciare cicatrici colorate sulla pelle.
Ma vorrebbe scoprire anche quelle di Stefano, Martina, riconoscerne le linee, le spirali e le sbavature di china, e raccontargli le sue, magari sdraiati sul lago fuori Roma, davanti a un arcobaleno e immaginare che il silenzio possa smettere di far paura, imparando a cercarsi nei propri.
Quando poche ore dopo, Rebecca ha suonato alla porta di casa sua, ha avuto modo di smettere di pensare al rosa che vedeva ovunque, riflesso nelle iridi all’infinito, come uno specchio magico. La ascolta parlare, riempire di parole tutto quel dolore che ha ingollato negli anni e rimane in silenzio, ancora una volta senza essere in grado di fare da supporto. Ma Rebecca non sembra preoccuparsi di nient’altro, sorseggia tè per ore, anche quello ormai freddo nella teiera bianca che le ha regalato proprio lei mesi prima, e parla, di Leonardo, di se stessa, e ancora di Leonardo e a volte piange, lasciando che il silenzio si riempia dei suoi piccoli tremiti.
Martina le rimane seduta vicino, prova anche ad abbracciarla, e pensa che in fondo non è così difficile farlo, che non si è scordata come si fa. La stringe un po’, proprio sulle spalle ancora scoperte dalla maglietta della sera prima, come se volesse imprimersi addosso la sensazione delle sue ossa, di avere finalmente qualcuno, dopo mesi, da poter tenere stretto, solo per pochi minuti, per fermare il tempo e non rimanere intrappolata in quell’istante da sola. È in quel momento che sente il bisogno di parlarle, di dirle qualcosa, di regalare anche a lei quella sensazione calda di conforto che sente in quel momento, con la sua testa sulla spalla.
“Andrà tutto bene, Bec…”
Non potrebbe dire niente di più banale, ma la sente trattenere il respiro, per qualche secondo, forse sorpresa anche lei di sentire la sua voce.
“Resta qua stanotte, chiamo io Stez. Ci vediamo un film, te lo lascio scegliere.”
Le sorride e aspetta che annuisca, prima di alzarsi e comporre il numero di Stefano, che a breve parlerà in radio, ma sa che a lei risponderà, anche solo perché troppo curioso di sapere cosa vuole dirgli.
“Ma allora hai un telefono!”
“Ciao anche a te…”
È ancora strano scherzare, per lei che trova difficile anche solo ridere; però non può farne a meno, alcune volte, perché le sembra il modo più naturale per avvicinarsi a lui e scoprirlo piano, senza drammi da sviscerare.
“Volevo dirti che Reby è da me… Dorme qui, le faccio addirittura scegliere il film da vedere.”
“Questo è masochismo, Mars!”
Sorride con le labbra appoggiate alla cornetta, per non farsi sentire, ma è sicura che lo sappia e che ne stia sorridendo anche lui.
“Sta bene?”
Il tono è preoccupato, all’improvviso, senza ilarità tra le sillabe né vene di sarcasmo.
“No,” dice piano, attenta a non spaventarlo troppo, “ma passerà.”
Lo immagina annuire, con quelle rughe di espressione intorno agli occhi chiari e l’ansia dipinta tra i lineamenti spigolosi.
“Mi ascolterai in radio?”
“Lo faccio sempre.”
Ed è vero, perché un’ora dopo Rebecca dorme davanti alla televisione muta che ancora manda le immagini di L’amore non va in vacanza e lei accende la radio; con aria pigra, quasi colpevole. Quando ascolta Stefano parlare, le sembra di spiare un mondo che non le appartiene, conoscerne gli angoli bui che lui le nasconde ancora. Si sente una ladra dell'intimità tangibile che esiste tra lui e quella cabina, quel microfono, quelle canzoni che sceglie sempre alla perfezione, quasi fossero messaggi per lei, per spingerla a mostrargli le sue cicatrici, perché tra tutti sarà lui l'unico a poterle trasformare in disegni colorati.
E nei momenti in cui la sua voce filtra attraverso le casse della sua vecchia radio, le piace pensare che sia così, che anche il fiocco di neve che nasconde agli occhi di tutti, ma che lui ha visto, possa cambiare colore e trasformarsi in un bocciolo sopravvissuto all’inverno.
Le arriva un messaggio, poco prima che la trasmissione inizi, mentre una vecchia canzone di Nick Cave abbatte il silenzio.

"Aspetterò la primavera.”

○ ○ ○

Buonasera, radioascoltatori! Come al solito la vita notturna mi prosciuga e io non dormo da più di ventiquattr’ore. Non so quanto ciò che dirò avrà un senso per voi, per me, per il mio vicino di casa che mi ha visto tornare a casa stamattina alle dieci dopo aver recuperato una vecchia amica dall’impalcatura di un palazzo a San Lorenzo. Cristo, se è alto il quarto piano!
Mentre ero lassù ho pensato che mi piacerebbe fare un altro tatuaggio, magari colorato e, non so, allegro. Qualcosa che rappresenti anche la parte di me che preferisco, quella che ama cazzeggiare, ballare e la musica elettronica sparata a palla in qualsiasi discoteca del mondo. A volte vorrei non essere anche lo Stez serio e silenzioso, ma solo quello a cui piace la gente, che si droga di gente e in mezzo al casino si esprime al massimo. Un’intricata rete di disegni e simboli che raccontino la mia storia, come quelli di Viggo Mortensen in quel film sulla mafia russa: qualcosa che racconti chi io sia.
In realtà mi piace essere anche l’altro Stefano. So che ci sono persone che possono contare su di me, in questo modo, persone come mia sorella, i miei amici, chi ha disegni senza colori tatuati addosso a ricordare un inverno troppo lungo.
Arriverà il giorno in cui anche loro avranno bisogno dell’altro Stefano e di quei colori che non a tutti riesco a mostrare. Per adesso posso aspettare.

#I Will Wait.


OPS SCUSATEMI.

Chiedo venia, venia-venissima, per il ritardo enorme e orrido con cui ho postato questo capitolo. Dire che mi sento una persona di cacca è riduttivo, perché avevo promesso che le attese non sarebbero mai state così lunghe. Purtroppo vari impegni personali, tra cui il temporaneo trasferimento in terra ispanica, e l'assoluta mancanza non tanto di ispirazione quanto proprio di capacità di mettere per iscritto più di due righe hanno fatto sì che scrivessi poco e a intervalli decisamente troppo lunghi.
Mi dispiace tantissimo e mi dispiace ancora di più non poter promettere più velocità nell'aggiornamento perché appunto con la testa sono abbastanza da un'altra parte e ora dovrò anche cominciare la tesi. Prometto senza dubbio che tenterò di scrivere e che aggiornerò ogni volta che ne avrò la possibilità e soprattutto vi giuro su qualsiasi cosa che questa storia avrà una sua conclusione dovessi metterci anni.
Comunque, parliamo del fatto che io amo follemente Stefano, ma proprio nel senso che ho creato il mio uomo ideale e questa cosa mi fa rosicare perché mi rendo conto che in realtà non esiste e io lo voglio XD Una ragazza su facebook mi ha postato questo video di cui ora cercherò assolutamente il film di provenienza perché LO VOGLIO, che niente, sono io lol QUI.
Rebecca e Leonardo, nate come comparse invece, hanno preso il sopravvento e anche parecchia parte della mia già scarsa sanità mentale, li ho odiati in modo estremo, ma alla fine la scena non mi è dispiaciuta. Voglio dire in generale solo due cose sul capitolo e cioè che Leonardo è un bel po' stronzo e lo rimarrà a lungo, che Stefano è mio e io lo amo, che Martina e Rebecca sono due cucciole <3 Non parliamo poi di Fedra - donna nella seconda foto nascosta, anche detta Amiamola Forever - che ormai è l'unica mia gioia. Ah, la scena di lei sull'impalcatura è ripresa da una storia vera capitata a una ragazza che usciva con un mio amico. COSE GENIALI.
Ringrazio QUESTA compilation, Paolo Nutini e i Mumford & Sons per essermi stati vicini nella stesura del capitolo :D grazie ad Aletta che si sorbisce le mie crisi di identità a riguardo e a tutte le splendide donne Fenicottero che aspettano con amore e allietano le mie giornate, Sist tra tutte <3
E niente, spero di tornare presto. Nel frattempo vi auguro un buon Natale, un buon Natale, un buon tutto.

Varie Citazioni random e senza senso.

- Eastern Promises, un film sulla mafia russa, citato anche alla fine da Stez, con Viggo Mortensen e Vincent Cassel. Molto bello, lo consiglio in lingua originale. E slashate quei due, ve prego!
- Non credo di aver mai detto il cognome di Martina finora, ma qui Stefano lo usa: è Lisboni. Riferimento alle sorelle Lisbon del film della Coppola, Il Giardino delle Vergini Suicide. 
- Fedra, come ho già detto, è un personaggio di una mia OS - forse in un futuro molto lontano long - che in realtà fa una piccola apparizione, ma che in realtà è il centro nevralgico della mia vita. AMATELA.
-  I tatuaggi di Stefano e Martina sono un richiamo a un'altra mia OS che come tutti penso abbiano capito io amo in modo totale, SNOW. Il fiocco di neve, oltre a essere riferito chiaramente a Giorgia, è anche l'essenza di Snow, mentre il fiore nero di Stez è la rappresentazione dello Spleen, quindi non solo di Martina, ma anche di Spleen, appunto, della OS. Come ho detto nel gruppo, Giorgia sarebbe stata l'unica in grado di far parlare Snow.
- Il Verano è il cimitero monumentale di Roma e a Spinaceto c'è la mia tatuatrice di fiducia :D
- Cito senza strani riferimenti, quindi penso sia comprensibile anche senza dirli, ma li dico comunque, nel pezzo tra Leonardo e Rebecca, una frase dei Beatles (Living is easy with eyes closed, Strawberry Fields Forever) e una frase del film L'amore non va in vacanza (Nei film c'è la protagonista e c'è la migliore amica. Tu, te lo dico io, sei la protagonista, ma per qualche ragione ti comporti da migliore amica), film che poi Rebecca farà vedere a Martina.
- La canzone di Nick Cave che passa prima dell'inizio della trasmissione di Stez è QUESTA. Amate quest'uomo con me!

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Capitolo 10
*** 9. Adesso che sai chi sono ***


Adesso che sai chi sono

a

A chi sa
chi sono.
A chi fa parte
di ciò che sono. 

 

Giorgia era l’unica persona a conoscermi davvero. Non mi piaceva avvicinarmi alle ragazzine di classe mia, se non in pochi e isolati casi, soprattutto a scuola, quando lei era impegnata con le sue amiche. Avevo cominciato a passare più tempo con lei e con le bambine della sua classe già alle elementari, a ricreazione e durante i pomeriggi a casa, quando invitava le amichette e giocavano alle Barbie. Io ho sempre preferito le micro machines e le tartarughe ninja, ma mi ero fatta comprare apposta una Skipper tutta per me, per poter partecipare a quei tè eleganti di cui protagoniste indiscusse erano le nostre bambole. Solo lei sapeva quanto odiassi tutto quello.
Anche crescendo, sono sempre rimasta più legata a lei che a chiunque altro e le uniche persone con cui passavo il mio tempo, oltre a Irene, erano le sue amiche del liceo e dell’università, i suoi amici maschi con cui mi divertivo a giocare a calcio al parco dietro casa, mentre lei mi fotografava e sorrideva quando segnavo. Nessuno di queste persone ha mai conosciuto Martina, quella che ogni notte si nascondeva per andare a dormire più tardi.
Non avevo mai pensato di essere in grado di fare amicizia da sola, senza la spalla di mia sorella e la sua approvazione silenziosa a darmi coraggio. Non avevo mai sentito il bisogno di farmi conoscere da qualcuno che non fosse lei.
È strano che ho dovuto perdere lei, per trovare altre persone su cui contare. Vorrei che anche Giorgia le conoscesse, che vedesse Stefano e parlasse con lui di film. Forse se li avessi conosciuti prima, lei avrebbe avuto dei motivi in più per combattere. Forse io da sola non ero abbastanza.
Lei però per me era sempre stata tutto.

○ ○ ○

Quando Martina apre la porta di casa, già immagina sia Stefano colui che sul pianerottolo suona come impazzito il campanello. Ha in mano un sacchetto bianco che emana profumo di cornetto caldo e un paio d’occhiali da sole vintage a coprire le occhiaie.
Lo lascia entrare in silenzio, con un sorriso stanco sul volto e i capelli scompigliati di chi si è appena alzato dal letto. Lui non ci fa caso e la segue in cucina in un gesto che suona alle orecchie di Martina come una piacevole quotidianità. Sono quattro giorni che Rebecca dorme a casa sua e non esce di casa e Stefano è preoccupato per lei e del disturbo che pensa stia arrecando a Martina, riservata e attenta a non lasciare che qualcuno invada i propri spazi.
Ma lei sembra essersi adattata bene alla presenza della sorella, come se la sua compagnia le illuminasse gli occhi quel tanto che basta per farla sorridere di più; e a Stefano piace vederla sorridere, perché le si forma la fossetta su una guancia sola e le lentiggini sul naso si moltiplicano in una spruzzata di colore sulla sua pelle chiara. Qualcosa che vorrebbe saper dipingere a occhi chiusi, ma che si limita a custodire tra qualche filo di memoria, per poterlo riprodurre una volta o l’altra.
“Rebecca ancora dorme.”
Sempre più spesso, ormai, è lei a parlare per prima, a cercare un punto di incontro che per lui è difficile trovare. Però lei ci riesce sempre, senza sforzi, come se sapesse quale canzone cantare per vederlo ballare. Ha scoperto che non parla con i genitori, anche se non ne conosce il motivo; che la casa dove abita ora era della nonna e che ha lasciato la facoltà di Lettere Antiche pochi mesi prima, poco dopo aver conosciuto Rebecca al corso di storia romana. È dello scorpione e cerca qualcuno con cui andare al concerto dei Radiohead, perché con Irene non parla quasi più.
“Lo immaginavo, è presto. Ti ho portato la colazione però.”
“Metto su il tè.”
Si allontana verso il fornello, con la teiera regalatale da Giorgia anni prima. Prende senza esitazione la bustina di infuso ai frutti di bosco, perché ormai sa qual è il preferito di Stefano, che beve sempre in silenzio, riscaldandosi le mani che ha sempre fredde, anche se fuori la temperatura è tiepida.
“Mi dispiace che stia ancora qui…”
Martina alza le spalle e non risponde, si muove ancora nella cucina, intorno a lui, come una trottola senza assi a tenerla in equilibrio. In realtà è contenta di non essere sola, di avere una scusa per vedere Stefano ogni giorno, con una busta di cornetti in mano e un sorriso sulle labbra che profuma di quotidianità.
“Mi fa compagnia. Però ti prego, se stasera non suoni al Branca salvami dalla tragedia delle commedie romantiche dopo cena.”
Stefano ride, conscio dei discutibili gusti cinematografici della sorella e addenta un cornetto, quello integrale al miele. Martina ha imparato a conoscere i suoi gusti, a sapere che preferisce la carbonara alle lasagne, che mangia la pizza con funghi e salsicce e morirebbe per un concerto di David Bowie.
"Lo scelgo io il film, però vi raggiungo dopo la diretta radio."
Stefano si stiracchia sulla sedia e la guarda davanti a lui, con i capelli legati in una treccia e l’aria stanca. Rebecca si affaccia in cucina in quel momento, con gli occhi gonfi e i ricci che vanno da tutte le parti, come una medusa rossa e terrificante pronta a pietrificare i presenti.
Martina le sorride e le allunga una tazza di cappuccino. La osserva preoccupata, ma senza esagerare.
“Buongiorno…”
Biascica con lentezza e metà viso affondato nella tazza, mentre aspira l’odore acre del caffè e sembra riattivare le sinapsi. Stefano la da un bacio sulla fronte, sporgendosi sul tavolo verso di lei. Rebecca gli sorride, cercando di tranquillizzarlo con uno sguardo spento e dolce, di quelli che sciolgono Stefano in pochi secondi.
Martina ha imparato a conoscere i loro gesti, quell’affetto forte nonostante tutto che aveva già notato legasse Rebecca e Raffaele. Il loro rapporto è più discreto, ma solidificato da anni di convivenza, più amici che fratelli, come se si fossero scelti, non semplicemente trovati. Sono belli da guardare, mentre scherzano, ignorando come sempre il vero motivo per cui Rebecca sia lì, e Martina si sente esclusa da qualcosa che lei non può più capire, qualcosa di cui sente la mancanza ogni giorno.
Avere Rebecca nella casa in cui sarebbe dovuta andare a vivere con Giorgia le sembra sbagliato: alcune volte, quando la vede affacciarsi alla sua stanza per sedersi sul letto con lei, in silenzio, ad ascoltare i rumori della casa, vorrebbe che i suoi capelli fossero più scuri e i suoi occhi meno verdi, che ci provasse a superare quel muro di silenzio, almeno lei. Che le parlasse di Leonardo, di Stefano, di Fedra che non riconosce più, di Raffaele che è troppo lontano, che le chiedesse cosa succede il ventiquattro di ogni mese e perché i suoi genitori non chiamano mai. Vorrebbe avere il coraggio di aprire la bocca e parlare, di ascoltarla; di abbracciarla senza immaginarla più simile a Giorgia.
Rebecca dal canto suo si è rifugiata lì perché quel silenzio apatico e quei rumori casuali la confortano più dell’angoscia di Stefano o della paura di trovarsi Leonardo in salotto, per due chiacchiere con il fratello. Vuole solo relegare ogni pensiero al di là di quel muro, quello tra Martina e il resto del mondo e trincerarsi dalla parte dell’amica, giusto il tempo di respirare di nuovo.
Ma lei non è così, la solitudine le pesa quasi quanto tutto il resto; allora i punti di contatto li cerca e le premure di Stefano, ogni mattina, le chiacchiere e le battute, la fanno sentire di nuovo a casa, come quando era bambina e Leonardo solo un amico e lei la piccola di casa, coccolata da Raffaele e dal padre come un piccolo tesoro da custodire con gelosia. In più la diverte, quel teatrino tra Stefano e Martina. Quel loro guardarsi e cercarsi, il loro comunicare senza aprire la bocca, senza dover spiegare cosa sia quel dolore che li tiene a terra, che appesantisce le loro spalle senza permettergli di essere loro stessi.
Si girano attorno, si annusano. Discreti, silenziosi, curiosi. Forse sono gli unici a potersi tirare fuori da quella gabbia, ma non hanno ancora trovato il modo giusto per farlo. Sembrano quasi un film in bianco e nero, di quelli muti, di quelli che solo loro due riescono ad apprezzare, come delle ombre cinesi che si muovono con fatica, proiettate su un muro scrostato e bianco sporco: graffiti neri che la gente per strada non apprezza perché non capisce.
Belli e malinconici.


Stefano va via un’ora dopo, giusto il tempo di dormire qualche minuto prima di andare in radio per poi tornare lì. Le saluta affettuoso e dice che sentirà anche Fedra per quella sera, per tenerla lontana qualche ora da casa sua e dal pazzo tatuato che frequenta da qualche settimana.
È incredibile come si preoccupi per tutti, anche della ragazzina smunta con cui ha avuto una breve storia mesi prima. A Martina però la sua presenza non da fastidio, è colorata abbastanza da metterla di buon umore.
Quando più tardi arriva, Fedra invade la cucina di profumo di zucchero filato e marshmallows, la sua aria sfatta e gli occhi pesti di sonno. Rimane zitta giusto il tempo di un caffè, poi non smette di parlare un attimo.
Non ha preso nessuna droga, quella sera. Martina lo capisce dalla sua iperattività, dalla fame tossica, dai tanti piccoli tic che caratterizzano la sua figura smunta; è una brava osservatrice, non parla molto, ma nota tutto e ha imparato a conoscere anche i sintomi dell’astinenza di una semisconosciuta che si accampa a casa sua per i film serali in compagnia. I tic nervosi, le unghie mozzicate e gialle: quando comincia a guardarsi intorno con aria febbrile, Martina le passa una tazza di caffè; quando ricomincia a mordere le pellicine sulle dita, tira fuori un pacchetto di patatine. 
Stefano le sorride sempre, dopo ogni piccola premura e Fedra torna tranquilla. 
Le viene naturale prendersi cura di lei e parlarle come se fosse una bambina piccola, per spiegarle ogni cosa, anche la più semplice. Stefano la prende in giro, pensa che si comporti come una madre apprensiva, ma lei non riesce a farne a meno, come se tutte le attenzioni che ha risparmiato per Giorgia negli ultimi mesi abbiano trovato uno sfogo su quel fantasma pallido e rosa che profuma la sua casa di zucchero.
“E poi l’ho trovato svenuto nell’androne, pieno di sangue. Non credo che fosse tutto suo, però.”
Fedra sta raccontando come ha conosciuto Antonio; una macabra storia di sangue, droga e sesso, di quelle che si leggono sui libri o si vedono nei film, ma che poco lontano da casa sua invece prendono davvero vita. Tra le mura di un palazzo sporco, sulle scale macchiate di sangue e vomito, tra i fumi di sigarette che non vengono spente neanche per andare a dormire. Li immagina muoversi nella loro pozza viscosa di disperazione, senza neanche il coraggio di darsi un bacio perché ne hanno voglia.
Forse per questo non butta fuori di casa Fedra, quando le viene il dubbio che in bagno è andata per sniffare. Perché potrebbe essere lei la ragazza con i capelli rosa e la metamfetamina in circolo nel sangue che puzza di fumo e vodka scadente. Con la stessa paura di piangere davanti a qualcuno, di allungare la mano verso Rebecca o Stefano per chiedere un abbraccio. Uno solo, una volta sola.
“Fedra, forse non è la persona adatta a te…”
“Forse hai ragione,” alza le spalle, guardando Rebecca. “ Forse siamo così a fondo che siamo gli unici a poterci tirare fuori. O forse siamo destinati a cadere insieme ancora più giù. Non mi aspetto il principe azzurro, l’uomo perfetto che mi porterà via dal quartiere di merda in cui vivo e mi riempirà di amore. Questo è il massimo che posso avere e mi piace.”
Rebecca annuisce e il silenzio cala, mentre Martina picchietta un dito sul bracciolo del divano, tentando di arginare il ricordo di quella notte e del fondo da cui non è riuscita a tirare fuori Giorgia. Ma sa di non poter aiutare Fedra, di non poter vincere la guerra di una sconosciuta, senza sapere neanche per cosa stia combattendo; se lei non sa neanche di essere triste, troppo offuscata dai piaceri artificiali per rendersi conto di non saper più piangere.
È quello il paradosso della ragazza confetto: la certezza di essere felice, quando invece si è carne da macello.
Ma nonostante tutto Fedra non smette di sorridere.

 

Cenano con una pizza sul divano. Stanno stretti, nel piccolo salotto di casa sua, quasi uno in braccio all’altro, con i cartoni che si toccano e i gomiti che si scontrano. Stefano è accanto a lei e ogni tanto qualche botta gliela da di proposito, con un sorriso sfacciato e gli occhi grandi che fanno finta di non guardarla.
È difficile per lei credere al tipo di rapporto che sono riusciti a instaurare, se pur costellato di silenzi. C’è quel tipo di affetto tra loro che nasce spontaneo, anche se non lo vuoi o non lo cerchi, come un’alchimia indesiderata, che alla fine non puoi fare a meno di assecondare.
"Mi ricordavo di te."
Martina capisce subito a cosa si riferisce, forse perché sta pensando alla stessa cosa. A quando la prima volta era stata a casa di Rebecca e già sapeva chi fosse, non solo come il deejay del lunedì sera. Ricorda ancora quando, due settimane dopo, l'ha guardato davvero negli occhi, senza l'illusione che cambiassero colore sotto le luci stroboscopiche del locale e ha potuto sentire il suo profumo alla menta, senza che fosse mischiato all’alcol e al sudore tipici delle discoteche. Era seduto sul divano, guardava un film e aveva i capelli disordinati e gli occhiali da lettura sul naso.
Si erano già visti e parlati, qualche settimana prima, nei bagni sporchi del Circolo degli Illuminati, sull’Ostiense. Stefano stava vomitando accucciato davanti alla tazza, pallido e sconvolto. Martina non gli aveva detto che pochissime parole prima di offrirsi di riportarlo a casa in motorino, prima che collassasse.
"Sono una che rimane impressa," scherza, in modo naturale. Neanche con Rebecca si sente a suo agio come con lui, ma mantiene sempre quella patina di riservatezza per nascondere tutta la paura che prova nel farsi conoscere da qualcuno.
Stefano invece sa scavare in lei bene e a fondo, perché non chiede, ma prende pezzi di lei e li mescola a pezzi di lui, creando ogni volta nuove persone, nuovi rapporti, nuovi sorrisi. E a lei questo fa una paura strana e nuova, come una vertigine, ma diversa da quella che prova affacciandosi a finestre e balconi. Più dolce e familiare.
“Che film hai scelto?”
Alla fine Stefano non è riuscito a mantenere la promessa e il dvd non l’ha portato lui. È stata Fedra a scovarlo tra gli scaffali impolverati della sua stanza, mentre frugava tra le sue cose senza alcuna discrezione.
“Fight club.”
A Martina viene da ridere e Stefano lo fa apertamente. Rebecca scuote la testa, con un sorriso tenero tra i denti. E sembra quasi che siano lì da sempre, loro quattro e i cartoni della pizza abbandonati, ammassati su un divano che non li contiene, come i soprammobili di una casa che finalmente Martina sembra sentire sua. Sente un po' di vita scorrere tra quelle mura e i commenti di Stefano al suo orecchio accanto a lei e Rebecca e Fedra che si muovono per trovare la posizione più comoda, con l'audio del film a riempire il resto dei silenzi.
Si chiede se a Giorgia loro sarebbero piaciuti. Se li avrebbe accettati in casa loro, se avrebbe organizzato cene come quella, se le sarebbe stato simpatico Stefano e il suo modo discreto di non farsi mai gli affari suoi. Si chiede se le cose sarebbero state diverse, se loro fossero entrati nella sua vita otto mesi prima.
E c'è Marla che parla, nel suo televisore anni '80, con l'immancabile sigaretta tra le labbra e il bisogno di autodistruggersi stampato nelle iridi e a lei ricorda un po' Giorgia, con i capelli ricci scombinati e gli occhiali da sole calcati sul naso. Per la prima volta vorrebbe davvero che Stefano le chiedesse qualcosa, solo per trovare il coraggio di parlare. Lo guarda appena, con gli occhi appannati di lacrime invisibili.
Lui tiene lo sguardo fisso sullo schermo, sembra non la noti neanche. Ma posa la mano sulla sua, sul divano, con una lentezza esasperante e una delicatezza parossistica. Come se avesse paura che lei possa fuggire. Martina però non si muove, non lo guarda più, gli sfiora solo l'ultimo polpastrello del dito medio con l'unghia ed è come se dicesse "grazie", "ascoltami", "resta qui", "non lasciarmi".
Stefano sorride.

 

La mattina dopo, Martina si sveglia ancora su quel divano, con il naso tra i capelli rosa di Fedra e la mano stretta a quella di Stefano. Si è addormentata a metà film, come non le succedeva da mesi, senza preoccuparsi dei rumori, del giorno dopo, di Rebecca, di ogni cosa.
I capelli di Fedra profumano di zucchero e sente il suo respiro leggero muoverle un po’ le spalle. Il russare di Stefano accanto a lei non è fastidioso, è un suono quasi familiare, come se già si fosse abituata. Ha le dita artigliate alle sue e lei non ha intenzione di spostarle, almeno per un po’. Si mette più comoda, ignorando il torcicollo e lo guarda, con gli occhi assonnati. La treccia in cui aveva legato i capelli è ormai disfatta e l’elastico è perso tra i cuscini, ma lei si sposta il ciuffo di capelli che le copre la visuale con un gesto lento della mano libera. Non vuole svegliarli, vuole solo godersi la tranquilla compagnia di entrambi, per la prima volta silenziosi.
Stefano ha le labbra leggermente dischiuse e le ciglia lunghe proiettano ombre sulla guancia incavata; la maglietta dallo scollo largo gli scopre una clavicola sporgente e qualche centimetro di spalle. È magro, a Martina a volte fa quasi impressione. Però nel suo modo particolare di muovere le mani e sorridere, riesce a essere bello, come quei quadri di Goya che non hanno niente di armonioso, ma catturano sempre l’attenzione e che Martina non riesce a non fissare.
Si sveglia proprio in quel momento e la guarda senza riconoscerla per qualche istante. Poi Martina gli sorride e si fa un po' più vicina per appoggiare appena la guancia sulla sua spalla, alla ricerca di una posizione comoda per sonnecchiare ancora.
"Buongiorno, Lisboni."
Ha la voce arrochita e gli occhi di nuovo chiusi, mentre le sfiora i capelli con le labbra, in un gesto dolce a cui Martina non è abituata. Le viene istintivo spostarsi un po' a quel contatto, ma alla fine resta lì, dove per lui è facile raggiungerla e le sembra naturale stare lì, con lui, appena sveglia.
"Sei spigoloso..."
"Non sono un cuscino comodo, Rebecca me lo dice sempre."
Sorride di nuovo senza rendersi conto di avere ancora le mani unite e dell'assenza di Rebecca dal salotto. Il televisore è bloccato su un'immagine tremolante delle spalle di Helena Bohnam Carter ed Edward Norton e se mettesse play sentirebbe i Pixies cantare e vedrebbe i palazzi crollare alla stessa velocità con cui è crollata lei, dopo che l'ha fatto Giorgia.
"Mia sorella odiava questo film..."
Stefano rimane in silenzio, come se conoscesse già l'esistenza di questa sorella di cui non ha mai sentito parlare. Non chiede chi è, come si chiama, perché usa un tempo al passato. Ne ascolta il silenzio, il respiro all'improvviso meno sicuro, la posa rigida della schiena, ma non la interrompe neanche quando si stacca da lui.
"Odiava Palahniuk, lo considerava uno scrittore sopravvalutato che scriveva il nonsense con una scarsa conoscenza delle regole base della narrazione. A lei piacevano le storie vere, quelle che poteva toccare con mano, che poteva vivere chiunque ogni giorno. Le ninna-nanne africane, le modelle sfigurate on the road, l'inferno... Sembrava parlasse del male primordiale, quando parlava dei suoi libri. E odiava anche Brad Pitt. Non ne ho mai capito il perché però... Forse era il suo spirito di contraddizione."
Sorridono entrambi e Fedra si rigira nel sonno, accucciata contro il bracciolo, con le gambe allungate sul pouf davanti al divano. Stefano vorrebbe sapere almeno il nome di questa sorella, ma sa che non è il momento di chiedere, che Martina parlerà solo quando se la sentirà, senza pressioni da parte di nessuno.
"Però a me ricordava tantissimo Marla. Glielo dicevo spesso e lei secondo me ne era un po' felice, perché credo che come personaggio le piacesse. Solo che non voleva darmi questa soddisfazione. Alla fine si lamentava, ma non si tirava mai indietro quando la costringevo a riguardare il film con me."
Martina sospira e si lascia ricadere sulla sua spalla, a occhi serrati. Le sembra di sentire la voce di Giorgia lamentarsi del film, di Brad Pitt, della pizza fredda, del letto scomodo.
“Come si chiamava?”
Sente il verbo al passato e trema un po’. È qualcosa a cui non è abituata e a cui non si abituerà mai, pensare a Giorgia come a qualcosa che non esiste più, non come una persona da poter chiamare, abbracciare, con cui parlare o vedere film. Un ammasso di polvere in un cimitero qualsiasi, una fotografia sbiadita, una canzone arrabbiata, un messaggio in segreteria.
Giorgia, si chiamava Giorgia e lei non pronunciava il suo nome da otto mesi e non parlava di lei e non parlava con lei. Giorgia, perché sua madre era una fan dei Beatles e le aveva dato il nome di Harrison perché erano nati lo stesso giorno. Si chiamava Giorgia.
Stefano rimane in silenzio, senza più guardarla, ma senza spostare la propria mano dalla sua. Con ingenuità aveva pensato fosse arrivato il momento di parlare, di ascoltare, tempo di conoscersi davvero, ma la sua speranza si era scontrata contro quel muro ancora alto e lui si era ritrovato ancora una volta dalla parte sbagliata.
Un telefono squilla, nell’altra stanza. La suoneria viene spenta subito e Stefano riesce a sentire la voce di Rebecca, agitata. Non sa chi sia a chiamarla insistentemente, di nuovo il velo di preoccupazione oscura i suoi occhi luminosi e Martina gli stringe un po’ di più la mano, senza ancora guardarlo. Ha i capelli scombinati posati sulla sua spalla e il naso quasi tocca il suo collo. Sono così vicini che, quando parla, Stefano riesce a sentire il suo fiato sulla pelle.
“Si chiamava Giorgia.”

C’è un gocciolio persistente che lo tiene sveglio da ore, dal momento in cui Federica ha posato la testa sul cuscino e si è addormentata. Ora è mattina e Leonardo di chiudere gli occhi e dormire sembra non avere intenzione, distratto da quel rumore fastidioso e da pensieri che vorrebbe cacciare via.
Forse dovrebbe chiamare un idraulico, per quel rubinetto che perde. Che stringa un po’ i tubi o sistemi la pressione dell’acqua, o asporti completamente il lavandino, solo per dormire tranquillo qualche ora, prima di raggiungere Stefano in radio. Vorrebbe poter chiamare qualcuno anche per dimenticare, per sopprimere quel rumore tutto suo, che sente solo lui, che parla di notti sbagliate tinte di rosso e verde, delle sfumature di Rebecca, delle sue lentiggini.
Quelli come lui non sanno dimenticare, però. Si aggrappano con le unghie ai profumi di lavanda e ai sospiri, ai particolari che gli ricordano che su quel letto c’è stata un’altra donna e non si chiama Federica. E ora quella donna non sa dove sia, se vorrà ancora parlargli, se potrà perdonarlo, amarlo, scordarlo. Perché quelle come lei sanno dimenticare, sanno dimenticare i giochi da ragazzi, il mare di Rimini, i cd in macchina, i tè in centro, amicizie lunghe una vita. Cose che lui si sente dipinte addosso da pennarelli indelebili.
Recupera il cellulare in stanza, silenzioso, spera che Federica non si svegli, che il rubinetto smetta di perdere acqua, che qualcuno cancelli l’ultimo mese, che arrivi l’estate e riesca a prenotare il viaggio in Finlandia con Stefano.
Il telefono squilla a vuoto. tre, quattro, cinque squilli e poi la segreteria telefonica e la voce di Rebecca che dice di lasciare un messaggio, perché probabilmente deve riprendersi dalla sbronza della sera prima. Ricorda ancora la litigata con la madre la prima volta che aveva sentito la sua voce preregistrata. Si era giustificata dicendo che scherzava e lei aveva fatto finta di crederci per poi litigare con Stefano perché stava portando la sua bambina sulla cattiva strada, senza sapere che Rebecca era sempre stata così, sin da bambina, forse la più ribelle tra loro, a cui piaceva infrangere le regole e inventarsene di nuove.
Si prepara il caffè e c’è la macchinetta che gorgoglia, insieme al gocciolio del rubinetto e la radio che fa da ronzio in sottofondo. Federica ancora dorme e lui vorrebbe che non si svegliasse, fermare il tempo in quell’istante o rallentarlo all’infinito, in modo da godere di quegli attimi di pace rumorosa che lo distraggono per poco, prima che gli torni la voglia di telefonare.
Questa volta, al terzo squillo risponde, con la voce un po’ arrochita, e lui non sa se dal sonno o dalle lacrime. Rimane in silenzio, non le risponde subito, ascolta solo la sua voce, quella melodia insistente, che a lui sembra quasi dolce che compone con la cacofonia della sua casa.
“Reb?”
Neanche lei parla subito. Ci mette qualche istante a riprendere lucidità, a ricacciare indietro le lacrime e gli insulti, a fingere indifferenza.
“Leonardo…”
“Non attaccare…” sembra pregarla, le sembra di vederlo, con gli occhi sgranati, chiari e i denti un po’ storti che si scontrano sulle labbra e i capelli arricciati dal suo indice. “Dobbiamo parlare…”
Temporeggia, perché non vorrebbe dire quello che sa di dover dire, vorrebbe tenerlo per sé, fare finta che non sia successo niente, o che vada tutto bene e Federica non esista. Vorrebbe poter credere che lui la lascerà, che sconfigga finalmente quella paura di rimanere solo, senza una persona accanto a guidarlo ogni giorno verso le cose più semplice. Tutta quella sua insicurezza, lei vorrebbe spazzarla via con una passata di spugna, sgrassarla fino alle ossa via dalla pelle. Vorrebbe, ma sa di non poterlo fare.
“Non abbiamo niente da dirci…” trema, la sua voce, e lei vorrebbe essere ferma in quella decisione e che lui la pregasse di ripensarci. Che lasciasse Federica a prescindere da quello che gli dirà e tornerà a cercarla quando sarò pronto, quando saranno pronti entrambi, perché lei sa che lo saranno, forse tra pochi giorni, forse tra qualche anno, ma lo saranno. “È stato un errore. Non succederà mai più niente del genere. Ora, per favore, smetti di chiamare.”
Leonardo sente il fiato che si spezza e il cuore fa troppo rumore, un rumore troppo forte, che copre il gocciolio del rubinetto e la macchinetta del caffè e la radio e il panico della voce di Rebecca. Se prestasse attenzione, si renderebbe conto che non è quello che vuole neanche lei e che potrebbe farle cambiare idea con due parole.
Ma non lo fa.
Leonardo saluta e torna a letto.

○ ○ ○

Buongiorno, Cacofonici e mattinieri radioascoltatori!
Comincia a fare troppo caldo per girare per il centro di Roma, ti viene voglia di chiuderti a Euroma o in una casa col condizionatore a guardare un film tutta la notte. Noi ieri abbiamo visto Fight Club, per la centesima volta e in realtà non c’era neanche l’aria condizionata. In quattro in un appartamento che è un buco, su un divano stretto, non è proprio il massimo per combattere il caldo, ma l’importante è stare insieme, poi al resto ci pensa la birra ghiacciata presa al bar sotto casa.
Le serate tra amici, quelle tranquille, su un divano, a giocare a Trivial Pursuit o a guardare quei film che non guarderesti mai, sono quelle che mi mancano di più da quando ho iniziato ad andare a ballare e poi lavorare in discoteca. Quell’atmosfera di gioco e scherzo, il dormire stretti in una stanza, con le scarpe lasciate sulla porta di casa per non sporcare, che la donna ha appena pulito. Svegliarsi e scoprire di sapere qualcosa in più di ognuno di loro, adesso.
Provare a conoscerli veramente, fare domande forse senza risposta, ma da cui imparare i particolari dei loro volti.
Veniteci, all’Another Great Moretti, stasera che è sempre una gran festa, ma, se non volete venire, non chiudetevi in casa a giocare al computer, chiamate qualcuno, pure quello che non sentite da sei mesi, invitatelo a casa vostra, comprate una birra e conoscetelo. Anche solo guardando Fight Club per capire che film gli piacciono o dove hanno la testa.
La mia è rimasta in quella casa.

 

#where is my mind?

 

Note di un'orribile persona

Eh? Chi? Dove?
No, giuro, non sono stata io. E' la mia gemella cattiva a non avermi fatto aggiornare per più di sette mesi *piange*
Scusate, scusate davvero. Ci ho messo una vita, non ero neanche convinta di voler continuare a pubblicarla su EFP, ma come vedete, per ora ho deciso di tenerla. Sperando l'ispirazione faccia il suo dovere!
Non mi inventerò scuse, non vi dirò cos'ho fatto, vi dico solamente che gli aggiornamenti non credo saranno più regolari,  che Antonio e Fedra sono dei personaggi di un'altra mia storia - che tranquilli, non sto scrivendo, non carichiamomi di altra roba, grazie - e che c'era una cosa importante che volevo dirvi ma l'ho scordata.
Ah, sì, un mese e due giorni fa, Cacofonia Frammenti ha fatto un anno di vita ♥ 
Spero di risentirvi presto e che non vi siate scordati di me né di questi quattro - ormai cinque perché hanno adottato Fedra - disagiati e che vorrete leggere e lasciare due parole, anche solo per insultarmi.
Mi trovate sempre tra i Fenicotteri, le serpi, i pesci, i cigni e ora anche tra i lupi arcobaleno, insieme ad Amanda e a un altro gruppo di folli. 
Alla prossima, Elle. 

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Capitolo 11
*** 10. Coprimi i piedi di pioggia ***


Coprimi i piedi di pioggia

bl

A Gi e Ams,
e la pioggia
che abbiamo preso,
nella nostra casa
senza tetto.
 

A volte dormivo con Giorgia, la notte, nel suo letto. Accadeva quando gli incubi le mangiavano il sonno e lei si svegliava urlando qualcosa, qualcosa che io non capivo mai. Sognava di cadere nel vuoto, mi diceva, di precipitare in un vortice spaventoso e non riuscire a sentire alcun rumore o voce.
Allora mi intrufolavo nel suo letto, quando sentivo il suo respiro tornare regolare e il sonno rapirla di nuovo. Non la toccavo, non le rubavo le coperte, non facevo nulla, se non intrecciare i miei piedi ai suoi. Li ho sempre freddi, sin da quando sono bambina, ed era rassicurante sentire il suo calore e riuscire finalmente a dormire, entrambe, come se non ci fossero problemi nel mondo che potessero dividerci.
Essere sola, in quella caduta, era ciò che la spaventava di più, pensavo io, e mi ripetevo che non sarebbe stata sola, mai. Che mi avrebbe riscaldato i piedi nelle notti invernali, e d’estate io avrei raffreddato i suoi.
Ma quando cadde, cadde sola.
E i miei piedi, alla fine, rimasero freddi.



Stefano ha già chiamato due volte, alle undici di mattina. Il ronzio del cellulare nascosto sotto i cuscini del divano continua a riempire l’aria e Martina beve la seconda tazza di tè, mentre guarda la pioggia picchiare sulla finestra del salotto.
Non è il tempo che si aspettava il ventiquattro giugno, ma è quello che le serve. Per rimanere nel silenzio di una casa vuota, senza risate o parole, nessun film.
Anche Fedra è passata. Alle cinque del mattino, come ogni altra note che passa fuori e poi si ferma a dormire lì, ma stavolta Martina non ha avuto il coraggio di alzarsi dal divano e aprire la porta. Non vuole condividere quella giornata con nessuno, quel dolore vuole tenerselo dentro, al centro del petto, senza che nessuno lo possa scrutare da vicino, mentre lei si disintegra sotto i suoi occhi.
Vorrebbe uscire, però. Sotto la pioggia, perché se piove forse la gente tenderà a non riconoscerla, nascosta sotto il cappuccio del suo parka. Magari andare al mare e sedersi sulla sabbia bagnata, respirare l’aria umida e la salsedine tra i capelli, farsi sferzare da un po’ di vento, con le guance rosse e i piedi gelidi senza calze che sfiorano le onde.
Fa fatica a tenere gli occhi aperti, però. Come se il sonno arretrato le sia calato sulle palpebre tutto insieme proprio quel giorno e lei non volesse far altro che accoglierlo e lasciarsi ricadere a letto, dove potrebbe dormire e dormire tutta la giornata.
Non lo fa mai, però. Ogni mese, da nove mesi, Martina si sveglia, beve un tè, guarda fuori dalla finestra, cammina sotto la pioggia, torna a casa dei genitori quando sa che non saranno lì. Decide di vivere, di non abbrutirsi o farsi trangugiare dall’apatia, dalla mancanza, dalla noia. Non può dormire, Martina, perché sarebbe come iniziare a dimenticare e lei ancora non è pronta a farlo, ancora non ne è in grado. Si aggrappa disperatamente al ricordo di quella notte, in giornate come quelle, quando i contorni del volto di Giorgia sfumano in tratti sempre più somiglianti ai suoi che a quelli di sua sorella. Quando il suono della sua voce si confonde con quello di Fedra, o con la “s” leggermente sibilante di Stefano. Pochi dettagli che non saprebbe più disegnare, le sono rimasti, e ha paura che anche gli altri scivolino via, se solo lei tentasse di confondere il giorno con la notte. Si concentra, mentre si alza dal divano.
Sulla sporgenza delle sue costole, sui due nei sul mento che odiava, sul disordine creativo dei suoi ricci neri.
Sull’inflessione della sua voce e le sfumature gialle dei suoi occhi, il tatuaggio dietro la schiena, le parole che non amava dire, ma che Martina ascoltava nel silenzio che la circondava.
Le chiavi del motorino non le mette neanche in una borsa. Esce solo con la giacca e un paio di anfibi che Fedra ha lasciato in salone l’ultima volta che è stata a casa sua, il casco in una mano e la patente nella tasca dei jeans.
A volte pensa che Giorgia riderebbe di lei e dei suoi sciocchi pensieri da ragazzina depressa. Che alzerebbe il sopracciglio perplessa e le direbbe di smetterla, di chiamare Stefano che si starà preoccupando. Forse invece non direbbe niente, perché Giorgia non amava dare consigli né riceverli.
Ma avrebbe amato Stefano, forse. Il suo modo non invadente di aver messo radice in ogni aspetto della sua vita. Avrebbe ascoltato in silenzio Rebecca straparlare e alla fine non le avrebbe detto niente, ma avrebbe trovato il modo per aiutarla. Forse avrebbe avuto difficoltà a guardare negli occhi Fedra e a volerle bene con la consapevolezza di vivere con lei in un’eterna roulette russa.
Giorgia riderebbe di lei, Martina lo sa. Riderebbe dell’arredamento caotico che ha scelto per la loro casa, delle sue trecce ingarbugliate, del tè ai mirtilli nascosto dietro la confezione di dolcificante, dei tatuaggi che ha fatto, delle foto che ha appeso, della sua collezione di film e della radio sempre accesa e della voce di Stefano che la seguirebbe ovunque in casa.
E Martina la lascerebbe ridere, solo per sentire ancora quel suono affondare come una lama nel silenzio. Tornare a chiamare la cacofonia con il proprio nome. Giorgia.


Quando piove, a Roma, sembra che nessuno sia più in grado di guidare. I fari e gli abbaglianti illuminano le gocce di pioggia, i clacson suonano una sinfonia urbana e itinerante tra le vie della città, le code possono non sbrogliarsi mai e rimanere bloccati nello stesso punto ore, prima di tornare a schiacciare il piede sull’acceleratore.
Martina con il motorino si bagna. Trema un po’, sotto il giubbotto imbottito e il casco integrale, ma si gode i suoni della città in movimento, mentre fa zigzag tra le macchine immobili sulle carreggiate della Colombo.
Ci sono delle bambine nella macchina accanto a lei: le trecce bagnate di una ragazzina che non avrà più di cinque anni e la sorella dagli indomabili ricci, crespi dell’umidità.
Battibeccano sul sedile posteriore, mentre la madre forse si lamenta del traffico, del ritardo per l’appuntamento dal dentista, del marito che si è di nuovo scordato di comprare il tonno. La bambina con le trecce si gira a guardarla e le sorride, come se fosse normale che una sconosciuta in motorino la fissi. Forse anche lei nota la somiglianza, forse è vero che i bambini riescono a vedere ciò che gli adulti tendono di nascondere. Forse quella ragazzina riconosce se stessa, con qualche anno in più e gli occhi più tristi; forse riconosce nell’assenza dietro di lei su quel motorino la sorella che ha smesso di parlare e ora sta guardando fuori dal finestrino anche lei.
Martina, sola, e una piccola Martina e una piccola Giorgia. Con i capelli bagnati, la gioia di un lunedì mattina senza scuola, la madre che ha preso la giornata libera per stare con loro.
Martina vorrebbe fermarsi e fermarle e dirglielo, di non lasciare mai che quella situazione le scavalchi. Che un giorno ci sarà qualcosa di brutto a portare via loro ogni voglia di giocare e parlare e tirarsi le trecce, ma che loro possono essere forti e devono esserlo, perché l’alternativa non è contemplabile.
Lei l’alternativa non l’aveva mai contemplata.
E ora Giorgia non c’è e Martina non riesce a chiamare sua madre, chiederle come sta, se le va di vedersi, un giorno, con calma, parlare un po’. Dirsi se Giorgia, alla fine, l’hanno perdonata.
Martina se lo chiede, a volte, quando è sola. E se lo chiede mentre la macchina con le bambine finalmente si muove e la supera.
Se ha perdonato ogni volta che Giorgia ha risposto con un vago niente, quando fissava il vuoto in silenzio; i sorrisi la mattina, prima di andare all’università; le serate in balcone, a fumare una sigaretta di nascosto dai genitori, a guardare il cielo scurire, a immaginare le stelle da qualche parte, nascoste dalle luci romane.
Se le ha perdonato quella volta che le ha tirato i capelli, tutte le volte che rovinava un suo cd, o perdeva i suoi pantaloni; quando ha fatto l’incidente con il suo motorino e ha preso la multa e poi quand’è caduta.
Per averle rubato dal corredo genetico quei ricci che tanto le invidiava e quegli occhi grandi e ingenui che ingoiavano il mondo e le sue brutture e sembravano trasformarle in favole da raccontare prima di andare a dormire, quando si chiudevano nella loro stanza e lasciavano chiunque fuori.
La perdonerebbe, se potesse.
Ogni cosa, anche averla lasciata.
Ma non lo fa. Quando pensa a lei, quando non dorme, quando esce e cammina sotto la pioggia e va a lavoro o a ballare, quando vede un film con Stefano, offre la colazione a Fedra, lascia sfogare Rebecca. Quando è nel traffico, completamente bagnata e il mare finalmente le appare davanti, gigante, mosso, spaventoso e lei avrebbe solo voglia di buttarsi in acqua e non uscire più.
Novella Ofelia in un mare di disperazione, Martina non la perdona.


Ci sono due cani che giocano sotto la pioggia vicino agli scogli.
Le giostre al pontile sono deserte, i tavoli dei bar vuoti e la paglia dei chioschi sulla spiaggia sembra ballare una danza caraibica dai colori spenti.
Le impronte dei suoi passi sono sole.
Affonda un piede nella sabbia, poi un altro, cammina per qualche minuto, poi si ferma. C’è un gradino proprio davanti al molo su cui lei e Giorgia si sedevano da bambine e osservavano i bagnanti, mentre aspettavano di poter fare il bagno dopo pranzo.
La nonna le sgridava sempre, perché laggiù non poteva vederle, ma a loro piaceva, quella piccola porzione di marciapiede da cui riuscivano a vedere la spiaggia e la strada. Come se stessero aspettando qualcuno, ma in realtà avessero tutto a portata di mano.
Ed era così, forse. E Martina ancora non la capisce, Giorgia, e quello di cui ha avuto bisogno per anni che lei non è riuscita a darle. Se ci fosse qualcosa di esistenziale insito in lei, grigio, qualcosa che assomigliasse fino all’ultima sfumatura a quella giornata di pioggia, o se fosse solo un capriccio di chi ha sempre candidamente ammesso di non aver paura di morire.
Forse c’è qualcuno che non ha davvero paura di morire, nella vita, ma non è lei, quella persona. O forse non è abbastanza egoista da essere in grado di lasciare la disperazione dietro le proprie spalle, come se non ci fosse niente da abbandonare.
Giorgia l’ha abbandonata e lei è stanca di essere sola, su quella spiaggia, con la pioggia e il silenzio tutto intorno e solo qualche tuono e lo schianto delle onde sul molo.
Ostia, grigia, deserta, sommersa dall’acqua e dal mare e da ogni tipo di paura che lei potesse riversarci dentro.
Forse, a volte lo pensa davvero, c’è qualcuno che le spazza via tutte, come un’onda sulla sabbia che cancella la promessa eterna del sangue che Giorgia non ha mantenuto.
Forse, a volte lo pensa davvero, Stefano vuole solo ricordarle che qualcuno nel mondo non la lascerà. Forse la chiama per la sesta volta, quella mattina, perché vuole rimanere in silenzio accanto a lei, a bagnarsi di pioggia e onde e guardare l’orizzonte affondare.
Così, quando il telefono squilla ancora, apre il messaggio appena arrivato, con mani tremanti e lo sporca di sabbia. C’è il nome di Stefano grande e nero ed è quasi confortante, come un film che ha già visto mille volte e di cui conosce il finale.
“Ho qualcosa per te.”
Non sa cosa sia, Martina, se c’è qualcosa nel mondo, qualcuno, che quel ventiquattro giugno possa farla sentire meglio.
Forse, a volte ci crede veramente e quella è una di quelle volte, Stefano può esserne in grado.
“Sono in spiaggia.”


La prima cosa che vede, sono due cani.
Due cuccioli dagli occhi grandissimi e il pelo corto e bagnato. Li sente abbaiare e correre sulla sabbia. Non pensa abbiano più di tre mesi, Martina, al massimo cinque. Si rincorrono e sembrano felici mentre ignorano la pioggia.
Uno dei due le si avvicina. Martina sporge la mano e quello la annusa un po’ diffidente per qualche secondo prima di strusciare il muso.
Martina sorride.
Subito dopo sente la voce di Stefano e non sa perché, ma non se ne stupisce. Non appena ha visto quelle due palle di pelo è stata sicura che ci fosse Stefano con loro. È una sensazione inconscia, irrazionale. Qualcosa che non comprende, ma per cui potrebbe mettere una mano sul fuoco. Il secondo cane trotterella accanto a lui e gli morde i jeans, Stefano ride.
C’è qualcosa di mistico nella visione di Stefano sulla spiaggia, con i capelli bagnati, tra la pioggia e il suo sorriso. Il sorriso di Stefano riesce sempre a farla sentire al caldo, come tra una coperta di lana, all’asciutto davanti a un caminetto acceso, di quelli che da bambina chiedeva sempre alla madre. Perché noi non abbiamo un camino, mà? Perché a casa nostra fa sempre freddo?
“Giorgia amava il freddo,” dice appena Stefano si siede accanto a lei. Anche i cani ora stanno buoni, accucciati ai loro piedi, come se anche loro sapessero che è un momento importante, serio, che non c’è bisogno di richiedere attenzioni.
“Diceva che era sempre un’ottima scusa per bere un tè bollente e rimanere sotto le coperte ad ascoltare i Cure.”
Stefano non la guarda. Trova sempre il modo di non infrangere la bolla di intimità che spalanca davanti a lui in quei rari momenti in cui sa di cosa parlare, di rimanere in silenzio al suo fianco e farla sentire sola, ma non abbandonata.
“Piaceva anche a me il freddo…”
“Ora non ti piace più?”
Martina sembra pensarci un attimo e fa una carezza al cane alla sua destra; quello posa il muso sulla sua gamba e sembra quasi sorridere empatico.
“Ora non c’è nessuno che mi tenga caldi i piedi di notte,” calibra bene le parole, le rigira tra le labbra, tra i denti e sulla lingua. Le scandisce bene, come se fosse una confessione di cui vergognarsi, ma importante. È tutto importante, Stefano l’ha capito, qualsiasi parola esca dalle sue labbra. Ne apprezza il valore, perché è qualcosa che Martina non regala a nessuno. Gli sembra quasi di esserselo meritato.
“Neve ha dormito ai miei piedi, stanotte.”
Martina non capisce subito di chi stia parlando, poi nota che il batuffolo di pelo al suo fianco alza le orecchie a sentire il proprio nome.
“Hai chiamato questo cane Neve?” le viene quasi da ridere e forse lo fa, perché Stefano sorride di più. “Dimmi che l’altro si chiama Bianca!”
Stefano ride, stavolta apertamente. È una sensazione nuova, rilassare i muscoli del volto, il ventiquattro del mese. È una sensazione che Martina ha dimenticato, ma questa volta le viene quasi naturale farlo, perché il sorriso di Stefano è contagioso.
“No, l’altro si chiama Milza,” dice. E Martina ricorda Baudelaire e Giorgia e i Cure e la pioggia. Ricorda i due pesci rossi che avevano da bambine, Milza e Neve, e ricorda di averlo raccontato a Stefano il mese prima.
Non sorride più, ora. Ma ha negli occhi una gratitudine immensa che riempie Stefano di orgoglio.
“Il cane di un mio amico ne ha avuti quattro qualche mese fa e io ne ho sempre voluto uno. Ma non posso separare questi due, guardali… sono fratelli, gli farei del male. E non posso neanche tenerli entrambi in casa. Magari Neve puoi tenerlo tu, se ti va…”
Martina ancora lo guarda, fisso negli occhi. Immagina Neve ciondolare tra le mattonelle della sua cucina e mangiarne i mobili e la poltrona della nonna, ciancicare le felpe di Fedra e dormire tra le lenzuola del suo letto, ai suoi piedi. Scaldarglieli di notte, scacciando via gli incubi e il ricordo di quella notte, respirare forte accanto a lei, senza lasciare che il silenzio la spaventi. Un po’ per volta prendersi spazio nella sua vita e nella sua casa, tra i suoi amici, la forma del suo corpo sul divano, i peli sul tappeto, la ciotola in cucina.
Una parta di Stez per lei, pensa, chiudendo gli occhi e posando la testa sulla spalla di lui.
Che meno invadente di Neve si è guadagnato ogni cosa, anche il suo posto preferito sul suo divano e il diritto di scegliere il film il mercoledì sera e la musica anche a casa e non solo in radio. Di cucinare qualcosa ogni tanto, di portarle la colazione la domenica mattina, di entrare senza essere invitato e lasciare le scarpe all’ingresso accanto alle sue.
Si è guadagnato ogni cosa, anche la fortuna di essere lì. La possibilità di mandarle messaggi, di ventiquattro giugno, e aspettarsi una risposta, un saluto, un “vieni qui”  che non aggiunge altro, ma sottintende “ho bisogno di te”.
Sorridono entrambi, quando Milza abbaia.


Stefano entra per primo in casa e ha in braccio Neve. Cammina verso la credenza in soggiorno e accende la radio, mentre Martina prende degli asciugamani e si siede sul divano esausta, con Milza al suo fianco. Parte una canzone dei Nationals e lei sorride a occhi chiusi, mentre fuori la pioggia smette di incalzare sulle finestre chiuse.
Stefano va in cucina e mette a bollire l’acqua per il tè e si ferma a guardarla, sulla porta del salone, assorto. Gli sembra più bella, con i capelli bagnati e gli occhi chiusi e quella canzone che la culla in quel momento di pace. Non l’ha mai vista davvero tranquilla, si rende conto. Mai del tutto a difese abbassate, sempre schierata dietro il suo muro fatto di silenzio e nervi tesi e occhi sul punto di piangere che non piangono mai.
Ora forse potrebbe piangere, sembra che lo stia facendo dietro le palpebre chiuse. Non capisce se le ciglia siano bagnate di lacrime o pioggia e se stia tremando per il freddo o perché avrebbe voglia di lasciarlo avvicinare. Le si siede accanto e le porge una tazza; Martina neanche lo guarda, ma sorride un po’ e sorseggia il suo tè ai mirtilli con calma, senza dire niente, senza toccarlo o aprire gli occhi. Stefano vorrebbe scavare nella sua mente e chiederle ancora di Giorgia, dei pesci rossi, del perché di ogni suo tatuaggio e di ogni sua lacrima non versata. Però resta in silenzio anche lui, come sempre.
Appena conosciuta, pensava di non essere in grado di comunicare con lei ed entrare nel suo mondo e spezzare quella barriera silenziosa, come cristallo sottilissimo, che la separa dagli altri; ora lo sa, che è quello il loro modo. Che Martina dice tutto tra gli occhi serrati sotto le ciglia e le labbra socchiuse, tra le tazze di tè e i film a tarda notte e le carezze ai cani. Tra i ventiquattro giugno al mare sotto la pioggia e le mani che si sfiorano, proprio lì, sul pelo ancora umido di Milza. Ora Stefano sa che Martina in quel modo sta parlando con lui.
E lui ascolta.


Buongiorno da Radio Cacofonia, cari ascoltatori!
Sembra proprio che il cielo non voglia smettere di far piovere e lasciarci con uno spicchio di sole, ma noi  siamo comunque tornati qui a farvi compagnia nel traffico mattutino per andare a scuola o lavoro o mentre tornate a casa dopo una nottata a far baldoria.
Io l’ho passata in bianco per colpa del raffreddore. Non ho più il fisico per passare la giornata sotto la pioggia, ma ne è valsa la pena, tornare a casa, e non importa che sia la tua… tornare a casa e avere qualcuno che ti riscalda i piedi tra i suoi, sotto una coperta davanti a un film. Annegare ancora un po’, lo scalpitio dei cani sul pavimento, un respiro regolare, nessun’altra parola. Imparare ad ascoltarsi, con la pioggia che ancora si infrange sui vetri a intervalli irregolari e sembra quasi di essere a Londra e amarla, la pioggia.
Perciò godetevela, questa pioggia, e tenetevi caldo a vicenda, mentre io vi dedico questa.


England – The Nationals

 

Note:

Mi scuso infinitamente per questo periodo sconfinato che ho lasciato passare. Mi scuso davvero tantissimo, ma non mi metterò a giustificarmi, perché intanto penso che non sia rimasto nessuno della vecchia guardia a lggere, e poi perché giustamente non penso vi freghi nulla!
Ora come ora sono a Londra - beh, no, sono stata a Londra da Febbraio a Mercoledì scorso, ora sono in Berkshire, a un'oretta da Londra, in una casa da paura e due papà gay - e non so se e quando aggiornerò, ma confidate, forse entro il 2020!
Spero che sia rimasto ancora qualcuno interessato a questa storia e che vorrà lasciarmi due parole :)
Un bacione e spero a presto,
Elle
PS: Io e la mia ex coinquilina sistolina siamo sempre QUI

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