I'll see you on the dark side of the moon

di Aya_Brea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gli angeli caduti ***
Capitolo 2: *** Forse, un eroe? ***
Capitolo 3: *** Come Bonnie e Clyde ***
Capitolo 4: *** Qui, dove si vedon le stelle ***



Capitolo 1
*** Gli angeli caduti ***


 

I'll see you on the dark side of the moon






1. Gli angeli caduti
 
 


La notte era piombata così, di soppiatto. Il tramonto era ormai una scia lontana del tempo trascorso troppo in fretta, del piccolo spicchio di luce che la luna aveva ormai inghiottito e portato con sé: quella sfera brillante aveva rubato anche quel giorno, senza remore, senza timore e nella più completa indifferenza. 
Le strade di Tokyo erano investite di soffice ed intensa luce bianca, ma ogni oggetto appariva come caratterizzato da una patina bluastra: le strade erano ricoperte da una sottile brina luccicante, testimonianza della pioggia scrosciante che vi si era riversata al mattino. A differenza delle sere precedenti, quella notte l'aria non era immobile, né tanto meno asciutta: c'era una fitta coltre di umidità sospesa nell'atmosfera. 
In lontananza si udivano le sirene spiegate della polizia che latravano come cani rabbiosi in procinto di afferrare finalmente la preda; unici sprazzi in quel dipinto bicromatico, le luci rossastre ed opache delle loro automobili. I bolidi della giustizia sfrecciavano lungo le strade, facendo schizzare il brecciolino dell'asfalto. Ogni angolo, ogni anfratto, ogni porzione della città andava setacciata, perché solo così avrebbero potuto stanare il soggetto in fuga, uno fra i più temibili ladri a cui il nuovo millennio avesse spalancato le porte del crimine: Kaito Kid. 
L'ispettore Nakamori se ne stava accoccolato al fianco del poliziotto che guidava la volante in testa a tutte le altre, oltre il vetro vedeva soltanto la strada che si faceva largo di fronte ai propri occhi: si stava mordicchiando il pollice nella spasmodica attesa di intravedere nuovamente il mantello candido di Ladro Kid. “Maledizione! Stavolta non ci sfugge. Me lo sento, questa è la notte in cui finalmente sbatterò quel ladruncolo da due soldi in gattabuia. Ce lo spedirò per l'eternità, lo giuro!” 
Mentre pronunciava le sue parole con fervore e a denti stretti, dai sedili posteriori si sporse una ragazza dai capelli castani, oramai arruffati a causa dei continui sballottamenti in automobile. Si portò fra l'ispettore e il poliziotto e tese il braccio verso il parabrezza, con tanto di indice sollevato. “Babbo! Guarda, è Kid! Ha appena svoltato l'angolo a sinistra.” Esclamò, entusiasta. Il padre si protese in avanti e spinse i pugni contro il sedile, nuovamente animato dallo spirito combattivo. 
“E' lui. Forza, Kikuchi, schiaccia quel piede sull'acceleratore, avanti!”
Aoko si acquietò e maledisse mentalmente quella dannata notte: non sapeva per quale motivo era stata coinvolta nell'ennesimo inseguimento del padre, sperava vivamente che quello sarebbe stato l'ultimo di una lunga serie. D'altronde le dispiaceva assistere sempre ai fallimenti del proprio genitore, fallimenti che non facevano altro che affossarlo sempre più nella depressione e nella convinzione di essere un inetto. Rivolse il suo sguardo abbattuto alla Luna, che nonostante la velocità con cui viaggiassero, rimaneva sempre immobile nello stesso punto. 
Un po' come loro, alle spalle di Kid. 
D'improvviso una brusca frenata la fece rinsavire dai suoi pensieri, sentì persino lo scricchiolio delle gomme, poi vide il grigiore di un fumo denso e rarefatto che li aveva letteralmente inglobati: il poliziotto alla guida dovette sterzare in derapata per evitare di sbattere contro il muro in corrispondenza della curva, ma non appena il veicolo riuscì a fermarsi, i tre si sentirono sbalzati violentemente da terra: la lunghissima pattuglia dietro di loro aveva dato vita ad un incredibile effetto domino, così, le vetture si erano schiantate le une sulle altre come fossero state lattine di alluminio. 
L'ispettore Nakamori emise un gemito di dolore: aveva sbattuto il gomito contro la portiera dell'auto, eppure il suo primo pensiero andò alla figlioletta che stava rannicchiata sui sedili posteriori. Allungò il braccio verso la sua gamba per poterla scuotere. “Aoko, tesoro, va tutto bene?” 
Ma la figlia non rispose, scansò malamente la mano del padre e con uno scatto fulmineo spalancò la portiera, slanciandosi fuori dall'automobile. Non appena se la richiuse alle spalle sentì chiaramente le urla di Ginzo: il nome di 'Aoko' riecheggiò più volte, disperdendosi in una tetra eco lontana. Lontanissima. 
La ragazza cominciò a correre nella stessa direzione di Kaito Kid: il ladro non si era accorto della sua presenza, così lei avrebbe potuto seguirlo indisturbata. Le sue gambette si muovevano agili sull'asfalto, sentiva la spinta data dalle scarpe da ginnastica, poi, quando le sirene della polizia divennero sempre più fioche, cominciò a percepire anche lo scalpiccio regolare dei suoi passi, infine il martellare impetuoso del suo cuore. Se non ce l'aveva fatta il padre, sarebbe stata la figlia dell'ispettore Nakamori ad acciuffare quel gabbiano dalle morbide ali bianche. Quando la gola cominciava ormai a farle male, ella svoltò l'angolo e dovette addirittura frenare la sua corsa, poiché non appena trovò riparo al di là del muro, scorse la figura del ladro gentiluomo. Era a pochi passi da lei: lo osservò spiccare un agile balzo su di una scala metallica, poi si librò dolcemente fino a raggiungere la sommità dell'edificio: il suo manto bianco scivolava dietro di lui con estrema grazia. 
Aoko lasciò trascorrere alcuni secondi, poi scelse il momento giusto per uscire allo scoperto e salire anche lei le scale a chiocciola. Cercò di rendere i suoi passi ovattati, finché non arrivò in cima al palazzo: si intrufolò in una finestrella e si accorse di essere in una casa abbandonata. I muri erano completamente scrostati e l'intonaco cadeva in pezzi, il pavimento ne era cosparso quasi integralmente. Una sottile polvere di cemento si era levata in alto, probabilmente perché Kid era piombato in terra con tutto il proprio peso. Alcune colonne cilindriche erano disseminate qua e là ma lei notò immediatamente un lembo bianco svolazzare dietro ad una di esse. Si accucciò al suolo e attese: l'angolazione era perfetta. Non appena spaziò lo sguardo altrove, infatti, incrociò un mucchio di vetri rotti, fra i quali svettava una lastra specchiata che rifletteva proprio l'immagine di Kid, seppur disseminata da minuscoli residui di sporco. Poco importava. Riusciva a vederlo. 
La luce lunare filtrava attraverso le finestrelle poste a destra della stanza, il vento si inoltrava all'interno poiché i vetri erano completamente assenti. Fu allora che Aoko vide Kaito sfilarsi il mantello bianco. Lasciò che quel tessuto quasi evanescente scivolasse giù, dopodiché il Ladro si chinò in terra per raccogliere una specie di scrigno metallico: dai suoi gesti delicati intuì che doveva trattarsi di qualcosa di molto importante. Si sedette in terra e si sfilò il cappello a cilindro, dopodiché fu il turno del monocolo: anche la cravatta risultava fastidiosa, così se la allentò con la mano sinistra. 
Aoko si morse il labbro con forza: inizialmente non seppe se credere ai proprio occhi, eppure lui era lì, riflesso in quello specchio, assorto nella lettura di un foglio dai contorni ingialliti. Kaito Kuroba. Non si trattava più di Kaito Kid. Lo aveva sempre sospettato, ma mai e poi mai lo avrebbe creduto in grado di impersonare un ruolo simile. 
Improvvisamente un turbinio di ricordi si fece largo fra i mille interrogativi che vorticavano nella sua mente: il giovane liceale che si spacciava per il suo migliore amico d'infanzia era soltanto uno sporco traditore. Si chiese principalmente per quale motivo le avesse mentito. E poi un'altra domanda sorse spontanea: aveva bisogno, Kuroba, di vestire i panni di un'entità che non gli apparteneva? Perché? 
Le labbra rosate della ragazza furono percorse da un tremito, ma poi si schiusero con rabbia, permettendole di urlare e di sputargli in faccia tutto il suo rammarico: “Kaito Kid! Sei un vigliaccio! Mi hai mentito per tutto questo tempo.” Aoko dovette stringere i denti ed i pugni, per sostenere anche fisicamente quel che le si stava rimescolando nel cuore. 
Kaito, dal canto suo, avrebbe potuto riconoscere la voce di quella fanciulla fra mille altre, eppure non appena scattò in piedi, la saliva gli si azzerò proprio in fondo alla gola: incrociò gli occhi di Aoko, impallidita ancora di più per via della Luna e con quelle iridi screziate che si riempivano di lacrime. Si slanciò verso di lei e l'unica cosa che riuscì a pronunciare fu un banalissimo: “Posso spiegarti, non scappare!”. Ma la fanciulla volò via come una colomba, portandosi con sé il disprezzo ed il rammarico per non essersi goduta la liberà che le spettava. Kid scivolò giù dalle scale con un balzo, ma l'inseguimento fu del tutto inutile. La colomba aveva oramai spiegato le ali verso il cielo blu. 
Per la prima volta, il famoso Ladro Gentiluomo si sentì privato della sua magia. Incapace di strappare un sorriso sul volto della persona a cui teneva di più.
 
 
 
 
 
Al di là delle nuvole, l'aereo aveva solcato il cielo come un gigantesco gabbiano dalle ali bianche ed i passeggeri non avevano fatto altro che rivolgere lo sguardo oltre i finestrini, osservando come le tinte del tramonto si trasformassero così rapidamente. Un manto scuro aveva avvolto in pochi istanti l'intera volta celeste: alcuni iniziarono a sonnecchiare, altri si attardarono fra le pagine di libri e riviste, altri ancora, con le cuffie ben piazzate nelle orecchie, si cullarono fra le note delle musiche più svariate. 
Proprio nella fila centrale dell'aereo, stavano seduti Conan, Ran, Sonoko, Kogoro e la giovane combriccola dei Detective Boys, accompagnati fedelmente dal dottor Agasa e tecnicamente, anche da Ai. Il piccolo occhialuto era al fianco di Ran, che, premurosa come suo solito, gli aveva stretto all'inverosimile le cinture di sicurezza. 
“Ran, quanto manca?” Conan osservò i suoi compagni e notò con piacere che si erano appisolati: Genta russava sonoramente. 
La ragazza aveva gli occhi piantati fuori dall'oblò: un morbido vestitino bianco le scendeva dolcemente sul corpo. Sembrava completamente persa nei propri pensieri, tanto che si rivolse a Conan soltanto dopo il terzo richiamo. “Oh, Conan. Scusami, stavo osservando il panorama. Ci sono tantissime luci. Dicono che l'Italia sia uno dei paesi più illuminati del mondo.” In effetti, proprio sotto di loro, lo stivale era disseminato di minuscoli lumini gialli, tanto fitti che le arterie stradali si perdevano in quel guazzabuglio luminoso. “E' meraviglioso.” Un sorriso le si dipinse sul visino, visibilmente stanco per la durata del viaggio. Non vedeva l'ora di toccare terra. 
Arrivarono in Italia a notte ormai inoltrata: Kogoro aveva scelto di regalare alla figlia un viaggio, proprio per festeggiare i suoi diciotto anni. Erano tutti consapevoli che sarebbe stato un traguardo importante, la stessa Ran non stava più nella pelle per l'emozione. Aveva scelto di visitare Firenze, piuttosto che Roma, perché le era sembrata più piccolina e meno caotica, e poi la stagione primaverile avrebbe reso tutto più romantico ed affascinante. Prelevarono le loro valige e in pochi minuti furono fuori dall'aeroporto: una moltitudine di gente si stava diramando in più direzioni, Conan e gli altri presero la navetta notturna che li avrebbe condotti in città. 
Nonostante fosse ormai calato il buio, durante il loro tragitto a piedi, poterono subito osservare la fisionomia dei palazzoni fiorentini: alcuni, più di altri, erano visibili a causa dell'illuminazione notturna. Kogoro e Ran erano alla testa del gruppo, ma entrambi percepirono l'entusiasmo che si diffondeva alle loro spalle: i bimbi erano persi fra quei mattoni così imponenti, respiravano un'aria che sembrava totalmente nuova ed erano così ammaliati da non guardare neanche ad un palmo dal loro naso. Ai si stupì della sua crescente curiosità, e per una volta, si sentì in linea con i Detective Boys: persino Conan aveva gli occhioni spalancati. Sembrava quasi volesse carpire subito i segreti di quella città così piena di storia. Si ritrovò a pensare che in fondo ognuno di loro avrebbe voluto mollare subito i bagagli e cominciare ad esplorare le vie di Firenze. Eppure fu la stanchezza ad averla vinta, quella notte. 
Giunsero nei pressi dell'albergo e varcarono la soglia uno dopo l'altro: la hall era meravigliosa nel suo sfarzo. Era un'immensa sala contornata da divani e poltrone in tessuto bordeaux, alle pareti vi erano alcune riproduzioni di quadri famosi e agli angoli della sala erano collocati alcuni vasi ricolmi di fiori dalle tonalità pastello. Il pavimento aveva tutta l'aria di essere tremendamente scivoloso, ma aveva il pregio di essere brillante come uno specchio di cristallo: fortunatamente un lungo tappeto rosso si srotolava fino alla reception, posta proprio sul fondo della stanza: ai lati correvano sinuose, due rampe di scale che si univano nel ballatoio centrale, la cui ringhiera affacciava sull'ingresso e contemporaneamente su di un ampio finestrone da cui si poteva osservare tutta Firenze. La luce calda proveniva dai due lampadari sul soffitto, carichi anch'essi di fronzoli e pendenti scintillanti. Ran si morse il labbro per cercare di contenere la sua emozione, ma il suo tentativo di rimanere sobria fu vanificato in maniera eclatante dalla ricca ereditiera, Sonoko, la quale sciolse le braccia e le aprì a guisa d'aquila. “Ma è meraviglioso!” Persino lei, che era abituata al lusso delle tenute del padre, rimase sbalordita dalla bellezza dell'albergo. “Scommetto che in buona parte è un regalone di tua madre, Eri, non è vero Ran?” Rivolse un sorrisino malefico al padre dell'amica, che di tutta risposta sollevò le sopracciglia nel tentativo di lasciar correre. 
“Ma dai, Sonoko! Smettila. Lo sai che mio padre ormai è un grande Detective. Non è più come ai vecchi tempi.” Ribatté Ran, imbarazzata e stizzita.
Conan raccolse le braccia proprio dietro alla nuca, come era solito fare poi assunse la sua tipica espressione seccata. 'Si, certo. Come no. Un grande Detective.' 
Alla reception distribuirono le stanze e ad ognuno venne consegnata la rispettiva chiave. Il ragazzo dietro al bancone li salutò cordialmente augurando loro la buonanotte in un inglese un po' stentato, ma non si creò molti problemi perché riconobbe lo stesso livello di pronuncia anche per i giapponesi. 
Fra lo strepitio di Ayumi e co. I vacanzieri si salutarono a malapena: erano tutti così sfiniti da non riuscire neanche a ragionare. Avevano prosciugato le ultime energie per gioire alla vista di quell'hotel così bello. 
Ran, Sonoko, Ayumi ed Ai decisero di condividere la stessa stanza: all'interno si somigliavano un po' tutte, ma erano egualmente belle e piene di decori, sia per via delle lenzuola in raso e per le tende sottili e morbide, sia per la moquette color panna. La prima a sdraiarsi sul lettone matrimoniale fu Sonoko, seguita poi dalle altre due ragazze: Ai si tenne in disparte e preferì dare una rapida occhiata al panorama: le chiese di Firenze svettavano sui profili bassi delle case, ma ciò che la colpì immediatamente fu il grande torrione di Palazzo Vecchio. Quel torrione si levava in alto a vegliare costantemente sulla città, il quadrante circolare dell'orologio segnava le quattro meno cinque. La piccola Haibara sussultò non appena sentì Ran alle proprie spalle, che proprio come lei, stava rivolgendo gli occhi nelle sua stessa direzione. “Quel palazzo venne costruito con l'intento di voler realizzare una specie di fortezza per le famiglie più ricche di Firenze. Durante il Rinascimento fu l'abitazione di Cosimo de' Medici.” Le ragazze si soffermarono ad osservarne la merlatura guelfa, poi Ran continuò a parlare con voce placida e leggermente bassa. In fondo era tardi. “Sembra un re che raccoglie a sé tutti i propri cittadini. Veglia su di loro anche quando tutto tace e quando ognuno dorme sicuro nelle proprie case.” Sonoko ed Ayumi erano sprofondate fra le braccia di Morfeo, si udivano i loro respiri lenti ma profondi. Ai si scansò dalla finestra. 
“Ran, vado a lavarmi, se non ti dispiace. Buonanotte.” La piccola si richiuse nel bagno e lasciò che l'acqua cominciasse a scorrere. 
Invece Ran rimase lì, ad osservare Firenze al di là dei vetri della finestra. Per un attimo la storia sembrò essersi impossessata di lei e della propria mente, trascinandola e tenendole la mano, dirette entrambe in un mondo che valicava i confini della realtà: una bandiera con lo stemma fiorentino sventolava accompagnata dal vento, un gruppo di soldati in uniforme spiegava le bombarde contro il nemico, mentre pallottole di metallo schizzavano nell'aria carica di fumo e polvere. Le sembrò quasi di sentire l'odore acre e penetrante della polvere da sparo. Poi girò lo sguardo ed improvvisamente vide un soldato, proprio sulla sommità del Palazzo della Signoria: osservava l'orizzonte attraverso un cannocchiale, incurante del forte vento che rischiava di sbalzarlo da quell'altezza vertiginosa. 
E alla fine, con un ultimo schioppo di fucile, Ran ripiombò alla realtà. La torre di Arnolfo era ancora lì, immobile, robusta, imponente. 
Eppure, per un istante soltanto, le era sembrato di intravedere un lembo bianco svolazzare in cima a quel torrione. Il cuore le si arrestò nel petto, poi riprese a pulsare  normalmente non appena riaprì le palpebre. La lancetta delle ore segnava le cinque, forse era giunto il momento di farsi una bella dormita. 
 
 
 
 
 
 
Il giorno seguente Ran si svegliò di buon umore, nonostante avesse dormito ben poco. Al suo risveglio però, non trovò nessuno nella propria camera: le coperte delle altre ragazze erano piegate ordinatamente ed apparentemente sembrava essere tutto tranquillo. Eppure non appena uscì dalla porta della stanza, i Detective Boys le urlarono contro e cominciarono a cantarle gli auguri a squarciagola. Li vide sorridere tutti, persino Conan ed Ai applaudirono allo 'spettacolo' offerto dai più piccoli. Sonoko si era presentata al suo cospetto con un immenso vassoio ricolmo di pasticcini ed un sorrisone stampato sul volto. Si chiese come facesse quella ragazza ad essere sempre così vivace. Così erano scesi nella Hall per fare colazione tutti insieme. Ran aveva chiesto espressamente di comportarsi nella maniera più sobria possibile, anche perché non amava le cose fatte in grande: le stavano scomode, si sentiva a disagio. Ma con loro fu tutto diverso. 
Trascorsero il giorno fra le vie di Firenze, visitando le chiese più famose ed intrise di storia: più che un viaggio, fu un vero e proprio percorso attraverso le epoche, compiuto con gli occhi del passato. Ran non fece altro che ridere: si stava divertendo. Alle volte si ritrovava a fissare Conan. E quando i loro occhi si incrociavano, lei non poteva far altro che sorridergli. Era felice. E conosceva bene il motivo di quell'ebbrezza. Scattarono innumerevoli foto ed Ai si rivelò un'ottima fotografa, anche se prediligeva i ritratti paesaggistici: per una buona mezz'ora la ragazza si ritirò presso un'altura ad osservare il tramonto, mentre gli altri chiacchieravano all'ombra di un platano. Così si concluse quel primo giorno: in realtà era stato piuttosto faticoso e stancante, anche perché non erano riusciti ancora ad ambientarsi. Avevano preferito rimanere nei pressi del Centro Storico, in modo da ritrovare facilmente l'albergo. 
Per la sera, Kogoro aveva prenotato un tavolo ad un ristorante dislocato proprio nei pressi di Ponte Vecchio: lo aveva scelto assieme a Conan perché sapevano entrambi quanto Ran fosse idealista e romantica. Per non rivelarle subito dove si stavano dirigendo, Sonoko le premette le mani sugli occhi e la condusse pian piano verso il ristorante, dove la stavano già aspettando tutti. 
“Se ti vedesse Shinichi penso che si mangerebbe anche i gomiti per essersi fatto aspettare tutto questo tempo.” 
Ran rise, ma le sue guance si colorarono subito di un rosso vivo: non vedeva la strada di fronte a sé, rischiava di inciampare con quei tacchi vertiginosi. Sentiva la tiepida brezza del fiume sbatterle contro il viso, così inspirò a pieni polmoni quell'aria così particolare. “Secondo me Shinichi non si accorgerebbe neanche del vestito che indosso. Sarà pur sempre un Detective, ma è così ottuso.” Le due ragazze risero all'unisono e fra uno scherzo ed un altro, Sonoko si fermò, poi lasciò che le dita scivolassero sulle spalle di Ran: le strinse vigorosamente. 
“Siamo arrivati. Ci sono tutti.” 
La ragazza mora poté finalmente riaprire gli occhi, e non appena le immagini divennero nitide, subito si appannarono nuovamente. Due grandi lacrimoni le attraversarono le guance. Si fermò a guardare gli amici di sempre con la stessa intensità con la quale si guardano delle persone che sono appena tornate da un lungo viaggio. Si portò una mano al volto bagnato e lo asciugò, mentre sorrise di cuore nel vedere Conan indossare un vestitino elegante ed un piccolo cravattino rosso.  
Il Piccolo Detective lanciò mentalmente una maledizione nei confronti dell'Organizzazione che lo aveva rimpicciolito: se solo avesse indossato i panni di Shinichi, le sarebbe corso incontro e l'avrebbe stretta a sé perché non potesse più allontanarsi da lui. In quel vestito nero che pareva essere stato cucito sul suo corpo e che si fermava proprio al di sopra delle ginocchia, Ran era splendida. Le sembrò così irraggiungibile, pur essendo proprio di fronte ai suoi occhi. Tra lui e lei, materialmente vi erano soltanto pochi metri, ma fra di loro come anime, vi era un'incommensurabile distanza che niente avrebbe colmato. 
Così lontani, eppure, così vicini. Conan Edogawa si sforzò di sorriderle. Tutti le avevano fatto i complimenti, meno che lui. 
Quando si sedettero al tavolo, Ran si accorse che il ristorante si affacciava proprio sul fiume: la superficie dell'acqua era increspata dolcemente dal vento, e le infinite luci delle case vi si specchiavano come fiammelle tremolanti. Si intravedeva Ponte Vecchio che collegava armoniosamente le due rive, e su di esso, un gran via vai di turisti. Si udiva persino la musica di alcuni chitarristi che si stavano esibendo proprio lì vicino. Era tutto perfetto. Anche se mancava lui. 
Ran si strinse vicino al proprio padre e lo abbracciò forte, sussurrando un 'Grazie papà, ti voglio bene'. Di tutta risposta, l'uomo le accarezzò il volto e le asciugò il viso ancora bagnato dalle lacrime.
“Smettila di piangere, dai.” Le consigliò gentilmente. 
“Non sto piangendo.” Dopo quel breve scambio di affetto, la ragazza si rivolse nuovamente ai propri amici, anche se Conan le parve strano. Aveva un'ombra sul volto che lo faceva apparire carico di malinconia. Magari più tardi gli avrebbe chiesto che cosa fosse successo. 
Le portate di cibo erano una più buona dell'altra, la cucina italiana era decisamente differente da quella giapponese, soprattutto per la totalizzante presenza della pasta.
“Ehi, c'è pasta ovunque, in ogni piatto.” Genta si stava ingozzando senza neanche capire cosa stesse infilando sotto i denti. La sua filosofia era quella di riempire lo stomaco, indipendentemente da cosa vi finisse dentro. 
'Che scemo. Ingurgiterebbe anche i calcinacci.' Pensò Conan, masticando il suo boccone con estrema lentezza: anche la fama sembrava essersi volatilizzata. Ai gli diede una gomitata. 
“Kudo, la vuoi piantare di mortificarti?” La scienziata glielo disse con voce bassa mentre si guardava in giro con circospezione. “Con questo tuo atteggiamento non fai altro che ferirla. Lo sai quanto vuole bene a Conan. Sono sicura che dentro di lei sta soffrendo per la mancanza di Shinichi. Manca solo lui al suo compleanno. Eppure sta sorridendo. Non fare l'egoista.” 
Conan deglutì, il boccone gli andò quasi di traverso. Dopo essersi scolato un bicchierone di acqua, le si rivolse con sguardo contrito. “No. Non è così, Ai. Ran ha la certezza che Shinichi verrà. Stasera stessa.” 
Ai strinse i denti e lo guardò più in profondità, nei suoi occhioni blu. “Tu sei pazzo. Cosa hai intenzione di fare?” 
“Ragazzi, ma di cosa state confabulando così teneramente? Rendeteci partecipi.” Sonoko dovette interrompere il loro discorso, al chè i due furono costretti ad abbandonare la conversazione, ma Ai non mancò di bisbigliare un ultimo avvertimento.
“Qualsiasi cosa tu abbia intenzione di fare, falla con la testa Kudo. Il cuore non ha sempre ragione.” 
Quella frase rimbombò nella testa di Conan come una lancetta di orologio, sempre pronta a ticchettare nel silenzio, incessantemente. Come un tarlo che rosicchia di continuo il legno e se ne nutre avidamente. Eppure non volle darle ascolto. Non appena la cena si concluse ed i ragazzi si avviarono verso l'albergo, il Detective corse nella cucina del ristorante e cominciò a rovistare febbrilmente in tutte le ante che contenevano liquori.
“Ehi, moccioso, ma che diavolo stai facendo?” Il capo cuoco italiano lo afferrò per la collottola e lo sollevò ad un palmo da terra, ma il piccolo aveva ottenuto quel che voleva, ed infatti brancolava a mezz'aria una bottiglia dove l'etichetta recava il nome di 'Paikal'. Sgattaiolò dalla presa dell'uomo nerboruto e si rifugiò sul retro del locale. C'era soltanto un gatto randagio che saltellava fra i bidoni e fra i sacchi di rifiuti. Col cuore in gola e con la saliva azzerata, Conan richiuse gli occhi e si scolò metà di quel liquore. 
Il suo corpo fu immediatamente colto dagli spasmi, arcuò le dita alla gola e se la strinse con violenza: quel liquido che scivolava lungo l'esofago gli bruciava come fosse stato alcol puro. Dio, se fosse sopravvissuto, avrebbe detto a Ran che quel vestito l'aveva resa ancor più incantevole del solito. Se solo fosse sopravvissuto. 
 
 
 
 
 
Ran era salita nella sua camera d'albergo e aveva aspettato che tutti dormissero, dopodiché era uscita in punta di piedi e aveva consegnato le chiavi della stanza alla reception: aveva deciso di indossare nuovamente l'abito della sera. 
Percorse silenziosamente i vicoli bui di Firenze, non priva di un certo timore che la inquietava. Non si sentiva sicura a passeggiare da sola in una città a lei sconosciuta, ma fortunatamente non appena svoltò l'angolo per raggiungere Ponte Vecchio, alcune coppiette le tagliarono la strada. Significava che c'era ancora qualcuno che gironzolava per la città. Si trattava specialmente di turisti. Trasse un sospiro di sollievo e procedette con passo più svelto. Il cuore le esplodeva letteralmente nel petto. Giunse in pochissimi minuti presso il ponte, dopodiché si fermò proprio nella parte centrale, dove vi era l'arco che affacciava sulla porzione più ampia del fiume. Sia a destra che a sinistra, riconobbe i contorni dei palazzi che avevano visitato quella mattina. Era incredibile come fosse riuscita a percepire la città come propria, in così poche ore. Forse era semplicemente l'atmosfera del luogo. Si sfilò dalla borsa il biglietto con l'elegante calligrafia di Shinichi: l'avrebbe riconosciuta fra mille, così piena di ghirigori ed inclinata verso destra. 
 
'Ci vediamo a mezzanotte sul Ponte che abbraccia l'Arno. 
 Tanti auguri, Ran. 
 
Shinichi.' 
 
 
 
 
 
Conan riaprì gli occhi e sentì un dolore allucinante pervadergli le membra: tentò di muovere le braccia, eppure si rese conto di averle serrate dietro la schiena da una corda pesante e robusta. Probabilmente era svenuto, ma qualcosa non doveva essere andato come prevedeva. Perché era legato? 
Si guardò intorno, ma quel che vide fu solo un magazzino dismesso e poca luce: c'erano alcuni scatoloni ammassati negli angoli della stanza, un fetore di umidità e di acqua sporca si infiltrò prepotentemente nelle sue narici. Tossì, e dal tono di voce si rese conto di essere ancora Shinichi Kudo. 
Ricordava soltanto di essersi cambiato d'abito e di essere sceso in strada, dopodiché, l'unico frammento che gli era rimasto incastonato nella mente, era un terribile dolore alla nuca. Qualcuno lo aveva rapito. Ma chi diavolo poteva avere interesse nel rapirlo? Forse l'organizzazione? Come avevano fatto a seguirlo? Erano forse approdati addirittura in Italia pur di ammazzarlo? 
Un brivido percorse la sua schiena: sentiva ancora il profumo del dopobarba che si era spruzzato prima di uscire. 'Maledizione.' Si morse il labbro con violenza, quasi a farsi male.
Qualcuno si stava avvicinando, sentiva i passi ovattati al di là della porta d'ingresso. 
Alla fine, la porta si spalancò, e Shinichi non poté far altro che sgranare gli occhi. 



 
 

Saaaaaalve miei cari!! :) 
Sono tornata con una nuova storia! Spero vi piaccia! Ho deciso di trattare qualcosa di diverso, uno stile ed un genere completamente diverso da quello a cui ho abituato i miei lettori... per questo sono mooooooolto titubante sul risultato.
Comincio col dirvi che non si capisce ancora molto bene come si svilupperà la storia, ma sappiate che avrà dei risvolti veramente molto insoliti. 
Che dire? Si, a parte che sono crudele con i miei personaggi, cos'altro??? Ahahhahaaha!! Dovrete abituarvi ;) Il titolo è ripreso dai Pink Floyd, gruppo che io adoro alla follia! Trovo azzecate le loro melodie alla mia storia, per cui non potevo far altro che rendere loro omaggio. E d'altronde credo che dietro questo titolo ci sia una riflessione filosofica sull'intera storia, che spero riuscirete a capire più avanti!
Ops, dimenticavo. Fatemi sapere cosa ne pensate con un commentino qui sotto! Ne sarei infinitamente felice e ve ne sarei infinitamente grata. 
Potrete lasciare anche recensioni negative, non mi offendo mica XD d'altronde siamo qui su EFP per sognare e per imparare sempre qualcosa di nuovo, no?
Dimenticavo alla seconda. 
Vorrei dedicare questo primo capitolo a Flami, che sicuramente voi del fandom di DC conoscerete. 
Diciamo che ti dedico l'intera storia va.. ahahahahah!! Così facciamo prima :P 
Ti voglio bene!!
Concludo dandovi un fortissimo abbraccio!
Al prossimo Capitolone,


Aya_Brea

 

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Capitolo 2
*** Forse, un eroe? ***


2. Forse, un eroe? 




Shinichi sollevò il capo e vide che la porta si era spalancata di colpo, senza dargli il benché minimo istante di riflessione. Non sapeva bene cosa diavolo stesse succedendo, eppure il suo cuore perse un battito non appena riuscì a focalizzare chi vi fosse al di là dei propri occhi. Un candido mantello bianco svolazzava intorno alla figura imperiosa di Ladro Kid. E come di consueto, come ad ogni sua apparizione, quel soffice manto di seta venne avvolto da un'aura quasi magica. Non seppe spiegarsi come, ma Kid riusciva a rendere teatrale qualsiasi scenario in cui comparisse.  
Il volto del mago passò improvvisamente dalla serietà allo stupore: incrociando lo sguardo del detective liceale, infatti, sembrò come deluso da quell'incontro. Non se lo sarebbe mai aspettato. 
Kudo strinse i denti e con essi, serrò anche i pugni: le nocche spingevano contro la colonna in calcestruzzo. “Che sta succedendo? Sei stato tu ad orchestrare questa specie di rapimento?” Il Detective si sforzò per sfoderare il suo classico sorriso sardonico, ma l'altro, di tutta risposta, non se ne curò minimamente. Come se Shinichi non vi fosse, avanzò con passo rapido ed oltrepassò addirittura il ragazzo legato. Al momento le sue priorità erano ben altre. Come presagiva, in fondo al magazzino, fra i cumuli di macerie e fra la polvere di granito, aleggiava sospinto dal vento, un minuscolo biglietto spiegazzato. Lo raccolse con la mano guantata di bianco e ne lesse rapidamente il contenuto. I suoi occhi corsero lungo la calligrafia spigolosa e calcata. 
'Benvenuto a Firenze, Kaito Kuroba. Sapevo che saresti approdato in Italia pur di scoprire chi si celi dietro l'identità del sottoscritto. Eppure, credo proprio che l'impresa sarà ardua, lunga e faticosa. Tieni d'occhio le persone che ti sono vicine.” 
Shinichi strepitava dall'altro capo della stanza, si lasciò poi sfuggire un mugugno contrariato. “Kid!” Lo richiamò, allo stremo delle forze. 
Il ladro gentiluomo ripiegò il biglietto e lo custodì nella tasca interna della giacca, poi si diresse nuovamente verso l'uscita. 
“Fa' molta attenzione, giovane Detective. Siamo invischiati in un bel guaio.” 
“Cosa vuoi dire?” La porta si richiuse alle spalle di Kid. Cosa voleva comunicare con quella frase? Chi l'aveva rapito, e per quale motivo lo aveva fatto? Sentì una scia di calore percorrergli la spina dorsale, poi il suo corpo fu scosso da alcuni brividi. Soltanto Conan l'avrebbe liberato dalle corde che lo imprigionavano. Stavolta quel piccolo occhialuto si sarebbe rivelato davvero utile. 





Erano trascorse quasi due lunghe ed interminabili ore, aveva osservato gli ultimi amanti sfuggire agli sgoccioli di quella notte per rintanarsi finalmente nei loro nidi d’amore, aveva osservato stancamente, come le luci dei palazzoni si spegnessero una dopo l’altra: alcune rimasero accese, si intravedevano di tanto in tanto delle ombre nere far capolino, furtive. Ed aveva osservato il fiume nella sua immobilità, ne era stata rapita più volte: avrebbe potuto perdersi in quello specchio nero, pieno di infinite e vibranti increspature. Ponte Vecchio di notte, era un vero e proprio gioiellino. 
Aveva ormai raggiunto la maggiore età, lo aveva fatto da un pezzo, ma Shinichi non si era presentato neanche quella volta: Ran ebbe la triste conferma dell’ennesima promessa non mantenuta. Le sembrò di rivedere lo stralcio di ricordo da cui tutto era cominciato: aveva il braccio sollevato, correva inoltrandosi in quel viottolo scuro, inghiottito lentamente nelle tenebre. Il suo ultimo sorriso, le sue ultime parole, ed infine, quel terribile presentimento rivelatosi veritiero. Shinichi scomparve.
E non c’era. Neanche quella volta. Giunse alla conclusione che il caso che l’aveva completamente assorbito doveva essere di gran lunga più importante di lei. Eppure le aveva spedito quel biglietto e forse era stato proprio quel piccolo dettaglio a farle sperare in un suo ritorno, in una sua sorpresa. Ma così non era stato. 
Quando le prime gocce di pioggia avevano cominciato a picchiettare sulla strada, le sembrò come se la natura stesse partecipando al dolore che la dilaniava dentro: indietreggiò di qualche passò ed istintivamente sollevò il volto verso il cielo, osservando le dense nuvole bigie incastrarsi fra loro. Alcune gocce d’acqua le scivolarono sulle guance, tenne gli occhi aperti fin quando l’ennesima goccia non le colpì la palpebra: era troppo fitta perché potesse continuare a guardare all’insù. Shinichi. Perché non c’era mai? Perché doveva farla soffrire inutilmente? Perché? 
Improvvisamente le gambe cedettero e Ran si afflosciò al suolo come un fiore abbattuto dalla violenza di una tempesta: i suoi petali erano fin troppo deboli, gracili ed il suo stelo troppo esile, anche se all’apparenza aveva potuto dimostrare il contrario. Spesso la bellezza è soltanto un velo indossato per nascondere la fragilità interiore. La ragazza infatti, aveva affondato il visino fra le dita congelate dal freddo, percependo subito le lacrime, invece, calde, che gli bagnavano le ciglia. Il suo corpo era scosso da innumerevoli brividi e singulti; la pioggia si faceva via via più incessante. Ormai il suo vestito era intriso di acqua. Rovinato per sempre.
“Mi hanno regalato qualsiasi cosa, ma niente potrà colmare il vuoto che mi dai tu. Ti odio.” Farfugliò, mentre strinse i pugni e si accoccolò ancor di più a terra, stretta stretta e chiusa come un riccio pronto a difendersi dal pericolo imminente. Shinichi aveva ucciso anche quel suo piccolo barlume di speranza, quel piccolo germoglio che ancora custodiva gelosamente nel cuore.
Continuò a piangere a lungo, fin quando d'un tratto, le parve di sentirsi asciutta. La pioggia aveva forse cessato di cadere? Sollevò il viso paonazzo di rabbia e dolore, e vide proprio a pochi centimetri da lei, un paio di eleganti scarpe bianche, laccate. Per un attimo le lacrime smisero di scendere giù, copiose. Si passò una mano sul viso per asciugarselo, e lentamente risalì con lo sguardo. Quei pantaloni di seta chiari erano inconfondibili, tanto più inconfondibile quel volto sbarazzino, lo sfavillante monocolo ed il cappello a cilindro.  Le si mozzò il fiato in gola: il suo candido mantello si agitava sospinto dal vento. 
“Kaito Kid?” Ran sussurrò più a se stessa, che a lui. Era incredula. Strabuzzò gli occhi per assicurarsi che non si trattasse di un sogno. 
Il ladro gentiluomo la stava riparando dalla pioggia con un ampio ombrello nero, mentre l’altra mano, avvolta dal guanto, era tesa e rivolta verso la ragazza. “Non sta bene che una ragazza se ne stia tutta sola, nel bel mezzo di un temporale.” 
Ran lo osservò a lungo, senza avere il coraggio di rispondere: sembrava non curarsi del clima così torbido.  E d'altronde come avrebbe potuto preoccuparsene, una leggenda vivente come lui? 
Come se i brutti pensieri l'avessero abbandonata, la ragazza mora si alzò in piedi e si sistemò, per quanto poté, l'abito: era tutto zuppo d'acqua, le aderiva in maniera fastidiosa ad ogni centimetro della pelle. Aveva la sensazione di indossare un sacco della spazzatura. 
“Dev'essere uno scherzo, questo.” Proruppe lei, sarcastica. Ovviamente aveva respinto il suo aiuto.
Kid sorrise, e le sue labbra si inarcarono ancor di più, non appena ebbe l'opportunità di incrociare lo sguardo stizzito di Ran. “Hai un faccino così pieno di rabbia. Dimmi, è per colpa di qualche ragazzo?”
A quel punto, ella sollevò le spalle. “Non so di cosa stai parlando. Ma ti ordino di starmi lontano. Non avvicinarti ancora o chiamo la polizia. Mi hai sentito?” Se solo si fossero ritrovati in un'altra situazione, la presenza del ladro gentiluomo l'avrebbe sicuramente colta di sorpresa, ma i pensieri che la tormentavano e l'ira che si mescolava dentro di lei, non le regalarono neanche un briciolo di lucidità. Era come in trance. Tutto quel che voleva fare, era raggiungere l'albergo per potersi fare una bella doccia calda. 
“Ehi, stai calma. Mi credi davvero capace di far del male ad una splendida fanciulla? Le donne non si toccano, neanche con un fiore. Mi deludi, Ran.” 
Sentendosi chiamare per nome, ella trasalì: aveva girato i tacchi per darsela a gambe, ma quell'ultima esclamazione l'aveva costretta a voltarsi nuovamente verso di lui. La pioggia continuava a scrosciare sulla città di Firenze, la sentiva nuovamente ed in parte le impediva di tenere gli occhi aperti. Kaito invece, teneva l'ombrello con estrema non-chalance. 
“Come fai a sapere il mio nome?” Borbottò, dunque. “Stammi lontano. Guarda che … guarda che hai le ore contate.”
“Se volessi, potrei scoprire qualsiasi cosa.” Kid piegò il capo sulla spalla e le strizzò l'occhiolino. Il sorriso scaltro non era ancora scomparso dal suo volto.
Ran pensò per qualche istante che avrebbe potuto chiedergli dove diavolo fosse finito Shinichi, ma alla fine lasciò perdere. Era una follia! Si maledisse mentalmente per aver pensato, anche soltanto per un secondo, di potersi fidare di un ladro. Ma la curiosità di capire per quale motivo fosse lì era veramente troppo grande. Nonostante ciò, scosse il capo e decise che era giunto il momento di filarsela: Sonoko e gli altri erano sicuramente in pensiero per lei. Con passo svelto e sostenuto, si avviò verso l'albergo, cercando di ricordare la strada che aveva percorso qualche ora prima. Non che le mancasse il coraggio di affrontare quel ladro, ma era sicura che la scelta più saggia da prendere, fosse quella di avvertire il padre e la polizia.
Qualche metro più tardi, ebbe ancora la sensazione di avere un paio di occhi puntati sulla schiena: si voltò con circospezione e vide che Kid la stava seguendo. Ritornò dunque sui propri passi, incurante di quella seccatura. 'Ma guarda un po' che scherzi mi gioca il destino. Mi ritrovo ad attendere con trepidazione quell'imbecille di Detective da due soldi, e come risultato ottengo un ladro montato alle calcagna. Quando si scolla?' Ran continuò camminare, di tanto in tanto gettava un'occhiata dietro di sé: Kaito era ancora lì, sembrava stesse passeggiando per conto suo. D'un tratto prese persino a fischiettare, quasi non volesse seguirla, come se si trovasse a girovagare senza una meta. 
'Certo che è proprio strano. Mi sta mettendo ansia.' Senza neanche accorgersene infatti, Ran aumentò drasticamente il passo, svoltò nei pressi della via dell'albergo e oltrepassò il grande lampione che emanava la sua intensa luce giallastra. Aveva quasi smesso di piovere. Passò rapidamente al di sotto di un porticato, poi finalmente raggiunse l'ingresso dell'albergo. Nella sicurezza data dalle luci alle reception, ella si voltò per l'ultima volta e fu allora che scorse nuovamente la sua figura. 
Sull'altro marciapiede, seduto su di una panchina di pietra, Kaito Kid si era sfilato il cappello a cilindro e la osservava, serio. Non pioveva più. Fra di loro si frapponevano soltanto un pezzo di strada, una manciata di polvere sollevata da una folata di vento e niente più. Il cuore di Ran rallentò, riprese a battere regolarmente, tanto che il suo corpo non percepì più la situazione come 'pericolosa'. Quasi le venne da sorridere. 'Ma che fa? La guardia del corpo?' 
Kid sollevò il braccio e le fece un cenno, dopodiché, sorrise leggermente. “Buonanotte, dolce fanciulla.” 
Ran non riuscì a trattenere un flebile sorriso, la circostanza era più che paradossale. Fece per varcare la soglia, ma con suo grande stupore udì una frase che la fece rabbrividire.
“Le lacrime son come diamanti. Non sprecarle per chi non ti merita.”
 
 
 
 
 
Ran si trascinò stancamente verso la stanza del padre: nell'albergo non s'udiva un fiato, c'era un silenzio a dir poco opprimente e per questo si premunì di non fare troppo rumore. I suoi passi risuonarono ovattati sulla moquette, poi picchiettò le nocche contro la porta di legno. Rimase in attesa per qualche minuto: non si aspettava che il padre si destasse per qualche colpetto così debole, infatti fu il piccolo Conan ad aprirle. 
“Conan! Ti ho svegliato?”
Il bambino sbadigliò vistosamente ma si sforzò ugualmente di sorridere. “Macché, stai tranquilla Ran. Ero in dormiveglia. Kogoro russa talmente forte da non farmi chiudere occhio.” Osservò la ragazza e poi le chiese dove fosse stata, per quale motivo i suoi vestiti fossero intrisi d'acqua. 
“Volevo fare un giro, mi sono allontanata dall'albergo e alla fine si è messo a piovere. Non potevo correre con questi tacchi.” Ridacchiò, dopodiché si inginocchiò a terra per dare un buffetto a Conan. Il suo sguardo era insolitamente dolce. “Volevo assicurarmi che fosse tutto ok. Dovevo parlare con papà ma a quanto pare è meglio rimandare a domattina. Come si dice? Mai svegliare il can che dorme.” 
Conan annuì, si sforzò di sorridere, ma in fondo agli occhi di Ran lesse un velo di preoccupazione. L'aveva vista. Quel maledetto si era avvicinato troppo. Cosa diavolo voleva da lei? Per quale motivo si trovava in Italia? Quel misero involucro da marmocchio non era mai stato così pesante, si sentiva incatenato in un corpo che non gli apparteneva. Non riusciva ad avere pieno possesso delle proprie facoltà, fu quasi tentato di rivelargli la verità, ma l'istante successivo si ritrovò a pentirsene. Doveva proteggere Ran. Ma anche se stesso. Le afferrò il polso in uno scatto, i suoi occhi vagarono in cerca di risposte. “Ran... io ci sono. Per qualsiasi cosa.” Lasciò subito la presa, quasi se ne vergognò. Sorrise per mascherare la sua apprensione. 
“Va tutto bene. Fila a dormire ora, è tardissimo. Buonanotte Conan.” 
“Notte Ran.” Richiuse la porta ed inspirò.
Kaito Kid avrebbe pagato per quell'affronto.
 
 
 
 
 
Ran aveva trascorso il giorno seguente a rimuginare sul suo recente incontro: il sole era caldo, l'afa rendeva difficoltosa la loro traversata della città, specialmente nei tratti in cui il terreno diventava scosceso. Passo dopo passo, non riusciva a non pensare alle parole di Kid, al suo mantello bianco, a Shinichi. Conan infatti,  non mancò di notare che la ragazza se ne stava sulle sue; il suo faccino nascosto dal cappellino, poi, non dava adito ad alcun dubbio. Ma come qualsiasi giornata storta, anche quella volse al termine. Si ritirarono tutti nelle loro camere  e dopo una breve doccia ristoratrice si ritrovarono nella hall per la cena. 
Ran e Sonoko scesero assieme, Kogoro le vide scambiarsi alcune chiacchiere fugaci, che lui non riuscì a comprendere neanche tramite il labiale, data la loro terribile abitudine di nascondersi dietro i palmi delle mani. Si avvicinarono agli altri scoppiando in una fragorosa risata d'intesa.
Conan le aspettava insieme ad Ai. 'Ma quando diavolo si decide a parlare al padre di Kid? E che hanno tanto da confabulare queste due? Non me la raccontano giusta.' Il detective aggrottò la fronte e le seguì entrambe con lo sguardo, fin quando non raggiunsero il tavolo riservatogli. 
Durante la cena, Ran fu tentata più volte a rivelare la verità al padre, ma qualcosa la frenava non appena provava ad aprir bocca per aprire il discorso. Si pulì le labbra col fazzoletto e trasse un sospiro carico di incertezza. Dopodiché si rivolse a Sonoko, intenta a spiluccare le ultime briciole di pane. 
“Cosa facciamo stasera? Seguiamo gli altri, oppure preferisci fare altro?” 
L'ereditiera si portò entrambe le mani al viso e sorrise ampiamente. “Dipende da quel che vogliono fare.” 
Ran sollevò le spalle ed osservò il padre mentre ingurgitava avidamente quel che aveva nel piatto. Avrebbe potuto fidarsi di un tale scellerato? “Credo che stasera ci sia l'orchestra in Piazza della Signoria. Ayumi e gli altri vorranno andare ad ascoltarla, e credo che anche il Dottor Agasa sia interessato.” 
“E tu? Cosa vuoi fare, Ran?” Incalzò Sonoko, evidentemente seccata al solo pensiero di starsene in piedi per sentire musica d'altri tempi. A quel punto la ragazza mora non riuscì a trattenere un sorriso, anche per la palese reazione dell'amica. 
“Ho capito, non ti va di andare. Beh, potremmo sempre farci un giro per la città.” 
“Magari qualche localino nei dintorni.” Sonoko lasciò scivolare le mani sul petto e ve le intrecciò, con sguardo sognante e perso. “Sarebbe bello trovare un fidanzato italiano!”
“Ma smettila! Non siamo qui per fare colpo.” Ran le diede un leggero colpetto. Ma si, per una volta avrebbero potuto godersi la serata come preferivano. 
Una volta fuori dall'hotel, infatti, le due si separarono dal gruppo. 
Conan rimase a guardarle mentre si allontanavano: Ran e Sonoko stavano percorrendo lo stesso ponte che avrebbe dovuto percorrere anche Shinichi. Strinse i denti e pensò immediatamente che non poteva lasciarle sole, era una follia: divenivano due figure sempre più lontane, poi alcune persone le circondarono fin quando non si confusero fra la folla. Fu allora, proprio quando erano lontane dai propri occhi, che il Detective provò a lanciarsi di corsa verso di loro. E proprio in quel preciso istante, non solo la mano di Ai si avvolse intorno al suo polso esile, ma un urlo lacerante si udì proprio alle loro spalle, nella direzione opposta a quella di Ran e Sonoko. 
Il vociare confuso si acquietò, Conan provò a guardare nuovamente fra la folla nel tentativo di scorgere le due amiche, ma alla fine ritornò sui propri passi e si voltò: un cerchio di persone dal volto pallido contornavano quella che aveva tutta l'aria di essere una tragedia. Scavalcò alcuni gradini, incurante delle parole di Haibara, e non appena si fece largo fra gli astanti, vide il corpo di una donna riverso in terra ed immerso in una pozzanghera di sangue. 
“Si è suicidata, si è buttata da quel palazzo. Oh mio Dio, è terribile.” Esclamò una signora. Ricevette il consenso da parte di altri, ma Conan non comprese quel che si stava dicendo. 
Haibara alzò lo sguardo ai merli guelfi del palazzo, stagliarsi nitidamente contro il cielo nero. “Stanno dicendo che si è buttata giù.” 
“Suicidio?” Conan aveva la cattiva abitudine di gettarsi a capofitto nei propri casi, così corse verso il cadavere. Prima che qualcuno lo avesse afferrato per la collottola, riuscì a scorgere il volto straziato della donna. Non sembrava affatto un suicidio.
“Quante volte devo dirtelo di farti gli affaracci tuoi, moccioso!” Kogoro non mancò di trascinarlo via in malo modo. Fra le sue braccia serrate che gli impedivano di sgattaiolare via, valutò alcuni fattori, fra i quali l'altezza del palazzo, la posizione del cadavere e il vento che spirava nel verso contrario.
Gli bastarono quei pochissimi dettagli per capire che non si trattava di suicidio. Qualcuno l'aveva spinta, non accidentalmente, ma con la precisa intenzione di ammazzarla. 
 
 
 
 
 
Ran e Sonoko erano ormai troppo lontane perché potessero rendersi conto dell'accaduto, inoltre avevano trovato un pub molto carino che costeggiava il fiume. Lontane dalla movida di strada, nel locale si respirava un leggerissimo profumo di limoni e di fiori, le luci soffuse sprigionavano colori intensi dalle tonalità azzurrognole e gli arredi erano perfettamente inquadrati nell'atmosfera moderna: sedie e tavoli erano essenziali e squadrati, le superfici bianche riflettevano sapientemente i giochi di luce offerti dalle lampade. Le due ragazze erano sedute ad un tavolo sul fondo del locale e la visuale consentiva loro di osservare tutti coloro che entravano ed uscivano.
“Speriamo che si stiano divertendo, un po' mi dispiace di aver lasciato Conan da solo.”
“Mica è da solo! E poi devi smetterla di badare sempre a quel ragazzino come fosse tuo figlio. Avremmo bisogno anche noi di un po' di relax no?”
Ran giocherellava con le decorazioni del suo cellulare, osservava lo schermo nella vana speranza di ricevere qualche messaggio, se non addirittura, qualche chiamata. Era assente, non riusciva a divertirsi. “Si certo. Ma sono preoccupata. Oltre ad avere un brutto presentimento ce l'ho a morte con Shinichi.”
“E quando mai. Si sarà dimenticato ed ora si starà mangiando le mani, te lo dico io!”
“Ma come può essersi scordato di una cosa così? Era il mio compleanno, fra l'altro uno dei più importanti di tutta la mia vita.” Proferì lei con rammarico. Oramai la rabbia era scemata, lasciando spazio al solo dispiacere. 
“Dai, cerca di non pensarci. Almeno stasera. Fai un bel sorriso e guarda avanti. Quando lo sentirai, gliene dirai quattro.” Sonoko non riusciva più a consolarla, aveva terminato anche gli ultimi banali consigli da darle. Si sentiva anche un po' inutile e stupida. 
“Forse hai ragione. Tanto di lui non me ne importa nulla. E' solo un amico.” Proferì con tono scarsamente risoluto. Ma a chi voleva darla a bere? Osservò nuovamente il display del cellulare, poi i suoi occhi balzarono al bancone del bar e d'improvvisò avvampò. C'era un uomo, seduto comodamente su di uno sgabello, che sembrava non aver fatto altro per tutto il resto della serata: la stava guardando, o meglio, la stava fissando. 
Sonoko si accorse dell'espressione attonita di Ran, così anche lei notò lo strano tizio seduto al bancone. “Santo Cielo, che occhi. Ma chi è quello?” 
L'uomo aveva infatti, due occhi di un grigio chiarissimo: era alto e ben piazzato, i capelli corti erano argentei e tirati indietro con la gelatina, il volto affilato e gli zigomi ben proporzionati. Tutto sommato avrebbe potuto sembrare affascinante, se non fosse stato per l'enorme cicatrice che gli solcava il viso: lo squarcio correva in diagonale, attraversando  i suoi occhi e tagliandogli la guancia sinistra, poi si interrompeva sulla linea della mandibola. Fra le labbra sottili teneva un sigaro, che prontamente, si sfilò dalla bocca e lo spense nel posacenere. Anche i suoi vestiti denotavano una cura a dir poco maniacale della sua persona: i pantaloni erano neri, di raso, mentre la camicia del medesimo colore era a dir poco perfetta, non una piega di troppo. 
Ran percepì il suo cuore esplodere, si sentì inadeguata ed osservata. “Ma perché mi sta fissando, Sonoko?” Un tremolio le fece vibrare la voce. Si sentì spaventata, forse inutilmente. 
“Dio, non lo so. Magari gli piaci. Mamma mia che tipo inquietante. Hai visto la cicatrice?” La ragazza bionda bisbigliava con tono concitato. 
“Senti, io esco a prendere una boccata d'aria. E comunque sarà che gli ricordo qualcuno.” Si sforzò di sorridere e si allontanò. Una volta fuori si appoggiò con le spalle al muro: c'era tanta gente, non doveva preoccuparsi di nulla. E poi era una karateka, per cui aveva le armi giuste con cui contrattaccare in caso di pericolo. 
Qualche minuto più tardi, Ran lo vide uscire dal locale, le mani infilate nelle tasche, il portamento disinvolto. Non si curò neanche di rivolgerle lo sguardo, si limitò soltanto ad ostentare un ghigno soddisfatto. 
“Sapevo che saresti uscita ad aspettarmi. Ho un paio di occhi piuttosto eloquenti, giusto?” 
Ran sussultò, avrebbe voluto rientrare nel locale, ma non voleva coinvolgere Sonoko. “Chi sei?” 
“Non ti ricordi di me? Ci siamo conosciuti quando tu eri piccola.” Solo allora, l'uomo la guardò. 
Lei scosse il capo. “Non ne ho la più pallida idea. Non mi ricordo.” Si stava mettendo nei guai. 
“Mi rincresce. Credevo che ti ricordassi. Beh, se non altro ti ricorderai di quel bimbo con i capelli castani. Giocavate sempre insieme.”
A quel punto, Ran trasalì. 'Shinichi?' Non rispose, non avrebbe saputo cosa dirgli. Aveva la gola secca.
“Peccato. Perché io mi ricordo molto bene di te. E per questo mi sarai molto utile.” L'uomo avanzò minacciosamente verso di lei, e quando fu a pochi centimetri dalla ragazza, ella cominciò a sentirsi braccata: l'istinto prevalse su qualsiasi cosa e a quel punto Ran gli sferrò un destro dritto sullo zigomo con tutta la forza che aveva in corpo. 
“Sei un portento, ragazzina. Ma non così in fretta. Non così in fretta.” Ripeté con un sorrisetto: aveva reagito anche lui afferrandole il braccio. La spinse in malo modo, tanto che Ran cadde rovinosamente al suolo. Ancora a terra, si tastò il polso e poi cercò di alzarsi in piedi per poter contrattaccare. Successe la stessa identica cosa, ma a quel punto lei decise di tentare la fuga. Scappò via, col cuore in gola, e stupidamente svoltò in una viottola della strada principale. Corse fino alla fine nello spazio angusto fra due antichi palazzoni, ma alla fine della via si rese conto di essere incappata in un vicolo cieco. 'Cavolo.  Sono spacciata. Sono stata proprio stupida' Pensò. Aveva il fiatone, per il momento non osava voltarsi a guardare se quel tipo la stesse ancora seguendo, ma a giudicare dalla risata che seguì, le stava ancora alle costole. 
“Game over, piccola. La tua corsa finisce qui. Fai la brava, ora io e te dobbiamo collaborare.” Quando Ran si girò a guardarlo, vide i suoi occhi grigi, quasi bianchi, balenare nel buio, poi l'orrenda cicatrice. Ebbe come un flash di come se la sarebbe potuta procurare. C'era solo sangue che gocciolava. Soltanto dopo si rese conto che brandiva un coltellaccio nella mano destra.  
“Che vuoi da me?” Chiese Ran, allarmata. Indietreggiava sempre più, ma l'uomo avanzava e copriva la loro distanza di secondo in secondo. 
“Non preoccuparti. Vedrai che andrà tutto bene. Non voglio farti del male.”
La ragazza strinse i denti e si mise in guardia. “Non avvicinarti!” Eppure aveva paura. Quell'uomo aveva un coltello, rischiava di farsi molto male. Chiuse gli occhi proprio quando la sua arma si stava abbattendo su di lei, ma all'improvviso si sentì letteralmente sbalzata da terra e due braccia agili e leggere la sostennero: osservò il pavimento ai suoi piedi farsi sempre più lontano. L'uomo che l'aveva minacciata si era come dileguato, ma qualcuno la stava facendo fluttuare sempre più su. Soltanto dopo pochi istanti sentì le suole toccare nuovamente terra. 
“Appena in tempo. Stasera non mi è andata bene.” Non appena Ran si girò, riconobbe subito quel mantello bianco dolcemente adagiato sulle sue spalle. 
“Kid?” Inizialmente lei fu spaesata, disorientata. “Si può sapere chi era quello? Cosa voleva da me?” 
Il ladro scosse il capo. “Non ne ho la più pallida idea. Ma so per certo che sta cercando me. E per qualche altro assurdo motivo, adesso pare interessato anche a te.” 
La ragazza avanzò di qualche passo: erano sulla sommità di un palazzo, da quella posizione si scorgeva tutto il panorama della città Fiorentina. Pareva un perfetto ricamo che si delineava sopra all'argine del fiume, immobile nel suo splendore. 
“C'è una cosa che voglio chiederti. Perché sei qui? Perché adesso, per me?” Gli occhi di Ran erano due oceani azzurri. 
Kaito le si avvicinò e le sfiorò delicatamente il polso per poterle baciare la mano. “Ma per proteggere te, è ovvio.” 
“Non prendermi in giro, lo so che sei un cascamorto.” Ran indietreggiò per liberarsi del suo gesto galante, poi rise. L'aveva salvata. Il cascamorto. “Grazie, comunque. Ma me la sarei ugualmente cavata.” Gli sorrise. 
Kid osservò il cielo, dopodiché, lei. “Una fanciulla non dovrebbe mai sporcarsi le mani. Dico bene? Lascia che ti riporti giù, ti accompagno in albergo.” Le si avvicinò ancora per poterle prendere il braccio, ma lei si accorse subito di qualcosa. 
“Oddio, ma tu sanguini.” Esclamò Ran mentre ispezionava la sua giacca lacerata sul petto. Un rivolo rosso sangue scivolava giù. “Dai, aspetta, me ne occupi io.” 
“N-no non preoccuparti. Non è nulla. E' solo un graffio. Ora ti accompagno.” Le si avvicinò e la avvolse a sè. Ran divenne rossa in viso, si sentì improvvisamente agitata. 
“Ehi, aspetta un attimo. Che vuoi fare? Kid?” Lo richiamò più volte, ma lui la prese in braccio e corse proprio verso il ciglio del palazzo: era buffo sentirla avvinghiarsi alla sua giacca come un polipo. Non appena raggiunse il baratro, si lasciò scivolare giù con estrema grazia. Avvenne tutto in una manciata di secondi; Kid aveva compiuto quella manovra nella maniera più naturale possibile, tanto che Ran dovette chiedersi se era piombata in una sottospecie di sogno o se si trattasse della realtà. La adagiò al suolo e così come era giunto nella sua vita, di soppiatto, il ladro gentiluomo la abbandonò lì. Sonoko si precipitò in suo aiuto, ma tutto quello che Ran seppe dirle fu un banalissimo: “Niente. Non è successo niente.” 







Ehmmm.. si lo so. Son mesi che non aggiorno... XD ma sono successe un po' di cose e ci sono stati gli esami universitari di mezzo, per cui non ho proprio avuto il tempo per poter scrivere.. dannazione mi sento così arrugginita :(
Spero che nonostante ciò il capitolo vi piaccia :) 
Più in là si chiariranno molte cose che ora sembrano molto... oscure ed ambigue.
Per quei pochi che saranno rimasti a seguirmi........ mi piacerebbe avere un vostro parere 
o consiglio! Ringrazio caldamente Flaminia per tutto il supporto che mi da... <3
Tu vu bu tanto!!!
A presto e al prossimo capitolo y.y sperando di non impiegarci una vita per scriverlo... Ahahahaha!!
Baci :)

Aya_Brea

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Capitolo 3
*** Come Bonnie e Clyde ***


 3. Come Bonnie e Clyde



Firenze s'era assopita assieme ai suoi cittadini e mentre il nero della notte l'aveva inghiottita in una immobilità surreale, un angelo dal candido mantello si aggirava per le sue strade, apparentemente senza meta. Era ormai lontano dal centro abitato, ma nonostante tutto i lampioni ai bordi dello stradone avevano continuato ad accompagnarlo lungo il suo tragitto solitario.
Kaito Kid avvolse la mano intorno al palo della luce e si lasciò volteggiare intorno ad esso, mentre con lo sguardo vagava fra i contorni della città. Un sorriso malinconico gli si dipinse sul volto. 'Spero che tu sia riuscita a cavartela Ran.' Lasciò andare il palo e con grazia se ne discostò, proseguendo il suo cammino. Il freddo pungente della sera lo costrinse a stringere un poco di più le spalle, mentre le mani si infiltravano nelle tasche dei pantaloni. Alla fine scorse la cabina telefonica a pochi metri da lui, isolata dal resto del mondo; era la prima volta che si ritrovava in una situazione simile. Dopo aver appurato di essere completamente solo, Kaito aprì la porta della cabina e se la richiuse alle spalle. Esitò per alcuni secondi prima di afferrare la cornetta del telefono: non aveva bisogno di controllare il numero poiché sapeva di averlo ben impresso nella mente. Si sentirono parecchi squilli, poi Kuroba sorrise sollevato non appena riconobbe la voce preoccupata di quella ragazza.
"Pronto? Chi parla?"
"Aoko, sono io, Kaito. Kuroba." Sottolineò per poi affrettarsi a continuare. "Non attaccare, lascia che ti spieghi."
Il cavo telefonico che Aoko stringeva convulsamente fra le dita fu percorso da un agghiacciante silenzio. "Ancora tu? Mi hai già chiamata venti volte. Come ti salta in testa di telefonarmi alle quattro di notte? Credevo che fosse successo chissà cosa!" L'agitazione iniziale andava scemando lentamente: non le era mai successo di doversi svegliare di soprassalto per rispondere al telefono.
"Mi dispiace per l'ora, ma non mi hai lasciato scelta."
"E quindi? Cosa vuoi?" Il suo tono era pieno di sarcasmo, oltre che di rancore.
"Stai facendo la stupida come al solito. Non mi hai dato neanche il tempo di controbattere o di spiegarti il perché di tutto questo."
"Se c'è uno stupido, qui, quello sei tu, mio caro Ladro Kid. Non voglio più avere nulla a che fare con te. Mettitelo bene in testa. Non mi lascerò più incantare dalle tue magie. Ti odio." Il pigiama pesante non impedì ad Aoko di rabbrividire e assieme al suo corpo, anche la voce tremò, quasi le si strozzò in gola. "E' finita. Lasciami in pace, per te non esisto più. Addio."
Kaito sentì qualcosa come un flebile singhiozzo, dopodiché non poté più aggiunger nulla, anche se le sue parole si accavallarono comunque sul telefono che continuava a squillare a vuoto, come se da quei 'tu-tu-tu' avesse potuto ottenere delle risposte. Chissà, forse dall'altro lato della cornetta era ancora premuta la guancia di Aoko.
Ma alla fine Kid dovette demordere, anche perché la prospettiva di trascorrere il resto della notte, in piedi, in quella squallida cabina telefonica, non lo allettava affatto. Strinse i pugni e sentì i guanti bianchi stridere fra le dita. "Che stupida. Non cambierai mai, eh Aoko? Non mi hai dato neanche il tempo per chiederti scusa. Ma tanto non te lo avrei chiesto comunque. Stupida. Stupida!" L'ultima parola la proferì con denti serrati: aveva perduto completamente il cipiglio del ladro gentiluomo ed imprecando contro la sua amica, Kaito Kid aveva lasciato, senza neanche rendersene conto, che il più impulsivo Kaito Kuroba prendesse il sopravvento.
Uscì dalla cabina telefonica e con la mano destra accompagnò il suo mantello; incamminatosi lungo la strada, gli bastò sollevare la testa per osservare le colline di fronte a sè, disseminate di inquietanti cipressi scuri. Il vento gli sollevò la tesa del cappello a cilindro, ed il mago se lo calò prontamente sul capo, trattenendolo poi con stizza. L'altra mano si intrufolò nelle tasche e ne tirò fuori un bigliettino spiegazzato, lo stesso che aveva trovato nella stanza dove era stato tenuto prigioniero il giovane detective Shinichi Kudo. Le parole che vi erano impresse le aveva imparate a menadito, ma il retro del foglio recitava un enigma che aveva risolto soltanto da qualche ora.

'Così come la bellezza alberga nella crisalide di una farfalla, fra gli sconosciuti mattoni dal cuore d'oro, giace ancora un tassello del grande mosaico.'

Kaito sorrise appena, beffardo. Non sapeva chi fosse quell'uomo, ma era quasi convinto che si trattasse dello stesso individuo che aveva colto un'imboscata anche a Ran. Il motivo per cui l'avesse coinvolta era ancora del tutto ignoto; sapeva soltanto che se cercava entrambi, in un modo o nell'altro avrebbe dovuto proteggere quella ragazza, poiché invischiati assieme in quella specie di gioco. Perché di un gioco, si trattava, almeno per Mr. X. "Mr. X", così si era firmato in quel biglietto.
"Davvero buffo. Una volta sarei stato io a lasciare indizi sparsi qua e là. Ma a quanto pare gli schemi sembrano essersi ribaltati. Ebbene, mio caro Mr. X, accetto la tua sfida." Con fare trionfale, ripiegò l'invito e se lo infilò nella tasca interna della giacca.
I cipressi ondeggiarono mollemente, accogliendolo in quella sua lunga passeggiata nella notte senza luna.
 
 
 
 
 
Ran e Sonoko erano state in albergo per tutto il giorno seguente: avevano appreso da Kogoro del suicidio consumatosi mentre erano al pub. Dato il clima di tensione in città, il detective aveva inoltre ordinato loro di chiudersi in stanza almeno fino a quando non si sarebbero calmate le acque. Le due avevano acconsentito a malincuore e si erano organizzate un pomeriggio di fronte alla tv, assieme ai malcapitati Detective Boys, sfuggiti persino agli indovinelli del dottor Agasa. Ai e Conan erano stati ugualmente sottoposti allo stesso 'trattamento', anche se il piccolo investigatore aveva tentato più volte di svignarsela per ottenere maggiori informazioni relative al caso. Ran e Sonoko erano entrambe strane, confabulavano fra di loro e si estraniavano continuamente dall'allegra combriccola. Così, nel bel mezzo della chiacchierata, Conan saltò sul letto e si alzò in piedi, sfoderando un sorriso raggiante e fanciullesco. "Facciamo un gioco?"
Alla sua esclamazione, tutti tacquero, ed Ai fu la prima ad osservarlo con curiosità. Ma che diavolo gli saltava in testa? Sicuramente qualcuno dei suoi trucchetti. Ayumi battè le mani, le si illuminarono gli occhi.
"Non credo alle mie orecchie! Conan sta proponendo un gioco!"
Genta agitò la mano a mezz'aria, non proprio convinto dalla proposta. "Sarà un gioco tipo: indovina l'anno in cui Sherlock Holmes incontrò Watson per la prima volta. In tal caso sarebbe terribilmente noioso."
Ran, invece, sorrise incuriosita e stuzzicò il piccolo Conan, che nel frattempo era diventato paonazzo. Shinichi sarebbe esploso di vanagloria in una circostanza simile: amava starsene al centro dell'attenzione. "Si dai, qualsiasi cosa sia, io ci sto. E anche Sonoko."
E a quel punto Conan, continuò. "No, Genta. Sei fuori strada. Volevo proporvi un gioco che fanno i bambini ed i ragazzi qui in Italia. Si chiama Obbligo o Verità." Lo sguardo del piccolo guizzò fulmineo proprio negli occhi di Ran, che per qualche istante, lo aveva visto chiaramente, tremarono.
Ai incrociò le braccia al petto, osservando gli altri, che, non potendo abbandonare le loro consuetudini giapponesi, se ne stavano seduti a terra. "E come si svolgerebbe questo gioco, sentiamo?"
Conan si schiarì un momento la voce. "Ci disponiamo tutti in cerchio e facciamo ruotare una bottiglia a terra." Continuò ad esporre la dinamica del gioco e nel contempo afferrò la bottiglia dell'acqua posta sul comodino. "E alla fine bisogna rispondere alle domande che ci vengono poste. Facile, no?"
A seguito delle spiegazioni fu proprio il piccolo Conan a dare il via alla prima manche. Tutti furono completamente assorbiti, e nell'attimo prima che la bottiglia si fermasse, si sentì palpabile il silenzio dell'attesa, mentre gli occhi avevano continuato a seguirla come ipnotizzati.
"Haibara."
Il collo della bottiglia puntava verso le sue ginocchia nude: non poté far a meno di sorridere con scherno, visibilmente seccata da quel giochino così infantile. "Ecco, lo sapevo." Borbottò sottovoce.
Conan ricambiò il suo sorriso e le strizzò l'occhiolino. "Non lamentarti e cerca di stare al gioco. Allora, cosa preferisci, obbligo o verità?"
Ai alzò lo sguardo al cielo e ci pensò su. "Facciamo obbligo. Sii clemente." Aggiunse poi.
"Ok. Obbligo. Cantaci il pezzo di una canzone a tuo piacimento."
La ragazzina ricevette gli sguardi divertiti degli altri e un lieve rossore si impadronì della sua guance. Con imbarazzo e tono solenne proferì qualche imprecazione rivolta al giovane Detective e giurò che al turno successivo gliel'avrebbe fatta pagare. Dopo l'iniziale esitazione però, riuscì a cavarsela canticchiando un motivetto di "Let it be", una delle canzoni preferite di sua sorella Akemi. Terminata la performance canora, Ai sentì il viso in fiamme, ma la voce dolce di Ran proruppe fra le risate.
"Ma sei bravissima! Hai una voce così bella. E Conan ha sbagliato a sfidarti. Sentissi come stona non appena apre bocca." Rivolse a quest'ultimo un'occhiata complice, poi esortò Ai a lanciare nuovamente la bottiglia. Per la seconda volta tutti trattennero il respiro, fin quando stavolta non fu proprio Ran ad essere sorteggiata per il 'round' successivo.
Ai si morse il labbro. "Obbligo o verità?" Chiese.
Ran fece spallucce e spinse i palmi delle mani a terra. "Facciamo verità, dai. Tanto per cambiare. Risponderò a qualsiasi domanda."
Sonoko alzò le sopracciglia e non potè trattenere una risata. "Stai attenta a quello che dici, Ran."
La piccola Haibara ci pensò su. Il suo volto divenne stranamente serio e nel momento in cui pronunciò le sue parole, era come se gli altri fossero scomparsi dalla stanza e vi fossero rimaste solo loro due. "Hai mai... tradito la persona che ami? O hai mai desiderato di farlo?"
Quella richiesta giunse come un fulmine a ciel sereno ed il respiro di Ran si spezzò, i muscoli tremolarono. Si sentì quasi offesa. Perché quella bambina le aveva rivolto una domanda simile? Anche gli altri tacquero e quel silenzio accrebbe ulteriormente i suoi dubbi. L'unica a ridere ancora fu Sonoko, che, al fianco di Ran, le batté una vigorosa pacca sulla schiena.
"Ma figuriamoci! Troppo facile. Per Ran esiste solo quel Detective da strapazzo. Non si sognerebbe mai e poi mai di tradirlo." Congiunse le mani al petto. "Shinichi di qua, Shinichi di là. Ma figuriamoci. E intanto quell'addormentato se la spassa."
Conan strinse i denti e fulminò Ai con lo sguardo: lei, di tutta risposta, lo guardò con fare inquisitore.
"Smettila Sonoko." Il tono di Ran fu insolitamente freddo, talmente gelido che persino l'amica se ne stupì. Riprese fiato e fissò Haibara, seria. "La persona che amo avrebbe trovato il tempo per me, se solo lo avesse voluto realmente." Inspirò. "Un fiore ha bisogno di acqua per poter crescere, ma anche dell'amore di colui che se ne prende cura. Se quel qualcuno è sempre pronto ad annaffiarlo, quel fiore non avrà mai bisogno di altro. Eppure quel fiorellino a volte viene dimenticato, e quei suoi petali rosa cominciano ad appassire, a soffrire: i suo steli vorrebbero ricevere l'acqua di cui si è sempre nutrito, ma se per caso dovesse piovere, il fiore si accontenterebbe anche di una manciata di acqua sporca, di qualche goccia più generosa. E quando il padrone tornerebbe ad offrirgli il suo aiuto, sarebbe troppo tardi."
Dopo quel discorso metaforico, nessuno ebbe più il coraggio di parlare. La stessa Ran si alzò in piedi. "Vado un secondo al bagno, scusatemi." Aveva gli occhi lucidi e la voce roca, sembrava sul punto di piangere.
Conan inspirò, non seppe cosa dire. E d'altronde, cosa avrebbe potuto rispondere? Aveva pienamente ragione e se avesse potuto farlo, l'avrebbe stretta a sè, rassicurandola del fatto che sì, sarebbe stato disposto a prendersene cura, di quel fiore meraviglioso. Se solo avesse potuto. Strinse i pugni e abbassò il capo. In quell'istante, quando l'atmosfera sembrava destinata a rovinarsi, qualcuno bussò alla porta con insistenza.
"Ehi, ragazzi, aprite. Sono io, Kogoro."
Sonoko schizzò in piedi e andò ad aprire: il Detective dormiente entrò nella stanza e si sciolse la cravatta in un gesto liberatorio. Aveva l'aria stanca e provata dalla giornata appena trascorsa. "Allora, a quanto pare il caso di suicidio è materia di indagine della polizia italiana. Non posso far nulla e non ho alcun titolo in merito. Ho dato un'occhiata alle carte, ma per ora non sembrano esserci indizi che provino qualcosa di consistente. Dato il clima, però, è stata indetta una giornata di lutto cittadino, per cui mi sono sentito di prenotare l'aereo di ritorno per questa notte, anticipando di un giorno la nostra partenza. Mi dispiace."
Conan scosse il capo: le parole di Ran lo avevano ferito, ma quelle di Kogoro non stavano nè in cielo, nè in terra. Se non si fosse trovato su suolo straniero, avrebbe smaniato per risolvere il caso, ma lo stato d'animo in cui era sprofondato era un pretesto in più per tornarsene in Giappone. Doveva assolutamente sgominare l'Organizzazione e ritornare Shinichi.
Quando Ran uscì dal bagno, si ritrovò i bimbi vagare come zombies da una parte all'altra della stanza, in un via vai fra il corridoio, la sua camera e quella degli altri: la valigia di Sonoko era aperta ed i suoi vestiti sparsi a terra e sul letto. Ayumi superò Ran con aria abbattuta. "Oh, Ran. Stavo aspettando che uscissi per prendere lo spazzolino." Bofonchiò.
La ragazza mora continuò a guardare Sonoko mentre riponeva con stizza i suoi abiti in valigia, ingaggiando una lotta con la zip che non voleva saperne di richiudersi. "Diavolo, prima della partenza sembrava quasi vuota, questa stramaledettissima valigia. Chiuditi!" 
"Scusate ma... Ce ne andiamo?" Ran parve cadere dalle nuvole, alche, le due si fermarono ad osservarla.
"Si. Non hai sentito tuo padre? E' successo un casino per via di quel suicidio. Ora stanno dando la colpa ai costruttori del palazzo. Pare che la ringhiera fosse pericolante. Insomma, sai come vanno queste cose no?"
Mori annuì, a malincuore. Le dispiaceva che tutto fosse finito così. Osservò le tende sospinte dal vento che proveniva dalla finestra, poi intravide Ai, che, silenziosamente, stava rifacendo i propri bagagli. "Ehi, Ai." La richiamò, dolcemente. "Senti, devi scusarmi per prima. Mi sono lasciata trascinare dalle emozioni e forse sono risultata sgarbata. Non volevo."
La ragazzina ramata si portò una ciocca di capelli dietro all'orecchio, poi scrollò le spalle. "Non preoccuparti. Anche se si trattava di un gioco, non avrei dovuto farti una domanda così personale."
Ran si limitò ad annuire, ma dentro di sè si stupì della profondità che talvolta riusciva a dimostrare quella ragazzina. Dimenticandosi del fiore e dell'acqua che avrebbe dovuto innaffiarlo, anche Ran si mise d'impegno per fare mente locale e riordinare le sue cose: dovevano tornare alla vita di sempre, e nonostante tutto, nonostante Shinichi non fosse mai presente, era stato un bellissimo compleanno e nessuno avrebbe potuto rubarle quei preziosi ricordi dal cuore. Ripensando ai momenti trascorsi a Firenze, Ran rivolse per l'ultima volta lo sguardo oltre le finestre della loro stanza: il sole era già tramontato e proprio all'orizzonte si sprigionava un alone violaceo, che man mano si mescolava al blu della sera. Soltanto una microscopica stellina brillava in lontananza. Le bastò inspirare per riempirsi i polmoni di quella placida serenità che le infondeva il paesaggio. Ma ecco che, proprio quando stava per distogliere lo sguardo, le sue dita ebbero un sussulto ed il maglione rosa che stava trattenendo fra le mani, le scivolò via.
Di nuovo, eccolo solcare il cielo come un gabbiano dalle ali spiegate.
Kaito Kid. E non si trattava di un'allucinazione, era lì, aveva attraversato quello spicchio di mondo lanciandosi in picchiata col suo deltaplano. Si ritrovò a sorridere come una stupida, senza rendersi conto che Sonoko l'aveva richiamata più e più volte.
No, decisamente non avrebbe dimenticato quel viaggio.
 
 
 
 
 
L’aereo sarebbe partito alle 12.35, ma per il Check-In e le procedure d’imbarco, Conan e gli altri avrebbero dovuto recarsi all’aeroporto almeno un’ora e mezza prima.
Con i loro bagagli a mano e con i trolley al seguito, i vacanzieri attraversarono le strade fiorentine per l’ultima volta: gli occhi di tutti erano persi fra i palazzi, i torrioni, i mattoni rossi. Se fosse stato possibile, avrebbero rubato anche solo un pizzico della magia che aleggiava in quella pagina di storia, in quello stralcio di civiltà che non voleva spogliarsi del suo mistero. Lo avrebbero conservato per sempre.
Passo dopo passo, giunsero nella piazza di San Lorenzo, ancora illuminata e popolata degli ultimi turisti, di qualche combriccola di ragazzi che gironzolava fra risate e bottiglie di birra. Fu Ai a fermarsi proprio di fronte alla basilica.
“Conan, non credi anche tu che questa, sia la basilica più interessante che abbiamo visto? Dall’esterno non sembra essere granché, anzi. I mattoni sono di un giallognolo spento e la fisionomia non è così intrigante. Eppure, non appena varchi la soglia dell’entrata, la bellezza degli interni è tale da mozzarti il fiato. Buffo, vero?”
Conan infilò le mani in tasca e borbottò qualcosa come un ‘mai fidarsi dell’aspetto esteriore’, dopodiché lanciò un’occhiata a Ran.
Anche lei aveva udito le parole di Ai e stava giusto osservando la chiesetta, quando lo sguardo della sentinella a guardia dell’entrata non incrociò il proprio. Sussultò e giurò di averlo visto mentre addirittura, le sorrideva. Conan non mancò di notare lo scambio di sguardi e decisamente insospettito, balzò con gli occhi da un viso all’altro: prima alla guardia, poi a lei. Era geloso? Scosse il capo nel tentativo di scacciare il pensiero, eppure non appena vide che il tizio le stava facendo l’occhiolino, si affrettò ad afferrare il polso di Ran. “Ehi, Ran! Ran! Hai un fazzoletto?”
La ragazza sorrideva imbarazzata, distolse lo sguardo e si accorse soltanto dopo di avere Conan avvinghiato al braccio. “Cosa dicevi, scusa?”
“… Ran.” Gemette Conan, desolato, fermandosi nel bel mezzo della piazza. Gli occhi del bimbo esprimevano un indecifrabile sconforto, un retrogusto di abbandono e solitudine; nonostante le dita fossero saldamente incastrate nella mano di Ran, la sentì incredibilmente lontana. “Che vuole quello?” Cercò di riprendersi per non farla preoccupare, ma la sensazione di disagio cresceva a dismisura. Il suo fiore stava forse appassendo?
 
 
 
 
 
Dopo aver ultimato le procedure di imbarco, Ran e gli altri vennero condotti a bordo dell’aereo. Dietro ad una fila di persone del tutto anonime, ella si soffermò ad osservare la pista di decollo attraverso le grandi finestre del finger: una lunghissima strada era visibile grazie a due cordoni di luci che procedevano quasi infinitamente, mentre tutt’intorno vi erano miliardi di altri lumini, alcuni rossi, altri verdi. Un’insolita patina di tristezza le si dipinse sul volto, si sentì terribilmente sola, anche se contornata da così tante persone. Era come se in quello schizzo di terra nulla avesse senso: era proprio in momenti come quelli che si chiedeva che senso avesse vivere, se lo stava facendo nel modo giusto o se avesse potuto farlo in qualche altro modo. Ma c’era davvero un modo ‘giusto’ per poter vivere? Fra quelle ed altre domande, si ritrovò a metter piede nell’aereo, continuando comunque ad intravedere le luci dell’aeroporto attraverso gli oblò che si susseguivano tutti uguali. Osservò il numero riportato sul suo biglietto e si girò a guardare gli altri: “Mi sa che stiamo disposti diversamente, un po’ qui e un po’ là.”
Kogoro trascinò le sue valigie e si sporse per poterle riporre negli scompartimenti al di sopra dei sedili. “Non preoccuparti, Ran. Abbiamo tutti qualcosa da fare, pensiamo a riposarci, piuttosto.”
“Ma si, d’altronde è tardi. Avremmo dormito anche se fossimo stati a terra. Domani saremo in Giappone.” Si sforzò di sorridere, anche se constatò di non avere alcuna voglia di ritornarvi. Si liberò dei bagagli e prese posto, lanciando di fronte a sé un paio di cuffie, un lettore musicale ed un paio di giornaletti. Conan e gli altri le passarono di fianco e lei si assicurò che avessero trovato i posti. La hostess, impeccabile come sempre ed avvolta nella sua uniforme, richiamò all’attenzione i passeggeri, ricordando le norme di sicurezza e raccomandandosi di spegnere i telefoni cellulari.
“Cavolo, per poco non lo dimenticavo. Pensavo quasi di non averlo.” Ran tirò fuori dallo zaino il suo e sbloccò il display. Un nuovo messaggio. “Chi sarà mai? Forse mamma?” Pensò. Non era sua madre, il numero era del tutto sconosciuto e per giunta non lo aveva salvato tra quelli della rubrica.
 
“Ehi, ti ho vista di fronte alla basilica di San Lorenzo. Non dovresti sorridermi così. Qualcuno potrebbe seriamente ingelosirsi. Buon Viaggio,
 
Kaito Kid ;-)”

 
La ragazza sentì un vuoto allo stomaco, rilesse più volte il messaggio e si concentrò sulla firma del mittente. Non poteva crederci. Allora quella guardia all’entrata della Basilica…? Deglutì e non riuscì a trattenere un sorriso. Al di fuori dell’oblò le luci rosse lampeggiavano secondo lunghi intervalli regolari. Già, non esisteva un modo corretto di viversi quel breve tempo che avevano a disposizione. Si alzò in piedi e lasciò tutto al proprio posto, si fece largo fra le ultime persone che stavano entrando e proprio nel momento in cui un gruppo di ritardatari era impegnato con la hostess nel controllo dei biglietti, lei sgattaiolò fuori dall’aereo confondendosi fra di loro. Uno spiraglio di vento le scompigliò i capelli, compì un balzo e prese a correre, attraversando a ritroso il collegamento fra il gate e l’aereo. Non appena la situazione fu più calma, riprese a camminare normalmente e senza guardarsi indietro. Perché doveva sempre sottostare a regole non scritte? Ormai era maggiorenne, doveva fare qualche pazzia. E poi aveva ancora un conto in sospeso con quell’uomo che aveva cercato di aggredirla. Doveva sapere.
La corsa l’aveva letteralmente sfiancata, ma respirando a pieni polmoni, sentì che qualcosa di nuovo oltre all’aria, le stava empiendo i polmoni, il corpo, la mente. Si sentì libera come non lo era mai stata, libera da vincoli, libera di fare qualsiasi cosa. Avrebbe potuto spiegare le braccia e volare, se ne avesse avuto modo. Prese il cellulare e compose il numero da cui aveva ricevuto il messaggio di Kid, poi, col display che le premeva sul viso, rimase in ascolto, col cuore in gola e col respiro corto. “Rispondi, rispondi!”
 
 
 
 
 
Kid si era appena defilato dalla Basilica, consapevole di aver afferrato il senso dell’enigma posto da Mr.X. Proprio al di sopra dell’altare della chiesa, infatti, egli aveva rovistato all’interno di un piccolo forziere d’oro e vi aveva ritrovato un altro di quei biglietti, recante la medesima calligrafia del precedente. Stavolta però, non si trattava di un enigma, bensì di una frase, il cui significato era ancora avvolto nel mistero. Standosene sdraiato sul tetto della basilica, Kaito la rilesse per l’ennesima volta, senza cavarne comunque nulla.
“Il mantello bianco di Ladro Kid è sporco del sangue di un’innocente.” Borbottò, recitandola ad alta voce.
L’apostrofo lasciava presagire che si riferisse ad una donna, o comunque ad una ragazza. Ma cosa voleva dire? Perché il suo mantello sarebbe dovuto essere sporco di sangue? Incrociò le braccia dietro alla nuca ed osservò il cielo: c’erano due nuvole grigie che sembravano rincorrersi l’un l’altra. Fra mille interrogativi e pensieri, sentì il telefono vibrare nella tasca della giacca.
Rispose senza neanche vedere chi fosse.
“Kaito… Kaito Kid?”
Il ladro si sollevò seduto, incrociando immediatamente le gambe e sbarrando gli occhi. “Ran?”
“Oh finalmente hai risposto. Ho chiamato cinque volte! Che voleva dire quel messaggio?”
Lui rise appena. “Oh, il messaggio. Volevo scriverti qualcosa di carino per ringraziarti.”
“Ringraziarmi?” Ran si era allontanata da tutta quella gente nel gate ed era uscita invece nel grande spiazzo presente all’uscita dell’aeroporto. “Per cosa? Io non ho fatto nulla. Anzi.”
“Stavo pensando proprio a te, mi stavo chiedendo che fine avessi fatto dopo il nostro incontro e alla fine mi hai dato l’illuminazione per risolvere un indovinello.” A quel punto Kid inarcò le sopracciglia. “Aspetta ma tu non dovresti essere sull’aereo, di ritorno per il Giappone?”
Lei rimase in silenzio, il vento le sollevò piano la gonna. “Dovrei. Hai detto bene. Ma devo ancora sbrigare alcune cose qui.”
Kid strinse il cellulare con la mano. “Ma sei impazzita? Ma come hai fatto? Dove sei?” Era folle.
“Sono all’aeroporto. Vieni a prendermi. Hai un debito con me, no? L’hai detto tu stesso che ti ho aiutato. Ora sarai tu ad aiutare me.”
Se avesse potuto, Kaito le avrebbe portato le mani al collo e l’avrebbe strozzata. “Ma cosa ti salta in testa? Ora dovrò prendermi cura di te?”
“Esatto. Finché non scopriremo chi si cela dietro quel tale del pub. Dai.” Ran rise con estrema leggerezza. “Saremo come Bonnie e Clyde.” Ironizzò ulteriormente sulla situazione, poiché si rendeva conto anche da sola che stava facendo qualcosa di assurdo.
Kid sbuffò, ma poi, inevitabilmente, rise dopo tale affermazione. “Erano due gangster, mica dei ladri.”
“Fa’ lo stesso. Dai, muoviti, sto morendo di freddo.”
“Ti sta bene. Rientra in aeroporto. Non ti allontanare.” Richiuse la conversazione e guardò nuovamente in alto. Quelle nuvole che si stavano rincorrendo non c’erano più ed oramai il cielo era terso, di un bellissimo blu zaffiro.
 
 
 
 
Kogoro si alzò in piedi e si sgranchì le braccia, poi si avviò verso la parte centrale dell’aereo per assicurarsi che sua figlia stesse bene. Se la immaginava già, sonnecchiante e con una cuffietta  scivolata fra la clavicola e la scapola, con le labbra leggermente schiuse e le palpebre calate sugli occhi stanchi. Non appena arrivò al suo sedile, però, stranamente lo ritrovò vuoto. Non pensò immediatamente al peggio, ma un piccolo tarlo si era già insinuato nella sua mente. Le cuffiette ed il lettore erano lì, ma di lei, nessuna traccia. Passò una mano lungo il sedile e percepì soltanto il freddo del rivestimento in cuoio, come se nessuno vi si fosse seduto. Non c’era il calore della sua pelle. Con passo decisamente più spedito, egli arrivò ai bagni: attese che quello di destra si liberasse e lo controllò da cima a fondo, poi passò ad ispezionare quello di fronte. Nulla. Non c’era.
“Ran!” Richiamò a voce più alta del solito. “Ma dove si è cacciata?” Svegliò persino il dottor Agasa, ma quest’ultimo, parve cadere dalle nuvole.
“Non è seduta al proprio posto? Era all’inizio dell’aereo, vicino alla cabina di comando.”
“No, dannazione. Non c’è! Ran non c’è!” Dopo l’ultima affermazione del vecchio, si ritrovò decisamente agitato, gli tremavano le mani. Conan era in piedi sul sedile. “Tu, piccolo mostro!” Lo additò, Kogoro. “Ne sai qualcosa? Dov’è Ran?”
Ma il piccolo Detective scosse il capo. “Non lo so.” Era agitato almeno quanto il signor Mori, ma forse aveva una sua versione dei fatti. Ai osservava il paesaggio al di fuori dell’oblò, quando improvvisamente si voltò verso Conan e gli altri.
“Ran non c’è perché è scesa dall’aereo.” La scienziata lo disse come se fosse stata la cosa più banale ed elementare del mondo e a quell’affermazione Kogoro si sentì mancare. Imbiancato come una statua di gesso, corse verso la hostess e la scosse vigorosamente per le spalle.
“Mia figlia! Mia figlia è rimasta in Italia!” Gridò, in preda al panico. “Dobbiamo tornare indietro!”
La donna deglutì e cercò di rassicurare il passeggero, visibilmente sconcertata per la sua assurda richiesta. “Signore non possiamo fare nulla oramai, l’unica cosa che possiamo fare è comunicarle gli orari successivi e richiedere che sua figlia venga imbarcata sul prossimo volo. La prego, si calmi.”
“Oddio, Ran…” Kogoro si premette una mano sulla fronte e si lasciò ricadere sul primo sedile vuoto che aveva trovato, consapevole che di lì a poco sarebbe svenuto. Ma perché sua figlia avrebbe dovuto compiere un gesto così sconsiderato?
Conan strinse i denti ed inspirò talmente forte che persino Ai riuscì a percepire la tensione dell’amico.
“Haibara, dimmi che non è stata colpa mia.” Sussurrò, poi.
Ai scosse il capo. “Non ne ho idea, Kudo. Ma purtroppo credo che in parte, sia anche colpa tua.”
 

 

 
Ok, dopo questo capitolo in stile "Mamma ho perso l'aereo", mi dileguo in attesa di una cassa di pomodori che riceverò in testa... :( Non ho molto tempo per scrivere, ma spero ugualmente che il capitolo vi sia piaciuto. Fatemi sapere! E grazie a tutti coloro che hanno recensito e che recensiranno ancora... ! Un caloroso abbraccio

Aya_Brea

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Capitolo 4
*** Qui, dove si vedon le stelle ***


4. Qui, dove si vedon le stelle



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Le persone di fronte ai suoi occhi si susseguivano con rapidità, si confondevano fra loro in una miriade di cappotti colorati, sballottando di qua e di là valige di ogni genere, strattonando per i polsi bimbi un po' troppo elettrizzati, mostrando volti incantati, sofferenti, speranzosi, a volte tristi e stanchi. Ran li seguiva con lo sguardo spento e quel multiforme agglomerato le sembrava, nonostante tutto, così lontano, come se si fosse trattato dei protagonisti di un altro film o di un quadro qualsiasi da ammirare, senza la possibilità di addentrarvisi veramente. Improvvisamente anche le voci, le risate e gli schiamazzi le erano sembrate un sottofondo privo di senso, slegato dalla realtà che invece, si stava facendo largo nella sua mente con estrema prepotenza: più cercava di non pensarci, più i volti di Kogoro, Sonoko, Eri, Conan e di tutti gli altri tornavano a fissarla con insistenza, con lo sguardo a metà fra l’ammonizione ed il dispiacere. Riusciva persino a sentire, con intensità addirittura superiore al bimbo che reclamava un gelato a pochi metri da lei, la voce carica di rancore della madre che la accoglieva con un ‘Non ce lo saremmo mai aspettato da te, ma che diavolo ti è saltato in testa?’.
E Ran, di fronte agli occhi pieni di rabbia di Eri, non poté far altro che sentire lo stomaco stringersi in una morsa che le faceva quasi male; si sentì come in una bolla di sapone, tutto quello che la circondava non aveva più alcun senso, alcun significato, non lì, non in quel preciso istante. Un brivido corse lungo la schiena della ragazza e la scosse: tutto le sembrava così freddo, estraneo e quella solitudine si stava impadronendo di lei poco a poco, assieme alla presa di coscienza di quel che aveva realmente fatto.
Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto scattare in piedi sulle sue gracili gambette, così fragili che non avrebbero comunque potuto sostenere tutto quel fardello che si portava dentro; e sarebbe corsa ancora una volta, ma stavolta lo avrebbe fatto nella direzione opposta, senza più compiere un gesto sconsiderato come quello: se avesse avuto una seconda possibilità, avrebbe fatto di tutto pur di riavvolgere il nastro della videocassetta. Eppure qualcosa dentro di lei le suggeriva che il film non sarebbe cambiato, ma sarebbe proseguito con i medesimi fotogrammi, e così all’infinito.
Ran trasse un sospiro, ma non fece assolutamente nulla di tutto quello che avrebbe voluto realmente fare, rimase lì seduta con i pugni serrati di fianco alle gambe mentre il suo sguardo spento trapassava i corpi di quelle persone di fronte a lei, fino a quando d’un tratto, un latteo e spesso strato trasparente si depositò su quelle immagini, opalescente. Strinse con più forza i pugni e un singulto le schizzò in gola, assieme alle lacrime che le stavano riempiendo gli occhioni.
‘Non devi piangere, non devi piangere, Ran. Devi essere forte. Che diavolo stai facendo? Hai fatto una scelta, sconsiderata sì, ma pur sempre una scelta… e devi prendertene le responsabilità.’ I suoi pensieri fluivano con lentezza, concisi, nel terrore che potessero perdere di intensità. Ma l’emotività tradiva la ragione ed a testimoniarlo fu il primo lacrimone che scivolò sulla sua guancia arrossata, quasi di corsa, come se non aspettasse altro che di fuggire da quegli occhi oramai ricolmi.
‘Non devi piangere, Ran.’ E una seconda fece lo stesso, scivolò giù e le bagnò il vestitino sulle gambe, perdendosi assieme alla precedente. ‘Non devi…’ Le mani strette. ‘Non devi…’ Anche i suoi pensieri tremavano assieme a lei. ‘Non… Dannazione Ran! Stai piangendo come una stupida.’
Si portò entrambe le mani al viso e, sconfitta persino da se stessa, scoppiò in lacrime; piangere la faceva stare male. Nessuno si era accorto di lei, nessuno le si era avvicinato per chiederle cosa fosse successo. Era sola. Abbandonata. Neanche i suoi pensieri l’avevano protetta, si era ritrovata in balia dei sentimenti, delle sue paure, del suo grande sbaglio. Le lacrime che bagnavano la sua pelle e le sue dita erano le uniche che le infondevano un po’ di calore, un po’ di vita.
Pianse a lungo, tanto a lungo che si rese conto di non essere più abituata a quel tipo di sofferenza. Era inutile comunque, continuare a nascondersi: nessuno l’avrebbe vista, o meglio, a nessuno sarebbe importato di una stupida ragazzina che piangeva. Lasciò che le mani scivolassero giù dal suo volto e proprio in quell’istante, Ran spalancò gli occhi, ancora acquosi.
I petali di una rosa rossa si aprivano con energia proprio di fronte al suo naso.
Le venne istintivo di sollevare il braccio ed afferrarla, ma come d’incanto, senza che il battito delle ciglia le avesse dato modo di vedere, quei petali si avvolsero su se stessi in una specie di vortice e da essi ne sbocciò una morbida colomba bianca, di un candore quasi innaturale. Ran schiuse anche le labbra e rimase alcuni secondi in trance, rapita da quella specie di magia. ‘Sto sognando o…?’ Soltanto dopo si rese conto che quella colombina se ne stava appollaiata nella mano di qualcuno.
“Mi spiace se ho impiegato più tempo del previsto. Ti ho fatta preoccupare, eh?”
La ragazza tirò su col naso e si strofinò il dorso della mano sul faccino bagnato: alzò lo sguardo e il cuore perse un battito. Per un breve e banale secondo, aveva intravisto il volto di Shinichi, ma poi dovette ricredersi non appena vide il sorriso beffardo sul volto di quel ragazzo dai capelli scompigliati.
“Kaito… Kid?” Pronunciò Ran in un soffio.
“Shhh!” Il ragazzo portò l’indice contro le labbra e la intimò di fare silenzio, poi scoppiò a ridere. “Mi avevi forse scambiato per qualcun altro? O meglio, aspettavi qualcuno in particolare?”
Lei deglutì appena e le ci vollero alcuni secondi prima di rispondere, secondi che si prese per poterlo osservare meglio: indossava un paio di pantaloni bianchi ed una camicia bluastra. Non c’era più alcuna traccia di quello che era stato l’elegante, candido completo del famigerato Ladro Gentiluomo. Sembrava essersi spogliato del suo ruolo, giusto in occasione di quell’incontro.
Le dita di Ran si intrufolarono fra le piume vaporose del colombino, che di tutta risposta, piegò il capo da un lato e socchiuse gli occhi, beandosi di quella tenera carezza. “Non credo di aver fatto la cosa giusta, Kid. Credo che non appena ne avrò nuovamente la possibilità, prenderò il primo aereo utile per il Giappone.” Il suo sguardo si posò ancora sull’animaletto ma il suo viso assunse di nuovo un’espressione sconsolata. “Aspettavo soltanto te.” A quel punto alzò il capo e gli sorrise, piena di malinconia. “Cosa devo fare?”
Kid si abbandonò ad un lievissimo sospiro e, dopo aver sfiorato il piumaggio della colomba, la sospinse verso l’alto accompagnandola con un gesto deciso e sapiente: quest’ultima spiegò le sue ali leggere e si librò in alto, scomparendo poi alla vista di entrambi. Dietro di lei, una scia di piume cominciò a volteggiare in maniera del tutto casuale.  
“Ecco cosa devi fare.” Il ragazzo prese a fissarne una fra le tante e sorrise. “Volare. Seguire l’istinto, la libertà!” I suoi occhi blu zaffiro si piantarono in quelli di Ran. “Non sono io a dirti quel che è meglio per te, ma ormai sei qui. E allora io ti direi di provarci e di andare fino in fondo. Non vorrai avere rimpianti, vero? Per quanto mi riguarda invece, io preferirei che tu tornassi in Giappone, lì saresti al sicuro. Ma devi essere tu a fare questa scelta.”
Ran annuì appena ma proprio quando si stava apprestando a rispondere, una voce proveniente dagli altoparlanti sopra di loro si sovrappose al vociare generale; stavolta non si trattava di alcun tipo di annuncio registrato, nessun aereo stava partendo, nessuna comunicazione rivolta al personale. Nulla di tutto ciò. Si trattava di un messaggio rivolto proprio a lei.
La voce di donna parlò con disinvoltura attraverso il microfono: “La Signorina Mori Ran è pregata di recarsi presso il Gate numero 5 in attesa del prossimo aereo per l’aeroporto di Narita, in partenza alle ore 2.55. Ripeto, la Signorina Mori Ran è preg…”
La ragazza balzò in piedi e nuovamente ebbe l’irrefrenabile desiderio di urlare. Ancora una volta non fece quanto voluto, ma prese a guardarsi intorno spasmodicamente. Istintiva, si voltò poi verso i sedili alle sue spalle e corse con gli occhi alla disperata ricerca dei propri bagagli. Se ne ricordò soltanto dopo, quando già si era infilata le mani fra i capelli, che era corsa via dall’aereo portandosi con sé soltanto il proprio cellulare. “Oddio mio. Non ho nulla con me.” Sembrava essersi totalmente dimenticata di Kaito, che nel frattempo aveva seguito ogni suo singolo movimento. Ran si aggirava così nervosamente in quel mezzo metro quadrato, che alla fine fu costretto a trattenerla per le braccia e a scuoterla, nella speranza che rinsavisse.
“Ehi.” La richiamò alla normalità e si sorprese di quanto il corpo di lei avesse reagito in maniera così morbida. “Stai calma, ok?”
I due si scrutarono per alcuni istanti e Ran percepì una strana tranquillità sprigionarsi dal cuore. I suoi muscoli cominciarono a rilassarsi e anche la presa di Kid divenne più blanda. In quei pochi attimi era come se l’ansia fosse scomparsa e avesse lasciato il posto alla serenità. “Non so cosa mi sia preso.” Riuscì a dire. “Questo annuncio mi spinge verso di loro ma…”
Kid le impedì di proseguire e sfoderò un gran sorriso. “E’ ancora presto. Firenze ha ancora del tempo da regalarti. Perché non ti siedi e pensi meglio al da farsi?”
“Penso che sia una buona idea.” Ran si portò una ciocca di capelli dietro all’orecchio. “Ma perché non andiamo fuori a prendere un po’ d’aria?” Abbozzò poi un timido sorriso e le sue labbra si incresparono da una parte. Mancava circa un’ora alla partenza dell’aereo.
 
 
 
 

“Kudo, dannazione, mi stai ascoltando? Sto cercando di darti una mano.”
Era trascorsa oramai un’ora dall’atterraggio presso l’aeroporto giapponese di Narita, sessanta minuti che nella confusione erano letteralmente volati, strappati via: gli ultimi passeggeri avevano lasciato il terminal con la solita trepidazione di andare a recuperare le proprie valigie, mentre in un tripudio generale di volti, finalmente familiari, si riconciliavano famiglie e coppiette di innamorati, pronti ad incastrare i loro corpi in un abbraccio liberatorio.
Attraverso gli immensi finestroni che correvano tutto intorno alla sala d’attesa, si scorgevano le piste di atterraggio degli aerei, illuminate da lunghissime linee di lumini dai colori intensi, vividi. Il buio della notte non sembrava far paura, e nonostante tutto, non v’era neanche una nuvola. I volti erano quasi premuti contro il vetro, persi lungo quelle infinite distese di asfalto.
“Ai, sto cercando in tutti i modi di pensare positivo. Spero che perlomeno stia bene. Spero che non le sia successo nulla di grave.” Conan stava fissando il profilo sfumato di un aereo appena decollato, anche se i suoi occhi avevano tutta l’aria di star osservando qualcosa soltanto perché non ne avevano altra scelta. Era talmente preoccupato che persino le sue mascelle serrate tradivano la sua solita sfrontatezza di fronte alle avversità. Si trattava di lei, come avrebbe potuto starsene lì, buono buono, a rimuginare come se si fosse trattato di un normale caso di omicidio?
Ai inspirò piano ed un piccolo alone di umidità si dipinse sul vetro. “Non è che mi stai nascondendo qualcosa? E’ come se tu non mi avessi detto tutto quello che sai. C’è come un piccolo particolare che non smette di tormentarti, non è così? Fin da quando abbiamo parlato sull’aereo, ho capito che non vuoi dirmelo perché credi che questo possa aver scatenato la sua reazione.” La ragazzina parlava nel suo solito tono vagamente cinico: Conan non se ne curò. Aveva ragione.
A quel punto infatti, il piccoletto si voltò e diede le spalle al vetro, incrociò le braccia contro il petto ed osservò i Detective Boys che, in compagnia dei rispettivi genitori si apprestavano ad abbandonare il gate. “Quella guardia di fronte alla chiesa di San Lorenzo.”
Haibara sollevò le sopracciglia ma si limitò ad ascoltare.
“Era Kaito Kid.” Nel pronunciare quel nome, Conan strinse i denti senza neanche rendersene conto. “Quel vile. L’ha portata via, l’ha condotta a sé con l’inganno. Non c’è altra spiegazione.”
La ragazzina al suo fianco sorrise appena, forse malignamente divertita dal fatto che Shinichi Kudo fosse così infervorato dall’idea che uno come Kid l’avesse ‘rubata’ al Detective del terzo millennio. “E con ciò? E’ risaputo che ladro Kid non è il soggetto così pericoloso che credi. E perché avrebbe dovuto addirittura usare l’inganno per convincerla a seguirlo?” Il tono borioso della piccola continuava a divenire sempre più sottile e tagliente.
“Ma è chiaro! Ran non sarebbe mai scappata da quello lì! Figuriamoci.” Eppure d’improvviso, rivide mentalmente lo sguardo che si erano lanciati proprio di fronte alla chiesa, quando il mondo sembrava essersi capovolto, quando quella stretta di mano non era mai stata più debole, così crudelmente lontana. Scacciò via quell’orribile pensiero e scosse il capo con vigore, liberandosene in maniera forzata. “No, e ancora, no.”
Ai si strofinò le manine contro il volto e si ricordò di non aver chiuso occhio neanche per qualche ora, a differenza degli altri: cominciava ad avvertire la stanchezza del viaggio. “Comunque sia, spero per te che Ran sia in compagnia di Kid, perché se così fosse, sarebbe al sicuro. Non le farebbe mai del male.”
Conan deglutì. “Ma non ne abbiamo la certezza! Sono almeno due ore che cerco di mettermi in contatto con lei, ma non risponde neanche se la chiamo col numero di Shinichi.”
“Beh, è comprensibile. Hai fatto una delle tue solite promesse e non sei stato in grado di mantenerla. Come vuoi che si senta? Come minimo dovresti ritornare lì a riprendertela.”
Il piccoletto sbuffò sonoramente e sfilò dalla tasca il suo cellulare, nella speranza che il display mostrasse qualche messaggio da parte di Ran. “Mi sembra scontato farlo, se non prenderà il prossimo aereo. Credo di avere già in mente cosa fare.”
Haibara diede una sbirciatina al telefonino di Shinichi. “Sono tutta orecchie.”
“Convincerò il Dottor Agasa a darmi una mano, così ci recheremo nell’ufficio dell’Ispettore Nakamori. A quel punto avrò modo di accodarmi a lui.” Mentre parlava, Conan ebbe l’impressione che Ai non lo stesse ascoltando, così sollevò il capo in un cipiglio contrariato e vide che la ragazzina stava fissando qualcosa al di là dei sedili della hall.
Una donna alta, dal fisico longilineo e slanciato, si stava dirigendo verso Kogoro con passo spedito, ostentando una camminata perfetta nonostante i tacchi vertiginosi e lo stretto tailleur che le sottolineava il vitino da vespa. Si sistemò bene la borsa in spalla ma con un gesto decisamente nervoso; anche alcuni ciuffi le sfuggivano come impazziti dalla crocchia di capelli fissata sulla testa. Non appena la donna incrociò lo sguardo di Mori, i suoi occhi al di là degli occhiali divennero delle fessure e il suo volto si contrasse in una smorfia di rabbia.
“Io non ci posso credere!” Esordì quest’ultima in tono decisamente concitato. “Ti lascio solo con Ran e non sei neanche in grado di assicurarti che abbia preso l’aereo! Ora ricordo il motivo per cui ci siamo lasciati. Ma a cosa diavolo stavi pensando?”
A quel punto Conan aggrottò la fronte e scosse piano il capo. “Sempre la stessa storia, ora si scanneranno.”
Ai fece spallucce. “Non è colpa di nessuno, stavolta.”
Kogoro si alzò in piedi: come se non bastasse la preoccupazione per aver perso di vista Ran, ci si metteva anche quell’arpia a rendergli il tutto più difficile di quanto già non lo fosse. “Almeno adesso ti sei degnata di venire, Eri. Se non fosse rimasta lì, non saresti neanche venuta a riprenderla in aeroporto.”
La donna spalancò gli occhi e si sentì bruciare ogni singolo centimetro del corpo. “Ma come ti permetti? Lo sai benissimo che ho avuto del lavoro da svolgere in questi giorni e non avrei potuto rimandare la pratica di quel…” Ma la voce dell’ex marito si sovrappose alla sua.
“Si, si, certo. Come no. Anche io avevo del lavoro all’agenzia, ma ho rimandato. Sono stato io a portare Ran a Firenze. Non tu. Sia chiaro. Sono stato io a farmi carico di quella marmaglia di ragazzini petulanti e sai quanto odio quei ragazzini fra i piedi. Eppure ho cercato di fare del mio meglio perché potesse ricordare questi giorni. Io almeno ci sono stato.” Stavolta Kogoro rispose quasi con disprezzo, chiaramente disposto a far prevalere le sue ragioni.
Eri serrò le labbra che avevano cominciato a tremare contro la sua volontà, così si sforzò di stringere i denti per poter controbattere ancora. “Perché Ran è scesa da quell’aereo? Non le sarà mica successo qualcosa?! Sono ore che tento di chiamarla ma non mi risponde. Mi sta facendo preoccupare.” La voce si smorzo in un piccolissimo sussurro e compì qualche passo verso Kogoro. Questi infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e la fissò. “E quello che sto cercando di fare anche io, ma non risponde. E non ho la più pallida idea del perché sia scesa da quell’aereo.” Trascorsero alcuni istanti di un silenzio molto particolare, un silenzio di cui approfittarono entrambi per fingere di evitare i loro sguardi reciproci. Fu Kogoro a rompere l’idillio e con un rammaricato sospiro nascose il volto dietro alle dita della mano destra. “Forse abbiamo sbagliato tutto.”
Eri Kisaki non riusciva più a scorgere il viso di Kogoro, ma senza neanche guardarlo negli occhi percepì comunque la sua tristezza, che le doleva ammetterlo, apparteneva anche a lei. Erano così vicini in quel frangente, forse perché accomunati dalle stesse paure, dagli stessi timori, dai medesimi sensi di colpa. In passato quelle brutte sensazioni sarebbero state sì, sgradevoli, ma forse assieme avrebbero avuto tutt’altro sapore, non sarebbero state così opprimenti come lo erano in quegli istanti. Sì, forse in passato sarebbero bastati un sorriso ed un abbraccio per poter ripartire nel migliore dei modi. Eri ebbe l’irrefrenabile voglia di lasciarsi andare fra le braccia di Kogoro, ma il vederlo comunque così distante la fece rinsavire. Per un attimo aveva sperato di cancellare il passato per poter riaprire le porte del presente. “Aspettiamo che arrivi il prossimo aereo, magari ci stiamo soltanto facendo prendere dall’ansia. Sono sicura che Ran tornerà con quel volo.” Era inutile prendersela con Kogoro, avevano entrambi la loro fetta di colpe.
“Lo spero Eri, lo spero.” Concluse lui rivolgendo uno sguardo al cielo, oltre i vetri dei finestroni: era un manto così nero ed immobile che se avesse potuto, lo avrebbe squarciato come la tela di un quadro. Troppo sfrontato per starsene soltanto a guardare.
 
 
 
 

Firenze dormiva già da un bel pezzo, ma la movida notturna non avrebbe cessato di animarla almeno fino alle prime luci del mattino: nei suoi anfratti più remoti, nelle piccole viottole che si inoltravano furtive, persino nei bar più sgangherati della città, la vita continuava fra una risata di troppo e un goccio di alcol in più, fra i baci rubati in penombra e le lacrime versate in silenzio.
Il cielo era limpido e scuro, Ran ebbe un brivido nel ritornare a guardare la strada di fronte a lei. “Comincia a fare freddino, eh.” Esclamò, portando un piedino di fronte all’altro e fissando i ciottoli in terra.
Kaito Kid la guardò e sorrise: erano oramai vicini al fiume. Sollevò il braccio e glielo avvinghiò intorno alle spalle. “Se vuoi ti riscaldo io.”
Ran gli strinse la camicia fra le dita e lo fulminò con lo sguardo. “Ho detto solo di avere freddo, non di avere bisogno di calore. Tieni giù quelle manacce, chiaro?” Lo scansò stizzita, mentre rideva appena.
“Ops, perdonami. Dimentico sempre che tu appartieni ad un altro.”
Nell’udire quelle parole, il sorriso di Ran scomparve dal suo viso e vi prese invece posto un’espressione piuttosto nervosa. “Ma sentilo! Non sia mai, io sono un’anima libera. Ormai sono maggiorenne e non ho alcuna intenzione di dipendere da qualcuno. Specialmente se quel qualcuno … Beh. Lasciamo stare.”
Kid le rivolse uno sguardo fugace e continuò a camminare al suo fianco, avvicinandosi poi al parapetto del ponte: non riuscì a trattenere un largo sorriso. “Credo di aver beccato un tasto dolente. Cambiamo argomento, dunque?”
Lei annuì con decisione e senza aprir bocca lasciò che le sue manine fredde scivolassero lungo il muricciolo in marmo: contrariamente al Vecchio, quel piccolo ponticello sembrava essere il suo fratellino più piccolo e nulla aveva a che vedere con la sua controparte storica, tant’era sottile e longilineo. A Ran diede quasi l’impressione che camminandoci sopra, avrebbe potuto franare proprio sotto i suoi piedi. Grazie al fatto che fosse così esile, però, la visuale sul fiume ne giovava decisamente. Fu Kid ad irrompere nuovamente, con la sua voce ferma e limpida.
“Che meraviglia, non trovi?”
La ragazza continuò a camminare per un’altra decina di metri, poi ruotò il corpo verso l’orizzonte ed incrociò entrambe le braccia sulla superficie liscia del muretto. Finse di non capire a cosa stesse alludendo. “Cosa?”
Kaito Kid imitò Ran ed assunse la sua stessa posizione, con lo sguardo rivolto dapprima alle due rive del fiume, poi in lontananza e ancora dopo, nelle sue profondità. “L’acqua del fiume, i suoi mille riverberi brillanti. E’ così calmo, qui. Passerano sì e no, un paio di macchine ogni dieci minuti. Eppure nonostante la tranquillità, non credi che questo serpentello nero incuta un po’ di timore? Non ti mette in soggezione?”
Ran inspirò leggermente e sentì un fresco e sottile odore di acqua. Ma che diavolo ci faceva ancora lì, con un… ladro? “In soggezione? Perché dovrebbe?” A quel punto cominciò a fissarlo, incredula. Era incuriosita dal suo modo di fare così misterioso, ma lo divenne ancor di più quando lo vide scavalcare il muretto e sedervisi, rivolto proprio verso il fiume. “Aspetta, ma che stai facendo? Non è pericoloso?” Balbettò dunque Ran per poi pentirsene l’attimo dopo. Figuriamoci se Kaito Kid si facesse problemi nel sedersi a quel modo sul muretto di un ponte?!
“Salta su.” La esortò con la mano.
La ragazzina mora scosse il capo. “Fossi matta! E se poi mi butti giù?”
“Devo per caso ricordarti che hai avuto il coraggio di scendere dall’aereo per il Giappone? Ed ora hai paura di fare una cosa così stupida?” Il tono di Kid era così dolcemente ironico ed al contempo, persuasivo, che alla fine Ran si lasciò convincere a salire sul muretto. In un primo momento, dopo essersi sistemata il vestitino, sentì la sgradevole sensazione delle gambe che penzolavano nel vuoto e anche se metri e metri si frapponevano tra lei ed il fiume, era come se i piedi ne sfiorassero la superficie bagnata. Voleva scendere per potersi sentire più sicura, ma lottò intimamente contro il suo piccolo disagio.
“Ecco, ora potresti capire meglio per quale motivo mi sentivo in soggezione. Non appena ti sporgi un po’ di più, non appena abbandoni la terra ferma, assieme alla sua stabilità, ti sentì come sprofondare. Giusto?”
Lei annuì piano, sforzandosi di guardare le sue dita che si torcevano le une contro le altre. “E quindi? E’ normale che standomene quasi nel fiume io abbia paura.”
Kaito rise appena. “Ma no, sciocca. E’ vero che ci si sente più fragili, ma non ti sentì più libera? E poi, da questa posizione si ha una visuale migliore, senza il muretto che si frappone fra te ed il fiume. E’ da qui, che si vedono le stelle.” Un piccolo sorriso gli illuminava non solo il viso, ma improvvisamente anche i suoi occhi guizzarono in alto, persi nella infinita volta celeste, come sempre costellata da timidi barlumi.
Ran sentì un brivido lungo la schiena ed inevitabilmente pensò con rammarico che quel paradiso notturno avrebbe potuto viverlo assieme a Shinichi, fra le sue mille e boriose parole ed i suoi sorrisini; gli avrebbe raccontato moltissime cose e avrebbe parlato con lui per ore, finché l’alba non avesse ricordato loro che un nuovo giorno stava per cominciare. Ed invece era lì, seduta pericolosamente al limitare di un fiume che Kid trovava così poetico, ma che lei al contrario, vedeva soltanto come un’impersonale e fredda distesa di acqua. Acqua e niente più. Aveva senso, senza Shinichi?
Mentre trasse un lunghissimo sospiro, si rese conto che Kaito stava armeggiando con il suo cellulare e di punto in bianco esclamò: “Chi è Aoko?”
Kid strabuzzò gli occhi e le mani gli tremolarono abbastanza da fargli quasi scivolare il telefono in acqua. “A-Aoko?”
“Sì, ho letto il suo nome sul display. Mi spiace se ho dato una sbirciatina, ma l’ho fatto involontariamente. E’ la tua ragazza?”
Lui ripose il cellulare in tasca e scosse vigorosamente il capo. “Ma figurati, quale ragazza. E’ soltanto un’amica.” Tagliò corto lui. Ma quante e quante volte, la stessa Ran si era ritrovata a pronunciare quelle parole? Sulle proprie labbra erano sembrate sempre così convincenti, ma su quelle del ragazzo suonarono più come una scusa. Era così orgogliosa da non rendersi conto che probabilmente valeva anche per lei.
“Ma non parliamo di Aoko. Non volevi sapere cosa scrive Mr. X? Ho trovato l’ennesimo indizio. Il foglietto è proprio nel taschino della mia camicia.” Kid premette le dita contro il petto, in corrispondenza della tasca. “Ma prima di mostrartelo mi devi raccontare del tuo primo incontro con lui.”
Ran annuì appena e cominciò a molleggiare delicatamente le gambette sottili, ora più sicure nel ballonzolare a qualche metro dall’acqua. Inziò a raccontare dell’incontro al bar, descrisse meticolosamente il viso sfregiato di quell’uomo ed aggiunse anche tutte le sensazioni che aveva provato nel piantare gli occhi in quelli algidi e cristallini del fantomatico Mr.X. La ragazza strinse i suoi, come se tentasse di mettere a fuoco quei ricordi sbiaditi. “Aveva uno sguardo terribile, persino la mia amica Sonoko lo aveva notato. Erano occhi freddi, privi di vita. Sembravano pezzi di ghiaccio. E poi il resto della storia la sai. Inoltre si è rivolto a me in un modo molto particolare. Sembrava quasi che mi conoscesse da una vita o che mi avesse già vista in passato. Ma io non ricordo nulla di lui.”
Kuroba venne catturato per qualche secondo da un pesciolino che si era rituffato in acqua. Non rispose ma i suoi occhi si piantarono in quelli di lei.
Ran sorrise. “E allora? Me lo fai leggere il biglietto?”
In maniera del tutto insolita, però, Kaito Kid continuò a non rispondere e si limitò a prendere una ciocca dei capelli castani di lei, cominciando poi ad accarezzarla fra l’indice ed il pollice. “E’ stato molto bello chiacchierare con te, Ran.”
Il cielo era stato limpido e chiaro sino ad allora, ma a poco a poco, il buio stava affievolendosi, si stava liberando del suo nero e l’oscurità stava cedendo il posto ad un tiepido calore: gli orli dei palazzi si stagliavano con più forza su uno sfondo sempre più violaceo ed accecante, ed il fiume non faceva più così paura. Sembrava rinascere nella nuova e tiepida luce dell’alba.
“Aspetta, che cosa…?” Ran non riuscì a parlare, era come se le parole non riuscissero ad uscire dalle labbra, a prender forma: eppure nella sua mente aveva ancora così tante domande da fargli, così tante cose da raccontare.
“Sono stato davvero bene, mia piccola Ran.” Kid sembrò non ascoltarla, ma piuttosto continuava a guardarsi le dita, impegnate a giocherellare fra i morbidi capelli di lei. “Ora devo andare. Ti auguro un buon rientro in Giappone.” Balzò giù dal muretto e sfoderò un gran sorriso. “Vuoi vedere ancora un volta una delle mie magie?”
La ragazza non capiva più nulla: il cuore le batteva a mille, si sentiva totalmente inebetita. Si limitò ad annuire.
Il Ladro Gentiluomo strofinò allora le dita della mano destra, sotto lo sguardo intontito di lei, poi non appena la riaprì, sul palmo comparve il petalo di una rosa blu. Lo lanciò in aria e con estrema nonchalance, si inchinò di fronte alla ragazza. “Au Revoir, mia cara. A presto.” Strizzò l’occhiolino e si voltò, cominciando ad incamminarsi lungo il marciapiede, come se nulla fosse successo e come se quella chiacchierata notturna fosse stata il frutto di un unico, lunghissimo sogno.
Ran strinse piano i denti ed osservò il petalo volteggiare fino ad adagiarsi a terra: guardò l’orizzonte farsi sempre più chiaro e variopinto di colori, poi inevitabilmente il suo sguardo tornò sulla figura del ragazzo che andava via. La stava lasciando lì, da sola?
Improvvisamente, ella comprese: il fiume, le stelle, l’acqua che rischiava di avvilupparla a sé, qualora avesse perso l’equilibrio; tutto quel che aveva fatto era terribilmente sbagliato, i suoi si sarebbero preoccupati all'inverosimile e probabilmente non l’avrebbero mai più perdonata dopo un simile gesto. Eppure in fondo al suo cuore aveva già compiuto quella scelta e se avesse voluto veramente guardare la vita da una prospettiva differente, avrebbe dovuto lasciarsi qualsiasi altra cosa alle spalle. Non si sarebbe più voltata indietro. Doveva guardare soltanto la strada di fronte a sé, un passo dopo l’altro. Sempre più avanti. Racimolò quel briciolo di forza che le rimaneva in corpo e si riempì i polmoni di aria nuova.
‘Ma dove crede di andare, quello lì? Non vorrà mila lasciarmi in balia del mio destino?’ Ran si buttò giù dal muretto e cominciò a correre come una forsennata. “Ehi, tu! Aspetta! Kaito Kid!”
Quest’ultimo, colto alla sprovvista, fu costretto a voltarsi e a far segno di abbassare il tono della voce: la ragazza sembrava talmente determinata da non volersi fermare, correva così rapidamente da sembrare quasi minacciosa.
“Non ti muovere, non scappare!” Ran giunse vicino al ladro, ma stavolta nei suoi immensi occhi azzurri scintillava una strana luce ricolma di speranza e sembrava che la malinconia l’avesse abbandonata per sempre.
Le guanciotte erano imporporate di rosso fragola per via della corsa. Inizialmente non riuscì quasi a parlare, così attese che un paio di respiri affannosi le facessero riprendere fiato.
“Portami con te, Kid. Hai un debito con me.” Sussurrò piano.
“Cosa?! Di quale debito stai parlando?”
“Non vorrai mica che metta mio padre sulle tue tracce? E non vorrai mica che la tua ragazza scopra che sei allegramente in giro con un’altra?”
Kid rise nervosamente. “Ma sei pazza?! Non ti azzardare a fare una cosa del genere. E comunque no, non se ne parla. Piuttosto muoviti, tra poco c’è l’ultimo aereo. Ed Aoko non è la mia ragazza.” Puntualizzò con stizza. Gli saliva il sangue al cervello non appena si pronunciava quel nome.
Ma Ran non demordeva, strinse i pugni e cominciò a parlare in tono concitato: non era la ragazza debole e dolce che l’attimo prima provava timore persino nel sedersi su di un muretto. Sembrava invece, incredibilmente forte, coraggiosa.
“Portami con te!” Ripeté, decisa.
“Non se ne parla, è fuori discussione! Mi saresti d’intralcio e basta. Chiederò io personalmente a Mr. X il motivo per cui ti ha aggredita. Ora va via!” Kaito Kid fece per voltarsi nuovamente e riprendere il cammino, ma una mano si avvolse con forza intorno al suo polso.
“Per favore, Kid. Lo so che non sei cattivo. Lascia che venga con te. Ti prometto che non ti rallenterò, anzi.” Neanche il viso corrucciato di lui, neanche i suoi occhi severi che la fissavano con fare ammonitore l’avrebbero smossa.  
“Ma perché?” Lui fu in grado di chiederle solo quello. La osservò, mentre la presa al polso non accennava ad affievolirsi.
Fra i due correvano i più disparati pensieri ed il timore di sbagliare si insinuava in entrambi come un serpente che alla fine li avrebbe stretti nella sua morsa sino ad ucciderli. Ran provava una mescolanza di libertà e voglia di evasione, ma nel frattempo si sentiva come in balia di un destino che l’avrebbe ugualmente incatenata. Kaito invece percepì, grazie a quelle dita serrate intorno al polso, quanto lei avesse bisogno di un appoggio e si convinse che non avrebbe potuto lasciarla da sola. Eppure il suo cuore aveva cominciato a battere in maniera del tutto irregolare: sentiva la sgradevole sensazione di star sprofondando in qualcosa che era persino più grande di lui e forse non era giusto che anche Ran venisse invischiata in quella storia di cui non conosceva neanche la trama.
“Perché voglio guardare le stelle anche io, così come fai tu.” Ran si stupì persino di se stessa, sembrava come se qualcun altro le avesse messo in bocca quelle parole; eppure le aveva pronunciate così delicatamente che alla fine, il ladro se ne lasciò ammaliare.
“E va bene, hai vinto tu.” La voce di Kaito Kid era un sussurro liberatorio.
E poco dopo, anche l’ultima, piccolissima stella, scomparve dalla volta celeste, oramai rischiarata dalla luce del mattino.
 




 
 
Ehm, ehm. Salve a tutti. Sì lo so. Sono mooooolto in ritardo con l'aggiornamento del capitolo ma purtroppo ho avuto parecchi impegni fra università, esami, famiglia etc etc... :D e quindi il tempo per scrivere si è letteralmente ridotto all'osso. Ma veramente all'osso! 
Eppure una "buona" notizia forse c'è... :) Ho finalmente steso i punti salienti della trama di questa storiella, che inizialmente era un po' incasinata nella mia testolina, ma ora finalmente ogni tassello ha completato definitivamente il grande puzzle *.* Non voglio abbandonare questa fan fiction, assolutamente! Quindi spero che quei pochissimi lettori che la seguono siano felici di leggere :] Mi fa sempre piacere sapere che c'è qualcuno che legge, da qualche parte del globo! Ahahahaahah.. E insomma questo capitoletto è un po' così, anche perché dovevo soffermarmi a descrivere i sentimenti di tutti i personaggi e spero di averlo fatto nel migliore dei modi, per quanto mi è stato possibile perché purtroppo a me non convince proprio nulla :( dall'inizio alla fine! Che disastro.. -.- Ho perso un po' la mano ma spero di riprendere presto a scrivere in maniera più fluida :) nel frattempo mi fermo a salutare Flaminia <3 E le dico di tenere duro :@@@@@@ perché quando il gioco si fa duro... i mollacchioni come me vengono spappolati U_U <3 <3 <3 
E niente, direi che per ora è tutto. Spero vivamente che nonostante il tempo trascorso, ci sia ancora qualcuno che legga questa piccola storiellina piccina picciò! Fatemi sapere, ve ne sarò immensamente grata se lascerete un segno del vostro passaggio, di qualsiasi natura esso sia ahahah :) anche un pomodoro spiacciccato in un occhio, mi va benissimo! XD 
Dal prossimo capitolo ne accadranno delle belle...! :) 
Byeeeeeeez a tutti! Un Bacio...


Aya_Brea


 

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