La sua ultima lettera

di TheVirginQueen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La principessa bambina ***
Capitolo 2: *** L'arrivo del re ***
Capitolo 3: *** Come una madre ***
Capitolo 4: *** Il seduttore ***
Capitolo 5: *** Come un uomo ed una donna ***
Capitolo 6: *** La colpa ***
Capitolo 7: *** Lo scandalo ***



Capitolo 1
*** La principessa bambina ***


Elisabeth stava per compiere dieci anni quell’estate. Le giornate trascorrevano tutte uguali, presso la dimora di campagna in cui l’aveva relegata il suo amorevole padre mentre era impegnato a cercare la sesta moglie, pochi mesi dopo aver fatto giustiziare la quinta.
 
Elisabeth temeva quel padre che non l’amava e che la scrutava sempre con lo sguardo truce, quasi a cercare continuamente in lei l’ombra di sua madre.
 Di Anna, sua madre, che suo padre stesso aveva fatto uccidere sette anni prima, quando lei aveva appena due anni, la bambina non aveva alcun ricordo e nessuno le parlava mai di lei. Pare si fosse macchiata di qualche colpa di cui lei non potesse sapere ne capire, in quanto era solo una bambina. Ma quando Elisabeth metteva il muso, puntando i piedi, per qualche stupido capriccio da bambina o le si gonfiavano gli occhi di lacrime quando il maestro la puniva per una traduzione dal latino o dal greco non ben riuscita le veniva detto, tra i denti, come la peggiore delle offese che era tutta sua madre.
Eppure lei stessa riconosceva nel suo modo di essere capricciosa e caparbia l’ostinata testardaggine di suo padre. La sua sorellastra Maria in ciò era molto più simile alla di lei madre Caterina, dolce e mite. Elisabeth al contrario era ostinata tanto da apparire spesso capricciosa. La sua testardaggine, la sua voglia di affermarsi, l’innocente candore con cui finiva per essere sempre al centro dell’attenzione facevano presagire un cieco narcisismo secondo solo a quello del grande re, suo padre.
Anche guardandosi allo specchio grande, dalla cornice dorata, appoggiato alla toeletta di fronte al suo letto circondato di tende di broccato, Elsabeth non riconosceva in sé nessuno, se non l’odiato padre. Lui stesso aveva perso col tempo la voglia di metterne in dubbio la paternità, perché era evidente che fosse una sua creatura, molto più di quanto fosse evidente in Mary, la figlia maggiore avuta da Caterina D’Aragona o nel piccolo Edward, figlio di Jane Seimour.
La sua immagine allo specchio la spaventava, appunto, perché così rassomigliante a quella di Henry, seppur più fine ed esile rispetto a quella oramai appesantita del vecchio re. I lunghi capelli color rame, che portava raccolti in trecce le incorniciavano il volto ovale e pallido. Sotto le bionde sopracciglia, quasi inesistente, due grandi occhi mobili ed intelligenti, del colore dell’ambra  si guardavano attorno curiosi ed acuti, mai timorosi, anche in presenza del grande padre. La bocca sottile si apriva raramente ad un sorriso di denti bianchissimi e regolari, ed era più spesso piegata in un espressione singolare che, assieme all’acume degli occhi le rendeva il volto troppo poco dolce e assai troppo maturo per una ragazzina. La sua figura era sottile, le dita bianche e delicate, gli arti agili e scattanti. Seppur esile di costituzione, Elisabeth era piuttosto alta per la sua età, ma il suo corpo era ancora quello di una bambina. Essa stessa non si piaceva molto e non sapeva se temere o attendere con ansia i cambiamenti che sarebbero arrivati con l’adolescenza e le avrebbero permesso di indossare quei sontuosi abiti di seta e velluto che tanto ammirava in quelle rare occasioni in cui le era data la possibilità di presenziare alla vita di corte.
Per ora la principessa doveva accontentarsi dei suoi pesanti e altrettanto scomodi, ma non molto eleganti abiti da bambina. Quel giorno ne indossava uno di un rosso sangue, che rendevano il pallore del suo volto ancora più opalescente e ultraterreno. Terminate le sue ore di studio, le preghiere e l’esercizio al virginale la ragazza chiese il permesso di fare una passeggiata in giardino. Le fu accordato, anche in assenza di una dama che le tenesse compagnia. E ciò ovviamente era immensamente piacevole per la bambina, che amava più di tutto esplorare il grande parco da sola, piuttosto che in compagnia della noiosa sorellastra che la costringeva a recitare le preghiere cattoliche in latino, contro il volere del padre, o delle dame, le quali non parlavano altro che di amanti e matrimoni.
Il raro sole inglese risplendeva in un terso cielo azzurro quel giorno, e la piccola principessa scese di corsa le scale di marmo precipitandosi entusiasta nel grande parco. Gli alberi, tagliati tutti della stessa forma, tracciavano i contorni di diversi sentieri e ovunque si snodavano labirinti di giardini curatissimi e fioriti. La bambina s’incamminò lungo la strada che conduceva al bosco, distante poche miglia. Il bosco era un’immensa macchia verde e incolta in cui il re Henry e i suoi uomini di corte si dilettavano a cacciare cervi o volpi quelle rare volte in cui egli decideva trascorrere del tempo in quella dimora di campagna in cui teneva lontani dalla corte le figlie e il piccolo Edoardo, futuro re d’Inghilterra.
Elisabeth aveva percorso appena pochi metri nel bosco quando qualcosa di piccolo la colpi sulla nuca, non fece in tempo a rendersene conto che altri colpettini seguirono al primo inducendola a girarsi. Voltatasi e sollevati gli occhi, tra il fogliame rigoglioso la ragazzina scorse il viso divertito di un ragazzo che poteva avere più o meno la sua età. Era Robert, il figlio più giovane di John Duddley. Robert aveva l’età di Elisabeth e spesso aveva trascorso del tempo nella dimora di campagna, rappresentando per la principessa un occasionale compagno di giochi. Era un ragazzo robusto, con gli occhi di un blu profondo e una zazzera di capelli castani che glicadevano disordinati sulla fronte. Aveva ilvolto arrossato dal sole, a causa dei lunghi allenamenti a cavallo a cui lo costringeva il fratello Guilford.
“Ti stai divertendo un mondo immagino!” sbraitò Elisabeth aggrottando la fronte e piantando i pugni chiusi sulla sottile vita con aria di sfida.
“Non fare i capricci come al solito princpessa” cinguettò lui, trattenendo a stento la risata argentina da bambino e mostrando il suo enigmatico sorriso, a cui mancavano ancora alcuni denti “Vieni quassù, tutto è più bello da quassù!”.
Lei, per nulla preoccupata delle sue pesanti vesti girò attorno al grande albero cercando il punto migliore per arrampicarsi e salire. La mano tesa di Robin l’accolse e la issò su un ramo abbastanza forte da reggere entrambi.
 
 
I ragazzi trascorsero due ore spensierate sopra all’albero a chiacchierare. Quel ragazzo rappresentava per la giovane principessa l’unico legame concreto con la sua età.
Con lui non doveva fingere, ne stare composta, ne parlare in latino o francese, con Robin non doveva disquisire di geografia o di classici greci e latini.
 
Le bastava fare una di quelle smorfie che la sua istitutrice e le dame aborrivano come sconvenienti, perché gli occhi di lui si riempissero di fanciullesca allegria e la sua risata contagiosa accendesse il suo volto arrossato dal sole.
 
Con Robin sull’albero spariva per qualche tempo la principessa, l’istruzione, il vecchio re e le sue bizzarre beghe matrimoniali, la malefica madre assassinata, la sorellastra cattolica e invidiosa, gli intrighi di corte, tutte le tristi cose che la sua mente bambina non sapeva ne voleva comprendere.
 
Con lui era solo Elisabeth. E a lui bastava. E a lei bastava che lui fosse solo Robin, e non il brillante rampollo dei Duddley che sarebbe dovuto diventare.
 
Le dame esagitate che la andarono a cercare nel parco all’imbrunire, la trovarono così, con le trecce scarmigliate, le gote arrossate dalle risate e le sottili gambette tra le pesanti vesti che penzolavano dall’albero, accanto a quelle robuste e tornite, avvolte in alti stivali da equitazione del giovane Dudley.
 
“Principessa, cosa fate là sopra? Scendete immediatamente!” La richiamò la dama che prima delle altre l’aveva vista “Vostro padre il re sarà presto a palazzo, con la futura regina e desidera che voi la conosciate!”
 
Elisabeth si voltò verso Robin e mentre, non vista, faceva una delle sue smorfie di disgusto disse ad alta voce, affinchè le dame potessero udire bene “La sesta non voglio conoscerla, chiamatemi quando avrà fatto tagliare la testa alla decima!”
 
L’insolenza che fece impallidire e scandalizzò le giovani dame divertì molto il giovane Duddley, che non riusciva a trattenere la sua risata spontanea e argentina.
 
A quel punto la principessa aveva dato abbastanza spettacolo e decise di concludere il suo pezzo saltando dall’albero come faceva spesso con Robert, quando ovviamente non era vista dal suo seguito di dame aristocratiche.
 
Si voltò a salutare il piccolo amico, che aveva anch’egli deciso di scendere dall’albero, dato che la venuta del re rappresentava un evento degno di nota anche per lui. Poi si incamminò verso il palazzo con le dame, che la rimbrottarono per tutto il tragitto su come fosse sconveniente per una fanciulla dai suoi natali comportarsi come un ragazzaccio e mettere in atto comportamenti francamente pericolosi come salire sull’albero.
 
“Sua maestà Henry soffrirebbe molto se vi succedesse qualcosa” disse una giovane dama bruna, che tra tutte era la preferita di Elisabeth.
 
“Sua maestà Henry troverebbe facilmente una moglie che le produrrebbe un’altra piccola principessa che sia ben educata e di suo gradimento” disse. E dopo quest’ultima irriverenza corse veloce verso il palazzo che era già parzialmente illuminato da numerose candele nelle sue stanze pricipali.
 
Le dame, che non si facevano ragione del caratteraccio e dell’irriverenza della giovane principessa, le perdonavano però quelle parole di astio e odio verso il vecchio sovrano.
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** L'arrivo del re ***


 L’arrivo del re a palazzo era un evento temuto e nel contempo agognato dalla piccola principessa. Henry non mancava mai di portare dei doni ai suoi figli.
 
La scorsa volta Elisabeth aveva ricevuto un cavallo, che da qualche tempo aveva imparato a montare, anche se purtroppo non la lasciavano giocare alla giostra, come poteva (anzi doveva) fare Robert ogni giorno.
 
In genere veniva vestita e pettinata in modo più elegante quando c’era il re a palazzo. Veniva esentata dai suoi impegni scolastici e le veniva permesso di assistere alle giostre che erano indette in onore del padre, agli spettacoli dei buffoni di corte e talvolta le veniva permesso di mangiare, in disparte come si conviene ad una bambina, le portate degli opulenti banchetti paterni.
 
In quell’occasione il re si sentiva particolarmente generoso e aveva indetto grandi festeggiamenti che celebrassero Catherine Parr, la sua sesta moglie, terza a portare il nome di Catherine ad avere il titolo di regina sotto il suo regno.
 
Catherine, al contrario dell’omonima che l’aveva preceduta, non era giovanissima. Aveva passato i trent’anni, ma la sua bellezza non era ancora sfiorita. Da giovane aveva perso il marito, morto in circostanze tragiche e da quando Elisabeth ricordasse era sempre stata alla corte di Londra, ricoprendo un posto importante tra le dame del regno.
 
La bimba l’aveva osservata attraverso le finestre della sua stanza scendere dal grosso cavallo baio sul quale montava come un uomo e porgere la mano al re che era stato aiutato a scendere dalla servitù.
 
Seppur nella cieca ostilità che la bambina avvertiva nei confronti dell’ennesima sciagurata che occupava il ruolo di sua madre accanto all’irraggiungibile padre, la principessa riconosceva in Catherine una grande bellezza ed un immensa eleganza e in quel momento, in cuor suo le invidiava il posto nel cuore del padre. Posto che lei non aveva mai saputo conquistare.
 
L’indomani il re aveva chiamato a raccolta i tre figli per presentare loro la futura regina. Ancora albeggiava quando la piccola Elsabeth fu svegliata dalle sue dame. La lavarono, le raccolsero parte dei lunghi capelli ramati in una treccia ordinata sulla nuca, lasciando gli altri sciolti lungo la schiena.
 
La scelta dell’abito fu come al solito un dramma per la bambina, che amava provarli tutti prima di decidere. Quel giorno ne scelse uno di un carico color oliva, con uno scollo più pronunciato dei soliti, scollo che lei ovviamente non riempiva e che si preoccupò di coprire con un’elegante catena d’oro e pietre preziose, regalo del padre, che da sola sarebbe bastata a sfamare un intero villaggio.
 
Entrando nella grande sala in cui sedeva il robusto padre con la donna che ne sarebbe divenuta la moglie, Elisabeth provò quel misto di repulsione e attrazione che aveva ogni volta che vedeva suo padre.
 
In quanto figlia della “strega” come il re amava definire la moglie a cui aveva fatto tagliare il collo qualche anno prima, Elisabeth si era da sempre considerata un peso per il padre. Se fosse morta da bambina, come parecchi suoi fratelli, avuti dalle diverse mogli, non sarebbe stata là a ricordargli quella triste vicenda. Pur non conoscendo, sia per la giovane età, che per il riserbo della sua piccola corte di campagna, i particolari della vicenda, la bambina avvertiva un’ostilità perenne negli occhi duri del re, quando la guardavano.
 
Il re, brillante e ciarliero con le donne e gli uomini di corte era raramente tenero con i suoi figli. Li ricopriva d’oro, ma per il resto non sapeva che farsene finché erano bambini, se non prometterli in matrimonio a qualche sovrano d’Europa.
 
Con Maria il re parlava volentieri. Lei era già adulta, ed era una giovane donna assai colta e saggia, seppur eccessivamente compunta per i gusti strampalati del sovrano. Il piccolo Edward era riverito come futuro re d’Inghilterra e tanto bastava per farne il preferito di Henry.
 
Lei sola era la figlia dell’errore. Il matrimonio di Henry con Anna era stato la causa dello scisma dalla Chiesa cattolica e lei ne era la testimonianza incarnata. In circostanze di indecisione religiosa il popolo era molto più ingovernabile e ovviamente lo stesso papa, coadiuvato dai sovrani cattolici d’Europa non vedeva di buon occhio quella separazione dalla madre Chiesa.
 
Ma forse più che i fatti politici che seguirono al matrimonio, la vera ragione per cui Elisabeth avvertiva quell’ostilità non espressa, ma tangibile come un muro di piombo, tra sé e il padre erano nell’irrazionalità con cui il sovrano aveva condotto tutta la vicenda. Irrazionalità di cui quotidianamente si pentiva, seppur tacitamente nel suo cuore. La strana ragazzina che tanto gli somigliava, ricordava a lui il tenero collo dell’unica donna che avesse mai amato e che  per suo stesso ordine fu fatto tagliare sette anni prima.
 
Allo stesso modo il corpulento padre e la mano gigantesca che, quel giorno, ancora una volta era chiamata a baciare inchinandosi, ricordavano ad Elisabeth quanto la sua sorte di figlia illegittima fosse spregevole e quanto fosse stato meglio nascere povera e libera da tutte quelle responsabilità che per il solo fatto di essere nata le venivano additate.
 
La ragazza preceduta dalla sorellastra e seguita dal bimbetto Edward, condotto su una portantina da due uomini di corte, porse i suoi ossequiosi saluti al re e alla futura regina sua promessa sposa.
 
La pomposità di quei cerimoniali non faceva altro che allontanarla dall’umanità paterna. Elisabeth temeva e rispettava il sovrano, ma le sembrava di non aver mai conosciuto il padre. Non ne ricordava la tenerezza, né l’orgoglio verso di lei negli occhi stanchi di vecchio. La mano, che si era spesso sporta per essere baciata si era raramente alzata per accarezzare e la voce profonda e tonante, si era solo di rado fatta dolce e carezzevole per lei. I suoi doni e la ricca opulenza nella quale cresceva erano le uniche cose che le rammentavano di essere figlia del re.
 
Dopo la colazione si svolse una giostra che la principessa guardò assieme alla sorellastra, al re e alla futura matrigna. Il re amava giostrare e si diceva che in giovane età fosse stato un cavallerizzo provetto. Ora appesantito dal peso, dall’età e dagli acciacchi che ne indebolivano le gonfie gambe, aveva rinunciato al suo passatempo preferito. Amava osservare gli altri giostrare e in quell’occasione la sfida vera e propria era aperta da una sfida tra bambini.
 
Sotto l’elmo colpito dal sole, la giovane principessa riconobbe il suo amico, il quale con maestria brandiva la lancia e governava il cavallo come un adulto. Solo lui poteva capire il suo stato d’animo perché anche lui, fin da piccolissimo era stato testimone degli intrecci di corte di cui amava occuparsi l’intrigante padre.
 
A volte nelle ore trascorse sugli alberi o nei prati del parco, Elisabeth e Robin parlavano tra loro di un mondo diverso, in cui loro erano poveri e insignificanti sudditi ed erano liberi da tutto ciò che comportava essere la figlia illegittima di un re e il figlio cadetto di un uomo di corte, amante di intrighi e giochi di potere.
 
Alla giostra seguì un ricco banchetto con molte portate e in seguito al banchetto un’orchestra allietò la corte e invitò al ballo dame e cavalieri. Il re stesso, per quanto la sua mole glielo consentisse si scatenò nelle danze con la futura regina.
 
I ragazzi di corte osservavano gli adulti nascosti tra le tende di velluto rosse e pesanti e i magnifici arazzi appesi al muro della stanza. Così anche Elisabeth meditava tra sé e sé ed osservava attentamente i passi dei danzatori, per tenerli a mente. Era stata educata alla danza sin da quando si reggeva sulle sue gambe ed era un’attività che le riusciva piuttosto bene e la divertiva parecchio. Raramente però si esibiva in situazioni conviviali di adulti.
 
Era sovrappensiero quando il piccolo Robert le si parò davanti e con un inchino la invitò a danzare. Il ragazzo era solito a queste spacconate in presenza del re che erano generalmente accolte di buon grado da suo padre John.
 
La bambina afferrò la mano salda del suo amico e si ritrovò senza accorgersene al centro della stanza. I due ragazzi danzavano con una maestria superiore alla maggior parte degli adulti presenti in quella stanza e forse seconda solo a quella del re nei suoi tempi d’oro, parecchi anni prima. Come se fossero parte di un unico corpo, i due bambini riuscivano a prevedere l’una le mosse dell’altre e ad accordare giri, salti e piroette dal solo sguardo.
 
La canzone procedeva veloce e i due non si resero conto di essere rimasti gli unici a danzare. Avevano tutti gli occhi puntati addosso, compresi quelli del re, della futura regina e dell’invidiosa principessa Maria. Ma di questo a loro poco importava, c’erano solo loro due e la loro danza ed essa sarebbe potuta essere ugualmente non nel palazzo del potere, ma in una piazza, i suonatori sarebbero potuti essere zingari e i loro vestiti ricchi di broccato e d’oro trasformarsi in cenci, ed essa sarebbe stata ugualmente la loro stessa perfetta danza in cui essi non erano null’altro che loro stessi .
 
L’applauso che scrosciante partì al termine della canzone e il sorriso stranamente tenero e compiaciuto del re riportarono i due giovani ballerini alla realtà. Essi fecero un inchino. La musica ricominciò e senza che ci fosse il tempo per accorgersene gli adulti si erano già dimenticati di loro.
 
Robin afferrò di nuovo la sua amica per mano e correndo la condusse via dalla stanza, lontana dal clamore della corte, in una sala vuota con le pareti di legno e grosse finestre di vetro colorato. Il sole basso all’orizzonte, all’ora del tramonto, investiva quella stanza di una luce forte, rosso fuoco che illuminava il volto dei due ragazzi in maniera soprannaturale.
 
Robin frugò nelle sue tasche e ne tirò fuori una lunga e sottile catena d’oro, al termine della quale vi era un ciondolo ovale, un poco concavo e dorato anch’esso, con delle pietre vermiglie incastonate. Era un porta ritratto e aprendolo con le mani tremanti la bambina ne scorse il ritratto di lui, con l’espressione seria e lo sguardo fiero come quello di un adulto.
 
“Vorrei chiedere la tua mano al re” disse il bambino con aria convinta “accetteresti di essere mia moglie?…insomma…tra qualche anno, quando saremo grandi” disse ciò a perdifiato, come per volersi liberare di un discorso ripetuto tra sé e sé migliaia di volte e finalmente venuto fuori più facilmente e naturalmente del previsto.
 
Elisabeth lo osservava con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Di tutte le bizzarrie a cui lui l’aveva abituata questa era davvero la più sensazionale. Allo stesso tempo un volo di colombe le portò il cuore in alto, oltre le nuvole.
 
Lei non ebbe il tempo di rispondere alla precoce richiesta di matrimonio che nella stanza irruppe Maria, sbraitando e ansimando. Con calma tacita Robin chiuse la mano di Elisabeth attorno al gioiello e lei rinvenuta ebbe il tempo di nasconderlo nelle pieghe dell’abito senza essere scorta dalla sorella.
 
“Cosa fate qui da soli?” urlò acidamente la ragazza. “Giochiamo al matrimonio” rispose il ragazzino sardonico, e gettata un’ultima occhiata complice alla sua neo promessa sposa e fatto l’inchino di circostanza abbandonò la stanza fischiettando, lasciando le due sorelle da sole.

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Capitolo 3
*** Come una madre ***


Cap 3
“Catherine vuole parlarti, ha un dono per te” disse Mary adirata afferrando la sorella minore per un polso e conducendola attraverso i lunghi corridoi del palazzo fino all’ingresso del parco.
 
Mary aveva ventisette anni a quell’epoca. La sua poca bellezza stava ormai sfiorendo e nonostante gli intrighi paterni nessun pretendente aveva mai concretamente richiesto la sua mano. Elisabeth sapeva essere quello un punto debole della sorella, la quale nonostante lo desiderasse con tutta l’anima non riusciva a staccarsi dalla figura del vecchio padre e non riusciva a sostituirlo con nessun’altro affetto.
 
Mary aveva vissuto fino all’adolescenza in una specie di giardino incantato. Seppur col peso di non essere il primogenito maschio che il re aveva sempre desiderato, ella era stata amata e vezzeggiata da tutti, come con Elisabeth non si era mai fatto.
 
Sua madre, Caterina d’Aragona era stata una regina prediletta dal popolo ed una madre sensibile e premurosa. Fervente cattolica aveva sopportato con cristiana rassegnazione i tradimenti del marito, ma era sprofondata in una depressione senza scampo quando quest’ultimo, invaghitosi in modo più struggente del solito per la secondogenita dei Boleyn aveva deciso farsi annullare il matrimonio dal papa.
 
L’onta dell’annullamento non sarebbe stata nulla rispetto all’umiliazione che Caterina, oramai matura d’età, dovette subire col divorzio. Divorzio passato alla storia per essere stato la causa dello scisma della chiesa d’Inghilterra da quella romana cattolica, che la stessa Caterina seguiva da devota cristiana.
 
Nei mesi in cui era rimasta a palazzo la donna aveva dovuto subire l’umiliazione del corteggiamento da parte del marito ad una donna sfacciata, più giovane e bella di lei. Poi quando Henry decise di fare le veci del papa lei fu relegata in una dimora con la sua corte e separata dalla figlia adolescente che venne usata a lungo come arma di ricatto nei suoi confronti.
 
Straniera ed esule in terra d’Inghilterra aveva seguito le vicende dello strampalato marito in silenzio, pregando per la sua anima e per la sua ragazza, la quale era stata dichiarata illegittima alla nascita della sorellastra, nuova principessa e figlia della Boleyn.
 
Si era spenta poi nel 1536, lo stesso anno in cui Anna Boleyn fu condannata alla pena capitale. Lasciò Mary sola al mondo, a contare solo sul lunatico padre. Henry ne serbava un buon ricordo e ne onorava la morte, ma non si capiva se ciò avveniva solo per il senso di colpa di averla abbandonata e fatta consumare di dolore.
 
Sin da bambina Mary non aveva mai brillato per bellezza.  Si era invece sempre distinta per altre qualità quali l’intelligenza, l’immensa cultura, la cieca obbedienza e la fervente fede. In queste ultime due ripresentava palesemente il modello materno.
 
La giovane si era legata al padre quando aveva perso la madre, ma non ne sopportava le bizzarrie né i figli che egli aveva avuto da altre mogli. Il piccolo Edward era solo un bambino esile e cagionevole di salute. Lei lo considerava l’ostacolo più grande alla propria ascesa al trono, pur provandone tenerezza per la sventurata sorte di orfano.
 
La figlia della strega, nata quando lei era adolescente, non era mai riuscita a considerarla ne tantomeno ad amarla come una sorella. E se pure considerata illegittima e lontana dalle mire dinastiche provava nei suoi confronti un’ostilità cieca ed irrazionale.
 
Vedeva in lei tutto ciò che era stata quella screanzata di sua madre e la odiava per essere la testimonianza vivente dell’ignobile delitto che privò la sua stessa madre del suo legittimo ruolo di regina d’Inghilterra.
 
Maria aveva coltivato tutto l’odio sopito di Caterina e lo riversava su Elisabeth, piuttosto che sul vecchio padre. Egli era infatti l’unico affetto che ella avesse sulla terra e non riusciva ad odiarlo, né a dargli colpa delle proprie infinite sventure.
 
Catherine Parr attendeva Elisabeth all’ingresso del giardino. Indossava un abito di seta rosso che ne metteva in risalto il seno generoso e la vita ancora sottile. I capelli bruni erano intrecciati con cura in una complessa acconciatura arricchita da pietre e gioielli che richiamavano la preziosa collana che le ornava il petto bianco e le spille che le abbellivano il corpetto del maestoso abito.
 
Elisabeth non aveva mai visto un ritratto di sua madre, perché il re ne aveva bandito l’esposizione in tutte le sue dimore, ma in quel momento le piacque immaginare che quell’elegante dama fosse sua madre.
 
Dal canto suo Catherine era del tutto consapevole della delicatezza della situazione e dell’infelice sorte di quella ragazzina, che era senza dubbio la più sventurata dei tre fratelli.
 
Il suo non era chiaramente un matrimonio d’amore. Il re, un tempo avvenente e brillante era diventato oramai anziano, obeso, irascibile e dedito al vizio. Lei era da tempo innamorata di un uomo della corte del re e voleva diventarne la moglie.
 
Quando il serrato corteggiamento di Henry si trasformò in una concreta proposta di matrimonio Catherine pianse a lungo. Oltre alla non avvenenza del partito era risaputo oramai che le donne che sposavano il re erano colpite da una sorta di maledizione, per cui se non erano ripudiate o cadevano in disgrazia, sarebbero di certo morte, a causa di una condanna o per morte naturale. Dati i precedenti la prospettiva di quel matrimonio era tutt’altro che rosea, ma quantunque Catherine si sforzasse di uscire dall’impasse non poté rifiutare la richiesta fattale e alla fine accettò.
 
Sapendo di non poter trarre giovamento alcuno dal matrimonio col vecchio re la donna aveva deciso di trasformarlo almeno in una buona azione prendendo sotto la sua protezione gli sventurati figli del vecchio sovrano. Ella stessa aveva perso un bambino molti anni prima e non aveva figli suoi, per cui aveva un forte sentimento materno.
 
Con Maria l’impresa si era rivelata fin da subito disperata ed inutile. La ragazza era quasi sua coetanea. Fingerne di voler essere madre per lei era ridicolo, ma anche i suoi tentativi per conquistarne la complicità di un’amica caddero nel vuoto. La giovane Maria era incernierata nella sua cordiale ostilità e raggiungerne le corde emotive era un’impresa destinata ad essere persa in partenza. Maria considerava questo matrimonio, come i quattro precedenti una follia del padre e non aveva capacità di accettare la nuova componente della sua infelice e strampalata famiglia.
 
Il piccolo Edward era solo un bimbetto esile e malaticcio che si aggrappa alla braccia di chiunque volesse coccolarlo e non era difficile entrare nel suo cuore.
 
La caparbia figlia della Boleyn rappresentava la sfida più interessante per Catherine. La bambina non aveva mai avuto una madre ed era in un’età in cui poteva ancora essere conquistata. Il re non l’amava come si ama una figlia, ma non riusciva a non ammettere che tra le sue creature quella era la più riuscita e probabilmente l’unica che avrebbe avuto la stoffa della sovrana, pur essendo di fatto quella che per le regole della successione ne era più distante.
 
Catherine ne era affascinata da una parte, dall’altra ne provava immensa pena. Doveva essere terribile per lei crescere completamente sola al mondo, con un marchio diffamante cucito nell’anima e contro l’astio sordo e cieco del padre.
 
Elisabeth trascinata da Maria le fu davanti. Si inchinò elegantemente come le avevano insegnato a fare nei confronti degli adulti.
-Stava facendo una delle sue sciocchezze col figlio di Duddley- la rimbrottò Maria acidamente
-adesso abbiamo anche una giovane coppia in famiglia. Con permesso io torno da sua maestà che chiede di me.- Aggiunse e senza tanti complimenti girò i tacchi e sparì nel lungo corridoio lasciando la donna sola con la bambina.
 
Elisabeth provava grande umiliazione a quelle parole. Ancora una volta sua sorella l’aveva fatta apparire stupida e infantile davanti ad un’altra persona, per giunta la futura moglie del re. La sua futura matrigna. Ma la cosa che la feriva nell’orgoglio, era la banalizzazione di un momento che per lei era stato immensamente importante e di cui avrebbe serbato il ricordo per tutta la vita.
 
Abbassò lo sguardo muta verso l’orlo ricamato del suo abito verde, ma non riuscì a dissimulare la rabbia. Gli occhi sporgenti le si riempirono di lacrime e le labbra sottili si serrarono per trattenere i singhiozzi.
 
Catherine colse subito lo stato d’animo della bambina e le si avvicinò inchinandosi affinché fossero faccia a faccia. Le sollevò il viso con le dita affusolate e le sorrise complice. -Cosa stavi facendo con Robert Elisabeth?- le domandò come se fosse la cosa che più le interessava al mondo.
 
-Una promessa- rispose lei entusiasta, ma subito dopo, capendo di aver detto troppo tornò ad abbassare lo sguardo, vergognandosi.
-Le promesse sono molto importanti.- le fece eco la donna seria –E cosa vi stavate promettendo cara?-
-Amore eterno- riprese lei serissima e tirò fuori dalla tasca del vestito il ciondolo con ritratto, poi resasi conto di aver svenduto il suo segreto a quella che fino a poco prima considerava sua nemica aggiunse –Mi prometti di non dirlo a nessuno…di non dirlo a sua maestà?-
-Lo prometto di certo- aggiunse lei sorridendo ed alzandosi nuovamente in piedi. Poi aggiunse, per cementare quella neonata complicità –Non avercela con tua sorella, lei non può capire queste cose, lei di promesse così non ne ha mai fatte- e le strizzò l’occhio.
 
Entrambe scoppiarono a ridere. Una brezza leggera si era sollevata nel parco. L’aria si riempiva del profumo dei roseti che erano là attorno da secoli. La più giovane delle rose dei Tudor sperimentava per la prima volta nella sua vita cosa volesse dire avere una madre ed avere nel cuore un amore appena nato.

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Capitolo 4
*** Il seduttore ***


Henry morì nel 1547, quando Elisabeth aveva quattordici anni. La sua morte rappresentò per la ragazza lo spartiacque tra la vita dell’infanzia e la vita adulta. La prima non spensierata era quantomeno priva di grosse responsabilità nei confronti di se stessa del popolo, la seconda sarebbe invece stata caratterizzata da un forte senso del dovere e dai fantasmi del suo sangue di cui non si sarebbe mai liberata.
 
Dal matrimonio del re Elisabeth si era riavvicinata al padre. Non ne aveva mai perdonate le mancanze emotive, ma aveva avuto modo di sperimentarne la levatura intellettuale, seppur per poco. Henry, spinto dall’ultima moglie, si era accostato alla figlia nell’unico modo in cui era riuscito, ossia al livello intellettuale. La bambina era colta, intelligente e crescendo mostrava tutte queste qualità.
 
Lui usò tali qualità per farsi piacere la figlia, e si poté dire che la stimasse, ma ad amarla non riuscì mai. Il mostro che si frapponeva tra i due era Anna Boleyn. Ella era un fantasma nel cuore del re. La donna che l’aveva soggiogato e spinto fino alla follia. La donna che lo aveva portato alla rovina, che aveva tentato di annullare con la condanna a morte, ma che viveva e cresceva nelle sue viscere come una serpe velenosa pronta ad ammazzarlo in qualsiasi momento. Questa donna era ancora là e non gli dava pace notte e giorno.
 
La presenza di Anna nella vita di Henry era tangibile dopo anni, come se avesse appena lasciato la stanza facendo strusciare la vesta ricamata e ammiccandogli con fare suadente. Elisabeth crescendo mostrava sempre più spesso delle risate, dei modi di muoversi, degli atteggiamenti sottili e impalpabili che la riportavano in vita, davanti ai suoi occhi attraverso una creatura apparentemente somigliante a lui, ma intimamente identica a lei.
 
Elisabeth dal canto suo acuì, crescendo, l’ambivalenza nei confronti del genitore. Voleva amarlo e avvicinarlo, tanto quanto era fermamente convinta di odiarlo e di attribuirgli tutte le sue sventure.
 
L’essere vissuta sola, orfana, nell’ignominia, l’aver perso precocemente la mamma: tutti i suoi mali venivano da lui e dalle sue scelte. Anna era un fantasma anche per lei. Ma se per il vecchio re essa aveva un volto e un’anima, per Elisabeth essa assumeva volti e anime disparati, ora crudeli e viziosi, ora teneri e dolci.
 
Il marchio infamante dell’essere figlia della Boleyn le aleggiava addosso. Le persone di corte cominciarono a riconoscerne in lei la presenza, mentre Elisabeth cresceva, e a ricordarla, con tutto il disprezzo che le era dovuto. Da una creatura così abietta non poteva che essere nata una figlia viziosa e pericolosa. E quantunque lei fosse solo una ragazzina, relegata in una vasta casa di campagna che per passatempi aveva i libri e la musica e come unica compagnia quella della matrigna e delle dame, nonostante ciò, le sue apparizioni a corte erano sempre accompagnate da chiacchiere su come fosse inopportuno il suo modo di guardare, sorridere, camminare o fare qualsiasi cosa che sua madre avesse già fatto in passato nello stesso identico modo.
 
Prima di morire il re aveva avuto il tempo di modificare per l’ennesima volta l’atto di successione nel quale inserì Elisabeth come terza nella linea dinastica dopo il fratello Edward e la sorella Mary. Edward, il quale non era altro che un fragile bambino di nove anni salì al trono in una situazione politica molto instabile.
 
Chiaramente egli non era in grado di governare neanche se stesso, tantomeno il regno d’Inghilterra. Era del tutto e per tutto in balia dei suoi curatori che approfittavano della ghiotta situazione per tirare acqua al proprio mulino.
 
La situazione sociale era pessima e il re bambino sembrava il pretesto buono per una rivolta che sopiva sotto la cenere ormai da lungo periodo. Henry aveva lasciato grossi ammanchi per mantenere la lussuosa corte, le tasse erano alle stelle, l’alternanza tra carestie e pestilenze minava le risorse e la popolazione. La questione religiosa non era del tutto chiara e la parte cattolica della popolazione, la quale aveva dalla sua parte tutto l’appoggio di Mary, rivendicava i propri diritti.
 
Catherine Parr poco dopo la morte del re si era risposata con Thomas Seymour, l’uomo che amava di nascosto da anni. Il matrimonio assai veloce destò non poche chiacchiere a corte.
Thomas era poco più grande di Catherine. Era un uomo aitante, ammirato, ben coinvolto all’interno della corte. Suo fratello era tra coloro che si occupavano di amministrare facendo le veci di Edward al potere.
 
Un po’ per far cessare le chiacchiere, un po’ perché desiderava seguirne la crescita, Catherine prese con sé Elisabeth nella casa che divideva col marito.
 
Elisabeth era cresciuta molto negli ultimi anni. La bambina esile e troppo alta si era trasformata in una meravigliosa fanciulla, dalla grazia innata e dal fascino inconsapevole.
Il corpo impubere aveva ormai preso le curve di un corpo da donna, i seni erano cresciuti e i fianchi le segnavano gli abiti, sotto la vita sottile.
 
 Elisabeth che aveva atteso lungamente quei cambiamenti, li accolse ora con indifferenza e anche con qualche timore. Il suo corpo cresciuto le ricordava quotidianamente l’ineluttabile verità che era una donna. Aveva perso il padre da poco, poco dopo averlo ritrovato. Si ostinava a portare l’abito nero del lutto, anche parecchi mesi dopo, quando Catherine si era oramai risposata e viveva felicemente col suo nuovo marito.
 
Gli abiti sfarzosi che aveva agognato da bambina le apparivano ora fortemente pericolosi per la propria persona. Il lutto era il rifugio nel quale decise di nascondere il suo corpo mutato e la donna che stava nascendo in lei.
 
Catherine l’aveva messa in guardia da questi pericoli, sebbene lei stessa testimoniasse con la propria vita di non aver saputo resistere a certe seduzioni. La regina conosceva bene le chiacchiere di palazzo sul conto della giovane e ne voleva preservare l’innocenza e la virtù. Il pericolo che si trasformasse in una seconda Anna Boleyn incombeva minaccioso e come tutte le profezie che si rispettino poteva autoavverarsi da un momento all’altro.
 
Catherine le spiegò cosa fosse l’amore e cosa fosse il matrimonio e come questi due aspetti spesso non coincidevano per nulla. Le spiegò come si amavano gli amanti e l’abituò a resistere a tali impulsi e tali seduzioni, con lo scopo di mantenersi vergine e virtuosa, per l’uomo che sarebbe stato suo marito.
Non la rese apertamente consapevole delle voci infamanti sul suo conto, ma la convinse che mostrandosi pura e ferma agli occhi degli uomini non avrebbe corso pericoli.
 
Elisabeth apprese tutte quelle cose come verità. Amava molto la sua matrigna e lei rappresentava l’unico affetto sincero, a parte Robin, che aveva. L’idillio tra loro si era però incrinato dopo il matrimonio della regina. Elisabeth non trovava coerente le parole sulla purezza alla quale l’aveva abituata e la scelta di risposarsi così precocemente dopo la morte del re.
 
Andò a vivere di buon grado a casa dei due neosposi comunque, giacché l’alternativa era vivere con Mary, l’odiata sorellastra. Qualcosa iniziò a turbarla sin da subito in quella nuova esistenza e ciò l’avrebbe segnata per gli anni a venire.
 
L’allontanamento dalla matrigna coincise con un rapido avvicinamento al suo nuovo marito. Elisabeth non aveva mai sperimentato la tenerezza di un padre e in un primo momento scambiò l’affetto di Thomas per un sentimento puro e disinteressato.
 
Lui le insegnò a cavalcare come un uomo, le faceva sovente da cavaliere nelle danze e le insegnò alcuni passi complicati, di tanto in tanto portava lei e il piccolo re sulla barca, le raccontava dei viaggi che aveva fatto, delle città che aveva visto, che Elisabeth non aveva mai conosciuto. Thomas prendeva sempre le sue parti quando la sua animosità nei confronti della matrigna si trasformava in irriverenza e lei la puniva. Allo stesso modo lui diventò il suo confidente preferito quando lei aveva voglia di sfogare l’irragionevole ostilità di sua sorella o i tristi ricordi legati al padre.
 
Questa fiducia pura e cieca, che in lei cresceva ogni giorno di più, fu ricambiata da un pensiero impuro e immorale nel cuore di lui, che ella non seppe riconoscere e che iniziò ad avvertire solo quando fu davvero troppo tardi per tornare indietro e quando la rete tesagli dall’uomo l’aveva ormai avvolta irrimediabilmente.
 
Lo scopo di Thomas non era chiaro neanche a lui stesso. Sedurre la figlia del re ancora ragazzina rappresentava una sfida alla sua virilità che rompeva la noia in cui lo aveva condotto l’agognato matrimonio con la regina Catherine. Inoltre l’avere in pugno la principessa l’avrebbe di certo favorito nei suoi affari politici, grazie all’influenza che ella aveva presso sua maestà sua fratello.
 
L’uomo che aveva vissuto molto seppe quali corde toccare per conquistare la fiducia della giovane. S’insinuò subdolamente tra l’affetto sincero che ella provava per lui e il bisogno nascente di sentirsi affermata come donna. Manipolò con sapienza le carenze affettive di Elisabeth, l’ingenuo stupore che ella provava nel sentirsi accolta ed apprezzata da una presenza maschile adulta e risoluta e l’innata vanità che andava imponendosi in lei che la portava, nonostante facesse di tutto per celarlo, a gonfiarsi di orgoglio ogni qual volta la sua grazia veniva apprezzata.
 
Con concessioni, complimenti e complicità seppe ghermirla ben presto e la ragazza si trovò allora in uno stato d’animo nuovo che non sapeva spiegare ne accettare.
La vicinanza di lui, un tempo piacevole prese a farsi foriera di tensione. Gli occasionali riferimenti a quanto stesse diventando bella crescendo si erano fatti più frequenti, più frequenti le occasioni in cui lui creava il pretesto perché stessero da soli e perché una sua mano le sfiorasse il volto, si accostasse alla sua schiena o al suo fianco o perché i loro corpi fossero l’uno accanto all’altro.
 
Lei all’inizio non volle credere alle sue sensazioni. Amava Thomas come un padre e Catherine come una madre. Ben presto però cedette alle spire del demonio che le cresceva in seno e iniziò ad arrossire e a schermirsi con fare suadente ai tentativi di seduzione dell’uomo. Assecondava con un misto di colpa e fascinazione quella nuova vicinanza. Diventò inconsapevolmente seduttrice, laddove veniva meschinamente sedotta.
 
Non se ne sentiva innamorata, non lo amava con l’amore puro e fedele che aveva per Robin, ma ne era fortemente attratta e la pericolosità di tale attrazione gli rendeva lui ancora più attraente e desiderato.
 
Dal canto suo Catherine era una donna innamorata. L’occhio vedeva e la ragione capiva, ma il cuore si fece cieco e ottuso. L’unico sentimento che i tentativi subdoli del marito suscitavano in lei non furono il disprezzo per lui e il desiderio di proteggere la giovinetta, ma piuttosto la gelosia più oscura nei confronti di quell’astro nascente che le stava rubando la scena nel cuore dell’uomo che amava.
 
Tanto più lei si mostrava dura e distante con la figliastra, tanto più lei si avvicinava a lui sortendo così l’effetto contrario a quello che la donna cercava disperatamente.
 

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Capitolo 5
*** Come un uomo ed una donna ***


Robert Duddley era ormai un ragazzo quell’epoca. Il robusto corpo da bambino si era mutato in un elegante corpo di giovane uomo. Gli allenamenti a cavallo e il continuo esercizio lo avevano reso tornito e muscoloso. Nell’ultimo anno era cresciuto di altezza, la sue spalle si erano allargate e la voce argentina da bimbetto si era fatta più profonda. Sulle labbra carnose una peluria scura iniziava a crescere e il volto aveva iniziato a mutare anch’esso.
 
Il rapporto tra i due amici non era cambiato col trascorrere degli anni. Essi trascorrevano meno tempo assieme, ma ciò nonostante quando si rincontravano sembrava che nulla si fosse modificato nel modo di accogliersi reciprocamente e di aprirsi l’anima l’una all’altro. Solo talvolta un leggero imbarazzo li coglieva, quando i loro corpi, un tempo così reciprocamente familiari si avvicinavano troppo, come se si cercassero involontariamente e prendevano poi ad allontanarsi come fuggendo l’uno dall’altro.
 
I due ragazzi non avevano più fatto cenno alla storia della promessa. Elisabeth serbava il ritratto di lui come il bene più prezioso, portandolo sempre con sé a contatto col suo cuore, ben nascosto sotto le pesanti vesti. Lui era ancora fermamente convinto che l’avrebbe sposata quando avrebbero avuto l’età per farlo. Non servivano altre parole tra loro.
 
Riguardo al turbamento che Elisabeth provava per Thomas, ella avvertiva limpidamente che esso era assai differente dal legame che aveva con Robin e cercava strenuamente, con tutte le sue forze di difendere questo legame dal sentimento vergognoso che la turbava in quel periodo.
 
Quando lei seppe del suo arrivo nella sua casa si impensierì. Era indecisa se aprirgli l’anima sulla questione che la preoccupava o no. Lei era sempre stata totalmente sincera con lui e non c’erano segreti tra i due. Crescendo però avvertiva che certe cose era meglio tenerle per sé. D’altro canto lei stessa non sapeva riconoscere quella trappola in cui si trovava e conoscendo il carattere sanguigno di lui decise di tacere per evitare di agitarlo per nulla.
 
Indossava ancora l’abito nero del lutto per suo padre in quel periodo. Scelse quello che le stava meglio con il busto stretto, lo scollo pronunciato sul seno acerbo e la gonna ampia che le segnava la vita sottile. Raccolse parte dei capelli ramati sulla nuca, lasciando sciolti gli altri lungo la schiena. Indossò una semplice collana e passò un’ora a rimirarsi davanti allo specchio, cercando ogni volta qualcosa che potesse essere migliorato nella sua persona.
 
Quando lui arrivò al galoppo, la continenza ch’ella aveva cercata strenuamente la abbandono d’incanto. Volò correndo per le scale e si precipitò verso il giovane amico, che nel frattempo era sceso da cavallo. Lo abbraccio con entusiasmo e lui l’accolse tra le sue braccia stringendola a lungo. La sollevò poi da terra e cominciò a girare tenendola prigioniera tra le sue braccia.
 
Da quando il suo corpo aveva assunto questa nuova conformazione quasi da uomo Robin amava mostrare alla sua amica la sua prestanza fisica e la sua forza sollevandola e facendola girare. Amava tenerla prigioniera e vederla ridere mentre cercava di liberarsi dalla sua morsa.
 
Quel giorno però prese coraggio e andò oltre. Nel poggiarla a terra l’attirò nuovamente a se, in un modo nuovo. E quando furono occhi negli occhi e sulla bocca di lei si spense la risata del gioco da bambini si fece coraggio e le baciò le labbra.
 
Lei rispose al suo primo bacio come se avesse conosciuto da sempre le sue labbra e il loro sapore. Si staccarono imbarazzati e guardando a terra. Lui fu il primo a sollevare lo sguardo e trovando accanto a sé il suo cavallo bianco, afferrò le mani della ragazza e salito sull’animale l’aiutò a sollevarsi perché sedesse davanti a lui. Fece partire il destriero al galoppo, e la tensione scemò immediatamente e ricominciarono a ridere come due fanciulli, mentre correvano verso il vento.
 
D’altro canto si conoscevano da sempre, e quel bacio non era altro una delle molteplici declinazioni della loro conoscenza. Mentre sfrecciavano al galoppo, avvinghiati, la testa di lui sulle spalle di lei e il capo di lei reclinato con la chioma rossa nel vento pensavano a ciò. A come si bastassero l’un l’altra e a come non servisse loro altro per essere felici. Arrivati assieme a questa consapevolezza si strinsero le mani nello stesso istante e ciò bastò loro perché ricominciassero a ridere.
 
Robin fermò il cavallo in una piccola radura tra gli alberi, vicina a un piccolo lago. Scesero da cavallo e lui la condusse, oltre un albero fiorito, dalle fronde assai basse che li nascondeva dal mondo,  portandola sulla riva del lago.
 
Prese a baciarla nuovamente, con nuovo ardore, mentre la stringeva forte a sé accarezzandole i capelli. La dolcezza si trasformò in desiderio e senza neanche accorgersene iniziò a cercare la sua pelle con la mano, accarezzandole il collo. Iniziò a giocare coi bottoni dell’abito finché non riuscì a toccarle la schiena bianca.
 
Lei lo assecondava col suo corpo, cerandolo e tremando al contatto fisico tra la sua mano e la propria pelle nuda. Liberatola dall’abito prese ad accarezzarle le braccia e il seno ed iniziò ad infilare le ditra tra i lacci del corsetto. Quelle carezze erano per lei totalmente nuove e si abbandonava ad esse arrendendosi alle mani inesperte e impazienti del ragazzo.
 
Quando lei ebbe solo la sottile camiciola addosso e lui ebbe finalmente raggiunto i suoi seni acerbi con la sua mano, lei trasalì. Quello che stava accadendo non era più un gioco di bambini, né un modo nuovo di stare insieme. Si stavano amando come due amanti.
 
Si ritrasse improvvisamente premendosi una mano sul seno nudo e ponendo l’altra sull’ampio petto, ancora glabro di lui. –Così no Robin…non va bene…non si fa…io non posso…Dio non vuole- le tremava la voce e brividi le percorsero la pelle.
 
Lui la guardò negli occhi –Io ti amo e sarai mia moglie. Che differenza fa tra ora e poi. Lo desidero così tanto e anche tu lo vuoi.-
 
Elisabeth aveva appena scoperto un nuovo Robin. Qualcuno che la guardava con gli stessi occhi bramosi con cui la guardava Thomas. Qualcuno che desiderava il suo corpo e non più solo la sua compagnia. Ella era un coacervo di emozioni. Le carezze e i baci avevano acceso per la prima volta un desiderio nuovo, ignoto e indomabile, ma la ragione le diceva che stava sbagliando, che doveva mantenersi pura, che quel fuoco che le ardeva in petto e che incendiava lui era peccato e dovevo fuggirlo.
 
Lo guardava fisso negli occhi, mentre i suoi, di occhi, si riempivano di lacrime. Lui la attirò di nuovo a sé dolcemente e le baciò la fronte bianca e gli occhi umidi.
-Non è successo niente. Se non lo vuoi tu, non voglio neanche io. Ti amo e aspetterò anche tutta la vita- vedendola tremare per il freddo e per l’emozione l’aiutò a rivestirsi con dolcezza. Risero sulla quantità di indumenti femminili che doveva portare addosso e sul corsetto che a lui sembrava uno strumento di tortura degno del re Henry.
 
Si sdraiarono sull’erba e lui le baciò nuovamente le labbra, con dolcezza. Lei poggiò la testa sul petto del ragazzo, in modo da sentirne chiaramente il respiro e i battiti del cuore. Tornarono a scherzare e a ridere di nuovo sentendosi gli stessi di prima, ma molto più uniti.

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Capitolo 6
*** La colpa ***


Quella sera Elisabeth giunse a casa con un’emozione nuova nel cuore. Tutto era mutato dentro di lei. La presenza di Thomas non la turbava più come l’aveva turbata prima, ma la infastidiva spingendola a evitarla. Con il profumo di Robin tra le dita si mise a letto, esplorando quella nuova tempesta di sentimenti contraddittori che gli affioravano al cuore. Quanto lo amava, quanto sarebbe stato bello abbandonarsi al suo abbraccio, quanto era rassicurante il suo sorriso e quanto erano pure le sue intenzioni.
 
Ora era tutto chiaro, un abisso separava il suo amato Robin dall’intrigante Thomas e lei decise di mettere lo stesso oceano tra sé e il patrigno e meditava il modo di mostrarle freddezza e indifferenza l’indomani, per respingere le sue trame.
 
Non ebbe tempo di attuare alcun piano giacché l’infido Thomas aveva deciso di agire quella notte stessa. Dopo che il respiro della moglie si era fatto regolare ed essa era evidentemente sprofondata nel sonno, si alzò silenziosamente dal letto, scivolando tra le ombre fino alla stanza della principessa.
 
Aprì la porta che non era chiusa a chiave ed entrò nella stanza buia dove lei giaceva tra i veli sottili del letto a baldacchino.
La ragazza giaceva nel limbo dei suoi pensieri, tra il sonno e la veglia. Sentiva ancora addosso l’odore di lui, l’orma della sua pelle a contatto con la propria, il calore dei suoi baci, la tenerezza dei suoi occhi.
 
Non c’era invece tenerezza negli occhi di Thomas, ma solo bramosia e desiderio. S’introdusse nella stanza, che si ridestò subitamente. Poi compreso di chi si trattasse si congelò. Spaventata non reagì, per paura di svegliare le dame nella stanza a fianco o di scatenare una reazione in lui. Rimase ferma nella sua posizione, fingendo di dormire. Il cuore le batteva all’impazzata. Lui si avvicinò al suo letto e si sdraiò accanto a lei alle sue spalle.
 
Sentiva il suo respiro dietro il suo orecchio e quando la mano di lui le si poggiò sul fianco non poté fingere più di dormire.
 
Catherine teneva d’occhio il marito da qualche giorno. Aveva notato il suo comportamento seduttivo verso la principessa e l’invaghimento di lei. Quella notte si era svegliata e allungando la mano sul letto aveva notato l’assenza di Thomas.
 
Presa una candela si alzò e s’incamminò nel lungo corridoio che portava agli appartamenti di Elisabeth. Non aveva dubbi e quella notte preferì vedere piuttosto che continuare a negare a se stessa ciò che stava accadendo.
 
-Vai via Thomas. Ti prego vai via.
Disse la ragazza piena di vergogna e paura, tremando come una foglia.
-Non voglio farti nulla di male. Voglio solo stare con te.
-Se la regina ti scopre…mio Dio Thomas….-balbettò lei.
Oramai la sua voce era rotta dal pianto e si ritraeva nel letto seguita dalla mano insistente di lui che la bramava.
-Lei non è regina, non più mia cara. E te potresti diventarlo.
Iniziò lui, cercando di blandirla esprimendo involontariamente ciò a cui mirava.
 
Quello che accadde a quel punto come tutti i segreti che si rispettino l’indomani fu noto a tutta la corte.
 
La regina entrò in camera della figliastra e la trovò nel letto col patrigno. Come chiunque che venga colpito da un evento che temeva e a cui aveva già intimamente dato forma nei suoi incubi peggiori lei non si sforzò di comprendere cosa di preciso stesse accadendo ma le sembrò che entrambi fossero colpevoli.
 
Dimentica della discrezione che solitamente la caratterizzava prese a urlare e svegliò dame e servitù che accorsero e diedero la loro interpretazione della scena che trovarono: la regina urlante, il signore in indumenti da notte negli appartamenti della principessa e lei piangente e umiliata dalle grida della matrigna che tremava seduta nel letto.
 
Thomas riuscì col tempo a calmare la moglie, convincendola che si trattava di un gioco innocente con la ragazza. L’amore di alcune donne innamorate è più forte della ragione e lei lo perdonò.
 
La figlia della Boleyn, degna erede di sua madre fu allontanata da quella casa e spedita in un'altra dimora con il proprio seguito. La notizia della sua colpa l’indomani era già di pubblico dominio.

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Capitolo 7
*** Lo scandalo ***


 
L’indomani la notizia dello scandalo che aveva colpito la figlia della Boleyn si era diffusa già a corte. Tutti puntarono il dito nei confronti della ragazza che giudicarono intrigante e impudica al pari della madre. Nessuno seppe di preciso come fu andata, ma tutti erano pronti a raccontare, farcendo di particolari piccanti e totalmente falsi una storia che avevano udito solo di sfuggita da qualcuno disinformato quanto loro.
 
Quando Robert, terminata la cavalcata mattutina, rientrò a castello, dove si trovava in quei giorni assieme a suo padre e ai suoi fratelli, udì da qualcuno il nome della principessa e nascostosi dietro una porta si mise in ascolto.
 
-Ha solo quattordici anni ed è già come sua madre.
-Il diavolo ha in corpo. È una strega. Sedurre il patrigno poi, dopo che la nostra regina è stata così clemente nei suoi confronti.
-Capirai come sua madre ha stregato il nostro buon Re Henry, essa ha saputo lavorarsi bene il marito della regina. È solo una ragazzina intrigante, non hai visto come cammina, non hai visto quel suo sguardo che non teme nulla. Cosa diventerà, quale uomo avrà l’ardire di sposare una così…
 
E poi ancora mille altre parole. Infamie su infamie. C’è chi era certo che la principessa aspettasse già un figlio di Thomas e giurava di aver notato una rotondità sul suo ventre. Altri presero a millantare un tentativo di seduzione da parte di Elisabeth nei confronti del piccolo re. L’incesto era infatti il reato di cui era accusata sua madre e pareva naturale che anch’ella avesse ereditata la stessa natura malvagia.
 
Robert se ne stava zitto, nel suo nascondiglio. I pugni chiusi, un sudore freddo gli copriva la pelle. Voleva urlare che non era vero, voleva difenderla dalle accuse, ma non ne fu capace. Non ne fu capace essenzialmente perché sentendo quei racconti scabrosi iniziò anche lui a credere nella natura perversa della sua piccola amica.
 
Provò gelosia nei confronti del seduttore, che era adulto, attraente e di certo l’aveva posseduta, diversamente da come aveva saputo fare lui. Provò disgusto nei confronti di lei che lo aveva respinto fingendosi pura e adesso era sulla bocca di tutti come la peggiore sgualdrina. Provò rabbia nei confronti di se stesso, per non averla saputa difendere dalla sua natura peccatrice, lei che era la cosa più preziosa per lui e per non essere stato all’altezza di poterla amare come un uomo.
 
Con questa tempesta di sentimenti nel cuore il ragazzo uscì dal suo nascondiglio, e senza paura di essere visto tornò indietro verso le stalle. Sellò un cavallo e andò da lei.
 
In attesa di essere trasferita in un’altra dimora la principessa era chiusa nelle sue stanze. Seduta su una poltrona era immobile mentre osservava il volto che gli era caro in quel portaritratti che portava appeso al collo. Lui la sua unica speranza, la sua ancora di salvezza.
 
Temeva della sua reputazione e ancora di più temeva che lui l’avesse saputo.
 
Lui la trovò seduta, coi lunghi e rossi capelli sciolti, sparsi sulla figura alta e minuta, avvolta nel velluto nero. Il capo abbassato sulla miniatura, gli occhi sporgenti asciutti e rossi dopo il pianto. Le mani nervose giocavano con la catena.
Le labbra sottili erano livide e articolavano silenziose preghiere, che nessuno poteva udire.
Vedendola in quello stato lui vacillò. Poi fattosi coraggio entrò nella stanza.
Lei sollevò gli occhi rossi e la furia di lui la investì.
 
-Come hai potuto mentirmi in questo modo. Dicevi di amarmi e poi…la colpa è mia e solo mia, che ti ho scelto ben conoscendo la tua intima natura…
Urlò queste parole con odio e senza riflettere sul loro significato. Se ne pentì non appena le ebbe pronunciate, ma allora fu troppo tardi.
 
La sua intima natura era per Elisabeth quella della stessa bambina che sull’albero sognava un mondo diverso. Lei non ne conosceva un’altra ma sapeva benissimo a cosa lui voleva riferirsi. Dopo l’ostilità muta e severa del padre, l’odio cieco della sorella, l’allontanamento della matrigna e il tentativo di violenza da parte del marito di lei, ora si vedeva costretta a subire l’umiliazione più grande. Essere paragonata alla perversa madre dal ragazzo che lei amava su tutti. L’unico che la conosceva talmente a fondo da non poter dubitare mai.
 
Il dolore fece spazio alla rabbia. Si alzò in piedi e afferrato il gioiello con cui stava giocherellando poc’anzi se lo strappò con violenza dal collo, recidendo la sottile catena e scaraventandolo ai piedi di lui, mandando in mille pezzi il vetro sottile che proteggeva il ritratto.
 Scosso dalle assurdità che erano uscite dalla propria bocca lui provò ad avvicinarsi a lei per scusarsi ma lei lo investì con una rabbia adulta che lei stessa non conosceva.
-Vai via. Stai lontano da me. L’unico tradimento che mi uccide e il tuo. Come puoi credere…come puoi dire…vattene…ti prego sparisci…
 
Lui, non seppe nemmeno perché, si chinò a raccogliere il gioiello e poi scappò via confuso, correndo verso il palazzo. Calde lacrime gli riempirono gli occhi. Pianse di pentimento e di amore verso di lei come un bambino.
 
Lei dal canto suo giurò a se stessa e a Dio che non lo avrebbe mai più rivisto e soprattutto che non lo avrebbe mai sposato. E non potendolo odiare per troppo amore da quel giorno prese a dimenticarlo piano piano.

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