La scintilla di marani (/viewuser.php?uid=674844)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giulia - Sara - Andrea ***
Capitolo 2: *** Pizza - Malori - Prediche ***
Capitolo 3: *** Weekend-Poesie&Febbri-Sotterranei ***
Capitolo 4: *** Orgasmi-Telefonate ***
Capitolo 5: *** Visite mediche - La sfida ***
Capitolo 6: *** L'incidente - Domenica ***
Capitolo 7: *** La donna - Confronto - Epilogo ***
Capitolo 1 *** Giulia - Sara - Andrea ***
Scinti
N.d.A.: a
seconda della
lunghezza dei capitoli originari, ne metterò uno o più nella
classificazione che ne fa questo sito. Ah, è una storia bella lunga.
Per cui, se siete patiti delle flashfic... non so se vi conviene
addentrarvi. Però potreste provarci, perchè no? Buona lettura!
LA SCINTILLA
L’amore ha denti e artigli
che sanno lacerare a
sangue
e causare ferite
che non rimarginano mai
CAP. 1
Vicenza, 1987
Non so ancora bene come cominciò il tutto.
E’ sempre così, ogni cosa pare avere una fine, un epilogo chiaro,
netto.
Il chiudersi di una storia d’amore, la conclusione di un rapporto di
lavoro. Ma al contrario è ben difficile dire quando le cose hanno
inizio. Di solito ce ne si trova in mezzo e si tenta inutilmente di
andare indietro con la memoria, senza trovarne capo. Andare per gradi,
forse, può essere utile per ricordare meglio. Il mio nome è Giulia, per
cominciare, e sono una ragazza di venticinque anni. Una ragazza come
tante è la definizione più veritiera che potrei affibbiarmi senza tema
di imbarazzo. L’essermi da sempre appassionata di computer mi ha
agevolato non poco nel trovare un impiego, nonostante lo scetticismo di
mio padre, fin dai tempi ingenui e nebulosi post-diploma delle
superiori. A differenza delle mie coetanee, dibattute tra il restare a
casa a sfogliare riviste zeppe di pettegolezzi su attori e cantanti
famosi o noiosi impieghi di commesse.In genere in negozi di
abbigliamento giovane, pulsanti di musica techno e luci allucinate.
Precarie attività commerciali che, a seconda delle mode e delle imposte
da pagare, sbocciavano e appassivano come effimeri fiori lungo le vie
del centro cittadino.
E fu proprio mio padre l’artefice involontario della mia futura
professione,
quel Natale di ormai sette anni orsono.
Quando sotto il tradizionale albero carico di decorazioni e dolciumi mi
fece trovare, avvolto nella classica carta dorata, uno dei primi
esemplari di Commodore 64. E’ un computer, per chi non se lo ricorda o
non ne ha mai sentito parlare. Un computer della prima generazione, si
suol dire oggi, ed effettivamente lo era, con tutti i limiti che questo
voleva significare. A quel tempo comunque era come se un uomo delle
caverne si ritrovasse tra le mani all’improvviso un’arma da fuoco, o
anche solo arco e frecce. Adesso fa un po’
sorridere scorgere gli stessi modelli di computer far bella
mostra
sulle bancarelle di qualche fiera di modernariato, a fianco di panciuti
frigoriferi rossi della Coca-Cola e buffi omini Michelin, resi goffi e
obsoleti dal galoppare della tecnologia e del design. Vestigia di un
passato non così remoto da aver suggerito di conservarli (in fondo
siamo sempre figli dei figli del boom economico del ‘60) ma tali da
costare ormai un occhio della testa al fine di rientrarne in possesso,
al pari di sedie Luigi XV e statuine in gesso di Lenci. Così, dopo i
primi preistorici videogame sul C 64 (chi non ricorda il mitico “Space
Invaders”, con improbabili astronavi seghettate che rovesciavano sulle
basi semoventi una pioggia di “trattini” letali?) passai alla grafica
psichedelica degli Amiga, prima di approdare a proposte di pc sempre
più economici e potenti. I miei interventi sulla macchina non avevano
alcunché di geniale o di creativo, ben s’intende, ero solo
l’equivalente elettronico di una buona analista contabile o, al
massimo, di un ragioniere. Metodo e calcolo, in due parole. In ogni
caso fui allettata, dopo un paio di impieghi di transizione, dalla
proposta della Biblioteca Civica di passare (cominciare
a passare, ad essere sinceri) su archivio elettronico anni, decenni,
forse secoli di archiviazione manuale. Nel tentativo di sostituire (gradualmente,
mai parola fu più auspicata e azzeccata) l’oceano di schedule vergate
con mano tremante e svolazzante da una legione di segretari, ormai
defunti a parte il nostro signor Pesavento, attuale burbero
responsabile di tutto ciò che entra e soprattutto esce dalla
biblioteca. Anche se gli altri addetti alla gestione dell’istituzione
libraria pongono spesso spiritosi dubbi sul fatto che anche il vetusto
Pesavento non sia già passato a miglior vita da tempo, e che sia il suo
improbo attaccamento al lavoro a portarlo ogni santo giorno a
presentarsi puntuale alle 8,00. Con l'mmancabile completo grigio e i
gilè di lana scura.
Ma queste, come ripeto, sono le tipiche
spiritosaggini comuni ad ogni ambiente di lavoro, quando la convivenza
tra individui eterogenei porta i più dotati di ironia (o forse di
cinismo) a dispensare battute non sempre azzeccate su questo o quel
collega. Ce ne sono, di persone, in una biblioteca come la nostra. Non
tante come in una grande azienda od in un istituto scolastico,
immagino, ma comunque abbastanza da formare una piccolo drappello
vociante quando ci si riunisce tutti insieme, magari in occasione di
qualche rara cena di lavoro. Occasione aborrita dai più, e appunto per
questo rara, visto che non si riesce mai a “obbligare” tutti alla
presenza. C’è sempre qualcuno che ha un impegno dell’ultimo minuto
(inderogabile) o l’allenamento di chissà quale sport (fatalità) proprio
nel giorno fissato per la cena. C’è da capirli, è ovvio, se
nell’ambiente di lavoro non sboccia spontaneo anche un legame di
amicizia (ed è un po’ arduo che nasca in tutti contemporaneamente con
la medesima intensità) è soprattutto una rottura di scatole rubare una
sera alla famiglia, agli amici o anche solo al telequiz del giovedì
sera per passare altre tre, quattro ore a parlare della biblioteca, del
Consiglio che rilascia permessi col contagocce e dei cronici problemi
dei magazzini. Sì, perché nonostante ad intervalli regolari tra gli
antipasti e il caffè qualcuno salti fuori con la classica frase: “oh beh, ragazzi, adesso basta
parlare di lavoro!..”, alla fine gira e rigira sempre
lì si ricade.
Ci
si ritrova al completo solo in queste poche occasioni, dicevo, mentre
durante il giorno si ha l’occasione di vedere la maggior parte dei
colleghi solo singolarmente o a coppie. O a piccoli gruppi mentre
tentano di entrare tutti insieme in quella che qualche ottimista ha
battezzato “stanza-caffè” (vano
caffè
sarebbe stato più appropriato, visto che tra macchina del caffè, il
ronzante frigorifero per le bibite estive, rigorosamente portate da
casa e di conseguenza siglate per il riconoscimento, e scatoloni di
filtri del caffè e bustine di zucchero e bicchierini, in due ci si
intralcia e in tre ci si blocca). Come in tutte le stanze o vani o
angoli caffè di tutto il mondo è sempre affollato di uomini che
discutono dell’ultima partita di campionato e donne che commentano la
precedente serata televisiva, ed è molto raro, quasi improbabile
trovarlo deserto a lungo (e questa è una prima cosa da tenersi a mente
per il proseguo del racconto).
Tutto questo preambolo (lo so, sono
prolissa, se te lo fanno notare i tuoi fratelli prima e poi le tue
compagne di scuola qualcosa di vero ci deve essere) per dire che dopo
un mese buono di lavoro non sapevo bene quali e quante persone erano
impiegate nella biblioteca, né tantomeno i loro nomi o le loro
qualifiche. Sì, avevo parlato con le signore della segreteria, la
Amalia e la Luigina, così piccole e rotondette e iperattive che era
facile confonderle, e la segaligna Maria Luisa, sempre burbera al punto
giusto, come se la piega verso il basso della bocca le fosse stata
tatuata alla nascita. Poi il già citato signor Pesavento, che da una
vita immemorabile incatenava la sua vecchia bicicletta alle fioriere
che delimitavano l’ingresso, salvo poi fare il diavolo a quattro quando
gli studenti frequentatori della biblioteca parcheggiavano le loro
decine di ciclomotori e vespe. Tra gli addetti alle sale c’era la mia
amica Sara, con cui spesso e volentieri uscivo nella pausa pranzo,
anche se lei era perennemente assillata dalle diete e dai chili
(chili?... grammi in più!) e quindi il più delle volte finivamo a
guardare le vetrine dei negozi del Corso (chiusi) o sedute, nella bella
stagione, sui gradini della piazza a parlare dei fidanzati o dei
fidanzati o dei fidanzati (chiaro, no?). Il mio sacrificio nel non
pranzare era dettato soprattutto dalla solidarietà verso un’amica
ossessionata, più che da un vero e proprio bisogno di mantenere la
linea, e comunque Sara mi avrebbe rinfacciato fino alla nausea il mio
egoismo se solo avessi pensato di divorarmi qualche succulento panino
mentre lei si sorbiva il suo yogurt quotidiano. Yogurt magro,
ovviamente.
Colleghi di Sara nell’accogliere, accudire e soprattutto
sorvegliare gli studenti (che come tutti gli studenti del mondo avevano
sempre volumi di voce e voglia di scherzare ben superiori a quanto i
muri vetusti di una biblioteca possano sopportare) erano il gioviale
Walter, un venticinquenne paffutello e riccioluto. Sempre intento a
sgranocchiare qualche snack al cioccolato che teneva in tutte le tasche
possibili (perenne diavolo tentatore del precario equilibrio alimentare
di Sara, che lo cacciava, urlando per quanto sia possibile in una sala
di biblioteca, dandogli del senza cuore e dell’insensibile). E
l’antipaticissimo (questo andrebbe scritto tutto in maiuscolo) Ugo
Maniero, un viscido e anonimo quarantenne con la detestabile abitudine
di soffermare un po’ troppo le sue mani affusolate (e per questo
ripugnanti) sulle braccia o sulla schiena di qualche occasionale
interlocutrice del gentil sesso. Qualunque
interlocutrice, pareva, essendo di gusti abbastanza ampi. Il suo tocco
non era mai troppo prolungato o troppo esplicito da giustificare una
reazione irritata o risentita, ma dava comunque molto fastidio. Forse
anche questa era una sua squallida abilità. Ne parlavamo a lungo, con
Sara e le studentesse, e il senso di ripugnanza era comune. Non
parliamo poi di come era lesto ad alzare lo sguardo se qualche ragazza
in gonne saliva la rampa di scale che lui stava discendendo, o di come
si soffermava (fingendo di riordinare libri) nel punto migliore per una
visuale panoramica dell’interno di qualche camicetta sbottonata per il
caldo estivo. E vi assicuro che da giugno in poi, specie nelle sale ai
piani più alti, l’afa è decisamente insopportabile.
Degni compari
del Maniero c’erano poi quelli dei magazzini, un’accozzaglia (a parte
qualche eccezione) di rozzi sempre pronti alle battute più salaci
(rigorosamente a sfondo sessuale) quando per qualche ricerca
particolare ci si doveva addentrare nei poco luminosi sotterranei della
biblioteca, dov’era situato il magazzino, ormai al limite del collasso
per problemi di spazio. Per quanto poco impressionabili si possa
essere, davano comunque un brivido alla schiena quei polverosi e
silenziosi scaffali di libri, sempre troppo in penombra.
Poi c’erano
i lettori, e gli esterni, e i ragazzi del tirocinio, e i ragionieri
dell’amministrazione. Insomma, non mi sembrò per nulla strano non aver
mai visto quel ragazzo
(Andrea...)
prima di quel caldo mattino di fine giugno.
- Credo che tu debba ridare le impostazioni di stampa -
Alzai
lo sguardo. Sulla porta del minuscolo ufficio che divido solitamente
con Sara, c’era un ragazzo. Aveva un’età indefinibile. Un folto ciuffo
di capelli neri gli ricadeva sulla fronte. Portava un buffo gilè di
velluto su una camicia bianca di stoffa indiana lavorata. I suoi occhi
avevano...un’espressione smarrita, quasi dispiaciuta, come se invece di
un consiglio d’informatica avesse dovuto comunicare, che so?, di avermi
versato il caffè sul vestito. Non mi stava guardando. Fissava invece il
monitor del computer che avevo poco dietro di me.
- Prego? - riuscii a dire, colta di sorpresa.
-
Il computer... - indicò - non stampa. Devi aprire Scelta Risorse e
reimpostare la stampante. Lo fa, a volte, è uno dei misteri dei
computer. Forse succede quando lo spegni in un dato modo...o forse
quando si sveglia male... -
Un velo di divertimento attraversò per un attimo il suo sguardo, che
tornò subito quasi malinconico.
Mi
girai verso lo schermo, muovendo automaticamente il mouse. Sì,
effettivamente avevo dato l’ordine di stampare l’elenco degli autori in
ordine cronologico dal 1975 al 1977, e poi mi ero riimmersa subito
nelle carte sparse sulla mia scrivania. Non avevo fatto assolutamente
caso al fatto che la macchina non aveva sputato nessun foglio di carta,
né bianco né stampato, dopo un po’ ci si fa l’abitudine ai rumori e
alle elaborazioni del computer, a volte si crede
che abbia stampato salvo poi constatare che non l’ha fatto. Quello che
mi lasciava perplessa era che sullo schermo non era apparso nessun
messaggio che confermasse l’impossibilità a stampare, dal quale si
potesse dedurre che era un problema di Scelta Risorse. E la mancanza di
qualsiasi comunicazione da parte del computer impediva appunto che si
potesse pensare ad un errore di stampa. Potevo semplicemente aver
lasciata aperta la lista degli autori per consultarla, o per
modificarla, senza nessuna esigenza di stamparla. Voglio dire, per
quello che si vedeva sullo schermo solo io potevo sapere se avevo
mandato in stampa il documento o no. O almeno così credevo. D’altra
parte non sono così ferrata sulla parte hardware o software o come
cacchio si chiama per sapere se qualcuno più esperto di me potesse
trarre comunque informazioni sullo stato di quel complicato scatolone
futuribile. Fin che funziona lo uso, digito, apro e chiudo programmi,
magari perdo un pò di tempo con qualche stupido giochino, ma se per
qualche misterioso motivo il tutto dovesse andare in tilt (o in bomba,
come insegna il gergo) beh... chiamo aiuto.
Aprii Scelta Risorse reimpostando la stampante e, dopo un breve attimo
di riflessione, il computer mi diede l’ok a stampare.
-...g-grazie... - mormorai girando la testa verso il ragazzo - ma come
hai fatto a...-
La stanza era vuota. Il ragazzo non c’era più, come se non fosse mai
esistito.
Dalla soglia fece capolino Sara, con un pacco di libri tra le braccia.
Indicai il corridoio dietro di lei:
- ...quel ragazzo... sai chi è ? -
Lei fece un passo indietro scrutando a destra e sinistra:
- Di quale ragazzo parli ? - rispose con un’espressione perplessa sul
volto - in corridoio non c’è nessuno... -
CAP. 2
Quella
notte feci un sogno. Ero in una strada di una città sconosciuta, sotto
una bufera di neve turbinante e gelida. Vagavo senza sapere dove
andare, ed ad ogni angolo mi sembrava che qualcuno mi seguisse, solo
che non appena voltavo lo sguardo indietro l’impressione spariva. Come
se la presenza misteriosa si ritraesse appena un attimo prima di essere
scorta. All’improvviso scorsi Sara ferma davanti a me, immobile, che mi
dava le spalle. Mi avvicinai senza riuscire a chiamarla, e mentre
alzavo un braccio verso le sue spalle fui presa da un’angoscia
terrorizzante. La mia mano si avvicinava inesorabilmente alla mia amica
ma tutto il mio essere era spaventato dall’idea di vederla girare e
guardarla in faccia. La toccai e lei si voltò: era proprio Sara. Stavo
per dirle qualcosa quando la sua faccia... vibrò...per un istante...
tramutandosi poi nel volto del ragazzo apparso improvvisamente
nel
mio
ufficio, e misteriosamente scomparso. I suoi occhi avevano sempre
quell’espressione a metà tra lo smarrito e il rattristato:
- Non puoi stampare senza di me...io sono il sogno...- disse con un
lieve sorriso -...e tu sei una persona speciale...-
Poi
i suoi occhi, fissi nei miei, cominciarono ad ingrandirsi, sempre di
più, sempre di più, fino a che il mondo intero ne fu pieno e...
Mi
svegliai di scatto, con un lamento, e rimasi immobile, tra le lenzuola
intrise di sudore, ad ascoltare il ticchettìo di un temporale estivo
sui vetri della finestra.
CAP. 3
- Un ragazzo con dei lunghi capelli scuri... e poi che altro? -
Con
un’espressione divertita e incuriosita Sara si protese attraverso la
marea di carte che ingombrava la mia scrivania. Io scossi le spalle,
lottando disperatamente con la memoria alla ricerca di qualche
particolare ulteriore. Era una sensazione assolutamente spiacevole,
nella mia mente vedevo il ragazzo misterioso in piedi sulla porta
dell’ufficio, vedevo i suoi capelli neri e folti, vedevo naturalmente
il suo sguardo smarrito...ma poi basta, come se un difetto di vista, un
alone di luce m’impedisse di scorgere altro.
- Non lunghi... più che altro un gran ciuffo...- risposi a disagio - e
poi... e poi... uno sguardo triste...-
La fronte di Sara si corrucciò in un moto di disappunto:
-
Oh bè, non mi sembra gran che, come indizio...possibile che sia tutto
qui quello che ricordi? Voglio dire, è un bel manzo, o è uno sgorbio,
ha la barba, o qualcosa di particolare? -
Scrollai nuovamente le
spalle. Non riuscivo a capire perché non ero in grado di ricordare
altro e, soprattutto, perché ci tenessi così tanto a scoprire
l’identità del ragazzo. In fondo era uno qualsiasi, impiegato o
addirittura studente, che si era fermato un attimo per un piccolo
aiuto. Una gentilezza senza importanza. Eppure qualcosa mi rendeva
inquieta, come una spina fastidiosa nell’anima...
Alle spalle di
Sara comparve Maria Luisa, la responsabile dell’amministrazione, grigia
e anonima nel suo cardigan, il solito crocchio di capelli a morderle la
nuca. Il taglio della bocca era un arco rovesciato, come sempre.
-
Giulia, dovresti fare un salto giù...- disse mentre ci scrutava con
fare
indagatorio, certa che avessimo impiegato parte del
Sacro Orario di Lavoro per chiacchierare delle nostre faccende private.
Beh, a dire il vero, un po’ era così... - ha chiamato Portogruaro... la
dottoressa Artico... hanno confermato i titoli della lista inviataci
lunedì via fax... ci sarebbe da organizzare la spedizione, far
preparare il pacco, sentire il corriere... le solite cose, puoi
occupartene tu? -
Le sorrisi senza alcuna speranza di ammorbidirne il cipiglio:
-
Certo, signora, me ne occupo immediatamente...- feci un cenno di saluto
a Sara e afferrai la borsetta. Uscii dalla stanza lasciando la mia
giovane amica a sorbirsi la solita predica della tizia sulle
responsabilità che si hanno in una struttura del genere e via di
seguito e imboccai la scala verso l’uscita (il nostro cubicolo-ufficio,
come quello di tutti i novellini, è situato all’ultimo piano: più nuovi
si è più scale, e fatica, si fa...). Salutai distrattamente un paio di
ragazze delle medie, colorate e vocianti, poi lo vidi. Era un paio di
rampe sotto di me, e mi fissava. Le sue mani si muovevano velocemente,
con piccoli gesti concentrici, come se stesse torcendo un minuscolo
pezzo di carta. Accelerai il passo come per raggiungerlo (stupendomi di
questa reazione, non certo da me) quando dalla sala lettura sbucarono
cinque o sei ragazzi, in jeans tagliati al ginocchio e t-shirt dei più
violenti gruppi heavy-metal, intenti a spintonarsi e sghignazzare.
Cercando per di più di farlo silenziosamente, e proprio per questo
riuscendovi alquanto poco. Mi presero in mezzo e le risate idiote e gli
ammiccamenti si fecero più marcati. Fulminai i più scapestrati con
un’occhiataccia, cercando di sgusciarne fuori, e ripresi la discesa,
convinta che il misterioso ragazzo fosse altrettanto misteriosamente
scomparso. Invece era fermo nello stesso punto dove l’avevo visto, e
sembrava proprio che stesse aspettandomi. Improvvisamente,
assolutamente inatteso e con una violenza che mi strappò una smorfia,
lo stomaco mi si strizzò. Annaspai mentre il cuore partiva a mille, nel
tentativo di uscirmi dal petto. Il ragazzo sembrò non accorgersi di
niente, ed esibì un ampio sorriso:
- Devo esserti sembrato molto
maleducato a sparire così, ieri... - la sua voce era tranquilla ed
avvolgente, quasi ipnotica - ma mi sono ricordato che avevo lasciato un
tizio in attesa, al telefono... - il sorriso si fece ancora più
divertito. Solo il sorriso, però, i suoi occhi mi fissavano appena un
po’ tristi - ...difatti aveva riattaccato. Ciao, io mi chiamo Andrea...-
Con
la testa confusa ed ovattata (ero veramente allibita di quella mia
reazione, tanto che metà del mio cervello si stava chiedendo
quali
fossero i sintomi di un ictus o di un colpo apoplettico, e l’altra che
figura avrei fatto a crollare al suolo come un sacco di patate
di
fronte a quell’estraneo) strinsi la sua mano tesa con la mia che
sentivo (e probabilmente avevo) di ghiaccio. Mi sentii mormorare a
fatica il mio nome, qualcosa che assomigliava ad un “i-iace-re,
iulia...”. Lui non sembrava fare assolutamente caso al mio
comportamento e continuò:
- Immagino che anche tu sia nuova, qui. Io
non ho ancora ben capito com’è strutturato questo edificio, e mi sto
orientando a poco a poco. Beh, penso che non mancherà occasione di
incontrarci e di scambiare qualche parola, prossimamente. Ora devo
correre, quelli giù del magazzino mi hanno preparato alcuni volumi che
mi sono stati richiesti, ed è meglio liberare il montacarichi...- di
nuovo il caldo sorriso -...piacere, Giulia, e non farti scrupoli a
chiamarmi se il tuo computer dovesse fare le bizze. In fondo
(sei una persona speciale)
L’ultima
parte della frase fu coperta dal singhiozzare del clacson di un tram
nella via sottostante, ma fui percorsa come da una scarica elettrica.
Mi era sembrato di capire che avesse detto proprio così.
- P-prego?!? - balbettai. Lui fece ruotare gli occhi spazientito:
-
Questo traffico cittadino...- commentò - ...è davvero una croce. Niente
di speciale, ho detto che a me fa piacere aiutare le persone. Tutto
qua, ok? Adesso vado, ci vediamo...-
Si allontanò nel corridoio che
si apriva sul pianerottolo, e sparì alla vista. Poi notai quella
piccola cosa sulla balaustra della scala. Vicino a dov’era fermo Andrea
era posato un piccolo cigno fatto di carta leggerissima, bianca. Ecco
cos’era quel movimento delle mani... una minuscola creazione di carta,
un origami. Lo presi fra le dita, osservando la maestrìa con cui era
piegata la carta, e me lo infilai in una tasca della borsetta, senza
pensarci. Poi rimasi immobile mentre lo sfarfallìo nello stomaco e il
tambureggiare del cuore diminuivano gradualmente. Mi sentivo la faccia
in fiamme.
Ero spaventata, e preoccupata, da quella strana
sintomatologia. Man mano che tornavo alla normalità non riuscivo a far
altro che star lì a rimuginare su quella frase coperta dal clacson.
“Sei una persona speciale” non assomigliava neanche lontanamente a “mi
piace aiutare la gente... o le persone”. Come aveva detto?
Ripresi
lentamente a scendere le scale, poco sicura della stabilità delle mie
gambe, cercando di associare a qualche tipo di malessere quello che mi
era successo (indigestione? sbalzo di pressione?) ma l’unica cosa a
cui poteva avvicinarsi era... E’ così assurdo, ma sembrava la reazione
che avevo quando prendevo una forte cotta per qualche ragazzo.
A quindici anni. Alle scuole medie.
CAP. 4
La
sera, era un venerdì, tornai a casa stanca ed ancora un po’ scossa
dallo strano episodio. Entrai nel piccolo appartamento in
cui abito da sola da ormai tre anni, boccheggiando per la rovente
temperatura che la giornata afosa aveva accumulato, nonostante mi
fossi premurata di chiudere tutte le imposte. Accesi la lampada sul
mobile in entrata e mi accorsi subito che la segreteria telefonica
lampeggiava ritmicamente: messaggi in arrivo. Il numero rosso indicava
il numero 3. Tre
chiamate?, pensai mentre sistemavo l’agenda e i
giornali sul mobile d’entrata, mia
madre, Ricky e chi altro? Sara,
forse.
Pigiai il tasto per riavvolgere il nastro e far partire
automaticamente le registrazioni dirigendomi verso il bagno, tanto il
volume della segreteria mi avrebbe consentito di ascoltarla sin da lì.
La prima voce era quella prevista e titubante di mia madre, da sempre
in imbarazzo ad interagire con una macchina, che mi chiedeva come
stavo, mi informava sull’esito di alcuni esami clinici di sua sorella e
infine mi mandava i saluti suoi e di mio padre. Feci scorrere l’acqua
fredda dal rubinetto e mi bagnai il viso, assaporando quel sollievo.
Dopo il secondo fischio per l’appartamento si sparse la voce allegra e
sonante del mio lui. Sto da due anni con Enrico, Ricky per tutti. Come
potrei descriverlo? Apparentemente è tutto il contrario del ragazzo
con cui starei (incoraggiante come inizio, no?). Non fraintendetemi,
sto bene, molto bene con lui, e credo di non mentire a me stessa se
aggiungo che lo amo. Ma è comunque diverso dai canoni che pensavo mi
attirassero in un uomo, alla luce delle mie esigenze e delle storie
passate. E’ un pezzo di ragazzo notevole, per dirla con la mia amica
Sara, e a prima vista dà la classica impressione del tutto muscoli e
niente cervello. Impressione che ha avuto per un po’ anche la
sottoscritta, quando l’ho conosciuto durante una settimana bianca
sull’Altopiano, e impressione che penso permanga ancora adesso in molte
persone che conosco, non ultime un paio di mie amiche. Naturalmente è
uno sportivo iperattivo, e mi tocca dividerlo con il tennis, le
arrampicate in roccia, gli allenamenti del calcio il martedì e il
giovedì sera (sereno, diluvio universale o tormenta di neve va bene lo
stesso), le piste di sci e le escursioni della domenica mattina in
mountain byke. Come disse la mia amica Silvana, in una di quelle sere
rigorosamente-senza-uomini in cui si sparla un po’ di tutto e si
esagera con i grappini (sì, fra donne si fanno anche queste cose, a
volte), meglio dividerlo con il tennis che con le partite di calcio in
tv tre sere alla settimana. O, peggio, con la commessa del negozio di
abbigliamento del centro. Convengo.
Io in quanto a sport, a parte
delle goffissime discese a spazzaneve tre o quattro volte l’anno, poco
o niente. Anzi niente. Sono la classica tipa che grida istericamente
agitando le mani quando la palla arriva un po’ troppo forte durante
un’improvvisata partita di pallavolo sulla spiaggia. Oh beh, ognuno ha
i suoi gusti. Tornando a Ricky, lui è sempre molto attivo, sempre molto
abbronzato, sempre molto pettinato, sempre molto sicuro di sé. E lo
descrivo così continuando a non trovarci nulla di male. Anche perché
dopo averlo conosciuto meglio, nonostante numerose resistenze da parte
mia a rivederci in città, diffidente primo per una mia storia
precedente finita male e secondo perché mi dava l’impressione del tipo
tutto muscoli e niente... ci siamo capiti... mi sono resa conto a poco
a poco che in realtà lui sembra
essere molte cose. Sembra
ma non è. La
sua passione per lo sport può farlo sembrare un manzo privo di
sensibilità, ma è dolce, e si prende cura di me, ed è bello parlare con
lui, anche se i nostri punti di vista sono spesso diversi. E forse è un
bene, in fondo non c’è controprova che un partner perennemente
sintonizzato sui tuoi gusti sia tutto rose e viole. Questo significa
che a turno io devo ascoltare le potenti frequenze tachicardiche della
musica techno che si spara in macchina e lui sorbirsi i cd di
cantautori italiani le sere che passa a casa mia, per esempio. Oppure
qualche volta io devo barattare l’ultimo film d’azione tutto cazzotti e
sparatorie per gustarmi la volta seguente un bel filmone romantico che
mi faccia uscire dal cinema con le guance rigate di lacrime.
E’ poi
è onesto, e ha dei valori (e di questo parleremo un po’ più avanti). In
fondo è una bella persona e, anche se a parole sembrerebbe riduttivo
descrivere così l’uomo che si dice di amare, io credo che essere belle
persone non sia cosa da poco, tutt’altro. L’amore vero, quello che deve
durare tutta una vita, non può essere solo ardenti fiammate di
passione, perché è risaputo che non possono bruciare a lungo. E che
consumano le persone. L’amore vero è un caldo, continuo tepore che
scalda il cuore quel tanto che basta a farti sentire il profumo della
vita. Riuscendo a far sbiadire le paure (forse non riesce a farle
sparire, ma neanche la passione lo fa) e facendoti sentire, nonostante
tutto, in equilibrio col mondo. Almeno, così è come la vedo io.
La
sua sicurezza e il suo modo di fare estroverso, poi, lo fanno sembrare
un po’, come dire... un po’ fanfarone. Ma anche questa è una sensazione
superficiale, perché non l’ho mai sentito vantarsi di nulla
(dimenticavo, viene da una famiglia piena di soldi) se non di qualche
performance sportiva, con gli amici in pizzeria. E nonostante io cerchi
periodicamente di spiegare tutto ciò alle persone che mi stanno vicine,
non sempre sortisco l’effetto desiderato. Solo per Sara io dovrei
portarmelo immediatamente all’altare. Mio padre invece non vede di
buonissimo occhio le sue incursioni in casa, quando scherza ad alta
voce con mia madre, o ingaggia furibonde lotte sul divano con il mio
fratellino minore (che stravede per lui) o pontifica scherzosamente a
tavola su questo e quel politico. Naturalmente lo “scherzosamente” pare
riesca a vederlo sempre e solo io. Mah...
Tornando al messaggio
lasciato dal mio lui, mi dava appuntamento verso le otto e mezzo
(questo voleva dire tra poco più di mezz’ora, quindi un tempo
infinitamente breve per una donna che si sente da buttare dopo
un’afosissima giornata di lavoro) per raggiungere la compagnia alla
solita pizzeria e poi decidere dove finire la serata.
Innervosita
dal breve tempo a mia disposizione decisi di volare di nuovo in bagno
per una doccia ed un restauro indispensabili, quando la segreteria
lanciò il suo terzo (ed ultimo) fischio. Subito dopo, il nulla. Nessuna
voce, nessun rumore. Mi bloccai al centro del salotto, a disagio.
“Qualcuno che ha trovato
la segreteria inserita e ha preferito
riagganciare”, avrei pensato in qualunque altra sera. Ma
non quella
sera. La segreteria scattò, dopo aver esaurito il suo muto messaggio, e
il rumore amplificato dal silenzio della casa mi fece trasalire. Con i
battiti che acceleravano (inspiegabilmente) nel petto, riavvolsi il
nastro, feci avanzare velocemente i messaggi di mia madre e di Ricky e
mi chinai con l’orecchio sull’apparecchio. Il silenzio ripartì e non
era un silenzio. Non una mancanza di suono, per capirsi, ma il “rumore”
del silenzio. Corrucciai la fronte per aguzzare... l’udito e quasi alla
fine del nastro mi sembrò di sentire... un mormorìo, impercettibile e
confuso. Guardai di lato: il volume della segreteria era al massimo.
Riavvolsi il nastro e riascoltai, ancora e poi ancora. Non riuscivo a
decifrare niente, poteva trattarsi addirittura di un difetto della
cassetta. Il cuore mi rimbombava nelle orecchie.
Poi mi venne
un’idea: feci sputare fuori la cassetta e la infilai, con mani non
troppo ferme, nel piccolo rack stereo sul mobile in cucina. Rovistai
freneticamente nei cassetti di casa fino a che non trovai le cuffie con
cui, quando ero studentessa, ascoltavo i corsi di inglese. Le infilai e
feci ripartire per l’ennesima volta la registrazione (senza troppo
chiedermi cosa diavolo stessi facendo) alzando più possibile il volume:
il fruscio del messaggio vuoto mi riempì la testa, poi, proprio alla
fine, all’improvviso una voce sussurrò
il mio nome.
Il nastro si
fermò (con un TLAC assordante) e proprio in quel momento, mentre
cominciavo a tremare senza riuscire a controllarmi, il campanello suonò
due volte.
Era Ricky. Avevo ascoltato e riascoltato la segreteria per ben 35
minuti.
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Capitolo 2 *** Pizza - Malori - Prediche ***
CAP. 5
Il
sabato la biblioteca è aperta a ritmo ridotto, nel senso che solo la
mattina è frequentabile dai cittadini. Nel pomeriggio, dopo un’ora di
pausa pranzo tra le tredici e le quattordici, è regno incontrastato
degli addetti all’archiviazione elettronica. Dovremmo smettere anche
noi a fine mattina, ma per prendersi avanti con il lavoro di
catalogazione l’amministrazione ha deliberato un po’ di ore
straordinarie. Ben pagate e ben gradite, direi.
Arrivai al lavoro
come ogni sabato mattina seguente una serata con gli amici, e cioè
assonnata e con un principio di mal di testa in agguato dietro l’occhio
sinistro. Già le uscite del venerdì non sono proprio un toccasana per
un risveglio fresco e rilassato, figuriamoci poi con tutto quello che
era successo. Innanzitutto dovetti inventarmi un ritardo nell’arrivo a
casa per giustificare a Ricky il fatto di non avermi trovato pronta per
uscire. Come succede di solito. Di conseguenza una telefonata agli
amici col cellulare per avvertirli di cenare pure, che li avremmo
raggiunti in pizzeria più tardi. Ricky non sembrò particolarmente
innervosito da quell’intoppo, e questa è un’altra dote che apprezzo in
lui. I nostri amici erano già al caffè quando facemmo il nostro
ingresso nel locale. Io, scossa com’ero da tutti quegli strani episodi,
avevo lo stomaco strizzato come un limone, e benedii il fatto che non
rimaneva tempo per mangiare. Non sarei riuscita a buttar giù neanche
una briciola. Ricky, allegro e ciarliero come al solito, afferrò un
paio di tramezzini dall’aspetto stanco e li divorò al volo, mentre
uscivamo verso il parcheggio. La nostra meta per quella sera era uno
dei locali attualmente in voga in città, il Nexus. Come ovvio, era una
bolgia fumosa, affollata da gente accaldata che gridava per cercare di
intavolare un barlume di conversazione al di sopra del frastuono
provocato da un gruppo musicale sul piccolo palco. Ci stringemmo in una
decina attorno ad un minuscolo tavolino da quattro posti,
mentre a turno ci si urlava nelle orecchie per parlare. La band sul
palco non era poi così male, in fondo, a parte il volume decisamente
fuori limite per la grandezza del locale. Stavano suonando un’onesta
versione di “Message in a bottle” dei Police. Silvana si chinò verso di
me:
- Si chiamano Reblatta...- m’informò mentre una cameriera
sfinita ruminava un chewing gum attendendo le ordinazioni - mio
fratello conosce il chitarrista. E’ uno dei gruppi che va per la
maggiore, in città, negli ultimi tempi...-
Erano proprio bravi,
effettivamente. Se giri un po’ di locali giovani ne senti di
gruppuscoli che nascono e muoiono nel giro di qualche mese, e la
maggior parte sono proprio inascoltabili. Il cantante, vestito di
scuro, stava facendo sgolare il pubblico più appassionato, ammucchiato
sotto il piccolo palco. Alcune ragazzine gridavano agitando le braccia,
quasi isteriche. Arrivarono le bibite, e mi passarono il primo dei gin
fizz che avrebbe contribuito non poco, sommato al volume della musica e
al fumo che riempiva il locale, a regalarmi una bella emicrania prima
dello scoccare della mezzanotte. Bevvi un lungo sorso e il cuore mi
saltò un colpo: su un palchetto rialzato c’era Andrea, il ragazzo della
biblioteca, che mi fissava. Lo vidi per un attimo, poi una coppia di
ragazze dirette ai bagni si intromise tra me e lui. Quando passarono
capii di essermi sbagliata. La persona che stavo fissando non era
Andrea, anzi era proprio diverso. Un ragazzo un po’ stempiato, con
un pizzetto biondiccio e due basette aguzze, che stava parlando con due
ragazze. Sulla felpa aveva stampata la buffa faccia di Winnie Pooh.
Scossi
la testa. Che diavolo mi stava succedendo? Avevo voglia di una
sigaretta, e iniziai a frugare nella mia borsetta sempre troppo piena e
troppo caotica. Non fumo molto, diciamo anzi che non arrivo a cinque in
una giornata, ma ci sono momenti in cui accenderne una è un piacevole
bisogno. Dopo un buon pranzo, ad esempio. O quando si hanno
allucinazioni visive, come in quel momento.
Le dita affondate nelle
tasche della borsetta si strinsero attorno ad un qualcosa di molto
piccolo e cedevole al tatto. Lo tirai fuori, cercando di mettermi nella
miglior luce possibile nel locale in penombra. Il cigno di carta, che
avevo distrattamente recuperato sulle scale dopo l’incontro con Andrea,
stava immobile sul mio palmo. Un’ala era un po’ schiacciata dal mio
maldestro frugare nella borsetta. Osservai la maestrìa con la quale la
sottile carta era piegata, l’accuratezza e la delicatezza di quella
piccola creazione. In quell’istante Ricky smise di scherzare con
l’amico che aveva a fianco e si girò verso di me, sorridente.
- Che
è quella cosa? - chiese incuriosito. Io dovetti trattenermi per non far
sparire con uno scatto il cigno, neanche mi avesse sorpreso con un
disegno osceno tra le dita. Sorrisi imbarazzata.
- Credo si chiami
origami...- risposi -...me l’hanno dato oggi in biblioteca... una
studentessa del liceo. E’ bravissima a fare cose del genere...-
Ricky
fece di sì con la testa e riprese a chiacchierare con il tipo alla sua
destra. Io rimasi immobile ad ascoltare i musicisti che stavano
macinando una cover dei Queen, chiedendomi e richiedendomi perché
(perché cazzo)
avevo mentito. L’emicrania aumentava il suo toc-toc
dietro al mio occhio sinistro...
Il mal di testa mi scosse dai miei
ricordi dell’ultim’ora, riportandomi alla calura del mio ufficio. Ed
erano solo le nove di mattina. La borsetta di Sara pendeva
dall’attaccapanni, quindi era già arrivata, e notai subito il post-it
giallo attaccato alla mia lampada:
“SONO GIU’ IN STANZA CAFFE’ - UMORE MENO 2% - DISCUSSIONE CON IVAN -
RESOCONTO A PRANZO - S.”
Quelle
righe mi strapparono un sorriso divertito, nonostante il dolore alla
testa che pareva voler aumentare. Le discussioni di Sara
con il suo ragazzo erano all’ordine del giorno, e più di qualche volta
compativo il povero Ivan, più vittima che altro. Naturalmente il
nocciolo delle discussioni erano sempre cose di importanza capitale,
per Sara, come un momentaneo calo nell’interesse di lui a seguirla per
negozi per tutto il sabato pomeriggio o l’imperdonabile delitto di
voler vedere i gol a 90° Minuto, la domenica sera. Ognuno ha le sue,
pensai mentre mi appoggiavo con la fronte alla cupola della lampada
sulla scrivania, nel tentativo di trovare un po’ di sollievo col freddo
del metallo.
- Ehi, che brutta faccia hai...qualcosa non va ? -
Andrea fece capolino dal corridoio, facendomi trasalire. Stavo per
giustificarmi di quella strana posizione mettendolo al corrente della
mia emicrania... quando il dolore sparì.
Rimasi in ascolto, poi provai
a scuotere la testa. Niente. Come canta il vecchio Lucio, nessun
dolore. Lui entrò nella stanza:
- Tutto bene? - s’informò. Feci cenno di sì. Indicò la sedia davanti
alla scrivania - posso sedermi? -
Ancora
una volta incapace di parlare, sentendomi un’idiota, provai a fare un
mezzo sorriso e feci sì con la testa. Mi sentivo leggermente, ma solo
leggermente agitata, ed era una sensazione quasi piacevole. Lui
accavallò le gambe, mettendosi comodo, afferrando distrattamente un
fogliettino quadrato dal bloc-notes che aveva di fronte:
- Allora,
dimmi, come ti trovi qui? Beh, venire in ufficio anche al sabato non
aiuta a veder roseo ma ormai ci siamo. Bene, che ne dici di dare una
mano ad un novellino... che tipo di ambiente è? -
Io mi controllai
ancora una volta il dolore alla testa che era sparito e cercai le
parole più adatte per rispondere alla sua domanda:
- Beh...diciamo
che non si sta malaccio. Non è ovviamente l’ambiente più indicato per
apportarvi innovazioni, soprattutto se troppo spregiudicate, ma penso
che sia comprensibile. E’ una biblioteca, quindi il tempio della
cultura conservata immutata nei secoli dei secoli... - fece una
risatina divertita - ma credo sia solo questione di tempi giusti.
Probabilmente battendo con insistenza sui tasti che si vogliono
cambiare... sempre con molta delicatezza, intendo...-
Lui ammiccò:
- Ad esempio sulla divisione autonoma tra autori classici e
contemporanei? -
Rimasi
senza parole. Era il mio appunto che avevo elaborato nella piccola
tesina di presentazione quando partecipai al colloquio di assunzione.
Dovevo avere un’espressione davvero stupita: - m-ma come...?!? -
-
Ho letto la tua relazione - rispose con un sorriso caldo. Non so come
spiegare, ma quando sorrideva sembrava proprio che
ti scaldasse il
cuore. Sicura che il rossore delle mie gote stesse
aumentando, distolsi lo sguardo dai suoi occhi. - beh, in
effetti
è disponibile
pubblicamente, come tutto in una biblioteca. Ma mi è piaciuta. Sei
riuscita a tenerti bassa come tono ma comunque si avvertiva sotto una
determinazione... una grinta particolare. Secondo la fisiognomica
cinese, ogni essere umano è abbinabile per carattere e fisionomia ad un
animale. Tu potresti essere un grosso felino... - posò qualcosa sul
tavolo, davanti a me. Era una delle sculturine di carta piegata, e
ritraeva un gatto o qualcosa di simile - ...che so, una pantera, ad
esempio, o una tigre...-
La mia testa era in confusione. Ormai stavo
facendoci l’abitudine, in presenza di quello strano ragazzo. Aveva
letto la mia relazione. Voglio dire, non credo l’avessero letta neanche
il Presidente o la Maria Luisa che tennero assieme il mio colloquio.
Sì, come diceva Andrea quel documento era pubblico e disponibile per
chiunque, ma bisognava prendersi la briga di volerlo leggere. Nemmeno
Ricky, nonostante se lo fosse ripromesso, aveva ancora trovato il tempo
di darci un’occhiata e, conoscendolo, non credo che l’avrebbe trovato
facilmente digeribile.
- Leggi le relazioni di tutte le ragazze
nuove che conosci? - ribattei, poi trovai un po’ sciocca ed aggressiva
quella frase e feci un cenno con la mano, come a dire di non badarci -
scusa, a dire la verità mi lascia un po’ interdetta questa cosa, sai,
le relazioni si fanno ma poi ci si convince sempre che non interessino
a nessuno tranne a chi le scrive... cioè, tu che la scrivi la senti
ovviamente in maniera diversa da chi la legge, e comunque...- mi
sentivo come un’idiota che stesse straparlando a vanvera, ma in realtà
lui mi ascoltava con un’attenzione totale. Sembrava quasi che...
pendesse
dalle mie labbra, come se invece di un’accozzaglia di concetti
confusi stessi enunciando le leggi del mondo. E questo mi stupiva e mi
faceva sentire bene nello stesso tempo. Mi sentivo leggera e eccitata,
come su una nuvola. Era da tanto tempo che non mi sentivo così, si
stava dicendo una parte di me stessa, anzi forse non mi ero mai sentita
così. Avevo voglia di parlare con lui, di saperne più possibile, di
conoscerne ogni aspetto. Il suo strano sguardo agrodolce non mi perdeva
un attimo, e avrei dovuto essere imbarazzata ed infastidita. E invece
mi piaceva. La parte di me che riusciva ad osservarmi un po’ dal di
fuori si chiese cosa diavolo mi stesse succedendo, ma io la zittii
subito riprendendo a parlare:
- Quelle... cose, quelle fatte con la carta. Sono bellissime... dove
hai imparato? -
Lui riprese il piccolo animale cartaceo tra le dita, rimirandolo:
-
E’ una cosa che risale a tanto tempo fa. Da piccolo soffrivo spesso di
tonsillite e febbre, e durante le lunghe giornate passate a letto mio
zio mi regalò un minuscolo manuale di origami giapponese, l’arte di
piegare la carta. Da quella volta è un’abitudine che non mi ha mai
abbandonato. Non so, mi rilassa... scarica la tensione, insomma. E poi
ha un aspetto un po’ magico. -
- Cosa intendi dire con magico ? -
Lui sorrise e il suo sorriso era un piccolo sole:
- Beh... incuriosisce le ragazze carine, ad esempio. -
Subito
le guance mi avvamparono di calore. Ero in balìa di quello sguardo e di
quel sorriso, come una verginella del secolo scorso, io che ho tenuto a
bada fior di sbruffoni e di cascamorti. Il telefono trillò e allungai
una mano per rispondere: era Sara che mi salutava e mi diceva che si
sarebbe fermata un po’ giù al magazzino per farsi dare una serie di
volumi da catalogare. Bene,
pensai dopo aver riappeso, posso
stare
ancora qui a parlare con te...
E difatti parlammo. Parlammo di mille
cose, dalle scuole che avevamo frequentato (anche lui era stato alle
medie in via Riale ed anche a lui risultava insopportabile la
professoressa di disegno!) ai libri che ci piaceva leggere, dalla
musica che ascoltavamo (nonostante tutto è sempre un piacere poter
parlare con qualcuno che apprezza i tuoi cantanti preferiti) alle idee
volte a cercare di migliorare la struttura bibliotecaria. Parlammo,
parlammo e parlammo, fino a che l’occhio non mi cadde sull’orologio
appeso alla parete. Strabuzzai gli occhi, incredula: erano le undici e
venti! L’ultima volta che avevo guardato l’ora erano da poco passate le
nove. E mi sembrava fosse trascorsa al massimo una mezz’oretta... Lui
seguì il mio sguardo verso la parete:
- Come passa il tempo quando
si sta bene - commentò, senza la minima ombra di ironia - adesso però
forse è meglio far finta di lavorare almeno un po’, se no mi sentirei
un rubastipendio - si alzò dalla sedia, dirigendosi verso la porta. Poi
si girò, fissandomi - dove pranzi, oggi? - mi chiese, con un tono
quasi di scusa nella voce.
A malincuore mi sentii rispondere:
- Ho promesso di uscire con la mia amica Sara - (perché era così
difficile da dire?) - mi spiace... -
Il sorriso sbocciò ancora una volta:
- Okay, mi prenoto per la prossima. Ciao. -
Si girò e se ne andò, e io mi sentii improvvisamente stanca e svuotata.
E delusa. E confusa.
Accesi
il computer e mentre aspettavo che il sistema si avviasse, e anche per
il quarto d’ora successivo, restai immobile a ripensare alle sue
parole. Pazzesco. Se fosse stato possibile costruirsi artificialmente
l’uomo perfetto non avrei potuto chiedere di più. E poi quella
sensazione di benessere, fisico e mentale... Aggrottai la fronte mentre
con il pensiero andavo a cercare Ricky. Io amo Ricky. Ovvio. Ci
mancherebbe altro. Perché diavolo devo ribadirlo a me stessa? E’ fuori
discussione. E tutto va a gonfie vele tra di noi
(quasi)
ok, a parte quello stupido problema.
Che
forse è un Problema. Per spiegarvi, la sicurezza del mio Ricky si
riflette ovviamente in ogni campo. Per cui lui è fermamente convinto e
deciso che si potrebbe cominciare a parlare di matrimonio. Lo vuole e
forse non vede l’ora. Anzi, a scanso di equivoci ha già acquistato la
casa (e che casa, un palazzetto del ‘700 vicino alla piazza principale)
e sta già predisponendo i restauri. Qual’è il Problema, allora? Temo
di essere io. Credo di amarlo veramente ma questa faccenda del
matrimonio mi spaventa un po’. Non so perché, ci ho pensato milioni di
volte, e milioni di volte ne ho discusso con Ricky, con mia madre e con
Sara (che naturalmente soffia come un ciclone affinché io accetti) e
non riesco ad inquadrare bene cosa non mi convince. Forse è solo una
paura irrazionale. Il fatto è che, a differenza di Ricky, io non sono
per niente fermamente convinta né decisa e quindi trovo giusto
pensarci. Sì, lo so, è una situazione bizzarra, di solito sono gli
uomini che tergiversano, fanno gli evasivi o scappano a gambe levate.
Stavolta invece è toccato a me. Succede, che posso farci? Credo di aver
bisogno solo di ancora un po’ di riflessione, di capire cosa voglio
realmente (quali sono i
miei desideri più intimi e reali, per dirla con
mia madre) e magari buttare un po’ di quattrini per un ciclo di sedute
analitiche. E adesso ci mancava mister Perfezione... Ancora una volta,
l’ennesima, la solita domanda mi si stagliava nel cervello, come una
gigantesca insegna al neon: “cosa
mi sta succedendo?”. Avevo sempre
guardato con superiore compatimento quelle storie da giornaletti rosa
in cui si parla di colpi di fulmine e di principi azzurri. E adesso
smarrivo intere ore persa di fronte alla bella faccia di un emerito
sconosciuto...
Il telefono suonò. Lanciai un’occhiata all’orologio,
che batteva ormai mezzogiorno, e mi sentii molto colpevole di non aver
combinato NULLA in un’intera mattina di lavoro. E molto preoccupata nel
dovermi eventualmente giustificare con quel cerbero della Maria Luisa.
Al terzo squillo presi la comunicazione:
- Biblioteca Civica, ufficio catalogazione, pronto? -
La voce nota della madre di Sara mi arrivò alle orecchie:
- Pronto... ciao, Giulia. Sono la signora Todescan, trovo per caso mia
figlia? -
-
No, signora, è fuori ufficio in questo momento... giù ai magazzini, a
quanto credo. Ma penso di poterla rintracciare, se è urgente... -
Sentii la mia interlocutrice borbottare qualcosa a qualcuno, poi
riprese:
-
Sì, effettivamente temo di aver bisogno di lei... vedi, sto chiamando
dalla nostra vicina, perché stamane, uff, la solita sbadata... sono
uscita di casa lasciando le chiavi sul mobile in entrata, ed ora
bisognerebbe che Sara facesse un salto qui con il suo paio di scorta.
Lo so che le scoccerà prendere la macchina e venire fino a casa nostra,
ma non sono riuscita a rintracciare né mio marito né mia figlia
Sandra... puoi riferirle di questo problema? -
Scossi la testa
sogghignando in silenzio della proverbiale sbadataggine della mamma di
Sara e soprattutto degli sbuffi di esasperazione che la mia impulsiva
amica non mi avrebbe risparmiato, e mi congedai da lei. Feci il numero
del magazzino e, dopo essermi sorbita un paio di spiritosaggini degli
zotici addetti (sì, Sara è qui, e si sta divertendo con noi
maschioni... ah ah ah!!!) me la passarono. Come previsto la sua
reazione non fu delle più entusiaste e dopo poco la vidi irrompere come
una furia nell’ufficio. Mi lanciò uno sguardo di comica disperazione,
afferrò la borsetta e si avviò alla porta:
- La nostra pausa pranzo
salta, naturalmente - disse mentre frugava nella borsetta alla ricerca
delle chiavi dell’auto - rimandiamo a lunedì la cronistoria dell’ultimo
litigio con Ivan. Buon week-end, e divertiti almeno tu... -
La
salutai con un cenno della mano e rimasi sola nella stanza. Poi un
sottile senso di angoscia mi strinse la gola: dovevo muovermi, forse
Andrea era già uscito dall’edificio, e io avevo un’ora di pausa a
disposizione...
CAP. 6
Uscii dall’ufficio come
una furia e mi lanciai giù dalle scale a rotta di collo. E il bello era
che non avevo la minima idea in quale luogo della biblioteca Andrea
fosse impiegato. Sfrecciai di fronte alla porta aperta
dell’amministrazione e registrai con la coda dell’occhio la Maria Luisa
alla scrivania che tentò un inutile: “Signorina Giulia, mi permetta due
par...” Alla fine sbucai nella via tra le occhiate divertite ed
incuriosite degli studenti che sciamavano fuori dall’austero portone
della biblioteca. Di Andrea nessuna traccia. Per una decina di minuti
feci una spola agitata tra la strada e l’androne dell’edificio,
salutando distrattamente i colleghi che uscivano chiacchierando per il
pranzo, senza riuscire a trovare un pretesto per chiedere notizie del
ragazzo. Attesi nervosamente fino che non scorsi la figura secca e
curva del signor Pesavento che veniva verso di me con il pesante mazzo
di chiavi che serviva per chiudere il portone. Mi sentivo delusa e
triste. Me l’ero fatto scappare sotto il naso. Mi avviai lentamente
alla mia macchina, rovistando nel solito caos della borsetta alla
ricerca delle chiavi. Le avevo appena infilate nella serratura quando
una figura si riflesse nel finestrino:
- Scommetto che ti piace la
pizza con il salamino...- disse una voce dietro di me. Il solito rullo
di tamburi del mio cuore. Mi girai, sapendo già cosa avrebbe incontrato
il mio sguardo: un sorriso incandescente, due occhi grandi e tristi. In
più la cosa che mi stupiva era come fosse riuscito, tra le decine e
decine di probabilità, a scegliere quel tipo di pizza. Che per inciso è
una delle mie preferite, e non proprio il tipo di pizza che di solito
ordina una leggiadra fanciulla. Le mie amiche si dirigono solitamente o
su quella alle verdure (convinte che sia in qualche modo più dietetica)
o su una più semplice margherita (perché se no non riescono a mangiarla
tutta).
- Sì, e il salamino lo voglio anche bello piccante! -
risposi divertita, rendendomi conto appena del possibile doppio senso
di quella frase, pronunciata a botta calda nei confronti di uno
sconosciuto. Raggiungemmo una pizzeria vicino a Piazza dei Signori e ci
accomodammo ad un tavolino all’aperto, sotto il portico. Il locale, sia
all’esterno che dentro, era stranamente vuoto, e sì che fra persone che
lavorano in centro e turisti di solito era così affollato da renderlo
caotico. Andrea notò il mio giro di sguardo e sorrise:
- Ho riservato il locale per te... scherzo, ovviamente... -
Un
annoiato cameriere dai folti riccioli neri, dalla comica somiglianza
col Maradona degli ultimi tempi (anzi, con un po’ più di pancetta) si
avvicinò per prendere le ordinazioni, e non mancò di far scivolare gli
occhi nella scollatura della mia camicetta. Lo fulminai con lo sguardo
ma non ottenni nessuna reazione degna di nota. Se ne andò strascicando
i piedi. Andrea afferrò una delle salviettine dal cestino del pane e
iniziò a lavorarla con le dita, muovendole decise e veloci.
- Hai il
ragazzo? - mi chiese senza nessun preavviso. Le sue mani piegavano e
ripiegavano la salvietta ma i suoi occhi era fissi nei miei. Io mi
sentii avvampare:
- ...S-sì, si chiama Ricky... - volevo aggiungere
qualcos’altro, forse solo a mio beneficio, forse per renderne più reale
l’immagine, ma smisi di parlare. Lui fece un sospiro silenzioso. Un
paio di colombi volarono via dal sottoportico con un frullìo d’ali.
-
Immagino sia una cosa seria... - continuò. Io bevvi un sorso di birra
che il cameriere dagli occhi lunghi ci aveva appena servito e cercai di
capire se quei discorsi così diretti mi stavano infastidendo o
imbarazzando, ma la sensazione era invece di piacevole serenità. La sua
voce, o il suo sguardo, avevano un potere quasi ipnotico in me. A parte
quando scatenavano tachicardie e sudori incontrollati. Cercai le parole
per una risposta più sincera (ma anche più neutra) possibile.
- Beh,
diciamo che può essere definita seria... Non abbiamo ancora parlato di
matrimonio (parlato
forse no, discusso fino alla nausea, però... cara
la mia confusetta!) ma credo che lui... e anch’io,
ovviamente (sicura?)
stiamo facendo sul serio... -
Il cameriere arrivò portando due pizze
fumanti. Non mi rendevo conto dello scorrere del tempo, quando ero in
compagnia di Andrea. Mi sembrava che ci fossimo appena seduti ed invece
ecco qua le nostre ordinazioni bell'e pronte. Lui mi porse il piccolo
tulipano
completo di un paio di lunghe foglie che aveva creato con la salvietta:
-
Mmh, giusto - disse - qualunque uomo con un minimo di intelletto che
avesse la fortuna di poter stare con te dovrebbe fare sul serio. No,
non dire che sto esagerando con questo discorso, visto che ci
conosciamo solo da alcuni giorni. Vedi, io credo che ognuno nella vita
incontri un’infinità di persone. Alcune di queste sono simpatiche, e
allora diventano amici o compagni, altre sono assolutamente
insopportabili, altre ancora del tutto indifferenti, e passano via
senza lasciare traccia. Ma succede ogni tanto che una persona
incontrata per caso, da come parla, da come si muove, anche solo da
come profuma, abbia tutte le carte in regola per diventare una persona
speciale -
io rimasi bloccata sulla sedia, senza riuscire a profferire
parola - quella che penso che tu sia -
Afferrò con decisione la forchetta, agitandola verso di me, dedicandomi
uno dei suoi soliti sorrisi:
-
Su, su, non impressionarti troppo - ridacchiò come un bambino divertito
- non mi dire che nessuno ti hai mai fatto un complimento... e poi
credo che adesso tu abbia appetito, no ? -
Mi scossi dal mio
stupore. Aveva ragione. Il profumo della pizza che saliva verso di me
mi stava deliziando le narici. Appetito?!? Avevo una fame incredibile!
Mi sentivo completamente viva in quella situazione, percepivo la
frescura
del porticato, vedevo il sole giocare con le fronde di un albero,
sentivo in lontananza una radiolina trasmettere una vecchia canzone di
Elvis Presley. Era un momento perfetto, quando i momenti perfetti li
trovi solo nei film, mentre nella vita c’è sempre qualcosa che non va.
O l’afa ti fa sudare e pensi di puzzare lontano un miglio o la birra ti
torna su rischiando di farti (scusate) ruttare in faccia al tuo
compagno di pranzo o chissà che altro. Invece in quel caldo sabato di
inizio estate mi sentivo meravigliosamente bene. E c’era di più, anche
se m’imbarazza un po’ tornarci su col pensiero. Mi sentivo eccitata.
Sessualmente
eccitata. Avvertivo nitidamente i capezzoli duri come
chiodi premermi prepotenti contro la stoffa leggera della camicia (mio
Dio, sperando che non se accorga il cameriere voyeur...) e
giù tra le
cosce una deliziosa sensazione di calore e di umido. Mentre divoravo la
pizza sotto lo sguardo divertito di Andrea dovevo farmi forza per non
leccarmi le labbra come una belva durante il suo pasto. In fondo mi
aveva paragonato ad un felino, no?
Lui invece mangiava lentamente,
come se farlo potesse in qualche modo rubargli il tempo con me, e mi
parlava. Aveva lasciato cadere quei discorsi troppo personali, e mi
stava raccontando alcuni divertenti aneddoti di quando era alle medie.
Lo avrei ascoltato per tutto il giorno. Diego Armando il cameriere
(avevo sussurrato ad Andrea la mia idea sulla somiglianza di questi, e
avevamo riso come scolaretti) arrivò come un falco per sparecchiare. Ai
tavoli non c’era ancora nessuno. Radunò il mio piatto e le posate e ne
approfittò per tuffare ancora una volta il suo sguardo nell’attaccatura
del mio seno. E stavolta così ostentatamente che se ne accorse anche
Andrea. Che ebbe uno strano, rapidissimo moto di stizza. La sua faccia
si rabbuiò e, per un istante breve come un battito di ciglia, sembrò
vibrare,
come percorsa da un
tremito interno. Poi il suo sguardo ritornò quello
conosciuto.
Guardai l’ora e mi accorsi con disappunto che
mancavano una decina di minuti alle due, e cioè al momento in cui
avremmo dovuto rientrare al lavoro. Provavo un vero e proprio senso di
scoramento all’idea di dover interrompere quell’incontro, ma per tutta
la mattina non avevo combinato un bel niente e sarebbe stato meglio se
per le due ore restanti avessi archiviato il maggior numero di libri
possib... Mi bloccai, colta da un dubbio: io facevo parte dell’ufficio
archiviazione, ma Andrea no (e
dove lavori allori?), e quindi non
sarebbe dovuto rientrare in biblioteca.
- Scusa, Andrea, ma tu in quale ufficio sei impiegato?- chiesi allora.
Lui rispose:
- Beh, vedi, io sto... -
Poi
un urlo agghiacciante lo interruppe, lacerando la quiete del
dopopranzo. Ci girammo verso l’interno della pizzeria, mentre dalla
cucina il cameriere che ci aveva servito schizzava fuori barcollando,
le mani premute sull’occhio destro. Dietro a lui si catapultarono i
suoi colleghi della cucina, agitati e spaventati, mentre il malcapitato
singhiozzava disperatamente cercando di tamponarsi il viso con un
canovaccio bagnato. Il padrone del locale fece un passo verso di noi,
allargando le braccia come per giustificarsi di quella baraonda:
-
Scusateci, signò - c’informò con un forte accento meridionale - ma
l’olio della frittura è schizzato in faccia al guaglione. Non so
proprio come sia successo...-
CAP. 7
Ritornammo
alla biblioteca, un po’ scossi dall’accaduto. Aveva insistito a pagare
le pizze (nonostante il mio vibrato tentativo di oppormi), dichiarando
divertito che così era in credito di almeno un’altra uscita a pranzo.
Sul pianerottolo del primo piano ci fermammo uno di fronte all’altro.
L’edificio era silenzioso e deserto.
- Bene, è stato un vero
piacere... - disse Andrea con una punta di malinconia nella voce. I
suoi occhi e la sua bocca erano a pochi centimetri dal mio viso. Le mie
narici erano solleticate deliziosamente dal profumo del suo respiro.
Ero sicura che mi avrebbe baciato, ed ero ancora più sicura (e stupita)
che, se fosse successo, mi sarei sciolta sulle sue labbra. Invece fece
un passo indietro, sorridendo:
- adesso vai, dolce Giulia, e passa un
buon week-end -
Sollevò una mano come per farmi una carezza ma,
prima di sfiorarmi, il movimento del braccio deviò e si ravviò i
capelli. Si allontanò nel corridoio, fece un giro su sè stesso per
guardarmi un’ultima volta e sparì dietro l’angolo.
Ripresi a salire
lentamente le scale, mentre nelle mente mi ronzavano mille parole:
“tutte le carte in
regola per diventare una persona speciale”, “dolce
Giulia”, “chiunque
avesse la fortuna di stare con te”. All’ultima rampa
ebbi un improvviso capogiro, che mi fece aggrappare al corrimano, e mi
sentii stanchissima, quasi esausta. Allarmata, feci gli ultimi gradini
sbuffando e mi trascinai (è proprio il verbo adatto) verso la mia
poltrona. Vi piombai sopra un attimo prima di esser sicura di
stramazzare al suolo. Mi sentivo distrutta. La vista mi si appannava a
tratti, e il sudore impregnava il mio corpo. Stavo per perdere i sensi.
Allungai spaventata una mano verso il telefono per chiamare qualcuno e
mi accorsi con orrore che le mie dita non avevano la forza di sostenere
la cornetta, che cadde con un tonfo sulla scrivania. Pensai piena di
angoscia a quegli articoli di giornale in cui si parlava di alcuni tipi
di tumori al cervello che tolgono improvvisamente la capacità di
afferrare anche gli oggetti più leggeri. Rimasi immobile, ad occhi
chiusi, aspettando di vedere se la situazione migliorava. Dopo una
decina di minuti mi sembrò di sentirmi un po’ più in forze. Proprio in
quel momento Sara irruppe come una furia nell’ufficio:
- Si può
sapere che razza di scherzo vi siete inventati?!? - sbottò inviperita,
poi
si bloccò - ehi, Giulia, cazzo... Stai sanguinando dal naso! -
La
guardai per un attimo prima di realizzare bene cosa stava dicendo, poi
mi toccai le narici con le dita. Erano rosse del mio sangue.
CAP. 8
- Stai scherzando?!? -
Fu il primo commento di Sara alla fine del mio resoconto. Le avevo
raccontato quasi tutto, dall’incontro iniziale con relativo problema di
stampa alle sensazioni fisiche, il batticuore, il rossore, il senso di
eccitazione (soprattutto
quello), dal suo sguardo al suo sorriso, dal
trascorrere distorto del tempo ai ricordi in comune, all’indovinare i
miei stati d’animo e le mie preferenze. E le cose che le avevo nascosto
(il sogno, la segreteria telefonica, i piccoli origami) non avrebbero
comunque aiutato a considerarmi meno scriteriata. Per cui ora toccava a
Sara restarsene lì con la bocca spalancata dall’incredulità di quel
racconto. Dopo che lei aveva allibito me mettendomi al corrente che a
casa di sua madre non c’era nessuno - proprio nessuno - che si fosse
chiuso fuori dalla porta. Quando era arrivata là trafelata aveva
trovato i suoi e le sorelle minori sedute attorno al tavolo a gustarsi
una mega insalata mista. L’avevano guardata come un marziano e avevano
giurato e spergiurato che mai e poi mai avevano chiamato
in biblioteca. Per cui Sara se n’era ritornata al lavoro convinta di
uno stupido scherzo delle sue colleghe e, a giudicare dallo sguardo
ben poco convinto, questa convinzione non era ancora passata.
Il mio
malessere invece era un ricordo ormai sbiadito, a parte un leggero
tremito alle gambe. Mi sentivo come quando si esce da una forte
influenza. Mi strinsi nelle spalle:
- E perché poi? - ribattei poco
convinta della mia difesa - non faccio nulla di male, è solo un ragazzo
particolarmente gentile che...
La mia sanguigna amica mi fulminò con lo sguardo:
-
Particolarmente gentile un paio di palle!!! - esclamò (Sara è una che
dice pane al pane e vino al vino) puntandomi un dito contro - su,
Giulia, non prendiamoci in giro! Questa è la classica situazione in
cui un bellimbusto con la parlantina sciolta vuole imbarcare una...
una... - si cercò le parole corrucciando la fronte - una sprovveduta
che sta andando fuori di cranio. E sappiamo tutte e due dove portano
queste cose, ad una camera da letto da qualche parte! -
Finsi di indignarmi ma lei non mi diede tregua:
-
Mio Dio, ne abbiamo parlato fino alla nausea di queste situazioni... ed
ogni volta ci ripetevamo ridendo che a noi non sarebbero successe. Che
non avremmo permesso
che ci succedessero! E adesso sono qui a sentire
che la mia migliore amica... con un ragazzo che la adora e che farebbe
di
tutto per lei... che si bagna in pizzeria - non fece caso alla
mia bocca
spalancata dalla crudezza dei suoi termini - sì, si scioglie per il
primo sconosciuto dagli occhi magnetici che incontra ! -
Sara da
sempre è stata più intransigente di una monaca di clausura in fatto di
fedeltà e di rispetto. E sinceramente anch’io. E probabilmente lo ero
ancora. In fin dei conti non c’era stato nessun episodio che spingesse
in direzioni sbagliate. In fondo le sensazioni fisiche erano le mie, e
lui poteva essere realmente solo un collega gentile. O forse un po’
galante, ma senza doppi fini. Non si era affatto comportato, nelle
parole e nei modi, come la maggior parte dei ragazzi quando
vogliono andare al sodo. Ecco, questo poteva essere un buon
argomento per calmare l’irruenza della mia amica. Alzai un dito come
per chiedere la parola:
- Sara, la stai facendo più tragica di
quello che è. In fondo non è mica successo nulla, è una persona
gradevole, con cui è un piacere conversare... tutto qui -
Lei mi guardò con il tipico sguardo di compatimento che si indossa
quando
il proprio interlocutore “non sa quello che dice”:
-
Ok, ok, è come dici tu. Questo misterioso Andrea è un brillante
conversatore e un correttissimo collega. Però non venirmi a dire che io
non ti ho avvisata quando salteranno fuori i problemi... - s’infervorò
di nuovo agitandosi sulla sedia - ...lo sai benissimo che se tu dovessi
spingerti troppo avanti non ci sarebbe futuro per questa faccenda. Ma
Cristo, cosa pensate di fare, farlo fino a diventare blu come i puffi e
poi? Sposarvi? Avere dieci figli? Da uno che ti ha messo a posto un
problema del computer?!? -
Il suo cipiglio era serio e convinto, ma
io non potei fare a meno di scoppiare in una risata al suo comico
riferimento ai puffi. Sara si alzò, scuotendo la testa:
- Se ti sono
sempre amica accetta un consiglio... - concluse sistemandosi la
borsetta a tracolla - ...pensa bene a quello che fai. Anche se adesso
sono tutti sorrisi e luci colorate, alla fine arrivano il dolore e le
lacrime. Ci vediamo lunedì, e salutami Ricky... -
E mi sembrò che sottolineasse il suo nome con il tono di voce.
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Capitolo 3 *** Weekend-Poesie&Febbri-Sotterranei ***
CAP. 9
Il
week-end fu un vero e proprio inferno. Che si scatenò non appena
subito le lancette dell’orologio segnarono le sedici.
Afferrare la
borsetta e scendere a due a due le scale fu un attimo. Avevo già chiuso
in un cassetto della mia coscienza la predica (sacrosanta) di Sara.
Chiuso a tripla mandata.
Sapete quel modo di dire... “vivere alla
giornata”? Beh, nel mio caso si poteva tranquillamente affermare che
vivevo al minuto.
L’unico mio obiettivo era cercare di incontrare
Andrea sulle scale per salutarlo ancora una volta. E se non lo trovavo
sulle scale andava bene anche nell’atrio dell’edificio. E se non era
nell’atrio vada per la via. O anche nel piccolo parcheggio delle auto.
Purtroppo del ragazzo nessuna traccia. Guardai l’ora: erano le quattro
e sette minuti e, come una tossicodipendente in astinenza, cercai di
calcolare quante ore mi separavano dal lunedì mattina, quando saremmo
tornati al lavoro. Avevo almeno un paio di ore libere prima del mio
appuntamento con Ricky che se n’era andato a fare un paio di vasche in
piscina. Solitamente avrei chiesto a Sara di essermi complice in un
tour (dispendioso) nei negozi del centro. E se Sara avesse avuto un
impegno mi sarei fatta forza e avrei cominciato a dissipare il magro
stipendio da sola. Solitamente.
Quel giorno al contrario le vetrine non
le vidi proprio, pur percorrendo il corso cittadino in lungo e in
largo per almeno una quarantina di volte. Il mio sguardo frugava ogni
volto, ogni persona nella speranza non troppo remota di imbattermi, non
proprio casualmente, in Andrea (ehi,
ciao, anche tu qui, ma che
combinazione!). Purtroppo chi vive sperando... beh,
sappiamo come va a
finire. Nonostante la mia determinazione (la tua follia, mi
correggeva
una vocina nella mente, una vocina che somigliava colpevolmente a
quella di Sara) mi ripetesse che di lì a un attimo, dietro il prossimo
angolo, dentro il negozio più in là l’avrei incontrato, non successe.
Me ne tornai desolatamente alla mia macchina e poi verso casa. Mentre
guidavo nel traffico caotico ed esasperatamente lento del tardo
pomeriggio, con l’autoradio che sembrava trasmettere solo languide
canzoni di amori perduti, non riuscivo a pensare altro che a rivederlo.
E questo pensiero accumulava dentro di me nubi scure gonfie di
malumore. Poi mi balenò nella mente la possibilità che, anche se non
l’avevo trovato, potevo sempre scoprire nella segreteria un suo
messaggio (anche muto va bene...), se non addirittura un biglietto
nella cassetta della posta (perché no, e magari un mazzo di diciotto
rose rosse a gambo lungo sul letto...). Questa nuova scintillante
speranza mi costrinse ad accelerare, tra i clacson di protesta delle
auto incolonnate lungo il viale.
Naturalmente nessun messaggio, né
scritto né registrato né scolpito nel cielo, mi aspettava a casa.
Quando il campanello suonò due volte, parte di me sapeva che era
arrivato Ricky. Un’altra, più piccola ma con denti affilati e voraci,
soffiava sulle braci della speranza. Aprii la porta delle scale e dopo
un paio di secondi la figura abbronzata e sorridente (non quel sorriso,
però) fece il suo ingresso in casa. Aveva una variopinta t-shirt su un
paio di bermuda verde acido, e posò la borsa da piscina sul pavimento.
-
Ciao, piccola, tutto bene? - mi chiese. Io feci di sì con la testa, ma
non era quello che avrei voluto dire. Niente andava bene.
Proprio no, se
avevo buttato via il pomeriggio a perlustrare le strade della città in
cerca di uno sconosciuto. Lui aprì il frigo e si versò un bicchiere di
latte.
- Sono appena arrivata anch’io! - dissi cercando una nota di
disinvoltura che non mi usciva - Anzi scusa, devo proprio scappare in
bagno... -
Mi chiusi la porta alle spalle. Ricky nel salotto accese
la radio, cercando una stazione di musica disco. Perché mi dava così
fastidio quel genere, tutto ad un tratto? Appoggiai le mani sul
lavandino, osservandomi nello specchio, che rimandava l’immagine di una
donna chiaramente sfinita. Osservai la pelle lucida, i segni scuri
sotto gli occhi. Persino la bocca aveva una piega amara (sembri il
ritratto della Maria Luisa, mi dissi sconfortata) e il
risultato
generale sembrava essere un po’ più grave di una stanchezza da giornata
estiva. Cosa ti sta succedendo?, chiesi alla mia immagine riflessa.
Bella domanda. Me la sarò fatta almeno cinquanta volte, negli ultimi
giorni. Senza trovare nessuna risposta convincente. Meglio, nessuna
risposta e basta.
Hai una persona di là
che è venuta qui desiderosa di
passare con te il week-end, com’è logico e come è sempre stato, almeno
negli ultimi due anni. E che probabilmente ha anche voglia di fermarsi
qui a dormire (la mia faccia riflessa nello specchio fece
una
leggerissima smorfia). Per
cui, cosa intendi fare? Mi bagnai il viso,
cercando di convincere me stessa che tutto quello che era successo
stesse sbiadendo lentamente, e che ora avrei dovuto comportarmi come al
solito. E di smettere di pensare ad
(Andrea)
Uscii dalla stanza da bagno.
La
serata scivolò via anonimamente. Avevo sperato che Ricky avesse
organizzato qualcosa con gli amici, ma lui era stanco della giornata
passata a nuotare e voleva starsene tranquillo. Io invece avrei
preferito andare da qualche parte (da qualunque parte)
perché qualcosa
dentro di me faceva notare che uscire prevedeva perlomeno una
possibilità in più
di incontrare Andrea rispetto al restarsene a casa.
Mangiammo qualcosa e si finì sul divano a guardare un film alla tele. I
miei occhi vedevano lo schermo ma nessuna scena degna di nota restò
registrata nella mia mente.
- Non ti piace il film? - mi chiese all’improvviso Ricky - vuoi che
cambi canale? -
Io mi abbandonai sul divano, chiudendo gli occhi:
-
No, non importa, grazie. E’ che non mi sento affatto bene (ed era la
verità), anzi mi sento proprio sfinita. Forse una bella dormita mi
rimetterà in sesto...-
Lui mi accarezzò dolcemente la testa:
- Ok. Vuoi che resti qui se per caso non dovessi sentirti meglio? -
- Mmh, no, Ricky, grazie. Ma credo che sia solo bisogno di dormire. Vai
pure, ci vediamo domani...-
Lui
si alzò, chinandosi per darmi un leggero bacio sulle labbra, prese la
borsa con le cose da nuoto e uscì dall’appartamento. Dopo un attimo mi
alzai a fatica, feci un giro per spegnere le luci e mi buttai sul
letto. Senza andare in bagno. Senza neanche svestirmi. Un sonno buio
come la notte mi ghermì immediatamente.
CAP. 10
Bene
o male, non so come, ma il lunedì arrivò. Arrivò con un alba già
tiepida, che mi trovò ad occhi spalancati ad osservare la sveglia sul
comodino. Le sei e dieci. Più di un’ora prima del momento in cui il suo
stridulo suono si sarebbe sparso per la stanza strappandomi ai miei
sogni. Credo fosse successo solo un altro paio di volte da quando ero
andata a vivere da sola. E adesso invece due volte di seguito, dato che
anche il giorno prima, la domenica, mi ero ritrovata ad un’ora
antelucana a pestolare inquieta per la casa silenziosa. Pensando e
ripensando ad Andrea. Senza riuscire a combinare niente.
Accendevo e spegnevo la televisione decine di volte, mi sedevo un
secondo, aprivo un libro e un attimo dopo ero già in piedi a fare la
spola tra la cucina e la finestra e la porta e il telefono (che dormiva
muto). Avrei voluto uscire a passeggiare per il centro, mischiandomi
con le famiglie che uscivano dalla messa, per scoprire se per caso
Andrea fosse uno che la domenica va a farsi la classica “vasca” in
centro. Ma subito dopo mi ritrovavo a considerare che non appena fossi
uscita il telefono avrebbe cominciato a trillare, a vuoto a vuoto e a
vuoto. Già il telefono... Non so cosa avrei pagato per potergli
telefonare, ma mi mancavano alcuni elementi fondamentali, tra cui il
numero o al limite il suo cognome. Cosa potevo dire
all’operatore del servizio 12? Mi scusi, mi potrebbe dare il recapito
telefonico di un certo Andrea, dal ciuffo folto e gli occhi tristi?
Per cui rimasi paralizzata come un animale di fronte ai fari
abbaglianti di un auto, senza neanche trovare il modo di riflettere
serenamente su tutto ciò, e di decidere una linea di comportamento. A
fatica arrivarono le due e la consueta scampanellata di
Ricky (sapevo che era lui, ma andai comunque a rispondere al citofono
con il fiato sospeso). Andammo a trovare degli amici, per un lungo e
agonizzante pomeriggio in cui le ragazze parlottarono di vacanze e di
costumi da bagno e i ragazzi facevano la spola tra le sdraio
tatticamente posizionate sotto gli alberi e il frigo. Ma, come ho
detto, il lunedì si presentò puntuale come sempre e mi trovò nell’atrio
della biblioteca, con tutti i sensi all’erta come un radar, a scrutare
e scartare volti, figure, persone. Come al solito lui mi sorprese alle
spalle, cogliendomi impreparata e tremante (speriamo che non si accorga
troppo della mia agitazione, pensavo annaspando nel
voltarmi,
speriamo...)
sorridendomi con quello sguardo agrodolce che ricordavo ed
anelavo.
- C-ciao... come va? - fu il mio originale saluto.
-
Bene. Ti ho pensato - ribatté lui senza mezzi termini, facendo
sobbalzare il mio cuore. Un paio di persone mi passarono accanto
salutandomi, ma né in quel momento né in seguito avrei saputo ricordare
chi fossero.
- S-sì... er... anch’io... - risposi, e mi sentivo
perfetta nell’interpretazione femminile di Forrest Gump. Lui mise
ancora in moto il suo sorriso, e sembrava veramente felice:
- Mmh. E
non va bene così? - rispose (no,
non va affatto bene, disse una voce
nella mia testa, ma le badai appena). Stavo frugando nella mente per
ribattere qualcosa di diverso da una balbettante idiozia quando la
figura incombente della Maria Luisa apparve sulla sommità delle scale.
Dall’espressione della faccia dovevamo aver commesso lo stravolgente
delitto di fermarci a chiacchierare due minuti oltre l’orario d’inizio.
Lui mi lanciò una buffa occhiata di complicità e si congedò:
- Siamo sotto tiro, a quanto pare. Meglio sparire...ah, a proposito,
avanzo una pizza, mi sembra... -
Poi
se ne andò, senza lasciarmi il tempo di replicare. Lentamente, mi
avviai verso l’ultimo piano. Tutto a un tratto l’inspiegabile
spossatezza che mi aveva attanagliato (e spaventato) prima del week-end
tornò a farsi viva. Mi sentivo le gambe di piombo. Per tutta la mattina
feci molta fatica a concentrarmi sul lavoro. Andai a pranzo con lui nei
tre giorni successivi. Il lunedì dribblai quasi abilmente la richiesta
di Sara di uscire assieme, ventilando una visita di controllo dal
dentista (e per fortuna
che mi hanno chiamato loro per confermare
l’appuntamento, perché se era per me gli tiravo buca...),
martedì
invece fu il turno di un non meglio identificato regalo da comprare per
una non meglio identificata ricorrenza di mia cugina. Mercoledì
mattina, verso le undici, stavo cercando di trovare un po’ di
refrigerio dall’afa sfruttando la corrente d’aria che si era creata tra
il corridoio e la finestra, mentre controllavo la lista degli autori
stranieri del novecento appena battuta al computer. Improvvisamente,
subito dopo
Hemingway Ernest e prima di Hess Hermann, notai un blocchetto di testo
che non avevo certo inserito io. Era scritto molto piccolo, in un corpo
quasi illeggibile ad occhio nudo. Lo selezionai per ingrandirlo un po',
poi lessi incuriosita:
“...il tuo più tenue
sguardo, facilmente, mi aprirà
benché abbia chiuso me
stesso come dita.
Sempre mi apri, petalo
per petalo, come la primavera fa,
toccando accortamente,
misteriosamente, la sua prima rosa.
E io non so quello che
c’è in te che chiude e apre,
solo qualcosa in me
comprendo,
che è più profonda la
voce dei tuoi occhi
di tutte le rose.
Nessuno, nemmeno la
pioggia, ha così piccole mani.
A.”
Era
un piccola, tenerissima poesia. E l’iniziale posta in calce non
lasciava molti dubbi sul misterioso autore. La trovai bellissima. Ma
quello che non mi quadrava era come avesse fatto, e quando, ad
inserirla in mezzo alla mia lista. Non certo digitandola da un altro
computer, visto che per ragioni di riservatezza il sistema non è
collegato in rete, se non previ una password conservata dalla Maria
Luisa
e dal Presidente. Forse era arrivato prima e si era intrufolato nel mio
ufficio. Spegnendo tutte le macchine subito dopo, visto che avevo
acceso tutto io appena arrivata. Questa era una cosa che ricordavo
bene. E avrei voluto ricordare anche altro, a dir la verità, perché non
riuscivo a ricostruire a che punto della lista mi ero agganciata quel
giorno. Sarebbe stato importante saperlo, perché avevo la netta
impressione di aver già scorso la lista alla lettera H, un’oretta
prima, e che della poesia non vi fosse traccia.
Comunque quel giorno
a pranzo (la faccia che mi fece Sara quando le notificai che anche quel
mercoledì, causa una visita inattesa di Ricky in centro, non avremmo
passato insieme la pausa pranzo era un equilibrato mix di sospetto e
dubbio) ebbi modo di chiedere ad Andrea come aveva fatto ad inserire
quella poesia.
- Ah già, quella stupida cosa! - rispose eludendo la
mia curiosità Stava armeggiando con un sugoso cheeseburger cercando di
non sbrodolare troppo - ti è piaciuta, almeno? -
Io spremetti un po’ di maionese sulle patatine:
- Molto... era così tenera, e forte nello stesso tempo. L’hai scritta
tu? -
Lui fece un gesto evasivo con la mano:
-
Mah, non so... è una cosa di talmente tanto tempo fa che non saprei
giurare se è farina del mio sacco o se l’ho letta da qualche parte... -
dopodiché cambiò argomento, iniziando a raccontare alcuni gustose
disavventure sue e di alcuni suoi amici.
Quella pausa pranzo, come
d’altra parte le precedenti, fu piacevole, rilassante e stimolante
nello stesso tempo. Così mi irritò moltissimo accorgermi che una volta
ritornata in ufficio un mal di testa feroce stava prendendo possesso
del mio cervello, pulsando minacciosamente. Che palle tutti questi
malesseri, pensai infastidita. Avevo appena riacceso il
computer quando
la figura di Sara fece capolino sulla soglia:
- Ciao - mi salutò - tutto bene con Ricky? -
A
me strinse il cuore dover ancora una volta mentire, ma non
avevo
voglia di sorbirmi una predica. Non con quel mal di testa in arrivo.
Così feci segno di sì, senza espormi troppo. Lei si appoggiò allo
stipite della porta:
- Sai per caso se Ricky ha un fratello gemello che ha il suo stesso
timbro di voce? -
“Ahia”,
pensai. La guardai: era seria. Molto
seria. Mi abbandonai sullo
schienale della poltrona. La testa pulsava e doleva come un dente
guasto:
- Sara, lo sai benissimo che non ha nessun fratello - risposi con una
nota di sconfitta nella voce - qual’è il problema? -
Lei gettò un’occhiata rapida nel corridoio, poi chiuse la porta:
-
Il problema
è che Ricky ha chiamato verso l’una e mezza... - notò il
mio sguardo allarmato e vergognoso - ....tranquilla, ho risposto io, e
mi son inventata una riunione con l’amministrazione che si stava
dilungando. Non so perché l’ho fatto, e lo vorrei sapere da te. Se
siamo amiche, e le amiche fanno di questi favori, non penso che ci
siano segreti, tra noi. Giusto? Certo che se mi dici che vai fuori con
il tuo ragazzo e questo dieci minuti dopo chiama per cercarti, comincio
ad avere seri dubbi sul dentista dell’altro ieri e sul regalo da
comprare di ieri... O no? -
Io chinai il capo, mentre l’emicrania mi concedeva un attimo di tregua:
- Ok, ok... sono uscita a pranzo con... con Andrea. Non te l’ho detto
perché so che avresti disapprovato -
La mia amica sbarrò gli occhi:
- Tutti e tre i giorni? - chiese, conoscendo già la risposta.
- Oh, via, Sara... siamo andati in pizzeria, e al Burgy. A parlare.
Tutti luoghi pubblici, zeppi di gente
(strano, non ce n’era
poi molta...)
e dove è un po’ difficile commettere adulterio... -
-
Ma hai MENTITO!!! - la sua reazione fu una staffilata nella mia anima
e nel mio mal di testa - ti sei ingegnata per far passare sotto
silenzio questa cosa. Il dentista! Il regalo! Se è una cosa così
innocente, perché raccontare balle?!? -
Io mi sentii avvampare di
sdegno, perché nonostante tutto era realmente una
situazione pulita.
Due chiacchiere, una pizza insieme (e la poesia, e il non riuscire a
non pensare perennemente a lui) tutto qui. E glielo feci presente:
- Non stiamo facendo nulla di male, come te lo devo dire! E’ solo uno
simpatico con cui è piacevole parlare... -
Lei si protese verso di me, piantandomi gli occhi negli occhi:
-
Ok, è un tizio simpatico. Ma cosa fa, chi è, in che ufficio lavora?
Come si chiama? Ti dico una cosa, ho parlato un po’ in giro e di un
certo Andrea non ne sa niente quasi nessuno. Tu, almeno, lo sai in
quale sezione della biblioteca è impiegato? -
- Beh... credo che sia giù all’economato... Almeno, so che si dirige
sempre verso... -
Ci
pensai. Effettivamente era un po’ poco, come indizio. Non mi ero mai
posta il problema, a dire il vero. Sara aveva un supponente ghigno di
soddisfazione sul volto:
- L’hai visto
nel corridoio dell’economato?!? - ripeté incredula - Tutto qui? Per
quello che ne sappiamo potrebbe
essere un estraneo dalla parlantina sciolta. Uno che non c’entra niente
con la biblioteca!!! -
Io scrollai le spalle:
- Beh, oddìo, mi
sembra un po’ esagerata come teoria. Glielo chiederò, comunque, o
chiederò come si chiama di cognome, così potrai verificare. Va bene
così? -
Sara scosse la testa, testarda:
- Sai, quel panzone di
Walter giù alla sala principale, oltre che rovinarmi la vita offrendomi
in continuazione ciocorì e tavolette di cioccolato, mi ha insegnato un
paio di trucchetti col computer... - spostò la poltrona accanto alla
mia - ...ad esempio, come poter entrare negli archivi
dell’amministrazione. Stai a vedere... -
Cominciò a smanettare sulla
tastiera prima che io potessi fare o dire qualunque cosa per fermarla.
Restai a guardarla allibita. Lei batté alcuni tasti, concentrata:
-
Ecco qui... - disse osservando una schermata azzurrina che era apparsa
sullo schermo - ...ah bene, possiamo addirittura consultare la lista
delle ultime assunzioni e collaborazioni...-
- L’unico problema -
feci notare - è che una biblioteca ha un sacco di collaborazioni
esterne. Guarda qua... esperti, supervisori, professori che a vario
titolo redigono relazioni per questo e quell’argomento. Senza contare
poi le collaborazioni con gli altri istituti, realtà minori che si
appoggiano a noi per prestiti e scambi... -
I nominativi sullo schermo erano quindi una buona cinquantina:
- Marciana Venezia:
Ufficio Informazioni Bibliografiche: referente dr. Stefania Rossi
Minutelli
Ufficio Manoscritti: referente dr. Susy Marcon
- Biblioteca Civica "Nicolò Bettoni":
M. Loretta Balasso (bibliotecaria)
Claudia Artico (assistente)
La
scorremmo in lungo e in largo, attente a scovare qualcuno che di nome
proprio facesse Andrea. C’era uno Sperelli Andrea, professore di
italiano, collaborazione esterna. Poi un Rigolon Andrea, ingegnere,
ancora collaborazione esterna (che
se ne faceva una biblioteca di una
consulenza di un’ingegnere elettronico?!?). Trovammo il
mio nominativo
(Visconti Giulia, via L. Faccioli, 25 etc. etc.) e poi quello di Sara.
Lei lanciò un gridolino di sorpresa (un po’ disgustato)
nell’apprendere che il suo odiato collega Walter era nato lo stesso
giorno del suo fidanzato Ivan. Dopo un po’ ci arrendemmo: non c’erano
altri Andrea nella lista. Sara mi osservava con un’espressione truce
nello sguardo.
- Visto? Cosa ti dicevo? Quello è uno stronzo che si
fa passare per qualcun’altro. Sarà uno studente fuori corso, o uno
qualsiasi... Lo sapevo io che ti stava prendendo in giro...-
Io mi
sentivo abbattuta da quelle parole, ma sembrava avere ragione. Non
avevo neanche argomenti per ribattere, continuavo a scorrere
stancamente la lista di nominativi in su e in giù. Sara stava
continuando la sua filippica quando ebbi un sobbalzo:
- Ehi, guarda qui! - le diedi un vigoroso colpo di gomito che la fece
trasalire - come abbiamo fatto a farcelo scappare? -
Lei
si girò verso il monitor, seguendo il mio dito che indicava lo schermo:
subito sotto il mio nome compariva uno Zipoli Andrea, via Thaon di
Revel, 115. C’era anche il numero di telefono. La data di nascita. 25
maggio 1965. Trentatre anni...sì, poteva essere lui. L’indirizzo.
Persino il codice fiscale (troppa
grazia, disse una vocina impertinente
dentro di me). Sara scosse la testa, incredula:
- Mah... non c’era quando abbiamo guardato, come diavolo... -
Io indicai il cursore laterale dello schermo:
-
Non abbiamo fatto scorrere la pagina fino in fondo, tutto qua. Ci siamo
fissati a leggere i nominativi delle persone che conosciamo, il tuo, il
mio, e non ci siamo accorti che restava fuori il finale della lista...-
La
mia amica era comunque poco convinta, e fece scorrere lei stessa il
cursore in su e giù. La pagina si interrompeva giusta sul blocchetto di
testo contenente i miei dati personali, e bisognava spostare in giù la
freccetta per far saltar fuori i dati di Andrea. Corrugò la fronte:
-
Bah bah bah... - borbottò - non mi pareva, non mi pareva... Questa è
una cosa ben strana, che non riesco proprio a spiegarmi...-
Si alzò, sempre con lo sguardo rivolto allo schermo, e rimise a posto
la poltrona:
-
Comunque ciò non toglie che tu stai andando fuori di testa, e non
riesco proprio a capirne i motivi. E voglio andare a fondo su
questo...questo Andr... - la voce le si abbassò, e si portò una mano
alla gola, corrucciando la fronte - ...la gola... mi fa un po’ male.
Che palle, beccarsi una raffreddata in piena estate, speriamo passi...
Ciao, a più tardi ! -
Mi lasciò sola nella calura dell’ufficio.
Tirai un sospiro di sollievo. Negli ultimi minuti il mal di testa mi
tormentava feroce. Non avevo nulla contro Sara (nonostante la sua
tenace persecuzione nei confronti di Andrea) ma proprio non ce la
facevo più a sopportarla. E forse era stato per quello che non le avevo
detto il mio parere riguardo ai dati personali del ragazzo. E cioè che
la lista (e non so proprio spiegarmi come) era conclusa con il mio
nome, la prima volta che l’avevo consultata con lei. Non c’erano parti
nascoste. Non mi pareva, almeno. Ma se glielo avessi detto avrebbe
fatto il diavolo a quattro. E le fitte nel mio cervello non me
l’avrebbero proprio fatta sopportare. Spensi il computer.
Il giorno
successivo, un giovedì che si presentò con nubi nere e gonfie a
far sperare nel refrigerio di un temporale estivo, le cose cominciarono
non proprio a precipitare, ma comunque a dipanarsi in una serie di
preoccupanti episodi.
Tutto cominciò con la telefonata interna
dell’amministrazione. La madre di Sara ci informava che la figlia non
stava bene, per cui non si sarebbe
recata al lavoro, quel giorno (chissà
perché ha non ha chiamato
direttamente lei, pensai mentre la segretaria mi faceva
attendere al
telefono). Dopo poco la voce secca della Maria Luisa mi informava che
l’improvvisa assenza di Sara comportava tutta una serie di problemi che
avrebbero influito sul lavoro di tutti. Io mi morsi le labbra per non
chiederle con molto poco tatto se, secondo lei, doveva presentarsi al
lavoro anche se malata. Ma mi trattenni. Per evitare ulteriori
polemiche (ed eventuali problemi futuri alla mia amica) m’impegnai per
recarmi al più presto nei magazzini a ritirare i volumi che avrebbe
dovuto prelevare Sara, e che servivano assolutamente pena la
distruzione della Cultura in tutto il mondo conosciuto
(risatina sarcastica)
Con
non poca fatica riuscii a sganciarmi da quella sgradita conversazione
decidendo, un po’ per ripicca, di chiamare Sara per
sentire le sue condizioni prima di mettermi al lavoro. Feci il numero,
rimanendo interdetta nel sentir suonare a vuoto molto a
lungo. Tanto a lungo da esser chiaro che all’altro capo del filo non
c'era nessuno. Sara fa
chiamare per dire che sta male e poi
non risponde al telefono? mi chiesi perplessa. O forse sta così male
che non può venire a rispondere? Allarmata, decisi di
chiamare casa
dei suoi per sapere se avevano qualche notizia in più sullo stato di
salute della figlia.
- Ah, Giulia, ciao... ti hanno riferito... - rispose la signora
Todescan. Sembrava molto in apprensione.
- Sì, signora, buongiorno. Scusi se disturbo ma non riesco a trovare...
-
Lei non mi fece finire:
-
Già, già, Sara è qui. E’ arrivata ieri sera, sembrava sfinita. E quel
che è peggio non riusciva assolutamente a parlare. Aveva perso
completamente la voce. E poi aveva la febbre alta...più di 39°! -
Io mi agitai sulla sedia.
-
Non se l’è proprio sentita di tornarsene a casa. L’abbiamo messa
subito a letto, facendole prendere un po’ di cose. Tachipirina...e un
paio di aspirine... Stanotte ogni tanto andavo a controllarla e ha
fatto un sonno agitatissimo, letteralmente fradicia di sudore.
Stamattina la febbre c’era ancora, ed anche la mancanza di voce, per
cui stiamo aspettando il medico da un momento all’altro... Ma, che tu
sappia, ieri non ha mostrato nessun sintomo, al lavoro ? -
Io stavo per rispondere no, quando mi venne in mente quell’accenno al
mal di gola, e lo riferii.
-
La chiamo appena possibile per sentire cos’ha detto il medico -
conclusi - e me la saluti se si sveglia. Arrivederci, signora... -
Rimasi
in silenzio ad ascoltare un tuono lontano che brontolava minaccioso,
chiedendomi che diavolo stesse succedendo. Prima i miei misteriosi
malesseri (e anche in quel momento non è che mi sentissi in forma
smagliante, anzi...) ed ora quella misteriosa febbre che aveva preso
Sara. “Aveva perso
completamente la voce...”, che stranezza. Mi alzai
ascoltando la mia schiena lanciare alcune sorde fitte di dolore
all’altezza delle reni. “Sono
una vecchia cariatide, ormai...” pensai
mentre uscivo dall’ufficio e prendevo le scale verso il pianterreno.
Quella mattina non avevo ancora scorto Andrea, e ne avevo una voglia
pazza. Sul pianerottolo del primo piano pensai di fare una capatina in
ufficio economato, con una scusa qualsiasi, poi mi feci forza e mi
costrinsi a fare la brava. Scesi le ultime scale, mentre il signor
Pesavento lottava con il forte vento che si era alzato, cercando di non
far volar via i manifesti dei concorsi appesi sotto la lunga bacheca in
entrata.
- Signorina Giulia, pare proprio che verrà giù un uragano -
disse vedendomi girare in direzione della rampa che portava al piano
interrato - spero abbia un ombrello, se proprio deve uscire -
Gli
sorrisi passandogli accanto e aprii la porta del magazzino. L’aria nel
vasto e poco illuminato locale era pesante e immobile. Sembrava
“trasudare” umidità, e la sensazione era soffocante. Gualtiero, uno
degli addetti, mi salutò con un sorriso sdentato:
- Ehi, che bella fanciulla abbiamo qui. Come posso esserle utile? -
Anche
se la frase non era poi così strana, il tono di voce era sgradevole e
carico di sottintesi. Ora capivo perché Sara non era entusiasta di
bazzicare da quelle parti.
- La mia collega Sara della Sala A non è
venuta al lavoro, e mi ha chiesto di prelevare alcuni volumi al posto
suo. Dovrebbero essere pronti da qualche parte... -
L’uomo si batté comicamente una mano pelosa sulla fronte:
-
Mannaggi’a miseria ! - esclamò - ecco cosa mi sono scordato. Mi scusi,
signorì, ma l’amministrazione mi ha fatto spostare alcuni scaffali, e
ho perso tempo..., temo che dovrà cercarseli lei. Sono in quegli
schedari dietro l’archivio dei quotidiani -
Feci un segno
(spazientito) di ok con la mano e passai oltre, non prima di aver
notato il giornaletto a fumetti spalancato sulle gambe dell’occhio.
Altro che scaffali da riordinare. Sparii dietro l’angolo mentre l’uomo
iniziava a fischiettare una canzone vecchia come il cucco. L’aria era
quasi irrespirabile, e il sudore mi appiccicava i capelli alla fronte e
la maglietta alla schiena, con una sensazione sgradevole. Iniziai ad
accatastare su un basso tavolino polveroso i volumi man mano che li
trovavo. Ogni tanto un tuono in lontananza faceva tremare
impercettibilmente il pavimento. Fuori stava effettivamente per
prepararsi un diluvio. Meglio
così, pensai, speriamo
rinfreschi...
Ero
intenta nella mia ricerca da un quarto d’ora quando sentii uno
scalpiccìo alle mie spalle. Mi voltai, senza scorgere nessuno, né
dietro
l’angolo da dove ero venuta né nel corridoio semibuio che si dipanava
verso sinistra.
- C’è qualcuno? - dissi con noncuranza, mentre
riprendevo a consultare gli archivi. Forse era quel Gualtiero che
voleva combinare qualche scherzo, o uno dei suoi degni colleghi...
-
Oh, signorina Giulia, che piacere vederla... - una voce mi fece girare,
e storsi senza volerlo la bocca. Era Ugo Maniero. Come ho già avuto
modo di dire, lavorava (forse un vocabolo un po’ troppo forte per lui)
su nelle sale di consultazione, e non era visto con molta simpatia
dalla popolazione femminile della biblioteca. Probabilmente era
innocuo, ma dovevi comunque sorbirti una serie di apprezzamenti non
proprio da gentleman. Lo salutai nel modo più incolore possibile, ma
questo non smontò il suo tentativo di approccio:
- E cosa ci fa una
ragazza così carina qui sotto? (mio Dio, che battuta originale!) Non
ha paura del lupo cattivo? - gorgogliò una risata, come se avesse
detto la spiritosata più spassosa del mondo. Gli lanciai un’occhiata
spazientita. Se ne stava appoggiato ad una colonna quadrata, frugandosi
in una narice con l’unghia del mignolo. Ma delicatamente, bisogna
dirlo. Mi squadrò da capo a piedi, probabilmente soffermandosi nei
punti di maggior attrattiva.
- Fa caldo, eh, qui? - continuò - Ha
la schiena tutta bagnata. Di sudore eh, s’intende... - rise ancora,
beandosi di quella trovata.
Io speravo fortemente che ignorandolo si
stancasse e se andasse. D’altra parte era inutile cercare soccorso
morale dagli altri addetti al magazzino, anzi, si rischiava di radunare
un bel gruppetto di comici doppiosensisti. Mi scrollai nervosamente il
tessuto che aderiva alla schiena madida, maledicendomi di non essere
riuscita ad evitare di farlo, e continuai la mia ricerca. Lui sembrava
avere tutto il tempo del mondo.
- Allora, quand’è che andiamo a
pranzo insieme? - chiese con un sorriso goloso sulla bocca. Niente
paura, lo chiedeva ciclicamente a tutte quelle che gli capitavano a
tiro.
Senza risultato, s’intende.
- Signor Maniero, sa benissimo che con me casca male... - gli dissi
senza voltarmi. Lui sogghignò ancora una volta:
- Beh, l’importante sarebbe cascare insieme su qualcosa di morbido... -
Sbuffai
rumorosamente scuotendo il capo, spazientita, e mi girai velocemente
per tenerlo d’occhio. La prudenza non è mai troppa. Non sia mai che
l’afa opprimente del magazzino lo facesse passare dalle parole ai
fatti. Era sempre in piedi appoggiato alla colonna, e stava frugandosi
nel taschino, probabilmente alla ricerca di una sigaretta che gli
conferisse un’aria da macho. Ci mancava anche il fumo, già che non si
respira... Mentre lo osservavo vidi apparire, dall’oscurità in fondo al
corridoio, una figura conosciuta: era Andrea, che ci stava
osservando in silenzio. Veniva lentamente verso di noi, senza far
rumore, e
sembrava... che cosa strana... quasi che “fluttuasse”,
invece di
camminare. Ma era così in penombra...
Si bloccò a pochi metri da noi
e Ugo Maniero, di spalle e intento a bearsi della rotondità dei miei
seni, non se ne avvide. Stavo per salutarlo, e avere così un pretesto
per sganciarmi da quella sgradita visita ai raggi X quando la sua
faccia sembrò... non tremare, ma quasi, quasi vibrare... come
pervasa
da un movimento appena sotto la pelle del viso. Ma fu questione di un
decimo di secondo, tanto da chiedersi se era successo davvero.
-
Ehi, Andrea, ciao! - lo salutai con un tono di voce più vivace del
dovuto. Maniero si voltò in direzione del mio sguardo ma il ragazzo si
era infilato in un passaggio tra due basse cassettiere ed era scomparso.
-
Ma chi... - disse il Maniero, mentre gli passavo accanto chiamando il
nome di Andrea. Lo seguii nello stretto passaggio ma non trovai
nessuno,
se non la polvere e i vecchi libri che mi guardavano muti.
- Andrea? - chiamai ancora, ma decisamente più a bassa voce. Il
magazzino non
mi rispose, mentre un tuono veniva a schiacciarsi sui vetri opachi e
sporchi di una finestrella che dava sul piano stradale. Guardai fuori,
ed era come guardare dal vetro di un acquario incrostato dal tempo.
Fuori alcuni piedi di passanti acceleravano il passo per sfuggire alle
prime grosse gocce che si stava schiacciando sul porfido tiepido.
L’aria sapeva di ozono, e di ricordi di temporali d’infanzia. Il mio
inseguito, per qualche motivo che sapeva solo lui, si era dileguato.
Gironzolai senza risultato per i corridoi formati dagli archivi, poi
tornai stancamente verso il punto dove stavo cercando i libri, sicura
di dovermi sorbire qualche altra simpatica battuta di Ugo Maniero.
L’uomo era appoggiato ad un basso schedario, e si teneva la testa tra
le mani. Stava borbottando qualcosa, ma sembrava più un lamento che
altro. Forse qualche
altro scherzo idiota?, pensai sospettosa.
- Qualcosa che non va, signor Ugo? - chiesi titubante.
Lui
si girò in direzione della mia voce, non guardandomi proprio. I suoi
occhi... i suoi occhi erano pieni
di sangue. Dove di solito c’è il
bianco dell’occhio ora vedevo un colore scarlatto scuro. Due sottili
lacrime rosse stavano scendendo lungo le guance. Mi cercò con la testa
di qua e di là e agitò le mani:
- Chi parla? Chi è? - esclamò agitato - ...e perché cazzo non
riaccendete quella luce? -
N.d.A: a differenza di
quel che afferma quel furbacchione di Andrea, la poesia lasciata
misteriosamente nel pc non è farina del suo sacco, bensì la splendida
'Il tuo più tenue sguardo' di E.E. Cummings.
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Capitolo 4 *** Orgasmi-Telefonate ***
CAP. 11
Il
capannello di persone stava confabulando nell’atrio della biblioteca.
Il temporale aveva esaurito la sua furia e la strada fuori dal portone
luccicava dei raggi del sole che si faceva già strada tra gli squarci
nelle nubi. Io finii di asciugarmi le mani e il viso con una salvietta
di carta, e chiusi la porta dei bagni delle donne. Mi avvicinai al
gruppetto.
- ...non riescono proprio a capire che razza di malore
gli sia capitato - stava dicendo il vecchio Pesavento, mentre si
ciancicava nervoso i lembi del camice consunto - il medico che è
intervenuto con l’ambulanza dice che non ha mai visto niente del
genere... un’emorragia inspiegabile, e adesso è cieco... -
Tutte le
donne che stavano ascoltando rabbrividirono. “Persino Maria Luisa, che
sembrava così fredda” pensai, pentendomi subito di quel
pensiero
così cinico. Ero ancora scossa. Era toccato a me accompagnare un
agitato Maniero verso il pianterreno. L’avevo fatto sedere su una
sedia, tenendogli una mano, e cercando di non ascoltare le domande
disperate e rassegnate del malcapitato. Il signor Pesavento era corso,
al meglio delle sue artritiche possibilità, a telefonare al pronto
soccorso ed a diffondere la notizia a tutti gli uffici. In breve tempo
una piccola folla silenziosa si era radunata lungo le scale
dell’edificio, come comparse di una rappresentazione di cui io e lo
sventurato eravamo i protagonisti, pietrificati al centro dello
spazioso atrio come attori sulla scena. Il medico, un dottorino di
primo pelo nervoso e titubante, era impallidito non appena aveva
guardato in faccia Maniero, e questo non mi era sembrato affatto un
buon segno. Avevo cercato più volte di scorgere con lo sguardo la
figura di Andrea, in curiosa attesa tra gli altri, ma del giovane
nessuna traccia. Dove diavolo si era cacciato? Avevo così bisogno di
una parola di conforto da qualcuno che mi potesse capire! Alla fine
due infermieri caricarono il poveretto su una lettiga e mi liberarono
da quella penosa incombenza. Mi sentivo la gola chiusa e inaridita, e
avevo assolutamente bisogno di bere qualcosa. Presi a salire le scale,
fendendo la folla di colleghi e studenti che mi osservavano di
sottecchi, come se io fossi stata in qualche modo artefice della
sventura dell’uomo. Mentre raggiungevo il secondo piano mi venne da
chiedermi se tutti quegli episodi, dal mio malessere alla febbre di
Sara, sino alla disgrazia del magazzino, non fossero tutti sintomi
di... di che cosa? Di un contagio? Di un’epidemia? Mio Dio, era
ridicolo! Quelle eran cose che si vedono nei filmetti di quart’ordine,
quando scienziati inetti o militari senza scrupoli si fanno sfuggire il
solito virus letale che provoca stragi senza fine. Ma in una
biblioteca, da cosa potevamo essere stati infettati, da polvere di
pagine di libro?!?
Raggiunsi il piccolo stanzino pomposamente
chiamato “stanza-caffè” e lo trovai stranamente (molto stranamente)
deserto e silenzioso. E sì che un incidente in biblioteca doveva essere
un motivo sufficiente perché se ne potesse discutere all’infinito tra
un caffè e una bibita fresca. Invece misteriosamente i miei colleghi se
ne stavano alla larga preferendo confabulare lungo le scale, lanciando
ogni tanto uno sguardo di controllo verso la burbera Maria Luisa. Ma in
quel momento era intenta anche lei a commentare l’episodio con alcune
segretarie, e quindi tutti si sentivano in diritto di poter continuare
quella inaspettata ricreazione. Entrai nel minuscolo stanzino e presi a
rovistare nello scatolone che contiene indifferentemente filtri del
caffè, del tè e del latte, insieme a bustine di zucchero e bastoncini
di plastica. Stavo per infilare un filtro nella macchinetta dei caffè
quando una figura dietro di me riempì la luce della porta. Mi girai.
Andrea mi sorrideva con lo sguardo più triste del solito. D’istinto,
probabilmente sfinita da quello a cui avevo dovuto assistere, mi gettai
singhiozzando tra le sue braccia, nascondendo la faccia nella sua
camicia e infradiciandogliela di lacrime. Lui mi cinse con le braccia
(e una sensazione di calore e di serenità mi pervase) e lasciò che il
tremito mi passasse.
- Su, su, ora è finito... - sussurrò stringendomi più forte - però, che
cosa terribile... -
Io
potevo sentire il suo profumo, una miscela appena appena percettibile
di spezie e aromi più dolci. E sotto, come una traccia invisibile, un
odore più secco, come di cose antiche. La sua mano mi accarezzò la
schiena, ed io rabbrividii. Rabbrividii di piacere. Alzai lo
sguardo, perdendomi in quegli occhi che sembravano riempire
l’intera stanza:
- Chi... chi sei, tu? - chiesi con un soffio di
voce. Lui si staccò leggermente, e io sentii un moto di
dispiacere serpeggiarmi dentro:
- Non devi temere nulla, io non
voglio farti del male... - la sua voce era calda, e lenta, e profonda -
...ora ci sono qui io. Io sono il sogno... -
Si avvicinò a me.
Sapevo che stava per baciarmi, e sapevo anche che se lo avessi lasciato
fare non sarebbe più stata una cosa “pulita”. Baciandolo, mi sarei
persa. Mi sarei lasciata andare. Il suo viso, e le sue labbra, erano a
pochi centimetri dalle mie, e potevo sentire l’odore del suo respiro.
Ed era un odore buono. Pensai a Ricky che mi faceva un buffetto su una
guancia e mi sorrideva con sicurezza. Pensai a Sara che mi puntava il
suo dito contro, come una assurda canna di pistola rosa. Pensai al mio
primo bacio dato in un gelido e buio pomeriggio di dicembre, in un
portone, all’uscita della dottrina. Ricordai il cuore che rullava
impazzito nel mio piccolo petto, e le labbra di lui che premevano sulle
mie, serrate forte forte, e il profumo di gomma da masticare alla
fragola. Volevo
baciare Andrea. Lo desiderava ogni cellula del mio
corpo, come acqua per un assetato.
Ci baciammo. E fuochi
d’artificio esplosero nei miei occhi chiusi, e brividi di freddo e
vampate di calore percorsero il mio corpo teso e tremante. La sua
lingua giocava con la mia, e i miei denti mordicchiavano le sue labbra.
Le sue mani scivolavano sulla mia schiena, come uccellini leggeri, e
dentro di me cominciò a montare un crescente senso di eccitazione.
Sentivo la sua erezione dura come il ferro premermi prepotente sulla
pancia. Divoravo
quelle labbra, come assatanata. Le sue mani scesero
sul fondoschiena, afferrandomi le natiche. E improvvisamente,
inaspettatamente, violentemente, io venni.
Colta di sorpresa, quasi
spaventata, esplosi in un orgasmo devastante che mi tagliò le gambe.
Andrea dovette sostenermi per impedirmi di piombare a terra
sussultante. Morsi a sangue la sua spalla attraverso la camicia,
per non richiamare tutto lo staff della biblioteca con un grido
lacerante.
Mi allontanai da lui, madida di sudore, cozzando con
violenza contro il frigorifero. Alcuni bicchierini di
carta si sparsero sul pavimento. Andrea mi sorrise con una dolcezza che
non dimenticherò mai, si avvicinò a me che lo fissavo ansante ed
incredula, e mi baciò sulla fronte. Poi uscì senza voltarsi.
Le mie
gambe cedettero lentamente e, nonostante cercassi di impedirlo,
scivolai sul pavimento. Una gamba era ripiegata sotto il mio sedere e
mi doleva, ma non avevo per il momento la minima traccia di energia per
spostarla. Ero terrorizzata che qualcuno arrivasse scoprendomi in
quelle condizioni, ma non si udiva nessun rumore di passi, e nessuno
apparve sulla soglia. La vista mi si annebbiò, e chiusi gli occhi,
rimanendo lì a giacere sul pavimento per un tempo che mi parse infinito.
Più
tardi, non so come, riuscii a rimettermi in piedi e a raggiungere a
fatica il mio ufficio. Guardai l’orologio sull’angolo a destra del mio
computer e restai di sasso. Mancava mezz’ora alla fine della giornata.
Quando l’ambulanza era ripartita portandosi via il povero Maniero erano
da poco passate le undici. Ero rimasta semincosciente sul pavimento
dello stanzino per quasi tutto il giorno. E per quasi tutto il giorno
nessuno
(nessuno)
era mai venuto a farsi un caffè.
Potevo sentire distintamente la paura agitarsi dentro il mio stomaco
con artigli taglienti.
CAP. 12
Accesi
l’auto e usci dal parcheggio, a dieci all'ora. Erano ormai le
cinque e mezza
e gli impiegati della biblioteca sciamavano dall’edificio,
chiacchierando. Mi sentivo sfinita, e spaventata da tutti quegli eventi
così inspiegabili. Non riuscivo però a concentrarmi bene, perché ogni
mio pensiero si indirizzava, nonostante qualunque tentativo di
riflettere su cosa stava succedendo, su un bigliettino piegato in
due posato sul cruscotto della macchina. All’interno, vergato
con
mano tremante (quando ero ritornata nel mio ufficio facevo fatica anche
solo a stringere la penna tra le dita!) c’erano l’indirizzo e il
numero di telefono di Andrea. Quando avevo acceso il mio computer la
lista che avevamo consultato il giorno precedente era ancora aperta
sullo schermo. Di
solito i programmi del computer si spengono allo
spegnimento della macchina, pensai dubbiosa, chissà che casini ha
combinato Sara con quell’intrusione non autorizzata nell’archivio
dell’amministrazione. E io non avevo proprio idea di come
rimediare. In
ogni caso avevo fatto scorrere tutta la lista di nominativi e mi ero
copiata (col batticuore di una scolaretta che scrive le sue prime
esperienze su un diario segreto) i dati relativi ad Andrea. Per cosa
farne, non lo sapevo ancora bene. Mi faceva però sentire meglio sapere
che, se ne avessi avuto il desiderio, avrei potuto alzare il telefono e
sentire la sua voce.
Decisi di dirigermi allora verso la casa della
madre di Sara, per una visita che mi mettesse al corrente dello stato
di salute della mia amica. Le strade erano pressoché deserte, la calura
di un pomeriggio estivo aveva ripreso vigore dopo il breve sollievo
del temporale e consigliava, a chi poteva, di starsene rintanato nel
fresco
di casa. Magari con un ventilatore ed un bel bicchiere di tè
ghiacciato. Arrivai a destinazione e suonai il campanello. La signora
Todescan mi venne incontro abbracciandomi calorosamente, come al
solito, ma il luccicare sotto i suoi occhi non mi chiariva se era
sudata o aveva pianto.
- Cara Giulia, che piacere vederti! -
esclamò facendomi accomodare nella casa in penombra - hai fatto bene a
venirci a trovare... -
- E’ un piacere anche per me - risposi - ma, mi dica, come sta Sara? -
Lei
mi fece cenno di sedermi su un divano, poi si lasciò cadere su una
sedia, scuotendo il capo. E questo non mi piaceva proprio.
- Non sta
bene, non sta bene... - mormorò, torcendosi le mani nervosa - la febbre
va su e giù come un altalena, un attimo sembra che le stia passando e
l’attimo dopo scotta come un forno. E non le è ancora tornata la
voce... Non riesce ad emettere neanche un suono... -
- Ma... il medico, l’avete chiamato? Cosa dice? - le chiesi
preoccupata. Lei fece un sospiro:
-
Il medico, già... il nostro, con cui ci troviamo tanto bene, se ne è
andato in vacanza, e così è venuto il sostituto, un ometto incolore che
non mi ha dato tanta fiducia. Io insistevo nel farla portare in
ospedale ma lui si è inalberato, facendomi notare con arroganza che il
medico era lui e che dovevo fidarmi. Beh, in definitiva le ha ordinato
una serie di penicillina per vedere se la temperatura scende,
per un
periodo di cinque giorni. Dopodiché decideremo il da farsi... -
- La posso vedere? - le chiesi. Lei si alzò facendomi cenno di
seguirla.
-
Teniamo i balconi quasi chiusi - mi disse mentre percorrevamo il
corridoio che portava alla zona notte - per tener fuori il caldo, e poi
perché ci ha detto che la luce le dà fastidio agli occhi... Detto...
cioè... scrive delle cose su un bloc-notes, quando ha bisogno... -
“Povera
Sara, che diavolo ti sei beccata?!?”, pensai mentre
cercavo di non
badare al groppo che mi serrava la gola. La donna aprì la porta della
stanza e vi scivolammo dentro in silenzio. La camera, come
annunciato, era immersa nella semioscurità e quello che mi colpì subito
fu... fu l’odore. L’aria afosa era appesantita da un odore greve... di
malattia, di sudore. Nel letto una sagoma informe giaceva in silenzio.
- Sara... Sara, guarda chi è venuta a trovarti - sussurrò la madre
chinandosi - ...c’è qui la tua amica Giulia...-
Mi
avvicinai al letto mentre la signora Todescan accostava una
sedia e
scivolava fuori. Sara voltò lentamente la testa verso di me e alzò un
braccio, per un attimo, prima di farlo ricadere stancamente sul letto.
Io le posai delicatamente una mano sulla spalla, come per rassicurarla.
La maglietta che indossava era intrisa di sudore. Potevo sentire il
calore malato irradiarsi dal suo corpo.
- Ti salutano tutti, sai -
le dissi cercando di tenere un tono leggero che non sentivo affatto - e
non vedono l’ora che tu ritorni. Soprattutto Walter e i suoi ciocorì -
la figura immobile nel letto non reagì - comunque tu adesso devi solo
pensare a stare bene, che è la cosa più importante... -
Come sempre
in queste difficili occasioni, ci si sente decisamente imbarazzati a
dover confortare chi non sta bene. E’ proprio il contrasto tra sano e
sofferente che rende ridicolo, e forzato, questo tentativo di conforto
morale. Io di lì a poco sarei stata libera di uscire nella sera estiva
che si stava rinfrescando, con la possibilità di fare quello che più mi
andava. Mangiare una fetta di anguria, farmi una doccia rinfrescante,
camminare a piedi nudi sulle piastrelle fredde della cucina (telefonare
ad Andrea). Lei se ne sarebbe stata lì in quella stanza impregnata di
cattivo odore, a infradiciare le lenzuola di sudore, ardente di febbre.
Sentii due lacrime cercare di spuntarmi dagli angoli degli occhi ed
annaspai per impedirlo. Ci mancava anche il crollo emozionale, per
tirare su di morale la mia povera amica. Lei fece un cenno a fatica
verso l’abat-jour che teneva sul comodino. L’accesi e rabbrividii, nel
guardarla. La sua faccia era bianca come cera, e contrastava
sinistramente con le occhiaie scure che le segnavano gli
occhi. I
capelli, solitamente vaporosi e lucenti, cadevano spenti,
incollati alla fronte madida. Si protese verso un blocchetto ed
una penna e mentre lo faceva scorsi, appena sotto la
mandibola, alcune zone dove la pelle era arrossata,
infiammata, in maniera spiacevolmente regolare, come l’irritazione che
può dare una collanina. L’aiutai a prendere il bloc-notes e attesi con
impazienza che scrivesse. Vergò alcune parole a
fatica e mi porse il tutto. Lo lessi con avidità, sforzandomi di capire
bene quegli scarabocchi. Le tre parole erano una domanda, e dicevano:
VEDI ANCORA ANDREA?
Stavo per irritarmi della cocciuta insistenza
della mia amica, ma non era ovviamente il caso. Per cui feci un cenno
con la testa, un sì secco e rassegnato. Lei restò lì a fissarmi, con
occhi che mandavano lampi e la fronte corrugata, mentre io provavo
solo una voglia terribile di alzarmi e scappare via da quel letto di
malattia, da quel luogo di sofferenza.
La madre di Sara entrò nella
stanza con due bicchieri di aranciata a rompere quel momento di
tensione e imbarazzo. Parlai con lei ancora un po’ del più e del meno
(possibile che non si accorgesse del cattivo odore che ristagnava nella
stanza?) poi finalmente, dopo aver sorriso a Sara, che non ricambiò,
potei uscire di lì e scendere nella strada. Respirai a pieni polmoni la
dolce aria della sera estiva. Dalle finestre spalancate delle case
provenivano suoni di cucina e di televisori accesi. Un gruppetto di
bambini mi sfrecciò accanto pattinando vigorosamente.
Guardai il cielo che si arrossava dietro il campanile di una chiesa e
m’incamminai verso la mia macchina.
Mentre
guidavo lentamente verso casa avevo la testa invasa da decine di
pensieri, che svolazzavano lenti come avvoltoi in planata. A guardarla
da un punto di vista ottimistico Sara si era beccata una di quelle
influenze estive che giungono inaspettate in una stagione che richiama
più i ghiaccioli e i tuffi in piscina che non termometri e medicinali.
Non che fosse una cosa impossibile, del resto, poteva succedere ed era
successo. E forse proprio per il fatto che non te lo aspetti diventa
più fastidiosa da sopportare e più difficile da debellare.
Sì, ma
cavoli, l’aspetto di Sara era proprio distrutto, ad essere sinceri. E
poi c’era il mio malessere. Che, a seconda dei momenti, ritenevo
preoccupante (quando mi ci trovavo in mezzo) o trascurabile (come in
quel momento mentre attendevo che il semaforo divenisse verde, e mi
sentivo quasi bene. Sì, forse un po’ stanca, ma avevo sulle spalle un
anno intero di studio e lavoro, e l’afa estiva non aiutava molto a
sentirsi in superforma). Forse non mi avrebbe fatto male fare una
visita alla dottoressa Simeoni, in fondo era da molto che non ne avevo
bisogno, e mi avrebbe fatto piacere darle un salutino. La zona
“positiva” del mio cervello già si immaginava (ed auspicava) la voce
rassicurante della dottoressa che mi tranquillizzava assicurandomi che
ero in forma come non mai, a parte un po’ di normale affaticamento
dovuto al periodo. E che avrei dovuto solo pensare a divertirmi e ad
organizzare le vacanze ormai imminenti. Già, le vacanze... di lì a un
mese c’era un delizioso ed esclusivo villaggio turistico abbarbicato
sulle rocce, a piombo sul mare turchese della Puglia, che mi aspettava
a braccia aperte. E allora basta con liste di autori e vecchi libri
polverosi, ma solo lunghe ore a sonnecchiare sotto un sole da favola,
con il profumo della crema abbronzante e lo sciacquìo delle onde in
lontananza. Con tutte le attrattive sportive che il villaggio offriva
(dalla pallavolo al tiro con arco, passando attraverso windsurf e
calcetto e vasche in piscina e chi più ne più metta) avrei avuto tutto
il tempo di prepararmi ad un ritorno al lavoro abbronzata al punto
giusto, dato che Ricky sarebbe stato attirato più da...
Ricky. Una
punta di rimorso (e di vergogna?) mi scosse dai miei pensieri
balneari. Ricky.
Lo stavo trascurando, probabilmente, anche se lui non
aveva dato segno di accorgersene. Anche perché non sapeva leggere il
pensiero, naturalmente, se no si sarebbe accorto da solo che la mia
mente era riempita, monopolizzata, invasa dai pensieri su di un uomo
che non era lui. Al quale pensavo in maniera così forte e continua da
farmi tornare in mente la persona con cui stavo da ormai due anni, con
cui si stava parlando di sposarsi (anche se per il momento il dibattito
era ancora in corso), solo come accessorio di una digressione sulla mia
prossima vacanza estiva. Forse avrei dovuto parlare a Ricky di quello
che stava succedendo, ma è così difficile trovare nel partner (in
qualunque partner, presumo) la capacità di ascoltare imparzialmente e
senza pregiudizi quello che stava suscitando in te un’altro uomo. Un
possibile rivale, agli occhi di chi sta fuori. Ovviamente anche per me
sarebbe la stessa cosa se lui fosse venuto a parlarmi di una donna che
gli stava creando un qualche tipo di... di sensazione.
Nemmeno io
sapevo poi bene come etichettarla, né darle un peso adeguato. Anche
se questa persona ti viene in mente, ma ancora non ci hai
fatto
niente
di mal... Balle. Balle. BALLE !!! Diedi un mezzo pugno di stizza al
volante, facendo inavvertitamente partire un suono strozzato di
clacson. Sul marciapiede un vecchio agitò una mano in segno di
protesta. BALLE. Non potevo assolutamente continuare a smenarla con la
storia del “non facciamo nulla di male”. Ok, non eravamo finiti a letto
(per-il-momento)
e non mi era venuto neanche il pensiero (o il
desiderio) che ciò avvenisse. E in questo ero sincera con me stessa. Ma
gli ero volata tra le braccia nello stanzino del caffè (difesa: ero
scossa del tragico malore a Ugo Maniero). Sì, ma anche scossa avrei
dovuto cercare un momentaneo conforto morale, non le sue labbra e la
sua lingua. (difesa: mi ha baciata lui). Sì, può essere anche vero, ma
di certo io non mi ero dibattuta tra le sua braccia urlando “come ti
permetti” e tempestandolo di pugni. Mi sono tuffata invece nella sua
bocca, e ho lasciato che le sue mani passeggiassero disinvoltamente su
tutto il tragitto tra la mia nuca e il mio sedere. Non è certo il
comportamento che avevo sempre pensato di tenere nel momento in cui
avessi
avuto problemi con qualche bellimbusto. E fra l’altro di intraprendenti
bellimbusti ne avevo messi in riga, fino a quel giorno...
E non
potevo nemmeno nascondermi dietro alla striminzita scusante che ero
così scossa da non capire cosa mi stava succedendo. No no no. Perché ho
goduto. Subito. E anche se sono una tipa a cui il sesso
piace direi
notevolmente... in maniera così devastante mi era successo solo altre
tre
o quattro volte, in passato. E con il partner giusto, ispirata come si
deve, su un bel lettone di casa. Non in uno stanzino che sapeva di
caffè e di sigarette spente. Non in un luogo dove poteva capitare
qualcuno da un momento all’altro. Non in piedi, solo con un bacio.
(“presentamelo!”,
avrebbe semi-scherzosamente commentato la mia amica
Silvana, ma solo dopo un bel po’ di grappini in una serata
rigorosamente-senza-uomini). Sorrisi, nonostante tutto. E mi venne da
chiedermi come sarebbe stato in un letto, con un preambolo del genere
(nella mia testa si formò l’immagine di un foglietto di bloc-notes con
su scritto a fatica: HAI INTENZIONE DI PROVARCI?). Non lo sapevo. Non
ci volevo pensare. E anche questa cosa era strana, stridente con il mio
modo di fare abituale (anche se da un po’ di giorni il mio modo di fare
abituale sembrava avermi preceduto in vacanza). Di solito quando mi
innamoravo di un ragazzo e cominciavo a renderlo parte dei miei
pensieri, ci fantasticavo su in ogni campo. Da come sarebbe stato il
passeggiare mano nella mano a come si comportava a letto.
Ovvio, con i dovuti tempi, s’intende. Invece Andrea era presente
(onnipresente)
nella mia testa, ma era una voglia più che altro di
vederlo, di sentirlo. Quasi un’esigenza irresistibile della sua
presenza, come se avessi bisogno fisico di lui. Ma non ci avevo fatto
ancora nessun pensiero proibito (e forse era questo che rendeva ancora
giocabile la carta del “non facciamo nulla di male”), non mi ero
nemmeno chiesta com’era sotto quelle sue camice ampie, se aveva un po’
di pancetta o il pelo sul petto. E con queste considerazioni poco
ortodosse finivano le mie giustificazioni da un punto di vista logico,
anche se un po’ tirate per i capelli. Vada per l’attacco influenzale
(il violento
attacco influenzale) di Sara, vada anche per il mio
presunto affaticamento da anno di lavoro, ma la cosa che era successa
al Maniero giù nei magazzini cos’era? Bruscolini di polvere negli
occhi? Una perniciosa forma di congiuntivite? Non è che fossi una
grande esperta in fatto di sintomi (e poi sono sempre così ambigui, da
quello che leggi sulle riviste pseudo-salutistiche lo stesso sintomo
potrebbe voler significare indifferentemente allergia da polline o
leucemia, alitosi o tumore al cervello!) ma non avevo nemmeno mai
sentito di una cecità così repentina. Gli occhi che si
riempivano di
sangue (rabbrividii nel ricordarlo) tanto da farne piangere lacrime, e
poi il buio. Dovevo ricordarmi di chiederlo alla dottoressa, se
trovavo una mezz’ora per farci una scappata. Ovviamente non mi attirava
l’idea, per quanto presto potessi recarmi al suo ambulatorio
compatibilmente con gli orari di lavoro, di trovarlo immancabilmente
zeppo
di vecchiette che stazionavano rassegnate in attesa.
Mentre svoltavo
nella via dove abitavo, lo sguardo mi cadde sul bigliettino piegato in
due posato sul portaoggetti. E adesso? Nelle viscere di quel pezzetto
di
carta, strappato frettolosamente da un foglio di macchina da
scrivere, era annotato con mano maldestra un numero di
telefono.
Un semplice
numero di sei cifre che mi stava attirando come un’enorme calamita
psichica, ripetendo “chiama e chiama e chiama” all’infinito. Scorsi in
quel momento una vettura che stava liberando un parcheggio proprio
davanti al portone del mio palazzo e mi fermai al lato della strada, i
lampeggianti in funzione, in attesa che l’automobilista se ne andasse.
Era inutile che mentissi a me stessa, sapevo già che sarebbe stata una
sofferenza resistere, sapendo invece di avere la possibilità di alzare
la cornetta e di sentire la sua voce. Mi venne quasi la tentazione di
lasciare in macchina il bigliettino ma temevo che, dopo un nervoso
andirivieni per le stanze deserte e calde del mio appartamento, avrei
dovuto scendere a rimediare a quella mossa così idiota. Chiusi quindi
l’auto e salii le scale. Il bigliettino, stretto nel mio pugno, pareva
scottare. La casa mi salutò silenziosa come sempre, e nella
segreteria non c’era traccia di messaggi. Aprii il bigliettino e lo
posai sul mobile in ingresso. Il numero mi guardava inerte e io
guardavo lui. 540666. Appena poco più sotto l’indirizzo. Via Thaon di
Revel, 115. Zona
Villaggio del Sole, pensai, a quest’ora e con la città
semivuota con la circonvallazione ci potrei arrivare in meno di un
quarto d’ora. Ma che ci vado a fare? A dirgli cosa ?
Afferrai il
telefono, portandolo all’orecchio. Lo riabbassai. Scossi il capo. Presi
un lungo respiro. E rialzai la cornetta. Feci i primi due numeri. Poi
bloccai la comunicazione e rimisi di nuovo a posto il telefono. Potevo
togliermi quegli abiti stazzonati e stanchi, farmi una bella doccia
rinfrescante, bere un lungo sorso di succo d’arancia direttamente dal
frigo, e poi vedere se avevo ancora voglia di formare quel numero.
Tanto per saggiare un po’ la mia forza di volontà.
Entrai in bagno,
sfilandomi la camicetta e slacciando la cintura dei jeans, che mi si
afflosciarono intorno ai piedi. Aprii il rubinetto e mi sciacqui la
faccia sudata, mugolando di piacere. Alzai poi il viso nello specchio
e mi osservai, trovandomi disperatamente sfatta. Il pallore della mia
faccia sembrava quasi risplendere nella penombra della stanza da bagno
(e sì che qualche fine settimana l’ho passato sotto il sole in
piscina), e non mi piacevano affatto quei segni scuri sotto gli occhi.
Mi ricordavano le occhiaie che avevo scorto sul volto malato di Sara.
Scossi la testa, distogliendo lo sguardo dall’immagine di quella brutta
copia di una ragazza, e aprii il getto della doccia. Poi, come facevo
ormai d’abitudine, salii sulla bilancia pesapersone che dormiva accanto
alla vasca. E impallidii.
Incapace di credere a quello che leggevo,
fissavo l’ago della bilancia che indicava impietosamente 54 kg. DUE
CHILI IN MENO dell’ultima volta che mi ero pesata. Domenica mattina,
mentre ciondolavo per casa in attesa di un inutile cenno di vita da
parte di Andrea. Quattro giorni prima. Solo quattro giorni prima. Non
riuscivo a farmene una ragione. Non riuscivo neanche ad accettare
quello che vedevo. Avevo
perso due chili in quattro giorni! E non
c’era neanche tema di errore, visto che la domenica avevo commentato
che erano ormai mesi, nonostante i pranzi saltati a far compagnia a
Sara, che l’ago segnava sempre il peso forma di cui andavo
tanto
fiera (senza farlo naturalmente pesare alla mia grassottella amica):
cinquantasei chili. Scesi di scatto dal piano della bilancia, come
fosse improvvisamente diventato incandescente, affrettandomi a
controllare subito se la rotellina sul lato fosse
stata accidentalmente manomessa. A volte, magari passando con la scopa
per le
pulizie, succede. Ma purtroppo taratura era
perfetta. I due chili mancavano, e
mancavano dal mio corpo! Una
vampata di calore mi invase il corpo, e presi a sudare
copiosamente, mentre il panico mi ghiacciava lo stomaco con dita
d’acciaio. Che diavolo mi stava succedendo? Di certo non era una bella
cosa (mio Dio, non era proprio
no una bella cosa) perdere così tanto
peso in un periodo così... così breve. Cristo, in quattro giorni?!?
Provai assurdamente a risalire sulla bilancia, restando bene immobile e
cercando di essere più “pesante” possibile, ma il quadrante dava il
responso di poco prima. Immutato e angosciante.
Mi lasciai cadere sul divano
del salotto, mentre la testa si riempiva di immagini frenetiche di
ospedale, di strani e sgradevoli esami clinici, di medici che
scuotevano il capo seri e rassegnati. Una perdita di peso così
repentina non era associabile ad un semplice periodo di stress, no di
certo, ma a qualcosa di ben più serio e grave. Qualcosa a cui non avevo
neanche la forza di pensare, tanto mi spaventava. Dovevo precipitarmi
dalla dottoressa, la mattina dopo, liste di autori urgenti e vecchiette
parcheggiate in sala d’attesa che fossero. E non potevo certo parlarne
con nessuno, per il momento, né a Ricky né tantomeno a mia madre (così
apprensiva e spaventata da tutto). Avrei creato solo preoccupazioni
inutili, finché non sapevo bene di cosa si trattava. Scoppiai in un
pianto dirotto, sfinita dagli eventi degli ultimi giorni e terrorizzata
da quello che mi stava capitando, e piansi fino a che non mi si
indolenzirono gli occhi. Fino a che un principio di mal di testa non si
affacciò nel mio cervello esausto. Poi, a poco a poco, mi calmai. Fino
a
che qualcuno di ferrato non mi forniva una diagnosi precisa, piangerci
sopra era inutile. Anzi, peggiorava le cose.
Guardai l’ora, erano
ormai le otto passate. Mi avvicinai nuovamente al telefono e stavolta
composi per intero il numero di telefono che mi ossessionava tanto.
Senza tentennamenti. Il
cuore mi rimbombava nelle tempie. Rimasi in ascolto: il telefono non mi
rimandava nessun suono. Neanche uno squillo a vuoto. La cornetta
accostata al mio orecchio era desolatamente muta. Stavo per riappendere
stupita quando una voce disse:
- Pronto - senza nessun tono interrogativo. Pronto. Punto e
basta.
Restai sorpresa, e non ebbi la prontezza di ribattere subito.
-
Pronto - ripeté la voce, nello stesso modo di prima. Pausa. Silenzio.
Tutto ciò mi faceva sentire a disagio, e i miei battiti rimbombavano
nella cornetta.
- Ah sì... pronto... er... sono Giulia Visconti - risposi inciampando
nelle parole - potrei parlare con... -
- Sono io - Pausa. Silenzio. Che
assurdo modo di parlare al telefono,
pensai.
- Andrea? - non ne ero troppo sicura, il tono della voce che avevo
sentito non mi diceva nulla.
-
Andrea. Come stai, Giulia? - ora la voce sembrò farsi improvvisamente
calda, quel calore che conoscevo e desideravo. C’era qualcosa che
comunque mi metteva in difficoltà, e non riuscivo ad inquadrare bene
cosa. Forse il fatto che non si sentisse alcun suono di nessun genere
nei momenti di pausa di Andrea.
- Scusa se ti telefono a quest’ora -
ripresi - ti ho telefonato per... per (già, perché ti ho telefonato?)
perché sono ancora scossa da quello che è successo a Ugo Maniero, giù
nel magazzino. Non so... avevo solo bisogno di parlare con qualcuno... -
Silenzio.
- Andrea? -
- Il tuo Ricky non è con te? -
Si
ricordava il suo nome. Non aveva detto “il tuo ragazzo” o “non c’è
qualcuno lì con te”, come farebbe chiunque senta un nome una volta sola
durante una chiacchierata.
- No, sono sola. Ricky è... sta... - non
avevo neanche idea di dove fosse il mio ragazzo, dovetti sbirciare sul
planning aperto sul mobile che indicava che era giovedì. Giovedì,
quindi palestra fino alle nove e mezzo. - ...è in palestra... -
Dall’altro
capo del filo non si udiva niente. Nemmeno il rumore del suo respiro.
Ecco cos’era che mi creava tanto disagio, avevo in continuazione
l’impressione che dall’altra parte avessero riappeso.
- Non andresti lasciata sola in momenti come questi... -
- Beh, lui non sa ancora niente e io non l’ho chiam... -
- Io non ti lascerei sola. Io avrei sentito e non ti avrei lasciato
sola -
Cosa
significava “avrei
sentito”?!? Il mio cuore accelerò a quelle parole e
provai nello stesso tempo una sensazione di benessere, come se mi
sentissi protetta. E anche il brutto pensiero sul mio stato di salute
in quel momento era un trascurabile “pensiero di fondo”.
- Lui si
prende molta cura di me... - mi difesi cercando così di ammorbidire
quei discorsi così diretti. Il silenzio tornò tra di noi per
qualche secondo, come un velo, poi la voce riprese:
- E’ bene così, è molto bene. Tu sei una persona che non va trascurata.
Non te lo meriti -
-
Andrea, senti, tu non mi conosci e... - una piccola percentuale di me
stessa era imbarazzata da quella conversazione così “scoperta” (la
percentuale che avrebbe dovuto tagliar corto sdegnata), l’altra invece
era stimolata ed attratta di quella schermaglia. Era un gioco, e volevo
stare al gioco, mi faceva sentire bene, considerata
(corteggiata)
desiderata.
-
Mmh, è vero. Io non ti conosco, anche se con alcune persone non è
importante conoscerle da tanto tempo. In senso cronologico, intendo.
Alcune persone, e tu sei tra queste, sono trasparenti e aperte, e
bastano poche parole, pochi attimi per apprezzarne tutta la
sensibilità. Persone che risplendono -
(Parlami. Parlami
ancora, Andrea, parlami per l’eternità)
- anche se avrei desiderato con tutto me stesso poterti conoscere da
sempre - continuò - mi sarebbe piaciuto incontrare una bimbetta che
saltellava verso la scuola con una cartella sulle spalle. Una bimba con
gli occhi azzurri e le treccine. Perché tu portavi le treccine da
piccola, vero? -
Come al solito, mi prese alla sprovvista. Era
vero, ovviamente, e anche se adesso portavo i capelli tagliati corti,
quasi alla maschietto, da piccola portavo spesso le trecce. Anzi, ne
andavo fiera e non mancava occasione di chiedere a mia madre di
farmele. Ma come diavolo faceva a saperlo lui? A meno che non avesse
bluffato. In effetti almeno il 50% delle bambine della mia età
portavano le trecce, o le codine, alla fine degli anni 70. Sì, doveva
essere così. Ci ha provato e ci ha preso.
- Sì, le portavo - risposi
con noncuranza, come se stessi al gioco di un prestigiatore maldestro.
Lui non fece caso alla freddezza voluta della mia risposta ma cambiò di
nuovo discorso. Spiazzandomi nuovamente.
- Giulia, stai male? -
(Che gli dico? Che gli dico? Che
gli dico?)
-
Perché me lo chiedi? - non potevo certo raccontargli dei chili persi
(l’angoscia mi salì a stringere la gola), non mi andava che avertisse
la mia preoccupazione, comportandosi di conseguenza.
Compatendomi.
- Sensazioni - rispose lui, e la risposta era
asciutta. Impersonale. Dov’è
il calore del tuo sorriso, Andrea, pensai,
dove sono i tuoi occhi così dolci? Non volevo dirgli
troppo ma avevo
anche voglia, bisogno di parlare con lui, di sentirmi protetta.
Rassicurata. E lui riusciva a farmi sentire tale in maniera così
sorprendente.
- Non lo so - continuai, cercando le parole giuste -
Non lo so. Di certo quello che è successo a Maniero mi ha sconvolta. E
poi anche Sara, gli è presa una febbre strana. Violenta. In più ha
perso la voce - ridacchiai - e questo per Sara è veramente un evento
tragico... -
- Sara chiedeva in giro notizie su di me - quel suo
strano modo di parlare rendeva la sua risposta pesante come un’accusa.
Non aveva detto “lo sai
che la tua amica chiedeva di me in giro?”,
magari con tono leggero, al quale avrei potuto rispondere con una
battuta sdrammatizzante. (Ah
sì? Magari è interessata a te. Ah ah).
Invece così sembrava quasi un interrogatorio.
- Beh... vedi, Sara
chiede in giro di chiunque. Basta che uno sia nuovo e lei si mette
subito a ficcare il naso su chi è e cosa fa e da dove... - mentre
parlavo vedevo nella mia mente una buffa immagine di Willie il Coyote
che cercava di arrampicarsi su una parete di specchi. E poi perché
dovevo giustificare la mia amica da una cosa così banale?!?
- Capisco. Ma non hai risposto alla mia domanda -
Quale
domanda?, pensai un po’ innervosita. Andrea, tu non fai domande, tu
spunti sentenze. Nel tuo vocabolario non esistono i punti interrogativi.
- A proposito di che? - chiesi.
- Su cosa c’è che non va in te -
Soffiai nel telefono. Non mollava la presa, a quanto pare. Speravo io
che si fosse accontentato delle divagazioni...
-
Non lo so. E’ un periodaccio, penso. Mi sento stanca, ma forse è il
caldo, e la voglia di vacanze. Stupidaggini, comunque, qualche mal di
testa (e perdita di
forza, e sangue dal naso, e vista annebbiata. E due
chili andati chissà dove) e un po’ di fiacchezza. Farò
comunque un
salto a trovare dal medico, prima o poi... -
(domattina appena schizzo fuori dal letto)
-
Non hai niente - ribatté lui, con la solita sicurezza, come se
avesse esaminato tutte le mie analisi e i responsi degli esami futuri -
vedrai che non è niente... -
In quel momento il campanello trillò
due volte. Io osservai il mio orologio (per la prima volta da quando
avevo formato il numero) e restai come al solito di sasso. Il tempo
volava, quando parlavo con Andrea, anche se non me ne accorgevo. Ricky
era già qui, e quindi erano ormai le dieci. Spero che qualcuno non
abbia avuto esigenza di telefonarmi, pensai a disagio.
- Devo riattaccare - dissi - hanno suonato ed è... -
-
Già. E’ arrivato Ricky - ribatte lui. Come diavolo fai a dirlo con
sicurezza, Andrea? Non ti ho detto che veniva qui. O stai ancora
bluffando e ci ha preso ancora una volta?
- Sì, è lui - confermai - ciao, a domani -
- Ciao, Giulia. Stai bene. E grazie -
Un
clic dall’altro capo mi fece capire che aveva riagganciato. Grazie di
cosa?,
pensai. Poi Ricky diede un’altra scampanellata (e un filo di
irritazione mi assalì) e io corsi verso il citofono, per farlo salire.
E solo allora mi accorsi che il getto della doccia, da quasi due
ore, era aperto e scrosciante.
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Capitolo 5 *** Visite mediche - La sfida ***
CAP. 13
- Non è possibile -
Dall’altro
lato della scrivania la dottoressa Simeoni mi guardava da sotto la
massa di capelli crespi e folti. Io, sul ciglio di una sedia di fronte
a lei, mi torcevo le mani nervosa. Ero lì da ben prima dell’orario di
ricevimento visite. Anzi, a dire il vero, quando ero arrivata era
molto, molto presto ed avevo atteso passeggiando impaziente avanti e
indietro per il cortiletto deserto. Dopo una buona mezz’ora si erano
fatti vivi una vecchietta con un dimesso abito a fiori e un tipo di
mezza età, stringendo al petto una busta giallina dell’Ospedale
Civile come fosse una preziosissima mappa del tesoro. Mentre attendevo
che l’ora di visita si avvicinasse, tornai con la memoria alla sera
precedente, quando Ricky era entrato in casa.
- Sono qui, in bagno!
- avevo esclamato ricambiando il suo saluto. Fortunatamente avevo
lasciato il foro di scarico privo di tappo, nel box doccia, altrimenti
a quel punto ci saremmo ritrovati con l’acqua alle caviglie per tutto
l’appartamento. Lui si era affacciato alla porta del bagno,
osservandomi curioso mentre tamponavo le chiazze di bagnato lasciate
dagli
spruzzi della doccia sul pavimento.
- Ehi, è tutto bagnato ! Che è successo?!? -
L‘occhiataccia che gli lanciai lo convinse a non approfondire
l’argomento. Svicolò in cucina, sicuramente per bersi qualcosa di
fresco. Sempre che non avesse anche appetito. Io finii di asciugare,
mentre la schiena piegata mandava lampi di dolore e un mal di testa
ormai conosciuto veniva a farmi visita, considerndo con
occhio torvo che Ricky, da insensibile qual’era, non aveva per niente
chiesto come stavo. Si era solo preoccupato di sottolineare che il
bagno del
pavimento era un lago. Subito dopo mi pentii di quella considerazione
così sgarbata, in fondo era appena arrivato ed era normale che balzasse
all’occhio subito quell’inondazione in miniatura. Non dovevo fare
paragoni di nessun genere (paragoni
con chi, di grazia?). Lo raggiunsi
in cucina e notai subito (quella sera la mia capacità di osservazione,
e di irritazione, era lucida e sfolgorante) che, come faceva spesso,
aveva aperto un cartone nuovo del latte, quando io sapevo che ce n’era
almeno un quarto in quello già aperto nello sportello del frigo. In
più, era intento ad affettare del pane direttamente sulla tavola. Senza
l’ausilio di un pratico panierino parcheggiato sulla credenza,
producendo così una distesa di briciole. Mi guardò sorridendo (non è lo
stesso sorriso, non è lo stesso sorriso) ma tornò subito
serio non
appena incontrò il mio sguardo privo di ogni cordialità.
Anzi la sua espressione si fece prontamente, e comicamente, contrita
nel decifrare il messaggio ben poco amichevole che i miei occhi
corrucciati stavano inviando.
- So che sto facendo qualcosa che non
ti va a genio... - esclamò misurando le parole neanche fossero casse di
nitroglicerina. Era così... prudente da risultare quasi commovente, e
in
un altro momento, in un qualsiasi
altro momento, l’avrei stretto forte
forte stemperando la tensione in una risata. Ma non quella sera -
...c'entrano forse le briciole??! -
Io aprii lo sportello del frigo con un’energia da far tintinnare le
bottiglie di birra e i barattoli di sottaceti:
- Le briciole. E hai aperto un cartone nuovo - indicai il latte - come
al solito... -
-
Se è come al solito, dovresti abituartici. E’... è più forte di me, lo
sai, forse dovrei andare in analisi per capirne i motivi reconditi... -
La
sua battuta in un altro momento mi avrebbe strappato un ulteriore
sorriso di divertimento. E non riuscivo a capire perché ora invece non
faceva che accumulare candelotti di dinamite sotto la diga della mia
tensione:
- Non fare lo spiritoso, Ricky - era strano, non è che mi
sentissi particolarmente irritata o arrabbiata, ma solo come se dovessi
recitarne la parte, quasi stessi provando una scena. Una
parte di me
osservava il comportamento del resto di me e non riusciva a capirne i
motivi - stasera non è serata. Ho mal di testa, ed è stata una
giornataccia... -
- Fa Faiia Uifa ti ha faffo le faranoie? -
Aspettai
che mandasse giù il boccone di panino e che
ripetesse, in maniera più intelleggibile, la domanda. Lui sorrise,
deglutendo rumorosamente:
- Scusa. Dicevo, la Maria Luisa ti ha fatto le paranoie? -
- No, grazie a Dio almeno quella non mi ha rotto le scatole. E’
successo di peggio, però... -
Lo
misi al corrente del malessere accorso a Ugo Maniero mentre lui mi
fissava con un’espressione che mutava rapidamente da divertito a
incuriosito a sbalordito. Si era sdraiato sul divano e stringeva il
panino bloccato a mezz’aria, mentre le briciole gli punteggiavano la
t-shirt colorata. Togli
quei piedi dal tavolino, sibilai dentro di me,
chiedendomi confusa subito dopo il perché di quel velenoso imperativo
mentale. Considerato che non me n’era mai fregato niente, di piedi sui
tavolini di casa. Anzi, spesso e volentieri ci stazionavano anche
i miei, per serate intere. E invece adesso non sembrava altro che
cercassi un pretesto per litigare. Lui continuò a farmi qualche domanda
curiosa su quello che era successo, poi si tirò su a sedere:
- Sei
nervosa? - mi chiese, e il suo tono era sereno e dolce. Ma il mio mal
di testa lo mediava attraverso una cappa dolorosa, al punto di
renderlo quasi
fastidioso. Calmati,
Giulia, calmati.
- Perché me lo chiedi? - ribattei.
-
Perché ho bisogno di parlarti. E ho bisogno che tu possa essere
disponibile a discutere, senza che niente ti irriti o ti faccia saltare
la mosca al naso...-
- A me non salta mai la mosca al naso - risposi. Lui fece un gesto che
significava “insomma” e continuò:
-
Il cartone del latte ti ha fatto saltare la mosca al naso. E le
briciole. E probabilmente i piedi sul tavolino, hai fatto una faccia...-
Io
mi sentivo come una scolaretta alla quale venga scoperta la foto
dell'attore belloccio incollata sul diario, e avvertii un crampo di
tensione attorcigliarmi lo stomaco. Sapevo di cosa voleva parlare, e
speravo nello stesso tempo che non fosse così. Avrei voluto sedermi in
poltrona di fronte a lui, e tentare di ascoltarlo con disinvoltura, ma
la tensione mi faceva passeggiare nervosamente su e giù per la stanza,
con gli occhi di Ricky che mi seguivano come fosse spettatore di un
incontro di tennis.
- Di che si tratta - Così. Punto. Però, quanto
espansiva ero. Sembrava che avessi frequentato un corso di
conversazione telefonica tenuto da
(Andrea)
- Sai bene di cosa si
tratta - rispose un po’ sfiduciato Ricky. La mia agitazione, e le mie
risposte secche, gli preannunciavano già una sconfitta a tavolino - la
casa, in centro. Mio padre continua a rompermi le balle su quando
prenotiamo gli interventi di ristrutturazione, e in parte ha ragione.
Sai benissimo che gli operai non sono lì ad aspettare i comodi nostri,
e poi va a finire che ci fanno morire prima che trovino del tempo per
noi -
Mi strofinai una mano sugli occhi, che mi dolevano un po’.
Già, la casa la chiamava lui, anche se era un palazzetto del ‘700 che
doveva valere un occhio della testa, le cui (molte) finestre si
aprivano su uno splendido scorcio della Basilica Palladiana. “La casa”,
neanche fosse un monolocale in periferia (magari in zona Villaggio del
Sole). Io ero perfettamente conscia, e anche lui lo era, che se avessi
accettato di dare il via ai lavori che c’erano da fare sarebbe stato
come dare il mio consenso a far andare avanti le cose. E le cose
avrebbero significato alla fine preparativi, e annunci, e liste nozze,
e fiori d’arancio. E allora, qual’era il problema? Se ero con lui da
ormai due anni lo facevo perché, prima o poi, si arrivasse a quello.
Penso. E non per prendersi in giro e buttare via il tempo. Giusto?
(giusto?,
ripeté un’eco nella mia testa). Prima o poi sarebbe stato il
momento di smetterla di tergiversare e di dare una risposta definitiva.
Mi vidi in quella grande casa, sicuramente arredata con eleganza,
certamente calda ed accogliente, anche se la ritenevo troppo grande e
forse era questa già una cosa che non mi
(non è la casa, e lo
sai, non è la casa)
E
poi ebbi dentro di me l’immagine di me stessa stesa in un grande letto,
con Ricky addormentato a fianco, che fissavo il soffitto. Con la
consapevolezza (l’assurda
consapevolezza) che non avrei più potuto
alzare il telefono e chiamare Andrea. Avvertivo tutta la mia angoscia
di sentirmi bloccata lì, paralizzata (prigioniera) senza avere più
(PIU’) la libertà di uscire senza dover dire a nessuno dove stavo
andando. E una mano invisibile con dita gelide salì a stringermi la
gola e annaspai mentre il respiro mancava, tanto che Ricky,
preoccupato, si alzò di scatto per sorreggermi.
- Ehi, tutto bene? - esclamò premuroso - ti senti male? -
Io
feci cenno che non era niente con la mano, respirando profondamente, e
pensai che doveva saperlo che non stavo bene, senza dovermelo chiedere.
Che avrebbe dovuto sentire (“io
avrei sentito”) che non stavo bene. La
rabbia, inaspettata tanto da sbalordirmi, esplose violenta. Lo
allontanai con una manata che assomigliava molto ad una sberla e mi
girai verso di lui:
- TI HO GIA’ DETTO CHE NON MI PIACE QUELLA CASA! - urlai, mentre non
riuscivo a capacitarmi di quella mia reazione
così assurda e fuori luogo. Stavo impazzendo, probabilmente, forse la
malattia che mi aveva succhiato i due chili era annidata nel mio
cervello e stava dando una festa - e tu che continui a parlarne
cercando di far andare avanti le cose sotto il mio naso! Non ti ho mai
chiesto di comperarla né detto che desideravo andarci ad abitare. Ti
avevo
solo chiesto un po’ di tempo per farmici riflettere con calma, su noi
due, sulla cosa così importante che volevamo fare, non sulla casa, e
invece tu come al solito ci sei continuato a tornarci sopra a
intervalli regolari!!! -
Lo guardai per un attimo e mi si strinse
il cuore nel vederlo così... così stravolto da quella mia aggressiva
reazione, ma la testa mi doleva feroce, e mi sentito tutta ovattata,
confusa, e l’angoscia di vedermi prigioniera in una vita che non mi
convinceva e che non potevo più modificare mi restava impigliata in
mente come un amo acuminato. Mi lasciai crollare sulla poltrona:
- Va via, per favore, Ricky - singhiozzai tra le lacrime - adesso
lasciami in pace, non ho voglia di pensare a niente... -
Rimasi
lì, con la testa appoggiata nell’incavo del braccio, ad udire i suoi
passi che si allontanavano e la porta che si chiudeva. Non aveva
neanche provato ad aggiungere qualcosa, magari un tentativo di
spiegazione che mi avrebbe fatto riesplodere, ma mi lasciò sola, come
gli avevo chiesto. E forse anche per questo, in fondo alla mia anima,
al di là del dolore e di quella pazzia, lo amavo così tanto...
-
Probabilmente ti sei sbagliata - la voce della dottoressa Simeoni mi
riportò alla realtà, alla penombra rinfrescante del suo studio, allo
scaffale dietro di lei zeppo di libri di carattere medico - è un po’
difficile perdere due chili in così breve tempo, anche nei casi più
seri, e non mi pare proprio che tu ti debba preoccupare. Non c’è stato
il minimo episodio, e queste cose non capitano quasi mai come un
fulmine a ciel sereno... -
Io mi agitai sulla sedia. Non c’era cosa
peggiore per me che sentirmi mettere in dubbio. Mi faceva imbestialire,
specie se ero sicura di quello che dicevo. Ricky sostiene che è
probabilmente legato a qualche torto subito nell’adolescenza.
Stupidaggini, non mi va e basta.
- Sì, lo so che è difficile da
credere, ma come le ripeto mi sono pesata domenica mattina, e ieri
sera... beh, gliel’ho detto... -
Lei mi guardò con quel suo sguardo
calmo e sereno (così calmo e sereno che dava quasi i nervi), poi si
alzò e venne a porsi dietro di me:
- Ripetimi gli altri sintomi che
dici di accus... scusa, che accusi - disse mentre mi tastava con la
punta delle dita le ghiandole del collo. Io sospirai:
- E’ da circa
un paio di settimane che mi sento stanca. Faccio fatica a fare le cose
più banali, salire le scale, e una volta addirittura ad afferrare la
cornetta del telefono. E poi ho dei mal di testa ricorrenti, e mi si
appanna la vista... ah, e sangue dal naso... -
- Stenditi sul lettino -
Mi
visitò scrupolosamente, pigiando e picchiettando come sanno fare i
medici, e facendomi ogni tanto qualche domanda su questo o quel
sintomo. Mi fece cenno poi di rivestirmi, mentre tornava a sedersi
dietro la scrivania:
- La vita come va? - mi chiese guardandomi al di sopra gli occhiali a
mezzaluna. Io mi bloccai a metà di un bottone:
- In che senso? -
- In senso generale. Come va il lavoro, e con Ricky. Come stai tu,
insomma... -
Mi lasciai cadere sulla sedia, scuotendo il capo:
-
Non vorrà mica venirmi a dire che tutto questo può dipendere da qualche
disagio...diciamo... a livello psicologico. Anche la perdita di peso? -
Lei giocherellò con il beccuccio della biro:
-
Non voglio dirti nulla. Certo è che in alcuni casi, casi un po’
complessi... subdoli... ci si trova di fronte ad una sintomatologia,
anche importante, che scava scava non ha nessuna base fisiologica.
Nessuna terribile malattia, se può farti sentire meglio... -
Come va
in genere, già, rimuginai. Va a rotoli. E soprattutto va a
ritmi
forsennati, a colpi di scena che sfiancherebbero chiunque. Come la
prosecuzione della sera precedente, che mi aveva visto riformare il
numero di Andrea neanche un dieci secondi dopo che Ricky era uscito
lasciandomi stremata e lacrimante sulla poltrona. “Probabilmente non ha
ancora messo in moto la macchina”, stava considerando una
minuscola
parte della mia mente mentre pigiavo l’ultimo 6 sulla tastiera. Ancora
una volta non si udì nessuno squillo di chiamata. Il silenzio al di là
del filo del telefono.
- P-pronto? - mi decisi a dire.
- Pronto - la stessa voce, lo stesso tono.
- Sono ancora io, Giulia... scusa se ti...-
- E’ andato via? - come prima, una domanda secca e diretta.
-
Sì. Abbiamo... discusso, cioè, abbiamo litigato - sbuffai nella
cornetta - più che altro io ho litigato. Ero nervosa... sono nervosa,
non so che mi è preso, credo anzi di essermi comportata da stronza... -
-
Non si possono forzare le cose - la sua voce era calma, quasi ipnotica.
Potevo avvertirne il calore che si irradiava dalla cornetta e mitigava,
anestetizzava il mio mal di testa - se non è tempo che le cose
succedano, entrano in contrasto con la vita. E tutto si fa più oscuro,
e difficile... -
Era pazzesco. Sembrava sapere sempre cosa stessi
provando, cosa mi stesse succedendo. Mi faceva bene parlare con lui, a
lui avrei raccontato tutto, di come stavo, a cosa pensavo, cosa
provavo. Presi il coraggio a due mani e profferii in un soffio:
- Voglio vederti -
- Adesso? - sembrava stranamente preso in contropiede.
- Ne ho bisogno. Mi sento così...a terra... -
Il silenzio prese il posto delle sue parole, per alcuni secondi che mi
sembrarono eterni.
- Pronto? - dovetti ripetere, quasi temendo ancora una volta che avesse
riappeso.
-
Va bene - sembrava quasi una concessione strappata a forza, ma non
m’interessava, avevo bisogno di vederlo anche se l’avevo costretto -
dove vuoi che... -
- Vengo io - dissi. Non avevo voglia di restare
in casa, con l’ansia che non venisse. Volevo schizzare fuori di lì e
sfrecciare nella sera estiva verso di lui - ho il tuo indirizzo. So
dove abiti. Aspettami, arrivo in un attimo -
Non so perché, ma
riappesi subito dopo aver detto quelle parole. Senza salutare, senza
aspettare una sua replica, quasi temessi che potesse cambiare idea. Mi
misi addosso qualcosa, senza badarci, probabilmente le stesse cose che
mi ero tolta quando ero arrivata a casa, e volai giù per le scale a
rotta di collo. In strada alcune persone stavano chiacchierando sedute
su
delle sedie portate fuori da casa. Ridevano e si gustavano delle enormi
coppe gelato. E naturalmente seguirono con sguardo stupito la mia
partenza in auto, dato che ci mancò poco che facessi fischiare le ruote.
Non
ricordo nulla della strada che percorsi, se c’era traffico, se avevo
corso, niente. Mi ritrovai nel quartiere del Villaggio del Sole a
cercare la sua via e, dopo averla trovata, il suo numero civico. Era
uno dei tanti palazzoni-formicai che gli anni ‘60 avevano lasciato come
squallida eredità architettonica. L’intonaco giallino si scrostava
tristemente e le finestre spalancate in cerca di un refolo di brezza
diffondevano suoni e chiarori di cento televisori accesi. Scesi dalla
macchina e mi avvicinai al portone, scrutando i campanelli. Una torma
di ragazzini a torso nudo sciamarono vocianti giù dalle scale,
disperdendosi nei giardinetti rachitici alle mie spalle. Le
targhette dei campanelli erano un campionario di sigle, vecchie
etichette Dymo sbiadite, cognomi scritti rozzamente. Su uno dei
pulsanti in alto era appiccicato un adesivo rettangolare che diceva:
Zipoli A. Era proprio lui, anche se a dire il vero non mi ero mai posta
il problema se vivesse da solo o con i suoi (se non addirittura con una
moglie e dei figli, perché no?). A meno che il padre non avesse anche
lui l’iniziale del nome che cominciava per A. Ma qualcosa comunque mi
diceva che avrei trovato solo lui. Forse desideravo trovare
solo lui.
Premetti il campanello. Dopo alcuni secondi il citofono mandò un lieve
ronzio.
- Sì - come al telefono, anche qui il modo di parlare era identico.
- Sono io - dissi, poi, per sicurezza, aggiunsi - sono Giulia... -
Clac.
L’apriporta scattò, anche se non serviva, visto che la porta era
spalancata. Dalla posizione del campanello dedussi che Andrea doveva
abitare all’ultimo piano, e presi a salire la corta scala che portava
al piano rialzato dove si trovava l’ascensore. Al quinto o sesto
gradino il cuore prese ad accelerare, come un vecchio amico conosciuto,
e allungai il passo. Nello stretto cubicolo dell’ascensore distolsi lo
sguardo con una smorfia dall’immagine che lo specchio opaco mi
rimandava: alla luce del neon tremolante la mia carnagione era di
un’inquietante biancore cadaverico. Mmh, come sono in forma,
considerai
ironicamente mentre l’ascensore traballante mi portava verso l’alto.
Sulla porta della cabina qualcuno aveva scritto con un grosso
pennarello nero “Sandra ciucia i cassi”. Letteralmente, errori di
grammatica compresi. Sul pianerottolo dell’ultimo piano si aprivano due
porte marroni, oltre a quella dell’ascensore, ma non si vedeva nessuno.
Mi accorsi subito che una delle due porte era solamente accostata e un
filo di luce vi proveniva. Bussai leggermente, infilando
la testa dentro:
- Permesso? Andrea? -
L’appartamento, deserto e silenzioso, era formato da un’ampia
sala
sormontata da un soppalco con delle travi a vista, al quale si accedeva
da una scala. L’arredamento, decisamente spartano, era formato da un
grande divano, un tavolo dimesso e incolore e una piccola libreria che
seguiva l’inclinazione del sottoscala. Tutto l’insieme aveva un aspetto
impersonale, freddo, e la mancanza delle tende e le pareti spoglie,
prive di quadri, concorrevano ad aumentare questa impressione. La
temperatura stessa della stanza sembrava notevolmente più fresca di
quello che ci si sarebbe aspettato da un locale praticamente sotto il
tetto, a fine di giugno. Girai intorno lo sguardo per vedere se c’era
in giro un condizionatore d’aria in funzione, ma non ne scoprii
traccia. E non c’era traccia neanche di Andrea, in quel momento.
-
Andrea? - chiamai di nuovo, massaggiandomi le braccia che si erano
coperte di pelle di oca provocata da quel contrasto di temperatura. Lui
apparve da una porta sulla mia destra, facendomi trasalire. La stanza
dalla quale era uscito era stata silenziosa fino ad un attimo prima, e
la luce era spenta. Tentai di chiedermi che diavolo ci faceva là dentro
ma poi incontrai il suo sguardo, e il suo sorriso, e non me ne fregò
più tanto, né del mio dubbio né di tutto il resto. Era fermo a
fissarmi, le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni, e sembrava...
gongolare
di felicità. E questa sua espressione si rifletteva su di me
investendomi con tutto il calore di un piccolo sole. Se in qualche modo
si può fissare in un immagine il concetto di benessere psicofisico, io
credo che quello fosse l’esempio. Stavo bene, splendidamente
bene, e
tutti i malesseri, le lacrime, le tensioni erano un ricordo lontano e
sbiadito. Lui, senza dire nulla, tese una mano verso di me. In quel
momento credo che avrebbe potuto farmi fare qualsiasi cosa. Molto
probabilmente anelavo
che succedesse qualsiasi cosa. Sono
uscita senza
neanche farmi una doccia, pensai debolmente, ma in realtà
non sembrava
importante. Mi sentivo pulita, dentro e fuori, mi sembrava di
risplendere. Andrea prese la mia mano se la avvicinò alle labbra,
deponendovi un bacio leggero. Un brivido mi corse lungo tutta la
schiena, inaspettato e piacevole.
- Come stai? - mi chiese
continuando a rimanere appoggiato allo stipite della porta. Io mi diedi
un’altra occhiata in giro, chiedendomi come poteva una persona tanto
particolare vivere in un ambiente così... così asettico. Quasi finto.
Come se fosse il set di una (brutta) telenovela.
- Bene - risposi
ancora distratta dal brivido di poco prima - cioè, abbastanza. Sono
stata male, malesseri vari, ma adesso... non so... sto bene. Davvero -
Lui sorrise:
- Beh, è bello che adesso stai bene. Ed è così bello anche vederti -
Io mormorai qualcosa di imbarazzato e confuso. Lui rincarò la dose:
- Giulia, mi piacerebbe vederti spesso -
-
Beh, in biblioteca ci vediamo, mi pare - ribattei cercando le parole
per un giusto compromesso tra la cordialità e il non voler apparire
scortese - e stasera sono venuta qui... -
Mi sentivo come una barca
alla quale una marea lenta ma inesorabile sfila via tutte le cime che
la tengono ormeggiata, e tentavo disperatamente di mantenere almeno un
legame con la realtà, con la mia vita, con il mio stato attuale
(con Ricky)
- Già. Perché sei venuta qui, Giulia? -
I
suoi occhi erano fissi su di me, e sembravano accarezzarmi. Io strinsi
le labbra, quasi imbronciata, come faccio sempre quando una situazione
che non mi va diventa comunque inevitabile. Eh già, pensai, se vai a
ficcarti nella tana del lupo prima o poi devi farci i conti.
Qui non ci
sono Marie Luise o telefoni che squillano o Sare che entrano in ufficio
che possono trarti d’impaccio. Qui o accetti di giocare o lasci perdere
(non ho nessuna voglia
di andarmene)
Passeggiai nervosamente nella stanza, frugandomi nella testa alla
ricerca di parole che non trovavo.
-
Non lo so, Andrea, di preciso non lo so - risposi titubante - stavo
male, e l’unica persona con cui avevo bisogno di parlare eri (perché è
così difficile da ammettere?) eri tu. Forse perché sei
sempre così
gentile, e disponibile, e quando sono con te... - non proseguii. Mi
sembrava troppo grande la frase che stavo per pronunciare. Anche se,
volente o nolente, era così. Quello strano, sconosciuto ragazzo
sembrava avere in qualche modo la capacità di farmi star bene. E non
era poco. Proprio per niente.
- Io posso farti star bene - disse - io posso farti stare bene sempre,
se tu lo vuoi -
Non
c’era la minima traccia di supponenza nella sua voce, anche se quello
che aveva detto era di una spacconeria totale. Ehi piccola, io posso
risolvere tutti i tuoi problemi... se sarai carina con me. Sembrava
così naturale, quello che diceva, e sembrava anche crederci con tutto
se stesso. Continuò:
- E credo che tu te ne sia accorta. Solo che,
me ne rendo conto, è difficile tutto ad un tratto avere il coraggio di
etichettare nel modo giusto quello che ti sta succedendo. Anche se è
una cosa così bella, e normale. La resistenza della tua testa a quello
che sente il tuo cuore crea in te un conflitto straziante. E allora si
cercano dei palliativi che rimettano a posto la tua coscienza, e ci si
nasconde dietro a “...sei così gentile” o “...è così piacevole la
conversazione con te”... - le sue parole mi mettevano a disagio, mi
agitavano, ma non perché mi sentissi offesa, ma perché in fondo alla
mia anima temevo che rappresentassero la verità che non volevo andare a
scoprire - ...vedi, è questa la differenza. Tu ti trinceri dietro al
tuo “non so cosa mi succede”, io invece so benissimo cosa stai causando
in me. E se vuoi te lo dico... -
- No, Andrea, ti prego, non lo
voglio sapere - alzai una mano quasi a farmi scudo dalle sue parole che
mi entravano dentro - è... è assurdo, è troppo poco, non ha senso... e
poi, non ci conosciamo ed io... io penso che tra un po’ sposerò
Ricky... - pronunciai il suo nome sottolineandolo con la voce, quasi a
voler materializzare la sua presenza tra noi. Ma la sua presenza, se si
materializzò, restò comunque evanescente e priva di energia.
- Tu
vuoi sposarlo? - incalzò come un mastino che non dà tregua - Rispondi
sinceramente. Non a me, ma a te stessa. Io la risposta la conosco già -
Voltai
la testa verso la finestra spalancata da cui, stranamente, non
proveniva nessun suono esterno. La temperatura nell’appartamento
sembrava essersi ulteriormente abbassata, anche se non si muoveva un
filo d’aria, e avvertivo i capezzoli ritti puntarmi sfrontati contro il
tessuto della maglietta leggera. Di sicuro si dovevano anche notare, ma
Andrea non aveva mai distolto lo sguardo dal mio viso. “E che è, non ti
piaccio?”, pensai assurdamente. Mi sentivo come un animale
in
trappola, senza vie d’uscita, e il mio tentativo di restare con i piedi
per terra (sono Giulia Visconti, ho venticinque anni, lavoro come
archivista alla biblioteca pubblica, ho due sorelle e mio padre e mia
madre, un ragazzo di nome Ricky con cui sto mettendo su casa, e mi
ritrovo in un appartamento anonimo di un quartiere anonimo, a cedere
sotto la corte serrata di uno sconosciuto che ho conosciuto una
manciata di giorni fa) stava naufragando inesorabilmente. La mia mente,
la mia bocca, ogni cellula del mio corpo bramava di ammettere che non
volevo sposare Ricky, che la mia vita andava rovesciata e fatta a
pezzi, e che il mio unico desiderio era di stare con quello sconosciuto
in eterno.
Ma un lembo della Giulia di sempre lottava con le unghie
e con i denti affinché quell’ammissione non venisse mai pronunciata,
perché se lo avessi fatto sarei stata perduta. Avrei permesso a
quell’incantesimo di ammaliarmi ed imprigionarmi. Sarei stata sua.
Totalmente, definitivamente sua. E non avrei più potuto tornare
indietro.
- Ho bisogno del bagno - sussurrai. Lui mi fissò ancora
per alcuni interminabili secondi, poi indicò con la mano la scala che
portava al soppalco:
- E’ su di sopra - indicò cordialmente - la porta in fondo al
soppalco. Fai con comodo -
Salii
con gambe che mi sembravano di piombo, sparendo alla vista del
ragazzo, mentre la scala in legno e poi il soppalco cigolavano
allegramente sotto il peso dei miei passi. “Cavoli, che casino fa ‘sto
legno”, considerai. Andrea non si mosse, a quanto mi
sembrò, e restò in
silenzio appoggiato allo stipite. Entrai nel bagno, mi chiusi la porta
alle spalle e accesi il neon sopra al piccolo specchio sul lavandino.
La luce fluorescente sfarfallava un po’, facendomi male agli occhi. La
mia faccia era desolatamente smunta e pallida, e mi sciacquai il viso a
lungo, poi alzai gli occhi sulla mensolina e lo vidi: era un piccolo
origami in carta azzurrina, e raffigurava due minuscole figure umane
che si tenevano per mano. Come sempre era bella e delicata da togliere
il fiato, e non assomigliava affatto a quelle rigide sculture in carta
che fino ad allora avevo visto come esempi di quella tecnica, magari in
qualche articolo su una rivista femminile. Le creazioni di Andrea
avevano una grazia ed una spontaneità straordinarie, sembravano quasi
vive. La fissai a lungo come ipnotizzata, poi girai lo sguardo intorno:
la finestra del bagno era spalancata, e dava sulla via dove avevo
parcheggiato l’auto. Mi sporsi e mi sentii letteralmente mancare il
fiato, per due motivi: primo, perché non appena misi la testa fuori
dalla finestra l’afa della notte estiva (la normale afa della
notte
estiva) si fece viva e soffocante. E secondo perché nella via
sottostante, nei poggioli del palazzo, nei giardinetti sottostanti non
c’era anima viva. In lontananza, il semaforo all’incrocio con la
circonvallazione occhieggiava ritmicamente sul giallo, ma per tutto il
tempo in cui guardai fuori nessuna auto transitò sfrecciando. Nessuna.
Alle dieci e trenta di una sera d’estate?!? Subito dopo mi resi conto
anche che, oltre a qualsiasi presenza umana (come minimo dovrebbero
esserci un po’ di ragazzini che giocano a pallone o vanno a caccia di
lucciole tra i cespugli, e qualche anziano a godersi il fresco sulle
panchine sotto gli alberi, e qualcuno fuori da un balcone, a fumare una
sigaretta) non si udiva alcun suono. La città, stesa con le sue luci
fioche sotto di me, era addormentata. Muta. Nessun suono di televisione
usciva dalle finestre spalancate del palazzone gemello che si ergeva
davanti a dov’ero io, a differenza di quando avevo parcheggiato l’auto
al mio arrivo. Un brivido mi corse lungo la schiena, decisamente
diverso da quello provato quando Andrea mi aveva baciato la punta delle
dita. Dove diavolo era finita tutta la gente?
Improvvisamente due colpi secchi, ma quasi impercettibili, furono
bussati sulla porta del bagno, facendomi quasi urlare.
- Giulia? - la voce di Andrea al di là dell’uscio - tutto bene? Hai
bisogno di qualcosa? -
Era
salito fino alla porta del bagno senza strappare il minimo cigolìo al
legno delle scale, e sì che pesava decisamente più di me (soprattutto
dopo la misteriosa dieta degli ultimi tempi), ed ora era lì fuori che
mi aspettava. Aprii la porta, uno spiraglio, e lui mi sorrise.
-
Tutto ok? - ripeté più piano. Io scivolai fuori, passandogli accanto.
Il suo profumo mi riempì le narici, che si dischiusero come petali alla
prima pioggia di primavera, e mi prese una voglia insostenibile di lui.
Mi bloccai. Eravamo a non più di cinque centimetri l’uno dall’altro, e
mi tuffai nel mare malinconico dei suoi occhi. Il cuore prese a
battermi un po’ più forte, ma non più veloce, solo dei lenti e decisi
battiti a scandire quello che avveniva. Le sue labbra erano leggermente
dischiuse, e il suo respiro sapeva vagamente di menta e di spezie.
Alzai lentamente una mano, arpionandolo con due dita infilate nella
cinta dei pantaloni. Lui emise un debole sospiro, mentre appoggiava una
mano, dal tepore stravolgente, sul mio fianco. Mosse il pollice verso
l’alto, quasi casualmente, che si infilò sotto il bordo della
maglietta, a sfiorarmi la pelle nuda. Un leggero brivido di piacere mi
salì verso il petto, e un calore profondo e sornione invase il mio
ventre. Strinsi le dita della mano che lo tenevano bloccato a me,
infilandole un pò nei pantaloni, mentre una smorfia quasi di ferocia mi
passava sul viso. In quel momento sì che mi sentivo come una bestia
feroce che anelava di addentare e lacerare e assaporare amore e carne e
sangue. Lui sorrise nel vedere quella reazione e la sua faccia era
quella di un bambino che scartava i regali di Natale. Una voce nella
mia mente passò, come un’ala nera, sussurrando “Giulia, attenta a
quello che fai...” ma la scacciai, e svanì come una bolla
di sapone.
L’ultima cosa che volevo, l’ultima cosa che avrei potuto fare era
fermarmi, desideravo al contrario perdermi, lasciarmi andare. Fare un
passo e cadere nell’abisso, qualunque cosa avesse comportato. Una bassa
risata golosa mi salì dal fondo della gola, decisamente simile ad un
ruggito, e infilai anche l’altra mano nella cintola di lui, tendendo le
dita a carezzare qualcosa di tondo e di duro e di bollente. Andrea
emise un gemito attirandomi a sé e le nostre labbra, i nostri denti
cozzarono con violenza, e divorammo le nostre lingue guizzanti. Le mani
di lui s’infilarono sotto la mia camicetta, sfiorando la mia schiena
tesa e madida di sudore, mentre strofinavo il mio ventre contro il suo.
- Resta con me... - proferì lui ansante in una breve pausa nella guerra
tra le nostre bocche - ...per sempre, Giulia... -
Io
sfiorai con una lingua saettante il suo collo, poi gli morsi il lobo
dell’orecchio. Dovevo trattenermi a forza, per non strappargli via dei
brani di pelle, tanta era la mia aggressività in quel momento. Lui guaì
di piacere e dolore:
- Non adesso - sussurrai dura - ne parliamo
dopo, adesso datti da fare... - e mi ripersi nel gusto speziato della
sua bocca. Lui mi allontanò da sé, bloccandomi le braccia con una
stretta ferrea, e mi piantò gli occhi dei miei:
- No - disse serio - ho bisogno di te. Ho bisogno di sapere che anche
tu vuoi essere mia -
La mia eccitazione si acquietò a fatica, e restai a fissarlo ansimando:
- Andrea... te l’ho già detto... Non è così facile, e non so neanche se
sarebbe una buona idea, ci conosciam...-
Si staccò da me, ed era furente, e la sua faccia, come le altre volte,
sembrò tremare, una strana vibrazione di collera:
-
Tu NON mi conosci!!! Io ti conosco meglio di chiunque altro, e so
quello di cui hai bisogno, so cosa ti fa stare bene. So cosa pensi
quando sei da sola, quando il sonno non arriva e te ne stai a fissare
il soffitto in silenzio, con la pioggia nel cuore. So che l’idea di
sposarti ti angoscia e ti senti come prigioniera di un qualcosa dal
quale non vuoi farti intrappolare. Perché sai benissimo che non ne
potrai più venir fuori, e questa idea non ti fa neanche respirare!!! -
Io
scossi il capo, come a cercare di schiarirmi le idee, quasi fosse un
residuo di sogno notturno che ti fa svegliare di soprassalto. Un sogno
o un incubo. Qualcosa sotto nella sala si schiantò con un fragore,
facendo saltare di spavento:
- M-ma...chi...chi c’è?!? - chiesi col fiato in gola. Lui avanzò verso
di me, la fronte corrucciata:
-
Non c’è nessuno. Nessuno, Giulia. Siamo solo io e te. E’ fra noi due,
Giulia. In questo momento non esiste nessun altro, né qui né fuori di
qui. Né Ricky, né Sara, né chiunque altro. Siamo solo io e te, Giulia,
e io sono tuo. Non abbiamo bisogno di nient’altro. Io per te e tu per
me. Per sempre. Se solo tu lo vorrai... -
Tese una mano verso di me,
e tutta la sua aggressività sparì per lasciare il posto ad una
disperata attesa. Era un uomo perdutamente innamorato che chiedeva alla
vita, al mondo, al destino di dargli la possibilità di essere felice.
Ancora, in quel momento era tutti gli uomini del mondo, di tutti i
tempi, che in qualche maniera hanno conosciuto e anelato l’amore. Che
conoscono l’energia devastante dell’amore e la sua altrettanto
devastante e straziante capacità di causare dolore. L’amore ha denti e
artigli, che sanno lacerare a sangue, e causare ferite che non
rimarginano mai. Avevo letto questa cosa in un libro,
tanto tempo fa, e
mai definizione mi era parsa più vera. Più vera e straziante. Era un
uomo che chiedeva amore, e lo chiedeva in maniera così totale che una
donna, qualunque donna,
avrebbe trovato la propria sublimazione nel
poter ricambiare quello che lui chiedeva. La sua mano tesa verso di me
tremava impercettibilmente:
- Giulia, non hai bisogno di nessuno, solo di me. Dammi la mano e
saremmo solo io e te -
Nella
mente mi si formò l’immagine angosciante del palazzo, della via
sottostante, della circonvallazione deserta. E poi di tutta la città,
le piazze, i parchi, le case. Una desolazione priva di ogni movimento,
di ogni voce, di ogni suono. E nell’orizzonte che sfumava nella calura
estiva i suoi occhi, gli occhi di Andrea che riempivano ogni cosa. E
allora mi girai e scesi a precipizio le scale, che protestarono con
stridenti cigolii, ed infilai la porta, e le scale, correndo come mai
avevo corso in vita mia. Andrea non mi seguì, né pronunciò nulla per
fermarmi. Sbucai come un proiettile nell’aria immobile e calda (calda
come una notte di fine giugno, calda come la vita) e armeggiai
frenetica con le chiavi nella serratura dell’auto, sicura che in ogni
momento due mani si sarebbero abbattute sulle mie spalle, a bloccare la
mia fuga. Salii in macchina, tenendo d’occhio l’androne del palazzo di
Andrea, che restò vuoto e desolato, e partii di scatto, dirigendomi con
un paio di slalom verso la città. L’afa che si era accumulata
nell’abitacolo salì a stringermi la gola e abbassai d’istinto il
finestrino, per cercare refrigerio. E successe. La
città, con i suoi
suoni e i suoi rumori, invase l’interno della vettura, così inaspettata
e “normale” che per poco non persi il controllo della guida. Un uomo
che seguiva con passo tranquillo un cagnolino intento a annusare e
marcare ogni angolo, ogni palo, ogni cespuglio sbucò da dietro l’angolo
di una casa. Su una panchina un gruppetto di ragazzi, alcuni seduti su
dei motorini, scherzavano rumorosamente dandosi delle pacche l’un
l’altro. Un paio di fari fastidiosi riempì il mio specchietto
retrovisore e subito dopo una Renault 5 nera mi superò sfrecciando. Per
un attimo un frastuono di musica da discoteca travasò da quella
macchina nella mia, ma si affievolì in fretta. Guidai senza meta per
altri dieci minuti, mentre l’aria della notte mi scompigliava i
capelli, poi mi fermai di botto a lato della strada, in una zona dove
si vedeva anima viva. Lontano si udiva confusa la musica e i bip
elettronici di un piccolo luna park. Aprii lo sportello, mi chinai e
vomitai. E rimasi lì piegata su me stessa, scossa dai brividi e dagli
ultimi, brucianti conati a vuoto.
- La vita va come al solito -
risposi frettolosa allo sguardo poco convinto della dottoressa che mi
fissava - dev’essere per forza qualcosa di fisico. Ah, a proposito,
ieri sera ho vomitato anche l’anima... -
La donna sospirò, mi guardò dubbiosa un’ultima volta da sopra gli
occhiali e prese un ricettario:
-
E’ chiaro comunque che ti debbo ordinare delle analisi. Anche
solo per
tranquilizzarti. Sangue e urine per il momento possono bastare, direi,
falle prima possibile e poi vediamo il da farsi. Tieni, e fammi sapere.
E non fasciarti la testa... -
-...prima di rompermela. Lo so, dottoressa, lo so. Farò come dice. E
buona giornata...-
Uscii
dal suo studio, gettando un occhio nella sala d’attesa gremita di
pazienti. Una bambina con una vistosa benda che le copriva un occhio
stava chiacchierando con un gattino di pezza. La madre leggeva
stancamente una rivista vecchia come il mondo, e sembrava anche lei
sofferente nella luce giallastra dei neon.
CAP. 14
Quando
entrai nell’atrio della biblioteca il signor Pesavento mi salutò
cordiale, intento a spazzare un atrio assolutamente lucido e
splendente. Mentre imboccavo le scale lanciai
un’occhiata all’orologio che troneggiava sulla parete d’ingresso. Le
nove e venticinque. Tutto sommato non avevo sprecato troppo della
giornata di lavoro, e questa almeno era una cosa positiva. Le scale
erano deserte, e non incontrai nessuno, e quando fui in corrispondenza
del corridoio che portava all’economato accelerai il passo. E non
perché temessi di incontrare Andrea, ma perché, al contrario, mi era
ritornata prepotente la voglia di vederlo!!! In ogni caso nessuno
sbucò dal nulla per bloccarmi con un sorriso triste o un grazioso
origami o la richiesta di restare assieme per l’eternità, e così mi
rifugiai nel mio ufficio.
Non accadde nulla di degno di nota fino a
sera. Poco prima di mezzogiorno detti un colpo di telefono a casa della
madre di Sara, per conoscere le ultime novità. Rispose una delle
sorelle, confermando sconsolatamente che la povera
ragazza era ancora bloccata a letto con 38° di febbre e senza la
capacità di profferire parola. Il medico suggeriva di concludere la
terapia entro la domenica sera e , nel caso al lunedì mattina
la
situazione non fosse migliorata, di valutare un ricovero
in ospedale. Feci i migliori auguri alla famiglia Todescan e riappesi.
Merda, in ospedale... che palle! Quasi in piena estate, poi. Già mi
preparavo mentalmente alla poco piacevole prospettiva di una visita in
quel posto di sofferenza, tra il puzzo di disinfettante e
quell’atmosfera di dolore e di tristezza che non sono mai riuscita a
sopportare. Accesi il computer e lavorai (lavoricchiai) alla
compilazione di alcune liste di autori ormai completate.
Per il
resto della mattina, sino all’ora di staccare per il pranzo,
non ci fu traccia di Andrea (anche se ad ogni istante desideravo che si
materializzasse sulla porta dell’ufficio) e più di una volta dovetti
ricacciare la tentazione di formare il numero dell’economato (l’avrò
letto almeno una quindicina di volte dal promemoria dei numeri interni
appiccicato di fianco al calendario) con il pretesto “casuale” di
chiedergli un’informazione
(e che cosa vorresti
chiedergli, come ha fatto ad eliminare il problema
“rumori esterni” da casa sua in modo così radicale?)
A
mezzogiorno e venti, una decina di minuti abbondanti prima della pausa,
mi precipitai fuori sul pianerottolo, passeggiando nervosamente in
attesa (spasmodica
attesa) che gli impiegati cominciassero a uscire dagli
uffici. Dopo un quarto d’ora il rado via vai di persone sulle scale
divenne un flusso continuo (e più di una volta mi toccò fingere di
aspettare qualcuno mentre i colleghi mi passavano accanto
chiacchierando) e non diminuì che una decina di minuti più tardi,
quando gli ultimi ritardatari percorsero le scale quattro a quattro per
non sprecare neanche un attimo della loro sacrosanta pausa. Ma di
Andrea, manco a dirlo, nemmeno l’ombra. Come se non si fosse nemmeno
recato al lavoro. O avesse deciso di non uscire per il pranzo. A
quell’ipotesi rimasi come folgorata, e un secondo dopo avevo già sceso
ben due piani e mi stavo avventurando nel corridoio deserto
dell’economato. Ma purtroppo, come constatai ben presto, nell’ufficio
dove lavorava (dove dice
di lavorare, puntualizzò la voce di Sara nella
mia testa) del ragazzo non c’era traccia. Né lì né nei soliti locali
dove avevamo pranzato i giorni scorsi, dato che vi feci la spola avanti
e indietro covando nel cuore il tepore ingannevole della speranza.
Sembrava essersi volatilizzato, almeno per quel giorno. Ed anche nel
pomeriggio le cose non migliorarono. Lo aspettai invano
sin dal rientro dalla pausa pranzo (fingendo un interesse capitale
nelle locandine vecchie come il cucco, appese nella polverosa bacheca
dell’atrio, al passaggio dei colleghi più impiccioni e
curiosi). Proseguii poi facendo la spola tra la mia scrivania e il
corridoio un incalcolabile numero di volte (e altre volte controllai -
me ne vergogno ancora a raccontarlo - che la cornetta del telefono
fosse messa giù bene!!!) fino al gran finale verso le sedici e trenta
quando, dopo aver arraffato due o tre documenti a casaccio dalla mia
scrivania, mi recai a perlustrare in lungo e in largo l’ufficio
economato. Constatando definitivamente di persona che di Andrea non
c’era proprio traccia.
Questa demoralizzante scoperta contribuì in
maniera massiccia a scatenare la mia angosciante voglia di vederlo,
capace di avvelenare il mio mesto ritorno a casa (in auto mi riscoprii
inspiegabilmente aggressiva e incazzosa, e più di una volta indirizzai
dei gestacci da maschiaccio - da maschiaccio maleducato, per di più - a
dei poveri automobilisti che avevano commesso l’unico delitto di
rispettare i limiti di velocità) e farmi saltare gli scalini a quattro
a quattro fino al mio appartamento. Spalancai la porta di casa e, senza
posare né la borsetta né le chiavi dell’auto, alzai il telefono e
composi freneticamente (tanto freneticamente da sbagliarlo e rifarlo
almeno tre volte) il numero di casa di Andrea. Attesi agitata di
udire il non squillo del telefono e poi la sua voce. Voce calda e
tranquilla che sarebbe stata morfina dell’anima, per me. E invece, come
sempre quando si danno le cose per scontate, non avvenne nulla di
quello che mi aspettavo. Rimasi in piedi ad ascoltare il telefono che
suonava a vuoto per dieci minuti buoni. Alla fine, isterica per
l’astinenza da Andrea, dovetti darmi per sconfitta. In casa non c’era
nessuno.
Un lungo bagno rilassante riuscì a malapena a calmarmi prima
dell’arrivo di Ricky, che entrò circospetto e titubante non sapendo
bene di che umore mi avrebbe trovato. Il programma della serata
prevedeva un’uscita a cena con degli amici comuni ed io, sebbene
avvertissi ancora in fondo all’anima la voglia di sentire e vedere
Andrea (come una spina acuminata e grondante veleno), accettai di buon
grado, in previsione di una tranquilla serata tra
amici. O perlomeno così mi auguravo. Di sicuro non mi sarei
aspettata... né
augurata... che una banale polemica iniziata così, tanto per ridere,
tra
Ricky ed un cazzone di suo amico (questo va proprio detto) sarebbe
stata il preludio per un incubo che ancora oggi non riesco a cancellare
dalla mia mente. I nostri ospiti in un carinissimo e stravagante locale
sui Colli Berici erano una coppia di ragazzi che Ricky aveva conosciuto
in una delle sue performance sportive, non ricordo più se a un torneo
estivo di tennis o cos’altro. Lei, Ketty, era tutto sommato una ragazza
semplice e simpatica, anche se i suoi argomenti di conversazione
avevano sempre come denominatore comune la forma fisica, e di
conseguenza grandi disquisizioni su step-dance, lampade solari e mechès
ramate. Il problema in realtà era il suo partner, Gigi, un
avvocaticchio tronfio e pieno di sé (oltre che di soldi), lui sì sempre
molto
elegante, sempre molto
pettinato, sempre molto
abbronzato. E
basta. Quando era in vena, poi (e all’inizio della cena, con due
aperitivi molto, molto alcolici in corpo lo era parecchio, in vena)
dava aria alla bocca e sparava le più grandi fanfaronate che abbia mai
avuto la sfortuna di sentire. E la sua macchina era sempre la più
veloce e i suoi clienti erano sempre i più danarosi e le sue sciate
domenicali non erano normali discese con gli sci ma sempre slalom
speciali degni di Tomba. D’altra parte Ricky si divertiva un mondo a
dargli corda (e un po’ a stuzzicarlo) e di sicuro non si avvedeva delle
mie smorfie alle sparate dell’altro. Io non perdevo occasione per
vagare con lo sguardo per il locale affollato di coppiette e di gruppi
di
amici chiassosi e vocianti. Con lo scopo di verificare se, al limite,
... hai visto mai...
una certa persona di mia conoscenza avesse per caso scelto quello
stesso locale per trascorrere il venerdì sera
(e se lo incontri in
dolce compagnia come pensi di reagire? Sfasciando il locale in stile
rissa da far-west?)
Naturalmente il ciuffo folto
e i grandi occhi di Andrea non facevano parte del panorama, quella
sera. Ritornai sconsolata ad ascoltare la Ketty che
cinguettava riguardo a portentose creme anti-cellulite (non esistono,
illusa, se ce l’hai te la tieni...) e il controcanto del
suo impomatato
compagno che decantava le proprie qualità con i pattini in linea. La
situazione degenerò ai caffè (caffè
e grappe, per l’esattezza) quando
l’avvocaticchio dichiarò che aveva in programma di tentare una scalata
sulla parete del Civetta, che è una montagna da qualche parte nei
dintorni. Dovete sapere che il primo amore (mai dimenticato né troppo
sopito) del mio Ricky è stata l’arrampicata in montagna, una disciplina
che ha sempre praticato con grande passione fino a poco tempo fa. Fino
a che, ad essere proprio sinceri, io non ho cominciato ad assillarlo
affinché smettesse. Cosa volete, è una cosa che mi dà i brividi. E che
mi confinava, per tutto il tempo in cui lui era impegnato in qualche
uscita, ad essere una larva
terrorizzata in un angolo del divano. Terrorizzata che invece di Ricky
arrivasse una telefonata di uno sconosciuto che mi comunicava che il
mio ragazzo era in qualche letto di ospedale. E non tutto intero. E
questa, nelle mie fantasie, era la versione “fortunata” della faccenda.
Per cui i miei sensi, piacevolmente anestetizzati dell’ottima cena e
dell’ancor più ottimo vino, e le mie orecchie si drizzarono allarmate
non appena mi accorsi che il dialogo tra i due supersportivi stava
pericolosamente scivolando verso una china che non mi piaceva affatto.
-
...e dai, coniglio, sabato mattina mettiamo in macchina le attrezzature
e ci mangiamo quella paretina del cazzo! - stava esclamando Gigi (lui
doveva sempre mangiarsi
qualcosa, fossero clienti o donne o pareti
scoscese). Io piantai gli occhi in quelli di Ricky con uno sguardo di
allarme giallo, ma lui fu abilissimo a sganciarsi e a scolarsi l’ultimo
goccio di grappa bianca:
- Quella paretina non è proprio così facile
- ribatte infervorandosi - io l’ho fatta tempo fa e mi ha fatto sudare
sette camicie! -
Il suo interlocutore non mollò la presa, incalzando:
-
Ma va! Sei tu che ti sei rammollito. Saranno le partite di quel cazzo
di squash che ti fai in palestra con quei quattro sfigati (per il
principino del foro erano sempre tutti sfigati, fossero
clienti o amici
o parenti). Una volta non avresti rifiutato un’occasione del genere, si
vede proprio che sei fuori forma! -
Io cercai di intervenire ma quel testardo di Ricky mi bloccò la replica
in gola con un perentorio gesto della mano:
-
Ehi, amico, piano con le parole! Io ci arrivo in cima prima che tu
abbia deciso la via da seguire, se voglio. Io e Gianni Garzia, per di
più... -
Cercai di catturare una seconda volta l’attenzione del mio
compagno ma lui ormai era in pieno raptus passionale. Gigi rise
divertito:
- Gianni Garzia, quello sfigato?!?
(e dagliela) Non
esiste proprio. Mi porto il praticante che ho in ufficio e ci metto su
una cena di pesce alla Bulesca. E sai che lì si mangia bene ma si paga
pesante! -
La Ketty ridacchiò stridula e batté le mani:
- Ih, che bello, andiamo tutti alla Bulesca!!! -
A
quel punto credo che Ricky (quel gran figlio di... di Ricky) evitasse
volutamente il mio sguardo, sapendolo carico di nitroglicerina pronta
ad esplodere. D’altra parte non poteva certo rifiutare quella sfida
(quell’idiota di sfida da maschi che ragionano solo con i
testicoli) perché la sua fidanzata tirava su il naso.
Nell’esclusiva palestra che
entrambi frequentavano, per non parlare del bar del golf club, quello
sfigato di Gigi lo avrebbe comunicato ai quattro venti, come un
informatore della polizia dalla bocca troppo larga. E così andò come
andò, con il silenzio pesante come un macigno che riempiva l’abitacolo
della macchina nella strada di ritorno
(posso accendere la
radio? No. Ho mal di testa)
(ma c’è qualcosa che non
va? No. Portami a casa)
fin sotto casa mia. Stavo per aprire lo sportello ed uscire
indignata e risoluta quando lui sbuffò:
- E dai, Giuli, non potevo mica dargliela vinta a quello sbruffone... -
Io mi bloccai metà dentro e metà fuori e lo guardai:
-
Ah! Vedi allora che lo sai anche senza chiedermelo che c’è qualcosa
che non va! - lui fece per ribattere ma io non gliene diedi il tempo -
e poi potevi benissimo rinunciare. O forse diventavi troppo sfigato per
fare un piacere alla tua ragazza? Lo sai che ho paura quando vai ad
arrampicare... -
Lui tentò una specie di carezza, che scansai con una scrollata di
spalle:
- Giuli, dai, non c’è niente da avere paura. L’ho sempre fatto e non mi
è mai successo niente. Lo sai che sono prudente...-
-
Non è questione di essere prudenti, e poi il fatto che ti è andata
sempre bene non mi tranquillizza proprio per niente. Non voglio che vai
e basta! -
Lui serrò le labbra e guardò fuori dal finestrino, e
questo non era per niente un buon segno, se lo conoscevo un po’. Scosse
la testa e mi guardò fisso:
- Stai tranquilla - concluse - sarò di ritorno prima di quanto pensi, e
vedrai che torno tutto di un pezzo. Buonanotte -
Scesi
dalla macchina sbattendo la portiera di quel tanto da sottolineare il
mio dissenso senza svegliare tutto il palazzo e, mentre cercavo
le chiavi di casa, sentii l’auto che si allontanava nella via
silenziosa. Prima di entrare nell’androne mi voltai verso la strada.
Per un attimo mi
parve di scorgere una figura ritrarsi dietro
l’angolo del palazzo. Rimasi immobile, perché mi sembrava di aver
riconosciuto... Bah, poi scossi il capo e salii le scale fino al mio
appartamento. Non appena ebbi posato la testa sul cuscino sprofondai in
un sonno nero e pesante, totalmente privo di sogni. O di incubi.
E a proposito di questi ultimi, io
ancora non lo potevo sapere, ma l’incubo peggiore della mia vita stava
per piombarmi addosso pesante e urlante come un treno, di lì a qualche
ora. Con una semplice telefonata.
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Capitolo 6 *** L'incidente - Domenica ***
CAP. 15
Il
sabato in cui le cose precipitarono cominciò con la solita alba
torrida, che mi sorprese a ciondolare per casa mezza assonnata. Nel
tentativo perso molto in partenza di fare un po’ di pulizie. Dico
tentativo
perché l’intera mia mente era divisa, perfettamente al 50%, tra la
preoccupazione per quella stupida sfida alpinistica e la
voglia
(bramosia
descrive ancora meglio il mio stato) di avere qualche cenno
di vita da Andrea. Quindi rimaneva molto poco d’altro che mi evitasse
di restare imbambolata con lo sguardo fisso e lo straccio
stretto nella mano. Naturalmente avevo già provato un paio di volte (in
barba a tutti i dettami di educazione che sconsigliano di chiamare casa
d’altri di mattina presto) a formare il numero di Andrea, ma lo
squillare a lungo (e a vuoto) del telefono mi aveva rabbuiato dentro
come un temporale improvviso. Che
stronzi gli uomini, avevo pensato nel
più classico dei rigurgiti post-femministi. Ce l’avevo in egual modo
con tutti e due, uno che se n’era andato a rischiare il collo solo per
una stupida scommessa (ma
te la pago io, la cena alla Bulesca!, avrei
voluto dirgli, ben sapendo che non sarebbe stata per niente la stessa
cosa), l’altro che era sparito così di punto in bianco dalla mia
esistenza. Nel momento preciso in cui avevo così bisogno di
conforto (che tipo
di conforto, per la precisione?, s’informò una vocina
nella mia testa).
-
Non lo “senti” adesso, che sto male?!? - chiesi alla stanza vuota e
silenziosa. Le lacrime mi sgorgarono inattese e violente, mentre mi
lasciavo cadere sul divano. Afferrai la borsetta dal
tavolino e presi a frugarci dentro, alla ricerca di un
fazzoletto. Ma perché
gli uomini devono sempre andare in
giro a farsi male e lasciare sempre a casa noi donne a singhiozzare?,
pensai arrabbiata mentre rovistavo in un caos fatto di rossetti,
chiavi, vecchie bollette e foglietti di appunti. C’era persino una mela
di chissà quando, decisamente avvizzita. Dopo un po’ recuperai il
fazzoletto, e trovai anche un’altra cosa, che mi fece corrugare la
fronte pensierosa. Tra le dita avevo quell’origami raffigurante la
coppietta che si teneva per mano. Quella che avevo scorto sulla mensola
del bagno di casa di Andrea. E che non mi era mai parso di aver preso
su. Non avevo neanche la borsa con me, nel bagno. Ero uscita da là e
avevo infilato le mani nella cintola dei pantaloni di Andrea. Tutte e
due le mani. (un brivido mi serpeggiò tra le gambe) Sarebbe stato
impossibile reggere quel delicato manufatto di carta, senza
rovinarlo... Lo osservai a lungo. Una delle due figurine aveva
addirittura la testa (la piega della carta che simulava la testa)
leggermente rivolta verso il suo partner di carta. Come diavolo... A
meno che (e a quel pensiero sentii la mia parte razionale sospirare
soddisfatta) non avesse creato una seconda versione, infilandomela
nella borsetta proprio mentre ero su in bagno.
Forse voleva fare in
modo che io pensassi a lui anche in seguito, ritrovandola.
Come se già non ci pensassi praticamente ogni istante...
Ad ogni
modo, ciondolando, spolverando ogni volta 20 o 30 trenta centimetri di
mobili, rimanendo impalata dei lunghi quarti d’ora a pensare, provando
a chiamarlo senza nessun successo, bene o male tirai fino ad ora di
pranzo. Feci così un giro di telefonate, più che altro per riempire il
tempo, a casa dei miei, a un paio di amiche e alla madre di Sara. Qui
la signora Todescan mi raccontò una storia curiosa e preoccupante allo
stesso tempo. La sera prima Sara aveva ricevuto, inaspettatamente, la
visita di una donna che, a sentire la mia interlocutrice, non aveva mai
visto prima. Non era
una delle amiche di mia figlia, mi confermò la
madre, le conosco quasi
tutte e comunque non era certo una vostra
coetanea... Dopo una mezz’ora la misteriosa donna era
uscita in fretta
dalla camera, stringendo spasmodicamente tra le mani una decina di quei
foglietti che Sara usa per comunicare, e se n’era andata quasi senza
salutare.
- Sono andata da mia figlia per vedere come stava e per
avere spiegazioni di quella strana visita - mi disse trattenendo a
stento le lacrime - e l’ho trovata mezza incosciente, con la febbre che
le era salita all’inverosimile. Abbiamo chiamato subito la guardia
medica e l’hanno ricoverata d’urgenza. Abbiamo anche provato a
rintracciarti ma eri fuori, e la segreteria non era inserita...
(la segreteria non era
inserita?)
...adesso sto correndo in ospedale a dare il cambio a Sandra... -
Mi
congedai da lei, con il cuore gonfio di preoccupazione, dopo essermi
fatta dare il numero di stanza della mia sventurata amica e mi
avvicinai, quasi con prudenza, alla piccola segreteria telefonica sul
mobile d’entrata.
(la segreteria non era
inserita?!?)
Non sono
mai troppo metodica (e anche un po’ pigra) con la tecnologia di tutti i
giorni. Per cancellare i messaggi che restano incisi sul nastro bisogna
sollevare il coperchio della segreteria e pigiare un pulsantino. Se
invece si ascoltano i messaggi senza questa procedura il led rosso che
ne indica il numero si riazzera, ma quest’ultimi
sopravvivono. Schiacciai lo start. Il nastro si riavvolse e la voce di
mia madre mi arrivò alle orecchie:
- ehm... mannaggia, c’è la
segreteria... (tipico) ...sì, ciao, sono la mamma... ehm... è ora di
cena e pensavamo fossi in casa. Ci sentiamo domani, ciao, buonanotte...
-
Tlac. Il nastro si fermò. Lo avevo ascoltato anche la sera prima,
quando ero entrata furiosa in casa dopo il battibecco con Ricky (e
avevo sperato con tutto il cuore che fosse chi dico io) e quindi quella
controprova non mi serviva. Ma l’avevo fatto per confermare quanto già
sapevo. E cioè che la telefonata di mia madre (all’ora di cena della
sera prima) era la prova inconfutabile che la segreteria NON era
disinserita. E che la madre di Sara (probabilmente nella concitazione
del ricovero in ospedale) non aveva affatto chiamato a casa mia.
Mentre
ero lì immobile ad osservare la segreteria, l’occhio mi cadde sul
fogliettino che custodiva gelosamente il numero telefonico di Andrea. E
un istante dopo lo avevo già formato e ascoltavo sconfortata lo squillo
che si ripeteva all’infinito. Quando fui convinta che il ragazzo non
era proprio in casa (o magari non aveva intenzione di rispondere)
riappesi. E il telefono squillò.
- Sì, pronto? - risposi, con il cuore in subbuglio, sicura di sentire
la voce calda che desideravo.
- Pronto, sono Morseletto, posso parlare con Giulia Visconti?-
Al
prima vista quel cognome non mi disse nulla. Poi le mie sin troppo
zelanti cellule cerebrali frugarono negli immensi archivi della
memoria, inviandomi una fototessera del personaggio in questione. E il
mio cuore, già allegramente agitato dall’idea che l’interlocutore fosse
Andrea, accelerò all’impazzata. Di paura.
Morseletto. Luigi
Morseletto. Avvocato Luigi Morseletto. Per gli amici, Gigi. E il mio
cervello, in una frazione di secondo, mi rimandò l’immagine di quel
Gigi, con le gote infiammate dall’alcool e un sorriso a
quarantotto denti, che esclamava: “...e dai, coniglio, sabato
mattina mettiamo in macchina le
attrezzature e ci mangiamo quella paretina del cazzo!”.
QUEL Gigi.
Che, in quel momento, doveva trovarsi sospeso a decine di metri di
altezza, impegnato in una stupida gara con il mio Ricky. E che se
invece
era lì intento a telefonare a me non si trovava proprio attaccato ad
una montagna. E se non lo era lui, dov’era
Ricky?!?
- P-pronto... - balbettai mentre le mani mi si congelavano - s-sono
io... -
-
Ah, ciao, sono Gigi, scusami - il suo tono non troppo funereo insinuava
in me un briciolo di sollievo, sempre che non fosse idiota fino al
midollo - c’è stato un piccolo problema. Niente di grave, naturalmente.
Avevamo appena iniziato a salire quando la corda che reggeva Ricky e
Gianni si è spezzata... non riesco proprio ancora a capire come possa
essere successo, voglio dire, la fune era nuova, e non c’erano
all’inizio sporgenze contro cui potesse sfregar... -
- Come sta Ricky? - sbottai interrompendo quella sua simpatica
divagazione.
- Ah, sì... scusa - si schermì lui - sono caduti, ma erano solo due o
tre metri
(SOLO due o tre metri?!?)
e
non è successo niente di grave. Anzi, è stato proprio il Garzia ad
avere la peggio, con una costola e una gamba rotta. Ricky, a parte
qualche botta, si è messo in piedi da solo... -
- Dove siete? - chiesi, non ancora del tutto tranquillizzata.
-
Siamo qui al pronto soccorso di Asiago. Garzia dovrà scendere giù con
un’ambulanza. Ricky è stato visitato, e volevano trattenerlo per
sicurezza, ma lui ha firmato e verremo in città subito. Figurati che
questi sfigati
(alé) hanno la macchina per la Tac ma è andata in tilt.
Tutto a un tratto, hanno detto. Stanno aspettando il tecnico e volevano
che Ricky attendesse qui per l’esame. Ma come ripeto lui vuole
rientrare quanto prima e... -
- E perché non mi ha telefonato lui?
- gli chiesi sospettosa e allarmata. La voce dell’altro si affievolì
per un attimo, come se la comunicazione avesse dei problemi, poi tornò
udibile:
- Beh, la caduta, la botta...voglio dire, ha sbattuto la
faccia sulle rocce, e si è ferito alla bocca. Gli hanno dato un paio di
punti... - ridacchiò insulsamente - ...non può neanche ridere... gli fa
male... Comunque saremo in città tra poco più di un’ora, traffico
permettendo, e lo porterò direttamente al pronto soccorso, così staremo
ancora più tranquilli. Tengo il cellulare acceso, scriviti il numero, è
lo zero tre tre sette quattro sei sei nove uno sette. Sì, nove uno
sette. Chiamaci quando vuoi. Ciao, a dopo -
Ricambiai il saluto
quasi senza accorgermene, mentre scarabocchiavo il numero di cellulare
subito sotto a quello di Andrea, sullo stesso foglietto. Lo sapevo, lo
sapevo, borbottavo vestendomi in fretta e furia, l’avevo detto
che era una stupidaggine pericolosa. Meno male che pareva
non esser successo niente di grave (voglio
vedere Ricky, prima).
Quando
parcheggiai la mia auto nel parcheggio semideserto dell’Ospedale Civile
l’orologio digitale sul cruscotto segnava le 13 e 54, e la temperatura
all’interno dell’abitacolo era rovente, nonostante avessi viaggiato da
casa a lì con i finestrini completamente spalancati. Dal parco pubblico
che confinava con il piazzale proveniva il brusìo ipnotico di migliaia
di cicale e, sotto l’ombra rinfrescante degli alberi, stazionava un
carretto dei gelati. Alcuni bambini scorrazzavano dietro un
pallone, incuranti dell’afa. Il silenzio era quasi totale, a parte il
furibondo frinire cicalesco e la radiolina del gelataio che diffondeva
una tipica canzone estiva. Poche figure silenziose si dirigevano verso
il cancello spalancato dell’Ospedale, ed io mi unii a loro. Le rare
persone che incrociavo avevano gli occhi bassi e il viso corrucciato,
come tutte le facce di chi esce da una visita ad un ricoverato, a meno
che non si tratti di una madre che dà alla luce una nuova vita. L’aria
condizionata sparata a mille nell’atrio dell’edificio mi attanagliò con
un abbraccio gelido, facendomi istintivamente stringere il colletto
della camicetta leggera. M’infilai in uno degli ascensori, dopo
un’attesa snervante, e iniziai a salire verso il reparto dove sapevo
ricoverata Sara. I miei compagni di salita erano un vecchio
allampanato, con una vistosa benda ad un'orecchio, ed un giovane
dottorino
che tambureggiava nervosamente con una biro su una cartelletta. Dietro
di loro, come una statua di granito, troneggiava un’infermiera alta e
larga come un armadio, dall’espressione arcigna ed impenetrabile.
“Rosi” era il nome sulla targhetta appuntato sull’ampio petto. Nel
corridoio del reparto, fuori da una stanza la cui porta era socchiusa,
mi accolsero con un saluto triste la madre, le sorelle ed un paio di
zie di Sara. Ricambiai sottovoce il saluto e gli abbracci e attesi che
mi mettessero al corrente:
- Sta ancora male, molto male - esordì
con voce funerea la signora Todescan - i farmaci che le somministrano
riescono a tenere bassa la temperatura solo per il tempo della loro
efficacia, poi devono ricominciare da capo. E non è un buon segno... -
Io le strinsi un braccio in segno di conforto:
- E i dottori cosa dicono? -
-
Non sanno bene neanche loro - intervenne Chiara, la sorella più grande
- stanno facendo tutte le analisi, e per il momento prendono tempo...-
Le
due zie, sorprendentemente somiglianti alla madre di Sara, si
asciugarono le lacrime con dei minuscoli fazzolettini stretti
nelle mani grassocce.
- Posso vederla? - chiesi. Le sorelle mi
accompagnarono nella stanza, che era immersa nell’oscurità. Cinque dei
sei letti erano vuoti, e nel sesto giaceva la sagoma immobile della mia
amica. Il cattivo odore che aveva impregnato la stanza di casa Todescan
durante la mia visita era presente anche lì, seppur celato sotto
l'immancabile sentore di disinfettante di ogni ospedale. Dopo un po’ la
vista
si era abituata alla fioca luce che filtrava dalle tapparelle e il viso
di Sara appariva smunto e lucido. Posai una mano sulla fronte
della
mia amica, che non diede segno di avvertirne il tocco, e la ritirai
immediatamente, angosciata dal calore che sentivo irradiarsi.
Restai immobile ed in silenzio ancora una manciata di minuti, poi
l’ansia di avere notizie di Ricky (ormai dovevano essere arrivati in
ospedale a loro volta) mi fece salutare tutti frettolosamente ed uscire
nel chiarore un po’ accecante del corridoio. Raggiunsi il pianerottolo
esterno al reparto e, in barba a tutte le norme di galateo sociale,
accesi il cellulare formando il numero che mi aveva dato Gigi.
Sbirciandolo, con una punta di disagio, dallo stesso foglietto su cui
era
scritto quello di Andrea
(dove diavolo sei? Mi
stai trascurando?)
Lo squillo risuonò un paio di volte, poi una voce rispose:
- Sì, pronto? -
- Ah, Gigi, sono io, Giulia... dove siete? Ricky come sta? -
Una suora transitò lungo le scale, lanciandomi una profonda occhiata di
disapprovazione.
- Ah, Giulia, ciao... siamo appena arrivati, sono giù al pronto
soccorso... -
Il
tono di voce, del tutto privo di qualunque sfumatura di buonumore, da
uno che aveva sempre uno stupido risolino pronto, mi gelò il sangue.
Qualcosa non andava.
-Dov’è Ricky? - insistetti incapace di stare ferma dall’agitazione -
dove siete? -
L’altro rimase in silenzio per un attimo, come per cercare le parole
adatte:
-
Giulia... devi venire subito giù all’accettazione. Ricky... sembrava
stare bene, per tutto il viaggio non pareva avere problemi, poi
non appena siamo arrivati qu -
La voce si affievolì, poi sparì del tutto. Scossi il telefonino
angosciata:
- Pronto, Gigi? Pronto?!? -
Mi spostai verso le ampie vetrate per cercare di beccare un po’ più di
campo, ma il ricevitore restava ostinatamente muto.
-Maledizione
- sbottai mentre riformavo il numero. Stavolta il telefonino nemmeno si
degnò nemmeno di squillare. In panico, lo ficcai nella borsetta e mi
precipitai giù per le scale a rotta di collo. Sbucai nell’atrio del
pianterreno ad una velocità folle, pattinai in precario equilibrio come
un personaggio dei cartoni animati per imboccare il corridoio giusto,
sfiorai pericolosamente un paio di pazienti e di infermieri che si
scansarono con un’agilità insospettata e finalmente arrivai al bancone
dell’accettazione. Mi guardai in giro, e li vidi.
Gigi, ancora in
abiti da montagna, pettinato ed abbronzato, e al suo fianco Ketty, la
sua ragazza, con un’espressione bovina e stupida, erano a colloquio con
un medico dall’aria severa. Li raggiunsi, giusto in tempo per sentire
l’uomo in camice bianco dire:
- ...e verificare con la tac che non
si tratti di qualcos’altro. Adesso come adesso è in un coma di secondo
grado, un coma vigile, dai primi esami... -
Mentre la pelle mi si
ghiacciava di paura, Gigi e la tipa si voltarono verso di me con un
sorriso idiota e triste stampato sul volto (toglietevi quel sorriso,
non siete bravi come lui) prendendo a cercare di spiegarmi
le cose con
calma, per non allarmarmi di più. Con il solo risultato di parlare
all’unisono e quindi di confondermi completamente.
- Uno alla volta!!! - sbottai ad un volume di voce tale da far girare
tutti i presenti
nell’ampio salone. La ragazza si ammutolì, fissandomi
con occhi enormi e sbarrati.
- E’ successo non appena arrivati qui -
mi mise al corrente Gigi - è sceso con le sue gambe, si è avviato verso
il pronto soccorso ed ha perso i sensi. Almeno così sembrava, adesso
quel medico mi stava dicendo che è... oh merda, è entrato in coma. Che
la botta che ha preso con la faccia sulla roccia è stata più forte di
quello che sembrava, e che probabilmente si è formato a poco a poco un
ristagno di sangue... -
- Un ematoma - cinguettò la sua ragazza come se fosse la risposta ad
uno stupido quiz televisivo.
-
...un ematoma, sì - continuò lui - l’hanno subito ricoverato, e adesso
devono fargli una tac per vederne l’entità e di conseguenza il da
farsi... Merda, è stata una caduta così stupida, non eravamo neanche
partiti, e io non stavo guardando ma Gianni Garzia mi ha detto che la
corda si è spezzata. Così, di punto in bianco. Come cazzo può
succedere, voglio dire, mi è anche costata un occhio della testa
quell’attrezzatura da Panarotto Sport. Ah, ma lunedì mi sentono, non ho
certo intenzione di fargliela passare liscia, a quelli sfigati, ci sono
tutti gli estremi per una bella caus... -
- DOV'E'? - lo interruppi con una energia che li fece trasalire
entrambi, come se li avessi colpiti.
-
Non c’era neanche una stanza libera, come al solito - riprese il tipo -
l’hanno messo nella stessa di Garzia, che ha un paio di costole rotte e
la gamba in trazione... -
- Il numero!!! - esplosi con una nota
stridula nella voce. Un bambino con una fasciatura sul polso si chinò a
bisbigliare qualcosa all’orecchio della madre, che gli fece segno di
tacere.
- Primo piano, stanza dodici - rispose Gigi, restando
immobile a vedermi sfrecciare via. M’infilai come un lampo nella rampa
di scale che portava ai piani superiori, per raggiungere la stanza
prima possibile. Negli unici due letti occupati c’erano Gianni Garzia,
che mi rivolse un breve sorriso sofferente, e il mio Ricky. Mi accostai
al suo letto e lo guardai: aveva un’ampia fasciatura che gli copriva la
testa e parte del viso, e teneva gli occhi chiusi, come se dormisse.
Alcune spiacevoli macchie scure facevano bella mostra sulle garze
intorno al mento. Era immobile, con le braccia lungo il corpo, come
avevo sempre visto nei film. Gli presi delicatamente una mano. Era
tiepida. Provai a stringerla, come per fargli sentire la mia presenza.
Le sue dita rimasero
inerti.
- Prendi una sedia - disse Gianni, indicandone
una. La presi, accostandola al letto del mio ragazzo, cercando di fare
meno rumore possibile, come se lui stesse veramente solo dormendo.
-
Non so proprio come possa essere successo - si giustificò ancora
l’altro, mentre cercava di sistemarsi meglio sul letto. Una smorfia di
dolore gli attraversò il viso - era appena più sopra di me, quando l’ho
visto passarmi accanto, come un’ombra. Non ho avuto neanche il tempo di
afferrarmi a qualcosa che il peso di Ricky mi ha staccato dalla parete,
trascinandomi giù. Se succedeva dieci minuti più tardi non eravamo qui
a raccontarlo -
Io feci un sorriso assente, mentre pensavo velenosa:
“TU lo stai raccontando”.
Guardai il volto di Ricky, e lo trovai
disteso e sereno. Sotto le palpebre, nessun movimento degli occhi. Dove
sei, adesso, Ricky?
Restai accanto a lui per tutto il pomeriggio,
accarezzandogli la fronte, tenendogli la mano (ogni tanto gli davo
una strizzata più forte, quasi un pizzicotto, per cercare,
assurdamente, di tirarlo fuori da quel suo sonno profondo), scambiando
qualche parola di cortesia con l’altro paziente, bisbigliando a Ricky
qualche frase che potesse ricordargli di noi due. Sempre come
avevo visto fare nei film. Ma per la maggior parte del tempo
lo
osservai,
scrutando ogni suo particolare, la piccola cicatrice appena sotto
l’occhio destro, ricordo di una accesa partita di calcio ad un torneo
canicolare di molte estati fa, la leggera peluria bionda che gli
incorniciava la curva delle guance, la spirale perfetta del suo
padiglione auricolare. Respirava impercettibilmente, e più di una volta
mi ero ridestata da quel mio fissarlo col panico nel cuore perché mi
dava l’idea che avesse smesso di farlo. La luce accecante del
pomeriggio estivo si attenuò gradatamente e, dalla finestra che dava
sul cortile interno, decine di visitatori si dirigevano a capo chino,
come in una processione, verso i loro congiunti. Un paio di volte mi
assentai dalla stanza, per fare un salto in bagno e per un caffè, poi
tornavo a sedermi accanto a quel corpo immobile, a pregare, e a
pregarlo mentalmente di darmi un segno di vita. Ma Ricky continuava a
restarsene immobile, gli occhi sempre chiusi, perso in chissà quale
meandro della proprio subconscio. Verso le sette un’infermiera minuta
ma
decisa fece capolino nella stanza, facendomi notare che di lì a poco ci
sarebbe stato il giro di visite mediche e che forse era meglio togliere
il disturbo. Con la morte nel cuore feci un’ultima carezza sulla testa
immobile di Ricky e, dopo aver salutato Gianni Garzia che stava
ascoltando della musica dalla cuffia in dotazione, uscii lentamente
dalla stanza.
Mi sentivo persa. In quell’edificio zeppo di
sofferenza e di tristi vicende lasciavo, in un colpo solo, la mia
migliore amica e l’uomo che amavo. Costretta, da un'impietoso orario di
visite, ad andarmene via, uscire nel
mondo, da sola. L’idea di fare un salto a casa dei miei mi rasserenò
per un breve istante, poi la consapevolezza che l’avrei fatto
unicamente per compensare la mia angoscia mi
fece cambiare idea. Mia madre non l’avrebbe più finita di fare decine
di domande sullo stato di salute dei due ragazzi, e cos’hanno detto i
medici, e come mai era successo, e perché non hai impedito a Ricky di
andare in montagna...
Uscita dalle porte automatiche fui avvolta dal
naturale tepore della serata estiva, ma non era caldo da star male,
anzi una brezza piacevole portava alle mie narici un tenue
profumo di
gelsomino tardivo. Era una dolcissima serata, in barba a tutto.
Raggiunsi il parcheggio esterno, arrivando alla mia macchina, e stavo
per infilare le chiavi nella serratura quando alzando gli occhi lo
vidi. Andrea era appoggiato ad un albero, su una piccola aiuola
spartitraffico, e mi fissava. Non appena mi scorse si
avvicinò, la faccia seria e compunta:
- Avevano provato a cercarti in biblioteca, prima di chiamarti a casa.
Quell’amico del
tuo ragazzo, intendo. Avrei voluto venire prima, ma avevo alcune
faccende da sbrigare. Come vanno le cose? -
Io mi tuffai nel suo abbraccio affondando la faccia nell’ampio petto.
Sapeva di spezie e di tè.
- E’ in coma - mormorai - sembrava stare bene e poi... e poi... -
Il
sapore salato delle lacrime mi arrivò in bocca, e scossi la testa. Di
tutte le persone che avrei voluto incontrare, comunque, era lui che
desideravo. Mi tenne stretta a sé per un attimo che mi sembrò infinito
e, a poco a poco, sentii che la mia voglia di esplodere in un pianto
devastante si acquietava, scoprendomi calma e serena. Come se il
contatto con il suo corpo instillasse in me un anestetico psichico, in
grado di calmare il mio cuore affannato. Mi staccai a malincuore da
lui,
osservandolo nella luce rosea del tramonto. Visti dal di fuori potevano
sembrare due innamorati che stessero facendo pace dopo una burrascosa
discussione. Lui dette una sbirciata all’orologio:
- Dove stavi andando? - mi chiese.
- Pensavo di ... di andare a casa. E’ stata una giornata pesante...-
Lui si appoggiò alla fiancata della macchina, infilando le mani nelle
tasche, in un gesto che conoscevo bene.
-
Secondo me non è una buona idea che tu ti chiuda in casa a rimuginare
su una cosa per la quale, purtroppo, non è in tuo potere far molto.
E’ una bella serata, stiamo un po’ insieme, a parlare. O a stare zitti.
Come ti va -
Io m’immaginai nel mio appartamento deserto e
silenzioso, con i pensieri perennemente affollati dalle immagini di
Sara
e di Ricky. Sara nella semioscurità, arsa dalla febbre, in quella
stanza ammorbata dal cattivo odore. Ricky con gli occhi chiusi, le
braccia lungo i fianchi, il respiro quasi impercettibile. Mi vidi
torcermi le mani nervosa, fumare troppe sigarette, far la spola
insofferente tra il divano e la terrazza. E capii che era l’ultima cosa
che desideravo, rinchiudermi a macerarmi di dolore.
- Ok, sto fuori
un po’ - dissi con voce fioca. Il sorriso di Andrea si aprì come quello
di un bambino che veda realizzarsi il più bello dei suoi desideri.
Raggiungemmo la sua auto, e ci immettemmo nella strada deserta. Sul
cruscotto ad ogni curva navigavano in qua e in là alcuni piccoli e
delicati origami creati con carte dai tenui colori pastello.
- Io
non ho ancora cenato - disse lui mentre guidava - farei un salto in
pizzeria. Tu puoi farmi compagnia, non sei tenuta a prendere niente, se
non ti va. Anche se... -
Io feci segno di sì con la testa. Non avevo
proprio il minimo stimolo della fame, naturalmente, e difficilmente
sarei riuscita a mangiare un boccone. Almeno credevo. Perché una volta
seduti a tavola detti una scorsa distratta al menù, più che altro per
darmi un contegno, e scoprii mio malgrado che avevo una fame
incredibile.
Nel leggere i tipi di pizza elencati sentivo
l’acquolina riempirmi la bocca, e lo stomaco lanciare rumori e
brontolii quasi imbarazzanti. Andrea mi guardava e sorrideva. E io mi
sentivo incomprensibilmente bene. Quando il cameriere arrivò per le
ordinazioni scegliemmo una pizza ai quattro formaggi per lui e con il
salamino (bello piccante!)
per me. E due birre bionde grandi. Lui
svolse il tovagliolo di carta facendo rotolare fuori le posate:
- Lo
so che questi discorsi lasciano il tempo che trovano - mi disse
guardandomi negli occhi. Il locale era tranquillo e deserto - ma lo
stato di coma a volte è un mistero anche per i medici. Pare essere una
difesa del corpo quando il problema è di una certa... complessità. Non
gravità, bada bene, è diverso. Il cervello sembra che si metta in una
specie di stand-by per... per autocurarsi. Per riparare al danno,
insomma. E il più delle volte questa pratica riesce e i collegamenti,
come dire, si ripristinano da soli. Come sta Ricky non è una condizione
definitiva, è più che altro un passaggio, e non c’è nessun motivo per
non pensare che possa venirne fuori -
Anche se erano i classici
discorsi che chi non è coinvolto nel dramma fa a chi invece del dramma
ne è protagonista, quelle parole in qualche maniera mi
tranquillizzavano, facendomi vedere meno nero il futuro.
- Grazie, Andrea - risposi - mi sento meglio a parlare con te -
Lui sorrise, con il suo solito ed irresistibile sorriso triste:
- Io voglio
che tu ti senta meglio. Anzi, vorrei che tu ti sentissi
sempre bene. Farei di tutto per poterlo fare -
Mi concessi un lungo sorso di birra:
- Ma tu lo fai - ribattei - tutto quello che fai è importante, e io
sono contenta di poter contare su... sulla tua... amicizia -
Un’ombra scura gli attraversò gli occhi, come una nuvola che passi
velocemente davanti al sole:
-Io
non sono tuo amico - continuò, e il suo tono adesso era secco, quasi
duro - non posso esserlo. Se devo ascoltare quello che sento, io non
posso decisamente chiamarmi amico tuo. Non sarei sincero -
-Lo so,
Andrea, capisco quello che vuoi dire. Ma ne abbiamo già parlato, e
questo è proprio il momento meno indicato per tirar di nuovo fuori...-
Lui
alzò il boccale di birra in segno di brindisi, e il fiorire
del sorriso dissipò completamente la nube scura nei suoi occhi:
- Hai ragione, dolce Giulia, sono imperdonabile. Ci casco sempre...-
In
quel momento il cameriere servì due fumanti pizze e, non appena il
delizioso profumo arrivò alle mie narici, mi ritrovai a sentirmi
famelica e desiderosa di divorare quella pizza. Pensavo ovviamente che
dopo quella giornata così devastante nemmeno una briciola sarebbe
riuscita a scendermi nello stomaco, invece aggredii quella delizia con
la grinta dei tempi migliori. Andrea tagliò un sottile triangolino di
pizza e restò così, con la forchetta a mezz’aria e un sorrisetto
birichino sul volto, ad osservarmi divertito.
- scu’a, evo embrarti
oiibile - farfugliai mentre il sugo di pomodoro che mi colava sul
mento. Deglutii vistosamente ripetendo - scusa, devo sembrarti orribile
a
mangiare in questo modo, ma sarà stata la tensione, o il fatto che sono
digiuna da ieri sera, il punto è che io... io ho una fame micidiale! -
Lui rise divertito:
- E allora buon appetito, affamata Giulia, e gustati la tua pizza -
Finii
la mia pizza ampiamente prima di lui, e mentre lo aspettavo e ascoltavo
le cose che mi diceva feci fuori tutte e quattro le confezioni di
grissini che c’erano sul nostro tavolo. Più due prelevate dal tavolo
accanto. Finché restammo lì a parlare nessun avventore si fece vivo nel
locale, e anche i camerieri sembrava avessero di meglio da fare in
cucina. Alla fine pagammo il conto (lui volle pagare il conto) uscendo
nella sera tiepida. Mi sentivo piena come un uovo, ma non ero a
disagio, anzi un benessere quasi totale mi pervadeva, come se avessi
bevuto cinque o sei boccali di birra, anziché uno solo. Parlammo ancora
del più e del meno lungo la strada del ritorno, poi lui fermò l’auto
sotto casa mia. Io cercai, con molta calma, le chiavi nel caos consueto
della mia borsetta.
- Io sono innamorato di te - buttò lì quella
frase con un candore incredibile. Così, di punto in bianco. Mi voltai a
guardarlo: nella penombra dell’abitacolo mi fissava, e sorrideva sereno.
- Di te - ripeté. Io feci un lungo sospiro:
- Andrea, mi sembrano parole un po’ grosse, per come stanno le cose...
- ribadii sulla difensiva.
-
Perché? Perché ci conosciamo da poco? E cosa significa? Io so quello
che mi succede, e so che nome ha. Amore. Amore per te -
In lontananza un semaforo lampeggiava ritmicamente sul giallo:
-
Andrea, anche se non fosse successo quello che è successo oggi... cioè,
io sto comunque con una persona, con la quale spero, con tutte le mie
forze, di restare ancora a lungo...-
- Io non sto parlando di scelte né di mutamenti. Ti sto solo dicendo
quello che causi in me. Così, perché tu lo sappia -
Io
feci un segno di disappunto. Ero attratta da quei discorsi, come un ape
da un fiore, ma la mia coscienza creava un’accanita resistenza perché
non era né il momento né il caso di lasciarsi coinvolgere.
- Beh, è un po’
comodo dire così. Non credo che tu non ti renda conto del peso di
questo tuo... mettere
al corrente. E secondo te io cosa dovrei dire, “
ah, bene, sei innamorato di me, grazie dell’informazione”? -
Lui non fece una piega, restò lì a guardarmi come qualunque donna
desidererebbe essere guardata da un uomo.
- Potresti giocare a carte scoperte. Ad esempio dirmi cosa provi tu... -
Ahia,
ci siamo, pensai. Ero arrivata al punto in cui avrei
dovuto scusarmi
che era tardi, dargli la buonanotte e sgattaiolare fuori dalla
macchina. O decidere di ballare.
E ballai.
- Sì, è vero, da
quando ti ho conosciuto non mi sei indifferente - suonava come una
dichiarazione di sconfitta totale - penso di poter dire che mi piaci,
che sono attratta da te. E forse se le cose personali fossero messe in
maniera diversa... sì, forse avremmo anche potuto provare a conoscerci
meglio. E probabilmente avrebbe anche funzionato. Almeno per come mi
fai stare tu. Ma le cose stanno come sappiamo, e quindi è inutile fare
discorsi diversi. E’ inutile anche etichettare questa cosa, qualunque
nome possa avere non ci porta da nessuna parte... -
Avrei voluto
scappare via lontano mille miglia da lì. E nello stesso tempo che quei
nostri discorsi durassero fino alla fine dei tempi. Bel casino, eh?
Lui prese fra le dita uno degli origami del cruscotto e prese a
svolgerne la carta:
- Beh, per me sarebbe comunque importante sapere
come stanno le cose. Almeno per rendermi conto se ho fatto la figura
dello scemo esagerato -
I suoi occhi e i suoi denti risplendevano ipnotici nel buio della via:
-
Io posso accettare che ognuno abbia i suoi modi e i suoi tempi - ammisi
- e quindi non sarebbe giusto da parte mia discutere o criticare quello
che senti tu, anche se è così... così importante. Io credo comunque di
avere tempi più normali... - notai un corrucciare di sopracciglia a
quella mia frase - ...più normali per me. Non so come chiamare tutto
questo, ma penso che un termine che ci vada abbastanza vicino sia
“infatuazione” -
Lui restò in silenzio per un paio di secondi, pensieroso:
- Io sono “infatuata” di te - disse poi - suona un po’ tristanzuolo... -
Posai una mano sul suo avambraccio, e sentii i suoi muscoli guizzare
sotto la pelle a quel contatto.
-
Suona per quello che è, Andrea, mi dispiace. Come tu sei stato molto
sincero con me, e questo l’ho apprezzato, per lo stesso motivo io lo
sono con te. E questo è quello che mi sento di dirti. Ora. Stando così
le cose. E adesso forse è meglio che ci dormiamo su -
Aprii la portiera e misi un piede a terra.
-
Infatuata - ripeté lui tra sé e sé. Poi tornò a guardarmi, e il suo
sguardo divenne immediatamente irresistibile e tentatore - non mi
basta, Giulia. Ho bisogno di te. E tu di me. E lo sai, solo che non
vuoi accettarlo, perché ti sembra ancora troppo strano. Ma succede,
sai. E non c’è niente di male, anzi, non c’è niente di più
bello... -
Io mi sentivo straordinariamente attratta dal suo
sguardo, dalle sue labbra, dal profumo che emanava il suo corpo. Avrei
voluto che mi prendesse tra le braccia e mi portasse di sopra,
nel
mio letto, ad amarmi per tutta la notte. Avrei voluto svegliarmi il
mattino dopo e guardarlo dormire al mio fianco, e non avere più
tristezze e preoccupazioni e dolori, ma solo il suo amore, eterno e
immenso e infinito. Chiusi gli occhi e il viso di Ricky avvolto dalle
bende insanguinate mi riempì la mente. Li riaprii e lo guardai:
- Qualunque cosa diversa, o in più, farebbe del male a qualcuno - dissi
a fatica - anche se ci fosse. Anche
se ci fosse -
Lui non sembrava abbattuto dalla mia fermezza. Era totalmente sereno, e
dolce, come al solito.
- C’è, vero? - sussurrò felice.
Io scesi dalla macchina, e mi chinai verso di lui, respirando l’aria
della notte.
-
C’è - risposi, a voce così bassa che probabilmente non mi udì neanche.
Ma non aveva importanza, la risposta era per me. Salii le scale.
CAP. 16
La
domenica arrancò faticosa, lenta in maniera esasperante, con l’odore di
ospedale che sembrava aver riempito il mondo. Dedicai tutta la giornata
in egual maniera a stare vicino a Ricky e a Sara, facendo la spola
lungo scale affollate di visitatori e di infermieri.
Ovviamente essendo un giorno di festa le corsie erano zeppe di
congiunti e amici in visita, e anche le due stanze di
Ricky e di Sara non facevano eccezione. Per cui dovetti dividerli con
mamme, zie e parentado vario che, per tutto il giorno, vennero in
processione a chiedere notizie e a bisbigliare intorno ai letti. I
medici, se entrambi i casi, non sapevano che pesci pigliare. La
tomografia assiale computerizzata 'sparata” dentro la testa di
Ricky aveva sentenziato che non c’era nessuna massa a comprimere il
cervello, né alcuna lesione degna di nota. Morale di tutto questo era
il fatto assurdo (se non fosse così tragico) che il coma del mio amore
non aveva ragione di esistere. Anzi, di più, non c’era nessuna
spiegazione medica che giustificasse lo stato in cui versava Ricky. Il
medico di turno, un tipo alto con i capelli tagliati a spazzola, ammise
candidamente di non avere la più pallida idea del perché il ragazzo
fosse in coma. Né tantomeno come farlo uscire. E sapere questo non mi
rallegrò particolarmente. In più, il mal di testa che mi aveva accolto
al mattino al risveglio (altro che notte di passione) mi tenne
compagnia per tutta la giornata. Non avevo osato salire sulla bilancia,
durante la sosta in bagno, per il timore non troppo
infondato che la lancetta mi desse qualche altra cattiva notizia. Ci
pensò comunque la cintura dei jeans stretta all’ultimo foro a farmi
affrontare la giornata di pessimo umore.
Quando uscii la sera stava
calando sulla città. Mi diressi come uno zombie verso il parcheggio
delle auto. In giro non c’era nessuno, tantomeno Andrea. Prima di
salire in macchina scrutai a lungo intorno nella speranza di vederlo
apparire all’improvviso, ma non successe. Col cuore gonfio di tristezza
e la testa che mi pulsava sordamente, me ne andai verso casa. Mentre
guidavo, calde lacrime presero a scendermi copiose lungo le guance, e
mi asciugai con il braccio, senza cercare di contrastarle. Piangevo per
Ricky che forse stavo perdendo, per la mia amica
Sara che non migliorava mai, piangevo per me stessa, perché mi sentivo
così vulnerabile e indifesa, come se un incantesimo malvagio avesse
deciso di fare terra bruciata intorno a me, spazzando via le persone
che amavo e che erano la mia vita. Una punizione per qualcosa che forse
avevo commesso, ma che non riuscivo ad identificare.
N.d.A.: Se avete avuto la voglia
di spingervi fino a qui... complimenti, intanto... e poi... tenete
duro. Ancora un capitolo e sapremo come andrà a finire. Sapremo...
saprete. Io la fine la conosco da un bel po'. Eh eh...
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Capitolo 7 *** La donna - Confronto - Epilogo ***
CAP. 17
Il
lunedì mattina telefonai molto presto ai cellulari del fratello di
Ricky e della sorella di Sara, ottenendo in entrambi i casi un
resoconto clinico immutato e per questo sconfortante. Nessun
miglioramento. Nessun cambiamento. Decisi di non marcare visita al
lavoro perché non avrei comunque combinato niente di buono, se
non
ciondolare per casa a rimuginarci su, o correre in ospedale impotente
ed angosciata. Qualche ora in biblioteca mi avrebbe, almeno in parte,
occupato la mente. Sgattaiolai nel mio piccolo ufficio evitando le
occhiate e le domande curiose dei colleghi più impiccioni,
accendendo il computer. Concentrarsi era una cosa molto difficoltosa, i
pensieri scivolavano via sempre verso le solite mete, il viso fasciato
di Ricky, le macchie infiammate sul collo di Sara. Più di qualche volta
mi sorpresi a fissare il vuoto, la mano posata sul mouse e la
lineetta del testo che lampeggiava ritmicamente sullo schermo.
- Mi
scusi - una voce flebile mi arrivò alle orecchie. Alzai gli occhi:
sulla soglia era ferma una donna dall’aspetto anonimo e sciatto.
Dimostrava una cinquantina d’anni, ma forse ne poteva avere qualcuno di
meno, ed era così magra da sembrare quasi evanescente. I vestiti le
stavano come buttati su un attaccapanni. Intorno agli occhi spenti e
alla bocca le fioriva una ragnatela di rughe. Era immobile sulla porta,
leggermente ingobbita, e mi guardava.
- Si? - dissi io con uno sguardo interrogativo. Lei fece un
passo nella stanza, poi si bloccò:
-
Ho bisogno di parlare con lei, se non la disturbo - la voce era fioca,
quasi si faceva fatica a capirne le parole - forse conosciamo la stessa
persona e, se questo corrispondesse a verità… beh, ci sono delle cose
che lei deve sapere -
Il suo modo di fare, e il suo aspetto, mi
stavano inquietando. Non la conoscevo, non sapevo cosa volesse da me,
ma sentivo che in qualche modo aveva qualcosa da dirmi, qualcosa di
importante. E non mi piaceva affatto. Feci un segno verso la sedia. La
donna si accomodò, rannicchiandosi e stringendo la borsetta tra le mani
ossute. Prese un lungo respiro silenzioso, chiuse per un attimo gli
occhi e li riaprì:
- Lei non mi conosce - iniziò - ma credo che sia
importante che mi ascolti con attenzione. Anche se quello che sto per
dirle potrà sembrare...come dire... un po’ difficile da accettare -
La
temperatura esterna, che già sembrava voler battere tutti i record
dell’anno, sembrò aumentare ancora di più. L’aria nella stanza era
immobile e irrespirabile.
- Il mio nome non ha molta importanza, e
non le dirà nulla. Comunque mi chiamo Anna, Anna Boschin. Sono arrivata
a lei dopo lunghe e difficili ricerche. Le poche cose che sapevo mi
hanno portata fino a qui, ed è stato un vero colpo di fortuna aver
incontrato la sua amica proprio mentre stava uscendo dalla
biblioteca... -
- Sara? - chiesi sempre più incuriosita e sempre
più a disagio. La donna si guardò furtivamente alle spalle, come se
temesse l’arrivo di qualcuno:
- Sì, Sara - mi confermò - non sapevo
naturalmente a chi rivolgermi, quella mattina. Di solito devo essere
molto cauta, la gente non sempre ha il tempo e la voglia di ascoltare
una storia che non è facile da digerire. Invece la sua amica... Sara,
si è dimostrata subito interessata, e mi ha dato a sua volta delle
informazioni preziosissime. Anche se non stava affatto bene, e neppure
questo non mi ha sorpreso, anzi...-
Io tornai con la memoria alla mattina in cui Sara cominciò, proprio qui
davanti a me, ad
accusare quello strano malessere che l’avrebbe condotta in una
squallida
e rovente stanza d’ospedale, chiedendomi sempre più allarmata dove
voleva arrivare quella strana donna.E come poteva affermare di aver
previsto la malattia della mia sventurata amica.
- Di cosa diavolo
sta parlando? - sussurrai io, non molto convinta di volerlo sapere.
Lei si protese verso di me, guardandomi con occhi spenti che
mi
davano i brividi:
- Lei sta uscendo con un ragazzo che si chiama Andrea, vero? - mi
chiese con filo di voce.
Con
la bocca secca mi sentii rispondere di sì. La donna sembrò
improvvisamente sollevata, poi chinò per un attimo il capo sul petto,
come spossata dopo un’estenuante corsa.
- Bene, bene, l’ho trovato, ci sono riuscita - la sentii mormorare,
mentre la pelle delle braccia mi si accapponava.
-
Insomma, non è che ci esco... non è una cosa fissa, voglio dire -
precisai assurdamente - lavora in questa stessa biblioteca, e qualche
volta abbiamo
pranzato assieme, ma io ho un ragazzo e non è che... -
- Mi dica una cosa. Lei come sta? -
Non
riuscivo assolutamente a capire dove volesse andare a parare quella
assurda donna con quelle domande così angosciose e insistenti. Mi
balenò
l’idea che fosse solo una squilibrata che si intrufolava dove le
capitava per raccontare storie assurde e inconcludenti
(ma ha parlato
con Sara...)
- Cosa significa come sto? - ribattei per prender tempo e capirci
qualcosa di più.
- La salute, voglio dire... come si sente? Non bene, vero? -
La
fissai con la bocca spalancata per lo stupore, accorgendomi con orrore
che la sua strana attaccatura dei capelli altro non era che il bordo di
una parrucca che copriva una testa priva di capelli. “Questa donna è
malata...”, pensai mentre deglutivo vistosamente. Lanciai
un’occhiata
furtiva verso il telefono valutando la possibilità di chiamare
qualcuno, ma lei se ne avvide:
- Mi scusi, mi scusi, ha ragione... -
mormorò scuotendo la testa - devo sembrarle ben bizzarra a parlarle
così a spizzichi e bocconi. Ma, vede, devo essere proprio sicura di
poter parlare chiaramente, per non farle chiamare il manicomio seduta
stante. Cercherò di spiegarmi... quel ragazzo, quell’Andrea, come si fa
chiamare di cognome, adesso? -
(come si fa chiamare ?!?)
- Zipoli, Andrea Zipoli - risposi sempre più allibita e spaventata - ho
visto anche i suoi dati nella lista delle assunzioni...-
- Zipoli...mmh - rimuginò l’altra, pensierosa - bene, forse è ora che
io le racconti la mia storia per filo e per segno
(non so se voglio
ascoltarla)
ho
conosciuto Andrea cinque anni fa, anche se non con quel cognome. Io
uscivo da una storia sentimentale con le ossa rotte, e non avevo la
minima intenzione di avere a che fare con i maschi per un po’. Lo
incontrai casualmente alla fermata del tram, una sera che rientravo
dall’ufficio. Mi chiese un’informazione sul tipo di biglietto da
usare, se non ricordo male. Facemmo parte del viaggio insieme, e fu una
piacevolissima
chiacchierata, lui era cordiale, simpatico, e sembrava proprio
avere
gli stessi miei gusti - si bloccò un attimo vedendomi sollevare
leggermente le sopracciglia, poi riprese - sempre casualmente sbucò
fuori una settimana più tardi, nel momento giusto in cui io avrei
desiderato rincontrarlo. Accettai il suo invito ad uscire a cena. In
quella occasione non gli confessai ovviamente che non ero riuscita, in
tutti quei giorni, a togliermelo dalla testa ma mi resi conto
immediatamente che era... era, come dire, l’uomo dei miei sogni. Era
dolcissimo...e premuroso... e aveva la straordinaria capacità di sapere
sempre in anticipo i miei desideri e le mie voglie. Era incredibile,
una sera arrivò persino con un secchiello di gelato alla vaniglia, il
mio gusto preferito. Ed era tutto il giorno che ne avevo una voglia
irresistibile. Sapeva starsene alla larga nei miei momenti di cattivo
umore e farmi tornare il sorriso dicendo la frase giusta quando magari
il mio nervosismo da ciclo mi rendeva una bomba ad orologeria. Insomma,
un principe azzurro, come si dice... - la bocca le si storse in un
ghigno che voleva essere un sorriso beffardo - M’innamorai,
naturalmente, e a quale donna non sarebbe successo? Avevo sempre e
solo voglia di vederlo, di stare con lui, non m’interessava più niente
né dei miei hobbies né della mia cerchia di amici. Subii naturalmente
un processo sommario da parte di chi fino ad allora mi era stato
vicino, le amiche storiche, il gruppo della palestra.
Tutti a dirmi, all’inizio, che non mi si vedeva più e tutti a
rimproverarmi (bonariamente) di questo. All’inizio, ripeto, perché poi
le persone si stancarono logicamente di pregarmi, e si allontanarono. A
me a quel tempo non m’importò più di tanto, non ne se sentivo più
l’esigenza, di vedere qualcuno, oltre naturalmente a lui, che comunque
dedicava tutto il suo tempo a noi due... -
Mentre ascoltavo quella
storia pazzesca ed inconcludente una parte di me si chiedeva se
veramente quella donna fosse a posto con le rotelle, come si dice. Come
diavolo poteva pensare che io credessi al fatto che Andrea e quella...
quella... vecchia potessero essere stati insieme!!! Avrei dovuto
interromperla lì e pregarla di andarsene, ma la mia curiosità, forse un
po’ morbosa, di sapere come andava a finire il suo racconto (e le
misteriose allusioni al mio stato di salute) mi fecero rimanere lì ad
ascoltare le sue parole.
-Non riuscivo comunque a farmene una
ragione - continuò la donna torcendosi le mani rugose - tanto io vedevo
in lui mille qualità positive tanto le persone che mi circondavano
cercavano di farmene allontanare. Oltre alle amiche anche i
miei
genitori si opposero alla nostra
storia fin da subito. Mio padre poi era intransigente, diceva che non
gli piaceva e
che secondo lui c’era qualcosa che non andava in tutta la faccenda.
Naturalmente io difesi a spada tratta la nostra relazione... solo
l’idea di non poterlo rivedere mi dava il panico più cieco... quindi le
posizioni si irrigidirono, le cose precipitarono, mio padre con
l'imposizione
di non vederlo più, io arrivando ad andarmene da casa loro. Lasciando
mia
madre in lacrime e mio padre scuro in volto, trovai un minuscolo
appartamento in cui potersi vedere. Nonostante molti tentativi futuri,
non riuscii più a risanare lo strappo con la mia famiglia, i rapporti
restarono sempre tesi e freddi fino a... fino all’incidente. Quando la
loro auto uscì di strada di ritorno da una visita ad alcuni parenti
incendiandosi...- la voce le mancò per un attimo, incrinata dal pianto
-
...dicono che non se ne siano neanche accorti...-
Chinò il capo sul
petto ancora una volta, in quello strano modo che la faceva sembrare
ancora più minuscola e vulnerabile, asciugandosi furtivamente una
lacrima.
- Andrea mi fu molto vicino, naturalmente, e fu
di grande aiuto e conforto. Senza il suo affetto non sarei uscita tanto
facilmente dal baratro scuro del dolore e della depressione. Mi
aggrappai a lui come ad un’ancora di salvezza, e tutto quello che
volevo era stargli vicino, e lasciarmi accudire in tutto e per tutto
così meravigliosamente. In quei momenti pensavo che non avrei mai
potuto fare a meno di lui. Quando stavamo insieme era tutto così...
così perfetto, ogni cosa, ogni stupidaggine. Quando mi sentivo meno
peggio, uscivamo spesso e i locali avevano sempre un posto per noi, era
così romantico, avevamo spazi e momenti tutti per noi due, il tempo
stesso sembrava rallentare, fermarsi, quando stavamo insieme, e anche
il sesso... beh, il sesso era una cosa devastante... -
Ancora una
volta il mio subconscio dubitava fortemente che Andrea, l’Andrea che
conoscevo io, avesse potuto avere qualcosa a che fare con quella che
poteva sembrare sua madre. E sentirlo dichiarare così apertamente mi
strappò una smorfia di disgusto. Lei non sembrò avvedersene e continuò
il racconto, pronunciando una frase che mi gelò il sangue
nelle
vene:
- Fu allora che cominciai a stare male - disse con voce
spenta, ed io sentii nitidamente tutti i peli del mio corpo rizzarsi
per il
panico - all’inizio erano solo piccoli disturbi fastidiosi ma
insignificanti, un’emicrania, un po’ di sangue dal naso, la vista che
soprattutto verso sera mi si annebbiava... ma col passare del tempo le
cose peggiorarono rapidamente. Ora, se ho visto giusto, credo di non
svelarle nulla di nuovo dicendo che iniziai ad avere una
preoccupante perdita di peso - il cuore mi balzò in gola rullando come
impazzito - un dimagrimento quasi inaccettabile visto il breve lasso di
tempo in cui si manifestò, e che mi causò una spossatezza spaventosa,
tanto da impedirmi a poco a poco di poter svolgere qualsiasi normale
occupazione. Mi rendo conto di spaventarla a morte dicendole queste
cose, ma il suo
panico è per me un sollievo, perché a guardarla capisco di essere
arrivata in tempo, e posso ancora fare qualcosa... -
Io ero
inchiodata sulla sedia, mentre un sudore copioso ed improvviso mi
imperlava la fronte e mi inzuppava i vestiti. Di che diavolo stava
parlando quella donna, che razza di malattia si era beccata? Ci siamo
beccate? Frequentando la stessa persona, a sentire lei.
Andrea era
malato, contagioso? Ma di cosa? Aids ? (oh, ma è ridicolo, mica ci
ho scopato, e non è proprio una cosa che si prende con un bacio per
quanto profondo...)
(...spero...)
Eppure i sintomi, e il modo...
-
Peggiorai al punto da dover lasciare il lavoro, ero impiegata in una
ditta di trasporti e c’erano orari un po’ impegnativi. Passavo le
giornate tra il divano e il letto, incapace di qualsiasi attività
normale che implicasse un po’ di energia fisica. Andrea si prendeva
cura di me e mi seguiva in tutto, con una dedizione totale, ma io non
miglioravo, anzi... Alla fine, nonostante qualche perplessità di lui,
mi decisi ad andare dal medico, che mi fece fare tutta una serie di
esaurienti esami dai quali, e questo è il bello della faccenda, non
risultò proprio nulla che non andasse. Ero sana come un
pesce, mi
stavo solo consumando.
Il dottore restò perplesso come se si fosse trovato
di fronte ad un caso di guarigione dal cancro, e l’unica cosa che seppe
consigliarmi fu un periodo di riposo (considerato il grave stato di
prostrazione fisica), possibilmente in un ambiente
salubre, la mezza montagna o il lago. Ci pensai un po’ su e poi, visto
che perlomeno non mi avrebbe fatto peggio, decisi di accettare l’invito
di una mia amica che si era trasferita da un paio d’anni in un
delizioso paesino affacciato sul lago di Garda. Al telefono mi disse
che era
entusiasta di ospitarmi, rinverdendo così i ricordi dei tempi delle
superiori. Quella fu l’unica volta in cui io e Andrea discutemmo un po’
energicamente... a parte quando poi l’ho lasciato... perché lui diceva
che non aveva la possibilità di accompagnarmi, e che gli sarebbe
dispiaciuto molto dover stare senza di me per così tanto
lontano.
Io ribattei
che avrebbe potuto raggiungermi in meno di un’ora quando avesse
voluto... qualche sera dopo cena, nei week-end... ma lui ventilò vari
tipi di
problemi, più che altro di lavoro, che glielo avrebbero impedito. Non
posso essere certa, ma io credo che lui non potesse, o non volesse,
allontanarsi da questa città, come se facendolo avesse perso in qualche
modo le sue capacità di... di... - cercò qualche parola che potesse
rendere l’idea, poi scrollò le spalle curve - in ogni caso ci andai,
senza di lui. E stetti meglio, decisamente meglio, fin dal mio arrivo.
Stetti straordinariamente
bene, e questo mi
spiazzò più di quando non sapevo che pesci pigliare all’insorgere dei
miei vari malesseri. Non poteva essere solo l’aria salubre del lago, ne
convenni assieme alla mia amica nelle lunghe ore del giorno e della
notte in cui ne discutemmo. Una parte della mia mente non voleva
assolutamente accettare l’assurdo pensiero che si stava facendo
strada dentro di me, ma qualcosa nella mia testa, o nell’anima, perché
no, mi ripeteva incessantemente che forse... Il disagio a quel punto
mutò da fisico a psicologico, scatenato dalla reazione esplosiva tra
la parte di me che soffriva per la lontananza da lui (desiderandone la
presenza come l’aria che respiravo) e l’altra seriamente propensa a
prendere in considerazione che la causa del mio star male
potesse essere... era così assurdo solo pensarlo, e anche
adesso
mentre
lo dico, dopo tutto quello che è successo, mi sembra così difficile da
credere... Il soggiorno presso la mia amica volgeva però al
termine, e così dovetti rientrare in città e, naturalmente, rivedere
Andrea che mi attendeva impaziente e felice come un bambino sotto casa
mia. Non appena lo scorsi, in piedi accanto al portone, con una lunga
rosa rossa tre le mani, il mio cuore impazzì di felicità, ma solo per
un attimo. Poi la parte di me che voleva vederci chiaro prese il
comando delle operazioni, imponendomi di non lasciare che
l'istinto
mi travolgesse (anche se le mani mi tremavano al punto da non riuscire
a
chiudere a chiave la macchina). Lui mi abbracciò e mi baciò, ed uno
strano brivido, diverso da quelli che provavo prima, mi attraversò la
schiena. Salimmo insieme a casa e parlammo a lungo, lui mi chiese come
stavo e se gli ero mancata, io gli rispondevo, molto sulla difensiva,
esaminando nello stesso tempo le reazioni del mio corpo in attesa di
qualche strano sintomo. Non successe niente, almeno fino a quando lui
restò con me. Ci fu anche un tentativo di approccio, diciamo fisico,
che stava per travolgermi in un mare di passione ma, con uno
sforzo di
volontà e adducendo un’emicrania da stanchezza dovuta al viaggio,
riuscii a convincerlo a tornarsene a casa e a rivederci più
tardi in serata. Quando se ne andò rimasi immobile sul divano, mentre
calde lacrime di tristezza e di paura mi rigavano il volto. Era stato
mostruosamente difficile mandarlo via, non pensavo che sarei mai
riuscita a farlo, e tutto il corpo era scosso da un tremito
incontrollabile. Con angoscia mi resi conto che avrei desiderato solo,
con tutta me stessa, corrergli dietro per gridargli di tornare. Poi
qualcosa di caldo e salato mi colò lungo il labbro superiore sino in
bocca, e mi alzai di scatto, allarmata. Corsi nel bagno a specchiarmi,
trovando definitiva conferma al più grande e assurdo dei miei timori:
il sangue che mi scendeva dal naso e occhiaie scure
e profonde sottolineavano i miei occhi spaventati. Occhiaie
delle
quali mezz’ora prima, da un controllo nello specchietto retrovisore
della macchina in attesa che scattasse il verde all’ultimo semaforo,
non ne esisteva traccia!
-
La donna seduta di fronte a me, che mi
stava raccontando quella storia incredibile, si passò un dito appena
sotto l’occhio, quasi a volersi sincerare che le cose che stava
narrando non fossero tornate a manifestarsi. Come spettri di un antico
passato. Il caldo nel minuscolo ufficio era asfissiante, e avvertivo
tenuamente come in un sogno il sudore colarmi in mezzo ai seni e lungo
lo stomaco. Al di là della porta non passava anima viva, e nessun
suono veniva a interrompere quello strano monologo. Eravamo solo io e
quella inquietante donna, impegnate in un assurdo colloquio che sarebbe
durato fino alla fine dei tempi. Non le credevo, naturalmente, ma
comunque non riuscivo, come incatenata da una curiosità morbosa e
malata, a farla smettere e a cacciarla via. Quello che mi stava
raccontando era assolutamente incredibile, nel significato letterale
del termine, vale a dire impossibile
da credere, come una storia di fantasmi o
una strana leggenda metropolitana. Quella dei coccodrilli
giganti nelle fogne o l’autostoppista notturno che si rivela poi una
persona morta parecchio tempo addietro. Gira e rigira, in fondo erano
sempre le solite vecchie fiabe che l’uomo da sempre ha avuto il bisogno
di raccontarsi per esorcizzare le sue vere paure. Ed ora il ragazzo
migliore del mondo che fa ammalare le donne che ama...
La donna mi ripiantò gli occhi spenti nei miei e riprese a parlare:
-
Presi il coraggio a due mani e decisi che quello era il momento giusto,
se mai ce ne fosse stato uno, per staccarmi da lui. Perlomeno ero forte
del periodo passato lontano, e della consapevolezza che ogni minuto che
avessi passato accanto a lui lo avrei pagato in salute. Feci un lungo
bagno caldo, mi presi cura di me cospargendomi di borotalco e di una
crema fresca e profumata, mi vestii con calma e mi sedetti sul divano a
guardare il sole che moriva all’orizzonte in un cielo color sangue.
Rimasi lì, mentre la casa annegava lentamente nel buio della sera,
a pensare e non pensare, e ad aspettare.
Lui arrivò verso le nove, e
il suo sorriso mi avvolse come un fluido benefico. Ma nella mia mente
si stagliava, lucida e sfolgorante, la consapevolezza di dover far di
tutto per resistergli. Mi resi conto che era inutile perdersi in
chiacchiere, e che ogni minuto che passava la mia forza si sarebbe
indebolita, così glielo dissi. Semplicemente.
- Non voglio più stare
con te - dissero le mie labbra. La sua faccia si raggrinzì in una
smorfia di dolore quasi fisico. Da quell’istante in poi lui fece ogni
cosa in suo potere per farmi cambiare idea e farmi capire quanto aveva
bisogno di me. Ancora adesso ho un ricordo assolutamente incompleto e
confuso della nostra discussione. L’unica cosa che so è che fu
drammatica. Che fu straziante vederlo cadere sotto i colpi della mia
risolutezza. Lui parlò, e pregò, e supplicò. Gridò il suo amore e la
sua disperazione. E innumerevoli volte mi sentii come un’aguzzina
crudele e mi montò imperioso il desiderio di prenderlo tra le braccia.
Per
curare le ferite d’amore che gli stavo arrecando promettendogli che non
ci saremmo lasciati mai più. Ma ogni volta che avvertivo la mia
capacità di resistere farsi più debole, tornavo col pensiero allo
scarlatto del sangue che mi macchiava le labbra, e all’alone scuro che
spegneva i miei occhi, e all’ago della bilancia e ai mal di testa
lancinanti. Lui tentò con ogni mezzo, blandendomi e commuovendomi e
minacciandomi e supplicandomi di tener vivo quel sentimento che stava
lentamente morendo per mano mia. Infine si lasciò cadere in
ginocchio, il capo chino e sconfitto e le lacrime a
punteggiare il
legno
del pavimento. Ancora una volta il cuore mi tremò di amore e di
strazio nel vederlo così. Ma non cambiai idea.
Quando si rese conto
che non c’era proprio niente da fare, si alzò lentamente e uscì dalla
mia casa. E dalla mia vita. Non si fece più vivo, non mi chiamò né lo
vidi mai nei luoghi che conosceva o che frequentavamo di solito. Se vi
ritornò, magari per vedermi da lontano, lo fece di nascosto a me. Io
pagai quella drammatica sera. E i giorni, i mesi successivi senza di
lui. Stetti così male che avrei pagato oro pur di vederlo anche
solo per un secondo, per sentire una sola parola dalla sua bocca, per
farmi scaldare per un attimo dal calore del suo sorriso. E se
all’inizio, quando cominciai ad accusare quegli strani malesseri
pensavo che quello volesse dire stare male, non avevo idea di cosa
avrei provato in seguito. Tutta quella faccenda mi devastò, nella mente
e nel corpo, e deperii, rapidamente, orrendamente. E iniziò il
calvario delle visite e degli esami, con i medici che esibivano le loro
facce stupite dall’entrare in contatto col caso clinico di un essere
umano che si stava consumando e che era sano come un pesce. Tutti quei
visi spiazzati e impotenti alla fine si fusero nei miei
ricordi in
un’unica,
angosciante faccia che mi ripeteva con tono monocorde che non c’era
niente in me che non andava. Ma che , comunue, non sapevano spiegarsi,
al momento,
il perché delle mie sofferenze. Lo sconfortante ritornello era che
sarebbero stati necessari altri
esami. Quando me ne tornavo a casa svuotata e sfinita e restavo
immobile nell’oscurità ad ascoltare un corpo che si ribellava e si
faceva sentire con qualche nuovo malore, coi dolori alle braccia, con i
formicolii fastidiosi sulla faccia, con giramenti di testa tali da
impedire ogni movimento, speravo che quella cosa, in un modo o
nell’altro, finisse. E a poco a poco, quando ormai non avevo neanche
più energia per sperarci, finì. Non stetti più male. E potei, con
tutti i limiti che ben conosco, riprendere una vita quasi normale -
Restò
in silenzio per alcuni attimi, rimirandosi le scarpe come se non le
avesse mai viste in vita sua, poi riprese a parlare in un sussurro
quasi inudibile:
- Ci ho pensato, ci ho pensato molto in tutto
questo tempo. Per distrarmi dalla sofferenza, all’inizio, tentando
di dare una spiegazione a tutto questo. So che la conclusione a cui
sono giunta, alle sue orecchie, alle orecchie di
chiunque, forse anche alle mie, potrà suonare assurda e
squilibrata. Ma è
l’unica conclusione plausibile... Io credo che lui sia una specie di...
di... di vampiro,
che però non succhia il sangue come al cinema. Un
vampiro psichico,
in qualche modo, che ha bisogno delle emozioni degli
altri, del loro affetto per nutrirsene. Forse addirittura ne ha bisogno
per vivere. Ha affinato per questo una tecnica indubbiamente perfetta,
per riuscire nel suo scopo, forse una capacità che va al di là delle
attuali possibilità umane. Non si spiegherebbero altrimenti tutti quei
momenti così perfetti, la parola giusta al punto giusto, il sapere
sempre quello di cui gli altri hanno bisogno. Sì, credo che ci sia
anche qualcosa di soprannaturale, in quello che sa fare, come ad
esempio allontanare la gente in determinate occasioni, o dilatare la
concezione del tempo, e molte altre cose ancora. Mi sono ritrovata
oggetti che ero certa non aver preso con me, e altri spariti quando ero
strasicura di dove fossero. Fa innamorare le persone, con tutto questo,
e poi ne beve la linfa del loro amore e con quella l’energia vitale. In
cambio di un amore perfetto e stupendo dà una lenta consunzione.
Continuando a scervellarmici su, cucendo indizi e ricordi e circostanze
mi sono anche convinta che tutto sommato non lo faccia neanche
volontariamente. Non è un’entità malvagia che gode nel distruggere le
persone, forse si tratta solo di istinto di conservazione. Di certo non
è crudeltà. E’ alla stessa stregua di una belva che caccia per
nutrirsi e quindi sopravvivere. Tutte le volte che abbiamo visto a
Quark i leoni rincorrere ed abbattere qualche gazzella non abbiamo mai
pensato che lo facessero gratuitamente, senza uno scopo preciso, o
peggio ancora per il solo gusto di uccidere. E lo stesso credo sia per
lui. Quando sono stata un po’ meglio mi sono resa conto che se
veramente le cose stavano così dovevo fare qualcosa, qualunque cosa
fosse in mio potere, per evitare che tutto ciò si ripetesse. Mi sono
messa a cercarlo, prima nei posti dove eravamo stati durante i mesi
passati assieme, poi parlando con chiunque potesse darmi almeno un
minuscolo indizio. Senza risultato. Sembrava sparito, al punto che
verso ultimamente, nei miei agitati dormiveglia notturni, a volte
credevo quasi che
fosse stato tutto uno spaventoso incubo. Ma poi c’era la luce del
giorno e lo specchio impietoso a riportarmi alla realtà. E come succede
quasi sempre in queste situazioni, una settimana fa alzo gli occhi da
una vetrina di abbigliamento e lo vedo. Così. Dopo mille ricerche e
parole sprecate e notti insonni alzo lo sguardo e lui è davanti a me
che sta ordinando un gelato. La prima, violenta reazione è stata quella
di
chiamarlo e corrergli incontro, per perdermi nel suo abbraccio. Poi
è subentrata la paura a mozzarmi il fiato in gola, per il timore di
soffrire ancora. Nascondendomi dietro l’angolo del palazzo, col cuore
che
sembrava volermi uscire dal petto, attesi che lui si
rimettesse in
cammino, decisa a seguirlo e a non farmelo scappare, stavolta. Col
terrore che lui potesse in qualche modo scoprirmi, girandosi di scatto
e vedendomi, o addirittura “sentendo” la mia presenza, scoprii dove
abitava. La mattina dopo, fin dalle sei, attesi chiusa nella mia
macchina che uscisse per vedere dove si recava durante il
giorno.
Dovetti aspettare ben due ore, con le gambe informicolate dalla
posizione, prima che la mia pazienza (e la mia testardaggine e la mia
follia) venissero premiate. Lui uscì di casa senza accorgersi di nulla
e io lo seguii, a piedi, fino a qui...-
Io, con la testa confusa e ovattata da quel racconto fuori da ogni
logica, mi riscossi un attimo:
- E’ venuto a piedi da casa sua sin qui in biblioteca?!? - domandai
stupita - dal Villaggio del Sole?!? -
Ora fu la volta di lei di fissarmi allibita, con la mascella che
ciondolava stolidamente:
-
V-Villaggio del Sole? - ribatté scuotendo la testa - e chi ha mai
parlato del Villaggio del Sole... lui abita qui vicino, nel quartiere
delle Barche... -
- Alle Barche?!? - risbottai io, come se non
credessi alle mie orecchie. Viste da fuori sembravamo due idiote
comparse di qualche buffo programma televisivo per bambini, che
inscenassero una ridicola scenetta consistente nel ripetere in maniera
interrogativa e marcata la parte finale delle reciproche frasi.
- Il quartiere delle Barche - precisò lei - è giù vicino a ponte San
Paolo, dove inizia... -
- Lo so dove sono le Barche! E' che io pensavo... ero stata...- la voce
mi morì in gola.
-
Sta lì, in vicolo Retrone - continuò la mia interlocutrice senza darmi
il tempo di spiegarle il mio stupore - almeno da lì è uscito la mattina
che l’ho aspettato, e le altre tre seguenti. Accanto alla porta c’è un
negozietto a metà tra il rigattiere e l’antiquario. E’ un palazzo un
po’ fatiscente, per la verità, ed anche un po’ sinistro... -
Frugò
nella borsetta alla ricerca di qualcosa, forse di un fazzoletto, poi si
bloccò con le mani affondate nella bocca spalancata della borsa,
riprendendo a parlare:
- La settimana scorsa mi sono decisa
finalmente a fare qualcosa. Cosa, di preciso, non ne avevo proprio
idea. Sono arrivata qui sotto, e stavo per entrare a fare un giro di
perlustrazione fingendomi una frequentatrice della biblioteca, quando
ho incrociato la sua amica che stava uscendo. Non so, forse un sesto
senso, un’illuminazione, mi ha spinto a chiederle di getto se conosceva
un certo Andrea. Lei mi ha fissato per un attimo e poi si è decisa a
dirmi quello che sapeva. E non solo, anche quello che pensava. E’ stata
uno scambio di opinioni molto costruttivo, come le ho già detto
all’inizio, che mi ha dato forza e mi ha convinto, nel caso stessi
vacillando, a continuare... a venirla a cercare... -
Sbirciai l’ora: era ormai fine mattinata. Il caldo era soffocante, e
non si muoveva un alito d’aria.
-
Bene - concluse la donna asciugandosi i palmi delle mani sulle cosce -
era questo che dovevo dirle. Non posso ovviamente costringere nessuno a
prendere per oro colato quello che dico. Ma avvertirlo sì, per tacitare
la mia coscienza. Non è il caso che chiami la polizia, o gli
infermieri, o gli esorcisti. Tra meno di un minuto sarò fuori da qui, e
dalla sua vita. Però sono sicura, se ho parlato con la persona giusta,
che dentro di lei, da qualche parte in fondo all’anima, lei le cose le
sa. E sa che io le ho detto solo la verità. -
Io squadrai ancora una
volta quella donna inquietante, il suo aspetto stanco e cadente. Pensai
ad Andrea, al suo sorriso, ai suoi occhi a metà tra il triste e il
divertito, alle sue parole dolci, alle sue mani calde. E cercai di
immaginarlo mentre dedicava tutto ciò a quella donna che aveva
perlomeno il doppio dei suoi anni. Intento a guardarla come aveva
guardato me. E non le credetti. Non volevo credere ad una parola di
quel racconto strampalato. Non era possibile. E qualcosa, da qualche
parte in fondo alla mia anima, mi urlava in silenzio di non crederle e
non perché quel racconto fosse strampalato, ma perché se ci avessi
creduto, se ci avessi solo provato, avrei dovuto rinunciare a quel
sorriso, a quegli occhi, a quelle parole, a quelle mani. E l’idea che
ciò accadesse mi impediva di respirare. Mi impediva di vivere.
- Io
non le credo - dissi lentamente, mentre un sapore cattivo mi impastava
la bocca - e non chiamerò proprio nessuno. Voglio solo che se ne vada
di qui -
- Lo farò, non si preoccupi, lo farò. E mi rendo anche
conto che la storia che le ho raccontato non è delle più normali. Anzi,
è proprio difficile da mandar giù - riprese a cercare qualcosa nella
borsetta che aveva in grembo - ma se proprio non vuole credere alle mie
parole, dia almeno un’occhiata a questa... -
Mi porse qualcosa.
Guardai: stretto nella sua mano fragile come un uccellino c’era un
cartoncino rettangolare, di colore marroncino. Lo presi con la mano che
mi tremava: era una carta d’identità. Un semplice documento. Carta
d’identità n° AC0226672, di Boschin Anna, lessi sulla
copertina.
-
Lo apra - suggerì la donna con una voce d’oltretomba. Lo feci.
Sull’anta di destra c’era la foto di una ragazza bionda e sorridente,
con le gote appena velate di rosso. I suoi occhi assomigliavano
terribilmente, in una versione più vitale, a quelli della donna seduta
di fronte a me. La ragazza della foto assomigliava terribilmente
alla
donna seduta di fronte a me. “E’ sua figlia” pensò la mia mente,
cercando di restare disperatamente aggrappata al raziocinio. Sulla
sinistra lessi: cognome Boschin. Nome Anna. Nata il 20 febbraio 1974.
Millenovecentosettantaquattro. MILLE NOVECENTO SETTANTAQUATTRO. Mi
scappò un gemito. Se il documento non era un falso, e non vedevo il
motivo perché lo fosse, a meno di non essere vittima di un clamoroso
sketch di Scherzi a parte, la donna seduta di fronte a me, a cui
apparteneva quel documento d’identità, aveva un anno meno di me.
-
Sono io - mi confermò lei, con voce spenta. Ma io non la udii, i
circuiti logici nella mia mente erano già saltati improvvisamente, come
la luce durante un violento temporale, e svenni, scivolando
pesantemente sul pavimento del mio ufficio.
CAP. 18
S-ciaf. S-CIAF!
Due
deboli schiaffi mi colpirono sulle guance, dissipando a poco a poco il
buio nella mia testa in filamentose nubi nerastre. Aprii gli
occhi,
richiudendoli immediatamente, feriti dal chiarore esterno.
-
Lasciatele un po’ d’aria... - disse qualcuno alla mia sinistra.
Riconobbi la voce del signor Pesavento, il custode. Riprovai
ad
alzare le palpebre, con maggior cautela, e alcune sagome
confuse
si misero lentamente a fuoco. Svelando le facce
preoccupate e curiose dei miei colleghi. La Maria Luisa era china su di
me ancora con la mano sollevata a mezz’aria, dubbiosa se avevo bisogno
di qualche altro schiaffetto. Le sorrisi debolmente, per rassicurarla.
-
Come si sente, mia cara? - chiese con un tono di voce
inaspettatamente gentile. Forse non desiderava ulteriore clamore sulla
biblioteca, dopo l’incidente al povero Maniero. Io
scossi la testa, ancora un po’ ottenebrata:
- Bene - risposi - almeno, credo -
Feci
per alzarmi e decine di mani premurose mi afferrarono. Ero stesa sul
fresco marmo del corridoio, dove presumibilmente mi avevano portato
dopo avermi trovato svenuta. Immediatamente mi tornò in mente il mio
ufficio, e lo strano colloquio che vi si era svolto. Girai lo sguardo
alla ricerca frenetica della donna che mi aveva fatto visita,
nonostante un embrione di capogiro. Ma di
lei, tra la piccola folla, non
c’era traccia. Se n’era andata, come aveva promesso. Walter, il paffuto
giovane addetto alla sala principale, si fece largo portando tra le
mani una pezzuola bagnata, e me la applicò sulla fronte, e di
questo gliene fui grata in eterno.
- E’ sicura di riuscire a stare
in piedi? - chiese ancora la direttrice. Mentre facevo cenno
di sì
con la testa Pesavento mi elargì un paterno buffettino sulle guance:
-
Quell'ufficetto - dichiarò con voce solenne, e non aveva tutti i torti
- quel buco era veramente un forno, quando l’ho trovata. Sfido che si
sia sentita male... -
Tutte le teste dei presenti annuirono,
scambiandosi sguardi di approvazione. Io feci segno ai due che mi
tenevano per gli avambracci che ce la facevo da sola, e afferrai la
borsa che una ragazza aveva preso con sé.
- E’ tutto ok - dissi
ancora - dev’essere stato proprio il caldo, o uno sbalzo di pressione.
Ne vado soggetta, specie con l’afa. Ora vi ringrazio, tornate alle
vostre occupazioni, ho solo bisogno di una boccata d’aria -
Imboccai
le scale verso l'atrio, ancora un po’ insicura sulle gambe, lasciando
i miei colleghi a commentare l’accaduto. Certo che ne avevano di
materiale su cui spettegolare dopo tutto quello che era successo...
Uscii
nella via inondata di sole, voltando l’angolo del palazzo per dirigermi
verso la piazza. Sapevo benissimo dove stavo andando, e non avevo certo
bisogno di mentire a me stessa. Volevo immediatamente a
verificare quello che la donna mi aveva raccontato, e cioè se Andrea
abitava veramente dove aveva indicato.
Attraversai la piazza
deserta, dove stazionavano solo alcuni colombi a contendersi dei grani
di miglio e un gruppetto di turisti impegnati a studiare con smarrita
concentrazione una piantina della città, e mi immersi nell’ombra degli
archi della Basilica Palladiana. Scesi le scalette che portavano alla
piccola piazzetta sottostante, dove stazionavano alcuni banchi di fiori
tristemente sbarrati, raggiungendo il quartiere delle Barche. Era un
quartiere molto suggestivo, che costeggiava il fiume, e di recente era
stato oggetto di ottime ristrutturazioni. Vi abitavano però
comunque molti extracomunitari, sia slavi che africani, e in breve le
linde facciate dei palazzi e le strette viuzze erano tornate a coprirsi
di graffiti, sacchetti dell’immondizia sventrati e sporcizia. Arrivai
nel vicolo incriminato, notando subito il negozio di cui parlava la
donna.
Dalle vetrine facevano bella mostra alcuni discreti mobili in stile
Vecchio Veneto
e un tavolino con una serie deliziosa di sifoni per il seltz,
decisamente impolverati.
La porta accanto era quella dove, secondo il resoconto, viveva Andrea.
La sua vera
casa, a quanto pareva. Restai in attesa dietro l’angolo, a
riflettere. Non sapevo bene cosa fare, le possibilità
erano molteplici, e non tutte allettanti. Poteva tornare
Andrea (o uscire, visto che non avevo idea di dove fosse) e
sorprendermi come un maldestro agente segreto in disarmo. Sempre che
abitasse lì e non dove ero stata a trovarlo. Dove avevo letto il suo
cognome sul campanello e visitato la sua casa. “Che diavolo ci faccio
qui?!?”
pensai infastidita dall’aver bevuto come acqua fresca quella
strampalata accozzaglia di assurdità, uscite dalla bocca di
quella donna. Decisi comunque di non sprecare quel tentativo, con
l'obiettico di smentire definitivamente le farneticazioni di quella
Boschin. Mossi qualche passo verso l’entrata del palazzo, fingendo
di osservare con vivo interesse gli oggetti esposti nelle vetrine. Mi
osservai intorno con cautela, sbirciando da sopra gli
occhiali da sole: la viuzza era deserta, e da qualche parte arrivava il
ritornello di una canzone di Fabio Concato. Mi spostai
impercettibilmente verso la porta, per dare una scorsa ai campanelli.
Qualche simpatico teppista doveva aver tentato di appiccarvi il fuoco,
durante una scorribanda notturna, perché la griglia del citofono
appariva annerita e fusa. Lessi le etichette di vario formato e genere
appiccicate alla bell’e meglio: Svomiç, Zamir, Awoonda. Su alcune c’era
solo una sigla, altre erano bianche. Poi il cuore mi mancò un colpo.
Sull’ultimo campanello in alto a sinistra c’era un nome che non avrei
mai voluto leggere (e anche mentre lo leggevo la mia mente non
intendeva crederci): Zipoli Andrea. Era tutto vero. Abitava qui, come
quella donna aveva detto (“Però
sono sicura, se ho parlato con la
persona giusta, che dentro di lei, da qualche parte in fondo all’anima,
lei le cose le sa. E sa che io le ho detto solo la verità”).
Restai
immobile a fissare quel nome vergato con un pennarello nero su un
rettangolino bianco, col cuore forsennato come un treno, mentre il
sudore mi colava lungo la schiena. “...se parli ancora m’innamoro, non
devo fare niente, mi basta stare lì, semplicemente...”
cantava la radio
da qualche finestra aperta, prima che la musica venisse interrotta
bruscamente.
Che fare che fare che
fare CHE FARE?!? Piantata lì, sotto un sole
implacabile, con le dita dei piedi che mi si flettevano e distendevano
in continuazione per l’agitazione, la testa piena
solo di
quelle due parole. Che
fare.
Cheffarechefarecheffareccheffarrecchheffarrr. Scappar via lontano mille
chilometri, suggerì una vocina spaventata nei meandri del
mio cervello,
ormai cotto a puntino dalla tensione e dal solleone. Correre tra le
braccia di Andrea, sposarlo, farci quindici bambini e non chiedergli
mai niente,
le fece eco un’altra dal fondo del mio cuore. I due
suggerimenti presero a bisticciare per avere il sopravvento,
svolazzando vorticosi come i teschi volanti in Doom, e come questi
erano fiammeggianti e con zanne che laceravano dolorosamente. Di
sottofondo a questo duello il che
fare che fare che fare continuava
come eseguito da un’orchestra di ubriachi. Il dissidio mentale fu
infine squarciato dalle visioni contemporanee dei volti sofferenti di
Ricky e
di Sara, e tornai a rendermi conto di dov’ero. E di quello che dovevo
fare. M’infilai senza pensare nella porta spalancata, che mi accolse
con
una piacevole penombra ed un persistente, cattivo odore di muffa
e di escrementi. Le pareti del breve corridoio che portava alle scale
erano scrostate e coperte di scritte in qualche lingua sconosciuta.
Riuscii a decifrare uno sgrammaticato “Albannesi, fori dale bale”
vergato con uno spray assurdamente fucsia, accanto ad un eloquente
disegno di una donna che stava leccando un pene esagerato. Mariça,
secondo piano, era specificato. Bei
condòmini, pensai mentre salivo
circospetta le scale viscide e sconnesse, se veramente Andrea abita qui
ha di che divertirsi... Ma perché diavolo inventarsi
l’indirizzo del
Villaggio del Sole?!? mi scervellai per capirci qualcosa, e di chi sarà
poi quell’appartamento (perché io in un appartamento ci
sono stata!)
dei suoi, di un amico,
di chi?!? Continuai a salire con prudenza,
accompagnata dai sordi rimbombi del mio cuore nelle orecchie, con il
terrore di incontrare qualcuno. Chiunque, non solo Andrea (allora sì
che la frittata sarebbe fatta!). Passai davanti ad una
porta chiusa da
dove, all’improvviso, arrivò una cacofonia di grida irose in qualche
lingua dell’est, seguite da un colpo secco e da un piangere disperato
di bambini. Mentre proseguivo la salita la porta in questione si
spalancò e ne uscì un uomo biondiccio, con una canottiera piena di
macchie, che prese a scendere imprecando incomprensibilmente, sotto
gli occhi di una giovane donna in lacrime e di un paio di bambini dagli
occhi enormi e spaventati. “Dove
diavolo mi sto andando a ficcare?!?”,
pensai ancora una volta, e ancora non sapevo proprio niente, di quello
che mi aspettava. Arrivai finalmente all’ultimo piano, fermandomi
boccheggiante di fronte all’unica porta esistente. Il
caldo nel sottotetto era soffocante. Sbirciai un’ultima volta nella
tromba delle scale, ma le rampe e i pianerottoli rimasero deserti e
silenziosi. Fissai la porta, scrostata e malmessa come le sue sorelle,
chinandomi sul campanello a fianco privo di qualsiasi indicazione. “
E adesso?”,
pensai sconfortata mentre constatavo di persona che le mie
risorse di agente segreto erano molto limitate. Nei film l’eroina
avrebbe avuto la meglio sulla serratura con una banale forcina per
capelli (ma io li porto
così corti...) o intrufolandosi
nell’appartamento scavalcando la ringhiera del poggiolo e
avventurandosi pericolosamente lungo il cornicione a picco sulla via
(ehi, non scherziamo…
non se ne parla neanche!). Osservai la porta. La
porta osservò me.
Poi feci la cosa più ovvia, che viene quasi spontanea di
fronte ad una porta chiusa, anche se questa fosse sbarrata e blindata.
Provai la maniglia.
Così, tanto per dare un senso alla mia visita (e
l’approvazione al fatto che la missione era fallita e che potevo quindi
andarmene velocemente da lì...) impugnai la maniglia e l’abbassai. E la
porta, con un cigolìo quasi impercettibile, si socchiuse. Rimasi
interdetta
e stupita più che se ci fossi passata attraverso come un fantasma. La
porta era aperta! A quel punto il mio alibi di tagliare la
corda
perché non ero riuscita a entrare si dissolse come neve al sole. Non
avevo scusanti. A quel punto dovevo entrare (ma a cercare cosa, poi ?).
Spalancai del
tutto la porta, che mandò un secondo cigoloso lamento, e feci un passo
all’interno. Rimanendo allibita: la temperatura nella stanza era
gelida! Non fresca, visto che era immersa nell’oscurità creata dai
balconi
accostati, né tantomeno fredda, ma sottozero!!!
Osservai incredula il
mio respiro trasformarsi in candide nuvolette come fosse il primo
gennaio, mentre iniziavo a rabbrividire violentemente. “Qui
mi becco una polmonite!”, ricordo di aver pensato
spaventata mentre indietreggiavo nel tepore del pianerottolo, “il ventisette di giugno, per di
più!!!”.
Ero vestita come ci si veste in questo periodo dell’anno, e cioè
con una camicetta leggera senza maniche ed una corta gonna colorata. Se
entravo lì dentro mi sarei congelata a morte, ma d’altra parte ero
decisa ad andare a fondo della faccenda (che adesso stava assumendo, se
non me n’ero convinta prima, sinistre connotazioni soprannaturali) così
mi
feci forza. Mi lanciai nella stanza immersa nell’oscurità dirigendomi
verso le fessure luminose dei balconi, con l’intento di
spalancarli per far entrare un po’ della luce e, soprattutto, del
calore del sole estivo. Li aprii, scoprendo a mie spese che il
tentativo era fallito. Il tepore esterno si fermava giusto sul bordo
della finestra, senza riuscire a penetrare nella stanza per stemperare
almeno un po’ il gelo che vi regnava. La cosa più inquietante era come
il contrasto tra le due
temperature creava un suggestivo quanto inquietante vapore simile a
nebbia. Il sudore prodotto dalla salita
mi si congelò sulla pelle, e presi di nuovo a tremare come una foglia.
Non se siete mai entratu in una cella frigorifera, a me è capitato
alcuni anni fa quando, per guadagnarmi qualche soldo, lavoravo
durante le vacanze alla base degli americani. Ero
aiutante
alla Bakery, che sarebbe il nostro panificio, ed anche pasticceria,
quando un giorno caldissimo arrivarono dei prodotti da scaricare e
venne chiesta anche la mia collaborazione. Io uscii già accaldata dal
laboratorio dove il forno andava a mille, accostandomi alle porte
spalancate del camion fermo sulla piattaforma, senza rendermi conto che
era un camion frigorifero. Entrai con disinvoltura nel cassone e provai
l'identico, raggelante shock che stavo rivivendo ora in quella stanza
inquietante. La luce esterna mi permise di notare una
coperta di color marroncino stesa su un letto (una branda, più che
altro) e l'afferrai per gettarmela sulle spalle. Ora sembravo un curvo
stregone indiano, con quella
palandrana addosso, ma stavo meglio, e potevo dare un’occhiata intorno
senza rischiare l'ibernazione. A dire il vero non è che ci fosse molto
da
vedere, anzi, per dirla tutta, l’arredamento lasciava decisamente a
desiderare. Oltre al minuscolo letto nella stanza non c’era
nient’altro. Nulla!
Né un tavolino, né una sedia. Né un armadio, o
comunque un posto dove tenere le cose consuete di cui un normale essere
umano ha esigenza (un normale
essere umano, appunto). Se veramente
Andrea, o chi diavolo era, viveva in quel posto avrebbe avuto molte
cose interessanti da raccontare sui propri gusti in fatto di
temperatura della stanza e di complementi di arredo. Mi avvicinai al
letto, gettandovi un’occhiata. Le lenzuola, che avevo scomposto
strappando via con violenza la coperta, erano leggermente
macchiate di giallo e c’era anche una goccia di sangue secco, piccola e
rotonda . Fine dell'inventario. Niente vestiti o scarpe, né tantomeno
altri
oggetti personali. Sollevai lo sguardo, impietrita: in
quella stanza non esisteva nemmeno un fonte luminosa, e il filo
spellato e contorto
che sbucava tristemente dal centro del soffitto me lo confermava.
Andrea abitava qui senza
la luce elettrica!!! Non sapevo proprio più
cosa pensare, come se il gelo che mi
attanagliava avesse
ghiacciato il cervello, senza più la possibilità di riflettere e di
capire (prova a
riflettere come fa una stanza all’ultimo piano di un
palazzo ad avere una temperatura polare in piena estate...).
Mi guardai
ancora una volta intorno alla ricerca (vana) di un condizionatore
d’aria tarato al minimo, ma sarebbe stato
un po’ difficile nasconderlo sotto il letto. Nonostante quella
considerazione mi ritrovai carponi sul pavimento (ghiacciato anche
quello, oltre che ricoperto da uno strano e inquietante viscidume) a
sbirciare nelle ombre che si annidavano sotto il letto. Ma la ricerca
fu inutile. Poi, quando gli occhi si erano
ormai abituati
alla scarsa luminosità (oltre che al calore esterno quel posto sembrava
porre
resistenza anche all’ingresso della luce) la scorsi. Si confondeva un
po’ con la parete scrostata,
ma era inequivocabilmente una porta quella che si disegnava sul muro.
Una porta estremamente minuscola a dire la verità, alta non più di un
metro, e con un foro frastagliato al posto della
maniglia. Dove diavolo
sbuca, quella apertura così piccola? E a chi è destinata?
mi chiesi con un brivido più violento degli altri. Mi
avvicinai cautamente, infilando l’indice nel buco, provando a
tirare.
La porticina si aprì con un lamento, rivelando un’altra stanza immersa
nell’oscurità. Non appena la porta fu spalancata una
zaffata mi
investì, un odore secco e antico che ricordava spezie e tè. Il
profumo
che avevo sentito più volte sui vestiti di Andrea... Rimasi immobile, a
scrutare nelle tenebre, cercando di captare il minimo
rumore. Non successe nulla. Nessuna creatura balzò fuori dal buio
per divorarmi. Deglutendo di disagio e di paura infilai una mano
all’interno dell’apertura, e dopo un attimo la mia ricerca ebbe
successo: un inequivocabile, normalissimo, moderno interruttore della
luce capitò sotto le mie dita.
Lo azionaai, e
una luce giallastra illuminò fiocamente quella seconda stanza. Infilai
dentro la testa osservandomi intorno: l'ampiezza era quella di un
capiente ripostiglio, con le pareti percorse da tre
file di mensole, su cui erano posati vari oggetti. Al
momento irriconoscibili per lo spesso strato di polvere che li
ricopriva.
Decisa a proseguire il mio sopralluogo, strisciai sul pavimento sporco
fino a superare l’apertura, così da potermi rialzare in
piedi. Mi avvicinai alle mensole, soffiando via la polvere che si
sollevò in una nuvola che mi fece tossire e lacrimare. Rendendomi
conto,
mentre i peli del corpo si mettevano sull’attenti, che reggevano una
serie di figure fatte con la carta, degli origami di figure umane molto
ma molto più grandi del normale. Sembravano delle bambole fatte
di carta, una carta molto vecchia, giallastra e fragile.
Girai lo sguardo intorno notando una zona in cui la presenza della
polvere era molto meno massiccia, come se fosse stata usata più di
recente. Mi bloccai, con la bocca spalancata dallo stupore e
dall’orrore. C’era una coppia di figure di carta, ficcate a forza in
quello che sembrava un modellino di auto. Tipo quelli che si
costruiscono in kit di montaggio. Dico sembrava perché
l’automobile-giocattolo, come parte delle figure di carta al suo
interno,
era annerita e contorta, come se fosse stata data alle fiamme
(...quando la loro auto
uscì di strada di ritorno da una visita ad
alcuni parenti e s’incendiò...).
Il pianto mi sgorgò improvviso, e
violento, annebbiandomi per un attimo la vista. Mi passai il dorso
della mano sugli occhi, lasciando probabilmente lunghe strisce di
sporcizia, come decorazioni di guerra di un pellerossa, e continuai
quello straziante sopralluogo, ritenendo (a torto) che quello che avevo
appena scoperto fosse il peggio. Non era così, me ne resi conto quando
scoprii con sgomento una figura umana cartacea che portava attorno al
collo, come una collana aliena, un pezzo di filo spinato. Attorno al
collo, attorno
alla gola. Fissai impietrita le punte acuminate di filo
spinato che bucavano la figuretta riversa sulla mensola.
Punte che se fossero state attorno al collo di un essere umano
avrebbero creato una zona dove la pelle si sarebbe arrossata,
infiammata, in maniera spiacevolmente regolare, come l’irritazione che
può causare una collanina. Oltre forse a far perdere la
possibilità di
parlare. O no? Ormai gli shock si sovrapponevano agli shock, era come
visitare la pregiata esposizione di un macabro museo, e non avevo più
occhi da sbarrare mentre notavo subito dopo
un’altra figura alla quale era stata legata, più o meno nel punto dove
si
trovava la vita, un pezzo di corda. Un pezzo di fune colorata,
inequivocabilmente uguale a quelle che usano i rocciatori! Afferrai il
pupazzo di carta, che si sfaldò leggermente sotto la pressione delle
dita, e mi resi conto che il capo della fune era frastagliato, come se
fosse stato tagliato maldestramente. Mi sentii montare dentro una
rabbia velenosa, e con un ringhio selvaggio spazzai via dalle mensole
le figurette di carta, insieme a una tonnellata di polvere che iniziò a
turbinare offuscando la luce. Sembrava di trovarsi al centro di una
tempesta di sabbia. Tossendo furiosamente cercai a tentoni la bassa
apertura che portava fuori dalla stanza e mi ci infilai,
richiudendomi la porticina dietro le spalle per bloccare così la nube
di
polvere. Rimasi seduta per terra,
mentre le lacrime cercavano la strada sulle mie guance nere di
sporcizia.
Mi sentivo sporca e sudata e sfinita e intirizzita, e avrei avuto
voglia (e bisogno) solo di una doccia calda e di un letto. Tirai su col
naso, rumorosamente, e frugai nelle tasche della gonna alla ricerca di
un fazzoletto, senza trovarlo. Poi alzai gli occhi e vidi Andrea. Era
immobile appena dentro la soglia, e mi guardava serio, senza dire
niente. Io pensai che avrei dovuto avere paura ed invece rimasi lì
seduta, avvolta nella coperta marrone, a sostenere il suo sguardo.
Nessuna paura, nessun timore, sentivo il mio cuore leggero e calmo.
- Perché? - gli chiesi con un tono di voce quasi inudibile - perché io?
-
Lui
restò in silenzio per un po’, come se stesse cercando la risposta
giusta. Poi infilò le mani nelle tasche dei jeans, nel modo
che ormai
conoscevo, e la voglia di alzarmi e stringerlo tra le braccia scaturì
quasi irresistibile.
Ma fu una sensazione breve e fugace.
- Sono innamorato di te -
rispose - ho bisogno di te. No, bisogno è una parola brutta....
negativa... insomma, io so che la mia vita è più bella se ci sei tu... -
Io
sulle prime cercai di comprendere bene quello che mi stava dicendo, poi
feci un gesto vago, angosciato, verso la stanza che si apriva dietro le
mie spalle:
- E tu per amore uccidi le persone che ti ostacolano?!?
- non riuscivo a credere che lui non vedesse le cose come stavano
realmente - pensi di riuscire a conquistare una persona facendo terra
bruciata intorno a lei?-
Lui mi guardò, e i suoi occhi promettevano amore e felicità e calore.
-
Non sempre le persone riescono ad amare completamente, c’è sempre
qualcosa che stride, una... una sottile discrepanza tra quello che noi
desidereremmo e quello che gli altri ci sanno offrire. Ci possono
offrire. E’ questo il limite, quello che rende torbida la vita, e crea
infelicità. Io ti amo, e so quello che ti fa star bene. So quello che
desideri nei tuoi momenti più intimi, quello che ti auguri per il
futuro, per la tua vita. Io conosco i tuoi gusti, so quello che non ti
piace,
o che ti manda in bestia. So il tuo ultimo pensiero un attimo prima di
addormentarti e il primo che ti sveglia al mattino. Solo io posso
sentire i tuoi desideri, sapere che ami i pomeriggi di pioggia, e
stringere forte un cuscino quando guardi la televisione, e farti
scorrere l’acqua tiepida sui polsi mentre ti osservi nello specchio, e
le poesie. Qualcuno hai mai letto una poesia insieme a te? Io ho
voglia di farlo. Io ho voglia di fare tutto con te, non solo brani,
scampoli di vita. Io posso essere l’amore perfetto -
Mi puntellai lungo il muro, alzandomi in piedi:
-
Ma l’amore non è perfetto - esclamai con un bizzarro senso di trionfo
che mi montava dentro, come se stessi partecipando ad un assurdo quiz
televisivo ed avessi all’improvviso trovato la risposta esatta - la
vita, non è perfetta!!! E’ questo il bello, conoscersi, scoprirsi,
mettersi in discussione. La vita è imperfetta, e la felicità sta nel
riuscire a far combaciare più pezzi di armonia possibile. E’ il succo,
è il gusto della vita! Ogni piccola conquista con le persone che ami,
ogni sorriso che strappi è il senso della vita. E’ il mistero
dell’amore! -
Lui sembrava rimpicciolire sotto l’irruenza delle mie
parole. Fece una lieve smorfia, come di dolore, spalancando le braccia,
in un gesto d’invito:
- Possibile che tu non ti renda conto
dell’energia sprecata nella disperata ricerca di un attimo di felicità?
O di quello che credi esserlo? Io posso darti oceani di armonia, di
amore, senza bisogno che tu vada ad elemosinarlo in giro. Resta con me
per sempre, e avrai felicità per sempre - i suoi occhi si velarono di
disperazione - non farmi del male, io non ce la faccio senza di te... -
Quando
aveva quei momenti di tristezza instillava un desiderio quasi
irresistibile di prenderlo tra le braccia e coccolarlo e consolarlo. In
quei momenti riusciva ad essere l’essenza
stessa dell’amore, e
qualunque donna non avrebbe opposto resistenza. Mi sentii
improvvisamente
stanca e triste, e guardai il suo viso disperato:
- Amare è volere
il bene della persona che si ama, sempre! - dissi mentre un’assurda
sensazione di gioia mi traboccava dal cuore - desiderare tutto il
meglio per lei, anche se a volte questo può significare la propria
infelicità. Altrimenti è solo egoismo, bisogno. Se tu mi ami come dici
non dovresti arrecarmi dolore, non dovresti fare del male alle persone
a cui tengo. Se fosse amore dovresti fare di tutto per la mia felicità,
anche se dovesse coincidere col tuo dolore. Per questo il tuo non è
amore vero... -
Le mie parole sembravano quasi ferire fisicamente il
ragazzo, che si stringeva in sé stesso. Una lacrima sbocciò dall’angolo
del suo occhio e prese a scendere al rallentatore lungo il suo viso, e
la voglia in me di baciar via quella lacrima e con quella il suo dolore
era quasi insopportabile. Ma io mi facevo scudo delle facce sofferenti
di Sara e Ricky, anche se ero inorridita e terrorizzata dal rendermi
conto che, comunque, buona parte di me mi urlava di fregarmene di Sara
e Ricky e di correre tra le sue braccia.
Qualcosa dentro di me,
forse la parte oscura che ognuno nasconde dentro e fa
commettere cattiverie e torti, che fa mentire ed imbrogliare, provava a
convincermi di dimenticare, di non pensare mai più alle due persone che
giacevano all’ospedale, di far finta che non fossero mai esistiti. Di
questo
stava cercando di convincermi, l’oscurità in fondo alla mia anima, e la
cosa agghiacciante era CHE CI STAVA RIUSCENDO!!!
Annaspai in preda
al panico e qualcosa cadde dal mio viso verso terra. Guardai in basso,
giusto in tempo per scorgere una goccia di sangue, del mio sangue,
colpire il pavimento e schizzare tutto intorno. Mi portai un dito al
naso e non mi sorprese di vederlo colorarsi di rosso. Lo puntai verso
di lui:
- Il tuo amore fa male - sibilai tra i denti - quello che tu
chiami amore perfetto uccide, e tu lo sai benissimo. Hai bisogno di me
perché hai bisogno di nutrirti. E poi smettiamola di chiamare le cose
col nome sbagliato... il tuo è tutto fuorché amor...-
Non riuscii
nemmeno a terminare la frase. Il pavimento, la stanza, l'intero palazzo
vibrarono
violentemente per un brevissimo istante, mentre un brontolìo basso ed
inquietante riempiva l’aria. Sembrava in tutto e per tutto una scossa
di terremoto, ma io sapevo che non era così. Nessuno, oltre a me, aveva
udito qualcosa. Mi sentivo la bocca completamente asciutta, e
cominciavo ad avere una paura folle. Andrea fece un passo verso di me,
con la faccia contorta da un’espressione a metà tra il deluso e
l’arrabbiato, poi si bloccò:
- Io posso farti stare bene, io ti amo,
io non potrei mai farti stare male io sono qui sono il sogno so quello
di cui tu hai bisogno io ti amerò io ti io stare con te un bacio un
solo bacio non pensare stai con me Giulia io ti amo amore stai con me
non mi lasciare Giulia baciami un bacio baciami ora per sempre -
Cominciò
a parlare confusamente, ripetendo le cose e avvicinandosi a me. Il suo
volto vibrava a tratti come un effetto speciale di un film e i suoi
occhi iniziarono a dilatarsi, ingrandirsi, e a riempire tutta la
stanza, e poi tutto il mondo, come nel sogno che avevo fatto all’inizio
di tutta questa storia. Ero come paralizzata, ipnotizzata ma
sapevo benissimo che avrei dovuto fare qualcosa, qualunque cosa, per
evitare che lui mi toccasse, o sarei stata perduta.
- Il tuo non è
amore! - gli urlai contro, spingendolo via mentre schizzavo verso
l’uscita. Lui, preso alla sprovvista, perse l'equilibrio per
un
attimo, ma fu sufficiente. Imboccai le scale come un proiettile,
mulinando le braccia nel tentativo di non sfracellarmi, scendendo
a precipizio i pianerottoli senza voltarmi. Le porte chiuse degli
appartamenti mi sfrecciavano accanto confondendosi in strisce
multicolori. Nonostante il rumore dei miei passi e il fiatone che mi
rimbombava nelle orecchie non mi sembrò di sentire nessun altro suono
dietro di me. Andrea non mi aveva seguito. Arrivata all’ultima
rampa di scale già scorgevo la luce accecante del sole che riempiva
l’androne, quindi rallentai istintivamente sentendomi ormai al
sicuro. E fu allora che avvertii nitidamente quel lieve tocco sulla
spalla e la
sua voce, così vicina da farmi trasalire.
- Non lasciarmi, dolce
Giulia, ho bisogno di te - sussurrò al mio orecchio. In preda al panico
per il fatto di non riuscire a spiegarmi come avesse fatto ad arrivarmi
così vicino senza il minimo rumore (hai
ancora bisogno di chiederti
come riesca a fare le cose?) ripartii di slancio verso
l’esterno, ma
l'impulso del mio cervello fu più veloce della risposta
dei piedi,
che si ostacolarono a vicenda come buffi clown del circo. Non riuscivi
a evitare di volare
verso il basso, come un sacco di patate, e l’unica cosa che fu in mio
potere fare fu osservare con distaccato interesse il pavimento sporco
che si avvicinava sempre più velocemente. Poi sbattei la faccia e il
buio mi avvolse.
EPILOGO
Successero molte cose,
durante e dopo il mio svenimento, la maggior parte delle quali
non
aveva il minimo straccio di giustificazione logica. Per questo non ho
mai avuto la pretesa di chiarirmele - pena forse l’equilibrio mentale -
ma solo, a volte, di ritornarci su con la memoria, come fossero
aneddoti
di un’altra vita. O scene di qualche vecchio film. E ogni volta che che
le ho ripercorse con la mente non ho mai provato la minima sensazione
di paura, nonostante fossero accadimenti del tutto fuori dal normale.
Anzi, il constatare questo alimenta ogni volta la fiducia
nella parte luminosa delle persone, nel loro lato buono. Nell’amore, in
definitiva, che da qualche parte prima o poi riesce a germogliare, come
una piantina ostinata che si apra la strada nel cemento di città. Posso
ricordare tutta quella strana e tragica storia, quindi, senza
strascichi di nessun tipo, quando ne sento la voglia o il bisogno. Come
adesso seduta nel prato davanti a casa mia, mentre osservo mia figlia
che zampetta felice dietro un pallone mezzo sgonfio. In fondo, tutto
sommato, si può tranquillamente dichiarare che è stata una vicenda a
lieto fine, più o meno. Ma vediamo di andare per gradi: una voce
gentile e qualche scossone mi strapparono dal buio del mio svenimento.
A poco a poco gli occhi misero a fuoco la faccia smunta della
donna che avevo intravisto sulla porta di un fatiscente appartamento
durante la mia perlustrazione nel palazzo. Scossi la testa per cercare
di scacciare la nebbia che mi attanagliava, e vidi i due figli della
donna sbirciarmi curiosi da dietro la gonna variopinta della madre.
- Zi-gnora, sta mala, zi-gnora caduto - ripeteva la giovane china su di
me - chiama hospitalia, mala? -
Io sorrisi e le feci un cenno rassicurante, mentre mi
aggrappavo a
lei per drizzarmi in piedi. Un lieve ed improvviso capogiro mi fece
barcollare, ma passò subito.
-
Non è niente, non è niente - la rassicurai mentre spolveravo via alla
bell’e meglio la sporcizia dai miei vestiti. L’indomani avrei avuto un
bel bernoccolo bluastro sulla testa - niente male, grazie, tutto bene -
Uscii
di lì, immergendomi nel sole accecante del sabato estivo, e non vidi
traccia di Andrea. Nessuno mi seguì né cercò di rapirmi in qualche
vicoletto deserto. Feci la strada verso l’ospedale veloce come un
treno, mentre la mia mente giocherellava con rapide istantanee di
quello che mi era appena successo. Senza soffermarcisi più di tanto,
come se i pensieri fossero castagne bollenti. Quando giunsi
all’ospedale le cose cominciarono a cambiare, e in meglio. Sarebbe
adesso inutilmente prolisso soffermarmi su ogni singolo elemento,
le facce incomprensibilmente (per me) sollevate dei parenti,
l’incredulità degli infermieri, lo stupore malcelato del dottore di
guardia. Potete anche immaginarvelo da soli. La cosa importante, ed
incredibile, è che Ricky stava bene. Era uscito dal coma,
all’improvviso, ed era perfettamente normale. Nessuna conseguenza,
nessuno strascico.
Naturalmente nessuno sapeva spiegarsi
quell’inaspettato miglioramento, né i medici che si affollarono come
mosche sul miele attorno al suo letto, né i parenti che di certo non
avevano esigenze di spiegazioni scientifiche. Io sola avevo la
spiegazione in
mano, anche se per nulla al mondo sarei andata a spifferarla in giro. E
comunque nemmeno io lo venni a scoprire subito. Dovetti aspettare che
il clamore di quella cosa scemasse, che la stanza 212 si svuotasse di
curiosi e zie in lacrime. Che Ricky si addormentasse sotto l’effetto di
un sedativo somministrato unicamente a scopo precauzionale per lo
stress del subbuglio creato dal suo risveglio. Dovetti aspettare che il
cielo all’orizzonte, al di là delle vetrate, si riempisse di rosso
sfolgorante prima che Gianni, il compagno di stanza di Ricky, si
decidesse
a farmi un cenno. Per la prima volta in quel pomeriggio caotico posai
lo sguardo su di lui, scoprendolo stranamente agitato, ma anche
raggiante in viso. Mi avvicinai con curiosità al letto e ascoltai
il suo racconto. E lui parlò, concitatamente, a bassa voce,
stringendomi con forza il polso senza nemmeno rendersene
conto. Parlò, e
mi raccontò una storia che a qualsiasi altra persona sarebbe suonata
delirante e inaccettabile, ma non per me. Mi disse che lui stesso aveva
pregato affinché Ricky migliorasse, e che probabilmente le sue
preghiere, sussurrate a fatica frugando nei ricordi infantili per farne
riaffiorare le parole, erano state esaudite. Stava sonnecchiando, mi
disse. Dentro e fuori un sonno leggero e disturbato, nella
penombra scura delle tapparelle abbassate, rotta solo dalle decine di
puntini luminosi attraverso cui filtrava il sole. Poi quel
ragazzo era entrato nella stanza, fermandosi con le spalle appoggiate
alla porta. Rimase
immobile per alcuni minuti, continuò Gianni, lo osservai senza riuscire ad
emettere nessun suono, che so, chiedere
chi fosse, cosa volesse... Dopo un po’ si avvicinò al letto di Ricky, e
la cosa strana fu 'come' gli si avvicinò... sembrava
quasi che...
“fluttuasse”, senza muovere il corpo. Si bloccò al suo fianco,
osservandone il sonno senza dire una parola. Ancora una volta
io
cercai di attirare l'attenzione, non sapevo chi fosse e non mi
lasciava molto tranquillo la sua improvvisa comparsa. Ma una volta
ancora la
mia gola era bloccata e, come constatai di persona un attimo dopo,
anche ogni mio centimetro di corpo. Sembravo paralizzato da una qualche
forza invisibile. Improvvisamente le palpebre cominciarono a farsi
pesantissime, era quasi impossibile tenerle aperte, e capii che stavo
per addormentarti di botto. Lottai più che potei contro gli occhi che
volevano chiudersi inesorabilmente e poi... poi fece quella cosa. O
almeno io lo vidi farlo. Ma ormai stavo per scivolare in un sonno di
piombo, e adesso come adesso non saprei giurare su cosa ho
visto e cosa - forse -
ho sognato. Ma anche se la mia mente è confusa, da qualche parte dentro
di me io sono sicuro di aver visto bene. Cos’ho visto? Ho visto la sua
mano sollevarsi lentamente, col dito proteso, fino a trovarsi a pochi
centimetri dalla fronte del mio amico immobile. E ho visto quel... quel
colpo di luce... come ho detto la stanza era quasi completamente
immersa nell’oscurità, ed è stato come... come potrei dire... come una
scintilla minuscola, di un bianco accecante. Scaturita direttamente
dalla punta
del suo dito. Un piccolissimo lampo di luce candida, ecco cos’era. E
sono sicuro di quello che dico, anche se ho perso conoscenza subito
dopo,
perché, ancora adesso, a ore di distanza, quando chiudo gli occhi il
fantasma luminoso di quella scintilla mi rimane impresso nella
retina...
Gianni, col viso colorato dal tramonto che andava in scena
al di là dei vetri, mi osservò con occhi pieni di
interrogativi ma
non di paura.Prima di formulare la domanda che ancora
oggi, qualche volta, mi si affaccia alla mente. Domanda alla quale
comunque
non ho voluto, o saputo, dare una risposta certa. Piantò i suoi occhi
nei miei sussurrando: “chi
era, Giulia, quell’uomo?!? Che cosa era, un
angelo?!?”
Non
lo sapevo, ovviamente. Nè tantomeno lo so adesso. Forse non era un
angelo, non con tutto il male che aveva causato... ma forse, alla fine
di
tutto, qualcosa dentro di lui aveva fatto germogliare il
desiderio di un gesto positivo. Non so cosa fosse scattato in
lui,
e non ho certo l'arroganza di pensare che possano essere
state
le mie parole sull’amore. Se non addirittura il suo amore per me. Anche
se qualche volta, quando sono sola nella mia casa, e Ricky e Emma sono
fuori insieme da qualche parte, e un raggio di sole filtra attraverso
la finestra per perdersi sul legno del pavimento, mi piace credere che
la sua voglia reale di avere un amore come tutti, un amore dolce e
appassionante e magico, l’abbia spinto a quel piccolo grande miracolo.
Di sicuro so che è stato lui, non c’è certo bisogno di pensarci su, è
stato Andrea a risvegliare l’uomo che amo. E non solo. Non ho
verificato di persona, ma credo che nello stesso momento in
cui Ricky apriva gli occhi e salutava cordialmente un allibito Gianni
Garzia, due piani più sotto, la febbre di Sara spariva per restare solo
un brutto ricordo, e con quella anche l’incapacità di parlare.
Quando sono entrata nella sua stanza (del tutto libera anche da quel
cattivo odore di malattia) e mi sono tuffata sul letto ad abbracciarla,
sotto gli occhi divertiti delle sorelle e di un paio di infermiere, ho
notato subito che sul collo non c'era più traccia di
rossore. Andrea ha guarito Ricky e ha guarito Sara. La sua influenza
malefica si era dissolta, aveva
voluto
dissolverla, e tutto era tornato
a posto. Io sono convinta che anche il povero Ugo Maniero avrebbe
miracolosamente riavuto la vista, se tre giorni prima non avesse
cercato a tentoni la finestra e non si fosse buttato giù dal quarto
piano. Questo non l’aveva potuto prevedere nessuno, ed è quello che fa
di questa storia, comunque, una tragica vicenda priva di un lieto fine.
Almeno non per tutti. Chi più, chi meno, ha avuto da tutto ciò
un'eredità non del tutto piacevole. E’ il prezzo da pagare, credo.
Questa
storia mi insegnato in definitiva, se già non ne ero convinta, che alla
fine un prezzo da pagare ci sia sempre. Tutto costa, nella vita,
l’amare, il non amare, il male, il bene. Le cose non ti arrivano
gratis, nient'affatto, e devi farci i conti se ti conviene o meno.
Perché il conto salato che prima o dopo la vita ti presenta non si paga
con moneta frusciante o impersonali assegni, ma con dolore e lacrime e
sangue. Magari non necessariamente il tuo sangue e le tue lacrime, per
una scelta che hai fatto o non hai fatto, ed è proprio questo che rende
così salato il saldo. Ricky, ad esempio, è tornato a vivere senza
particolari conseguenze, a parte che la botta presa alla gamba gli ha
impedito per sempre di dedicarsi ai suoi sport preferiti e questo,
anche se non lo dà a vedere, di sicuro gli pesa molto. Anche Sara ha
periodicamente dei problemi con la voce, specie nei momenti in cui è
particolarmente affaticata. Nessun medico ha saputo ovviamente dare una
spiegazione accettabile a questi due casi, hanno parlato di
“autoripristino delle funzioni cerebrali” (nel caso di Ricky) e per
Sara non si sono neanche sprecati a inventarsi qualcosa. L’unico
risultato è stato quello di essere contattati dalla redazione di un
noto programma televisivo che tratta questo tipo di cose, allo scopo di
invitarci a raccontare la nostra esperienza tra (sono parole
loro) il caso della
donna che parla col fantasma di Elvis e una coppia
di extracomunitari che chiede giustizia per un torto subito dal loro
padrone di casa. E’ inutile dire che abbiano gentilmente
ma fermamente
rifiutato. Ma, tornando al discorso di poco fa, l’unica eccezione al
pagamento del prezzo sembro essere solo io. E non riesco a
spiegarmi il perché. Per me le cose sono andate, e continuano ad
andare, splendidamente. E non so proprio se me lo merito. Ho sposato
Ricky, di
lì a poco, e senza bisogno di tanti discorsi lui ha voluto vendere il
palazzetto del centro che voleva mettere a posto per noi. Con i soldi
(molti) ricavati dalla vendita ci siamo comprati una deliziosa casetta
alle porte della città, immersa nel silenzio e nel verde, e devo
confessarvi che è sempre molto piacevole, ai primi caldi estivi,
svegliarsi ed uscire a piedi nudi sull’erba del prato di casa propria.
Prato dove sta scorazzando in questo momento nostra figlia Emma, che
non perde occasione per appassionarsi a qualcosa, che sia una lucertola
addormentata al sole o i pelucchi che il vento strappa via ai pioppi.
Mentre guardo quella piccola copia di me stessa girarsi agitando
trionfante un rametto che ha raccolto nell’erba, mi ripeto che
è una bella vita, la nostra, senza troppi problemi, per il momento
tutti risolvibili, e che sono molto di più i giorni in cui su di noi
splende il sole che quelli carichi di nuvole minacciose. E spero che
continui molto a lungo, tutto questo, anche se qualche volta il
pensiero che la vita non si sia ancora presentata col suo
conto
da pagare su quello che mi è capitato, piccolo o grande che sia, un po’
mi fa tremare il cuore.
Ci siamo. E’ successo
stamattina, mentre spazzavo un po’ di foglie che la brezza della notte
aveva accumulato in cortile. Doveva essere stato posato sul
muretto che ci divide dalla strada, ma il vento l’ha fatto rotolare
nell’angolo che forma col pilastro del portoncino d’ingresso.
L’ho
visto subito, anche se era nascosto da un balocco di sporcizia. Un
piccolo origami, che altro? Un fiore,
un minuscolo tulipano di carta
sottile. Eccolo, il
prezzo, ho pensato mentre lo rigiravo tra le dita,
ma non avvertivo nessuna paura, dentro di me.
Sono pronta, ed ho molte più cose da
insegnare sull’amore, adesso.
Ti sto aspettando.
Mauro Marani
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