La scintilla

di marani
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giulia - Sara - Andrea ***
Capitolo 2: *** Pizza - Malori - Prediche ***
Capitolo 3: *** Weekend-Poesie&Febbri-Sotterranei ***
Capitolo 4: *** Orgasmi-Telefonate ***
Capitolo 5: *** Visite mediche - La sfida ***
Capitolo 6: *** L'incidente - Domenica ***
Capitolo 7: *** La donna - Confronto - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Giulia - Sara - Andrea ***


Scinti N.d.A.: a seconda della lunghezza dei capitoli originari, ne metterò uno o più nella classificazione che ne fa questo sito. Ah, è una storia bella lunga. Per cui, se siete patiti delle flashfic... non so se vi conviene addentrarvi. Però potreste provarci, perchè no? Buona lettura!


LA SCINTILLA


L’amore ha denti e artigli
che sanno lacerare a sangue
e causare ferite
che non rimarginano mai


CAP. 1

Vicenza, 1987

Non so ancora bene come cominciò il tutto.
E’ sempre così, ogni cosa pare avere una fine, un epilogo chiaro, netto. Il chiudersi di una storia d’amore, la conclusione di un rapporto di lavoro. Ma al contrario è ben difficile dire quando le cose hanno inizio. Di solito ce ne si trova in mezzo e si tenta inutilmente di andare indietro con la memoria, senza trovarne capo. Andare per gradi, forse, può essere utile per ricordare meglio. Il mio nome è Giulia, per cominciare, e sono una ragazza di venticinque anni. Una ragazza come tante è la definizione più veritiera che potrei affibbiarmi senza tema di imbarazzo. L’essermi da sempre appassionata di computer mi ha agevolato non poco nel trovare un impiego, nonostante lo scetticismo di mio padre, fin dai tempi ingenui e nebulosi post-diploma delle superiori. A differenza delle mie coetanee, dibattute tra il restare a casa a sfogliare riviste zeppe di pettegolezzi su attori e cantanti famosi o noiosi impieghi di commesse.In genere in negozi di abbigliamento giovane, pulsanti di musica techno e luci allucinate. Precarie attività commerciali che, a seconda delle mode e delle imposte da pagare, sbocciavano e appassivano come effimeri fiori lungo le vie del centro cittadino.
E fu proprio mio padre l’artefice involontario della mia futura professione, quel Natale di ormai sette anni orsono. Quando sotto il tradizionale albero carico di decorazioni e dolciumi mi fece trovare, avvolto nella classica carta dorata, uno dei primi esemplari di Commodore 64. E’ un computer, per chi non se lo ricorda o non ne ha mai sentito parlare. Un computer della prima generazione, si suol dire oggi, ed effettivamente lo era, con tutti i limiti che questo voleva significare. A quel tempo comunque era come se un uomo delle caverne si ritrovasse tra le mani all’improvviso un’arma da fuoco, o anche solo arco e frecce. Adesso fa un po’ sorridere scorgere gli stessi modelli di computer far bella mostra sulle bancarelle di qualche fiera di modernariato, a fianco di panciuti frigoriferi rossi della Coca-Cola e buffi omini Michelin, resi goffi e obsoleti dal galoppare della tecnologia e del design. Vestigia di un passato non così remoto da aver suggerito di conservarli (in fondo siamo sempre figli dei figli del boom economico del ‘60) ma tali da costare ormai un occhio della testa al fine di rientrarne in possesso, al pari di sedie Luigi XV e statuine in gesso di Lenci. Così, dopo i primi preistorici videogame sul C 64 (chi non ricorda il mitico “Space Invaders”, con improbabili astronavi seghettate che rovesciavano sulle basi semoventi una pioggia di “trattini” letali?) passai alla grafica psichedelica degli Amiga, prima di approdare a proposte di pc sempre più economici e potenti. I miei interventi sulla macchina non avevano alcunché di geniale o di creativo, ben s’intende, ero solo l’equivalente elettronico di una buona analista contabile o, al massimo, di un ragioniere. Metodo e calcolo, in due parole. In ogni caso fui allettata, dopo un paio di impieghi di transizione, dalla proposta della Biblioteca Civica di passare (cominciare a passare, ad essere sinceri) su archivio elettronico anni, decenni, forse secoli di archiviazione manuale. Nel tentativo di sostituire (gradualmente, mai parola fu più auspicata e azzeccata) l’oceano di schedule vergate con mano tremante e svolazzante da una legione di segretari, ormai defunti a parte il nostro signor Pesavento, attuale burbero responsabile di tutto ciò che entra e soprattutto esce dalla biblioteca. Anche se gli altri addetti alla gestione dell’istituzione libraria pongono spesso spiritosi dubbi sul fatto che anche il vetusto Pesavento non sia già passato a miglior vita da tempo, e che sia il suo improbo attaccamento al lavoro a portarlo ogni santo giorno a presentarsi puntuale alle 8,00. Con l'mmancabile completo grigio e i gilè di lana scura.
Ma queste, come ripeto, sono le tipiche spiritosaggini comuni ad ogni ambiente di lavoro, quando la convivenza tra individui eterogenei porta i più dotati di ironia (o forse di cinismo) a dispensare battute non sempre azzeccate su questo o quel collega. Ce ne sono, di persone, in una biblioteca come la nostra. Non tante come in una grande azienda od in un istituto scolastico, immagino, ma comunque abbastanza da formare una piccolo drappello vociante quando ci si riunisce tutti insieme, magari in occasione di qualche rara cena di lavoro. Occasione aborrita dai più, e appunto per questo rara, visto che non si riesce mai a “obbligare” tutti alla presenza. C’è sempre qualcuno che ha un impegno dell’ultimo minuto (inderogabile) o l’allenamento di chissà quale sport (fatalità) proprio nel giorno fissato per la cena. C’è da capirli, è ovvio, se nell’ambiente di lavoro non sboccia spontaneo anche un legame di amicizia (ed è un po’ arduo che nasca in tutti contemporaneamente con la medesima intensità) è soprattutto una rottura di scatole rubare una sera alla famiglia, agli amici o anche solo al telequiz del giovedì sera per passare altre tre, quattro ore a parlare della biblioteca, del Consiglio che rilascia permessi col contagocce e dei cronici problemi dei magazzini. Sì, perché nonostante ad intervalli regolari tra gli antipasti e il caffè qualcuno salti fuori con la classica frase: “oh beh, ragazzi, adesso basta parlare di lavoro!..”, alla fine gira e rigira sempre lì si ricade.
Ci si ritrova al completo solo in queste poche occasioni, dicevo, mentre durante il giorno si ha l’occasione di vedere la maggior parte dei colleghi solo singolarmente o a coppie. O a piccoli gruppi mentre tentano di entrare tutti insieme in quella che qualche ottimista ha battezzato “stanza-caffè” (vano caffè sarebbe stato più appropriato, visto che tra macchina del caffè, il ronzante frigorifero per le bibite estive, rigorosamente portate da casa e di conseguenza siglate per il riconoscimento, e scatoloni di filtri del caffè e bustine di zucchero e bicchierini, in due ci si intralcia e in tre ci si blocca). Come in tutte le stanze o vani o angoli caffè di tutto il mondo è sempre affollato di uomini che discutono dell’ultima partita di campionato e donne che commentano la precedente serata televisiva, ed è molto raro, quasi improbabile trovarlo deserto a lungo (e questa è una prima cosa da tenersi a mente per il proseguo del racconto).
Tutto questo preambolo (lo so, sono prolissa, se te lo fanno notare i tuoi fratelli prima e poi le tue compagne di scuola qualcosa di vero ci deve essere) per dire che dopo un mese buono di lavoro non sapevo bene quali e quante persone erano impiegate nella biblioteca, né tantomeno i loro nomi o le loro qualifiche. Sì, avevo parlato con le signore della segreteria, la Amalia e la Luigina, così piccole e rotondette e iperattive che era facile confonderle, e la segaligna Maria Luisa, sempre burbera al punto giusto, come se la piega verso il basso della bocca le fosse stata tatuata alla nascita. Poi il già citato signor Pesavento, che da una vita immemorabile incatenava la sua vecchia bicicletta alle fioriere che delimitavano l’ingresso, salvo poi fare il diavolo a quattro quando gli studenti frequentatori della biblioteca parcheggiavano le loro decine di ciclomotori e vespe. Tra gli addetti alle sale c’era la mia amica Sara, con cui spesso e volentieri uscivo nella pausa pranzo, anche se lei era perennemente assillata dalle diete e dai chili (chili?... grammi in più!) e quindi il più delle volte finivamo a guardare le vetrine dei negozi del Corso (chiusi) o sedute, nella bella stagione, sui gradini della piazza a parlare dei fidanzati o dei fidanzati o dei fidanzati (chiaro, no?). Il mio sacrificio nel non pranzare era dettato soprattutto dalla solidarietà verso un’amica ossessionata, più che da un vero e proprio bisogno di mantenere la linea, e comunque Sara mi avrebbe rinfacciato fino alla nausea il mio egoismo se solo avessi pensato di divorarmi qualche succulento panino mentre lei si sorbiva il suo yogurt quotidiano. Yogurt magro, ovviamente.
Colleghi di Sara nell’accogliere, accudire e soprattutto sorvegliare gli studenti (che come tutti gli studenti del mondo avevano sempre volumi di voce e voglia di scherzare ben superiori a quanto i muri vetusti di una biblioteca possano sopportare) erano il gioviale Walter, un venticinquenne paffutello e riccioluto. Sempre intento a sgranocchiare qualche snack al cioccolato che teneva in tutte le tasche possibili (perenne diavolo tentatore del precario equilibrio alimentare di Sara, che lo cacciava, urlando per quanto sia possibile in una sala di biblioteca, dandogli del senza cuore e dell’insensibile). E l’antipaticissimo (questo andrebbe scritto tutto in maiuscolo) Ugo Maniero, un viscido e anonimo quarantenne con la detestabile abitudine di soffermare un po’ troppo le sue mani affusolate (e per questo ripugnanti) sulle braccia o sulla schiena di qualche occasionale interlocutrice del gentil sesso. Qualunque interlocutrice, pareva, essendo di gusti abbastanza ampi. Il suo tocco non era mai troppo prolungato o troppo esplicito da giustificare una reazione irritata o risentita, ma dava comunque molto fastidio. Forse anche questa era una sua squallida abilità. Ne parlavamo a lungo, con Sara e le studentesse, e il senso di ripugnanza era comune. Non parliamo poi di come era lesto ad alzare lo sguardo se qualche ragazza in gonne saliva la rampa di scale che lui stava discendendo, o di come si soffermava (fingendo di riordinare libri) nel punto migliore per una visuale panoramica dell’interno di qualche camicetta sbottonata per il caldo estivo. E vi assicuro che da giugno in poi, specie nelle sale ai piani più alti, l’afa è decisamente insopportabile.
Degni compari del Maniero c’erano poi quelli dei magazzini, un’accozzaglia (a parte qualche eccezione) di rozzi sempre pronti alle battute più salaci (rigorosamente a sfondo sessuale) quando per qualche ricerca particolare ci si doveva addentrare nei poco luminosi sotterranei della biblioteca, dov’era situato il magazzino, ormai al limite del collasso per problemi di spazio. Per quanto poco impressionabili si possa essere, davano comunque un brivido alla schiena quei polverosi e silenziosi scaffali di libri, sempre troppo in penombra.
Poi c’erano i lettori, e gli esterni, e i ragazzi del tirocinio, e i ragionieri dell’amministrazione. Insomma, non mi sembrò per nulla strano non aver mai visto quel ragazzo
(Andrea...)
prima di quel caldo mattino di fine giugno.
- Credo che tu debba ridare le impostazioni di stampa -
Alzai lo sguardo. Sulla porta del minuscolo ufficio che divido solitamente con Sara, c’era un ragazzo. Aveva un’età indefinibile. Un folto ciuffo di capelli neri gli ricadeva sulla fronte. Portava un buffo gilè di velluto su una camicia bianca di stoffa indiana lavorata. I suoi occhi avevano...un’espressione smarrita, quasi dispiaciuta, come se invece di un consiglio d’informatica avesse dovuto comunicare, che so?, di avermi versato il caffè sul vestito. Non mi stava guardando. Fissava invece il monitor del computer che avevo poco dietro di me.
- Prego? - riuscii a dire, colta di sorpresa.
- Il computer... - indicò - non stampa. Devi aprire Scelta Risorse e reimpostare la stampante. Lo fa, a volte, è uno dei misteri dei computer. Forse succede quando lo spegni in un dato modo...o forse quando si sveglia male... -
Un velo di divertimento attraversò per un attimo il suo sguardo, che tornò subito quasi malinconico.
Mi girai verso lo schermo, muovendo automaticamente il mouse. Sì, effettivamente avevo dato l’ordine di stampare l’elenco degli autori in ordine cronologico dal 1975 al 1977, e poi mi ero riimmersa subito nelle carte sparse sulla mia scrivania. Non avevo fatto assolutamente caso al fatto che la macchina non aveva sputato nessun foglio di carta, né bianco né stampato, dopo un po’ ci si fa l’abitudine ai rumori e alle elaborazioni del computer, a volte si crede che abbia stampato salvo poi constatare che non l’ha fatto. Quello che mi lasciava perplessa era che sullo schermo non era apparso nessun messaggio che confermasse l’impossibilità a stampare, dal quale si potesse dedurre che era un problema di Scelta Risorse. E la mancanza di qualsiasi comunicazione da parte del computer impediva appunto che si potesse pensare ad un errore di stampa. Potevo semplicemente aver lasciata aperta la lista degli autori per consultarla, o per modificarla, senza nessuna esigenza di stamparla. Voglio dire, per quello che si vedeva sullo schermo solo io potevo sapere se avevo mandato in stampa il documento o no. O almeno così credevo. D’altra parte non sono così ferrata sulla parte hardware o software o come cacchio si chiama per sapere se qualcuno più esperto di me potesse trarre comunque informazioni sullo stato di quel complicato scatolone futuribile. Fin che funziona lo uso, digito, apro e chiudo programmi, magari perdo un pò di tempo con qualche stupido giochino, ma se per qualche misterioso motivo il tutto dovesse andare in tilt (o in bomba, come insegna il gergo) beh... chiamo aiuto.
Aprii Scelta Risorse reimpostando la stampante e, dopo un breve attimo di riflessione, il computer mi diede l’ok a stampare.
-...g-grazie... - mormorai girando la testa verso il ragazzo - ma come hai fatto a...-
La stanza era vuota. Il ragazzo non c’era più, come se non fosse mai esistito.
Dalla soglia fece capolino Sara, con un pacco di libri tra le braccia. Indicai il corridoio dietro di lei:
- ...quel ragazzo... sai chi è ? -
Lei fece un passo indietro scrutando a destra e sinistra:
- Di quale ragazzo parli ? - rispose con un’espressione perplessa sul volto - in corridoio non c’è nessuno... -


CAP. 2


Quella notte feci un sogno. Ero in una strada di una città sconosciuta, sotto una bufera di neve turbinante e gelida. Vagavo senza sapere dove andare, ed ad ogni angolo mi sembrava che qualcuno mi seguisse, solo che non appena voltavo lo sguardo indietro l’impressione spariva. Come se la presenza misteriosa si ritraesse appena un attimo prima di essere scorta. All’improvviso scorsi Sara ferma davanti a me, immobile, che mi dava le spalle. Mi avvicinai senza riuscire a chiamarla, e mentre alzavo un braccio verso le sue spalle fui presa da un’angoscia terrorizzante. La mia mano si avvicinava inesorabilmente alla mia amica ma tutto il mio essere era spaventato dall’idea di vederla girare e guardarla in faccia. La toccai e lei si voltò: era proprio Sara. Stavo per dirle qualcosa quando la sua faccia... vibrò...per un istante... tramutandosi poi nel volto del ragazzo apparso improvvisamente nel mio ufficio, e misteriosamente scomparso. I suoi occhi avevano sempre quell’espressione a metà tra lo smarrito e il rattristato:
- Non puoi stampare senza di me...io sono il sogno...- disse con un lieve sorriso -...e tu sei una persona speciale...-
Poi i suoi occhi, fissi nei miei, cominciarono ad ingrandirsi, sempre di più, sempre di più, fino a che il mondo intero ne fu pieno e...
Mi svegliai di scatto, con un lamento, e rimasi immobile, tra le lenzuola intrise di sudore, ad ascoltare il ticchettìo di un temporale estivo sui vetri della finestra.


CAP. 3


- Un ragazzo con dei lunghi capelli scuri... e poi che altro? -
Con un’espressione divertita e incuriosita Sara si protese attraverso la marea di carte che ingombrava la mia scrivania. Io scossi le spalle, lottando disperatamente con la memoria alla ricerca di qualche particolare ulteriore. Era una sensazione assolutamente spiacevole, nella mia mente vedevo il ragazzo misterioso in piedi sulla porta dell’ufficio, vedevo i suoi capelli neri e folti, vedevo naturalmente il suo sguardo smarrito...ma poi basta, come se un difetto di vista, un alone di luce m’impedisse di scorgere altro.
- Non lunghi... più che altro un gran ciuffo...- risposi a disagio - e poi... e poi... uno sguardo triste...-
La fronte di Sara si corrucciò in un moto di disappunto:
- Oh bè, non mi sembra gran che, come indizio...possibile che sia tutto qui quello che ricordi? Voglio dire, è un bel manzo, o è uno sgorbio, ha la barba, o qualcosa di particolare? -
Scrollai nuovamente le spalle. Non riuscivo a capire perché non ero in grado di ricordare altro e, soprattutto, perché ci tenessi così tanto a scoprire l’identità del ragazzo. In fondo era uno qualsiasi, impiegato o addirittura studente, che si era fermato un attimo per un piccolo aiuto. Una gentilezza senza importanza. Eppure qualcosa mi rendeva inquieta, come una spina fastidiosa nell’anima...
Alle spalle di Sara comparve Maria Luisa, la responsabile dell’amministrazione, grigia e anonima nel suo cardigan, il solito crocchio di capelli a morderle la nuca. Il taglio della bocca era un arco rovesciato, come sempre.
- Giulia, dovresti fare un salto giù...- disse mentre ci scrutava con fare indagatorio, certa che avessimo impiegato parte del Sacro Orario di Lavoro per chiacchierare delle nostre faccende private. Beh, a dire il vero, un po’ era così... - ha chiamato Portogruaro... la dottoressa Artico... hanno confermato i titoli della lista inviataci lunedì via fax... ci sarebbe da organizzare la spedizione, far preparare il pacco, sentire il corriere... le solite cose, puoi occupartene tu? -
Le sorrisi senza alcuna speranza di ammorbidirne il cipiglio:
- Certo, signora, me ne occupo immediatamente...- feci un cenno di saluto a Sara e afferrai la borsetta. Uscii dalla stanza lasciando la mia giovane amica a sorbirsi la solita predica della tizia sulle responsabilità che si hanno in una struttura del genere e via di seguito e imboccai la scala verso l’uscita (il nostro cubicolo-ufficio, come quello di tutti i novellini, è situato all’ultimo piano: più nuovi si è più scale, e fatica, si fa...). Salutai distrattamente un paio di ragazze delle medie, colorate e vocianti, poi lo vidi. Era un paio di rampe sotto di me, e mi fissava. Le sue mani si muovevano velocemente, con piccoli gesti concentrici, come se stesse torcendo un minuscolo pezzo di carta. Accelerai il passo come per raggiungerlo (stupendomi di questa reazione, non certo da me) quando dalla sala lettura sbucarono cinque o sei ragazzi, in jeans tagliati al ginocchio e t-shirt dei più violenti gruppi heavy-metal, intenti a spintonarsi e sghignazzare. Cercando per di più di farlo silenziosamente, e proprio per questo riuscendovi alquanto poco. Mi presero in mezzo e le risate idiote e gli ammiccamenti si fecero più marcati. Fulminai i più scapestrati con un’occhiataccia, cercando di sgusciarne fuori, e ripresi la discesa, convinta che il misterioso ragazzo fosse altrettanto misteriosamente scomparso. Invece era fermo nello stesso punto dove l’avevo visto, e sembrava proprio che stesse aspettandomi. Improvvisamente, assolutamente inatteso e con una violenza che mi strappò una smorfia, lo stomaco mi si strizzò. Annaspai mentre il cuore partiva a mille, nel tentativo di uscirmi dal petto. Il ragazzo sembrò non accorgersi di niente, ed esibì un ampio sorriso:
- Devo esserti sembrato molto maleducato a sparire così, ieri... - la sua voce era tranquilla ed avvolgente, quasi ipnotica - ma mi sono ricordato che avevo lasciato un tizio in attesa, al telefono... - il sorriso si fece ancora più divertito. Solo il sorriso, però, i suoi occhi mi fissavano appena un po’ tristi - ...difatti aveva riattaccato. Ciao, io mi chiamo Andrea...-
Con la testa confusa ed ovattata (ero veramente allibita di quella mia reazione, tanto che metà del mio cervello si stava chiedendo quali fossero i sintomi di un ictus o di un colpo apoplettico, e l’altra che figura avrei fatto a crollare al suolo come un sacco di patate di fronte a quell’estraneo) strinsi la sua mano tesa con la mia che sentivo (e probabilmente avevo) di ghiaccio. Mi sentii mormorare a fatica il mio nome, qualcosa che assomigliava ad un “i-iace-re, iulia...”. Lui non sembrava fare assolutamente caso al mio comportamento e continuò:
- Immagino che anche tu sia nuova, qui. Io non ho ancora ben capito com’è strutturato questo edificio, e mi sto orientando a poco a poco. Beh, penso che non mancherà occasione di incontrarci e di scambiare qualche parola, prossimamente. Ora devo correre, quelli giù del magazzino mi hanno preparato alcuni volumi che mi sono stati richiesti, ed è meglio liberare il montacarichi...- di nuovo il caldo sorriso -...piacere, Giulia, e non farti scrupoli a chiamarmi se il tuo computer dovesse fare le bizze. In fondo
(sei una persona speciale)
L’ultima parte della frase fu coperta dal singhiozzare del clacson di un tram nella via sottostante, ma fui percorsa come da una scarica elettrica. Mi era sembrato di capire che avesse detto proprio così.
- P-prego?!? - balbettai. Lui fece ruotare gli occhi spazientito:
- Questo traffico cittadino...- commentò - ...è davvero una croce. Niente di speciale, ho detto che a me fa piacere aiutare le persone. Tutto qua, ok? Adesso vado, ci vediamo...-
Si allontanò nel corridoio che si apriva sul pianerottolo, e sparì alla vista. Poi notai quella piccola cosa sulla balaustra della scala. Vicino a dov’era fermo Andrea era posato un piccolo cigno fatto di carta leggerissima, bianca. Ecco cos’era quel movimento delle mani... una minuscola creazione di carta, un origami. Lo presi fra le dita, osservando la maestrìa con cui era piegata la carta, e me lo infilai in una tasca della borsetta, senza pensarci. Poi rimasi immobile mentre lo sfarfallìo nello stomaco e il tambureggiare del cuore diminuivano gradualmente. Mi sentivo la faccia in fiamme.
Ero spaventata, e preoccupata, da quella strana sintomatologia. Man mano che tornavo alla normalità non riuscivo a far altro che star lì a rimuginare su quella frase coperta dal clacson. “Sei una persona speciale” non assomigliava neanche lontanamente a “mi piace aiutare la gente... o le persone”. Come aveva detto?
Ripresi lentamente a scendere le scale, poco sicura della stabilità delle mie gambe, cercando di associare a qualche tipo di malessere quello che mi era successo (indigestione? sbalzo di pressione?) ma l’unica cosa a cui poteva avvicinarsi era... E’ così assurdo, ma sembrava la reazione che avevo quando prendevo una forte cotta per qualche ragazzo.
A quindici anni. Alle scuole medie.


CAP. 4


La sera, era un venerdì, tornai a casa stanca ed ancora un po’ scossa dallo strano episodio. Entrai nel piccolo appartamento in cui abito da sola da ormai tre anni, boccheggiando per la rovente temperatura che la giornata afosa aveva accumulato, nonostante mi fossi premurata di chiudere tutte le imposte. Accesi la lampada sul mobile in entrata e mi accorsi subito che la segreteria telefonica lampeggiava ritmicamente: messaggi in arrivo. Il numero rosso indicava il numero 3. Tre chiamate?, pensai mentre sistemavo l’agenda e i giornali sul mobile d’entrata, mia madre, Ricky e chi altro? Sara, forse. Pigiai il tasto per riavvolgere il nastro e far partire automaticamente le registrazioni dirigendomi verso il bagno, tanto il volume della segreteria mi avrebbe consentito di ascoltarla sin da lì. La prima voce era quella prevista e titubante di mia madre, da sempre in imbarazzo ad interagire con una macchina, che mi chiedeva come stavo, mi informava sull’esito di alcuni esami clinici di sua sorella e infine mi mandava i saluti suoi e di mio padre. Feci scorrere l’acqua fredda dal rubinetto e mi bagnai il viso, assaporando quel sollievo. Dopo il secondo fischio per l’appartamento si sparse la voce allegra e sonante del mio lui. Sto da due anni con Enrico, Ricky per tutti. Come potrei descriverlo? Apparentemente è tutto il contrario del ragazzo con cui starei (incoraggiante come inizio, no?). Non fraintendetemi, sto bene, molto bene con lui, e credo di non mentire a me stessa se aggiungo che lo amo. Ma è comunque diverso dai canoni che pensavo mi attirassero in un uomo, alla luce delle mie esigenze e delle storie passate. E’ un pezzo di ragazzo notevole, per dirla con la mia amica Sara, e a prima vista dà la classica impressione del tutto muscoli e niente cervello. Impressione che ha avuto per un po’ anche la sottoscritta, quando l’ho conosciuto durante una settimana bianca sull’Altopiano, e impressione che penso permanga ancora adesso in molte persone che conosco, non ultime un paio di mie amiche. Naturalmente è uno sportivo iperattivo, e mi tocca dividerlo con il tennis, le arrampicate in roccia, gli allenamenti del calcio il martedì e il giovedì sera (sereno, diluvio universale o tormenta di neve va bene lo stesso), le piste di sci e le escursioni della domenica mattina in mountain byke. Come disse la mia amica Silvana, in una di quelle sere rigorosamente-senza-uomini in cui si sparla un po’ di tutto e si esagera con i grappini (sì, fra donne si fanno anche queste cose, a volte), meglio dividerlo con il tennis che con le partite di calcio in tv tre sere alla settimana. O, peggio, con la commessa del negozio di abbigliamento del centro. Convengo.
Io in quanto a sport, a parte delle goffissime discese a spazzaneve tre o quattro volte l’anno, poco o niente. Anzi niente. Sono la classica tipa che grida istericamente agitando le mani quando la palla arriva un po’ troppo forte durante un’improvvisata partita di pallavolo sulla spiaggia. Oh beh, ognuno ha i suoi gusti. Tornando a Ricky, lui è sempre molto attivo, sempre molto abbronzato, sempre molto pettinato, sempre molto sicuro di sé. E lo descrivo così continuando a non trovarci nulla di male. Anche perché dopo averlo conosciuto meglio, nonostante numerose resistenze da parte mia a rivederci in città, diffidente primo per una mia storia precedente finita male e secondo perché mi dava l’impressione del tipo tutto muscoli e niente... ci siamo capiti... mi sono resa conto a poco a poco che in realtà lui sembra essere molte cose. Sembra ma non è. La sua passione per lo sport può farlo sembrare un manzo privo di sensibilità, ma è dolce, e si prende cura di me, ed è bello parlare con lui, anche se i nostri punti di vista sono spesso diversi. E forse è un bene, in fondo non c’è controprova che un partner perennemente sintonizzato sui tuoi gusti sia tutto rose e viole. Questo significa che a turno io devo ascoltare le potenti frequenze tachicardiche della musica techno che si spara in macchina e lui sorbirsi i cd di cantautori italiani le sere che passa a casa mia, per esempio. Oppure qualche volta io devo barattare l’ultimo film d’azione tutto cazzotti e sparatorie per gustarmi la volta seguente un bel filmone romantico che mi faccia uscire dal cinema con le guance rigate di lacrime.
E’ poi è onesto, e ha dei valori (e di questo parleremo un po’ più avanti). In fondo è una bella persona e, anche se a parole sembrerebbe riduttivo descrivere così l’uomo che si dice di amare, io credo che essere belle persone non sia cosa da poco, tutt’altro. L’amore vero, quello che deve durare tutta una vita, non può essere solo ardenti fiammate di passione, perché è risaputo che non possono bruciare a lungo. E che consumano le persone. L’amore vero è un caldo, continuo tepore che scalda il cuore quel tanto che basta a farti sentire il profumo della vita. Riuscendo a far sbiadire le paure (forse non riesce a farle sparire, ma neanche la passione lo fa) e facendoti sentire, nonostante tutto, in equilibrio col mondo. Almeno, così è come la vedo io.
La sua sicurezza e il suo modo di fare estroverso, poi, lo fanno sembrare un po’, come dire... un po’ fanfarone. Ma anche questa è una sensazione superficiale, perché non l’ho mai sentito vantarsi di nulla (dimenticavo, viene da una famiglia piena di soldi) se non di qualche performance sportiva, con gli amici in pizzeria. E nonostante io cerchi periodicamente di spiegare tutto ciò alle persone che mi stanno vicine, non sempre sortisco l’effetto desiderato. Solo per Sara io dovrei portarmelo immediatamente all’altare. Mio padre invece non vede di buonissimo occhio le sue incursioni in casa, quando scherza ad alta voce con mia madre, o ingaggia furibonde lotte sul divano con il mio fratellino minore (che stravede per lui) o pontifica scherzosamente a tavola su questo e quel politico. Naturalmente lo “scherzosamente” pare riesca a vederlo sempre e solo io. Mah...
Tornando al messaggio lasciato dal mio lui, mi dava appuntamento verso le otto e mezzo (questo voleva dire tra poco più di mezz’ora, quindi un tempo infinitamente breve per una donna che si sente da buttare dopo un’afosissima giornata di lavoro) per raggiungere la compagnia alla solita pizzeria e poi decidere dove finire la serata.
Innervosita dal breve tempo a mia disposizione decisi di volare di nuovo in bagno per una doccia ed un restauro indispensabili, quando la segreteria lanciò il suo terzo (ed ultimo) fischio. Subito dopo, il nulla. Nessuna voce, nessun rumore. Mi bloccai al centro del salotto, a disagio. “Qualcuno che ha trovato la segreteria inserita e ha preferito riagganciare”, avrei pensato in qualunque altra sera. Ma non quella sera. La segreteria scattò, dopo aver esaurito il suo muto messaggio, e il rumore amplificato dal silenzio della casa mi fece trasalire. Con i battiti che acceleravano (inspiegabilmente) nel petto, riavvolsi il nastro, feci avanzare velocemente i messaggi di mia madre e di Ricky e mi chinai con l’orecchio sull’apparecchio. Il silenzio ripartì e non era un silenzio. Non una mancanza di suono, per capirsi, ma il “rumore” del silenzio. Corrucciai la fronte per aguzzare... l’udito e quasi alla fine del nastro mi sembrò di sentire... un mormorìo, impercettibile e confuso. Guardai di lato: il volume della segreteria era al massimo. Riavvolsi il nastro e riascoltai, ancora e poi ancora. Non riuscivo a decifrare niente, poteva trattarsi addirittura di un difetto della cassetta. Il cuore mi rimbombava nelle orecchie.
Poi mi venne un’idea: feci sputare fuori la cassetta e la infilai, con mani non troppo ferme, nel piccolo rack stereo sul mobile in cucina. Rovistai freneticamente nei cassetti di casa fino a che non trovai le cuffie con cui, quando ero studentessa, ascoltavo i corsi di inglese. Le infilai e feci ripartire per l’ennesima volta la registrazione (senza troppo chiedermi cosa diavolo stessi facendo) alzando più possibile il volume: il fruscio del messaggio vuoto mi riempì la testa, poi, proprio alla fine, all’improvviso una voce sussurrò il mio nome.
Il nastro si fermò (con un TLAC assordante) e proprio in quel momento, mentre cominciavo a tremare senza riuscire a controllarmi, il campanello suonò due volte.
Era Ricky. Avevo ascoltato e riascoltato la segreteria per ben 35 minuti.

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Capitolo 2
*** Pizza - Malori - Prediche ***


CAP. 5


Il sabato la biblioteca è aperta a ritmo ridotto, nel senso che solo la mattina è frequentabile dai cittadini. Nel pomeriggio, dopo un’ora di pausa pranzo tra le tredici e le quattordici, è regno incontrastato degli addetti all’archiviazione elettronica. Dovremmo smettere anche noi a fine mattina, ma per prendersi avanti con il lavoro di catalogazione l’amministrazione ha deliberato un po’ di ore straordinarie. Ben pagate e ben gradite, direi.
Arrivai al lavoro come ogni sabato mattina seguente una serata con gli amici, e cioè assonnata e con un principio di mal di testa in agguato dietro l’occhio sinistro. Già le uscite del venerdì non sono proprio un toccasana per un risveglio fresco e rilassato, figuriamoci poi con tutto quello che era successo. Innanzitutto dovetti inventarmi un ritardo nell’arrivo a casa per giustificare a Ricky il fatto di non avermi trovato pronta per uscire. Come succede di solito. Di conseguenza una telefonata agli amici col cellulare per avvertirli di cenare pure, che li avremmo raggiunti in pizzeria più tardi. Ricky non sembrò particolarmente innervosito da quell’intoppo, e questa è un’altra dote che apprezzo in lui. I nostri amici erano già al caffè quando facemmo il nostro ingresso nel locale. Io, scossa com’ero da tutti quegli strani episodi, avevo lo stomaco strizzato come un limone, e benedii il fatto che non rimaneva tempo per mangiare. Non sarei riuscita a buttar giù neanche una briciola. Ricky, allegro e ciarliero come al solito, afferrò un paio di tramezzini dall’aspetto stanco e li divorò al volo, mentre uscivamo verso il parcheggio. La nostra meta per quella sera era uno dei locali attualmente in voga in città, il Nexus. Come ovvio, era una bolgia fumosa, affollata da gente accaldata che gridava per cercare di intavolare un barlume di conversazione al di sopra del frastuono provocato da un gruppo musicale sul piccolo palco. Ci stringemmo in una decina attorno ad un minuscolo tavolino da quattro posti, mentre a turno ci si urlava nelle orecchie per parlare. La band sul palco non era poi così male, in fondo, a parte il volume decisamente fuori limite per la grandezza del locale. Stavano suonando un’onesta versione di “Message in a bottle” dei Police. Silvana si chinò verso di me:
- Si chiamano Reblatta...- m’informò mentre una cameriera sfinita ruminava un chewing gum attendendo le ordinazioni - mio fratello conosce il chitarrista. E’ uno dei gruppi che va per la maggiore, in città, negli ultimi tempi...-
Erano proprio bravi, effettivamente. Se giri un po’ di locali giovani ne senti di gruppuscoli che nascono e muoiono nel giro di qualche mese, e la maggior parte sono proprio inascoltabili. Il cantante, vestito di scuro, stava facendo sgolare il pubblico più appassionato, ammucchiato sotto il piccolo palco. Alcune ragazzine gridavano agitando le braccia, quasi isteriche. Arrivarono le bibite, e mi passarono il primo dei gin fizz che avrebbe contribuito non poco, sommato al volume della musica e al fumo che riempiva il locale, a regalarmi una bella emicrania prima dello scoccare della mezzanotte. Bevvi un lungo sorso e il cuore mi saltò un colpo: su un palchetto rialzato c’era Andrea, il ragazzo della biblioteca, che mi fissava. Lo vidi per un attimo, poi una coppia di ragazze dirette ai bagni si intromise tra me e lui. Quando passarono capii di essermi sbagliata. La persona che stavo fissando non era Andrea, anzi era proprio diverso. Un ragazzo un po’ stempiato, con un pizzetto biondiccio e due basette aguzze, che stava parlando con due ragazze. Sulla felpa aveva stampata la buffa faccia di Winnie Pooh.
Scossi la testa. Che diavolo mi stava succedendo? Avevo voglia di una sigaretta, e iniziai a frugare nella mia borsetta sempre troppo piena e troppo caotica. Non fumo molto, diciamo anzi che non arrivo a cinque in una giornata, ma ci sono momenti in cui accenderne una è un piacevole bisogno. Dopo un buon pranzo, ad esempio. O quando si hanno allucinazioni visive, come in quel momento.
Le dita affondate nelle tasche della borsetta si strinsero attorno ad un qualcosa di molto piccolo e cedevole al tatto. Lo tirai fuori, cercando di mettermi nella miglior luce possibile nel locale in penombra. Il cigno di carta, che avevo distrattamente recuperato sulle scale dopo l’incontro con Andrea, stava immobile sul mio palmo. Un’ala era un po’ schiacciata dal mio maldestro frugare nella borsetta. Osservai la maestrìa con la quale la sottile carta era piegata, l’accuratezza e la delicatezza di quella piccola creazione. In quell’istante Ricky smise di scherzare con l’amico che aveva a fianco e si girò verso di me, sorridente.
- Che è quella cosa? - chiese incuriosito. Io dovetti trattenermi per non far sparire con uno scatto il cigno, neanche mi avesse sorpreso con un disegno osceno tra le dita. Sorrisi imbarazzata.
- Credo si chiami origami...- risposi -...me l’hanno dato oggi in biblioteca... una studentessa del liceo. E’ bravissima a fare cose del genere...-
Ricky fece di sì con la testa e riprese a chiacchierare con il tipo alla sua destra. Io rimasi immobile ad ascoltare i musicisti che stavano macinando una cover dei Queen, chiedendomi e richiedendomi perché (perché cazzo) avevo mentito. L’emicrania aumentava il suo toc-toc dietro al mio occhio sinistro...
Il mal di testa mi scosse dai miei ricordi dell’ultim’ora, riportandomi alla calura del mio ufficio. Ed erano solo le nove di mattina. La borsetta di Sara pendeva dall’attaccapanni, quindi era già arrivata, e notai subito il post-it giallo attaccato alla mia lampada:
“SONO GIU’ IN STANZA CAFFE’ - UMORE MENO 2% - DISCUSSIONE CON IVAN - RESOCONTO A PRANZO - S.”
Quelle righe mi strapparono un sorriso divertito, nonostante il dolore alla testa che pareva voler aumentare. Le discussioni di Sara con il suo ragazzo erano all’ordine del giorno, e più di qualche volta compativo il povero Ivan, più vittima che altro. Naturalmente il nocciolo delle discussioni erano sempre cose di importanza capitale, per Sara, come un momentaneo calo nell’interesse di lui a seguirla per negozi per tutto il sabato pomeriggio o l’imperdonabile delitto di voler vedere i gol a 90° Minuto, la domenica sera. Ognuno ha le sue, pensai mentre mi appoggiavo con la fronte alla cupola della lampada sulla scrivania, nel tentativo di trovare un po’ di sollievo col freddo del metallo.
- Ehi, che brutta faccia hai...qualcosa non va ? - Andrea fece capolino dal corridoio, facendomi trasalire. Stavo per giustificarmi di quella strana posizione mettendolo al corrente della mia emicrania... quando il dolore sparì. Rimasi in ascolto, poi provai a scuotere la testa. Niente. Come canta il vecchio Lucio, nessun dolore. Lui entrò nella stanza:
- Tutto bene? - s’informò. Feci cenno di sì. Indicò la sedia davanti alla scrivania - posso sedermi? -
Ancora una volta incapace di parlare, sentendomi un’idiota, provai a fare un mezzo sorriso e feci sì con la testa. Mi sentivo leggermente, ma solo leggermente agitata, ed era una sensazione quasi piacevole. Lui accavallò le gambe, mettendosi comodo, afferrando distrattamente un fogliettino quadrato dal bloc-notes che aveva di fronte:
- Allora, dimmi, come ti trovi qui? Beh, venire in ufficio anche al sabato non aiuta a veder roseo ma ormai ci siamo. Bene, che ne dici di dare una mano ad un novellino... che tipo di ambiente è? -
Io mi controllai ancora una volta il dolore alla testa che era sparito e cercai le parole più adatte per rispondere alla sua domanda:
- Beh...diciamo che non si sta malaccio. Non è ovviamente l’ambiente più indicato per apportarvi innovazioni, soprattutto se troppo spregiudicate, ma penso che sia comprensibile. E’ una biblioteca, quindi il tempio della cultura conservata immutata nei secoli dei secoli... - fece una risatina divertita - ma credo sia solo questione di tempi giusti. Probabilmente battendo con insistenza sui tasti che si vogliono cambiare... sempre con molta delicatezza, intendo...-
Lui ammiccò:
- Ad esempio sulla divisione autonoma tra autori classici e contemporanei? -
Rimasi senza parole. Era il mio appunto che avevo elaborato nella piccola tesina di presentazione quando partecipai al colloquio di assunzione. Dovevo avere un’espressione davvero stupita: - m-ma come...?!? -
- Ho letto la tua relazione - rispose con un sorriso caldo. Non so come spiegare, ma quando sorrideva sembrava proprio che ti scaldasse il cuore. Sicura che il rossore delle mie gote stesse aumentando, distolsi lo sguardo dai suoi occhi. - beh, in effetti è disponibile pubblicamente, come tutto in una biblioteca. Ma mi è piaciuta. Sei riuscita a tenerti bassa come tono ma comunque si avvertiva sotto una determinazione... una grinta particolare. Secondo la fisiognomica cinese, ogni essere umano è abbinabile per carattere e fisionomia ad un animale. Tu potresti essere un grosso felino... - posò qualcosa sul tavolo, davanti a me. Era una delle sculturine di carta piegata, e ritraeva un gatto o qualcosa di simile - ...che so, una pantera, ad esempio, o una tigre...-
La mia testa era in confusione. Ormai stavo facendoci l’abitudine, in presenza di quello strano ragazzo. Aveva letto la mia relazione. Voglio dire, non credo l’avessero letta neanche il Presidente o la Maria Luisa che tennero assieme il mio colloquio. Sì, come diceva Andrea quel documento era pubblico e disponibile per chiunque, ma bisognava prendersi la briga di volerlo leggere. Nemmeno Ricky, nonostante se lo fosse ripromesso, aveva ancora trovato il tempo di darci un’occhiata e, conoscendolo, non credo che l’avrebbe trovato facilmente digeribile.
- Leggi le relazioni di tutte le ragazze nuove che conosci? - ribattei, poi trovai un po’ sciocca ed aggressiva quella frase e feci un cenno con la mano, come a dire di non badarci - scusa, a dire la verità mi lascia un po’ interdetta questa cosa, sai, le relazioni si fanno ma poi ci si convince sempre che non interessino a nessuno tranne a chi le scrive... cioè, tu che la scrivi la senti ovviamente in maniera diversa da chi la legge, e comunque...- mi sentivo come un’idiota che stesse straparlando a vanvera, ma in realtà lui mi ascoltava con un’attenzione totale. Sembrava quasi che... pendesse dalle mie labbra, come se invece di un’accozzaglia di concetti confusi stessi enunciando le leggi del mondo. E questo mi stupiva e mi faceva sentire bene nello stesso tempo. Mi sentivo leggera e eccitata, come su una nuvola. Era da tanto tempo che non mi sentivo così, si stava dicendo una parte di me stessa, anzi forse non mi ero mai sentita così. Avevo voglia di parlare con lui, di saperne più possibile, di conoscerne ogni aspetto. Il suo strano sguardo agrodolce non mi perdeva un attimo, e avrei dovuto essere imbarazzata ed infastidita. E invece mi piaceva. La parte di me che riusciva ad osservarmi un po’ dal di fuori si chiese cosa diavolo mi stesse succedendo, ma io la zittii subito riprendendo a parlare:
- Quelle... cose, quelle fatte con la carta. Sono bellissime... dove hai imparato? -
Lui riprese il piccolo animale cartaceo tra le dita, rimirandolo:
- E’ una cosa che risale a tanto tempo fa. Da piccolo soffrivo spesso di tonsillite e febbre, e durante le lunghe giornate passate a letto mio zio mi regalò un minuscolo manuale di origami giapponese, l’arte di piegare la carta. Da quella volta è un’abitudine che non mi ha mai abbandonato. Non so, mi rilassa... scarica la tensione, insomma. E poi ha un aspetto un po’ magico. -
- Cosa intendi dire con magico ? -
Lui sorrise e il suo sorriso era un piccolo sole:
- Beh... incuriosisce le ragazze carine, ad esempio. -
Subito le guance mi avvamparono di calore. Ero in balìa di quello sguardo e di quel sorriso, come una verginella del secolo scorso, io che ho tenuto a bada fior di sbruffoni e di cascamorti. Il telefono trillò e allungai una mano per rispondere: era Sara che mi salutava e mi diceva che si sarebbe fermata un po’ giù al magazzino per farsi dare una serie di volumi da catalogare. Bene, pensai dopo aver riappeso, posso stare ancora qui a parlare con te...
E difatti parlammo. Parlammo di mille cose, dalle scuole che avevamo frequentato (anche lui era stato alle medie in via Riale ed anche a lui risultava insopportabile la professoressa di disegno!) ai libri che ci piaceva leggere, dalla musica che ascoltavamo (nonostante tutto è sempre un piacere poter parlare con qualcuno che apprezza i tuoi cantanti preferiti) alle idee volte a cercare di migliorare la struttura bibliotecaria. Parlammo, parlammo e parlammo, fino a che l’occhio non mi cadde sull’orologio appeso alla parete. Strabuzzai gli occhi, incredula: erano le undici e venti! L’ultima volta che avevo guardato l’ora erano da poco passate le nove. E mi sembrava fosse trascorsa al massimo una mezz’oretta... Lui seguì il mio sguardo verso la parete:
- Come passa il tempo quando si sta bene - commentò, senza la minima ombra di ironia - adesso però forse è meglio far finta di lavorare almeno un po’, se no mi sentirei un rubastipendio - si alzò dalla sedia, dirigendosi verso la porta. Poi si girò, fissandomi - dove pranzi, oggi? - mi chiese, con un tono quasi di scusa nella voce.
A malincuore mi sentii rispondere:
- Ho promesso di uscire con la mia amica Sara - (perché era così difficile da dire?) - mi spiace... -
Il sorriso sbocciò ancora una volta:
- Okay, mi prenoto per la prossima. Ciao. -
Si girò e se ne andò, e io mi sentii improvvisamente stanca e svuotata. E delusa. E confusa.
Accesi il computer e mentre aspettavo che il sistema si avviasse, e anche per il quarto d’ora successivo, restai immobile a ripensare alle sue parole. Pazzesco. Se fosse stato possibile costruirsi artificialmente l’uomo perfetto non avrei potuto chiedere di più. E poi quella sensazione di benessere, fisico e mentale... Aggrottai la fronte mentre con il pensiero andavo a cercare Ricky. Io amo Ricky. Ovvio. Ci mancherebbe altro. Perché diavolo devo ribadirlo a me stessa? E’ fuori discussione. E tutto va a gonfie vele tra di noi
(quasi)
ok, a parte quello stupido problema.
Che forse è un Problema. Per spiegarvi, la sicurezza del mio Ricky si riflette ovviamente in ogni campo. Per cui lui è fermamente convinto e deciso che si potrebbe cominciare a parlare di matrimonio. Lo vuole e forse non vede l’ora. Anzi, a scanso di equivoci ha già acquistato la casa (e che casa, un palazzetto del ‘700 vicino alla piazza principale) e sta già predisponendo i restauri. Qual’è il Problema, allora? Temo di essere io. Credo di amarlo veramente ma questa faccenda del matrimonio mi spaventa un po’. Non so perché, ci ho pensato milioni di volte, e milioni di volte ne ho discusso con Ricky, con mia madre e con Sara (che naturalmente soffia come un ciclone affinché io accetti) e non riesco ad inquadrare bene cosa non mi convince. Forse è solo una paura irrazionale. Il fatto è che, a differenza di Ricky, io non sono per niente fermamente convinta né decisa e quindi trovo giusto pensarci. Sì, lo so, è una situazione bizzarra, di solito sono gli uomini che tergiversano, fanno gli evasivi o scappano a gambe levate. Stavolta invece è toccato a me. Succede, che posso farci? Credo di aver bisogno solo di ancora un po’ di riflessione, di capire cosa voglio realmente (quali sono i miei desideri più intimi e reali, per dirla con mia madre) e magari buttare un po’ di quattrini per un ciclo di sedute analitiche. E adesso ci mancava mister Perfezione... Ancora una volta, l’ennesima, la solita domanda mi si stagliava nel cervello, come una gigantesca insegna al neon: “cosa mi sta succedendo?”. Avevo sempre guardato con superiore compatimento quelle storie da giornaletti rosa in cui si parla di colpi di fulmine e di principi azzurri. E adesso smarrivo intere ore persa di fronte alla bella faccia di un emerito sconosciuto...
Il telefono suonò. Lanciai un’occhiata all’orologio, che batteva ormai mezzogiorno, e mi sentii molto colpevole di non aver combinato NULLA in un’intera mattina di lavoro. E molto preoccupata nel dovermi eventualmente giustificare con quel cerbero della Maria Luisa. Al terzo squillo presi la comunicazione:
- Biblioteca Civica, ufficio catalogazione, pronto? -
La voce nota della madre di Sara mi arrivò alle orecchie:
- Pronto... ciao, Giulia. Sono la signora Todescan, trovo per caso mia figlia? -
- No, signora, è fuori ufficio in questo momento... giù ai magazzini, a quanto credo. Ma penso di poterla rintracciare, se è urgente... -
Sentii la mia interlocutrice borbottare qualcosa a qualcuno, poi riprese:
- Sì, effettivamente temo di aver bisogno di lei... vedi, sto chiamando dalla nostra vicina, perché stamane, uff, la solita sbadata... sono uscita di casa lasciando le chiavi sul mobile in entrata, ed ora bisognerebbe che Sara facesse un salto qui con il suo paio di scorta. Lo so che le scoccerà prendere la macchina e venire fino a casa nostra, ma non sono riuscita a rintracciare né mio marito né mia figlia Sandra... puoi riferirle di questo problema? -
Scossi la testa sogghignando in silenzio della proverbiale sbadataggine della mamma di Sara e soprattutto degli sbuffi di esasperazione che la mia impulsiva amica non mi avrebbe risparmiato, e mi congedai da lei. Feci il numero del magazzino e, dopo essermi sorbita un paio di spiritosaggini degli zotici addetti (sì, Sara è qui, e si sta divertendo con noi maschioni... ah ah ah!!!) me la passarono. Come previsto la sua reazione non fu delle più entusiaste e dopo poco la vidi irrompere come una furia nell’ufficio. Mi lanciò uno sguardo di comica disperazione, afferrò la borsetta e si avviò alla porta:
- La nostra pausa pranzo salta, naturalmente - disse mentre frugava nella borsetta alla ricerca delle chiavi dell’auto - rimandiamo a lunedì la cronistoria dell’ultimo litigio con Ivan. Buon week-end, e divertiti almeno tu... -
La salutai con un cenno della mano e rimasi sola nella stanza. Poi un sottile senso di angoscia mi strinse la gola: dovevo muovermi, forse Andrea era già uscito dall’edificio, e io avevo un’ora di pausa a disposizione...


CAP. 6


Uscii dall’ufficio come una furia e mi lanciai giù dalle scale a rotta di collo. E il bello era che non avevo la minima idea in quale luogo della biblioteca Andrea fosse impiegato. Sfrecciai di fronte alla porta aperta dell’amministrazione e registrai con la coda dell’occhio la Maria Luisa alla scrivania che tentò un inutile: “Signorina Giulia, mi permetta due par...” Alla fine sbucai nella via tra le occhiate divertite ed incuriosite degli studenti che sciamavano fuori dall’austero portone della biblioteca. Di Andrea nessuna traccia. Per una decina di minuti feci una spola agitata tra la strada e l’androne dell’edificio, salutando distrattamente i colleghi che uscivano chiacchierando per il pranzo, senza riuscire a trovare un pretesto per chiedere notizie del ragazzo. Attesi nervosamente fino che non scorsi la figura secca e curva del signor Pesavento che veniva verso di me con il pesante mazzo di chiavi che serviva per chiudere il portone. Mi sentivo delusa e triste. Me l’ero fatto scappare sotto il naso. Mi avviai lentamente alla mia macchina, rovistando nel solito caos della borsetta alla ricerca delle chiavi. Le avevo appena infilate nella serratura quando una figura si riflesse nel finestrino:
- Scommetto che ti piace la pizza con il salamino...- disse una voce dietro di me. Il solito rullo di tamburi del mio cuore. Mi girai, sapendo già cosa avrebbe incontrato il mio sguardo: un sorriso incandescente, due occhi grandi e tristi. In più la cosa che mi stupiva era come fosse riuscito, tra le decine e decine di probabilità, a scegliere quel tipo di pizza. Che per inciso è una delle mie preferite, e non proprio il tipo di pizza che di solito ordina una leggiadra fanciulla. Le mie amiche si dirigono solitamente o su quella alle verdure (convinte che sia in qualche modo più dietetica) o su una più semplice margherita (perché se no non riescono a mangiarla tutta).
- Sì, e il salamino lo voglio anche bello piccante! - risposi divertita, rendendomi conto appena del possibile doppio senso di quella frase, pronunciata a botta calda nei confronti di uno sconosciuto. Raggiungemmo una pizzeria vicino a Piazza dei Signori e ci accomodammo ad un tavolino all’aperto, sotto il portico. Il locale, sia all’esterno che dentro, era stranamente vuoto, e sì che fra persone che lavorano in centro e turisti di solito era così affollato da renderlo caotico. Andrea notò il mio giro di sguardo e sorrise:
- Ho riservato il locale per te... scherzo, ovviamente... -
Un annoiato cameriere dai folti riccioli neri, dalla comica somiglianza col Maradona degli ultimi tempi (anzi, con un po’ più di pancetta) si avvicinò per prendere le ordinazioni, e non mancò di far scivolare gli occhi nella scollatura della mia camicetta. Lo fulminai con lo sguardo ma non ottenni nessuna reazione degna di nota. Se ne andò strascicando i piedi. Andrea afferrò una delle salviettine dal cestino del pane e iniziò a lavorarla con le dita, muovendole decise e veloci.
- Hai il ragazzo? - mi chiese senza nessun preavviso. Le sue mani piegavano e ripiegavano la salvietta ma i suoi occhi era fissi nei miei. Io mi sentii avvampare:
- ...S-sì, si chiama Ricky... - volevo aggiungere qualcos’altro, forse solo a mio beneficio, forse per renderne più reale l’immagine, ma smisi di parlare. Lui fece un sospiro silenzioso. Un paio di colombi volarono via dal sottoportico con un frullìo d’ali.
- Immagino sia una cosa seria... - continuò. Io bevvi un sorso di birra che il cameriere dagli occhi lunghi ci aveva appena servito e cercai di capire se quei discorsi così diretti mi stavano infastidendo o imbarazzando, ma la sensazione era invece di piacevole serenità. La sua voce, o il suo sguardo, avevano un potere quasi ipnotico in me. A parte quando scatenavano tachicardie e sudori incontrollati. Cercai le parole per una risposta più sincera (ma anche più neutra) possibile.
- Beh, diciamo che può essere definita seria... Non abbiamo ancora parlato di matrimonio (parlato forse no, discusso fino alla nausea, però... cara la mia confusetta!) ma credo che lui... e anch’io, ovviamente (sicura?) stiamo facendo sul serio... -
Il cameriere arrivò portando due pizze fumanti. Non mi rendevo conto dello scorrere del tempo, quando ero in compagnia di Andrea. Mi sembrava che ci fossimo appena seduti ed invece ecco qua le nostre ordinazioni bell'e pronte. Lui mi porse il piccolo tulipano completo di un paio di lunghe foglie che aveva creato con la salvietta:
- Mmh, giusto - disse - qualunque uomo con un minimo di intelletto che avesse la fortuna di poter stare con te dovrebbe fare sul serio. No, non dire che sto esagerando con questo discorso, visto che ci conosciamo solo da alcuni giorni. Vedi, io credo che ognuno nella vita incontri un’infinità di persone. Alcune di queste sono simpatiche, e allora diventano amici o compagni, altre sono assolutamente insopportabili, altre ancora del tutto indifferenti, e passano via senza lasciare traccia. Ma succede ogni tanto che una persona incontrata per caso, da come parla, da come si muove, anche solo da come profuma, abbia tutte le carte in regola per diventare una persona speciale - io rimasi bloccata sulla sedia, senza riuscire a profferire parola - quella che penso che tu sia -
Afferrò con decisione la forchetta, agitandola verso di me, dedicandomi uno dei suoi soliti sorrisi:
- Su, su, non impressionarti troppo - ridacchiò come un bambino divertito - non mi dire che nessuno ti hai mai fatto un complimento... e poi credo che adesso tu abbia appetito, no ? -
Mi scossi dal mio stupore. Aveva ragione. Il profumo della pizza che saliva verso di me mi stava deliziando le narici. Appetito?!? Avevo una fame incredibile! Mi sentivo completamente viva in quella situazione, percepivo la frescura del porticato, vedevo il sole giocare con le fronde di un albero, sentivo in lontananza una radiolina trasmettere una vecchia canzone di Elvis Presley. Era un momento perfetto, quando i momenti perfetti li trovi solo nei film, mentre nella vita c’è sempre qualcosa che non va. O l’afa ti fa sudare e pensi di puzzare lontano un miglio o la birra ti torna su rischiando di farti (scusate) ruttare in faccia al tuo compagno di pranzo o chissà che altro. Invece in quel caldo sabato di inizio estate mi sentivo meravigliosamente bene. E c’era di più, anche se m’imbarazza un po’ tornarci su col pensiero. Mi sentivo eccitata. Sessualmente eccitata. Avvertivo nitidamente i capezzoli duri come chiodi premermi prepotenti contro la stoffa leggera della camicia (mio Dio, sperando che non se accorga il cameriere voyeur...) e giù tra le cosce una deliziosa sensazione di calore e di umido. Mentre divoravo la pizza sotto lo sguardo divertito di Andrea dovevo farmi forza per non leccarmi le labbra come una belva durante il suo pasto. In fondo mi aveva paragonato ad un felino, no?
Lui invece mangiava lentamente, come se farlo potesse in qualche modo rubargli il tempo con me, e mi parlava. Aveva lasciato cadere quei discorsi troppo personali, e mi stava raccontando alcuni divertenti aneddoti di quando era alle medie. Lo avrei ascoltato per tutto il giorno. Diego Armando il cameriere (avevo sussurrato ad Andrea la mia idea sulla somiglianza di questi, e avevamo riso come scolaretti) arrivò come un falco per sparecchiare. Ai tavoli non c’era ancora nessuno. Radunò il mio piatto e le posate e ne approfittò per tuffare ancora una volta il suo sguardo nell’attaccatura del mio seno. E stavolta così ostentatamente che se ne accorse anche Andrea. Che ebbe uno strano, rapidissimo moto di stizza. La sua faccia si rabbuiò e, per un istante breve come un battito di ciglia, sembrò vibrare, come percorsa da un tremito interno. Poi il suo sguardo ritornò  quello conosciuto. Guardai l’ora e mi accorsi con disappunto che mancavano una decina di minuti alle due, e cioè al momento in cui avremmo dovuto rientrare al lavoro. Provavo un vero e proprio senso di scoramento all’idea di dover interrompere quell’incontro, ma per tutta la mattina non avevo combinato un bel niente e sarebbe stato meglio se per le due ore restanti avessi archiviato il maggior numero di libri possib... Mi bloccai, colta da un dubbio: io facevo parte dell’ufficio archiviazione, ma Andrea no (e dove lavori allori?), e quindi non sarebbe dovuto rientrare in biblioteca.
- Scusa, Andrea, ma tu in quale ufficio sei impiegato?- chiesi allora. Lui rispose:
- Beh, vedi, io sto... -
Poi un urlo agghiacciante lo interruppe, lacerando la quiete del dopopranzo. Ci girammo verso l’interno della pizzeria, mentre dalla cucina il cameriere che ci aveva servito schizzava fuori barcollando, le mani premute sull’occhio destro. Dietro a lui si catapultarono i suoi colleghi della cucina, agitati e spaventati, mentre il malcapitato singhiozzava disperatamente cercando di tamponarsi il viso con un canovaccio bagnato. Il padrone del locale fece un passo verso di noi, allargando le braccia come per giustificarsi di quella baraonda:
- Scusateci, signò - c’informò con un forte accento meridionale - ma l’olio della frittura è schizzato in faccia al guaglione. Non so proprio come sia successo...-


CAP. 7


Ritornammo alla biblioteca, un po’ scossi dall’accaduto. Aveva insistito a pagare le pizze (nonostante il mio vibrato tentativo di oppormi), dichiarando divertito che così era in credito di almeno un’altra uscita a pranzo. Sul pianerottolo del primo piano ci fermammo uno di fronte all’altro. L’edificio era silenzioso e deserto.
- Bene, è stato un vero piacere... - disse Andrea con una punta di malinconia nella voce. I suoi occhi e la sua bocca erano a pochi centimetri dal mio viso. Le mie narici erano solleticate deliziosamente dal profumo del suo respiro. Ero sicura che mi avrebbe baciato, ed ero ancora più sicura (e stupita) che, se fosse successo, mi sarei sciolta sulle sue labbra. Invece fece un passo indietro, sorridendo:
- adesso vai, dolce Giulia, e passa un buon week-end -
Sollevò una mano come per farmi una carezza ma, prima di sfiorarmi, il movimento del braccio deviò e si ravviò i capelli. Si allontanò nel corridoio, fece un giro su sè stesso per guardarmi un’ultima volta e sparì dietro l’angolo.
Ripresi a salire lentamente le scale, mentre nelle mente mi ronzavano mille parole: “tutte le carte in regola per diventare una persona speciale”, “dolce Giulia”, “chiunque avesse la fortuna di stare con te”. All’ultima rampa ebbi un improvviso capogiro, che mi fece aggrappare al corrimano, e mi sentii stanchissima, quasi esausta. Allarmata, feci gli ultimi gradini sbuffando e mi trascinai (è proprio il verbo adatto) verso la mia poltrona. Vi piombai sopra un attimo prima di esser sicura di stramazzare al suolo. Mi sentivo distrutta. La vista mi si appannava a tratti, e il sudore impregnava il mio corpo. Stavo per perdere i sensi. Allungai spaventata una mano verso il telefono per chiamare qualcuno e mi accorsi con orrore che le mie dita non avevano la forza di sostenere la cornetta, che cadde con un tonfo sulla scrivania. Pensai piena di angoscia a quegli articoli di giornale in cui si parlava di alcuni tipi di tumori al cervello che tolgono improvvisamente la capacità di afferrare anche gli oggetti più leggeri. Rimasi immobile, ad occhi chiusi, aspettando di vedere se la situazione migliorava. Dopo una decina di minuti mi sembrò di sentirmi un po’ più in forze. Proprio in quel momento Sara irruppe come una furia nell’ufficio:
- Si può sapere che razza di scherzo vi siete inventati?!? - sbottò inviperita, poi si bloccò - ehi, Giulia, cazzo... Stai sanguinando dal naso! -
La guardai per un attimo prima di realizzare bene cosa stava dicendo, poi mi toccai le narici con le dita. Erano rosse del mio sangue.


CAP. 8


- Stai scherzando?!? -
Fu il primo commento di Sara alla fine del mio resoconto. Le avevo raccontato quasi tutto, dall’incontro iniziale con relativo problema di stampa alle sensazioni fisiche, il batticuore, il rossore, il senso di eccitazione (soprattutto quello), dal suo sguardo al suo sorriso, dal trascorrere distorto del tempo ai ricordi in comune, all’indovinare i miei stati d’animo e le mie preferenze. E le cose che le avevo nascosto (il sogno, la segreteria telefonica, i piccoli origami) non avrebbero comunque aiutato a considerarmi meno scriteriata. Per cui ora toccava a Sara restarsene lì con la bocca spalancata dall’incredulità di quel racconto. Dopo che lei aveva allibito me mettendomi al corrente che a casa di sua madre non c’era nessuno - proprio nessuno - che si fosse chiuso fuori dalla porta. Quando era arrivata là trafelata aveva trovato i suoi e le sorelle minori sedute attorno al tavolo a gustarsi una mega insalata mista. L’avevano guardata come un marziano e avevano giurato e spergiurato che mai e poi mai avevano chiamato in biblioteca. Per cui Sara se n’era ritornata al lavoro convinta di uno stupido scherzo delle sue colleghe e, a giudicare dallo sguardo ben poco convinto, questa convinzione non era ancora passata.
Il mio malessere invece era un ricordo ormai sbiadito, a parte un leggero tremito alle gambe. Mi sentivo come quando si esce da una forte influenza. Mi strinsi nelle spalle:
- E perché poi? - ribattei poco convinta della mia difesa - non faccio nulla di male, è solo un ragazzo particolarmente gentile che...
La mia sanguigna amica mi fulminò con lo sguardo:
- Particolarmente gentile un paio di palle!!! - esclamò (Sara è una che dice pane al pane e vino al vino) puntandomi un dito contro - su, Giulia, non prendiamoci in giro! Questa è la classica situazione in cui un bellimbusto con la parlantina sciolta vuole imbarcare una... una... - si cercò le parole corrucciando la fronte - una sprovveduta che sta andando fuori di cranio. E sappiamo tutte e due dove portano queste cose, ad una camera da letto da qualche parte! -
Finsi di indignarmi ma lei non mi diede tregua:
- Mio Dio, ne abbiamo parlato fino alla nausea di queste situazioni... ed ogni volta ci ripetevamo ridendo che a noi non sarebbero successe. Che non avremmo permesso che ci succedessero! E adesso sono qui a sentire che la mia migliore amica... con un ragazzo che la adora e che farebbe di tutto per lei... che si bagna in pizzeria - non fece caso alla mia bocca spalancata dalla crudezza dei suoi termini - sì, si scioglie per il primo sconosciuto dagli occhi magnetici che incontra ! -
Sara da sempre è stata più intransigente di una monaca di clausura in fatto di fedeltà e di rispetto. E sinceramente anch’io. E probabilmente lo ero ancora. In fin dei conti non c’era stato nessun episodio che spingesse in direzioni sbagliate. In fondo le sensazioni fisiche erano le mie, e lui poteva essere realmente solo un collega gentile. O forse un po’ galante, ma senza doppi fini. Non si era affatto comportato, nelle parole e nei modi, come la maggior parte dei ragazzi quando vogliono andare al sodo. Ecco, questo poteva essere un buon argomento per calmare l’irruenza della mia amica. Alzai un dito come per chiedere la parola:
- Sara, la stai facendo più tragica di quello che è. In fondo non è mica successo nulla, è una persona gradevole, con cui è un piacere conversare... tutto qui -
Lei mi guardò con il tipico sguardo di compatimento che si indossa quando il proprio interlocutore “non sa quello che dice”:
- Ok, ok, è come dici tu. Questo misterioso Andrea è un brillante conversatore e un correttissimo collega. Però non venirmi a dire che io non ti ho avvisata quando salteranno fuori i problemi... - s’infervorò di nuovo agitandosi sulla sedia - ...lo sai benissimo che se tu dovessi spingerti troppo avanti non ci sarebbe futuro per questa faccenda. Ma Cristo, cosa pensate di fare, farlo fino a diventare blu come i puffi e poi? Sposarvi? Avere dieci figli? Da uno che ti ha messo a posto un problema del computer?!? -
Il suo cipiglio era serio e convinto, ma io non potei fare a meno di scoppiare in una risata al suo comico riferimento ai puffi. Sara si alzò, scuotendo la testa:
- Se ti sono sempre amica accetta un consiglio... - concluse sistemandosi la borsetta a tracolla - ...pensa bene a quello che fai. Anche se adesso sono tutti sorrisi e luci colorate, alla fine arrivano il dolore e le lacrime. Ci vediamo lunedì, e salutami Ricky... -
E mi sembrò che sottolineasse il suo nome con il tono di voce.

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Capitolo 3
*** Weekend-Poesie&Febbri-Sotterranei ***


CAP. 9


Il week-end fu un vero e proprio inferno. Che si scatenò non appena subito le lancette dell’orologio segnarono le sedici. Afferrare la borsetta e scendere a due a due le scale fu un attimo. Avevo già chiuso in un cassetto della mia coscienza la predica (sacrosanta) di Sara. Chiuso a tripla mandata. Sapete quel modo di dire... “vivere alla giornata”? Beh, nel mio caso si poteva tranquillamente affermare che vivevo al minuto. L’unico mio obiettivo era cercare di incontrare Andrea sulle scale per salutarlo ancora una volta. E se non lo trovavo sulle scale andava bene anche nell’atrio dell’edificio. E se non era nell’atrio vada per la via. O anche nel piccolo parcheggio delle auto. Purtroppo del ragazzo nessuna traccia. Guardai l’ora: erano le quattro e sette minuti e, come una tossicodipendente in astinenza, cercai di calcolare quante ore mi separavano dal lunedì mattina, quando saremmo tornati al lavoro. Avevo almeno un paio di ore libere prima del mio appuntamento con Ricky che se n’era andato a fare un paio di vasche in piscina. Solitamente avrei chiesto a Sara di essermi complice in un tour (dispendioso) nei negozi del centro. E se Sara avesse avuto un impegno mi sarei fatta forza e avrei cominciato a dissipare il magro stipendio da sola. Solitamente. Quel giorno al contrario le vetrine non le vidi proprio, pur percorrendo il corso cittadino in lungo e in largo per almeno una quarantina di volte. Il mio sguardo frugava ogni volto, ogni persona nella speranza non troppo remota di imbattermi, non proprio casualmente, in Andrea (ehi, ciao, anche tu qui, ma che combinazione!). Purtroppo chi vive sperando... beh, sappiamo come va a finire. Nonostante la mia determinazione (la tua follia, mi correggeva una vocina nella mente, una vocina che somigliava colpevolmente a quella di Sara) mi ripetesse che di lì a un attimo, dietro il prossimo angolo, dentro il negozio più in là l’avrei incontrato, non successe. Me ne tornai desolatamente alla mia macchina e poi verso casa. Mentre guidavo nel traffico caotico ed esasperatamente lento del tardo pomeriggio, con l’autoradio che sembrava trasmettere solo languide canzoni di amori perduti, non riuscivo a pensare altro che a rivederlo. E questo pensiero accumulava dentro di me nubi scure gonfie di malumore. Poi mi balenò nella mente la possibilità che, anche se non l’avevo trovato, potevo sempre scoprire nella segreteria un suo messaggio (anche muto va bene...), se non addirittura un biglietto nella cassetta della posta (perché no, e magari un mazzo di diciotto rose rosse a gambo lungo sul letto...). Questa nuova scintillante speranza mi costrinse ad accelerare, tra i clacson di protesta delle auto incolonnate lungo il viale.
Naturalmente nessun messaggio, né scritto né registrato né scolpito nel cielo, mi aspettava a casa. Quando il campanello suonò due volte, parte di me sapeva che era arrivato Ricky. Un’altra, più piccola ma con denti affilati e voraci, soffiava sulle braci della speranza. Aprii la porta delle scale e dopo un paio di secondi la figura abbronzata e sorridente (non quel sorriso, però) fece il suo ingresso in casa. Aveva una variopinta t-shirt su un paio di bermuda verde acido, e posò la borsa da piscina sul pavimento.
- Ciao, piccola, tutto bene? - mi chiese. Io feci di sì con la testa, ma non era quello che avrei voluto dire. Niente andava bene. Proprio no, se avevo buttato via il pomeriggio a perlustrare le strade della città in cerca di uno sconosciuto. Lui aprì il frigo e si versò un bicchiere di latte.
- Sono appena arrivata anch’io! - dissi cercando una nota di disinvoltura che non mi usciva - Anzi scusa, devo proprio scappare in bagno... -
Mi chiusi la porta alle spalle. Ricky nel salotto accese la radio, cercando una stazione di musica disco. Perché mi dava così fastidio quel genere, tutto ad un tratto? Appoggiai le mani sul lavandino, osservandomi nello specchio, che rimandava l’immagine di una donna chiaramente sfinita. Osservai la pelle lucida, i segni scuri sotto gli occhi. Persino la bocca aveva una piega amara (sembri il ritratto della Maria Luisa, mi dissi sconfortata) e il risultato generale sembrava essere un po’ più grave di una stanchezza da giornata estiva. Cosa ti sta succedendo?, chiesi alla mia immagine riflessa. Bella domanda. Me la sarò fatta almeno cinquanta volte, negli ultimi giorni. Senza trovare nessuna risposta convincente. Meglio, nessuna risposta e basta. Hai una persona di là che è venuta qui desiderosa di passare con te il week-end, com’è logico e come è sempre stato, almeno negli ultimi due anni. E che probabilmente ha anche voglia di fermarsi qui a dormire (la mia faccia riflessa nello specchio fece una leggerissima smorfia). Per cui, cosa intendi fare? Mi bagnai il viso, cercando di convincere me stessa che tutto quello che era successo stesse sbiadendo lentamente, e che ora avrei dovuto comportarmi come al solito. E di smettere di pensare ad
(Andrea)
Uscii dalla stanza da bagno.
La serata scivolò via anonimamente. Avevo sperato che Ricky avesse organizzato qualcosa con gli amici, ma lui era stanco della giornata passata a nuotare e voleva starsene tranquillo. Io invece avrei preferito andare da qualche parte (da qualunque parte) perché qualcosa dentro di me faceva notare che uscire prevedeva perlomeno una possibilità in più di incontrare Andrea rispetto al restarsene a casa. Mangiammo qualcosa e si finì sul divano a guardare un film alla tele. I miei occhi vedevano lo schermo ma nessuna scena degna di nota restò registrata nella mia mente.
- Non ti piace il film? - mi chiese all’improvviso Ricky - vuoi che cambi canale? -
Io mi abbandonai sul divano, chiudendo gli occhi:
- No, non importa, grazie. E’ che non mi sento affatto bene (ed era la verità), anzi mi sento proprio sfinita. Forse una bella dormita mi rimetterà in sesto...-
Lui mi accarezzò dolcemente la testa:
- Ok. Vuoi che resti qui se per caso non dovessi sentirti meglio? -
- Mmh, no, Ricky, grazie. Ma credo che sia solo bisogno di dormire. Vai pure, ci vediamo domani...-
Lui si alzò, chinandosi per darmi un leggero bacio sulle labbra, prese la borsa con le cose da nuoto e uscì dall’appartamento. Dopo un attimo mi alzai a fatica, feci un giro per spegnere le luci e mi buttai sul letto. Senza andare in bagno. Senza neanche svestirmi. Un sonno buio come la notte mi ghermì immediatamente.


CAP. 10


Bene o male, non so come, ma il lunedì arrivò. Arrivò con un alba già tiepida, che mi trovò ad occhi spalancati ad osservare la sveglia sul comodino. Le sei e dieci. Più di un’ora prima del momento in cui il suo stridulo suono si sarebbe sparso per la stanza strappandomi ai miei sogni. Credo fosse successo solo un altro paio di volte da quando ero andata a vivere da sola. E adesso invece due volte di seguito, dato che anche il giorno prima, la domenica, mi ero ritrovata ad un’ora antelucana a pestolare inquieta per la casa silenziosa. Pensando e ripensando ad Andrea. Senza riuscire a combinare niente. Accendevo e spegnevo la televisione decine di volte, mi sedevo un secondo, aprivo un libro e un attimo dopo ero già in piedi a fare la spola tra la cucina e la finestra e la porta e il telefono (che dormiva muto). Avrei voluto uscire a passeggiare per il centro, mischiandomi con le famiglie che uscivano dalla messa, per scoprire se per caso Andrea fosse uno che la domenica va a farsi la classica “vasca” in centro. Ma subito dopo mi ritrovavo a considerare che non appena fossi uscita il telefono avrebbe cominciato a trillare, a vuoto a vuoto e a vuoto. Già il telefono... Non so cosa avrei pagato per potergli telefonare, ma mi mancavano alcuni elementi fondamentali, tra cui il numero o al limite il suo cognome. Cosa potevo dire all’operatore del servizio 12? Mi scusi, mi potrebbe dare il recapito telefonico di un certo Andrea, dal ciuffo folto e gli occhi tristi? Per cui rimasi paralizzata come un animale di fronte ai fari abbaglianti di un auto, senza neanche trovare il modo di riflettere serenamente su tutto ciò, e di decidere una linea di comportamento. A fatica arrivarono le due e la consueta scampanellata di Ricky (sapevo che era lui, ma andai comunque a rispondere al citofono con il fiato sospeso). Andammo a trovare degli amici, per un lungo e agonizzante pomeriggio in cui le ragazze parlottarono di vacanze e di costumi da bagno e i ragazzi facevano la spola tra le sdraio tatticamente posizionate sotto gli alberi e il frigo. Ma, come ho detto, il lunedì si presentò puntuale come sempre e mi trovò nell’atrio della biblioteca, con tutti i sensi all’erta come un radar, a scrutare e scartare volti, figure, persone. Come al solito lui mi sorprese alle spalle, cogliendomi impreparata e tremante (speriamo che non si accorga troppo della mia agitazione, pensavo annaspando nel voltarmi, speriamo...) sorridendomi con quello sguardo agrodolce che ricordavo ed anelavo.
- C-ciao... come va? - fu il mio originale saluto.
- Bene. Ti ho pensato - ribatté lui senza mezzi termini, facendo sobbalzare il mio cuore. Un paio di persone mi passarono accanto salutandomi, ma né in quel momento né in seguito avrei saputo ricordare chi fossero.
- S-sì... er... anch’io... - risposi, e mi sentivo perfetta nell’interpretazione femminile di Forrest Gump. Lui mise ancora in moto il suo sorriso, e sembrava veramente felice:
- Mmh. E non va bene così? - rispose (no, non va affatto bene, disse una voce nella mia testa, ma le badai appena). Stavo frugando nella mente per ribattere qualcosa di diverso da una balbettante idiozia quando la figura incombente della Maria Luisa apparve sulla sommità delle scale. Dall’espressione della faccia dovevamo aver commesso lo stravolgente delitto di fermarci a chiacchierare due minuti oltre l’orario d’inizio. Lui mi lanciò una buffa occhiata di complicità e si congedò:
- Siamo sotto tiro, a quanto pare. Meglio sparire...ah, a proposito, avanzo una pizza, mi sembra... -
Poi se ne andò, senza lasciarmi il tempo di replicare. Lentamente, mi avviai verso l’ultimo piano. Tutto a un tratto l’inspiegabile spossatezza che mi aveva attanagliato (e spaventato) prima del week-end tornò a farsi viva. Mi sentivo le gambe di piombo. Per tutta la mattina feci molta fatica a concentrarmi sul lavoro. Andai a pranzo con lui nei tre giorni successivi. Il lunedì dribblai quasi abilmente la richiesta di Sara di uscire assieme, ventilando una visita di controllo dal dentista (e per fortuna che mi hanno chiamato loro per confermare l’appuntamento, perché se era per me gli tiravo buca...), martedì invece fu il turno di un non meglio identificato regalo da comprare per una non meglio identificata ricorrenza di mia cugina. Mercoledì mattina, verso le undici, stavo cercando di trovare un po’ di refrigerio dall’afa sfruttando la corrente d’aria che si era creata tra il corridoio e la finestra, mentre controllavo la lista degli autori stranieri del novecento appena battuta al computer. Improvvisamente, subito dopo Hemingway Ernest e prima di Hess Hermann, notai un blocchetto di testo che non avevo certo inserito io. Era scritto molto piccolo, in un corpo quasi illeggibile ad occhio nudo. Lo selezionai per ingrandirlo un po', poi lessi incuriosita:

“...il tuo più tenue sguardo, facilmente, mi aprirà
benché abbia chiuso me stesso come dita.
Sempre mi apri, petalo per petalo, come la primavera fa,
toccando accortamente, misteriosamente, la sua prima rosa.
E io non so quello che c’è in te che chiude e apre,
solo qualcosa in me comprendo,
che è più profonda la voce dei tuoi occhi
di tutte le rose.
Nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani.
A.”

Era un piccola, tenerissima poesia. E l’iniziale posta in calce non lasciava molti dubbi sul misterioso autore. La trovai bellissima. Ma quello che non mi quadrava era come avesse fatto, e quando, ad inserirla in mezzo alla mia lista. Non certo digitandola da un altro computer, visto che per ragioni di riservatezza il sistema non è collegato in rete, se non previ una password conservata dalla Maria Luisa e dal Presidente. Forse era arrivato prima e si era intrufolato nel mio ufficio. Spegnendo tutte le macchine subito dopo, visto che avevo acceso tutto io appena arrivata. Questa era una cosa che ricordavo bene. E avrei voluto ricordare anche altro, a dir la verità, perché non riuscivo a ricostruire a che punto della lista mi ero agganciata quel giorno. Sarebbe stato importante saperlo, perché avevo la netta impressione di aver già scorso la lista alla lettera H, un’oretta prima, e che della poesia non vi fosse traccia.
Comunque quel giorno a pranzo (la faccia che mi fece Sara quando le notificai che anche quel mercoledì, causa una visita inattesa di Ricky in centro, non avremmo passato insieme la pausa pranzo era un equilibrato mix di sospetto e dubbio) ebbi modo di chiedere ad Andrea come aveva fatto ad inserire quella poesia.
- Ah già, quella stupida cosa! - rispose eludendo la mia curiosità Stava armeggiando con un sugoso cheeseburger cercando di non sbrodolare troppo - ti è piaciuta, almeno? -
Io spremetti un po’ di maionese sulle patatine:
- Molto... era così tenera, e forte nello stesso tempo. L’hai scritta tu? -
Lui fece un gesto evasivo con la mano:
- Mah, non so... è una cosa di talmente tanto tempo fa che non saprei giurare se è farina del mio sacco o se l’ho letta da qualche parte... - dopodiché cambiò argomento, iniziando a raccontare alcuni gustose disavventure sue e di alcuni suoi amici.
Quella pausa pranzo, come d’altra parte le precedenti, fu piacevole, rilassante e stimolante nello stesso tempo. Così mi irritò moltissimo accorgermi che una volta ritornata in ufficio un mal di testa feroce stava prendendo possesso del mio cervello, pulsando minacciosamente. Che palle tutti questi malesseri, pensai infastidita. Avevo appena riacceso il computer quando la figura di Sara fece capolino sulla soglia:
- Ciao - mi salutò - tutto bene con Ricky? -
A me strinse il cuore dover ancora una volta mentire, ma non avevo voglia di sorbirmi una predica. Non con quel mal di testa in arrivo. Così feci segno di sì, senza espormi troppo. Lei si appoggiò allo stipite della porta:
- Sai per caso se Ricky ha un fratello gemello che ha il suo stesso timbro di voce? -
“Ahia”, pensai. La guardai: era seria. Molto seria. Mi abbandonai sullo schienale della poltrona. La testa pulsava e doleva come un dente guasto:
- Sara, lo sai benissimo che non ha nessun fratello - risposi con una nota di sconfitta nella voce - qual’è il problema? -
Lei gettò un’occhiata rapida nel corridoio, poi chiuse la porta:
- Il problema è che Ricky ha chiamato verso l’una e mezza... - notò il mio sguardo allarmato e vergognoso - ....tranquilla, ho risposto io, e mi son inventata una riunione con l’amministrazione che si stava dilungando. Non so perché l’ho fatto, e lo vorrei sapere da te. Se siamo amiche, e le amiche fanno di questi favori, non penso che ci siano segreti, tra noi. Giusto? Certo che se mi dici che vai fuori con il tuo ragazzo e questo dieci minuti dopo chiama per cercarti, comincio ad avere seri dubbi sul dentista dell’altro ieri e sul regalo da comprare di ieri... O no? -
Io chinai il capo, mentre l’emicrania mi concedeva un attimo di tregua:
- Ok, ok... sono uscita a pranzo con... con Andrea. Non te l’ho detto perché so che avresti disapprovato -
La mia amica sbarrò gli occhi:
- Tutti e tre i giorni? - chiese, conoscendo già la risposta.
- Oh, via, Sara... siamo andati in pizzeria, e al Burgy. A parlare. Tutti luoghi pubblici, zeppi di gente
(strano, non ce n’era poi molta...)
e dove è un po’ difficile commettere adulterio... -
- Ma hai MENTITO!!! - la sua reazione fu una staffilata nella mia anima e nel mio mal di testa - ti sei ingegnata per far passare sotto silenzio questa cosa. Il dentista! Il regalo! Se è una cosa così innocente, perché raccontare balle?!? -
Io mi sentii avvampare di sdegno, perché nonostante tutto era realmente una situazione pulita. Due chiacchiere, una pizza insieme (e la poesia, e il non riuscire a non pensare perennemente a lui) tutto qui. E glielo feci presente:
- Non stiamo facendo nulla di male, come te lo devo dire! E’ solo uno simpatico con cui è piacevole parlare... -
Lei si protese verso di me, piantandomi gli occhi negli occhi:
- Ok, è un tizio simpatico. Ma cosa fa, chi è, in che ufficio lavora? Come si chiama? Ti dico una cosa, ho parlato un po’ in giro e di un certo Andrea non ne sa niente quasi nessuno. Tu, almeno, lo sai in quale sezione della biblioteca è impiegato? -
- Beh... credo che sia giù all’economato... Almeno, so che si dirige sempre verso... -
Ci pensai. Effettivamente era un po’ poco, come indizio. Non mi ero mai posta il problema, a dire il vero. Sara aveva un supponente ghigno di soddisfazione sul volto:
- L’hai visto nel corridoio dell’economato?!? - ripeté incredula - Tutto qui? Per quello che ne sappiamo potrebbe essere un estraneo dalla parlantina sciolta. Uno che non c’entra niente con la biblioteca!!! -
Io scrollai le spalle:
- Beh, oddìo, mi sembra un po’ esagerata come teoria. Glielo chiederò, comunque, o chiederò come si chiama di cognome, così potrai verificare. Va bene così? -
Sara scosse la testa, testarda:
- Sai, quel panzone di Walter giù alla sala principale, oltre che rovinarmi la vita offrendomi in continuazione ciocorì e tavolette di cioccolato, mi ha insegnato un paio di trucchetti col computer... - spostò la poltrona accanto alla mia - ...ad esempio, come poter entrare negli archivi dell’amministrazione. Stai a vedere... -
Cominciò a smanettare sulla tastiera prima che io potessi fare o dire qualunque cosa per fermarla. Restai a guardarla allibita. Lei batté alcuni tasti, concentrata:
- Ecco qui... - disse osservando una schermata azzurrina che era apparsa sullo schermo - ...ah bene, possiamo addirittura consultare la lista delle ultime assunzioni e collaborazioni...-
- L’unico problema - feci notare - è che una biblioteca ha un sacco di collaborazioni esterne. Guarda qua... esperti, supervisori, professori che a vario titolo redigono relazioni per questo e quell’argomento. Senza contare poi le collaborazioni con gli altri istituti, realtà minori che si appoggiano a noi per prestiti e scambi... -
I nominativi sullo schermo erano quindi una buona cinquantina:
- Marciana Venezia:
Ufficio Informazioni Bibliografiche: referente dr. Stefania Rossi Minutelli
Ufficio Manoscritti: referente dr. Susy Marcon
- Biblioteca Civica "Nicolò Bettoni":
M. Loretta Balasso (bibliotecaria)
Claudia Artico (assistente)
La scorremmo in lungo e in largo, attente a scovare qualcuno che di nome proprio facesse Andrea. C’era uno Sperelli Andrea, professore di italiano, collaborazione esterna. Poi un Rigolon Andrea, ingegnere, ancora collaborazione esterna (che se ne faceva una biblioteca di una consulenza di un’ingegnere elettronico?!?). Trovammo il mio nominativo (Visconti Giulia, via L. Faccioli, 25 etc. etc.) e poi quello di Sara. Lei lanciò un gridolino di sorpresa (un po’ disgustato) nell’apprendere che il suo odiato collega Walter era nato lo stesso giorno del suo fidanzato Ivan. Dopo un po’ ci arrendemmo: non c’erano altri Andrea nella lista. Sara mi osservava con un’espressione truce nello sguardo.
- Visto? Cosa ti dicevo? Quello è uno stronzo che si fa passare per qualcun’altro. Sarà uno studente fuori corso, o uno qualsiasi... Lo sapevo io che ti stava prendendo in giro...-
Io mi sentivo abbattuta da quelle parole, ma sembrava avere ragione. Non avevo neanche argomenti per ribattere, continuavo a scorrere stancamente la lista di nominativi in su e in giù. Sara stava continuando la sua filippica quando ebbi un sobbalzo:
- Ehi, guarda qui! - le diedi un vigoroso colpo di gomito che la fece trasalire - come abbiamo fatto a farcelo scappare? -
Lei si girò verso il monitor, seguendo il mio dito che indicava lo schermo: subito sotto il mio nome compariva uno Zipoli Andrea, via Thaon di Revel, 115. C’era anche il numero di telefono. La data di nascita. 25 maggio 1965. Trentatre anni...sì, poteva essere lui. L’indirizzo. Persino il codice fiscale (troppa grazia, disse una vocina impertinente dentro di me). Sara scosse la testa, incredula:
- Mah... non c’era quando abbiamo guardato, come diavolo... -
Io indicai il cursore laterale dello schermo:
- Non abbiamo fatto scorrere la pagina fino in fondo, tutto qua. Ci siamo fissati a leggere i nominativi delle persone che conosciamo, il tuo, il mio, e non ci siamo accorti che restava fuori il finale della lista...-
La mia amica era comunque poco convinta, e fece scorrere lei stessa il cursore in su e giù. La pagina si interrompeva giusta sul blocchetto di testo contenente i miei dati personali, e bisognava spostare in giù la freccetta per far saltar fuori i dati di Andrea. Corrugò la fronte:
- Bah bah bah... - borbottò - non mi pareva, non mi pareva... Questa è una cosa ben strana, che non riesco proprio a spiegarmi...-
Si alzò, sempre con lo sguardo rivolto allo schermo, e rimise a posto la poltrona:
- Comunque ciò non toglie che tu stai andando fuori di testa, e non riesco proprio a capirne i motivi. E voglio andare a fondo su questo...questo Andr... - la voce le si abbassò, e si portò una mano alla gola, corrucciando la fronte - ...la gola... mi fa un po’ male. Che palle, beccarsi una raffreddata in piena estate, speriamo passi... Ciao, a più tardi ! -
Mi lasciò sola nella calura dell’ufficio. Tirai un sospiro di sollievo. Negli ultimi minuti il mal di testa mi tormentava feroce. Non avevo nulla contro Sara (nonostante la sua tenace persecuzione nei confronti di Andrea) ma proprio non ce la facevo più a sopportarla. E forse era stato per quello che non le avevo detto il mio parere riguardo ai dati personali del ragazzo. E cioè che la lista (e non so proprio spiegarmi come) era conclusa con il mio nome, la prima volta che l’avevo consultata con lei. Non c’erano parti nascoste. Non mi pareva, almeno. Ma se glielo avessi detto avrebbe fatto il diavolo a quattro. E le fitte nel mio cervello non me l’avrebbero proprio fatta sopportare. Spensi il computer.
Il giorno successivo, un giovedì che si presentò con nubi nere e gonfie a far sperare nel refrigerio di un temporale estivo, le cose cominciarono non proprio a precipitare, ma comunque a dipanarsi in una serie di preoccupanti episodi.
Tutto cominciò con la telefonata interna dell’amministrazione. La madre di Sara ci informava che la figlia non stava bene, per cui non si sarebbe recata al lavoro, quel giorno (chissà perché ha non ha chiamato direttamente lei, pensai mentre la segretaria mi faceva attendere al telefono). Dopo poco la voce secca della Maria Luisa mi informava che l’improvvisa assenza di Sara comportava tutta una serie di problemi che avrebbero influito sul lavoro di tutti. Io mi morsi le labbra per non chiederle con molto poco tatto se, secondo lei, doveva presentarsi al lavoro anche se malata. Ma mi trattenni. Per evitare ulteriori polemiche (ed eventuali problemi futuri alla mia amica) m’impegnai per recarmi al più presto nei magazzini a ritirare i volumi che avrebbe dovuto prelevare Sara, e che servivano assolutamente pena la distruzione della Cultura in tutto il mondo conosciuto
(risatina sarcastica)
Con non poca fatica riuscii a sganciarmi da quella sgradita conversazione decidendo, un po’ per ripicca, di chiamare Sara per sentire le sue condizioni prima di mettermi al lavoro. Feci il numero, rimanendo interdetta nel sentir suonare a vuoto molto a lungo. Tanto a lungo da esser chiaro che all’altro capo del filo non c'era nessuno. Sara fa chiamare per dire che sta male e poi non risponde al telefono? mi chiesi perplessa. O forse sta così male che non può venire a rispondere? Allarmata, decisi di chiamare casa dei suoi per sapere se avevano qualche notizia in più sullo stato di salute della figlia.
- Ah, Giulia, ciao... ti hanno riferito... - rispose la signora Todescan. Sembrava molto in apprensione.
- Sì, signora, buongiorno. Scusi se disturbo ma non riesco a trovare... -
Lei non mi fece finire:
- Già, già, Sara è qui. E’ arrivata ieri sera, sembrava sfinita. E quel che è peggio non riusciva assolutamente a parlare. Aveva perso completamente la voce. E poi aveva la febbre alta...più di 39°! -
Io mi agitai sulla sedia.
- Non se l’è proprio sentita di tornarsene a casa. L’abbiamo messa subito a letto, facendole prendere un po’ di cose. Tachipirina...e un paio di aspirine... Stanotte ogni tanto andavo a controllarla e ha fatto un sonno agitatissimo, letteralmente fradicia di sudore. Stamattina la febbre c’era ancora, ed anche la mancanza di voce, per cui stiamo aspettando il medico da un momento all’altro... Ma, che tu sappia, ieri non ha mostrato nessun sintomo, al lavoro ? -
Io stavo per rispondere no, quando mi venne in mente quell’accenno al mal di gola, e lo riferii.
- La chiamo appena possibile per sentire cos’ha detto il medico - conclusi - e me la saluti se si sveglia. Arrivederci, signora... -
Rimasi in silenzio ad ascoltare un tuono lontano che brontolava minaccioso, chiedendomi che diavolo stesse succedendo. Prima i miei misteriosi malesseri (e anche in quel momento non è che mi sentissi in forma smagliante, anzi...) ed ora quella misteriosa febbre che aveva preso Sara. “Aveva perso completamente la voce...”, che stranezza. Mi alzai ascoltando la mia schiena lanciare alcune sorde fitte di dolore all’altezza delle reni. “Sono una vecchia cariatide, ormai...” pensai mentre uscivo dall’ufficio e prendevo le scale verso il pianterreno. Quella mattina non avevo ancora scorto Andrea, e ne avevo una voglia pazza. Sul pianerottolo del primo piano pensai di fare una capatina in ufficio economato, con una scusa qualsiasi, poi mi feci forza e mi costrinsi a fare la brava. Scesi le ultime scale, mentre il signor Pesavento lottava con il forte vento che si era alzato, cercando di non far volar via i manifesti dei concorsi appesi sotto la lunga bacheca in entrata.
- Signorina Giulia, pare proprio che verrà giù un uragano - disse vedendomi girare in direzione della rampa che portava al piano interrato - spero abbia un ombrello, se proprio deve uscire -
Gli sorrisi passandogli accanto e aprii la porta del magazzino. L’aria nel vasto e poco illuminato locale era pesante e immobile. Sembrava “trasudare” umidità, e la sensazione era soffocante. Gualtiero, uno degli addetti, mi salutò con un sorriso sdentato:
- Ehi, che bella fanciulla abbiamo qui. Come posso esserle utile? -
Anche se la frase non era poi così strana, il tono di voce era sgradevole e carico di sottintesi. Ora capivo perché Sara non era entusiasta di bazzicare da quelle parti.
- La mia collega Sara della Sala A non è venuta al lavoro, e mi ha chiesto di prelevare alcuni volumi al posto suo. Dovrebbero essere pronti da qualche parte... -
L’uomo si batté comicamente una mano pelosa sulla fronte:
- Mannaggi’a miseria ! - esclamò - ecco cosa mi sono scordato. Mi scusi, signorì, ma l’amministrazione mi ha fatto spostare alcuni scaffali, e ho perso tempo..., temo che dovrà cercarseli lei. Sono in quegli schedari dietro l’archivio dei quotidiani -
Feci un segno (spazientito) di ok con la mano e passai oltre, non prima di aver notato il giornaletto a fumetti spalancato sulle gambe dell’occhio. Altro che scaffali da riordinare. Sparii dietro l’angolo mentre l’uomo iniziava a fischiettare una canzone vecchia come il cucco. L’aria era quasi irrespirabile, e il sudore mi appiccicava i capelli alla fronte e la maglietta alla schiena, con una sensazione sgradevole. Iniziai ad accatastare su un basso tavolino polveroso i volumi man mano che li trovavo. Ogni tanto un tuono in lontananza faceva tremare impercettibilmente il pavimento. Fuori stava effettivamente per prepararsi un diluvio. Meglio così, pensai, speriamo rinfreschi...
Ero intenta nella mia ricerca da un quarto d’ora quando sentii uno scalpiccìo alle mie spalle. Mi voltai, senza scorgere nessuno, né dietro l’angolo da dove ero venuta né nel corridoio semibuio che si dipanava verso sinistra.
- C’è qualcuno? - dissi con noncuranza, mentre riprendevo a consultare gli archivi. Forse era quel Gualtiero che voleva combinare qualche scherzo, o uno dei suoi degni colleghi...
- Oh, signorina Giulia, che piacere vederla... - una voce mi fece girare, e storsi senza volerlo la bocca. Era Ugo Maniero. Come ho già avuto modo di dire, lavorava (forse un vocabolo un po’ troppo forte per lui) su nelle sale di consultazione, e non era visto con molta simpatia dalla popolazione femminile della biblioteca. Probabilmente era innocuo, ma dovevi comunque sorbirti una serie di apprezzamenti non proprio da gentleman. Lo salutai nel modo più incolore possibile, ma questo non smontò il suo tentativo di approccio:
- E cosa ci fa una ragazza così carina qui sotto? (mio Dio, che battuta originale!) Non ha paura del lupo cattivo? - gorgogliò una risata, come se avesse detto la spiritosata più spassosa del mondo. Gli lanciai un’occhiata spazientita. Se ne stava appoggiato ad una colonna quadrata, frugandosi in una narice con l’unghia del mignolo. Ma delicatamente, bisogna dirlo. Mi squadrò da capo a piedi, probabilmente soffermandosi nei punti di maggior attrattiva.
- Fa caldo, eh, qui? - continuò - Ha la schiena tutta bagnata. Di sudore eh, s’intende... - rise ancora, beandosi di quella trovata.
Io speravo fortemente che ignorandolo si stancasse e se andasse. D’altra parte era inutile cercare soccorso morale dagli altri addetti al magazzino, anzi, si rischiava di radunare un bel gruppetto di comici doppiosensisti. Mi scrollai nervosamente il tessuto che aderiva alla schiena madida, maledicendomi di non essere riuscita ad evitare di farlo, e continuai la mia ricerca. Lui sembrava avere tutto il tempo del mondo.
- Allora, quand’è che andiamo a pranzo insieme? - chiese con un sorriso goloso sulla bocca. Niente paura, lo chiedeva ciclicamente a tutte quelle che gli capitavano a tiro. Senza risultato, s’intende.
- Signor Maniero, sa benissimo che con me casca male... - gli dissi senza voltarmi. Lui sogghignò ancora una volta:
- Beh, l’importante sarebbe cascare insieme su qualcosa di morbido... -
Sbuffai rumorosamente scuotendo il capo, spazientita, e mi girai velocemente per tenerlo d’occhio. La prudenza non è mai troppa. Non sia mai che l’afa opprimente del magazzino lo facesse passare dalle parole ai fatti. Era sempre in piedi appoggiato alla colonna, e stava frugandosi nel taschino, probabilmente alla ricerca di una sigaretta che gli conferisse un’aria da macho. Ci mancava anche il fumo, già che non si respira... Mentre lo osservavo vidi apparire, dall’oscurità in fondo al corridoio, una figura conosciuta: era Andrea, che ci stava osservando in silenzio. Veniva lentamente verso di noi, senza far rumore, e sembrava... che cosa strana... quasi che “fluttuasse”, invece di camminare. Ma era così in penombra...
Si bloccò a pochi metri da noi e Ugo Maniero, di spalle e intento a bearsi della rotondità dei miei seni, non se ne avvide. Stavo per salutarlo, e avere così un pretesto per sganciarmi da quella sgradita visita ai raggi X quando la sua faccia sembrò... non tremare, ma quasi, quasi vibrare... come pervasa da un movimento appena sotto la pelle del viso. Ma fu questione di un decimo di secondo, tanto da chiedersi se era successo davvero.
- Ehi, Andrea, ciao! - lo salutai con un tono di voce più vivace del dovuto. Maniero si voltò in direzione del mio sguardo ma il ragazzo si era infilato in un passaggio tra due basse cassettiere ed era scomparso.
- Ma chi... - disse il Maniero, mentre gli passavo accanto chiamando il nome di Andrea. Lo seguii nello stretto passaggio ma non trovai nessuno, se non la polvere e i vecchi libri che mi guardavano muti.
- Andrea? - chiamai ancora, ma decisamente più a bassa voce. Il magazzino non mi rispose, mentre un tuono veniva a schiacciarsi sui vetri opachi e sporchi di una finestrella che dava sul piano stradale. Guardai fuori, ed era come guardare dal vetro di un acquario incrostato dal tempo. Fuori alcuni piedi di passanti acceleravano il passo per sfuggire alle prime grosse gocce che si stava schiacciando sul porfido tiepido. L’aria sapeva di ozono, e di ricordi di temporali d’infanzia. Il mio inseguito, per qualche motivo che sapeva solo lui, si era dileguato. Gironzolai senza risultato per i corridoi formati dagli archivi, poi tornai stancamente verso il punto dove stavo cercando i libri, sicura di dovermi sorbire qualche altra simpatica battuta di Ugo Maniero. L’uomo era appoggiato ad un basso schedario, e si teneva la testa tra le mani. Stava borbottando qualcosa, ma sembrava più un lamento che altro. Forse qualche altro scherzo idiota?, pensai sospettosa.
- Qualcosa che non va, signor Ugo? - chiesi titubante.
Lui si girò in direzione della mia voce, non guardandomi proprio. I suoi occhi... i suoi occhi erano pieni di sangue. Dove di solito c’è il bianco dell’occhio ora vedevo un colore scarlatto scuro. Due sottili lacrime rosse stavano scendendo lungo le guance. Mi cercò con la testa di qua e di là e agitò le mani:
- Chi parla? Chi è? - esclamò agitato - ...e perché cazzo non riaccendete quella luce? -

N.d.A: a differenza di quel che afferma quel furbacchione di Andrea, la poesia lasciata misteriosamente nel pc non è farina del suo sacco, bensì la splendida 'Il tuo più tenue sguardo' di E.E. Cummings.

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Capitolo 4
*** Orgasmi-Telefonate ***


CAP. 11


Il capannello di persone stava confabulando nell’atrio della biblioteca. Il temporale aveva esaurito la sua furia e la strada fuori dal portone luccicava dei raggi del sole che si faceva già strada tra gli squarci nelle nubi. Io finii di asciugarmi le mani e il viso con una salvietta di carta, e chiusi la porta dei bagni delle donne. Mi avvicinai al gruppetto.
- ...non riescono proprio a capire che razza di malore gli sia capitato - stava dicendo il vecchio Pesavento, mentre si ciancicava nervoso i lembi del camice consunto - il medico che è intervenuto con l’ambulanza dice che non ha mai visto niente del genere... un’emorragia inspiegabile, e adesso è cieco... -
Tutte le donne che stavano ascoltando rabbrividirono. “Persino Maria Luisa, che sembrava così fredda” pensai, pentendomi subito di quel pensiero così cinico. Ero ancora scossa. Era toccato a me accompagnare un agitato Maniero verso il pianterreno. L’avevo fatto sedere su una sedia, tenendogli una mano, e cercando di non ascoltare le domande disperate e rassegnate del malcapitato. Il signor Pesavento era corso, al meglio delle sue artritiche possibilità, a telefonare al pronto soccorso ed a diffondere la notizia a tutti gli uffici. In breve tempo una piccola folla silenziosa si era radunata lungo le scale dell’edificio, come comparse di una rappresentazione di cui io e lo sventurato eravamo i protagonisti, pietrificati al centro dello spazioso atrio come attori sulla scena. Il medico, un dottorino di primo pelo nervoso e titubante, era impallidito non appena aveva guardato in faccia Maniero, e questo non mi era sembrato affatto un buon segno. Avevo cercato più volte di scorgere con lo sguardo la figura di Andrea, in curiosa attesa tra gli altri, ma del giovane nessuna traccia. Dove diavolo si era cacciato? Avevo così bisogno di una parola di conforto da qualcuno che mi potesse capire! Alla fine due infermieri caricarono il poveretto su una lettiga e mi liberarono da quella penosa incombenza. Mi sentivo la gola chiusa e inaridita, e avevo assolutamente bisogno di bere qualcosa. Presi a salire le scale, fendendo la folla di colleghi e studenti che mi osservavano di sottecchi, come se io fossi stata in qualche modo artefice della sventura dell’uomo. Mentre raggiungevo il secondo piano mi venne da chiedermi se tutti quegli episodi, dal mio malessere alla febbre di Sara, sino alla disgrazia del magazzino, non fossero tutti sintomi di... di che cosa? Di un contagio? Di un’epidemia? Mio Dio, era ridicolo! Quelle eran cose che si vedono nei filmetti di quart’ordine, quando scienziati inetti o militari senza scrupoli si fanno sfuggire il solito virus letale che provoca stragi senza fine. Ma in una biblioteca, da cosa potevamo essere stati infettati, da polvere di pagine di libro?!?
Raggiunsi il piccolo stanzino pomposamente chiamato “stanza-caffè” e lo trovai stranamente (molto stranamente) deserto e silenzioso. E sì che un incidente in biblioteca doveva essere un motivo sufficiente perché se ne potesse discutere all’infinito tra un caffè e una bibita fresca. Invece misteriosamente i miei colleghi se ne stavano alla larga preferendo confabulare lungo le scale, lanciando ogni tanto uno sguardo di controllo verso la burbera Maria Luisa. Ma in quel momento era intenta anche lei a commentare l’episodio con alcune segretarie, e quindi tutti si sentivano in diritto di poter continuare quella inaspettata ricreazione. Entrai nel minuscolo stanzino e presi a rovistare nello scatolone che contiene indifferentemente filtri del caffè, del tè e del latte, insieme a bustine di zucchero e bastoncini di plastica. Stavo per infilare un filtro nella macchinetta dei caffè quando una figura dietro di me riempì la luce della porta. Mi girai. Andrea mi sorrideva con lo sguardo più triste del solito. D’istinto, probabilmente sfinita da quello a cui avevo dovuto assistere, mi gettai singhiozzando tra le sue braccia, nascondendo la faccia nella sua camicia e infradiciandogliela di lacrime. Lui mi cinse con le braccia (e una sensazione di calore e di serenità mi pervase) e lasciò che il tremito mi passasse.
- Su, su, ora è finito... - sussurrò stringendomi più forte - però, che cosa terribile... -
Io potevo sentire il suo profumo, una miscela appena appena percettibile di spezie e aromi più dolci. E sotto, come una traccia invisibile, un odore più secco, come di cose antiche. La sua mano mi accarezzò la schiena, ed io rabbrividii. Rabbrividii di piacere. Alzai lo sguardo, perdendomi in quegli occhi che sembravano riempire l’intera stanza:
- Chi... chi sei, tu? - chiesi con un soffio di voce. Lui si staccò leggermente, e io sentii un moto di dispiacere serpeggiarmi dentro:
- Non devi temere nulla, io non voglio farti del male... - la sua voce era calda, e lenta, e profonda - ...ora ci sono qui io. Io sono il sogno... -
Si avvicinò a me. Sapevo che stava per baciarmi, e sapevo anche che se lo avessi lasciato fare non sarebbe più stata una cosa “pulita”. Baciandolo, mi sarei persa. Mi sarei lasciata andare. Il suo viso, e le sue labbra, erano a pochi centimetri dalle mie, e potevo sentire l’odore del suo respiro. Ed era un odore buono. Pensai a Ricky che mi faceva un buffetto su una guancia e mi sorrideva con sicurezza. Pensai a Sara che mi puntava il suo dito contro, come una assurda canna di pistola rosa. Pensai al mio primo bacio dato in un gelido e buio pomeriggio di dicembre, in un portone, all’uscita della dottrina. Ricordai il cuore che rullava impazzito nel mio piccolo petto, e le labbra di lui che premevano sulle mie, serrate forte forte, e il profumo di gomma da masticare alla fragola. Volevo baciare Andrea. Lo desiderava ogni cellula del mio corpo, come acqua per un assetato.
Ci baciammo. E fuochi d’artificio esplosero nei miei occhi chiusi, e brividi di freddo e vampate di calore percorsero il mio corpo teso e tremante. La sua lingua giocava con la mia, e i miei denti mordicchiavano le sue labbra. Le sue mani scivolavano sulla mia schiena, come uccellini leggeri, e dentro di me cominciò a montare un crescente senso di eccitazione. Sentivo la sua erezione dura come il ferro premermi prepotente sulla pancia. Divoravo quelle labbra, come assatanata. Le sue mani scesero sul fondoschiena, afferrandomi le natiche. E improvvisamente, inaspettatamente, violentemente, io venni.
Colta di sorpresa, quasi spaventata, esplosi in un orgasmo devastante che mi tagliò le gambe. Andrea dovette sostenermi per impedirmi di piombare a terra sussultante. Morsi a sangue la sua spalla attraverso la camicia, per non richiamare tutto lo staff della biblioteca con un grido lacerante.
Mi allontanai da lui, madida di sudore, cozzando con violenza contro il frigorifero. Alcuni bicchierini di carta si sparsero sul pavimento. Andrea mi sorrise con una dolcezza che non dimenticherò mai, si avvicinò a me che lo fissavo ansante ed incredula, e mi baciò sulla fronte. Poi uscì senza voltarsi.
Le mie gambe cedettero lentamente e, nonostante cercassi di impedirlo, scivolai sul pavimento. Una gamba era ripiegata sotto il mio sedere e mi doleva, ma non avevo per il momento la minima traccia di energia per spostarla. Ero terrorizzata che qualcuno arrivasse scoprendomi in quelle condizioni, ma non si udiva nessun rumore di passi, e nessuno apparve sulla soglia. La vista mi si annebbiò, e chiusi gli occhi, rimanendo lì a giacere sul pavimento per un tempo che mi parse infinito.
Più tardi, non so come, riuscii a rimettermi in piedi e a raggiungere a fatica il mio ufficio. Guardai l’orologio sull’angolo a destra del mio computer e restai di sasso. Mancava mezz’ora alla fine della giornata. Quando l’ambulanza era ripartita portandosi via il povero Maniero erano da poco passate le undici. Ero rimasta semincosciente sul pavimento dello stanzino per quasi tutto il giorno. E per quasi tutto il giorno nessuno
(nessuno)
era mai venuto a farsi un caffè.
Potevo sentire distintamente la paura agitarsi dentro il mio stomaco con artigli taglienti.


CAP. 12


Accesi l’auto e usci dal parcheggio, a dieci all'ora. Erano ormai le cinque e mezza e gli impiegati della biblioteca sciamavano dall’edificio, chiacchierando. Mi sentivo sfinita, e spaventata da tutti quegli eventi così inspiegabili. Non riuscivo però a concentrarmi bene, perché ogni mio pensiero si indirizzava, nonostante qualunque tentativo di riflettere su cosa stava succedendo, su un bigliettino piegato in due  posato sul cruscotto della macchina. All’interno, vergato con mano tremante (quando ero ritornata nel mio ufficio facevo fatica anche solo a stringere la penna tra le dita!) c’erano l’indirizzo e il numero di telefono di Andrea. Quando avevo acceso il mio computer la lista che avevamo consultato il giorno precedente era ancora aperta sullo schermo. Di solito i programmi del computer si spengono allo spegnimento della macchina, pensai dubbiosa, chissà che casini ha combinato Sara con quell’intrusione non autorizzata nell’archivio dell’amministrazione. E io non avevo proprio idea di come rimediare. In ogni caso avevo fatto scorrere tutta la lista di nominativi e mi ero copiata (col batticuore di una scolaretta che scrive le sue prime esperienze su un diario segreto) i dati relativi ad Andrea. Per cosa farne, non lo sapevo ancora bene. Mi faceva però sentire meglio sapere che, se ne avessi avuto il desiderio, avrei potuto alzare il telefono e sentire la sua voce.
Decisi di dirigermi allora verso la casa della madre di Sara, per una visita che mi mettesse al corrente dello stato di salute della mia amica. Le strade erano pressoché deserte, la calura di un pomeriggio estivo aveva ripreso vigore dopo il breve sollievo del temporale e consigliava, a chi poteva, di starsene rintanato nel fresco di casa. Magari con un ventilatore ed un bel bicchiere di tè ghiacciato. Arrivai a destinazione e suonai il campanello. La signora Todescan mi venne incontro abbracciandomi calorosamente, come al solito, ma il luccicare sotto i suoi occhi non mi chiariva se era sudata o aveva pianto.
- Cara Giulia, che piacere vederti! - esclamò facendomi accomodare nella casa in penombra - hai fatto bene a venirci a trovare... -
- E’ un piacere anche per me - risposi - ma, mi dica, come sta Sara? -
Lei mi fece cenno di sedermi su un divano, poi si lasciò cadere su una sedia, scuotendo il capo. E questo non mi piaceva proprio.
- Non sta bene, non sta bene... - mormorò, torcendosi le mani nervosa - la febbre va su e giù come un altalena, un attimo sembra che le stia passando e l’attimo dopo scotta come un forno. E non le è ancora tornata la voce... Non riesce ad emettere neanche un suono... -
- Ma... il medico, l’avete chiamato? Cosa dice? - le chiesi preoccupata. Lei fece un sospiro:
- Il medico, già... il nostro, con cui ci troviamo tanto bene, se ne è andato in vacanza, e così è venuto il sostituto, un ometto incolore che non mi ha dato tanta fiducia. Io insistevo nel farla portare in ospedale ma lui si è inalberato, facendomi notare con arroganza che il medico era lui e che dovevo fidarmi. Beh, in definitiva le ha ordinato una serie di penicillina per vedere se la temperatura scende, per un periodo di cinque giorni. Dopodiché decideremo il da farsi... -
- La posso vedere? - le chiesi. Lei si alzò facendomi cenno di seguirla.
- Teniamo i balconi quasi chiusi - mi disse mentre percorrevamo il corridoio che portava alla zona notte - per tener fuori il caldo, e poi perché ci ha detto che la luce le dà fastidio agli occhi... Detto... cioè... scrive delle cose su un bloc-notes, quando ha bisogno... -
Povera Sara, che diavolo ti sei beccata?!?”, pensai mentre cercavo di non badare al groppo che mi serrava la gola. La donna aprì la porta della stanza e vi scivolammo dentro in silenzio. La camera, come annunciato, era immersa nella semioscurità e quello che mi colpì subito fu... fu l’odore. L’aria afosa era appesantita da un odore greve... di malattia, di sudore. Nel letto una sagoma informe giaceva in silenzio.
- Sara... Sara, guarda chi è venuta a trovarti - sussurrò la madre chinandosi - ...c’è qui la tua amica Giulia...-
Mi avvicinai al letto mentre la signora Todescan accostava una sedia e scivolava fuori. Sara voltò lentamente la testa verso di me e alzò un braccio, per un attimo, prima di farlo ricadere stancamente sul letto. Io le posai delicatamente una mano sulla spalla, come per rassicurarla. La maglietta che indossava era intrisa di sudore. Potevo sentire il calore malato irradiarsi dal suo corpo.
- Ti salutano tutti, sai - le dissi cercando di tenere un tono leggero che non sentivo affatto - e non vedono l’ora che tu ritorni. Soprattutto Walter e i suoi ciocorì - la figura immobile nel letto non reagì - comunque tu adesso devi solo pensare a stare bene, che è la cosa più importante... -
Come sempre in queste difficili occasioni, ci si sente decisamente imbarazzati a dover confortare chi non sta bene. E’ proprio il contrasto tra sano e sofferente che rende ridicolo, e forzato, questo tentativo di conforto morale. Io di lì a poco sarei stata libera di uscire nella sera estiva che si stava rinfrescando, con la possibilità di fare quello che più mi andava. Mangiare una fetta di anguria, farmi una doccia rinfrescante, camminare a piedi nudi sulle piastrelle fredde della cucina (telefonare ad Andrea). Lei se ne sarebbe stata lì in quella stanza impregnata di cattivo odore, a infradiciare le lenzuola di sudore, ardente di febbre. Sentii due lacrime cercare di spuntarmi dagli angoli degli occhi ed annaspai per impedirlo. Ci mancava anche il crollo emozionale, per tirare su di morale la mia povera amica. Lei fece un cenno a fatica verso l’abat-jour che teneva sul comodino. L’accesi e rabbrividii, nel guardarla. La sua faccia era bianca come cera, e contrastava sinistramente con le occhiaie scure che le segnavano gli occhi. I capelli, solitamente vaporosi e lucenti, cadevano spenti, incollati alla fronte madida. Si protese verso un blocchetto ed una penna e mentre lo faceva scorsi, appena sotto la mandibola, alcune zone dove la pelle era arrossata, infiammata, in maniera spiacevolmente regolare, come l’irritazione che può dare una collanina. L’aiutai a prendere il bloc-notes e attesi con impazienza che scrivesse. Vergò alcune parole a fatica e mi porse il tutto. Lo lessi con avidità, sforzandomi di capire bene quegli scarabocchi. Le tre parole erano una domanda, e dicevano: VEDI ANCORA ANDREA?
Stavo per irritarmi della cocciuta insistenza della mia amica, ma non era ovviamente il caso. Per cui feci un cenno con la testa, un sì secco e rassegnato. Lei restò lì a fissarmi, con occhi che mandavano lampi e la fronte corrugata, mentre io provavo solo una voglia terribile di alzarmi e scappare via da quel letto di malattia, da quel luogo di sofferenza.
La madre di Sara entrò nella stanza con due bicchieri di aranciata a rompere quel momento di tensione e imbarazzo. Parlai con lei ancora un po’ del più e del meno (possibile che non si accorgesse del cattivo odore che ristagnava nella stanza?) poi finalmente, dopo aver sorriso a Sara, che non ricambiò, potei uscire di lì e scendere nella strada. Respirai a pieni polmoni la dolce aria della sera estiva. Dalle finestre spalancate delle case provenivano suoni di cucina e di televisori accesi. Un gruppetto di bambini mi sfrecciò accanto pattinando vigorosamente.
Guardai il cielo che si arrossava dietro il campanile di una chiesa e m’incamminai verso la mia macchina.
Mentre guidavo lentamente verso casa avevo la testa invasa da decine di pensieri, che svolazzavano lenti come avvoltoi in planata. A guardarla da un punto di vista ottimistico Sara si era beccata una di quelle influenze estive che giungono inaspettate in una stagione che richiama più i ghiaccioli e i tuffi in piscina che non termometri e medicinali. Non che fosse una cosa impossibile, del resto, poteva succedere ed era successo. E forse proprio per il fatto che non te lo aspetti diventa più fastidiosa da sopportare e più difficile da debellare.
Sì, ma cavoli, l’aspetto di Sara era proprio distrutto, ad essere sinceri. E poi c’era il mio malessere. Che, a seconda dei momenti, ritenevo preoccupante (quando mi ci trovavo in mezzo) o trascurabile (come in quel momento mentre attendevo che il semaforo divenisse verde, e mi sentivo quasi bene. Sì, forse un po’ stanca, ma avevo sulle spalle un anno intero di studio e lavoro, e l’afa estiva non aiutava molto a sentirsi in superforma). Forse non mi avrebbe fatto male fare una visita alla dottoressa Simeoni, in fondo era da molto che non ne avevo bisogno, e mi avrebbe fatto piacere darle un salutino. La zona “positiva” del mio cervello già si immaginava (ed auspicava) la voce rassicurante della dottoressa che mi tranquillizzava assicurandomi che ero in forma come non mai, a parte un po’ di normale affaticamento dovuto al periodo. E che avrei dovuto solo pensare a divertirmi e ad organizzare le vacanze ormai imminenti. Già, le vacanze... di lì a un mese c’era un delizioso ed esclusivo villaggio turistico abbarbicato sulle rocce, a piombo sul mare turchese della Puglia, che mi aspettava a braccia aperte. E allora basta con liste di autori e vecchi libri polverosi, ma solo lunghe ore a sonnecchiare sotto un sole da favola, con il profumo della crema abbronzante e lo sciacquìo delle onde in lontananza. Con tutte le attrattive sportive che il villaggio offriva (dalla pallavolo al tiro con arco, passando attraverso windsurf e calcetto e vasche in piscina e chi più ne più metta) avrei avuto tutto il tempo di prepararmi ad un ritorno al lavoro abbronzata al punto giusto, dato che Ricky sarebbe stato attirato più da...
Ricky. Una punta di rimorso (e di vergogna?) mi scosse dai miei pensieri balneari. Ricky. Lo stavo trascurando, probabilmente, anche se lui non aveva dato segno di accorgersene. Anche perché non sapeva leggere il pensiero, naturalmente, se no si sarebbe accorto da solo che la mia mente era riempita, monopolizzata, invasa dai pensieri su di un uomo che non era lui. Al quale pensavo in maniera così forte e continua da farmi tornare in mente la persona con cui stavo da ormai due anni, con cui si stava parlando di sposarsi (anche se per il momento il dibattito era ancora in corso), solo come accessorio di una digressione sulla mia prossima vacanza estiva. Forse avrei dovuto parlare a Ricky di quello che stava succedendo, ma è così difficile trovare nel partner (in qualunque partner, presumo) la capacità di ascoltare imparzialmente e senza pregiudizi quello che stava suscitando in te un’altro uomo. Un possibile rivale, agli occhi di chi sta fuori. Ovviamente anche per me sarebbe la stessa cosa se lui fosse venuto a parlarmi di una donna che gli stava creando un qualche tipo di... di sensazione. Nemmeno io  sapevo poi bene come etichettarla, né darle un peso adeguato. Anche se questa persona ti viene in mente, ma ancora non ci hai fatto niente di mal... Balle. Balle. BALLE !!! Diedi un mezzo pugno di stizza al volante, facendo inavvertitamente partire un suono strozzato di clacson. Sul marciapiede un vecchio agitò una mano in segno di protesta. BALLE. Non potevo assolutamente continuare a smenarla con la storia del “non facciamo nulla di male”. Ok, non eravamo finiti a letto (per-il-momento) e non mi era venuto neanche il pensiero (o il desiderio) che ciò avvenisse. E in questo ero sincera con me stessa. Ma gli ero volata tra le braccia nello stanzino del caffè (difesa: ero scossa del tragico malore a Ugo Maniero). Sì, ma anche scossa avrei dovuto cercare un momentaneo conforto morale, non le sue labbra e la sua lingua. (difesa: mi ha baciata lui). Sì, può essere anche vero, ma di certo io non mi ero dibattuta tra le sua braccia urlando “come ti permetti” e tempestandolo di pugni. Mi sono tuffata invece nella sua bocca, e ho lasciato che le sue mani passeggiassero disinvoltamente su tutto il tragitto tra la mia nuca e il mio sedere. Non è certo il comportamento che avevo sempre pensato di tenere nel momento in cui avessi avuto problemi con qualche bellimbusto. E fra l’altro di intraprendenti bellimbusti ne avevo messi in riga, fino a quel giorno...
E non potevo nemmeno nascondermi dietro alla striminzita scusante che ero così scossa da non capire cosa mi stava succedendo. No no no. Perché ho goduto. Subito. E anche se sono una tipa a cui il sesso piace direi notevolmente... in maniera così devastante mi era successo solo altre tre o quattro volte, in passato. E con il partner giusto, ispirata come si deve, su un bel lettone di casa. Non in uno stanzino che sapeva di caffè e di sigarette spente. Non in un luogo dove poteva capitare qualcuno da un momento all’altro. Non in piedi, solo con un bacio. (“presentamelo!”, avrebbe semi-scherzosamente commentato la mia amica Silvana, ma solo dopo un bel po’ di grappini in una serata rigorosamente-senza-uomini). Sorrisi, nonostante tutto. E mi venne da chiedermi come sarebbe stato in un letto, con un preambolo del genere (nella mia testa si formò l’immagine di un foglietto di bloc-notes con su scritto a fatica: HAI INTENZIONE DI PROVARCI?). Non lo sapevo. Non ci volevo pensare. E anche questa cosa era strana, stridente con il mio modo di fare abituale (anche se da un po’ di giorni il mio modo di fare abituale sembrava avermi preceduto in vacanza). Di solito quando mi innamoravo di un ragazzo e cominciavo a renderlo parte dei miei pensieri, ci fantasticavo su in ogni campo. Da come sarebbe stato il passeggiare mano nella mano a come si comportava a letto. Ovvio, con i dovuti tempi, s’intende. Invece Andrea era presente (onnipresente) nella mia testa, ma era una voglia più che altro di vederlo, di sentirlo. Quasi un’esigenza irresistibile della sua presenza, come se avessi bisogno fisico di lui. Ma non ci avevo fatto ancora nessun pensiero proibito (e forse era questo che rendeva ancora giocabile la carta del “non facciamo nulla di male”), non mi ero nemmeno chiesta com’era sotto quelle sue camice ampie, se aveva un po’ di pancetta o il pelo sul petto. E con queste considerazioni poco ortodosse finivano le mie giustificazioni da un punto di vista logico, anche se un po’ tirate per i capelli. Vada per l’attacco influenzale (il violento attacco influenzale) di Sara, vada anche per il mio presunto affaticamento da anno di lavoro, ma la cosa che era successa al Maniero giù nei magazzini cos’era? Bruscolini di polvere negli occhi? Una perniciosa forma di congiuntivite? Non è che fossi una grande esperta in fatto di sintomi (e poi sono sempre così ambigui, da quello che leggi sulle riviste pseudo-salutistiche lo stesso sintomo potrebbe voler significare indifferentemente allergia da polline o leucemia, alitosi o tumore al cervello!) ma non avevo nemmeno mai sentito di una cecità così repentina. Gli occhi che si riempivano di sangue (rabbrividii nel ricordarlo) tanto da farne piangere lacrime, e poi il buio. Dovevo ricordarmi di chiederlo alla dottoressa, se trovavo una mezz’ora per farci una scappata. Ovviamente non mi attirava l’idea, per quanto presto potessi recarmi al suo ambulatorio compatibilmente con gli orari di lavoro, di trovarlo immancabilmente zeppo di vecchiette che stazionavano rassegnate in attesa.
Mentre svoltavo nella via dove abitavo, lo sguardo mi cadde sul bigliettino piegato in due posato sul portaoggetti. E adesso? Nelle viscere di quel pezzetto di carta, strappato frettolosamente da un foglio di macchina da scrivere, era annotato con mano maldestra un numero di telefono. Un semplice numero di sei cifre che mi stava attirando come un’enorme calamita psichica, ripetendo “chiama e chiama e chiama” all’infinito. Scorsi in quel momento una vettura che stava liberando un parcheggio proprio davanti al portone del mio palazzo e mi fermai al lato della strada, i lampeggianti in funzione, in attesa che l’automobilista se ne andasse. Era inutile che mentissi a me stessa, sapevo già che sarebbe stata una sofferenza resistere, sapendo invece di avere la possibilità di alzare la cornetta e di sentire la sua voce. Mi venne quasi la tentazione di lasciare in macchina il bigliettino ma temevo che, dopo un nervoso andirivieni per le stanze deserte e calde del mio appartamento, avrei dovuto scendere a rimediare a quella mossa così idiota. Chiusi quindi l’auto e salii le scale. Il bigliettino, stretto nel mio pugno, pareva scottare. La casa mi salutò silenziosa come sempre, e nella segreteria non c’era traccia di messaggi. Aprii il bigliettino e lo posai sul mobile in ingresso. Il numero mi guardava inerte e io guardavo lui. 540666. Appena poco più sotto l’indirizzo. Via Thaon di Revel, 115. Zona Villaggio del Sole, pensai, a quest’ora e con la città semivuota con la circonvallazione ci potrei arrivare in meno di un quarto d’ora. Ma che ci vado a fare? A dirgli cosa ? Afferrai il telefono, portandolo all’orecchio. Lo riabbassai. Scossi il capo. Presi un lungo respiro. E rialzai la cornetta. Feci i primi due numeri. Poi bloccai la comunicazione e rimisi di nuovo a posto il telefono. Potevo togliermi quegli abiti stazzonati e stanchi, farmi una bella doccia rinfrescante, bere un lungo sorso di succo d’arancia direttamente dal frigo, e poi vedere se avevo ancora voglia di formare quel numero. Tanto per saggiare un po’ la mia forza di volontà.
Entrai in bagno, sfilandomi la camicetta e slacciando la cintura dei jeans, che mi si afflosciarono intorno ai piedi. Aprii il rubinetto e mi sciacqui la faccia sudata, mugolando di piacere. Alzai poi il viso nello specchio e mi osservai, trovandomi disperatamente sfatta. Il pallore della mia faccia sembrava quasi risplendere nella penombra della stanza da bagno (e sì che qualche fine settimana l’ho passato sotto il sole in piscina), e non mi piacevano affatto quei segni scuri sotto gli occhi. Mi ricordavano le occhiaie che avevo scorto sul volto malato di Sara. Scossi la testa, distogliendo lo sguardo dall’immagine di quella brutta copia di una ragazza, e aprii il getto della doccia. Poi, come facevo ormai d’abitudine, salii sulla bilancia pesapersone che dormiva accanto alla vasca. E impallidii. Incapace di credere a quello che leggevo, fissavo l’ago della bilancia che indicava impietosamente 54 kg. DUE CHILI IN MENO dell’ultima volta che mi ero pesata. Domenica mattina, mentre ciondolavo per casa in attesa di un inutile cenno di vita da parte di Andrea. Quattro giorni prima. Solo quattro giorni prima. Non riuscivo a farmene una ragione. Non riuscivo neanche ad accettare quello che vedevo. Avevo perso due chili in quattro giorni! E non c’era neanche tema di errore, visto che la domenica avevo commentato che erano ormai mesi, nonostante i pranzi saltati a far compagnia a Sara, che l’ago segnava sempre il peso forma di cui andavo tanto fiera (senza farlo naturalmente pesare alla mia grassottella amica): cinquantasei chili. Scesi di scatto dal piano della bilancia, come fosse improvvisamente diventato incandescente, affrettandomi a controllare subito se la rotellina sul lato fosse stata accidentalmente manomessa. A volte, magari passando con la scopa per le pulizie, succede. Ma purtroppo taratura era perfetta. I due chili mancavano, e mancavano dal mio corpo! Una vampata di calore mi invase il corpo, e presi a sudare copiosamente, mentre il panico mi ghiacciava lo stomaco con dita d’acciaio. Che diavolo mi stava succedendo? Di certo non era una bella cosa (mio Dio, non era proprio no una bella cosa) perdere così tanto peso in un periodo così... così breve. Cristo, in quattro giorni?!? Provai assurdamente a risalire sulla bilancia, restando bene immobile e cercando di essere più “pesante” possibile, ma il quadrante dava il responso di poco prima. Immutato e angosciante.
Mi lasciai cadere sul divano del salotto, mentre la testa si riempiva di immagini frenetiche di ospedale, di strani e sgradevoli esami clinici, di medici che scuotevano il capo seri e rassegnati. Una perdita di peso così repentina non era associabile ad un semplice periodo di stress, no di certo, ma a qualcosa di ben più serio e grave. Qualcosa a cui non avevo neanche la forza di pensare, tanto mi spaventava. Dovevo precipitarmi dalla dottoressa, la mattina dopo, liste di autori urgenti e vecchiette parcheggiate in sala d’attesa che fossero. E non potevo certo parlarne con nessuno, per il momento, né a Ricky né tantomeno a mia madre (così apprensiva e spaventata da tutto). Avrei creato solo preoccupazioni inutili, finché non sapevo bene di cosa si trattava. Scoppiai in un pianto dirotto, sfinita dagli eventi degli ultimi giorni e terrorizzata da quello che mi stava capitando, e piansi fino a che non mi si indolenzirono gli occhi. Fino a che un principio di mal di testa non si affacciò nel mio cervello esausto. Poi, a poco a poco, mi calmai. Fino a che qualcuno di ferrato non mi forniva una diagnosi precisa, piangerci sopra era inutile. Anzi, peggiorava le cose.
Guardai l’ora, erano ormai le otto passate. Mi avvicinai nuovamente al telefono e stavolta composi per intero il numero di telefono che mi ossessionava tanto. Senza tentennamenti. Il cuore mi rimbombava nelle tempie. Rimasi in ascolto: il telefono non mi rimandava nessun suono. Neanche uno squillo a vuoto. La cornetta accostata al mio orecchio era desolatamente muta. Stavo per riappendere stupita quando una voce disse:
- Pronto - senza nessun tono interrogativo. Pronto. Punto e basta. Restai sorpresa, e non ebbi la prontezza di ribattere subito.
- Pronto - ripeté la voce, nello stesso modo di prima. Pausa. Silenzio. Tutto ciò mi faceva sentire a disagio, e i miei battiti rimbombavano nella cornetta.
- Ah sì... pronto... er... sono Giulia Visconti - risposi inciampando nelle parole - potrei parlare con... -
- Sono io - Pausa. Silenzio. Che assurdo modo di parlare al telefono, pensai.
- Andrea? - non ne ero troppo sicura, il tono della voce che avevo sentito non mi diceva nulla.
- Andrea. Come stai, Giulia? - ora la voce sembrò farsi improvvisamente calda, quel calore che conoscevo e desideravo. C’era qualcosa che comunque mi metteva in difficoltà, e non riuscivo ad inquadrare bene cosa. Forse il fatto che non si sentisse alcun suono di nessun genere nei momenti di pausa di Andrea.
- Scusa se ti telefono a quest’ora - ripresi - ti ho telefonato per... per (già, perché ti ho telefonato?) perché sono ancora scossa da quello che è successo a Ugo Maniero, giù nel magazzino. Non so... avevo solo bisogno di parlare con qualcuno... -
Silenzio.
- Andrea? -
- Il tuo Ricky non è con te? -
Si ricordava il suo nome. Non aveva detto “il tuo ragazzo” o “non c’è qualcuno lì con te”, come farebbe chiunque senta un nome una volta sola durante una chiacchierata.
- No, sono sola. Ricky è... sta... - non avevo neanche idea di dove fosse il mio ragazzo, dovetti sbirciare sul planning aperto sul mobile che indicava che era giovedì. Giovedì, quindi palestra fino alle nove e mezzo. - ...è in palestra... -
Dall’altro capo del filo non si udiva niente. Nemmeno il rumore del suo respiro. Ecco cos’era che mi creava tanto disagio, avevo in continuazione l’impressione che dall’altra parte avessero riappeso.
- Non andresti lasciata sola in momenti come questi... -
- Beh, lui non sa ancora niente e io non l’ho chiam... -
- Io non ti lascerei sola. Io avrei sentito e non ti avrei lasciato sola -
Cosa significava “avrei sentito”?!? Il mio cuore accelerò a quelle parole e provai nello stesso tempo una sensazione di benessere, come se mi sentissi protetta. E anche il brutto pensiero sul mio stato di salute in quel momento era un trascurabile “pensiero di fondo”.
- Lui si prende molta cura di me... - mi difesi cercando così di ammorbidire quei discorsi così diretti. Il silenzio tornò tra di noi per qualche secondo, come un velo, poi la voce riprese:
- E’ bene così, è molto bene. Tu sei una persona che non va trascurata. Non te lo meriti -
- Andrea, senti, tu non mi conosci e... - una piccola percentuale di me stessa era imbarazzata da quella conversazione così “scoperta” (la percentuale che avrebbe dovuto tagliar corto sdegnata), l’altra invece era stimolata ed attratta di quella schermaglia. Era un gioco, e volevo stare al gioco, mi faceva sentire bene, considerata
(corteggiata)
desiderata.
- Mmh, è vero. Io non ti conosco, anche se con alcune persone non è importante conoscerle da tanto tempo. In senso cronologico, intendo. Alcune persone, e tu sei tra queste, sono trasparenti e aperte, e bastano poche parole, pochi attimi per apprezzarne tutta la sensibilità. Persone che risplendono -
(Parlami. Parlami ancora, Andrea, parlami per l’eternità)
- anche se avrei desiderato con tutto me stesso poterti conoscere da sempre - continuò - mi sarebbe piaciuto incontrare una bimbetta che saltellava verso la scuola con una cartella sulle spalle. Una bimba con gli occhi azzurri e le treccine. Perché tu portavi le treccine da piccola, vero? -
Come al solito, mi prese alla sprovvista. Era vero, ovviamente, e anche se adesso portavo i capelli tagliati corti, quasi alla maschietto, da piccola portavo spesso le trecce. Anzi, ne andavo fiera e non mancava occasione di chiedere a mia madre di farmele. Ma come diavolo faceva a saperlo lui? A meno che non avesse bluffato. In effetti almeno il 50% delle bambine della mia età portavano le trecce, o le codine, alla fine degli anni 70. Sì, doveva essere così. Ci ha provato e ci ha preso.
- Sì, le portavo - risposi con noncuranza, come se stessi al gioco di un prestigiatore maldestro. Lui non fece caso alla freddezza voluta della mia risposta ma cambiò di nuovo discorso. Spiazzandomi nuovamente.
- Giulia, stai male? -
(Che gli dico? Che gli dico? Che gli dico?)
- Perché me lo chiedi? - non potevo certo raccontargli dei chili persi (l’angoscia mi salì a stringere la gola), non mi andava che avertisse la mia preoccupazione, comportandosi di conseguenza. Compatendomi.
- Sensazioni - rispose lui, e la risposta era asciutta. Impersonale. Dov’è il calore del tuo sorriso, Andrea, pensai, dove sono i tuoi occhi così dolci? Non volevo dirgli troppo ma avevo anche voglia, bisogno di parlare con lui, di sentirmi protetta. Rassicurata. E lui riusciva a farmi sentire tale in maniera così sorprendente.
- Non lo so - continuai, cercando le parole giuste - Non lo so. Di certo quello che è successo a Maniero mi ha sconvolta. E poi anche Sara, gli è presa una febbre strana. Violenta. In più ha perso la voce - ridacchiai - e questo per Sara è veramente un evento tragico... -
- Sara chiedeva in giro notizie su di me - quel suo strano modo di parlare rendeva la sua risposta pesante come un’accusa. Non aveva detto “lo sai che la tua amica chiedeva di me in giro?”, magari con tono leggero, al quale avrei potuto rispondere con una battuta sdrammatizzante. (Ah sì? Magari è interessata a te. Ah ah). Invece così sembrava quasi un interrogatorio.
- Beh... vedi, Sara chiede in giro di chiunque. Basta che uno sia nuovo e lei si mette subito a ficcare il naso su chi è e cosa fa e da dove... - mentre parlavo vedevo nella mia mente una buffa immagine di Willie il Coyote che cercava di arrampicarsi su una parete di specchi. E poi perché dovevo giustificare la mia amica da una cosa così banale?!?
- Capisco. Ma non hai risposto alla mia domanda -
Quale domanda?, pensai un po’ innervosita. Andrea, tu non fai domande, tu spunti sentenze. Nel tuo vocabolario non esistono i punti interrogativi.
- A proposito di che? - chiesi.
- Su cosa c’è che non va in te -
Soffiai nel telefono. Non mollava la presa, a quanto pare. Speravo io che si fosse accontentato delle divagazioni...
- Non lo so. E’ un periodaccio, penso. Mi sento stanca, ma forse è il caldo, e la voglia di vacanze. Stupidaggini, comunque, qualche mal di testa (e perdita di forza, e sangue dal naso, e vista annebbiata. E due chili andati chissà dove) e un po’ di fiacchezza. Farò comunque un salto a trovare dal medico, prima o poi... -
(domattina appena schizzo fuori dal letto)
- Non hai niente - ribatté lui, con la solita sicurezza, come se avesse esaminato tutte le mie analisi e i responsi degli esami futuri - vedrai che non è niente... -
In quel momento il campanello trillò due volte. Io osservai il mio orologio (per la prima volta da quando avevo formato il numero) e restai come al solito di sasso. Il tempo volava, quando parlavo con Andrea, anche se non me ne accorgevo. Ricky era già qui, e quindi erano ormai le dieci. Spero che qualcuno non abbia avuto esigenza di telefonarmi, pensai a disagio.
- Devo riattaccare - dissi - hanno suonato ed è... -
- Già. E’ arrivato Ricky - ribatte lui. Come diavolo fai a dirlo con sicurezza, Andrea? Non ti ho detto che veniva qui. O stai ancora bluffando e ci ha preso ancora una volta?
- Sì, è lui - confermai - ciao, a domani -
- Ciao, Giulia. Stai bene. E grazie -
Un clic dall’altro capo mi fece capire che aveva riagganciato. Grazie di cosa?, pensai. Poi Ricky diede un’altra scampanellata (e un filo di irritazione mi assalì) e io corsi verso il citofono, per farlo salire. E solo allora mi accorsi che il getto della doccia, da quasi due ore, era aperto e scrosciante.

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Capitolo 5
*** Visite mediche - La sfida ***


CAP. 13


- Non è possibile -
Dall’altro lato della scrivania la dottoressa Simeoni mi guardava da sotto la massa di capelli crespi e folti. Io, sul ciglio di una sedia di fronte a lei, mi torcevo le mani nervosa. Ero lì da ben prima dell’orario di ricevimento visite. Anzi, a dire il vero, quando ero arrivata era molto, molto presto ed avevo atteso passeggiando impaziente avanti e indietro per il cortiletto deserto. Dopo una buona mezz’ora si erano fatti vivi una vecchietta con un dimesso abito a fiori e un tipo di mezza età, stringendo al petto una busta giallina dell’Ospedale Civile come fosse una preziosissima mappa del tesoro. Mentre attendevo che l’ora di visita si avvicinasse, tornai con la memoria alla sera precedente, quando Ricky era entrato in casa.
- Sono qui, in bagno! - avevo esclamato ricambiando il suo saluto. Fortunatamente avevo lasciato il foro di scarico privo di tappo, nel box doccia, altrimenti a quel punto ci saremmo ritrovati con l’acqua alle caviglie per tutto l’appartamento. Lui si era affacciato alla porta del bagno, osservandomi curioso mentre tamponavo le chiazze di bagnato lasciate dagli spruzzi della doccia sul pavimento.
- Ehi, è tutto bagnato ! Che è successo?!? -
L‘occhiataccia che gli lanciai lo convinse a non approfondire l’argomento. Svicolò in cucina, sicuramente per bersi qualcosa di fresco. Sempre che non avesse anche appetito. Io finii di asciugare, mentre la schiena piegata mandava lampi di dolore e un mal di testa ormai conosciuto veniva a farmi visita, considerndo con occhio torvo che Ricky, da insensibile qual’era, non aveva per niente chiesto come stavo. Si era solo preoccupato di sottolineare che il bagno del pavimento era un lago. Subito dopo mi pentii di quella considerazione così sgarbata, in fondo era appena arrivato ed era normale che balzasse all’occhio subito quell’inondazione in miniatura. Non dovevo fare paragoni di nessun genere (paragoni con chi, di grazia?). Lo raggiunsi in cucina e notai subito (quella sera la mia capacità di osservazione, e di irritazione, era lucida e sfolgorante) che, come faceva spesso, aveva aperto un cartone nuovo del latte, quando io sapevo che ce n’era almeno un quarto in quello già aperto nello sportello del frigo. In più, era intento ad affettare del pane direttamente sulla tavola. Senza l’ausilio di un pratico panierino parcheggiato sulla credenza, producendo così una distesa di briciole. Mi guardò sorridendo (non è lo stesso sorriso, non è lo stesso sorriso) ma tornò subito serio non appena incontrò il mio sguardo privo di ogni  cordialità. Anzi la sua espressione si fece prontamente, e comicamente, contrita nel decifrare il messaggio ben poco amichevole che i miei occhi corrucciati stavano inviando.
- So che sto facendo qualcosa che non ti va a genio... - esclamò misurando le parole neanche fossero casse di nitroglicerina. Era così... prudente da risultare quasi commovente, e in un altro momento, in un qualsiasi altro momento, l’avrei stretto forte forte stemperando la tensione in una risata. Ma non quella sera - ...c'entrano forse le briciole??! -
Io aprii lo sportello del frigo con un’energia da far tintinnare le bottiglie di birra e i barattoli di sottaceti:
- Le briciole. E hai aperto un cartone nuovo - indicai il latte - come al solito... -
- Se è come al solito, dovresti abituartici. E’... è più forte di me, lo sai, forse dovrei andare in analisi per capirne i motivi reconditi... -
La sua battuta in un altro momento mi avrebbe strappato un ulteriore sorriso di divertimento. E non riuscivo a capire perché ora invece non faceva che accumulare candelotti di dinamite sotto la diga della mia tensione:
- Non fare lo spiritoso, Ricky - era strano, non è che mi sentissi particolarmente irritata o arrabbiata, ma solo come se dovessi recitarne la parte, quasi stessi provando una scena. Una parte di me osservava il comportamento del resto di me e non riusciva a capirne i motivi - stasera non è serata. Ho mal di testa, ed è stata una giornataccia... -
- Fa Faiia Uifa ti ha faffo le faranoie? -
Aspettai che mandasse giù il boccone di panino e che ripetesse, in maniera più intelleggibile, la domanda. Lui sorrise, deglutendo rumorosamente:
- Scusa. Dicevo, la Maria Luisa ti ha fatto le paranoie? -
- No, grazie a Dio almeno quella non mi ha rotto le scatole. E’ successo di peggio, però... -
Lo misi al corrente del malessere accorso a Ugo Maniero mentre lui mi fissava con un’espressione che mutava rapidamente da divertito a incuriosito a sbalordito. Si era sdraiato sul divano e stringeva il panino bloccato a mezz’aria, mentre le briciole gli punteggiavano la t-shirt colorata. Togli quei piedi dal tavolino, sibilai dentro di me, chiedendomi confusa subito dopo il perché di quel velenoso imperativo mentale. Considerato che non me n’era mai fregato niente, di piedi sui tavolini di casa. Anzi, spesso e volentieri ci stazionavano anche i miei, per serate intere. E invece adesso non sembrava altro che cercassi un pretesto per litigare. Lui continuò a farmi qualche domanda curiosa su quello che era successo, poi si tirò su a sedere:
- Sei nervosa? - mi chiese, e il suo tono era sereno e dolce. Ma il mio mal di testa lo mediava attraverso una cappa dolorosa, al punto di  renderlo quasi fastidioso. Calmati, Giulia, calmati.
- Perché me lo chiedi? - ribattei.
- Perché ho bisogno di parlarti. E ho bisogno che tu possa essere disponibile a discutere, senza che niente ti irriti o ti faccia saltare la mosca al naso...-
- A me non salta mai la mosca al naso - risposi. Lui fece un gesto che significava “insomma” e continuò:
- Il cartone del latte ti ha fatto saltare la mosca al naso. E le briciole. E probabilmente i piedi sul tavolino, hai fatto una faccia...-
Io mi sentivo come una scolaretta alla quale venga scoperta la foto dell'attore belloccio incollata sul diario, e avvertii un crampo di tensione attorcigliarmi lo stomaco. Sapevo di cosa voleva parlare, e speravo nello stesso tempo che non fosse così. Avrei voluto sedermi in poltrona di fronte a lui, e tentare di ascoltarlo con disinvoltura, ma la tensione mi faceva passeggiare nervosamente su e giù per la stanza, con gli occhi di Ricky che mi seguivano come fosse spettatore di un incontro di tennis.
- Di che si tratta - Così. Punto. Però, quanto espansiva ero. Sembrava che avessi frequentato un corso di conversazione telefonica tenuto da
(Andrea)
- Sai bene di cosa si tratta - rispose un po’ sfiduciato Ricky. La mia agitazione, e le mie risposte secche, gli preannunciavano già una sconfitta a tavolino - la casa, in centro. Mio padre continua a rompermi le balle su quando prenotiamo gli interventi di ristrutturazione, e in parte ha ragione. Sai benissimo che gli operai non sono lì ad aspettare i comodi nostri, e poi va a finire che ci fanno morire prima che trovino del tempo per noi -
Mi strofinai una mano sugli occhi, che mi dolevano un po’. Già, la casa la chiamava lui, anche se era un palazzetto del ‘700 che doveva valere un occhio della testa, le cui (molte) finestre si aprivano su uno splendido scorcio della Basilica Palladiana. “La casa”, neanche fosse un monolocale in periferia (magari in zona Villaggio del Sole). Io ero perfettamente conscia, e anche lui lo era, che se avessi accettato di dare il via ai lavori che c’erano da fare sarebbe stato come dare il mio consenso a far andare avanti le cose. E le cose avrebbero significato alla fine preparativi, e annunci, e liste nozze, e fiori d’arancio. E allora, qual’era il problema? Se ero con lui da ormai due anni lo facevo perché, prima o poi, si arrivasse a quello. Penso. E non per prendersi in giro e buttare via il tempo. Giusto? (giusto?, ripeté un’eco nella mia testa). Prima o poi sarebbe stato il momento di smetterla di tergiversare e di dare una risposta definitiva. Mi vidi in quella grande casa, sicuramente arredata con eleganza, certamente calda ed accogliente, anche se la ritenevo troppo grande e forse era questa già una cosa che non mi
(non è la casa, e lo sai, non è la casa)
E poi ebbi dentro di me l’immagine di me stessa stesa in un grande letto, con Ricky addormentato a fianco, che fissavo il soffitto. Con la consapevolezza (l’assurda consapevolezza) che non avrei più potuto alzare il telefono e chiamare Andrea. Avvertivo tutta la mia angoscia di sentirmi bloccata lì, paralizzata (prigioniera) senza avere più (PIU’) la libertà di uscire senza dover dire a nessuno dove stavo andando. E una mano invisibile con dita gelide salì a stringermi la gola e annaspai mentre il respiro mancava, tanto che Ricky, preoccupato, si alzò di scatto per sorreggermi.
- Ehi, tutto bene? - esclamò premuroso - ti senti male? -
Io feci cenno che non era niente con la mano, respirando profondamente, e pensai che doveva saperlo che non stavo bene, senza dovermelo chiedere. Che avrebbe dovuto sentire (“io avrei sentito”) che non stavo bene. La rabbia, inaspettata tanto da sbalordirmi, esplose violenta. Lo allontanai con una manata che assomigliava molto ad una sberla e mi girai verso di lui:
- TI HO GIA’ DETTO CHE NON MI PIACE QUELLA CASA! - urlai, mentre non riuscivo a capacitarmi di quella mia reazione così assurda e fuori luogo. Stavo impazzendo, probabilmente, forse la malattia che mi aveva succhiato i due chili era annidata nel mio cervello e stava dando una festa - e tu che continui a parlarne cercando di far andare avanti le cose sotto il mio naso! Non ti ho mai chiesto di comperarla né detto che desideravo andarci ad abitare. Ti avevo solo chiesto un po’ di tempo per farmici riflettere con calma, su noi due, sulla cosa così importante che volevamo fare, non sulla casa, e invece tu come al solito ci sei continuato a tornarci sopra a intervalli regolari!!! -
Lo guardai per un attimo e mi si strinse il cuore nel vederlo così... così stravolto da quella mia aggressiva reazione, ma la testa mi doleva feroce, e mi sentito tutta ovattata, confusa, e l’angoscia di vedermi prigioniera in una vita che non mi convinceva e che non potevo più modificare mi restava impigliata in mente come un amo acuminato. Mi lasciai crollare sulla poltrona:
- Va via, per favore, Ricky - singhiozzai tra le lacrime - adesso lasciami in pace, non ho voglia di pensare a niente... -
Rimasi lì, con la testa appoggiata nell’incavo del braccio, ad udire i suoi passi che si allontanavano e la porta che si chiudeva. Non aveva neanche provato ad aggiungere qualcosa, magari un tentativo di spiegazione che mi avrebbe fatto riesplodere, ma mi lasciò sola, come gli avevo chiesto. E forse anche per questo, in fondo alla mia anima, al di là del dolore e di quella pazzia, lo amavo così tanto...
- Probabilmente ti sei sbagliata - la voce della dottoressa Simeoni mi riportò alla realtà, alla penombra rinfrescante del suo studio, allo scaffale dietro di lei zeppo di libri di carattere medico - è un po’ difficile perdere due chili in così breve tempo, anche nei casi più seri, e non mi pare proprio che tu ti debba preoccupare. Non c’è stato il minimo episodio, e queste cose non capitano quasi mai come un fulmine a ciel sereno... -
Io mi agitai sulla sedia. Non c’era cosa peggiore per me che sentirmi mettere in dubbio. Mi faceva imbestialire, specie se ero sicura di quello che dicevo. Ricky sostiene che è probabilmente legato a qualche torto subito nell’adolescenza. Stupidaggini, non mi va e basta.
- Sì, lo so che è difficile da credere, ma come le ripeto mi sono pesata domenica mattina, e ieri sera... beh, gliel’ho detto... -
Lei mi guardò con quel suo sguardo calmo e sereno (così calmo e sereno che dava quasi i nervi), poi si alzò e venne a porsi dietro di me:
- Ripetimi gli altri sintomi che dici di accus... scusa, che accusi - disse mentre mi tastava con la punta delle dita le ghiandole del collo. Io sospirai:
- E’ da circa un paio di settimane che mi sento stanca. Faccio fatica a fare le cose più banali, salire le scale, e una volta addirittura ad afferrare la cornetta del telefono. E poi ho dei mal di testa ricorrenti, e mi si appanna la vista... ah, e sangue dal naso... -
- Stenditi sul lettino -
Mi visitò scrupolosamente, pigiando e picchiettando come sanno fare i medici, e facendomi ogni tanto qualche domanda su questo o quel sintomo. Mi fece cenno poi di rivestirmi, mentre tornava a sedersi dietro la scrivania:
- La vita come va? - mi chiese guardandomi al di sopra gli occhiali a mezzaluna. Io mi bloccai a metà di un bottone:
- In che senso? -
- In senso generale. Come va il lavoro, e con Ricky. Come stai tu, insomma... -
Mi lasciai cadere sulla sedia, scuotendo il capo:
- Non vorrà mica venirmi a dire che tutto questo può dipendere da qualche disagio...diciamo... a livello psicologico. Anche la perdita di peso? -
Lei giocherellò con il beccuccio della biro:
- Non voglio dirti nulla. Certo è che in alcuni casi, casi un po’ complessi... subdoli... ci si trova di fronte ad una sintomatologia, anche importante, che scava scava non ha nessuna base fisiologica. Nessuna terribile malattia, se può farti sentire meglio... -
Come va in genere, già, rimuginai. Va a rotoli. E soprattutto va a ritmi forsennati, a colpi di scena che sfiancherebbero chiunque. Come la prosecuzione della sera precedente, che mi aveva visto riformare il numero di Andrea neanche un dieci secondi dopo che Ricky era uscito lasciandomi stremata e lacrimante sulla poltrona. “Probabilmente non ha ancora messo in moto la macchina”, stava considerando una minuscola parte della mia mente mentre pigiavo l’ultimo 6 sulla tastiera. Ancora una volta non si udì nessuno squillo di chiamata. Il silenzio al di là del filo del telefono.
- P-pronto? - mi decisi a dire.
- Pronto - la stessa voce, lo stesso tono.
- Sono ancora io, Giulia... scusa se ti...-
- E’ andato via? - come prima, una domanda secca e diretta.
- Sì. Abbiamo... discusso, cioè, abbiamo litigato - sbuffai nella cornetta - più che altro io ho litigato. Ero nervosa... sono nervosa, non so che mi è preso, credo anzi di essermi comportata da stronza... -
- Non si possono forzare le cose - la sua voce era calma, quasi ipnotica. Potevo avvertirne il calore che si irradiava dalla cornetta e mitigava, anestetizzava il mio mal di testa - se non è tempo che le cose succedano, entrano in contrasto con la vita. E tutto si fa più oscuro, e difficile... -
Era pazzesco. Sembrava sapere sempre cosa stessi provando, cosa mi stesse succedendo. Mi faceva bene parlare con lui, a lui avrei raccontato tutto, di come stavo, a cosa pensavo, cosa provavo. Presi il coraggio a due mani e profferii in un soffio:
- Voglio vederti -
- Adesso? - sembrava stranamente preso in contropiede.
- Ne ho bisogno. Mi sento così...a terra... -
Il silenzio prese il posto delle sue parole, per alcuni secondi che mi sembrarono eterni.
- Pronto? - dovetti ripetere, quasi temendo ancora una volta che avesse riappeso.
- Va bene - sembrava quasi una concessione strappata a forza, ma non m’interessava, avevo bisogno di vederlo anche se l’avevo costretto - dove vuoi che... -
- Vengo io - dissi. Non avevo voglia di restare in casa, con l’ansia che non venisse. Volevo schizzare fuori di lì e sfrecciare nella sera estiva verso di lui - ho il tuo indirizzo. So dove abiti. Aspettami, arrivo in un attimo -
Non so perché, ma riappesi subito dopo aver detto quelle parole. Senza salutare, senza aspettare una sua replica, quasi temessi che potesse cambiare idea. Mi misi addosso qualcosa, senza badarci, probabilmente le stesse cose che mi ero tolta quando ero arrivata a casa, e volai giù per le scale a rotta di collo. In strada alcune persone stavano chiacchierando sedute su delle sedie portate fuori da casa. Ridevano e si gustavano delle enormi coppe gelato. E naturalmente seguirono con sguardo stupito la mia partenza in auto, dato che ci mancò poco che facessi fischiare le ruote.
Non ricordo nulla della strada che percorsi, se c’era traffico, se avevo corso, niente. Mi ritrovai nel quartiere del Villaggio del Sole a cercare la sua via e, dopo averla trovata, il suo numero civico. Era uno dei tanti palazzoni-formicai che gli anni ‘60 avevano lasciato come squallida eredità architettonica. L’intonaco giallino si scrostava tristemente e le finestre spalancate in cerca di un refolo di brezza diffondevano suoni e chiarori di cento televisori accesi. Scesi dalla macchina e mi avvicinai al portone, scrutando i campanelli. Una torma di ragazzini a torso nudo sciamarono vocianti giù dalle scale, disperdendosi nei giardinetti rachitici alle mie spalle. Le targhette dei campanelli erano un campionario di sigle, vecchie etichette Dymo sbiadite, cognomi scritti rozzamente. Su uno dei pulsanti in alto era appiccicato un adesivo rettangolare che diceva: Zipoli A. Era proprio lui, anche se a dire il vero non mi ero mai posta il problema se vivesse da solo o con i suoi (se non addirittura con una moglie e dei figli, perché no?). A meno che il padre non avesse anche lui l’iniziale del nome che cominciava per A. Ma qualcosa comunque mi diceva che avrei trovato solo lui. Forse desideravo trovare solo lui. Premetti il campanello. Dopo alcuni secondi il citofono mandò un lieve ronzio.
- Sì - come al telefono, anche qui il modo di parlare era identico.
- Sono io - dissi, poi, per sicurezza, aggiunsi - sono Giulia... -
Clac. L’apriporta scattò, anche se non serviva, visto che la porta era spalancata. Dalla posizione del campanello dedussi che Andrea doveva abitare all’ultimo piano, e presi a salire la corta scala che portava al piano rialzato dove si trovava l’ascensore. Al quinto o sesto gradino il cuore prese ad accelerare, come un vecchio amico conosciuto, e allungai il passo. Nello stretto cubicolo dell’ascensore distolsi lo sguardo con una smorfia dall’immagine che lo specchio opaco mi rimandava: alla luce del neon tremolante la mia carnagione era di un’inquietante biancore cadaverico. Mmh, come sono in forma, considerai ironicamente mentre l’ascensore traballante mi portava verso l’alto. Sulla porta della cabina qualcuno aveva scritto con un grosso pennarello nero “Sandra ciucia i cassi”. Letteralmente, errori di grammatica compresi. Sul pianerottolo dell’ultimo piano si aprivano due porte marroni, oltre a quella dell’ascensore, ma non si vedeva nessuno. Mi accorsi subito che una delle due porte era solamente accostata e un filo di luce vi proveniva. Bussai leggermente, infilando la testa dentro:
- Permesso? Andrea? -
L’appartamento, deserto e silenzioso, era formato da un’ampia sala sormontata da un soppalco con delle travi a vista, al quale si accedeva da una scala. L’arredamento, decisamente spartano, era formato da un grande divano, un tavolo dimesso e incolore e una piccola libreria che seguiva l’inclinazione del sottoscala. Tutto l’insieme aveva un aspetto impersonale, freddo, e la mancanza delle tende e le pareti spoglie, prive di quadri, concorrevano ad aumentare questa impressione. La temperatura stessa della stanza sembrava notevolmente più fresca di quello che ci si sarebbe aspettato da un locale praticamente sotto il tetto, a fine di giugno. Girai intorno lo sguardo per vedere se c’era in giro un condizionatore d’aria in funzione, ma non ne scoprii traccia. E non c’era traccia neanche di Andrea, in quel momento.
- Andrea? - chiamai di nuovo, massaggiandomi le braccia che si erano coperte di pelle di oca provocata da quel contrasto di temperatura. Lui apparve da una porta sulla mia destra, facendomi trasalire. La stanza dalla quale era uscito era stata silenziosa fino ad un attimo prima, e la luce era spenta. Tentai di chiedermi che diavolo ci faceva là dentro ma poi incontrai il suo sguardo, e il suo sorriso, e non me ne fregò più tanto, né del mio dubbio né di tutto il resto. Era fermo a fissarmi, le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni, e sembrava... gongolare di felicità. E questa sua espressione si rifletteva su di me investendomi con tutto il calore di un piccolo sole. Se in qualche modo si può fissare in un immagine il concetto di benessere psicofisico, io credo che quello fosse l’esempio. Stavo bene, splendidamente bene, e tutti i malesseri, le lacrime, le tensioni erano un ricordo lontano e sbiadito. Lui, senza dire nulla, tese una mano verso di me. In quel momento credo che avrebbe potuto farmi fare qualsiasi cosa. Molto probabilmente anelavo che succedesse qualsiasi cosa. Sono uscita senza neanche farmi una doccia, pensai debolmente, ma in realtà non sembrava importante. Mi sentivo pulita, dentro e fuori, mi sembrava di risplendere. Andrea prese la mia mano se la avvicinò alle labbra, deponendovi un bacio leggero. Un brivido mi corse lungo tutta la schiena, inaspettato e piacevole.
- Come stai? - mi chiese continuando a rimanere appoggiato allo stipite della porta. Io mi diedi un’altra occhiata in giro, chiedendomi come poteva una persona tanto particolare vivere in un ambiente così... così asettico. Quasi finto. Come se fosse il set di una (brutta) telenovela.
- Bene - risposi ancora distratta dal brivido di poco prima - cioè, abbastanza. Sono stata male, malesseri vari, ma adesso... non so... sto bene. Davvero -
Lui sorrise:
- Beh, è bello che adesso stai bene. Ed è così bello anche vederti -
Io mormorai qualcosa di imbarazzato e confuso. Lui rincarò la dose:
- Giulia, mi piacerebbe vederti spesso -
- Beh, in biblioteca ci vediamo, mi pare - ribattei cercando le parole per un giusto compromesso tra la cordialità e il non voler apparire scortese - e stasera sono venuta qui... -
Mi sentivo come una barca alla quale una marea lenta ma inesorabile sfila via tutte le cime che la tengono ormeggiata, e tentavo disperatamente di mantenere almeno un legame con la realtà, con la mia vita, con il mio stato attuale
(con Ricky)
- Già. Perché sei venuta qui, Giulia? -
I suoi occhi erano fissi su di me, e sembravano accarezzarmi. Io strinsi le labbra, quasi imbronciata, come faccio sempre quando una situazione che non mi va diventa comunque inevitabile. Eh già, pensai, se vai a ficcarti nella tana del lupo prima o poi devi farci i conti. Qui non ci sono Marie Luise o telefoni che squillano o Sare che entrano in ufficio che possono trarti d’impaccio. Qui o accetti di giocare o lasci perdere
(non ho nessuna voglia di andarmene)
Passeggiai nervosamente nella stanza, frugandomi nella testa alla ricerca di parole che non trovavo.
- Non lo so, Andrea, di preciso non lo so - risposi titubante - stavo male, e l’unica persona con cui avevo bisogno di parlare eri (perché è così difficile da ammettere?) eri tu. Forse perché sei sempre così gentile, e disponibile, e quando sono con te... - non proseguii. Mi sembrava troppo grande la frase che stavo per pronunciare. Anche se, volente o nolente, era così. Quello strano, sconosciuto ragazzo sembrava avere in qualche modo la capacità di farmi star bene. E non era poco. Proprio per niente.
- Io posso farti star bene - disse - io posso farti stare bene sempre, se tu lo vuoi -
Non c’era la minima traccia di supponenza nella sua voce, anche se quello che aveva detto era di una spacconeria totale. Ehi piccola, io posso risolvere tutti i tuoi problemi... se sarai carina con me. Sembrava così naturale, quello che diceva, e sembrava anche crederci con tutto se stesso. Continuò:
- E credo che tu te ne sia accorta. Solo che, me ne rendo conto, è difficile tutto ad un tratto avere il coraggio di etichettare nel modo giusto quello che ti sta succedendo. Anche se è una cosa così bella, e normale. La resistenza della tua testa a quello che sente il tuo cuore crea in te un conflitto straziante. E allora si cercano dei palliativi che rimettano a posto la tua coscienza, e ci si nasconde dietro a “...sei così gentile” o “...è così piacevole la conversazione con te”... - le sue parole mi mettevano a disagio, mi agitavano, ma non perché mi sentissi offesa, ma perché in fondo alla mia anima temevo che rappresentassero la verità che non volevo andare a scoprire - ...vedi, è questa la differenza. Tu ti trinceri dietro al tuo “non so cosa mi succede”, io invece so benissimo cosa stai causando in me. E se vuoi te lo dico... -
- No, Andrea, ti prego, non lo voglio sapere - alzai una mano quasi a farmi scudo dalle sue parole che mi entravano dentro - è... è assurdo, è troppo poco, non ha senso... e poi, non ci conosciamo ed io... io penso che tra un po’ sposerò Ricky... - pronunciai il suo nome sottolineandolo con la voce, quasi a voler materializzare la sua presenza tra noi. Ma la sua presenza, se si materializzò, restò comunque evanescente e priva di energia.
- Tu vuoi sposarlo? - incalzò come un mastino che non dà tregua - Rispondi sinceramente. Non a me, ma a te stessa. Io la risposta la conosco già -
Voltai la testa verso la finestra spalancata da cui, stranamente, non proveniva nessun suono esterno. La temperatura nell’appartamento sembrava essersi ulteriormente abbassata, anche se non si muoveva un filo d’aria, e avvertivo i capezzoli ritti puntarmi sfrontati contro il tessuto della maglietta leggera. Di sicuro si dovevano anche notare, ma Andrea non aveva mai distolto lo sguardo dal mio viso. “E che è, non ti piaccio?”, pensai assurdamente. Mi sentivo come un animale in trappola, senza vie d’uscita, e il mio tentativo di restare con i piedi per terra (sono Giulia Visconti, ho venticinque anni, lavoro come archivista alla biblioteca pubblica, ho due sorelle e mio padre e mia madre, un ragazzo di nome Ricky con cui sto mettendo su casa, e mi ritrovo in un appartamento anonimo di un quartiere anonimo, a cedere sotto la corte serrata di uno sconosciuto che ho conosciuto una manciata di giorni fa) stava naufragando inesorabilmente. La mia mente, la mia bocca, ogni cellula del mio corpo bramava di ammettere che non volevo sposare Ricky, che la mia vita andava rovesciata e fatta a pezzi, e che il mio unico desiderio era di stare con quello sconosciuto in eterno.
Ma un lembo della Giulia di sempre lottava con le unghie e con i denti affinché quell’ammissione non venisse mai pronunciata, perché se lo avessi fatto sarei stata perduta. Avrei permesso a quell’incantesimo di ammaliarmi ed imprigionarmi. Sarei stata sua. Totalmente, definitivamente sua. E non avrei più potuto tornare indietro.
- Ho bisogno del bagno - sussurrai. Lui mi fissò ancora per alcuni interminabili secondi, poi indicò con la mano la scala che portava al soppalco:
- E’ su di sopra - indicò cordialmente - la porta in fondo al soppalco. Fai con comodo -
Salii con gambe che mi sembravano di piombo, sparendo alla vista del ragazzo, mentre la scala in legno e poi il soppalco cigolavano allegramente sotto il peso dei miei passi. “Cavoli, che casino fa ‘sto legno”, considerai. Andrea non si mosse, a quanto mi sembrò, e restò in silenzio appoggiato allo stipite. Entrai nel bagno, mi chiusi la porta alle spalle e accesi il neon sopra al piccolo specchio sul lavandino. La luce fluorescente sfarfallava un po’, facendomi male agli occhi. La mia faccia era desolatamente smunta e pallida, e mi sciacquai il viso a lungo, poi alzai gli occhi sulla mensolina e lo vidi: era un piccolo origami in carta azzurrina, e raffigurava due minuscole figure umane che si tenevano per mano. Come sempre era bella e delicata da togliere il fiato, e non assomigliava affatto a quelle rigide sculture in carta che fino ad allora avevo visto come esempi di quella tecnica, magari in qualche articolo su una rivista femminile. Le creazioni di Andrea avevano una grazia ed una spontaneità straordinarie, sembravano quasi vive. La fissai a lungo come ipnotizzata, poi girai lo sguardo intorno: la finestra del bagno era spalancata, e dava sulla via dove avevo parcheggiato l’auto. Mi sporsi e mi sentii letteralmente mancare il fiato, per due motivi: primo, perché non appena misi la testa fuori dalla finestra l’afa della notte estiva (la normale afa della notte estiva) si fece viva e soffocante. E secondo perché nella via sottostante, nei poggioli del palazzo, nei giardinetti sottostanti non c’era anima viva. In lontananza, il semaforo all’incrocio con la circonvallazione occhieggiava ritmicamente sul giallo, ma per tutto il tempo in cui guardai fuori nessuna auto transitò sfrecciando. Nessuna. Alle dieci e trenta di una sera d’estate?!? Subito dopo mi resi conto anche che, oltre a qualsiasi presenza umana (come minimo dovrebbero esserci un po’ di ragazzini che giocano a pallone o vanno a caccia di lucciole tra i cespugli, e qualche anziano a godersi il fresco sulle panchine sotto gli alberi, e qualcuno fuori da un balcone, a fumare una sigaretta) non si udiva alcun suono. La città, stesa con le sue luci fioche sotto di me, era addormentata. Muta. Nessun suono di televisione usciva dalle finestre spalancate del palazzone gemello che si ergeva davanti a dov’ero io, a differenza di quando avevo parcheggiato l’auto al mio arrivo. Un brivido mi corse lungo la schiena, decisamente diverso da quello provato quando Andrea mi aveva baciato la punta delle dita. Dove diavolo era finita tutta la gente?
Improvvisamente due colpi secchi, ma quasi impercettibili, furono bussati sulla porta del bagno, facendomi quasi urlare.
- Giulia? - la voce di Andrea al di là dell’uscio - tutto bene? Hai bisogno di qualcosa? -
Era salito fino alla porta del bagno senza strappare il minimo cigolìo al legno delle scale, e sì che pesava decisamente più di me (soprattutto dopo la misteriosa dieta degli ultimi tempi), ed ora era lì fuori che mi aspettava. Aprii la porta, uno spiraglio, e lui mi sorrise.
- Tutto ok? - ripeté più piano. Io scivolai fuori, passandogli accanto. Il suo profumo mi riempì le narici, che si dischiusero come petali alla prima pioggia di primavera, e mi prese una voglia insostenibile di lui. Mi bloccai. Eravamo a non più di cinque centimetri l’uno dall’altro, e mi tuffai nel mare malinconico dei suoi occhi. Il cuore prese a battermi un po’ più forte, ma non più veloce, solo dei lenti e decisi battiti a scandire quello che avveniva. Le sue labbra erano leggermente dischiuse, e il suo respiro sapeva vagamente di menta e di spezie. Alzai lentamente una mano, arpionandolo con due dita infilate nella cinta dei pantaloni. Lui emise un debole sospiro, mentre appoggiava una mano, dal tepore stravolgente, sul mio fianco. Mosse il pollice verso l’alto, quasi casualmente, che si infilò sotto il bordo della maglietta, a sfiorarmi la pelle nuda. Un leggero brivido di piacere mi salì verso il petto, e un calore profondo e sornione invase il mio ventre. Strinsi le dita della mano che lo tenevano bloccato a me, infilandole un pò nei pantaloni, mentre una smorfia quasi di ferocia mi passava sul viso. In quel momento sì che mi sentivo come una bestia feroce che anelava di addentare e lacerare e assaporare amore e carne e sangue. Lui sorrise nel vedere quella reazione e la sua faccia era quella di un bambino che scartava i regali di Natale. Una voce nella mia mente passò, come un’ala nera, sussurrando “Giulia, attenta a quello che fai...” ma la scacciai, e svanì come una bolla di sapone. L’ultima cosa che volevo, l’ultima cosa che avrei potuto fare era fermarmi, desideravo al contrario perdermi, lasciarmi andare. Fare un passo e cadere nell’abisso, qualunque cosa avesse comportato. Una bassa risata golosa mi salì dal fondo della gola, decisamente simile ad un ruggito, e infilai anche l’altra mano nella cintola di lui, tendendo le dita a carezzare qualcosa di tondo e di duro e di bollente. Andrea emise un gemito attirandomi a sé e le nostre labbra, i nostri denti cozzarono con violenza, e divorammo le nostre lingue guizzanti. Le mani di lui s’infilarono sotto la mia camicetta, sfiorando la mia schiena tesa e madida di sudore, mentre strofinavo il mio ventre contro il suo.
- Resta con me... - proferì lui ansante in una breve pausa nella guerra tra le nostre bocche - ...per sempre, Giulia... -
Io sfiorai con una lingua saettante il suo collo, poi gli morsi il lobo dell’orecchio. Dovevo trattenermi a forza, per non strappargli via dei brani di pelle, tanta era la mia aggressività in quel momento. Lui guaì di piacere e dolore:
- Non adesso - sussurrai dura - ne parliamo dopo, adesso datti da fare... - e mi ripersi nel gusto speziato della sua bocca. Lui mi allontanò da sé, bloccandomi le braccia con una stretta ferrea, e mi piantò gli occhi dei miei:
- No - disse serio - ho bisogno di te. Ho bisogno di sapere che anche tu vuoi essere mia -
La mia eccitazione si acquietò a fatica, e restai a fissarlo ansimando:
- Andrea... te l’ho già detto... Non è così facile, e non so neanche se sarebbe una buona idea, ci conosciam...-
Si staccò da me, ed era furente, e la sua faccia, come le altre volte, sembrò tremare, una strana vibrazione di collera:
- Tu NON mi conosci!!! Io ti conosco meglio di chiunque altro, e so quello di cui hai bisogno, so cosa ti fa stare bene. So cosa pensi quando sei da sola, quando il sonno non arriva e te ne stai a fissare il soffitto in silenzio, con la pioggia nel cuore. So che l’idea di sposarti ti angoscia e ti senti come prigioniera di un qualcosa dal quale non vuoi farti intrappolare. Perché sai benissimo che non ne potrai più venir fuori, e questa idea non ti fa neanche respirare!!! -
Io scossi il capo, come a cercare di schiarirmi le idee, quasi fosse un residuo di sogno notturno che ti fa svegliare di soprassalto. Un sogno o un incubo. Qualcosa sotto nella sala si schiantò con un fragore, facendo saltare di spavento:
- M-ma...chi...chi c’è?!? - chiesi col fiato in gola. Lui avanzò verso di me, la fronte corrucciata:
- Non c’è nessuno. Nessuno, Giulia. Siamo solo io e te. E’ fra noi due, Giulia. In questo momento non esiste nessun altro, né qui né fuori di qui. Né Ricky, né Sara, né chiunque altro. Siamo solo io e te, Giulia, e io sono tuo. Non abbiamo bisogno di nient’altro. Io per te e tu per me. Per sempre. Se solo tu lo vorrai... -
Tese una mano verso di me, e tutta la sua aggressività sparì per lasciare il posto ad una disperata attesa. Era un uomo perdutamente innamorato che chiedeva alla vita, al mondo, al destino di dargli la possibilità di essere felice. Ancora, in quel momento era tutti gli uomini del mondo, di tutti i tempi, che in qualche maniera hanno conosciuto e anelato l’amore. Che conoscono l’energia devastante dell’amore e la sua altrettanto devastante e straziante capacità di causare dolore. L’amore ha denti e artigli, che sanno lacerare a sangue, e causare ferite che non rimarginano mai. Avevo letto questa cosa in un libro, tanto tempo fa, e mai definizione mi era parsa più vera. Più vera e straziante. Era un uomo che chiedeva amore, e lo chiedeva in maniera così totale che una donna, qualunque donna, avrebbe trovato la propria sublimazione nel poter ricambiare quello che lui chiedeva. La sua mano tesa verso di me tremava impercettibilmente:
- Giulia, non hai bisogno di nessuno, solo di me. Dammi la mano e saremmo solo io e te -
Nella mente mi si formò l’immagine angosciante del palazzo, della via sottostante, della circonvallazione deserta. E poi di tutta la città, le piazze, i parchi, le case. Una desolazione priva di ogni movimento, di ogni voce, di ogni suono. E nell’orizzonte che sfumava nella calura estiva i suoi occhi, gli occhi di Andrea che riempivano ogni cosa. E allora mi girai e scesi a precipizio le scale, che protestarono con stridenti cigolii, ed infilai la porta, e le scale, correndo come mai avevo corso in vita mia. Andrea non mi seguì, né pronunciò nulla per fermarmi. Sbucai come un proiettile nell’aria immobile e calda (calda come una notte di fine giugno, calda come la vita) e armeggiai frenetica con le chiavi nella serratura dell’auto, sicura che in ogni momento due mani si sarebbero abbattute sulle mie spalle, a bloccare la mia fuga. Salii in macchina, tenendo d’occhio l’androne del palazzo di Andrea, che restò vuoto e desolato, e partii di scatto, dirigendomi con un paio di slalom verso la città. L’afa che si era accumulata nell’abitacolo salì a stringermi la gola e abbassai d’istinto il finestrino, per cercare refrigerio. E successe. La città, con i suoi suoni e i suoi rumori, invase l’interno della vettura, così inaspettata e “normale” che per poco non persi il controllo della guida. Un uomo che seguiva con passo tranquillo un cagnolino intento a annusare e marcare ogni angolo, ogni palo, ogni cespuglio sbucò da dietro l’angolo di una casa. Su una panchina un gruppetto di ragazzi, alcuni seduti su dei motorini, scherzavano rumorosamente dandosi delle pacche l’un l’altro. Un paio di fari fastidiosi riempì il mio specchietto retrovisore e subito dopo una Renault 5 nera mi superò sfrecciando. Per un attimo un frastuono di musica da discoteca travasò da quella macchina nella mia, ma si affievolì in fretta. Guidai senza meta per altri dieci minuti, mentre l’aria della notte mi scompigliava i capelli, poi mi fermai di botto a lato della strada, in una zona dove si vedeva anima viva. Lontano si udiva confusa la musica e i bip elettronici di un piccolo luna park. Aprii lo sportello, mi chinai e vomitai. E rimasi lì piegata su me stessa, scossa dai brividi e dagli ultimi, brucianti conati a vuoto.
- La vita va come al solito - risposi frettolosa allo sguardo poco convinto della dottoressa che mi fissava - dev’essere per forza qualcosa di fisico. Ah, a proposito, ieri sera ho vomitato anche l’anima... -
La donna sospirò, mi guardò dubbiosa un’ultima volta da sopra gli occhiali e prese un ricettario:
- E’ chiaro comunque che ti debbo ordinare delle analisi. Anche solo per tranquilizzarti. Sangue e urine per il momento possono bastare, direi, falle prima possibile e poi vediamo il da farsi. Tieni, e fammi sapere. E non fasciarti la testa... -
-...prima di rompermela. Lo so, dottoressa, lo so. Farò come dice. E buona giornata...-
Uscii dal suo studio, gettando un occhio nella sala d’attesa gremita di pazienti. Una bambina con una vistosa benda che le copriva un occhio stava chiacchierando con un gattino di pezza. La madre leggeva stancamente una rivista vecchia come il mondo, e sembrava anche lei sofferente nella luce giallastra dei neon.


CAP. 14


Quando entrai nell’atrio della biblioteca il signor Pesavento mi salutò cordiale, intento a spazzare un atrio assolutamente lucido e splendente. Mentre imboccavo le scale lanciai un’occhiata all’orologio che troneggiava sulla parete d’ingresso. Le nove e venticinque. Tutto sommato non avevo sprecato troppo della giornata di lavoro, e questa almeno era una cosa positiva. Le scale erano deserte, e non incontrai nessuno, e quando fui in corrispondenza del corridoio che portava all’economato accelerai il passo. E non perché temessi di incontrare Andrea, ma perché, al contrario, mi era ritornata prepotente la voglia di vederlo!!! In ogni caso nessuno sbucò dal nulla per bloccarmi con un sorriso triste o un grazioso origami o la richiesta di restare assieme per l’eternità, e così mi rifugiai nel mio ufficio.
Non accadde nulla di degno di nota fino a sera. Poco prima di mezzogiorno detti un colpo di telefono a casa della madre di Sara, per conoscere le ultime novità. Rispose una delle sorelle, confermando sconsolatamente che la povera ragazza era ancora bloccata a letto con 38° di febbre e senza la capacità di profferire parola. Il medico suggeriva di concludere la terapia entro la domenica sera e , nel caso al lunedì mattina la situazione non fosse migliorata, di valutare un ricovero in ospedale. Feci i migliori auguri alla famiglia Todescan e riappesi. Merda, in ospedale... che palle! Quasi in piena estate, poi. Già mi preparavo mentalmente alla poco piacevole prospettiva di una visita in quel posto di sofferenza, tra il puzzo di disinfettante e quell’atmosfera di dolore e di tristezza che non sono mai riuscita a sopportare. Accesi il computer e lavorai (lavoricchiai) alla compilazione di alcune liste di autori ormai completate. Per il resto della mattina, sino all’ora di staccare per il pranzo, non ci fu traccia di Andrea (anche se ad ogni istante desideravo che si materializzasse sulla porta dell’ufficio) e più di una volta dovetti ricacciare la tentazione di formare il numero dell’economato (l’avrò letto almeno una quindicina di volte dal promemoria dei numeri interni appiccicato di fianco al calendario) con il pretesto “casuale” di chiedergli un’informazione
(e che cosa vorresti chiedergli, come ha fatto ad eliminare il problema “rumori esterni” da casa sua in modo così radicale?)
A mezzogiorno e venti, una decina di minuti abbondanti prima della pausa, mi precipitai fuori sul pianerottolo, passeggiando nervosamente in attesa (spasmodica attesa) che gli impiegati cominciassero a uscire dagli uffici. Dopo un quarto d’ora il rado via vai di persone sulle scale divenne un flusso continuo (e più di una volta mi toccò fingere di aspettare qualcuno mentre i colleghi mi passavano accanto chiacchierando) e non diminuì che una decina di minuti più tardi, quando gli ultimi ritardatari percorsero le scale quattro a quattro per non sprecare neanche un attimo della loro sacrosanta pausa. Ma di Andrea, manco a dirlo, nemmeno l’ombra. Come se non si fosse nemmeno recato al lavoro. O avesse deciso di non uscire per il pranzo. A quell’ipotesi rimasi come folgorata, e un secondo dopo avevo già sceso ben due piani e mi stavo avventurando nel corridoio deserto dell’economato. Ma purtroppo, come constatai ben presto, nell’ufficio dove lavorava (dove dice di lavorare, puntualizzò la voce di Sara nella mia testa) del ragazzo non c’era traccia. Né lì né nei soliti locali dove avevamo pranzato i giorni scorsi, dato che vi feci la spola avanti e indietro covando nel cuore il tepore ingannevole della speranza. Sembrava essersi volatilizzato, almeno per quel giorno. Ed anche nel pomeriggio le cose non migliorarono. Lo aspettai invano sin dal rientro dalla pausa pranzo (fingendo un interesse capitale nelle locandine vecchie come il cucco, appese nella polverosa bacheca dell’atrio, al passaggio dei colleghi più impiccioni e curiosi). Proseguii poi facendo la spola tra la mia scrivania e il corridoio un incalcolabile numero di volte (e altre volte controllai - me ne vergogno ancora a raccontarlo - che la cornetta del telefono fosse messa giù bene!!!) fino al gran finale verso le sedici e trenta quando, dopo aver arraffato due o tre documenti a casaccio dalla mia scrivania, mi recai a perlustrare in lungo e in largo l’ufficio economato. Constatando definitivamente di persona che di Andrea non c’era proprio traccia.
Questa demoralizzante scoperta contribuì in maniera massiccia a scatenare la mia angosciante voglia di vederlo, capace di avvelenare il mio mesto ritorno a casa (in auto mi riscoprii inspiegabilmente aggressiva e incazzosa, e più di una volta indirizzai dei gestacci da maschiaccio - da maschiaccio maleducato, per di più - a dei poveri automobilisti che avevano commesso l’unico delitto di rispettare i limiti di velocità) e farmi saltare gli scalini a quattro a quattro fino al mio appartamento. Spalancai la porta di casa e, senza posare né la borsetta né le chiavi dell’auto, alzai il telefono e composi freneticamente (tanto freneticamente da sbagliarlo e rifarlo almeno tre volte) il numero di casa di Andrea. Attesi agitata di udire il non squillo del telefono e poi la sua voce. Voce calda e tranquilla che sarebbe stata morfina dell’anima, per me. E invece, come sempre quando si danno le cose per scontate, non avvenne nulla di quello che mi aspettavo. Rimasi in piedi ad ascoltare il telefono che suonava a vuoto per dieci minuti buoni. Alla fine, isterica per l’astinenza da Andrea, dovetti darmi per sconfitta. In casa non c’era nessuno.
Un lungo bagno rilassante riuscì a malapena a calmarmi prima dell’arrivo di Ricky, che entrò circospetto e titubante non sapendo bene di che umore mi avrebbe trovato. Il programma della serata prevedeva un’uscita a cena con degli amici comuni ed io, sebbene avvertissi ancora in fondo all’anima la voglia di sentire e vedere Andrea (come una spina acuminata e grondante veleno), accettai di buon grado, in previsione di una tranquilla serata tra amici. O perlomeno così mi auguravo. Di sicuro non mi sarei aspettata... né augurata... che una banale polemica iniziata così, tanto per ridere, tra Ricky ed un cazzone di suo amico (questo va proprio detto) sarebbe stata il preludio per un incubo che ancora oggi non riesco a cancellare dalla mia mente. I nostri ospiti in un carinissimo e stravagante locale sui Colli Berici erano una coppia di ragazzi che Ricky aveva conosciuto in una delle sue performance sportive, non ricordo più se a un torneo estivo di tennis o cos’altro. Lei, Ketty, era tutto sommato una ragazza semplice e simpatica, anche se i suoi argomenti di conversazione avevano sempre come denominatore comune la forma fisica, e di conseguenza grandi disquisizioni su step-dance, lampade solari e mechès ramate. Il problema in realtà era il suo partner, Gigi, un avvocaticchio tronfio e pieno di sé (oltre che di soldi), lui sì sempre molto elegante, sempre molto pettinato, sempre molto abbronzato. E basta. Quando era in vena, poi (e all’inizio della cena, con due aperitivi molto, molto alcolici in corpo lo era parecchio, in vena) dava aria alla bocca e sparava le più grandi fanfaronate che abbia mai avuto la sfortuna di sentire. E la sua macchina era sempre la più veloce e i suoi clienti erano sempre i più danarosi e le sue sciate domenicali non erano normali discese con gli sci ma sempre slalom speciali degni di Tomba. D’altra parte Ricky si divertiva un mondo a dargli corda (e un po’ a stuzzicarlo) e di sicuro non si avvedeva delle mie smorfie alle sparate dell’altro. Io non perdevo occasione per vagare con lo sguardo per il locale affollato di coppiette e di gruppi di amici chiassosi e vocianti. Con lo scopo di verificare se, al limite, ... hai visto mai... una certa persona di mia conoscenza avesse per caso scelto quello stesso locale per trascorrere il venerdì sera
(e se lo incontri in dolce compagnia come pensi di reagire? Sfasciando il locale in stile rissa da far-west?)
Naturalmente il ciuffo folto e i grandi occhi di Andrea non facevano parte del panorama, quella sera. Ritornai sconsolata ad ascoltare la Ketty che cinguettava riguardo a portentose creme anti-cellulite (non esistono, illusa, se ce l’hai te la tieni...) e il controcanto del suo impomatato compagno che decantava le proprie qualità con i pattini in linea. La situazione degenerò ai caffè (caffè e grappe, per l’esattezza) quando l’avvocaticchio dichiarò che aveva in programma di tentare una scalata sulla parete del Civetta, che è una montagna da qualche parte nei dintorni. Dovete sapere che il primo amore (mai dimenticato né troppo sopito) del mio Ricky è stata l’arrampicata in montagna, una disciplina che ha sempre praticato con grande passione fino a poco tempo fa. Fino a che, ad essere proprio sinceri, io non ho cominciato ad assillarlo affinché smettesse. Cosa volete, è una cosa che mi dà i brividi. E che mi confinava, per tutto il tempo in cui lui era impegnato in qualche uscita, ad essere una larva terrorizzata in un angolo del divano. Terrorizzata che invece di Ricky arrivasse una telefonata di uno sconosciuto che mi comunicava che il mio ragazzo era in qualche letto di ospedale. E non tutto intero. E questa, nelle mie fantasie, era la versione “fortunata” della faccenda. Per cui i miei sensi, piacevolmente anestetizzati dell’ottima cena e dell’ancor più ottimo vino, e le mie orecchie si drizzarono allarmate non appena mi accorsi che il dialogo tra i due supersportivi stava pericolosamente scivolando verso una china che non mi piaceva affatto.
- ...e dai, coniglio, sabato mattina mettiamo in macchina le attrezzature e ci mangiamo quella paretina del cazzo! - stava esclamando Gigi (lui doveva sempre mangiarsi qualcosa, fossero clienti o donne o pareti scoscese). Io piantai gli occhi in quelli di Ricky con uno sguardo di allarme giallo, ma lui fu abilissimo a sganciarsi e a scolarsi l’ultimo goccio di grappa bianca:
- Quella paretina non è proprio così facile - ribatte infervorandosi - io l’ho fatta tempo fa e mi ha fatto sudare sette camicie! -
Il suo interlocutore non mollò la presa, incalzando:
- Ma va! Sei tu che ti sei rammollito. Saranno le partite di quel cazzo di squash che ti fai in palestra con quei quattro sfigati (per il principino del foro erano sempre tutti sfigati, fossero clienti o amici o parenti). Una volta non avresti rifiutato un’occasione del genere, si vede proprio che sei fuori forma! -
Io cercai di intervenire ma quel testardo di Ricky mi bloccò la replica in gola con un perentorio gesto della mano:
- Ehi, amico, piano con le parole! Io ci arrivo in cima prima che tu abbia deciso la via da seguire, se voglio. Io e Gianni Garzia, per di più... -
Cercai di catturare una seconda volta l’attenzione del mio compagno ma lui ormai era in pieno raptus passionale. Gigi rise divertito:
- Gianni Garzia, quello sfigato?!? (e dagliela) Non esiste proprio. Mi porto il praticante che ho in ufficio e ci metto su una cena di pesce alla Bulesca. E sai che lì si mangia bene ma si paga pesante! -
La Ketty ridacchiò stridula e batté le mani:
- Ih, che bello, andiamo tutti alla Bulesca!!! -
A quel punto credo che Ricky (quel gran figlio di... di Ricky) evitasse volutamente il mio sguardo, sapendolo carico di nitroglicerina pronta ad esplodere. D’altra parte non poteva certo rifiutare quella sfida (quell’idiota di sfida da maschi che ragionano solo con i testicoli) perché la sua fidanzata tirava su il naso. Nell’esclusiva palestra che entrambi frequentavano, per non parlare del bar del golf club, quello sfigato di Gigi lo avrebbe comunicato ai quattro venti, come un informatore della polizia dalla bocca troppo larga. E così andò come andò, con il silenzio pesante come un macigno che riempiva l’abitacolo della macchina nella strada di ritorno
(posso accendere la radio? No. Ho mal di testa)
(ma c’è qualcosa che non va? No. Portami a casa)
fin sotto casa mia. Stavo per aprire lo sportello ed uscire indignata e risoluta quando lui sbuffò:
- E dai, Giuli, non potevo mica dargliela vinta a quello sbruffone... -
Io mi bloccai metà dentro e metà fuori e lo guardai:
- Ah! Vedi allora che lo sai anche senza chiedermelo che c’è qualcosa che non va! - lui fece per ribattere ma io non gliene diedi il tempo - e poi potevi benissimo rinunciare. O forse diventavi troppo sfigato per fare un piacere alla tua ragazza? Lo sai che ho paura quando vai ad arrampicare... -
Lui tentò una specie di carezza, che scansai con una scrollata di spalle:
- Giuli, dai, non c’è niente da avere paura. L’ho sempre fatto e non mi è mai successo niente. Lo sai che sono prudente...-
- Non è questione di essere prudenti, e poi il fatto che ti è andata sempre bene non mi tranquillizza proprio per niente. Non voglio che vai e basta! -
Lui serrò le labbra e guardò fuori dal finestrino, e questo non era per niente un buon segno, se lo conoscevo un po’. Scosse la testa e mi guardò fisso:
- Stai tranquilla - concluse - sarò di ritorno prima di quanto pensi, e vedrai che torno tutto di un pezzo. Buonanotte -
Scesi dalla macchina sbattendo la portiera di quel tanto da sottolineare il mio dissenso senza svegliare tutto il palazzo e, mentre cercavo le chiavi di casa, sentii l’auto che si allontanava nella via silenziosa. Prima di entrare nell’androne mi voltai verso la strada. Per un attimo mi parve di scorgere una figura ritrarsi dietro l’angolo del palazzo. Rimasi immobile, perché mi sembrava di aver riconosciuto... Bah, poi scossi il capo e salii le scale fino al mio appartamento. Non appena ebbi posato la testa sul cuscino sprofondai in un sonno nero e pesante, totalmente privo di sogni. O di incubi.
E a proposito di questi ultimi, io ancora non lo potevo sapere, ma l’incubo peggiore della mia vita stava per piombarmi addosso pesante e urlante come un treno, di lì a qualche ora. Con una semplice telefonata.

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Capitolo 6
*** L'incidente - Domenica ***


CAP. 15


Il sabato in cui le cose precipitarono cominciò con la solita alba torrida, che mi sorprese a ciondolare per casa mezza assonnata. Nel tentativo perso molto in partenza di fare un po’ di pulizie. Dico tentativo perché l’intera mia mente era divisa, perfettamente al 50%, tra la preoccupazione per quella stupida sfida alpinistica e la voglia (bramosia descrive ancora meglio il mio stato) di avere qualche cenno di vita da Andrea. Quindi rimaneva molto poco d’altro che mi evitasse di restare imbambolata con lo sguardo fisso e lo straccio  stretto nella mano. Naturalmente avevo già provato un paio di volte (in barba a tutti i dettami di educazione che sconsigliano di chiamare casa d’altri di mattina presto) a formare il numero di Andrea, ma lo squillare a lungo (e a vuoto) del telefono mi aveva rabbuiato dentro come un temporale improvviso. Che stronzi gli uomini, avevo pensato nel più classico dei rigurgiti post-femministi. Ce l’avevo in egual modo con tutti e due, uno che se n’era andato a rischiare il collo solo per una stupida scommessa (ma te la pago io, la cena alla Bulesca!, avrei voluto dirgli, ben sapendo che non sarebbe stata per niente la stessa cosa), l’altro che era sparito così di punto in bianco dalla mia esistenza. Nel momento preciso in cui avevo così bisogno di conforto (che tipo di conforto, per la precisione?, s’informò una vocina nella mia testa).
- Non lo “senti” adesso, che sto male?!? - chiesi alla stanza vuota e silenziosa. Le lacrime mi sgorgarono inattese e violente, mentre mi lasciavo cadere sul divano. Afferrai la borsetta dal tavolino e presi a frugarci dentro, alla ricerca di un fazzoletto. Ma perché gli uomini devono sempre andare in giro a farsi male e lasciare sempre a casa noi donne a singhiozzare?, pensai arrabbiata mentre rovistavo in un caos fatto di rossetti, chiavi, vecchie bollette e foglietti di appunti. C’era persino una mela di chissà quando, decisamente avvizzita. Dopo un po’ recuperai il fazzoletto, e trovai anche un’altra cosa, che mi fece corrugare la fronte pensierosa. Tra le dita avevo quell’origami raffigurante la coppietta che si teneva per mano. Quella che avevo scorto sulla mensola del bagno di casa di Andrea. E che non mi era mai parso di aver preso su. Non avevo neanche la borsa con me, nel bagno. Ero uscita da là e avevo infilato le mani nella cintola dei pantaloni di Andrea. Tutte e due le mani. (un brivido mi serpeggiò tra le gambe) Sarebbe stato impossibile reggere quel delicato manufatto di carta, senza rovinarlo... Lo osservai a lungo. Una delle due figurine aveva addirittura la testa (la piega della carta che simulava la testa) leggermente rivolta verso il suo partner di carta. Come diavolo... A meno che (e a quel pensiero sentii la mia parte razionale sospirare soddisfatta) non avesse creato una seconda versione, infilandomela nella borsetta proprio mentre ero su in bagno.
Forse voleva fare in modo che io pensassi a lui anche in seguito, ritrovandola. Come se già non ci pensassi praticamente ogni istante...
Ad ogni modo, ciondolando, spolverando ogni volta 20 o 30 trenta centimetri di mobili, rimanendo impalata dei lunghi quarti d’ora a pensare, provando a chiamarlo senza nessun successo, bene o male tirai fino ad ora di pranzo. Feci così un giro di telefonate, più che altro per riempire il tempo, a casa dei miei, a un paio di amiche e alla madre di Sara. Qui la signora Todescan mi raccontò una storia curiosa e preoccupante allo stesso tempo. La sera prima Sara aveva ricevuto, inaspettatamente, la visita di una donna che, a sentire la mia interlocutrice, non aveva mai visto prima. Non era una delle amiche di mia figlia, mi confermò la madre, le conosco quasi tutte e comunque non era certo una vostra coetanea... Dopo una mezz’ora la misteriosa donna era uscita in fretta dalla camera, stringendo spasmodicamente tra le mani una decina di quei foglietti che Sara usa per comunicare, e se n’era andata quasi senza salutare.
- Sono andata da mia figlia per vedere come stava e per avere spiegazioni di quella strana visita - mi disse trattenendo a stento le lacrime - e l’ho trovata mezza incosciente, con la febbre che le era salita all’inverosimile. Abbiamo chiamato subito la guardia medica e l’hanno ricoverata d’urgenza. Abbiamo anche provato a rintracciarti ma eri fuori, e la segreteria non era inserita...
(la segreteria non era inserita?)
...adesso sto correndo in ospedale a dare il cambio a Sandra... -
Mi congedai da lei, con il cuore gonfio di preoccupazione, dopo essermi fatta dare il numero di stanza della mia sventurata amica e mi avvicinai, quasi con prudenza, alla piccola segreteria telefonica sul mobile d’entrata.
(la segreteria non era inserita?!?)
Non sono mai troppo metodica (e anche un po’ pigra) con la tecnologia di tutti i giorni. Per cancellare i messaggi che restano incisi sul nastro bisogna sollevare il coperchio della segreteria e pigiare un pulsantino. Se invece si ascoltano i messaggi senza questa procedura il led rosso che ne indica il numero si riazzera, ma quest’ultimi sopravvivono. Schiacciai lo start. Il nastro si riavvolse e la voce di mia madre mi arrivò alle orecchie:
- ehm... mannaggia, c’è la segreteria... (tipico) ...sì, ciao, sono la mamma... ehm... è ora di cena e pensavamo fossi in casa. Ci sentiamo domani, ciao, buonanotte... -
Tlac. Il nastro si fermò. Lo avevo ascoltato anche la sera prima, quando ero entrata furiosa in casa dopo il battibecco con Ricky (e avevo sperato con tutto il cuore che fosse chi dico io) e quindi quella controprova non mi serviva. Ma l’avevo fatto per confermare quanto già sapevo. E cioè che la telefonata di mia madre (all’ora di cena della sera prima) era la prova inconfutabile che la segreteria NON era disinserita. E che la madre di Sara (probabilmente nella concitazione del ricovero in ospedale) non aveva affatto chiamato a casa mia.
Mentre ero lì immobile ad osservare la segreteria, l’occhio mi cadde sul fogliettino che custodiva gelosamente il numero telefonico di Andrea. E un istante dopo lo avevo già formato e ascoltavo sconfortata lo squillo che si ripeteva all’infinito. Quando fui convinta che il ragazzo non era proprio in casa (o magari non aveva intenzione di rispondere) riappesi. E il telefono squillò.
- Sì, pronto? - risposi, con il cuore in subbuglio, sicura di sentire la voce calda che desideravo.
- Pronto, sono Morseletto, posso parlare con Giulia Visconti?-
Al prima vista quel cognome non mi disse nulla. Poi le mie sin troppo zelanti cellule cerebrali frugarono negli immensi archivi della memoria, inviandomi una fototessera del personaggio in questione. E il mio cuore, già allegramente agitato dall’idea che l’interlocutore fosse Andrea, accelerò all’impazzata. Di paura.
Morseletto. Luigi Morseletto. Avvocato Luigi Morseletto. Per gli amici, Gigi. E il mio cervello, in una frazione di secondo, mi rimandò l’immagine di quel Gigi, con le gote infiammate dall’alcool e un sorriso a quarantotto denti, che esclamava: “...e dai, coniglio, sabato mattina mettiamo in macchina le attrezzature e ci mangiamo quella paretina del cazzo!”.
QUEL Gigi. Che, in quel momento, doveva trovarsi sospeso a decine di metri di altezza, impegnato in una stupida gara con il mio Ricky. E che se invece era lì intento a telefonare a me non si trovava proprio attaccato ad una montagna. E se non lo era lui, dov’era Ricky?!?
- P-pronto... - balbettai mentre le mani mi si congelavano - s-sono io... -
- Ah, ciao, sono Gigi, scusami - il suo tono non troppo funereo insinuava in me un briciolo di sollievo, sempre che non fosse idiota fino al midollo - c’è stato un piccolo problema. Niente di grave, naturalmente. Avevamo appena iniziato a salire quando la corda che reggeva Ricky e Gianni si è spezzata... non riesco proprio ancora a capire come possa essere successo, voglio dire, la fune era nuova, e non c’erano all’inizio sporgenze contro cui potesse sfregar... -
- Come sta Ricky? - sbottai interrompendo quella sua simpatica divagazione.
- Ah, sì... scusa - si schermì lui - sono caduti, ma erano solo due o tre metri
(SOLO due o tre metri?!?)
e non è successo niente di grave. Anzi, è stato proprio il Garzia ad avere la peggio, con una costola e una gamba rotta. Ricky, a parte qualche botta, si è messo in piedi da solo... -
- Dove siete? - chiesi, non ancora del tutto tranquillizzata.
- Siamo qui al pronto soccorso di Asiago. Garzia dovrà scendere giù con un’ambulanza. Ricky è stato visitato, e volevano trattenerlo per sicurezza, ma lui ha firmato e verremo in città subito. Figurati che questi sfigati (alé) hanno la macchina per la Tac ma è andata in tilt. Tutto a un tratto, hanno detto. Stanno aspettando il tecnico e volevano che Ricky attendesse qui per l’esame. Ma come ripeto lui vuole rientrare quanto prima e... -
- E perché non mi ha telefonato lui? - gli chiesi sospettosa e allarmata. La voce dell’altro si affievolì per un attimo, come se la comunicazione avesse dei problemi, poi tornò udibile:
- Beh, la caduta, la botta...voglio dire, ha sbattuto la faccia sulle rocce, e si è ferito alla bocca. Gli hanno dato un paio di punti... - ridacchiò insulsamente - ...non può neanche ridere... gli fa male... Comunque saremo in città tra poco più di un’ora, traffico permettendo, e lo porterò direttamente al pronto soccorso, così staremo ancora più tranquilli. Tengo il cellulare acceso, scriviti il numero, è lo zero tre tre sette quattro sei sei nove uno sette. Sì, nove uno sette. Chiamaci quando vuoi. Ciao, a dopo -
Ricambiai il saluto quasi senza accorgermene, mentre scarabocchiavo il numero di cellulare subito sotto a quello di Andrea, sullo stesso foglietto. Lo sapevo, lo sapevo, borbottavo vestendomi in fretta e furia, l’avevo detto che era una stupidaggine pericolosa. Meno male che pareva non esser successo niente di grave (voglio vedere Ricky, prima).
Quando parcheggiai la mia auto nel parcheggio semideserto dell’Ospedale Civile l’orologio digitale sul cruscotto segnava le 13 e 54, e la temperatura all’interno dell’abitacolo era rovente, nonostante avessi viaggiato da casa a lì con i finestrini completamente spalancati. Dal parco pubblico che confinava con il piazzale proveniva il brusìo ipnotico di migliaia di cicale e, sotto l’ombra rinfrescante degli alberi, stazionava un carretto dei gelati. Alcuni bambini scorrazzavano dietro un pallone, incuranti dell’afa. Il silenzio era quasi totale, a parte il furibondo frinire cicalesco e la radiolina del gelataio che diffondeva una tipica canzone estiva. Poche figure silenziose si dirigevano verso il cancello spalancato dell’Ospedale, ed io mi unii a loro. Le rare persone che incrociavo avevano gli occhi bassi e il viso corrucciato, come tutte le facce di chi esce da una visita ad un ricoverato, a meno che non si tratti di una madre che dà alla luce una nuova vita. L’aria condizionata sparata a mille nell’atrio dell’edificio mi attanagliò con un abbraccio gelido, facendomi istintivamente stringere il colletto della camicetta leggera. M’infilai in uno degli ascensori, dopo un’attesa snervante, e iniziai a salire verso il reparto dove sapevo ricoverata Sara. I miei compagni di salita erano un vecchio allampanato, con una vistosa benda ad un'orecchio, ed un giovane dottorino che tambureggiava nervosamente con una biro su una cartelletta. Dietro di loro, come una statua di granito, troneggiava un’infermiera alta e larga come un armadio, dall’espressione arcigna ed impenetrabile. “Rosi” era il nome sulla targhetta appuntato sull’ampio petto. Nel corridoio del reparto, fuori da una stanza la cui porta era socchiusa, mi accolsero con un saluto triste la madre, le sorelle ed un paio di zie di Sara. Ricambiai sottovoce il saluto e gli abbracci e attesi che mi mettessero al corrente:
- Sta ancora male, molto male - esordì con voce funerea la signora Todescan - i farmaci che le somministrano riescono a tenere bassa la temperatura solo per il tempo della loro efficacia, poi devono ricominciare da capo. E non è un buon segno... -
Io le strinsi un braccio in segno di conforto:
- E i dottori cosa dicono? -
- Non sanno bene neanche loro - intervenne Chiara, la sorella più grande - stanno facendo tutte le analisi, e per il momento prendono tempo...-
Le due zie, sorprendentemente somiglianti alla madre di Sara, si asciugarono le lacrime con dei minuscoli fazzolettini stretti nelle mani grassocce.
- Posso vederla? - chiesi. Le sorelle mi accompagnarono nella stanza, che era immersa nell’oscurità. Cinque dei sei letti erano vuoti, e nel sesto giaceva la sagoma immobile della mia amica. Il cattivo odore che aveva impregnato la stanza di casa Todescan durante la mia visita era presente anche lì, seppur celato sotto l'immancabile sentore di disinfettante di ogni ospedale. Dopo un po’ la vista si era abituata alla fioca luce che filtrava dalle tapparelle e il viso di Sara appariva smunto e lucido. Posai una mano sulla fronte della mia amica, che non diede segno di avvertirne il tocco, e la ritirai immediatamente, angosciata dal calore che sentivo irradiarsi. Restai immobile ed in silenzio ancora una manciata di minuti, poi l’ansia di avere notizie di Ricky (ormai dovevano essere arrivati in ospedale a loro volta) mi fece salutare tutti frettolosamente ed uscire nel chiarore un po’ accecante del corridoio. Raggiunsi il pianerottolo esterno al reparto e, in barba a tutte le norme di galateo sociale, accesi il cellulare formando il numero che mi aveva dato Gigi. Sbirciandolo, con una punta di disagio, dallo stesso foglietto su cui era scritto quello di Andrea
(dove diavolo sei? Mi stai trascurando?)
Lo squillo risuonò un paio di volte, poi una voce rispose:
- Sì, pronto? -
- Ah, Gigi, sono io, Giulia... dove siete? Ricky come sta? -
Una suora transitò lungo le scale, lanciandomi una profonda occhiata di disapprovazione.
- Ah, Giulia, ciao... siamo appena arrivati, sono giù al pronto soccorso... -
Il tono di voce, del tutto privo di qualunque sfumatura di buonumore, da uno che aveva sempre uno stupido risolino pronto, mi gelò il sangue. Qualcosa non andava.
-Dov’è Ricky? - insistetti incapace di stare ferma dall’agitazione - dove siete? -
L’altro rimase in silenzio per un attimo, come per cercare le parole adatte:
- Giulia... devi venire subito giù all’accettazione. Ricky... sembrava stare bene, per tutto il viaggio non pareva avere problemi, poi non appena siamo arrivati qu -
La voce si affievolì, poi sparì del tutto. Scossi il telefonino angosciata:
- Pronto, Gigi? Pronto?!? -
Mi spostai verso le ampie vetrate per cercare di beccare un po’ più di campo, ma il ricevitore restava ostinatamente muto.
-Maledizione - sbottai mentre riformavo il numero. Stavolta il telefonino nemmeno si degnò nemmeno di squillare. In panico, lo ficcai nella borsetta e mi precipitai giù per le scale a rotta di collo. Sbucai nell’atrio del pianterreno ad una velocità folle, pattinai in precario equilibrio come un personaggio dei cartoni animati per imboccare il corridoio giusto, sfiorai pericolosamente un paio di pazienti e di infermieri che si scansarono con un’agilità insospettata e finalmente arrivai al bancone dell’accettazione. Mi guardai in giro, e li vidi.
Gigi, ancora in abiti da montagna, pettinato ed abbronzato, e al suo fianco Ketty, la sua ragazza, con un’espressione bovina e stupida, erano a colloquio con un medico dall’aria severa. Li raggiunsi, giusto in tempo per sentire l’uomo in camice bianco dire:
- ...e verificare con la tac che non si tratti di qualcos’altro. Adesso come adesso è in un coma di secondo grado, un coma vigile, dai primi esami... -
Mentre la pelle mi si ghiacciava di paura, Gigi e la tipa si voltarono verso di me con un sorriso idiota e triste stampato sul volto (toglietevi quel sorriso, non siete bravi come lui) prendendo a cercare di spiegarmi le cose con calma, per non allarmarmi di più. Con il solo risultato di parlare all’unisono e quindi di confondermi completamente.
- Uno alla volta!!! - sbottai ad un volume di voce tale da far girare tutti i presenti nell’ampio salone. La ragazza si ammutolì, fissandomi con occhi enormi e sbarrati.
- E’ successo non appena arrivati qui - mi mise al corrente Gigi - è sceso con le sue gambe, si è avviato verso il pronto soccorso ed ha perso i sensi. Almeno così sembrava, adesso quel medico mi stava dicendo che è... oh merda, è entrato in coma. Che la botta che ha preso con la faccia sulla roccia è stata più forte di quello che sembrava, e che probabilmente si è formato a poco a poco un ristagno di sangue... -
- Un ematoma - cinguettò la sua ragazza come se fosse la risposta ad uno stupido quiz televisivo.
- ...un ematoma, sì - continuò lui - l’hanno subito ricoverato, e adesso devono fargli una tac per vederne l’entità e di conseguenza il da farsi... Merda, è stata una caduta così stupida, non eravamo neanche partiti, e io non stavo guardando ma Gianni Garzia mi ha detto che la corda si è spezzata. Così, di punto in bianco. Come cazzo può succedere, voglio dire, mi è anche costata un occhio della testa quell’attrezzatura da Panarotto Sport. Ah, ma lunedì mi sentono, non ho certo intenzione di fargliela passare liscia, a quelli sfigati, ci sono tutti gli estremi per una bella caus... -
- DOV'E'? - lo interruppi con una energia che li fece trasalire entrambi, come se li avessi colpiti.
- Non c’era neanche una stanza libera, come al solito - riprese il tipo - l’hanno messo nella stessa di Garzia, che ha un paio di costole rotte e la gamba in trazione... -
- Il numero!!! - esplosi con una nota stridula nella voce. Un bambino con una fasciatura sul polso si chinò a bisbigliare qualcosa all’orecchio della madre, che gli fece segno di tacere.
- Primo piano, stanza dodici - rispose Gigi, restando immobile a vedermi sfrecciare via. M’infilai come un lampo nella rampa di scale che portava ai piani superiori, per raggiungere la stanza prima possibile. Negli unici due letti occupati c’erano Gianni Garzia, che mi rivolse un breve sorriso sofferente, e il mio Ricky. Mi accostai al suo letto e lo guardai: aveva un’ampia fasciatura che gli copriva la testa e parte del viso, e teneva gli occhi chiusi, come se dormisse. Alcune spiacevoli macchie scure facevano bella mostra sulle garze intorno al mento. Era immobile, con le braccia lungo il corpo, come avevo sempre visto nei film. Gli presi delicatamente una mano. Era tiepida. Provai a stringerla, come per fargli sentire la mia presenza. Le sue dita rimasero inerti.
- Prendi una sedia - disse Gianni, indicandone una. La presi, accostandola al letto del mio ragazzo, cercando di fare meno rumore possibile, come se lui stesse veramente solo dormendo.
- Non so proprio come possa essere successo - si giustificò ancora l’altro, mentre cercava di sistemarsi meglio sul letto. Una smorfia di dolore gli attraversò il viso - era appena più sopra di me, quando l’ho visto passarmi accanto, come un’ombra. Non ho avuto neanche il tempo di afferrarmi a qualcosa che il peso di Ricky mi ha staccato dalla parete, trascinandomi giù. Se succedeva dieci minuti più tardi non eravamo qui a raccontarlo -
Io feci un sorriso assente, mentre pensavo velenosa: “TU lo stai raccontando”. Guardai il volto di Ricky, e lo trovai disteso e sereno. Sotto le palpebre, nessun movimento degli occhi. Dove sei, adesso, Ricky?
Restai accanto a lui per tutto il pomeriggio, accarezzandogli la fronte, tenendogli la mano (ogni tanto gli davo una strizzata più forte, quasi un pizzicotto, per cercare, assurdamente, di tirarlo fuori da quel suo sonno profondo), scambiando qualche parola di cortesia con l’altro paziente, bisbigliando a Ricky qualche frase che potesse ricordargli di noi due. Sempre come avevo visto fare nei film. Ma per la maggior parte del tempo lo osservai, scrutando ogni suo particolare, la piccola cicatrice appena sotto l’occhio destro, ricordo di una accesa partita di calcio ad un torneo canicolare di molte estati fa, la leggera peluria bionda che gli incorniciava la curva delle guance, la spirale perfetta del suo padiglione auricolare. Respirava impercettibilmente, e più di una volta mi ero ridestata da quel mio fissarlo col panico nel cuore perché mi dava l’idea che avesse smesso di farlo. La luce accecante del pomeriggio estivo si attenuò gradatamente e, dalla finestra che dava sul cortile interno, decine di visitatori si dirigevano a capo chino, come in una processione, verso i loro congiunti. Un paio di volte mi assentai dalla stanza, per fare un salto in bagno e per un caffè, poi tornavo a sedermi accanto a quel corpo immobile, a pregare, e a pregarlo mentalmente di darmi un segno di vita. Ma Ricky continuava a restarsene immobile, gli occhi sempre chiusi, perso in chissà quale meandro della proprio subconscio. Verso le sette un’infermiera minuta ma decisa fece capolino nella stanza, facendomi notare che di lì a poco ci sarebbe stato il giro di visite mediche e che forse era meglio togliere il disturbo. Con la morte nel cuore feci un’ultima carezza sulla testa immobile di Ricky e, dopo aver salutato Gianni Garzia che stava ascoltando della musica dalla cuffia in dotazione, uscii lentamente dalla stanza.
Mi sentivo persa. In quell’edificio zeppo di sofferenza e di tristi vicende lasciavo, in un colpo solo, la mia migliore amica e l’uomo che amavo. Costretta, da un'impietoso orario di visite, ad andarmene via, uscire nel mondo, da sola. L’idea di fare un salto a casa dei miei mi rasserenò per un breve istante, poi la consapevolezza che l’avrei fatto unicamente per compensare la mia angoscia mi fece cambiare idea. Mia madre non l’avrebbe più finita di fare decine di domande sullo stato di salute dei due ragazzi, e cos’hanno detto i medici, e come mai era successo, e perché non hai impedito a Ricky di andare in montagna...
Uscita dalle porte automatiche fui avvolta dal naturale tepore della serata estiva, ma non era caldo da star male, anzi una brezza piacevole portava alle mie narici un tenue profumo di gelsomino tardivo. Era una dolcissima serata, in barba a tutto. Raggiunsi il parcheggio esterno, arrivando alla mia macchina, e stavo per infilare le chiavi nella serratura quando alzando gli occhi lo vidi. Andrea era appoggiato ad un albero, su una piccola aiuola spartitraffico, e mi fissava. Non appena mi scorse si avvicinò, la faccia seria e compunta:
- Avevano provato a cercarti in biblioteca, prima di chiamarti a casa. Quell’amico del tuo ragazzo, intendo. Avrei voluto venire prima, ma avevo alcune faccende da sbrigare. Come vanno le cose? -
Io mi tuffai nel suo abbraccio affondando la faccia nell’ampio petto. Sapeva di spezie e di tè.
- E’ in coma - mormorai - sembrava stare bene e poi... e poi... -
Il sapore salato delle lacrime mi arrivò in bocca, e scossi la testa. Di tutte le persone che avrei voluto incontrare, comunque, era lui che desideravo. Mi tenne stretta a sé per un attimo che mi sembrò infinito e, a poco a poco, sentii che la mia voglia di esplodere in un pianto devastante si acquietava, scoprendomi calma e serena. Come se il contatto con il suo corpo instillasse in me un anestetico psichico, in grado di calmare il mio cuore affannato. Mi staccai a malincuore da lui, osservandolo nella luce rosea del tramonto. Visti dal di fuori potevano sembrare due innamorati che stessero facendo pace dopo una burrascosa discussione. Lui dette una sbirciata all’orologio:
- Dove stavi andando? - mi chiese.
- Pensavo di ... di andare a casa. E’ stata una giornata pesante...-
Lui si appoggiò alla fiancata della macchina, infilando le mani nelle tasche, in un gesto che conoscevo bene.
- Secondo me non è una buona idea che tu ti chiuda in casa a rimuginare su una cosa per la quale, purtroppo, non è in tuo potere far molto. E’ una bella serata, stiamo un po’ insieme, a parlare. O a stare zitti. Come ti va -
Io m’immaginai nel mio appartamento deserto e silenzioso, con i pensieri perennemente affollati dalle immagini di Sara e di Ricky. Sara nella semioscurità, arsa dalla febbre, in quella stanza ammorbata dal cattivo odore. Ricky con gli occhi chiusi, le braccia lungo i fianchi, il respiro quasi impercettibile. Mi vidi torcermi le mani nervosa, fumare troppe sigarette, far la spola insofferente tra il divano e la terrazza. E capii che era l’ultima cosa che desideravo, rinchiudermi a macerarmi di dolore.
- Ok, sto fuori un po’ - dissi con voce fioca. Il sorriso di Andrea si aprì come quello di un bambino che veda realizzarsi il più bello dei suoi desideri. Raggiungemmo la sua auto, e ci immettemmo nella strada deserta. Sul cruscotto ad ogni curva navigavano in qua e in là alcuni piccoli e delicati origami creati con carte dai tenui colori pastello.
- Io non ho ancora cenato - disse lui mentre guidava - farei un salto in pizzeria. Tu puoi farmi compagnia, non sei tenuta a prendere niente, se non ti va. Anche se... -
Io feci segno di sì con la testa. Non avevo proprio il minimo stimolo della fame, naturalmente, e difficilmente sarei riuscita a mangiare un boccone. Almeno credevo. Perché una volta seduti a tavola detti una scorsa distratta al menù, più che altro per darmi un contegno, e scoprii mio malgrado che avevo una fame incredibile.
Nel leggere i tipi di pizza elencati sentivo l’acquolina riempirmi la bocca, e lo stomaco lanciare rumori e brontolii quasi imbarazzanti. Andrea mi guardava e sorrideva. E io mi sentivo incomprensibilmente bene. Quando il cameriere arrivò per le ordinazioni scegliemmo una pizza ai quattro formaggi per lui e con il salamino (bello piccante!) per me. E due birre bionde grandi. Lui svolse il tovagliolo di carta facendo rotolare fuori le posate:
- Lo so che questi discorsi lasciano il tempo che trovano - mi disse guardandomi negli occhi. Il locale era tranquillo e deserto - ma lo stato di coma a volte è un mistero anche per i medici. Pare essere una difesa del corpo quando il problema è di una certa... complessità. Non gravità, bada bene, è diverso. Il cervello sembra che si metta in una specie di stand-by per... per autocurarsi. Per riparare al danno, insomma. E il più delle volte questa pratica riesce e i collegamenti, come dire, si ripristinano da soli. Come sta Ricky non è una condizione definitiva, è più che altro un passaggio, e non c’è nessun motivo per non pensare che possa venirne fuori -
Anche se erano i classici discorsi che chi non è coinvolto nel dramma fa a chi invece del dramma ne è protagonista, quelle parole in qualche maniera mi tranquillizzavano, facendomi vedere meno nero il futuro.
- Grazie, Andrea - risposi - mi sento meglio a parlare con te -
Lui sorrise, con il suo solito ed irresistibile sorriso triste:
- Io voglio che tu ti senta meglio. Anzi, vorrei che tu ti sentissi sempre bene. Farei di tutto per poterlo fare -
Mi concessi un lungo sorso di birra:
- Ma tu lo fai - ribattei - tutto quello che fai è importante, e io sono contenta di poter contare su... sulla tua... amicizia -
Un’ombra scura gli attraversò gli occhi, come una nuvola che passi velocemente davanti al sole:
-Io non sono tuo amico - continuò, e il suo tono adesso era secco, quasi duro - non posso esserlo. Se devo ascoltare quello che sento, io non posso decisamente chiamarmi amico tuo. Non sarei sincero -
-Lo so, Andrea, capisco quello che vuoi dire. Ma ne abbiamo già parlato, e questo è proprio il momento meno indicato per tirar di nuovo fuori...-
Lui alzò il boccale di birra in segno di brindisi, e il fiorire del sorriso dissipò completamente la nube scura nei suoi occhi:
- Hai ragione, dolce Giulia, sono imperdonabile. Ci casco sempre...-
In quel momento il cameriere servì due fumanti pizze e, non appena il delizioso profumo arrivò alle mie narici, mi ritrovai a sentirmi famelica e desiderosa di divorare quella pizza. Pensavo ovviamente che dopo quella giornata così devastante nemmeno una briciola sarebbe riuscita a scendermi nello stomaco, invece aggredii quella delizia con la grinta dei tempi migliori. Andrea tagliò un sottile triangolino di pizza e restò così, con la forchetta a mezz’aria e un sorrisetto birichino sul volto, ad osservarmi divertito.
- scu’a, evo embrarti oiibile - farfugliai mentre il sugo di pomodoro che mi colava sul mento. Deglutii vistosamente ripetendo - scusa, devo sembrarti orribile a mangiare in questo modo, ma sarà stata la tensione, o il fatto che sono digiuna da ieri sera, il punto è che io... io ho una fame micidiale! -
Lui rise divertito:
- E allora buon appetito, affamata Giulia, e gustati la tua pizza -
Finii la mia pizza ampiamente prima di lui, e mentre lo aspettavo e ascoltavo le cose che mi diceva feci fuori tutte e quattro le confezioni di grissini che c’erano sul nostro tavolo. Più due prelevate dal tavolo accanto. Finché restammo lì a parlare nessun avventore si fece vivo nel locale, e anche i camerieri sembrava avessero di meglio da fare in cucina. Alla fine pagammo il conto (lui volle pagare il conto) uscendo nella sera tiepida. Mi sentivo piena come un uovo, ma non ero a disagio, anzi un benessere quasi totale mi pervadeva, come se avessi bevuto cinque o sei boccali di birra, anziché uno solo. Parlammo ancora del più e del meno lungo la strada del ritorno, poi lui fermò l’auto sotto casa mia. Io cercai, con molta calma, le chiavi nel caos consueto della mia borsetta.
- Io sono innamorato di te - buttò lì quella frase con un candore incredibile. Così, di punto in bianco. Mi voltai a guardarlo: nella penombra dell’abitacolo mi fissava, e sorrideva sereno.
- Di te - ripeté. Io feci un lungo sospiro:
- Andrea, mi sembrano parole un po’ grosse, per come stanno le cose... - ribadii sulla difensiva.
- Perché? Perché ci conosciamo da poco? E cosa significa? Io so quello che mi succede, e so che nome ha. Amore. Amore per te -
In lontananza un semaforo lampeggiava ritmicamente sul giallo:
- Andrea, anche se non fosse successo quello che è successo oggi... cioè, io sto comunque con una persona, con la quale spero, con tutte le mie forze, di restare ancora a lungo...-
- Io non sto parlando di scelte né di mutamenti. Ti sto solo dicendo quello che causi in me. Così, perché tu lo sappia -
Io feci un segno di disappunto. Ero attratta da quei discorsi, come un ape da un fiore, ma la mia coscienza creava un’accanita resistenza perché non era né il momento né il caso di lasciarsi coinvolgere.
- Beh, è un po’ comodo dire così. Non credo che tu non ti renda conto del peso di questo tuo... mettere al corrente. E secondo te io cosa dovrei dire, “ ah, bene, sei innamorato di me, grazie dell’informazione”? -
Lui non fece una piega, restò lì a guardarmi come qualunque donna desidererebbe essere guardata da un uomo.
- Potresti giocare a carte scoperte. Ad esempio dirmi cosa provi tu... -
Ahia, ci siamo, pensai. Ero arrivata al punto in cui avrei dovuto scusarmi che era tardi, dargli la buonanotte e sgattaiolare fuori dalla macchina. O decidere di ballare.
E ballai.
- Sì, è vero, da quando ti ho conosciuto non mi sei indifferente - suonava come una dichiarazione di sconfitta totale - penso di poter dire che mi piaci, che sono attratta da te. E forse se le cose personali fossero messe in maniera diversa... sì, forse avremmo anche potuto provare a conoscerci meglio. E probabilmente avrebbe anche funzionato. Almeno per come mi fai stare tu. Ma le cose stanno come sappiamo, e quindi è inutile fare discorsi diversi. E’ inutile anche etichettare questa cosa, qualunque nome possa avere non ci porta da nessuna parte... -
Avrei voluto scappare via lontano mille miglia da lì. E nello stesso tempo che quei nostri discorsi durassero fino alla fine dei tempi. Bel casino, eh? Lui prese fra le dita uno degli origami del cruscotto e prese a svolgerne la carta:
- Beh, per me sarebbe comunque importante sapere come stanno le cose. Almeno per rendermi conto se ho fatto la figura dello scemo esagerato -
I suoi occhi e i suoi denti risplendevano ipnotici nel buio della via:
- Io posso accettare che ognuno abbia i suoi modi e i suoi tempi - ammisi - e quindi non sarebbe giusto da parte mia discutere o criticare quello che senti tu, anche se è così... così importante. Io credo comunque di avere tempi più normali... - notai un corrucciare di sopracciglia a quella mia frase - ...più normali per me. Non so come chiamare tutto questo, ma penso che un termine che ci vada abbastanza vicino sia “infatuazione” -
Lui restò in silenzio per un paio di secondi, pensieroso:
- Io sono “infatuata” di te - disse poi - suona un po’ tristanzuolo... -
Posai una mano sul suo avambraccio, e sentii i suoi muscoli guizzare sotto la pelle a quel contatto.
- Suona per quello che è, Andrea, mi dispiace. Come tu sei stato molto sincero con me, e questo l’ho apprezzato, per lo stesso motivo io lo sono con te. E questo è quello che mi sento di dirti. Ora. Stando così le cose. E adesso forse è meglio che ci dormiamo su -
Aprii la portiera e misi un piede a terra.
- Infatuata - ripeté lui tra sé e sé. Poi tornò a guardarmi, e il suo sguardo divenne immediatamente irresistibile e tentatore - non mi basta, Giulia. Ho bisogno di te. E tu di me. E lo sai, solo che non vuoi accettarlo, perché ti sembra ancora troppo strano. Ma succede, sai.  E non c’è niente di male, anzi, non c’è niente di più bello... -
Io mi sentivo straordinariamente attratta dal suo sguardo, dalle sue labbra, dal profumo che emanava il suo corpo. Avrei voluto che mi prendesse tra le braccia e mi portasse di sopra, nel mio letto, ad amarmi per tutta la notte. Avrei voluto svegliarmi il mattino dopo e guardarlo dormire al mio fianco, e non avere più tristezze e preoccupazioni e dolori, ma solo il suo amore, eterno e immenso e infinito. Chiusi gli occhi e il viso di Ricky avvolto dalle bende insanguinate mi riempì la mente. Li riaprii e lo guardai:
- Qualunque cosa diversa, o in più, farebbe del male a qualcuno - dissi a fatica - anche se ci fosse. Anche se ci fosse -
Lui non sembrava abbattuto dalla mia fermezza. Era totalmente sereno, e dolce, come al solito.
- C’è, vero? - sussurrò felice.
Io scesi dalla macchina, e mi chinai verso di lui, respirando l’aria della notte.
- C’è - risposi, a voce così bassa che probabilmente non mi udì neanche. Ma non aveva importanza, la risposta era per me. Salii le scale.


CAP. 16


La domenica arrancò faticosa, lenta in maniera esasperante, con l’odore di ospedale che sembrava aver riempito il mondo. Dedicai tutta la giornata in egual maniera a stare vicino a Ricky e a Sara, facendo la spola lungo scale affollate di visitatori e di infermieri. Ovviamente essendo un giorno di festa le corsie erano zeppe di congiunti e amici in visita, e anche le due stanze di Ricky e di Sara non facevano eccezione. Per cui dovetti dividerli con mamme, zie e parentado vario che, per tutto il giorno, vennero in processione a chiedere notizie e a bisbigliare intorno ai letti. I medici, se entrambi i casi, non sapevano che pesci pigliare. La tomografia assiale computerizzata 'sparata” dentro la testa di Ricky aveva sentenziato che non c’era nessuna massa a comprimere il cervello, né alcuna lesione degna di nota. Morale di tutto questo era il fatto assurdo (se non fosse così tragico) che il coma del mio amore non aveva ragione di esistere. Anzi, di più, non c’era nessuna spiegazione medica che giustificasse lo stato in cui versava Ricky. Il medico di turno, un tipo alto con i capelli tagliati a spazzola, ammise candidamente di non avere la più pallida idea del perché il ragazzo fosse in coma. Né tantomeno come farlo uscire. E sapere questo non mi rallegrò particolarmente. In più, il mal di testa che mi aveva accolto al mattino al risveglio (altro che notte di passione) mi tenne compagnia per tutta la giornata. Non avevo osato salire sulla bilancia, durante la sosta in bagno, per il timore non troppo infondato che la lancetta mi desse qualche altra cattiva notizia. Ci pensò comunque la cintura dei jeans stretta all’ultimo foro a farmi affrontare la giornata di pessimo umore.
Quando uscii la sera stava calando sulla città. Mi diressi come uno zombie verso il parcheggio delle auto. In giro non c’era nessuno, tantomeno Andrea. Prima di salire in macchina scrutai a lungo intorno nella speranza di vederlo apparire all’improvviso, ma non successe. Col cuore gonfio di tristezza e la testa che mi pulsava sordamente, me ne andai verso casa. Mentre guidavo, calde lacrime presero a scendermi copiose lungo le guance, e mi asciugai con il braccio, senza cercare di contrastarle. Piangevo per Ricky che forse stavo perdendo, per la mia amica Sara che non migliorava mai, piangevo per me stessa, perché mi sentivo così vulnerabile e indifesa, come se un incantesimo malvagio avesse deciso di fare terra bruciata intorno a me, spazzando via le persone che amavo e che erano la mia vita. Una punizione per qualcosa che forse avevo commesso, ma che non riuscivo ad identificare.


N.d.A.: Se avete avuto la voglia di spingervi fino a qui... complimenti, intanto... e poi... tenete duro. Ancora un capitolo e sapremo come andrà a finire. Sapremo... saprete. Io la fine la conosco da un bel po'. Eh eh...

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Capitolo 7
*** La donna - Confronto - Epilogo ***


CAP. 17


Il lunedì mattina telefonai molto presto ai cellulari del fratello di Ricky e della sorella di Sara, ottenendo in entrambi i casi un resoconto clinico immutato e per questo sconfortante. Nessun miglioramento. Nessun cambiamento. Decisi di non marcare visita al lavoro perché non avrei comunque combinato niente di buono, se non ciondolare per casa a rimuginarci su, o correre in ospedale impotente ed angosciata. Qualche ora in biblioteca mi avrebbe, almeno in parte, occupato la mente. Sgattaiolai nel mio piccolo ufficio evitando le occhiate e le domande curiose dei colleghi più impiccioni, accendendo il computer. Concentrarsi era una cosa molto difficoltosa, i pensieri scivolavano via sempre verso le solite mete, il viso fasciato di Ricky, le macchie infiammate sul collo di Sara. Più di qualche volta mi sorpresi a fissare il vuoto, la mano posata sul mouse e la lineetta del testo che lampeggiava ritmicamente sullo schermo.
- Mi scusi - una voce flebile mi arrivò alle orecchie. Alzai gli occhi: sulla soglia era ferma una donna dall’aspetto anonimo e sciatto. Dimostrava una cinquantina d’anni, ma forse ne poteva avere qualcuno di meno, ed era così magra da sembrare quasi evanescente. I vestiti le stavano come buttati su un attaccapanni. Intorno agli occhi spenti e alla bocca le fioriva una ragnatela di rughe. Era immobile sulla porta, leggermente ingobbita, e mi guardava.
- Si? - dissi io con uno sguardo interrogativo. Lei fece un passo nella stanza, poi si bloccò:
- Ho bisogno di parlare con lei, se non la disturbo - la voce era fioca, quasi si faceva fatica a capirne le parole - forse conosciamo la stessa persona e, se questo corrispondesse a verità… beh, ci sono delle cose che lei deve sapere -
Il suo modo di fare, e il suo aspetto, mi stavano inquietando. Non la conoscevo, non sapevo cosa volesse da me, ma sentivo che in qualche modo aveva qualcosa da dirmi, qualcosa di importante. E non mi piaceva affatto. Feci un segno verso la sedia. La donna si accomodò, rannicchiandosi e stringendo la borsetta tra le mani ossute. Prese un lungo respiro silenzioso, chiuse per un attimo gli occhi e li riaprì:
- Lei non mi conosce - iniziò - ma credo che sia importante che mi ascolti con attenzione. Anche se quello che sto per dirle potrà sembrare...come dire... un po’ difficile da accettare -
La temperatura esterna, che già sembrava voler battere tutti i record dell’anno, sembrò aumentare ancora di più. L’aria nella stanza era immobile e irrespirabile.
- Il mio nome non ha molta importanza, e non le dirà nulla. Comunque mi chiamo Anna, Anna Boschin. Sono arrivata a lei dopo lunghe e difficili ricerche. Le poche cose che sapevo mi hanno portata fino a qui, ed è stato un vero colpo di fortuna aver incontrato la sua amica proprio mentre stava uscendo dalla biblioteca... -
- Sara? - chiesi sempre più incuriosita e sempre più a disagio. La donna si guardò furtivamente alle spalle, come se temesse l’arrivo di qualcuno:
- Sì, Sara - mi confermò - non sapevo naturalmente a chi rivolgermi, quella mattina. Di solito devo essere molto cauta, la gente non sempre ha il tempo e la voglia di ascoltare una storia che non è facile da digerire. Invece la sua amica... Sara, si è dimostrata subito interessata, e mi ha dato a sua volta delle informazioni preziosissime. Anche se non stava affatto bene, e neppure questo non mi ha sorpreso, anzi...-
Io tornai con la memoria alla mattina in cui Sara cominciò, proprio qui davanti a me, ad accusare quello strano malessere che l’avrebbe condotta in una squallida e rovente stanza d’ospedale, chiedendomi sempre più allarmata dove voleva arrivare quella strana donna.E come poteva affermare di aver previsto la malattia della mia sventurata amica.
- Di cosa diavolo sta parlando? - sussurrai io, non molto convinta di volerlo sapere. Lei si protese verso di me, guardandomi con occhi spenti che mi davano i brividi:
- Lei sta uscendo con un ragazzo che si chiama Andrea, vero? - mi chiese con filo di voce.
Con la bocca secca mi sentii rispondere di sì. La donna sembrò improvvisamente sollevata, poi chinò per un attimo il capo sul petto, come spossata dopo un’estenuante corsa.
- Bene, bene, l’ho trovato, ci sono riuscita - la sentii mormorare, mentre la pelle delle braccia mi si accapponava.
- Insomma, non è che ci esco... non è una cosa fissa, voglio dire - precisai assurdamente - lavora in questa stessa biblioteca, e qualche volta abbiamo pranzato assieme, ma io ho un ragazzo e non è che... -
- Mi dica una cosa. Lei come sta? -
Non riuscivo assolutamente a capire dove volesse andare a parare quella assurda donna con quelle domande così angosciose e insistenti. Mi balenò l’idea che fosse solo una squilibrata che si intrufolava dove le capitava per raccontare storie assurde e inconcludenti
(ma ha parlato con Sara...)
- Cosa significa come sto? - ribattei per prender tempo e capirci qualcosa di più.
- La salute, voglio dire... come si sente? Non bene, vero? -
La fissai con la bocca spalancata per lo stupore, accorgendomi con orrore che la sua strana attaccatura dei capelli altro non era che il bordo di una parrucca che copriva una testa priva di capelli. “Questa donna è malata...”, pensai mentre deglutivo vistosamente. Lanciai un’occhiata furtiva verso il telefono valutando la possibilità di chiamare qualcuno, ma lei se ne avvide:
- Mi scusi, mi scusi, ha ragione... - mormorò scuotendo la testa - devo sembrarle ben bizzarra a parlarle così a spizzichi e bocconi. Ma, vede, devo essere proprio sicura di poter parlare chiaramente, per non farle chiamare il manicomio seduta stante. Cercherò di spiegarmi... quel ragazzo, quell’Andrea, come si fa chiamare di cognome, adesso? -
(come si fa chiamare ?!?)
- Zipoli, Andrea Zipoli - risposi sempre più allibita e spaventata - ho visto anche i suoi dati nella lista delle assunzioni...-
- Zipoli...mmh - rimuginò l’altra, pensierosa - bene, forse è ora che io le racconti la mia storia per filo e per segno
(non so se voglio ascoltarla)
ho conosciuto Andrea cinque anni fa, anche se non con quel cognome. Io uscivo da una storia sentimentale con le ossa rotte, e non avevo la minima intenzione di avere a che fare con i maschi per un po’. Lo incontrai casualmente alla fermata del tram, una sera che rientravo dall’ufficio. Mi chiese un’informazione sul tipo di biglietto da usare, se non ricordo male. Facemmo parte del viaggio insieme, e fu una piacevolissima chiacchierata, lui era cordiale, simpatico, e sembrava proprio avere gli stessi miei gusti - si bloccò un attimo vedendomi sollevare leggermente le sopracciglia, poi riprese - sempre casualmente sbucò fuori una settimana più tardi, nel momento giusto in cui io avrei desiderato rincontrarlo. Accettai il suo invito ad uscire a cena. In quella occasione non gli confessai ovviamente che non ero riuscita, in tutti quei giorni, a togliermelo dalla testa ma mi resi conto immediatamente che era... era, come dire, l’uomo dei miei sogni. Era dolcissimo...e premuroso... e aveva la straordinaria capacità di sapere sempre in anticipo i miei desideri e le mie voglie. Era incredibile, una sera arrivò persino con un secchiello di gelato alla vaniglia, il mio gusto preferito. Ed era tutto il giorno che ne avevo una voglia irresistibile. Sapeva starsene alla larga nei miei momenti di cattivo umore e farmi tornare il sorriso dicendo la frase giusta quando magari il mio nervosismo da ciclo mi rendeva una bomba ad orologeria. Insomma, un principe azzurro, come si dice... - la bocca le si storse in un ghigno che voleva essere un sorriso beffardo - M’innamorai, naturalmente, e a quale donna non sarebbe successo? Avevo sempre e solo voglia di vederlo, di stare con lui, non m’interessava più niente né dei miei hobbies né della mia cerchia di amici. Subii naturalmente un processo sommario da parte di chi fino ad allora mi era stato vicino, le amiche storiche, il gruppo della palestra. Tutti a dirmi, all’inizio, che non mi si vedeva più e tutti a rimproverarmi (bonariamente) di questo. All’inizio, ripeto, perché poi le persone si stancarono logicamente di pregarmi, e si allontanarono. A me a quel tempo non m’importò più di tanto, non ne se sentivo più l’esigenza, di vedere qualcuno, oltre naturalmente a lui, che comunque dedicava tutto il suo tempo a noi due... -
Mentre ascoltavo quella storia pazzesca ed inconcludente una parte di me si chiedeva se veramente quella donna fosse a posto con le rotelle, come si dice. Come diavolo poteva pensare che io credessi al fatto che Andrea e quella... quella... vecchia potessero essere stati insieme!!! Avrei dovuto interromperla lì e pregarla di andarsene, ma la mia curiosità, forse un po’ morbosa, di sapere come andava a finire il suo racconto (e le misteriose allusioni al mio stato di salute) mi fecero rimanere lì ad ascoltare le sue parole.
-Non riuscivo comunque a farmene una ragione - continuò la donna torcendosi le mani rugose - tanto io vedevo in lui mille qualità positive tanto le persone che mi circondavano cercavano di farmene allontanare. Oltre alle amiche anche i miei genitori si opposero alla nostra storia fin da subito. Mio padre poi era intransigente, diceva che non gli piaceva e che secondo lui c’era qualcosa che non andava in tutta la faccenda. Naturalmente io difesi a spada tratta la nostra relazione... solo l’idea di non poterlo rivedere mi dava il panico più cieco... quindi le posizioni si irrigidirono, le cose precipitarono, mio padre con l'imposizione di non vederlo più, io arrivando ad andarmene da casa loro. Lasciando mia madre in lacrime e mio padre scuro in volto, trovai un minuscolo appartamento in cui potersi vedere. Nonostante molti tentativi futuri, non riuscii più a risanare lo strappo con la mia famiglia, i rapporti restarono sempre tesi e freddi fino a... fino all’incidente. Quando la loro auto uscì di strada di ritorno da una visita ad alcuni parenti incendiandosi...- la voce le mancò per un attimo, incrinata dal pianto - ...dicono che non se ne siano neanche accorti...-
Chinò il capo sul petto ancora una volta, in quello strano modo che la faceva sembrare ancora più minuscola e vulnerabile, asciugandosi furtivamente una lacrima.
- Andrea mi fu molto vicino, naturalmente, e fu di grande aiuto e conforto. Senza il suo affetto non sarei uscita tanto facilmente dal baratro scuro del dolore e della depressione. Mi aggrappai a lui come ad un’ancora di salvezza, e tutto quello che volevo era stargli vicino, e lasciarmi accudire in tutto e per tutto così meravigliosamente. In quei momenti pensavo che non avrei mai potuto fare a meno di lui. Quando stavamo insieme era tutto così... così perfetto, ogni cosa, ogni stupidaggine. Quando mi sentivo meno peggio, uscivamo spesso e i locali avevano sempre un posto per noi, era così romantico, avevamo spazi e momenti tutti per noi due, il tempo stesso sembrava rallentare, fermarsi, quando stavamo insieme, e anche il sesso... beh, il sesso era una cosa devastante... -
Ancora una volta il mio subconscio dubitava fortemente che Andrea, l’Andrea che conoscevo io, avesse potuto avere qualcosa a che fare con quella che poteva sembrare sua madre. E sentirlo dichiarare così apertamente mi strappò una smorfia di disgusto. Lei non sembrò avvedersene e continuò il racconto, pronunciando una frase che mi gelò il sangue nelle vene:
- Fu allora che cominciai a stare male - disse con voce spenta, ed io sentii nitidamente tutti i peli del mio corpo rizzarsi per il panico - all’inizio erano solo piccoli disturbi fastidiosi ma insignificanti, un’emicrania, un po’ di sangue dal naso, la vista che soprattutto verso sera mi si annebbiava... ma col passare del tempo le cose peggiorarono rapidamente. Ora, se ho visto giusto, credo di non svelarle nulla di nuovo dicendo che iniziai ad avere una preoccupante perdita di peso - il cuore mi balzò in gola rullando come impazzito - un dimagrimento quasi inaccettabile visto il breve lasso di tempo in cui si manifestò, e che mi causò una spossatezza spaventosa, tanto da impedirmi a poco a poco di poter svolgere qualsiasi normale occupazione. Mi rendo conto di spaventarla a morte dicendole queste cose, ma il suo panico è per me un sollievo, perché a guardarla capisco di essere arrivata in tempo, e posso ancora fare qualcosa... -
Io ero inchiodata sulla sedia, mentre un sudore copioso ed improvviso mi imperlava la fronte e mi inzuppava i vestiti. Di che diavolo stava parlando quella donna, che razza di malattia si era beccata? Ci siamo beccate? Frequentando la stessa persona, a sentire lei. Andrea era malato, contagioso? Ma di cosa? Aids ? (oh, ma è ridicolo, mica ci ho scopato, e non è proprio una cosa che si prende con un bacio per quanto profondo...)
(...spero...)
Eppure i sintomi, e il modo...
- Peggiorai al punto da dover lasciare il lavoro, ero impiegata in una ditta di trasporti e c’erano orari un po’ impegnativi. Passavo le giornate tra il divano e il letto, incapace di qualsiasi attività normale che implicasse un po’ di energia fisica. Andrea si prendeva cura di me e mi seguiva in tutto, con una dedizione totale, ma io non miglioravo, anzi... Alla fine, nonostante qualche perplessità di lui, mi decisi ad andare dal medico, che mi fece fare tutta una serie di esaurienti esami dai quali, e questo è il bello della faccenda, non risultò proprio nulla che non andasse. Ero sana come un pesce, mi stavo solo consumando. Il dottore restò perplesso come se si fosse trovato di fronte ad un caso di guarigione dal cancro, e l’unica cosa che seppe consigliarmi fu un periodo di riposo (considerato il grave stato di prostrazione fisica), possibilmente in un ambiente salubre, la mezza montagna o il lago. Ci pensai un po’ su e poi, visto che perlomeno non mi avrebbe fatto peggio, decisi di accettare l’invito di una mia amica che si era trasferita da un paio d’anni in un delizioso paesino affacciato sul lago di Garda. Al telefono mi disse che era entusiasta di ospitarmi, rinverdendo così i ricordi dei tempi delle superiori. Quella fu l’unica volta in cui io e Andrea discutemmo un po’ energicamente... a parte quando poi l’ho lasciato... perché lui diceva che non aveva la possibilità di accompagnarmi, e che gli sarebbe dispiaciuto molto dover stare senza di me per così tanto lontano. Io ribattei che avrebbe potuto raggiungermi in meno di un’ora quando avesse voluto... qualche sera dopo cena, nei week-end... ma lui ventilò vari tipi di problemi, più che altro di lavoro, che glielo avrebbero impedito. Non posso essere certa, ma io credo che lui non potesse, o non volesse, allontanarsi da questa città, come se facendolo avesse perso in qualche modo le sue capacità di... di... - cercò qualche parola che potesse rendere l’idea, poi scrollò le spalle curve - in ogni caso ci andai, senza di lui. E stetti meglio, decisamente meglio, fin dal mio arrivo. Stetti straordinariamente bene, e questo mi spiazzò più di quando non sapevo che pesci pigliare all’insorgere dei miei vari malesseri. Non poteva essere solo l’aria salubre del lago, ne convenni assieme alla mia amica nelle lunghe ore del giorno e della notte in cui ne discutemmo. Una parte della mia mente non voleva assolutamente accettare l’assurdo pensiero che si stava facendo strada dentro di me, ma qualcosa nella mia testa, o nell’anima, perché no, mi ripeteva incessantemente che forse... Il disagio a quel punto mutò da fisico a psicologico, scatenato dalla reazione esplosiva tra la parte di me che soffriva per la lontananza da lui (desiderandone la presenza come l’aria che respiravo) e l’altra seriamente propensa a prendere in considerazione che la causa del mio star male potesse essere... era così assurdo solo pensarlo, e anche adesso mentre lo dico, dopo tutto quello che è successo, mi sembra così difficile da credere... Il soggiorno presso la mia amica volgeva però al termine, e così dovetti rientrare in città e, naturalmente, rivedere Andrea che mi attendeva impaziente e felice come un bambino sotto casa mia. Non appena lo scorsi, in piedi accanto al portone, con una lunga rosa rossa tre le mani, il mio cuore impazzì di felicità, ma solo per un attimo. Poi la parte di me che voleva vederci chiaro prese il comando delle operazioni,  imponendomi di non lasciare che l'istinto
mi travolgesse (anche se le mani mi tremavano al punto da non riuscire a chiudere a chiave la macchina). Lui mi abbracciò e mi baciò, ed uno strano brivido, diverso da quelli che provavo prima, mi attraversò la schiena. Salimmo insieme a casa e parlammo a lungo, lui mi chiese come stavo e se gli ero mancata, io gli rispondevo, molto sulla difensiva, esaminando nello stesso tempo le reazioni del mio corpo in attesa di qualche strano sintomo. Non successe niente, almeno fino a quando lui restò con me. Ci fu anche un tentativo di approccio, diciamo fisico, che stava per travolgermi in un mare di passione ma, con uno sforzo di volontà e adducendo un’emicrania da stanchezza dovuta al viaggio, riuscii a convincerlo a tornarsene a casa e a rivederci più tardi in serata. Quando se ne andò rimasi immobile sul divano, mentre calde lacrime di tristezza e di paura mi rigavano il volto. Era stato mostruosamente difficile mandarlo via, non pensavo che sarei mai riuscita a farlo, e tutto il corpo era scosso da un tremito incontrollabile. Con angoscia mi resi conto che avrei desiderato solo, con tutta me stessa, corrergli dietro per gridargli di tornare. Poi qualcosa di caldo e salato mi colò lungo il labbro superiore sino in bocca, e mi alzai di scatto, allarmata. Corsi nel bagno a specchiarmi, trovando definitiva conferma al più grande e assurdo dei miei timori: il sangue che mi scendeva dal naso e occhiaie scure e profonde sottolineavano i miei occhi spaventati. Occhiaie delle quali mezz’ora prima, da un controllo nello specchietto retrovisore della macchina in attesa che scattasse il verde all’ultimo semaforo, non ne esisteva traccia! -
La donna seduta di fronte a me, che mi stava raccontando quella storia incredibile, si passò un dito appena sotto l’occhio, quasi a volersi sincerare che le cose che stava narrando non fossero tornate a manifestarsi. Come spettri di un antico passato. Il caldo nel minuscolo ufficio era asfissiante, e avvertivo tenuamente come in un sogno il sudore colarmi in mezzo ai seni e lungo lo stomaco. Al di là della porta non passava anima viva, e nessun suono veniva a interrompere quello strano monologo. Eravamo solo io e quella inquietante donna, impegnate in un assurdo colloquio che sarebbe durato fino alla fine dei tempi. Non le credevo, naturalmente, ma comunque non riuscivo, come incatenata da una curiosità morbosa e malata, a farla smettere e a cacciarla via. Quello che mi stava raccontando era assolutamente incredibile, nel significato letterale del termine, vale a dire impossibile da credere, come una storia di fantasmi o una strana leggenda metropolitana. Quella dei coccodrilli giganti nelle fogne o l’autostoppista notturno che si rivela poi una persona morta parecchio tempo addietro. Gira e rigira, in fondo erano sempre le solite vecchie fiabe che l’uomo da sempre ha avuto il bisogno di raccontarsi per esorcizzare le sue vere paure. Ed ora il ragazzo migliore del mondo che fa ammalare le donne che ama...
La donna mi ripiantò gli occhi spenti nei miei e riprese a parlare:
- Presi il coraggio a due mani e decisi che quello era il momento giusto, se mai ce ne fosse stato uno, per staccarmi da lui. Perlomeno ero forte del periodo passato lontano, e della consapevolezza che ogni minuto che avessi passato accanto a lui lo avrei pagato in salute. Feci un lungo bagno caldo, mi presi cura di me cospargendomi di borotalco e di una crema fresca e profumata, mi vestii con calma e mi sedetti sul divano a guardare il sole che moriva all’orizzonte in un cielo color sangue. Rimasi lì, mentre la casa annegava lentamente nel buio della sera, a pensare e non pensare, e ad aspettare.
Lui arrivò verso le nove, e il suo sorriso mi avvolse come un fluido benefico. Ma nella mia mente si stagliava, lucida e sfolgorante, la consapevolezza di dover far di tutto per resistergli. Mi resi conto che era inutile perdersi in chiacchiere, e che ogni minuto che passava la mia forza si sarebbe indebolita, così glielo dissi. Semplicemente.
- Non voglio più stare con te - dissero le mie labbra. La sua faccia si raggrinzì in una smorfia di dolore quasi fisico. Da quell’istante in poi lui fece ogni cosa in suo potere per farmi cambiare idea e farmi capire quanto aveva bisogno di me. Ancora adesso ho un ricordo assolutamente incompleto e confuso della nostra discussione. L’unica cosa che so è che fu drammatica. Che fu straziante vederlo cadere sotto i colpi della mia risolutezza. Lui parlò, e pregò, e supplicò. Gridò il suo amore e la sua disperazione. E innumerevoli volte mi sentii come un’aguzzina crudele e mi montò imperioso il desiderio di prenderlo tra le braccia. Per curare le ferite d’amore che gli stavo arrecando promettendogli che non ci saremmo lasciati mai più. Ma ogni volta che avvertivo la mia capacità di resistere farsi più debole, tornavo col pensiero allo scarlatto del sangue che mi macchiava le labbra, e all’alone scuro che spegneva i miei occhi, e all’ago della bilancia e ai mal di testa lancinanti. Lui tentò con ogni mezzo, blandendomi e commuovendomi e minacciandomi e supplicandomi di tener vivo quel sentimento che stava lentamente morendo per mano mia. Infine si lasciò cadere in ginocchio, il capo chino e sconfitto e le lacrime a punteggiare il legno del pavimento. Ancora una volta il cuore mi tremò di amore e di strazio nel vederlo così. Ma non cambiai idea.
Quando si rese conto che non c’era proprio niente da fare, si alzò lentamente e uscì dalla mia casa. E dalla mia vita. Non si fece più vivo, non mi chiamò né lo vidi mai nei luoghi che conosceva o che frequentavamo di solito. Se vi ritornò, magari per vedermi da lontano, lo fece di nascosto a me. Io pagai quella drammatica sera. E i giorni, i mesi successivi senza di lui. Stetti così male che avrei pagato oro pur di vederlo anche solo per un secondo, per sentire una sola parola dalla sua bocca, per farmi scaldare per un attimo dal calore del suo sorriso. E se all’inizio, quando cominciai ad accusare quegli strani malesseri pensavo che quello volesse dire stare male, non avevo idea di cosa avrei provato in seguito. Tutta quella faccenda mi devastò, nella mente e nel corpo, e deperii, rapidamente, orrendamente. E iniziò il calvario delle visite e degli esami, con i medici che esibivano le loro facce stupite dall’entrare in contatto col caso clinico di un essere umano che si stava consumando e che era sano come un pesce. Tutti quei visi spiazzati e impotenti alla fine si fusero nei miei ricordi in un’unica, angosciante faccia che mi ripeteva con tono monocorde che non c’era niente in me che non andava. Ma che , comunue, non sapevano spiegarsi, al momento, il perché delle mie sofferenze. Lo sconfortante ritornello era che sarebbero stati necessari altri esami. Quando me ne tornavo a casa svuotata e sfinita e restavo immobile nell’oscurità ad ascoltare un corpo che si ribellava e si faceva sentire con qualche nuovo malore, coi dolori alle braccia, con i formicolii fastidiosi sulla faccia, con giramenti di testa tali da impedire ogni movimento, speravo che quella cosa, in un modo o nell’altro, finisse. E a poco a poco, quando ormai non avevo neanche più energia per sperarci, finì. Non stetti più male. E potei, con tutti i limiti che ben conosco, riprendere una vita quasi normale -
Restò in silenzio per alcuni attimi, rimirandosi le scarpe come se non le avesse mai viste in vita sua, poi riprese a parlare in un sussurro quasi inudibile:
- Ci ho pensato, ci ho pensato molto in tutto questo tempo. Per distrarmi dalla sofferenza, all’inizio, tentando di dare una spiegazione a tutto questo. So che la conclusione a cui sono giunta, alle sue orecchie, alle orecchie di chiunque, forse anche alle mie, potrà suonare assurda e squilibrata. Ma è l’unica conclusione plausibile... Io credo che lui sia una specie di... di... di vampiro, che però non succhia il sangue come al cinema. Un vampiro psichico, in qualche modo, che ha bisogno delle emozioni degli altri, del loro affetto per nutrirsene. Forse addirittura ne ha bisogno per vivere. Ha affinato per questo una tecnica indubbiamente perfetta, per riuscire nel suo scopo, forse una capacità che va al di là delle attuali possibilità umane. Non si spiegherebbero altrimenti tutti quei momenti così perfetti, la parola giusta al punto giusto, il sapere sempre quello di cui gli altri hanno bisogno. Sì, credo che ci sia anche qualcosa di soprannaturale, in quello che sa fare, come ad esempio allontanare la gente in determinate occasioni, o dilatare la concezione del tempo, e molte altre cose ancora. Mi sono ritrovata oggetti che ero certa non aver preso con me, e altri spariti quando ero strasicura di dove fossero. Fa innamorare le persone, con tutto questo, e poi ne beve la linfa del loro amore e con quella l’energia vitale. In cambio di un amore perfetto e stupendo dà una lenta consunzione. Continuando a scervellarmici su, cucendo indizi e ricordi e circostanze mi sono anche convinta che tutto sommato non lo faccia neanche volontariamente. Non è un’entità malvagia che gode nel distruggere le persone, forse si tratta solo di istinto di conservazione. Di certo non è crudeltà. E’ alla stessa stregua di una belva che caccia per nutrirsi e quindi sopravvivere. Tutte le volte che abbiamo visto a Quark i leoni rincorrere ed abbattere qualche gazzella non abbiamo mai pensato che lo facessero gratuitamente, senza uno scopo preciso, o peggio ancora per il solo gusto di uccidere. E lo stesso credo sia per lui. Quando sono stata un po’ meglio mi sono resa conto che se veramente le cose stavano così dovevo fare qualcosa, qualunque cosa fosse in mio potere, per evitare che tutto ciò si ripetesse. Mi sono messa a cercarlo, prima nei posti dove eravamo stati durante i mesi passati assieme, poi parlando con chiunque potesse darmi almeno un minuscolo indizio. Senza risultato. Sembrava sparito, al punto che verso ultimamente, nei miei agitati dormiveglia notturni, a volte credevo quasi che fosse stato tutto uno spaventoso incubo. Ma poi c’era la luce del giorno e lo specchio impietoso a riportarmi alla realtà. E come succede quasi sempre in queste situazioni, una settimana fa alzo gli occhi da una vetrina di abbigliamento e lo vedo. Così. Dopo mille ricerche e parole sprecate e notti insonni alzo lo sguardo e lui è davanti a me che sta ordinando un gelato. La prima, violenta reazione è stata quella di chiamarlo e corrergli incontro, per perdermi nel suo abbraccio. Poi è subentrata la paura a mozzarmi il fiato in gola, per il timore di soffrire ancora. Nascondendomi dietro l’angolo del palazzo, col cuore che sembrava volermi uscire dal petto, attesi che lui si rimettesse in cammino, decisa a seguirlo e a non farmelo scappare, stavolta. Col terrore che lui potesse in qualche modo scoprirmi, girandosi di scatto e vedendomi, o addirittura “sentendo” la mia presenza, scoprii dove abitava. La mattina dopo, fin dalle sei, attesi chiusa nella mia macchina che uscisse per vedere dove si recava durante il giorno. Dovetti aspettare ben due ore, con le gambe informicolate dalla posizione, prima che la mia pazienza (e la mia testardaggine e la mia follia) venissero premiate. Lui uscì di casa senza accorgersi di nulla e io lo seguii, a piedi, fino a qui...-
Io, con la testa confusa e ovattata da quel racconto fuori da ogni logica, mi riscossi un attimo:
- E’ venuto a piedi da casa sua sin qui in biblioteca?!? - domandai stupita - dal Villaggio del Sole?!? -
Ora fu la volta di lei di fissarmi allibita, con la mascella che ciondolava stolidamente:
- V-Villaggio del Sole? - ribatté scuotendo la testa - e chi ha mai parlato del Villaggio del Sole... lui abita qui vicino, nel quartiere delle Barche... -
- Alle Barche?!? - risbottai io, come se non credessi alle mie orecchie. Viste da fuori sembravamo due idiote comparse di qualche buffo programma televisivo per bambini, che inscenassero una ridicola scenetta consistente nel ripetere in maniera interrogativa e marcata la parte finale delle reciproche frasi.
- Il quartiere delle Barche - precisò lei - è giù vicino a ponte San Paolo, dove inizia... -
- Lo so dove sono le Barche! E' che io pensavo... ero stata...- la voce mi morì in gola.
- Sta lì, in vicolo Retrone - continuò la mia interlocutrice senza darmi il tempo di spiegarle il mio stupore - almeno da lì è uscito la mattina che l’ho aspettato, e le altre tre seguenti. Accanto alla porta c’è un negozietto a metà tra il rigattiere e l’antiquario. E’ un palazzo un po’ fatiscente, per la verità, ed anche un po’ sinistro... -
Frugò nella borsetta alla ricerca di qualcosa, forse di un fazzoletto, poi si bloccò con le mani affondate nella bocca spalancata della borsa, riprendendo a parlare:
- La settimana scorsa mi sono decisa finalmente a fare qualcosa. Cosa, di preciso, non ne avevo proprio idea. Sono arrivata qui sotto, e stavo per entrare a fare un giro di perlustrazione fingendomi una frequentatrice della biblioteca, quando ho incrociato la sua amica che stava uscendo. Non so, forse un sesto senso, un’illuminazione, mi ha spinto a chiederle di getto se conosceva un certo Andrea. Lei mi ha fissato per un attimo e poi si è decisa a dirmi quello che sapeva. E non solo, anche quello che pensava. E’ stata uno scambio di opinioni molto costruttivo, come le ho già detto all’inizio, che mi ha dato forza e mi ha convinto, nel caso stessi vacillando, a continuare... a venirla a cercare... -
Sbirciai l’ora: era ormai fine mattinata. Il caldo era soffocante, e non si muoveva un alito d’aria.
- Bene - concluse la donna asciugandosi i palmi delle mani sulle cosce - era questo che dovevo dirle. Non posso ovviamente costringere nessuno a prendere per oro colato quello che dico. Ma avvertirlo sì, per tacitare la mia coscienza. Non è il caso che chiami la polizia, o gli infermieri, o gli esorcisti. Tra meno di un minuto sarò fuori da qui, e dalla sua vita. Però sono sicura, se ho parlato con la persona giusta, che dentro di lei, da qualche parte in fondo all’anima, lei le cose le sa. E sa che io le ho detto solo la verità. -
Io squadrai ancora una volta quella donna inquietante, il suo aspetto stanco e cadente. Pensai ad Andrea, al suo sorriso, ai suoi occhi a metà tra il triste e il divertito, alle sue parole dolci, alle sue mani calde. E cercai di immaginarlo mentre dedicava tutto ciò a quella donna che aveva perlomeno il doppio dei suoi anni. Intento a guardarla come aveva guardato me. E non le credetti. Non volevo credere ad una parola di quel racconto strampalato. Non era possibile. E qualcosa, da qualche parte in fondo alla mia anima, mi urlava in silenzio di non crederle e non perché quel racconto fosse strampalato, ma perché se ci avessi creduto, se ci avessi solo provato, avrei dovuto rinunciare a quel sorriso, a quegli occhi, a quelle parole, a quelle mani. E l’idea che ciò accadesse mi impediva di respirare. Mi impediva di vivere.
- Io non le credo - dissi lentamente, mentre un sapore cattivo mi impastava la bocca - e non chiamerò proprio nessuno. Voglio solo che se ne vada di qui -
- Lo farò, non si preoccupi, lo farò. E mi rendo anche conto che la storia che le ho raccontato non è delle più normali. Anzi, è proprio difficile da mandar giù - riprese a cercare qualcosa nella borsetta che aveva in grembo - ma se proprio non vuole credere alle mie parole, dia almeno un’occhiata a questa... -
Mi porse qualcosa. Guardai: stretto nella sua mano fragile come un uccellino c’era un cartoncino rettangolare, di colore marroncino. Lo presi con la mano che mi tremava: era una carta d’identità. Un semplice documento. Carta d’identità n° AC0226672, di Boschin Anna, lessi sulla copertina.
- Lo apra - suggerì la donna con una voce d’oltretomba. Lo feci. Sull’anta di destra c’era la foto di una ragazza bionda e sorridente, con le gote appena velate di rosso. I suoi occhi assomigliavano terribilmente, in una versione più vitale, a quelli della donna seduta di fronte a me. La ragazza della foto assomigliava terribilmente alla donna seduta di fronte a me. “E’ sua figlia” pensò la mia mente, cercando di restare disperatamente aggrappata al raziocinio. Sulla sinistra lessi: cognome Boschin. Nome Anna. Nata il 20 febbraio 1974. Millenovecentosettantaquattro. MILLE NOVECENTO SETTANTAQUATTRO. Mi scappò un gemito. Se il documento non era un falso, e non vedevo il motivo perché lo fosse, a meno di non essere vittima di un clamoroso sketch di Scherzi a parte, la donna seduta di fronte a me, a cui apparteneva quel documento d’identità, aveva un anno meno di me.
- Sono io - mi confermò lei, con voce spenta. Ma io non la udii, i circuiti logici nella mia mente erano già saltati improvvisamente, come la luce durante un violento temporale, e svenni, scivolando pesantemente sul pavimento del mio ufficio.


CAP. 18


S-ciaf. S-CIAF!
Due deboli schiaffi mi colpirono sulle guance, dissipando a poco a poco il buio nella mia testa in filamentose nubi nerastre. Aprii gli occhi, richiudendoli immediatamente, feriti dal chiarore esterno.
- Lasciatele un po’ d’aria... - disse qualcuno alla mia sinistra. Riconobbi la voce del signor Pesavento, il custode. Riprovai ad alzare le palpebre, con maggior cautela, e alcune sagome confuse si misero lentamente a fuoco. Svelando le facce preoccupate e curiose dei miei colleghi. La Maria Luisa era china su di me ancora con la mano sollevata a mezz’aria, dubbiosa se avevo bisogno di qualche altro schiaffetto. Le sorrisi debolmente, per rassicurarla.
- Come si sente, mia cara? - chiese con un tono di voce inaspettatamente gentile. Forse non desiderava ulteriore clamore sulla biblioteca, dopo l’incidente al povero Maniero. Io scossi la testa, ancora un po’ ottenebrata:
- Bene - risposi - almeno, credo -
Feci per alzarmi e decine di mani premurose mi afferrarono. Ero stesa sul fresco marmo del corridoio, dove presumibilmente mi avevano portato dopo avermi trovato svenuta. Immediatamente mi tornò in mente il mio ufficio, e lo strano colloquio che vi si era svolto. Girai lo sguardo alla ricerca frenetica della donna che mi aveva fatto visita, nonostante un embrione di capogiro. Ma di lei, tra la piccola folla, non c’era traccia. Se n’era andata, come aveva promesso. Walter, il paffuto giovane addetto alla sala principale, si fece largo portando tra le mani una pezzuola bagnata, e me la applicò sulla fronte, e di questo gliene fui grata in eterno.
- E’ sicura di riuscire a stare in piedi? - chiese ancora la direttrice. Mentre facevo cenno di sì con la testa Pesavento mi elargì un paterno buffettino sulle guance:
- Quell'ufficetto - dichiarò con voce solenne, e non aveva tutti i torti - quel buco era veramente un forno, quando l’ho trovata. Sfido che si sia sentita male... -
Tutte le teste dei presenti annuirono, scambiandosi sguardi di approvazione. Io feci segno ai due che mi tenevano per gli avambracci che ce la facevo da sola, e afferrai la borsa che una ragazza aveva preso con sé.
- E’ tutto ok - dissi ancora - dev’essere stato proprio il caldo, o uno sbalzo di pressione. Ne vado soggetta, specie con l’afa. Ora vi ringrazio, tornate alle vostre occupazioni, ho solo bisogno di una boccata d’aria -
Imboccai le scale verso l'atrio, ancora un po’ insicura sulle gambe, lasciando i miei colleghi a commentare l’accaduto. Certo che ne avevano di materiale su cui spettegolare dopo tutto quello che era successo...
Uscii nella via inondata di sole, voltando l’angolo del palazzo per dirigermi verso la piazza. Sapevo benissimo dove stavo andando, e non avevo certo bisogno di mentire a me stessa. Volevo immediatamente a verificare quello che la donna mi aveva raccontato, e cioè se Andrea abitava veramente dove aveva indicato.
Attraversai la piazza deserta, dove stazionavano solo alcuni colombi a contendersi dei grani di miglio e un gruppetto di turisti impegnati a studiare con smarrita concentrazione una piantina della città, e mi immersi nell’ombra degli archi della Basilica Palladiana. Scesi le scalette che portavano alla piccola piazzetta sottostante, dove stazionavano alcuni banchi di fiori tristemente sbarrati, raggiungendo il quartiere delle Barche. Era un quartiere molto suggestivo, che costeggiava il fiume, e di recente era stato oggetto di ottime ristrutturazioni. Vi abitavano però comunque molti extracomunitari, sia slavi che africani, e in breve le linde facciate dei palazzi e le strette viuzze erano tornate a coprirsi di graffiti, sacchetti dell’immondizia sventrati e sporcizia. Arrivai nel vicolo incriminato, notando subito il negozio di cui parlava la donna. Dalle vetrine facevano bella mostra alcuni discreti mobili in stile Vecchio Veneto e un tavolino con una serie deliziosa di sifoni per il seltz, decisamente impolverati. La porta accanto era quella dove, secondo il resoconto, viveva Andrea. La sua vera casa, a quanto pareva. Restai in attesa dietro l’angolo, a riflettere. Non sapevo bene cosa fare, le possibilità erano molteplici, e non tutte allettanti. Poteva tornare Andrea (o uscire, visto che non avevo idea di dove fosse) e sorprendermi come un maldestro agente segreto in disarmo. Sempre che abitasse lì e non dove ero stata a trovarlo. Dove avevo letto il suo cognome sul campanello e visitato la sua casa. “Che diavolo ci faccio qui?!?” pensai infastidita dall’aver bevuto come acqua fresca quella strampalata accozzaglia di assurdità, uscite dalla bocca di quella donna. Decisi comunque di non sprecare quel tentativo, con l'obiettico di smentire definitivamente le farneticazioni di quella Boschin. Mossi qualche passo verso l’entrata del palazzo, fingendo di osservare con vivo interesse gli oggetti esposti nelle vetrine. Mi osservai intorno con cautela, sbirciando da sopra gli occhiali da sole: la viuzza era deserta, e da qualche parte arrivava il ritornello di una canzone di Fabio Concato. Mi spostai impercettibilmente verso la porta, per dare una scorsa ai campanelli. Qualche simpatico teppista doveva aver tentato di appiccarvi il fuoco, durante una scorribanda notturna, perché la griglia del citofono appariva annerita e fusa. Lessi le etichette di vario formato e genere appiccicate alla bell’e meglio: Svomiç, Zamir, Awoonda. Su alcune c’era solo una sigla, altre erano bianche. Poi il cuore mi mancò un colpo. Sull’ultimo campanello in alto a sinistra c’era un nome che non avrei mai voluto leggere (e anche mentre lo leggevo la mia mente non intendeva crederci): Zipoli Andrea. Era tutto vero. Abitava qui, come quella donna aveva detto (“Però sono sicura, se ho parlato con la persona giusta, che dentro di lei, da qualche parte in fondo all’anima, lei le cose le sa. E sa che io le ho detto solo la verità”). Restai immobile a fissare quel nome vergato con un pennarello nero su un rettangolino bianco, col cuore forsennato come un treno, mentre il sudore mi colava lungo la schiena. “...se parli ancora m’innamoro, non devo fare niente, mi basta stare lì, semplicemente...” cantava la radio da qualche finestra aperta, prima che la musica venisse interrotta bruscamente. Che fare che fare che fare CHE FARE?!? Piantata lì, sotto un sole implacabile, con le dita dei piedi che mi si flettevano e distendevano in continuazione per l’agitazione, la testa piena solo di quelle due parole. Che fare. Cheffarechefarecheffareccheffarrecchheffarrr. Scappar via lontano mille chilometri, suggerì una vocina spaventata nei meandri del mio cervello, ormai cotto a puntino dalla tensione e dal solleone. Correre tra le braccia di Andrea, sposarlo, farci quindici bambini e non chiedergli mai niente, le fece eco un’altra dal fondo del mio cuore. I due suggerimenti presero a bisticciare per avere il sopravvento, svolazzando vorticosi come i teschi volanti in Doom, e come questi erano fiammeggianti e con zanne che laceravano dolorosamente. Di sottofondo a questo duello il che fare che fare che fare continuava come eseguito da un’orchestra di ubriachi. Il dissidio mentale fu infine squarciato dalle visioni contemporanee dei volti sofferenti di Ricky e di Sara, e tornai a rendermi conto di dov’ero. E di quello che dovevo fare. M’infilai senza pensare nella porta spalancata, che mi accolse con una piacevole penombra ed un persistente, cattivo odore di muffa e di escrementi. Le pareti del breve corridoio che portava alle scale erano scrostate e coperte di scritte in qualche lingua sconosciuta. Riuscii a decifrare uno sgrammaticato “Albannesi, fori dale bale” vergato con uno spray assurdamente fucsia, accanto ad un eloquente disegno di una donna che stava leccando un pene esagerato. Mariça, secondo piano, era specificato. Bei condòmini, pensai mentre salivo circospetta le scale viscide e sconnesse, se veramente Andrea abita qui ha di che divertirsi... Ma perché diavolo inventarsi l’indirizzo del Villaggio del Sole?!? mi scervellai per capirci qualcosa, e di chi sarà poi quell’appartamento (perché io in un appartamento ci sono stata!) dei suoi, di un amico, di chi?!? Continuai a salire con prudenza, accompagnata dai sordi rimbombi del mio cuore nelle orecchie, con il terrore di incontrare qualcuno. Chiunque, non solo Andrea (allora sì che la frittata sarebbe fatta!). Passai davanti ad una porta chiusa da dove, all’improvviso, arrivò una cacofonia di grida irose in qualche lingua dell’est, seguite da un colpo secco e da un piangere disperato di bambini. Mentre proseguivo la salita la porta in questione si spalancò e ne uscì un uomo biondiccio, con una canottiera piena di macchie, che prese a scendere imprecando incomprensibilmente, sotto gli occhi di una giovane donna in lacrime e di un paio di bambini dagli occhi enormi e spaventati. “Dove diavolo mi sto andando a ficcare?!?”, pensai ancora una volta, e ancora non sapevo proprio niente, di quello che mi aspettava. Arrivai finalmente all’ultimo piano, fermandomi boccheggiante di fronte all’unica porta esistente. Il caldo nel sottotetto era soffocante. Sbirciai un’ultima volta nella tromba delle scale, ma le rampe e i pianerottoli rimasero deserti e silenziosi. Fissai la porta, scrostata e malmessa come le sue sorelle, chinandomi sul campanello a fianco privo di qualsiasi indicazione. “ E adesso?”, pensai sconfortata mentre constatavo di persona che le mie risorse di agente segreto erano molto limitate. Nei film l’eroina avrebbe avuto la meglio sulla serratura con una banale forcina per capelli (ma io li porto così corti...) o intrufolandosi nell’appartamento scavalcando la ringhiera del poggiolo e avventurandosi pericolosamente lungo il cornicione a picco sulla via (ehi, non scherziamo… non se ne parla neanche!). Osservai la porta. La porta osservò me.
Poi feci la cosa più ovvia, che viene quasi spontanea di fronte ad una porta chiusa, anche se questa fosse sbarrata e blindata. Provai la maniglia. Così, tanto per dare un senso alla mia visita (e l’approvazione al fatto che la missione era fallita e che potevo quindi andarmene velocemente da lì...) impugnai la maniglia e l’abbassai. E la porta, con un cigolìo quasi impercettibile, si socchiuse. Rimasi interdetta e stupita più che se ci fossi passata attraverso come un fantasma. La porta era aperta! A quel punto il mio alibi di tagliare la corda perché non ero riuscita a entrare si dissolse come neve al sole. Non avevo scusanti. A quel punto dovevo entrare (ma a cercare cosa, poi ?). Spalancai del tutto la porta, che mandò un secondo cigoloso lamento, e feci un passo all’interno. Rimanendo allibita: la temperatura nella stanza era gelida! Non fresca, visto che era immersa nell’oscurità creata dai balconi accostati, né tantomeno fredda, ma sottozero!!! Osservai incredula il mio respiro trasformarsi in candide nuvolette come fosse il primo gennaio, mentre iniziavo a rabbrividire violentemente. “Qui mi becco una polmonite!”, ricordo di aver pensato spaventata mentre indietreggiavo nel tepore del pianerottolo, “il ventisette di giugno, per di più!!!”. Ero vestita come ci si veste in questo periodo dell’anno, e cioè con una camicetta leggera senza maniche ed una corta gonna colorata. Se entravo lì dentro mi sarei congelata a morte, ma d’altra parte ero decisa ad andare a fondo della faccenda (che adesso stava assumendo, se non me n’ero convinta prima, sinistre connotazioni soprannaturali) così mi feci forza. Mi lanciai nella stanza immersa nell’oscurità dirigendomi verso le fessure luminose dei balconi, con l’intento di spalancarli per far entrare un po’ della luce e, soprattutto, del calore del sole estivo. Li aprii, scoprendo a mie spese che il tentativo era fallito. Il tepore esterno si fermava giusto sul bordo della finestra, senza riuscire a penetrare nella stanza per stemperare almeno un po’ il gelo che vi regnava. La cosa più inquietante era come il contrasto tra le due temperature creava un suggestivo quanto inquietante vapore simile a nebbia. Il sudore prodotto dalla salita mi si congelò sulla pelle, e presi di nuovo a tremare come una foglia. Non se siete mai entratu in una cella frigorifera, a me è capitato alcuni anni fa quando, per guadagnarmi qualche soldo, lavoravo durante le vacanze alla base degli americani. Ero aiutante alla Bakery, che sarebbe il nostro panificio, ed anche pasticceria, quando un giorno caldissimo arrivarono dei prodotti da scaricare e venne chiesta anche la mia collaborazione. Io uscii già accaldata dal laboratorio dove il forno andava a mille, accostandomi alle porte spalancate del camion fermo sulla piattaforma, senza rendermi conto che era un camion frigorifero. Entrai con disinvoltura nel cassone e provai l'identico, raggelante shock che stavo rivivendo ora in quella stanza inquietante. La luce esterna mi permise di notare una coperta di color marroncino stesa su un letto (una branda, più che altro) e l'afferrai per gettarmela sulle spalle. Ora sembravo un curvo stregone indiano, con quella palandrana addosso, ma stavo meglio, e potevo dare un’occhiata intorno senza rischiare l'ibernazione. A dire il vero non è che ci fosse molto da vedere, anzi, per dirla tutta, l’arredamento lasciava decisamente a desiderare. Oltre al minuscolo letto nella stanza non c’era nient’altro. Nulla! Né un tavolino, né una sedia. Né un armadio, o comunque un posto dove tenere le cose consuete di cui un normale essere umano ha esigenza (un normale essere umano, appunto). Se veramente Andrea, o chi diavolo era, viveva in quel posto avrebbe avuto molte cose interessanti da raccontare sui propri gusti in fatto di temperatura della stanza e di complementi di arredo. Mi avvicinai al letto, gettandovi un’occhiata. Le lenzuola, che avevo scomposto strappando via con violenza la coperta, erano leggermente macchiate di giallo e c’era anche una goccia di sangue secco, piccola e rotonda . Fine dell'inventario. Niente vestiti o scarpe, né tantomeno altri oggetti personali. Sollevai lo sguardo, impietrita: in quella stanza non esisteva nemmeno un fonte luminosa, e il filo spellato e contorto che sbucava tristemente dal centro del soffitto me lo confermava. Andrea abitava qui senza la luce elettrica!!! Non sapevo proprio più cosa pensare, come se il gelo che mi attanagliava avesse ghiacciato il cervello, senza più la possibilità di riflettere e di capire (prova a riflettere come fa una stanza all’ultimo piano di un palazzo ad avere una temperatura polare in piena estate...). Mi guardai ancora una volta intorno alla ricerca (vana) di un condizionatore d’aria tarato al minimo, ma sarebbe stato un po’ difficile nasconderlo sotto il letto. Nonostante quella considerazione mi ritrovai carponi sul pavimento (ghiacciato anche quello, oltre che ricoperto da uno strano e inquietante viscidume) a sbirciare nelle ombre che si annidavano sotto il letto. Ma la ricerca fu inutile. Poi, quando gli occhi si erano ormai abituati alla scarsa luminosità (oltre che al calore esterno quel posto sembrava porre resistenza anche all’ingresso della luce) la scorsi. Si confondeva un po’ con la parete scrostata, ma era inequivocabilmente una porta quella che si disegnava sul muro. Una porta estremamente minuscola a dire la verità, alta non più di un metro, e con un foro frastagliato al posto della maniglia. Dove diavolo sbuca, quella apertura così piccola? E a chi è destinata? mi chiesi con un brivido più violento degli altri. Mi avvicinai cautamente, infilando l’indice nel buco, provando a tirare. La porticina si aprì con un lamento, rivelando un’altra stanza immersa nell’oscurità. Non appena la porta fu spalancata una zaffata mi investì, un odore secco e antico che ricordava spezie e tè. Il profumo che avevo sentito più volte sui vestiti di Andrea... Rimasi immobile, a scrutare nelle tenebre, cercando di captare il minimo rumore. Non successe nulla. Nessuna creatura balzò fuori dal buio per divorarmi. Deglutendo di disagio e di paura infilai una mano all’interno dell’apertura, e dopo un attimo la mia ricerca ebbe successo: un inequivocabile, normalissimo, moderno interruttore della luce capitò sotto le mie dita.
Lo azionaai, e una luce giallastra illuminò fiocamente quella seconda stanza. Infilai dentro la testa osservandomi intorno: l'ampiezza era quella di un capiente ripostiglio, con le pareti  percorse da tre file di mensole, su cui erano posati vari oggetti. Al momento irriconoscibili per lo spesso strato di polvere che li ricopriva. Decisa a proseguire il mio sopralluogo, strisciai sul pavimento sporco fino a superare l’apertura, così da potermi rialzare in piedi. Mi avvicinai alle mensole, soffiando via la polvere che si sollevò in una nuvola che mi fece tossire e lacrimare. Rendendomi conto, mentre i peli del corpo si mettevano sull’attenti, che reggevano una serie di figure fatte con la carta, degli origami di figure umane molto ma molto più grandi del normale. Sembravano delle bambole fatte di carta, una carta molto vecchia, giallastra e fragile. Girai lo sguardo intorno notando una zona in cui la presenza della polvere era molto meno massiccia, come se fosse stata usata più di recente. Mi bloccai, con la bocca spalancata dallo stupore e dall’orrore. C’era una coppia di figure di carta, ficcate a forza in quello che sembrava un modellino di auto. Tipo quelli che si costruiscono in kit di montaggio. Dico sembrava perché l’automobile-giocattolo, come parte delle figure di carta al suo interno, era annerita e contorta, come se fosse stata data alle fiamme (...quando la loro auto uscì di strada di ritorno da una visita ad alcuni parenti e s’incendiò...). Il pianto mi sgorgò improvviso, e violento, annebbiandomi per un attimo la vista. Mi passai il dorso della mano sugli occhi, lasciando probabilmente lunghe strisce di sporcizia, come decorazioni di guerra di un pellerossa, e continuai quello straziante sopralluogo, ritenendo (a torto) che quello che avevo appena scoperto fosse il peggio. Non era così, me ne resi conto quando scoprii con sgomento una figura umana cartacea che portava attorno al collo, come una collana aliena, un pezzo di filo spinato. Attorno al collo, attorno alla gola. Fissai impietrita le punte acuminate di filo spinato che bucavano la figuretta riversa sulla mensola. Punte che se fossero state attorno al collo di un essere umano avrebbero creato una zona dove la pelle si sarebbe arrossata, infiammata, in maniera spiacevolmente regolare, come l’irritazione che può causare una collanina. Oltre forse a far perdere la possibilità di parlare. O no? Ormai gli shock si sovrapponevano agli shock, era come visitare la pregiata esposizione di un macabro museo, e non avevo più occhi da sbarrare mentre notavo subito dopo un’altra figura alla quale era stata legata, più o meno nel punto dove si trovava la vita, un pezzo di corda. Un pezzo di fune colorata, inequivocabilmente uguale a quelle che usano i rocciatori! Afferrai il pupazzo di carta, che si sfaldò leggermente sotto la pressione delle dita, e mi resi conto che il capo della fune era frastagliato, come se fosse stato tagliato maldestramente. Mi sentii montare dentro una rabbia velenosa, e con un ringhio selvaggio spazzai via dalle mensole le figurette di carta, insieme a una tonnellata di polvere che iniziò a turbinare offuscando la luce. Sembrava di trovarsi al centro di una tempesta di sabbia. Tossendo furiosamente cercai a tentoni la bassa apertura che portava fuori dalla stanza e mi ci infilai, richiudendomi la porticina dietro le spalle per bloccare così la nube di polvere. Rimasi seduta per terra, mentre le lacrime cercavano la strada sulle mie guance nere di sporcizia. Mi sentivo sporca e sudata e sfinita e intirizzita, e avrei avuto voglia (e bisogno) solo di una doccia calda e di un letto. Tirai su col naso, rumorosamente, e frugai nelle tasche della gonna alla ricerca di un fazzoletto, senza trovarlo. Poi alzai gli occhi e vidi Andrea. Era immobile appena dentro la soglia, e mi guardava serio, senza dire niente. Io pensai che avrei dovuto avere paura ed invece rimasi lì seduta, avvolta nella coperta marrone, a sostenere il suo sguardo. Nessuna paura, nessun timore, sentivo il mio cuore leggero e calmo.
- Perché? - gli chiesi con un tono di voce quasi inudibile - perché io? -
Lui restò in silenzio per un po’, come se stesse cercando la risposta giusta. Poi infilò le mani nelle tasche dei jeans, nel modo che ormai conoscevo, e la voglia di alzarmi e stringerlo tra le braccia scaturì quasi irresistibile. Ma fu una sensazione breve e fugace.
- Sono innamorato di te - rispose - ho bisogno di te. No, bisogno è una parola brutta.... negativa... insomma, io so che la mia vita è più bella se ci sei tu... -
Io sulle prime cercai di comprendere bene quello che mi stava dicendo, poi feci un gesto vago, angosciato, verso la stanza che si apriva dietro le mie spalle:
- E tu per amore uccidi le persone che ti ostacolano?!? - non riuscivo a credere che lui non vedesse le cose come stavano realmente - pensi di riuscire a conquistare una persona facendo terra bruciata intorno a lei?-
Lui mi guardò, e i suoi occhi promettevano amore e felicità e calore.
- Non sempre le persone riescono ad amare completamente, c’è sempre qualcosa che stride, una... una sottile discrepanza tra quello che noi desidereremmo e quello che gli altri ci sanno offrire. Ci possono offrire. E’ questo il limite, quello che rende torbida la vita, e crea infelicità. Io ti amo, e so quello che ti fa star bene. So quello che desideri nei tuoi momenti più intimi, quello che ti auguri per il futuro, per la tua vita. Io conosco i tuoi gusti, so quello che non ti piace, o che ti manda in bestia. So il tuo ultimo pensiero un attimo prima di addormentarti e il primo che ti sveglia al mattino. Solo io posso sentire i tuoi desideri, sapere che ami i pomeriggi di pioggia, e stringere forte un cuscino quando guardi la televisione, e farti scorrere l’acqua tiepida sui polsi mentre ti osservi nello specchio, e le poesie. Qualcuno hai mai letto una poesia insieme a te? Io ho voglia di farlo. Io ho voglia di fare tutto con te, non solo brani, scampoli di vita. Io posso essere l’amore perfetto -
Mi puntellai lungo il muro, alzandomi in piedi:
- Ma l’amore non è perfetto - esclamai con un bizzarro senso di trionfo che mi montava dentro, come se stessi partecipando ad un assurdo quiz televisivo ed avessi all’improvviso trovato la risposta esatta - la vita, non è perfetta!!! E’ questo il bello, conoscersi, scoprirsi, mettersi in discussione. La vita è imperfetta, e la felicità sta nel riuscire a far combaciare più pezzi di armonia possibile. E’ il succo, è il gusto della vita! Ogni piccola conquista con le persone che ami, ogni sorriso che strappi è il senso della vita. E’ il mistero dell’amore! -
Lui sembrava rimpicciolire sotto l’irruenza delle mie parole. Fece una lieve smorfia, come di dolore, spalancando le braccia, in un gesto d’invito:
- Possibile che tu non ti renda conto dell’energia sprecata nella disperata ricerca di un attimo di felicità? O di quello che credi esserlo? Io posso darti oceani di armonia, di amore, senza bisogno che tu vada ad elemosinarlo in giro. Resta con me per sempre, e avrai felicità per sempre - i suoi occhi si velarono di disperazione - non farmi del male, io non ce la faccio senza di te... -
Quando aveva quei momenti di tristezza instillava un desiderio quasi irresistibile di prenderlo tra le braccia e coccolarlo e consolarlo. In quei momenti riusciva ad essere l’essenza stessa dell’amore, e qualunque donna non avrebbe opposto resistenza. Mi sentii improvvisamente stanca e triste, e guardai il suo viso disperato:
- Amare è volere il bene della persona che si ama, sempre! - dissi mentre un’assurda sensazione di gioia mi traboccava dal cuore - desiderare tutto il meglio per lei, anche se a volte questo può significare la propria infelicità. Altrimenti è solo egoismo, bisogno. Se tu mi ami come dici non dovresti arrecarmi dolore, non dovresti fare del male alle persone a cui tengo. Se fosse amore dovresti fare di tutto per la mia felicità, anche se dovesse coincidere col tuo dolore. Per questo il tuo non è amore vero... -
Le mie parole sembravano quasi ferire fisicamente il ragazzo, che si stringeva in sé stesso. Una lacrima sbocciò dall’angolo del suo occhio e prese a scendere al rallentatore lungo il suo viso, e la voglia in me di baciar via quella lacrima e con quella il suo dolore era quasi insopportabile. Ma io mi facevo scudo delle facce sofferenti di Sara e Ricky, anche se ero inorridita e terrorizzata dal rendermi conto che, comunque, buona parte di me mi urlava di fregarmene di Sara e Ricky e di correre tra le sue braccia.
Qualcosa dentro di me, forse la parte oscura che ognuno nasconde dentro e fa commettere cattiverie e torti, che fa mentire ed imbrogliare, provava a convincermi di dimenticare, di non pensare mai più alle due persone che giacevano all’ospedale, di far finta che non fossero mai esistiti. Di questo stava cercando di convincermi, l’oscurità in fondo alla mia anima, e la cosa agghiacciante era CHE CI STAVA RIUSCENDO!!!
Annaspai in preda al panico e qualcosa cadde dal mio viso verso terra. Guardai in basso, giusto in tempo per scorgere una goccia di sangue, del mio sangue, colpire il pavimento e schizzare tutto intorno. Mi portai un dito al naso e non mi sorprese di vederlo colorarsi di rosso. Lo puntai verso di lui:
- Il tuo amore fa male - sibilai tra i denti - quello che tu chiami amore perfetto uccide, e tu lo sai benissimo. Hai bisogno di me perché hai bisogno di nutrirti. E poi smettiamola di chiamare le cose col nome sbagliato... il tuo è tutto fuorché amor...-
Non riuscii nemmeno a terminare la frase. Il pavimento, la stanza, l'intero palazzo vibrarono violentemente per un brevissimo istante, mentre un brontolìo basso ed inquietante riempiva l’aria. Sembrava in tutto e per tutto una scossa di terremoto, ma io sapevo che non era così. Nessuno, oltre a me, aveva udito qualcosa. Mi sentivo la bocca completamente asciutta, e cominciavo ad avere una paura folle. Andrea fece un passo verso di me, con la faccia contorta da un’espressione a metà tra il deluso e l’arrabbiato, poi si bloccò:
- Io posso farti stare bene, io ti amo, io non potrei mai farti stare male io sono qui sono il sogno so quello di cui tu hai bisogno io ti amerò io ti io stare con te un bacio un solo bacio non pensare stai con me Giulia io ti amo amore stai con me non mi lasciare Giulia baciami un bacio baciami ora per sempre -
Cominciò a parlare confusamente, ripetendo le cose e avvicinandosi a me. Il suo volto vibrava a tratti come un effetto speciale di un film e i suoi occhi iniziarono a dilatarsi, ingrandirsi, e a riempire tutta la stanza, e poi tutto il mondo, come nel sogno che avevo fatto all’inizio di tutta questa storia. Ero come paralizzata, ipnotizzata ma sapevo benissimo che avrei dovuto fare qualcosa, qualunque cosa, per evitare che lui mi toccasse, o sarei stata perduta.
- Il tuo non è amore! - gli urlai contro, spingendolo via mentre schizzavo verso l’uscita. Lui, preso alla sprovvista, perse l'equilibrio per un attimo, ma fu sufficiente. Imboccai le scale come un proiettile, mulinando le braccia nel tentativo di non sfracellarmi, scendendo a precipizio i pianerottoli senza voltarmi. Le porte chiuse degli appartamenti mi sfrecciavano accanto confondendosi in strisce multicolori. Nonostante il rumore dei miei passi e il fiatone che mi rimbombava nelle orecchie non mi sembrò di sentire nessun altro suono dietro di me. Andrea non mi aveva seguito. Arrivata all’ultima rampa di scale già scorgevo la luce accecante del sole che riempiva l’androne, quindi rallentai istintivamente sentendomi ormai al sicuro. E fu allora che avvertii nitidamente quel lieve tocco sulla spalla e la sua voce, così vicina da farmi trasalire.
- Non lasciarmi, dolce Giulia, ho bisogno di te - sussurrò al mio orecchio. In preda al panico per il fatto di non riuscire a spiegarmi come avesse fatto ad arrivarmi così vicino senza il minimo rumore (hai ancora bisogno di chiederti come riesca a fare le cose?) ripartii di slancio verso l’esterno, ma l'impulso del mio cervello fu più veloce della risposta dei piedi, che si ostacolarono a vicenda come buffi clown del circo. Non riuscivi a evitare di volare verso il basso, come un sacco di patate, e l’unica cosa che fu in mio potere fare fu osservare con distaccato interesse il pavimento sporco che si avvicinava sempre più velocemente. Poi sbattei la faccia e il buio mi avvolse.


EPILOGO


Successero molte cose, durante e dopo il mio svenimento, la maggior parte delle quali non aveva il minimo straccio di giustificazione logica. Per questo non ho mai avuto la pretesa di chiarirmele - pena forse l’equilibrio mentale - ma solo, a volte, di ritornarci su con la memoria, come fossero aneddoti di un’altra vita. O scene di qualche vecchio film. E ogni volta che che le ho ripercorse con la mente non ho mai provato la minima sensazione di paura, nonostante fossero accadimenti del tutto fuori dal normale. Anzi, il constatare questo alimenta ogni volta la fiducia nella parte luminosa delle persone, nel loro lato buono. Nell’amore, in definitiva, che da qualche parte prima o poi riesce a germogliare, come una piantina ostinata che si apra la strada nel cemento di città. Posso ricordare tutta quella strana e tragica storia, quindi, senza strascichi di nessun tipo, quando ne sento la voglia o il bisogno. Come adesso seduta nel prato davanti a casa mia, mentre osservo mia figlia che zampetta felice dietro un pallone mezzo sgonfio. In fondo, tutto sommato, si può tranquillamente dichiarare che è stata una vicenda a lieto fine, più o meno. Ma vediamo di andare per gradi: una voce gentile e qualche scossone mi strapparono dal buio del mio svenimento. A poco a poco gli occhi misero a fuoco la faccia smunta della donna che avevo intravisto sulla porta di un fatiscente appartamento durante la mia perlustrazione nel palazzo. Scossi la testa per cercare di scacciare la nebbia che mi attanagliava, e vidi i due figli della donna sbirciarmi curiosi da dietro la gonna variopinta della madre.
- Zi-gnora, sta mala, zi-gnora caduto - ripeteva la giovane china su di me - chiama hospitalia, mala? -
Io sorrisi e le feci un cenno rassicurante, mentre mi aggrappavo a lei per drizzarmi in piedi. Un lieve ed improvviso capogiro mi fece barcollare, ma passò subito.
- Non è niente, non è niente - la rassicurai mentre spolveravo via alla bell’e meglio la sporcizia dai miei vestiti. L’indomani avrei avuto un bel bernoccolo bluastro sulla testa - niente male, grazie, tutto bene -
Uscii di lì, immergendomi nel sole accecante del sabato estivo, e non vidi traccia di Andrea. Nessuno mi seguì né cercò di rapirmi in qualche vicoletto deserto. Feci la strada verso l’ospedale veloce come un treno, mentre la mia mente giocherellava con rapide istantanee di quello che mi era appena successo. Senza soffermarcisi più di tanto, come se i pensieri fossero castagne bollenti. Quando giunsi all’ospedale le cose cominciarono a cambiare, e in meglio. Sarebbe adesso inutilmente prolisso soffermarmi su ogni singolo elemento, le facce incomprensibilmente (per me) sollevate dei parenti, l’incredulità degli infermieri, lo stupore malcelato del dottore di guardia. Potete anche immaginarvelo da soli. La cosa importante, ed incredibile, è che Ricky stava bene. Era uscito dal coma, all’improvviso, ed era perfettamente normale. Nessuna conseguenza, nessuno strascico.
Naturalmente nessuno sapeva spiegarsi quell’inaspettato miglioramento, né i medici che si affollarono come mosche sul miele attorno al suo letto, né i parenti che di certo non avevano esigenze di spiegazioni scientifiche. Io sola avevo la spiegazione in mano, anche se per nulla al mondo sarei andata a spifferarla in giro. E comunque nemmeno io lo venni a scoprire subito. Dovetti aspettare che il clamore di quella cosa scemasse, che la stanza 212 si svuotasse di curiosi e zie in lacrime. Che Ricky si addormentasse sotto l’effetto di un sedativo somministrato unicamente a scopo precauzionale per lo stress del subbuglio creato dal suo risveglio. Dovetti aspettare che il cielo all’orizzonte, al di là delle vetrate, si riempisse di rosso sfolgorante prima che Gianni, il compagno di stanza di Ricky, si decidesse a farmi un cenno. Per la prima volta in quel pomeriggio caotico posai lo sguardo su di lui, scoprendolo stranamente agitato, ma anche raggiante in viso. Mi avvicinai con curiosità al letto e ascoltai il suo racconto. E lui parlò, concitatamente, a bassa voce, stringendomi con forza il polso senza nemmeno rendersene conto. Parlò, e mi raccontò una storia che a qualsiasi altra persona sarebbe suonata delirante e inaccettabile, ma non per me. Mi disse che lui stesso aveva pregato affinché Ricky migliorasse, e che probabilmente le sue preghiere, sussurrate a fatica frugando nei ricordi infantili per farne riaffiorare le parole, erano state esaudite. Stava sonnecchiando, mi disse. Dentro e fuori un sonno leggero e disturbato, nella penombra scura delle tapparelle abbassate, rotta solo dalle decine di puntini luminosi attraverso cui filtrava il sole. Poi quel ragazzo era entrato nella stanza, fermandosi con le spalle appoggiate alla porta. Rimase immobile per alcuni minuti, continuò Gianni, lo osservai senza riuscire ad emettere nessun suono, che so, chiedere chi fosse, cosa volesse... Dopo un po’ si avvicinò al letto di Ricky, e la cosa strana fu 'come' gli si avvicinò... sembrava quasi che... “fluttuasse”, senza muovere il corpo. Si bloccò al suo fianco, osservandone il sonno senza dire una parola. Ancora una volta io cercai di attirare l'attenzione, non sapevo chi fosse e non mi lasciava molto tranquillo la sua improvvisa comparsa. Ma una volta ancora la mia gola era bloccata e, come constatai di persona un attimo dopo, anche ogni mio centimetro di corpo. Sembravo paralizzato da una qualche forza invisibile. Improvvisamente le palpebre cominciarono a farsi pesantissime, era quasi impossibile tenerle aperte, e capii che stavo per addormentarti di botto. Lottai più che potei contro gli occhi che volevano chiudersi inesorabilmente e poi... poi fece quella cosa. O almeno io lo vidi farlo. Ma ormai stavo per scivolare in un sonno di piombo, e adesso come adesso non saprei giurare su cosa ho visto e cosa - forse - ho sognato. Ma anche se la mia mente è confusa, da qualche parte dentro di me io sono sicuro di aver visto bene. Cos’ho visto? Ho visto la sua mano sollevarsi lentamente, col dito proteso, fino a trovarsi a pochi centimetri dalla fronte del mio amico immobile. E ho visto quel... quel colpo di luce... come ho detto la stanza era quasi completamente immersa nell’oscurità, ed è stato come... come potrei dire... come una scintilla minuscola, di un bianco accecante. Scaturita direttamente dalla punta del suo dito. Un piccolissimo lampo di luce candida, ecco cos’era. E sono sicuro di quello che dico, anche se ho perso conoscenza subito dopo, perché, ancora adesso, a ore di distanza, quando chiudo gli occhi il fantasma luminoso di quella scintilla mi rimane impresso nella retina...
Gianni, col viso colorato dal tramonto che andava in scena al di là dei vetri, mi osservò con occhi pieni di interrogativi ma non di paura.Prima di formulare la domanda che ancora oggi, qualche volta, mi si affaccia alla mente. Domanda alla quale comunque non ho voluto, o saputo, dare una risposta certa. Piantò i suoi occhi nei miei sussurrando: “chi era, Giulia, quell’uomo?!? Che cosa era, un angelo?!?
Non lo sapevo, ovviamente. Nè tantomeno lo so adesso. Forse non era un angelo, non con tutto il male che aveva causato... ma forse, alla fine di tutto, qualcosa dentro di lui aveva fatto germogliare il desiderio di un gesto positivo. Non so cosa fosse scattato in lui, e non  ho certo l'arroganza di pensare che possano essere state le mie parole sull’amore. Se non addirittura il suo amore per me. Anche se qualche volta, quando sono sola nella mia casa, e Ricky e Emma sono fuori insieme da qualche parte, e un raggio di sole filtra attraverso la finestra per perdersi sul legno del pavimento, mi piace credere che la sua voglia reale di avere un amore come tutti, un amore dolce e appassionante e magico, l’abbia spinto a quel piccolo grande miracolo. Di sicuro so che è stato lui, non c’è certo bisogno di pensarci su, è stato Andrea a risvegliare l’uomo che amo. E non solo. Non ho verificato di persona, ma credo che nello stesso momento in cui Ricky apriva gli occhi e salutava cordialmente un allibito Gianni Garzia, due piani più sotto, la febbre di Sara spariva per restare solo un brutto ricordo, e con quella anche l’incapacità di parlare. Quando sono entrata nella sua stanza (del tutto libera anche da quel cattivo odore di malattia) e mi sono tuffata sul letto ad abbracciarla, sotto gli occhi divertiti delle sorelle e di un paio di infermiere, ho notato subito che sul collo non c'era più traccia di rossore. Andrea ha guarito Ricky e ha guarito Sara. La sua influenza malefica si era dissolta, aveva voluto dissolverla, e tutto era tornato a posto. Io sono convinta che anche il povero Ugo Maniero avrebbe miracolosamente riavuto la vista, se tre giorni prima non avesse cercato a tentoni la finestra e non si fosse buttato giù dal quarto piano. Questo non l’aveva potuto prevedere nessuno, ed è quello che fa di questa storia, comunque, una tragica vicenda priva di un lieto fine. Almeno non per tutti. Chi più, chi meno, ha avuto da tutto ciò un'eredità non del tutto piacevole. E’ il prezzo da pagare, credo. Questa storia mi insegnato in definitiva, se già non ne ero convinta, che alla fine un prezzo da pagare ci sia sempre. Tutto costa, nella vita, l’amare, il non amare, il male, il bene. Le cose non ti arrivano gratis, nient'affatto, e devi farci i conti se ti conviene o meno. Perché il conto salato che prima o dopo la vita ti presenta non si paga con moneta frusciante o impersonali assegni, ma con dolore e lacrime e sangue. Magari non necessariamente il tuo sangue e le tue lacrime, per una scelta che hai fatto o non hai fatto, ed è proprio questo che rende così salato il saldo. Ricky, ad esempio, è tornato a vivere senza particolari conseguenze, a parte che la botta presa alla gamba gli ha impedito per sempre di dedicarsi ai suoi sport preferiti e questo, anche se non lo dà a vedere, di sicuro gli pesa molto. Anche Sara ha periodicamente dei problemi con la voce, specie nei momenti in cui è particolarmente affaticata. Nessun medico ha saputo ovviamente dare una spiegazione accettabile a questi due casi, hanno parlato di “autoripristino delle funzioni cerebrali” (nel caso di Ricky) e per Sara non si sono neanche sprecati a inventarsi qualcosa. L’unico risultato è stato quello di essere contattati dalla redazione di un noto programma televisivo che tratta questo tipo di cose, allo scopo di invitarci a raccontare la nostra esperienza tra (sono parole loro) il caso della donna che parla col fantasma di Elvis e una coppia di extracomunitari che chiede giustizia per un torto subito dal loro padrone di casa. E’ inutile dire che abbiano gentilmente ma fermamente rifiutato. Ma, tornando al discorso di poco fa, l’unica eccezione al pagamento del prezzo sembro essere solo io. E non riesco a spiegarmi il perché. Per me le cose sono andate, e continuano ad andare, splendidamente. E non so proprio se me lo merito. Ho sposato Ricky, di lì a poco, e senza bisogno di tanti discorsi lui ha voluto vendere il palazzetto del centro che voleva mettere a posto per noi. Con i soldi (molti) ricavati dalla vendita ci siamo comprati una deliziosa casetta alle porte della città, immersa nel silenzio e nel verde, e devo confessarvi che è sempre molto piacevole, ai primi caldi estivi, svegliarsi ed uscire a piedi nudi sull’erba del prato di casa propria. Prato dove sta scorazzando in questo momento nostra figlia Emma, che non perde occasione per appassionarsi a qualcosa, che sia una lucertola addormentata al sole o i pelucchi che il vento strappa via ai pioppi. Mentre guardo quella piccola copia di me stessa girarsi agitando trionfante un rametto che ha raccolto nell’erba, mi ripeto che è una bella vita, la nostra, senza troppi problemi, per il momento tutti risolvibili, e che sono molto di più i giorni in cui su di noi splende il sole che quelli carichi di nuvole minacciose. E spero che continui molto a lungo, tutto questo, anche se qualche volta il pensiero che la vita non si sia ancora presentata col suo conto da pagare su quello che mi è capitato, piccolo o grande che sia, un po’ mi fa tremare il cuore.




Ci siamo. E’ successo stamattina, mentre spazzavo un po’ di foglie che la brezza della notte aveva accumulato in cortile. Doveva essere stato posato sul muretto che ci divide dalla strada, ma il vento l’ha fatto rotolare nell’angolo che forma col pilastro del portoncino d’ingresso. L’ho visto subito, anche se era nascosto da un balocco di sporcizia. Un piccolo origami, che altro? Un fiore,
un minuscolo tulipano di carta sottile. Eccolo, il prezzo, ho pensato mentre lo rigiravo tra le dita, ma non avvertivo nessuna paura, dentro di me.
Sono pronta, ed ho molte più cose da insegnare sull’amore, adesso.
Ti sto aspettando.

Mauro Marani


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