Convergence

di MarsKingdom
(/viewuser.php?uid=389378)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Occhiali, cappuccio e voce ***
Capitolo 2: *** Scusa ma ti rompo la Nikon ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Il tuo nome mi ucciderà ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Bradicardia, sì, come i bradipi ***
Capitolo 5: *** In America le decisioni vengon fuori dalla doccia ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: scheletri negli armadi, una lunga storia d'amore ***
Capitolo 7: *** Shannon Leto che si improvvisa segretario. Sogno erotico o pura realtà? ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 – L’infermiere sexy e altri racconti ***
Capitolo 9: *** Jared, delfino curioso e altri animali fantastici ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 – A.A.A. Baciatore smarrito cercasi ***
Capitolo 11: *** Quando un Leto è meglio dei poliziotti in bici dei telefilm anni '90 ***
Capitolo 12: *** Aggiungi un posto a casa Leto ***
Capitolo 13: *** Obbligo, verità, o attacco di panico? ***
Capitolo 14: *** La prima notte ***
Capitolo 15: *** L490 ***
Capitolo 16: *** Tu, che sei parte di me ***
Capitolo 17: *** Gli occhi non mentono ***



Capitolo 1
*** Occhiali, cappuccio e voce ***


“Senti, ma questi occhiali non possiamo proprio toglierli?”, dissi da dietro la fotocamera massiccia, appoggiata al cavalletto.
Ormai ero stanca, erano ore che andavo avanti facendo foto a questo tizio che non voleva togliere gli occhiali da sole.
Non avevo ricevuto particolari ordini su come dovevano essere le foto.
Sapevano che ero una professionista nel mio campo e si fidavano ciecamente, anche se ero giovane.
Per un po’ avevo lasciato fare al ragazzo (o uomo, non sapevo bene l’età). Dovevo fotografarlo mentre suonava la batteria in una stanza nera con qualche luce messa ad effetto per catturare al meglio i contrasti e i giochi di luce che scaturivano grazie al bianco e al metallo freddo della strumento.
Ma questo non faceva altro che suonare e sorridere sornione, contando e sussurrando tra se. Non aveva mai tolto gli occhiali o il cappuccio della felpa, e per quanto io potessi spostarmi e trovare nuove angolazioni (compreso salire sullo sgabello e rischiare una commozione cerebrale), dopo due ore avevo esaurito le idee.
Iniziai a pensare che fosse cieco, o che lo avessero picchiato e quindi non potesse mostrarmi gli occhi.
In realtà sembrava aver capito di avermi spazientito, e la cosa lo divertiva molto.
“Bene, abbiamo finito”, dissi infine, stremata.
Più che dalla stanchezza fisica, ero sopraffatta dalla noia. Non si può fermare l’estro artistico di una fotografa con un soggetto così limitato.
E dire che, almeno fisicamente e nelle movenze, era pure fotogenico.
Valli a capire questi musicisti!
“Contatterò io il suo manager per consegnare le foto alla rivista, d’accordo?”, dissi nervosa e spazientita, rigirandomi tra le dita la mia catenina con la triade, quella che non toglievo mai.
Aspettai inutilmente un cenno, una parola, anche un grugnito da parte del tizio.
Sembrava di parlare con un muro.
Iniziai allora a smontare le varie lampade, e a rimettere a posto i numerosi obiettivi utilizzati.
Mentre riponevo piuttosto bruscamente i miei strumenti negli zaini, il ragazzo iniziò a suonare sul serio, non era un semplice tenere il ritmo con la batteria come aveva fatto fino a poco prima.
Era la parte di un brano, una canzone che ebbi la sensazione di conoscere.
Aggrottai la fronte mentre continuavo a riporre i miei oggetti.
Poi qualcosa cambiò, il ragazzo iniziò a cantare con una voce profonda, ma quasi come se cantasse per se stesso.
“Take me, teach me. I want to fall, I want to fall, I want to fall!”
Non poteva essere vero.
Quella era una canzone del gruppo che avevo sempre amato, che tirava fuori la parte più selvaggia e infantile di me.
Ma non poteva essere vero, mi stavo sbagliando.
Avevo avuto un periodo di violento amore platonico soprattutto per uno dei componenti della band. Non poteva essere lui, insomma sì, anche l’altro ragazzo suonava divinamente la batteria ma non cantava.
Rimasi di spalle rispetto al batterista mentre riflettevo.
Poi il ragazzo rise e finalmente parlò.
“Quale altra canzone vuoi che io suoni per avere la certezza? Vorresti Kings & Queens, A Beautiful Lie, oppure sei più una tipa da Hurricane?”, mi disse.
Poi rise.
Quella risata gutturale fu la mia conferma, l’avevo sentita il centinaia di interviste.
E fu la mia rovina.
La fotocamera che avevo in mano mi cadde, e si divise dall’obiettivo fish-eye che stavo cercando inutilmente di smontare.
“Ma porca…”, imprecai.
E abbassandomi per raccoglierlo mi trovai faccia a faccia con il tipo con gli occhiali, che a questo punto aveva un nome: era Shannon Leto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Scusa ma ti rompo la Nikon ***


Sembrava una scena di quei telefilm patetici per adolescenti, dove in un corridoio scolastico alla ragazza cadono i libri, il ragazzo si inginocchia per aiutarla, si sfiorano le mani e sboccia l’amore del secolo.
A me non erano caduti libri, ma una costosissima Nikon, una delle mie quattro “figlie” che usavo per lavoro. Lei era ancora intatta ma non potevo giurare lo stesso per l’obiettivo. Imprecai di nuovo, ma questa volta solo mentalmente.
Lui non mi aiutò a raccogliere nulla, le nostre mani non si sfiorarono.
Semplicemente afferrò la mia collana con la triade e rigirò più volte il ciondolo in mano, tra il confuso e il divertito.
“Perché c’è incisa una S? E’ l’iniziale del tuo nome?”, chiese sfacciato.
Certo, avrei voluto dirgli che l’iniziale di Elinor era proprio una S, ma limitai le battute sarcastiche e mi chiesi come diavolo aveva fatto a vedere la piccola S incisa a caldo, che in realtà si riferiva proprio a lui.
Avevo quella catenina da quando ero loro fan, ormai circa 8 anni. Io ne avevo 25 e avevo passato gli anni più belli della mia adolescenza con la loro musica. Anche se non li seguivo più in una maniera morbosa, dentro di me avevo sempre la consapevolezza di essere un’Echelon, e la collanina era quella parte di me che ancora ci credeva fermamente.
“In realtà era per te”, dissi sinceramente, sfacciata come lo era stato lui.
Lo spiazzai. Non seppe cosa replicare.
“Allora mi conosci!”, disse infine.
“Ti ho riconosciuto solo adesso, solo perché hai suonato Battle Of One
“Echelon di vecchia data?”, chiese facendomi l’occhiolino.
“Echelon di vecchia data e della vecchia scuola”, dissi.
“Bene bene.. ma il mio stile è sempre quello nel suonare, come hai fatto a non riconoscermi prima?”, chiese sinceramente curioso.
Wow, era pure egocentrico.
“Se ti fossi tolto gli occhiali.. Boom! L’avrei capito!” dissi arrossendo.
Quegli occhi.
Quegli occhi che avevo visto centinaia di volte solo in foto, adesso erano lì che mi scrutavano. Anni fa avrei pagato oro per sentirli addosso a me in questo modo, ma ora mi sentivo davvero troppo esposta e troppo sfiancata dalla giornata –alquanto assurda- di lavoro.
“Hai ragione”, convenne semplicemente.
Mi scostai leggermente e continuai a riporre le ultime cose. Quando constatai che l’obiettivo fisheye era davvero rotto e le lenti frantumate sul pavimento, allungai la mano sbuffando per recuperare i pezzi che avrei buttato.
“Non ci pensare nemmeno! Faccio io, potresti tagliarti”, mi disse Shannon spostandomi bruscamente.
Rimasi lì impalata mentre lui raccoglieva i pezzi di vetro con metodo. L’obiettivo in se era intatto, ma le lenti al suo interno completamente andate.
“Dovrei risarcirti, in fondo è colpa mia; ti ho spaventata”, disse osservando meglio l’obiettivo ormai inutilizzabile.
Risi. Probabilmente non sapeva di cosa stava parlando. Quell’obiettivo valeva circa 1500 dollari. Per quanto mi dispiacesse averlo rotto, non mi sarei mai fatta ricomprare un oggetto di valore da uno come Shannon Leto.
Primo, perché fondamentalmente era uno sconosciuto.
Secondo, perché sarei stata già pagata profumatamente dalla sua agenzia.
Terzo, perché non ero del tutto sicura se la fama di Shannon come sciupa femmine fosse fondata o meno. E non volevo rischiare “indebitandomi” in questo modo.
“Lascia perdere”, gli dissi semplicemente.
“E dai, è un fisheye, a focale fissa mi pare di vedere. Conosco un buon rivenditore e te lo posso procurare a meno di 1000 dollari, che metterei di tasca mia comunque”, disse rigirandosi l’obiettivo tra le mani.
Da dove veniva tutta questa cultura?
Probabilmente dovevo avere una faccia a forma di punto interrogativo perché Shannon continuò a parlare.
“Ti sei imbambolata? Ti ho stupito? Guarda che io sono anche un fotografo. L’hanno saputo pure quelli di wikipedia!”, disse ridendo di nuovo.
“Wow.. interessante! Comunque ti ringrazio ma non posso accettare. Al massimo puoi dirmi come contattare il fornitore ma preferirei pagarlo, grazie davvero”, dissi, cercando di mantenere un tono il più professionale possibile.
“Allora che ne dici se invece che mandare le foto al mio agente, vengo a studio da te e le guardiamo insieme? Magari ti do una mano con la post produzione e la grafica”.
Perché tutto questo suonava come un appuntamento?
E perché sebbene il mio cervello gridasse PERICOLO e parole semplici come NO, la risposta che formulai fu tutt’altra?
“Sì, mi farebbe piacere. Avrei davvero bisogno di una mano, visto che il mio assistente è in ferie. Il mio studio fotografico è nell’Arts District, passa pure in settimana”, gli dissi allungandogli un bigliettino da visita stropicciato che avevo in tasca.
E dopo questa avvilente risposta, dovevo trovare un modo per riscattarmi al volo. Così presi le mie cose e, senza dargli il tempo di replicare, mi avviai a grandi passi fuori dall’edificio.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Il tuo nome mi ucciderà ***


Fuori dall’edificio dove si era svolto il set, nel grande traffico pigro di Los Angeles al tramonto, finalmente presi aria.
Non mi ero accorta che avevo trattenuto il fiato per tutto il tempo, da quando aveva iniziato a suonare quella canzone che conoscevo.
Shannon Leto, mio Dio, non potevo crederci.
Se l’avessi raccontato a Matt, il mio coinquilino, non ci avrebbe creduto. E mi avrebbe invidiata a morte.
Sorrisi a me stessa perché sapevo che a breve gli avrei raccontato tutto e la sua reazione sarebbe stata epica.
Presi la metropolitana come di consueto.
Avrei dovuto acquistare un’auto: la metropolitana non era il mezzo più sicuro per me, che ogni giorno facevo avanti e indietro con un minimo di 10.000 dollari di attrezzatura sulle spalle. Ma se non altro era il più comodo e diretto per il tragitto lavoro-casa.
Avrei potuto prendere in considerazione l’acquisto solo nel caso in cui avessi trovato un appartamento con il posto auto. Per adesso, vivendo piuttosto in periferia e in un appartamento non particolarmente lussuoso, dovevo accontentarmi della metro.
In fondo avevo iniziato a lavorare in proprio solo da un paio d’anni e dovevo ancora ammortizzare le spese della scuola di fotografia e degli acquisti che ogni anno il mio lavoro mi obbligava a sostenere, per poter avere delle attrezzature sempre all’avanguardia.
In ogni caso, quell’incontro con Shannon Leto si sarebbe ripetuto a breve: gli avevo lasciato il mio biglietto da visita –con tanto di numero di cellulare- e avevo accettato di buon grado il suo aiuto.
Che poi, lui fotografo? Chi l’avrebbe mai detto?
Ancora in preda a questi pensieri raggiunsi l’appartamento, e uscendo dall’ascensore, sentii dal pianerottolo una squillante risata femminile.
Era Chloe, la ragazza di Matt. Sorrisi tra me mentre infilavo le chiavi nella toppa.
Purtroppo lei stava proprio andando via e si stava sbaciucchiando teneramente con Matt.
“Se andate avanti così dovrò fare le analisi per verificare i livelli di glicemia: non sia mai che mi viene il diabete”, dissi fingendomi disgustata.
Chloe rise di gusto, e Matt la imitò.
“Ciao zucchero”, mi disse lui, mentre la sua ragazza se ne andava giù con l’ascensore.
Feci il gesto di ficcarmi un dito in gola.
“Nauseante” esclamai.
Matt mi lasciò entrare e mi aiutò con le varie borse.
“Non ti pare che pesino un po’ troppo? E poi quante volte ti ho detto di non caricare solo una spalla? Se ti ritrovi a trent’anni con la gobba e la scoliosi, non venirmi a chiamare”, mi rimproverò.
Matt e io eravamo coinquilini da cinque anni ormai, praticamente entrambi dalla fine del college. Eravamo tutti e due nati e cresciuti a Los Angeles, ma non ci eravamo mai visti, se non entrambi davanti al muro degli annunci immobiliari.
Io all’epoca avevo iniziato il corso di fotografia, mentre lui aveva ottenuto una borsa di studio per medicina.
Ecco il motivo del suo assalto a proposito ti postura e salute, e delle mie battute sul diabete.
In realtà, io avevo davvero dei piccoli problemi di salute: carenza di vitamine, ferro e Sali minerali, che se non provvedevo ad assumere con medicine e cibo adeguato, mi provocavano svenimenti improvvisi o addirittura in un futuro non troppo lontano, avrebbero potuto causare gravi problemi a buona parte del mio organismo.
Per il momento Matt mi aveva fatto fare parecchie analisi, notando solo delle aritmie frequenti.
Ma lui seguiva anche la mia alimentazione, per cui il massimo che avevo patito era stato qualche capogiro nei periodi di caldo intenso.
Andai in cucina e presi un vasetto di yogurt.
Matt mi seguì e non disse niente quando vide cosa stavo mangiando.
Era cibo sano e non avrebbe potuto controbattere.
“Non sai chi è ‘enuto oggi allo studio ‘otografico”, dissi con la bocca piena mentre divoravo il vasetto.
“Fammi indovinare… Shannon Leto?”
Evitai di sputare lo yogurt che avevo in bocca ma il risultato fu che mi andò di traverso.
Non sentivo più l’aria passare dal naso e d’istinto mi portai le mani alla gola.
“Elinor! Ti senti bene? Stai andando in arresto? Dammi qualche segno!”, gridò Matt mentre cercava di sentirmi il battito tra collo e polso.
Lo allontanai tra i rantoli e raggiunsi il lavandino dove vomitai ciò che mi impediva di respirare.
Con un grande sospiro, ripresi aria nei polmoni e istintivamente mi portai una mano al cuore come se ci fosse qualcosa di strano.
“Stenditi sul divano e aspettami lì”, mi ordinò Matt.
Alzai gli occhi al cielo ma feci come mi disse.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Bradicardia, sì, come i bradipi ***



Mentre aspettavo stesa Matt, feci l’inventario dei vari fastidi.
La gola mi bruciava per aver appena rimesso il cibo e mi sentivo come se avessi un vuoto nel petto.
Non mi spaventai, avevo Matt con me e sapevo non mi sarebbe successo nulla.
Tornò con la sua borsa nera e sorrisi prendendolo benevolmente in giro.
“Chi abbiamo qua? L’allegro chirurgo?”, dissi.
“Se hai l’indecenza di sfottermi allora non stai tanto male”, rispose sorridendo.
Mi fece togliere la maglia e rimasi in reggiseno. Non mi imbarazzava stare mezza nuda di fronte a lui, ormai mi aveva visitato tante di quelle volte che conosceva il mio corpo meglio di mia madre.
Iniziò con l’auscultarmi il cuore e poi, storcendo il naso, mi misurò la pressione.
Alla fine sbuffai, mi sentivo meglio e volevo rialzarmi.
Si preoccupava troppo, ne ero convinta.
“Ebbene dottore, mi dica: quanto mi rimane da vivere?”, chiesi con un finto tono da telenovelas argentina.
“Che scema El! Scherzi a parte, di nuovo qualche aritmia. Bradicardia questa volta. Se capita di nuovo ti segno altre analisi e forse qualche farmaco. E ti farei visitare da un mio amico che è già laureato”.
Ok, un po’ adesso mi preoccupavo, non volevo aggiungere pure la paura di un infarto ai miei attacchi di panico.
“Non è grave, vero?”, gli chiesi seria.
Matt mi accarezzò i capelli.
“Tranquilla dolcezza, finchè sei con me non ti devi preoccupare di niente”, mi rassicurò.
“Ma dimmi di più: c’era davvero Shannon Leto in studio oggi?”, continuò.
Rimasi stesa ed annuii, per poi raccontargli tutta la giornata.
“Accidenti, adesso ti tocca rivederlo sul serio! Spero per te che la cotta che avevi per lui qualche anno fa adesso sia morta e sepolta”, mi disse ridendo.
“Cremata!”, mentii.
In realtà non avevo mai smesso di provare interesse per quello che era sempre stato più di un idolo, per me. Semplicemente per anni era rimasto sopito, mi ero in qualche modo arresa perché ero anche maturata, avevo avuto relazioni vere con persone reali, e le passioni adolescenziali erano rimaste nel più remoto cassetto del mio cervello.
Ma quell’incontro aveva sconvolto ogni cosa.
Me ne andai in camera mia e per prima cosa volli controllare al volo le condizioni dell’obiettivo: era davvero rotto, irrecuperabile.
Sfiorai i vetrini tra pollice e indice.
E se mi fossi sognata tutto? Non proprio tutto. Shannon Leto era davvero venuto al mio studio per un servizio, questo sì. Le foto ne erano una prova.
Ma se non ci fossimo presentati? Forse mi ero solo immaginata la sua proposta di ricomprarmi l’obiettivo e di aiutarmi con la post produzione.
Forse era una mia fantasia l’interesse che era trapelato dalle sue parole.
No, quei pezzi di vetro che avevo in mano erano la prova che ogni cosa era accaduta.
Doveva essere così.
E allora perché non mi aveva ancora contattato? Lui aveva il coltello dalla parte del manico, o detto più semplicemente, lui aveva il mio numero e io non avevo il suo.
Mi arrabbiai con me stessa.
Non dovevo sperare in questo genere di cose. Primo, perché avevo un lavoro in proprio, finalmente e avrei dovuto concentrarmi anima e corpo su di esso.
Secondo, perché si trattava di Shannon Leto, lo sciupa femmine più celebre di Los Angeles, il quarantenne incallito che usa le donne e poi le convince anche che è bello essere usate per…. Per cosa, poi? Sesso!
‘Probabilmente fantastico sesso’, disse una vocina dentro di me.
Allontanai l’attenzione da quei pensieri deliranti e mi accorsi del sangue che colava sul mio braccio. Piccole gocce stavano cadendo dalle dita.
“Idiota! Sono una deficiente, stupida, idiota”, imprecai tra me.
Presa dai troppi pensieri, mi ero conficcata i vetrini sui polpastrelli di pollice, indice e medio. Della mano destra.
Fantastico!
Scossi la mano e alcuni vetrini caddero con vari tintinnii a terra, sporcando qua e là anche il pavimento.
“Ma tu guarda!”
Andai in bagno e disinfettai quell’opera d’arte, mettendo poi anche dei cerotti a completare il tutto.
Tutte e tre le dita (il cui uso mi era fondamentale per il lavoro che facevo) pulsavano dolorosamente e cercai di non pensare alle eventuali schegge che potevano essere rimaste nella pelle.
E di sicuro questa volta non sarei andata a correre da Matt a farmi medicare.
Mi stesi in camera a meditare, a chiedere al Dio che mi stava guardando, quali altri peccati avrei dovuto scontare e pregai oziosamente il soffitto di cadermi addosso il prima possibile.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** In America le decisioni vengon fuori dalla doccia ***


Breve, anzi brevissimo, capitolo numero 5. Spero che anche questo episodio vi piaccia.
Aggiornerò di nuovo, ma non voglio appesantirvi con capitoli troppo lunghi, anche perchè non ho notato un grande afflusso di lettori fino ad ora. Magari con il tempo aumenteranno; me lo auguro!
Buona lettura.



“Fammi vedere. Che hai fatto alla mano?”, mi chiese Matt mentre gli servivo la cena, come ogni sera.
“Nulla”, dissi frettolosamente ritraendo la mano.
“Sei sicura?”, continuò.
“Si, si tranquillo”, aggiunsi con noncuranza, “è solo un graffio”.
Mi sbrigai a cenare, provando a chiacchierare del più e del meno, e poi tornai svelta in camera sotto lo sguardo inquisitore di Matt.
Avevo un bisogno fisico di riposarmi per affrontare la giornata lavorativa seguente, ma soprattutto volevo mettere a tacere la mente per un po’.
Buttai un occhio sul display del cellulare, che non riportava niente se non le ultime notifiche di Facebook, Twitter e qualche email lavorativa che avrei controllato domani allo studio.
Decisi di fare una doccia veloce, che però si rivelò come al solito un intenso momento meditativo. Peccato che le decisioni che prendevo in quel metro quadrato di vapore, se ne andavano insieme all’acqua e al sapone, giù per il tubo.
Tornai in camera, che era comunicante con il bagno –ne avevamo due in casa- e vidi il cellulare proprio mentre perdeva la sua illuminazione.
Corsi accanto al comodino e lo afferrai.
Una chiamata persa.
Numero sconosciuto.
“Ah, dannazione! Tu, la Nokia, i Windows Phone e quel cane di un Leto”, imprecai scaraventandolo sul letto.
Non l’avrei mai buttato a terra, amavo la tecnologia e piuttosto avrei preso a sprangate il comodino o Shannon Leto, o Shannon Leto con un comodino –l’idea mi attirava- ma un dispositivo tecnologico, mai.
Spensi tutto: pc, cellulare, luce.
Solo il cervello non si decideva a staccare la spina.
Mi sdraiai e feci l’unica cosa che da anni riusciva a farmi dormire.
Ascoltai L490 in loop; era il mio sonnifero collaudato da qualche anno. Da quando avevo deciso che dormire con il mio iPod mi faceva sentire meno sola che condividere il letto con qualche uomo che puntualmente mi spezzava il cuore.
E anche questa volta funzionò.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6: scheletri negli armadi, una lunga storia d'amore ***


Ciao a tutti! Eccomi di nuovo con un capitolo fresco fresco. Spero di poter aggiornare più spesso, ma ho molte cose da fare. In ogni caso, questo capitolo è più lungo dei precedenti quindi vi farà compagnia per più tempo ;)
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Un grande saluto e un grazie a chi mi segue sempre <3



Una bellissima alba di un rosso sbiadito mi svegliò l’indomani, e mi ritrovai piuttosto riposata. A parte la mano destra che aveva perso sensibilità, era di nuovo tutto a posto.
Mi stiracchiai sul letto e sorrisi a quel nuovo giorno, districandomi dal filo dell’auricolare dell’iPod e riacquistando le mie principali facoltà mentali.
Accesi la radio mentre iniziai a lavarmi e vestirmi, per poi precipitarmi in cucina a fare colazione.
Al tavolo trovai Matt e Chloe, che probabilmente aveva dormito da noi.
“Buongiorno”, dissi sorridendo.
“Buongiono Eli! Tutto bene?”, mi chiese Matt, guardando ancora la mia mano.
“Alla grande”, risposi, forse con un po’ troppa enfasi.
“Dai, siediti che ti faccio assaggiare le mie fritelle: nuova ricetta”, disse Chloe.
 
Dopo colazione uscii di casa con il mio solito zaino ingombrante che ero riuscita a riempire e a mettere sulle spalle solo con la mano sinistra.
Mano a mano che mi avvicinavo allo studio, l’aria si faceva sempre più pesante, sia per il traffico mattutino di Los Angeles, sia per il tanto lavoro che sapevo avrei dovuto svolgere –con una mano letteralmente fuori uso-.
Nascosta dietro ai miei occhiali da sole, mi avvicinai alla serranda del mio studio.
A terra, armeggiai con il lucchetto e fu davvero difficile. Tirai su la lastra di metallo con tutte le mie forze, cercando di non perdere l’equilibrio.
“Forse se posassi lo zaino e usassi entrambe le mani, sarebbe più facile”, mi canzonò una voce alle mie spalle.
Mi spaventai e d’istinto lasciai andare la serranda, che precipitò verso il basso.
Lui prontamente allungò una mano e aprì definitivamente.
Ormai anche con gli occhiali scuri, avevo capito che Shannon Leto era riconoscibile e non sarebbe mai passato inosservato. Con i pantaloni larghi infilati negli stivali Dr. Marten’s e una canotta fluo, era allo stesso tempo bizzarro e affascinante.
“Buongiorno”, disse sorridendo.
‘Bastardo’, fu l’unica cosa che riuscii a pensare.
Ma un gentile Buongiorno uscì comunque dalla mia bocca.
Shannon stava lì e continuava a sorridermi, quindi decisi di approfittarne fino in fondo e gli porsi la chiave per aprire la porta a vetri oscurati.
“Già che ci sei”, ammiccai.
Lui obbedì e mentre era di spalle mi adoperai a recuperare lo zaino a terra e poi entrai, seguita da quel bel pezzo di batterista bastardo.
Accesi le luci e l’aria condizionata.
“Mettiti comodo”, gli dissi, mentre mi davo da fare per accendere anche i vari computer, aprivo le persiane e controllavo che nelle altre stanze fosse tutto a posto.
Il mio studio era davvero un gioiellino. Non mi era costato poco, ma meritava ogni dollaro del mutuo che stavo pagando.
Era composto da un grande ambiente in cui ricevevo i clienti e lavoravo alla post produzione quando ero da sola, e sei stanze: due sale posa, uno studio personale con altri computer, una camera oscura dove mi divertivo a sviluppare qualche scatto da sola, un bagno e un ambiente riservato solo ai dipendenti con una piccola cucina, tavolo e divano.
Trascorrevo qui la maggior parte del mio tempo, quindi lo avevo reso il più confortevole possibile.
Le stanze erano tutte molto luminose -tranne la camera oscura, ovviamente- e tutte le pareti erano ricoperte da alcuni dei miei scatti migliori.
Visto che ancora non era l’orario di apertura al pubblico, decisi di mostrare a Shannon tutto lo studio, salvo poi ricordarmi all’ultimo che non era proprio il caso di mostrargli il mio ufficio personale.
“Ehm, e questo è il mio ufficio”, dissi imbarazzata rimanendo davanti alla porta chiusa.
“Bene, fammi vedere”, disse lui sorridendo.
“Oh no, è un tale caos qui dentro. Devo mettere in ordine”, mentii.
“Posso aiutarti io”, disse facendomi l’occhiolino e portando la mano sulla maniglia.
D’istinto coprii la sua mano con la mia e lo guardai in preda al panico.
La porta non era chiusa a chiave, quindi sarebbe potuto comunque entrare. E poi i computer che avevo nel mio ufficio erano i migliori e avremmo dovuto lavorare lì.
Mi feci coraggio e lo lasciai fare, guardando altrove imbarazzata e sull’orlo delle lacrime.
Shannon Leto era l’ultima persona che avrei voluto vedesse il mio studio.
Mi vergognavo come una quindicenne si vergogna della propria cameretta.
“Gesù, cosa sto facendo?”, sussurrai.
Shannon mi guardò preoccupato ma decise comunque di entrare.
Tra meno di un minuto si sarebbe pentito della sua decisione, ne ero sicura.
Accesi la luce e corsi letteralmente via, dato che il telefono stava squillando.
E fu meglio così, non avrei mai voluto vedere la reazione di Shannon alla vista delle pareti di quella stanza letteralmente ricoperte da foto della sua band e in particolare da suoi primi piani.
Tutte fatte da me.
Mi sedetti per rispondere alla telefonata e segnai sull’agenda l’appuntamento che una segretaria isterica stava tentando di fissare per l’agenzia di moda per la quale lavorava.
Dopo esserci accordate, chiusi la conversazione.
Sentii dei passi alle mie spalle e continuai a guardare dritto davanti a me.
Abbassai la testa sulla scrivania.
‘Dio, perché deve essere così umiliante?’
“Direi che è stato un piacere conoscerti, avrai degli impegni adesso immagino”, dissi balbettando.
“Elinor, io… wow, non so come dirtelo ma.. mi sento davvero lusingato. E imbarazzato anche…”, disse piano Shannon.
Mi voltai stupita e lo vidi lì, in piedi, un po’ gobbo che si passava una mano tra i capelli e cercava di sorridermi.
“Oh Shannon, scusami, non avresti mai dovuto vedere lo studio, le toglierò, toglierò tutto, te lo prometto. A volte dimentico di essere una fotografa invadente”, dissi tutto d’un fiato.
“Non mi hai fatto finire di parlare. Sono anche imbarazzato, ma devo ammettere che hai del talento. Le foto sono stupende, e forse non dovrei dirlo perché io sono uno dei soggetti ritratti, ma sul serio, sono magnifiche. È come se…”
Aspettai che terminasse questa volta.
“..come se avessero vita propria, comunicano dei sentimenti, trasmettono qualcosa. Direi ammirazione, affetto, ma forse mi sbaglio, non ti conosco”, concluse scrollando le spalle.
Oddio, quell’uomo mi aveva capita. Solo attraverso le mie foto potevo esprimere quello che avevo dentro e per me quei complimenti rappresentavano una conferma del percorso che avevo intrapreso. Ed era Shannon, una persona che tenevo sempre molto in considerazione, anche se lui non sapeva della mia esistenza. O almeno, fino a qualche giorno prima era stato così.
Sentii qualcosa rallentare, e iniziai a respirare profondamente.
Dopo quelle parole, una persona normale avrebbe avuto un po’ di tachicardia.
“Elinor, ti senti bene?”, disse Shannon. “Sei pallida”.
La mia testa girava molto lentamente.
Faticavo a respirare.
Ogni immagine che percepivo era circondata da un contorno nero che andava espandendosi e la voce di Shannon era sempre più felibile.
Poi il nero mi inghiottì.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Shannon Leto che si improvvisa segretario. Sogno erotico o pura realtà? ***


Finalmente riesco ad aggiornare anche questa fanfiction! :D Spero vi piaccia il nuovo capitolo, e come al solito sono contenta se lasciate una recensione così che io possa capire se continuare oppure no.
Grazie mille e buona lettura a tutti! <3




Mi risvegliai –non so bene quanto tempo dopo- sul divano della cucina del mio studio.
Con Matt al mio fianco.
“Eli! Che mi combini dolcezza?”, mi chiese accarezzandomi i capelli.
“Hei Matt… non lo so, dimmelo tu”, sorrisi debolmente.
“Lo sapremo nel tardo pomeriggio”, disse mostrandomi una fiala con del sangue.
Istintivamente mi guardai le braccia e notai che il destro aveva ancora il laccio emostatico. Probabilmente Matt mi aveva appena fatto un prelievo, visto che indossava ancora i guanti di lattice.
Feci un respiro profondo, non senza difficoltà, mentre Matt mi osservava attentamente.
Poi il suo cellulare squillò. Rispose, era richiesto all’ospedale universitario e non poteva proprio rimandare.
Mi guardò triste.
“Sto molto meglio, non ti preoccupare, puoi andare”
“Ti lascio questo ricostituente generico: non sappiamo ancora per cosa sei svenuta, ma ti ho già fatto un’iniezione di questo farmaco e ti sei ripresa. Fattene fare una tra un’ora, e un’altra oggi pomeriggio. Sta sera a casa ci penserò io, anche sulla base dei risultati delle analisi. Le porto subito in laboratorio, già che ci sono”, disse pragmatico.
“Perfetto, grazie mille”, gli dissi guardandolo vagamente scettica.
Mentre lui usciva dalla porta io mi misi a sedere.
Sciolsi il laccio emostatico e massaggiai il braccio.
Iniziai a ripulire velocemente il tavolino che Matt aveva usato per riporre l’alcool, i cerotti, le bende e la siringa. Lasciai solo il farmaco che più tardi avrei dovuto iniettarmi.
Solo in quel momento compresi che non ero in grado di farlo da sola.
Al diavolo! Sarei andata allo studio di tattoo di fronte, della mia amica Kat: in fondo con gli aghi ci sapeva fare, no?
Sbuffai e andai verso il frigorifero per bere un po’ d’acqua.
Notai però la brocca del caffè americano; era stato fatto da poco –forse da Matt stesso?- ed emanava ancora un intenso profumo.
Cercai una tazza e me ne versai un po’.
In quel momento si spalancò la porta.
‘Porca puttana! Shannon Leto’, gridai mentalmente.
Iniziai a ricordare la parte precedente della giornata, mentre lui mi veniva in contro a grandi passi.
“Ah-ah, ti ho beccata. Niente caffeina per te”, mi ammonì togliendomi la tazza di mano e iniziando a sorseggiare la bevanda al posto mio.
Lo guardai imbronciata.
“Hei, non guardarmi così, ho ricevuto precisi ordini!”, disse serio, e poi uscì dalla stanza.
Chissà dove diavolo stava andando.
Fissai la porta ancora per qualche minuto, come ipnotizzata, poi scrollai la testa e andai in bagno per rinfrescarmi.
Un campanellino nel mio cervello mi ricordò in fine che ero nel mio studio e che era un giorno lavorativo, ergo avrei dovuto lavorare.
Andai verso la scrivania di fronte all’entrata e rimasi pietrificata: Shannon era seduto, con il telefono in mano e stava accuratamente segnando qualcosa sulla mia agenda.
“Grazie a lei, riferirò alla signorina Elinor Newton il suo messaggio, ma sono convinto che sia tutto a posto”, disse, per poi riattaccare.
Non appena mi vide, si alzò e mi venne in contro con l’agenda in mano.
“Ha richiamato l’atelier per quel servizio sullo stile rockabilly: chiedono se hai tu una modella disponibile e le moto come avevano chiesto. Gli ho detto che li avresti richiamati”, disse in tono asciutto, mostrandomi l’appunto che aveva preso sull’agenda.
Lo guardai senza battere ciglio.
“Aspetta, aspetta. Che cosa stai facendo?”, gli chiesi nervosa.
“Ti sto dando una mano”, rispose lui allargando le braccia, come se fosse una cosa ovvia.
“Oh cielo, non crearmi più confusione di quella che c’è già in questo inferno”, dissi, più che altro rivolta a me stessa.
Stavo andando in panico. Iniziai a gironzolare per la stanza con le mani tra i capelli, cercando di raccogliere le idee e decidere cosa fare.
Le sue mani mi afferrarono per la vita.
Cercai di divincolarmi ma lui non me lo permise.
“Calma, stai calma Elinor”, mi sussurrò.
Allora chiusi gli occhi e assaporai la dolce sensazione di essere letteralmente tra le mani di qualcun altro. La mia schiena aderiva al suo torace e con un respiro profondo mi liberai di tutto lo stress accumulato.
“Brava, così va molto bene. Rilassati”, continuò.
Sbaglio o adesso la sua voce aveva un non so che di erotico?
Decisi che era meglio lasciar perdere.
Scrollai le spalle e iniziai sul serio a lavorare, aiutata da Shannon che si rivelò un valido sostituto di Ridley.
All’orario stabilito, Shannon si offrì di iniettarmi il farmaco: in realtà Matt l’aveva lasciato detto proprio a lui. Lo lasciai fare e mi sorprese: era bravo anche in quello.
“Come mai sei bravo a fare praticamente tutto?”, gli chiesi sorridendo.
Mentre mi tamponava il braccio con un batuffolo di cotone, si fermò a guardarmi. Mi sembrò valutare un’opzione a me sconosciuta.
Poi sospirò.
“Quello per le iniezioni non è un talento di cui vado fiero. Quando ero molto giovane…io… ho avuto dei problemi con la droga”, disse imbarazzato. “Ma adesso sono pulito!”, giurò con enfasi fissandomi negli occhi.
Quello sguardo mi commosse. Sembrava un bambino che non chiedeva altro che affetto. Due occhi scuri, innocenti e in fondo così chiari, di facile lettura.
Dopo un momento interminabile, focalizzò di nuovo l’attenzione sul mio braccio e cercò un cerotto.
“E poi non è vero che sono un genio in tutto: ad esempio non sono per niente bravo a corteggiare le brave ragazze”, aggiunse.
“Ah questa è bella! Ma sei famoso per essere un latin lover… sia a L.A. che fuori, credimi!”, dissi sorridendo.
“Che le porto tutte a letto, è vero, ma con quelle poche per cui varrebbe la pena impegnarsi un po’ di più, sono una frana”
Suonava come un avvertimento.
“Basta applicarsi”, gli dissi.
Aveva finalmente terminato. Mi accarezzò il braccio sorridendomi e poi tornammo a lavorare fino all’orario di chiusura.
Matt gli aveva chiesto di riportarmi anche a casa.
Dio, poteva essere più imbarazzante?

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 – L’infermiere sexy e altri racconti ***


Salve a tutti! Finalmente (o purtroppo, dipende da voi) sono tornata e sono riuscita a scrivere un altro capitolo della storia. Spero vi piaccia; ho cercato di mettercela tutta e di trovare tempo tra i vari impegni (lo studio, argh!). Ma quello della scrittura, a fine giornata, è uno degli ultimi piaceri che mi rimangono. Perciò, spero in giornate grigie di pioggia per poter continuare la storia.
Buona lettura!



Sotto casa mia, nel suv nero di Shannon, iniziai a formulare una frase per salutarlo.
Ero profondamente in imbarazzo.
“Ehm, allora Shannon, grazie di tutto”, dissi fissandomi le scarpe.
“Preferirei accertarmi che tu arrivi sana e salva fin nel tuo appartamento, se non ti dispiace. E poi hai tutta l’attrezzatura da prendere”, disse indicando con il pollice il portabagagli.
Con un sorriso teso, scesi dalla macchina e lasciai che mi accompagnasse fin dentro casa.
Matt stava preparando qualcosa da mangiare, perché era intento a rovesciare le scatolette di un take away dentro ad un piatto per rendere il cibo più presentabile.
Sorrisi.                                                     
“Sono a casa. E c’è anche Shannon”, aggiunsi, mentre la volontà di sotterrarmi era sempre più forte.
Matt sorrise guardandoci, si pulì le mani e ci venne in contro.
Si scambiò uno strano saluto con Shannon, quelle cose da uomini con vari gesti delle mani.
“Hei amico!”, rispose entusiasta Shannon.
Avrei giurato che Matt stesse scodinzolando.
Mentre loro parlavano, io cercai un oggetto nella stanza con cui mimetizzarmi per sparire dalla vista di quei due.
“L’accompagno in camera”, disse infine Shannon, indicandomi.
“Sì, prego. Guarda, è in fondo al corridoio, sulla destra”, rispose gentile Matt.
Ma sì, Matt, consegnami pure nelle fauci del leone!
Io, Shannon Leto e una camera da letto.
Il trinomio perfetto.
Afferrò il mio zaino e lasciò che lo guidassi fino alla mia stanza.
Quando fummo dentro, posò lo zaino in terra e io mi sedetti sul letto.
Lui chiuse la porta.
“Hai bisogno d’aiuto per qualcosa?”, mi chiese.
Lo guardai. Sembrava così normale. Un ragazzo, o meglio, un uomo semplice. Non sembrava per nulla una star mondiale. Gli sorrisi, intrecciandomi le mani in grembo.
“No, grazie”
“Che hai fatto alla mano?”, chiese allarmato.
Ma prima che potessi nascondere o tergiversare, mi aveva già raggiunto e stava togliendo i cerotti.
Mi guardò.
Aveva capito che c’erano pezzi di vetro, il vetro dell’obiettivo.
“Forza, pinzette e disinfettante se non vuoi giocarti la mano”, disse.
“Che cosa? No, no ti prego. Si stanno rimarginando i tagli”
“Sì, con il vetro dentro. Muoviti. Anzi, no, li chiedo a Matt”.
E sparì per poi tornare poco dopo con un kit ancora più accessoriato, che comprendeva anche un bisturi.
Stavo tremando.
“Aspetta un momento: la sai usare questa roba?”, gli chiesi in preda al panico.
Mi toccò con forza una spalla e guardandomi negli occhi mi tranquillizzò. Poi lo seguii alla scrivania e iniziò quella tortura.
 
“Non guardare la mano, guarda me e parlami”, mi disse, mentre facevo del mio meglio per non prestare attenzione all’odore del disinfettante.
“Come hai fatto ad imparare tutte queste cose?”, gli chiesi, per distrarmi.
“Io e Jared siamo cresciuti praticamente da soli, è utile saper fare qualche intervento di primo soccorso. E poi essendo sempre in giro con la band, può capitare”.
Nel rispondermi non mi guardò in viso: operava meticolosamente sulla mia mano. Si era fatto dare anche i guanti di lattice da Matt.
“Te com’è che invece ti metti sempre nei guai?”, mi chiese.
Sorrisi imbarazzata.
“Sono un po’ sfigata in fatto di salute”, risposi. E poi azzardai: “Però per i vetri è stato merito tuo”, dissi arrossendo.
Si fermò con l’ultimo pezzo di vetro insanguinato, a mezz’aria e mi guardò preoccupato.
“Che ho fatto?”, chiese mesto.
Pensavo l’avrebbe presa più alla leggera, così mi trovai a tergiversare.
“No, no sono io che stavo pensando troppo all’obiettivo rotto e avevo i vetri in mano. L’ho stretti un po’ troppo ed ecco cosa è successo”, spiegai in fretta.
Si fece silenzioso mentre mi spalmava la crema cicatrizzante e la massaggiava con cura.
Ero contenta in fondo che si prendesse cura di me, anche se questo mi faceva sentire stranamente indifesa e non ero sicura di quanto in realtà mi sarei potuta fidare di Shannon.
Sapevo come si comportava con le donne (e alla maggior parte andava bene così), ma sapevo anche come ero io: fondamentalmente gelosa, avevo la tendenza ad affezionarmi troppo e subito. E forse stava già accadendo.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Jared, delfino curioso e altri animali fantastici ***


Salve a tutti! Lo so, è da parecchio che non aggiorno, ma finalmente ci sono riuscita e spero di farmi perdonare con questo nuovo capitolo più lungo del solito. Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate: i commenti sono sempre ben accetti e soprattutto servono per motivarmi, per aiutarmi a proseguire la storia. Grazie e buona lettura :D


L’indomani mi recai al lavoro prima del solito. Dovevo controllare gli ultimi appuntamenti presi da Shannon e proseguire con i vari servizi. Non ce l’avrei fatta da sola. Mi appuntai mentalmente di minacciare Ridley di morte; magari poi si sarebbe degnato di venire allo studio a darmi una mano.
A proposito di mano, avevo appreso da Matt quella stessa mattina, che era più che normale che durante la notte si fosse gonfiata come un guanto di lattice pieno d’aria.
Trovai la notizia confortante e pensai che la giornata fosse appena iniziata nel migliore dei modi.
Per questo non mi stupii quando vidi che la linea della metropolitana che avrebbe dovuto portarmi fino all’Art District, era in manutenzione.
Così mi avviai a piedi sotto il sole, maledicendo le varie entità divine che stavano collaborando per rendere la mia vita un meraviglioso inferno.
Quando finalmente entrai nello studio e iniziai a lavorare, mi resi conto che non riuscivo a fare granchè. La mano destra per il momento sembrava fuori uso, e Ridley era praticamente sparito.
Ero molto agitata perché nel pomeriggio avrei dovuto lavorare al servizio sulle moto con le pin up, in un set allestito alla periferia di Los Angeles.
Mi sarebbe servito sicuramente un assistente, e magari anche una mano funzionante.
Mentre mi disperavo, cercando tra i contatti qualche vecchio compagno della scuola di fotografia da poter contattare per un favore, la porta dello studio si aprì ed entrò Shannon insieme ad un’altra persona.
“Ciao Elinor! Guarda chi ti ho portato!”, mi salutò entusiasta Shannon.
Alzai gli occhi al cielo e mi sporsi un poco per vedere meglio quella figura che si aggirava curiosa nel mio studio. Stava osservando le pareti, scrutava le foto come se fosse in un museo. Era alquanto maleducato, non si era degnato nemmeno di un saluto.
Ma come se avesse sentito i miei pensieri, si voltò di scatto.
“Oh, certo, che sbadato. Ciao, io sono Jared, suo fratello”, mi disse indicando Shannon.
Arretrai di numerosi passi, inciampando in qualche cavo dei computer e cercai di reprimere le lacrime che mi stavano riempiendo gli occhi.
Jared si avvicinò tendendo la mano per una stretta amichevole e togliendosi gli occhiali da sole; io mi limitai a nascondere la mia mano destra e a fargli un cenno con la sinistra, senza toccarlo.
Sorrisi da ebete.
Lui alzò le spalle e guardandomi con la testa inclinata, mi sorrise.
Sembrava lo stregatto di “Alice nel paese delle meraviglie”, l’effetto aumentato anche dai suoi occhi azzurri come il ghiaccio.
Non volevo presentarmi come la fotografa infortunata buona a nulla e per di più imbarazzata alla vista del suo idolo adolescenziale.
Ma in realtà era proprio quello che stava accadendo.
Cercai di recuperare un briciolo di lucidità.
“Che piacere avervi qui, ragazzi! Cosa posso fare per voi?”, dissi in tono professionale.
“Oh, andiamo Elinor, non fingere di non avere davanti a te uno dei tuoi sogni proibiti. O entrambi”, disse Shannon ammiccando.
La mia faccia avvampò di imbarazzo e all’improvviso sentii un caldo bestiale. Immaginai che il mio viso fosse diventato color peperone e mi passai la mano sulla fronte, nervosamente.
“Mano!”, disse Shannon arrabbiato, avvicinandosi.
Le nascosi entrambe dietro la schiena, mentre Jared, ignorandoci, continuava a guardare le pareti, come in un mondo tutto suo.
“Come?”, chiesi perplessa.
“Fammi vedere la mano. Ora!”, ordinò.
Nel vano tentativo di poterlo ingannare, gli mostrai la sinistra ma non abboccò.
“Mi stai prendendo in girò? L’altra!”
E così mostrai a Shannon quella strana cosa gonfia che si trovava al posto della mia mano e feci in modo di non toccarlo.
Ma lui afferrò lo stesso il mio braccio e tastando la mano mi fece male.
“Ai, mi fa male, ti prego lascia perdere”, dissi ritirando la mano.
“Che bel casino, fortuna che ieri mi sono accorto dei pezzi di vetro, altrimenti ti saresti giocata la mano per sempre”
“Non esagerare”
“E’ la verità. Adesso, tempo qualche giorno, e sarai di nuovo pronta a lavorare”, concluse con un sorriso.
Dopo qualche secondo si rese conto però di qualcosa; vidi un’ombra scura passare sul suo viso.
“Aspetta: oggi c’è il servizio anni ’50 con le moto e le pin up. Come farai?”, mi chiese preoccupato.
“Ti sbagli, non è oggi. È… la settimana prossima”, dissi, tentando di arrampicarmi sugli specchi.
Con una leggera spinta, Shannon mi spostò da una parte e senza degnarmi di uno sguardo, andò a leggere i vari impegni sull’agenda.
Oramai aveva familiarizzato con il posto; forse anche troppo.
“Alle 14 a Edendale. Direi che vengo con te”, decise.
“No, Shannon, ti prego, non posso chiederti questo”, lo supplicai.
“Non me lo stai chiedendo, mi sto offrendo di mia spontanea volontà”, sorrise felice.
Decisi di lasciar perdere. In fondo non avevo trovato nessun altro; sperai solo che fosse consapevole di ciò che stava facendo. Non sapevo quanto fosse bravo, in realtà, mi fidai solamente del mio istinto e del fatto che almeno aveva più anni di esperienza di me.
Mentre Shannon mi fissava sornione dalla scrivania, mi girai per cercare Jared con lo sguardo.
Non c’era più.
Confusa, guardai verso l’altra parte dello studio, avevo lasciato la porta del mio ufficio pericolosamente aperta.
E mentre nella mia testa recitavo come un mantra la frase “Fa’ che non sia lì dentro, fa’ che non sia lì dentro”, lo vidi uscire proprio da quella stanza. Con un enorme sorriso soddisfatto.
“Shannon, è fatta. Avevi ragione: è il tipo di talento che ci serve”
“Oh no!”, mi lamentai con la testa fra le mani.
“Jared, ti avevo detto di non andare in giro a curiosare”, lo rimproverò il fratello.
“Non essere bacchettone. Quello studio è un vero e proprio mausoleo della nostra band”, rispose Jared.
Io? Il talento che gli serve? Per cosa?
D’un tratto queste tre domande mi ronzarono in testa, facendomi dimenticare (solo per poco) l’imbarazzo appena provato.
“Non saresti dovuto entrare, è il suo studio privato”, replicò serio Shannon, in mia difesa.
Lo guardai con immensa gratitudine, mentre mi cingeva le spalle con un braccio, offrendomi supporto.
“Fratellone, l’ho capito. C’è del tenero tra voi, non mi intrometterò in questo”, promise Jared sorridendo.
“Cosa? No! Noi.. non”, iniziai a balbettare, staccandomi da Shannon.
Lui non disse niente, rimase lì in imbarazzo.
Dunque non negava. Oppure semplicemente non gli importava nemmeno di negare. La mia immaginazione correva troppo. Tra me e Shannon non stava nascendo niente, dovevo mettermelo bene in testa, visto che ormai il cuore era sempre più convinto del contrario.
In preda alla tachicardia, raggiunsi il divanetto della zona di attesa e mi sedetti, subito seguita da uno Shannon preoccupato (e fin troppo premuroso).
Percepivo solo i contorni di ciò che vedevo, segno che sarei svenuta a breve.
“Jared, muoviti, prendi acqua e zucchero in cucina”, disse Shannon.
Mi ritrovai poco dopo a bere dal bicchiere sostenuto da Shannon e riacquistai lucidità.
“Dunque, a cos’è che vi servo precisamente?”, dissi senza mezzi termini.
Con questa domanda scoprii che Jared, a differenza del fratello, amava dare risposte dirette e sincere nei momenti e nei modi meno opportuni.
Fu lui infatti a rispondermi.
“Oh, dovresti solo essere la fotografa ufficiale per il booklet e le foto promozionali del nostro nuovo album, tesoro”.
Dopo averlo ascoltato con serietà, la linea dura delle mie labbra si sciolse in una grandiosa e catartica risata; era probabilmente la frase più assurda che avessi mai sentito in tutta la mia brevissima carriera.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 – A.A.A. Baciatore smarrito cercasi ***


Buonasera! Capitolo cortino, lo ammetto, ma essenziale e cruciale per lo svolgimento della vicenda :D Spero vi piaccia. E come si dice sempre, non conta la lunghezza ma il contenuto ;) Fatemi sapere cosa ne pensate! BYE!


“Allora Shannon, che scuola di fotografia hai frequentato?”, chiesi, per poter fare un minimo di conversazione.
Eravamo di nuovo all’interno del suo suv, questa volta diretti a Edendale.
Lui si voltò divertito.
“Non ho frequentato nessuna scuola. È stata mia madre ad insegnarmi tutto fin da quando avevo 8 anni”.
Sorrisi al pensiero di un piccolo Shannon con in mano una fotocamera più grande di lui, ma subito mi augurai che sua madre gli avesse insegnato davvero qualcosa. In fondo il nome di Constance Leto era piuttosto conosciuto tra i fotografi di Los Angeles, seppure la donna non fosse più professionalmente attiva come un tempo.
Arrivati finalmente al luogo del servizio, mi resi conto che Shannon sapeva esattamente cosa fare. Si muoveva con agilità tra tutte le figure presenti: make up artist, modelle, addetti alle luci e agli effetti. Ascoltava le mie direttive perché in fondo ero io a gestire il servizio, ma mi accorsi che sceglieva anche gli strumenti e le ottiche giusti.
Sapeva essere anche spiritoso nei momenti di pausa e aveva una parola buona per tutti, perfino per i tecnici più sconosciuti. Infine si rivelò un buon compagno di lavorò e a fine giornata tornammo nel mio studio per rivedere qualche scatto.
Mi accorsi dell’ora tarda solo quando guardai fuori dalla porta-finestra e vidi che non passavano più molte macchine. Erano già le dieci di sera, poca gente trafficava quella zona dell’Art District. Lo feci notare a Shannon.
“Non ci credo! Ma il tempo è volato”, disse con un gran sorriso.
“Peccato, mi stavo davvero divertendo. Sto bene con te”, aggiunse, guardandomi dritto in faccia.
Io arrossii. Avrei desiderato fare tante cose in quel momento, e andare via non era una di queste.
Lui si avvicinò con la sedia e mi sfiorò un ginocchio, stando bene attento a mantenere il contatto visivo.
“Se hai bisogno di me anche domani, non esitare a chiamarmi”.
La sua voce si era fatta suadente, e la sua mano più audace.
Io avrei dovuto dire qualcosa, alzarmi, andarmene.
Invece tutto il mio corpo era proteso verso il suo e i nostri volti erano sempre più vicini.
Annuii in ritardo alla sua offerta e poi, contro ogni aspettativa e contro ogni mio principio, fui io quella ad annullare la distanza e a posare la mia bocca sulla sua.
Fu come innescare una reazione a catena, l’effetto domino.
Shannon esplose in un impeto di passione e rispose al bacio con enfasi, continuando a toccarmi. Io lo lasciai fare, per nulla infastidita, anche quando mi portò a cavalcioni sopra di lui.
Ci baciavamo da coppia di attori consumati, con una passione mai provata, come se avessimo nascosto questo per tanto tempo. E forse in fondo era così.
Si alzò in piedi trascinandomi con lui e mi posò sulla scrivania.
Gli allacciai le mie gambe in vita e continuammo quella danza lussuriosa fino a quando la sua mano si insinuò sotto la mia maglia, per sganciarmi il reggiseno.
A quel punto decisi che stavamo oltrepassando il limite.
Lo fermai titubante e lui mi guardò preoccupato. Scosse la testa e come il peggiore dei ladri se ne andò così, di punto in bianco, borbottando qualche scusa.
Io rimasi lì, sulla scrivania, il cuore aperto in due come su un tavolo operatorio.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Quando un Leto è meglio dei poliziotti in bici dei telefilm anni '90 ***


Nuovo capitolo! Lasciatemi qualche parere perchè ho davvero bisogno di sapere cosa ne pensate. C'mon! ;)
Adesso vi lascio a questo nuovo capitolo piuttosto lungo.
Buona lettura.



I momenti successivi a quell’istante di passione non del tutto consumata, li vissi come un automa. Recuperai tutti i miei effetti personali e tornai a casa, dove un incredulo Matt ascoltò senza commentare il mio resoconto (con alcuni particolari ovviamente omessi).
Passai tutta la notte distesa nel buio, con gli occhi spalancati verso il soffitto, in cerca di risposte a domande che nemmeno mi ero posta.
Una questione però iniziava a girarmi in testa: perché se ne era andato di punto in bianco, quando era chiaro che entrambi eravamo presi dalla situazione?
Alla calma piatta e all’immobilità, seguì la disperazione.
Così nelle primissime ore del mattino mi ritrovai a piangere disperatamente.
Mi aveva lasciato lì nel mio studio perché lo avevo fermato, perché non mi ero concessa a lui. Ne ero matematicamente certa. Ma non mi sarei mai lasciata andare con nessuno se non fossi stata certa che ci fossero dei sentimenti di mezzo.
Quando riuscii finalmente ad addormentarmi era già mattina e così decisi di non aprire lo studio, prendendomi la libertà di un giorno di riposo senza avvertire nessuno.
Di solito mi alzavo alle 6 per andare al lavoro, e anche se quel giorno avevo optato per il riposo, alle 6.30 la parte di me che aveva un gran senso del dovere, decise che non potevo più rimanere nel letto ad oziare. In più sentivo un grande impulso artistico, una voglia di fotografare che ultimamente di rado mi capitava.
Amavo il mio lavoro, era la mia vocazione. Ma per la gran parte del tempo erano lavori su commissione, che lasciavano poco spazio alla mia ispirazione.
Così presi una mia vecchia Nikon a rullino che non usavo mai al lavoro, riempii una piccola sacca con un telo e qualcosa da mangiare, e uscii di casa.
Avrei preso il primo pullman che mi avrebbe portato in un posto di mare.
 
Arrivai dopo mezz’ora circa a Venice Beach, ancora poco affollata, e illuminata dalle chiare luci del mattino.
Il sole ancora non picchiava, la temperatura era gradevole seppure più bassa di qualche grado. L’autunno era alle porte.
Attraversai il lungo viale con le palme e mi diressi verso l’infinita distesa di sabbia e acqua, dove ancora si potevano notare le impronte lasciate dai gabbiani sulla sabbia.
Posai il telo vicino alla riva e mi fermai a contemplare il paesaggio.
Ero pervasa da una calma, una tranquillità rilassante e subito mi resi conto che era ciò di cui avevo bisogno.
Mi serviva un momento per riflettere.
La mia vita fino a quel momento era sempre stata tranquilla. Mi ero impegnata nello studio e nel lavoro, avevo evitato le relazioni con il sesso opposto a causa di un trauma vissuto da piccola.
Quando a 12 anni il tuo insegnante cerca di molestare te e una tua compagna, ti rimane impresso. Soprattutto quando ancora non sai nemmeno il significato di quelle cose, non comprendi perché le persone ti fanno del male.
Ma in questa mia nuova vita autonoma, l’arrivo di Shannon era stato una novità assoluta.
Ero elettrizzata, ma anche spaventata.
Dal punto di vista sentimentale avevo meno esperienze di un’adolescente.
Questo comunque non spiegava la sua reazione. Non avrei mai fatto sesso con lui nel mio studio, se è questo che aveva pensato. E ora probabilmente, non l’avrei nemmeno più rivisto.
E a questo pensiero il mio cuore sussultò, perché forse era la prima vera volta che mi lasciavo andare, che mi fidavo davvero di qualcuno. Forse perché ero convinta di conoscerlo da una vita, con tutti i concerti che avevo visto, forse perché la sua età me lo rendeva automaticamente una persona di cui potersi fidare.
Probabilmente non l’avrei mai saputo, mi bastava sapere che quando ero insieme a lui, mi sentivo un po’ più me stessa, anche se ero convinta che tutta questa storia non avrebbe mai avuto un fine. Lui, don Giovanni dichiarato, non avrebbe mai avuto né la pazienza, né la curiosità, di stare dietro ad un rottame umano di sentimenti come me.
E così puntai il mio obiettivo verso il mare e i primi surfisti che stavano arrivando, e lasciai che l’ispirazione si impadronisse di me, per una mattina soltanto.
 
Mi ritrovai verso mezzogiorno a scattare foto da lontano ad un ragazzo che giocava a freesbee con il cane. Una scenetta davvero divertente, oltretutto perché il ragazzo sembrava molto bello e aveva una strana aria familiare.
Dopo qualche scatto posai la fotocamera sul telo e mi limitai ad osservare. C’era qualcosa di troppo strano. Ripresi la fotocamera e, sfruttando lo zoom dell’obiettivo, avvicinai l’immagine del tizio.
“Oh merda”, borbottai.
A quanto pare, il mio subconscio era più sospettoso di me, e aveva ragione. Perché quel ragazzo con i bermuda e la felpa senza maniche non era altri che Shannon Leto.
Come avevo fatto a non pensarci prima? Con tutte le informazioni che sapevo sui 30 Seconds To Mars, avrei dovuto ricordarmi che Venice Beach fosse il suo territorio di caccia.
O forse ero convinta che si limitasse ai locali notturni.
In ogni caso, vedendo che era lontano qualche metro da me, e impegnato con il piccolo cane, decisi di riprendere le mie cose e andarmene silenziosamente.
Mentre stavo per appoggiare la borsa sulla spalla, mi sentii afferrare il braccio.
“Hei bella, me la fai una foto?”
Quattro ragazzi di diversa stazza mi avevano accerchiata e uno di loro aveva iniziato a toccarmi.
Inizialmente provai sconcerto, per queste avance in pieno giorno, poi iniziai a percepire il pericolo della situazione, dato che non c’era nessun altro nei dintorni.
Balbettai qualcosa per allontanarli, ma loro risero e si avvicinarono ancora di più, palpeggiando dove le loro mani viscide riuscivano ad arrivare.
“Per favore, andate via, vi prego. Non dirò niente a nessuno ma andate”, li supplicai.
Loro risero, per nulla spaventati o impietositi.
Mi accucciai a terra, con le mani sulle orecchie, come facevo da bambina quando il mio maestro mi diceva frasi oscene.
Chiusi gli occhi e pregai che, qualsiasi cosa sarebbe successa, fosse almeno indolore o breve.
Ma d’un tratto vidi due di loro cadere a terra e poi darsela a gambe; lo sguardo inorridito sui loro volti.
Perplessa alzai la testa, ancora incapace di muovermi in modo fluido.
Vidi Shannon che si massaggiava le mani e guardava quei quattro sparire verso la strada. Poi, come se si fosse ricordato all’improvviso qualcosa di importante, abbassò lo sguardo e si accovaccio vicino a me.
“Elinor, Dio mio, è tutto a posto?”, mi chiese preoccupato.
Continuavo a fissarlo con le mani sulla testa, in posizione fetale.
Lui allungò una mano e il mio battito accelerò vorticosamente.
“Ti prego, non mi toccare!”, lo implorai.
Iniziai a tremare e a dondolarmi per placare l’attacco di panico imminente.
Shannon era chiaramente in difficoltà, ma non si allontanò.
“Se c’è una cosa che ho imparato fino ad ora con te, è di non darti retta”, disse.
E con questa frase si allungò verso di me; con fare delicato ma deciso, mi sollevò, appoggiandomi sulle sue gambe e mi strinse in un caldo abbraccio, cullandomi e accarezzandomi i capelli.
Sulle prime rimasi rigida, ma fu allora che scoppiai in un pianto liberatorio e mi aggrappai a lui con tutte le mie forse.
Pregai tutti gli dèi che conoscevo, di qualsiasi religione, perché in quel momento mi avevano mandato un angelo custode degno di questo nome.
Tutte le altre questioni in sospeso, erano passate in secondo piano, sotto la sabbia umida che ci stava cullando entrambi; oltre la brezza dell’oceano.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Aggiungi un posto a casa Leto ***


Ciao a tutti quelli che seguono questa fanfiction! :) Finalmente riesco ad aggiornare, tra una fetta di panettone e l'altra, LOL.
Buona lettura e, con l'occasione, vi faccio anche i miei più cari auguri per queste feste ormai prossime alla fine.


“Ti lascio per una notte e mi combini questo?”, chiese Shannon per sdrammatizzare.
Lo guardai. Non sapevo cosa rispondergli. Era bello, bello come il sole, e mi aveva appena salvata da quel gruppo di teppisti; ora tentava persino di farmi ridere.
Ma sentivo che, sforzandomi di sollevare gli angoli della bocca, questo finto sorriso non raggiungeva gli occhi.
Continuai a fissarlo, sperando che almeno dal mio sguardo potesse percepire il profondo sentimento di riconoscenza che stavo provando.
Lui sorrise benevolo e mi accarezzo la testa. Poi mi prese per mano e continuammo a camminare diretti verso la sua auto.
Fece salire anche il piccolo cane, un grazioso pincer nero a chiazze marroni, e poi aiutò me.
Quando salì al posto di guida mi fissò sospettoso.
“Hai mangiato?”, mi chiese.
“No”.
Finchè si trattava di domande concrete e semplici, riuscivo ad articolare una risposta. Mi stupii del mio stesso risultato. Ero con la mente totalmente altrove, a ricordi spiacevoli della mia infanzia, a frasi viscide, mani che indugiavano sui piccoli corpi ancora acerbi di bambine spaventate. In questa fase mi rifiutavo di ricordare che uno di quei piccoli corpi era il mio.
“Allora vieni a cena da me”, concluse Shannon.
“Dovrei andare a casa”, dissi.
“Io non ti lascio in queste condizioni. Avverto Matt, ma per questa sera vorrei assicurarmi almeno che tu faccia un pasto decente. Sei provata, potresti svenire. E non voglio che questo accada”.
Annuii e lo lasciai fare.
Guidò per qualche minuto verso la zona residenziale e dopo poco arrivammo a casa sua.
Era una piccola villetta vicino ad altre più grandi, con un giardino sul retro. Era totalmente illuminata e riscaldava il cuore solo a vederla. Sorrisi pensando alla vita di Shannon da casalingo.
Shannon parcheggiò sul piazzale della propria casa e poi entrammo.
Era un grazioso appartamento a due piani, che dava un’idea di calore e di famiglia. Tutte le pareti avevano toni sul beige, giallo o arancio tenue, e il mobilio era totalmente di legno scuro.
Mi complimentai con lui per l’arredamento e mi sorrise in modo strano, quasi timido.
Mi fece accomodare in cucina, sul bancone con gli sgabelli, così lo guardai cucinare.
“Hai problemi con la carne?”, mi chiese all’improvviso.
“Mm.. no, perché?”
“Ecco, è la prima volta che cucino per qualcun altro che non sia mio fratello. E lui, come saprai, è vegano”, spiegò senza alzare gli occhi dal tagliere.
Mi sentii stranamente lusingata da questo trattamento speciale, ma avevo il dubbio che si comportasse così con tutte; forse c’era una sorta di manuale, “Cotta e mangiata da Shannon Leto”. Non volevo dubitare troppo di lui, ma nemmeno fidarmi ciecamente.
Dopo una manciata di minuti posò due piatti colmi di cibo sul bancone, e venne a sedersi accanto a me. Le pietanze fumanti emanavano un profumo squisito che prometteva bene.
Quando riconobbi il piatto, rimasi piacevolmente stupita.
“Accidenti, scaloppine ai funghi! Un piatto italiano”, dissi con sincera ammirazione.
“Le hai mai mangiate?”, mi chiese curioso.
“Ho origini italiane, mia nonna in Italia me le cucinava spesso quando andavamo in vacanza da lei”, spiegai.
“Oh no, adesso mi sentirò a disagio. Non sapevo delle tue origini, probabilmente non avranno niente a che vedere con quelle di tua nonna”, disse dispiaciuto.
“Tocca a me decidere”, gli dissi sorridendo, per rincuorarlo.
E assaggiando il piatto mi resi conto che erano buone quanto quelle originali. Richiamarono alla mente ricordi lontani, feste di Natale passate al caldo del caminetto con l’odore dei mandarini che aleggiava nell’aria.
Chiusi gli occhi al secondo boccone e gustai appieno quella prelibatezza. Mi accorsi solo dopo che Shannon mi stava fissando come se fossi io stessa un piatto succulento.
Mi ricomposi subito e mi complimentai con lui, che solo a quel punto iniziò a mangiare la sua porzione.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Obbligo, verità, o attacco di panico? ***


Eccoci di nuovo! Questa volta (consideratelo un regalo di Natale in ritardo) ecco un capitolo bello lungo. Spero lo appreziate :3 Non lo dovrei dire ogni volta, ma vi ringrazio tanto quando mi lasciate quelle dolcissime recensioni *-* Non so come ringraziarvi, se non continuando a scrivere. Spero che per voi vada bene ;)
BUONA LETTURA!!
N.B. Alcuni eventi narrati potrebbero urtare la sensibilità di qualcuno. Se così fosse, mi scuso in anticipo. Se non volete rischiare, cliccate subito la X in alto a destra.



“Forse è meglio che io chiami un taxi e torni a casa”, dissi con voce tremante e staccandomi dal corpo di Shannon, che aveva appena tentato di baciarmi.
Lui non disse niente ma protese un braccio e iniziò ad accarezzarmi il volto, nonostante io mi stessi allontanando.
Il panico si stava facendo strada di nuovo dentro di me, ma era così latente, così subdolo sotto la mia pelle, che sulle prime non me ne accorsi. Soprattutto perché la presenza di Shannon Leto e del suo corpo così massiccio –seppur non di alta statura- erano una buona fonte di distrazione.
Ad un certo punto si arrese. Abbassò le braccia e, scoraggiato, sospirò.
“Ok, ho capito. Vado a prendere la giacca e ti riaccompagno a casa”
“Ti aspetto qui”, dissi con un forzatissimo sorriso.
Non appena Shannon girò l’angolo e salì le scale, iniziai a muovermi nervosamente. Avevo bisogno d’aria, di correre, di rannicchiarmi da qualche parte, di stendermi, di gridare. Avrei voluto strappare qualsiasi cosa fosse nel mio petto che minacciava di uccidermi. Non volevo morire, sarebbe bastato solo togliere quel macigno che ora iniziava a fare pressione impedendomi di respirare.
Eccolo qui, l’attacco di panico.
Girai convulsamente su me stessa e, individuata la porta principale, la inforcai senza pensarci e senza curarmi di recuperare la mia borsetta.
Chiusi la porta alle spalle e mi incamminai.
Destinazione: non ne avevo la più pallida idea.
La sera, lì tra le colline sopra Los Angeles era fresca ma umida. Mi sembrava di inalare intere bottiglie d’acqua ad ogni respiro, acqua che mi avrebbe riempito i polmoni fino a farmi morire soffocata.
Con le mani alla gola e la testa bassa per cercare di guardare dove mettere i piedi, continuai a camminare velocemente.
Ogni tanto schivavo auto parcheggiate, lampioni, aiuole. Tutto era in penombra e non c’era anima viva in giro.
L’attacco non accennava a fermarsi, sentivo il battito cardiaco esplodermi nel cervello.
Quando poi urtai qualcosa di grande e scuro, mi accasciai a terra e iniziai a singhiozzare.
La figura che avevo appena urtato si abbassò su di me e cercai di proteggermi con le braccia.
“Hei”, disse la figura, che riconobbi come un uomo.
“Tutto bene?”
Non risposi, continuavo a piangere e invano mi concentrai sul respiro.
Mi afferrò il mento per guardarmi meglio, e tra le lacrime riconobbi la sagoma di qualcuno che mi era familiare.
“Tu sei la fotografa, la ragazza di mio fratello. Cosa è successo?!”, continuò.
Realizzai a rilento che si trattava di Jared Leto, quando collegai la sua frase alla mia vita.
Ma ero concentrata su di me per il momento, non volevo morire.
Non accennavo a calmarmi, e Jared, dopo vari tentativi decise che toccandomi non mi sarebbe stato d’aiuto.
Allora chiamò Shannon al telefono che dopo una manciata di minuti arrivò e mi sollevo da terra.
Mi ritrovai ad immaginare la scena dall’alto, in una visione pietosa di me stessa salvata da un cavaliere senza cavallo, moro e basso di statura.
Iniziai a ridere nervosamente, poi di nuovo a piangere.
Poi più nulla.
Shannon mi teneva ancora in braccio quando oltrepassammo la porta di casa sua, e rividi quell’ambiente da cui ero fuggita poco tempo prima, ma che ora mi risultava stranamente familiare. Suo fratello ci aveva seguiti in religioso silenzio e mi guardava preoccupato.
Io ero ancora in braccio a Shannon, che indicò al fratello il divano e alcune coperte.
Poi gli chiese di preparare una camomilla calda.
Shannon mi adagiò sul divano, sopra qualche coperta e mi coprì con delle altre. Io rimasi in posizione fetale fissando il vuoto. Poi provai a chiudere gli occhi e notai che il calore e il silenzio della casa mi stavano aiutando.
Ma più di tutto percepii la presenza di chi, già una volta, proprio in quella stessa giornata, mi aveva riportato alla realtà. Shannon era lì, vicino a me, con la sua grande mano aperta sulla mia schiena, come a proteggermi. Percepivo la sua titubanza sul da farsi.
Sorseggiai brevemente la camomilla che Jared mi porse. Il fratello di Shannon era poi sparito da qualche parte, forse se ne era andato. Mi voltai verso Shannon e affondai il viso sul suo collo. Lui fu pronto ad accogliermi, come se non avesse aspettato altro da sempre. Entrambi ci rilassammo notevolmente.
Dopo poco iniziò a frugarsi in tasca e mi irrigidii.
“Tranquilla”, mi disse, come se fossi un animale selvatico in procinto di fuggire.
Tirò fuori un iPod e mi fece infilare le cuffiette.
“E’ una sorpresa. Una traccia per il nuovo album, fatta interamente da me. Voglio che tu sia la prima ad ascoltarla. Penso possa aiutarti”, spiegò fissando imbarazzato lo schermo del dispositivo.
Corrugai la fronte, pronta ad ascoltare un pezzo di duro rock e tentai di immaginarmi il canto di Shannon. Ma quello che sentii quando pigiò ‘play’ fu una vera e propria sorpresa.
Una melodia brillante, luminosa come piccoli cristalli di ghiaccio. Suoni ripetitivi che trasmettevano un’emozione indefinita, tra la tristezza lieve e la speranza più pura. Non seppi dare un nome a tutto quello.
A brano finito, con una strana consapevolezza dentro di me, feci quello che avrei dovuto fare da tempo. Mi sporsi verso Shannon e iniziai a baciarlo, tra la mascella e la clavicola. Piccoli baci umidi, dettati puramente dall’istinto. Volevo lui a tutti i costi, volevo sentirmi amata, volevo amarlo.
Con mia sorpresa lui mi scansò e mi fece distendere sul divano. Poi si stese sopra di me, facendo attenzione a non gravarmi addosso con il suo peso, e iniziò a baciarmi. Prima sulle guance, poi scese al mento, al collo, fino alla scollatura della maglietta. Una mano, ruvida e calda, si fece strada sotto la mia t-shirt e mi costrinse ad inarcarmi sotto di lui, andando in contro al suo corpo e alla sua ormai evidente erezione.
Decisi che sarei stata al suo gioco, sarei scesa al suo compromesso, anche se questo avrebbe voluto dire che sarebbe stato mio una volta soltanto.
Allora, invece di aspettare, mi feci avanti e gli tolsi la maglietta. Lui non mi ostacolò, ma tornò con la sua bocca sulla mia. Quando allungai le mie mani verso la cintura dei suoi pantaloni, lui mi fermò deciso.
“Assolutamente no”, mi disse ansimando.
“Ma io pensavo..”, balbettai.
“Oh, Elinor, non pensare nemmeno per un secondo che non voglia farlo. È solo che..”
Aspettai una risposta che non arrivò. Allora mi tirai su a sedere e incrociai le braccia, leggermente delusa.
“Vieni qui”, mi disse dolce, prendendomi tra le sue braccia.
“Non ho mai provato niente di simile in vita mia. Non so come comportarmi con tutti questi.. sentimenti”, disse agitando le braccia. “Per una volta vorrei fare le cose con calma. Non bruciare tutto subito per del banale sesso. Voglio fare l’amore con te; mi ispiri amore, Elinor. Credo di non averlo mai detto a nessuna, e probabilmente tu ti sei fatta un’idea e un’aspettativa totalmente diverse su di me”, concluse toccandosi nervosamente la nuca.
Non seppi cosa rispondere.
Gli accarezzai un ginocchio mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime.
Quanto era giusto che ora nel mio cuore si stava facendo strada quel sentimento che avevo giurato di accantonare? La speranza.
Speranza di essere ricambiata, di avere la possibilità di iniziare qualcosa con questo meraviglioso uomo che da sempre consideravo al di là dei pettegolezzi.
Mi buttai sul suo petto nudo, abbracciandolo, sorridendo felice e singhiozzando.
Lui mi accarezzava la testa e rideva sommessamente.
“Oh Shan, io mi sarei concessa volentieri a te, perché mi sono detta che anche una sola volta ne sarebbe valsa la pena. Ma ora mi dici questo… Cosa devo pensare? Che possiamo provarci?”
“Io vorrei tanto provarci, anche se non so come si fa.. Non conosco tutti questi sentimenti”, ammise imbarazzato.
Mi fermai un secondo a riflettere. Avrei dovuto essere totalmente sincera con lui e scoprire subito le mie carte, come lui stava facendo con me? Optai per il sì.
“Vedi Shannon, io in questo posso guidarti. Ma anche io sono alle prese con qualcosa per la prima volta”, dissi arrossendo.
Guardandomi perplesso, mi esortò a continuare.
“Prometti di non ridere di me”, continuai avvampando di calore.
Annuì sorridendo sornione.
“Oh, al diavolo perché te lo sto dicendo? È imbarazzante!”, esclamai coprendomi il viso con le mani e voltandomi dall’altra parte.
Shannon prontamente mi afferrò le braccia e mi costrinse a guardarlo in volto.
“Giuro che non riderò, qualsiasi cosa mi dirai. Puoi essere te stessa con me”
“Okay. Per te tutti questi sentimenti sono una novità, giusto? Bè per me lo è la parte fisica. Credo ci sia una componente istintiva che mi guida in certe cose ma non sono mai andata oltre ciò che è appena successo sul tuo divano. In poche parole, sono vergine”, sussurrai.
“E tu sprecheresti la tua prima volta con uno come me?! Fortuna che mi sono fermato, ti avrei rovinato l’esistenza”, disse lui shockato.
“Andiamo, non sarai così male a letto”, dissi io, tentando di fare una battuta maliziosa.
“Oh tesoro, sono un vero animale. Non crederesti ai tuoi occhi”, mi disse, lasciandomi senza parole.
Eravamo entrati su un terreno che non conoscevo, e a parte le battute spavalde che mi divertivo a fare, a dirla tutta nemmeno mi sentivo a mio agio con queste cose.
“Ma, toglimi una curiosità, come hai fatto ad arrivare a 25 anni senza fare sesso? Io sarei impazzito!”, disse sorridendo.
Sbiancai. La stanza iniziò a girare vorticosamente e Shannon si affrettò a scusarsi, dicendo che non erano affari suoi.
“No, no è giusto che tu lo sappia”, dissi deglutendo. “Quando avevo circa 10 anni, io e altri bambini ci trattenevamo a scuola più degli altri per delle attività: pianoforte, approfondimento di qualche materia. E uno dei nostri insegnanti iniziò a toccare me e altre due bambine, dicendoci frasi orrende e ovviamente minacciandoci per evitare che raccontassimo qualcosa agli altri insegnanti o ai genitori. Avevamo solo 10 anni, non capivamo nemmeno quello che ci stava facendo, ma tutta la faccenda durò un intero anno, finchè non abusò sessualmente di una delle altre bambine. A quel punto venne alla luce l’intero fatto e fui seguita da una psicologa fino a 16 anni. Dicono che potrei essere frigida, per quanto ne so, ma non ho mai verificato”, dissi piuttosto freddamente. Cercavo di narrare i fatti come se fossero accaduti a qualcun altro. Ed evitando accuratamente di guardare Shannon in faccia. Immaginai il ribrezzo che provava per me adesso.
“Mi dispiace. Mi stupisco sempre di più di quanto faccia schifo il genere umano. Dev’essere stato terribile”
Ma la mia mente stava viaggiando a ritroso e, con un sorriso, decisi di raccontare il seguito della storia. Praticamente un riassunto della mia misera vita.
“E poi ho abbandonato la psicologa. Sai perché? Perché ho iniziato ad ascoltare una band, e avevo deciso che non mi sarebbe importato del sesso, ma solo dei sentimenti. Mi regalarono una reflex vecchissima, a rullino, e con questa fedele compagna andai al mio primo concerto di questa band. Fu molto meglio delle sedute trascorse ogni volta a parlare di cosa ricordavo, di quali parole mi diceva il maestro. Fu molto meglio, perché con questa band potevo pensare a me stessa, al mio futuro e alla mia rinascita”, dissi.
Avevo parlato tanto. Rimasi in silenzio, poi mi voltai con un sorriso accennato verso Shannon.
Non mi sarei mai aspettata di vederlo così: ad occhi chiusi, stava premendo sulle palpebre, come per fermare le lacrime.
Infatti i suoi occhi erano lucidi quando li aprì. Si avvicinò e mi strinse il mento tra le mani per poi baciarmi delicatamente, labbra su labbra.
Ci guardammo negli occhi, immense foreste dorate che si riversavano le une nelle altre, un colore degli occhi così simile da potersi rispecchiare e confondere.
Trovai pace finalmente in un suo caldo abbraccio, con la consapevolezza che non avevo più niente da nascondere.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** La prima notte ***


Buonasera a tutti! Questo capitolo era già pronto da qualche giorno ma stavo aspettando per pubblicarlo, perchè sinceramente volevo vedere se il precedente avrebbe ricevuto qualche commento in più. Così non è stato, e mi dispiace molto. Vi prego, se riscontrate errori di ortografia, o non vi piace qualcosa, fatemelo notare perchè per me è molto importante. Oltre a portare avanti la storia, tengo tantissimo alla vostra opinione ed è un'enorme possibilità per migliorarmi. Mi raccomando!
Per adesso, buona lettura <3



“Senti, prima quando ti stavo cercando, ha chiamato Matt. Gli ho detto che saresti rimasta a dormire qui da me”, spiegò Shannon alzandosi.
“Perciò adesso, dato che è stata una lunga giornata, ti accompagno in una stanza degli ospiti e rimani a dormire qui”.
Dormire da Shannon. Senza nessun secondo fine. Chissà come ma la storia non mi convinse. In ogni caso non volevo rimanere da sola, avevo paura che sarebbero arrivate altri crisi.
E mi offrii volontaria per cadere nella tana del lupo.
“Ok. Solo … chiedo troppo se dormo con te?”, domandai imbarazzata, lo sguardo fisso sui miei piedi.
“Ma no, solo non ti posso promettere che terrò le mani a posto”, ammiccò Shan.
Lo fissai shockata e subito si scusò.
Va bene, forse stavo esagerando e mi stavo comportando più melodrammaticamente del necessario.
Shannon mi guidò al piano di sopra, verso la sua stanza, che si rivelò un accogliente ambiente fatto principalmente di legno, con una vista mozzafiato sul bosco proprio vicino alla casa, grazie ad una parete interamente di vetro.
Ricordava uno di quei vecchi rifugi di montagna, uno chalet caldo ed accogliente. Mancava solo la neve (che sarebbe stata quasi impossibile qui in California).
“E’ la prima volta che porto una ragazza qui”, confessò.
“Oh, andiamo Shan, è tutta la sera che vai avanti con questa storia. Prima volta che cucini ad una ragazza, prima volta per la canzone, prima volta che ti innamori, prima volta della camera. Se pensassi male, ti direi che stai architettando tutto nei minimi particolari”, dissi scettica, ma sorridendo.
Lui reagì come se l’avessi colpito nel profondo, e subito mi pentii della mia frecciatina.
“Mi dispiace se pensi che è una tattica. In realtà è tutto vero. Di solito le altre le ho sempre portate a cena fuori, per poi finire in qualche lussuoso hotel. Mi interessava solo ottenere una notte di sesso e divertimento, tutto il contorno lo prendevo bello e finito. Questa sera non avevo programmato nulla, ma mostrandoti la mia casa e quello che faccio, è come se ti avessi dato già un accesso alla parte più nascosta di me”, ammise.
Mi avvicinai a lui e gli posai una mano sul cuore.
“Io voglio entrare qui e lasciare che tu faccia lo stesso con me”, gli dissi.
“Insegnami”
“Ci arriveremo. Poco alla volta”
Shannon mi consegnò un paio di boxer e una morbida camicia a quadri di pile. Li usai come pigiama, dato che non avevo un cambio con me.
Optai solo per la camicia e lasciai la biancheria intima che avevo addosso.
Mi guardai allo specchio del bagno e sistemai i capelli da una parte, cercando di lisciarli con le mani, anche se ero un completo disastro. La camicia era enorme e mi copriva fino a metà coscia; il colletto invece, non avendo bottoni, lasciava scoperta buona parte della gola e della scollatura. Uscii dal bagno e trovai uno splendido Shannon con indosso solo i pantaloni del pigiama.
Erano bene in vista i tatuaggi sulle braccia, e quelli nuovi laterali sul costato.
Ora che ci pensavo, anche i miei tatuaggi sarebbero stati visibili, almeno la triade che avevo sulla piegatura della gamba, dietro al ginocchio. L’altro, molto più personale, era impossibile vederlo.
“Sei davvero … sexy. Dovresti indossare camicie così più spesso”, mi disse.
“Sì, credo mi vestirò così per il prossimo servizio”, replicai sarcastica.
“No, intendevo dire di indossarle quando sei con me”, disse lui serio.
“E’ ancora valida l’opzione della camera degli ospiti?”
“Perché?”
“Ho come l’impressione che questa notte dovrò stare attenta a te”
“No, te lo prometto. Sto scherzando. Sono io il primo a non voler approfittarmi di te”.
Finalmente ci stendemmo. Il letto era gigantesco. Non so se esisteva come misure, ma avrei detto che fosse a tre piazze. C’erano cuscini e calde coperte ovunque, ma io e Shannon ci ritrovammo comunque abbracciati al centro del letto.
Era una sensazione nuova. E per quanto intimo fosse, il morboso desiderio di fare sesso era stato sostituito da una tenerezza sconfinata per quest’uomo e al suo bisogno di affetto che potevo percepire. Mi sentivo protetta ma allo stesso tempo proteggevo lui, una sensazione così appagante che mi fece dimenticare chi fosse. Quando me ne resi conto, la consapevolezza arrivò come una secchiata d’acqua gelida e mi bloccai.
Shannon si allarmò subito.
“No, ti prego, un altro attacco di panico. Elinor che ti prende? Dimmi come posso fare per aiutarti”, disse scattando a sedere.
“Dimmi che non sei Shannon”, ansimai.
“Che vuol dire?!”
“Che sono un’idiota. Voglio dire, io non sono nessuno e tu sei Shannon Leto. Artista mondiale famoso, pluripremiato. Insomma, che sto facendo?! Come posso anche solo pensare di starti accanto così?”
“Oh Elinor, perché ti fai tanti problemi? Ci siamo trovati. La vita ci ha fatto incontrare. Prendiamo il meglio di ciò che ne viene. E poi la star mondiale è mio fratello, non io. E mi sta bene così. Altrimenti avresti ancora più complessi!”, disse sorridendo.
Sospirai.
Avrei dovuto adattarmi semplicemente alla situazione. In fondo tutto era possibile nella vita, anche i sogni più irrealizzabili. Erano stati proprio loro ad insegnarmelo.
Allora chiusi gli occhi, con la testa appoggiata sul petto di Shannon, cullata dal suo respiro lento e regolare. Mi addormentai, con la consapevolezza che la vicinanza all’autore di L490 conciliava il sonno come la sua stessa canzone.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** L490 ***


Ciao a tutti! E' da parecchio tempo che non posto più alcun capitolo. Un po' perchè sono stata impegnata, un po' perchè ho visto che nessuno commentava più. E mi dispiace tanto. Però la storia va continuata e spero che ci sia ancora qualcuno là fuori interessato a vedere come andrà a finire, ma soprattutto disposto a recensirmi e fare in mondo che io possa migliorare.. perchè si tratta essenzialmente di questo :)
Vi lascio allora con questo piccolo capitolo, giusto per proseguire un po' e vedere se avete ancora voglia di starmi dietro. Un  abbraccio grande a chi deciderà anche solo di leggermi.

MarsKingdom


Mi rigirai piano nel letto. Confusa, mi chiesi oziosamente come mai mi fossi svegliata prima della sveglia. Non accadeva mai.
Contai mentalmente pochi secondi e mi aspettai di sentire finalmente le note di “Do Or Die” uscire dal telefono sul comodino.
Perplessa, allungai una mano ma non trovai nessun comodino. Trovai invece un esemplare di Shannon Leto sorridente che mi fissava divertito, appoggiato al cuscino.
“Oh Dio, dovrei aprire lo studio”, borbottai.
“No, è domenica”, mi disse, continuando a sorridere.
Mi tolsi di dosso le coperte e rimasi lì a contemplare il soffitto, per apprezzare quella tranquilla domenica mattina, che di solito a casa mia era un miraggio.
Solo dopo pochi minuti notai lo sguardo di Shannon fisso sul mio busto. Precisamente sul mio seno.
Lo ammonii e cercai di coprirmi meglio, ma oramai il danno era fatto, come capii poi dalla sua domanda.
“Posso chiederti se quello è…. Un tatuaggio?”, disse cercando di essere delicato.
Arrossii e fissai il soffitto di nuovo. Annuii.
“E’ una cosa imbarazzante?”, chiese.
Annuii di nuovo.
“Dai, abbiamo fatto tutti almeno una pazzia da giovani, non devi vergorgnartene”
Oh Shannon Leto, pensai, se tu sapessi che tatuaggio è, mi cacceresti da casa tua all’istante.
“Bè, ho intenzione di vederlo”, decise.
E così dicendo di portò sopra di me e iniziò a baciarmi.
Ringraziai il cielo che non aveva inteso nell’immediato e così risposi con passione al bacio. Scese a mordicchiarmi il collo ed ero talmente presa che non mi accorsi nemmeno quando iniziò a sbottonare la mia camicia. Lo lasciai fare, aprì il lembo sinistro della camicia scoprendo il seno e baciandomi anche lì. Poi realizzai e gli bloccai la mano mentre si accingeva a scoprire anche l’altro lato.
“Ti prego”, gli sussurrai supplichevolemente.
“Elinor, è solo un tatuaggio. Sono curioso”
“Non ti piacerà”, gli dissi, arrendendomi.
“Oh andiamo piccola”, disse, baciandomi la guancia.
Così, mentre lui mi scoprì, io chiusi gli occhi e attesi il rifiuto.
Lo sentii irrigidirsi e subito mi venne istintivo coprirmi il viso con le mani, e il seno con i gomiti.
Due mani forti mi afferrarono.
“Oh, Dio, com’è complicato. Io non voglio che tu pensi a me come ad una stupida fan appassionata del suo idolo. Anche se non ti conoscevo, per me sei sempre stato importante, non so perché, non l’ho mai capito. Era qualcosa che andava al di là del tuo talento. A volte mi sembrava di scorgere una punta di malinconia nei tuoi occhi quando vedevo le interviste, e allora sapevo con certezza che potevo non credere alle mille malelingue che costruivano storie squallide su di te. E quando nell’album trovai questa traccia, “L490”, tutta tua, così emozionante, decisi di farla anche mia. Era l’unica cosa che riuscisse a calmarmi la notte, e lo è tutt’ora. Dovevo trovare una via per averti in qualche modo vicino al mio cuore. Ti devo tanto, Shannon…”, dissi tutto d’un fiato, come per scusarmi di quel tatuaggio, come per scusarmi di aver fatto mia una parte sua.
Ascoltai per un po’ l’eco della mia voce, poi i battiti del mio cuore che lentamente stentavano a tornare normali. Poi il silenzio.
Shannon mi tolse le mani dal viso e iniziò a baciare ogni centimetro della mia pelle, indugiando su quella piccola scritta vicino al cuore.
Si fermò sul mio ventre e poi mi guardò.
“Cosa dovrei dirti? Dovrei ringraziarti, forse. Ma in realtà sto provando una paura mai provata in vita mia. Cosa sarebbe successo se il destino non ci avesse mai fatto incontrare? Elinor, tu hai ridato fuoco alla mia vita. Con te sto guardando il mondo da altre prospettive. Ma cosa sarei se non ci fossimo mai conosciuti? Dio, non voglio nemmeno pensarci. Fa’ l’amore con me, adesso, se vuoi”.
Non ci pensai nemmeno un minuto di più. Mi ritrovai con le gambe attorno alla sua vita, seduti, in una posizione molto intima. E facemmo l’amore dolcemente.
Non l’avrei mai creduto, ma fu premuroso nei miei confronti. Sperai solo di essere stata all’altezza delle sue aspettative. Ci ritrovammo avvinghiati, in una nuvola di lenzuola umide, ancora l’uno sulla bocca dell’altra, nel tentativo di comunicare tutto ciò che non era più possibile dire a parole.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Tu, che sei parte di me ***


Eccomi di nuovo qui con un altro capitolo. Come ogni volta, spero vi piaccia. Vorrei innanzitutto scusarmi per la lunga assenza: continuo a scrivere, ma è il tempo di pubblicare che mi manca. Ma vorrei soprattutto ringraziarvi per tutti i commenti bellissimi e positivi che mi lasciate, siete davvero dolci! Se dovete fare qualche appunto negativo, non siate timide. Accetto anche le critiche, assolutamente!
P.S. Senza creare polemiche, ho visto che è stata iniziata una fanfiction con lo stesso titolo di questa, quindi ci terrei a precisare che qui siamo in quella originale, la prima nata, l'unica "Convergence". Ci tengo a dirlo perchè questo titolo non è nato a caso, la scelta di quella canzone in particolare è stata frutto di esperienze anche personali che in parte ritrovate nel testo. Peace & Love, spero davvero vi piaccia. Vi voglio bene, miei cari lettori (pochi ma buoni *-* )


La seconda sveglia fu meno traumatica della prima. Mi ritrovai a rigirarmi sul letto, ad occhi chiusi, con la vaga consapevolezza di non essere a casa mia ma con una strana sensazione di benessere. Mi stiracchiavo tra le lenzuola chiedendomi oziosamente dove fosse Shannon.
Solo dopo qualche buon minuto realizzai che mi fissava, seduto sulla poltrona davanti al letto. Non mi stava solo guardando, ma aveva una vecchia Nikon a rullino in mano. Mi sbrigai a coprirmi ogni centimetro di pelle con ogni angolo di lenzuolo che avevo a disposizione.
Lui rise.
“Dai, si può sapere che stai facendo?”, borbottai nascondendomi dietro ad un cuscino.
“Eri più bella mentre ti stiracchiavi”, disse ridendo.
“Odio le foto!”, dissi.
“Una strana cosa per una fotografa”
“Andiamo, hai capito che intendo. Se faccio la fotografa, se sto dietro la fotocamera, ci sarà un motivo”, mugolai.
“E io l’ho capito benissimo”, rispose. Dalla voce sentivo che era più vicino, così spostai leggermente il cuscino ma lui riuscì ad immortalarmi a tradimento.
“Da quant’è che va avanti questa cosa?”, gli chiesi ormai senza speranze.
“Diciamo che ho già cambiato un paio di rullini”, disse lui divertito.
Mio Dio, questo significava che aveva già fatto almeno una cinquantina di foto. E se tutte avevano me come soggetto, potevo anche iniziare a cercare una buca in cui sotterrarmi.
“Se me li dai, li sviluppo io”, dissi sorridendo.
“No, perché immagino che fine farebbero. Li svilupperò io stesso”
“Sicuro di esserne in grado?”, lo provocai.
“Con chi pensi di avere a che fare? Te lo faccio vedere io adesso”.
E così dicendo, iniziò a farmi il solletico con una mano, mentre con l’altra cercava di fotografarmi mentre ridevo e mi divincolavo.
Alla fine, senza fiato e con un sorriso smagliante, lo guardai. Ero distesa sotto di lui e lo potevo osservare in tutta la sua bellezza. Una bellezza che andava oltre l’aspetto fisico. Era una di quelle persone che, per chi sapeva guardare bene, appariva bella interiormente anche solo al primo sguardo.
Lui posò la Nikon e mi cinse i fianchi con le sue mani grandi e ruvide. Sussultai e gli accarezzai il petto.
“Come ti senti?”, mi chiese.
“Credo bene, perché?”, risposi perplessa.
“Sai a cosa mi riferisco..”, disse.
Sicuramente intendeva all’esperienza appena passata. Cosa potevo dirgli? Come potevo esprimere a parole qualcosa di così meraviglioso e devastante allo stesso tempo? Come potevo spiegargli la tempesta che avevo dentro, tra la bellezza di aver fatto l’amore con lui e la paura di essere toccata che ancora mi attanagliava?
Così gli dissi la verità.
“E’ stato il momento più bello della mia vita, e forse è stato anche così semplice perché inaspettato e non programmato. Hai saputo sorprendermi. Se lo avessimo programmato non sarebbe stato così facile”
“Perché?”, mi chiese, sinceramente preoccupato.
“Perché ho ancora paura del contatto fisico a certi livelli. Perché non sapere le cose a volte è meglio che programmarle nel dettaglio. Non ho avuto il tempo di pensarci ed è stato meglio così”, dissi.
“Lo sai che dovresti lavorarci su questa cosa, vero?”
“Oh Shan, sono andata da molti psicologi. Psichiatri, anche. Ho preso e provato di tutto. La mia paura è ancora lì, anche se con te la sento meno perché riesci a farmi vivere il presente”.
Si chinò a baciarmi.
“Allora sarò io la cura. Ti aiuterò a superarla”
 
Durante il resto della mattinata che trascorremmo a letto, ci ritrovammo a parlare entrambi dei nostri rispettivi tatuaggi. Vennero fuori aneddoti, storie. Era come rivelare qualcosa di noi apertamente ma in un modo meno diretto. E fu evidente come anche i miei disegni fossero così legati al suo mondo e alla sua band.
“Potresti entrare a farne parte come membro onorario”, mi disse ridendo.
“Sicuro. Al massimo suono la batteria di pentole delle televendite. Ma forse non riuscirei nemmeno in quella”
“Però saresti una meravigliosa fotografa ufficiale”.
Con questa frase mi creai delle scene mentali in cui fotografavo ogni minima esibizione in giro per il mondo. Eccitante.
Ma anche ogni meet and greet. Ogni altra Echelon avvinghiata a Shannon come una cozza allo scoglio. Anche se in realtà la cozza sarei stata io. Qualsiasi altra ragazza avrebbe potuto affascinare Shannon, non ci voleva molto ad essere più belle di me. E magari me lo avrebbero portato via. Non che speravo in un rapporto eterno (non sarebbe stato possibile, si sarebbe stancato presto di me), ma almeno non avevo una grande voglia di vederlo cadere in frantumi davanti a me. Non ne volevo documentare la fine. Non l’avrei sopportato.
“Naaa, penso che mi limiterò a darvi una mano con il booklet per il nuovo album”, conclusi sorridendo nervosamente, sperando che non sospettasse le mie ansie.
E infatti non si accorse di niente.
La giornata proseguì tranquilla, eravamo come in una bolla. Il tempo sembrava essersi dilatato a dismisura, una eterna domenica di sole, pace e tranquillità. Mi dovetti però ricredere quando le colline divennero rosse, con il sole alle loro spalle che mostrava alla fine del giorno la sua ultima gloria, prima di lasciare spazio ai crateri di latte della Stella della sera.
La luna fu l’unica a guardarci e a guidarci mentre Shannon mi riportava a casa, questa volta in moto. Il tragitto fu breve e cercai di stringerlo a me il più possibile. Non volevo lasciarlo. Ma sapevo in qualche modo, che adesso iniziava ad essere parte di me e avrei lottato perché questo durasse.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Gli occhi non mentono ***


Ebbene, dopo secoli e secoli, eccomi qui con un nuovo capitolo. A mia discolpa posso dire che è tutta colpa dello studio e che per farmi perdonare, ho pubblicato un capitolo un po' più lungo del solito. Voi però non siate timide e fatevi sentire, anche per critiche o pareri.
Mi raccomando, ci tengo tantissimo! <3 Un abbraccio a chi mi legge con entusiasmo. Grazie mille!
-MarsKingdom


Sembrava così strano dirlo, paradossale anche solo pensarlo, ma in realtà ormai era vero: frequentavo Shannon Leto, ero stata a casa sua e avevo fatto l’amore con lui. Non potevamo definirci fidanzati, non volevamo definirci e basta. Affrontavamo giorno dopo giorno come una sfida, non ne avevamo parlato con nessuno, anche se Matt (e di sicuro anche Jared) avevano intuito qualcosa.
In un’altra occasione mi sarei risa in faccia allo specchio, mi sarei data della stupida, ma in questo caso non potei fare a meno di sorridere come un’ebete quando Shannon si presentò alla porta del mio studio. Oramai ci frequentavamo da un po’, e dopo aver bruciato le tappe tre settimane prima nel suo appartamento, avevo deciso di riprendere tutto con molta calma.
Non era stato un comportamento solito per me, lasciarmi andare. Ora volevo riprendere a vivere con il mio ritmo, quel ritmo dettato dal mio cuore zoppicante, con cui mi sentivo padrona di me stessa.
Andai ad aprire la porta, raggiante.
Me lo ritrovai lì, in tutta la sua forza e virilità, che mi guardava sorridente.
“Buongiorno bellezza”, mi disse, facendomi l’occhiolino.
“Buongiorno anche a te!”.
Ci sarebbe stato un gran discutere su chi fosse la bellezza, qui.
Non mi ero ancora abituata a vederlo comparire di punto in bianco, e di sicuro non mi sarei mai abituata al suo aspetto fisico.
“Ti ho portato la colazione”, disse, mostrando una busta di carta bianca e due bicchieri di caffè lungo.
“Dovrei lavorare, ma accetto volentieri”, risposi, allungandomi verso di lui per ricevere un bacio che non tardò ad arrivare.
Avevo imparato ad essere più intraprendente anche con il contatto fisico: mi fidavo di lui, e come spesso mi ripeteva, non dovevo aspettare di ricevere un gesto affettuoso, ma dovevo essere la prima, se lo volevo, a mettermi in gioco.
“Infatti sono qui anche per parlare di lavoro”
“Allora vieni”.
Ci sedemmo sul salottino del mio studio privato, dove di solito ricevevo i clienti più incontentabili, che rimanevano colpiti dalle foto alle pareti. Ma dato che mi ritrovavo a discutere e a fare colazione con il soggetto delle foto, questa volta la cosa fu un tantino imbarazzante.
Tra un sorso di caffè e un morso alla ciambella, lo sguardo di Shannon volteggiava curioso tra le decine di foto alle pareti. Probabilmente su 100 foto, 80 ritraevano solo lui.
Primi piani, figure intere, occhi. Qualcuno avrebbe potuto azzardare che la mia fosse una malattia, come uno serial killer che cerca ogni dettaglio della sua vittima.
“Poi dici a me di smetterla con le foto..”, commentò divertito.
“Tu sei un personaggio pubblico. Non te le ho fatte mentre dormivi. E poi… mi sei sempre piaciuto”, ammisi arrossendo.
“Tu sei più bella, soprattutto quando nessuna preoccupazione ti passa per la testa, ad aggrottare questo bellissimo volto”, disse piano, sfiorandomi la fronte con l’indice.
Dopo qualche minuto di silenzio, si alzò, sconcertato, forse per vedere più da vicino una foto in particolare. Era quasi del tutto coperta dalla sedia della scrivania.
Feci finta di nulla, perché avevo compreso di quale foto si trattasse. Era volontariamente mezza nascosta.
Ma a Shannon non sfuggì nulla.
“Questa foto..”, disse, “questo momento.. me lo ricordo”.
Oh, anche io me lo ricordavo.
 
Gennaio 2009, il gelo di una Parigi innevata e io là fuori ad aspettare che finisse il concerto per poterli almeno vedere.
Un oceano mi separava dagli Stati Uniti, da casa mia. Avevo fatto quella pazzia di seguirli nel tour europeo. Avevo acquistato i biglietti sul posto, data dopo data, città dopo città. Ma con Marsiglia i soldi erano finiti.
Rimasi così fuori dallo stadio, ad aspettarli, a chiedermi come sarei andata all’aeroporto il giorno dopo per prendere l’aereo che mi avrebbe riportata a casa.
E quando finalmente la porta si aprì con uno scatto sonoro, vidi solo Shannon, che prese a calci un bidone là vicino, col cappuccio della felpa sulla testa, nervoso, nel vano tentativo di accendersi una sigaretta.
La mano che, rabbiosa, non riusciva a far scattare l’ingranaggio dell’accendino, e la sigaretta che rimaneva inutilmente sospesa tra le labbra scolpite di lui.
Sapevo che stava male, non so come, ma lo percepivo.
Oppure avevo solo proiettato su di lui le mie paure, il mio male di vivere che già a quel tempo mi tormentava, solo per non sentirmi sola in quella notte.
E decisi di non avvicinarmi, di non salutarlo
Fu probabilmente il gesto più altruista in vita mia. La fotografia mi aveva sempre portato ad essere invadente per definizione, ma in quel momento, per lui, mi sarei vergognata a chiedergli di fare una foto insieme, chiedergli un autografo, o solo parlargli.
Lo lasciai ai suoi pensieri, alla sua sigaretta, quella che poi scoprii essere una delle ultime.
Gli scattai, silenziosa, solo una foto, che non pubblicai mai; e quando poi la stampai per il mio studio, decisi di metterla nascosta, alle mie spalle, e di scriverci sopra L490, con lo stesso carattere con cui poi me lo feci tatuare.
 
Tentai di spiegarlo brevemente a Shannon, omettendo qualche particolare.
Ma subito dopo cercai di nascondermi dietro le mie stesse mani, mentre fissavo a testa bassa il grande bicchiere di carta che conteneva il caffè.
Con la coda dell’occhio vidi Shannon accanto alla sua stessa foto. Si girò a guardarmi.
“Come fai? Come facevi anche allora a capire tutto?
Io quella sera avevo ricevuto una brutta notizia. Mia madre era stata ricoverata. Ed è in quelle occasioni che maledici la tua passione, la tua stessa vita che ti trattiene a centinaia di kilometri di distanza dalla persona che più ami al mondo. È stato un duro colpo; quella sera decidemmo di tagliare due canzoni dalla scaletta e io uscii per primo sul retro, prima che la folla tentasse di divorarmi. A dirla tutta, non ricordo di averti vista; un po’ mi dispiace, ma d’altra parte se ti avessi conosciuto quella sera, non avrei capito che persona speciale saresti stata, accecato com’ero dalla rabbia.
E posso solo ringraziarti adesso per allora, per non avermi rivolto la parola, per essere rimasta lì in disparte, ma in un silenzio solidale. Tu devi avere un dono”
Alzai il viso e lo guardai avvicinarsi di nuovo. Si sedette accanto a me.
Gli afferrai un ginocchio per fargli sentire che ero lì, adesso come allora.
Più di allora.
“Io non ho un dono, Shannon. Te l’ho detto, io ho come l’impressione, chiamala presunzione se vuoi, di riuscire a capirti. Ce l’ho sempre avuta. Sono convinta che in molte occasioni tu ti sia creato un personaggio per poter nascondere il tuo lato più vulnerabile. Ma sei bellissimo in entrambi i casi.”
“Come fai a capirlo?”
“Gli occhi, Shan. I tuoi occhi non mentono mai. Distanza, telecamere, fotografie. Tutto può ingannare, ma non lo sguardo”.
Mi ritrovai a fissarlo di nuovo in quegli specchi di ambra, che trovavo così simili ai miei. Ma lui fu il primo a spezzare il contatto, e la cosa mi sorprese.
Mi sfiorò le labbra con un dito. Quella lentezza, quell’incertezza mi stavano spiazzando. D’improvviso appoggiò la testa nell’incavo del mio collo, in una posizione così innocente e tenera. Non sapevo se si sarebbe mosso di nuovo, e iniziai inspiegabilmente ad agitarmi ma evitai di farglielo capire.
Il mio cuore stava palpitando frenetico.
Dio, fa’ che non se ne accorga.
Ma ovviamente aveva un orecchio proprio sul mio cuore, e percependo il battito che alternava palpitazioni a rallentamenti preoccupanti, si tolse immediatamente.
E la totale assenza fu ancora peggio.
L’aria iniziò a mancarmi.
Mi odiavo per queste mie reazioni.
Odiavo il fatto che nessun medico era riuscito mai ad aiutarmi.
Ancora di più odiavo me stessa, per non avere alcun controllo sulle mie emozioni.
Come era possibile che il minimo contatto fisico inaspettato mi scatenasse attacchi di panico?
Cercai a tastoni la mano di Shannon, fissando il vuoto.
Me la portai al cuore, premendo forte, mentre cercavo di modulare il respiro.
“Devo…?”, disse Shannon.
Ma non lo feci parlare.
Volevo fidarmi di lui, desideravo che mi toccasse senza scatenare in me quegli stupidi attacchi ai quali ormai dovevo essere abituata.
E così, con uno sforzo enorme, lasciai la mano di Shannon sul mio cuore e chiusi gli occhi.
Il mio senso principale non era più lì a fare da torre di controllo, e questo scatenò una guerra momentanea nel mio cervello.
Avevo bisogno del controllo. Era tutto per me.
Ma mi imposi di lasciarmi andare.
Strinsi i denti e ascoltai il cuore. Lo sentivo in gola, lo sentivo rimbombare nel cervello. Era ovunque, sotto ogni mia vena, sotto il tocco della mano di Shannon.
Era il ritmo di un cavallo zoppo, che forse avrebbe terminato la propria corsa.
Decisi di andare oltre.
“Toccami”, dissi a Shannon.
Forse aveva capito dove volevo arrivare, perché non fece domande, agì solamente.
Nei pochissimi secondi che precedettero il suo tocco, mi irrigidii, chiedendomi quale parte del mio corpo avrebbe toccato. La gamba? Il braccio? I fianchi? Una coscia?
Tentavo di essere preparata. Ero tesa come una corda di violino. I nervi a fior di pelle che tentavano di catturare ogni minima sensazione.
Ma quando il tocco arrivò, fu dolce e inaspettato.
Era un bacio sulla fronte, delicato, umido. Percepii le rughe che si erano formate per la tensione, distendersi.
Gli sfiorai il volto.
Mi sentivo come un cieco, ma aiutava. Avevo potuto fare affidamento solo sul tatto, e questo mi aveva messo notevolmente alla prova.
Ringraziai silenziosamente Shannon, che mi cullò per qualche istante, prima di tornare tranquillamente a parlare di lavoro, con la mente un po’ più libera, ma paradossalmente turbata.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1960784