Cuori nel pallone

di shimichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Prime volte ***
Capitolo 3: *** L'incidente ***
Capitolo 4: *** Cambi di gioco ***
Capitolo 5: *** Nuove Prospettive ***
Capitolo 6: *** Attraverso gli occhi ***
Capitolo 7: *** Il suo nome è Destino ***



Capitolo 1
*** Prologo ***






 
0. Prologo

 
La cosa che desideri di più, così aveva detto Shinichi. Con un sorriso che la sua bocca sembrava non riuscire a contenere ed una strana luce negli occhi, mai tanto simili a quelli di un bambino. Che fosse entusiasta lo si capiva guardandolo.
Si era gettato sul divano per scattare in piedi un secondo dopo, lo sguardo puntato con un filo d’ansia al tavolo. Uno spettatore esterno non avrebbe compreso il motivo di quella concitazione, non avrebbe intuito l’enorme valore racchiuso nelle minuscole capsule che spiccavano tra le venature del legno.
“Qual è la prima cosa che farai?” le aveva chiesto senza dimostrare particolare interesse.
Ecco era stato in quel preciso istante, con il rintocco della pendola ed il borbottio del bollitore come rumori di fondo, con l’estenuante ticchettio del rubinetto che perdeva ed il sibilo emesso dal gas acceso, che Shiho aveva avvertito nitidamente l’aprirsi di una crepa sul pavimento e l’inevitabile sfaldarsi di quest’ultimo sotto i suoi piedi, in senso figurato perlomeno. La risposta di Kudo a quella domanda sarebbe stata fin troppo scontata per porgergliela ad alta voce, al contrario lei una risposta non l’aveva.
Per tutto il tempo trascorso nell’organizzazione, quando immaginava una vita libera, la immaginava accanto ad Akemi. Fantasticava su come sarebbe stato svegliarsi la mattina e trovare il bagno già occupato, uscire senza la spiacevole sensazione di essere tenute sotto stretto controllo, frequentare persone nuove cui potersi presentare con il proprio vero nome. Ma Akemi non c’era più.
E ora lei si ritrovava sola con un sogno realizzato a metà. Shinichi avrebbe semplicemente ricominciato da dove aveva lasciato, da Ran, dai suoi amici, dai suoi genitori…
Per Shiho, invece, non ci sarebbe stato nessuno. Certo il buon professore le aveva garantito il suo appoggio in un malcelato invito a non abbandonarlo, ma anche lui era parte di quella nuova vita cui ora doveva dare un senso.
Aveva anche valutato la possibilità di non prendere affatto l’antidoto, di crescere assieme ad Ayumi, Mitshuiko e Genta e di conquistare così gli anni che l’organizzazione le aveva sottratto.
Tuttavia appena il tempo di formularla e subito quell’idea venne accantonata: la sua non sarebbe stata comunque una vera infanzia. Per ogni scoperta di Ayumi avrebbe dovuto fingersi altrettanto curiosa, confusa davanti ai piccoli problemi adolescenziali di cui conosceva già rimedio, impacciata davanti a novità ormai vecchie per lei.
E se c’era un aspetto della sua vita andava cambiato era quello, la finzione.
Così, seppur con leggera esitazione, aveva ingoiato la pillola, dicendo addio ad Ai Haibara, cercando di dimenticare per sempre Sherry e aspettando di scoprire quale futuro il destino avesse in serbo per Shiho.















Angolo Autrice
Salve! L'ho detto in questo periodo ho tempo da spendere...perciò abituatevi all'idea di vedermi spesso con questa nuova long! XD
Non sarà lunghissima, ma riserverà delle sorprese...partendo dal fatto che il paring non sarà ShinShiho! (si, lo so vi ho abituato a questa coppia...ma da qualche giorno ho scoperto un paring a cui non avevo pensato e che mi stuzzica parecchio....quale? Lo scoprirete (o meglio lo intuirete) nel primo capitolo, pronto a giorni.
Intanto vi stuzzico con questo prologo striminzito...

bye bye

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Capitolo 2
*** Prime volte ***





1. Prime volte
 
Erano trascorsi tre giorni dalla trasformazione e l’unico contatto che Shiho aveva avuto con il mondo esterno erano state le quattro parole scambiate con il corriere che aveva bisogno della sua firma per definire una consegna.
Le sue labbra disegnarono un amaro sorriso ripensando a quanto sbilenco le fosse sembrato il suo nome, impresso sulla carta, e alla strana sensazione che aveva avvertito nel restituire la cartellina al ragazzo. Non era vergogna per quei caratteri traballanti, ma un’angoscia che aveva reso tremante la sua mano. Soltanto un mese prima non si sarebbe azzardata ad esporsi così e, pur sapendo che ormai non esisteva più alcun pericolo nel mostrarsi, provava ancora una certa riluttanza nel farlo; perciò, in attesa di abituarsi alla sua nuova esistenza, aveva deciso, semplicemente, di non uscire.
Sospirò, osservando il respiro condensarsi sul vetro della finestra e offuscare il suo riflesso che scomparve del tutto quando posò la tempia sulla cornice.
Era una giornata soleggiata e, benché la sua camera fosse riparata dall’ombra del grande castagno di villa Kudo, qualche raggio, bucando le fronde, riusciva lo stesso a filtrare dalle tapparelle e disperdersi nella stanza in un’esplosione di pulviscoli luminescenti, regalandole una piacevole sensazione di calore sul viso.
Socchiuse le palpebre con aria annoiata e rilassò le spalle. La monotonia di quei giorni l’aveva resa particolarmente inquieta, tesa a tal punto che, udito il trillo del campanello, trasalì.
Non aspettava alcuna visita ed il professore era fuori città per una conferenza, tuttavia, date le sue scarse amicizie e l’insistenza con cui il misterioso ospite pigiava sul citofono, non le fu difficile intuire di chi si trattasse.
Kudo” gli aprì, atona.
Gli occhi di Shinichi si ritrassero con risentimento sotto le ciglia nell’udire un entusiasmo tanto gelido. “Credevo che quella tua espressione immusonita fosse solo una copertura…”.
Shiho colse subito l’ironia e, con altrettanto sarcasmo, sollevò un istante gli angoli della bocca in una smorfia di saluto che rendeva bene il suo desiderio di sbattergli la porta in faccia. Tuttavia non ebbe modo di realizzare la sua fantasia in quanto il giovane, anticipando le sue intenzioni, sgusciò veloce oltre lo stipide e
si diresse verso la porta dello stanzino dove lei ed Agasa tenevano i cappotti per riapparire, dopo un serie di sconnessi borbottii, con in mano il berretto dei Big Osaka. “Andiamo!”.
Lo sguardo di Shiho mostrava uno scetticismo che il detective non mancò di notare.
“Intendi rimanere chiusa qui dentro per il resto dei tuoi giorni?”.
“Anche se fosse, non sono affari che ti riguardano, Kudo” ribatté con una decisa alzata di spalle.
Uno sbuffo rassegnato e Shinichi mise tacere l’irritazione crescente che provava davanti al suo dispotismo, prima di esprimere il suo disaccordo, modulando la voce affinché non suonasse troppo perentoria. “Allora tutto quello che abbiamo fatto…non è servito a niente.
Sei di nuovo in una prigione, ma questa volta ti ci sei messa da sola!”.
Rimarcò l’ultima parola, incurante dell’occhiata rancorosa di Shiho, che fino ad allora aveva tenuto lo sguardo fisso sul pavimento, ascoltandolo a braccia conserte, con le dita affondate nella propria carne.
Non rispose subito. Si concentrò sul significato di quel discorso, lasciò che si le depositasse addosso come polvere e cercò di soffiarlo via. Inutilmente.
Mentre s’immergeva nell’intensità degl’occhi di Shinichi, infatti, sentì il suo puntiglio sgretolarsi lentamente e, pezzo dopo pezzo, aiutarla a realizzare quanto il suo comportamento fosse infantile, quanto le emozioni suscitatele dalla vista del mondo somigliassero più alla vigliaccheria che alla paura. Raggiunto il fondo delle pupille, le sue labbra si mossero in un sibilo sommesso.
Così, semplicemente, senza che un solo angolo del suo volto si muovesse, e assolutamente in silenzio, prese il cappello e se lo calcò in testa: non amava perdere una disputa con Shinichi, ma sarebbe sempre stato lui l’unico in grado di farle cambiare idea.
 
 
 
C’era qualcosa, nella frenesia della città, che la metteva in costante disagio.
Dalla sua sterile prospettiva di bambina non se n’era mai accorta, ma, tra la folla, spuntavo sguardi che la fissavano un secondo per poi cambiare in fretta direzione e sussurri più visibili delle grida.
Più cercava di mimetizzarsi tra la gente, più lo spazio attorno a lei si allargava, rendendola assolutamente riconoscibile. Questa almeno era l’impressione che si portava dentro, mentre la metropolitana sfrecciava tra i cunicoli sotterranei.
“La nostra è la prossima”.
Fu felice di scendere e liberarsi dell’atmosfera opprimente che si respirava nel vagone, finché non vide il sorrisetto beffardo che Shinichi aveva stampato in faccia.
“Che c’è?” chiese indispettita.
“Non te ne sei resa conto, vero? Hai fatto colpo!”.
Con un leggero scatto del capo indicò, alle sue spalle, un paio di ragazzi che Shiho riconobbe subito come i proprietari delle occhiate che tanto l’avevano infastidita. Si sentì arrossire.
“Non dire sciocchezze!”.
“Sarà” fu il suo vago commento, che rimase anche il solo finché non giunsero allo stadio.
L’entrata si stava già riempiendo di tifosi, alcuni anonimi, altri con enormi bandiere e lo stemma della propria squadra dipinto sul viso.
Shinichi estrasse dalle tasche un paio di biglietti e glieli porse.
“Tieni! Io intanto cerco qualcosa da sgranocchiare durante la partita, però…”.
Il suo volto assunse un’espressione dubbiosa accompagnata da un’impercettibile contrazione delle labbra, che articolarono un “Ecco” non appena le aprì la felpa, sistemandole la fesa del berretto affinché non le coprisse la fronte.
“Così sembri quasi una diciottenne qualsiasi!” esclamò infine, soddisfatto di quei piccoli aggiustamenti che, a suo modo di vedere, conferivano all’amica un’aria più trasandata e adolescenziale, poi sparì dietro una massa di energumeni chiassosi, scampando al rimprovero che si meritava per quel ‘quasi’, di cui Shiho avrebbe certo chiesto spiegazioni.
Varcò lo stadio col piglio di chi desidera trovarsi in un altro posto e s’incanalò nella coda dove gli steward controllavano i ticket d’accesso e guidavano le persone verso il posto loro riservato.
Intanto, dalla parte opposta, un piccolo manipolo di supporters si era raccolto attorno alle piattaforme destinate ai giornalisti, punti strategici per osservare l’arrivo dei propri beniamini e, con un po’ di fortuna, strappar loro un autografo.
Fu da quel lato che, mentre rimuginava sulle parole di Shinichi, Shiho udì una serie di urla, perlopiù stridule. La comparsa del loro idolo aveva, infatti, aizzato l’entusiasmo di alcune scatenate ragazze, il cui atteggiamento, oltremodo esagerato, suscitò in lei fastidio, desolazione e una punta d’imbarazzo per quel genere femminile che si ritrovava ora, di nuovo, a rappresentare. Perciò, tutt’altro che incuriosita, rimase pazientemente in fila, scalando i posti lasciati liberi da chi, al contrario, era stato attirato dai cori.
Nei suoi occhi alleggiava un’apprensione che di normale aveva solo l’apparenza.
 
I giocatori entrarono in campo accompagnati dal boato dello stadio e si disposero secondo gli schemi.
Al fischio d’inizio, gli Osaka portavano la palla, che, dopo un paio di verticalizzazioni mal riuscite, giunse tra i piedi di Higo.
Shinichi si aggrappò al bordo della transenna, trattenne il respiro e sbarrò gli occhi quando il campione, scartati tre avversarsi, fece partire un tiro potente e preciso, che si stampò sull’incrocio dei pali. Al lieve verso di delusione della sua vicina, il suo cuore riprese a battere.
“Rischierai di strozzarti” commentò Shiho, vedendolo scartocciare un sandwich e azzannarlo con rabbia e sollievo, mentre continuava muoversi, gesticolare, saltellare sul seggiolino quasi scottasse.
Non la badò neppure e, al gol dei Noir Tokyo, scattò in piedi, accettando di buon grado il braccio al collo dello sconosciuto al suo fianco. Intorno regnava il caos.
I tifosi più agguerriti incitarono i propri giocatori intonando l’inno della squadra, quelli più quieti si limitarono ad esultare sollevando i pugni sopra la testa; lei rimase, invece, compostamente seduta  a domandarsi come facessero a sentirsi a loro agio, ad agitarsi in quel modo sotto gli occhi di tutti. Poi pensò che, forse, era la cosa più naturale del mondo e che proprio per questo non ne era capace.
Alla fine del primo tempo, le squadre si ritirarono negli spogliatoi sul risultato di 1-1 grazie ad un rigore trasformato da Higo. Si era reso protagonista di un’ottima gara e Shiho, vista la simpatia che nutriva per lui, non poté che esserne contenta.
“Cos’è quel sorrisetto?”.
Nella voce di Shinichi c’era la meraviglia di chi subisce un’amara sorpresa, qualcosa d’inatteso e spiacevole, ma di troppo lieve per scomodare la collera.
Shiho aggrottò la fronte, pensierosa. Si sentiva strana, pervasa da una leggerezza ignota che la possedeva senza alcuna ragione apparente.
“Niente” sospirò, incurvando ancora le labbra. “È una bella partita”.
Vederla di buon umore gli fece scuotere la testa, arrendevole. Non avrebbe mai capito a quale legge rispondevano le reazioni emotive dell’amica, ma stava ridendo. E questa era la cosa che più contava.
“Già. Non illuderti, però. Abbiamo ancora un tempo per portarci a casa la vittoria!”.
“Lo stesso vale per noi, Kudo!” e addentò il panino, spingendosi con gli occhi oltre il parapetto, sul rettangolo verde, dove Higo era appena ricomparso, tra le urla entusiastiche dei suoi fans.Cominciò un solitario palleggio a bordo campo, dispensando sorrisi a quanti lo incitavano a vincere, tra le file degli Osaka, e a qualche nostalgico dei Noir Tokyo che invocava un suo ritorno. Lui ringraziò tutti con un lieve inchino che sollevò il caldo applauso del pubblico, compreso quello di Shinichi: se non avessero avuto magliette diverse, le due tifoserie sarebbero parse indistinguibili.
“Dietro alla sua classe, c’è sempre una grande umiltà e la voglia di non arrendersi mai, per questo è tanto amato!” disse, sbracciandosi quando il campione agitò le mani proprio sotto il loro spalto.
Aveva il viso di un ovale perfetto, stretto alle tempie e un po' largo in basso, gli occhi lunghi, chiari e dolci, il naso dritto in una sola linea con la fronte, le labbra distese in un affaticato sorriso sopra il pizzetto. Shiho lo trovava bello, di quella bellezza che incanta perché ha una storia alle spalle. E per un momento, come un’ammiratrice sfegatata, desiderò che quel saluto fosse rivolto solo a lei.
 
Trotterellò in campo a testa china, insultandosi mentalmente per aver anche solo creduto di riuscire a scorgerla tra migliaia di spettatori urlanti.
Di lei sapeva solo che aveva il fascino della solitudine, la limpidezza delle cose fragili.
E le labbra segnate da ciò che si è perduto.
L’aveva vista per la prima volta quel giorno, all’entrata dello stadio, mentre, accogliendo le richieste dei tifosi, firmava qualche autografo e scattava foto in loro compagnia. Alcune ragazze erano riuscite a metterlo in difficoltà con commenti che trascendevano le sue doti atletiche e, Higo, per celare l’imbarazzo, si era voltato.
Quella ragazza spiccava nella fila d’accesso, con il berretto degli Osaka calcato sul viso, una felpa troppo ampia che le ricadeva ben oltre le spalle, lo sguardo vigile puntato sull’orologio.
 “Forza, Ryu!”.
Lo sprone di un suo compagno gli ricordò che c’era ancora una partita da giocare e vincere.
Così chiamò palla, dribblò un avversario, azzannò la metà campo avversaria e, giunto al limite dell’area, calciò. Il pallone disegnò una diagonale perfetta, veloce e angolata, depositandosi in rete tra l’immediato giubilo dei tifosi.
Higo fu travolto dall’abbraccio della propria squadra, ma i suoi occhi, anziché nella gioia dei compagni, si persero nella curva.
Era lì, da qualche parte, e la sola idea di averle regalato un sorriso, lo rese inspiegabilmente felice.
















Angolo Autrice
Ebbene si! Higo e Shiho....Shiho e Higo...un crack-paring che più crack non si può! Ma siccome anche l'autrice è un pò crack non dovete stupirvi! XD
L'idea nasce una settimana fa da un'errata traduzione del file e, nonostante poi si sia capito l'errore, era troppo tardi...la mia mente viaggiava già nella direzione di questa fic! Ed eccovela qui!
Non so quanti apprezzeranno la coppia, io stessa ho delle difficoltà nel delineare il carattere di Higo viste le sue poche apparizioni...spero tuttavia che funzioni l'equazione: ad Ai piace Higo, a me piace Ai, quindi...mi faccio piacere pure Higo! ;) (Che in fondo non è affatto male!)
Ok, smetto di scrivere tutto ciò che penso e vi saluto!
Appuntamento alla prossima settimana con il secondo capitolo, 'L'incidente'.

bye bye

ps: GRAZIE a tutti coloro che seguono/commentano la fic! Sapete che sono una sciappa a rispondere alle recensioni...quindi cercherò di rispondere a vostri eventuali dubbi in questo spazio!

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Capitolo 3
*** L'incidente ***






2. L’incidente
 
 “E oltre a questo…cosa sai di lei?”.
Il suo sguardo sconfortato temporeggiò sull’espressione inebetita dell’amico e sulle circonferenze che stava tracciando in aria col cucchiaino sporco di gelato per concentrarsi poi sulla sbeccatura della tazzina di caffè.
“Che tifa per i Big”.
Quando Rikuo contrasse la mascella, Higo capì che qualsiasi cosa stesse per dirgli, non gli sarebbe piaciuta.
“Beh…questo è un punto a suo sfavore, no?” e scoppiò in una risatina nervosa.
“Rik…sei il solito cretino!” sbottò, accasciandosi sulla sedia in vimini del Miki’s, nei pressi della stazione, coi gomiti puntati sui braccioli, le dita a tormentarsi il pizzetto, gli occhi vaganti su un punto non meglio definito infondo alla via.
Proprio in quella direzione, un’elegante palazzina a sei piani apriva la porta per far uscire una donna. Era il suo giorno libero e voleva impiegarlo in centro a far compere, ma, messo piede in strada, si accorse di aver dimenticato il suo soprabito rosso, così tornò indietro a prenderlo. Rientrata in casa, squillò il telefono, lei rispose e parlò per un paio di minuti con l’operatore della compagnia telefonica che voleva proporle una vantaggiosa offerta.
Mentre la donna scandiva l’ennesimo rifiuto, Rikuo cercava di scusarsi con Ryusuke per la scarsa serietà con cui aveva trattato il suo problema, ma l’ironica battuta sulla densità demografica della città non era stato il modo migliore d’iniziare.
Intanto la donna, riagganciata la cornetta con un gesto stizzito, era scesa e aveva sollevato la mano per attirare l’attenzione di un taxi. L’autista, al suo interno, la vide troppo tardi sullo specchietto retrovisore e, preso il cicalino, avvisò un collega che si era fermato a bere l’ultimo caffè del turno di notte appena concluso.
Solo un altro giro’ pensò questo, allungando una moneta al cameriere.
Nel frattempo Ryusuke e Rikuo continuavano a chiacchierare, con la speranza del primo che si stava lentamente assottigliando per lasciar posto all’amara verità: la strada della misteriosa ragazza vista allo stadio e la sua non si sarebbero mai incontrate.
Il tassista, dopo la breve pausa, prese a bordo la donna con il soprabito rosso, ma, appena ripartito, inchiodò a causa di un uomo che stava andando a lavoro 5 minuti in ritardo perché si era dimenticato di mettere la sveglia.
Mentre quell'uomo in ritardo attraversava la strada, per Ryusuke e Rikuo era giunto il momento dei saluti. “Fatti vedere più spesso da queste parti!” disse Endo, stringendogli la mano come facevano dai tempi delle elementari, con un pugno sulle nocche e una pacca spalla contro spalla. Uscirono, bisticciando sul conto, e contemporaneamente il taxi aspettava la donna entrata in una pasticceria a ritirare un pacchetto che, però, non era pronto perché la commessa si era lasciata col fidanzato la sera prima e se n'era dimenticata.
Ritirato il pacchetto, la donna era risalita nel taxi ed aveva fulminato l’autista, reo di essersi abbandonato ad improperi poco lusinghieri contro un furgone che bloccava la strada.
Intanto alcuni piccoli ammiratori avevano riconosciuto, nel ragazzo diretto di buon passo verso la stazione, il grande Higo e gli avevano porto un pallone su cui apporre l’autografo.
Il furgone si spostò e il taxi poté ripartire, mentre Ryusuke accettava di palleggiare con i bambini. “Solo dieci minuti, altrimenti perdo il treno” aggiunse.
Il taxi, nel frattempo, si era fermato nuovamente. Oggetto d’insulti, stavolta, un semaforo.
Dopo un’esagerata esultanza, i piccoli iniziarono a giocare con il loro idolo, ma, al terzo tiro, uno mancò l’appoggio…
Se solo una cosa fosse andata diversamente...
Se quel furgone si fosse spostato un momento prima o se quel pacchetto fosse stato pronto perché la commessa non si era lasciata col fidanzato o quell'uomo avesse messo la sveglia e si fosse alzato 5 minuti prima o se quel tassista non si fosse fermato a prendere il caffè o se quella donna si fosse ricordata del soprabito e avesse preso un taxi prima...Ryusuke avrebbe attraversato la strada per recuperare il pallone e il taxi sarebbe sfilato via.
Ma la vita, essendo quella che è, aveva creato una serie di circostanze incrociate e incontrollabili, per cui quel taxi non sfilò via... il tassista, tradito dal sonno, abbassò un istante le palpebre ed investì Ryusuke... e la sua gamba fu spezzata.
 
 
 
Shiho infilò la chiave nella toppa e girò finché non sentì lo scatto ferroso della serratura.
Non appena aprì la porta, il saluto già pronto in gola si bloccò come uno starnuto che non arriva alla vista del paio di scarpe da ginnastica, con la punta consumata, lasciate rinfuse sullo zerbino dell’ingresso.
“Kudo, sai che casa tua è appena dieci metri più là, vero?” commentò, spostando lo sguardo dalle piastrelle al divano, dove Shinichi era disteso, stravaccato, con le mani incrociate sulla nuca e le gambe ciondolanti oltre lo schienale. Lui sollevò una mano e la mosse convulsamente in aria, come se stesse scacciando mosche invisibili, ma rimase in silenzio.
Dalla cucina, intanto, provenivano gli inconfondibili rumori del pranzo, spazzati via in un attimo dallo sciacquio del rubinetto. Agasa si era probabilmente lavato le mani, infatti, quando entrò nel salone, aveva le maniche della camicia arrotolate fino al gomito e si strofinava le dita con uno straccio.
“Sei tornata! Allora?” chiese. La concitazione della sua voce cozzava con la sua espressione di tenerezza e di profonda commiserazione, simile a quella che di solito si dedica ai malati, facendogli pesare addosso la propria attesa. Un’espressione che Shiho trovò ridicola.
“Ho tutto” sospirò, come vinta dalla fatica, sfilando dalla borsa una voluminosa busta giallognola che posò sul basso tavolino del salotto, a pochi centimetri dagli occhi chiusi di Shinichi, e raggiunse la poltrona, stando ben attenta ad appoggiare prima la punta del piede e poi il tallone, per minimizzare il contatto con la superficie del pavimento e far sì che ogni suo movimento risultasse tanto silenzioso da rendere trascurabile la sua presenza.
Invece, mentre afferrava una rivista, Shinichi scattò seduto, osservò la busta e lei, aspettando una qualche forma di permesso.
“Guarda pure”.
Non se lo fece ripetere. Estrasse le carte e cominciò a scorrerle, con il professore, incuriosito, che lo spiava alle spalle.
“C’è scritto Shiho Miyano” disse sorpreso senza staccare gli occhi dai documenti.
“È il mio nome”.
“Si, ma credevo che l’FbI ti avesse garantito un’altra identità”.
In realtà le avevano proposto di cambiare nome, ma lei aveva usato così poco il suo che le era parsa una profilassi inutile. Inoltre aveva pensato che quella fosse una pena minima da scontare per il suo passato e che, così, le conseguenze delle sue azioni criminose l’avrebbero trovata più in fretta.
Omise quest’ultima riflessione e lo liquidò con un secco “No”, lasciando che giungesse in fondo e premurandosi di avere il telecomando a portata di mano.
Come immaginava, all’ultimo certificato, Shinichi andò in escandescenza.
“Che cos’è questo?”. La voce gli uscì strozzata, quasi fosse stata liberata troppo in fretta dalle corde vocali, mentre sventagliava il foglio.
Dopo la partita era riuscito a strapparle la promessa di valutare seriamente la possibilità d’iscriversi al suo liceo e concludere l’ultimo anno nella sua classe. Shiho sapeva, già allora, di essere troppo debole per reggere la vista di Shinichi nel suo habitat, che, con ogni probabilità, i cortili esterni colmi di adolescenti avrebbero aumentato il suo disagio, quel senso d’impalpabile inadeguatezza che provava di fronte alla normalità, e temeva che, se lui se ne fosse accorto, l’invisibile filo che li teneva uniti, per quanto elastico, si sarebbe spezzato, facendogli aprire gli occhi sul loro rapporto: due sconosciuti che fingono di avere ancora qualcosa in comune. Naturalmente ciò non sarebbe accaduto, ma siccome Shiho non comprendeva ancora bene i flessibili dinamismi dell’amicizia, le era sembrato più semplice tradire le sue aspettative.
“Un attestato che prova la mia preparazione scientifica e mi permetterà di riprendere gli studi…”. Fece una piccola pausa. “…all’università”.
Shinichi e Agasa si scambiarono una lunga occhiata interrogativa, che entrambi sembravano incapaci di esternare a parole, mentre lei sfogliava con aria indifferente una rivista.
Fu solo dopo un paio di patinata pubblicità che il dottore balbettò un: “Sei sicura?”.
Scrollò le spalle. La biochimica l’aveva sempre affascinata perché non riserva sorprese.
Ogni scoperta, ogni formula era il risultato di un lavoro accurato in cui nulla veniva lasciato al caso. Neanche il luogo di studio. Shiho, infatti, era solita togliere dalla scrivania tutto ciò che poteva distrarre il suo sguardo, per sentirsi davvero sola con il foglio e cominciava a scrivere senza fermarsi. Se si trovava a esitare troppo a lungo su un passaggio, sbagliava ad allineare due formule o si accorgeva che la composizione degli elementi impediva a questi di legarsi, spingeva il foglio a terra e ricominciava da capo.
Giunta alla fine di quelle pagine fitte di simboli, le sembrava di aver messo in ordine un pezzetto di mondo, di aver compreso qualcosa in più su quest’ultimo partendo dalle più piccole particelle che lo costituiscono.
Una debole protesta si levò da parte di Shinichi, ma venne prontamente coperta dalla sigla del notiziario: Shiho aveva acceso il televisore e pigiava con insistenza sul tasto del volume.
In un attimo nella stanza rimbombò la voce della giornalista che avvisava il pubblico di un incidente avvenuto nella mattinata davanti alla stazione ed il nome di Ryusuke Higo vibrò debolmente nell’aria come una corda di violino allentata, una nota stonata, persa nel mezzo di un’orchestra.
 
 
 
I giorni all’ospedale trascorrevano tutti uguali.
Al risveglio, la mattina, la stanza era intrisa dello splendido odore di arance, ma quando il sole, ormai alto, filtrava dalle tapparelle abbassate, disegnando linee parallele sulle pareti, il profumo d’agrumi veniva schiacciato da quello dell’antisettico e del thè che le infermiere gli lasciavano sul comodino. Higo fingeva sempre di dormire ed attendeva lo scatto della porta per sollevare le palpebre. Lo sguardo gli si apriva ogni volta sulla gamba ingessata fino al ginocchio e sorretta da un braccio metallico, un paio di spanne sopra il materasso.
Allora sbuffava, ripetendo quanto gli aveva detto il medico, anche se, col passare del tempo, quel “Tornerà come nuova” si era indebolito, vittima della monotonia nosocomiale, ed allungava la mano verso la tazza fredda.
I momenti più piacevoli erano quelli delle visite.
Rikuo arrivava sempre dopo il tramonto. Lasciava scivolare il borsone a terra, strascicava una sedia accanto al letto e lo tramortiva con aneddoti e storie di spogliatoio. Ogni tanto quel rituale di chiacchiere veniva interrotto da un esasperato “Ma stai ancora pensando a lei?”.
Lui picchiettava il bordo del letto, dove le lenzuola tornavano ad appiattirsi, e negava, dirottando il discorso sul suo ritorno in campo.
“Vedrai, tornerai come nuovo” lo incoraggiava l’altro. “Un mese passa in fretta”.
Poi Higo lo guardava uscire, trascinandosi dietro la porta e i rimproveri delle infermiere per non aver rispettato l’orario, e sospirava, mentre la luce della stanza cambiava, da gialla ad azzurra, perché l’ultima unghia di sole sprofondava dietro i palazzi di fronte.
‘Solo tre settimane’ scandiva mentalmente, aspettando la cena.
 







Angolo Autrice
Salve! Volevo solo precisare un cosuccia....l'inizio del capitolo è una rielaborazione di un racconto 'fuori campo', tratto da "Il curioso caso di Benjamin Button"...mmm mi sembrava giusto dirlo...kmq nel prossimo capitolo ci sarà un risvolto importante....quale? Aspettate venerdì e lo scoprirete ne: 'Cambi di gioco'.

bye bye

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Capitolo 4
*** Cambi di gioco ***




3. Cambi di gioco
 
Shiho si presentò nell’ufficio del professor Yuto poche settimane dopo l’inizio dei corsi.
L’entusiasmo per la sua avventura universitaria si era consumato in fretta e, ai buoni propositi iniziali, era presto subentrata una sorta di sofferente apatia.
Trovava antiquato il programma offerto dalla facoltà, lacunoso, ed anche quando s’imbatteva su argomenti nuovi, la voracità di giungere al nocciolo, la portava a studiarli di propria iniziativa, ad approfondirli, a renderli propri a tal punto che, una volta terminato, sembrava non ricordare più se averli davvero scoperti qualche giorno prima o durante la sua vita precedente.
Lo studio era piccolo, ordinato e inodore, dominato dal contrasto tra il bianco delle pareti e l’arredamento in mogano.
Tamburellò piano sulla porta e dall’interno il professore non fu sicuro se stessero bussando a lui o all’ufficio accanto, perciò passarono alcuni secondi prima che dicesse “Avanti” sperando di non fare una figuraccia.
Shiho aprì e mosse un passo oltre lo stipite. “Buongiorno”.
Lui scosse la testa di lato, in quello che Shiho interpretò come il massimo cenno di saluto di cui fosse capace, e la invitò ad accomodarsi.
La poltroncina di pelle nera stridette sotto il suo peso in una sorta di lamento animale che la distrasse, facendole dimenticare un momento perché era lì.
“Allora?” la esortò, osservandola accigliato.
“Sono qui per il posto da tirocinante”.
Yuto fece una smorfia, simile ad un sorriso ironico.
“Mi scusi, ma lei chi è?” chiese senza nascondere il sarcasmo e incrociando le braccia al petto, come se volesse godersi un attimo di divertimento.
“Mi chiamo Shiho Miyano. Sono al primo anno e…”.
“Signorina. Sa che, per il tirocinio, prendo in considerazione solo studenti del terzo e che questi devono dimostrarmi il loro grado di preparazione con un elaborato autonomo?”.
Lei annuì, senza scomporsi, e prese dalla borsa un plico di fogli numerati e scritti in bella grafia, che posò sulla scrivania con un leggero colpetto delle dita affinché scivolassero fino al bordo. Yuto aggrottò le folte sopracciglia ed il suo sguardo si accese, studiando più attentamente la studentessa che si ritrovava di fronte. Era bella, ma aveva la postura di chi non sa occupare lo spazio del proprio corpo, come se quel fascino fosse più un peso che un vantaggio. Cercò di inserirla in uno degli stampini che, durante i lunghi anni d’insegnamento, aveva preparato per gli studenti: c’erano i sopravalutati che crollavano alla prima sbavatura nella loro carriera e i bisognosi di attenzione, quelli che nello studio riescono perché nella vita sono dei fessi e, non appena finiscono fuori dalla strada ben tracciata dell’università, si rivelano sempre dei buoni a nulla, e ancora i talenti incompleti, grandi cervelli e scarsa capacità di sfruttarli, inghiottiti da qualche anonimo laboratorio di terza categoria.
Tuttavia, Shiho, almeno in apparenza, non rientrava in nessuno dei modelli precostruiti dalla sua mente, così, con la sfuriata già pronta, bloccata in gola come uno starnuto che non arriva, prese il suo lavoro e, inumidendosi l’indice, sfogliò le pagine sino in fondo.
Con la fronte ancora corrugata, lesse veloce la dimostrazione di Shiho, senza capirci molto, ma neppure trovando qualcosa da obiettare.
Poi la riprese da capo, più lentamente, soffermandosi con attenzione eccessiva su ogni riga, e questa volta il ragionamento gli parve chiaro, rigoso e inappuntabile. Mentre seguiva i passaggi, la sua fronte si distese e lui prese ad accarezzarsi, inconsapevolmente, il labbro inferiore, che vibrava, scosso da mugolii di approvazione.
Di tanto in tanto i suoi occhi si staccavano dai fogli in una sferzata d’invidia per quella studentessa che sembrava così inadatta all’esistenza ma senza dubbio dotata per la biochimica, come lui stesso non si era mai davvero sentito. Shiho, dal canto suo, gli restituiva sguardi assenti, al limite della noia, quasi trovasse quella prassi del tutto priva d’importanza.
Yuto appoggiò nuovamente i fogli sulla scrivania e si schiarì la voce, che uscì comunque rauca,
per articolare: “L’ha copiata?”.
Lei ascoltò quella breve sequenza di parole, ma ci mise alcuni secondi a ricostruirne il significato e denegò la testa con l’espressione impassibile di una bambola di porcellana.
“Bene. Le farò sapere. Può andare”.
Shiho si alzò, biascicò un “Grazie” tutto fuorché sincero ed uscì, mentre il professore si accostava alla finestra, pensando che nel suo personale catalogo mancava la voce imbroglioni.
 
 

“Partita?”.
Ryusuke spinse in avanti la gamba destra facendole compiere una piccola mezzaluna verso l’esterno. Per una frazione di secondo il suo bacino rimase sbilanciato su un lato, quasi stesse per rovesciarsi da una parte, ma infine il suo piede toccò il suolo.
Aveva imparato a muoversi in quel modo, senza stampelle, per coprire brevi tratti come quello che separava l’armadio dal letto, dove stava impilando le poche cose che gli erano servite durante la sua degenza.
“Si. Ho pensato che ti sarebbe piaciuto risentire l’odore di un campo da calcio prima di iniziare la riabilitazione” gli rispose una voce alle sue spalle.
Ichiro Misaki stava fermo sotto lo stipite, con una mano in tasca, l’altra uncinata alla spalla per reggere la giacca e il colletto della camicia immancabilmente sbottonato. Era questo suo stile trasandato, a detta di molti, l’unico ostacolo tra lui e una carriera agli alti piani della dirigenza, che snobbava con una frase di rito. “Preferisco l’ambiente libero degli scout agli uffici!”.
“E la società che dice?”.
“Cosa vuoi che importi? La prima seduta di fisioterapia è stata fissata solo tra un paio di giorni!”.
Higo sollevò solo un angolo della bocca, come se necessitasse di altre garanzie per completare un sorriso, così Misaki controllò il programma e gli fece il nome di alcune squadre che aveva intenzione di visionare.
“….e il Konan. Non è il tuo vecchio liceo?”.
Annuì, riponendo una felpa nella sacca. “Contro chi gioca?”.
“Il Teitan”.

 
 
Il cortile esterno pullulava di adolescenti.
Alcuni si erano ritagliati uno spazietto isolato per fumare in tranquillità, altri chiacchieravano, ridacchiando ed esibendosi in strane smorfie.
Shiho si fermò al cancello, riempendosi i polmoni d’aria senza tuttavia muovere un passo, finché qualcuno non le chiese gentilmente di spostarsi.
D’impulso si accostò ad uno dei piloni di cemento, imprimendoselo sulla schiena, e per un attimo, osservando l’uomo che aveva parlato ed il ragazzo infortunato al suo fianco, l’idea di poter diventare tanto sottile da essere invisibile le procurò una piacevole stretta allo stomaco.
“Shiho!”.
Il suo nome urlato da distante penetrò nello strato di torpore e irrequietezza che l’aveva pervasa e le si depositò addosso come una mano di calcinaccio, visibile ma irrilevante. Nel momento in cui i suoi occhi misero a fuoco l’immagine di Shinichi, lui era già a meno di un metro.
“Sei venuta!”. Lo disse come se si stesse rivolgendo ad un’allucinazione, anche se nel suo sguardo, Shiho, poté cogliere una meraviglia inedita, vittoriosa.
Era stato così furbo da sfruttare la storia dell’università per costringerla ad assistere alla prima partita del torneo liceale e lei, sebbene avesse pronto sulla punta della lingua il rifiuto, si era sentita rimpicciolire a tal punto da accontentarlo.
“Di qua!”. Le fece un cenno con la testa e Shiho lo seguì, rassegnata. Quando Shinichi faceva così le gambe iniziavano a formicolarle e l’afferrava la voglia di andarsene via. C’era qualcosa nel suo modo di fare, nell’impeto con cui assecondava i suoi capricci, che lei trovava insostenibile.
Appena raggiunsero il campo, fu travolta dal saluto entusiastico di Ran, che le sorrise ed accennò un movimento in avanti del busto, forse per baciarle le guance, ma la sua immobilità  la trattenne. Shiho non seppe dire se si fosse offesa perché le sue sopracciglia si arcuarono e distesero nel giro di un attimo, quasi a sottolineare ‘Me lo aspettavo’. Poi si rivolse a Shinichi.
Nell’augurargli in bocca al lupo il suo viso si colorò di un leggero rossore e le mani iniziarono a tremarle dentro i polsini del maglione, tesi ben oltre le nocche. “Farò il tifo per te!” e lo lasciò lì, con un’espressione ebete scolpita in faccia, mentre trascinava Shiho verso gli spalti.

Le prime file erano state riservate agli studenti del liceo ospitante.
Lei rappresentava un’eccezione e, forse anche per questo, a Sonoko sfuggì uno sbuffo seccato nel vederla scivolare sul seggiolino accanto al suo.
Tra tutti coloro cui si era reso necessario fornire una spiegazione sull’improvvisa scomparsa di Ai, la giovane ereditiera dei Suzuki era stata quella più difficile da persuadere. Sembrava che per un qualche motivo avesse fiutato l’olezzo della menzogna e non accettasse l’idea di venirne contaminata, così, ogniqualvolta se ne presentava l’occasione, incalzava Shiho di domande, anche indiscrete, squadrandola attentamente, come se un semplice gesto, un parola azzardata o un silenzio prolungato costituissero inoppugnabili prove dei suoi sospetti.
“Oh, ci sei anche tu? Non avevi da fare con l’università?”.
“No”.
Sonoko piantò il mento sul palmo e strizzò gli occhi in quelli di Shiho.
“Più ti guardo, più mi ricordi quella strana bambina. Sembra impossibile che siate solo lontane parenti”.
“La genetica agisce in modo affascinante. Tu e tua sorella avete un grado di parentela più stretto, eppure non vi somigliate per niente”.
Sentì le parole graffiarle la lingua come sabbia. Mentre le diceva studiò la sua espressione per cogliere un accenno di delusione o rabbia e potercisi aggrappare, ma il suo sguardo, colpito dal sole, era troppo chiaro per distinguere il guizzo che l’accese.
“Basta Sonoko!” s’intromise Ran. “Lascia che si goda la partita!”.
In quell’istante, a termine di un’azione personale, il numero 11 del Teitan scaricò la palla in rete, portando in vantaggio la squadra.
“Hai visto? Che ti avevo detto! Segnati questo nome: Shinichi Kudo!” esclamò Higo soddisfatto, punzecchiando con amichevoli gomitate l’uomo al suo fianco. Misaki crollò il capo senza staccare gli occhi dal campo, dove il gioco era già ripreso.
“Il tuo fiuto è ottimo! Potresti avere davanti una carriera da osservatore!”.
Dopo aver parlato, socchiuse le palpebre e portò le labbra in dentro; quello inferiore lo trattenne per un attimo con gli incisivi, come se quella confidenza fosse sfuggita al suo volere.
“Non intendevo…”.
Higo gli posò una mano sulla spalla e gli sorrise, poi abbassò la testa e la sua visuale fu coperta dal gesso che gli avvolgeva metà della gamba. Si ricordò che, appena dopo l’incidente, non aveva sentito nulla, se non il raschiare dell’asfalto sulla faccia e il calore rovente che emanava, mentre ora, in piedi, con il sangue che circolava veloce nelle vene, avvertiva un pizzicore sempre più nitido all’altezza del ginocchio, dove sapeva trovarsi una spessa cicatrice.
Col tempo i medici gli avevano garantito che i lembi di pelle si sarebbero rinsaldati, che la crosta scura avrebbe sostituito i punti e che, infine, anche questa sarebbe sparita sotto uno strato di pelle liscia ed elastica, ma sulla tenuta nessuno aveva osato pronunciarsi con certezza.

 
 
Quando l’arbitro si portò il fischietto alla bocca per porre fine al match, gli studenti del Teitan scattarono in piedi, osannando la squadra.
Shiho notò che alcuni ragazzi tenevano le mani a coppa sulle guance ed urlavano a squarciagola il nome dei loro compagni. Shinichi fu, naturalmente, il più gettonato.
“Ran, il tuo amoruccio si aspetterà una lauta ricompensa per la sua prestazione!”.
Trovò del tutto inopportuna la malizia che aveva accompagnato le parole di Sonoko, ma si limitò a roteare gli occhi al cielo, cercando di dedurre quale ora potesse essere dalle sfumature all’orizzonte, mentre Ran borbottava un severo rimprovero con una vocina stridula che pareva essere rimasta troppo tempo incastrata nella gola, sgusciando oltre le transenne.
Mosse la testa, facendo oscillare lo sguardo da una parte all’altra del campo per riuscire a scorgere l’ombra di Shinichi.
Lo trovò solo quando uno sconosciuto con una camicia azzurra ed un cartellino appeso al collo si avvicinò al cerchio caotico di giocatori e alunni festanti e pronunciò il suo nome. La distanza era troppa per udirlo chiaramente, ma intuì fosse così perché poco dopo Shinichi si sciolse dall’abbraccio dei compagni, scambiò qualche rapida battuta con quell’uomo e iniziò a seguirlo verso gli scaloni.
“Io vado da Shin, voi che fate?”.
Sonoko mise un broncio accondiscendente, risparmiandosi il facile sarcasmo, e Shiho si vide costretta ad imitarle.
Pensava che in quel modo avrebbe saldato il suo debito, che sarebbe bastato scoccare a Shinichi un eloquente sorriso ed inventare un lavoro importante da consegnare l’indomani per allontanarsi dal cortile, dove c’erano troppe persone a respirare l’aria che lei sentiva sempre scarseggiare.
“Oh, questa è Ran!” disse, passandole un braccio sulla schiena ed invitandola a fare qualche passo in avanti per presentarsi. Lei obbedì a disagio, nonostante Higo si fosse dimostrato tutto fuorché altezzoso.
“La sua fidanzata!”.
La voce di Sonoko giunse alle spalle della karateka, che sobbalzò ormai del tutto in preda all’imbarazzo. Shinichi, invece, s’irrigidì, ruotando il busto con un gesto meccanico, gli occhi ridotti a due rancorose fessure, le labbra strette mosse per articolare qualche insulto, di cui Higo colse solo vaghi e distorti suoni d’ovatta.
Appena si risistemò la fesa del berretto e sollevò il capo, infatti, i suoi occhi furono catturati dalla figura che li stava osservando in disparte.
Gli sembrava così bella, così seducente, così diversa dalla gente comune, che non capiva perché nessuno rimanesse frastornato come lui al rumore ritmico dei suoi passi sul lastricato, né si ribellassero i cuori quando il suo sguardo spariva, anche se per una frazione di secondo, dietro le ciglia, né evaporassero le parole davanti a labbra tanto tese ed i pensieri non orbitassero attorno ad una soluzione per farle sorridere.
Quando con un leggero colpo di tosse avvisò gli altri della sua presenza, Higo sentì il suo corpo accartocciarsi, come un foglio di giornale che brucia nel camino e proprio come un pezzo di carta contorto dalle fiamme allungò una mano, incurante della stampella lasciata cadere a terra in un tonfo.
“Ryusuke Higo”.
Lo disse veloce, quasi il nome gli fosse fuggito inavvertitamente dalla bocca.
Lei squadrò prima le dita tremanti che aveva di fronte, poi il loro proprietario e ricambiò la stretta con un misto di titubanza e vergogna.
“Miyano”.
“Shiho”aggiunse, come se ci avesse ragionato su.
 
 
 
 
 


 

Angolo Autrice
E c'è l'incontrooooooooooooooooooo!!!!!!!
Lo so, avevo detto che avrei aggiornato venerdì, ma il mio piedino (rotto) ha fatto i capricci questa settimana, così mi sono imbottita di antidolorifici.
Risultato: coma profondo. Però con questo capitolo conto di essermi fatta perdonare! ^^
Il prossimo sabato (venerdì non credo di riuscirci...). Il titolo? 'Nuove Prospettive'!


bye bye
 
 

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Capitolo 5
*** Nuove Prospettive ***




4. Nuove prospettive
 
Dicono che quando s’incontra la persona della propria vita, il tempo si fermi per permettere a quel momento di diventare indelebile.
Shiho, in qualità di scienziata, credeva solo ai fenomeni che si potevano dimostrare, ai fatti scomponibili e a quelli analizzabili in un laboratorio; perciò, nell’istante in cui i polpastrelli di Higo le sfiorarono delicatamente il palmo per poi chiudersi poco sopra il polso, avvertì lo stesso impaccio che si prova di fronte a qualcosa d’inatteso.
Cercò di aggrapparsi a qualche ricordo sulla gravità e la sua incidenza nel fluire del tempo, ma, ben presto, perse la concentrazione, come se la semplice presenza di Higo fosse riuscita ad inceppare l’ingranaggio complicato del suo pensiero.
“E questa è la mia amica Sonoko”.
La voce squillante di Ran li restituì ad una realtà che pareva essersi allontanata di colpo da entrambi.
Shiho ritrasse in fretta la mano, nascondendola nella piega del gomito, mentre Higo rispondeva all’inchino appena accennato di Sonoko con un cortese: “Piacere mio”, recuperando con qualche difficoltà la stampella caduta.
Una domanda sobillava la lingua di tutti senza che nessuno osasse formularla ad alta voce per timore di apparire maleducato, invadente o semplicemente perché la risposta non meritava interesse. Fu Misaki a sciogliere i dubbi.
“Ryusuke mi ha parlato molto di te, Kudo-san. È per questo che oggi sono venuto ad assistere alla partita, vorrei proporle di partecipare alla selezione per la seconda squadra dei Big Osaka!” spiegò, con una nota d’orgoglio.
Lo sguardo di Shinichi si mostrò un attimo smarrito, cercò rassicurazioni in quello di Higo e, trovatole, sparì dietro la linea delle palpebre. Non erano chiuse, ma semplicemente schiacciate dal suo largo sorriso.
Shiho riconobbe, nel modo in cui si massaggiava la nuca, l’opera dell’imbarazzo ed il disagio che si prova ad essere al centro dell’attenzione.
Lo giudicò fasullo. Conosceva abbastanza Shinichi da sapere che dietro ogni spigolo del suo carattere, la virtù celava un difetto, senza tuttavia riuscire ad accantonare troppo a lungo quello che lei sopportava di meno, l’arroganza.
Così, lanciata un’occhiata insofferente all’amico, dirottò la propria attenzione altrove.
Appostate all’entrata dell’edificio c’erano una ventina di persone.
Alcune guardavano nervosamente l’orologio, fumavano e parlavano, altre camminavano avanti e indietro -facevano cinque passi da una parte, poi li ricalcavano in direzione opposta.
Stavano tutte aspettando qualcosa o qualcuno, come lei, che desiderava solo tornare a casa, al suo confortevole niente.
D’un tratto la sua spalla si curvò debole sotto il peso della mano di Ran e, nel voltarsi, i suoi occhi si ritrovarono di fronte l’espressione stupita ed impaziente di Shinichi, su cui era scolpita la domanda ‘mi stai ascoltando?’.
A Shiho sembrò di avvicinarsi a quella scena da lontano, da un posto sfocato che già non ricordava bene.
“Che fai? Vieni anche tu?” ripeté per quella che il suo tono scocciato lasciava supporre fosse l’ennesima volta.
Intuì si trattasse di un invito e sapeva esattamente cosa fare.
Doveva chinare il capo, adottare una qualche scusa e rifiutare, ma Higo s’intromise con gentile prepotenza.
“Miyano-san, solo pochi minuti”.
Poi sorrise, in un modo che le tolse il coraggio di protestare.
 
 
Il locale più vicino distava appena una cinquantina di metri, così, seppur con qualche remora, Misaki consentì di ritardare la partenza, farfugliando qualcosa sull’approfittare dell’occasione per parlare con l’allenatore della squadra.
Conosceva Higo da quand’era adolescente e poche volte l’aveva visto imporsi su una decisione con tale fermezza. Gli venne naturale, quindi, interrogarsi sulla gioia evanescente che aveva colto nel suo sguardo, mentre osservava quello strano gruppo sparire oltre i cancelli, con i due giovani in testa, impegnati in una fitta chiaccherata e le ragazze dietro, chiuse in un mutismo forzato, benché Ran, orfana di Sonoko, cercasse di violarlo con qualche strascicata domanda.
Fin da bambina aveva imparato a vincere la timidezza e le ritrosie delle persone grazie ad una parlata spiccia e garbata, che, unita al suo carattere genuino, aveva sempre suscitato la simpatia di chi incontrava.
Invadere lo spazio in cui si muoveva Shiho, però, era un’impresa tutt’altro che semplice.
Contemplava il mondo con uno sguardo inespressivo, quasi i suoi occhi fossero due specchi che riflettevano la realtà senza capirla e, forse, senza vederla davvero.
Dava, infatti, l’impressione di vivere prigioniera in un luogo, dove qualche sconvolgente e indimenticabile evento aveva conferito colore a tutta la sua vita, rendendola insofferente verso quanto la circondava ed affascinante per chiunque l’incontrasse.
Ran non faceva eccezione. Ne subiva il mistero, ma, allo stesso tempo, ne era intimorita.
Ogni parola le moriva in gola appena la incrociava, come se nulla di quello che avrebbe detto o fatto potesse davvero valere lo sforzo di essere contraccambiato. Riusciva ad articolare qualche frase solo in presenza di terzi e comunque evitando accuratamente di guardarla tant’era la soggezione che le incuteva. Perciò, quando Shiho rispose “Bene”, lei non se la sentì di chiederle altro e rispettò il suo silenzio, finché non raggiusero il caffè.
Higo aprì la porta, lasciando che le ragazze gli sfilassero davanti e si accomodassero ad un tavolo, mentre Shinichi faceva un cenno al cameriere. Questi arrivò dopo un paio di minuti, in cui Ryusuke non aveva fatto altro che studiare il volto serio di Shiho, dietro il menù, così fu costretto a dare una veloce scorsa al listino per ordinare, infine, un succo d’arancia.
Lei prese, invece, un thè nero, senza zucchero.
“Di che avete parlato tu e Higo-san?”.
Il giovane detective si premette due dita sulla tempia, puntò il gomito sul bordo di formica e rispose con il tono che usava di solito per ridimensionare le cose importanti o quelle che parevano tali. “Niente di che. Stava cercando di convincermi a partecipare al provino”.
“E c’è riuscito?”.
“Non credo. Il vostro amico è molto testardo” ammise l’altro, con velata di delusione.
“Già. Preferisce passatempi più macabri”.
“Portare alla luce la verità non è un passatempo macabro!” proruppe il detective, offeso, e sia Ran sia Higo si zittirono un’istante, prima di scoppiare in una risata trattenuta a stento tra i denti, che coinvolse anche un permaloso come Shinichi.
Shiho si distinse, suo malgrado, partecipando a quell’improvvisa ilarità con un sorriso incerto, che tradiva altri pensieri.
Come penetrare nell'intimo della gente? si chiedeva, infatti, osservandoli.
Era una dote o una capacità che non possedeva. Non aveva semplicemente la combinazione di quella serratura. Cercava, invano, di capire secondo quale meccanismo due perfetti sconosciuti potessero instaurare un legame tanto affiatato e in un lasso di tempo così breve e più ci ragionava, più si rendeva conto che quello doveva essere un altro aspetto della naturalezza che a lei mancava.
Non si era mai sentita "naturale", poteva impegnarsi per esserlo, ma sarebbero stati comunque tentativi striduli, perché impegnarsi per essere naturali è già di per sé una sconfitta.
La vivace conversazione venne interrotta dal cameriere, tornato a servigli.
Higo si scostò per non ostacolargli i movimenti e si addossò allo schienale, finendo inevitabilmente per incrociare gli occhi di Shiho ferma nella medesima posizione, dalla parte opposta del tavolo. Erano di un verde inteso, malinconici, occhi che forse avevano visto troppo e raccontavano di cose ambite e mai avute, incorniciati da uno sguardo che faceva desiderare di conoscere la parola magica da dire per avere accesso al mondo che c'era dietro.
“Piuttosto, Higo-san, quando è previsto il tuo ritorno sul campo? Gli Osaka sono in difficoltà senza il loro capitano”.
“Oh, è ancora presto. Devo iniziare la riabilitazione e poi si vedrà” sospirò. “Forse, però, i nostri discorsi stanno annoiando Miyano-san…”.
Il suo stomaco si avvitò su se stesso alla vista dell’espressione sgomenta di Shiho, ma Shinichi lo tranquillizzò, agitando una mano in aria. “Lei è sempre così”.
La replica della scienziata fu un rimprovero silenzioso, fatto di un’occhiata truce e di un lieve scrollo di spalle, mentre ruotava la tazza sul piattino.
Higo si morse, comunque, l’interno della bocca per timore di averla offesa. La verità era che non voleva vederla uscire dal locale per prendere una direzione ignota in questo mondo troppo grande senza aver avuto la possibilità di sapere di lei qualcosa in più, oltre al nome.
La fortuna sembrò girare in suo favore, quando, d’un tratto, scorto l’orologio a muro del locale, Ran balzò in piedi e la forchetta, che teneva in pugno, rigò la ceramica producendo un suono stridulo. “Shin è tardissimo!” esclamò, concitata. “Avevamo promesso di dare una mano al comitato per risistemare la palestra!”.
Il diretto interessato la fissò storto sopra il tovagliolo usato per pulirsi i baffi di cioccolato, ma non ebbe modo, o forse cuore, di contraddirla.
Così l’imitò, strascicando la sedia e rivolgendosi, poi, a Shiho. “A quanto pare dobbiamo andare”.
Lei, però, non si mosse. E questo diede ad Higo il coraggio d’intervenire.
“Miyano-san sta ancora bevendo il suo thè, posso aspettarla io…se è lo stesso”.
Le ultime parole furono accompagnate da uno sguardo che aveva qualcosa di supplichevole e, al contempo, risoluto.
“Per te va bene?”.
Shiho annuì e nel medesimo istante un brivido le percosse le ossa, manifestandosi agli occhi solo nei cerchi concentrici che si formarono sulla superficie liquida della tazza. Vi soffiò dentro.
Una folata di vapore le accarezzò le guance già congestionate dall’imbarazzo, rendendole ancor più rosee ed evidenti nel suo incarnato pallido, mentre cercava di ricordare quanto le aveva detto Shinichi il primo giorno di università.
Proprio come allora, però, quel ‘sii te stessa’ non l’aiutò, perché Shiho non si sentiva se stessa in nessun posto. Era un concetto ancora astratto, embrionale, troppo misero per sperare di costruirci attorno qualcosa; quindi rimase in silenzio, sorseggiando il thè per dissetare la sua gola secca di parole. Al contrario, Higo, di cose da dire e chiedere ne aveva fin troppe. Vorticavano nella sua testa in un moto disordinato cui doveva trovare un senso.
“Dunque…vai a scuola con Mouri-san e Kudo-san?” chiese, infine.
“No. Kudo-kun è il mio vicino di casa. La prima persona che ho conosciuto a Tokyo”.
“E...sei qui da molto?”.
Shiho avvertì una morsa stringersi attorno all’esofago, comprimerglielo, rubarle sottili, ma essenziali aneliti d’aria, fino a soffocarla sotto il peso di una nuova bugia.
“Dall’inizio dei corsi all’università” rantolò. “Biochimica”.
Sulla fronte di Higo comparve un reticolo di rughe, dovute alla sorpresa, che divennero solchi quando gli spiegò di aver scelto quella facoltà per seguire le orme dei genitori scomparsi e sentirli in qualche modo accanto.
Nessuna emozione particolare trapelò dalla sua voce, ma a lui sembrò ugualmente di aver scovato il primo arrugginito cardine di quella porta che la separava dal resto del mondo.
“Devi essere una persona speciale, Miyano-san”.
Shiho s’incupì. “Sentirsi speciali è la peggiore delle gabbie che uno possa costruirsi”.
“Non esserlo agli occhi degli altri” replicò, allora, con dolcezza, suscitandone un fremito di labbra, che, incapaci di controbattere, iniziarono ad ammorbidire la propria piega.
Sorrise come soltanto i veri timidi sanno sorridere. Non era la risata facile dell'ottimista né il rapido sorriso tagliente dei testardi ostinati e dei malvagi. Era il sorriso strano, inconsueto, che sorge dall'abisso profondo, buio, che è dentro di loro, il sorriso stanco di chi ha attraversato la tristezza, il dolore, la confusione e la perdita restandone segnato.
 
 
S’incamminò verso il Teitan, dopo averla salutata di sfuggita, tant’era stata veloce a sgusciare dietro l’angolo della strada, e per l’intero tragitto non riuscì a pensare ad altro. La sua mente stava riacquistando lucidità, ma tutte le immagini che l’attraversavano erano annichilite dal volto di quella ragazza.
Si chiama Shiho, si ripeteva, frequenta l’università, ha gli occhi verdi, non è di Tokyo, abita vicino a Shinichi Kudo.
Più la cantilena diventava famigliare, più largo era lo spazio lasciato al desiderio d’incontrarla nuovamente; così, quando Misaki abbassò il finestrino dell’auto scura parcheggiata davanti al cancello, indicandogli spazientito l’ora, Higo non ebbe esitazioni.
“Credo che rimarrò in città ancora un po’”.










Angolo Autrice
Salve! Scusate immensamente se ho paccato la settimana scorsa, ma non mi va la connessione internet da una settimana causa maltempo che ha fatto saltare perfino il router! Ora dovrebbero avermelo sistemato...quindi non dovrebbero esserci più problemi...almeno spero. -.-
In ogni caso: com'è il capitolo? Higo che ne approffitta, Shiho che non disdegna...mah, ci sarà da divertirsi! ;D
Scusatemi ancora e alla prossima (che, per scaramanzia, non dirò quando sarà...) XP

bye bye

 

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Capitolo 6
*** Attraverso gli occhi ***





5. Attraverso gli occhi
 
La matita ruzzolò sul banco per l’ennesima volta, ma Shiho l’afferrò prima che compisse un salto oltre il bordo e, bloccandola tra l’indice ed il medio, prese a picchettare con il gommino il foglio quadrettato che aveva davanti. Il suono prodotto era ovattato e monotono, scandiva il tempo da dedicare a ciascun tetto che il suo sguardo riusciva a scorgere dalle vetrate opache dell’aula, relegando in secondo piano la voce del professore di enzimologia, un rumore di fondo in cui si confondevano anche gli sbuffi dei suoi compagni e il graffiare delle loro penne sui quaderni.
Ne aveva distinti un numero considerevole, quando il brusio alle sue spalle si fece tanto insistente da costringerla a voltarsi.
Il docente stava enunciando il teorema di Michaelis.
A Shiho bastò un istante per capire che non erano le elissi tracciate alla lavagna il motivo del sottile stato di angoscia permeante l’aria, ma un’ombra, dietro la porta.
Il volto scarno di Yuto copriva buona parte dell’oblò ed i suoi occhi, seri sotto l’innaturale corrugamento delle sopracciglia, frugavano l’interno della classe con molle interesse.
Dal giorno in cui si era presentata nel suo studio, capitava non di rado di vederlo girovagare per i corridoi del terzo piano e questo aveva suscitato l’immediata curiosità degli studenti.
Era, infatti, nota la misantropia che anni addietro gli aveva fatto accettare un posto nell’amministrazione universitaria, due piani più sopra, e la sua meticolosa abitudinarietà, che lo portava, ogni mattina, a chiudersi nel suo studio e a rimanervi fino pomeriggio inoltrato, consumando un pasto veloce a l’una meno dieci e riservandosi una pausa caffè attorno alle quindici, salvo seccanti imprevisti.
Shiho sentiva che quel brusco cambiamento fosse, in parte, dovuto a lei, ma la cosa non la toccava più di tanto, anzi.
La presenza ingombrante di Yuto la privava della poca concentrazione che riusciva a racimolare per arrivare al termine delle lezioni senza cedere prima all’indolenza ed il suo sguardo indagatore si tramutava in un formicolio sulla schiena, un formicolio che, una settimana orsono, le si era arrampicato su per il collo e le aveva afferrato le tempie.
Si trovava in laboratorio.
Yuto era entrato senza preavviso, interrompendo il professore, che in quel momento stava interrogando la classe sulle molecole zwitterioniche.
“Potrebbe rispondere la signorina in terza fila” aveva detto.
Shiho l’aveva fissato per alcuni secondi, notando come dilatasse leggermente le narici per respirare e trattenesse l’aria nei polmoni il tempo sufficiente a non diventare cianotico,poi si era concentrata sulla propria voce, in modo che uscisse sicura, priva d’increspature, mentre lui annuiva corrucciato e sbirciava lo stupore crescente nel volto del collega.
Gli dedicò un’occhiata fuggente, un misto tra l'arroganza di chi ha finalmente il diritto di essere se stesso fino a distruggersi e la rassegnazione amara di chi gira lo sguardo intorno e dappertutto vede il nulla. Voltando, infine, il capo verso la finestra, pensò solo che si era dimenticata il numero dei tetti e che non sarebbe riuscita a contarli da capo, perché la lezione era ormai terminata.
 
 
“Ciao” sentì dire, troppo vicino a sé.
Nel vetro vide riflesso un ragazzo, che stava fermo davanti al suo banco, dando le spalle alla cattedra. Teneva un piede poggiato sull’esterno e continuava a grattare la suola dell’altro contro il gradino: sembrava aspettare qualcosa.
“Ciao”salutò, atona, sollevando il capo per incrociare i suoi occhi, che rapidi si posarono sul quaderno aperto di Shiho.
“Lezione noiosa, eh?”.
S'irrigidì a quella constatazione, provando un senso di smarrimento per aver reso così palese la propria negligenza. Al contrario, quelle pagine completamente linde, sembrarono incoraggiare il ragazzo, che alzò la testa, tirando la bocca in una smorfia comprensiva.
"Senti...ti va venire a bere qualcosa con noi?".
Il noi in questione era un gruppetto di ragazzi, radunati accanto all'uscita, che chiacchieravano tra loro, liberando, di tanto in tanto, una risata, di quelle frettolose, da sciocche battutine, che riempiono l'aria senza variarne il volume.
"No, mi spiace. Ho altri programmi" replicò, facendo scivolare il blocco nella borsa con un gesto secco. Il tintinnio delle chiavi rimase per qualche secondo sospeso tra loro.
Poi Shiho si alzò, lo scostò un po' senza toccarlo e scese in fretta gli scalini, alla fine dei quali c'era l'appendiabiti dov'erano rimasti ormai solo un paio di cappotti.
"Ehi...ehi aspetta! Così mi farai perdere la scommessa!".
Nella sua voce non c'era acredine e quando, incuriosita, si voltò, il suo cipiglio interrogativo dovette scontrarsi con il sorriso ammiccante del giovane, che cercava così di dissimulare l'imbarazzo, ostentando una sicurezza che, in realtà, non possedeva affatto.
Shiho fissò le sue labbra tanto chiare e sottili da sembrare un taglio sul volto.
"Quale scommessa?".
"Quella di uscire con la ragazza più misteriosa del corso!" rispose, accentuando con orgoglio le ultime parole. Probabilmente sperava di suscitare in lei interesse, simpatia o almeno un briciolo di tenerezza per spingerla ad accettare; invece accadde l'opposto.
Shiho aggrottò la fronte, anziché sorridere, e, tra le sopracciglia, comparve un solco di profondo dissenso. "Scommetti su altro, la prossima volta".
 
 
Le porte dell’ascensore erano d’acciaio, di un grigio fosco ma abbastanza lucido per potervisi specchiare.
La figura che aveva davanti era alta, più alta di quanto rammentasse - forse perché negli ambienti che aveva frequentato si era sempre sentita piccola, e magra, ma non secca.
Il cappotto aperto lasciava intravedere la curva morbida del seno, sotto al quale il leggero maglioncino creava una serie di grinze che andavano a coprire la piattezza del ventre; sopra, invece, un accenno di scollatura faceva immaginare senza apparire osceno o volgare.
Focalizzò, poi, l’attenzione sui dettagli. I capelli non arrivavano a sfiorarle le spalle, erano mossi, arricciati attorno al viso, più domabili verso le punte e di un biondo scuro che le ricordava il rame bruciato. Aveva la frangia, una disordinata e lunga frangia che le copriva interamente fronte e sopracciglia, rendendo ancor più indecifrabile la strana piega dalle sue labbra. Erano rilassate, eppure il solco che le separava non assomigliava né ad un sorriso né ad un broncio.
Shiho fissò il proprio riflesso a lungo, chiedendosi come dovesse apparire agli occhi altrui, a quel ragazzo, ad esempio, ai suoi compagni, a Yuto…poi scosse la testa.
Non sarebbe mai corrisposta all’immagine che aveva di sé.
Una volta, infatti, qualcuno le aveva detto che chi aveva gli occhi chiari non poteva giudicare le cose e gli eventi come se avesse gli occhi neri, che il colore dello sguardo doveva fatalmente corrispondere al colore del suo pensiero e, in quell’istante, le porte dell’ascensore si aprirono.
Al suo interno un paio di studenti, impegnati in una fitta conversazione, accennarono un saluto senza smettere di battibeccare.
“Mi stai prendendo in giro!” ringhiò uno, mentre lei si faceva posto in un angolo.
“Ti dico che è vero!”.
Nah, secondo me è tutta una frottola. I giornali ne avrebbero parlato!”.
“È stato organizzato tutto in segretezza per evitare curiosi! Ryusuke Higo inizierà le terapie tra pochi giorni, così vedrai che ho ragione!”.
Shiho aveva colto solo poche parole del discorso, ma quel nome fece vibrare qualcosa nel suo cuore, una sorta di corda legata al ricordo dei minuti trascorsi con lui.
Non aveva più ripensato a quel giorno e, nella sua mente, i particolari si stavano già confondendo, sprofondando velocemente in mezzo ad un oceano di altri ricordi senza importanza. A restare viva era, tuttavia, un’inspiegabile sensazione di famigliarità.
Higo era riuscito a scalfire, in modo assolutamente inatteso, la superficie della sua indifferenza senza risultare pedante e soprattutto senza risvegliare il sentimento d’inadeguatezza che provava verso il mondo.
E come era rimasto seppellito dentro di lei tanto a lungo, altrettanto velocemente, quel ricordo, riaffiorò, prendendo a vorticare nella sua testa in un moto incessante.
Quando il campanello suonò e l’ascensore arrestò la propria corsa al piano terra, Shiho uscì, urtando con la spalla uno dei ragazzi, che le urlò un ‘Ehi’ risentito. Lo ignorò, affrettandosi a raggiungere le porte scorrevoli dell’ingresso.
Fuori il cielo era plumbeo e le striature arancioni del tramonto stavano lentamente scomparendo all’orizzonte, schiacciate dalle prime stelle della sera.
Abbottonò il cappotto, ma non il bavero per lasciarsi accarezzare il volto dall’aria pungente dell’autunno e riflettere.
Lo stato d’improvviso torpore che l’aveva assalita poco prima, cominciò a lentamente a dissolversi e il sentimento della gratitudine che nutriva nei confronti di Higo venne sopraffatto da quello del rammarico. Alla gentilezza che le aveva mostrato, infatti, lei era riuscita a rispondere solo fuggendo, una volta usciti dal locale.
Si morse un labbro, trattenendolo tra gli incisivi finché il dolore non fu abbastanza acuto da farle spalancare gli occhi davanti alla sua irriconoscenza e sentì lo stomaco contorcersi dall’ansia di dover rimediare perché Higo era un buono.
E aveva imparato che i buoni avevano un modo tutto loro di entrarle nel cuore, di smuoverla, di impegnarla solo per il piacere di ricevere in cambio un 'grazie'.
 
 
Rincasò all’ora di cena, trovando il professore seduto nel salone ad aspettarla.
“Com’è andata oggi?”.
Shiho annuì e prese posto a tavola, spizzicando il riso con scarso appetito visto che la sua mente era rapita da tutt’altri pensieri. Ignorò anche i racconti di Agasa e quasi non si accorse di quando questo, rendedosi conto della sua assenza, le porse una lettera.
Era indirizzata alla Sig.na Miyano e al tatto così leggera e inconsistente da non poter credere che dentro vi fosse buona parte del suo futuro.
Non gliel’aveva mostrata fino ad allora, forse per l’imbarazzo di averla aperta, per sbaglio, senza permesso.
“È arrivata questa” disse, allungandola sopra i piatti.
Gli lanciò un’occhiata interrogativa e si passò il tovagliolo sulle labbra già pulite prima di prenderla. Osservando il timbro impresso poco sopra l’indirizzo, riconobbe il logo dell’università ed estrasse il foglio all’interno, certa ormai del contenuto.
Dopo aver letto, ripiegò la lettera, la ripose nella busta e affondò la forchetta nella torta di mele che il dottore le aveva fatto trovare come dessert.
“Mi hanno accettato” disse al piatto e, prima che potesse ingoiare il boccone, il professore l’abbracciò con slancio.
Fu sorpresa da quel gesto spontaneo, naturale come avrebbe dovuto essere, di rimando, la sua stretta.
Invece, Shiho, rimase immobile e rigida sulla sedia.
Solo dopo alcuni secondi, gli posò una mano sulla spalla, rilassando il corpo e abbandonandosi alle sue braccia.
Gli voleva bene e non sapeva perché. Forse perché l’aveva salvata e doveva essergli riconoscente, oppure perché gli mancava una moglie come a lei mancava una famiglia e le mancanze si assomigliano un po’ tutte.
Quando Agasa si ritrasse, Shiho notò che i suoi occhi erano umidi e sotto la luce del salone apparivano straordinariamente chiari.
Higo ha gli occhi azzurri e limpidi, pensò. E forse la gentilezza era una caratteristica che apparteneva a coloro che possedevano il pensiero del colore del cielo e che la vedevano come un essere speciale.
Tornando a dedicarsi al dolce, ogni angolo del suo volto sorrise.

 
 









Angolo Autrice
GYAAAAAAAAA!!!! Lo so, lo so sono in ultra ritardissimo!
Putroppo anche quando mi riprometto di aggiornare con una certa costanza, ci si mette la sfiga...Mi si è corrotto il file della fic e ho perso tutto, quindi la sto riscrivendo T___T! Portate pazienza!
Da dire sul capitolo non ho molto. Come avete letto non si parla di Higo (beh, più o meno...), ma non temete tornerà già nel prossimo e...beh ci saranno degli sviluppi!

Come sempre alla prossima e....TANTI AUGURI!!!!

bye bye

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Capitolo 7
*** Il suo nome è Destino ***




6. Il suo nome è Destino
 
“È inutile che continui a chiedertelo. La vita delle persone che vedi non potrebbe mai essere la tua”.
“Lo so. Stavo solo pensando. Come fa la gente a non accorgersi di nulla?”.
“Guarda da un’altra parte. Oppure interpreta a modo suo. Ricordati: non puoi giudicare le cose come chi ha gli occhi neri o blu. Il colore dello sguardo corrisponde fatalmente al colore del pensiero”.
“E tu? Qual è il colore del tuo pensiero, Gin? Come giudichi le persone che ti circondano?”.
“Come te”.

 
Aprì gli occhi, sprofondando nella quieta oscurità della stanza, e a fatica si districò dalle coperte, segno che la notte doveva essersi agitata parecchio.
Era quello che lei chiamava il peso delle conseguenze.
A volte diveniva tanto insopportabile che i suoi pensieri prendevano a girare sempre più veloci, in cerchi ancora più stretti e, nel sonno, incontrollabili.
Shiho c’era abituata, ormai. Un male incerto provoca inquietudine, perché, in fondo, si spera fino all'ultimo che non sia vero; un male sicuro, invece, infonde una sorta di squallida tranquillità. Quella in cui rimase immersa per alcune ore, prima di alzarsi e avvolgere le persiane. Il rumore dei listelli di plastica che si arrotolavano alla puleggia era confortante. Sapeva di reale, di pratico e dava al sole l’opportunità di bucare le finestre.
Fuori era mattino inoltrato.
La casa era pervasa da un silenzio piacevole, che lei cercò d’intaccare il meno possibile scendendo le scale in punta di piedi.
Sopra il tavolo del salone, Agasa le aveva lasciato un biglietto di buongiorno: era partito molto presto per tener fede alla promessa fatta ai detective boys di portarli a fare una gita al lago e almeno fino a sera Shiho fu sicura di non dover dare spiegazioni dei lamenti che lo stato del suo letto lasciava presupporre avesse bofonchiato durante la notte.
Trovò la cosa vagamente confortante. Così come quella solitudine che la avvolgeva.
Era fredda, questo sì, ma era anche silenziosa, meravigliosamente silenziosa, e infinita quanto lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri, uno spazio abbastanza grande da concedere posto a chiunque lo cerchi, lei compresa.
Con dita leggere prese a tamburellare meditabonda l'orlo del tavolo.
Sentiva la testa pesante e gli occhi ancora gonfi di fantasmi, ma si sforzò ugualmente di non rivangare il passato, immaginando di aggrapparsi a quell'attimo, all'inestimabile tempo presente, come un alpinista in arrampicata libera che preme forte la faccia contro la parete di roccia, paralizzato dalla paura.
Gli aloni lasciati dai suoi piedi erano perfettamente visibili su alcune piastrelle, dalla sala alla cucina. Lei intanto ascoltava il borbottio della caffettiera elettrica, il tic meccanico dell’orologio, e il graffiare dei rami sulle finestre del piano superiore.
Il passato la travolse comunque.
L’eco di quel sogno risuonava ancora in qualche angolo della sua mente. Come te, diceva.
Shiho avrebbe potuto ripeterselo ogni giorno o, al contrario, seppellirlo sotto una miriade di esperienze e pensieri privi d’importanza, ma non l’avrebbe mai dimenticato.
Perché Gin aveva gli occhi verdi.
 
 
“Così domani è il grande giorno?”.
Higo annuì senza distogliere l’attenzione dalla finestra. Più che lo scorcio urbano, a tenere incollato il suo sguardo sul vetro era il proprio riflesso, in particolare ciò che i suoi occhi mostravano. Avrebbe tanto voluto fosse ansia. E forse c’era anche quella, ma si trattava di una sfumatura sul fondo delle pupille, troppo lieve per essere colta da un’occhiata sfuggente.
Tutt’intorno, a patinare le iridi chiare, quel velo, quel qualcosa d’indefinito, di cui Rikuo avrebbe chiesto sicuramente spiegazioni.
“Ma lo sostituiranno con un tutore” asserì distratto, come se non fosse davvero necessario precisarlo.
Endo si sedette sul divano con le braccia aperte, distese sullo schienale, e si guardò attorno.
L’appartamento era piccolo e confortevole, forse un po’ troppo freddo per i suoi gusti, ma era sicuro che a Higo non importasse, dopotutto la sua era una sistemazione provvisoria.
“Carino questo posto” buttò lì.
Higo alzò le spalle. “Un posto come un altro”.
“Tu non riesci proprio ad essere contento, eh?”.
“Lo sono”.
Rikuo fece filtrare un mmm affettuoso tra le labbra chiuse e pensò che quella barriera imbarazzante tra di loro non aveva alcun senso e tuttavia c’era, solida ed inespugnabile.
Era come se una conversazione già pronta alleggiasse sopra di loro, ma entrambi non sapevano da che parte afferrarla.
“Non si direbbe…” aggiunse, prendendo a grattare con un’unghia la cucitura in rilievo dei cuscini. “…mi chiedo se questo tuo malumore sia dovuto soltanto all’ansia oppure…”.
Lasciò volutamente la frase in sospeso per studiare la reazione dell’amico.
Higo contrasse le gambe e si staccò dalla finestra.
“…oppure…” riprese “…ciò che è nella tua testa non riguarda affatto l’infortunio perché i tuoi pensieri sono tutti rivolti a due occhi magnetici persi tra la folla dello stadio”
Sorrise. Lo fissava con le pupille dilatate. Le pupille si aprono quando gli occhi hanno fame come la bocca. Vogliono mangiare di più. Vedere di più.
E ciò Rikuo vide fu solo l’espressione smarrita del suo amico in preda alla sensazione che prova chi attraverso una fessura si sporge su un abisso fino a farsi cogliere da un’inebriante vertigine. Lo punzecchiò con una serie di battutine leggere, sminuendo quello che ancora non si sapeva definire come un cotta da elementari, l’età in cui ci si innamora ad ogni sguardo senza preoccuparsi di dargli un nome.
“Si chiama Shiho…” proruppe d’un tratto Higo, con le risa liberate dal moro per sdrammatizzare che si accalcavano ancora tra le pareti.  Gli raccontò del loro incontro fortuito, del caffè, della foga con cui l’aveva vista mescolarsi alla folla, ma non accennò alla paura che aveva cominciato ad avvertire una volta rientrato a casa, quando l’esaltazione era sfumata in un oceano di perché e di come: in quell’istante ciò che voleva, forse senza nemmeno saperlo, gli era apparso nella cosa più fragile che avesse mai visto, gli occhi di Shiho.
Rikuo ascoltò in silenzio e la sua espressione perse l’ilarità iniziale per far posto ad uno sguardo serio, simile a quello che hanno gli anziani, pieno di cose, di segreti, di verità ignare a chi li osserva. “E tu come le chiami queste? Il fatto che vi siate rivisti ad una partita e che lei abiti proprio accanto a Kudo?” chiese grave, aprendo la mano a ventaglio come se stesse presentando l’articolo in una televendita.
Le sopracciglia di Higo s’incresparono e aprirono un solco nel mezzo.
“Coincidenze?” azzardò.
L’altro si accomodò un cuscino sotto la testa e si prese alcuni secondi per conferire alle sue parole il tono di una rivelazione. “Sono più che coincidenze, caro mio. È Destino”.
“E con questo che vuoi dire, Rik?”.
“Che vi rincontrerete. Quindi smettila di pensarci e concentrati sulla riabilitazione: i campioni zoppi suscitano pena, non ammirazione e con la pena non si cucca!”.
Higo non ribatté. Torno a fissare la finestra e in essa il proprio riflesso, disteso in un impercettibile ed incoraggiato sorriso.
 
 
“Kudo…” sospirò, aprendo uno spiraglio della porta, quando il campanello cessò di trillare.
“Buongiorno, eh!” disse lui, con il tono di rimprovero che adoperava sempre alla vista dello sguardo scocciato che Shiho mostrava quando l’accoglieva. “E non ti avevo chiesto di chiamarmi Shinichi?”.
Shiho c’aveva provato, ogni tanto, ma quel nome le rimaneva sulle labbra, appiccicoso e inconsistente, come qualcosa da cui liberarsi alla svelta. Perciò gli preferiva il cognome e il rassicurante distacco emotivo che suggeriva.
“ ‘giorno. Che vuoi?” sibilò, mantenendo la presa sulla maniglia e sbilanciandosi in avanti con il chiaro intento di non farlo entrare.
Shinichi la squadrò in malo modo, ma non commentò il suo atteggiamento.
Si limitò solo a roteare gli occhi. “Mi annoiavo”.
“Hai una fidanzata, se non ricordo male”.
“Ran è con Eri oggi. Cose madre-figlia” spiegò, sollevando il labbro superiore e arricciando il naso per sottolineare l’inconcepibilità della cosa dal suo punto di vista.
 Shiho strinse gli occhi in due fessure, liberando un sorriso maligno.
“E così hai pensato a me? Una ragazza tutta sola, in una grande casa…qualcuno potrebbe credere che tu abbia cattive intenzioni”.
“Se accogli così i tuoi ospiti, non corri alcun rischio”.
Si squadrarono per un lungo istante e prima che lei potesse accorgersene, il volto di Shinichi si era disteso in un’espressione sconfortata. D’istinto portò due dita sotto gli occhi e abbassò il capo, cercando di nascondergli i segni dell’ennesima notte tormentata dagli incubi senza pensare che proprio quel repentino cambio d’umore era prova sufficiente per intuire che qualcosa non andava. Lui, tuttavia, non chiese nulla.
E Shiho si ritrovò a pensare che il Shinichi davanti a lei non fosse lo stesso che appena qualche istante prima  le era piombato in casa senza avvisare, come se nel tempo di un battito di ciglia il suo posto fosse stato preso da un altro ragazzo. Cercò di ripulirsi la mente da quel pensiero ridicolo, ma un senso di fastidio simile a quello dei bambini che si scoprono derisi le rimase comunque in bocca.
“Vai a prepararti. Ti aspetto qui”.
Sollevò lo sguardo. Shinichi le dava le spalle, immobile, con le mani cacciate nelle tasche.
Non era un invito e tantomeno un ordine, eppure a Shiho risultò impossibile ignorare le sue parole e quando richiuse la porta notò l’alone sul pomolo della maniglia lasciato dal suo palmo sudato. Era nervosa.
 
Ottobre, come tutti i mesi di transizione, cullava gli incerti.
Fuggiva in avanti con refoli d’aria fredda che sarebbe presto diventata invernale, si rifugiava in dietro nella luce ancora settembrina del cielo. E ciascuno poteva assaporare ciò che preferiva: foglie ancora pallide e appese strenuamente ai rami, nuvole veloci e senza pioggia, l’odore fresco dell’erba, quella che scricchiolava sotto i loro piedi, vittima della prima gelata.
Camminavano in fila, una dietro l’altro, la testa incassata tra le scapole un po’ per ripararsi dalle folate di vento proveniente dal nord, un po’ perché schiacciata dal peso dei propri pensieri. Di tanto in tanto Shiho puntava gli occhi sulle spalle dritte di Shinichi, vincendo il freddo che glieli faceva lacrimare, e s’interrogava sul legame che li univa.
Non c’era più l’organizzazione, non c’era più l’antidoto, eppure lui continuava ad essere una presenza costante nella sua vita. Forse era quella l’amicizia, una persona che ti cerca anche se non ha più nulla da chiederti.
“Qui può andare” lo sentì dire d’un tratto.
Erano di fronte ad una panchina che le fronde ombrose dei sempreverde avevano risparmiato, permettendo al sole di sciogliere la brina.
Si accomodò, lasciandole spazio, ma lei preferì restare in piedi, con la schiena addossata ai braccioli di piombo.
“Allora come ci si sente ad essere la più giovane tirocinante della facoltà di biochimica?”.
Shiho alzò le spalle e sorrise appena. “Uguali identici a prima, ma tu come…”.
“Il professore naturalmente”.
Naturalmente” ripeté lei, inarcando ironicamente le sopracciglia.
Le pause tra i loro discorsi erano silenzi carichi di dubbi, di domande, d’incertezze che sembravano non trovare parole adatte ad esprimersi.
“E per il resto? La Regina delle Nevi è riuscita a conficcare il suo frammento di ghiaccio nel cuore di qualche malcapitato?”.
Trovò quella metafora fuori luogo, ma assolutamente aderente alla sua persona. Era tipico di lei allontanare tutti e tutto. Forse infilare un ago in una persona come facevano le tribù afroamericane con le bamboline voodoo era davvero il metodo più semplice per legarsi a qualcuno. O quello meno rischioso.
“No. Però ho ricevuto un invito”.
Dalla sua voce priva di enfasi sembrava non fosse successo realmente.
“Da chi?”.
“Un ragazzo del mio corso di enzimologia”.
“E tu…”.
“Ho rifiutato”.
“Perché?”.
Shiho non rispose e guardò davanti a sé. Vide una ragazza fissare inebetita il display del cellulare, il volto parve staccarsi. Non pensò nulla. Non si fece trascinare dalla curiosità di sapere da dove venisse quel dolore così insignificante che bastava uno schermo a contenerlo.
Poi si girò verso Shinichi. Teneva i gomiti puntati sulle ginocchia e le dita affondate nelle guance tanto a fondo da distorcergli la voce. “Perché non sono pronta” disse piano, aggrappandosi alla speranza che lui non sentisse e cambiasse discorso.
“In che senso?”.
Sospirò, delusa, e rimpianse per un attimo le chiacchiere che si scambiavano in segreto mesi prima, chiacchiere che riguardavano i risultati degl’ultimi esperimenti, che vertevano insomma su argomenti di cui lei aveva pieno controllo.
“Non riesco ancora a capire come mi vedano gli altri”.
“Questo non si può sapere. Sono cose che nessuno sa di primo attrito. Per questo si esce, ci si conosce, ci si piace, si diventa amici…”. E magari qualcosa di più.
Trattenne per sé quest’ultimo pensiero, preferendo non sondare un campo in cui lui stesso avvertiva molte carenze. “…e anche a quel punto comprendere sino in fondo una persona è impossibile. Ognuno conserva nel proprio intimo un luogo segreto e impenetrabile. Nessuno può scoprirlo, entravi, perché nessuno si somiglia. È questo il bello della vita. Le cose che si sanno sono le cose normali, o le cose brutte, ma poi ci sono i segreti, ed è lì che si va a nascondere la felicità”.
“Detto da un detective suona fasullo. Tu e Ran, ad esempio, sembrate comprendervi a meraviglia…”.
“Questione di tempo. E comunque ci sono aspetti che né io né lei capiremo mai del tutto nell’altro”.
Shiho seguì le sue parole con assoluta concentrazione e si sentì smarrita dal fatto che non esistesse rimedio, che non vi fosse una formula da applicare in modo rigoroso per essere sicuri del risultato. Fece per ribattere, ma si ritrovò la bocca impastata di saliva e la voce persa chissà dove, in gola.
“Una volta non ti facevi tanti scrupoli…” constatò, aggrottando la fronte, confuso,  “…con Ayumi e gli altri, intendo. Eri riuscita a creare un bel legame”.
“Sono bambini. Se li deludevo, dimenticavano in fretta. Questa è la vita vera: sbagli una volta e il conto ti si ripresenta sempre, duro il doppio rispetto all’errore che hai commesso”.
Si morse le labbra, consapevole che quell’eccesso di confidenza rivelava più di quanto doveva e si ritrovò gli occhi di Shinichi puntati addosso, pieni di rassicurazioni che non poteva darle, di consigli che non sarebbero serviti.
“Per quel che vale…” disse infine, stiracchiandosi sulla panchina, incurante dell’umidità che gli avrebbe striato il giubbino, “…a me non dispiaci. Anche se sei permalosa, ti diverti a punzecchiarmi e ridicolizzi le mie capacità deduttive”.
Lo fissò, basita. Ogni lineamento del suo viso rimava perfettamente con la sincerità spontanea di quella confessione. “Sei arrogante, ti pavoneggi da super uomo e ho il sospetto che tu vada a cacciarti nei guai solo per dimostrare che nessun ostacolo è insormontabile per il grande Shinichi Kudo!” civettò. “Tuttavia, per quel che vale, anche a me non dispiaci”.
Scoppiarono a ridere. Risero e risero ancora, nel modo semplice che ha la vita quando smette di prendersi sul serio.
E Shiho ebbe l’impressione di aver risistemato il primo pezzetto di quel luogo segreto che non sapeva neanche di possedere dentro di sé.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Angolo Autrice

Salve a tutti! Lo so è da Pasqua tipo che non aggiorno, sono imperdonabile! T__T
Il problema è che al mondo oltre la fame, la povertà e una miriade di altre disgrazie, esistono pure gli esami, mannaggia! E io non volevo farmi prendere dalla foga rischiando di scrivere male….sono perdonata?
Dunque...il capitolo come lo avevo immaginato all’inizio non doveva concludersi così…però rileggendolo mi sono accorta che la parte finale avrebbe distratto troppo da tutto il resto (questi sono capitoli in cui, e chi mi segue lo sa, non capita nulla, ma servono a me per definire meglio i personaggi). Perciò rimandiamo il tanto sospirato rincontro e attenzione…perché…. quando avverrà…beh…eheheheheh ^^
Grazie a tutti!
Alla prossima
 
besos

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