Duo cerebra

di Michelle Verace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Primo capitolo ***
Capitolo 3: *** Secondo capitolo ***
Capitolo 4: *** Terzo capitolo ***
Capitolo 5: *** Quarto capitolo ***
Capitolo 6: *** Quinto capitolo ***
Capitolo 7: *** Sesto capitolo ***
Capitolo 8: *** AVVISO ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***



D u o   C e r e b r a











 
«Il genio purtroppo non parla
per bocca sua.
Il genio lascia qualche traccia di zampetta
come la lepre sulla neve.»
– Eugenio Montale –














 
P r e f a z i o n e










Ugo Ojetti disse: “Il genio senza ingegno è una barca senza remi”.
D’accordo, lo so, quello che ho detto è stupido.
Magari, se vi avessi citato ─ che so ─ qualche big come Einstein, mi avreste preso davvero sul serio. Perché quale adolescente della mia, della vostra età conoscerebbe uno come Ugo Ojetti? Io no di certo, ho soltanto copiato una frase che ho letto su Wikipedia.
Ma non divaghiamo.
Mi hanno bocciato tre volte al terzo anno di liceo. Genio incompreso? Di sicuro i miei professori se ne sarebbero accorti se così fosse stato. Odio la scuola e tutto ciò che abbia a che fare con lo studio.
Perciò, niente di anormale fin qui.
E se vi dicessi che la mia ragazza ha un quoziente intellettivo che non si era mai visto prima? Un quoziente intellettivo che potrebbe competere con i più grandi scienziati mai esistiti?
La faccenda comincerebbe a complicarsi.
Mettiamo anche che un gruppo di pazzi abbia inventato una macchina che possa trasmettere gli impulsi nervosi da un cervello all’altro. Che possa perfino duplicarli all’interno di uno stesso organismo. Roba tosta, eh?
La faccenda si complicherebbe ulteriormente.
La faccenda è complicata.
Vogliono ucciderla. Vogliono il suo cervello. Vogliono uccidere tutti loro. Vogliono tutti i loro cervelli. Vogliono creare un mondo senza imperfezioni. Vogliono rivoluzionare la razza umana.
Un uomo con due cervelli. Due uomini. Tre uomini. Quattro uomini. Cinque uomini. Sei uomini.
Setteottonovedieciundicidodicitrediciquattordiciquindicised─.
Uomini. Umani. Umani dappertutto. Umani che non esistono più.
E quando tutti i geni saranno morti, e quando ogni uomo e ogni donna avrà due cervelli e non ci saranno più differenze, e quando la nostra razza sarà la più forte dell’universo e di tutti gli universi: ecco, quello sarà il momento in cui ricorderemo ogni singola vita che è stata spazzata via.
Alla fine rimarremo in mille. In cento. In dieci. In uno. Gli umani morirebbero. L’ultima scintilla si spegnerebbe. Estinti, saremmo. Non saremmo più niente.
Ma non posso permetterlo. Io devo proteggerla. Lei deve vivere.






«Navigherò io al posto tuo.» Le mie labbra sfiorano le sue. «Tu sarai i miei occhi. Io sarò la tua armatura.»
«Ti uccideranno.»
«Non se li uccido prima io.»












Note d’autore:
Scrivere questo “angolino”, questo minuscolo spazio dove scrivere, presentarmi in tutto il mio (non) splendore, è perfino più difficile e complicato della storia stessa. Storia che ho, specifico, ideato proprio oggi. Non so bene, quindi, come si articolerà veramente; alcuni punti non sono ancora chiari, ma ho deciso di “buttarmi” nella mischia e cimentarmi con un’originale (la prima!) fantascientifica, romantica e, perché no?, forse anche un po' fantasy. Non so neanche io quale sia il genere giusto al quale associarla (y), perché di certo si sa, almeno io so, che molti elementi non ancora noti della FIC non esistono davvero e/o non possono mai verificarsi.
Ad ogni modo: i geni. Il primo che vi viene in mente? Albert Einstein. Probabilmente è anche l’ultimo del secolo scorso e corrente. Nonostante, però, io non sia molto ferrata in materia – sono soltanto un’adolescente! – sono sempre rimasta affascinata da tutte quelle persone che hanno capacità straordinarie e che molto spesso vengono… emarginate dalla maggior parte della gente. Un mio stesso compagno di classe, che tutti chiamano “genio”, sebbene non lo sia realmente, soltanto perché ama studiare (in particolare la matematica) è di solito lasciato solo, come se non fosse degno della compagnia altrui. Usciti da questa parentesi che non vi interessa: dal primo capitolo in poi conoscerete meglio i personaggi, e in particolare il protagonista che, per chi non lo avesse capito, non è un genio.

Ci terrei a ringraziare Jess Graphic per il banner! E' davvero stupendo!
Ultima cosa: So che ormai nessuno recensisce più. Pur essendomi iscritta soltanto oggi, ho sentito tramite un passaparola su Facebook che molti se ne lamentavano ma… non so ancora bene come funziona il sito, né scrivo da molto… e, se ci fosse un’anima pia disposta a farmi notare errori di punteggiatura o di grammatica, spero sia ben disposta a farmelo sapere. Non importa dove. Anche privatamente, sul mio profilo Facebook o sul mio Ask. Sono aperta a tutto (y) e non pretendo niente. Solo aiuto.
Aiutoaiutoaiutoaiuto
Sono matta, lo so.

 
Vostra imminenza immonosa (?),
Michelle Vérace

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Capitolo 2
*** Primo capitolo ***


P r i m o   c a p i t o l o
 



 
 

Voglio fare l’attore.
È questo quel che vorrei dire adesso al professor Jefferson, ma so già che me ne pentirei all’istante se lo facessi. Contenermi è difficile, eppure anche io, che amo spingermi fino a limiti inimmaginabili, riesco a capire quanto poco mi converrebbe. Nonostante ciò, vorrei spiegargli quanto la sua materia sia inutile, quanto ogni singolo alunno del suo corso si annoi durante le sue lezioni. Probabilmente, non mi ascolterebbe neanche. Probabilmente, soltanto perché sono io, io che lui odia con tutto se stesso, mi rimanderebbe a posto senza nemmeno darmi il tempo necessario per svolgere l’esercizio.
«Signor Morgan, stiamo aspettando.»
Lo guardo, e vorrei ucciderlo con le mie stesse mani. Non saprei dire cosa mi trattenga. Ormai non ho più niente da perdere.
Giusto, l’esercizio. L’esercizio che ho appena trascritto alla lavagna e che non ho ancora cominciato a svolgere. Mi torco le mani e guardo con la coda dell’occhio il cassino. Se lo afferrassi e cancellassi tutto… no, sarebbe un’ulteriore mossa che non alzerebbe affatto la mia media già abbastanza scarsa. Sono stato bocciato. Tre volte. E non so davvero quanto darei per scappare da questo inferno.
«Stiamo aspettando.» ripete, e ora ho la certezza che niente potrebbe più fermarmi.
Anzi, qualcosa, o meglio qualcuno, c’è.
Jefferson chiama un nome. Una ragazza. Quella nuova. Quella che ha sempre i capelli raccolti in uno chignon e gli occhiali da vista inforcati sul naso.
Non è la prima volta che la vedo.
È quel genere di persona che non puoi non notare. Non so niente di lei, a parte che è l’intelligentona della classe ma, non appena si alza di malavoglia dal suo posto per avvicinarsi alla lavagna, decido che da questo momento in poi non farò altro che impicciarmi nei suoi affari per scoprire qualcosa che davvero mi interessi.
«Signorina Thompson, mi auguro davvero che anche lei non mi faccia attendere troppo.» Lo dice con un tono sarcastico, canzonatorio, e tenere a mente le motivazioni secondo cui non posso assolutamente piantargli qualsiasi cosa al petto mi risulta ancora più difficile ora che lei è a fianco a me.
Così sposto la mia attenzione su qualcosa di molto più interessante di Jefferson e dell’esercizio. È più piccola di me, avrà i suoi sedici anni ─ forse è una di quelle “bambine prodigio” e avrà anche saltato un anno ─ e in questo momento sembra assai più spaventata di me. Non che io lo sia ma… insomma, non è questo il punto. È come se non sapesse proprio dove mettere le mani.
Io una mezza idea ce l’avrei… e non mi riferisco affatto alla lavagna.
Arrossisce, quasi mi avesse letto nella mente, e adesso sono io, quello teso e imbarazzato.
«Mi delude, signorina…»
Jefferson non finisce neanche di parlare che la ragazza, non prima di avermi lanciato un’occhiata di… scuse?, comincia a ricoprire di calcoli ogni angolo rimasto della lavagna, come se non avesse fatto altro per anni. Come se ci fosse nata, con i numeri. Come se li masticasse a colazione.
«Eccellente.» Jefferson mi ha rubato le parole di bocca.
Buck le avrebbe già infilato la faccia nei gabinetti. Non gli va giù quando le donne dimostrano di essere capaci di fare qualcosa meglio di lui. E anche io, se non si fosse trattato di lei, ma di un'altra ragazza, avrei reagito allo stesso modo. Non so dire di preciso che cosa abbia di diverso rispetto alle altre. Ma ho la certezza, nonostante non la conosca affatto, che qualcosa di diverso c’è, e il desiderio di scoprire di che si tratti mi rende pazzo, euforico, voglioso di rivolgerle le parola.
Non lo faccio. Guardo a bocca spalancata ciò che ha scritto.
Un’equazione. Numeri, segni che si ripetono. La matematica è una lingua che non potrò mai imparare. Eppure penso che, se fosse lei ad insegnarmela, diventerebbe la mia materia preferita. E me ne convinco davvero soltanto quando si volta verso di me e i suoi occhi grigio-verde si soffermano sul mio viso.
Non arrossisce, è pallida, ed è naturale che me ne chieda subito il motivo. Ha le spalle incurvate, le labbra strette tra i denti, come se volesse scomparire, come se avesse fatto qualcosa che non doveva. Perché? Dovrebbe essere contenta di avermi umiliato. I secchioni amano sempre rivendicare la loro intelligenza. E lei? Lei no. È forse spaventata?
Sto per rassicurarla, o almeno ci provo, ma Jefferson ci manda subito a posto, mormorando qualcosa di me che non mi do neanche la pena di ascoltare. Ripete sempre la solita solfa: che sono un incapace, che non studio, che dovrei ripetere le elementari, che non combinerò mai niente nella vita. E magari ha anche ragione. Ma non mi importa. Non adesso.
Si siede al primo banco, accanto a una sedia vuota. Non capisco perché nessuno le faccia compagnia, sembra così innocua… Poi trovo subito la risposta. Tutti la temono, tutti la odiano perché è brava, perché è intelligente. Ed è un motivo così stupido! Ma, da un lato, sono contento che sia sola. Così non dovrò minacciare nessuno per prendere posto vicino a lei.
Domani, penso. Domani le parlerò. Lo ripeto più per convincermene che per altro. Vorrei avere il coraggio di alzarmi sotto gli occhi di tutti e sederle vicino. Com’è la sua voce? C’è un solo modo per scoprirlo e, a meno che non voglia osservarla ogni giorno immaginando come sia ma senza mai saperlo davvero, oggi è la mia occasione.
Così aspetto. Aspetto che la lezione finisca, che il professor Jefferson interroghi qualcun altro. E nel frattempo la guardo, abbozzando uno schizzo della tenue forma del suo profilo sul banco. Non sono bravo a disegnare ─ non ho mai preso l’arte sul serio ─ ma adesso sento l’esigenza di… di catturare quel momento, di raffigurare ciò che vedo sulla carta. E i suoi capelli castani cominciano a prendere forma, e così la curva dolce del suo collo, e la mano che con dolcezza lo accarezza… e la penna che i suoi denti mordicchiano ripetutamente e le spalle e gli occhiali che nascondono quel suo sguardo pudico e riservato…
«Dio, da quando sei diventato così pappamolle?»
L’ho pensato ma non sono stato io a dirlo.
Buck si sporge dal suo banco per sbirciare il ritratto, cominciando a ghignare tra sé e sé.
«Fatti i cazzi tuoi.» Lo fulmino con lo sguardo e copro il disegno con la mano. Non deve assolutamente vederlo, non voglio che metta gli occhi addosso a lei. Ci prova con tutte le ragazze a cui piaccio e non gode affatto di buona reputazione. Forse non lo fa neanche di proposito, perché quando ho bisogno del suo aiuto c’è, ma è ugualmente fastidioso.
«Dài, fammi vedere.»
«No.»
«Morgan, avanti…»
«Ho detto di no, stronzo!»
«Solo un’occhiata… Voglio sapere per chi ti sei preso una cotta.»
Arrossisco. Vorrei prendermi a calci, e insieme a me anche Buck.
«Non mi sono preso una cotta per nessuno!» E invece sì. Non è amore, ma i suoi occhi mi hanno conquistato.
Per fortuna la campanella mi salva. Cancello il disegno ancora incluso prima che Buck possa vederlo, poi aspetto che tutti escano dall’aula.
Lei è sempre l’ultima a uscire. La noto distrattamente ogni giorno nei parcheggi senza guardarla davvero, mentre incespica sui gradini con gli occhi sempre altrove, sempre persi in un mondo che nessuno conosce. E non so davvero spiegarmi come sia possibile non averla mai degnata di uno sguardo, di un vero sguardo, prima d’ora.
Quando mi avvicino per parlarle, lei si volta subito verso di me. Non si aspettava che mi facessi avanti, probabilmente pensava di essere rimasta sola, perché strabuzza gli occhi e sbatte un paio di volte le palpebre. Sembra quasi che non riesca a credere a quello che vede, ma ricambia comunque il mio sguardo, senza timore, come se volesse sondare il terreno e interpretare le mie vere intenzioni.
«Ciao.» dico, e per un attimo penso che potrei arrossire. Prima non l’avevo notato, nonostante fossimo alla stessa distanza in cui ci troviamo adesso, ma i suoi occhi… sono incredibilmente luminosi. Sarà la luce, eppure ora, dal grigio-verde di poco fa, sembrano quasi violacei, e non so spiegarmi come sia possibile tanta bellezza. Sì, sono cotto della stessa ragazza che mi ha involontariamente umiliato di fronte alla classe e al professor Jefferson. Con quei capelli castani, lisci e lunghi fino alle spalle, un po’ anonimi, gli occhi scoperti e non più nascosti dagli occhiali come a lezione: mi porterà alla follia, ne sono certo.
«Ehm…» Si muove nervosamente sul posto, schiarendosi la voce e fissandomi come se si aspettasse una mia risposta.
«Hai detto qualcosa?» Stupido, vorrei prendermi a calci in culo.
Sorride divertita, ma non avvampa. Non è come tutte le altre ─ adesso ne ho davvero la prova ─ che arrossiscono anche se e quando mi metto le dita nel naso. Lei è diversa. Secchiona, schiva, riservata ma… sicura di sé. A suo agio con il proprio corpo e con la propria mente. Sembra anormale, sembra non aver bisogno di niente, come se avesse già tutto. Mi piace. La voglio. Deve essere mia.
«A parte che mi sono scusata con te per l’esercizio? Ti ho chiesto che cosa ci fai ancora qui.»
Questa volta sono io a strabuzzare gli occhi. «E perché avresti dovuto scusarti?»
Alza un sopracciglio e storce appena un po’ la bocca. Non so decifrare la sua espressione. È… dubbiosa? Scettica? Non si fida di me?
«Fai sul serio?» domanda infatti.
«Per quale motivo non dovrei?»
Abbassa lo sguardo sui suoi libri ancora incustoditi sul banco e inizia a raccoglierli tra le braccia. Non sono troppo pesanti per lei?
«Oh, be’,» Ha la faccia di una che sta parlando con un bambino, «sei un ragazzo e di solito ai ragazzi non piace quando una ragazza dimostra di essere migliore di loro in qualcosa.» Sospira. «Pensavo che a fine lezione ti saresti avvicinato per farmela pagare.»
Piego gli angoli della bocca in un sorriso abbagliante. I miei pensieri si spostano su tutt’altro piano; su un piano molto più eccitante di lei con la faccia nel water dei bagni.
«E come avrei potuto punirti, secondo te?»
Sto flirtando spudoratamente. Ci sto provando come faccio con tutte.
E lei se ne accorge. «Bene.» mormora tra sé e sé. «È da nemmeno un mese che mi sono trasferita qui, e già il grande Kevin Morgan ci prova con me.» Sorride, ma nessun’ombra divertimento raggiunge i suoi occhi. «Dovrei esserne lusingata.» Ma non lo è. Lo capisco senza che lei lo dica.
Mi passa accanto prima che possa rendermene conto, infilandosi negli spazi tra i banchi per raggiungere l’uscita.
«Aspetta…» La seguo, cercando disperatamente un’occhiata che non arriva. Guarda dritto davanti a sé, cammina impettita, fiera. È arrabbiata? «Hai frainteso... Non ci stavo provando affatto con te.» Bugia. Bugia. Ma l’importante è che ci creda.
Si lascia andare a una risatina, guardandomi al di sopra della propria spalla. La raggiungo subito, affiancandola senza alcuno sforzo, anche se… Caspita, è veloce.
«Non sei affatto bravo a mentire.»
«Ce l’hai con me? Ti ho offesa?» Mi scappa di bocca e allora non posso più fare nulla per fermarmi.
«No, non mi hai offesa.» Mi guarda negli occhi, con le labbra carnose schiuse in un piccolo sorriso ─ mi schiaffeggerà se la bacio? ─ poi scuote la testa come le fosse venuto in mente qualcosa di stupido.
«E allora perché scappi via da me?»
Sgrana gli occhi e si ferma di botto. Si volta interamente verso di me.
«Sei strano.» commenta, e non so se il suo sia un complimento oppure no. Vorrei chiederglielo, ma non mi lascia né tempo né modo di parlare. «Non mi interessi, semplicemente.» Scrolla le spalle e incrocia le braccia al petto.
Alzo un sopracciglio. Dentro di me, sono sempre più eccitato, eppure cerco di non darlo a vedere. Non voglio che pensi che per me lei è una sorta di conquista. Lo è? Domanda interessante.
«Non mi conosci.»
«Eccellente scoperta!» Schietta. Ironica. Credo già di amarla. «Non ti conosco, quindi non mi interessi.»
«Questo vuol dire che… se tu mi conoscessi, potrei piacerti?» Decido di sfoderare uno dei miei sorrisi migliori, nonostante sappia ormai che con lei la solita tattica non funziona.
Arrossisce. Arrossisce! Per la prima volta sono felice che una ragazza l’abbia fatto. Non si aspettava che rispondessi così. «Non sei il mio tipo.» dice, e riprende a camminare.
«Non ti credo.»
«È la verità.»
«Hai esitato.»
«Non è vero.»
«Hai esitato!»
Socchiude gli occhi e sospira.
Non mi accorgo che abbiamo raggiunto il parcheggio finché una folata di vento non mi colpisce in pieno viso. Lei è accanto a me e i suoi capelli lunghi mi sfiorano le spalle. Quando si è avvicinata così tanto? Sono stato io? O entrambi?
Se ne sono andati tutti. La piazza è completamente deserta.
«Vuoi un passaggio?»
Dì di sì, dì di sì...
«No, grazie.»
Le afferro un braccio e la faccio girare verso di me.
«Hai intenzione di fartela tutta a piedi?»
«Abito qui vicino, non c’è bisogno.»
«Stai mentendo ancora.»
I suoi occhi sfuggono ai miei. Si fissa le scarpe.
Devo trattenermi per non afferrarle il viso tra le mani. Perché non mi guarda?
«Devo tornare a casa.» Strattona appena il braccio e indietreggia.
Capisco che è meglio lasciar perdere. Per ora.
La guardo allontanarsi e, prima che possa ripensarci, urlo: «Sei un genio per caso?»
Si volta subito di scatto. Riesco a distinguere i suoi occhi verdi anche a distanza.
«Perché dici così?»
Scrollo le spalle. Non lo so nemmeno io. Mi è… scappato. È stato un pensiero fulmineo.
«Be’, sai… tu…» Respiro profondamente, lasciando la frase in sospeso. «Lascia perdere.»
«Sei strano.»
«L’hai già detto.»
«Sei davvero strano!»
«Quando sorridi, ti si formano le fossette alle guance.» Okay. Adesso voglio davvero uccidermi. E dissotterrarmi, anche. Da quando sono diventato così… sincero? Impulsivo? Io non sono così. Non faccio complimenti alle ragazze. Di solito accade il contrario!
«Ora sei decisamente strano.» Ma sorride sempre di più.
Le piaccio. Le piaccio? Se è ancora qui, in un parcheggio deserto, insieme a me, qualcosa vorrà pur dire.
«Come ti chiami?»
È sorpresa. «Come? Non lo sai? Eppure avrei giurato che lo sapessi.» È sarcasmo, quello? «Non dovrei mica sorprendermi. Kevin Morgan ricorda soltanto il suo, di nome.»
«Rispondimi.» la incalzo, sempre più raggiante. Ed incuriosito. Questa ragazza è… esiste davvero?
«E togliermi tutto il divertimento?»
Mi scocca un’ultima occhiata, poi si volta e mi abbandona lì, completamente inebetito.
Sto sognando, non c’è altra spiegazione.
Eppure, quando corre via senza più voltarsi indietro, il pensiero che sia tutto reale è così forte che non riesco a lasciarlo andare.











Note d'autore:
Mi sono divertita tantissimo a scrivere questo capitolo! E' stata un'emozione unica. Era come se... come se io fossi sia Kevin che Michelle! Incredibile! Sentivo le sensazioni di entrambi scorrermi addosso e... e ridevo come una pazza, quasi avessi assistito davvero alla scena! Non so se è stato così anche per voi; mi rendo conto che, essendo la mia prima storia, non sia ancora molto brava a trasmettere ciò che sento, ma mi auguro che almeno una risata, anche una lacrima di pietà!, vi sia scappata. Accetto qualsiasi critica. Sono aperta, pronta a tutto.
Prima di lasciarvi, vorrei ringraziare coloro che mi hanno recensito, ragazze davvero stupende!
Dedico a loro questo capitolo: Tanny, Bice_97, Lara D_Amore e Amartema. Siete state davvero gentilissime!
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Capitolo 3
*** Secondo capitolo ***


S e c o n d o   c a p i t o l o
 
 
 
 
 

La prima cosa che faccio quando torno a casa è accendere il portatile per collegarmi a internet.
Mamma mi chiama dal piano di sotto, è pronta la cena, dice, e io urlo che non ho fame, o che mangerò più tardi i loro avanzi ─ non ricordo. Sono così concentrato su quello che devo, che voglio fare, da non prestare attenzione a nient’altro. Mi tolgo le scarpe dai piedi, infilo i pantaloni della tuta e una maglietta sgualcita e poi mi accomodo sul letto. Navigo in rete da nemmeno due minuti quando mio padre sale a portarmi la cena.
«Ehi.» Ha l’aria stanca, leggere rughette attorno agli occhi e i capelli scompigliati. Lui e la mamma si sono sposati giovani e, nonostante abbiano soltanto quarant’anni, il duro lavoro che sono costretti a fare per quattordici ore al giorno rende ancora più evidenti i primi segni della vecchiaia.
Non siamo poveri, ma nemmeno tanto ricchi da poterci permettere di pagare degli interventi chirurgici ─ ammesso che ce ne sia bisogno. E so anche quanto abbiano dovuto sacrificare per me, per darmi la possibilità di studiare e di diventare qualcuno, in un futuro non troppo lontano. Più volte ho cercato di spiegargli che mandarmi a scuola non mi servirà mai a niente, che tutto ciò che voglio fare è diventare attore. Ma loro non mi ascoltano. Ed è stato così, proprio per questo motivo, che ho smesso di studiare. Non che prima combinassi granché.
«Ciao.» Non alzo la testa dal PC. Allungo solo una mano per afferrare il piatto, con gli occhi volutamente incollati allo schermo. Se lo guardassi, come ho evitato di fare da troppo, troppo tempo, ormai, cadrei nella sua trappola, capirei. E io non voglio capire. Non voglio rinunciare ai miei desideri, ai miei sogni.
«Tutto bene a scuola?» Si siede sul bordo del letto. Non posso fingere di non averlo notato. Del resto, non ci riesco mai. Questa è la solita conversazione che facciamo tutti i giorni. Rifiuto di mangiare a tavola insieme a loro, mi faccio portare il cibo in camera, due parole di circostanza e tutto finisce lì. Non che sia mai iniziato.
«Mh.»
Se dicessi sì o no, cambierebbe qualcosa? Torneremo di nuovo punto a capo. Perciò lascio libertà di interpretazione: a loro la possibilità di capire quello che vogliono.
Genio, scrivo sulla barra di Google. Thompson.
So solo il suo cognome. E non ho la certezza che lo sia, un genio. Chi mi dice che non sia solo un’ottima alunna? Una… secchiona? Che sia brava in matematica, punto e basta? Non lo so. Eppure lo sento.
I suoi occhi hanno parlato.
 
«Perché dici così?»
 
Sì, perché dico così?
«Kevin, potresti guardarmi un attimo?»
E poi come faccio a sapere se è “famosa” oppure no? Di solito, quando si riscontrarono casi del genere, i media intervengono.
Il primo link che compare è quello di Wikipedia, con il conseguente significato di “genio” e un riquadro con ulteriori note aggiuntive. Scorro la lista e l’argomento si infittisce ancora di più. Forum, siti specialistici, foto, il nome di Einstein dappertutto, e poi…
«Mi stai ascoltando?»
… Thompson. Michelle Thompson. Michelle.
Sposto il mouse sul link che capeggia nella seconda pagina di ricerca e clicco. C’è la sua foto. È lei. Sembra solo… un po’ più piccola. Avrà quattordici anni. Brufoletti, apparecchio ai denti, occhiali da vista… Ha proprio l’aria da secchiona. I capelli sono lunghi fino alle spalle, gli occhi luminosi, di un grigio-verde così particolare che...
«Kevin Christopher Morgan, sto parlando con te.»
È bellissima.
«Che cosa vuoi?»
«Non parlarmi così, sono tuo padre.»
Lui non esiste, mi ripeto. Non gli interessa sapere quello che voglio.
«E io sono tuo figlio. Come la mettiamo?» Non dovevo parlare. Dovevo ignorarlo. Devo ignorarlo. A che serve dire la mia, se loro non mi ascoltano? A che serve parlare, quando le carte sono già state servite, se la sentenza non cambierà mai?
«Esatto, sei mio figlio e proprio per questo, finché vivrai sotto il mio tetto, farai come ti dico io.»
«Bene.» Chiudo il portatile di colpo, mi alzo di scatto e comincio a rivestirmi. Abbandono i pantaloni della tuta e la maglietta per terra. Infilo le scarpe, indosso i jeans e il maglione.
«Che intendi fare?» Mio padre mi guarda allibito. James Morgan non se lo aspettava.
«Me ne vado.» borbotto. Ho la gola secca, i muscoli tesi e la mascella contratta. Non so cosa sto facendo, non ho più il controllo di me stesso.
«Non puoi andartene!» Urla? O sussurra soltanto? Non lo so.
Ho bisogno di andarmene.
Scendo le scale di corsa, le conto a una a una. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto. Visto, mamma? Visto, papà? So contare. Non ho bisogno di andare a scuola. Non ho bisogno di studiare.
«Kevin!»
«Dove stai andando?»
«Fermati!»
«KEVIN!»
Mamma mi chiama, mamma pronuncia il mio nome.
Ho bisogno di andarmene.
Sono fuori in un attimo. Fa freddo, non importa. Il mio stomaco brontola, ho fame. Frugo nelle tasche, ma mi accorgo di aver lasciato il portafogli a casa. Resisterò. Non posso tornare indietro.
Mi seguiranno? Corro. Corro via prima ancora che riesca a dare una risposta a questa domanda. In realtà non so nemmeno che cosa stia facendo di preciso. Che cosa voglio dimostrare? E, soprattutto, a chi?
Il maglione non serve a scaldarmi e i jeans sono freddi. Riesco appena a ignorare i brividi che mi corrono lungo la spina dorsale, ma il mio orgoglio mi impedisce di ammettere che tutto quello che ho fatto è stupido. È la prima volta che faccio una cosa simile. I miei non se lo aspettavano. Io non me lo aspettavo. Non sono così, non sono il tipo che abbandona tutto e fugge senza un vero motivo… No. No, no, no. NO. Un motivo c’è. Un motivo c’è eccome. Sono stanco di fare sempre come mi dicono. Non vogliono che io lavori, malgrado abbia cercato più di una volta di convincerli a permettermi di farlo. Si aspettano che io diventi un avvocato, o qualsiasi altro reietto rispettabile della società. E che perciò vada a scuola, ottenga il diploma e poi mi iscriva al college.
«Non lo farò mai.» Sputo per terra, e poco mi trattiene dal scagliare un pugno contro la grata dell’officina all’angolo. Mi trovo in un vicoletto che non conosco dove la luce dei lampioni non arriva. Nessuno mi vede. Io non esisto. Qualcuno ha scritto sul muretto di una staccionata “Al mondo non c’è giustizia” e poco più sotto, con la bomboletta rossa, “Dio è morto”.
Dio è morto.
Sarà vero?
Sì.
«No.» In un primo momento non mi accorgo neanche di averlo detto. So solo che, quando alzo lo sguardo e noto una chioma castana aggirarsi a qualche metro da me, cancello tutto, smetto di pensare a chiunque non sia lei.
Lei, lei che lì, lei, lei, lei, lei.
Devo seguirla senza che mi veda? Tornarmene a casa? Farmi avanti?
Mi avvicino furtivo e mi sento come un ladro… o peggio. Mi convinco che lo sto facendo per il suo bene, che l’unica cosa che mi interessa è evitare che qualcuno le si avvicini per… per… per molestarla. Non deve accaderle nulla di male e so che sarà al sicuro finché non la perderò di vista ─ non che ne abbia intenzione.
Che cosa voglio fare? Che intendo dimostrare?
Sono un vigliacco. La verità è che non ho il coraggio di avvicinarmi.
Potrebbe pensare male di me, o che la stia perseguitando…
 
«Sei strano.»
«L’hai già detto.»
«Sei davvero strano!»
«Quando sorridi, ti si formano le fossette alle guance.»
«Ora sei decisamente strano.»
 
È probabile che l’opinione che ha di me cambierebbe in peggio.
No. Non posso farmi vedere.
Però posso osservarla. Dove sta andando? Indossa dei pantaloni neri, stretti, incredibilmente e fottutamente aderenti, così aderenti che, se fossi debole di cuore, sarei già cascato ai suoi piedi. Di spalle non riesco a vedere che maglietta abbia, ma non sembra avere freddo, perché si muove con naturalezza. Non sembra affatto la secchiona che dà l’impressione d’esser in quella foto o a scuola. È… sexy. Come posso dirlo se non posso neanche guardarla in faccia? Non posso neanche essere sicuro che sia lei.
Michelle. La lingua scivola sul palato, come la coda di un serpente.
Nonostante non si accorga di me, non voglio rischiare. Mi fermo ogni due minuti, poi, quando è abbastanza lontana ─ ma non troppo da scomparire dalla ma vista ─ riprendo a camminare.
Alla fine ritorniamo sulla strada principale. Superiamo tutti i vicoletti che delimitano la periferia e ci inoltriamo nella parte più interna della città. Seattle, braccata dall’Oceano Pacifico, chiamato Puget Sound, e il lago Washington, sorge su sette colli: First Hill, Capitol Hill, Queen Anne Hill, Beacon Hill, Denny Hill, Magnolia e Crown Hill. Si estende su una superficie di duecentodiciassette chilometri quadrati ed è grandissimo agglomerato urbano, sede di una delle più importanti industrie aereonautiche statunitensi. Mio padre lavora nei cantieri navali mentre mia madre è operaia in un’industria alimentare e del legno. È incredibile quanto tempo trascorrano lì, l’uno tra il traffico portuale e l’altra in uno stabilimento a due chilometri da casa. Non li vedo molto spesso.  
Adesso siamo a Pike Place Market. Michelle si è appena fermata davanti ad uno Starbucks, il primo ad essere stato aperto nel 1971. Nonostante l’ora tarda è ancora ricolmo di gente. Ma non mi importa degli altri.
Perché è lì? È martedì sera, e di solito quasi nessuno della nostra età frequenta il locale alle undici. Ci sono stato un paio di volte anche dopo la mezzanotte, ed è risaputo che nei giorni infrasettimanali sia bazzicato per lo più da trentenni. Solamente il venerdì diventa il punto di incontro della maggior parte degli adolescenti.
Entra, si siede in fondo, di fianco ai cestini della spazzatura e di spalle ai bagni femminili. Ha la sguardo rivolto verso la vetrina, quindi potrebbe facilmente vedermi se alzasse un po’ di più la testa. Apre un libro di cui non riesco a leggerne il titolo e non arriva neanche a metà pagina che un cameriere le si avvicina per prendere le ordinazioni. Poi casualmente i suoi occhi incrociano i miei, così, senza un motivo apparente. Come se sapesse che la sto spiando e non ne fosse affatto sorpresa.
Mi ha guardato. Ho paura di sembrare una ragazzina… o peggio. Un molestatore. Uno stalker.
E adesso? Bella domanda. Che faccio?
Scuote la testa. Più che sorpresa sembra incredula… e divertita, molto divertita. Le sue labbra si incurvano in un sorriso… Sta ridendo? Di me?
Se ne pentirà, penso. Se ne pentirà amaramente.
Distoglie subito lo sguardo, e inizia a parlare con il cameriere. Gesticola un po’ ─ da lontano sembra avere le dita affusolate, da pianista ─ e il ragazzo, che avrà poco più della mia età, più che fissarla con semplice disinteresse pare fare apprezzamenti sul suo corpo perché i suoi occhi cadono troppo spesso sulla scollatura. Come faccio a esserne tanto certo? Ho il radar, io, per i brutti ceffi.
«… e muffin al cioccolato, grazie.»
Non mi sono neanche accorto di essere entrato. Mi preoccupo solo di incenerire il cameriere. Probabilmente, quando tornerà con le sue ordinazioni, le lascerà il numero di telefono e lei… lei non ha nemmeno fatto caso al modo in cui la guardava prima! Incredibile!
Mi scontro volontariamente con il ragazzo continuando a camminare verso il suo tavolo, senza voltarmi per chiedergli scusa o controllare la sua espressione. Non mi interessa. L’importante è che le stia lontano.
«Hai fatto conquiste.» Come mi esca questa frase non lo so. Tutto ciò di cui sono sicuro è che non mi sono mai sentito tanto geloso di qualcuno. Neanche quando Puck ci prova con le ragazze che mi interessano.
Michelle alza la testa e lascia vagare gli occhi su di me. Se le piaccia quello che vede è difficile da capire, perché il suo sguardo neutrale non lascia spazio a chiarimenti. È peggio di un cubo di rubik, questa ragazza.
«Parli del cameriere o del ragazzo che mi spiava da fuori?»
Decisamente sì. È molto ─ molto ─ peggio. «Touché.» Alzo le sopracciglia e scosto la sedia per sedermi di fronte a lei, più teso di quanto dia a vedere. Non mi perde di vista neanche un secondo, e allora mi rendo conto che non è affatto la sprovveduta verginella che credevo. È ancora più bella di quanto ricordassi. Non indossa gli occhiali e i suoi occhi sono più intensi e penetranti, ora che posso fissarla apertamente, senza il timore che possa scoprirmi. «Aspetta… non starai flirtando con me?»
Piega la testa di lato e incrocia le braccia sul petto, abbandonando il libro sul tavolo. L’ho incuriosita. L’ho incuriosita davvero. È interessata?
«Questo non è flirtare.»
«Ah sì?»
«Sì.» Sembra decisa, sicura di sé. Lo è. Mi piace. Tanto. Troppo. L’ho già detto? Deve essere assolutamente mia, e di nessun altro.  
«Per la cronaca,» Schiocco la lingua e la guardo con le palpebre socchiuse dall’alto in basso proprio come farei ─ anzi, faccio ─ con qualunque altra ragazza, «a meno che tu non lo sappia già…»
«Già lo so.» Mi ha interrotto per stuzzicarmi?
Le lancio un’occhiataccia. Lei finge di non farci caso. «Quel cameriere ha intenzione di lasciarti il suo numero. Ci scommetto un bacio che te lo nasconderà accanto alla bustina di zucchero del caffè»
«Un bacio?» Come mai sembra non aver ascoltato nulla di quello che ho detto? E cos’è quel ghigno perfido che le sta nascendo sulle labbra?
«Esatto.»
Si concede del tempo per osservarmi in silenzio, come se stesse valutando la sua risposta. Poi riprende l’uso di quella sua lingua incredibilmente tagliente. «Chi ti dice che non me l’abbia già dato?»
Sobbalzo sulla sedia. Non può… non può… «Non l’ha fatto. Vi ho visti tutto il tempo e non si è mai avvicinato tanto da…»
«Mettiamo in conto che tu abbia appena perso la scommessa.» Adesso sono io, quello curioso. «Quel bacio lo concederesti davvero?»
Non capisco dove voglia arrivare. Vuole… vuole che la baci? «Perché, vuoi prenotarti?»
«Rispondimi.» Implacabilmente sexy.
«Sì.»
«Bene.» Non sembra per nulla sorpresa. È come se… avesse verificato per l’ennesima volta il successo di un esperimento ben congeniato. Fruga nelle tasche della giacca e allunga un foglietto spiegazzato verso di me. Otto cifre in penna blu. Il ragazzo non ha perso tempo, a quanto pare.
La fisso negli occhi. «Lo chiamerai?»
«Ora non ha importanza.» Si piega sul tavolo e sorride ancora di più. Mi chiedo se sia umana. «Hai un pegno da pagare.» 
Non lo è. Mi stendo anch’io verso di lei, finché i nostri visi non si trovano a qualche centimetro di distanza. Le accarezzo la guancia, scostandole i capelli dalla spalla e schiudendo le labbra. Non ho mai desiderato tanto qualcosa ─ qualcuno ─ come in questo momento. È… nervosa almeno la metà di quanto lo sono io? Non ho neanche il tempo di dare una risposta a questa domanda, che Michelle subito si allontana da me.
Il sorriso è ancora lì, sulla sua bocca. Vuole prendermi in giro, forse?
«Oh, ma... non mi riferivo a me.»
Sgrano gli occhi di scatto. «E a chi…»
«Al tuo amato spasimante.» dice, e indica con un cenno impercettibile della testa il cameriere che, ignaro di tutto, si sta avvicinando al nostro tavolo con le ordinazioni di Michelle. Pensando che non me ne accorga, mi lancia una breve occhiata di… invidia?, e prima di allontanarsi di nuovo rivolge un ultimo sguardo alla ragazza che mi ha appena illuso.
Scuoto febbrilmente la testa. «Non ci sperare.» Sono incredulo. Non me lo sarei mai aspettato. È… fantastica. E sto bene, non mi sono mai sentito tanto meglio. Mi diverte, è ironica, con la risposta sempre pronta. Riuscirebbe ad eccitare chiunque con i suoi modi di fare ed è impossibile non rimanere affascinati da lei. 
Ride, e noto che ha i denti bianchissimi e dritti. «Ci avrei scommesso che avresti risposto così.»
Chissà come e per quale motivo, le sue parole mi fanno ricordare una cosa. «Che ci fai in giro a quest’ora?»
Distende le labbra in una piega sottile, abbassando lo sguardo. Inizia a sorseggiare dalla sua tazza di caffè e fissa il suo libro come se non lo vedesse davvero, come se… guardasse qualcosa attraverso. «Mi sono chiesta la stessa cosa quando ti ho visto spiarmi.»
«Non ti stavo spiando.» Inutile difendermi, lo so.
«Credevo avessimo già chiarito che non sei bravo a mentire.» Ecco.
«Rispondo soltanto se rispondi prima tu.»
Sospira pesantemente. Ogni traccia di divertimento è sparita dal suo volto. «Niente di che… In realtà, vengo… vengo spesso qui.» Ha lo sguardo basso, troppo.
«Nemmeno tu sei brava a dire le bugie.» le faccio presente prendendole il mento tra il pollice e l’indice e sollevandoglielo perché possa ricambiare il mio sguardo. Ci fissiamo in silenzio per qualche tempo, seri in viso. «Di me ti puoi fidare.» la rassicuro, non sapendo neanche bene il perché.
«Sai,» Prova a sdrammatizzare, ma è tesa, inquieta, «è la stessa cosa che dicono i traditori prima di voltar le spalle agli altri.»
«Io non sono un traditore e non volto le spalle a nessuno.»
Inarca un sopracciglio. Non l’ho affatto convinta. «Nemmeno alle tue fidanzate?»
«Non ho nessuna fidanzata.» ribatto in tono duro. «Loro sanno a cosa vanno incontro. Sesso è, e sesso rimane, quello che facciamo. Io non faccio alcuna promessa.»
«Dovresti ricordarglielo, ogni tanto.» È gelosa?
«Perché, ti dà fastidio?»
«Affatto…»
«Be’, in ogni caso non hai ancora risposto.»
Ci riflette su, nascondendosi la faccia tra i capelli. Sembra imbarazzata, molto più che tesa, adesso. Ha la mascella contratta, gli occhi grigio-verdi implacabili e seducenti, le labbra strette in una linea sottile. Osservo il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del suo respiro, cercando di imitare il battito del suo cuore.
«Ho,» Si stropiccia le guance con le mani, «ho litigato con i miei.»
«E perché mai?»
«Non è… non è tanto semplice da spiegare; è complicato.» Mi guarda in un modo che non riesco a comprendere. Si sente incompresa, si sente in qualche modo… sola? Diversa?
«Se ti fa sentire meglio, anche io ho litigato con i miei genitori.» L’ho detto. Ecco. Bene. Non mi piace parlare della mia famiglia, ed è per questa ragione che evito sempre l’argomento con chiunque. Non li nomino neppure. Ma con lei, con una ragazza che conosco appena, l’ho appena fatto.
«Non mi fa sentire meglio, ma… ti ringrazio.» Sembra sincera.
E la mia espressione non riflette altro che stupore. «Per cosa?»
«Mi hai… fatto sentire bene… per qualche minuto.» Aspetto la bleffa, una bleffa che non arriva. «Perciò grazie per avermi pedinata.» Sorride, ed io ricambio istintivamente.
«Non ti ho pedinata… non subito almeno.»
Si porta la tazza alle labbra e dà un ultimo sorso al suo caffè. Quando l’abbassa all’altezza dello stomaco, mi accorgo che le è rimasto uno sbaffo all’angolo della bocca, e la mia gola diventa secca.
«Ciò non toglie che tu l’abbia fatto.»
La fisso insistentemente ed avvicino una mano al suo viso. Mi guarda senza capire, e allora la rassicuro con un sorriso dolce e scherzoso, strofinandole il pollice sulle labbra. «Caffè», spiego, per giustificarmi. Poi mi alzo, allungando una mano verso di lei.
«Che c’è?» È ora di andare, e sono certo che lo sappia già, nonostante l’abbia chiesto.
«Vieni, ti accompagno a casa.»
 
 
 
 
 
Mi arrampico sulla finestra e manometto la finestra per entrare.
Ho appena lasciato Michelle a casa e, sebbene non avessi alcuna voglia di ritornare, la stanchezza ha incominciato a farsi sentire. Avrei potuto gironzolare per strada ancora un po’ ma le chiamate perse sul cellulare mi hanno ricordato che i miei genitori mi stanno aspettando.
Non so davvero che cosa mi abbia preso ma… l’idea di rivederli, di… di bussare alla porta di casa e ritrovarmi a faccia a faccia con loro mi…
Disgusta, non so scegliere termine migliore. Sono scappato, ho reagito come avrebbe fatto un bambino ─ non un uomo, me ne rendo conto. Eppure, non riesco a pentirmi. Sono troppo egoista per farlo.
Decido di lasciar perdere. Mi svesto, indosso una canotta e i pantaloni della tuta che avevo indosso prima di scattare in piedi dalla rabbia.
Il computer è ancora come l’ho lasciato. Lo riavvio e mi ricordo della ricerca che ho fatto su Michelle. Avrei dovuto chiederle spiegazioni, invece me ne sono completamente dimenticato. Digito la password e…
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«Com’è possibile?»
Sbuffo, imprecando contro la connessione a internet, e apro un’altra finestra di Google. Genio. Thompson. Pagina 2. Clicco, clicco, clicco.
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Ed è fulmineo, improvviso. Come un lampo. Il display si oscura. Poi si riaccende. Un occhio umano mi fissa dall’altro lato dello schermo.
«Ma cosa… ?»
Tutto scompare. Tutto diventa immobile.
 
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Note d’autore:
Ho letto questo capitolo così tante volte che mi sanguinano gli occhi (y). Che bella prospettiva, eh? Parlando dei personaggi e di ciò che è successo: non vi preoccupate se non ci avete capito nulla, ogni cosa a suo tempo; troverete le spiegazioni che vi servono. C’è un motivo, se Kevin si è comportato in questo modo… un motivo che non ha (quasi) niente a che fare con il suo sogno di diventare attore. Per quanto riguarda Michelle… quella ragazza è un enigma perfino per me, e proprio come voi anche io devo ancora capire cosa le passa per la mente. Kevin è più prevedibile, in un certo senso sono io a “muoverlo”. Lei invece… mi ricorda Effie di Skins, e proprio per questo, più che per la sua somiglianza fisica con l’attrice, ho scelto Kaya Scodelario come suo prestavolto. Per quanto riguarda Kevin, sono andata più “a caso”: Jeremy Irvine mi ha conquistata, ha il suo stesso sguardo, punto e basta, e io lo amo (y). Ovviamente potete immaginarli diversamente… e in realtà sono curiosa di sapere quale attore/modello avreste associato a loro.
Detto questo, vi lascio.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e, in particolare, chi ha anche recensito. Non mi aspettavo così tanti commenti (mettendo in conto che sono anche una nuova iscritta).
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Capitolo 4
*** Terzo capitolo ***


T e r z o   c a p i t o l o
 
 
 
 
 






Una ragazza è seduta sulle mie gambe e io non reagisco minimamente. Non so bene come ci sia finita lì, né cosa stia dicendo in questo momento. So solo che io sono io, e che l’aria che respiro è molto più importante di lei e delle sue chiacchiere insulse. Vorrei dirle di togliersi, di andare a cercarsi qualcun altro con cui parlare; magari Puck, che per tutto il tempo le ha osservato le gambe, o quello zerbino di Finnegan, che con quei suoi occhialetti appannati e rotondi ci vede più di quanto dice.
«Kevin… mi stai ascoltando?» Spiegatemi come si possa prendere sul serio una bionda ossigenata, con le guancette rosa, le ciglia finte lunghissime e il trucco perfetto e non lasciarsi totalmente sopraffare dalla noia.
«Sì, Ashley.» Ecco. E magari rimanerne illesi. Se fingerò di essere interessato a lei, forse Puck interverrà, penso. E nel frattempo cerco di dare una spiegazione logica a tutto quello che mi è successo la notte scorsa.
«Io mi chiamo Amber!» dice offesa, assottigliando considerevolmente quei suoi occhi grandi come botti. Bene, così va meglio. A furia di sgranarli tanto deve esserle venuto il mal di testa.
«Fa lo stesso.» dico, o qualcos’altro che non ricordo.
Il problema è un altro.
 
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Ho un paio di teorie ma nessuna si avvicina minimamente alla verità. Che si sia trattato di un semplicissimo problema di connessione, o che il sito sia stato oscurato potrebbe essere una motivazione più che sufficiente a giustificare ciò che accaduto. Eppure io so che niente è così evidente come sembra e che più di quel che penso si nasconda dietro a queste sottospecie di spiegazioni infondate. Quell’occhio. Quell’occhio umano, grande, e così vivo, non stava affatto fissando qualcuno dall’altro lato dello schermo. Stava fissando me. E, sebbene si sia trattato di un momento così breve da essere a stento percettibile, quello sguardo e la consapevolezza che fosse rivolto esclusivamente a me mi hanno impedito di dormire tutta la notte.
Non ho chiuso occhio, e la stanchezza è un marchio talmente incavato nel mio corpo che stamattina non ho avuto neanche il coraggio di guardarmi allo specchio. Mi sono direttamente trascinato dal letto fino a scuola, senza trovare la forza necessaria per affrontare i miei genitori. So bene, più di quanto riesca ad ammettere a me stesso, di essermi comportato male nei loro confronti e che non meritano, né tanto meno meritavano, il trattamento che gli ho riservato, ma ho paura ─ una fottuta paura ─ di ricevere ancora una volta l’ennesimo rifiuto. Non accettano i miei sogni, li minimizzano come se non fossero affatto importanti, come se fossero… subordinati ai loro. E la scottatura è ancora fresca, brucia ancora sulla mia pelle…
La campanella suona: le lezioni stanno per cominciare. Il professore di letteratura, Hayden Washington, è sull’uscio della porta e continua a discutere animatamente, con un altro docente, sui preparativi della festa che il comitato scolastico ha in mente di organizzare in occasione della parata annuale di Santa Claus, in cui l’intera città si riunisce e guarda sfilare carri dalle rifiniture rosse e verdi e una grande orchestra accompagna il coro della parrocchia. Nessuno manca mai di andarci, è la ricorrenza preferita di adulti e bambini; così i cittadini affollano le strade, sfoggiando capelli da Babbo Natale e scarponi da montagna. Ci sono perfino dei tizi che hanno il coraggio di indossare barbe bianche, lunghe e folte ─ come se già non fossero abbastanza ridicoli.
«Tu ci andrai?» Ashley inizia a stropicciarmi i capelli, muovendosi irrequieta sulle mie gambe e facendomi venir voglia di scaraventarla a terra come se fosse un sacco di patate. Non sopporto proprio più di sentirla parlare, la sua voce irritante mi perfora il cervello.
«No.» La guardo per la prima volta in tutta la giornata, sollevando un sopracciglio e fissandola in modo eloquente. Sembra finalmente capire, ricambia il mio sguardo, ferita, e poi si alza di scatto e se ne va, sculettando verso il suo gruppo di amiche. So che mi stanno guardando senza nemmeno voltarmi a verificare, e che ora non faranno altro che elencare una serie di improperi su di me solo per farla contenta. So anche che ognuna di loro, nella propria mente, starà gioendo della situazione nell’assurda convinzione di avere una possibilità in più di essere la candidata perfetta per essere la mia fidanzata. Che stupide. Non hanno idea di come siano fatti davvero i maschi. Noi non amiamo, e di sicuro un po’ di trucco e reggiseni imbottiti non potrebbero mai convincerci del contrario. Possono addirittura fingersi delle verginelle acide e anticonformiste ─ so che vanno di moda nell’ultimo periodo: mentiremo, faremo finta di essere perdutamente innamorati di loro, solo per illuderle che di noi si possono fidare e per costringerle ad abbassare la guardia.
D’accordo, è da bastardi, questo è vero.
Ma loro non sono poi così tanto diverse.
«Ci sei andato giù pesante con lei, amico.» Puck mi dà una pacca sulla spalla, sghignazzando insieme a Robert. Giocano insieme nella squadra di football e sono così tonti che credono a qualsiasi cosa io dica.
Una volta ho detto loro di essermi portato a letto... Mallory Williams? Non ricordo il nome… Sto parlando della presidentessa del comitato scolastico e capitano della squadra delle cheerleader. Ad ogni modo, entrambi ci hanno creduto, nonostante ─ da quel che io sappia ─ Mallory sia ancora vergine. Non che non ci abbia provato, ma lei prima di farlo mi ha confessato, in preda al terrore, di essersi innamorata di Puck e aver fatto finta di essere interessata a me soltanto per farlo ingelosire. Inutile dire che, sebbene mi abbia pregato di dire di averlo fatto e di tacere che fosse vergine, Puck non ha reagito affatto come sperava alla notizia.
Gli lancio un’occhiataccia. «Avrei voluto veder te al mio posto.» borbotto. «Non ha fatto altro che parlare, e parlare, e parlare, e parlare.»
«Sarei stato perfino disposto a sentirla stonare Walking On Sunshine di Katrina & The Waves pur di tenermela sulle gambe.» Ridacchia, dandosi di gomito con Robert. «E poi non puoi affatto negare che abbia delle cosce stupende.»
«Oh, sì.» dico, senza preoccuparmi di nascondere il sarcasmo. «Perché è a quelle che penseresti se avessi in braccio una ragazza.»
«Wow!» esclama Robert. «Allora non puoi dire di non averci per nulla pensato!» E lui e Puck continuano a ridere come matti.
«Piantatela!» Spingo entrambi via dal mio banco. Ostruiscono tutto il mio campo visivo, impedendomi di tener d’occhio la porta. Michelle è in ritardo, non è ancora arrivata ─ cosa alquanto strana per i suoi standard, visto che da quando è iscritta qui non ha fatto nemmeno un’assenza (almeno per quanto riguarda i corsi che abbiamo in comune) ─ ed è sempre più difficile impedire a quelle oche sghignazzanti di sedersi accanto a me.
«Che ci fai al primo banco?» Puck ci si appoggia contro, incrociando le braccia al petto. «Tu odi stare davanti, insieme ai secchioni.»
«Non dirci che hai intenzione di studiare.» mi prende in giro Robert, senza neanche lasciarmi il tempo di rispondere.
Stringo la mascella. Non mi piace quel tono insinuatore. «E se anche fosse?»
«Uh-uh.» commenta Puck, increspando le labbra in un ghigno derisorio. Robert rimane semplicemente zitto. Deve aver capito che oggi non sono affatto di buon umore. «Giornataccia, eh?» Borbotto qualcosa di incomprensibile perfino a me stesso; voglio soltanto che le lezioni inizino e stare accanto a Michelle, senza Puck, Robert e Ashley-barra-Amber tra i piedi. E se è malata? Se le è successo qualcosa? Sbuffo, sto seriamente cominciando a diventare paranoico. «Si può sapere chi ti ha tenuto sveglio?»
«Nessuno mi ha…» Uno soffio. Un respiro appena percettibile accanto a me. Volto lentamente la testa, sgrano gli occhi e… «tenuto sveglio.»
Prima che abbia la possibilità dirle qualcosa, il professor Washington entra in classe camminando a grandi passi verso la cattedra. I suoi mocassini di cuoio battono con forza sul pavimento e in men che non si dica Puck e Robert si dileguano. Ognuno va a sedersi al proprio posto.
È strano, e anche imbarazzante, ma ora, senza i miei amici a coprirmi le spalle, mi sento indifeso, in balia di Michelle, minuta e fragile, come se lei potesse farmi in qualche modo del male. Non so spiegarlo, ma in sua compagnia tutto cambia radicalmente. La mia sicurezza e la mia spavalderia… minuscoli granelli di polvere spazzati via dal vento. Ed il pensiero che abbia ascoltato gli ultimi sprazzi della mia pseudo-conversazione con Puck e Robert mi fa trasalire all'improvviso. Non voglio che pensi che la ragione della mia insonnia sia stata lei perché renderebbe le cose ancora più complicate di quanto già sono. Mi sentirei umiliato, messo a nudo, come se non lo fossi già abbastanza, e… cazzo! Nessuna ragazza è stata mai in grado di esercitare tanta attrattiva su di me, né è mai riuscita a rendermi tanto vulnerabile.
«Signor Morgan, io e i suoi compagni saremmo davvero lieti di ricevere la sua attenzione, per favore.» La voce di Washington mi fa sobbalzare sulla sedia. Michelle trattiene il fiato accanto a me. Sembra quasi che il professore abbia colto lei in fallo, e non me.
«Mi scusi.» Abbasso lo sguardo sul banco, mi torco le mani e attendo la solita ramanzina. Che non arriva.
«Mi fa piacere che abbia deciso di unirsi a noi.» Il suo tono sarcastico, lo devo ammettere, è molto meno irritante di quello di Jefferson. Se il mio simpaticissimo professore di matematica avrebbe sfruttato la mia distrazione per elencare un’ulteriore serie di improperi su di me, Washington sembra soltanto divertito dal mio comportamento; divertito e curioso, anche, come se fossi un complesso sillogismo da comprendere. «E mi allieta,» aggiunge, «che si sia seduto accanto alla signorina Thompson. Un bel passo avanti, direi.» Qualcuno ride alle mie spalle, probabilmente Robert o Puck, o chissà chi altro. Non mi interessa. Michelle continua a trattenere il fiato. «Deve solo migliorare la sua capacità di attenzione, ma ognuno ha i suoi tempi.» Scrolla le spalle, e cammina avanti e indietro, con la schiena ritta e composta. Avrà la sua età, ma è l’unico insegnante che sia riuscito a farmi piacere. E le sue lezioni non annoiano. Quando voglio riesco perfino ad ascoltarlo con curiosità.
«Sì, signore.»
«Capitano.» mi corregge con un sorriso. «Capitano, soldato
La classe intera ride. Michelle ride. E io la guardo. È bella di profilo, ma voglio guardarla direttamente negli occhi.
«E mi dica, signor Morgan.» Rizzo le orecchie come un cane e ascolto. «Oggi mi sento abbastanza generoso, perciò ho intenzione di premiarla con una B se risponde a una mia domanda.»
Incurvo le labbra in un ghigno, e decido di stare al gioco. Allungo automaticamente le gambe e inclino la schiena, poggiandomi sulla spalliera della sedia. «Avanti, l’ascolto.» Jefferson mi avrebbe già mandato in presidenza se mi fossi rivolto così a lui, ma Washington non sembra affatto badare al mio tono, come se non fossi altro che un suo nipote.
«”Due strade divergevano in un bosco,» comincia a recitare, «ed io io presi quella meno battuta, e di qui tutta la differenza è venuta.” Chi è l’autore di questo verso e a quale poesia appartiene?» Il suo sguardo preme con insistenza su di me.
«Non vale, aveva detto una domanda...» Ma anche lui sa che conosco la risposta.
«Glielo concedo.» dice. «Una B+ allora.»
Michelle mi sta fissando. Mi volto verso di lei e non distolgo gli occhi dai suoi neanche per un istante. Cosa si aspetta da me? Pensa che sbaglierò? «Robert Frost, La strada non presa
«Bene.» Washington sorride. Se lo aspettava. Michelle no. Michelle è sorpresa. Forse adesso comincerà a vedermi sotto una luce diversa? «Molto bene.»
Sposto la mia attenzione sul professore. È compiaciuto, ha un sorriso soddisfatto, come se il merito fosse suo. Non è presunzione, la sua; è solo la reazione di un insegnante particolarmente contento del fatto che un suo alunno si sia avvicinato, anche soltanto di un piccolo passo, alla sua materia. E se c’è una persona da ringraziare, quella è mia madre. Ha un’intera raccolta di poesie di Frost, tutte prime edizioni, e ricordo che prima di addormentarmi me le leggeva da piccolo. Finissimo anche senza uno spicciolo, non se ne separerebbe mai, credo. Robert Frost è l’unico intermediario tra lei e suo padre, l’unica cosa che la avvicini almeno un po’ a lui.
«Non pensa che una B+ sia troppo poco? In fondo, è la prima volta in tutto l’anno che rispondo a una sua domanda.»
Washington incurva le labbra rugose in un sorriso. «Oh, mi creda, signor Morgan, è più che sufficiente.»
«Ne è davvero sicuro?»
«Convintissimo è dir poco.» Lancia una breve occhiata a Michelle, e perciò lo imito anche io, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ha i capelli raccolti in una crocchia, gli occhiali inforcati sul naso e, nonostante ciò, è… meravigliosa. Washington mi richiama all’ordine. «Quella B+ è l’unica garanzia che ho che ce ne saranno, di prossime volte, in cui risponderà alle mie domande.»
La lezione finisce. Il professore mi lascia in sospeso con quella frase. E il pensiero che si fidi di me mi fa sentire bene, mi convince quasi che potrei passare la sua materia senza dover essere rimandato per la quarta volta di seguito.
«Complimenti.» Una voce che riconoscerei fra mille mi fa sobbalzare. «Sei il primo che sia riuscito a stupirmi.»
Mi volto lentamente. Vorrei tanto scioglierle quella crocchia disordinata. Con i capelli sciolti sta molto meglio, ma decido ─ con non poca difficoltà ─ di trattenere i miei impulsi. Michelle è come i cavalli; bisogna avere pazienza con loro, camminare con i piedi di piombo, andarci cauti.
«Dovresti avere un po’ più di fiducia in me, sai? Come Washington.»
«Ho imparato a diffidare dei miei nemici.» Accompagna quelle parole con un sorriso beffardo. È sicura, determinata, si comporta come se mi conoscesse, come se sapesse come comportarsi con me. E vorrei tanto sapere come faccia ad essere così… così…
«Io non sono un tuo nemico.»
Siamo soli. Esattamente come la prima volta. Forse Puck e Robert mi hanno salutato ed io non me ne sono accorto. Questa volta c’è una sola differenza: sono io a portarle i libri ─ sono pesanti, accidenti ─ e, a giudicare dalla sua espressione, è di nuovo meravigliata dal mio comportamento.
«Tutto ciò che è a noi ignoto lo è, Morgan.»
Chissà come bacia… E’ così impudente anche a letto?
«Mi chiamo Kevin.»
«Morgan.» mi corregge annuendo con vigore, ed io non ho la forza di contraddirla. «Kevin Cristopher Morgan.»
Adesso sono io quello attonito, completamente attonito.
«Come sai il mio nome completo?»
Scrolla le spalle, e allunga le mani verso di me per togliermi i suoi libri dalle mani. Non mi frega più, ora; avvolgo le dita attorno ai suoi polsi e stringo forte, ma senza farle troppo del male. È la prima volta che la tocco e confesso di non averci granché pensato, prima. Ero più curioso di conoscere la sua mente, che il suo corpo, e adesso che è tanto vicino mi preme di più sapere come sia fatto il secondo. Ha le mani bianchissime, e non so se per il resto il suo colorito sia più roseo, perché la camicetta che indossa nasconde ogni porzione di pelle disponibile. Le sue guance sono costellate, qua e là, da piccole lentiggini che rendono il suo viso ancora più grazioso e irriverente. La curiosità mi assale: le ha… dappertutto, o solo lì?
«Se te lo dicessi,» Respira più affannosamente, ora, «dove starebbe il divertimento?» Il suo profumo è inebriante. Sa di… mele? Qualcosa di fruttato.
«Tu nascondi qualcosa.» Non so perché l’ho detto ma ormai non posso più tirarmi indietro. Michelle sgrana gli occhi e arrossisce. Non è imbarazzata dalla mia vicinanza, anche se l’avrei tanto voluto che fosse così. Al contrario, sembra agitata, presa in contropiede e… arrabbiata. Non le piace perdere il controllo della situazione e sa che con me non avrà sempre la meglio. «E non sei affatto ciò che vuoi far credere a tutti di essere.»
Alza il mento, fiera. «Cosa sarei, allora?»
«Non lo so.» dico. La lascio andare; è sempre più sorpresa. Non pensava che sarei stato il primo ad allontanarmi. E prima di voltarmi e andarmene, la guardo fisso negli occhi. «Ma ho intenzione di scoprirlo.»
 
 
 
 
 
Due minuti dopo, sto attraversando i corridoi della scuola per andare in mensa. Robert, Puck e gli altri della squadra di football mi stanno aspettando, nonostante non abbia alcuna voglia di stare con loro, tanto meno di mangiare quella poltiglia schifosa che ogni giorno ci servono le bidelle.
Il cellulare mi vibra in tasca all’improvviso. Il display è illuminato. Un nuovo messaggio. Numero: sconosciuto. Inarco un sopracciglio, e aggrotto la fronte. Lo apro, ignaro di tutto. Poi trattengo il fiato in gola, e lì rimane.
Tutto scompare. Tutto diventa immobile.
 
Ti guardo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Note d’autore:
Ci sono tante cose che vorrei dire adesso, ma non ho davvero le parole adatte all’occasione. Prima di passare alla “spiegazione” del capitolo, vorrei ringraziare tutti coloro che hanno letto i precedenti e, soprattutto, tutte quelle gentilissime ragazze che li hanno recensiti! So bene che la “crisi” si è estesa anche qui per quanto riguarda i commenti, ma non avevo affatto idea, e lo dirò fino all’ultimo, che DC piacesse tanto. Perciò, davvero, rinnovo tutti i miei ringraziamenti, dal primo all’ultimo.
Ora passiamo alla storia. Kevin, Amber, Puck, Robert, Washington, Michelle. Questi sono soltanto un quarto di tutto il “cast”, perché nel corso della storia avrete modo di conoscerne tanti altri, molto più importanti di quelli sopracitati (esclusi i due protagonisti). Ce n’è uno, però, sul quale mi preme molto dovervi qualche informazione: Hayden Washington. L’idea era quella di descrivere un anonimo professore, così come Jefferson; un professore che non sarebbe stato affatto determinante sui miei protagonisti, né tanto meno su tutta la trama. Ma poi ieri sera ho visto per l’ennesima volta L’attimo fuggente e il mio professore di letteratura ha assunto un nuovo volto, quello di Robbie Williams nel ruolo di Keating. E avrei mai potuto dare al mio “old” attore preferito una parte di così poco rilievo? No, mi sono detta, e tutto è cambiato. Perciò aspettatevi di rileggerlo ancora, perché non è finita qua. Per la scena che ho descritto in questo capitolo mi sono ispirata molto a quella del film, proprio per ricalcarlo ─ spero di esserci riuscita ─ nella vostra memoria, così come è ricalcato nella mia. Il resto è soltanto un “ponte” a ciò che accadrà nel quarto, necessario per lo sviluppo della trama, e infatti come avete visto non succede nulla di rilevante. I soliti battibecchi tra Kevin e Michelle, in cui emergono particolari indizi su di lei, e poi… quel messaggio. Di chi sarà mai? Di certo la cosa è inquietante. Avete qualche supposizioni? Sono davvero curiosa di conoscerle…
Adesso vado a rispondere alle vostre recensioni (mi scuso per il ritardo), sperando di riceverne ancora, perché mi spronano più di quanto crediate ad andare avanti.
Un’ultima cosa: avevo intenzione di creare un gruppo Facebook nel quale pubblicare spoiler, foto e aggiornamenti vari, ma anche per avvisarvi di un ritardo e/o cos’altro, ma non sapendo cosa fare mi rivolgo a voi: vi iscrivereste se lo creassi?

Per contattarmi o altro, ecco i link: Facebook e Ask.
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One-Shot:
Troverò una cura.

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Capitolo 5
*** Quarto capitolo ***








Q u a r t o   c a p i t o l o









Io e i miei genitori abitiamo in un piccolo appartamento sulla settima strada a First Hill, uno dei più grandi quartieri di Seattle, poco lontano dalla Saint Vincent Cathedral1, che si trova sulla 300 4th Avenue.
È una parrocchia della Chiesa Cattolica Romana edificata in onore di St. Vincent The Shepherd2, un pastore anglicano che dopo essere emigrato qui negli Stati Uniti da Londra, in Inghilterra, si convertì al cattolicesimo e divenne uno maggiori sostenitori della sua nuova religione.
Mia nonna aveva due anni quando fu costruita, nel lontano 1908, sotto il vescovato di Edward O’Dea, ma la basilica fu designata come uno dei punti di riferimento più importanti della città soltanto nel 1987.
È una cattedrale a tre navate, composta da una serie di archi a sesto acuto rivestiti con lo stesso travertino che ricorre nelle membrature di tutto l’interno, che collegano quelle laterali alla navata centrale, di larghezza doppia rispetto alle altre due. L’altare è rialzato di tre gradini concentrici che assediano una zona ellissoidale parzialmente circondata da una diade di colonne che confluiscono nelle due navate laterali. Si rifà essenzialmente allo stile architettonico del Neo-Rinascimento, a eccezione delle vetrate colorate che adornano la grande cupola sovrastante l’altare, che rimandano ad una vecchia matrice gotica3.
Adesso ci troviamo davanti al piccolo porticato e aspettiamo che i fedeli si riuniscano in massa, prima di entrare effettivamente in chiesa per la messa domenicale.
Mamma ha insistito tanto perché indossassi lo smoking di papà, poiché, a suo parere, jeans e t-shirt non sono affatto appropriati, per un evento del genere. Mancano sette giorni a Natale e, come ogni anno, il parroco legge il suo interminabile sermone sulla nascita di Cristo ai credenti esattamente una settimana prima. Ma non riesco proprio a sentirmi a mio agio vestito così, con le cuciture che tirano troppo a causa della mia stazza longilinea. Papà è appena un po’ più basso e magro di me e perciò, mentre lui ci affogherebbe qui dentro, io sento, e sono del tutto certo, che da un momento all’altro potrei strapparmi i vestiti proprio come l’Incredibile Hulk.
E queste scarpe, questi ridicoli mocassini di cuoio, mi stanno letteralmente uccidendo i piedi. Potrei arrossire, ho i capelli castani schiacciati in testa per colpa del gel, ma ho il terrore che il sudore possa farmi aderire ancor di più i vestiti al corpo, e non ho proprio voglia di dovermi sistemare davanti agli altri. E poi, ammettiamolo, io non sono affatto un fedele; non che non creda in Dio però ho altro di meglio da fare in questo momento, che partecipare ad una messa di cui non ascolterò una singola parola. Non sono come i miei genitori, di origini italiane e quindi profondamente cattolici, trovo stupido e inutile riunirmi insieme a tante altre persone per pregare solamente quando mi fa comodo. Scommetto che la maggior parte di loro non starebbe qui se non avesse alcun problema.
Anche Puck e Robert sembrano pensarla come me. Ci siamo salutati da lontano, con un piccolo cenno del capo, e probabilmente mi sarei anche avvicinato se ne avessi avuto voglia. Anzi, mi sarei avvicinato a prescindere solo per togliermi i miei genitori dai piedi e non doverli stare a sentire tutto il tempo su quanto abbiano restaurato bene la zona absidale che anni prima è andata in fiamme. Ma oggi ho deciso di restare con loro, anche se ciò significa dovermi preoccupare di borbottare qualche assenso di tanto in tanto perché siano sicuri che li sto ascoltando. Mi sento ancora in colpa per come mi sono comportato, ma non ho avuto proprio il coraggio di scusarmi per quello che è successo. I miei fingono che non sia accaduto nulla, soltanto per non dover affrontare la realtà che ogni giorno cerchiamo ─ e riusciamo egregiamente, aggiungerei, ad evitare. Pensano che io possa, in qualche modo, colmare il vuoto che lui ha lasciato nei loro cuori, pensano di poterlo sostituire e rendermi la persona che non è mai potuto diventare. Ma si sbagliano. Io sono Kevin. Kevin Christopher Morgan, aspirante attore, e questo non possono cambiarlo.
Il rintocco delle campane mi fa sussultare. È ora di entrare.
Due ore di agonia, e poi potrò tornarmene a casa.
«Tesoro, andiamo!» Mamma mi fa un cenno, un minuscolo sorriso le aleggia sulle labbra, e si stringe maggiormente al braccio di papà. Tutti e due vestono eleganti, tutti e due nascondono la tristezza che provano molto più di quanto possa mai fare io. Mi guardano con affetto, proprio come l’ultima volta. E, per un momento, ho otto anni, sono il bambino più spensierato del mondo e li guardo allontanarsi sempre di più mentre le mie gambe restano ancora incollate ai piedi della scalinata. So che non c’è bisogno di spaventarsi, lui è insieme a me, lui mi protegge. Sento qualcuno stringermi la spalla, mi volto, cerco i suoi occhi grigio-azzurri, certo di trovarvi la sicurezza che mi manca, sono uguali ai miei e…
Un gemito. Una voce femminile che fende l’aria come se volesse aggrapparsi a qualcosa che non c’è. E poi delle mani, mani delicate, bianche, appena tinteggiate da deliziose lentiggini. Si stringono alla mia giacca in un gesto involontario, nel loro impeto potrebbero strappare le cuciture, ma non mi importa. Con un semplice tocco strimpellano le corde del mio cuore ancor più di quanto uno spillo possa penetrare nella mia carne.
«Mi scusi!» esclama, ed io mi do automaticamente dello stupido perché vorrei ringraziarla.
Michelle Thompson mi è caduta tra le braccia e io non potrei chiedere di meglio. È come un miracolo che si avvera, che riposa sul palmo della mia mano, è come se io sapessi che stava per cadere e mi fossi voltato apposta per impedirlo. Ma so che non è affatto così. Altrimenti non sarei tanto stupito di vederla.
«Ciao.» sussurro, e lei alza di scatto la testa per guardarmi.
Sono già stato qui. E non qui, in bilico su questo gradino, dal quale potremmo cadere entrambi da un momento all’altro se non la smettiamo di brancolare l’uno tra le braccia dell’altra. Sono già stato qui, insieme a lei, così, Michelle stretta al mio corpo e il suo alito a solleticarmi la guancia.
Solo che non so spiegarlo.
«Kevin.» Le sue labbra formano il mio nome ma la sua voce non arriva alle mie orecchie. Una parola. Cinque lettere. I denti che si impennano sulla “V” e la lingua che scivola alla fine sul palato. Kevin. K-E-V-I-N. Soffia come il vento, un solo respiro.
«Kevin? Entri o no?» Papà parla, non è me che chiama.
E poi Michelle si allontana ed il mio cuore torna a battere a ritmo regolare.
«Chi è la tua amica? Ce la presenti?»
Mamma mi fa tornare alla realtà. Stanno parlando di lei. Stanno parlando di noi. Come devo rispondere? Lo è?
 
«Dovresti avere un po’ più di fiducia in me, sai? Come Washington.»
«Ho imparato a diffidare dei miei nemici.»
«Io non sono un tuo nemico.»
«Tutto ciò che è a noi ignoto lo è, Morgan.»
 
Michelle parla al posto mio. Io la guardo, la fisso dritto in volto, non riesco a pronunciare neanche una sillaba. Sto sudando, ma non è per colpa dei vestiti troppo stretti. Mi sento in imbarazzo, ho perso ogni capacità cognitiva, il ragazzo che sono sempre stato non c’è più. Un tornado ha spazzato via tutta la mia sicurezza, tutta la mia spavalderia, ora non sono altro che resti di me stesso.
«Sei qui tutta sola? Dove sono i tuoi genitori?» Mamma la guarda, ho capito subito che Michelle le piace, anche se non ho affatto ascoltato la loro conversazione. Le piace, l’ho capito da come ogni tanto i suoi occhi scivolino su di me. Forse vuole capire cosa c’è tra noi… Come se fosse facile, penso con sarcasmo.
Non sono riuscito a capirlo neanche io.
«Ehm,» Lei si guarda intorno, sembra quasi che si aspetti di vederli comparire alle sue spalle da un momento all’altro, si muove nervosamente sul posto accanto a me e io vorrei stringerla senza un perché, un gesto naturale che non ha alcuna spiegazione, «sì. Loro… loro sono rimasti a Vancouver per lavoro. Dovevano tornare a casa ieri sera ma non credo potranno essere presenti oggi.»
Mamma storce la bocca e non ho bisogno di leggerle nella mente per sapere a cosa stia pensando. Michelle potrà averle fatto anche una buona impressione, ma resterà sempre del parere che adulti che lavorano anche la domenica non siano affatto degni della sua simpatia. I miei sprecheranno la maggior parte del loro tempo a lavorare, ma per loro l’ultimo giorno della settimana è sacro. E sacro deve rimanere.
«Perché non ti siedi accanto a noi?» le domanda sorridendole. «Kevin sarà davvero felice di farti compagnia.»
Mamma non sbaglia. Perlomeno la sua presenza mi distrarrà dai miei cattivi pensieri. Non voglio più ricordare, preferirei dimenticarmi di lui pur di non essere costretto a provare tutto questo dolore. E sento che Michelle è l’unica che possa aiutarmi a non pensarci.
Entriamo in chiesa, la messa è già cominciata, i posti sono quasi tutti occupati. Girovaghiamo alla ricerca di una panca libera, attraversiamo la navata centrale e poi ci inoltriamo in quella di sinistra. Alla fine, troviamo una fila vuota da dove, tuttavia, si intravede poco e nulla dell’altare, ci sediamo e ognuno finge di ascoltare. O forse loro ascoltano davvero, non saprei dirlo, perché la mia testa, invece, è da tutt’altra parte. So soltanto che Michelle è accanto a me, che la sua anca destra è completamente attaccata al mio fianco sinistro e che il mio respiro è un riflesso del suo. È agitata quanto me? Reagisce al mio tocco o non ci fa neppure caso? Se la situazione fosse diversa, l’avrei già assalita, lì, su quella panca, e l’avrei baciata in tutti i modi e le concezioni possibili, con tutte le labbra possibili, solo per trovare quelle che più combacino alle sue e affondino meglio nella pienezza della sua bocca.
Contieniti, penso. Ti trovi in un luogo sacro. Non puoi fare certi pensieri su di lei.
Eppure, non posso proprio trattenermi. Quel vestitino, nonostante sia fin troppo coprente per i miei gusti, riesce comunque a mettere in evidenza le rotondità del suo seno. E… e non posso non confessare che più di una volta i miei occhi siano capitati lì, nello spazio tra i merletti che le ricoprono la parte alta del corpetto e la sua pelle bianca, così bianca che ci affonderei volentieri i denti. E non posso non ammettere di non aver seguito per tutto il tempo il movimento ritmico del suo petto che si alza e si abbassa a ritmo col battito del suo cuore. Potrei affondarci i palmi nelle sue forme e lasciarmi ugualmente sopraffare dalla sua morbidezza, dalla fierezza della sua carne.
Michelle sembra concentratissima sul sermone, appartenetemene inconsapevole del mio turbamento.
Se le afferro la mano, cosa farà? Mi scaccerà?
Voglio concedermi il gesto più semplice che esista nella speranza di placare almeno di un millimetro il desiderio che nutro nei suoi confronti. È come fuoco che arde nella mia gola, è come se avessi divorato dei carboni ardenti e sentissi distintamente ogni singolo dente bruciare e spaccarsi.
Crack.
Qualcosa di duro mi colpisce la nuca, che male!, facendomi sobbalzare sulla panca di legno. Ogni pensiero si sgretola come castelli di sabbia.
«AHI!» esclamo, e tutti si voltano furenti verso di me, fulminandomi con lo sguardo. Il pastore interrompe il suo sermone, guardandosi intorno alla ricerca del suo disturbatore.
La vecchietta che mi ha dato lo scappellotto digrigna i denti e scuote la desta. Trema tutta, come se avesse il morbo di Parkinson. Le mancano i denti, gli unici che le permettono ancora di parlare sono quelli davanti.
«Tutti peccatori!», gracchia tra sé e sé, strizzando gli occhi allucinati. «Brutte canaglie! Che il Signore ci salvi!» Stringe le mani in preghiera e non mi stacca lo sguardo di dosso neanche per un istante.
Sono scosso dai fremiti. No, non sono io. È Michelle, ha la bocca coperta da entrambi i palmi ed è piegata in due dalle risate. Vorrebbe urlare, ma non può. Vorrei urlare anche io, insieme a lei, vorrei trattenere gli spasmi che mi crescono in gola, ma è quasi impossibile. Apre gli occhi, alza la testa verso di me, ci guardiamo, e siamo tutti sguardi di intesa che raccontano più di quanto vogliono.
«Andiamo via?» le propongo, e voglio che dica di sì, lo voglio con tutto me stesso.
Annuisce, le sue labbra sono piegate in una forzata linea sottile, vorrebbero incresparsi in maniera del tutto diversa e inaspettata ma non possono. Mi prende la mano, trasalisco, il mio corpo diventa un blocco di pietra. Sono morto, sono vivo. Sono Kevin... Una parola. Cinque lettere. I denti che si impennano sulla “V” e la lingua che scivola alla fine sul palato. Kevin. K-E-V-I-N. Soffia come il vento, un solo respiro.
Mamma e papà sono troppo concentrati sul sermone. Dovrei avvisarli, mi prometto che lo farò più tardi, stringo le dita attorno alle sue, l’indice che si incastra perfettamente all’anulare, e sembra che insieme siamo invisibili. Nessuno ci guarda, nessuno ci nota, nessuno ci giudica.
L’impatto con l’aria fredda è come un pizzicore sulla pelle, ma l’unica cosa che io riesca a percepire è il calore che emana il suo corpo accanto al mio.
«Hai sbirciato per tutto il tempo nella mia scollatura.» Lo dice un secondo dopo esserci richiusi il portale marmoreo alle spalle, così, a bruciapelo, e io non ci credo. Sono scioccato.
«C-Che c-cosa?!» È inutile che finga di non saperlo, avrei dovuto immaginare che se ne sarebbe accorta. Michelle è una matematica, non si lascia sfuggire alcun dettaglio. E non potrebbe piacermi più di così. Ancora una volta è lei a detenere il controllo della situazione, ancora una volta mi lascia completamente di stucco, incapace di dire qualsiasi cosa che abbia un senso computo.
«Hai sentito bene.» Scioglie le nostre dita e mi gira intorno, gli occhi grigio-verdi accesi di malizia. Si diverte a provocarmi, come se non ci fosse riuscita già abbastanza. «Non mi hai tolto gli occhi di dosso nemmeno per un secondo.»
La trascino via, non voglio che ci vedano flirtare in quel modo davanti a una chiesa. Ho ancora un po’ di sale in zucca anche io.
Michelle mi segue, tracciamo tutto il perimetro della parrocchia, poi ci avviciniamo alle recinzioni. Qualcuno ha fatto un buco abbastanza grande da farci passare una persona proprio al centro, perciò riusciamo a scavalcare la staccionata che divide la chiesa dalla decima strada e a muoverci in tutt’altra zona.
Ora siamo completamente soli. Le afferro un braccio e la tiro verso di me, le mani che si aggrappano automaticamente ai suoi fianchi. Michelle è più bassa di me di qualche centimetro, la sua testa mi arriva appena al collo e le mie labbra le sfiorano i capelli. Sento il suo respiro sul mio petto. Mi aspetto che si dimeni, invece resta così, immobile, come se questo abbraccio inaspettato perfino a me stesso le piacesse.
Le accarezzo una guancia, stringo il suo mento tra il pollice e l’indice e lo sollevo verso di me. Schiude la bocca, soffia come il vento, un solo respiro, potrei baciarla in questo momento e non riuscirei più a fermarmi.
«Non ti dispiaceva.» rispondo infine. E lei sa a cosa mi riferisco.
Si morde un labbro, fuoco che arde nella mia gola, e i suoi occhi sorridono, sanno che quello in pericolo sono io.
«Possiamo negarlo quanto vogliamo, possiamo perfino ripeterlo a noi stesse anche un centinaio di volte, ma a noi donne piace essere guardate.» dice. «Quindi sì, non mi dispiaceva affatto. Vorresti una risposta diversa?»
No, non ne vorrei una diversa, penso, però non è quello che esce dalla mia bocca. «Perciò, se ti baciassi, avresti qualcosa in contrario?»
Preme le dita sul mio petto e mi allontana delicatamente. I suoi occhi mandano saette. «Non correre, ragazzo, stai cercando di rivendicare qualcosa che non ti appartiene.»
Inarco un sopracciglio. «In che senso?»
«Fidati di me e non fare nessuna domanda.» Ricambia il mio sguardo senza batter ciglio, implacabile, incrociando le braccia al petto. L’ha fatto apposta, vuole coprirmi la visuale della sua scollatura che si offre alla mia vista.  
Stringo gli occhi in due fessure e la fisso in tralice. «Se sei della serie “Guardare ma non toccare”, per quale motivo ti stai coprendo?»
Si lascia scappare una mezza risata. «Sei incredibile!»
«Senti, tu mi piaci…»
«Ah, sì!» Cambia radicalmente espressione, fa una faccia adorante in stile Ashley-barra-Amber. «E io che pensavo ti piacesse solo il mio seno!»
«Oh, non solo quello.» la rassicuro con un sorriso bonario, prendendola a mia volta in giro. «In realtà confesso di aver aperto un fanclub sulla tua bocca e sulle tue gambe… Sono fenomenali!»
Scuote la testa, un gran sorriso sulle labbra. Le piaccio... Le piaccio! «E sentiamo: oltre a te, chi altro ne fa parte?»
«Solo io.» mormoro, avvicinandomi pericolosamente a lei. Avvolgo di nuovo il suo corpo tra le mie braccia e affondo i palmi delle mani nella sua carne. «Ho cacciato tutti quelli che provavano anche soltanto a guadarti.»
«Che generoso.» Ride poi si fa subito seria. Mi fissa, mi osserva in silenzio. È come se i suoi occhi riuscissero a scavare dentro di me, come se riuscissero a graffiare le pareti che ho eretto per nove anni tra me e gli altri, e a farle crollare e a vedere cosa c’è dietro. «Ti sembrerà strano quello che sto per dirti,» Abbassa per un momento lo sguardo sulle mie labbra, lo rialza subito, «ma sento il bisogno di chiederti… Oggi è una brutta giornata per te, vero? Ti ricorda qualcuno a cui tenevi particolarmente?»
Il mio cuore smette di battere. E allora penso che Michelle sia stata capace di vedere più di quanto avrei mai creduto possibile.
Sono pronto a negare l’evidenza come ho fatto per tutta la mia vita. Sono pronto a fingere che vada tutto bene. Ma non è così, e lei lo sa.
Respiro. Kevin... Una parola. Cinque lettere. I denti che si impennano sulla “V” e la lingua che scivola alla fine sul palato. Kevin. K-E-V-I-N. Soffia come il vento, un solo respiro.
E un solo respiro è quello che il mio cuore riesce a catturare.
Poi tutto si ferma… e l’unica cosa che riesca a fendere l’aria è la mia voce.
«Mio fratello Adam è morto oggi, undici anni fa.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1: La Saint Vincent Cathedral NON esiste, è di mia invenzione - se così si può dire. Inizialmente volevo descrivere la Saint James Cathedral che, al contrario della prima, esiste eccome, ed è sulla 804 9th Avenue di First Hill, a Seattle.
2: Dicasi la stessa cosa per la seconda nota. St. Vincent The Shepherd non è un personaggio reale.
3: Per scrivere al meglio la descrizione della chiesa mi sono aiutata con il mio libro di arte (y) e con varie foto su Google.
 
 
 
 
 
Note d’autore:
Ora mi odiate, lo so, perché mi odio anche io. Volevo che questo capitolo fosse diverso, volevo che fosse migliore, invece sono riuscita solo a scrivere oscenità assurde. Sono così imbarazzata che non so davvero cos’altro aggiungere. Abbiamo scoperto che Kevin ha, anzi, aveva un fratello, un fratello che è morto quando lui aveva solo otto anni. Perché? Come? In che modo? E Michelle come ha fatto a capirlo? Questo capitolo sarà insignificante, ma ci sono un sacco di indizi disseminati in giro… sparsi tra i loro battibecchi illogici. Non chiedetemi come mi siano usciti fuori perché non lo so, si comportano a modo loro, ormai. Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare presto, non credo ci metterò molto a scriverlo, questo è stato un lavoro di sette ore consecutive, perciò… ora tocca a voi farmi sapere che ne pensate. Ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, come sempre adesso andrò a rispondere ad ognuno di persona. E ringrazio anche chi legge soltanto, chi ha rifiutato categoricamente questa storia (sano di mente) e, insomma, tutti quanti!
Un gigantesco GRAZIE va a Krystal e alla sua pagina Peerless Graphic per il meraviglioso banner.
A voi i link per contattarmi:
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Altra Originale in corso:
Amores - La Seramide del Nord.

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Capitolo 6
*** Quinto capitolo ***


Q u i n t o   c a p i t o l o
 
 


 
 
 
A volte mi domando come sia possibile. Ci sono volte in cui mi è quasi difficile credere che lui non ci sia più, e allora andare avanti e accettare l’evidenza è come ricevere un pugno nello stomaco.
Fa male, è quasi un dolore fisico, ma poi passa, è momentaneo, e alla fine restano soltanto i lividi, lividi violacei che macchiano inesorabilmente la mia coscienza di sangue, il suo sangue, sangue che è stato versato senza che avessi la possibilità di impedirlo. E spesso mi capita di pensare a come sarebbe stato se lui fosse ancora qui, se magari fossi stato più grande, più maturo e avessi potuto salvarlo. Ero piccolo quando successe, avevo appena otto anni, e ricordo che in un primo momento non mi ero nemmeno reso conto che Adam, il mio fratellone, la mia roccia, l’unica persona in grado di capirmi e di sostenermi meglio di chiunque altro, era sparito. Ed è strano, quando ci rifletto, è strano. Eravamo inseparabili, e ancora oggi non riesco a riconoscere la verità, quella che io e i miei genitori abbiamo sempre negato, come se cercare di dimenticare e fingere che non sia mai nato potesse cambiare le cose e alleviare il nostro dolore.
Shock a Seattle, nel sobborgo di First Hill. Ricordo ancora le parole esatte che usarono i giornalisti per diffondere la notizia. Un uomo non meglio definito, tarchiato, sui cinquant’anni, ha sparato ripetutamente a colpi di pistola a un ragazzino di dieci anni nei pressi della Saint Vincent Cathedral, sotto gli occhi attoniti dei genitori e dei fedeli, portando via con sé il corpo della vittima e fuggendo ancora prima che la polizia potesse intervenire. Gli inquirenti sono ancora sulle sue tracce…
Non dissero nemmeno il tuo nome, Adam. Soltanto chi ti conosceva sapeva che eri tu. Tu che sei stato portato via, fratello mio. Come hai potuto farmi questo? Non ti ricordi il nostro patto?
Moriremo insieme, Kev, affermasti una volta. Moriremo insieme, così quando ci rivedremo di là non ti perderai, ci sarò io a farti da guida.
Tu l’hai visto, Adam? Mamma dice che è tutto bianco… Solo che a me il bianco non piace, mormorai io.
E tu mi sorridesti, me lo ricordo ancora. Mi scompigliasti i capelli, gli occhi brulicanti di affetto. Ci volevamo bene, e non riuscire più a ricordare com’era davvero mi fa male. Mi fa male, e tu lo sai.
Puoi scegliere il colore che vuoi tu, sai?
E posso fare tutto quello che voglio io?
Certo, basta solo che lo desideri.
Allora questo è l’Inferno, fratello. Perché quello che voglio io non si è mai avverato.
 
 
 
 
 
Lunedì decido che sono stanco di prendere l’autobus.
Tecnicamente potrei già guidare un’auto, ho già preso la patente, ma mio padre non ne vuole proprio sapere di farmi usare la sua. Per arrivare a lavoro lui e la mamma impiegano all’incirca tre quarti d’ora di macchina, e l’unica volta in cui mi hanno accordato il permesso di mettermici al volante è stato l’anno scorso, quando ho accompagnato Bethany Dawson al ballo di fine anno. Capirai che fortuna ─ o sfiga: una cheerleader che per poco non mi si strusciava contro davanti ai miei genitori e sorrideva all’obiettivo della macchina fotografica di mia madre, convintissima che a fine serata le avrei chiesto di sposarmi. Non immaginava affatto il perché le avessi chiesto di andarci con me ─ anche perché non lo sapevo nemmeno io. Una settimana prima del ballo me l’ero ritrovata davanti al mio armadietto, e due minuti dopo aver discusso del più e del meno avevamo già un appuntamento. Solo che entrambi l’avevamo interpretato in modi diversi: io volevo solo guidare un’auto senza che Puck e Robert dovessero prendermi in giro, lei, lei credeva di aver conquistato il mio cuore pulsante.
«Senta, credo di essere la persona giusta per questo lavoro.»
Non ne sono così sicuro ma ho anni e anni di esperienza alle spalle di motori e ricambi. Sebbene non possa guidare l’auto di mio padre, sono io a occuparmene il più delle volte, quando c’è da aggiustare il carburatore, da cambiare il filtro dell’aria o da riparare le ammaccature della carrozzeria. Era una delle cose che facevamo insieme ad Adam, ma quando ce l’hanno portato via… papà si è richiuso in se stesso e a me non è rimasto altro che il ricordo di quello che eravamo una volta, prima che la nostra vita venisse investita da un’ondata di rammarico, il rammarico di non poter sapere come sarebbe stato se tutto fosse stato diverso. Ormai papà non entra più in garage. Gli riporta alla mente troppi fantasmi. Ma io… io non riesco a farne a meno. Adam è troppo importante per me, ora più che mai. Non posso dimenticarlo, non voglio.
Quando saremo grandi te la farò guidare, diceva con quel suo sorriso smagliante che non lo abbandonava mai. Potrai portarci la tua ragazza.
Ragazza?, lo fissavo con gli occhi sprangati, il naso arricciato, le labbra imbronciate. Bleahhhhh! Che schifo!
Scuoto la testa. Non devo più pensarci. Mi faccio solo del male.
Ma mi è impossibile dimenticare; ieri era il 18 dicembre 2014, precisamente undici anni dopo che mio fratello è morto. No… non lo è. Non può esserlo. Eppure è così.
Mi concentro sull’uomo che ho davanti. Molto trasandato, quel genere di persona a cui non piace affatto sprecarsi in inutili chiacchiere. Un tipo spiccio, direi, che ama arrivare dritto al punto, con le maniche arrotondate fin sopra ai gomiti imperlati di grasso e sudore, i lembi della camicia di flanella nascosti fin dentro ai jeans scoloriti e a vita alta, gli scarponi incrostati di fuliggine e i capelli grigi brizzolati. I suoi occhi scuri mandano bagliori loschi, cupi, e la sua fronte è aggrottata in maniera quasi innaturale. Dimostra più anni di quanti ne ha davvero, il suo sguardo è invecchiato ancor prima del suo corpo. Si chiama Riddle… almeno credo. Poco fa un suo cliente l’ha chiamato così, ma non ne sono tanto certo.
«Ah sì, ragazzo?» Inarca un sopracciglio, aspirando il fumo della sua sigaretta dalle narici. Adesso ha le mani occupate, perciò è costretto a tenerla sospesa tra le labbra, ma prima, quando avevo almeno la metà della sua attenzione, se la rigirava tra le dita con impazienza. È un tizio alquanto strano, penso, e una parte di me vorrebbe tornarsene dritta a casa, lontana da questo posto… Mi sembra di esserci già stato.
Smettila di comportarti come una ragazzina. Sii uomo.
«Sì, signore.» rispondo in tono convinto, cercando di sostenere il suo sguardo.
Ha appena aperto il cofano di una Mustang Shelby GT500, verniciata in blu, le dà un’occhiata e poi scuote la testa. Poi rialza il capo verso di me, come se si fosse ricordato improvvisamente che aspetto una sua risposta.
«Torna a casa, figliolo.» Mi guarda come se stesse prendendosi gioco di me a mia insaputa. «I tuoi ti staranno aspettando per cena, non credi?»
Incrocio le braccia al petto e ricambio con altrettanta spavalderia.
Voglio un’auto. Un’auto nuova, non un vecchio rottame con il motore che sbuffa a ogni mezzo metro. E per potermela permettere ho disperatamente bisogno di questo lavoro.
«Ha ragione.» Faccio spallucce, le labbra arricciate in un ghigno impertinente. «Non vorrà che per colpa sua debbano aspettarmi tutta la notte, vero?»
«Purtroppo non sono conosciuto per la mia educazione, ragazzo.»
Non ho ascoltato neanche una parola di quel che ha detto. Sono fermamente deciso a convincerlo ad assumermi.
Perciò mi avvicino alla Mustang, infilo la testa nell’abitacolo e giro le chiavi nella toppa. Provo a dare gas. Il motore comincia a gracchiare, tutta l’auto è come scossa dalle vibrazioni, poi emette uno sbuffo e si spegne.
Riddle mi fissa, in attesa. Non mi ferma, non cerca di levarmi di mezzo. Mi osserva soltanto. In silenzio, mi metto carponi dal lato del guidatore e guardo sotto la macchina. Controllo, e qualche minuto dopo sto tirandomi già in piedi, con un sorriso soddisfatto sulle labbra.
«Sono quasi certo che si tratti dell’albero di trasmissione.» mormoro. «Deve essersi allentato da qualche parte, perché l’ho visto pendere sul davanti… Oppure è la scatola del cambio, bisognerebbe toglierla, smontarla e sostituirla nel caso.»
Non ho affatto bisogno di leggergli nella mente per sapere a cosa sta pensando in questo momento. Peccherò di presunzione, certo, ma non ho alcun dubbio: questo lavoro è perfetto per me, almeno finché non avrò abbastanza soldi da potermi permettere una macchina. E anche lui lo sa.
«Sei cocciuto.» dice. Io aspetto quello che voglio sentirmi dire. Riddle mi punta un dito contro e riduce gli occhi a due fessure. «Ma bada a tenere per te stesso quell’aria da spavaldo, capito?» Poi il suo sguardo si addolcisce, e sembra dimostrare per la prima volta da quando l’ho incontrato i suoi veri anni. Non è tanto vecchio, ne avrà all’incirca quaranta… non di più. «Tutti i giorni dalle quattro alle sei, domenica esclusa. E ora sparisci, cominci domani.»
Il mio sorriso arriva da un orecchio all’altro. Non penso ad Adam. Per un solo istante, non penso a mio fratello morto. «Perciò sono assunto?»
Riddle ha la faccia di uno che sta sicuramente per mandarmi a farmi fottere, ma per chissà quale motivo si trattiene.
«Puntualità, non tollererò ritardi.» Non aggiunge altro e se ne va.
Esco dall’officina, prendo la 7th Avenue e attraverso la strada.
Va tutto bene. C’è solo un problema.
Devo solo tenerlo nascosto ai miei genitori.
 
 
 
 
 
«Hai la ragazza, Kev?»
Riddle, Sam Riddle, non è così burbero come sembra. Certo, ha sempre quell’espressione tormentata e ansiosa, come se stesse continuamente all’erta, in attesa di un pericolo imminente che soltanto lui può percepire, ma qualche volta riesce perfino a rilassarsi. Lavoro qui all’Hill Car1 da più di una settimana e ormai posso quasi considerarlo uno di famiglia, una sottospecie di zio scapestrato che non ho mai avuto.
Stiamo riparando una BMW grigio metallizzato, lui mi passa le chiavi inglesi, mentre io dò una controllata all’albero di trasmissione. Ho la testa infilata sotto la macchina e la mia voce risuona attutita.
«Non farti strane idee, Sam, e passami quella con l’impugnatura rossa.» Allungo una mano e l’afferro, ritornando a fare il mio lavoro.
«E che mi dici di quella ragazza della tua scuola? Ti piace?»
Mi blocco. Non so più dove mettere le mani. E ora?
«N-Neanche per idea!»
«Non sembravi tanto indifferente quando ne parlavi due giorni fa…»
«Ti sbagli.»
«Ah sì, ragazzo? Chissà perché non mi convinci.»
Non so perché gliene ho parlato. Forse non avrei dovuto farlo siccome si tratta di faccende private che riguardano solo me, ma è stato l’unico con cui sia riuscito a sfogarmi liberamente, senza dovermi preoccupare del suo giudizio. Sam è un buon ascoltatore, è silenzioso, parla poco, e magari è proprio per questo motivo che mi ci trovo così bene. Sono certo che qualunque cosa avrà da dire se la terrà per sé. Non sa il suo nome, Michelle è una parola che riesco a pronunciare soltanto nei miei pensieri, eppure non sono stato capace di tenere per me stesso ciò che provo per lei.
«La ami?»
«No!» Netto, un taglio troppo netto, deciso, conciso; ho parlato troppo in fretta. Ma io sono certo che è così. Se ne fossi innamorato lo saprei… no? E poi non ci conosciamo affatto. Com’è possibile?
«Allora ti sei preso sicuramente una cotta per lei, amico.» Ora ci si è messo anche Ryan. Ha qualche anno più di me, va al college e per pagarsi la retta lavora qui come me. È simpatico, ma quando ho saputo che vuole diventare avvocato ammetto di aver fatto il prevenuto nei suoi confronti. Io non voglio seguire le sue stesse orme, trafficare con i documenti non è mai stato nei miei piani.
«Oh merda, sono diventato l’argomento di pettegolezzo del giorno?»
«Non tu.» sghignazza Ryan. «Siamo solo interessati alla tua ragazza, Kev.» E se la ride, infischiandosene di quanto stia rodendo di rabbia… e di gelosia.
«Prova anche soltanto a nominarla e ti spacco la faccia. Sei avvertito, Lutz2
«Ma non sappiamo neanche il suo nome!»
L’albero. Devo riparare l’albero di trasmissione. Com’è che a un tratto mi sono dimenticato di come si fa?
«E sarà meglio per te che tu non lo scopra!»
«Ehi!» interviene Sam. «Niente risse, non voglio problemi. Risolvetevela fuori.»
È come il Padrino qui dentro. A lui sempre l’ultima parola.
Dimentico tutto e ritorno a lavoro, trascorrendo più di mezz’ora a riparare la BMW. Mi chiedo come faccia ancora a respirare, con la testa sotto la macchina, dopo tutto questo tempo, ma cerco di non pensarci e continuo a fare quello che devo fare.
Ed è così che rimango folgorato. Gambe lunghe e sinuose, è tutto ciò che riesco a vedere, voltando gli occhi di lato e sporgendomi un po’ fuori.
Di certo Ryan non ha delle caviglie così perfette né indossa delle ballerine a fiori rossi e blu…
«Che ci fai qui, rayo de sol
«Non chiamarmi così, se non vuoi che ti ficchi quella chiave inglese su per il deretano.»
Non può essere
«Uhhhh, a quanto pare qualcuno è parecchio incazzato oggi.»
vero…
«Piantala, Ryan!» lo riprende Sam. La sua voce si abbassa di qualche tono, ma riesco comunque a sentire ciò che dice. «Che succede, Ellie?»
Striscio i piedi sull’asfalto, reggendomi sui gomiti e dandomi una bella spinta verso l’alto. Devo vederla, devo sapere se è lei, Michelle.
Sospira pesantemente, con le ciglia lunghissime che riflettono la loro ombra a forma di mezzaluna sulle sue guance e i capelli lisci castani che le ricadono con morbidezza sulle spalle. Non dovrei guardarla in questo modo, ma non riesco a impedire al mio sguardo di posarsi sulla curva sensuale del suo collo sinuoso, sulle morbide rotondità dei suoi seni e sulle leggere curve dei suoi fianchi. Non è magrissima, il suo corpo è uniforme e proporzionato nel suo insieme, ma nella sua normalità è assolutamente perfetto. Sono sicuro che qualsiasi difetto lei abbia non riuscirà a farsi apprezzare di meno da me.
«Li conosci, zio.» dice. «Non cambieranno mai. Mi avevano promesso che sarebbero tornati e che saremmo andati a cena insieme. Invece sai cosa è successo? Si sono improvvisamente ricordati di dirmi che non possono più accompagnarmi fuori perché chissà quale altro impegno imprevisto è saltato fuori!» Caccia fuori le parole così freneticamente che fatico a recepirle tutte. «E come se non bastasse mi hanno costretta a vestirmi come se dovessi andare a un matrimonio!» Esplode, le sue parole sono lava incandescente di un vulcano in eruzione.
Non le si può di certo dare torto. Ha le gambe interamente scoperte, un abito striminzito che le arriva appena alle cosce, ed io mi chiedo come faccia a starsene lì in piedi senza sentirsi morire dal freddo. Vorrei alzarmi e andarle incontro, riscaldarla con il mio corpo e stringerla forte a me, ma, da quando è entrata a fare parte della mia vita, ho perso il coraggio di fare qualsiasi cosa che la riguardi. E il mio orgoglio maschile ne risente, brucia e consuma ogni mio pensiero.
Aspetta un momento…
Zio? Sam Riddle è suo zio?
«Certo che so come son o fatti.» mormora lui in risposta. «Tua madre è mia sorella!»
Michelle increspa le labbra in una smorfia, riducendo gli occhi a due fessure. È davvero arrabbiata… e straordinariamente sexy.
«A volte mi domando come sia possibile.»
Sam le stringe una spalla con dolcezza, un semplice gesto affettuoso che esprime quanto siano legati l’uno all’altra, e per un attimo il viso di lei si addolcisce. «Non sei l’unica a chiedertelo, tesoro mio.» Le dà un buffetto sulla guancia e poi sorride, un’ombra malinconica e nostalgica ad oscurargli lo sguardo. Mi nascondo dietro lo sportello della BMW, con gli occhi puntati su di loro. Michelle lo guarda dispiaciuta, oramai la rabbia sembra averla abbandonata. E allora mi rendo conto che entrambi stanno pensando alla stessa cosa. Non so di che si tratti ma è come se guardandosi avessero riportato alla mente ricordi dolorosi. Lo dò per certo, perché quello è lo stesso sguardo che ho io quando penso ad Adam.
«A proposito ─ prima che me ne dimentichi completamente,» Michelle abolisce il silenzio con quelle semplici parole, «mi avevi detto di passare oggi a prendere la macchina…»
«Oh sì!», esclama Sam. Poi alza la voce e mi si ghiaccia il sangue nelle vene: «Kevin!» mi chiama. «Kevin, hai finito con la BMW?»
Scatto come se avessi dato gas al motore e premuto istantaneamente sull’acceleratore. Ed è così che batto la testa sulla carrozzeria dell’auto, e d’improvviso vedo tutto un vorticare di stelle sopra di me, e il cuore pompa sangue il doppio del normale, e il sangue comincia a colarmi dalla tempia, tutto rosso, tutto nero, tutto bianco...
Sono morto?
Passi frenetici sull’asfalto, muovo un paio di volte le palpebre, Ahi!, il mio cervello fracassato in mille pezzi è l’unica immagine che la mia mente riesca a focalizzarmi davanti agli occhi. E poi mani fresche ad accarezzarmi la fronte, le sento dappertutto, eppure non sembrano essersi mosse dal mio viso. Qualcosa di soffice mi accarezza le labbra… la sua bocca? Cerco di aprire un occhio ─ no, mi fa male ─ provo a riaprirlo, ed ecco: ecco, sono i suoi capelli che mi cullano dolcemente, vorrei stringerglieli tra le dita…
«Soltanto tu saresti capace di battere la testa contro la carrozzeria di una macchina. Ti ricordi quando hai aggiustato l’auto di mio padre? Stessa identica fine hai fatto.» Michelle… Michelle, sei tu? Ridi, ridi ancora, la tua voce è l’unico suono che mi allontana dal torpore del sonno. «Zio, corri subito a prendere un blocco di ghiaccio… io nel frattempo cerco di farlo svegliare… sì, credo sia mezzo svenuto.» Riddle non parla, forse è sua la risata che sento in lontananza, le sue parole mi arrivano a stento alle orecchie, la mia attenzione è completamente rivolta a lei.
Dopo un po’, riesco a mettere a fuoco il suo viso.
È piegata su di me, quasi a distanza di bacio.
Potrei allungarmi di un centimetro e premere le mie labbra sulle sue, ma non riesco a muovermi. Tutto ciò che di cui sono in grado è ricambiare il suo sguardo. Mi… sorride? Sì, la sua bocca forma una specie di mezzaluna all’insù. Provo a ricambiare, non ci riesco, mando fuori un gemito di dolore, il labbro mi brucia, mi brucia ovunque… Mi dà dei leggeri schiaffetti sulla guancia, poi mi passa le braccia sotto le ascelle e tenta di sollevarmi, trascinandomi via da sotto la macchina.
Mugugno, forse le dico che posso farcela, ma lei non mi ascolta, continua imperterrita a farmi da crocerossina. Sussulto; d’un tratto, mi ha appoggiato qualcosa di freddo sulla tempia, è troppo gelido, vorrei che lo togliesse…
«Ellie?»
«Mh?»
«Sono certo che un tuo bacio basterebbe a farmi guarire la bua…»
La sento sorridere, anche se la vedo a malapena, è tutto sfocato…
«Ne sei proprio sicuro?»
Mi alzo a sedere di scatto, non so da dove provenga tutta questa forza né che cosa stia facendo di preciso. Mi arrivano litri di sangue al cervello, schizzano quasi fino alla radice dei capelli come se volessero traboccare dal mio corpo.
Michelle mi fissa, stupefatta, prova a rimettermi giù, ma io la blocco, le afferro i polsi e li porto al mio petto, le sue dita mi sfiorano dolcemente da sopra al maglione.
«Vuoi uscire con me?»
Non ho alcuna scusa. Sono totalmente uscito fuori di senno. Forse ho assunto anche qualche sostanza stupefacente, che, a lungo andare, ha fritto ogni mia capacità cognitiva.
«Kevin, hai battuto la testa… Tu…» Ha gli occhi spalancati, così spalancati che potrei essere riuscito per la prima volta a spaventarla. Ma non riesco a trattenermi, la lingua scivola sul palato e lascia uscir fuori le parole senza che le abbia dato il permesso.
«Rispondimi.»
«Ti consiglio di assecondarlo.» Ryan ghigna alle sue spalle, guardandomi come se provasse compassione per me. Stringo i pugni, le nocche mi si fanno tanto bianche che inizio a sudare. Voglio fracassargli quella brutta mascella che si ritrova e spaccargli il naso contro lo specchietto retrovisore, ma il piacevole calore che emette il corpo di Michelle accanto al mio mi avvolge così tanto che non ho la forza di allontanarmi da lei.
La guardo negli occhi, escludo tutto il mondo. Esistono solo i suoi occhi.
Sospira. Ha ceduto e, quando la osservo alzare lo sguardo al cielo, so già quale sarà la sua risposta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note d’autore:
*vomita* Fa schifo, lo so, mi merito un sacco di pomodori in faccia; questo capitolo è molto noioso, ma non sono riuscita a fare di meglio ^^ Avrei voluto fosse diverso, va be’… Mi rifarò la prossima volta. Io spero davvero di non avervi deluso, se così fosse liberissimi di dirlo, si intende ^^ Mi rendo conto che non è una vera scusa, sono stata io in primis a sbattere la testa e a perdere la ragione! Ad ogni modo, passiamo alle cose importanti: anche questo capitolo è un po’ di passaggio, ma come sempre ho sparso qua e là degli indizi sul passato di tutti i personaggi. Sam è soltanto il primo, il secondo, il terzo di tutti quelli che conosceremo (è un cast così grande che, se dovessimo scrivere i nomi di ognuno di essi che lo compongono, riempiremo più di una pagina). La storia è ancora all’inizio, questi che vi ho già presentato e quelli che ancora devo scrivere e pubblicare compongono soltanto la prima parte; all’azione verrà lasciato campo libero un po’ più avanti, per adesso mi limito soltanto a lasciare via via i pezzettini del puzzle… Sta a voi elaborare le vostre teorie. Per quanto riguarda il comportamento di Kevin, so che è un po’ strano, ma, fidatevi, non è poi così inverosimile *io so già che voi non sapete* Che altro dire? Non dovrei metterci molto ad aggiornare il prossimo capitolo; nel frattempo, però, vi lascio le mie due storie:
Amores - La Seramide del Nord (storica/romantica su Caterina La Grande di Russia) e Medium (fantasy/romantica). Ultima cosa prima di correre a rispondere alle vostre stupende recensioni (vi adoro *-*): vorrei consigliarvi delle storie stupende.
Until di Aniasolary.
Underworld di Mia Swatt.
Dream of a kiss di Damie (Lin Bett).
Man o' war, La luce calda del tramonto e Sasha & Kate: Russian Horse di Zanna Aleksandrovna.
Lies e Solum di Krystal Darlend.
Bettersweet memory di _Marty.
La teoria del colore rosso di Vibral24.
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Capitolo 7
*** Sesto capitolo ***


Nda: Il capitolo è stato ripubblicato con l'inserimento di una nuova scena a fine capitolo e la revisione dello stesso. Leggere ASSOLUTAMENTE le note riportate sotto.







S
e s t o   c a p i t o l o

 
 
 
 
 
«Di solito non sono tanto imbranato.»
È inutile cercare di convincermi che sia così, perché neanche Michelle sembra capace di credere alle mie parole.
Scuote la testa, si stringe le gambe al petto e mi scruta con quei suoi luminosi occhi grigio-verde e quel suo sorriso malizioso sulle labbra color porpora che non ho smesso di fissare da più di dieci minuti. Il suo sguardo mi urla chiaramente che sono un caso disperato, eppure qualcosa mi dice che non le dispiaccio così tanto. E che soprattutto l’episodio di poco prima l’abbia sorpresa più di quanto dia a vedere. Certo, non è che sia piacevole ripensare alla mia fronte che sbatte violentemente contro la carrozzeria di una macchina e quei metri di distanza che mi separano dal soffitto sopra di me, però… C’è un però. Non lo so spiegare, non sono un poeta e di sicuro non sarei mai in grado di descrivere ciò che penso e ciò che sento in modo originale. Sarò anche banale, ma i fronzoli non fanno per me; perciò è meglio rivelare le cose come stanno.
Credo che ci siano buone probabilità di riuscir a far breccia dentro di lei, anche se è difficile dichiararlo con certezza.
Michelle non è affatto quella che la gente chiama una “persona normale”; avrà anche l’aspetto di una comune sedicenne di un’altrettanta comune città dello stato di Washington, ma sono più che convinto che tutto ciò che c’è di ordinario in lei finisca qui. Ed ecco dove iniziano le sue stranezze, o ancor meglio: le sue diversità. Osservo le persone, amo penetrare nei loro pensieri e chiedermi cosa farei io al loro posto, in un’altra vita. Ma con Michelle è tutto così… fuori dagli schemi. È un enigma, un sillogismo particolarmente complesso, indimostrabile.
Un postulato. Un assioma.
 
Per un punto passano infinite rette.
 
Lei è quel centro, quell’intersezione attraverso cui trovano esistenza le innumerevoli regole inspiegabili dell’universo.
La guardo, anche ora, e penso che non troverò mai una spiegazione a tutto questo. Non ho mai creduto nel destino, e ancora adesso trovo difficile affidarmi a qualcosa di cui non è certa l’esistenza, ma…
«Kevin, attento!»
Sgrano gli occhi di scatto e premo con forza il piede sul freno. Il manubrio vola quasi tra le mie mani, il camion che sta per investirci ruggisce contro di noi, poi, nell’ultima frazione di secondo e nella confusione più totale, riprendo il controllo della situazione e riesco a schivarlo per un pelo. Facciamo un testacoda, le ruote dell’auto stridono sull’asfalto, cazzo, cazzo, cazzo, impreco più volte…
Tutto finisce e il nostro respiro si arresta.
Stiamo bene, siamo vivi.
Il tempo cammina sospeso nel vuoto.
Ci guardiamo, allucinati, tanto vicini che ci basterebbe allungare una mano per toccarci davvero, incapaci di riprendere i sensi.
Finché la sua risata amara non squarcia ogni angolo dell’abitacolo.
Balzo sul sedile ed è allora che mi accorgo di stringere con fin troppa forza il volante, a tal punto che mi si sono sbiancate le nocche. Fisso la sua bocca spalancarsi, il suo sguardo puntarsi quasi con idrofobia su di me, le sopracciglia inarcate in un cipiglio duro nello sforzo di trattenere i propri impulsi.
E infine la sua voce.
«Imbranato? Hai ragione, no, non lo sei!» scatta, i lineamenti del viso guizzanti a causa delle emozioni che si nascondono sotto pelle. «Piuttosto direi che sei distratto!» I suoi occhi si fanno furenti. «Mi dici a che cavolo stavi pensando invece di concentrarti sulla strada?»
Respiro a fondo, ispiro ed espiro, finalmente ritrovo la voce.
«Vuoi la verità?»
So solo ciò che vorrei io; ovvero fare come gli struzzi: infilare la testa sotto la sabbia e nascondermi dall’imbarazzo.
Schiude le labbra per rispondere, la furia negli occhi grigio-verdi, poi qualcosa le attraversa, nel giro di un attimo, lo sguardo e tutto cambia, lei cambia. Michelle mi scruta ardentemente, la sua espressione si trasforma, si addolcisce, e penso che mi abbia letto dentro ancor più in profondità di quanto potessi fare io o chiunque altro.
E come se anche l’ultimo barlume di sicurezza l’avesse abbandonata, incrocia le braccia al petto e punta la sua attenzione fuori dal finestrino.
Per quanto mi riguarda non c’è nulla di interessante là fuori; soltanto l’asfalto lastricato da un fitto strato di neve, ghiaccio e umidità, le sagome sfocate dei cipressi che si agitano all’orizzonte, i contorni sbiaditi del sole opaco che riscalda appena la città, seminascosto dalle nuvole bianche… O forse… forse i suoi occhi non volano così lontano, non aspirano a qualcosa che sembra totalmente irraggiungibile. Magari si soffermano sulle piccole gocce di pioggia che puntellano ogni centimetro del finestrino…
Chiudo gli occhi, sbatto le ciglia, li riapro.
Lo scenario cambia.
«Trentotto!»
Non sono più accanto a Michelle, nella sua BMW grigio metallizzato; ora sono in un catorcio da quattro soldi che papà ha comprato in un mercatino di auto usate quattro anni fa, è quel furgoncino scrostato di fuliggine che abbiamo riparato insieme tante volte. Adam è seduto al mio fianco, è soltanto un bambino, e non fa altro che muoversi freneticamente sul sedile. Stiamo giocando al nostro gioco preferito; contiamo le gocce di pioggia sul finestrino. Chi ottiene un numero maggiore nel minor tempo possibile vince, poi ricominciamo daccapo e così via. È la seconda volta che riproviamo, Adam mi ha stracciato ancora e continua a vantarsene.
«Non è giusto.» gli dico. «Io so contare solo fino a venti!»
Mamma e papà non si curano affatto di noi, sono troppo impegnati a discutere degli ennesimi problemi che anche oggi si sono presentati sul lavoro. Adam mi ha detto di aver ascoltato un loro tralcio di conversazione e di aver sentito dire da papà che purtroppo gli affari non vanno bene e che, per mancanza di fondi, il suo direttore ha dovuto licenziarlo.
«Licenzato? Che significa?»
«Licenziato con la “i” in mezzo.» Scuote la testa, non sopporto quando lo fa. «Sei troppo piccolo per capire, fratellino, non posso spiegartelo.»
«Non è vero!»
Il ricordo finisce così, troncato a metà, come se mi avessero staccato la spina che collega i miei pensieri al cervello. Sento gli occhi formicolare, puntini bianchi e neri danzano davanti al mio viso, poi…
Michelle mi stringe il braccio con così tanta violenza e disperazione, che mi stupisce pensare che potrebbe spezzarmelo. Lo ritiro con uno scatto, la guardo a bocca aperta, la faccia contratta in un’espressione di muto terrore. Ho la gola secca, non riesco a parlare.
«Kevin.» La sua voce mi riporta improvvisamente alla realtà, ma c’è una parte di me che non vuole più allontanarsi dalle mie illusioni. Mi sembra di sentire ancora la voce di Adam in sottofondo. Dove sei finito, fratello? «KEVIN!»
Sento le sue mani su di me, soffici, mi avvolgono le guance come una coperta soffice che mi riscalda. Soltanto ora mi accorgo di respirare affannosamente, ho il cuore in mano, lo sento pulsare dalla punta delle dita fino ai polsi, le vene blu risaltano sulla pelle bianca.
Che succede? Che mi succede? Dove sono? Dov’è? Non può essere… no, non è morto.
«Lo saprei se lo fosse…» sussurro a me stesso, stringendo le mani a pugno nella speranza di poter afferrare questa convinzione, senza mai più lasciarla andare.
«Calmati, Kevin, sono qui. Tu sei qui. D’accordo?»
Le sue mani finiscono sulle mie spalle, toccano i muscoli contratti e li ammorbidiscono con la punta delle dita. Poi fa qualcosa che non mi sarei mai aspettato da lei; riesce quasi a farmi dimenticare che mio fratello non c’è più, che io non sono più nessuno e che ho perso il mio migliore amico. Mi abbraccia forte, affonda i palmi nei miei capelli e li accarezza delicatamente, cullandomi al suo petto con il suo dolce profumo. Restiamo così per non so quanto tempo, ma non voglio allontanarmi, mi piace, mi fa sentire bene, allontana gli incubi che mi annientano anche di giorno, anche quando sono sveglio.
«D’accordo?» ripete al mio orecchio con il respiro affannoso e intriso di preoccupazione… per me?
Non ho la forza di dire nulla, mi limito ad annuire nella morsa disperata delle sue braccia.
«Va tutto bene, Kev… Senti come batte il mio cuore? Senti com’è regolare?»
Poggio l’orecchio sul suo cuore, l’eco dei suoi battiti inizialmente lento e ritmico con il suo respiro comincia a premere troppo sull’acceleratore. Vorrei dirglielo ma non saprei come la prenderebbe se poi lo facessi. Temo che potrebbe allontanarsi, ed io non voglio. Perciò ascolto, ascolto il suono che fa il suo petto alzandosi e abbassandosi, strofinando inconsciamente le guance sul suo seno proprio come farebbe un bambino.
Forse non avrei dovuto farlo.
Si scosta bruscamente da me provocandomi un gemito di disappunto che esce, in un soffio, dalle mie labbra schiuse, fissando il suo sguardo penetrante nel mio con una punta di sorpresa negli occhi chiari.
Poi sorride, ed è la cosa che meno mi sarei aspettato da lei in questo momento. La piega delle sue labbra ha un che di malizioso, e vorrei prendermi a calci per il modo in cui inevitabilmente reagisco: avrei qualcosa in particolare da sistemare ma se provassi ad allungare la mano se ne accorgerebbe e sarebbe molto più che imbarazzante. Non mi succede da giorni, forse è colpa dell’astinenza forzata a cui mi sono posto, tento di convincere me stesso, cercando di sistemarmi meglio sul sedile per alleviare il dolore ai pantaloni.
«Sei davvero furbo tu, eh?» La sua domanda mi stupisce, soprattutto perché non sembra affatto arrabbiata. Divertita, direi. Non so interpretare i suoi sentimenti in questo momento. Le interesso? Le piaccio? Cavolo, non so che darei per sapere se è almeno attratta da me.
Scompiglio i capelli con la mano, nell’inutile tentativo di sdrammatizzare un po’ la situazione, infilandoci le dita attraverso proprio come ha fatto lei poco fa. Il mio corpo sente già la sua mancanza. È troppo lontana.
«Le vecchie abitudini non muoiono mai.» borbotto, una giustificazione particolarmente inappropriata in una situazione del genere. Aver ricordato alla ragazza che mi piace il mio passato da puttaniere non è una buona mossa, ma non sapevo cosa dire e non sono affatto bravo con le parole. Sono il tipo che ruba le battute degli altri, che vive la propria vita come se fosse un copione, che fa dal proprio mondo un teatro in cui realtà e illusione si confondono. Forse è per questo che ho sempre desiderato diventare un attore di successo una volta adulto. Fingere di essere qualcuno che non sono è l’unica cosa che so fare.
Eppure la sua reazione mi scombussola ancora di più.
Non so se ridere o piangere come una femminuccia, ma di certo non mi aspettavo che… sorridesse, ecco.
Scuote la testa, coprendosi il viso con i capelli. Se glieli scostassi soltanto per poterla toccare, farà per allontanarmi? «Sei bravo.» dice, genuina sorpresa nei suoi occhi. «Sul serio.» aggiunge, per ribadire il concetto. La guardo senza capire, così spiega, con una mezza risata: «Ora finalmente è tutto chiaro: abbordi le ragazze con quel tuo sguardo da bravo ragazzo e poi ne approfitti, senza che loro se ne accorgano.» Ho la bocca asciutta. È ammirazione, quella che vedo riflessa nei suoi occhi? Cosa vuole che dica? «E anche se capiscono di essere cadute nella tua trappola, non riescono ad avercela con te… Incredibile!» esclama, voltando la testa verso di me come se si fosse improvvisamente accorta della mia presenza accanto a lei. «Onestamente non so se odiarti o meno.»
Sgrano gli occhi. O-Odiarmi? Mi odia? «Cosa?»
Non risponde. Apre la portiera ed esce, chiudendosela alle spalle. Poi mi fa cenno dall’esterno di abbassare il finestrino. Eseguo a bocca aperta, inebetito, incapace di proferire parola.
«Aspetta qui.» mormora. E così dicendo, attraversa di fretta la strada prima ancora che possa ribattere.
 
 
 
 
 
Se n’è andata.
Se n’è andata. Deve avere improvvisamente deciso di abbandonarmi, non c’è altra spiegazione. Forse si è finalmente resa conto di quanto idiota io possa essere, il che mi sorprende, perché avrebbe dovuto accorgersene prima.
Cazzo. Se sono già arrivato al punto dell’autocommiserazione, dovrei assolutamente preoccuparmi. Non è un buon segno, soprattutto quando si tratta di una ragazza come Michelle che sa dove e come colpirmi.
A questo punto, perciò, non posso che dichiararmi fottuto, con la “F” maiuscola.
Aspetta… mi guardo intorno e mi do mentalmente dello stupido.
Non c’è da meravigliarsi se ride sempre in mia presenza.
L’auto è sua quindi, a meno che non abbia deciso di regalarmela, deve necessariamente fare ritorno.
Perché nella mia mente sa tanto di supplica?
«Eccomi.» Sussulto, non l’ho sentita tornare. Ha tutti i capelli scompigliati, sembra abbia appena corso una maratona. La pelle bianca è particolarmente rosata sugli zigomi, segno dell’evidente bassa temperatura che si è abbattuta sulla città, e mai come adesso mi accorgo dell’inconfondibile presenza delle lentiggini color caffellatte che le punteggiano le guance e il naso. Sfrega le mani l’una contro l’altra per riscaldarsi, così, prima che me ne penta, le afferro i polsi, stringendoli in una morsa delicata al mio petto. Non so perché l’ho fatto. Per sentirla vicina, per farle sentire quanto il battito del mio cuore sia affannoso e impetuoso, perché possa capire quanto i sentimenti che io provo per lei siano sinceri.
La amo? Non lo so, ma ci sto arrivando.
Ha gli occhi socchiusi ma li apre subito per guardarmi. Mi scruta con attenzione, come se stesse rovistando, in ogni angolo della mia mente, alla ricerca di chissà che cosa. Inizialmente, non riesco a riconoscere l'espressione che si è dipinta sul suo volto, sembra assorta, intenta a leggere tra le pieghe dei miei lineamenti contratti. Poi schiude la bocca e dilata gli occhi.
Ed è allora che qualcosa le balugina nello sguardo.
Consapevolezza, la chiamerei, ma c'è anche qualcos'altro.
Dispiacere, preoccupazione e... comprensione.
Non compatimento, ma comprensione. Comprensione. Quanti significati ha questa parola per noi? Sapere che anche lei ha provato quel che ho provato io è come essere liberato dal pesante fardello che mi trascino dietro da tanto, troppo, tempo. Perché è inevitabile, non posso assolutamente smettere di pensare ad Adam. E lei mi capisce.
Sospira, una nuvola d’aria fredda le esce dalle labbra. Inspiro. La sua bocca sa di buono, menta e qualche altra spezia di cui non riesco ad afferrare i nomi.
«Parlami di lui.» dice e non c’è bisogno di spiegazioni. Il suo sguardo dice tutto. «Perché non riesci a… a… ad accettarlo, Kevin?» Non c’è accusa nella sua voce, solo… curiosità.
La abbraccio. Ho bisogno di sentirla, altrimenti non avrei il coraggio di tirar fuori le sofferenze che ho covato per tanti anni dentro di me.
Respiro a fondo. Non voglio parlare. Devo parlare.
«Era più grande di me.» comincio. «Papà lo adorava, mamma lo adorava… tutti gli volevano bene, non c’era una persona che lo detestasse. Ma per me era diverso: lui era… era… era me. Non una parte della mia anima, non una parte della mia essenza. Semplicemente tutto ciò che c’è di buono in quel che sono. Non ricordo molto della nostra infanzia, soltanto qualche breve istante che resterà per sempre indelebile nella mia memoria. Eppure, c’è una cosa che non ho mai dimenticato.» Mi fermo, riprendo fiato, poi controllo se lei mi stia ascoltando. È attentissima, ha gli occhi sbarrati ed è completamente concentrata sul suono della mia voce. Si appoggia al mio braccio, intrufola la testa nell’incavo tra la mia spalla e il collo. Così mi sprona a continuare: «Il momento… il momento in cui quel proiettile gli ha attraversato il petto. Eravamo poco più che bambini, entrambi ragazzini, non c’entravamo niente con quell’uomo… S-s-sarebbe potuto succedere a me, gli ero accanto…» La sua mano è sul mio viso, carezza ogni porzione disponibile di pelle scoperta, infilandosi tra le pieghe del colletto della mia camicia. È caldo il suo palmo, le sue dita, i suoi capelli, percepisco tutto di lei, tutto. E in qualche modo mi aiuta a non affogare nel mio dolore.
«Continua, Kev.» dice. «Ti prego
Sfrego nervosamente il naso contro il suo collo. Non voglio… non voglio che mi guardi, eppure desidero così tanto i suoi occhi su di me.
«L’ho sentito.» proseguo. «Il mio cuore si è spezzato in due. Rosso. Il suo sangue era il mio, il corpo che cadeva tra le braccia di quell’uomo…» I pugni chiusi, serrati attorno al volante. Potrei spezzarlo in due. E allora mi rendo conto che devo trovarlo. Vendetta, non posso permettergli di andarsene così, Adam non può essere morto in un modo tanto… violento. È… era solo un bambino.
Michelle spezza la tensione dei miei muscoli contratti, mi riporta alla realtà. Mi ricorda che non posso fermarmi proprio ora.
«Non l’ho mai più visto. Capisci? Non avrò mai la certezza che… che sia morto davvero.»
«E tu credi che sarebbe diverso? Che non proveresti lo stesso dolore, se non uno maggiore, se potessi sapere con convinzione ciò che gli è successo davvero?» Alza la testa per guardarmi dritto negli occhi.
«Mi metterei l’anima in pace.» No, non lo farei mai. «Andrei avanti.»
Scuote la testa, non so cosa sia quell’ombra che le oscura lo sguardo. La tristezza che traspare dai suoi lineamenti mi pesa come un macigno sullo stomaco. «Kev, no.» sussurra, la sua voce è un filo sottilissimo che incespica nel vuoto, stringendomi il braccio. «Non si dimentica mai.»
Due secondi. Eppure mi sono sembrati un’eternità.
Continuiamo a stringerci l’uno tra le braccia dell’altra, finché Michelle non si stacca d’un tratto da me. Provo quasi un dolore fisico, ma non ho il coraggio di chiederle perché l’abbia fatto.
Non c’è n’è bisogno.
«Quasi mi dimenticavo.» esala, ammorbidendo il tono di voce come… come se volesse scacciare via, almeno per un po’, i brutti ricordi che ci invadono la mente. Tira fuori una busta di plastica, non l’avevo vista prima.
«Cos’è?»
«Birra.» E, a conferma delle sue parole, ecco che mi porge una bottiglia di vetro.
«Budweiser.» leggo sull’etichetta. «Non è male, l’ho assaggiata qualche volta, anche se non è una delle mie preferi...»
Cazzo.
Me la sfila dalle mani con nonchalance e svita il tappo. Poi, butta giù più di un sorso, direttamente dalla bottiglia, avidamente, come se l’avesse fatto già in precedenza, più di una volta. Ho visto tante altre ragazze darci dentro in questo modo, eppure… da lei non me lo sarei mai aspettato.
«Sei sorpreso, vero?»
«Be’… sì, ecco.»
Sorride. «E perché mai?»
«Perché tu…»
«Io cosa?» Lo fa di proposito. Vuole prendermi in giro.
Mi gratto la nuca. Non mi sono mai sentito tanto imbarazzato in tutta la mia vita. «Sei diversa. Non pensavo bevessi.»
«Concedersi una birra, di tanto in tanto, non è bere.» mi corregge allungandomi la bottiglia. Le nostra dita si sfiorano ma è solo un attimo. «Mi aiuta… è l’unica cosa che possa farmi dimenticare.»
«Cosa?»
Scuote la testa, distendendo le gambe e poggiandole sul cruscotto.
Osservo i suoi movimenti, e lei fa un’osservazione che riesce a sviare l’attenzione da se stessa. Come se fosse possibile.
Soltanto più tardi, di ritorno verso casa, mi rendo conto dell’evidenza dei fatti.
Non ho più alcun segreto per lei; sa tutto di me, di Adam, di ciò che è successo quel giorno e che ha stravolto completamente la mia famiglia. Ma è ben poco quel che io so di Michelle Thompson. Nasconde qualcosa. E ho intenzione di scoprire di che cosa si tratta.
 
 
 
 
 
«Devi ammettere che non è andata tanto male.»
Michelle è in piedi, proprio di fronte a me, gli occhi bassi sul marciapiede e l’ombra di un sorriso sulle labbra carnose. L’istinto sarebbe quello di baciarla fino a farle dimenticare ogni cosa, ma in nome di quel briciolo di amor proprio che ancora conservo sui palmi delle mani capisco che non sarebbe affatto una buona idea se decidessi di metterla in pratica. E così, nel frattempo, mi ripeto che è inutile negare a me stesso l’evidenza: pur di trascorrere insieme a lei anche soltanto un secondo in più, sarei stato disposto perfino a fare mille chilometri a piedi fino a casa nonostante i suoi inutili tentativi di farmi desistere. Così ho parcheggiato la sua auto in perfetto silenzio, senza aver avuto il coraggio di spiccicare parola.
Ora siamo qui, le mani in tasca e almeno qualche buon metro a separarci, ci guardiamo ognuno la punta delle proprie scarpe come se stessimo osservando qualcosa ben più interessante del viso l’uno dell’altra.
Non so davvero come comportarmi. Non ho mai invitato una ragazza a uscire a parte lei, tanto meno ho dovuto affrontare una situazione simile; il ruolo del ragazzo che piace ai genitori non è proprio il mio forte. Piuttosto sono quello da cui tutti gli adulti dicono di stare alla larga.
E se il padre di Michelle ha un fucile nascosto da qualche parte? E se i suoi ci stessero spiando alla finestra?
Improvvisamente l’idea di non averla baciata come avrei voluto inizia a pesarmi nello stomaco. Sono combattuto: voglio farlo, disperatamente... ma non posso. Mi sento come se mi avessero infilato in gola in un sol colpo una tanica di benzina, e brucia, brucia in una maniera che non posso controllare. È un po’ quando, subito dopo avere ingerito un bel pezzo di peperoncino, pensi ingenuamente che un bel bicchier d’acqua possa calmare le fiamme che ti danzano sul palato.
«Non intendo esprimere il mio parere su questo.» Incrocia le braccia al petto e trova finalmente il coraggio di guardarmi negli occhi. La Michelle sfacciata e sicura di sé mi mancava, ma comincio subito a sentire la nostalgia di quella timida e riflessiva, quella che riesce sempre a scavare nei miei pensieri come se non avesse fatto altro per tutta la vita.
Sorrido. «Ah, no?» Faccio quattro passi avanti, fino a quando non mi ritrovo quasi completamente a contatto con il suo corpo. Mi sembra di riuscire perfino a sentire il battito del suo cuore in sottofondo, una sottospecie di rimbombo che fa tacere qualsiasi altro suono, ma non del tutto, perché il mio respiro affannoso si sovrappone al suo.
Una deliziosa fossetta si forma all’angolo destro della sua bocca. Ora i jeans cominciano a tirarmi sul serio al cavallo dei pantaloni e mai come in questo momento mi risulta difficile cercare di calmare l’eccitazione. Ancora una volta mi stupisco di quanto sia devastante l’effetto che suscita su di me, raggiunge ogni angolo della mia mente e ogni spigolo del mio corpo. E così tra i miei pensieri prende posto qualsiasi forma di contraddizione, che mi convince a desiderare una connessione ancor più profonda tra di noi e, nel frattempo, a farmi scalpitare e fremere e ribollire a tutti i costi per un «basta» che possa fermare tutto questo.
«No.» Osservo le sue labbra muoversi. L’eccitazione cresce, si dilata nell’aria come un profumo inebriante che mi impedisce di pensare lucidamente. «Altrimenti si perderebbe tutto il divertimento, non credi anche tu, Morgan?» Alza un sopracciglio, vuole provocarmi. Lo sento. Lo vedo riflesso nei suoi occhi.
Alla fine smetto semplicemente di controllarmi. E capisco quanto sia facile avvolgere le braccia attorno a lei, prenderla per i polsi e sospingerla verso di me alla ricerca di quel qualcosa che tanto spero di ottenere dalle sue labbra. È facile, maledettamente facile, naturale come respirare a pieni polmoni.
«Ti ho già detto che mi chiamo Kevin.» Calco ogni parola, stringo con forza le mani attorno ai suoi fianchi e faccio sempre più pressione contro il suo petto, il seno morbido a stretto contatto con il mio torace. Fremo, mai come ora tanto consapevole del fatto che a separare la nostra pelle ci siano soltanto strati e strati di vestiti che potrei benissimo togliere via in un sol colpo, se volessi.
Scuote la testa con vigore, puntando il suo sguardo intenso nel mio.
«Ne sei proprio sicuro? Io credo proprio di no.»
Sogghigno, e non so come sia capace di mascherare ciò che realmente provo e sento in questo momento. «Vediamo se riesco a convincerti del contrario…»
È… toccare la felicità con un dito e vederla dissolversi davanti ai tuoi occhi senza che tu possa fare niente per impedirlo. Tocco le sue labbra, un fuoco divampa nel mio petto, poi…
«Michelle!» Una voce stranamente familiare ci interrompe, paralizza entrambi sul posto come due statue di ghiaccio immerse in un freezer.
Lo riconosco appena lo vedo, eppure… sono sicuro di non averlo mai visto prima. È un ragazzo, alto quasi quanto me, longilineo, con le guance scrostate di sangue ormai secco, gli occhi castani allucinati, stralunati e la bocca aperta nello sforzo di riprendere fiato. Ha i vestiti stracciati, una ferita alla spalla contro cui preme sempre più debolmente le dita, e i capelli quasi del tutto rasati sulla testa. Ci guarda, indugia su di me soltanto per qualche secondo, fino a quando non sposta totalmente la propria attenzione sulla ragazza che trema accanto a me.
Volto piano gli occhi verso di lei, non ho mai visto tanto terrore nello sguardo di una sola persona. È immobilizzata, mi faccio inconsapevolmente più vicino, ho il timore che possa svenire da un momento all’altro…
Il tempo che s’è fermato per non so quanto riprende la sua inesorabile corsa prima ancor che io possa rendermene conto.
«Cole!» urla Michelle. Ha la paura in ogni fibra del suo essere. «Che diavolo è successo?»
Lui la fissa. Il suo cuore smette di battere in quel preciso istante come se fosse il mio.
Dice solo una parola.
«Aiutami.» Un soffio. Un rumore sordo che riecheggia nel silenzio.
Poi stramazza al suolo e perde definitamente i sensi.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note d'autore:
Ho ripubblicato questo capitolo a causa di una sottospecie di “cambiamento di programma”. Siccome c’è stata una variazione all’interno della trama che riguarda più specificatamente il rapporto che c’è tra Cole, Michelle, Kevin ed Alice, sono stata costretta ad inserire l’intermezzo che avete letto in questa revisione del sesto capitolo in quello che avevo postato quasi una settimana fa. Il motivo è semplice: farvelo leggere nel prossimo avrebbe allungato soltanto il brodo e impedito a me di inserire un ponte tra i primi capitoli che avete letto (più introduttivi, per la precisione) e quelli che aprono le porte alla vera fantascienza. Dal prossimo in poi, come avete avuto modo di vedere, entra veramente in scena il personaggio di Cole, che sarà determinante nella vicenda e che ricalcherà un ruolo di importantissimo rilievo. Detto questo, preparatevi: se siete sensibili a certi argomenti, abbandonate subito questa lettura. Sarà così intricata che non ne usciremo più. Un piccolo spoiler: se dovessi dare un titolo al settimo, sarebbe “L’evasione”. Di chi? Di che cosa? Kevin scoprirà qualcosa su Michelle? Io direi proprio di sì. I geni stanno arrivando.
Ultima cosa: ai lettori di Morbus e Medium, devo comunicarvi che le due storie appena citate verranno cancellate dal mio account. In questi giorni ho provato a scrivere sia l’una che l’altra, ma per due ragioni ben diverse non sono riuscita a continuare. Duo cerebra ha subito leggere variazioni che sono andate a complicare quella che è la trama di Morbus; in questo modo, andare avanti su quella strada avrebbe portato soltanto delle contraddizioni tra le due storie strettamente connesse. Per Medium, il perché è un altro, forse il più comune: l’ispirazione non è sparita, ma il filo logico della narrazione non mi sembra più logico come pensavo. Probabilmente la ripubblicherò quando riuscirò finalmente a metterne a punto la trama, non so. In compenso, prossimamente pubblicherò una distopica che, a quanto sembra, è molto più chiara nella mia mente di quanto lo fosse stata Morbus. Per Amores, la questione è un’altra: il secondo capitolo arriverà, lo prometto ^^ Ora vi lascio ^^
Vi lascio i link per contattarmi: EFP, Gruppo Facebook, Facebook, Pagina Fecebook e Ask.
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Capitolo 8
*** AVVISO ***


AVVISO!
 
 
 
 
 

Mi vergogno a ritornare dopo non due mesi di ritardo, ma SETTE, senza neanche postare un nuovo capitolo; tuttavia il motivo per cui non sono qui ad aggiornare è proprio questo: per chi non lo sapesse, per tutto questo tempo sono stata (e lo sono tuttora) impegnata con gli esami, e no, non perché ho avuto il blocco dello scrittore e/o mancanza di ispirazione/voglia di scrivere. Perché nessuno può immaginare quanto Kevin e Michelle e Cole e tutti gli altri personaggi a seguire mi siano mancati, mi mancano ancora, li sento vicini a me come se non mi avessero mai abbandonati. Eppure, so che vi state domandando ancora il motivo reale dell'avviso, perciò, bando alle ciance: ho intenzione di riscrivere Duo Cerebra, ampliarla, sdoppiarla, modificarla, stravolgerla, e chi ne ha più ne metta. Da un po', ho sentito nascere dentro di me il bisogno di trasformarla in qualcosa di più di una semplice fyccina da quattro soldi, più di una semplice storia romantica, più di quello che era al principio. Perché al principio era senza pretese, o forse, le pretese ce le aveva eccome, solo che la trama ho cominciato a pensare non fosse stata sfruttata, già dal prologo, come realmente avevo immaginato e come realmente meritava di essere. Quindi, cambierà nome, cambierà molte cose, ma non preoccupatevi: i nostri Kevin e Michelle ci saranno ancora, sotto certi aspetti vi sembreranno nuovi, sconosciuti, però poi vi assicuro che li riconoscerete pian piano: sono i miei figli, e io non li cambierei per nulla al mondo. Non aggiungo altro, sono aperta a tutte le domande che volete farmi (oggi me la sono presa libera, la giornata): magari non qui, su Facebook, sul mio gruppo Facebook, sulla pagina, su Ask, ovunque vogliate (qui no perché non so se è consentito dal regolamento), o anche per messaggio privato, perché no. O... nessuno vuole farmi alcuna domanda LOL
Direi che ho finito. Voglio solo aggiungere che mi scuso con chiunque abbia aspettato inutilmente, ma... davvero, non era mia intenzione.
La nuova Duo Cerebra (che recherà un titolo non ancora scelto - ecco perché, chi fosse interessato, è meglio che tenga d'occhio la pagina per le informazioni che verranno), approderà su EFP verso metà luglio. Cercherò di essere veloce ad aggiornarla, cercherò anche di riprendere Amores e... Ora mi ritiro (aspettando i pomodori) ^^
(L'AVVISO VERRA' CANCELLATO ENTRO UNA SETTIMANA, COSI' CHE TUTTI POSSANO VEDERLO. POI, LO COPIERO' NELLA MIA PAGINA AUTORE)

 
Michelle Vèrace

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