Duo cerebra di Michelle Verace (/viewuser.php?uid=553846)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Primo capitolo ***
Capitolo 3: *** Secondo capitolo ***
Capitolo 4: *** Terzo capitolo ***
Capitolo 5: *** Quarto capitolo ***
Capitolo 6: *** Quinto capitolo ***
Capitolo 7: *** Sesto capitolo ***
Capitolo 8: *** AVVISO ***
Capitolo 1 *** Prefazione ***
D
u o
C e
r e b r a
«Il genio purtroppo
non parla
per
bocca sua.
Il
genio lascia qualche traccia di zampetta
come
la lepre sulla neve.»
–
Eugenio Montale –
P
r e f a z i
o n e
Ugo Ojetti disse: “Il
genio senza ingegno è una barca senza remi”.
D’accordo, lo
so, quello che ho detto è stupido.
Magari, se vi avessi
citato ─ che so ─ qualche big come Einstein, mi avreste preso davvero
sul serio. Perché quale adolescente della mia, della vostra
età conoscerebbe uno come Ugo Ojetti? Io no di certo, ho
soltanto copiato una frase che ho letto su Wikipedia.
Ma non divaghiamo.
Mi hanno bocciato tre
volte al terzo anno di liceo. Genio incompreso? Di sicuro i miei
professori se ne sarebbero accorti se così fosse stato. Odio
la scuola e tutto ciò che abbia a che fare con lo studio.
Perciò,
niente di anormale fin qui.
E se vi dicessi che la
mia ragazza ha un quoziente intellettivo che non si era mai visto
prima? Un quoziente intellettivo che potrebbe competere con i
più grandi scienziati mai esistiti?
La faccenda
comincerebbe a complicarsi.
Mettiamo anche che un
gruppo di pazzi abbia inventato una macchina che possa trasmettere gli
impulsi nervosi da un cervello all’altro. Che possa perfino duplicarli
all’interno di uno stesso organismo. Roba tosta,
eh?
La faccenda si
complicherebbe ulteriormente.
La faccenda
è complicata.
Vogliono ucciderla.
Vogliono il suo cervello. Vogliono uccidere tutti loro. Vogliono tutti
i loro cervelli. Vogliono creare un mondo senza imperfezioni. Vogliono
rivoluzionare la razza umana.
Un uomo con due
cervelli. Due uomini. Tre uomini. Quattro uomini. Cinque uomini. Sei
uomini.
Setteottonovedieciundicidodicitrediciquattordiciquindicised─.
Uomini. Umani. Umani
dappertutto. Umani che non esistono più.
E quando tutti i geni
saranno morti, e quando ogni uomo e ogni donna avrà due
cervelli e non ci saranno più differenze, e quando la nostra
razza sarà la più forte dell’universo e
di tutti gli universi: ecco, quello sarà il momento in cui
ricorderemo ogni singola vita che è stata spazzata via.
Alla fine rimarremo in
mille. In cento. In dieci. In uno. Gli umani morirebbero.
L’ultima scintilla si spegnerebbe. Estinti,
saremmo. Non saremmo più niente.
Ma non posso
permetterlo. Io devo proteggerla. Lei deve vivere.
«Navigherò
io al posto tuo.» Le mie labbra sfiorano le sue.
«Tu sarai i miei occhi. Io sarò la tua
armatura.»
«Ti
uccideranno.»
«Non se li
uccido prima io.»
Note
d’autore:
Scrivere questo
“angolino”, questo minuscolo spazio dove scrivere,
presentarmi in tutto il mio (non) splendore, è perfino
più difficile e complicato della storia stessa. Storia che
ho, specifico, ideato proprio oggi. Non so bene, quindi, come si
articolerà veramente; alcuni punti non sono ancora chiari,
ma ho deciso di “buttarmi” nella mischia e
cimentarmi con un’originale (la prima!) fantascientifica,
romantica e, perché no?, forse anche un po' fantasy. Non so
neanche io quale sia il genere giusto al quale associarla (y),
perché di certo si sa, almeno io so,
che molti elementi non ancora noti della FIC non esistono davvero e/o
non possono mai verificarsi.
Ad ogni modo: i geni.
Il primo che vi viene in mente? Albert Einstein. Probabilmente
è anche l’ultimo del secolo
scorso e corrente. Nonostante, però, io non sia molto
ferrata in materia – sono soltanto un’adolescente!
– sono sempre rimasta affascinata da tutte quelle persone che
hanno capacità straordinarie e che molto spesso
vengono… emarginate dalla maggior parte della gente. Un mio
stesso compagno di classe, che tutti chiamano
“genio”, sebbene non lo sia realmente, soltanto
perché ama studiare (in particolare la matematica)
è di solito lasciato solo, come se non fosse degno della
compagnia altrui. Usciti da questa parentesi che non vi interessa: dal
primo capitolo in poi conoscerete meglio i personaggi, e in particolare
il protagonista che, per chi non lo avesse capito, non è un
genio.
…
Ci terrei a ringraziare
Jess Graphic per il banner! E' davvero
stupendo!
Ultima cosa: So che
ormai nessuno recensisce più. Pur essendomi iscritta
soltanto oggi, ho sentito tramite un passaparola su Facebook che molti
se ne lamentavano ma… non so ancora bene come funziona il
sito, né scrivo da molto… e, se ci fosse
un’anima pia disposta a farmi notare errori di punteggiatura
o di grammatica, spero sia ben disposta a farmelo sapere. Non importa
dove. Anche privatamente, sul mio profilo Facebook o sul mio Ask. Sono aperta a tutto (y) e non
pretendo niente. Solo aiuto.
Aiutoaiutoaiutoaiuto
Sono matta, lo so.
|
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Capitolo 2 *** Primo capitolo ***
P
r i m o
c a p i t o l o
Voglio fare
l’attore.
È questo quel che vorrei dire adesso al professor Jefferson,
ma so già che me ne pentirei all’istante se lo
facessi. Contenermi è difficile, eppure anche io, che amo
spingermi fino a limiti inimmaginabili, riesco a capire quanto poco mi
converrebbe. Nonostante ciò, vorrei spiegargli quanto la sua
materia sia inutile, quanto ogni singolo alunno del suo corso si annoi
durante le sue lezioni. Probabilmente, non mi ascolterebbe neanche.
Probabilmente, soltanto perché sono io, io che lui odia con
tutto se stesso, mi rimanderebbe a posto senza nemmeno darmi il tempo
necessario per svolgere l’esercizio.
«Signor Morgan, stiamo aspettando.»
Lo guardo, e vorrei ucciderlo con le mie stesse mani. Non saprei dire
cosa mi trattenga. Ormai non ho più niente da perdere.
Giusto, l’esercizio. L’esercizio che ho appena
trascritto alla lavagna e che non ho ancora cominciato a svolgere. Mi
torco le mani e guardo con la coda dell’occhio il cassino. Se
lo afferrassi e cancellassi tutto… no, sarebbe
un’ulteriore mossa che non alzerebbe affatto la mia media
già abbastanza scarsa. Sono stato bocciato. Tre volte. E non
so davvero quanto darei per scappare da questo inferno.
«Stiamo aspettando.» ripete, e ora ho la certezza
che niente potrebbe più fermarmi.
Anzi, qualcosa, o meglio qualcuno,
c’è.
Jefferson chiama un nome. Una ragazza. Quella nuova. Quella che ha
sempre i capelli raccolti in uno chignon e gli occhiali da vista
inforcati sul naso.
Non è la prima volta che la vedo.
È quel genere di persona che non puoi non notare. Non so
niente di lei, a parte che è l’intelligentona
della classe ma, non appena si alza di malavoglia dal suo posto per
avvicinarsi alla lavagna, decido che da questo momento in poi non
farò altro che impicciarmi nei suoi affari per scoprire
qualcosa che davvero mi interessi.
«Signorina Thompson, mi auguro davvero che anche lei non mi
faccia attendere troppo.» Lo dice con un tono sarcastico,
canzonatorio, e tenere a mente le motivazioni secondo cui non posso
assolutamente piantargli qualsiasi cosa al petto mi risulta ancora
più difficile ora che lei è a fianco a me.
Così sposto la mia attenzione su qualcosa di molto
più interessante di Jefferson e dell’esercizio.
È più piccola di me, avrà i suoi
sedici anni ─ forse è una di quelle “bambine
prodigio” e avrà anche saltato un anno ─ e in
questo momento sembra assai più spaventata di me. Non che io
lo sia ma… insomma, non è questo il punto.
È come se non sapesse proprio dove mettere le mani.
Io una mezza idea ce l’avrei… e non mi
riferisco affatto alla lavagna.
Arrossisce, quasi mi avesse letto nella mente, e adesso sono io, quello
teso e imbarazzato.
«Mi delude, signorina…»
Jefferson non finisce neanche di parlare che la ragazza, non prima di
avermi lanciato un’occhiata di… scuse?, comincia a
ricoprire di calcoli ogni angolo rimasto della lavagna, come se non
avesse fatto altro per anni. Come se ci fosse nata, con i numeri. Come
se li masticasse a colazione.
«Eccellente.» Jefferson mi ha rubato le parole di
bocca.
Buck le avrebbe già infilato la faccia nei gabinetti. Non
gli va giù quando le donne dimostrano di essere capaci di
fare qualcosa meglio di lui. E anche io, se non si fosse trattato di
lei, ma di un'altra ragazza, avrei reagito allo stesso modo. Non so
dire di preciso che cosa abbia di diverso rispetto alle altre. Ma ho la
certezza, nonostante non la conosca affatto, che qualcosa di diverso
c’è, e il desiderio di scoprire di che si tratti
mi rende pazzo, euforico, voglioso di rivolgerle le parola.
Non lo faccio. Guardo a bocca spalancata ciò che ha scritto.
Un’equazione. Numeri, segni che si ripetono. La matematica
è una lingua che non potrò mai imparare. Eppure
penso che, se fosse lei ad insegnarmela, diventerebbe la mia materia
preferita. E me ne convinco davvero soltanto quando si volta verso di
me e i suoi occhi grigio-verde si soffermano sul mio viso.
Non arrossisce, è pallida, ed è naturale che me
ne chieda subito il motivo. Ha le spalle incurvate, le labbra strette
tra i denti, come se volesse scomparire, come se avesse fatto qualcosa
che non doveva. Perché? Dovrebbe essere contenta di avermi
umiliato. I secchioni amano sempre rivendicare la loro intelligenza. E
lei? Lei no. È forse spaventata?
Sto per rassicurarla, o almeno ci provo, ma Jefferson ci manda subito a
posto, mormorando qualcosa di me che non mi do neanche la pena di
ascoltare. Ripete sempre la solita solfa: che sono un incapace, che non
studio, che dovrei ripetere le elementari, che non combinerò
mai niente nella vita. E magari ha anche ragione. Ma non mi importa.
Non adesso.
Si siede al primo banco, accanto a una sedia vuota. Non capisco
perché nessuno le faccia compagnia, sembra così
innocua… Poi trovo subito la risposta. Tutti la temono,
tutti la odiano perché è brava, perché
è intelligente. Ed è un motivo così
stupido! Ma, da un lato, sono contento che sia sola. Così
non dovrò minacciare nessuno per prendere posto vicino a lei.
Domani, penso. Domani le parlerò. Lo
ripeto più per convincermene che per altro. Vorrei avere il
coraggio di alzarmi sotto gli occhi di tutti e sederle vicino.
Com’è la sua voce? C’è un
solo modo per scoprirlo e, a meno che non voglia osservarla ogni giorno
immaginando come sia ma senza mai saperlo davvero, oggi è la
mia occasione.
Così aspetto. Aspetto che la lezione finisca, che il
professor Jefferson interroghi qualcun altro. E nel frattempo la
guardo, abbozzando uno schizzo della tenue forma del suo profilo sul
banco. Non sono bravo a disegnare ─ non ho mai preso l’arte
sul serio ─ ma adesso sento l’esigenza di… di
catturare quel momento, di raffigurare ciò che vedo sulla
carta. E i suoi capelli castani cominciano a prendere forma, e
così la curva dolce del suo collo, e la mano che con
dolcezza lo accarezza… e la penna che i suoi denti
mordicchiano ripetutamente e le spalle e gli occhiali che nascondono
quel suo sguardo pudico e riservato…
«Dio, da quando sei diventato così
pappamolle?»
L’ho pensato ma non sono stato io a dirlo.
Buck si sporge dal suo banco per sbirciare il ritratto, cominciando a
ghignare tra sé e sé.
«Fatti i cazzi tuoi.» Lo fulmino con lo sguardo e
copro il disegno con la mano. Non deve assolutamente vederlo, non
voglio che metta gli occhi addosso a lei. Ci prova con tutte le ragazze
a cui piaccio e non gode affatto di buona reputazione. Forse non lo fa
neanche di proposito, perché quando ho bisogno del suo aiuto
c’è, ma è ugualmente fastidioso.
«Dài, fammi vedere.»
«No.»
«Morgan, avanti…»
«Ho detto di no, stronzo!»
«Solo un’occhiata… Voglio sapere per chi
ti sei preso una cotta.»
Arrossisco. Vorrei prendermi a calci, e insieme a me anche Buck.
«Non mi sono preso una cotta per nessuno!» E invece
sì. Non è amore, ma i suoi occhi mi hanno
conquistato.
Per fortuna la campanella mi salva. Cancello il disegno ancora incluso
prima che Buck possa vederlo, poi aspetto che tutti escano
dall’aula.
Lei è sempre l’ultima a uscire. La noto
distrattamente ogni giorno nei parcheggi senza guardarla davvero,
mentre incespica sui gradini con gli occhi sempre altrove, sempre persi
in un mondo che nessuno conosce. E non so davvero spiegarmi come sia
possibile non averla mai degnata di uno sguardo, di un vero
sguardo, prima d’ora.
Quando mi avvicino per parlarle, lei si volta subito verso di me. Non
si aspettava che mi facessi avanti, probabilmente pensava di essere
rimasta sola, perché strabuzza gli occhi e sbatte un paio di
volte le palpebre. Sembra quasi che non riesca a credere a quello che
vede, ma ricambia comunque il mio sguardo, senza timore, come se
volesse sondare il terreno e interpretare le mie vere intenzioni.
«Ciao.» dico, e per un attimo penso che potrei
arrossire. Prima non l’avevo notato, nonostante fossimo alla
stessa distanza in cui ci troviamo adesso, ma i suoi occhi…
sono incredibilmente luminosi. Sarà la luce, eppure ora, dal
grigio-verde di poco fa, sembrano quasi violacei, e non so spiegarmi
come sia possibile tanta bellezza. Sì, sono cotto della
stessa ragazza che mi ha involontariamente umiliato di fronte alla
classe e al professor Jefferson. Con quei capelli castani, lisci e
lunghi fino alle spalle, un po’ anonimi, gli occhi scoperti e
non più nascosti dagli occhiali come a lezione: mi
porterà alla follia, ne sono certo.
«Ehm…» Si muove nervosamente sul posto,
schiarendosi la voce e fissandomi come se si aspettasse una mia
risposta.
«Hai detto qualcosa?» Stupido, vorrei prendermi a
calci in culo.
Sorride divertita, ma non avvampa. Non è come tutte le altre
─ adesso ne ho davvero la prova ─ che arrossiscono anche se e quando mi
metto le dita nel naso. Lei è diversa. Secchiona, schiva,
riservata ma… sicura di sé. A suo agio con il
proprio corpo e con la propria mente. Sembra anormale, sembra non aver
bisogno di niente, come se avesse già tutto. Mi piace. La
voglio. Deve essere mia.
«A parte che mi sono scusata con te per
l’esercizio? Ti ho chiesto che cosa ci fai ancora
qui.»
Questa volta sono io a strabuzzare gli occhi. «E
perché avresti dovuto scusarti?»
Alza un sopracciglio e storce appena un po’ la bocca. Non so
decifrare la sua espressione. È… dubbiosa?
Scettica? Non si fida di me?
«Fai sul serio?» domanda infatti.
«Per quale motivo non dovrei?»
Abbassa lo sguardo sui suoi libri ancora incustoditi sul banco e inizia
a raccoglierli tra le braccia. Non sono troppo pesanti per lei?
«Oh, be’,» Ha la faccia di una che sta
parlando con un bambino, «sei un ragazzo e di solito ai
ragazzi non piace quando una ragazza dimostra di essere migliore di
loro in qualcosa.» Sospira. «Pensavo che a fine
lezione ti saresti avvicinato per farmela pagare.»
Piego gli angoli della bocca in un sorriso abbagliante. I miei pensieri
si spostano su tutt’altro piano; su un piano molto
più eccitante di lei con la faccia nel water dei bagni.
«E come avrei potuto punirti, secondo te?»
Sto flirtando spudoratamente. Ci sto provando come faccio con tutte.
E lei se ne accorge. «Bene.» mormora tra
sé e sé. «È da nemmeno un
mese che mi sono trasferita qui, e già il grande Kevin
Morgan ci prova con me.» Sorride, ma nessun’ombra
divertimento raggiunge i suoi occhi. «Dovrei esserne
lusingata.» Ma non lo è. Lo capisco senza che lei
lo dica.
Mi passa accanto prima che possa rendermene conto, infilandosi negli
spazi tra i banchi per raggiungere l’uscita.
«Aspetta…» La seguo, cercando
disperatamente un’occhiata che non arriva. Guarda dritto
davanti a sé, cammina impettita, fiera. È
arrabbiata? «Hai frainteso... Non ci stavo provando affatto
con te.» Bugia. Bugia. Ma
l’importante è che ci creda.
Si lascia andare a una risatina, guardandomi al di sopra della propria
spalla. La raggiungo subito, affiancandola senza alcuno sforzo, anche
se… Caspita, è veloce.
«Non sei affatto bravo a mentire.»
«Ce l’hai con me? Ti ho offesa?» Mi
scappa di bocca e allora non posso più fare nulla per
fermarmi.
«No, non mi hai offesa.» Mi guarda negli occhi, con
le labbra carnose schiuse in un piccolo sorriso ─ mi
schiaffeggerà se la bacio? ─ poi scuote la testa come le
fosse venuto in mente qualcosa di stupido.
«E allora perché scappi via da me?»
Sgrana gli occhi e si ferma di botto. Si volta interamente verso di me.
«Sei strano.» commenta, e non so se il suo sia un
complimento oppure no. Vorrei chiederglielo, ma non mi lascia
né tempo né modo di parlare. «Non mi
interessi, semplicemente.» Scrolla le spalle e incrocia le
braccia al petto.
Alzo un sopracciglio. Dentro di me, sono sempre più
eccitato, eppure cerco di non darlo a vedere. Non voglio che pensi che
per me lei è una sorta di conquista. Lo è?
Domanda interessante.
«Non mi conosci.»
«Eccellente scoperta!» Schietta. Ironica. Credo
già di amarla. «Non ti conosco, quindi non mi
interessi.»
«Questo vuol dire che… se tu mi conoscessi, potrei
piacerti?» Decido di sfoderare uno dei miei sorrisi migliori,
nonostante sappia ormai che con lei la solita tattica non funziona.
Arrossisce. Arrossisce! Per la prima volta sono felice che una ragazza
l’abbia fatto. Non si aspettava che rispondessi
così. «Non sei il mio tipo.» dice, e
riprende a camminare.
«Non ti credo.»
«È la verità.»
«Hai esitato.»
«Non è vero.»
«Hai esitato!»
Socchiude gli occhi e sospira.
Non mi accorgo che abbiamo raggiunto il parcheggio finché
una folata di vento non mi colpisce in pieno viso. Lei è
accanto a me e i suoi capelli lunghi mi sfiorano le spalle. Quando si
è avvicinata così tanto? Sono stato io? O
entrambi?
Se ne sono andati tutti. La piazza è completamente deserta.
«Vuoi un passaggio?»
Dì di sì, dì di
sì...
«No, grazie.»
Le afferro un braccio e la faccio girare verso di me.
«Hai intenzione di fartela tutta a piedi?»
«Abito qui vicino, non c’è
bisogno.»
«Stai mentendo ancora.»
I suoi occhi sfuggono ai miei. Si fissa le scarpe.
Devo trattenermi per non afferrarle il viso tra le mani.
Perché non mi guarda?
«Devo tornare a casa.» Strattona appena il braccio
e indietreggia.
Capisco che è meglio lasciar perdere. Per ora.
La guardo allontanarsi e, prima che possa ripensarci, urlo:
«Sei un genio per caso?»
Si volta subito di scatto. Riesco a distinguere i suoi occhi verdi
anche a distanza.
«Perché dici così?»
Scrollo le spalle. Non lo so nemmeno io. Mi è…
scappato. È stato un pensiero fulmineo.
«Be’, sai… tu…»
Respiro profondamente, lasciando la frase in sospeso. «Lascia
perdere.»
«Sei strano.»
«L’hai già detto.»
«Sei davvero strano!»
«Quando sorridi, ti si formano le fossette alle
guance.» Okay. Adesso voglio davvero uccidermi. E
dissotterrarmi, anche. Da quando sono diventato
così… sincero? Impulsivo? Io non sono
così. Non faccio complimenti alle ragazze. Di solito accade
il contrario!
«Ora sei decisamente strano.»
Ma sorride sempre di più.
Le piaccio. Le piaccio? Se è ancora
qui, in un parcheggio deserto, insieme a me, qualcosa vorrà
pur dire.
«Come ti chiami?»
È sorpresa. «Come? Non lo sai? Eppure avrei
giurato che lo sapessi.» È sarcasmo, quello?
«Non dovrei mica sorprendermi. Kevin Morgan ricorda soltanto
il suo, di nome.»
«Rispondimi.» la incalzo, sempre più
raggiante. Ed incuriosito. Questa ragazza è…
esiste davvero?
«E togliermi tutto il divertimento?»
Mi scocca un’ultima occhiata, poi si volta e mi abbandona
lì, completamente inebetito.
Sto sognando, non c’è altra spiegazione.
Eppure, quando corre via senza più voltarsi indietro, il
pensiero che sia tutto reale è così forte che non
riesco a lasciarlo andare.
Note d'autore:
Mi sono divertita tantissimo a scrivere questo capitolo! E' stata
un'emozione unica. Era come se... come se io fossi sia Kevin che
Michelle! Incredibile! Sentivo le sensazioni di entrambi scorrermi
addosso e... e ridevo come una pazza, quasi avessi assistito davvero
alla scena! Non so se è stato così anche per voi;
mi rendo conto che, essendo la mia prima storia, non sia ancora molto
brava a trasmettere ciò che sento, ma mi auguro che almeno
una risata, anche una lacrima di pietà!, vi sia scappata.
Accetto qualsiasi critica. Sono aperta, pronta a tutto.
Prima di lasciarvi, vorrei ringraziare coloro che mi hanno recensito,
ragazze davvero stupende!
Dedico a loro questo capitolo: Tanny,
Bice_97, Lara D_Amore e
Amartema. Siete state davvero gentilissime!
Link per contattarmi: Facebook e Ask.
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Capitolo 3 *** Secondo capitolo ***
S
e c o n d
o c a p i t o l o
La prima cosa che
faccio quando torno a casa è accendere il portatile per
collegarmi a internet.
Mamma mi chiama dal
piano di sotto, è pronta la cena,
dice, e io urlo che non ho fame, o che mangerò
più tardi i loro avanzi ─ non ricordo. Sono così
concentrato su quello che devo, che voglio fare,
da non prestare attenzione a nient’altro. Mi tolgo le scarpe
dai piedi, infilo i pantaloni della tuta e una maglietta sgualcita e
poi mi accomodo sul letto. Navigo in rete da nemmeno due minuti quando
mio padre sale a portarmi la cena.
«Ehi.»
Ha l’aria stanca, leggere rughette attorno agli occhi e i
capelli scompigliati. Lui e la mamma si sono sposati giovani e,
nonostante abbiano soltanto quarant’anni, il duro lavoro che
sono costretti a fare per quattordici ore al giorno rende ancora
più evidenti i primi segni della vecchiaia.
Non siamo poveri, ma
nemmeno tanto ricchi da poterci permettere di pagare degli interventi
chirurgici ─ ammesso che ce ne sia bisogno. E so anche quanto abbiano
dovuto sacrificare per me, per darmi la possibilità di
studiare e di diventare qualcuno, in un futuro non troppo lontano.
Più volte ho cercato di spiegargli che mandarmi a scuola non
mi servirà mai a niente, che tutto ciò che voglio
fare è diventare attore. Ma loro non mi ascoltano. Ed
è stato così, proprio per questo motivo, che ho
smesso di studiare. Non che prima combinassi granché.
«Ciao.»
Non alzo la testa dal PC. Allungo solo una mano per afferrare il
piatto, con gli occhi volutamente incollati allo schermo. Se lo
guardassi, come ho evitato di fare da troppo, troppo
tempo, ormai, cadrei nella sua trappola, capirei.
E io non voglio capire. Non voglio rinunciare ai miei desideri, ai miei
sogni.
«Tutto bene a
scuola?» Si siede sul bordo del letto. Non posso fingere di
non averlo notato. Del resto, non ci riesco mai. Questa è la
solita conversazione che facciamo tutti i giorni. Rifiuto di mangiare a
tavola insieme a loro, mi faccio portare il cibo in camera, due parole
di circostanza e tutto finisce lì. Non che sia mai iniziato.
«Mh.»
Se dicessi
sì o no, cambierebbe qualcosa? Torneremo di nuovo punto a
capo. Perciò lascio libertà di interpretazione: a
loro la possibilità di capire quello che vogliono.
Genio, scrivo
sulla barra di Google. Thompson.
So solo il suo cognome.
E non ho la certezza che lo sia, un genio. Chi mi dice che non sia solo
un’ottima alunna? Una… secchiona?
Che sia brava in matematica, punto e basta? Non lo so. Eppure lo sento.
I suoi occhi hanno
parlato.
«Perché
dici così?»
Sì,
perché dico così?
«Kevin,
potresti guardarmi un attimo?»
E poi come faccio a
sapere se è “famosa” oppure no? Di
solito, quando si riscontrarono casi del genere, i media intervengono.
Il primo link che
compare è quello di Wikipedia, con il conseguente
significato di “genio” e un riquadro con ulteriori
note aggiuntive. Scorro la lista e l’argomento si infittisce
ancora di più. Forum, siti specialistici, foto, il nome di
Einstein dappertutto, e poi…
«Mi stai
ascoltando?»
… Thompson.
Michelle Thompson. Michelle.
Sposto il mouse sul
link che capeggia nella seconda pagina di ricerca e clicco.
C’è la sua foto. È lei.
Sembra solo… un po’ più piccola.
Avrà quattordici anni. Brufoletti, apparecchio ai denti,
occhiali da vista… Ha proprio l’aria da secchiona.
I capelli sono lunghi fino alle spalle, gli occhi luminosi, di un
grigio-verde così particolare che...
«Kevin
Christopher Morgan, sto parlando con te.»
È
bellissima.
«Che cosa
vuoi?»
«Non parlarmi
così, sono tuo padre.»
Lui non esiste,
mi ripeto. Non gli interessa sapere quello che voglio.
«E io sono
tuo figlio. Come la mettiamo?» Non dovevo parlare. Dovevo
ignorarlo. Devo ignorarlo. A che serve dire la
mia, se loro non mi ascoltano? A che serve parlare, quando le carte
sono già state servite, se la sentenza non
cambierà mai?
«Esatto, sei
mio figlio e proprio per questo, finché vivrai sotto il mio
tetto, farai come ti dico io.»
«Bene.»
Chiudo il portatile di colpo, mi alzo di scatto e comincio a
rivestirmi. Abbandono i pantaloni della tuta e la maglietta per terra.
Infilo le scarpe, indosso i jeans e il maglione.
«Che intendi
fare?» Mio padre mi guarda allibito. James Morgan non se lo
aspettava.
«Me ne
vado.» borbotto. Ho la gola secca, i muscoli tesi e la
mascella contratta. Non so cosa sto facendo, non ho più il
controllo di me stesso.
«Non puoi
andartene!» Urla? O sussurra soltanto? Non lo so.
Ho bisogno di
andarmene.
Scendo le scale di
corsa, le conto a una a una. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei,
sette, otto. Visto, mamma? Visto, papà? So contare. Non ho
bisogno di andare a scuola. Non ho bisogno di studiare.
«Kevin!»
«Dove stai
andando?»
«Fermati!»
«KEVIN!»
Mamma mi chiama, mamma
pronuncia il mio nome.
Ho bisogno di
andarmene.
Sono fuori in un
attimo. Fa freddo, non importa. Il mio stomaco brontola, ho fame. Frugo
nelle tasche, ma mi accorgo di aver lasciato il portafogli a casa.
Resisterò. Non posso tornare indietro.
Mi seguiranno? Corro.
Corro via prima ancora che riesca a dare una risposta a questa domanda.
In realtà non so nemmeno che cosa stia facendo di preciso.
Che cosa voglio dimostrare? E, soprattutto, a chi?
Il maglione non serve a
scaldarmi e i jeans sono freddi. Riesco appena a ignorare i brividi che
mi corrono lungo la spina dorsale, ma il mio orgoglio mi impedisce di
ammettere che tutto quello che ho fatto è stupido.
È la prima volta che faccio una cosa simile. I miei non se
lo aspettavano. Io non me lo aspettavo. Non sono
così, non sono il tipo che abbandona tutto e fugge senza un
vero motivo… No. No, no, no. NO. Un motivo
c’è. Un motivo c’è eccome.
Sono stanco di fare sempre come mi dicono. Non vogliono che io lavori,
malgrado abbia cercato più di una volta di convincerli a
permettermi di farlo. Si aspettano che io diventi un avvocato, o
qualsiasi altro reietto rispettabile della società. E che
perciò vada a scuola, ottenga il diploma e poi mi iscriva al
college.
«Non lo
farò mai.» Sputo per terra, e poco mi trattiene
dal scagliare un pugno contro la grata dell’officina
all’angolo. Mi trovo in un vicoletto che non conosco dove la
luce dei lampioni non arriva. Nessuno mi vede. Io non esisto.
Qualcuno ha scritto sul muretto di una staccionata “Al mondo
non c’è giustizia” e poco più
sotto, con la bomboletta rossa, “Dio è
morto”.
Dio
è morto.
Sarà vero?
Sì.
«No.»
In un primo momento non mi accorgo neanche di averlo detto. So solo
che, quando alzo lo sguardo e noto una chioma castana aggirarsi a
qualche metro da me, cancello tutto, smetto di pensare a chiunque non
sia lei.
Lei, lei che
lì, lei, lei, lei, lei.
Devo seguirla senza che
mi veda? Tornarmene a casa? Farmi avanti?
Mi avvicino furtivo e
mi sento come un ladro… o peggio. Mi convinco che lo sto
facendo per il suo bene, che l’unica cosa che mi interessa
è evitare che qualcuno le si avvicini per…
per… per molestarla. Non deve accaderle nulla di male e so
che sarà al sicuro finché non la
perderò di vista ─ non che ne abbia intenzione.
Che cosa
voglio fare? Che intendo dimostrare?
Sono un vigliacco. La
verità è che non ho il coraggio di avvicinarmi.
Potrebbe pensare male
di me, o che la stia perseguitando…
«Sei
strano.»
«L’hai
già detto.»
«Sei
davvero strano!»
«Quando
sorridi, ti si formano le fossette alle guance.»
«Ora
sei decisamente strano.»
È probabile
che l’opinione che ha di me cambierebbe in peggio.
No. Non posso farmi
vedere.
Però posso
osservarla. Dove sta andando? Indossa dei pantaloni neri, stretti,
incredibilmente e fottutamente aderenti,
così aderenti che, se fossi debole di cuore, sarei
già cascato ai suoi piedi. Di spalle non riesco a vedere che
maglietta abbia, ma non sembra avere freddo, perché si muove
con naturalezza. Non sembra affatto la secchiona che dà
l’impressione d’esser in quella foto o a scuola.
È… sexy. Come posso dirlo
se non posso neanche guardarla in faccia? Non posso neanche essere
sicuro che sia lei.
Michelle.
La lingua scivola sul palato, come la coda di un serpente.
Nonostante non si
accorga di me, non voglio rischiare. Mi fermo ogni due minuti, poi,
quando è abbastanza lontana ─ ma non troppo da scomparire
dalla ma vista ─ riprendo a camminare.
Alla fine ritorniamo
sulla strada principale. Superiamo tutti i vicoletti che delimitano la
periferia e ci inoltriamo nella parte più interna della
città. Seattle, braccata dall’Oceano Pacifico,
chiamato Puget Sound, e il lago Washington, sorge su sette colli: First
Hill, Capitol Hill, Queen Anne Hill, Beacon Hill, Denny Hill, Magnolia
e Crown Hill. Si estende su una superficie di duecentodiciassette
chilometri quadrati ed è grandissimo agglomerato urbano,
sede di una delle più importanti industrie aereonautiche
statunitensi. Mio padre lavora nei cantieri navali mentre mia madre
è operaia in un’industria alimentare e del legno.
È incredibile quanto tempo trascorrano lì,
l’uno tra il traffico portuale e l’altra in uno
stabilimento a due chilometri da casa. Non li vedo molto spesso.
Adesso siamo a Pike
Place Market. Michelle si è appena fermata davanti ad uno
Starbucks, il primo ad essere stato aperto nel 1971. Nonostante
l’ora tarda è ancora ricolmo di gente. Ma non mi
importa degli altri.
Perché
è lì? È martedì sera, e di
solito quasi nessuno della nostra età frequenta il locale
alle undici. Ci sono stato un paio di volte anche dopo la mezzanotte,
ed è risaputo che nei giorni infrasettimanali sia bazzicato
per lo più da trentenni. Solamente il venerdì
diventa il punto di incontro della maggior parte degli adolescenti.
Entra, si siede in
fondo, di fianco ai cestini della spazzatura e di spalle ai bagni
femminili. Ha la sguardo rivolto verso la vetrina, quindi potrebbe
facilmente vedermi se alzasse un po’ di più la
testa. Apre un libro di cui non riesco a leggerne il titolo e non
arriva neanche a metà pagina che un cameriere le si avvicina
per prendere le ordinazioni. Poi casualmente i suoi occhi incrociano i
miei, così, senza un motivo apparente. Come se sapesse che
la sto spiando e non ne fosse affatto sorpresa.
Mi ha guardato.
Ho paura di sembrare una ragazzina… o peggio. Un
molestatore. Uno stalker.
E adesso? Bella
domanda. Che faccio?
Scuote la testa.
Più che sorpresa sembra incredula… e divertita, molto
divertita. Le sue labbra si incurvano in un sorriso… Sta
ridendo? Di me?
Se ne
pentirà, penso. Se ne
pentirà amaramente.
Distoglie subito lo
sguardo, e inizia a parlare con il cameriere. Gesticola un
po’ ─ da lontano sembra avere le dita affusolate, da pianista
─ e il ragazzo, che avrà poco più della mia
età, più che fissarla con semplice disinteresse
pare fare apprezzamenti sul suo corpo perché i suoi occhi
cadono troppo spesso sulla scollatura. Come faccio a esserne tanto
certo? Ho il radar, io, per i brutti ceffi.
«…
e muffin al cioccolato, grazie.»
Non mi sono neanche
accorto di essere entrato. Mi preoccupo solo di incenerire il
cameriere. Probabilmente, quando tornerà con le sue
ordinazioni, le lascerà il numero di telefono e
lei… lei non ha nemmeno fatto caso al modo in cui la
guardava prima! Incredibile!
Mi scontro
volontariamente con il ragazzo continuando a camminare verso il suo
tavolo, senza voltarmi per chiedergli scusa o controllare la sua
espressione. Non mi interessa. L’importante è che
le stia lontano.
«Hai fatto
conquiste.» Come mi esca questa frase non lo so. Tutto
ciò di cui sono sicuro è che non mi sono mai
sentito tanto geloso di qualcuno. Neanche quando Puck ci prova con le
ragazze che mi interessano.
Michelle alza la testa
e lascia vagare gli occhi su di me. Se le piaccia quello che vede
è difficile da capire, perché il suo sguardo
neutrale non lascia spazio a chiarimenti. È peggio di un
cubo di rubik, questa ragazza.
«Parli del
cameriere o del ragazzo che mi spiava da fuori?»
Decisamente
sì. È molto ─ molto ─
peggio. «Touché.» Alzo le sopracciglia e
scosto la sedia per sedermi di fronte a lei, più teso di
quanto dia a vedere. Non mi perde di vista neanche un secondo, e allora
mi rendo conto che non è affatto la sprovveduta verginella
che credevo. È ancora più bella di quanto
ricordassi. Non indossa gli occhiali e i suoi occhi sono più
intensi e penetranti, ora che posso fissarla apertamente, senza il
timore che possa scoprirmi. «Aspetta… non starai
flirtando con me?»
Piega la testa di lato
e incrocia le braccia sul petto, abbandonando il libro sul tavolo.
L’ho incuriosita. L’ho incuriosita davvero.
È interessata?
«Questo non
è flirtare.»
«Ah
sì?»
«Sì.»
Sembra decisa, sicura di sé. Lo è. Mi piace.
Tanto. Troppo. L’ho già
detto? Deve essere assolutamente mia, e di nessun altro.
«Per la
cronaca,» Schiocco la lingua e la guardo con le palpebre
socchiuse dall’alto in basso proprio come farei ─ anzi, faccio
─ con qualunque altra ragazza, «a meno che tu non lo sappia
già…»
«Già
lo so.» Mi ha interrotto per stuzzicarmi?
Le lancio
un’occhiataccia. Lei finge di non farci caso. «Quel
cameriere ha intenzione di lasciarti il suo numero. Ci scommetto un
bacio che te lo nasconderà accanto alla bustina di zucchero
del caffè»
«Un bacio?»
Come mai sembra non aver ascoltato nulla di quello che ho detto? E
cos’è quel ghigno perfido che le sta nascendo
sulle labbra?
«Esatto.»
Si concede del tempo
per osservarmi in silenzio, come se stesse valutando la sua risposta.
Poi riprende l’uso di quella sua lingua incredibilmente
tagliente. «Chi ti dice che non me l’abbia
già dato?»
Sobbalzo sulla sedia.
Non può… non può…
«Non l’ha fatto. Vi ho visti tutto il tempo e non
si è mai avvicinato tanto da…»
«Mettiamo in
conto che tu abbia appena perso la scommessa.» Adesso sono
io, quello curioso. «Quel bacio lo concederesti
davvero?»
Non capisco dove voglia
arrivare. Vuole… vuole che la baci?
«Perché, vuoi prenotarti?»
«Rispondimi.»
Implacabilmente sexy.
«Sì.»
«Bene.»
Non sembra per nulla sorpresa. È come se… avesse
verificato per l’ennesima volta il successo di un esperimento
ben congeniato. Fruga nelle tasche della giacca e allunga un foglietto
spiegazzato verso di me. Otto cifre in penna blu. Il ragazzo non ha
perso tempo, a quanto pare.
La fisso negli occhi.
«Lo chiamerai?»
«Ora non ha
importanza.» Si piega sul tavolo e sorride ancora di
più. Mi chiedo se sia umana. «Hai un pegno da
pagare.»
Non lo è. Mi
stendo anch’io verso di lei, finché i nostri visi
non si trovano a qualche centimetro di distanza. Le accarezzo la
guancia, scostandole i capelli dalla spalla e schiudendo le labbra. Non
ho mai desiderato tanto qualcosa ─ qualcuno ─ come in questo momento.
È… nervosa almeno la metà di quanto lo
sono io? Non ho neanche il tempo di dare una risposta a questa domanda,
che Michelle subito si allontana da me.
Il sorriso è
ancora lì, sulla sua bocca. Vuole prendermi in giro, forse?
«Oh, ma...
non mi riferivo a me.»
Sgrano gli occhi di
scatto. «E a chi…»
«Al tuo amato
spasimante.» dice, e indica con un cenno
impercettibile della testa il cameriere che, ignaro di tutto, si sta
avvicinando al nostro tavolo con le ordinazioni di Michelle. Pensando
che non me ne accorga, mi lancia una breve occhiata di…
invidia?, e prima di allontanarsi di nuovo rivolge un ultimo sguardo
alla ragazza che mi ha appena illuso.
Scuoto febbrilmente la
testa. «Non ci sperare.» Sono incredulo. Non me lo
sarei mai aspettato. È… fantastica. E sto bene,
non mi sono mai sentito tanto meglio. Mi diverte, è ironica,
con la risposta sempre pronta. Riuscirebbe ad eccitare chiunque con i
suoi modi di fare ed è impossibile non rimanere affascinati
da lei.
Ride, e noto che ha i
denti bianchissimi e dritti. «Ci avrei scommesso che avresti
risposto così.»
Chissà come
e per quale motivo, le sue parole mi fanno ricordare una cosa.
«Che ci fai in giro a quest’ora?»
Distende le labbra in
una piega sottile, abbassando lo sguardo. Inizia a sorseggiare dalla
sua tazza di caffè e fissa il suo libro come se non lo
vedesse davvero, come se… guardasse qualcosa attraverso.
«Mi sono chiesta la stessa cosa quando ti ho visto
spiarmi.»
«Non ti stavo
spiando.» Inutile difendermi, lo so.
«Credevo
avessimo già chiarito che non sei bravo a
mentire.» Ecco.
«Rispondo
soltanto se rispondi prima tu.»
Sospira pesantemente.
Ogni traccia di divertimento è sparita dal suo volto.
«Niente di che… In realtà,
vengo… vengo spesso qui.» Ha lo sguardo basso, troppo.
«Nemmeno tu
sei brava a dire le bugie.» le faccio presente prendendole il
mento tra il pollice e l’indice e sollevandoglielo
perché possa ricambiare il mio sguardo. Ci fissiamo in
silenzio per qualche tempo, seri in viso. «Di me ti puoi
fidare.» la rassicuro, non sapendo neanche bene il
perché.
«Sai,»
Prova a sdrammatizzare, ma è tesa, inquieta,
«è la stessa cosa che dicono i traditori prima di
voltar le spalle agli altri.»
«Io non sono
un traditore e non volto le spalle a nessuno.»
Inarca un sopracciglio.
Non l’ho affatto convinta. «Nemmeno alle tue
fidanzate?»
«Non ho
nessuna fidanzata.» ribatto in tono duro. «Loro
sanno a cosa vanno incontro. Sesso è, e sesso rimane, quello
che facciamo. Io non faccio alcuna promessa.»
«Dovresti
ricordarglielo, ogni tanto.» È gelosa?
«Perché,
ti dà fastidio?»
«Affatto…»
«Be’,
in ogni caso non hai ancora risposto.»
Ci riflette su,
nascondendosi la faccia tra i capelli. Sembra imbarazzata, molto
più che tesa, adesso. Ha la mascella contratta, gli occhi
grigio-verdi implacabili e seducenti, le labbra strette in una linea
sottile. Osservo il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del suo
respiro, cercando di imitare il battito del suo cuore.
«Ho,»
Si stropiccia le guance con le mani, «ho litigato con i
miei.»
«E
perché mai?»
«Non
è… non è tanto semplice da spiegare;
è complicato.» Mi guarda in un modo che non riesco
a comprendere. Si sente incompresa, si sente in qualche
modo… sola? Diversa?
«Se ti fa
sentire meglio, anche io ho litigato con i miei genitori.»
L’ho detto. Ecco. Bene. Non mi piace
parlare della mia famiglia, ed è per questa ragione che
evito sempre l’argomento con chiunque. Non li nomino neppure.
Ma con lei, con una ragazza che conosco appena, l’ho appena
fatto.
«Non mi fa
sentire meglio, ma… ti ringrazio.» Sembra sincera.
E la mia espressione
non riflette altro che stupore. «Per cosa?»
«Mi
hai… fatto sentire bene… per qualche
minuto.» Aspetto la bleffa, una bleffa che non arriva.
«Perciò grazie per avermi pedinata.»
Sorride, ed io ricambio istintivamente.
«Non ti ho
pedinata… non subito almeno.»
Si porta la tazza alle
labbra e dà un ultimo sorso al suo caffè. Quando
l’abbassa all’altezza dello stomaco, mi accorgo che
le è rimasto uno sbaffo all’angolo della bocca, e
la mia gola diventa secca.
«Ciò
non toglie che tu l’abbia fatto.»
La fisso
insistentemente ed avvicino una mano al suo viso. Mi guarda senza
capire, e allora la rassicuro con un sorriso dolce
e scherzoso, strofinandole il pollice sulle labbra.
«Caffè», spiego, per giustificarmi. Poi
mi alzo, allungando una mano verso di lei.
«Che
c’è?» È ora di andare, e sono
certo che lo sappia già, nonostante l’abbia
chiesto.
«Vieni, ti
accompagno a casa.»
Mi arrampico sulla
finestra e manometto la finestra per entrare.
Ho appena lasciato
Michelle a casa e, sebbene non avessi alcuna voglia di ritornare, la
stanchezza ha incominciato a farsi sentire. Avrei potuto gironzolare
per strada ancora un po’ ma le chiamate perse sul cellulare
mi hanno ricordato che i miei genitori mi stanno aspettando.
Non so davvero che cosa
mi abbia preso ma… l’idea di rivederli,
di… di bussare alla porta di casa e ritrovarmi a faccia a
faccia con loro mi…
Disgusta,
non so scegliere termine migliore. Sono scappato, ho reagito come
avrebbe fatto un bambino ─ non un uomo, me ne rendo conto. Eppure, non
riesco a pentirmi. Sono troppo egoista per farlo.
Decido di lasciar
perdere. Mi svesto, indosso una canotta e i pantaloni della tuta che
avevo indosso prima di scattare in piedi dalla rabbia.
Il computer
è ancora come l’ho lasciato. Lo riavvio e mi
ricordo della ricerca che ho fatto su Michelle. Avrei dovuto chiederle
spiegazioni, invece me ne sono completamente dimenticato. Digito la
password e…
Impossibile
visualizzare la pagina.
«Com’è
possibile?»
Sbuffo, imprecando
contro la connessione a internet, e apro un’altra finestra di
Google. Genio. Thompson. Pagina 2. Clicco,
clicco, clicco.
Impossibile
visualizzare la pagina.
Ed è
fulmineo, improvviso. Come un lampo. Il display si oscura. Poi si
riaccende. Un occhio umano mi fissa dall’altro lato dello
schermo.
«Ma
cosa… ?»
Tutto scompare. Tutto
diventa immobile.
Impossibile
visualizzare la pagina.
Note
d’autore:
Ho letto questo
capitolo così tante volte che mi sanguinano gli occhi (y).
Che bella prospettiva, eh? Parlando dei personaggi e di ciò
che è successo: non vi preoccupate se non ci avete capito
nulla, ogni cosa a suo tempo; troverete le spiegazioni che vi servono.
C’è un motivo, se Kevin si è comportato
in questo modo… un motivo che non ha (quasi) niente a che
fare con il suo sogno di diventare attore. Per quanto riguarda
Michelle… quella ragazza è un enigma perfino per
me, e proprio come voi anche io devo ancora capire cosa le passa per la
mente. Kevin è più prevedibile, in un certo senso
sono io a “muoverlo”. Lei invece… mi
ricorda Effie di Skins, e proprio per questo,
più che per la sua somiglianza fisica con
l’attrice, ho scelto Kaya Scodelario come suo prestavolto.
Per quanto riguarda Kevin, sono andata più “a
caso”: Jeremy Irvine mi ha conquistata, ha il suo stesso
sguardo, punto e basta, e io lo amo (y). Ovviamente potete immaginarli
diversamente… e in realtà sono curiosa di sapere
quale attore/modello avreste associato a loro.
Detto questo, vi lascio.
Ringrazio tutti coloro
che hanno letto e, in particolare, chi ha anche recensito. Non mi
aspettavo così tanti commenti (mettendo in conto che sono
anche una nuova iscritta).
Per contattarmi o
altro, ecco i link: Facebook e Ask.
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Capitolo 4 *** Terzo capitolo ***
T e r z o
c a p i t o l o
Una ragazza
è seduta sulle mie gambe e io non reagisco minimamente. Non
so bene come ci sia finita lì, né cosa stia
dicendo in questo momento. So solo che io sono io, e che
l’aria che respiro è molto più
importante di lei e delle sue chiacchiere insulse. Vorrei dirle di
togliersi, di andare a cercarsi qualcun altro con cui parlare; magari
Puck, che per tutto il tempo le ha osservato le gambe, o quello zerbino
di Finnegan, che con quei suoi occhialetti appannati e rotondi ci vede
più di quanto dice.
«Kevin… mi stai ascoltando?» Spiegatemi
come si possa prendere sul serio una bionda ossigenata, con le
guancette rosa, le ciglia finte lunghissime e il trucco perfetto e non
lasciarsi totalmente sopraffare dalla noia.
«Sì, Ashley.» Ecco. E magari rimanerne
illesi. Se fingerò di essere interessato a lei,
forse Puck interverrà, penso. E nel frattempo
cerco di dare una spiegazione logica a tutto quello che mi è
successo la notte scorsa.
«Io mi chiamo Amber!» dice offesa, assottigliando
considerevolmente quei suoi occhi grandi come botti. Bene, così
va meglio. A furia di sgranarli tanto deve esserle venuto il mal di
testa.
«Fa lo stesso.» dico, o qualcos’altro che
non ricordo.
Il problema è un altro.
Impossibile ricaricare la pagina.
Ho un paio di teorie ma nessuna si avvicina minimamente alla
verità. Che si sia trattato di un semplicissimo problema di
connessione, o che il sito sia stato oscurato potrebbe essere una
motivazione più che sufficiente a giustificare
ciò che accaduto. Eppure io so che niente è
così evidente come sembra e che più di quel che
penso si nasconda dietro a queste sottospecie di spiegazioni infondate.
Quell’occhio. Quell’occhio umano, grande, e
così vivo, non stava affatto fissando qualcuno
dall’altro lato dello schermo. Stava fissando me.
E, sebbene si sia trattato di un momento così breve da
essere a stento percettibile, quello sguardo e la consapevolezza che
fosse rivolto esclusivamente a me mi hanno impedito di dormire tutta la
notte.
Non ho chiuso occhio, e la stanchezza è un marchio talmente
incavato nel mio corpo che stamattina non ho avuto neanche il coraggio
di guardarmi allo specchio. Mi sono direttamente trascinato dal letto
fino a scuola, senza trovare la forza necessaria per affrontare i miei
genitori. So bene, più di quanto riesca ad ammettere a me
stesso, di essermi comportato male nei loro confronti e che non
meritano, né tanto meno meritavano, il trattamento che gli
ho riservato, ma ho paura ─ una fottuta paura ─
di ricevere ancora una volta l’ennesimo rifiuto. Non
accettano i miei sogni, li minimizzano come se non fossero affatto
importanti, come se fossero… subordinati
ai loro. E la scottatura è ancora fresca, brucia ancora
sulla mia pelle…
La campanella suona: le lezioni stanno per cominciare. Il professore di
letteratura, Hayden Washington, è sull’uscio della
porta e continua a discutere animatamente, con un altro docente, sui
preparativi della festa che il comitato scolastico ha in mente di
organizzare in occasione della parata annuale di Santa Claus, in cui
l’intera città si riunisce e guarda sfilare carri
dalle rifiniture rosse e verdi e una grande orchestra accompagna il
coro della parrocchia. Nessuno manca mai di andarci, è la
ricorrenza preferita di adulti e bambini; così i cittadini
affollano le strade, sfoggiando capelli da Babbo Natale e scarponi da
montagna. Ci sono perfino dei tizi che hanno il coraggio di indossare
barbe bianche, lunghe e folte ─ come se già non fossero
abbastanza ridicoli.
«Tu ci andrai?» Ashley inizia a stropicciarmi i
capelli, muovendosi irrequieta sulle mie gambe e facendomi venir voglia
di scaraventarla a terra come se fosse un sacco di patate. Non sopporto
proprio più di sentirla parlare, la sua voce irritante mi
perfora il cervello.
«No.» La guardo per la prima volta in tutta la
giornata, sollevando un sopracciglio e fissandola in modo eloquente.
Sembra finalmente capire, ricambia il mio sguardo, ferita, e poi si
alza di scatto e se ne va, sculettando verso il suo gruppo di amiche.
So che mi stanno guardando senza nemmeno voltarmi a verificare, e che
ora non faranno altro che elencare una serie di improperi su di me solo
per farla contenta. So anche che ognuna di loro, nella propria mente,
starà gioendo della situazione nell’assurda
convinzione di avere una possibilità in più di
essere la candidata perfetta per essere la mia fidanzata. Che stupide.
Non hanno idea di come siano fatti davvero i
maschi. Noi non amiamo, e di sicuro un po’ di trucco e
reggiseni imbottiti non potrebbero mai convincerci del contrario.
Possono addirittura fingersi delle verginelle acide e anticonformiste ─
so che vanno di moda nell’ultimo periodo: mentiremo, faremo
finta di essere perdutamente innamorati di loro, solo per illuderle che
di noi si possono fidare e per costringerle ad abbassare la guardia.
D’accordo, è da bastardi, questo è vero.
Ma loro non sono poi così tanto diverse.
«Ci sei andato giù pesante con lei,
amico.» Puck mi dà una pacca sulla spalla,
sghignazzando insieme a Robert. Giocano insieme nella squadra di
football e sono così tonti che credono a qualsiasi cosa io
dica.
Una volta ho detto loro di essermi portato a letto... Mallory
Williams? Non ricordo il nome… Sto parlando della
presidentessa del comitato scolastico e capitano della squadra delle
cheerleader. Ad ogni modo, entrambi ci hanno creduto, nonostante ─ da
quel che io sappia ─ Mallory sia ancora vergine. Non che non ci abbia
provato, ma lei prima di farlo mi ha confessato, in preda al terrore,
di essersi innamorata di Puck e aver fatto finta di essere interessata
a me soltanto per farlo ingelosire. Inutile dire che, sebbene mi abbia
pregato di dire di averlo fatto e di tacere che fosse vergine, Puck non
ha reagito affatto come sperava alla notizia.
Gli lancio un’occhiataccia. «Avrei voluto veder te
al mio posto.» borbotto. «Non ha fatto altro che
parlare, e parlare, e parlare, e parlare.»
«Sarei stato perfino disposto a sentirla stonare Walking
On Sunshine di Katrina & The Waves pur di tenermela
sulle gambe.» Ridacchia, dandosi di gomito con Robert.
«E poi non puoi affatto negare che abbia delle cosce
stupende.»
«Oh, sì.» dico, senza preoccuparmi di
nascondere il sarcasmo. «Perché è a quelle
che penseresti se avessi in braccio una ragazza.»
«Wow!» esclama Robert. «Allora non puoi
dire di non averci per nulla pensato!» E lui e Puck
continuano a ridere come matti.
«Piantatela!» Spingo entrambi via dal mio banco.
Ostruiscono tutto il mio campo visivo, impedendomi di tener
d’occhio la porta. Michelle è in ritardo, non
è ancora arrivata ─ cosa alquanto strana per i suoi
standard, visto che da quando è iscritta qui non ha fatto
nemmeno un’assenza (almeno per quanto riguarda i corsi che
abbiamo in comune) ─ ed è sempre più difficile
impedire a quelle oche sghignazzanti di sedersi accanto a me.
«Che ci fai al primo banco?» Puck ci si appoggia
contro, incrociando le braccia al petto. «Tu odi stare
davanti, insieme ai secchioni.»
«Non dirci che hai intenzione di studiare.» mi
prende in giro Robert, senza neanche lasciarmi il tempo di rispondere.
Stringo la mascella. Non mi piace quel tono insinuatore. «E
se anche fosse?»
«Uh-uh.» commenta Puck, increspando le labbra in un
ghigno derisorio. Robert rimane semplicemente zitto. Deve aver capito
che oggi non sono affatto di buon umore. «Giornataccia,
eh?» Borbotto qualcosa di incomprensibile perfino a me
stesso; voglio soltanto che le lezioni inizino e stare accanto a
Michelle, senza Puck, Robert e Ashley-barra-Amber tra i piedi. E se
è malata? Se le è successo qualcosa? Sbuffo, sto
seriamente cominciando a diventare paranoico. «Si
può sapere chi ti ha tenuto sveglio?»
«Nessuno mi ha…» Uno soffio. Un respiro
appena percettibile accanto a me. Volto lentamente la testa, sgrano gli
occhi e… «tenuto sveglio.»
Prima che abbia la possibilità dirle qualcosa, il professor
Washington entra in classe camminando a grandi passi verso la cattedra.
I suoi mocassini di cuoio battono con forza sul pavimento e in men che
non si dica Puck e Robert si dileguano. Ognuno va a sedersi al proprio
posto.
È strano, e anche imbarazzante, ma ora, senza i miei amici a
coprirmi le spalle, mi sento indifeso, in balia di Michelle, minuta e
fragile, come se lei potesse farmi in qualche modo del male. Non so
spiegarlo, ma in sua compagnia tutto cambia radicalmente. La mia
sicurezza e la mia spavalderia… minuscoli granelli di
polvere spazzati via dal vento. Ed il pensiero che abbia ascoltato gli
ultimi sprazzi della mia pseudo-conversazione con Puck e Robert mi fa
trasalire all'improvviso. Non voglio che pensi che la ragione della mia
insonnia sia stata lei perché renderebbe le cose ancora
più complicate di quanto già sono. Mi sentirei
umiliato, messo a nudo, come se non lo fossi già abbastanza,
e… cazzo! Nessuna ragazza è stata mai in grado di
esercitare tanta attrattiva su di me, né è mai
riuscita a rendermi tanto vulnerabile.
«Signor Morgan, io e i suoi compagni saremmo davvero lieti di
ricevere la sua attenzione, per favore.» La voce di
Washington mi fa sobbalzare sulla sedia. Michelle trattiene il fiato
accanto a me. Sembra quasi che il professore abbia colto lei in fallo,
e non me.
«Mi scusi.» Abbasso lo sguardo sul banco, mi torco
le mani e attendo la solita ramanzina. Che non arriva.
«Mi fa piacere che abbia deciso di unirsi a noi.»
Il suo tono sarcastico, lo devo ammettere, è molto meno
irritante di quello di Jefferson. Se il mio simpaticissimo professore
di matematica avrebbe sfruttato la mia distrazione per elencare
un’ulteriore serie di improperi su di me, Washington sembra
soltanto divertito dal mio comportamento; divertito e curioso, anche,
come se fossi un complesso sillogismo da comprendere. «E mi
allieta,» aggiunge, «che si sia seduto accanto alla
signorina Thompson. Un bel passo avanti, direi.» Qualcuno
ride alle mie spalle, probabilmente Robert o Puck, o chissà
chi altro. Non mi interessa. Michelle continua a trattenere il fiato.
«Deve solo migliorare la sua capacità di
attenzione, ma ognuno ha i suoi tempi.» Scrolla le spalle, e
cammina avanti e indietro, con la schiena ritta e composta.
Avrà la sua età, ma è
l’unico insegnante che sia riuscito a farmi piacere. E le sue
lezioni non annoiano. Quando voglio riesco perfino ad ascoltarlo con
curiosità.
«Sì, signore.»
«Capitano.» mi corregge con un
sorriso. «Capitano, soldato.»
La classe intera ride. Michelle ride. E io la guardo. È
bella di profilo, ma voglio guardarla direttamente negli occhi.
«E mi dica, signor Morgan.» Rizzo le orecchie come
un cane e ascolto. «Oggi mi sento abbastanza generoso,
perciò ho intenzione di premiarla con una B se risponde a
una mia domanda.»
Incurvo le labbra in un ghigno, e decido di stare al gioco. Allungo
automaticamente le gambe e inclino la schiena, poggiandomi sulla
spalliera della sedia. «Avanti,
l’ascolto.» Jefferson mi avrebbe già
mandato in presidenza se mi fossi rivolto così a lui, ma
Washington non sembra affatto badare al mio tono, come se non fossi
altro che un suo nipote.
«”Due strade divergevano in un bosco,»
comincia a recitare, «ed io ─
io presi quella meno battuta, e di qui tutta la differenza è
venuta.” Chi è l’autore di
questo verso e a quale poesia appartiene?» Il suo sguardo
preme con insistenza su di me.
«Non vale, aveva detto una
domanda...» Ma anche lui sa che conosco la risposta.
«Glielo concedo.» dice. «Una B+
allora.»
Michelle mi sta fissando. Mi volto verso di lei e non distolgo gli
occhi dai suoi neanche per un istante. Cosa si aspetta da me? Pensa che
sbaglierò? «Robert Frost, La strada non
presa.»
«Bene.» Washington sorride. Se lo aspettava.
Michelle no. Michelle è sorpresa. Forse adesso
comincerà a vedermi sotto una luce diversa? «Molto
bene.»
Sposto la mia attenzione sul professore. È compiaciuto, ha
un sorriso soddisfatto, come se il merito fosse suo. Non è
presunzione, la sua; è solo la reazione di un insegnante
particolarmente contento del fatto che un suo alunno si sia avvicinato,
anche soltanto di un piccolo passo, alla sua materia. E se
c’è una persona da ringraziare, quella
è mia madre. Ha un’intera raccolta di poesie di
Frost, tutte prime edizioni, e ricordo che prima di addormentarmi me le
leggeva da piccolo. Finissimo anche senza uno spicciolo, non se ne
separerebbe mai, credo. Robert Frost è l’unico
intermediario tra lei e suo padre, l’unica cosa che la
avvicini almeno un po’ a lui.
«Non pensa che una B+ sia troppo poco? In fondo, è
la prima volta in tutto l’anno che rispondo a una sua
domanda.»
Washington incurva le labbra rugose in un sorriso. «Oh, mi
creda, signor Morgan, è più che
sufficiente.»
«Ne è davvero sicuro?»
«Convintissimo è dir poco.» Lancia una
breve occhiata a Michelle, e perciò lo imito anche io, come
se fosse la cosa più naturale del mondo. Ha i capelli
raccolti in una crocchia, gli occhiali inforcati sul naso e, nonostante
ciò, è… meravigliosa. Washington mi
richiama all’ordine. «Quella B+ è
l’unica garanzia che ho che ce ne saranno, di prossime volte,
in cui risponderà alle mie domande.»
La lezione finisce. Il professore mi lascia in sospeso con quella
frase. E il pensiero che si fidi di me mi fa sentire bene, mi convince
quasi che potrei passare la sua materia senza dover essere rimandato
per la quarta volta di seguito.
«Complimenti.» Una voce che riconoscerei fra mille
mi fa sobbalzare. «Sei il primo che sia riuscito a
stupirmi.»
Mi volto lentamente. Vorrei tanto scioglierle quella crocchia
disordinata. Con i capelli sciolti sta molto meglio, ma decido ─ con
non poca difficoltà ─ di trattenere i miei impulsi. Michelle
è come i cavalli; bisogna avere pazienza con loro, camminare
con i piedi di piombo, andarci cauti.
«Dovresti avere un po’ più di fiducia in
me, sai? Come Washington.»
«Ho imparato a diffidare dei miei nemici.»
Accompagna quelle parole con un sorriso beffardo. È sicura,
determinata, si comporta come se mi conoscesse, come se sapesse come
comportarsi con me. E vorrei tanto sapere come faccia ad essere
così… così…
«Io non sono un tuo nemico.»
Siamo soli. Esattamente come la prima volta. Forse Puck e Robert mi
hanno salutato ed io non me ne sono accorto. Questa volta
c’è una sola differenza: sono io a portarle i
libri ─ sono pesanti, accidenti ─ e, a giudicare dalla sua espressione,
è di nuovo meravigliata dal mio comportamento.
«Tutto ciò che è a noi ignoto lo
è, Morgan.»
Chissà come bacia…
E’ così impudente anche a letto?
«Mi chiamo Kevin.»
«Morgan.» mi corregge annuendo con vigore, ed io
non ho la forza di contraddirla. «Kevin Cristopher
Morgan.»
Adesso sono io quello attonito, completamente attonito.
«Come sai il mio nome completo?»
Scrolla le spalle, e allunga le mani verso di me per togliermi i suoi
libri dalle mani. Non mi frega più, ora; avvolgo le dita
attorno ai suoi polsi e stringo forte, ma senza farle troppo del male.
È la prima volta che la tocco e confesso di non averci
granché pensato, prima. Ero più curioso di
conoscere la sua mente, che il suo corpo, e adesso che è
tanto vicino mi preme di più sapere come sia fatto il
secondo. Ha le mani bianchissime, e non so se per il resto il suo
colorito sia più roseo, perché la camicetta che
indossa nasconde ogni porzione di pelle disponibile. Le sue guance sono
costellate, qua e là, da piccole lentiggini che rendono il
suo viso ancora più grazioso e irriverente. La
curiosità mi assale: le ha… dappertutto,
o solo lì?
«Se te lo dicessi,» Respira più
affannosamente, ora, «dove starebbe il
divertimento?» Il suo profumo è inebriante. Sa
di… mele? Qualcosa di fruttato.
«Tu nascondi qualcosa.» Non so perché
l’ho detto ma ormai non posso più tirarmi
indietro. Michelle sgrana gli occhi e arrossisce. Non è
imbarazzata dalla mia vicinanza, anche se l’avrei tanto
voluto che fosse così. Al contrario, sembra agitata, presa
in contropiede e… arrabbiata. Non le piace perdere il
controllo della situazione e sa che con me non avrà sempre
la meglio. «E non sei affatto ciò che vuoi far
credere a tutti di essere.»
Alza il mento, fiera. «Cosa sarei, allora?»
«Non lo so.» dico. La lascio andare; è
sempre più sorpresa. Non pensava che sarei stato il primo ad
allontanarmi. E prima di voltarmi e andarmene, la guardo fisso negli
occhi. «Ma ho intenzione di scoprirlo.»
Due minuti dopo, sto attraversando i corridoi della scuola per andare
in mensa. Robert, Puck e gli altri della squadra di football mi stanno
aspettando, nonostante non abbia alcuna voglia di stare con loro, tanto
meno di mangiare quella poltiglia schifosa che ogni giorno ci servono
le bidelle.
Il cellulare mi vibra in tasca all’improvviso. Il display
è illuminato. Un nuovo messaggio. Numero: sconosciuto.
Inarco un sopracciglio, e aggrotto la fronte. Lo apro, ignaro di tutto.
Poi trattengo il fiato in gola, e lì rimane.
Tutto scompare. Tutto diventa immobile.
Ti guardo.
Note d’autore:
Ci sono tante cose che vorrei dire adesso, ma non ho davvero le parole
adatte all’occasione. Prima di passare alla
“spiegazione” del capitolo, vorrei ringraziare
tutti coloro che hanno letto i precedenti e, soprattutto, tutte quelle
gentilissime ragazze che li hanno recensiti! So bene che la
“crisi” si è estesa anche qui per quanto
riguarda i commenti, ma non avevo affatto idea, e lo dirò
fino all’ultimo, che DC piacesse tanto. Perciò,
davvero, rinnovo tutti i miei ringraziamenti, dal primo
all’ultimo.
Ora passiamo alla storia. Kevin, Amber, Puck, Robert, Washington,
Michelle. Questi sono soltanto un quarto di tutto il
“cast”, perché nel corso della storia
avrete modo di conoscerne tanti altri, molto più importanti
di quelli sopracitati (esclusi i due protagonisti). Ce
n’è uno, però, sul quale mi preme molto
dovervi qualche informazione: Hayden Washington. L’idea era
quella di descrivere un anonimo professore, così come
Jefferson; un professore che non sarebbe stato affatto determinante sui
miei protagonisti, né tanto meno su tutta la trama. Ma poi
ieri sera ho visto per l’ennesima volta L’attimo
fuggente e il mio professore di letteratura ha assunto un
nuovo volto, quello di Robbie Williams nel ruolo di Keating. E avrei
mai potuto dare al mio “old” attore preferito una
parte di così poco rilievo? No, mi sono detta, e tutto
è cambiato. Perciò aspettatevi di rileggerlo
ancora, perché non è finita qua. Per la scena che
ho descritto in questo capitolo mi sono ispirata molto a quella del
film, proprio per ricalcarlo ─ spero di esserci riuscita ─ nella vostra
memoria, così come è ricalcato nella mia. Il
resto è soltanto un “ponte” a
ciò che accadrà nel quarto, necessario per lo
sviluppo della trama, e infatti come avete visto non succede nulla di
rilevante. I soliti battibecchi tra Kevin e Michelle, in cui emergono
particolari indizi su di lei, e poi… quel messaggio. Di chi
sarà mai? Di certo la cosa è inquietante. Avete
qualche supposizioni? Sono davvero curiosa di conoscerle…
Adesso vado a rispondere alle vostre recensioni (mi scuso per il
ritardo), sperando di riceverne ancora, perché mi spronano
più di quanto crediate ad andare avanti.
Un’ultima cosa: avevo intenzione di creare un gruppo
Facebook nel quale pubblicare spoiler, foto e
aggiornamenti vari, ma anche per avvisarvi di un ritardo e/o
cos’altro, ma non sapendo cosa fare mi rivolgo a voi: vi
iscrivereste se lo creassi?
Per contattarmi o
altro, ecco i link: Facebook e Ask.
Altra Originale in corso: Amores.
One-Shot: Troverò una cura.
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Capitolo 5 *** Quarto capitolo ***
Q u a r t o
c a
p i t o l o
Io e i miei genitori
abitiamo in un piccolo appartamento sulla settima strada a First Hill,
uno dei più grandi quartieri di Seattle, poco lontano dalla
Saint Vincent Cathedral1, che si trova sulla 300
4th Avenue.
È una parrocchia della Chiesa Cattolica Romana edificata in
onore di St. Vincent The Shepherd2, un pastore
anglicano che dopo essere emigrato qui negli Stati Uniti da Londra, in
Inghilterra, si convertì al cattolicesimo e divenne uno
maggiori sostenitori della sua nuova religione.
Mia nonna aveva due anni quando fu costruita, nel lontano 1908, sotto
il vescovato di Edward O’Dea, ma la basilica fu designata
come uno dei punti di riferimento più importanti della
città soltanto nel 1987.
È una cattedrale a tre navate, composta da una serie di
archi a sesto acuto rivestiti con lo stesso travertino che ricorre
nelle membrature di tutto l’interno, che collegano quelle
laterali alla navata centrale, di larghezza doppia rispetto alle altre
due. L’altare è rialzato di tre gradini
concentrici che assediano una zona ellissoidale parzialmente circondata
da una diade di colonne che confluiscono nelle due navate laterali. Si
rifà essenzialmente allo stile architettonico del
Neo-Rinascimento, a eccezione delle vetrate colorate che adornano la
grande cupola sovrastante l’altare, che rimandano ad una
vecchia matrice gotica3.
Adesso ci troviamo davanti al piccolo porticato e aspettiamo che i
fedeli si riuniscano in massa, prima di entrare effettivamente in
chiesa per la messa domenicale.
Mamma ha insistito tanto perché indossassi lo smoking di
papà, poiché, a suo parere, jeans e t-shirt non
sono affatto appropriati, per un evento del genere. Mancano sette
giorni a Natale e, come ogni anno, il parroco legge il suo
interminabile sermone sulla nascita di Cristo ai credenti esattamente
una settimana prima. Ma non riesco proprio a sentirmi a mio agio
vestito così, con le cuciture che tirano troppo a causa
della mia stazza longilinea. Papà è appena un
po’ più basso e magro di me e perciò,
mentre lui ci affogherebbe qui dentro, io sento, e sono del tutto
certo, che da un momento all’altro potrei strapparmi i
vestiti proprio come l’Incredibile Hulk.
E queste scarpe, questi ridicoli mocassini di cuoio, mi stanno
letteralmente uccidendo i piedi. Potrei arrossire, ho i capelli castani
schiacciati in testa per colpa del gel, ma ho il terrore che il sudore
possa farmi aderire ancor di più i vestiti al corpo, e non
ho proprio voglia di dovermi sistemare davanti agli altri. E poi,
ammettiamolo, io non sono affatto un fedele; non che non creda in Dio
però ho altro di meglio da fare in questo momento, che
partecipare ad una messa di cui non ascolterò una singola
parola. Non sono come i miei genitori, di origini italiane e quindi
profondamente cattolici, trovo stupido e inutile riunirmi insieme a
tante altre persone per pregare solamente quando mi fa comodo.
Scommetto che la maggior parte di loro non starebbe qui se non avesse
alcun problema.
Anche Puck e Robert sembrano pensarla come me. Ci siamo salutati da
lontano, con un piccolo cenno del capo, e probabilmente mi sarei anche
avvicinato se ne avessi avuto voglia. Anzi, mi sarei avvicinato a
prescindere solo per togliermi i miei genitori dai piedi e non doverli
stare a sentire tutto il tempo su quanto abbiano restaurato bene la
zona absidale che anni prima è andata in fiamme. Ma oggi ho
deciso di restare con loro, anche se ciò significa dovermi
preoccupare di borbottare qualche assenso di tanto in tanto
perché siano sicuri che li sto ascoltando. Mi sento ancora
in colpa per come mi sono comportato, ma non ho avuto proprio il
coraggio di scusarmi per quello che è successo. I miei
fingono che non sia accaduto nulla, soltanto per non dover affrontare
la realtà che ogni giorno cerchiamo ─ e riusciamo egregiamente,
aggiungerei, ad evitare. Pensano che io possa, in qualche modo, colmare
il vuoto che lui ha lasciato nei loro cuori,
pensano di poterlo sostituire e rendermi la persona che non
è mai potuto diventare. Ma si sbagliano. Io sono Kevin.
Kevin Christopher Morgan, aspirante attore, e questo non possono
cambiarlo.
Il rintocco delle campane mi fa sussultare. È ora di entrare.
Due ore di agonia, e poi potrò tornarmene a casa.
«Tesoro, andiamo!» Mamma mi fa un cenno, un
minuscolo sorriso le aleggia sulle labbra, e si stringe maggiormente al
braccio di papà. Tutti e due vestono eleganti, tutti e due
nascondono la tristezza che provano molto più di quanto
possa mai fare io. Mi guardano con affetto, proprio come l’ultima
volta. E, per un momento, ho otto anni, sono il bambino
più spensierato del mondo e li guardo allontanarsi sempre di
più mentre le mie gambe restano ancora incollate ai piedi
della scalinata. So che non c’è bisogno di
spaventarsi, lui è insieme a me, lui mi protegge. Sento
qualcuno stringermi la spalla, mi volto, cerco i suoi occhi
grigio-azzurri, certo di trovarvi la sicurezza che mi manca, sono
uguali ai miei e…
Un gemito. Una voce femminile che fende l’aria come se
volesse aggrapparsi a qualcosa che non c’è. E poi
delle mani, mani delicate, bianche, appena tinteggiate da deliziose
lentiggini. Si stringono alla mia giacca in un gesto involontario, nel
loro impeto potrebbero strappare le cuciture, ma non mi importa. Con un
semplice tocco strimpellano le corde del mio cuore ancor più
di quanto uno spillo possa penetrare nella mia carne.
«Mi scusi!» esclama, ed io mi do automaticamente
dello stupido perché vorrei ringraziarla.
Michelle Thompson mi è caduta tra le braccia e io non potrei
chiedere di meglio. È come un miracolo che si avvera, che
riposa sul palmo della mia mano, è come se io sapessi che
stava per cadere e mi fossi voltato apposta per impedirlo. Ma so che
non è affatto così. Altrimenti non sarei tanto
stupito di vederla.
«Ciao.» sussurro, e lei alza di scatto la testa per
guardarmi.
Sono già stato qui. E non qui, in
bilico su questo gradino, dal quale potremmo cadere entrambi da un
momento all’altro se non la smettiamo di brancolare
l’uno tra le braccia dell’altra. Sono
già stato qui, insieme a lei,
così, Michelle stretta al mio corpo e il suo alito a
solleticarmi la guancia.
Solo che non so spiegarlo.
«Kevin.» Le sue labbra formano il mio nome ma la
sua voce non arriva alle mie orecchie. Una parola. Cinque lettere. I
denti che si impennano sulla “V” e la lingua che
scivola alla fine sul palato. Kevin. K-E-V-I-N. Soffia come il vento,
un solo respiro.
«Kevin? Entri o no?» Papà parla, non
è me che chiama.
E poi Michelle si allontana ed il mio cuore torna a battere a ritmo
regolare.
«Chi è la tua amica? Ce la presenti?»
Mamma mi fa tornare alla realtà. Stanno parlando di lei.
Stanno parlando di noi. Come devo rispondere? Lo
è?
«Dovresti avere un po’ più di
fiducia in me, sai? Come Washington.»
«Ho imparato a diffidare dei miei
nemici.»
«Io non sono un tuo nemico.»
«Tutto ciò che è a noi ignoto
lo è, Morgan.»
Michelle parla al posto mio. Io la guardo, la fisso dritto in volto,
non riesco a pronunciare neanche una sillaba. Sto sudando, ma non
è per colpa dei vestiti troppo stretti. Mi sento in
imbarazzo, ho perso ogni capacità cognitiva, il ragazzo che
sono sempre stato non c’è più. Un
tornado ha spazzato via tutta la mia sicurezza, tutta la mia
spavalderia, ora non sono altro che resti di me stesso.
«Sei qui tutta sola? Dove sono i tuoi genitori?»
Mamma la guarda, ho capito subito che Michelle le piace, anche se non
ho affatto ascoltato la loro conversazione. Le piace, l’ho
capito da come ogni tanto i suoi occhi scivolino su di me. Forse vuole
capire cosa c’è tra noi… Come
se fosse facile, penso con sarcasmo.
Non sono riuscito a capirlo neanche io.
«Ehm,» Lei si guarda intorno, sembra quasi che si
aspetti di vederli comparire alle sue spalle da un momento
all’altro, si muove nervosamente sul posto accanto a me e io
vorrei stringerla senza un perché, un gesto naturale che non
ha alcuna spiegazione, «sì. Loro… loro
sono rimasti a Vancouver per lavoro. Dovevano tornare a casa ieri sera
ma non credo potranno essere presenti oggi.»
Mamma storce la bocca e non ho bisogno di leggerle nella mente per
sapere a cosa stia pensando. Michelle potrà averle fatto
anche una buona impressione, ma resterà sempre del parere
che adulti che lavorano anche la domenica non siano affatto degni della
sua simpatia. I miei sprecheranno la maggior parte del loro tempo a
lavorare, ma per loro l’ultimo giorno della settimana
è sacro. E sacro deve rimanere.
«Perché non ti siedi accanto a noi?» le
domanda sorridendole. «Kevin sarà davvero felice
di farti compagnia.»
Mamma non sbaglia. Perlomeno la sua presenza mi distrarrà
dai miei cattivi pensieri. Non voglio più ricordare,
preferirei dimenticarmi di lui pur di non essere costretto a provare
tutto questo dolore. E sento che Michelle è
l’unica che possa aiutarmi a non pensarci.
Entriamo in chiesa, la messa è già cominciata, i
posti sono quasi tutti occupati. Girovaghiamo alla ricerca di una panca
libera, attraversiamo la navata centrale e poi ci inoltriamo in quella
di sinistra. Alla fine, troviamo una fila vuota da dove, tuttavia, si
intravede poco e nulla dell’altare, ci sediamo e ognuno finge
di ascoltare. O forse loro ascoltano davvero, non saprei dirlo,
perché la mia testa, invece, è da
tutt’altra parte. So soltanto che Michelle è
accanto a me, che la sua anca destra è completamente
attaccata al mio fianco sinistro e che il mio respiro è un
riflesso del suo. È agitata quanto me? Reagisce al mio tocco
o non ci fa neppure caso? Se la situazione fosse diversa,
l’avrei già assalita, lì, su quella
panca, e l’avrei baciata in tutti i modi e le concezioni
possibili, con tutte le labbra possibili, solo
per trovare quelle che più combacino alle sue e affondino
meglio nella pienezza della sua bocca.
Contieniti, penso. Ti trovi in un luogo
sacro. Non puoi fare certi pensieri su di lei.
Eppure, non posso proprio trattenermi. Quel vestitino, nonostante sia
fin troppo coprente per i miei gusti, riesce comunque a mettere in
evidenza le rotondità del suo seno. E… e non
posso non confessare che più di una volta i miei occhi siano
capitati lì, nello spazio tra i merletti che le ricoprono la
parte alta del corpetto e la sua pelle bianca, così bianca
che ci affonderei volentieri i denti. E non posso non ammettere di non
aver seguito per tutto il tempo il movimento ritmico del suo petto che
si alza e si abbassa a ritmo col battito del suo cuore. Potrei
affondarci i palmi nelle sue forme e lasciarmi ugualmente sopraffare
dalla sua morbidezza, dalla fierezza della sua carne.
Michelle sembra concentratissima sul sermone, appartenetemene
inconsapevole del mio turbamento.
Se le afferro la mano, cosa farà? Mi scaccerà?
Voglio concedermi il gesto più semplice che esista nella
speranza di placare almeno di un millimetro il desiderio che nutro nei
suoi confronti. È come fuoco che arde nella mia gola,
è come se avessi divorato dei carboni ardenti e sentissi
distintamente ogni singolo dente bruciare e spaccarsi.
Crack.
Qualcosa di duro mi colpisce la nuca, che male!,
facendomi sobbalzare sulla panca di legno. Ogni pensiero si sgretola
come castelli di sabbia.
«AHI!» esclamo, e tutti si voltano furenti verso di
me, fulminandomi con lo sguardo. Il pastore interrompe il suo sermone,
guardandosi intorno alla ricerca del suo disturbatore.
La vecchietta che mi ha dato lo scappellotto digrigna i denti e scuote
la desta. Trema tutta, come se avesse il morbo di Parkinson. Le mancano
i denti, gli unici che le permettono ancora di parlare sono quelli
davanti.
«Tutti peccatori!», gracchia tra sé e
sé, strizzando gli occhi allucinati. «Brutte
canaglie! Che il Signore ci salvi!» Stringe le mani in
preghiera e non mi stacca lo sguardo di dosso neanche per un istante.
Sono scosso dai fremiti. No, non sono io. È Michelle, ha la
bocca coperta da entrambi i palmi ed è piegata in due dalle
risate. Vorrebbe urlare, ma non può. Vorrei urlare anche io,
insieme a lei, vorrei trattenere gli spasmi che mi crescono in gola, ma
è quasi impossibile. Apre gli occhi, alza la testa verso di
me, ci guardiamo, e siamo tutti sguardi di intesa che raccontano
più di quanto vogliono.
«Andiamo via?» le propongo, e voglio che dica di
sì, lo voglio con tutto me stesso.
Annuisce, le sue labbra sono piegate in una forzata linea sottile,
vorrebbero incresparsi in maniera del tutto diversa e inaspettata ma
non possono. Mi prende la mano, trasalisco, il mio corpo diventa un
blocco di pietra. Sono morto, sono vivo. Sono Kevin... Una
parola. Cinque lettere. I denti che si impennano sulla
“V” e la lingua che scivola alla fine sul palato.
Kevin. K-E-V-I-N. Soffia come il vento, un solo respiro.
Mamma e papà sono troppo concentrati sul sermone. Dovrei
avvisarli, mi prometto che lo farò più tardi,
stringo le dita attorno alle sue, l’indice che si incastra
perfettamente all’anulare, e sembra che insieme siamo
invisibili. Nessuno ci guarda, nessuno ci nota, nessuno ci giudica.
L’impatto con l’aria fredda è come un
pizzicore sulla pelle, ma l’unica cosa che io riesca a
percepire è il calore che emana il suo corpo accanto al mio.
«Hai sbirciato per tutto il tempo nella mia
scollatura.» Lo dice un secondo dopo esserci richiusi il
portale marmoreo alle spalle, così, a bruciapelo, e io non
ci credo. Sono scioccato.
«C-Che c-cosa?!» È inutile che finga di
non saperlo, avrei dovuto immaginare che se ne sarebbe accorta.
Michelle è una matematica, non si lascia sfuggire alcun
dettaglio. E non potrebbe piacermi più di così.
Ancora una volta è lei a detenere il controllo della
situazione, ancora una volta mi lascia completamente di stucco,
incapace di dire qualsiasi cosa che abbia un senso computo.
«Hai sentito bene.» Scioglie le nostre dita e mi
gira intorno, gli occhi grigio-verdi accesi di malizia. Si diverte a
provocarmi, come se non ci fosse riuscita già abbastanza.
«Non mi hai tolto gli occhi di dosso nemmeno per un
secondo.»
La trascino via, non voglio che ci vedano flirtare in quel modo davanti
a una chiesa. Ho ancora un po’ di sale in zucca anche io.
Michelle mi segue, tracciamo tutto il perimetro della parrocchia, poi
ci avviciniamo alle recinzioni. Qualcuno ha fatto un buco abbastanza
grande da farci passare una persona proprio al centro,
perciò riusciamo a scavalcare la staccionata che divide la
chiesa dalla decima strada e a muoverci in tutt’altra zona.
Ora siamo completamente soli. Le afferro un braccio e la tiro verso di
me, le mani che si aggrappano automaticamente ai suoi fianchi. Michelle
è più bassa di me di qualche centimetro, la sua
testa mi arriva appena al collo e le mie labbra le sfiorano i capelli.
Sento il suo respiro sul mio petto. Mi aspetto che si dimeni, invece
resta così, immobile, come se questo abbraccio inaspettato
perfino a me stesso le piacesse.
Le accarezzo una guancia, stringo il suo mento tra il pollice e
l’indice e lo sollevo verso di me. Schiude la bocca, soffia
come il vento, un solo respiro, potrei
baciarla in questo momento e non riuscirei più a fermarmi.
«Non ti dispiaceva.» rispondo infine. E lei sa a
cosa mi riferisco.
Si morde un labbro, fuoco che arde nella mia gola,
e i suoi occhi sorridono, sanno che quello in pericolo sono io.
«Possiamo negarlo quanto vogliamo, possiamo perfino ripeterlo
a noi stesse anche un centinaio di volte, ma a noi donne piace essere
guardate.» dice. «Quindi sì, non mi
dispiaceva affatto. Vorresti una risposta diversa?»
No, non ne vorrei una diversa, penso,
però non è quello che esce dalla mia bocca.
«Perciò, se ti baciassi, avresti qualcosa in
contrario?»
Preme le dita sul mio petto e mi allontana delicatamente. I suoi occhi
mandano saette. «Non correre, ragazzo, stai cercando di
rivendicare qualcosa che non ti appartiene.»
Inarco un sopracciglio. «In che senso?»
«Fidati di me e non fare nessuna domanda.» Ricambia
il mio sguardo senza batter ciglio, implacabile, incrociando le braccia
al petto. L’ha fatto apposta, vuole coprirmi la visuale della
sua scollatura che si offre alla mia vista.
Stringo gli occhi in due fessure e la fisso in tralice. «Se
sei della serie “Guardare ma non toccare”, per
quale motivo ti stai coprendo?»
Si lascia scappare una mezza risata. «Sei
incredibile!»
«Senti, tu mi piaci…»
«Ah, sì!» Cambia radicalmente
espressione, fa una faccia adorante in stile Ashley-barra-Amber.
«E io che pensavo ti piacesse solo il mio seno!»
«Oh, non solo quello.» la rassicuro con un sorriso
bonario, prendendola a mia volta in giro. «In
realtà confesso di aver aperto un fanclub sulla tua bocca e
sulle tue gambe… Sono fenomenali!»
Scuote la testa, un gran sorriso sulle labbra. Le piaccio... Le
piaccio! «E sentiamo: oltre a te, chi altro ne fa
parte?»
«Solo io.» mormoro, avvicinandomi pericolosamente a
lei. Avvolgo di nuovo il suo corpo tra le mie braccia e affondo i palmi
delle mani nella sua carne. «Ho cacciato tutti quelli che
provavano anche soltanto a guadarti.»
«Che generoso.» Ride poi si fa subito seria. Mi
fissa, mi osserva in silenzio. È come se i suoi occhi
riuscissero a scavare dentro di me, come se riuscissero a graffiare le
pareti che ho eretto per nove anni tra me e gli altri, e a farle
crollare e a vedere cosa c’è dietro. «Ti
sembrerà strano quello che sto per dirti,» Abbassa
per un momento lo sguardo sulle mie labbra, lo rialza subito,
«ma sento il bisogno di chiederti… Oggi
è una brutta giornata per te, vero? Ti ricorda qualcuno a
cui tenevi particolarmente?»
Il mio cuore smette di battere. E allora penso che Michelle sia stata
capace di vedere più di quanto avrei mai creduto possibile.
Sono pronto a negare l’evidenza come ho fatto per tutta la
mia vita. Sono pronto a fingere che vada tutto bene. Ma non
è così, e lei lo sa.
Respiro. Kevin... Una parola. Cinque lettere. I denti che si
impennano sulla “V” e la lingua che scivola alla
fine sul palato. Kevin. K-E-V-I-N. Soffia come il vento, un solo
respiro.
E un solo respiro è quello che il mio cuore riesce a
catturare.
Poi tutto si ferma… e l’unica cosa che riesca a
fendere l’aria è la mia voce.
«Mio fratello Adam è morto oggi, undici anni
fa.»
1: La Saint
Vincent Cathedral NON esiste, è di mia invenzione - se
così si può dire. Inizialmente volevo descrivere
la Saint James Cathedral che, al contrario della prima, esiste eccome,
ed è sulla 804 9th Avenue di First
Hill, a Seattle.
2: Dicasi la
stessa cosa per la seconda nota. St. Vincent The Shepherd non
è un personaggio reale.
3: Per scrivere
al meglio la descrizione della chiesa mi sono aiutata con il mio libro
di arte (y) e con varie foto su Google.
Note d’autore:
Ora mi odiate, lo so, perché mi odio anche io. Volevo che
questo capitolo fosse diverso, volevo che fosse migliore, invece sono
riuscita solo a scrivere oscenità assurde. Sono
così imbarazzata che non so davvero cos’altro
aggiungere. Abbiamo scoperto che Kevin ha, anzi, aveva
un fratello, un fratello che è morto quando lui aveva solo
otto anni. Perché? Come? In che modo? E Michelle come ha
fatto a capirlo? Questo capitolo sarà insignificante, ma ci
sono un sacco di indizi disseminati in giro… sparsi tra i
loro battibecchi illogici. Non chiedetemi come mi siano usciti fuori
perché non lo so, si comportano a modo loro, ormai. Il
prossimo capitolo dovrebbe arrivare presto, non credo ci
metterò molto a scriverlo, questo è stato un
lavoro di sette ore consecutive, perciò… ora
tocca a voi farmi sapere che ne pensate. Ringrazio tutti coloro che
hanno recensito lo scorso capitolo, come sempre adesso andrò
a rispondere ad ognuno di persona. E ringrazio anche chi legge
soltanto, chi ha rifiutato categoricamente questa storia (sano di
mente) e, insomma, tutti quanti!
Un gigantesco GRAZIE va a Krystal e alla
sua pagina Peerless Graphic per il
meraviglioso banner.
A voi i link per contattarmi: Facebook, Gruppo Facebook e Ask.
Altra Originale in corso: Amores - La Seramide del Nord.
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Capitolo 6 *** Quinto capitolo ***
Q u i n t o
c a
p i t o l o
A volte mi domando come sia
possibile. Ci sono volte in cui mi è quasi difficile credere
che lui non ci sia più, e allora andare avanti e accettare
l’evidenza è come ricevere un pugno nello stomaco.
Fa male, è quasi un dolore fisico, ma poi passa,
è momentaneo, e alla fine restano soltanto i lividi, lividi
violacei che macchiano inesorabilmente la mia coscienza di sangue, il suo
sangue, sangue che è stato versato senza che avessi la
possibilità di impedirlo. E spesso mi capita di pensare a
come sarebbe stato se lui fosse ancora qui, se magari fossi stato
più grande, più maturo e avessi potuto salvarlo.
Ero piccolo quando successe, avevo appena otto anni, e ricordo che in
un primo momento non mi ero nemmeno reso conto che Adam, il mio
fratellone, la mia roccia, l’unica persona in grado di
capirmi e di sostenermi meglio di chiunque altro, era sparito. Ed
è strano, quando ci rifletto, è strano.
Eravamo inseparabili, e ancora oggi non riesco a riconoscere la
verità, quella che io e i miei genitori abbiamo sempre
negato, come se cercare di dimenticare e fingere che non sia mai nato
potesse cambiare le cose e alleviare il nostro dolore.
Shock a Seattle, nel sobborgo di First Hill. Ricordo
ancora le parole esatte che usarono i giornalisti per diffondere la
notizia. Un uomo non meglio definito, tarchiato, sui
cinquant’anni, ha sparato ripetutamente a colpi di pistola a
un ragazzino di dieci anni nei pressi della Saint Vincent Cathedral,
sotto gli occhi attoniti dei genitori e dei fedeli, portando via con
sé il corpo della vittima e fuggendo ancora prima che la
polizia potesse intervenire. Gli inquirenti sono ancora sulle sue
tracce…
Non dissero nemmeno il tuo nome, Adam. Soltanto chi ti conosceva sapeva
che eri tu. Tu che sei stato portato via,
fratello mio. Come hai potuto farmi questo? Non ti ricordi il nostro
patto?
Moriremo insieme, Kev, affermasti
una volta. Moriremo insieme, così quando ci
rivedremo di là non ti perderai, ci
sarò io a farti da guida.
Tu l’hai visto, Adam? Mamma dice che è
tutto bianco… Solo che a me il bianco non piace,
mormorai io.
E tu mi sorridesti, me lo ricordo ancora. Mi scompigliasti i capelli,
gli occhi brulicanti di affetto. Ci volevamo bene, e non riuscire
più a ricordare com’era davvero mi fa male. Mi fa
male, e tu lo sai.
Puoi scegliere il colore che vuoi tu, sai?
E posso fare tutto quello che voglio io?
Certo, basta solo che lo desideri.
Allora questo è l’Inferno,
fratello. Perché quello che voglio io non si è
mai avverato.
Lunedì decido che sono stanco di prendere
l’autobus.
Tecnicamente potrei già guidare un’auto, ho
già preso la patente, ma mio padre non ne vuole proprio
sapere di farmi usare la sua. Per arrivare a lavoro lui e la mamma
impiegano all’incirca tre quarti d’ora di macchina,
e l’unica volta in cui mi hanno accordato il permesso di
mettermici al volante è stato l’anno scorso,
quando ho accompagnato Bethany Dawson al ballo di fine anno. Capirai
che fortuna ─ o sfiga: una cheerleader che per poco non mi si
strusciava contro davanti ai miei genitori e sorrideva
all’obiettivo della macchina fotografica di mia madre,
convintissima che a fine serata le avrei chiesto di sposarmi. Non
immaginava affatto il perché le avessi chiesto di andarci
con me ─ anche perché non lo sapevo nemmeno io. Una
settimana prima del ballo me l’ero ritrovata davanti al mio
armadietto, e due minuti dopo aver discusso del più e del
meno avevamo già un appuntamento. Solo che entrambi
l’avevamo interpretato in modi diversi: io volevo solo
guidare un’auto senza che Puck e Robert dovessero prendermi
in giro, lei, lei credeva di aver conquistato il mio cuore pulsante.
«Senta, credo di essere la persona giusta per questo
lavoro.»
Non ne sono così sicuro ma ho anni e anni di esperienza alle
spalle di motori e ricambi. Sebbene non possa guidare l’auto
di mio padre, sono io a occuparmene il più delle volte,
quando c’è da aggiustare il carburatore, da
cambiare il filtro dell’aria o da riparare le ammaccature
della carrozzeria. Era una delle cose che facevamo insieme ad Adam, ma
quando ce l’hanno portato via… papà si
è richiuso in se stesso e a me non è rimasto
altro che il ricordo di quello che eravamo una volta, prima che la
nostra vita venisse investita da un’ondata di rammarico, il
rammarico di non poter sapere come sarebbe stato se tutto fosse stato
diverso. Ormai papà non entra più in garage. Gli
riporta alla mente troppi fantasmi. Ma io… io non riesco a
farne a meno. Adam è troppo importante per me, ora
più che mai. Non posso dimenticarlo, non voglio.
Quando saremo grandi te la farò guidare, diceva
con quel suo sorriso smagliante che non lo abbandonava mai. Potrai
portarci la tua ragazza.
Ragazza?, lo fissavo con gli occhi sprangati, il
naso arricciato, le labbra imbronciate. Bleahhhhh! Che
schifo!
Scuoto la testa. Non devo più pensarci. Mi faccio solo del
male.
Ma mi è impossibile dimenticare; ieri era il 18 dicembre
2014, precisamente undici anni dopo che mio fratello è morto.
No… non lo è. Non può
esserlo. Eppure è così.
Mi concentro sull’uomo che ho davanti. Molto trasandato, quel
genere di persona a cui non piace affatto sprecarsi in inutili
chiacchiere. Un tipo spiccio, direi, che ama arrivare dritto al punto,
con le maniche arrotondate fin sopra ai gomiti imperlati di grasso e
sudore, i lembi della camicia di flanella nascosti fin dentro ai jeans
scoloriti e a vita alta, gli scarponi incrostati di fuliggine e i
capelli grigi brizzolati. I suoi occhi scuri mandano bagliori loschi,
cupi, e la sua fronte è aggrottata in maniera quasi
innaturale. Dimostra più anni di quanti ne ha davvero, il
suo sguardo è invecchiato ancor prima del suo corpo. Si
chiama Riddle… almeno credo. Poco fa un suo cliente
l’ha chiamato così, ma non ne sono tanto certo.
«Ah sì, ragazzo?» Inarca un
sopracciglio, aspirando il fumo della sua sigaretta dalle narici.
Adesso ha le mani occupate, perciò è costretto a
tenerla sospesa tra le labbra, ma prima, quando avevo almeno la
metà della sua attenzione, se la rigirava tra le dita con
impazienza. È un tizio alquanto strano,
penso, e una parte di me vorrebbe tornarsene dritta a casa, lontana da
questo posto… Mi sembra di esserci già stato.
Smettila di comportarti come una ragazzina. Sii uomo.
«Sì, signore.» rispondo in tono
convinto, cercando di sostenere il suo sguardo.
Ha appena aperto il cofano di una Mustang Shelby GT500, verniciata in
blu, le dà un’occhiata e poi scuote la testa. Poi
rialza il capo verso di me, come se si fosse ricordato improvvisamente
che aspetto una sua risposta.
«Torna a casa, figliolo.» Mi guarda come se stesse
prendendosi gioco di me a mia insaputa. «I tuoi ti staranno
aspettando per cena, non credi?»
Incrocio le braccia al petto e ricambio con altrettanta spavalderia.
Voglio un’auto. Un’auto nuova,
non un vecchio rottame con il motore che sbuffa a ogni mezzo metro. E
per potermela permettere ho disperatamente bisogno di questo lavoro.
«Ha ragione.» Faccio spallucce, le labbra
arricciate in un ghigno impertinente. «Non vorrà
che per colpa sua debbano aspettarmi tutta la notte, vero?»
«Purtroppo non sono conosciuto per la mia educazione,
ragazzo.»
Non ho ascoltato neanche una parola di quel che ha detto. Sono
fermamente deciso a convincerlo ad assumermi.
Perciò mi avvicino alla Mustang, infilo la testa
nell’abitacolo e giro le chiavi nella toppa. Provo a dare
gas. Il motore comincia a gracchiare, tutta l’auto
è come scossa dalle vibrazioni, poi emette uno sbuffo e si
spegne.
Riddle mi fissa, in attesa. Non mi ferma, non cerca di levarmi di
mezzo. Mi osserva soltanto. In silenzio, mi metto carponi dal lato del
guidatore e guardo sotto la macchina. Controllo, e qualche minuto dopo
sto tirandomi già in piedi, con un sorriso soddisfatto sulle
labbra.
«Sono quasi certo che si tratti dell’albero di
trasmissione.» mormoro. «Deve essersi allentato da
qualche parte, perché l’ho visto pendere sul
davanti… Oppure è la scatola del cambio,
bisognerebbe toglierla, smontarla e sostituirla nel caso.»
Non ho affatto bisogno di leggergli nella mente per sapere a cosa sta
pensando in questo momento. Peccherò di presunzione, certo,
ma non ho alcun dubbio: questo lavoro è perfetto per me,
almeno finché non avrò abbastanza soldi da
potermi permettere una macchina. E anche lui lo sa.
«Sei cocciuto.» dice. Io aspetto quello che voglio
sentirmi dire. Riddle mi punta un dito contro e riduce gli occhi a due
fessure. «Ma bada a tenere per te stesso quell’aria
da spavaldo, capito?» Poi il suo sguardo si addolcisce, e
sembra dimostrare per la prima volta da quando l’ho
incontrato i suoi veri anni. Non è tanto vecchio, ne
avrà all’incirca quaranta… non di
più. «Tutti i giorni dalle quattro alle sei,
domenica esclusa. E ora sparisci, cominci domani.»
Il mio sorriso arriva da un orecchio all’altro. Non penso ad
Adam. Per un solo istante, non penso a mio fratello morto.
«Perciò sono assunto?»
Riddle ha la faccia di uno che sta sicuramente per mandarmi a farmi
fottere, ma per chissà quale motivo si trattiene.
«Puntualità, non tollererò
ritardi.» Non aggiunge altro e se ne va.
Esco dall’officina, prendo la 7th Avenue
e attraverso la strada.
Va tutto bene. C’è solo un problema.
Devo solo tenerlo nascosto ai miei genitori.
«Hai la ragazza, Kev?»
Riddle, Sam Riddle, non è
così burbero come sembra. Certo, ha sempre
quell’espressione tormentata e ansiosa, come se stesse
continuamente all’erta, in attesa di un pericolo imminente
che soltanto lui può percepire, ma qualche volta riesce
perfino a rilassarsi. Lavoro qui all’Hill Car1 da
più di una settimana e ormai posso quasi considerarlo uno di
famiglia, una sottospecie di zio scapestrato che non ho mai avuto.
Stiamo riparando una BMW grigio metallizzato, lui mi passa le chiavi
inglesi, mentre io dò una controllata all’albero
di trasmissione. Ho la testa infilata sotto la macchina e la mia voce
risuona attutita.
«Non farti strane idee, Sam, e passami quella con
l’impugnatura rossa.» Allungo una mano e
l’afferro, ritornando a fare il mio lavoro.
«E che mi dici di quella ragazza della tua scuola? Ti
piace?»
Mi blocco. Non so più dove mettere le mani. E ora?
«N-Neanche per idea!»
«Non sembravi tanto indifferente quando ne parlavi due giorni
fa…»
«Ti sbagli.»
«Ah sì, ragazzo? Chissà
perché non mi convinci.»
Non so perché gliene ho parlato. Forse non avrei dovuto
farlo siccome si tratta di faccende private che riguardano solo me, ma
è stato l’unico con cui sia riuscito a sfogarmi
liberamente, senza dovermi preoccupare del suo giudizio. Sam
è un buon ascoltatore, è silenzioso, parla poco,
e magari è proprio per questo motivo che mi ci trovo
così bene. Sono certo che qualunque cosa avrà da
dire se la terrà per sé. Non sa il suo nome, Michelle
è una parola che riesco a pronunciare soltanto nei miei
pensieri, eppure non sono stato capace di tenere per me stesso
ciò che provo per lei.
«La ami?»
«No!» Netto, un taglio troppo netto, deciso,
conciso; ho parlato troppo in fretta. Ma io sono certo che è
così. Se ne fossi innamorato lo saprei… no?
E poi non ci conosciamo affatto. Com’è possibile?
«Allora ti sei preso sicuramente una cotta per lei,
amico.» Ora ci si è messo anche Ryan. Ha qualche
anno più di me, va al college e per pagarsi la retta lavora
qui come me. È simpatico, ma quando ho saputo che vuole
diventare avvocato ammetto di aver fatto il prevenuto nei suoi
confronti. Io non voglio seguire le sue stesse orme, trafficare con i
documenti non è mai stato nei miei piani.
«Oh merda, sono diventato l’argomento di
pettegolezzo del giorno?»
«Non tu.» sghignazza Ryan. «Siamo solo
interessati alla tua ragazza, Kev.» E se la ride,
infischiandosene di quanto stia rodendo di rabbia… e di gelosia.
«Prova anche soltanto a nominarla e ti spacco la faccia. Sei
avvertito, Lutz2.»
«Ma non sappiamo neanche il suo nome!»
L’albero. Devo riparare
l’albero di trasmissione. Com’è che a un
tratto mi sono dimenticato di come si fa?
«E sarà meglio per te che tu non lo
scopra!»
«Ehi!» interviene Sam. «Niente risse, non
voglio problemi. Risolvetevela fuori.»
È come il Padrino qui dentro. A lui sempre
l’ultima parola.
Dimentico tutto e ritorno a lavoro, trascorrendo più di
mezz’ora a riparare la BMW. Mi chiedo come faccia ancora a
respirare, con la testa sotto la macchina, dopo tutto questo tempo, ma
cerco di non pensarci e continuo a fare quello che devo fare.
Ed è così che rimango folgorato. Gambe lunghe e
sinuose, è tutto ciò che riesco a vedere,
voltando gli occhi di lato e sporgendomi un po’ fuori.
Di certo Ryan non ha delle caviglie così perfette
né indossa delle ballerine a fiori rossi e blu…
«Che ci fai qui, rayo de sol?»
«Non chiamarmi così, se non vuoi che ti ficchi
quella chiave inglese su per il deretano.»
Non può essere
«Uhhhh, a quanto pare qualcuno è parecchio
incazzato oggi.»
vero…
«Piantala, Ryan!» lo riprende Sam. La sua voce si
abbassa di qualche tono, ma riesco comunque a sentire ciò
che dice. «Che succede, Ellie?»
Striscio i piedi sull’asfalto, reggendomi sui gomiti e
dandomi una bella spinta verso l’alto. Devo vederla, devo
sapere se è lei, Michelle.
Sospira pesantemente, con le ciglia lunghissime che riflettono la loro
ombra a forma di mezzaluna sulle sue guance e i capelli lisci castani
che le ricadono con morbidezza sulle spalle. Non dovrei guardarla in
questo modo, ma non riesco a impedire al mio sguardo di posarsi sulla
curva sensuale del suo collo sinuoso, sulle morbide
rotondità dei suoi seni e sulle leggere curve dei suoi
fianchi. Non è magrissima, il suo corpo è
uniforme e proporzionato nel suo insieme, ma nella sua
normalità è assolutamente perfetto. Sono sicuro
che qualsiasi difetto lei abbia non riuscirà a farsi
apprezzare di meno da me.
«Li conosci, zio.» dice. «Non cambieranno
mai. Mi avevano promesso che sarebbero tornati e che saremmo andati a
cena insieme. Invece sai cosa è successo? Si sono
improvvisamente ricordati di dirmi che non possono più
accompagnarmi fuori perché chissà quale altro
impegno imprevisto è saltato fuori!» Caccia fuori
le parole così freneticamente che fatico a recepirle tutte.
«E come se non bastasse mi hanno costretta a vestirmi come se
dovessi andare a un matrimonio!» Esplode, le sue parole sono
lava incandescente di un vulcano in eruzione.
Non le si può di certo dare torto. Ha le gambe interamente
scoperte, un abito striminzito che le arriva appena alle cosce, ed io
mi chiedo come faccia a starsene lì in piedi senza sentirsi
morire dal freddo. Vorrei alzarmi e andarle incontro, riscaldarla con
il mio corpo e stringerla forte a me, ma, da quando è
entrata a fare parte della mia vita, ho perso il coraggio di fare
qualsiasi cosa che la riguardi. E il mio orgoglio maschile ne risente,
brucia e consuma ogni mio pensiero.
Aspetta un momento…
Zio? Sam Riddle è suo
zio?
«Certo che so come son o fatti.» mormora lui in
risposta. «Tua madre è mia sorella!»
Michelle increspa le labbra in una smorfia, riducendo gli occhi a due
fessure. È davvero arrabbiata… e
straordinariamente sexy.
«A volte mi domando come sia possibile.»
Sam le stringe una spalla con dolcezza, un semplice gesto affettuoso
che esprime quanto siano legati l’uno all’altra, e
per un attimo il viso di lei si addolcisce. «Non sei
l’unica a chiedertelo, tesoro mio.» Le
dà un buffetto sulla guancia e poi sorride,
un’ombra malinconica e nostalgica ad oscurargli lo sguardo.
Mi nascondo dietro lo sportello della BMW, con gli occhi puntati su di
loro. Michelle lo guarda dispiaciuta, oramai la rabbia sembra averla
abbandonata. E allora mi rendo conto che entrambi stanno pensando alla
stessa cosa. Non so di che si tratti ma è come se
guardandosi avessero riportato alla mente ricordi dolorosi. Lo
dò per certo, perché quello è lo
stesso sguardo che ho io quando penso ad Adam.
«A proposito ─ prima che me ne dimentichi
completamente,» Michelle abolisce il silenzio con quelle
semplici parole, «mi avevi detto di passare oggi a prendere
la macchina…»
«Oh sì!», esclama Sam. Poi alza la voce
e mi si ghiaccia il sangue nelle vene: «Kevin!» mi
chiama. «Kevin, hai finito con la BMW?»
Scatto come se avessi dato gas al motore e premuto istantaneamente
sull’acceleratore. Ed è così che batto
la testa sulla carrozzeria dell’auto, e
d’improvviso vedo tutto un vorticare di stelle sopra di me, e
il cuore pompa sangue il doppio del normale, e il sangue comincia a
colarmi dalla tempia, tutto rosso, tutto nero, tutto bianco...
Sono morto?
Passi frenetici sull’asfalto, muovo un paio di volte le
palpebre, Ahi!, il mio cervello fracassato in
mille pezzi è l’unica immagine che la mia mente
riesca a focalizzarmi davanti agli occhi. E poi mani fresche ad
accarezzarmi la fronte, le sento dappertutto, eppure non sembrano
essersi mosse dal mio viso. Qualcosa di soffice mi accarezza le
labbra… la sua bocca? Cerco di aprire un occhio ─ no, mi fa
male ─ provo a riaprirlo, ed ecco: ecco, sono i suoi capelli che mi
cullano dolcemente, vorrei stringerglieli tra le dita…
«Soltanto tu saresti capace di battere la testa contro la
carrozzeria di una macchina. Ti ricordi quando hai aggiustato
l’auto di mio padre? Stessa identica fine hai
fatto.» Michelle… Michelle, sei tu?
Ridi, ridi ancora, la tua voce è l’unico suono che
mi allontana dal torpore del sonno. «Zio, corri
subito a prendere un blocco di ghiaccio… io nel frattempo
cerco di farlo svegliare… sì, credo sia mezzo
svenuto.» Riddle non parla, forse è sua la risata
che sento in lontananza, le sue parole mi arrivano a stento alle
orecchie, la mia attenzione è completamente rivolta a lei.
Dopo un po’, riesco a mettere a fuoco il suo viso.
È piegata su di me, quasi a distanza di bacio.
Potrei allungarmi di un centimetro e premere le mie labbra sulle sue,
ma non riesco a muovermi. Tutto ciò che di cui sono in grado
è ricambiare il suo sguardo. Mi… sorride?
Sì, la sua bocca forma una specie di mezzaluna
all’insù. Provo a ricambiare, non ci riesco, mando
fuori un gemito di dolore, il labbro mi brucia, mi brucia
ovunque… Mi dà dei leggeri schiaffetti sulla
guancia, poi mi passa le braccia sotto le ascelle e tenta di
sollevarmi, trascinandomi via da sotto la macchina.
Mugugno, forse le dico che posso farcela, ma lei non mi ascolta,
continua imperterrita a farmi da crocerossina. Sussulto; d’un
tratto, mi ha appoggiato qualcosa di freddo sulla tempia, è
troppo gelido, vorrei che lo togliesse…
«Ellie?»
«Mh?»
«Sono certo che un tuo bacio basterebbe a farmi guarire la
bua…»
La sento sorridere, anche se la vedo a malapena, è tutto
sfocato…
«Ne sei proprio sicuro?»
Mi alzo a sedere di scatto, non so da dove provenga tutta questa forza
né che cosa stia facendo di preciso. Mi arrivano litri di
sangue al cervello, schizzano quasi fino alla radice dei capelli come
se volessero traboccare dal mio corpo.
Michelle mi fissa, stupefatta, prova a rimettermi giù, ma io
la blocco, le afferro i polsi e li porto al mio petto, le sue dita mi
sfiorano dolcemente da sopra al maglione.
«Vuoi uscire con me?»
Non ho alcuna scusa. Sono totalmente uscito fuori di senno. Forse ho
assunto anche qualche sostanza stupefacente, che, a lungo andare, ha
fritto ogni mia capacità cognitiva.
«Kevin, hai battuto la testa…
Tu…» Ha gli occhi spalancati, così
spalancati che potrei essere riuscito per la prima volta a spaventarla.
Ma non riesco a trattenermi, la lingua scivola sul palato e lascia
uscir fuori le parole senza che le abbia dato il permesso.
«Rispondimi.»
«Ti consiglio di assecondarlo.» Ryan ghigna alle
sue spalle, guardandomi come se provasse compassione per me. Stringo i
pugni, le nocche mi si fanno tanto bianche che inizio a sudare. Voglio
fracassargli quella brutta mascella che si ritrova e spaccargli il naso
contro lo specchietto retrovisore, ma il piacevole calore che emette il
corpo di Michelle accanto al mio mi avvolge così tanto che
non ho la forza di allontanarmi da lei.
La guardo negli occhi, escludo tutto il mondo. Esistono solo i suoi
occhi.
Sospira. Ha ceduto e, quando la osservo alzare lo sguardo al cielo, so
già quale sarà la sua risposta.
Note d’autore:
*vomita* Fa schifo, lo so, mi merito un sacco di pomodori in faccia;
questo capitolo è molto noioso, ma non sono riuscita a fare
di meglio ^^ Avrei voluto fosse diverso, va be’…
Mi rifarò la prossima volta. Io spero davvero di non avervi
deluso, se così fosse liberissimi di dirlo, si intende ^^ Mi
rendo conto che non è una vera scusa, sono stata io in
primis a sbattere la testa e a perdere la ragione! Ad ogni modo,
passiamo alle cose importanti: anche questo capitolo è un
po’ di passaggio, ma come sempre ho sparso qua e
là degli indizi sul passato di tutti i personaggi. Sam
è soltanto il primo, il secondo, il terzo di tutti quelli
che conosceremo (è un cast così grande che, se
dovessimo scrivere i nomi di ognuno di essi che lo compongono,
riempiremo più di una pagina). La storia è ancora
all’inizio, questi che vi ho già presentato e
quelli che ancora devo scrivere e pubblicare compongono soltanto la
prima parte; all’azione verrà lasciato campo
libero un po’ più avanti, per adesso mi limito
soltanto a lasciare via via i pezzettini del puzzle… Sta a
voi elaborare le vostre teorie. Per quanto riguarda il comportamento di
Kevin, so che è un po’ strano, ma, fidatevi, non
è poi così inverosimile *io so già che
voi non sapete* Che altro dire? Non dovrei metterci molto ad aggiornare
il prossimo capitolo; nel frattempo, però, vi lascio le mie
due storie: Amores - La Seramide del Nord (storica/romantica su Caterina
La Grande di Russia) e Medium (fantasy/romantica). Ultima
cosa prima di correre a rispondere alle vostre stupende recensioni (vi
adoro *-*): vorrei consigliarvi delle storie stupende.
Until di Aniasolary.
Underworld di Mia Swatt.
Dream of a kiss di Damie (Lin Bett).
Man o' war, La luce calda del tramonto e Sasha & Kate: Russian
Horse di Zanna Aleksandrovna.
Lies e Solum di Krystal Darlend.
Bettersweet memory di _Marty.
La teoria del colore rosso di Vibral24.
Per contattarmi, ecco i link: Facebook - Gruppo Facebook - Ask.
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Capitolo 7 *** Sesto capitolo ***
Nda: Il capitolo è stato
ripubblicato con l'inserimento di una nuova scena a fine capitolo e la
revisione dello stesso. Leggere ASSOLUTAMENTE le note riportate sotto.
S e s t o c
a
p i t o l o
«Di
solito non sono tanto imbranato.»
È
inutile cercare di convincermi che sia
così, perché neanche Michelle sembra capace di
credere alle mie parole.
Scuote
la testa, si stringe le gambe al petto
e mi scruta con quei suoi luminosi occhi grigio-verde e quel suo
sorriso
malizioso sulle labbra color porpora che non ho smesso di fissare da
più di dieci
minuti. Il suo sguardo mi urla chiaramente che sono un caso disperato,
eppure
qualcosa mi dice che non le dispiaccio così tanto. E che
soprattutto l’episodio
di poco prima l’abbia sorpresa più di quanto dia a
vedere. Certo, non è che sia
piacevole ripensare alla mia fronte che sbatte violentemente contro la
carrozzeria di una macchina e quei metri di distanza che mi separano
dal
soffitto sopra di me, però…
C’è un però. Non lo so spiegare, non
sono un poeta
e di sicuro non sarei mai in grado di descrivere ciò che
penso e ciò che sento
in modo originale. Sarò anche banale, ma i fronzoli non
fanno per me; perciò è
meglio rivelare le cose come stanno.
Credo
che ci siano buone probabilità di
riuscir a far breccia dentro di lei, anche se è difficile
dichiararlo con
certezza.
Michelle
non è affatto quella che la gente
chiama una “persona normale”; avrà anche
l’aspetto di una comune sedicenne di
un’altrettanta comune città dello stato di
Washington, ma sono più che convinto
che tutto ciò che c’è di ordinario in
lei finisca qui. Ed ecco dove iniziano le
sue stranezze, o ancor meglio: le sue diversità. Osservo le
persone, amo
penetrare nei loro pensieri e chiedermi cosa farei io al loro posto, in
un’altra vita. Ma con Michelle è tutto
così… fuori dagli schemi. È un enigma,
un sillogismo particolarmente complesso, indimostrabile.
Un
postulato. Un assioma.
Per un punto passano
infinite rette.
Lei
è quel centro, quell’intersezione
attraverso cui trovano esistenza le innumerevoli regole inspiegabili
dell’universo.
La
guardo, anche ora, e penso che non troverò
mai una spiegazione a tutto questo. Non ho mai creduto nel destino, e
ancora
adesso trovo difficile affidarmi a qualcosa di cui non è
certa l’esistenza, ma…
«Kevin,
attento!»
Sgrano
gli occhi di scatto e premo con forza
il piede sul freno. Il manubrio vola quasi tra le mie mani, il camion
che sta
per investirci ruggisce contro di noi, poi, nell’ultima
frazione di secondo e
nella confusione più totale, riprendo il controllo della
situazione e riesco a
schivarlo per un pelo. Facciamo un testacoda, le ruote
dell’auto stridono
sull’asfalto, cazzo, cazzo, cazzo,
impreco più volte…
Tutto
finisce e il nostro respiro si arresta.
Stiamo
bene, siamo vivi.
Il
tempo cammina sospeso nel vuoto.
Ci
guardiamo, allucinati, tanto vicini che ci
basterebbe allungare una mano per toccarci davvero, incapaci di
riprendere i
sensi.
Finché
la sua risata amara non squarcia ogni
angolo dell’abitacolo.
Balzo
sul sedile ed è allora che mi accorgo
di stringere con fin troppa forza il volante, a tal punto che mi si
sono
sbiancate le nocche. Fisso la sua bocca spalancarsi, il suo sguardo
puntarsi
quasi con idrofobia su di me, le sopracciglia inarcate in un cipiglio
duro
nello sforzo di trattenere i propri impulsi.
E
infine la sua voce.
«Imbranato?
Hai ragione, no, non lo sei!»
scatta, i lineamenti del viso guizzanti a causa delle emozioni che si
nascondono sotto pelle. «Piuttosto direi che sei distratto!» I suoi occhi si
fanno furenti. «Mi dici a che cavolo
stavi pensando invece di concentrarti sulla strada?»
Respiro
a fondo, ispiro ed espiro, finalmente
ritrovo la voce.
«Vuoi
la verità?»
So
solo ciò che vorrei io; ovvero fare come
gli struzzi: infilare la testa sotto la sabbia e nascondermi
dall’imbarazzo.
Schiude
le labbra per rispondere, la furia
negli occhi grigio-verdi, poi qualcosa le attraversa, nel giro di un
attimo, lo
sguardo e tutto cambia, lei cambia.
Michelle
mi scruta ardentemente, la sua espressione si trasforma, si addolcisce,
e penso
che mi abbia letto dentro ancor più in profondità
di quanto potessi fare io o
chiunque altro.
E
come se anche l’ultimo barlume di sicurezza
l’avesse abbandonata, incrocia le braccia al petto e punta la
sua attenzione
fuori dal finestrino.
Per
quanto mi riguarda non c’è nulla di
interessante là fuori; soltanto l’asfalto
lastricato da un fitto strato di
neve, ghiaccio e umidità, le sagome sfocate dei cipressi che
si agitano all’orizzonte,
i contorni sbiaditi del sole opaco che riscalda appena la
città, seminascosto
dalle nuvole bianche… O forse… forse i suoi occhi
non volano così lontano, non
aspirano a qualcosa che sembra totalmente irraggiungibile. Magari si
soffermano
sulle piccole gocce di pioggia che puntellano ogni centimetro del
finestrino…
Chiudo
gli occhi, sbatto le ciglia, li
riapro.
Lo
scenario cambia.
«Trentotto!»
Non
sono più accanto a Michelle, nella sua BMW
grigio metallizzato; ora sono in un catorcio da quattro soldi che
papà ha
comprato in un mercatino di auto usate quattro anni fa, è
quel furgoncino
scrostato di fuliggine che abbiamo riparato insieme tante volte. Adam
è seduto
al mio fianco, è soltanto un bambino, e non fa altro che
muoversi
freneticamente sul sedile. Stiamo giocando al nostro gioco preferito;
contiamo
le gocce di pioggia sul finestrino. Chi ottiene un numero maggiore nel
minor
tempo possibile vince, poi ricominciamo daccapo e così via.
È la seconda volta
che riproviamo, Adam mi ha stracciato ancora e continua a vantarsene.
«Non
è giusto.» gli dico. «Io so contare solo
fino a venti!»
Mamma
e papà non si curano affatto di noi,
sono troppo impegnati a discutere degli ennesimi problemi che anche
oggi si
sono presentati sul lavoro. Adam mi ha detto di aver ascoltato un loro
tralcio
di conversazione e di aver sentito dire da papà che
purtroppo gli affari non
vanno bene e che, per mancanza di fondi, il suo direttore ha dovuto
licenziarlo.
«Licenzato?
Che significa?»
«Licenziato
con la “i” in mezzo.» Scuote la testa,
non sopporto quando lo fa. «Sei troppo
piccolo per capire, fratellino, non posso spiegartelo.»
«Non
è vero!»
Il
ricordo finisce così, troncato a metà,
come se mi avessero staccato la spina che collega i miei pensieri al
cervello.
Sento gli occhi formicolare, puntini bianchi e neri danzano davanti al
mio
viso, poi…
Michelle
mi stringe il braccio con così tanta
violenza e disperazione, che mi stupisce pensare che potrebbe
spezzarmelo. Lo
ritiro con uno scatto, la guardo a bocca aperta, la faccia contratta in
un’espressione di muto terrore. Ho la gola secca, non riesco
a parlare.
«Kevin.»
La sua voce mi riporta improvvisamente
alla realtà, ma c’è una parte di me che
non vuole più allontanarsi dalle mie
illusioni. Mi sembra di sentire ancora la voce di Adam in sottofondo. Dove sei finito, fratello? «KEVIN!»
Sento
le sue mani su di me, soffici, mi
avvolgono le guance come una coperta soffice che mi riscalda. Soltanto
ora mi
accorgo di respirare affannosamente, ho il cuore in mano, lo sento
pulsare
dalla punta delle dita fino ai polsi, le vene blu risaltano sulla pelle
bianca.
Che
succede? Che mi succede? Dove sono?
Dov’è?
Non può essere… no, non è morto.
«Lo
saprei se lo fosse…» sussurro a me
stesso, stringendo le mani a pugno nella speranza di poter afferrare
questa
convinzione, senza mai più lasciarla andare.
«Calmati,
Kevin, sono qui. Tu sei qui.
D’accordo?»
Le
sue mani finiscono sulle mie spalle,
toccano i muscoli contratti e li ammorbidiscono con la punta delle
dita. Poi fa
qualcosa che non mi sarei mai aspettato da lei; riesce quasi a farmi
dimenticare che mio fratello non c’è
più, che io non sono più nessuno e che ho
perso il mio migliore amico. Mi abbraccia forte, affonda i palmi nei
miei
capelli e li accarezza delicatamente, cullandomi al suo petto con il
suo dolce
profumo. Restiamo così per non so quanto tempo, ma non
voglio allontanarmi, mi
piace, mi fa sentire bene, allontana gli incubi che mi annientano anche
di
giorno, anche quando sono sveglio.
«D’accordo?»
ripete al mio orecchio con il
respiro affannoso e intriso di preoccupazione… per me?
Non
ho la forza di dire nulla, mi limito ad
annuire nella morsa disperata delle sue braccia.
«Va
tutto bene, Kev… Senti come batte il mio
cuore? Senti com’è regolare?»
Poggio
l’orecchio sul suo cuore, l’eco dei
suoi battiti inizialmente lento e ritmico con il suo respiro comincia a
premere
troppo sull’acceleratore. Vorrei dirglielo ma non saprei come
la prenderebbe se
poi lo facessi. Temo che potrebbe allontanarsi, ed io non voglio.
Perciò
ascolto, ascolto il suono che fa il suo petto alzandosi e abbassandosi,
strofinando inconsciamente le guance sul suo seno proprio come farebbe
un
bambino.
Forse
non avrei dovuto farlo.
Si
scosta bruscamente da me provocandomi un
gemito di disappunto che esce, in un soffio, dalle mie labbra schiuse,
fissando
il suo sguardo penetrante nel mio con una punta di sorpresa negli occhi
chiari.
Poi
sorride, ed è la cosa che meno mi sarei
aspettato da lei in questo momento. La piega delle sue labbra ha un che
di
malizioso, e vorrei prendermi a calci per il modo in cui
inevitabilmente
reagisco: avrei qualcosa in particolare da sistemare
ma se provassi ad allungare la mano se ne accorgerebbe e sarebbe molto
più che
imbarazzante. Non mi succede da giorni, forse è colpa
dell’astinenza forzata a
cui mi sono posto, tento di convincere me stesso, cercando di
sistemarmi meglio
sul sedile per alleviare il dolore ai pantaloni.
«Sei
davvero furbo tu, eh?» La sua domanda mi
stupisce, soprattutto perché non sembra affatto arrabbiata.
Divertita, direi.
Non so interpretare i suoi sentimenti in questo momento. Le interesso?
Le
piaccio? Cavolo, non so che darei per sapere se è almeno
attratta da me.
Scompiglio
i capelli con la mano,
nell’inutile tentativo di sdrammatizzare un po’ la
situazione, infilandoci le
dita attraverso proprio come ha fatto lei poco fa. Il mio corpo sente
già la
sua mancanza. È troppo lontana.
«Le
vecchie abitudini non muoiono mai.»
borbotto, una giustificazione particolarmente inappropriata in una
situazione
del genere. Aver ricordato alla ragazza che mi piace il mio passato da
puttaniere non è una buona mossa, ma non sapevo cosa dire e
non sono affatto
bravo con le parole. Sono il tipo che ruba le battute degli altri, che
vive la
propria vita come se fosse un copione, che fa dal proprio mondo un
teatro in
cui realtà e illusione si confondono. Forse è per
questo che ho sempre
desiderato diventare un attore di successo una volta adulto. Fingere di
essere
qualcuno che non sono è l’unica cosa che so fare.
Eppure
la sua reazione mi scombussola ancora
di più.
Non
so se ridere o piangere come una
femminuccia, ma di certo non mi aspettavo che… sorridesse,
ecco.
Scuote
la testa, coprendosi il viso con i
capelli. Se glieli scostassi soltanto per poterla toccare,
farà per
allontanarmi? «Sei bravo.» dice, genuina sorpresa
nei suoi occhi. «Sul serio.»
aggiunge, per ribadire il
concetto. La guardo senza capire, così spiega, con una mezza
risata: «Ora
finalmente è tutto chiaro: abbordi le ragazze con quel tuo
sguardo da bravo
ragazzo e poi ne approfitti, senza che loro se ne accorgano.»
Ho la bocca asciutta.
È ammirazione, quella che vedo riflessa nei suoi occhi? Cosa
vuole che dica? «E
anche se capiscono di essere cadute nella tua trappola, non riescono ad
avercela con te… Incredibile!» esclama, voltando
la testa verso di me come se
si fosse improvvisamente accorta della mia presenza accanto a lei.
«Onestamente
non so se odiarti o meno.»
Sgrano
gli occhi. O-Odiarmi? Mi odia?
«Cosa?»
Non
risponde. Apre la portiera ed esce,
chiudendosela alle spalle. Poi mi fa cenno dall’esterno di
abbassare il
finestrino. Eseguo a bocca aperta, inebetito, incapace di proferire
parola.
«Aspetta
qui.» mormora. E così dicendo,
attraversa di fretta la strada prima ancora che possa ribattere.
Se
n’è andata.
Se n’è andata. Deve avere improvvisamente
deciso di abbandonarmi, non c’è altra spiegazione.
Forse si è finalmente resa
conto di quanto idiota io possa essere, il che mi sorprende,
perché avrebbe
dovuto accorgersene prima.
Cazzo.
Se sono già
arrivato al punto dell’autocommiserazione, dovrei
assolutamente preoccuparmi. Non è un buon segno, soprattutto
quando si tratta di
una ragazza come Michelle che sa dove e come colpirmi.
A
questo punto, perciò, non posso che
dichiararmi fottuto, con la “F” maiuscola.
Aspetta…
mi guardo intorno e mi do
mentalmente dello stupido.
Non
c’è da meravigliarsi se ride sempre in
mia presenza.
L’auto
è sua quindi, a meno che non abbia
deciso di regalarmela, deve necessariamente
fare ritorno.
Perché
nella mia mente sa tanto di supplica?
«Eccomi.»
Sussulto, non l’ho sentita tornare.
Ha tutti i capelli scompigliati, sembra abbia appena corso una
maratona. La
pelle bianca è particolarmente rosata sugli zigomi, segno
dell’evidente bassa
temperatura che si è abbattuta sulla città, e mai
come adesso mi accorgo
dell’inconfondibile presenza delle lentiggini color
caffellatte che le
punteggiano le guance e il naso. Sfrega le mani l’una contro
l’altra per
riscaldarsi, così, prima che me ne penta, le afferro i
polsi, stringendoli in
una morsa delicata al mio petto. Non so perché
l’ho fatto. Per sentirla vicina,
per farle sentire quanto il battito del mio cuore sia affannoso e
impetuoso,
perché possa capire quanto i sentimenti che io provo per lei
siano sinceri.
La
amo? Non lo so, ma ci sto arrivando.
Ha gli occhi
socchiusi ma li apre subito per guardarmi. Mi scruta con attenzione,
come se
stesse rovistando, in ogni angolo della mia mente, alla ricerca di
chissà che
cosa. Inizialmente, non riesco a riconoscere l'espressione che si
è dipinta sul
suo volto, sembra assorta, intenta a leggere tra le
pieghe dei miei lineamenti contratti. Poi schiude la bocca e dilata gli
occhi.
Ed
è allora che
qualcosa le balugina nello sguardo.
Consapevolezza,
la chiamerei, ma c'è anche qualcos'altro.
Dispiacere,
preoccupazione e... comprensione.
Non
compatimento, ma comprensione. Comprensione.
Quanti significati ha questa parola per noi? Sapere che anche lei ha
provato
quel che ho provato io è come essere liberato dal pesante
fardello che mi
trascino dietro da tanto, troppo, tempo. Perché è
inevitabile, non posso
assolutamente smettere di pensare ad Adam. E lei mi capisce.
Sospira,
una
nuvola d’aria fredda le esce dalle labbra. Inspiro. La sua
bocca sa di buono,
menta e qualche altra spezia di cui non riesco ad afferrare i nomi.
«Parlami
di
lui.» dice e non c’è bisogno di
spiegazioni. Il suo sguardo dice tutto. «Perché
non riesci a… a… ad accettarlo,
Kevin?» Non c’è accusa nella sua voce,
solo… curiosità.
La
abbraccio.
Ho bisogno di sentirla, altrimenti
non avrei il coraggio di tirar fuori le sofferenze che ho covato per
tanti anni
dentro di me.
Respiro
a
fondo. Non voglio parlare. Devo parlare.
«Era
più grande
di me.» comincio. «Papà lo adorava,
mamma lo adorava… tutti gli volevano bene,
non c’era una persona che lo detestasse. Ma per me era
diverso: lui era… era…
era me. Non una parte della mia
anima, non una parte della mia essenza. Semplicemente tutto
ciò che c’è di
buono in quel che sono. Non ricordo molto della nostra infanzia,
soltanto
qualche breve istante che resterà per sempre indelebile
nella mia memoria. Eppure,
c’è una cosa che non ho mai
dimenticato.» Mi fermo, riprendo fiato, poi
controllo se lei mi stia ascoltando. È attentissima, ha gli
occhi sbarrati ed è
completamente concentrata sul suono della mia voce. Si appoggia al mio
braccio,
intrufola la testa nell’incavo tra la mia spalla e il collo.
Così mi sprona a
continuare: «Il momento… il momento in cui quel
proiettile gli ha attraversato
il petto. Eravamo poco più che bambini, entrambi ragazzini,
non c’entravamo
niente con quell’uomo… S-s-sarebbe potuto
succedere a me, gli ero accanto…» La
sua mano è sul mio viso, carezza ogni porzione disponibile
di pelle scoperta, infilandosi
tra le pieghe del colletto della mia camicia. È caldo il suo
palmo, le sue
dita, i suoi capelli, percepisco tutto di lei, tutto.
E in qualche modo mi aiuta a non affogare nel mio dolore.
«Continua,
Kev.» dice. «Ti prego.»
Sfrego
nervosamente il naso contro il suo collo. Non voglio… non
voglio che mi guardi,
eppure desidero così tanto i suoi occhi su di me.
«L’ho
sentito.»
proseguo. «Il mio cuore si è spezzato in due.
Rosso. Il suo sangue era il mio,
il corpo che cadeva tra le braccia di
quell’uomo…» I pugni chiusi, serrati
attorno al volante. Potrei spezzarlo in due. E allora mi rendo conto
che devo
trovarlo. Vendetta, non posso permettergli di andarsene
così, Adam non può
essere morto in un modo tanto… violento.
È… era
solo un bambino.
Michelle
spezza
la tensione dei miei muscoli contratti, mi riporta alla
realtà. Mi ricorda che
non posso fermarmi proprio ora.
«Non
l’ho mai
più visto. Capisci? Non avrò mai la certezza
che… che sia morto davvero.»
«E
tu credi che
sarebbe diverso? Che non proveresti lo stesso dolore, se non uno
maggiore, se
potessi sapere con convinzione ciò che gli è
successo davvero?» Alza la testa
per guardarmi dritto negli occhi.
«Mi
metterei
l’anima in pace.» No, non lo farei mai.
«Andrei avanti.»
Scuote
la
testa, non so cosa sia quell’ombra che le oscura lo sguardo.
La tristezza che
traspare dai suoi lineamenti mi pesa come un macigno sullo stomaco.
«Kev, no.»
sussurra, la sua voce è un filo sottilissimo che incespica
nel vuoto,
stringendomi il braccio. «Non si dimentica mai.»
Due
secondi.
Eppure mi sono sembrati un’eternità.
Continuiamo
a
stringerci l’uno tra le braccia dell’altra,
finché Michelle non si stacca d’un
tratto da me. Provo quasi un dolore fisico, ma non ho il coraggio di
chiederle
perché l’abbia fatto.
Non
c’è n’è
bisogno.
«Quasi
mi
dimenticavo.» esala, ammorbidendo il tono di voce
come… come se volesse
scacciare via, almeno per un po’, i brutti ricordi che ci
invadono la mente.
Tira fuori una busta di plastica, non l’avevo vista prima.
«Cos’è?»
«Birra.»
E, a
conferma delle sue parole, ecco che mi porge una bottiglia di vetro.
«Budweiser.»
leggo sull’etichetta. «Non è male,
l’ho assaggiata qualche volta, anche se non
è una delle mie preferi...»
Cazzo.
Me la sfila
dalle mani con nonchalance e svita il tappo. Poi, butta giù
più di un sorso,
direttamente dalla bottiglia, avidamente, come se l’avesse
fatto già in
precedenza, più di una volta. Ho visto tante altre ragazze
darci dentro in
questo modo, eppure… da lei non me lo sarei mai aspettato.
«Sei sorpreso,
vero?»
«Be’… sì,
ecco.»
Sorride. «E
perché mai?»
«Perché
tu…»
«Io cosa?» Lo
fa di proposito. Vuole prendermi in giro.
Mi gratto la
nuca. Non mi sono mai sentito tanto imbarazzato in tutta la mia vita.
«Sei
diversa. Non pensavo bevessi.»
«Concedersi una
birra, di tanto in tanto, non
è
bere.» mi corregge allungandomi la bottiglia. Le nostra dita
si sfiorano ma è
solo un attimo. «Mi aiuta… è
l’unica cosa che possa farmi dimenticare.»
«Cosa?»
Scuote la
testa, distendendo le gambe e poggiandole sul cruscotto.
Osservo i suoi
movimenti, e lei fa un’osservazione che riesce a sviare
l’attenzione da se
stessa. Come se fosse possibile.
Soltanto più
tardi, di ritorno verso casa, mi rendo conto dell’evidenza
dei fatti.
Non ho più
alcun segreto per lei; sa tutto di me, di Adam, di ciò che
è successo quel
giorno e che ha stravolto completamente la mia famiglia. Ma
è ben poco quel che
io so di Michelle Thompson. Nasconde qualcosa. E ho intenzione di
scoprire di
che cosa si tratta.
«Devi ammettere
che non è andata tanto male.»
Michelle è in
piedi, proprio di fronte a me, gli occhi bassi sul marciapiede e
l’ombra di un
sorriso sulle labbra carnose. L’istinto sarebbe quello di
baciarla fino a farle
dimenticare ogni cosa, ma in nome di quel briciolo di amor proprio che
ancora
conservo sui palmi delle mani capisco che non sarebbe affatto una buona
idea se
decidessi di metterla in pratica. E così, nel frattempo, mi
ripeto che è inutile
negare a me stesso l’evidenza: pur di trascorrere insieme a
lei anche soltanto
un secondo in più, sarei stato disposto perfino a fare mille
chilometri a piedi
fino a casa ⎼ nonostante i
suoi inutili tentativi di farmi desistere. Così ho
parcheggiato la sua auto in
perfetto silenzio, senza aver avuto il coraggio di spiccicare parola.
Ora siamo qui,
le mani in tasca e almeno qualche buon metro a separarci, ci guardiamo
ognuno
la punta delle proprie scarpe come se stessimo osservando qualcosa ben
più
interessante del viso l’uno dell’altra.
Non so davvero
come comportarmi. Non ho mai invitato una ragazza a uscire a parte lei,
tanto
meno ho dovuto affrontare una situazione simile; il ruolo del ragazzo
che piace
ai genitori non è proprio il mio forte. Piuttosto sono
quello da cui tutti gli
adulti dicono di stare alla larga.
E se il padre
di Michelle ha un fucile nascosto da qualche parte? E se i suoi ci
stessero
spiando alla finestra?
Improvvisamente
l’idea di non averla baciata come avrei voluto inizia a
pesarmi nello stomaco.
Sono combattuto: voglio farlo, disperatamente... ma non posso. Mi sento
come se
mi avessero infilato in gola in un sol colpo una tanica di benzina, e
brucia,
brucia in una maniera che non posso controllare. È un
po’ quando, subito dopo
avere ingerito un bel pezzo di peperoncino, pensi ingenuamente che un
bel
bicchier d’acqua possa calmare le fiamme che ti danzano sul
palato.
«Non intendo
esprimere il mio parere su questo.» Incrocia le braccia al
petto e trova
finalmente il coraggio di guardarmi negli occhi. La Michelle sfacciata
e sicura
di sé mi mancava, ma comincio subito a sentire la nostalgia
di quella timida e
riflessiva, quella che riesce sempre a scavare nei miei pensieri come
se non
avesse fatto altro per tutta la vita.
Sorrido. «Ah,
no?» Faccio quattro passi avanti, fino a quando non mi
ritrovo quasi completamente
a contatto con il suo corpo. Mi sembra di riuscire perfino a sentire il
battito
del suo cuore in sottofondo, una sottospecie di rimbombo che fa tacere
qualsiasi altro suono, ma non del tutto, perché il mio
respiro affannoso si
sovrappone al suo.
Una deliziosa
fossetta si forma all’angolo destro della sua bocca. Ora i
jeans cominciano a
tirarmi sul serio al cavallo dei pantaloni e mai come in questo momento
mi risulta
difficile cercare di calmare l’eccitazione. Ancora una volta
mi stupisco di
quanto sia devastante l’effetto che suscita su di me,
raggiunge ogni angolo
della mia mente e ogni spigolo del mio corpo. E così tra i
miei pensieri prende
posto qualsiasi forma di contraddizione, che mi convince a desiderare
una
connessione ancor più profonda tra di noi e, nel frattempo,
a farmi scalpitare e
fremere e ribollire a tutti i costi per un «basta»
che possa fermare tutto
questo.
«No.» Osservo le sue labbra
muoversi. L’eccitazione cresce, si
dilata nell’aria come un profumo inebriante che mi impedisce
di pensare lucidamente.
«Altrimenti si perderebbe tutto il divertimento, non credi
anche tu, Morgan?»
Alza un sopracciglio, vuole provocarmi. Lo sento. Lo vedo riflesso nei
suoi
occhi.
Alla fine smetto semplicemente di controllarmi. E
capisco
quanto sia facile avvolgere le braccia attorno a lei, prenderla per i
polsi e
sospingerla verso di me alla ricerca di quel qualcosa che tanto spero
di
ottenere dalle sue labbra. È facile, maledettamente facile,
naturale come respirare
a pieni polmoni.
«Ti ho già detto che mi chiamo
Kevin.» Calco ogni parola, stringo
con forza le mani attorno ai suoi fianchi e faccio sempre
più pressione contro
il suo petto, il seno morbido a stretto contatto con il mio torace.
Fremo, mai
come ora tanto consapevole del fatto che a separare la nostra pelle ci
siano soltanto
strati e strati di vestiti che potrei benissimo togliere via in un sol
colpo,
se volessi.
Scuote la testa con vigore, puntando il suo sguardo
intenso nel
mio.
«Ne sei proprio sicuro? Io credo proprio
di no.»
Sogghigno, e non so come sia capace di mascherare
ciò che
realmente provo e sento in questo momento. «Vediamo se riesco
a convincerti del
contrario…»
È… toccare la
felicità con un dito e vederla dissolversi
davanti ai tuoi occhi senza che tu possa fare niente per impedirlo.
Tocco le
sue labbra, un fuoco divampa nel mio petto, poi…
«Michelle!» Una voce
stranamente familiare ci interrompe,
paralizza entrambi sul posto come due statue di ghiaccio immerse in un
freezer.
Lo riconosco appena lo vedo, eppure…
sono sicuro di non averlo
mai visto prima. È un ragazzo, alto quasi quanto me,
longilineo, con le guance scrostate
di sangue ormai secco, gli occhi castani allucinati, stralunati e la
bocca
aperta nello sforzo di riprendere fiato. Ha i vestiti stracciati, una
ferita
alla spalla contro cui preme sempre più debolmente le dita,
e i capelli quasi
del tutto rasati sulla testa. Ci guarda, indugia su di me soltanto per
qualche
secondo, fino a quando non sposta totalmente la propria attenzione
sulla
ragazza che trema accanto a me.
Volto piano gli occhi verso di lei, non ho mai
visto tanto
terrore nello sguardo di una sola persona. È immobilizzata,
mi faccio inconsapevolmente
più vicino, ho il timore che possa svenire da un momento
all’altro…
Il tempo che s’è fermato per
non so quanto riprende la sua inesorabile
corsa prima ancor che io possa rendermene conto.
«Cole!» urla Michelle. Ha la
paura in ogni fibra del suo
essere. «Che diavolo è successo?»
Lui la fissa. Il suo cuore smette di battere in
quel preciso
istante come se fosse il mio.
Dice solo una parola.
«Aiutami.» Un soffio. Un rumore
sordo che riecheggia nel
silenzio.
Poi stramazza al suolo e perde
definitamente i sensi.
Note d'autore:
Ho
ripubblicato questo capitolo a causa di una sottospecie di
“cambiamento di
programma”. Siccome c’è stata una
variazione all’interno della trama che
riguarda più specificatamente il rapporto che
c’è tra Cole, Michelle, Kevin ed
Alice, sono stata costretta ad inserire l’intermezzo che
avete letto in questa
revisione del sesto capitolo in quello che avevo postato quasi una
settimana
fa. Il motivo è semplice: farvelo leggere nel prossimo
avrebbe allungato
soltanto il brodo e impedito a me di inserire un ponte tra i primi
capitoli che
avete letto (più introduttivi, per la precisione) e quelli
che aprono le porte
alla vera fantascienza. Dal prossimo in poi, come avete avuto modo di
vedere,
entra veramente in scena il personaggio di Cole, che sarà
determinante nella
vicenda e che ricalcherà un ruolo di importantissimo
rilievo. Detto questo,
preparatevi: se siete sensibili a certi argomenti, abbandonate subito
questa
lettura. Sarà così intricata che non ne usciremo
più. Un piccolo spoiler: se dovessi
dare un titolo al settimo, sarebbe
“L’evasione”. Di chi? Di che cosa? Kevin
scoprirà
qualcosa su Michelle? Io direi proprio di sì. I geni stanno
arrivando.
Ultima cosa:
ai lettori di Morbus
e Medium,
devo comunicarvi che le due storie appena citate
verranno cancellate dal mio account. In questi giorni ho provato a
scrivere sia
l’una che l’altra, ma per due ragioni ben diverse
non sono riuscita a
continuare. Duo cerebra
ha subito leggere variazioni che sono andate a
complicare quella che è la trama di Morbus; in questo
modo, andare avanti su
quella strada avrebbe portato soltanto delle contraddizioni tra le due
storie
strettamente connesse. Per Medium,
il perché è un altro, forse il più
comune: l’ispirazione
non è sparita, ma il filo logico della narrazione non mi
sembra più logico come
pensavo. Probabilmente la ripubblicherò quando
riuscirò finalmente a metterne a
punto la trama, non so. In compenso, prossimamente
pubblicherò una distopica
che, a quanto sembra, è molto più chiara nella
mia mente di quanto lo fosse
stata Morbus.
Per Amores,
la questione è un’altra: il secondo capitolo
arriverà, lo prometto ^^ Ora vi lascio ^^
Vi lascio i
link per contattarmi: EFP, Gruppo
Facebook, Facebook,
Pagina Fecebook
e Ask.
E le mie storie:
Fandom:
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Capitolo 8 *** AVVISO ***
AVVISO!
Mi vergogno a ritornare dopo non due mesi di ritardo, ma SETTE, senza neanche postare un nuovo capitolo; tuttavia il motivo per cui non sono qui ad aggiornare è proprio questo: per chi non lo sapesse, per tutto questo tempo sono stata (e lo sono tuttora) impegnata con gli esami, e no, non perché ho avuto il blocco dello scrittore e/o mancanza di ispirazione/voglia di scrivere. Perché nessuno può immaginare quanto Kevin e Michelle e Cole e tutti gli altri personaggi a seguire mi siano mancati, mi mancano ancora, li sento vicini a me come se non mi avessero mai abbandonati. Eppure, so che vi state domandando ancora il motivo reale dell'avviso, perciò, bando alle ciance: ho intenzione di riscrivere Duo Cerebra, ampliarla, sdoppiarla, modificarla, stravolgerla, e chi ne ha più ne metta. Da un po', ho sentito nascere dentro di me il bisogno di trasformarla in qualcosa di più di una semplice fyccina da quattro soldi, più di una semplice storia romantica, più di quello che era al principio. Perché al principio era senza pretese, o forse, le pretese ce le aveva eccome, solo che la trama ho cominciato a pensare non fosse stata sfruttata, già dal prologo, come realmente avevo immaginato e come realmente meritava di essere. Quindi, cambierà nome, cambierà molte cose, ma non preoccupatevi: i nostri Kevin e Michelle ci saranno ancora, sotto certi aspetti vi sembreranno nuovi, sconosciuti, però poi vi assicuro che li riconoscerete pian piano: sono i miei figli, e io non li cambierei per nulla al mondo. Non aggiungo altro, sono aperta a tutte le domande che volete farmi (oggi me la sono presa libera, la giornata): magari non qui, su Facebook, sul mio gruppo Facebook, sulla pagina, su Ask, ovunque vogliate (qui no perché non so se è consentito dal regolamento), o anche per messaggio privato, perché no. O... nessuno vuole farmi alcuna domanda LOL
Direi che ho finito. Voglio solo aggiungere che mi scuso con chiunque abbia aspettato inutilmente, ma... davvero, non era mia intenzione.
La nuova Duo Cerebra (che recherà un titolo non ancora scelto - ecco perché, chi fosse interessato, è meglio che tenga d'occhio la pagina per le informazioni che verranno), approderà su EFP verso metà luglio. Cercherò di essere veloce ad aggiornarla, cercherò anche di riprendere Amores e... Ora mi ritiro (aspettando i pomodori) ^^
(L'AVVISO VERRA' CANCELLATO ENTRO UNA SETTIMANA, COSI' CHE TUTTI POSSANO VEDERLO. POI, LO COPIERO' NELLA MIA PAGINA AUTORE)
Michelle Vèrace
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