Affidarsi alla speranza

di dilpa93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I mostri della notte ***
Capitolo 2: *** Gli amanti parte prima ***
Capitolo 3: *** Gli amanti parte seconda ***
Capitolo 4: *** La morte parte prima ***
Capitolo 5: *** La morte parte seconda ***
Capitolo 6: *** Le vite degli altri parte prima ***
Capitolo 7: *** Le vite degli altri parte seconda ***
Capitolo 8: *** La torre ***
Capitolo 9: *** Il bene più grande ***
Capitolo 10: *** La papessa ***
Capitolo 11: *** Il superstite ***
Capitolo 12: *** Il mondo ***



Capitolo 1
*** I mostri della notte ***






"La speranza è il peggiore dei mali perché prolunga il tormento dell'uomo"
Nietzsche


 
 
Ancora una volta si è svegliata per la mancanza d’aria, per quella sensazione di soffocamento che non riesce a gestire e controllare. Quell’incubo la perseguita da settimane, il viso di quell’uomo che è sempre più nitido. Lo conosce a memoria. La barba incolta, il neo sullo zigomo destro che pare sollevarsi quando, guardandola, le sorride con aria di sfida e la sua risata che la raggiunge anche oltre la porta chiusa della sala interrogatori. Ciò che più le mette i brividi è sapere che non è solo un incubo, ma un ricordo, sapere che è accaduto veramente.
Si volta piano, beandosi della vista di Rick che dorme ancora tranquillo, lieta di non averlo svegliato con i suoi affanni. Gli carezza il viso con il dorso della mano, si sofferma sulla linea marcata della mascella, risalendo delicatamente sino alla tempia, fino a scostargli quel ciuffo che senza riguardo gli ricade sulla fronte accaldata. Lo sente rabbrividire al suo tocco, forse durato più del previsto. Ritira rapida la mano, constatando lei stessa quanto i suoi polpastrelli siano freddi. La circolazione deve essere rallentata, probabilmente ancora scossa dalla nottata movimentata. Scosta il lenzuolo così da liberare le gambe filiformi. Il pavimento è fresco e una sensazione di benessere si diffonde dalla punta dei piedi sino alla base del collo. Afferra la vestaglia lasciata sulla poltrona vicino al letto, legando delicatamente la cintura attorno alla vita esce dalla stanza socchiudendo poi la porta e, lasciandosela alle spalle, percorre lentamente il corridoio. Arriva davanti alla camera che per anni era stata di Alexis non faticando ad immaginarsela bambina. I capelli rossi lasciati liberi che le si posano appena sopra le spalle, intenta a giocare sul tappeto a motivi geometrici o a fare i compiti alla scrivania, ora circondata da pile di scatoloni nel buio della cantina.
Un sottile fascio di luce entra nella stanza illuminando i profili dei mobili che la completano.
Sorride serena appurando che entrambe le bambine dormono.
Carezza il pancino a Madison e le copre le gambette che vispe riescono sempre a liberasi del lenzuolo. Urta qualcosa con il piede, scuote la testa divertita domandandosi come sia possibile che il coniglietto di pezza si ritrovi sempre a fare compagnia al pavimento. Glielo sistema ai piedi del lettino, andando poi a lasciare un bacio sulla fronte di Sarah, pregando che i suoi sogni non siano come il suo, che ogni notte la tormenta costringendola ad alzarsi.
La stanza ripiomba nell’oscurità più totale e, come nei giorni precedenti, scende le scale assaporando il silenzio diventato ormai una rarità in quella casa. Apre la credenza sopra il lavello prendendo un bicchiere che riempie fino all’orlo. Beve avida l’acqua che vi ha appena versato e l’arsura che l’ha colta dal brusco risveglio cessa come per magia. Ma il silenzio che prima bramava e apprezzava non l’aiutano a scrollarsi di dosso i ricordi e, anche se sveglia, rivede il sospettato. La sua mano che fa scivolare con innaturale lentezza i tarocchi sul tavolo, voltandoli poi con la medesima calma. Il fruscio del cartoncino sottile contro il legno le fa venire la pelle d’oca nonostante lo stia solo immaginando. E poi eccole davanti ai suoi occhi ancora una volta.
 
Gli Amanti, momenti di riflessione. Positività e momenti piacevoli, ma solo se pescata dal verso giusto.
 
La Morte, una fine inevitabile che deve assolutamente essere accettata. Nulla può andare contro o porre rimedio a ciò che il destino ha in serbo. Purtroppo per loro, la conclusione si era rivelata negativa e come previsto aveva portato a sofferenza, disperazione e malinconia.
 
La Torre, la distruzione e l’inizio di una vita diversa da come la si era progettata. Se negativo o positivo Kate ancora non è riuscita a capirlo.
 
La Papessa, una grande forza spirituale e riflessiva, una forza femminile che con la sua saggezza riesce ad aiutare gli altri.
 
L’ultima carta estratta dal mazzo era stata il Mondo.
 
Non aveva mai creduto ai tarocchi, ne a nulla che gli somigliasse. Lettura della mano, del pensiero, ipnosi... invece Rick si era lasciato fortemente influenzare, lo aveva visto pensieroso nei giorni seguenti il fatto. Aveva riempito fogli con scarabocchi, schemi, molti dei quali erano finiti nel cestino ed altri invece erano ancora sulla sua scrivania. Sapeva che si sarebbe lasciato condizionare, come era successo per ogni evento bizzarro o quasi soprannaturale che aveva incrociato il loro cammino, ma la cosa era sfuggita al suo controllo quando era venuto a conoscenza della storia di Elijah Gordon. Aveva cominciato da ragazzo, poco più che ventenne. Piccoli trucchetti di magia agli angoli delle strade della periferia di Manhattan. Riusciva ad attirare la gente ingolosendo la loro curiosità, ma di certo i loro applausi e risate non gli davano di che vivere e con l’aumentare della concorrenza si era visto costretto a lasciare la sua città natale e spostarsi nella grande mela a cercar fortuna. Aveva scovato un antico negozio di magia, ne era rimasto affascinato da subito, da quando aveva visto il pomello a forma di pentacolo ed, entrando, libroni in cuoi coprivano gli scaffali inarcandoli. Il proprietario sembrava felice di avere finalmente un po’ di giovane clientela e lo stesso Elijah era lieto di poter condividere la sua passione con un esperto, o per lo meno con qualcuno che si riteneva tale. Tra libri e strani marchingegni, gli aveva mostrato i tarocchi. Erano un’arte a lui ancora oscura ma attirarono immediatamente la sua attenzione. Fu proprio quello il suo primo mazzo, lo stesso che aveva usato per l’ultima volta il giorno del suo arresto. Si era esercitato parecchio, ma la morte improvvisa del proprietario del piccolo negozio lo costrinse a cercare informazioni altrove, come nell’internet caffè vicino a quella topaia che aveva affittato, ma che ancora non aveva il coraggio di chiamare casa. Si era rifugiato in biblioteca per ore studiando libri e manuali, voleva fare di quell’arte il suo lavoro, un lavoro grazie al quale avrebbe dato un risvolto alla sua vita. La sua formazione era proseguita divenendo l’assistente di una patetica ed anziana chiromante in un misero negozietto al confine della città. Ne aveva imparato i segreti fino a che, dopo qualche anno, non aveva preso il suo posto. Il suo nome aveva cominciato a diffondersi tra i creduloni della città, tra chi aveva bisogno di speranza o desiderava conoscere il proprio destino, nell’illusione che il futuro fosse meno oscuro e più controllabile. Aveva chiuso il negozio e detto definitivamente addio ad un salario da fame quando il titolare di un casinò lo aveva invitato ad esibirsi a Las Vegas. La voce dell’arrivo di un cartomante si era sparsa velocemente, la piccola casa da gioco aveva trovato in Gordon la sua carta vincente. Le donne perdevano la testa per lui nonostante non fosse proprio un esemplare di classica bellezza. La sua fama cresceva insieme alla sua popolarità, le moglie dei giocatori più avvenenti vedevano come un obbligo andarlo a trovare, come se anche lui fosse un’attrazione della metropoli. Le voci erano solite dire che le sue predizioni non sbagliavano mai, da un certo punto di vista sembrava avere quasi in pugno la città.
“Molto alla Moe Greene”, aveva commentato Rick leggendo il fascicolo. Fortunatamente da anni Kate aveva imparato a stare dietro ai suoi ragionamenti e ai mille riferimenti cinematografici e letterari che era in grado di far spuntare dal nulla e a farseli scivolare addosso come acqua durante una doccia.
Tornando a Gordon, come spesso accade, anche a lui la fama diede alla testa. Ne era attratto, ne bramava sempre di più. Si dava ai bagordi, non distingueva il giorno dalla notte. I momenti in cui era sobrio si potevano contare sulle dita di una mano. La sua scortesia con le clienti abbienti era all’ordine del giorno e cosi, quando la sua reputazione aveva cominciato a vedere il suo declino ed i clienti non si recavano più da lui come diretti in pellegrinaggio alla Mecca, era impazzito. Il tagliacarte in argento sulla scrivania nello studio del vice direttore del casinò del suo appartamento a New York era sembrata l’arma più adatta per porre fine alla vita di quel ragazzotto che, con il suo bel completo scuro e le tasche gonfie di soldi, aveva voluto mettere il punto alla sua carriera licenziandolo e lasciandolo in mezzo ad una strada dopo che aveva scialacquato ogni soldo guadagnato negli anni come se non ci fosse un domani. Ma il domani per lui era arrivato e si prospettava nuvoloso con precipitazioni all’orizzonte.
Le ultime parole che aveva detto prima di essere portato via dagli agenti terminato l’interrogatorio, e dopo aver disposto le carte in ordine davanti agli occhi incorruttibili di Kate, erano state beffarde come il ghigno che gli aveva deformato la bocca. “È il suo futuro detective, buon divertimento.”
 
Nuovamente un brivido la percuote al solo pensarci. Si stringe di più nella vestaglia lasciando il bicchiere sul tavolo e mettendosi a guardare fuori dalla finestra. Osserva, come assente, il chiarore del cielo che comincia a diffondersi oltre gli edifici ed aspetta. Aspetta di vedere il sole apparire come dal nulla e l’alba spazzare via il terrore e il dolore, anche se solo per qualche minuto. Ciò che la palla di fuoco non può fare, innalzandosi facendo risplendere come dorati i profili dei palazzi e degli alberi, è impedirle di pensare costantemente al fatto che tutto ciò che Gordon ha previsto è accaduto, anche se forse non nel modo in cui lui l’ha immaginato e che le sue carte hanno predetto.
Solo una cosa resta incompiuta.
Si era avvalsa delle ricerche di Rick, aveva riguardato insieme a lui i significati di ogni singola carta.
Gioia, prosperità, bellezza, questo rappresenta la carta del Mondo, l’ultima carta girata e la sola che non ha avuto un riscontro nella realtà. Ma ora come ora non può credere che Elijah abbia sbagliato. Ancora spera che quella predizione si avveri. Deve avverarsi, poiché altrimenti nulla avrebbe senso.
Ma non deve pensarci adesso. In questo momento deve concentrarsi solo sul rosso che spicca maestoso davanti ai suoi occhi e godersi quei sessanta secondi di serenità, nonostante dei passi alle sue spalle sembrano volersi intromettere.







Diletta's coroner:

Eccomi con una nuova fanfiction dove non tutto sarà rose e fiori... ne siete sorprese, vero? Ahahah
Breve prologo, si saprà di più nel prossimo!
Buona serata
Baci

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Capitolo 2
*** Gli amanti parte prima ***





Gli amanti
-Parte prima-


 


5 settimane prima
 
 
Il suono dei tacchi risuona particolarmente vivace sul parquet del distretto. Cammina veloce con Castle al suo fianco fermandosi davanti alla lavagna dove risaltano ancora la timeline e gli indizi raccolti dal ritrovamento del cadavere di Stanley Cooper.
Appena dietro di loro Ryan ed Esposito scortano l’indiziato nella sala interrogatori. Le loro mani si stringono con forza ai suoi avambracci riempiendo di grinze la giacca del completo scuro. Un occhio ben allenato avrebbe di certo dedotto che doveva trattarsi di un abito cucito su misura.
“Non capisco come abbiamo potuto non accorgercene prima.” Sospira Kate poggiandosi con la schiena al bordo della scrivania. Si sostiene con le mani al legno freddo puntando lo sguardo sulla foto di Elijah Gordon illuminata dalle luci al neon. I suoi piccoli occhi scuri sembrano indagarla a fondo e si sente percuotere da un brivido, una sensazione di disagio che aveva provato sin dalla prima volta che l’aveva vista e a cui avrebbe dovuto dare retta.
“Non incolparti. Nessuno avrebbe potuto sospettare di lui.” La bacia sul capo mettendosi poi al suo fianco, coprendole la mano con la sua.
“Beckett, Gordon è pronto per l’interrogatorio. Vuoi che ce ne occupiamo noi?”
“Grazie ragazzi, ma entro io. La Gates vuole che terminiate i vecchi rapporti.” Afferra la cartellina color senape vicino alla cornice che protegge la foto di lei e suo padre. Cercando la penna si trova costretta a sollevare i fogli che ancora le ricoprono la scrivania, non avendo trovato un attimo, dall’inizio del caso, per riordinarli.
“È incredibile che stiamo ancora pagando per quello stupido scherzo.” Si lamenta l’ispanico andandosi a sedere svogliato alla sua postazione. La pila di fascicoli di cui è costretto ad occuparsi sembra non essere diminuita rispetto alla scorsa settimana.
“Mi chiedo per quale motivo non ti sia beccato anche tu la punizione?” Sbraita Ryan incrociando le braccia al petto e guardando con disappunto lo scrittore.
“Beh, primo, io tecnicamente non lavoro qui e, secondo, ero io la vittima dello scherzo.”
 
Il tonfo aveva probabilmente richiamato l’attenzione anche dei tecnici rintanati come di consuetudine ai piani inferiori. Si era ritrovato praticamente a gambe all’aria e con uno strappo nei pantaloni che lasciava intravedere molto di quello che Kate considerava suo territorio privato.
“Ah-ah, divertente ragazzi”, aveva mormorato rialzandosi e controllando i danni. La sedia era distrutta e le viti mancanti erano ora in bellavista nella  mano del detective irlandese. “Scherzo vecchio, già visto.” Si era massaggiato la coscia, aggiustandosi poi il colletto della camicia.
“Sarà anche già visto, ma fa ridere ogni volta.” Aveva bofonchiato Esposito non trattenendo una risata.
“Detective”, apparsa come dal nulla, sulla soglia del suo ufficio, il capitano li aveva guardati con sguardo truce e severo tenendo gli occhiali sospesi a mezz’aria avendo tra l’indice e il pollice la sottile asta in metallo. “Nel mio ufficio, ora!”
“Questa si che è una cosa mai vista”, aveva replicato, in un certo qual modo rincuorato, Castle.
Erano stati dentro una decina di minuti. Attraverso le veneziane era riuscito a scorgere i due colleghi con il capo chino, inermi e silenziosi davanti alla sfuriata del capitano. Altre volte li aveva richiamati all’ordine, evidentemente i precedenti avvisi non avevano dato i loro frutti. L’unica cosa che le dispiacque fu di non poter punire anche lo scrittore, ma, conoscendoli ormai da anni, era certa che una situazione a lei favorevole si sarebbe presentata presto.
Poche ore e le scrivanie dei due detective si erano ritrovate ad ospitare fascicoli di casi irrisolti e rapporti mai scritti o incompleti. Non potevano credere di doversene occupare dopo tutto l’impegno assunto per poter risolvere quegli stessi casi, ma la Gates era stata irremovibile, quel compito spettava a loro.
 
“Ragazzi smettetela, ma quanti anni avete, dodici? Mettetevi al lavoro prima che la Iron esca dal suo ufficio e prolunghi la punizione di qualche settimana.”
L’irlandese sbuffa sedendosi, lasciandosi poi andare sullo schienale. Lancia uno sguardo alla foto sulla sua scrivania spostandolo poi sull’orologio da polso. Aveva tutt’altri piani per la serata, non può non pensare a sua moglie ad aspettarlo a casa, sul divano, in quel vestito nuovo che gli ha detto di aver comprato apposta per l’occasione. I capelli sciolti in cui poter passare le sue dita mentre la bacia, il profumo inebriante che avrebbe reso ancor più difficile stare lontano dalle sue labbra e dal suo corpo, piacere che lei gli negherà dal momento che sarà costretto a darle buca.
“Ehi, se non cominci domani mattina sarai ancora qui!” Lo schernisce il compare scuotendolo dal torpore e dal film mentale in cui si era rinchiuso.
“Qualcosa non va Ryan?” Domanda premurosa Kate passandogli accanto e posandogli una mano sulla spalla. A seguito della maternità è diventata molto più sensibile e, pur essendosi sempre preoccupata per la sua squadra, la dose di apprensione sembra essere decisamente aumentata.
“Dovevo uscire a cena con Jenny stasera. Mi ucciderà quando la chiamerò per disdire, le avevo promesso che non avrei mai mancato un anniversario.”
“Cosa fai ancora qui allora?”
“Beckett, lo hai detto tu, abbiamo i rapporti da compilare.”
“Coraggio, vai. Ci penserò io ai tuoi rapporti appena ottenuta la confessione.”
“Non direi proprio.” La voce profonda di Rick attira l’attenzione del terzetto. Beckett incrocia il suo sguardo in una di quelle loro conversazioni silenziose che hanno avuto modo di perfezionare negli anni. Sembra arrabbiata, con il viso imbronciato, incapace di credere che proprio lui si sia opposto al suo tentativo di aiutare un collega, di aiutare un amico che per lei avrebbe fatto lo stesso.
Dal canto suo Castle non riesce a capire come mai quegli sguardi perplessi ed irritati, almeno fino a  quando non intuisce che, per l’ennesima volta, i suoi pensieri siano andati più veloce di quanto abbiano fatto le sue parole. Si mette immediatamente sulla difensiva, alzando le mani come se bastassero a proteggerlo dallo sguardo inceneritore della moglie a qualche passo da lui e si affretta a spiegare. “È vero, odio occuparmi delle scartoffie, ma per una volta posso fare un’eccezione. Kate, finito l’interrogatorio vai a casa, è tutto il giorno che non vedi Madison, ha bisogno di stare con sua madre. Io ti raggiungo appena avrò finito.”
Cala improvviso il silenzio, fatta eccezione per il ronzio del fax e i telefoni che non danno mai un attimo di tregua agli agenti del 12th.
La detective si morde l’interno della guancia, maledicendosi per aver pensato, anche solo per un istante, che Rick potesse davvero essere così egoista. Rattrappisce le dita dei piedi cercando di trattenersi dall’andarlo a baciare lì, proprio di fronte all’ufficio del capitano.
“Siete sicuri?” La voce titubante di Ryan, nonostante nella mano sinistra, nascosta sotto la scrivania, stringa già la sciarpa pronta per essere indossata, permette a Kate di ritrovare un minimo di controllo, cosa che l’inspirare a fondo non era riuscita a fare.
“Vai prima che cambi idea.” Borbotta Rick. Sul volto gli spunta un sorriso quando guarda il detective precipitarsi, ringraziando, verso l’ascensore, mentre con movimenti rozzi e meccanici cerca di infilarsi il cappotto il più velocemente possibile. Le porte si chiudono e, andando a sedersi alla scrivania del compagno di giochi, fa appena in tempo a vedere il corpo della moglie sparire oltre la porta della sala interrogatori.
“È incredibile che siano già passati cinque anni dal matrimonio”, commenta Javier.
“È incredibile che lui si sia sposato prima di me.” Sembra quasi irritato mentre giocherella con la fede in oro bianco che gli adorna l’anulare sinistro da ben due anni.
“Se guardiamo l’aspetto tecnico tu ti eri già sposato due volte.”
“Ah, non me lo ricordare. Due sbagli, uno peggio dell’altro.”
“Per lo meno ti sarai divertito in... determinate occasioni”, ammicca, arricciando poi le labbra e muovendo davanti a sé le mani delineando fluide curve. Castle lo guarda scocciato, sorprendendo persino se stesso dall’essere indispettito da un commento che fino a qualche anno fa avrebbe apprezzato e per cui non si sarebbe trattenuto dal vantarsi e, con inaspettata rapidità, colpisce l’amico in pieno viso con una pallina di carta. “Pur non capendone la logica, se Kate ti sentisse mi spetterebbe almeno una settimana di divano, mentre tu te la caveresti con uno scappellotto.”
Kate è particolarmente sensibile all’argomento “ex mogli” e ai commenti che i suoi colleghi non si astengono dal fare, nonostante non abbia nulla da invidiare loro e sappia bene che Rick non la guarderà mai come se fosse la terza moglie, non la considererà mai un ripiego, ma la tratterà sempre come la donna giusta, l’unica, colei che non viene dopo nessuno e che non deve temere i fantasmi del passato. Ma in questo momento la detective ha qualcosa di più importante di cui occuparsi che pensare a sorprendere con un agguato Esposito sperando che, all’ennesimo scapaccione, ingoi la lingua insieme alle numerose sciocchezze cui continua a dar vita grazie a questa.
Nella stanza degli interrogatori, Elijah Gordon sembra quasi divertito dalla situazione. Da quando lo hanno lasciato solo non si è tolto, neanche per un istante, quel sorrisetto ipocrita dal viso.
Kate rimane a fissarlo al di là dello specchio, chiedendosi se lui sappia della sua presenza, se quel suo atteggiamento spavaldo mentre si rilassa contro lo schienale freddo e scomodo della sedia dipenda dal suo essere a conoscenza del fatto che, oltre quella vetrata apparentemente vuota, ci sia qualcuno ad osservarlo.
Il linguaggio del corpo sembra indicare che probabilmente si aspettava di essere preso, forse consapevole, sin dall’inizio, che non sarebbe riuscito a farla franca. Addirittura dal suo sguardo, che era riuscito a metterla a disagio dalla prima volta in cui aveva visto la sua fotografia, le pare quasi sollevato. Possibile che non aspettasse altro che trovarsi lì, in quella stanza, insieme a lei?
Scacciando quelle domande, a cui non riuscirà a dare risposta restando immobile a fissarlo, abbassa la maniglia entrando con la sua solita aria impassibile, sedendogli poi di fronte ed accavallando con estrema eleganza le gambe. Apre il fascicolo girandolo e sospingendolo verso di lui. Un foglio bianco, una penna e i referti che, senza alcuna ombra di dubbio, avvalorano la sua colpevolezza. L’uomo si sporge in avanti, inarca le sopracciglia e si accomoda nuovamente.
“Cosa dovrei fare detective?”
“Per cominciare potrebbe scrivere la sua versione dei fatti e firmarla, dopo di che, una volta che l’avrò letta, la lascerò nelle mani dei miei colleghi che si occuperanno di lei fino al suo trasferimento. Sempre che questo, ovviamente, non le dispiaccia.” Aggiunge con ironia e sguardo pungente.
“Oppure?”
“L’alternativa è semplice, anche se non molto diversa. Potrei raccontarle come si sono svolte le cose secondo me e secondo quanto ci dicono le prove raccolte, il che richiederebbe più tempo, ma di certo nulla di tutto questo le potrà impedire di finire in galera.”
“E se invece decidessi di chiamare il mio avvocato? Mi era apparso di sentire, tra i miei diritti, questa possibilità.”
“È un uomo attento signor Gordon. Può chiamare il suo avvocato se vuole e potremmo ascoltarlo entrambi mentre cercherà di portarci ad un patteggiamento. Tuttavia, se desse un’occhiata a questi”, l’attenzione di Gordon si sposta su tabelle, numeri, fotogrammi, nomi improbabili di agenti chimici e chissà cos’altro, stampati nero su bianco sui fogli che ora Kate sta indicando con l’indice dopo averci picchiettato sopra, con l’unghia, un paio di volte. “Capirebbe che un patteggiamento sarebbe pressoché impossibile da ottenere.”
“Sa una cosa? Mi ha convinto.” Lascia scattare la molla della biro avvicinando la punta al foglio ancora immacolato, ma, prima che una sola lettera possa imprimersi sulla carta, ritira la mano cominciando a giocare distrattamente con la penna.
“Qualcosa non va?”
“Oh no, nulla, solo...”
“Solo?”
“La sto innervosendo detective?” Domanda compiaciuto, sentendo il costante tamburellare delle dita di Kate sul tavolo e la vena del suo collo pulsare ritmicamente. La detective non risponde alla gratuita provocazione, ma il tic con cui tormenta la fede con il pollice della stessa mano vale quanto una risposta agli occhi attenti del chiromante. “In ogni caso”, riprende divertito facendo precedere al continuo della frase una lieve risata, come un accompagnamento accennato alla chitarra appena prima di una nota. “Avrei una richiesta, scriverò la confessione se mi permetterà, al termine, di farle una breve lettura delle carte. Non chiedo altro. In fondo non si nega mai l’ultima sigaretta ad un condannato a morte.”
Non sa per quale motivo abbia accettato e si sia lasciata convincere. La sola cosa che vuole è chiudere il caso, uscire da quella sala dove, per un inspiegabile motivo, le luci al neon le stanno irritando gli occhi, afferrare sciarpa e cappotto, lasciare un bacio sulla guancia di suo marito e tornare a casa dove lo aspetterà in completo relax sul divano in compagnia della loro bambina. Stesso divano sopra il quale, una volta messa a dormire la piccola, saprà ringraziarlo a dovere per averle risparmiato le scartoffie permettendole così di tornare a casa ad un orario decente per la prima volta durante l’intera settimana.
Gordon continua a scrivere, portando Kate a chiedersi se stia scrivendo la sua autobiografia o se sia solo la sua immaginazione a giocarle brutti scherzi. Con disinvoltura lascia cadere lo sguardo sull’orologio di suo padre, parzialmente nascosto dalla manica del maglione. Non era solo una finzione elaborata dalla sua mente stanca, è passato ormai quasi un quarto d’ora da quando Elijah ha preso in mano la penna.
“Bene, ho finito”, come fatto da lei in precedenza all’inizio di quella conversazione, anche lui poggia la mano sulla cartellina. Il cartoncino sottile, sfiorando la superficie del tavolo, produce un gracchiante fruscio, come quello del vento che, d’inverno, attraversa le onde delle acque negli Hampton.
Legge rapidamente, alza solo ogni tanto lo sguardo come per assicurarsi che Gordon sia ancora lì. Gli occhi saltano da una riga all’altra arrivando velocemente all’ammissione di colpa. Chiude il fascicolo soddisfatta, sospingendosi all’indietro così da potersi alzare. “Due agenti la scorteranno in cella, tra qualche ora verrà trasferito al penitenziario.”
“Aspetti”, la sua voce greve la blocca a pochi passi dall’uscita, “io ho mantenuto i patti detective, ora tocca a lei.” Voltandosi il suo sguardo si incatena come ipnotizzato alle carte che Gordon sta mischiando. Le porta sempre con sé, chiuse nella tasca interna della giacca. Come portafortuna, come ricordo degli anni passati e dei suoi inizi. Della sua scalata verso il successo che è finita con un tuffo nel precipizio.
Le fa scorrere tra le dita con agilità, come se avessero vita propria. Arresta di colpo quei fluidi movimenti, facendo così fermare, per qualche secondo, il respiro di Kate. Ripone il mazzo sul tavolo alzando le carte una ad una. Nonostante il bianco del bordo abbia ormai lasciato il posto ad un giallo slavato, i colori delle figure ancora risaltano sotto la bianca luce artificiale.
Guarda riluttante quelle carte, il suo scetticismo è più che evidente. Che fra esse ci sia la morte non la preoccupa minimamente. Delle altre, ad esclusione degli amanti, non ne conosce il significato e, del resto, non è interessata a scoprirlo.
Incrocia le braccia al petto sfidandolo con lo sguardo. “Bene. Abbiamo finito”, non gli permette di spiegarle il senso di quelle figure a lei sconosciute e, non appena apre la porta, due agenti in divisa entrano avvicinandosi immediatamente a lui. Kate prova piacere nel sentir scattare le manette attorno ai polsi di Elijah. “È il suo futuro detective, buon divertimento”, sghignazza mentre di peso viene portato fuori.
“Alquanto inquietante”, mormora Rick cogliendola di sorpresa. “Mai quanto te quando mi compari così alle spalle. Non dovresti essere alla scrivania o ci hai già ripensato?”
“Ho promesso di aiutarti e non mi tiro indietro, ero solo curioso, mi piace guardarti durante gli interrogatori è... eccitante”, bisbiglia al suo orecchio prima di lasciarle un casto, forse fin troppo, bacio sulla guancia. “e poi quella cosa dei tarocchi, non sei curiosa?”
“Neanche un po’ Castle”, lo lascia indietro incamminandosi verso la sedia dove il suo cappotto è appoggiato, “sono più curiosa di andare a casa e assicurarmi che tua figlia non abbia combinato qualche guaio con il suo gattonare.”
“Quando combina qualche guaio è mia figlia, eh?”
“Si”, borbotta sorridente sulle sue labbra. “Vado, cerca di non fare tardi.”
“Sarò a casa prima che tu possa sentire la mia mancanza.”





Diletta's coroner:

Buonasera!
Si torna indietro di qualche settimana per capire cosa abbia scatenato di preciso il sonno agitato di Kate...

Non so mai cosa scrivere, quindi mi eclisso, ma prima un ringraziamento speciale a Monica che ha betato tutto! *-*
Baci

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Capitolo 3
*** Gli amanti parte seconda ***





Gli amanti
-parte seconda-



 
La bambina è crollata velocemente tra la sue braccia.
Al suo rientro ha trovato Martha addormentata sul divano. Gli occhioni chiari di Madison guardarla curiosi dalla sdraietta a mezza luna sul tavolino nella quale era stata lasciata. Per quanto l’attrice cerchi di negarlo, gli anni stanno passando ed una bambina di appena nove mesi richiede molte energie, soprattutto dal momento in cui la scuola di teatro occupa ancora una parte importante della sua vita e lei, in quanto fedele amante della recitazione, non si sente ancora pronta a delegare.
L’ha svegliata cercando di non farla spaventare, ha preso la piccola stringendola a sé inspirando il suo naturale profumo. Quanto le è mancata, quel giorno più di tanti altri.
Si è rilassata dandole da mangiare, divertita dalla buffe facce e dall’impegno che la sua bambina metteva in quella cosa per lei tanto semplice. Le ha pulito il visino e l’ha cambiata, passeggiando poi davanti alla finestra con lei in braccio tentando di farla addormentare. Alla fine, quando l’ha vista chiudere gli occhi e lasciar cadere la testolina sul suo seno ormai sfinita, l’ha messa nel lettino lasciandola ai suoi sogni, potendosi così mettere finalmente comoda.
La vestaglia, ora slacciata, le avvolge solo per metà le gambe lasciate scoperte dalla lingerie in pizzo nera comprata, qualche settimana prima, nell’attesa che arrivasse l’occasione adatta per indossarla ed è giunta alla conclusione che non ci sarebbe sera più perfetta di quella per coccolare e stuzzicare il suo uomo visto il sacrificio da lui compiuto quello stesso giorno. Mentre quell’idea, materializzatasi poco prima tra i suoi pensieri, le torna alla mente, sente la voce di Rick provenire dal pianerottolo oltre la porta ancora chiusa. Con infinita naturalezza porta i capelli dietro l’orecchio cercando di cogliere, tra lo scattare della serratura e il tintinnio metallico delle chiavi, il senso delle sue parole.
Lo vede entrare goffamente, il cellulare in precario equilibrio tra la spalla e l’orecchio. Con una mano accosta la porta lentamente, cercando di non far rumore, mentre con l’altra tenta di sfilarsi il cappotto.
“Ormai è il quarto messaggio che ti lascio. Se non vuoi parlare con me va bene, ma potresti farlo almeno con la mia segreteria telefonica. Sono in pensiero, Alexis. Mi manchi e mi manca il nostro rapporto. Ti prego, appena senti questo messaggio richiamami. Ti voglio bene.”
Al sentire il nome della ragazza, Kate stringe in vita la cintura della vestaglia coprendosi alla meglio. Solleva le gambe portandole al petto, lasciando posto a Rick che le siede accanto esausto. Getta il telefonino sul tavolo prima di lasciarsi andare contro lo schienale. Le mani di lei vagano tra i suoi capelli corti contemplando, in silenzio, il suo sguardo perso nel vuoto e i movimenti nervosi delle sue dita.
“Sono preoccupato. Va bene, lo ammetto. Ma non guardarmi come fossi impazzito.”
Da un paio di settimane Kate ha notato il cambiamento nel marito. Non è stato il suo atteggiamento, forse leggermente più irritabile rispetto al solito, meno giocherellone ed incline alle battute. Non è stato il minor interesse che dimostrava per i casi al distretto o per quelli che gli raccontava quando restava chiuso nello studio sperando che l’ispirazione gli permettesse di portare a compimento un altro capitolo. Inoltre, come lei, anche Rick è stato particolarmente impegnato con la bambina. Delle notti si svegliava, il lato del letto accanto a sé vuoto, proprio come lo era la culla. Cercava di fare meno rumore possibile alzandosi e puntualmente lo trovava in salone, sul divano, addormentato con la piccola sul suo petto cullata dai suoi respiri. Il biberon vuoto sul tavolino e la tazza di camomilla piena solo a metà. Anche lui è stravolto nonostante finga di essere il super uomo di sempre.
Ciò che l’ha insospettita sono stati i suoi occhi. Ha imparato a conoscerli giorno dopo giorno. Se ne è innamorata dalla prima volta in cui li ha visti e, sebbene il loro vero primo incontro sia avvenuto una sera a primavera, alla presentazione dell’ultimo libro di Derrick Storm, lei li rammenta da prima, da quel giorno di pioggia, fuori da una piccola libreria, aspettando impaziente che arrivasse il suo turno per farsi autografare il libro.
I suoi occhi le parlano anche quando lui non vorrebbe dire niente, le rivelano quando sta mentendo o quando, lucidi, tradiscono la sua commozione.
In questi giorni li ha visti scurirsi, spegnersi lentamente come le luci delle notte che si assopiscono insieme alla città. Non ha detto nulla, beandosi dei momenti in cui lo vedeva felice insieme a lei e alla bambina, degli attimi in cui lo vedeva ridere poco prima di chiudersi nuovamente a riccio. Ma davanti a quel movimento morboso fatica a tacere. Non vuole forzarlo, decidendo di raccogliere la sua frase, alquanto provocatoria, con sarcasmo ed ironia.
“Guardo semplicemente il modo in cui stai trattando il peluche di nostra figlia. Non potrai rimetterlo nel lettino dopo che gli avrai staccato la testa.”
Guarda il coniglietto che tiene tra le mani. I grandi occhi, a cui il filo con cui sono stati ricamati conferisce spessore e tridimensionalità, lo osservano spalancati e gioiosi. La bocca si allarga in un enorme sorriso, certo che se potesse parlare sbraiterebbe per il modo in cui gli sta tirando le lunghe e soffici orecchie e torcendo il piccolo collo.
Lo lascia andare guardandolo afflosciarsi sul divano accanto a sé. Il muso del pupazzo affonda tra i morbidi cuscini. Sospira ruotando finalmente il capo, guardandola per la prima volta dal momento in cui ha messo piede in casa.
“Credi che abbia sbagliato? Con Alexis intendo.”
“A cosa ti riferisci?”
“A lei e... Pi”, grugnisce quel nome, non riuscendo ancora a mascherare, almeno con Kate, un certo disappunto per quella relazione per cui non vedeva un futuro e per cui era convinto che la sua bambina, ai tempi, non fosse ancora pronta.
“Ascoltami, so bene che all’epoca non fossi d’accordo con la sua decisione e quanto ti sia costato vederla andare via. Al suo ritorno dalla Costa Rica hai dovuto realizzare che davanti a te avevi una donna che cercava la sua indipendenza e non più la bambina che credevi di aver lasciato partire settimane prima. Non so dirti quanto sia stata felice nel vedere gli sforzi che hai fatto, i tentativi di andarle incontro e appoggiarla anche in questa scelta, e sono certa che anche lei li abbia apprezzati. Ti sei dimostrato disponibile ad ascoltarla, come hai sempre fatto. Pian piano hai accettato anche Pi, ma so che sei ancora preoccupato ed intimorito che non possa offrire ad Alexis il futuro che si merita. Ma va bene così, è giusto essere preoccupati. Sei suo padre, è un tuo dovere esserlo. Non hai sbagliato e non stai sbagliando neanche adesso. È quasi due anni che vivono assieme e se devo essere del tutto sincera hanno superato anche i miei pronostici. Il tuo intuito ti ha e ci ha sempre guidato nella giusta direzione, forse questa volta ti sei sbagliato.”
“Già, ma non è solo per questo... non la vediamo da settimane. Questo, questo non è da lei. Era così entusiasta della nascita di Madison, ha passato giornate intere qui da quando l’abbiamo portata a casa dall’ospedale. Sembrava non volersene mai andare, in un certo senso è stato come riaverla a vivere qui. Ed ora invece non si fa più vedere.”
È come sparita, dalla sera alla mattina, senza un minimo di preavviso. Ha cominciato ad inventare quelle che suo padre ha subito identificato come delle pessime e patetiche scuse. Molte volte, fermo al semaforo all’incrocio, si è domandato se svoltare a sinistra, proseguire per un paio di isolati e, una volta parcheggiata la macchina, anche in doppia fila se necessario, entrare nel piccolo palazzo salendo di corsa le scale d’ingresso ed accampandosi fuori dalla porta fino a che lei non gli avesse aperto. Eppure ogni volta, allo scattare del verde, ha proseguito diritto verso casa, come se sentisse di non avere il diritto di fare una cosa del genere.
“Per non parlare del modo sbrigativo in cui conclude le telefonate o di come negli ultimi giorni abbia lasciato a Pi l’onere di dirmi che non era in casa, come se non la sentissi sussurrare a quel mezzo hippie che non è neanche capace di coprire il ricevitore del telefono come si deve!”
“Rick, calmati o sveglierai la bambina.”
“Scusami.” Le prende la mano che gli aveva delicatamente posato attorno al polso, baciandole poi il palmo. “Qui qualcosa non va. Il viaggio a Londra del mese scorso per cui non ha voluto che l’accompagnassi all’aeroporto o che andassi a salutarla. La solita scusa del ‘sono occupata con gli esami’, l’apprendistato presso lo studio legale che dice di aver cominciato e che invece non inizierà prima di quattro settimane.”
“E tu come...” incontra lo sguardo del marito, quello che soleva dire ‘ho le mie conoscenze’, e lascia cadere la domanda nel vuoto, con un sospiro e una leggera scrollata del capo.
“È da lunedì scorso che non la sento, io... mi sembra di impazzire.”
“Dovresti andarla a trovare, parlarle. Sei stato un modello per lei, le hai sempre lasciato i suoi spazi e la possibilità di far fronte ogni cosa da sola, certo che se avesse avuto un problema tu saresti stato il primo a cui avrebbe chiesto aiuto. Forse è arrivato il momento di giocare la carta del padre. So che è maggiorenne, so che tu sai meglio di chiunque altro come comportarti, ma, per quanto mi dispiaccia ammetterlo, qualsiasi sia la ragione, non è corretto che ti tenga all’oscuro, non è il modo giusto di comportarsi.”
Le carezza la gamba, sentendo la pelle lisca a contatto con il palmo della sua mano. “Hai ragione, hai ragione senz’altro. Le darò un paio di giorni, non uno di più, dopo di che dovrà affrontarmi. Qualsiasi problema lo risolveremo.”
“Ne sono certa”, sussurra baciandolo dolcemente sulle labbra, tornando poi a giocare distrattamente con quel ciuffo sbarazzino che gli ricade sulla fronte.
Solo in quel momento Castle si accorge dell’abbigliamento, inusuale, della moglie.
“Sono pessimo, tu... tu avevi dei programmi per la serata.” La sua mano vaga sul tessuto cangiante della veste da camera, aprendola fino a farla scivolare con lentezza giù dalle spalle, cominciando ad intravedere la pelle di quel corpo stupendo e sfiorando appena il pizzo che le copre il seno.
“Diciamo che avevo qualcosa in mente”, rabbrividisce al tocco sempre più profondo dell’uomo, “ma forse dovrei avvertirti che tua madre sta dormendo nella stanza degli ospiti e che potrebbe apparire da un momento all’altro.”
“Ecco come uccidere il romanticismo”, borbotta incredulo sul modo in cui sua madre, pur essendosi trasferita l’anno prima, così da lasciargli la loro intimità, riesca sempre ad intromettersi nei loro momenti. “Come mai è qui, è successo qualcosa?”
“Non allarmarti, è solo che quando sono rientrata si era assopita sul divano e non me la sono sentita di farla tornare a casa. Del resto quella stanza l’abbiamo tenuta proprio nell’ipotesi in cui si verificassero casi come questi.”
“Hai fatto bene, ma noi, noi potremmo continuare in camera nostra. Se non sbaglio anche quella stanza l’abbiamo per... casi del genere.”
 
Tutto avviene con molta lentezza, la fretta non è più nei loro piani.
Chiudono la porta della stanza, entrambi rivolgono uno sguardo alla finestra per assicurarsi che sia ben chiusa e la tapparella completamente abbassata, così da non far entrare alcun suono tranne quello dei loro sospiri e dei loro gemiti, quasi a voler costringere la notte a non far rumore.
La lascia stendere sotto di sé, cominciando a spogliarla e sentire le sue mani fare lo stesso con i suoi indumenti. La bacia sulla clavicola, sentendola inarcare la schiena a quel semplice gesto. La sente ansimare sfiorandole il ventre con le dita che scendono sempre di più. Le parole che escono dalla sua bocca sono solo sussurri senza senso che preso dal momento non riesce a distinguere, almeno fino a che lei, sollevandosi, mentre un brivido la coglie vicino alla sua intimità, non gli bisbiglia all’orecchio.
“Facciamo un altro bambino.”
La sua mano si ferma in quella tortura che, Kate, non riesce quasi più a sopportare.
“Cosa?”
“Facciamo un altro bambino Rick.”
“Mi sembrava che avessi detto di no”, non sa cosa sia più incredibile, il fatto che abbia cambiato idea o che abbia voluto dirglielo in quell’esatto momento.
 
Glielo aveva domandato un pomeriggio, sdraiati sul tappeto del salone, mentre si destreggiavano tra paperelle gialle, sonaglini e buffi gorgheggi. Si era seduta sul divano reclinando la testa all’indietro portandosi le mani sul viso. Lo scopo del giorno libero doveva essere permetterle di riposarsi e riacquistare le forze, eppure si sentiva più stanca di quando si era svegliata quella mattina. Rick l’aveva guardata come rapito, passando distrattamente un cubo in gomma azzurra alla piccola che, sconcertata, cercava di toccarsi la punta dei piedini scalzi. Le aveva carezzato la schiena coperta dal piccolo body a pois e, non appena i suoi occhi ebbero finalmente l’occasione di specchiarsi in quelli verdi di Kate, le parole gli erano uscite naturali, “Ne facciamo un altro?”. Era rimasta basita, spostando in continuazione lo sguardo da Rick a sua figlia, che la fissava come se stesse aspettando anche lei di sentire la sua risposta, risposta che aveva tardato qualche minuto prima di arrivare. “Neanche per sogno”, in mezzo alla fronte le si era formata la solita ruga che Rick trova adorabile sul suo viso imbronciato, “o sarai tu a partorire o non se ne parla.” Aveva scosso la testa, continuando poi con ilarità in quella che sembrava la lamentela di una bambina di cinque anni. “Divento enorme, mi si gonfiano le caviglie e sono ferma a quella stupida scrivania”. Un modo per mascherare una sua possibile paura nel diventare ancora madre, aveva pensato Castle, o forse un mero tentativo per non dovergli dire no in modo brutalmente diretto, infrangendo così un suo desiderio.
 
“Ci ho riflettuto”, le sue mani si intrecciano spontaneamente dietro il collo di lui. I suoi seni sono contro il suo petto caldo e già sudato. “È il momento perfetto, Maddie ha quasi un anno e in questo modo non ci sarà troppa differenza di età. Inoltre i bambini non arrivano a comando, potrebbe volerci un po’ e poi...”
“Continua”, la incita baciandole e solleticandole il collo.
“Se davvero avremo tre figli, avremo più tempo per allenarci per il terzo.”
“Beh, chi ti dice che questa volta non avremo dei gemelli”, le unghie di lei gli penetrano nella schiena. Doloroso ed eccitante allo stesso tempo.
“Mettimi incinta di due gemelli e chiedo il divorzio.” Lo minaccia divertita, sentendosi, subito dopo, accompagnare con impeto fino al materasso su cui la sua schiena poggia nuovamente. Le sue mani costrette da quella grande di lui appena sopra la sua testa. La sua bocca torturata da quelle labbra di cui non può più fare a meno. Il suo corpo vittima dei giochi e delle piacevoli torture che lui le sta regalando, e pensare che voleva essere lei la fonte del suo piacere. Invece, ancora una volta, è lui a donarglielo e lei è schiava dei suoi movimenti, è il centro delle sue attenzioni, è inerme ed incapace di fare qualsiasi cosa sotto il suo tocco esperto.
Ancora nudi, l’uno tra le braccia dell’altra, si lasciano andare al sonno che li ha pervasi lasciandosi alle spalle, almeno per qualche ora, le fatiche del lavoro e la preoccupazione per Alexis.
Non è da poco passata la mezzanotte quando il telefono squilla turbando i loro sogni.
“Rick”, sbiascica ancora assonnata.
“Mmm... si, ora vado. Ci penso io.”
“No babe, non è la bambina, è il tuo telefono.”
Restando a pancia sotto, fa leva sugli avambracci ruotando il capo alla sua destra alla ricerca dell’elemento di disturbo. Lo raccoglie con uno sbadiglio accettando la chiamata.
“Esposito, prega per te che sia importante.” Sfrega gli occhi ancora appesantiti e che sembrano non volerne sapere di restare aperti.
“Castle, nel caso tu non lo sia già, è meglio che ti metta seduto e... sveglia anche Kate.”




Diletta's coroner:

Non sarei stata io se, dopo una parentesi Caskett, non avessi fatto succedere qualcosa.
Il punto è... cosa?
Prima o poi si scoprirà!

Buona domenica a tutti
Baci

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Capitolo 4
*** La morte parte prima ***







La morte
-parte prima-




 

Come Rick, anche Esposito stava dormendo quando il suo telefonino si era illuminato producendo un fastidioso ronzio vibrando convulsamente sul suo comodino e, come Kate, era stata Lanie ad accorgersene e a svegliare il suo uomo.
A seguito della chiamata le sue sinapsi erano come impazzite. Nonostante il suo passato militare e gli anni di servizio al 12th lo avessero preparato a situazioni del genere, in quel momento si sentiva come un ragazzino alla sua prima lezione di pronto soccorso. Ogni secondo gli veniva in mente qualcosa di nuovo. Aveva chiuso la telefonata e abbandonato il cellulare tra le lenzuola sfatte. Aveva cercato i pantaloni, per poi arrendersi nonostante fossero proprio davanti ai suoi occhi. Aveva ripreso il telefono e lasciato poi nuovamente cadere non sapendo esattamente cosa fare. Si era infilato la maglietta, cercando inutilmente di prestare attenzione alle parole di Lanie, per lui solo una mescolio di lettere senza senso. Poi, una volta infilate le scarpe, fu come se la confusione fosse improvvisamente sparita. La voce della patologa lo raggiunse incredibilmente calma e tranquilla.
“Andrà tutto bene, staranno bene. Ora perché non avverti Castle e Kate, mh?”
Così aveva fatto, seduto sul bordo del letto nel quale poco prima dormiva beato ed ora ascolta il respiro cadenzato e ansioso di Rick dall’altra parte dell’apparecchio.
“Siamo svegli”, dice in un sussurro. Concentrandosi riuscirebbe a sentire persino il cuore di Kate battere. “Espo, cos’è successo?”
“Hanno chiamato dall’ospedale. A quanto pare c’è stato un incidente, un camion è... è uscito di strada. L’auto di Ryan è rimasta coinvolta, hanno trovato il mio telefono tra i numeri da chiamare in caso di emergenza. Io e Lanie ci stiamo andando ora.”
 
Al suo rientro a casa aveva trovato Jenny davanti allo specchio all’ingresso che terminava di prepararsi. Il vestito blu le fasciava il corpo sottolineando le sue curve da qualche settimana leggermente più abbondanti, si era data un ultimo colpo di spazzola andandogli poi incontro.
“Sei in ritardo”, aveva picchiettato con il tacco, come spazientita, sulla soffice moquette prima che i lineamenti del viso le si rilassassero in un dolce sorriso. “Scherzo, non sei in ritardo. Sei giusto in tempo.” L’aveva baciata prima che la figlia, scappata dalle braccia di Megan, la giovane babysitter, gli corresse incontro interrompendoli. L’aveva sollevata girando poi su se stesso, ascoltando la risata della bambina e trovando lo sguardo trasognato di sua moglie ad accoglierlo una volta fermato.
L’aveva lasciata andare, guardandola poi sgambettare verso la sua cameretta.
“Mi cambio e andiamo”, aveva sospirato allentando la cravatta, togliendola poi nel tragitto verso la camera da letto. Sfilatosi anche la giacca, aveva preso pistola e distintivo riponendoli nella piccola cassaforte che avevano nell’armadio. Si era dato rapidamente una rinfrescata e aveva infilato il vestito buono. Erano usciti di casa abbracciati, guardando per l’ultima volta la loro bambina fargli ciao sulla soglia di casa tenendo per mano Megan.
Il viaggio in macchina fino al ristorante era stato piacevole, allietato dalla musica alla radio e dalle loro mani che si sfioravano cercandosi sopra il cambio.
“Ho dimenticato di dire a Megan dove ho lasciato i numeri per ogni emergenza, se Sarah-”
“Starà benone. Non è la prima volta che rimane con Meg, e lei sa perfettamente che i numeri sono sotto la calamita sul frigo. Rilassati, godiamoci la serata.”
Ryan aveva avuto ragione, era stato bello avere una sera tutta per loro. Un paio d’ore, o più, dove lui l’aveva potuta viziare facendosi perdonare qualche nottata di troppo al distretto e il non essere riuscito ad accompagnare con lei Sarah Grace al suo primo giorno d’asilo.
Aveva sorriso quando, arrivati al dolce, Jenny era riuscita a distrarlo per potersi mangiare l’intera fetta di torta pralinata che avrebbero dovuto condividere. Non gli era importato più di tanto, al contrario aveva goduto della sua contentezza e si era nutrito, al posto che del dolce, della sua felicità e di quella particolare luce negli occhi che era anni che non vedeva in lei.
“Era buona la torta?”
“Buonissima, un peccato che tu non l’abbia ordinata”, aveva detto sogghignando portandosi la forchetta, con l’ultimo boccone, alle labbra.
Erano rimasti a lungo seduti a quel tavolo adiacente alla grande vetrata, le mani intrecciate sulla tovaglia color crema e gli occhi rapiti dalle luci della città avvolta dal rigido inverno, ma la realtà non poteva attendere a lungo. I rintocchi del vecchio orologio appeso alla parete del locale avevano richiamato la loro attenzione. Non potevano più rimandare il rientro a casa e, in fondo, sentivano entrambi la mancanza di quella piccola peste che da tre anni aveva animato la loro vita. Nella breve passeggiata fino all’auto, furono accompagnati dall’aria pungente e dalla pioggia che non avevano previsto. Si erano ritrovati a ridere, fradici, in macchina. Il riscaldamento aveva donato ad entrambi un po’ di tepore, permettendogli così di asciugarsi almeno in parte. Solo una ventina di minuti, con l’aggiunta di un po’ di tipico traffico newyorkese, li separavano dal calore della loro casa.
 
Con le dita Kate sfiora la base del collo al marito togliendogli il cellulare dalle mani con impeto. Lo accosta al suo orecchio riempiendo di domande il collega ancora una volta ammutolito.
“Come stanno, ti hanno detto qualcosa, ci hai parlato? Insomma, hai saputo in che condizioni-”
“Non hanno saputo dirmi nulla. Io e Lanie stiamo andando lì adesso. Sono al New York Presbyterian.”
“Vi raggiungiamo immediatamente.”
Si vestono in fretta, discutendo su cosa fare, su chi dovrebbe restare con la piccola, fino al ricordo vivido di Rick di quando, quella sera, lei gli aveva detto che Martha era rimasta a dormire da loro. Infila la camicia nei pantaloni, allaccia la cintura e, lasciando Kate a finire di prepararsi, sale al piano superiore andando a svegliare la madre.
Nonostante la fretta, Kate non è riuscita a trattenersi dal fare raccomandazioni alla suocera circa la figlia. Cose che l’attrice ha già sentito mille volte ma che, trovando quell’apprensione materna così dolce, è rimasta in silenzio ad ascoltare.
Solo una volta sulla soglia di casa, ascoltando parlare la moglie, a Rick viene in mente che la loro non è l’unica bambina di cui occuparsi.
“Ehi, che ti prende, non vieni?” gli domanda ormai sul pianerottolo.
“Stavo pensando che forse dovrei andare a prendere Sarah Grace. Sarà a casa con la babysitter e suppongo che finiti tutti gli esami e i controlli vorranno vederla. Almeno, se fossi io ad aver avuto un incidente, le prime persone che vorrei vedere oltre a te sarebbero le mie figlie. Prendi l’auto, io chiamerò un taxi.”
“Sei sicuro?”
“Si, tu vai, io passo a prendere la bambina e ci vediamo là.”
La bacia prendendo poi il cellulare dalla tasca e componendo il numero della compagnia di taxi.
 
La crown victoria gialla sosta proprio davanti alla palizzata. Scende affacciandosi poi al finestrino anteriore del passeggero, pregando il tassista di aspettarlo fino al suo rientro. L’uomo, sulla cinquantina, viso ben curato e corporatura asciutta, annuisce rilassandosi poi contro il sedile e, immaginando possa trattarsi di una cosa piuttosto lunga, nonostante lo scrittore lo abbia rassicurato dicendogli che sarebbe stato veloce, cala sul viso il berretto in stoffa blu pronto a schiacciarsi un pisolino.
Raggiunto il piano, si attarda qualche secondo pensando a cosa dire, infilandosi la maschera del simpatico “zio Rick” per evitare di far spaventare Sarah e, pur consapevole che dovrà svegliarla, preferisce bussare al suonare il campanello. Un risveglio dolce, visto quello che l’aspetta, è il minimo che può riservarle.
“Signor Castle”, mormora Megan disorientata, non aspettandosi una visita a quell’ora tarda. Tra le mani un libro e Rick non può non reprimere un sorriso di compiacimento notando la foto dell’autore sul retro.
“Ciao Megan. So che è tardi, ma avrei bisogno che tu andassi a svegliare la bambina.”
“Certo, ma... va tutto bene? I signori Ryan sarebbero dovuti essere già qui e... ecco, io non ho nessuna fretta, ma di solito non tardano mai.”
La risposta di Castle viene bloccata ancora prima che possa cominciare ad uscire dalla sua bocca. Un suono di passi veloci arriva alle loro orecchie, seguito a ruota dall’apparizione di Sarah nel salone. Il pigiamino azzurro fa risaltare i suoi grandi occhi chiari che, curiosi e per nulla assonnati, incrociano subito quelli dello scrittore.
“Zio Rick”, grida felice correndogli in contro. I boccoli castani gli solleticano il collo quando la prende in braccio baciandola sulla guancia paffuta.
“Ciao angelo, come mai sveglia?” la bimba scuote la testa facendo spallucce, continuando a giocare distrattamente con i bottoni della camicia di Castle. “Senti, dobbiamo andare in un posto, quindi perché adesso non vai in camera tua a prendere uno dei tuoi peluche per farti compagnia? Meg ti raggiunge subito e ti aiuta a vestirti.”
Mettendola giù, ringrazia che la piccola non faccia domande su dove siano i suoi genitori, spera solo che la sua curiosità non arrivi una volta sul taxi, e che invece pronto ad accoglierla sull’auto gialla ci sia Morfeo. Quando la piccola scompare alla sua vista, approfitta per spiegare le cose ad una Megan sempre più agitata e nervosa.
“Kevin e Jenny hanno avuto un incidente, un paio di persone sono già al New York Presbyterian e li sta raggiungendo anche mia moglie.”
Il viso della giovane si deforma in una smorfia di preoccupazione mentre si porta la mano alla bocca lievemente sconvolta. “Porto Sarah Grace in ospedale e in caso debbano restare là per la notte dormirà da noi. Quindi, finito di vestirla, vai pure, in caso di novità ti chiamo, dovrei avere il tuo numero a casa.”
“Certo”, le esce appena in un sussurro, voltandogli poi le spalle per raggiungere la bambina. “Staranno bene, non è vero?”
La guarda per qualche secondo. La mano minuta stringe la maniglia, il corpo è scosso dai brividi e Rick non sa se sia per il freddo, la paura o un insieme delle due cose. Gli occhi nocciola tradiscono l’angustia per quella situazione e, se c’è una cosa che ha imparato negli anni, è che c’è una storia dietro ad ognuno. La sua mente da scrittore non può non pensare che probabilmente abbia perso una persona cara, un genitore o forse un fratello, in un incidente stradale e che questo sia il motivo di tanto turbamento. Un’altra cosa che ha certamente imparato, con l’esperienza, è che c’è un tempo per ogni cosa, e quello non è il momento adatto per domandarle della sua vita personale.
“Lo spero Megan, lo spero”, si limita a rispondere, dal momento che non ha idea di cosa aspettarsi al suo arrivo in ospedale.
Come previsto la bambina si è addormentata al suo fianco sul taxi, la testa a ciondoloni contro il suo petto e il piccolo canguro stretto con forza nella manina.
La prende in braccio scendendo. La tiene stretta a sé mentre paga il tassista e lo vede sfrecciar via probabilmente alla ricerca di un nuovo cliente che possa portarlo ad un guadagno maggiore di quello che aveva ricevuto con lui. Quando le porte scorrevoli si aprono, il forte odore di medicinali e disinfettante lo colpisce come uno schiaffo in pieno viso. Le gambe si muovono quasi senza il bisogno di pensarci. L’accettazione è deserta, il telefono squilla senza che nessuno sia lì per rispondere. Dei fogli, presumibilmente arrivati via fax, si trovano a far compagnia al pavimento in linoleum sul quale una linea rossa indica il percorso da seguire, ma chissà per andare dove.
Cercando con lo sguardo un’infermiera, o una qualsiasi indicazione che possa soddisfare quella sua curiosità permettendogli così di raggiungere le persone che sono già lì ad attenderlo, incontra invece il viso inespressivo di Lanie.
Quante volte si sono già trovati in situazioni simili, quante volte si sono incontrati per i corridoi di un ospedale. Ne avevano visti diversi, eppure ripensandoci paiono tutti uguali. Spesso sono rimasti in silenzio a guardarsi, pregando per le sorti di un collega, di un amico, ma, nonostante fossero in netta minoranza, c’era stata anche qualche situazione positiva. L’unica a cui Rick riesce ad aggrapparsi adesso è la nascita di sua figlia.
“Ehi...”
“Ehi”, avvicinandosi a lui passa le dita tra i capelli della bambina, sentendola mugugnare probabilmente per aver percepito quel gesto anche nel sonno profondo in cui poco prima è caduta. “Vuoi che la prenda io?”
“Non preoccuparti, ce la faccio. Sono caffè?” con un movimento appena accennato del capo indica i tre brichi riposti nel piccolo contenitore in carta che tiene tra le mani.
“Tè... ho pensato che fosse meglio non incrementare l’agitazione con della caffeina.”
“Non so quanto lo apprezzeranno, specialmente Kate.”
“Temo che dovranno accontentarsi. Non sapevo tra quanto saresti arrivato, altrimenti lo avrei preso anche per te.”
“Non preoccuparti, non mi va niente per il momento. Si è saputo qualcosa?”
“Nulla sulle loro condizioni. A quanto dicono in giro la loro auto non è stata la sola coinvolta. Si parla di altre due o tre vetture, ma nulla di certo. Abbiamo visto arrivare un paio di autoambulanze e medici correre in sala operatoria, ho sentito di fratture multiple e rotture degli arti con conseguenti emorragie, ma siamo a New York, un incidente d’auto ogni ora più o meno, dico bene?
In ogni caso ci siamo già occupati di avvertire i genitori di Jenny, arriveranno in mattinata con il primo volo. Abbiamo provato a chiamare la sorella di Kevin, ma il cellulare risulta staccato e non abbiamo nessun’altro recapito.”
“C’è qualcosa che io possa fare?”
“Aspettare con noi.”
“Mi fai strada? Io non ho idea di dove andare.”
Annuisce, precedendolo prima di imboccare un stretto corridoio sulla destra. Camminando, si perde a guardare Sarah Grace per assicurarsi che non si sia svegliata. Appena si accorge del loro arrivo, Kate scivola lontana dal collega e, ad un passo sempre più veloce, colma la distanza che la separa da Rick poggiando il capo sulla sua spalla e stringendosi sempre più a lui.
“Ci hai messo un po’.”
“Scusami, ma non riuscivamo a decidere quale pupazzo portare con noi. Ma alla fine ha optato per questo meraviglioso canguro dal salto magico.”
“Salto magico?”
“È stata la prima cosa che mi è venuta in mente per convincerla che fosse meglio questo e non il coniglio, l’orsetto, il coccodrillo parlante o la papera che fa qua qua quando le schiacci la pancia.”
“Scusate se vi interrompo, Kate ne vuoi? È solo tè, ma...”
“Va benissimo Lanie, grazie.”
Il contenitore è ancora caldo, può sentirne il calore trasferirsi ai polpastrelli freddi e arrossati. L’aroma di limone si disperde attraverso il fumo che esce dal sottile foro, rendendo un po’ più piacevole respirare quell’aria rarefatta.
La detective lascia che i suoi occhi vaghino fino a posarsi nuovamente su Javier. Da quando è arrivata non ha potuto fare a meno di fissarlo, si è sentita come magneticamente attratta dai suoi occhi scuri e avviliti. Da quell’aria tetra e disperata, dai suoi gesti che tentavano di nascondere un animo distrutto e fragile mascherandolo da forte ed indistruttibile.
È così che deve essersi sentito quando anche lei era al di là dei quella porta, quando era lei a rischiare la vita? Non ci aveva mai riflettuto. Non che non ce ne fosse stata l’occasione, ma era sempre stato più semplice non pensarci e non farsi domande, perché in cuor suo sapeva di non essere pronta per le risposte. Eppure adesso ne sente l’esigenza, come se volesse sapere da loro come comportarsi e reagire a qualunque notizia riceveranno.
E Rick, lui come aveva affrontato le ore passate in ospedale quando le avevano sparato? Non era mai riuscita a chiederglielo. Non aveva voluto riaprire quel vaso di Pandora per paura e codardia ed è anche per quel motivo che, appena l’aveva visto arrivare, gli era corsa incontro, come per rassicurarlo, per dirgli che questa volta lei era lì e avrebbe potuto condividere quelle emozioni con lui.
“La bambina?” chiede d’un tratto Lanie, “Non possiamo tenerla qui tutta la notte.”
“Pensavo che forse potremmo-” la suoneria del cellulare lo interrompe prima che possa terminare la frase. Kate gli toglie la piccola dalla braccia che, mugugnando, comincia a svegliarsi e, sfregandosi gli occhi, cerca di capire dove si trovi.
Castle si allontana di qualche passo guardando la foto che lampeggia sul display e, passandosi la mano sulla nuca, si domanda se debba o meno rispondere. Con un riflesso quasi incondizionato, l’indice si muove sullo schermo accettando la chiamata.
“Alexis, sono davvero felice che tu abbia deciso di chiamarmi, ma non è il momento adatto per-”
“Papà siamo qui.”
“Siamo? Chi e... dove?”
“Mi ha chiamata la nonna. Non aveva ben chiaro cosa fosse successo, ha detto che siete usciti piuttosto di fretta, così ha preferito avvertire anche me. Io e Pi siamo qui all’entrata, da che parte dobbiamo andare?”





Diletta's coroner:

E zim bam bum scopriamo cosa preoccupava Esposito...
Kate corre in sopedale, mentre Rick si precipita a prendere la piccola Sarah Grace e, come ciliegina sulla torta, arrivano anche Alexis e Pi in ospedale!
Porteranno altri problemi? Speriamo di no ;)
Buona domenica a tutti!
Baci

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Capitolo 5
*** La morte parte seconda ***






La morte
-parte seconda-



 

Il telefono aveva cominciato a squillare imperterrito, cosa che non aveva fatto altro che acuire quell’emicrania che le impediva di prendere sonno. Era rimasta immobile pregando, stesa sul letto, che Pi andasse in fretta a rispondere. Aveva sospirato sollevata quando i trilli perforanti erano cessati e aveva sentito la voce del suo compagno, le sue parole e la sua solita cortesia e gentilezza. È felice di non essersi sbagliata su di lui, su di loro. Di essersi innamorata di un ragazzo senza dover poi scoprire che gli aspetti che amava di lui erano solo una maschera. Quando l’ha conosciuto è rimasta colpita dalla sua ingenuità e semplicità. Ha una freschezza e una genuinità che non è mai riuscita a trovare nei ragazzi che ha frequentato e che, come lei, erano soggiogati dalla frenesia della città. Riesce a capirla persino quando lei stessa non ne è in grado e grazie a lui si fa  sempre più chiaro il significato di quella frase che sua padre le aveva detto anni addietro. “Kate mi fa stare bene”. Forse il modo di Pi di farla stare bene è ancora acerbo rispetto al loro, ma avrà tempo per maturare.
Il silenzio era piombato di nuovo nel piccolo appartamento. Ad esclusione delle lancette dell’orologio che continuavano a girare, non riusciva a sentire nulla, nemmeno il suono della camminata di Pi, il suo trascinare i piedi tipico di quando è assonnato.
Insospettita si era messa seduta, raccogliendo di fretta i capelli in una coda di cavallo. Lo aveva visto lentamente fare capolino sulla porta della loro camera da letto con il ricevitore in mano.
“È lui al telefono?”
Il ragazzo aveva negato col capo, andando poi a sedersi accanto a lei sul bordo del letto.
“È tua nonna, dice che è urgente.”
Avevano parlato per qualche minuto sotto lo sguardo incuriosito di Pi che sembrava domandarle, fremente, cosa stesse succedendo. Terminata la chiamata, aveva soddisfatto la curiosità del ragazzo mentre, alzandosi, si era infilata la vestaglia.
“Vado da loro, appena arrivo ti chiamo”, gli aveva detto baciandolo a fior di labbra.
“Non vuoi che venga anche io?”
“Non credo sia una buona idea. Appena mio padre si renderà conto di cosa sta succedendo... credo che tenterebbe di ucciderti. Devo ricordarti che è uno scrittore di gialli? Pensare a come uccidere la gente è il suo mestiere e suppongo che da quando ha fatto la tua conoscenza abbia progettato diverse soluzioni per eliminarti.”

La supposizione di Alexis non era del tutto sbagliata. Da quando Pi si era fatto largo nella sua famiglia, Rick era stato come colpito da una folgorante e assidua ispirazione. Omicidi più o meno efferati gli apparivano nel sonno. Senza dubbio il suo subconscio cercava di dirgli qualcosa, ma trattandosi del fidanzato di sua figlia frenava gli impulsi imprimendoli su carta il che, pensando agli affari e alla sua carriera, non era poi male.
“Saremo in un luogo pubblico, non penso che Mr. C correrebbe il rischio di essere visto.”
“Lo correrà se continuerai a chiamarlo così. Signor Castle o Richard credo vadano meglio.”
“D’accordo, questo te lo concedo. Ma non credi che dal momento che ti presenterai a lui in... queste condizioni, sarebbe meglio che io fossi al tuo fianco? Altrimenti penserà che io sia un codardo e che non voglia farmi carico delle mie responsabilità. Alexis, non mi faccio illusioni, so bene che non sono proprio il tipo di ragazzo che lui aveva in mente per te e che da questo momento sarà ancora più difficile entrare nelle sue grazie e sperare di piacergli, ma non intendo passare la mia vita a nascondermi da lui.”
“Io...” gli si era scostata bruscamente andando a carezzare distrattamente le foglie del ficus vicino alla porta d’ingresso, regalo di sua nonna per rendere l’ambiente più accogliente. Lei è stata l’unica che l’ha sempre sostenuta sin dall’inizio di quella relazione, che ha accettato Pi per come era e com’è tutt’ora. Forse perché si riconosce in parte di quella stravaganza che lo caratterizza o perché sa cosa si prova nel vedere il proprio amore ostacolato dal lavoro, dall’ipocrisia della gente, dalle malelingue. Alexis ha sempre creduto che anche suo padre l’avrebbe capita, proprio per quel sentimento di amore puro ed incondizionato che prova verso Kate, ma si è dovuta ricredere e così si era ritrovata a sfiorare la superficie liscia e lucida di quelle foglie pensando ad una possibile soluzione. “Fin da quando ero piccola ho sempre saputo come avrebbe reagito mio padre a ciò che gli avrei detto o raccontato. Crescendo mi sono resa conto di non essere più in grado di prevedere le sue mosse e non so dirti se è perché sia cambiato lui o perché lo sia io. Non ho idea di come potrebbe affrontare questa notizia.” Aveva tolto la vestaglia bianca lanciandola sul divano, andando a rovistare nell’armadio alla ricerca del suo impermeabile e sentendo la testa pulsare come a volerle esplodere. “Va bene”, aveva sospirato nonostante il conflitto interiore che ancora provava. “Andremo insieme, ma lascia che sia io a parlare e… resta dietro di me.”
 
“C’è uno stretto corridoio a destra del banco dell’accettazione. Percorretelo, siamo in fondo sulla sinistra.”
Rimane fermo, senza voltarsi, slacciando svogliato i bottoni del cappotto e togliendoselo, aspettando ansioso di vederla comparire davanti ai suoi occhi. Riconosce immediatamente, dal tocco delicato, che è la mano di Kate quella che ha iniziato a carezzargli la schiena. Non l’ha sentita avvicinarsi, forse a causa del rumore dei suoi pensieri o magari per via del linoleum che attutisce i suoni o forse perché Kate non sta indossando i soliti tacchi. Solo ora ci fa caso, non aveva prestato attenzione alla differenza di altezza quando lei lo aveva abbracciato appena arrivato.
“È tutto okay?”
“A quanto pare mia madre era preoccupata e ha avvisato Al. È già qui. Se non altro con sua nonna parla ancora.”
“Non brontolare. Guarda la nota positiva, in questo modo potrai assicurarti di persona che stia bene.”
Ed ancora una volta si trova a guardarla fisso negli occhi. Com’è bello poterle parlare senza dover aprir bocca, dirle grazie con un solo sguardo. Persino amarla gli è così semplice e naturale, come respirare.
“Eccoli lì. Non attaccare subito quel ragazzo, si dia il caso che non tutto sia colpa sua”, gli bisbiglia all’orecchio lasciandogli poi un bacio sulla guancia. Adora doversi mettere in punta di piedi per baciarlo, ama quella differenza di altezza tra loro, ama che questo non la faccia sentire piccola, ma protetta e al sicuro.
“Ci proverò, anche se...” serra la mascella, le mani si stringono a pugno, così come gli occhi si chiudono ad una fessura cercando di mettere meglio a fuoco la figura di sua figlia che si fa man mano più vicina. “Dimmi che non è quello che penso.”
“Ciao papà”, mormora abbassando subito il capo incapace di sostenere il suo sguardo indagatore e contrariato.
“Signor Castle”, lo saluta Pi a qualche passo di distanza, alzando di poco la mano facendola poi scivolare immediatamente nella tasca dei jeans.
“Perfetto, se mi chiama con il mio nome completo vuole dire che questo”, le sue mani si agitano nervose davanti al pronunciato rigonfiamento del ventre della figlia, evidenziato dalla maglietta aderente e lasciato visibile dall’impermeabile slacciato, “è esattamente quello che penso.”
“Ciao Kate”, la ragazza prova a concentrarsi su di lei, sperando di distogliere l’attenzione del padre che sembra stia per perdere le staffe da un momento all’altro. La detective le risponde con un sorriso tirato sentendosi improvvisamente di troppo.
Quando è entrata a far parte della famiglia Alexis era già grande. Le era capitato altre volte di assistere a discussioni o litigi tra lei e Rick, ma era sempre rimasta in disparte e non aveva detto nulla se non nei casi in cui era stato lo stesso Rick a chiederle consiglio.
“Niente ‘ciao Kate’. Tutto questo tempo e non mi hai detto nulla. Perché? Cosa credevi che avrei fatto?!”
“Esattamente quello che stai facendo ora papà, una scenata!”
“Quindi starei sbagliando io?”
“Signor Castle, se permette-”
“No Pi, non permetto, questa è una cosa tra me e mia figlia. Quindi, per favore, fai silenzio.”
Javier e Lanie assistono come spettatori passivi alla scena, mentre Sarah Grace comincia a fare domande giocando distrattamente con le piastrine al collo di Esposito. Kate si avvicina a lui prendendola dalle sue braccia e mettendola a terra. Le si inginocchia accanto e le sfila il cappottino blu sorridendole. “Tesoro, perché non vai a chiedere allo zio Rick di raccontarti bene la storia del canguro dal salto magico, sono certa che ti piacerà.” Con la mano carezza il muso del piccolo animale di peluche che la bambina non ha lasciato neanche per un secondo.
“Ma poi mamma e papà arrivano?”
“Si, poi arrivano.”
Restando accovacciata la guarda andare a passo spedito verso suo marito.
Come poteva dire la verità a quel visino che l’ha guardata speranzoso, a quegli occhi grandi e curiosi. Non ne è stata capace, da madre lo ha trovato terribilmente difficile.
La osserva tirare la giacca a Rick nel tentativo di richiamare la sua attenzione. Fa leva sulle ginocchia alzandosi e notando immediatamente come il viso del suo uomo si sia addolcito, realizzando così il potere che i bambini, in particolare quella bambina, hanno su di lui.
Anche Alexis sorride a quel viso innocente. Solo allora Kate, guardandola bene, nota il lieve pallore sul suo viso e la stanchezza nei suoi occhi, come in quelli di Pi ancora spaventato forse dal temperamento avuto prima da Castle. Un Castle completamente diverso da quello che adesso, seduto su di una delle sedie in plastica nera, sta raccontando una storia del tutto improvvisata alla bambina seduta sulle sue ginocchia. Ed è nel momento in cui si muove nella loro direzione che la porta alle sue spalle si spalanca.
Aria fredda avvolge i presenti, i carrelli e le lettighe vuote sparsi lungo il corridoio cigolano contribuendo ad ingrigire il clima di tensione. Forse per deformazione professionale, gli occhi di Lanie si posano immediatamente sulle macchie vermiglie che coprono, in punti diversi, il camice azzurro del chirurgo.
Tra le mani grandi e forti rigira la cuffietta con i piccoli ferryboat, senza tuttavia mai distogliere lo sguardo dai volti di loro che, davanti a lui, sono ancora in attesa.
Le parole gli escono con difficoltà dalle labbra, la gola secca gli brucia ad ogni sillaba e guardando lo sconcerto e la tristezza negli occhi fissi su di lui, è costretto ad ammettere a se stesso che il lavoro del medico, il suo lavoro, sia davvero ingrato.
Salvi migliaia di vite, eppure tendi ad essere ricordato più per quelle che hai perso perché, purtroppo, gli aspetti negativi attirano maggiormente l’attenzione rispetto a quelli positivi e li porti con te, come un marchio invisibile, per sempre.
Rick alza la testa, troppo lontano per sentire cosa il medico stia dicendo. Sarah Grace, esaltata dalla storia, lo prega di continuare, distraendolo, così, dal vano tentativo di leggere il labiale. Abbassa lo sguardo sorridendo alla bambina, sperando di tenerla buona con quel semplice gesto, ma non si è mai sbagliato tanto. Sarah continua imperterrita quella supplica cantilenata. Non può biasimarla, portata via da casa nel cuore della notte, speranzosa di vedere presto la mamma alla quale avrebbe raccontato, elettrizzata, la stessa storia che sta ascoltando ora. Non può intimarle di tacere ed in fondo non gli serve sentire. Ha sempre appreso molto di più osservando che non prestando ascolto. I suoi sguardi indagatori, a volte forse troppo intensi, maniacali come soleva dirgli Kate i primi tempi della loro collaborazione, lo avevano portato a scoprire lati delle persone che spesso erano sconosciute a loro stesse. Con la stessa Kate, quegli sguardi gli hanno permesso di imparare tanto. Mio dio se ha imparato.
Ora i suoi occhi incrociano la figura della moglie, stretta a Javier in un forte abbraccio, piangente.
Sono poche le volte in cui gli è capitato di vedere delle lacrime solcarle il viso, almeno da che la loro storia è cominciata. Ma quelle sono il tipo di lacrime che non si dimenticano. Lacrime che sono scivolate sulle sue guance solo in un paio di occasioni, momenti vividi nella sua mente come se neanche un giorno fosse passato. Ricorda il suo viso spaventato, sdraiata sull’erba verde, nel cimitero Green Wood. Il sangue che sgorgava da un piccolo, e apparentemente insignificante, forellino che sarebbe potuto invece esserle letale, e poi quella lacrima scorrerle sul viso sempre più pallido. Gli occhi si erano chiusi lentamente, ma dentro ne aveva letto il terrore, stesso terrore che aveva visto in lei quando pensava che sarebbe saltata in aria in quell’appartamento nella periferia newyorkese.
“Lascia, sto io con lei”, Alexis siede accanto a lui, allungando poi le braccia verso la piccola.
Ruota il capo alla sua destra. Pi è ancora in disparte, poggiato al muro intonacato di bianco, e affascinato guarda la fidanzata in un modo così simile a quello in cui lui guarda Kate che la cosa lo rende felice ma al contempo lo fa rabbrividire.
Torna a guardare sua figlia, tra le braccia la piccola Sarah, e non può non pensare a quando tra le braccia terrà quel bambino che aspetta. È sempre stata molto matura, spesso aveva dovuto compensare l’infantilità a cui lui era rimasto a lungo legato, tuttavia non la reputa ancora pronta per affrontare un passo del genere, non senza averlo programmato ed aver riflettuto su ciò che quella gravidanza comporterà.
Vorrebbe dirle qualcosa, ma desiste, conscio che ogni sua parola potrebbe essere mal interpretata portandoli così ad intraprendere una discussione per nulla adatta al momento e consapevole che in seguito potrebbe pentirsi delle parole che direbbe dettato solo dalla rabbia e nient’altro.
Si alza semplicemente, ascoltandola parlottare con Sarah mentre si avvicina agli altri.
“Cos’è successo?” Sussurra puntando gli occhi in quelli scuri e profondi di Esposito.
“Lui... ha detto che Kevin no-non ce l’ha fatta. Le ferite erano troppo gravi e... ehm, a quanto pare il rimorchio del camion ha sfondato la loro auto. La situazione era critica anche all’arrivo dei paramedici.” Prende il brico del tè dalle mani di Lanie buttandolo, insieme al suo, nel cestino accanto, lasciandola libera di sfogarsi contro di lui e cercando egli stesso di trattenere le lacrime che gli offuscano la vista.
“Anche Jenny è...?”
“Oh, no, no”, si affretta a rispondergli Kate tirando su col naso. “Per lei potrebbe volerci ancora qualche ora, nulla di più preciso. Ma ci terranno informati.”
 
La macchina ci aveva messo un po’ a partire e nel momento in cui Kevin stava per dare forfait, borbottando qualcosa di simile a “mi sa che dovremo prendere un taxi”, il motore aveva ruggito permettendo l’accensione della vettura. “Oh, finalmente”, alla sua esclamazione Jenny si era rilassata contro il sedile, canticchiando distrattamente la canzone che veniva passata alla radio mentre seguiva, al di là del finestrino, le luci della città.
“Forse dovremmo avvisare Megan e dirle che faremo un po’ più tardi del previsto”, aveva detto Jenny cercando nella borsa il cellulare, ma la mano di suo marito l’aveva fermata immediatamente.
“Dieci minuti di ritardo non saranno un problema. E poi non vorrai rischiare di svegliare Sarah Grace, sai bene che se si sveglia di notte dopo è intrattabile.”
“Già, mi domando da chi abbia preso”, bofonchia arricciando le labbra, “va bene, ma se tra un quarto d’ora non siamo a casa la chiamo.”
Ryan aveva scosso la testa divertito, continuando a guidare e senza perdere di vista la strada davanti a sé neanche per un istante. Passato ancora qualche minuto in cui erano andati avanti a rilento, il traffico aveva cominciato a scorrere piuttosto fluido. E fu tutt’un tratto che i fari di un camion lo abbagliarono. Accadde tutto in pochi secondi, aveva cercato di frenare, sterzare, ma ogni cosa era stata troppo veloce e, tra lo stridore dei freni, aveva visto il rimorchio venire contro la sua auto e la sola cosa che era stato in grado di fare era stata gettarsi addosso a Jenny cercando di proteggerla facendole da scudo con il suo corpo.
Le loro urla e poi il nulla.





Diletta's coroner:
Vorrei davvero dire qualcosa, ma non so prorpio da che parte cominciare...
Tiriamo le fila: Alexis è stata costretta dalla situazione a "rivelare" il suo segreto. Pi, povero ragazzo, non sa più che pesci prendere.
Sarah Grace si sta divertendo un mondo ad ascoltare la storia di quel canguro dal salto magico e alla fine arriva la notizia...
Troviamo il lato positivo, per una volta quelli in fin di vita non sono Rick e Kate.
Scappo!
Buona serata :)

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Capitolo 6
*** Le vite degli altri parte prima ***






Le vite degli altri
-parte prima-




 
Sono rimasti un’ora ad attendere, guardandosi attorno, silenziosi, solo occasionali sussurri. E poi il pianto della bambina che voleva andare a casa e vedere mamma e papà. Quello stesso pianto che ora si interrompe come per magia e l’istante dopo le porte, che prima avevano portato morte e disperazione, si aprono nuovamente.
Un vivace scambio di sguardi tra loro, sembrano domandarsi tutti la stessa cosa, paiono chiedersi se il cessare del pianto di Sarah fosse in previsione dell’arrivo di nuove notizie, come se lei sapesse.
Ma non passa più di qualche secondo e gli occhi sono tutti puntati sul viso dai delicati lineamenti del chirurgo.
Gli occhi grigi sono affaticati, cerchiati, forse per l’ora, forse per il duro lavoro. I capelli neri sono ancora costretti nella cuffietta a motivi geometrici molto fanciullesca e colorata.
“Siete qui per Jenny Ryan?”
La voce è stanca e più roca di quel che si poteva immaginare.
Rispondo con un appena accennato movimento del capo, ammutoliti davanti a tale tensione.
“Siete parenti?”
“No, non proprio”, ma, in fondo, quello che Esposito, come del resto gli altri presenti, provava per Ryan era più che semplice amicizia. Rimembra le notti passate in sua compagnia al distretto, quando non erano altro che detective alle prime armi che speravano un giorno di poter fare carriera. Gli inseguimenti e i lunghi addestramenti, ma il distretto racchiudeva solo una parte del tempo che avevano passato insieme. Avevano legato da subito, nonostante le enormi diversità che li contraddistinguevano. Si erano sempre aiutati nei momenti di avversità, erano il sostegno l’uno per l’altro ed insieme formavano i due pilastri che avevano aiutato Kate nei momenti più duri fino all’arrivo di Castle.
“Mi duole dovervelo dire, ma in tal caso non posso rilasciare informazioni.”
“Ascolti, i genitori arriveranno solo domani e suo marito... lui è rimasto coinvolto con lei nell’incidente e non-”, con un cenno del capo Lanie indica la piccola, ancora tra le braccia di Alexis, sperando che la donna possa capire il perché non se la senta di completare la frase.
“Capisco. Mi spiace per la vostra perdita, ma non sono tenuta a dirvi nulla. Va contro il regolamento. Scusatemi.”
Osservano tutti la sua figura minuta gettare la mascherina nel cestino. Il sacchetto in plastica fruscia contro la rete metallica che compone il piccolo bidone.
Un paio di passi la separano dalla porta, la suola delle scarpe da ginnastica stride contro il linoleum cupo.
“Aspetti!” la mano di Rick le si posa sulla spalla e, per quanto le sue dita abbiano cercato di stringersi con forza attorno al braccio, lui ha opposto resistenza a quel riflesso incondizionato. Se vuole sperare di ottenere qualcosa, dovrà essere il più gentile e garbato possibile, anche se in questo momento, con tutto quello che sta accadendo, desidererebbe ardentemente poter tirare un pugno a qualcosa o qualcuno.
Il chirurgo ruota di poco il capo, gli occhi si puntano sulle dita di Rick quasi ad intimargli di spostarsi. Come se avesse recepito il messaggio, Castle ritrae immediatamente la mano torturandone le dita con l’altra. Kate lo osserva, nota quel suo tic, il suo pendere leggermente verso sinistra. Lo fa sempre quando è nervoso e stressato.
“Vede”, prosegue dopo aver ottenuto l’attenzione della donna, “quella laggiù è la figlia. La prego, ci dica almeno se è fuori pericolo. Ha già perso un genitore, vogliamo solo poterle dire la verità.”
Segue con gli occhi la direzione presa dal braccio di Rick. Quella piccina le ricorda la sua bambina. Nel suo lavoro si è occupata spesso di casi di pediatria ed era stata costretta a mettere da parte l’indole materna che le impediva di concentrarsi con la dovuta lucidità sul caso. Adesso però non si tratta di decidere della salute di qualcuno, quello che dirà non rischierà di porre fine ad una vita. Lo deve a quella bambina di cui non conosce neanche il nome, lo deve a sua figlia, lo deve a se stessa, nella speranza che, se una cosa simile dovesse capitare a lei, ci sarà qualcuno disposto a infrangere le regole.
“D’accordo”, si dice mentalmente sospirando prima di parlare. “L’operazione è riuscita, i danni ai polmoni sono stati riparati. Il cuore è debole, ma si ristabilirà. Ora la porteranno in terapia intensiva, tuttavia non ci sono certezze tra quanto o se si risveglierà.”
“Vuole dire che è in coma?”
“Voglio dire che è ancora presto per dirlo, prima delle prossime ventiquattr’ore ogni ipotesi è puramente azzardata e... naturalmente io non vi ho detto nulla.”
“Certo”, annuisce lo scrittore sorridendole debolmente.
Nuovamente soli, resta poco a cui pensare.
“Cosa facciamo adesso?”
La domanda di Lanie gira come sospesa in una bolla sopra la testa di Rick, completamente assente ed assorto a giocare con il portafogli chiuso nella tasca dei pantaloni.
“Rick... tesoro, cosa c’è?”
Con l’indice e il medio liscia il sopracciglio destro, decidendosi poi a prendere quel piccolo foglietto rettangolare conservato in uno scomparto del portafogli in pelle. Le piccole crepe agli angoli sono sempre più evidenti. I caratteri neri, semplici ed eleganti, cominciano a sbiadire, ormai trasformati in un grigio slavato. Mantiene fisso lo sguardo, come a cercare una risposta tra le lettere e i numeri che riempiono quello spazio bianco.
“Credo sia arrivato il momento di usarlo”, borbotta appena, a voce talmente bassa che persino Kate, poggiata col viso alla sua spalla, fatica a sentire.
“Cos’è Signor Castle?”
Nonostante Alexis lo avesse avvertito più volte, per Pi è difficile tenere a bada la sua curiosità e, dopo ore di silenzio, non trova nulla di male nel porre quella semplice domanda. Tuttavia, lo sguardo inceneritore riservatogli da Castle gli fa subito capire di aver sbagliato, ancora una volta. Ogni parola è come un passo falso, un passo nella direzione opposta a quella che dovrebbe e vorrebbe prendere per potergli piacere ed avere la sua approvazione.
“Cos’è amico?” ritenta Esposito. Il giovane sospira sconsolato, lasciandosi andare sulla sedia giocando distrattamente con il canguro dal salto magico che Sarah gli aveva porto qualche minuto prima.
“Me lo ha dato Kevin qualche mese dopo la nascita di Sarah Grace. Ha detto che adesso che aveva una figlia non voleva lasciare nulla in sospeso e che avrei dovuto usarlo solo in caso fosse successo qualcosa a lui e Jenny. È il numero di un avvocato.” Dice soddisfando finalmente l’interesse di Javier.
“Perché lo ha dato a te? Come mai io non ne sapevo niente?”
“Non lo so.” In cuor suo, invece, sapeva cosa lo aveva spinto da lui.
Sebbene l’amicizia con Esposito fosse salda e di lunga data, Castle ha qualcosa che, almeno per il momento, Javier non aveva e non ha ancora intenzione di avere: una famiglia. Non che la cosa lo rendesse meno adatto rispetto a Rick, ma, dal momento in cui Sarah Grace era venuta al mondo, Kevin aveva capito quanto l’essere padre lo avesse reso ancor più vulnerabile e Castle era il solo che potesse capirlo e non fare domande. Sapeva bene che, se si fosse presentato da Esposito con quel biglietto, lui avrebbe cercato di persuaderlo, allontanando da entrambi la possibilità, e la più minuscola idea, che qualcosa sarebbe potuto accadere a lui e Jenny.
“Mi ha pregato di non dirlo a nessuno e così ho fatto.”
“E lo hai conservato per tutti questi anni, senza dire niente?”
La sorpresa è palese negli occhi di Kate. È riuscito a nasconderlo anche a lei. Non che la cosa la infastidisca, non le ha certo nascosto un tradimento o qualcosa di simile, è piuttosto stupita dal non essersi accorta di nulla e soprattutto che Castle sia riuscito a desistere dal parlarne.
“Già... era un favore particolare, la richiesta di un amico. Non volevo deluderlo.”
“Ragazzi, temo che prima di domani mattina sarà impossibile chiamarlo. Non pensate invece che sia il caso di portare a casa Sarah Grace? Dovrebbe riposare.”
“Si, anche se non credo dormirà senza vedere prima i suoi genitori, Lanie.” Commenta abbattuta Kate rivolgendo rapida uno sguardo alla bambina. “In ogni caso, la teniamo con noi questa notte e domani la riportiamo qui, i nonni saranno felici di vederla. Sei d’accordo Rick?”
“Si, solo... chi la porta a casa?”
“Beh, io preferirei restare qui. Lo capisci, non è vero? E poi Sarah ti adora tesoro, stravede per te, credo che te la caverai egregiamente e riuscirai a farla addormentare.”
“E se ci fossero sviluppi su Jenny, insomma, se succedesse qualcosa e ci fosse bisogno...”
“Potremmo portarla a casa noi”, interviene nuovamente la voce del giovane fruttariano. Per quanto i pochi punti guadagnati siano tornati sotto lo zero, Rick apprezza il coraggio di Pi di intromettersi ancora una volta in una conversazione che non lo riguarda minimamente. “Io e Alexis siamo venuti in macchina, l’accompagneremmo da voi e rimarremmo fino al vostro rientro.”
“Non ci pensate nemmeno.”
“Rick, andiamo, potrebbe essere una soluzione”, gli bisbiglia all’orecchio cercando di calmarlo.
“Kate, non lascerò che una bambina, i cui genitori sono rimasti coinvolti poche ore fa in un incidente stradale, vada in macchina con un ragazzo che ha la patente da quanto, un paio d’anni? No, non se ne parla. Andrò io, ma se ci fossero novità non esitare a chiamare.”
Prende le chiavi della macchina indugiando per qualche secondo a sfiorare la mano di Kate, per dare ad entrambi conforto e rassicurazione. Contatto interrotto, però, dalla voce di sua figlia.
“Papà, non vuoi che veniamo con te? Potremmo occuparci di Sarah e tu-”
“Alexis andate a casa, tu devi riposare visto le tue condizioni. È tardi, ti chiamo domani.”
La ragazza abbassa il capo, non prima di aver guardato con aria sconsolata Kate. Nonostante la scusa di suo padre sembri un atto di premura nei suoi confronti, lei sa bene che in quelle parole racchiude più astio e delusione di quanto non voglia far credere, così incatena i suoi occhi a quelli dell’unica persona, in quel corridoio, che come lei possa essersene accorta.
“Vado via anche io con loro”, lentamente si volta verso Javier riponendo il cellulare nella tasca della giacca. “Stanotte sarei dovuta essere di turno in obitorio, Perlmutter mi ha mandato un messaggio. A quanto pare ci sono un paio di corpi non identificati, mi aspettano delle autopsie.”
“Non puoi chiedergli di scambiare il suo turno con il tuo?”
“Mi ha già sostituita settimana scorsa, non posso chiederglielo di nuovo. Anche lui ha bisogno di andare a casa.”
“Kevin è appena morto”, dice a denti stretti, le dita si chiudono. Strette contro il palmo, così tanto che le unghie affondano nella carne. “Non pensi che per questa volta capirebbe?”
“Javi non ho intenzione di mettermi a discutere ora.”
Sono giorni che litigano, anche per le piccole cose quotidiane, per quanto continuino ad avere i loro momenti di intimità. Nonostante le varie divergenze, è come se i loro corpi non riescano a stare separati sebbene non abbiano fatto altro che urlare fino a cinque minuti prima.
Non vuole arrivare nuovamente ad un punto di rottura, non vuole che il loro rapporto vada in frantumi ancora una volta lasciando che resti sola a piangersi addosso con la silenziosa compagnia di una bottiglia di vino.
“Sta avendo anche lui un momento non facile in famiglia. Non puoi saperlo perché non ne parla e tu e i ragazzi non avete con lui lo stesso rapporto che avete con me.”
“E dimmi, sarebbero queste poche ore che potrebbero cambiargli la vita?”
“Sei sconvolto, lo capisco, ma non essere egoista! Io non dovrei dirvelo, ma... visto che sembri non voler capire... sua moglie sta parlando di divorzio, e c’è anche altro in ballo. Stando qui io non posso fare niente purtroppo, non posso aiutare Kevin, ma forse posso dare una mano a Sidney.”
“Io non ne sapevo nulla. Non sapevo neanche fosse sposato.”
“Ci sono tante cose che ignoriamo.”
Sospira, prendendole la mano, “D’accordo, allora vai.”
“Come per Castle, avvisami se ci sono notizie. Io penserò ad aggiornare Gates.” Lo bacia sulle labbra raggiungendo poi gli altri e sparendo, insieme a loro, inghiottita dalle luci al neon e dai corridoi labirintici.




Diletta's coroner:

Questo capitolo fa un po' da intermezzo.
Non succede molto, tranne forse per quel biglietto da visita...
Nonostante tutto spero vi sia piaicuto.
Baci

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Capitolo 7
*** Le vite degli altri parte seconda ***







Le vite degli altri
-parte seconda-





 
Entra lentamente in casa aprendo la porta con la mano che spunta dietro la schiena di Sarah. La tiene in braccio dopo che, sfinita dal pianto, è crollata tra le sue braccia in ascensore.
Il salone è avvolto dalla penombra, la luce della luna filtra appena dalle tapparelle ancora alzate.
“Richard, Richard sei tu?”
La voce di Martha proviene dalle scale, compare all’improvviso spuntando dalla zona d’ombra, la vestaglia si gonfia ad ogni passo e l’andamento saltellante non aiuta il latte a rimanere dentro al biberon.
“Shh! Si è appena addormentata”, lasciando scivolare le chiavi di casa e della macchina nel portaoggetti sul mobile accanto alla porta, lancia rapidamente un’occhiata al piano superiore. “Madison?”
Gli sembra di non vederla da una vita, spera quasi che sua madre le dica che è sveglia perché mai, come ora, ha voglia di stringerla, coccolarla, baciarle i piedini così piccoli e profumati, affondare con dolcezza le sue labbra in quelle guanciotte paffute e godere del suo buon odore.
“Le ho dato il suo biberon, sta bene. Dorme.”
“D’accordo, vado a metterla a letto”, sussurra indicando, con un appena accennato movimento del capo, la bambina che respira pesantemente contro il suo petto.
Annuisce, sedendosi teatralmente, come colpita dalle dodici fatiche di Ercole tutte in una volta, sul divano. Chiude gli occhi per un istante, aspettando il ritorno del figlio per parlare.
Rick stende delicatamente la piccola nel lettone, non pensa che riuscirà a dormire, ne tanto meno che Kate tornerà a casa quella notte. La copre per bene rimboccandole le coperte per essere sicuro che non prenda freddo. Lo faceva sempre con Alexis, anche cresciuta, andava da lei nel cuore della notte guardandola dormire. Le sistemava le lenzuola, la baciava tra i capelli ripetendosi in continuazione quanto fosse fortunato ad averla. I giorni in cui potrà farlo con Madison sembrano ancora lontani, eppure lui meglio di chiunque altro dovrebbe sapere che il tempo passa più velocemente di quanto si creda.
Lascia un bacio sulla fronte a Sarah, sistema bene accanto a lei il peluche ed esce dalla stanza socchiudendo la porta. Respira a fondo prima di tornare in salone. “Per ogni cosa c’è sempre un motivo”, lo ha sempre pensato. Tra lui e Kate è senza dubbio lui il più irrazionale, che crede ai segnali dell’Universo e al destino. Non gli resta che trovare un senso a quegli ultimi avvenimenti, una risposta al perché il destino gli abbia voltato le spalle un’altra volta quando finalmente le cose sembravano andare tutte per il meglio.
Siede accanto alla madre, non è mai stato tanto felice di vederla. Kate è quella che, su di lui, è in grado di esercitare un effetto calmante, funziona meglio di qualsiasi camomilla o rimedio omeopatico, ma, in sua assenza, sua madre sa essere un buon palliativo, uno dei migliori che possa desiderare.
La sente posargli una mano sulla coscia. Il divano geme, il che gli suggerisce che si sia chinata verso di lui e che ora lo stia fissando, ansiosa di vederlo aprire gli occhi e potergli finalmente porre le domande che le ronzando in testa.
“Racconta...”
Sospira, tanto forte che quel suono quasi gutturale che ne esce riecheggia per la stanza. “Ryan non ce l’ha fatta. Le ferite erano troppo gravi, hanno tentato tutto il possibile, ma non è servito.”
“Oh tesoro, mi dispiace tanto. Si sa qualcosa di Jenny?”
“Sembra sia fuori pericolo. Non sappiamo ancora se si sveglierà. Sembra tutto così surreale. Fino a qualche ora fa eravamo insieme, scherzavamo... non posso credere che non lo vedremo più. Sono costantemente preoccupato che possa accadere qualcosa a Kate mentre è in azione, basterebbe un nulla... qualcosa andato storto, la sua caparbietà che la spinge ad intervenire anche in assenza dei rinforzi. Non avevo ancora avuto il tempo di pensare che forse corre meno rischi al lavoro che non quando è immersa nella quotidianità. Inoltre, adesso dovremo trovare un modo per dirlo a Sarah Grace, per spiegarle quanto sta accadendo. L’ho portata lì senza pensarci, ero convinto che non avessero più che qualche graffio. Non avevo neanche ipotizzato altri scenari.”
“In qualche modo si aggiusterà tutto, vedrai.”
Eppure Martha nei suoi occhi, come solo un genitore può fare, legge più preoccupazione di quella esperita dalle sue parole. “Ma non mi stai dicendo ancora tutto, non è vero?”
“Alexis ha seguito il tuo consiglio ed è venuta in ospedale, così ho finalmente capito perché cercava in tutti i modi di evitarmi. Non puoi immaginare cosa mi abbia tenuto nascosto, pensavo che fosse più giudiziosa, che avrebbe prestato attenzione a certe... cose. Sto vedendo lentamente crollare tutte le mie certezze, e per quanto riguarda Pi deve solo sperare di non trovarsi da solo in una stanza con me.”
“Kiddo, non fare qualcosa di cui potresti pentirti. E non mi riferisco a ciò che stai progettando per quel povero ragazzo. Una gravidanza non distruggerà la vita di Alexis.”
“Sta buttando all’aria tutto il duro lavoro che ha fatto, lo studio legale non aspetterà, il posto che aveva tanto sperato di ottenere e per il quale ha lottato, era ad un passo da realizzare il suo sogno e... aspetta un attimo, io non ho nominato la sua... Tu lo sapevi. Lo sapevi e-e non me lo hai detto. Mamma, hai idea di come mi sia sentito in queste ultime settimane? Della sensazione di impotenza che ho provato rendendomi conto di non poter fare niente, di non sapere da che parte cominciare per sistemare le cose? Nel non sapere cosa ci fosse da sistemare?”
“Ascoltami”, lui fa per alzarsi, ma lo trattiene per un braccio. Tra le mani accoglie le sue, sono così grandi, eppure tremano come quelle di un bambino. “È venuta da me, spaventata, preoccupata.”
“Non hai pensato che avrei potuto aiutarla? Sono suo padre per la miseria! Cosa credevate tutti, che avrei fatto una strage per caso?”
“No, ma aveva paura che non l’avresti appoggiata. Che le avresti detto che era un errore.” Risponde placida alle grida strozzate del figlio.
“Beh io... probabilmente le avrei detto che era presto, troppo presto, ma mai, mai avrei parlato della sua gravidanza come un errore.”
“Richard, tu più di tutti dovresti capirla. Quando mi hai detto che Meredith era incinta non credere che fossi al settimo cielo. Dio, ero così giovane per essere nonna e lei così presa da se stessa per essere madre. E, nonostante tu fossi ancora tremendamente infantile per certi versi, sapevo che avresti fatto di tutto per dare a tua figlia il meglio dalla vita, che ti saresti impegnato al massimo, perché tu e io abbiamo la stessa forza tesoro, e così è stato. L’hai cresciuta magnificamente e sono certa che lei e Pi saranno degli ottimi genitori, ci saranno entrambi per quel bambino. Quel ragazzo non se ne andrà per nulla al mondo. Hai visto come la guarda, tu conosci quello sguardo meglio di chiunque altro.”
“Tu credevi davvero che io ce l’avrei fatta?”
Martha gli sorride, pensando a come, di tutto ciò che è stato detto, solo quella frase gli sia rimasta impressa. Dal momento in cui suo figlio le aveva annunciato che sarebbe diventato padre, non lo aveva mai confortato, non gli aveva mai detto quanto credesse in lui e nelle sue capacità nel poter essere un bravo genitore. Non aveva condiviso con lui quello che lei stessa aveva passato quando si era ritrovata ad aspettare un figlio senza un uomo accanto e senza l’appoggio della sua famiglia. Era stata così presa dal cercare di farsi piacere quella ragazza e dallo scacciare il pensiero che presto Meredith se ne sarebbe andata. Perché sentiva, dentro di sé, che un giorno lo avrebbe abbandonato e non si sarebbe voltata indietro.
“Non ne ho dubitato neanche per un secondo.”
Le sorride grato per quelle parole che per anni aveva sperato di sentirle dire e, guardandola, sente gli occhi bruciare per le lacrime che cerca di trattenere, interrogandosi su cosa ne abbia scatenato la formazione.
La morte di un amico, il conforto di una madre, la paura di non essere pronto ad aiutare una figlia nel momento di maggiore bisogno. Oppure la tensione, compagna fedele dei momenti difficili, che cerca un modo per uscire dal suo corpo.
“Vado un po’ nello studio, ho bisogno di stare da solo.”
Segue con lo sguardo i suoi passi lenti e stanchi e freme. Si morde il labbro insicura se dare voce o meno a ciò che la tormenta, ma il silenzio non è mai stata una delle sue virtù.
“Richard, quando andrai a parlare con Alexis?”
Batte un paio di colpi sullo stipite. Piano.
Ruota appena il capo, il suo profilo è circondato dalla penombra, la schiena ancora rivolta verso la madre.
“Ho detto che l’avrei chiamata domani, ma... ci sono cose da sistemare. Al momento adatto le parlerò. Ho bisogno anche io di un po’ di tempo. Se dovessi sentirla dille che non ce l’ho con lei, non voglio che lo pensi.”
Scompare lasciandola sola in quell’irreale e spaventoso silenzio.





Diletta's coroner:

Buona sera!
Piccolo momento madre-figlio... so che non è molto inerente al fulcro principale della storia (Ryan e Jenny), ma l'ho reputato indispensabile.
Spero vi sia paiciuto :)
Baci

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Capitolo 8
*** La torre ***







La torre



 
Passeggia per strada spingendo il passeggino. Non si è mai sentito in imbarazzo nel vestire i panni di padre tutto fare, non ha mai temuto che questo potesse avere delle ripercussioni sulla sua immagine di playboy, un tempo, né su quella di marito rispettabile che adesso pare tanto piacere al suo pubblico e che lui adora poiché vero riflesso di se stesso. Le sue figlie sono tutto per lui ed inoltre Kate lo ha sempre trovato sexy in queste vesti così casalinghe e quotidiane. Anche adesso, standogli accanto, fatica a resistergli, solleticandogli il fianco con le dita nonostante il tessuto spesso del cappotto le impedisca un maggiore contatto.
La primavera è ancora lontana, ma l’inverno non sembra essere troppo rigido ed è piacevole passeggiare insieme anche con il vento freddo.
Un campanello richiama l’attenzione. Deve esserci una bici pochi passi dietro di loro. Il suono è sempre più forte e Madison comincia a piangere infastidita. Rick, bloccandosi di colpo e facendo fermare con sé anche Kate, si volta. Del ciclista neanche l’ombra, ma la campanellina continua a suonare, a suonare e suonare ancora...
 
Apre gli occhi raddrizzandosi di colpo. Si massaggia il fianco, la schiena gli duole.
Deve essersi assopito. L’unica cosa che ricorda è di aver chiuso gli occhi, “un paio di minuti” aveva detto a se stesso, un modo come un altro per concentrarsi e magari trovare qualche spunto per continuare quel capitolo di cui comparivano, sul foglio virtuale, solo un paio di paragrafi e al quale si era dedicato per cercare di staccare la spina almeno per qualche ora.
La suoneria del cellulare aumenta di volume ad ogni squillo, sul display una Kate radiosa immortalata intenta a mandargli un bacio. L’orologio digitale segna le sette e tre quarti.
“Ehi...”
“Ehi. Dormivi?”
Rispondendole ha cercato di reprime uno sbadiglio, ma evidentemente il suo tentativo è stato vano.
“Si, io... stavo scrivendo, mi sono addormentato. Novità?”
“Nulla, siamo dovuti andare via. C’è stato un omicidio lungo la Queen, la Gates ha richiesto noi.”
“Credevo avrebbe assegnato i prossimi omicidi alla squadra di Robinson, visto le circostanze.”
“Sai che non funziona in questo modo. Lo hai visto tu stesso, con Montgomery”, aggiunge sommessamente, in un sussurro.
Certo che lo sa. Non era cambiato niente dopo la morte del loro capitano, avevano dovuto proseguire come se nulla fosse e si erano impegnati il doppio. Per Roy e per Kate. Ma se quel giorno lei fosse morta... per Castle ogni cosa si sarebbe fermata, il mondo avrebbe smesso di girare, con lentezza, fino a fermarsi, perché il suo cuore avrebbe battuto solo se anche il suo avesse continuato a farlo.
“Hai ragione”, sospira, “ora chiamo l’avvocato e sento cosa ha da dirci, poi farò un salto in ospedale e aspetterò i genitori di Jenny.”
“Sei riuscito a rintracciare la sorella di Ryan?”
“No, me ne sono completamente dimenticato”, le dita scorrono freneticamente contro la sua fronte corrugata, mentre il suo respiro si fa più pesante, stanco. “Provo subito e poi vedo se mia madre può fermarsi qui anche oggi.”
Vagiti ovattati lo raggiungono attraverso la porta dello studio ancora chiusa. Strano e sorprendente come nel silenzio più profondo ogni minimo rumore o suono si sentano chiaramente, così vividi che gli sembrano distanti solo pochi passi.
“Si è svegliata Madison, devo andare. Ti chiamo più tardi.”
“Cosa facciamo con Sarah, cosa le diciamo?”
“Lascia che ci pensi io, non preoccuparti, pensa solo a tornare a casa tutta intera e a non metterti nei guai, almeno finché non sarò di nuovo al tuo fianco per proteggerti.”
Anche nei momenti più bui riesce a farla sorridere e, nonostante sia solo per pochi secondi, a farle dimenticare la fatica, la tristezza, il peso che ogni tanto sente ancora nel cuore per le vicende della sua vita che non è ancora riuscita a sistemare come avrebbe voluto.
“Ti amo.”
“Anche io. Ora è meglio che vada, prima che i polmoni di Maddie esplodano.”
 
Ancora assonnato, fa di corsa le scale salendo i gradini due a due. Il pianto sembra essersi calmato e, aprendo completamente la porta della stanza, sorride guardando sua madre coccolare la bambina.
“Grazie”, bisbiglia.
“Oh, questa piccolina ha delle corde vocali potentissime. Tale e quale a te, mi hai fatto passare tante notte insonni mio caro. Fortunatamente lei sembra preferire orari più... comodi.”
“Io non urlavo così”, commenta offeso ed imbronciato staccandosi dallo stipite della porta per avvicinarsi a loro lentamente.
“Ah no? Eri forse tu che ti alzavi di notte?”
“Io...”
“No, tu eri quello che strillava, fidati di tua madre.”
“Hai ragione, ma non dirlo a Kate, avrebbe solo un motivo in più per incolparmi di qualcosa.”
Le lascia un bacio sulla guancia, riempita dal sorriso che le è nato spontaneo al sentire quelle parole ironiche.
“Do da mangiare alla signorina e poi vado a vedere Sarah Grace.”
“Mi faresti un favore enorme mamma. Io ho un paio di telefonate da fare.”
“Vai pure, noi due ce la caviamo alla grande, vero?” un lamento arriva dalla bocca appena schiusa della nipote, “lo prenderò per un si.”
Bacia la pianta dei piedi di sua figlia, piccoli e morbidi, sentendola rattrappire le dita a quel contatto. Poi tornato in salone, ancora una volta, si trova a guadare i numeri sul biglietto da visita, componendoli con rapidità sulla tastiera del cellulare.
L’attesa di una risposta lo agita, le dita della mano tamburellano sulla gamba, muovendosi come a comporre una canzone al piano.
“Studio Devis e associati.”
La voce, abbastanza acuta e particolarmente fastidiosa per quel mal di testa che minaccia di diventare sempre più forte, sembra appartenere ad una ragazza giovane, non più di venticinque anni.
La immagina seduta sulla sedia girevole, la cornetta poggiata tra spalla e orecchio. I capelli corvini raccolti in un elegante chignon, le sopracciglia accuratamente pinzettate. Il corpo avvolto in un completo fin troppo serioso per la sua età, ma probabilmente adatto agli standard dello studio.
Sotto la scrivania, al sicuro nascosti dal banco, i piedi carezzano la moquette cercando ristoro dalle scarpe alte, abbandonate vicino alla sedia, che aveva deciso di mettere quella mattina e che erano state una tortura da indossare per arrivare fino a lì a piedi, non trovando neanche posto a sedere lungo l’intero viaggio in metropolitana.
Capisce che la sua fantasia è volata troppo lontano quando sente nuovamente quella voce richiamarlo.
“Si, ehm, buongiorno. Sono il signor Castle, avrei bisogno di parlare con il signor Davis, è possibile?”
“Attenda un istante.”
Cerca di restare concentrato, prestando attenzione alla musica da camera che gli sta tenendo compagnia. Il ritmo leggero viene spezzato di colpo con l’interruzione sul do maggiore.
“Glielo passo subito.”
La conversazione con Jason Davis non è stata particolarmente lunga. Quando Rick gli ha detto per conto di chi telefonava, Davis ha aperto i documenti relativi alla coppia, apparsi nero su bianco sullo schermo del suo portatile. Ha scorso rapidamente i dati arrivando al punto di interesse. Non è stato possibile parlarne al telefono, è una questione importante di cui discutere, e Castle non ci ha pensato due volte a proporgli di andare da lui appena possibile. In questo modo avrebbe avuto ancora un po’ di tempo per organizzare le ultime cose e per pensare.
Ciò che più lo spaventa è dover dire a Sarah che non rivedrà più suo padre, dirle che potrebbe accadere lo stesso con sua madre. Nella sua mente rivive l’abbandono di Meredith. Come se ne era andata, senza neanche salutare sua figlia. Alexis si era svegliata ed era corsa pimpante in cucina. Accadeva spesso e, solitamente, lui continuava a cucinare facendo finta di nulla, guardandola con la coda dell’occhio rubargli di nascosto i pancakes, per poi correre per poterli portare alla madre prima che si svegliasse.
Ma quella mattina si era voltato cogliendola in fragrante e aveva dovuto metterla davanti alla verità. Ed è stato allora che ha compreso la maturità di Alexis. Non si era lasciata turbare più di tanto, capendo immediatamente come funziona il mondo, come possano esistere persone straordinarie e persone egoiste. Le sue uniche parole erano state una domanda che gli aveva riempito il cuore di quelle lacrime che non voleva ospitare negli occhi per non rattristarla.
“Ma tu resti, non è vero?”
Per sempre, era stata la sua risposta, accompagnata da quella pila di pancakes inzuppata di sciroppo d’acero, sperando che per un po’ sarebbe bastato quello ad alleviare il suo dolore.
Ciò nonostante Meredith, seppur distante, è sempre stata raggiungibile in qualche modo, ma la morte è qualcosa di completamente diverso e definitivo. Forse avrebbe dovuto lasciare che fosse Kate a parlarle, lei sa cosa si prova. Il vuoto che arriva, la paura che ti assale. Invece ha preferito proteggerla da quei ricordi offrendosi come volontario.
Gli resta un’ora.
Da qualche parte ha letto che ogni tre secondi qualcuno perde la vita, non riesce a pensare, e nemmeno ne ha il tempo, a quante se ne spengano in tremilaseicento secondi.
Ora deve solo andare da quella bambina e dare il meglio di sé.
 
Sarah è ben coperta, il piumone tirato così che possa tenerla al caldo. Deve averlo rimboccato sua madre poco prima.
La piccola sembra non essersi fatta problemi a dormire in un letto che non fosse il suo, occupandone il centro. La sagoma delle gambe si intravede sotto le pesanti lenzuola. Come le braccia, anch’esse spalancate, come fosse una stella marina.
Le siede accanto, il materasso si piega sotto il suo peso gemendo. Le carezza i capelli scendendo lungo le linee del viso, le solletica appena il collo cercando di svegliarla.
“Buon giorno angelo.”
La bimba apre gli occhi abbastanza confusa squadrando tutto ciò che le è attorno. Individua subito il suo peluche stringendolo forte.
“Vedo che il tuo amico ti ha tenuto compagnia.”
“Dov’è la mamma?”
Diretta, come del resto lo sono tutti i bambini della sua età, anzi, quasi si sorprende che non si sia svegliata nel cuore della notte chiamando disperatamente i suoi genitori.
La tira fori dalle coperte accogliendola tra le sue braccia. Kate dice sempre che sono il posto migliore in cui rifugiarsi quando è stanca o non sta bene, non solo a livello fisico, ma anche emotivo. Spera possa valere lo stesso per Sarah Grace, che anche lei trovi tra le sue braccia un luogo dove rintanarsi e trovare un po’ di conforto, sperando che quelle di Jenny possano stringerla a sé il più presto possibile.
“Ti devo dire una cosa angelo, ti va di ascoltarmi?”, la sente annuire con la nuca poggiata alla sua spalla. “Allora... tu ricordi cosa ti dicono sempre mamma e papà quando salite in macchina?”
“Papà mi fa andare sul seggiolino.”
“Ah si, e poi?”
“Poi allaccia la cintura”, con l’indice traccia il contorno del naso in gomma del canguro dal salto magico.
“E sai perché lo fa?”
“Papà ha detto che è per, per l’indicente.”
“L’incidente?”
“Si. Così non mi faccio male.”
“Esatto... ecco, mamma e papà ieri sera hanno avuto un incidente.”
L’indice si muove sempre più veloce sulla gomma scura, le unghie la graffiano anche se debolmente.
“Loro avevano la cintura, ma si sono fatti male comunque.”
Sarah comincia a dondolare lentamente. La velocità aumenta, come a volersi cullare. Lui segue i suoi movimenti, dondolandosi insieme a lei come una coperta calda che l’avvolge.
Non è facile continuare a parlare. Dirle che Kevin ha raggiunto i nonni, in cielo. Tentare di spiegarle, attraverso uno sciocco quanto forse prevedibile espediente fiabesco, che sua mamma dorme, così profondamente che è impossibile svegliarla, che dovrà farlo da sola quando sarà pronta.
Il pupazzo sembra aver perso le sue sembianze intrappolato tra quelle dita minute che lo stringono con forza. Il pelo corto e morbido è bagnato dai lacrimoni che grandi e silenziosi le scendono lungo le guance.
Cullandola quelle lacrime diventano ancor più reali, sentendole inzuppargli la camicia.
Non sentendola reagire, la sua paura aumenta. Cosa potrebbe causarle lo shock? Se cominciasse a non parlare più, a non voler mangiare... e intanto i secondi passano, altre vite si spezzano e lui pensa solo a quella che tiene stretta tra le braccia e, come un’illuminazione, a quella che sua figlia porta in grembo.

Il campanello suona e si sorprende ancora una volta completamente distaccato dalla realtà. I suoi pensieri hanno galoppato veloci, immerso nel mondo dei ricordi tristi e cupi. Quelli felici sembrano volersi nascondere, chiusi a chiave in un cassetto, almeno fino a che sua madre non si offre di andare ad aprire al suo posto e lui, tenendo stretta Sarah nuovamente addormentata dopo quel lungo pianto, arriva in salone ed incontra gli occhioni di sua figlia.
Eccola la felicità.
Martha gli toglie la bambina dalle braccia, lasciandolo libero di intrattenere il loro ospite.
Davanti a Castle ecco comparire un uomo estremamente ordinario. Capelli corti, curati. Un lieve accenno di barba, quasi invisibile. Sotto al pesante cappotto grigio lasciato sbottonato, indossa un gessato blu, la cravatta chiara contrasta con il tessuto scuro del completo.
Gli occhi grigi lo indagano studiandone i lineamenti. Rick prova un certo disagio per quello sguardo ed è grato quando lo sconosciuto allunga la mano nella sua direzione per presentarsi.
“Jason Davis, ci siamo sentiti stamattina al telefono.”
“Ma certo, si accomodi.”
La sua fervida immaginazione aveva creato nella sua testa un’immagine totalmente diversa di quell’uomo dalla voce calda e profonda, ben impostata.
“Posso offrirle qualcosa? Un caffè magari...”
“No, la ringrazio, ne ho preso uno prima di venire qui. C’è un posto in cui potremmo parlare?”
“Si, mi segua.”
Lo fa accomodare nello studio chiudendo la porta alle sue spalle. Sfregando le mani tra loro, con passo titubante, aggira la scrivania adagiandosi poi sulla sedia. Non riesce a rilassarsi, mantiene la schiena dritta, come inamidato.
“Ho sentito dai telegiornali dell’incidente”, un tentativo non molto allegro per rompere il ghiaccio, ma necessario ed efficace. “Le mie condoglianze per la vostra perdita.”
“La ringrazio...”
“Ora, voglia scusarmi se arrivo dritto al punto.” Rovista nella ventiquattrore. Le dita si muovono rapide tra i fogli in essa racchiusi solleticandoli. Sul fondo una cartellina in carta da zucchero incarna l’oggetto cercato.
“I signori Ryan si erano rivolti allo studio per l’amministrazione dei beni e la sistemazione delle varie pratiche nel caso di prematuro decesso. Tuttavia, ciò che premeva maggiormente ad entrambi era assicurarsi che, se gli fosse accaduto qualcosa, la figlia avesse avuto qualcuno che si sarebbe potuto occupare di lei. In questo caso, viste le condizioni della signora Ryan, l’affidamento della bambina sarebbe solo temporaneo, diverrebbe permanente solo nell’eventualità in cui...”
“Ho capito”, lo interrompe bruscamente, schiarendosi poi la voce. “Quindi ora dovremmo esclusivamente verificare i nominativi degli affidatari, rintracciarli e... e poi lasciamo loro Sarah Grace e basta?”
“No, ovviamente ci sono moduli da firmare, ci sarà un’udienza per certificare il momentaneo affidamento. Tuttavia, non credo che lei abbia compreso appieno la situazione.”
Davis gli porge il fascicolo aperto poco prima. Con evidente interesse, osserva gli occhi di Rick muoversi rapidi, saltare di riga in riga.
Attende, manca poco e... eccola! Quell’espressione tra lo stupito e il perplesso, la bocca lievemente schiusa, lo storcersi della mascella e quel sopracciglio inarcato.
“Deve esserci un errore, non credo che...”
“I signori Ryan sono venuti da me circa sette, otto mesi fa per modificare la pratica. Non c’è alcun errore. Ovviamente quella richiesta non costituisce un vincolo. C’è sempre la possibilità di tirarsi indietro.”
“Ma così cosa accadrebbe?”
“Beh, si cercherebbe tra i parenti prossimi e, identificati, si comincerebbe un percorso con l’assistente sociale per verificarne l’idoneità. Ovviamente in assenza, si ricorrerebbe alla lista delle famiglie affidatarie.”
“Capisco, ma da solo io non posso...”, fa una breve pausa pensando alla cosa più ovvia da fare. “Dovrei rubargli ancora un po’ di tempo. Le dispiacerebbe venire con me, le prometto che le porterò via al massimo un paio d’ore, non di più.”
“Ci mancherebbe, capisco che sia una faccenda delicata. Se mi permette farei una telefonata allo studio per avvisare.”
Rick si alza lasciandolo solo, per concedergli quel minimo di privacy di cui potrebbe aver bisogno.
Arrivato in sala, anche lui estrae il cellulare dalla tasca dei pantaloni.
Scorre rapidamente i numeri nella lista delle chiamate. Solo un numero sconosciuto. Fa partire la chiamata e attende, squillo dopo squillo, la risposta.
Crede di non aver mai usato tanto il telefono quanto quel giorno.
“Pronto?” bisbiglia la voce assonnata all’altro capo.
Non ce la fa, non riesce a ripetere a qualcuno dell’incidente. È stanco di dirlo, è stanco di sentire la paura, di vedere lo spavento e la tristezza negli occhi di qualcuno.
Quando è diventato così sensibile? Un tempo sembrava che nulla potesse preoccuparlo, ad esclusione di quello che concerneva la vita di Alexis. Negli ultimi anni ha rischiato di morire così tante volte che ha perso il conto. Sarebbe potuto diventare poltiglia insieme a più di mezza New York, trasformarsi in cubetti di ghiaccio ottimi per rinfrescare calde bevande. Ha visto la morte in faccia, passargli accanto e prendere tante vite da poter ripopolare la terra in un futuro. Eppure adesso qualcosa è cambiato, si è reso evidente ai suoi occhi quanto si sia affezionato ai ragazzi del 12th. Molto più di quanto credesse. Il loro rapporto è divenuto più profondo, è come se improvvisamente realizzasse che non si trovano bene insieme solo quando si tratta di risolvere casi o davanti ad una birra facendo battute idiote.
Ryan se ne è andato e con lui è sparita anche una parte di sé.
“Pronto?” ripete la voce, quasi spazientita per colpa di quello che sembra essere a tutti gli effetti uno scherzo telefonico. O forse è solo Oliver, che ancora cerca di spaventarla con quelle stupide telefonate, una muta minaccia per aver voluto rompere con lui.
“Parlo con Elizabeth, Elizabeth Ryan?”
“Si... lei chi è?”
“Sono Richard, un amico di suo fratello. Abbiamo provato a rintracciarla ieri sera.”
La donna, senza prestare troppa attenzione al plurale usato, stacca l’apparecchio dall’orecchio, sentendo solo un lieve gracchiare della voce dall’altra parte, per verificare la presenza di chiamate perse. Eccolo lì, nell’angolo sinistro del display, quel minuscolo simbolo.
Dannazione.
“Dovrei decidermi a cambiare telefono. A quanto pare dà l’avviso di chiamata solo quando ne ha voglia. Avevate bisogno? Se state pensando di organizzargli una festa a sorpresa”, esclama guardando la data cerchiata di rosso sul calendario da parete. Manca meno di una settimana. “L’ho già detto a Jenny. Lui odia quel genere di sorprese. Io avevo dieci anni e lui sette, mai visto un bambino tanto arrabbiato per avergli organizzato una festa, parola mia.”
“No, nulla del genere. Ascolti, ieri sera c’è stato un incidente. Lui e Jenny sono rimasti coinvolti.”
“O mio dio, stanno bene?”
“Jenny non si è ancora svegliata, ma è stabile. Kevin...”
Non occorre vada avanti. I “no” ripetuti convulsamente, sussurrati da quella voce incrinata sono sufficienti a fargli capire che ha già compreso.
Sente un cigolio alle sue spalle. Compare Jason Davis, impeccabile, in quel completo ancora perfettamente integro, per nulla sgualcito. “Jenny è ricoverata al New York Presbyterian. Io andrò lì nel pomeriggio. Quando arriva mi richiami a questo numero.”
“C-certo.”
“Mi dispiace molto Elizabeth. Ora mi scusi, ma devo andare.”
“Aspetti. Sarah Grace? Dov’è Sarah Grace?”
“Sta bene, è qui con me in questo momento. La vedrà oggi. Mi perdoni, ma devo proprio andare.”
Apre l’anta dell’armadio accanto all’ingresso. Preleva un borsone in pelle nera.
Lo ha pronto da qualche giorno. Pensava che, non appena si sarebbe presentata l’occasione adatta, avrebbe rapito Kate per passare insieme un paio di giorni lontano dalla frenesia della città. Loro due, da soli, come ormai non accadeva da tempo. Invece ora si ritrova a doverlo usare per un motivo completamente diverso. Si è reso conto, squadrando per l’ennesima volta Davis da capo a piedi, che sia lui che Kate non hanno avuto un attimo di tempo per farsi una doccia e cambiarsi.
La palestra del distretto avrebbe offerto almeno a lei la possibilità di darsi una rinfrescata e cambiarsi d’abito.
“Mamma, grazie. Se non ci fossi tu non saprei davvero a chi lasciare le bambine.”
“Oh caro, ma io non posso proprio restare oggi.”
Qualche mese prima si era data da fare per organizzare con la scuola di recitazione uno spettacolo di beneficenza che si sarebbe svolto tra poche settimane. Tutto sembrava procedere rispettando i tempi che Martha si era prefissata, se non fosse che uno degli attori si era ammalato. Tonsillite.
Aveva dovuto cercare di gran fretta un sostituto che potesse imparare in poco tempo la parte e le ore di prove giornaliere erano dovute aumentare considerevolmente.
“Cosa?”
“Suvvia, non preoccuparti. Ho già risolto tutto.”
Prima che possa anche solo domandarle come abbia provveduto, il campanello suona e dal pianerottolo di casa, una volta aperta la porta, sua figlia lo osserva con un sorriso tirato.
Non ha tempo di opporsi a quella scelta, di intrattenersi a parlare con lei e cercare di chiarire quel dissapore che si è venuto a creare per un errore di entrambi. Paura, orgoglio e genitorialità non è un mix ottimale, nella sua vita almeno non lo è mai stato.
Silenzioso sale in macchina, aspettando che Jason lo raggiunga con la sua berlina nera e gli lampeggi.
Si immette nel traffico mattutino. Il piede è pigro sull’acceleratore. Ad ogni incrocio guarda due volte prima di passare. Allo scattare del verde al semaforo controlla con accuratezza che qualcuno non spunti all’improvviso infrangendo il codice stradale.
Un viaggio lungo contrariamente al solito. I clacson suonano come a voler imprecare e gli automobilisti sono lieti quando lo vedono accostare e finalmente sono liberi di proseguire senza intralci.
In ascensore entrambi cercano di non incrociare gli sguardi, restano fissi a guardare i tasti illuminarsi, fino a che, arrivati al piano, le porte si aprono.
Intercetta immediatamente la figura di sua moglie nell’ufficio del capitano. Con passo spedito, cammina lungo il corridoio fiancheggiando le scrivanie. Sono tutte vuote e una lo resterà più a lungo delle altre. Tutto, sul tavolo che apparteneva all’irlandese, è ancora come lo aveva lasciato il giorno prima.
Ha bisogno di parlare con Kate subito. Abbandona il borsone sulla sedia ed irrompe nell’ufficio della Gates, che pare non intenzionata a fare domande in merito, non è nuova alla perdita di un agente. Non è nuova alla perdita di un amico.
Sotto lo sguardo interrogativo di Esposito e la perplessità di Kate verso quel comportamento, la trascina con sé nella sala break, dove Jason li sta già aspettando.
La ragguaglia velocemente su quello di cui lui stesso ha parlato poco prima con l’avvocato. Kate segue silenziosa i movimenti della sue labbra, ascolta incuriosita le sue parole, ma come Rick, anche lei non capisce subito la natura di quella conversazione.
“Quindi ora basterà cercare le persone da loro indicate e affidare tutto in mano ai giudici?”
Domanda poggiandosi con gli avambracci al piccolo tavolo, guardando prima Davis e lasciando poi che il suo sguardo sprofondi negli occhi del marito.
“Kate, è questo il punto. Siamo noi... Ryan e Jenny hanno scelto noi come tutori per Sarah Grace.”



Diletta's coroner:

Mi rendo conto che forse il capitolo sia parecchio lungo, ma mi sono resa conto che spezzandoli, da agosto, sarei costretta ad interrompere la pubblicazione per due mesi.
Detto questo, vi auguro una buona serata!
Baci

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Capitolo 9
*** Il bene più grande ***







Il bene più grande



 
Non sa cosa sia accaduto. Uscito dall’ufficio del capitano si è guardato intorno, poggiando la schiena al bordo della scrivania. Beckett sembra abbastanza agitata e presa dalla conversazione, mentre quell’uomo in completo scuro resta in un angolo, quasi intimorito, in silenzio.
Maledette le veneziane alle finestre che gli impediscono anche solo di provare a leggere il labiale, permettendogli, invece, solo una vista parziale e spezzata dei loro corpi nella saletta.
Istintivamente volta il capo al suo fianco. La bocca è già schiusa, pronta a parlare, ma tristemente si accorge che non c’è nessuno pronto ad ascoltarlo, nessuno che riderà con lui o che tenterà di aiutarlo a capire per quale motivo mamma e papà stiano parlando così vivacemente.
Deluso da quell’improvvisa sensazione di vuoto che non aveva ancora avuto il tempo di elaborare, sospira sonoramente fino a che una mano amica non gli si posa sulla schiena.
“Ho pensato avresti gradito.”
Lanie gli porge il brico del caffè. Dalla bocchettina esce veloce il fumo, che si condensa altrettanto rapidamente lasciando una debole patina sul tappo in plastica bianca.
Legge il nome stampato sul cartone caldo, non si è più soffermato a guardarlo da anni, ma adesso, leggendolo, gli tornano alla mente tanti ricordi.
Era da un paio d’anni nella squadra di Montgomery. Lui è Kate si erano conosciuti tempo prima, quando erano solo delle matricole schiavizzate, spedite a svolgere i lavori più scomodi. Nell’ultima settimana, dato l’inaspettato trasferimento del loro collega, si erano trovati sommersi di lavoro nell’attesa che arrivasse il nuovo detective. Le ore, per quanto assurdo fosse, sembravano essere più lunghe e passare molto più lentamente del solito. Il caso stava prosciugando ogni loro risorsa e la stanchezza si faceva sentire sempre più sovente. Bisognoso di aria fresca, si era ritrovato sull’altro lato della strada in coda, sulla soglia del piccolo bar, deciso a prendere un paio di caffè e magari qualche ciambella per l’apporto quotidiano di zuccheri.
Sporgendosi di poco alla sua sinistra riusciva a vedere solo teste davanti a sé, come fluttuanti nell’aria. Quella coda, associata al caldo infernale della stagione, riusciva ad essere peggio dello starsene chiuso tra le mura del dodicesimo.
Finalmente arrivato il suo turno, si era messo, come un bambino voglioso di dolciumi, con il naso premuto contro la vetrinetta indicando con precisione alla commessa cosa desiderasse. Fu in quel momento che, senza rendersi conto del come, si era ritrovato a terra con una macchia di caffè enorme sulla camicia. Davanti a sé, un ragazzotto dai lineamenti gentili e la pelle incredibilmente chiara gli stava porgendo la mano per aiutarlo a rialzarsi, scusandosi in mille modi per l’incidente ed essergli andato addosso in modo tanto maldestro. Stanco com’era non aveva voglia, né tanto meno intenzione, di mettersi a discutere per quel po’ di caffè che gli aveva rovinato la camicia. Nonostante i suoi tentativi di persuasione, il ragazzo aveva però insistito per pagargli la colazione e poi era corso via, mormorando un ‘oddio è tardissimo’, dopo che lo sguardo gli era caduto sul grande orologio del locale.
Lo aveva ritrovato al suo ritorno al distretto ad occupare la scrivania accanto alla sua.
Detective Kevin Ryan, novellino, pasticcione e ritardatario.
Da quel momento la colazione al Barney’s caffè era diventata una sorta di rituale che aveva contribuito, negli anni, a rafforzare ancora di più la loro partnership.
“Grazie”, mormora rigirando ancora un paio di volte il cartone tra le mani per poi abbandonarlo sullo spesso legno della scrivania.
L’anatomopatologa sospira. Sarà difficile, lo sarà sempre. 
Delle sere, abbracciati tra le lenzuola Esposito le raccontava delle sue avventure quando aveva servito le forze speciali in Iraq. Non lo faceva spesso, ed era lieta di conoscere, nonostante gli anni passati insieme, nuovi aspetti di lui e della sua vita.
Le aveva parlato di quel bombardamento inaspettato all’accampamento, di come avevano dovuto lasciare tutto, cercare riparo. Lui e il suo compagno, Marko Velasquez, stavano correndo. Terra, sassi e fango schizzavano alle loro spalle, la polvere si alzava seguendo il fumo dovuto alle esplosioni. Le gambe si muovevano quasi involontariamente, andava avanti ad inerzia. Si era lanciato nella trincea, uno slancio permesso dall’adrenalina in corpo e, sentendosi temporaneamente al sicuro, si era girato verso il campo. Il suoi occhi, oltre alla baraonda, all’accampamento distrutto, alle fiamme, avevano incrociato quelli del suo compagno rimasto indietro.
Preso dal volersi mettersi al sicuro non si era accorto di non averlo più al suo fianco.
In un secondo lo aveva visto frantumarsi, andare in pezzi e l’elmo con inciso il suo nome era rotolato fin dentro alla trincea, ai suoi piedi.
Quell’episodio aveva contribuito, al suo ritorno, allo sviluppo e la comparsa della PTSD.
Quante volte aveva rivisto gli occhi di Velasquez, consapevole che la morte stava arrivando a prenderlo. Li rivedeva in quelli dei bambini iraniani spaventati ripresi dai giornalisti, negli incubi ad occhi aperti quando il rombo di una marmitta lo riportava con la mente e con il corpo a quel momento, facendolo sobbalzare e correre a nascondersi anche in mezzo alla folla, in quelle che per gli altri erano comunissime e soleggiate giornate estive.
Marko era stato con lui dall’inizio dell’addestramento, si erano ritrovati nello stesso reggimento. Avevano condiviso notti insonne passate a tenere sotto controllo il confine, cercando di non addormentarsi quando la stanchezza sembrava prendere il sopravvento.
La sua morte lo aveva segnato, ma, come aveva detto a Kate anni addietro, aveva cercato di fare di quella rabbia, causata dal sentirsi responsabile per la prematura dipartita del suo compagno e amico, un punto di forza e non di debolezza. Con il tempo ci era riuscito, e adesso avrebbe dovuto fare lo stesso con l’impotenza che provava per la scomparsa di Ryan, chiudendola in uno scomparto segreto della sua mente e liberandola quando si sarebbe rivelata utile.
“Cosa sta succedendo là dentro?”
“Non  ne ho idea, ma credo che non ci metteremo molto a scoprirlo.”
 
Rick prende tra le mani quella minute di Kate.
Dall’esterno pare supplicarla, invece, a seguito delle sue parole, ad uscire dalla sala con un appena accennato movimento del capo è l’avvocato newyorkese.
“Kate, possiamo farcela. L’altra notte parlavamo di avere un secondo bambino... Vedrai che andrà tutto bene e in un certo senso potrebbe essere come un piccolo test, vedere se riusciremo a cavarcela con due bambini.”
“Ti prego, non scherzare, non adesso.”
Lui abbassa gli occhi, colpevole, non voleva sminuire la faccenda, ridurne l’importanza, solo a volte non riesce a tenere a freno la lingua.
“So che ce la faremo, ne sono sicura. Ma il punto è proprio un secondo bambino. Dio, voglio bene a Sarah Grace e mi sento una completa egoista per quello che sto per dire. Ma prenderci cura di lei non penso sarà così semplice e l’idea di avere un altro bambino adesso mi sembra impensabile. Ed io non voglio accantonare questa possibilità, non voglio rinunciare all’avere un altro figlio con te. Oddio, sono una persona orribile.” Si gira verso la macchina del caffè, le dita si stringono al banco mettendosi poi a giocare con la tazza in ceramica blu che Rick si era premurato di ricomprarle dopo che, non tanto accidentalmente, gliela aveva rotta.
“Non sei orribile, sei umana.” Libera la tazza dalla sua stretta, posandole poi le mani sulle spalle. “Hai dei sogni e dei desideri, come tutti. Anche Jenny e Ryan li avevano, sicuramente progettavano di passare ancora tanto tempo con la loro bambina, di poterle offrire l’istruzione che merita e che magari loro non hanno potuto avere, e lo dico perché è esattamente quello che io volevo per Alexis e che voglio ancora. Voglio che sia felice, che abbia tutto quello che io non ho avuto. Loro hanno scelto noi per far si che questo diventasse reale per Sarah, e conoscendoli non penso che lo abbiano fatto solo per una questione economica. Si fidano di noi, di noi come genitori. Facendo questa scelta non hanno certo voluto ostacolarci nel costruirci una famiglia. Noi possiamo fare entrambe le cose Kate.”
“Come? Come possiamo con il lavoro che facciamo? Siamo sempre indaffarati con qualche caso, già adesso fatichiamo a goderci Madison. Non voglio perdermi dei momenti importanti dei nostri figli e... con tre bambini. Trascureremmo certamente qualcosa.”
“Kate, avremo tempo per prepararci, organizzarci, conta poi i nove mesi di gravidanza. Il bambino non arriverà domani. E non dovresti preoccuparti del fatto che non saremo a casa. Io sono uno scrittore, non un poliziotto. Tu hai provato così tante volte a farmelo entrare in testa... non ti davo ascolto, forse per egoismo, perché volevo passare con te più tempo possibile, perché ho sempre paura che possa accaderti qualcosa e, ingenuamente, credo che standoti accanto questa possibilità si riduca drasticamente, ma è arrivato il momento di farmi da parte. Se avremo un altro bambino, mi dedicherò esclusivamente alla scrittura. Continuerò a portarti il caffè la mattina e a rallegrare le tue grigie giornate la sera, con battute e congetture del tutto prive di fondamenti. E magari, tra qualche anno, tornerò a darti noia, ma non voglio che sacrifichi una parte di te. Né quella di madre, né tanto meno quella di detective.”
“E di quello che sacrifichi tu invece? Pensi che sia facile per me fare a meno di te qui, ogni giorno? Credi davvero che ti lascerei rinunciare a qualcosa solo perché io possa sentirmi realizzata?”
“Io non rinuncerei a nulla. Ho fatto tutto quello che sognavo nella vita. Ho trovato te, abbiamo messo su famiglia, progettiamo di allargarla, ho fatto del mio interesse per il crimine un lavoro. Ho avuto tutto quello che desideravo, la sola cosa che voglio ora è che lo abbia anche tu.” La mano si muove automaticamente verso la sua guancia, con il pollice le segna lo zigomo, lentamente.
Le dita di Kate incontrano le sue e vi si intrecciano. Sorride. A volte quell’uomo la esaspera, quella sua cocciutaggine, il suo essere ostinato, e capisce come debba sentirsi lui quando è lei a mostrare questi tratti caratteriali. Ma alla fine non può non apprezzare i suoi sforzi, quello che fa per renderla felice, per far concretizzare i suoi sogni.
“Abbiamo ancora un po’ di tempo per pensarci. Chiamerò Devis intorno alle sei, dopo essere passato in ospedale.”
“Va bene. Io chiederò un permesso alla Gates, solo un paio d’ore, non voglio lasciare l’intera incombenza del caso su Javi. Non farò in tempo a passare da Jenny, ti aspetterò a casa, così passerò un po’ di tempo con le bambine.”
“Porterò Sarah Grace con me, arrivano i nonni ed è giusto che la vedano e ho avvertito anche la sorella di Kevin. Potrebbe chiamarmi da un momento all’altro.” La bacia fugacemente sulle labbra. Arrivato davanti la porta le si rivolge nuovamente. “Ah, prima che mi dimentichi, ti ho portato un cambio e... mia madre è dovuta uscire, quindi Madison è rimasta con Alexis.”
“È un bene che tu abbia chiesto a lei di occuparsene.”
“Non sono stato io a farlo...” mormora mesto per poi uscire, non intenzionato a intraprendere, almeno in quel momento, tale conversazione.
“Rick aspetta! Castle!”
“Ci vediamo dopo a casa Kate.”
Non si volta nemmeno a guardarla. Si stringe di più nel cappotto e a capo chino entra nell’ascensore lasciandosi andare contro la parete.
“È tutto a posto?”
“Si, lui è solo...”, osserva le porte chiuse dell’ascensore, come se potessero fornirle le parole giuste da dire. “Nulla”, bisbiglia infine lasciando cadere la frase.
“Il tipo in giacca e cravatta chi era?”
Domanda Esposito più preoccupato da quel signorotto pomposo e fresco di colonia che non dall’umore non propriamente roseo dell’amico.
“L’avvocato, Castle lo ha chiamato questa mattina. Si tratta dell’affidamento di Sarah Grace, Ryan e Jenny avrebbero voluto che ad occuparci di lei fossimo io e Rick.”
L’ispanico inspira a fondo, passandosi le mani sulle cosce. “Adesso quindi sarà... ehm, vostra?” cerca di domandare senza lasciar trasparire alcuna emozione.
“Non abbiamo ancora dato una risposta.”
“Cosa aspettate a farlo?”
Kate percepisce un senso di accusa in quelle parole. Il capo prima basso si alza con lentezza e gli occhi si trovano a fissare quelli scuri del collega.
“Non è così semplice Javi, ci sono aspetti da prendere in considerazione. Abbiamo bisogno di qualche ora per pensare.”
“Cosa, cosa c’è da ragionare? Se lo avessero chiesto a me non ci avrei pensato due volte prima di dire di si.”
Ed ecco che per Lanie si fa chiaro cosa stia scatenando quel botta e risposta tra loro, cosa spinga Esposito ad ignorare la ragione che c’è nelle parole di Kate. Un risentimento, un moto di invidia che non ha impiegato più di qualche secondo a generarsi e diffondersi in lui.
“Non puoi capire”, la voce di Beckett è poco più di un sussurro al contrario di quella di Javier, sempre più alta.
“Perché? Perché non sono genitore?”
“Esatto!”
Si pente immediatamente di quella risposta, di aver permesso all’agitazione, alla stanchezza e al nervosissimo di prendere il sopravvento in quell’unica parola pronunciata con rabbia.
E come poco prima con Castle, anche Javier lascia il distretto con la voce di Kate a rimbombargli nelle orecchie.
“Lascialo andare, non fate pause dai ieri notte. Avete entrambi bisogno di un momento. Perché intanto non vieni giù da me, ho dei referti da mostrarti.”
Rigirando la fede tra le dita la segue al piano di sotto.
L’aria è fredda, un insolito brivido le percorre la schiena costringendola a fermarsi appena superate le porte dell’obitorio.
“Dolcezza, che ne dici di sederti, così parliamo un po’.”
“E i referti?”
“Oh, quelli possono aspettare. Loro qui non vanno da nessuna parte”, ammicca riferendosi, con un rapido movimento della mano, ai corpi rigidi, chiusi nelle celle, che aspettano di essere riportati alle famiglie o ancora in attesa dell’autopsia e delle analisi finali.
Kate si avvicina ad uno dei tavoli e vi ci siede. Le gambe a penzoloni dondolano dopo aver fatto incrociare i piedi. Le sembra ieri quando si ritrovava in quella stessa posizione, i capelli corti sbarazzini, l’aria annoiata, vestiti che a ripensarci erano semplicemente improponibili. Se ne stava lì, seduta, ad intrattenersi con Lanie o ad aspettarla, cosa che la patologa trovava alquanto irritante, specialmente di notte, specialmente se, nell’attesa, decideva di restare al buio, facendola morire di paura una volta accesi i neon. Invece sono passati già dieci anni e per quanto alcune cose sembrino sempre uguali ad una prima vista, pensandoci bene e guardandosi indietro sono cambiate così tanto che quasi fatica a crederci.
“Allora... dimmi tutto.”
“Cosa vuoi che ti dica Lanie? Che ho sbagliato a rispondergli così, che Espo ha ragione, che sono un’egoista? Da quali di queste cose vuoi che cominci?”
La dottoressa inclina il capo sorridendole bonariamente, “Ascoltami, Javi non è la persona più facile di questo mondo e tu lo sai bene, e credimi quando ti dico che non è il non essere genitore che lo ha fatto reagire in quel modo. Kevin era il suo migliore amico e in poche ore si è reso conto di essere all’oscuro di parecchie cose. Avevo già notato qualcosa quando Castle ha parlato dell’avvocato in ospedale, ma non gli ho dato peso. Ora il fatto che abbiano scelto voi come tutori di Sarah Grace... si sente escluso. Messo da parte. Lui avrebbe fatto di tutto per Kevin e per questa bambina farebbe altrettanto.”
“Ma Ryan non lo ha escluso dalla vita di Sarah.”
“No, non lo ha fatto, ma Javi la vede in questo modo. E il fatto che tu e Castle abbiate bisogno di tempo per decidere non fa altro che incrementare il suo risentimento. È come se Ryan non si fosse fidato a lasciare sua figlia nelle mani del suo migliore amico, come se per tutti questi anni lo avesse considerato uno screanzato e non avesse mai avuto il coraggio di dirglielo. Non è obiettivo in questo momento, non riesce a capire che la scelta di Jenny e Ryan sia ricaduta su voi due perché siete una coppia stabile. In famiglia fareste di tutto l’uno per l’altro. Avete dei genitori che vi aiuteranno se doveste avere bisogno. C’è Alexis che potrà sempre darvi una mano... credo che vi avrebbero scelto indipendentemente dal fatto che voi foste già genitori. Io e Javi abbiamo rimesso in piedi la nostra relazione, ma io stessa a volte ho dei dubbi sulla sua solidità.”
“Perché non me lo hai detto, perché non sei venuta da me, avremmo potuto parlarne…?”
“Non c’era niente da dire. Ho solo paura che tutto possa rompersi un’altra volta. Siamo andati avanti a tira e molla troppo a lungo. È come fare bungee jumping, saltare giù da un dirupo con una corda elastica. Ormai la nostra corda è vecchia e temo che finirà con lo spezzarsi. Con lui si vive alla giornata. È così ed ho imparato ad accettarlo. Ci sono giorni buoni, anche molto buoni, ed altri invece pessimi. Non abbiamo più menzionato il matrimonio e i figli... figuriamoci, neanche a pensarci. Lui ha me adesso, ma chi può dire che tra qualche anno, o tra qualche mese non sia di nuovo solo. E allora che ne sarà di Sarah Grace?
Tesoro, capisco che adesso sia difficile, che stia succedendo tutto in fretta, non c’è un attimo di respiro. Ma loro hanno scelto voi. Oh, vagliate le altre possibilità se volete, ma per loro, tu e Castle siete la migliore possibilità per quella bambina. A Javier passerà e alla fine sarà felice di poter continuare a fare lo zio Javi, quello tosto e spavaldo.”
Kate la osserva restando in silenzio.
Odia non saper cosa dire, come rispondere. Per anni lei è stata quella che ha avuto bisogno, bisogno di conforto, di una voce amica. Se ne era accorto subito Rick e aveva fatto di tutto per aiutarla. E che dire di Lanie, conosceva il problema prima che lei potesse esporglielo e aveva una soluzione a tutto. Lei invece non si era accorta del momento che l’amica stava passando e anche adesso non sa cosa dirle, come poter cercare di alleviare un po’ le sue sofferenze, perché le è chiaro, ormai, che per quanto cerchi di negarlo, le cose con Esposito non stanno andando nella direzione che lei aveva sperato.
Anche con Castle combina ancora guai delle volte. Quando si tratta di confortarlo con un abbraccio, con il semplice stare in silenzio tenendolo stretto a sé, sentendo la sua schiena possente a contatto con il suo seno, tutto le sembra semplice, ma quando si tratta di dar voce ai suoi pensieri spesso farebbe meglio a mordersi la lingua, esattamente come avrebbe dovuto fare prima, in sala break.
“Lanie...”
“Non serve che tu dica nulla. Ma pensa a quello che ti ho detto e sono sicura che alla fine tu e Rick prenderete la decisione giusta, qualunque essa sia.”
Lo sgabello, su cui è seduta l’anatomopatologa, cigola ruotando, poi torna il silenzio.
Le gambe di Kate dondolano avanti e indietro ancora un paio di volte. Deve trovare un modo per parlare con Esposito senza rischiare che le sue parole possano ferirlo più di quanto già non lo sia.
Ma lei non è la sola a doversi preoccupare dell’amarezza e lo sdegno scatenati dal possibile affidamento.

Rick stravolto, arrivato a casa, si precipita immediatamente a farsi una doccia. Gode del ristoro donatogli dall’acqua calda che gli scorre sul corpo. Vestitosi con velocità, torna in salone, si piega sulle ginocchia accovacciandosi a fianco di Sarah Grace nel tentativo di convincerla ad andare con lui e cercando in ogni modo di non incontrare lo sguardo di sua figlia. Ma Alexis sembra non essere del suo stesso avviso. Ha capito quanto abbia sbagliato a non parlargli subito della gravidanza ed è alla ricerca disperata di un, seppur minimo, contatto con lui.
Lo ravvisa rapidamente su Madison, sul fatto di aver cambiato Sarah avendo trovato dei suoi vecchi vestiti in uno scatolone in fondo all’armadio. Sono datati e fuori moda, ma per una bambina di tre anni, e finché lui non riuscirà ad andare a prenderle un cambio, andranno bene. In risposta lo sente solo grugnire. Più volte tenta di richiamare la sua attenzione, “papà” le esce quasi disperato dalle labbra, ma non ottiene nulla, se non un fugace sguardo che, posatosi sul ventre prominente, viene subito meno.
Eppure Castle, prima di uscire, si sofferma a guardarla. In quel viso preoccupato e spaventato ritrova la sua Alexis, quella di sempre. “Domani, a cena, noi potremmo... parlarne. Solo io e te.”
Un si mormorato in un sorriso è la sua risposta, guardandolo poi uscire e Sarah farle ciao con la manina.
Varca le porte scorrevoli dell’ospedale, Sarah è sempre stretta tra le sue braccia, la sua forma minuta si adatta perfettamente al suo corpo. Probabilmente non dovrebbe tenerla così tanto in braccio, sarebbe meglio farla camminare, ma viste le circostanze non sente rimorso nel viziarla un po’.
L’infermiera al banco dell’accettazione gli sorride spumeggiante, forse troppo dal momento che ciò che ha da domandarle non è nulla di allegro, ma la bambina sembra divertita e rasserenata da quel viso dolce e felice.
Prendono l’ascensore fino al terzo piano. Guardandosi attorno gli sembra di non essersi allontanato neanche di un metro dall’ingresso. Ogni corridoio è uguale all’altro, il linoleum, nel suo intreccio di sfumature, sembra essere stato appositamente sistemato nella medesima posizione di quello ai piani inferiori.
Si guarda intorno un po’ spaesato, lancia un’occhiata furtiva alla corsia alla sua destra. Stanza 411, 412, 413... Il corridoio pare essere quello giusto. La porta numero 417 è chiusa, non ci pensa due volte ad aprirla, non prima di aver ricordato a Sarah Grace che la mamma sta ancora dormendo ma che, anche se non potrà risponderle, sentirà tutto quello che avrà da dirle.
Nella stanza, seduta accanto al letto, una donna ricurva con la mano di Jenny stretta nella sua. Alle sue spalle un uomo che, con premura, le posa un bacio sul capo.
“Scusate, non sapevo ci fosse qualcuno.”
I due si girano di scatto, sorridendo alla vista della bambina.
“Tesoro mio”, sussurra l’uomo andando a prenderla dalle braccia di Castle. Anche la donna si alza, andandogli incontro. Sfiora le guance della bambina lasciandole poi un bacio sulla mano.
“Lo perdoni, mio marito Scott sembra essersi dimenticato le buone maniere. Io sono Mary, noi siamo...”
“I genitori di Jenny. Sono Richard Castle, ci siamo incrociati al matrimonio... è un piacere rivedervi, mi spiace solo per le circostanze.”
Mary sorride dispiaciuta di non essersi ricordata di averlo già incontrato, nonostante il viso le fosse in qualche modo familiare.
“Nonno, ho sete.”
Borbotta la bambina giocando con gli occhiali appesi al collo dell’uomo.
“Oh, dalla a me, ci penso io.” Si china verso di lei. Le sistema la maglietta coprendola bene allungandole poi la mano. “Vieni con la nonna, Sarah, andiamo a cercare qualcosa.”
Rick, una volta uscite, le segue con lo sguardo, per quanto gli sia possibile, attraverso l’inserto in vetro della porta fino a che una voce roca non richiede la sua attenzione.
“Mia moglie non vedeva l’ora di poter stare un po’ insieme a lei. L’ultima volta che nostra figlia è venuta a trovarci non l’aveva portata e... da nonni abbiamo sentito incredibilmente la mancanza di quella piccolina. Sarà bello potersene occupare per un po’.”
“Potersene occupare?” Chiede con cipiglio guardandolo avvicinarsi alla piccola finestra.
“Con Jenny in queste condizioni, qualcuno dovrà prendersi cura di Sarah Grace, almeno fino a che mia figlia non si sveglierà.”
Rick si passa una mano sulla fronte, suda freddo. Come ha precisato prima a Mary, si sono incontrati giusto un paio di minuti al matrimonio e non aveva mai parlato con Kevin circa il temperamento del suocero, un uomo ben piazzato, con braccia forti e robuste sicuramente più delle sue. “Vede Scott, la faccenda è leggermente più complicata di così.”
 
Il distributore del piano inferiore offre ora la possibilità a Sarah di godersi un fresco succo alle more. Mary le sorride vedendola divertita nel farle boccacce per mostrarle la lingua divenuta tutta viola.
Tornate verso la camera, la donna riconosce immediatamente la voce alterata del marito. Al suo ingresso incrocia lo sguardo di Rick, che cerca di inserirsi disperatamente nel monologo che Scott pare aver iniziato. Mary si schiarisce la voce facendo notare la loro presenza. Lasciando andare la piccola, posa una mano sul petto del compagno invitandolo a calmarsi se non vuole rischiare che la pressione gli salga alle stelle come era accaduto poche settimane prima.
“Cosa succede?”
“Chiedilo a lui!” sbotta aspramente puntando l’indice contro Richard, perdendo definitivamente quell’aria paciosa che aveva quando avevano iniziato a parlare garbatamente qualche minuto prima.
“Quello che stavo cercando di spiegare a suo marito è che...” viene  brevemente interrotto da Sarah che, allungando le braccia verso di lui, la incita a prenderla in braccio. “...che Kevin e vostra figlia si sono rivolti un po’ di tempo fa ad un avvocato. Ho parlato personalmente con lui questa mattina. Pare, date le circostanze, che Sarah Grace sia affidata a me e mia moglie. Si tratterebbe di un affidamento temporaneo, fino ad un miglioramento delle condizioni di Jenny.”
“Oh, ma per favore, queste sono un mucchio di sciocchezze!”
“Scott...” lo ammonisce con un semplice richiamo Mary, scostandosi dal viso quel ciuffo sfuggito allo chignon. Nonostante abbia superato da qualche anno la settantina, i capelli, ad esclusione di un paio di ciocche ingrigite, hanno mantenuto il loro colore naturale. Un biondo cenere che fa risaltare particolarmente gli occhi nocciola.
“Non sto cercando di scavalcare la vostra autorità, in quanto nonni di Sarah Grace avete tutto il diritto di venirla a trovare, certamente non ve lo impedirei mai. Sono disposto, se vorrete, a mostrarvi i documenti in cui si fa riferimento a questa faccenda, ma, in quanto desiderio di vostra figlia, non posso fare altro.”
Nella realtà dei fatti lui e Kate non hanno ancora preso una decisione in merito. Eppure lui sa esattamente cosa vorrebbe, rispettare il loro volere. Comprende le paure di Kate e che le difficoltà di cui hanno parlato potrebbero diventare reali, ma sa che se decidessero di non tenere con loro Sarah Grace se ne pentirebbe per il resto della sua vita ed è quasi completamente certo che anche per Kate sarebbe lo stesso.
“Lei come fa a dire che noi non saremmo il meglio per Sarah, è nostra nipote.”
“Scott, io non ho mai detto che voi non sareste la scelta migliore, sto solo riportando la loro decisione.”
“Lei non capisce cosa voglia dire questa situazione.”
“A dir la verità la capisco. Sono padre anche io e... a breve diventerò nonno.”
Che sensazione strana dirlo a voce alta. Ancora non ha accettato quell’inaspettata ed inattesa gravidanza. Definirsi tale rende il tutto molto più reale ed imminente. “Vi posso dire che anche io reagirei esattamente come voi, ma vi assicuro che non è intenzione mia, né di mia moglie, né tanto meno lo era di Jenny, di estromettervi dalla crescita di Sarah. Ci tengo a ripetervi che farò tutto il possibile perché possiate vederla crescere e starle accanto e che potrete venire tutte le volte che vorrete. Ma credo anche che in questo momento dovremmo concentrarci sui bisogni di Sarah Grace più che su i nostri.”
“Scott, il ragazzo ha ragione, bisogna pensare a lei.”
Entrambi la guardano, la testa poggiata nell’incavo del collo di Richard, tra le dita tiene saldamente la bevanda succhiandone avidamente il contenuto. Ridono quando del succo non resta più traccia, e l’aspirare solo aria produce quello strano gorgoglio.
Un telefonino comincia a squillare, Rick si accorge immediatamente di essersi dimenticato di togliere la suoneria e spera con tutto se stesso che il trambusto non richiami l’attenzione di un’infermiera, con la stessa corporatura di un lottatore di wrestling, pronta a rimproverarlo e a sbatterlo letteralmente fuori dalla stanza per la sua mancanza.
La chiamata non dura più di qualche secondo.
Ripone il cellulare nella tasca dopo essersi assicurato di aver tolto completamente il volume della suoneria. Ripercorre ancora una volta i tre piani fino all’ingresso in ascensore, l’unico posto forse dove l’odore di disinfettante non sia così forte da far girar la testa. Le porte si aprono, lentamente e cigolando. La manutenzione non deve aver fatto poi un gran bel lavoro l’ultima volta, è il pensiero che fugace gli attraversa la mente prima di sostare per qualche secondo ad osservare la figura femminile che nervosa, seduta su di una delle poltroncine della sala d’attesa, tamburella con le dita su una busta bianca che tiene in grembo.
Parlando di sua sorella, Ryan aveva ribadito più volte quanto fossero uniti, un legame probabilmente rafforzato dal fatto che avessero poco più di due anni di differenza. Ma, vedendola ora, non ha alcuna difficoltà nel pensare che potrebbero essere gemelli. Se non fosse per i capelli lunghi, il velo di trucco che maschera il pallore e i lineamenti leggermente più fini rispetto a quelli di Kevin, non ci sarebbero dubbi a riguardo.
“Elizabeth?” domanda mestamente avvicinandosi a lei.
“S-si”, alzandosi lascia andare il sacchetto bianco sulla sedia, dedicandosi poi alle dovute presentazioni con lo scrittore. “Spero che la mia chiamata non l’abbia disturbata.”
“No, niente affatto. Ero di sopra, ho portato Sarah a trovare la mamma.”
“Come sta? Come stanno entrambe?”
“Jenny clinicamente sta bene, ma non ha alcun miglioramento per quanto riguarda la sua reattività. Potrebbe svegliarsi domani, come potrebbe farlo tra un mese, ma l’infermiera mi è sembrata ottimista. Sarah sembra star bene, è di sopra con i nonni se vuole andare a salutarla.”
“Oh, no io... sono ancora un po’ scossa. Mi hanno dato questo al mio arrivo”, il sacchetto bianco è gonfio, Elizabeth dà una rapida occhiata al suo interno per poi proseguire. “Sono gli effetti personali di mio fratello. Tutto chiuso qui dentro.” commenta amaramente, “Una persona si riduce a questo dopo la morte. Un mucchio di vestiti, un orologio rotto e foto di famiglia in un portafogli pressoché vuoto. Credo che... che dovrò pensare al funerale e ancora non so bene da che parte cominciare.”
“Se posso, credo potrebbe provare a sentire il capitano del distretto. Kevin non è morto durante un’operazione, ma ha servito per anni il paese. Una cerimonia ufficiale sarebbe il minimo.”
“Grazie, lo farò.”
“E per qualsiasi cosa non si faccia scrupoli a chiamarmi.”
Elizabeth annuisce dandogli poi le spalle dirigendosi verso le porte d’uscita. “Sa, in circostanze diverse, credo proprio che ci avrei provato con lei.” Abbassa lo sguardo puntandolo sugli stivali scamosciati e un risolino nervoso le esce dalle labbra, “Mi scusi, non ho idea del perché lo abbia detto.”
Le sorride affabile scuotendo di poco il capo, “è la tensione... in ogni caso, ne sono lusingato ma...” si porta la mano sinistra all’altezza del mento, scuotendo l’anulare per far risaltare la fede. Il sottile cerchietto argenteo luccica a contatto con la luce dei neon. “Sono sposato.”
“Già”, un’altra risatina nervosa, “i migliori lo sono sempre, non è così?” una domanda retorica per la quale non si aspetta certo una risposta. “Le farò sapere in che giorno si svolgerà il funerale. Arrivederci.”
Alza il colletto del cappotto, pentita di essersi dimenticata la sciarpa, ed esce affrontando il gelido vento invernale.





Diletta's coroner:

Esposito sembra non averla presa benissimo, e Lanie invece sa sempre come aiutare l'amica.
Scott è un tantino alterato, meno male che Rick sceglie sempre la via diplomatica e non sono arrivati alle mani :p
Buona serata!
Baci

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Capitolo 10
*** La papessa ***







La papessa




 
Le chiavi tintinnano scontrandosi tra loro aprendo la porta.
Tira un sospiro di sollievo quando il profumo di casa le riempie i polmoni facendola sorridere.
Al suo ritorno dalla chiacchierata con Lanie, aveva trovato Esposito alla sua scrivania con la cornetta del telefono premuta all’orecchio, digitare svogliatamente i numeri con l’ausilio della penna. Aveva atteso che concludesse la telefonata prima di avvicinarsi e parlargli. Si erano soffermati a guardarsi per qualche istante. Kate aveva arricciato le labbra, spostando quel broncio da destra a sinistra. I denti si erano mossi veloci, pronti ad agguantare l’interno della guancia e a morderlo probabilmente fino a farlo sanguinare. Poi, contemporaneamente, avevano mormorato un mi dispiace, e sembrava proprio che non servisse altro. Entrambi erano consapevoli di aver esagerato e sapevano anche che probabilmente più avanti avrebbero riaperto quel capitolo, ma non sarebbe accaduto in quel momento. Gli aveva annuito sorridendo e poi, un po’ più leggera, era entrata nell’ufficio del Capitano, sperando che non facesse storie e le concedesse di andare via prima. Non aveva ipotizzato che la mandasse a casa immediatamente, che nonostante il lavoro da fare le concedesse l’intero pomeriggio libero. Del resto Kate non poté che esserne contenta e, approfittando della distrazione della Gates quando il telefono aveva cominciato a squillare, era tornata alla sua postazione per infilarsi sciarpa e cappotto e andar via prima che il Capitano potesse cambiare idea.
 
La lana bianca della sciarpa, sfilandola, le solletica il collo liscio e pallido. Togliendo il cappotto sembra alleggerirsi il peso che sente sulle spalle. Si guarda intorno, la casa pare deserta, fino a che un rumore non la raggiunge da dietro il bancone ad isola.
“Alexis, sei tu?”
Si avvicina titubante, lo sguardo si sposta per un secondo al piano di sopra domandandosi se Madison stia bene. Compie ancora un paio di passi prima che una mano si posi sul banco facendola sobbalzare.
“Si, Kate, siamo qui.”
La detective tira un sospiro di sollievo raggiungendola superando l’alto sgabello. La trova seduta a terra, le gambe incrociate, mentre davanti a lei Madison è intenta a giocare con pupazzi e sonaglini.
“Cosa fate nascoste qui dietro?” si accovaccia alle spalle della bambina carezzandole la schiena, lasciandole poi un bacio sulla testa.
“Abbiamo camminato un pochino e poi ha deciso che era troppo stanca per gattonare, non sono riuscita a schiodarla da qui.”
“Non fa niente, ha fatto la brava?”
“È stata un angelo.”
La rossa fa leva sulle braccia per alzarsi, ma interviene Kate a darle una mano. Ricorda quando serviva a lei aiuto per alzarsi anche solo dal divano. Le caviglie gonfie, la pancia che le impediva anche solo di allacciarsi le scarpe, non riesce a credere che alla fine si sia convinta ad avere un altro figlio, ma del resto la gravidanza ha i suoi lati positivi, specialmente con uno come Rick accanto.
Prende Madison tra le braccia, la bacia lungo il collo e sulle mani facendola ridere, il suono più bello che possa desiderare al rientro dal distretto. La lascia andare sul tappeto, sedendosi poi con Alexis sul divano. Il silenzio, a distanza di qualche minuto, diventa imbarazzante. Kate si sforza di non far cadere lo sguardo sulla pancia della rossa, anche se ben nascosta da un’ampia maglietta, ma si sa, la lingua batte dove il dente duole, e lei non è riuscita a resistere.
“Kate, se c’è qualcosa che vuoi dirmi o-o chiedermi...”
“Scusa, non volevo essere invadente, solo che ancora non riesco ad abituarmi all’idea.”
“Non ci sono riuscita neanche io. Siamo sempre stati attenti, non so davvero come possa essere successo.”
“Non devi tormentarti, può succedere. Ma sai che sei hai bisogno di qualsiasi cosa, puoi parlarmene, d’accordo?”
“In effetti una cosa ci sarebbe... io e Pi abbiamo deciso di tenere il bambino, come puoi aver capito. Pi era... è molto felice.”
“Tu no?”
“Non è che non lo sia, solo non so se sia il momento. Per questo volevo chiederti cosa ti avesse convinta a diventare madre, ad avere Maddie.”
“Noi non abbiamo avuto Madison per sbaglio. La volevamo, soprattutto Rick, lui... voleva davvero tanto diventare padre ancora una volta.” Sembra difendersi Kate, nonostante quello di Alexis non voleva essere assolutamente essere un attacco.
“So benissimo che l’avevate pianificato, ma se non ricordo male all’inizio tu non ne volevi sapere. Cosa ti ha fatto cambiare idea?”
“Dovresti sapere che tuo padre sa essere molto persuasivo.” Una risata alleggerisce finalmente l’atmosfera. “Parlando seriamente... non credevo di essere pronta a diventare madre. Rick lo aveva capito e aveva accettato la cosa, e sapeva anche che prima o poi il momento giusto sarebbe arrivato. Ma per quanto cercasse di nascondere la voglia di avere un bambino, non poteva impedire ai suoi occhi di parlare. Lo vedevo quando parlava con te, anche solo al telefono. Quando andando fuori a cena avevamo una famiglia accanto, quando passeggiando per il parco, o seduti su di una panchina, si incantava a guardare i bambini giocare, o sulla spiaggia, d’estate, quando costruiva castelli di sabbia e scherzava in acqua con i figli dei Fallon. Ha sempre cercato di rendermi felice e lo ha fatto, ci è riuscito. Io invece lo stavo privando di qualcosa. Stavo andando avanti con la nostra vita senza tener conto della sua felicità.”
“Ma avere un bambino se non si è pronti, solo per accontentare l’altro, n-non è giusto.”
“Lo so, e quando gliene ho parlato, tuo padre... lui si è scusato. Ha detto che si sentiva mortificato dal desiderare ancora più felicità quando avevamo già così tanto, ed è stato lì che ho capito che la paura che avevo, quella che mi tormentava non aveva senso. Da qualche parte, dentro di me, per uno stranissimo motivo, pensavo che sarei stata da sola in questo, non riuscivo a convincermi che lui ci sarebbe stato sempre, avevo paura che mi sarei ritrovata sola a crescere nostro figlio. Ed era così stupido ed insensato, ed è stato allora che mi sono convinta a diventare madre e che ho cominciato a provare quel desiderio che tuo padre sentiva da tempo. E quando Madison è nata e l’ho tenuta fra le braccia, anche il più piccolo residuo di dubbio e paura è svanito. Tu sei così giovane... ma il desiderio di maternità arriva in momenti spesso impensabili e ognuno ha i suoi tempi. Sono certa che quando nascerà ogni cosa andrà a posto.”
“E se non fosse così?”
“Una cosa alla volta, mh? Cerca di goderti questo momento.” Un lieve grugnito esce dalle labbra di Alexis, come di disappunto. “Lo so, adesso può sembrarti uno strazio. Le nausee, la stanchezza... ma questo è anche perché sei agitata e perché con tuo padre le cose non sono andate benissimo.”
“Lui si è risentito di questa cosa, avrei dovuto parlargli subito, chiedere subito il suo appoggio. Ho fatto male ad aspettare.”
“Ascolta, lui ti vuole bene e non è risentito, forse un po’ sorpreso. Deve capire che con il passare degli anni può capitare che lui non sia il primo a cui chiederai consiglio o da cui andrai a parlare, e se mi sentisse ora so già che mi direbbe di aspettare quando accadrà qualcosa a Maddie e sarò io a farmi mille paranoie, e avrebbe ragione. Ma in questa situazione io sono meno coinvolta, vedo le cose con maggiore obiettività. Lui è tuo padre e ti ama in modo incondizionato, vuole solo tenerti al sicuro.”
“Vuole vedermi a cena, domani...” sospira dopo qualche secondo.
“Visto? Tutto andrà a posto e in caso contrario troverò il modo per fargli tornare un po’ di sale in zucca. Ora vi lascio di nuovo sole”, mormora dirigendosi verso la camera da letto, “devo sistemare un po’ di cose.”
“Kate...” la richiama Alexis alzandosi e andandole in contro. “Grazie”, e in quell’abbraccio c’è molto più che semplice gratitudine.
“Quando devi andare chiamami, ti do un passaggio.”
“Non ce n’è bisogno, viene Pi a prendermi, dovrebbe passare tra poco.”
 
In pochi minuti si ritrova, davanti all’armadio, sommersa da capi di vestiario più disparati. Durante la settimana passata ha continuato a rimandare il bucato. Prima un caso, poi la breve trasferta a Las Vegas e con Madison c’è poco spazio per pensare ad altro.
Piega i vestiti alla meglio mettendoli nel cesto, le dita scorrono sul tessuto levigandone le pieghe e rievocando eventi ed emozioni ad essi legati. Quella camicia che gli ruba ogni volta che si alza dal letto dopo aver fatto l’amore, la maglietta rossa che ama vedergli indosso e che meglio di qualunque altra mette in risalto il suo fisico. Quel reggiseno in pizzo che qualche sera fa era stato in grado di fargli girare la testa, la camicia del completo gessato ancora sporca del vino rosso che maldestramente il cameriere aveva rovesciato durante una cena dedicata solo a loro. Il maglioncino che aveva indosso il giorno in cui aveva scoperto di aspettare Madison. Mille ricordi sono legati a quegli abiti, solo adesso se ne è resa conto.
Si solleva facendo leva sulle ginocchia, sotto al braccio il cesto pieno. Ora non le resta altro che avviare il lavaggio e dedicarsi a dare una sistemata al resto della casa. Normalmente riesce ad evitarlo, il lavoro e la maternità la tengono molto impegnata e Rick è più che felice di poterle dare una mano occupandosene al suo posto, inoltre deve ammettere che guardarlo in versione casalinga, mentre passa l’aspirapolvere a ritmo di musica in boxer e t-shirt, è alquanto sexy. Per ora è meglio non pensarci non avendolo lì e non potendo soddisfare quell’improvvisa voglia di baciarlo che l’ha assalita. È in quel momento che, chiuso lo sportello e preso lo straccio per dare il via ai giochi, il campanello suona, lasciandole la speranza che Rick sia arrivato prima del previsto. Con passo sostenuto si incammina verso il salone trovando davanti a sé non certo chi, con gioia nel cuore, si aspettava di vedere.
“Martha...”
“Buonasera mie care, guardate chi ho trovato qui sotto.” Sotto la sua ala protettiva un Pi un  po’ intimorito con un sorriso imbarazzato ad incorniciargli il volto. “Il giovanotto faceva il timido. Temo abbia paura di Richard!” urla ormai lontana, in punta di piedi prendendo un bicchiere nella dispensa.
“No! No, no, no, no, io... sono appena arrivato, davvero. Stavo giusto per suonare, ma...”
“Non preoccuparti Pi, papà non è in casa e nonna scherzava, non è così?”
In risposta la rossa leva il bicchiere in aria con espressione eloquente come a voler avvalorare le parole della nipote, bevendo poi rapidamente l’acqua.
“Sei pronta?” Tiene le mani nelle tasche dei pantaloni, dondolando sulla punta dei piedi restando lì dove Martha lo ha, in un certo senso, lasciato.
“Certo, prendo il cappotto.”
“Non volete restare a cena? Non c’è molto, non abbiamo avuto tempo di fare la spesa, ma possiamo ordinare la pizza.”
“Grazie Kate, ma...” guarda per un secondo negli occhi Pi, rivolgendo subito dopo lo sguardo nuovamente sulla detective. “Meglio non rischiare la sorte. Dì a papà che ci vediamo domani sera.”
Martha torna da lei abbracciandola parlandole in un sussurro, “Riguardati tesoro.”
Al chiudersi della porta, lo scattare della serratura richiama l’attenzione di Madison, che con le sue lallazioni, intervallate da qualche gorgheggio, cerca di spiegarsi a sua madre che, spalancando gli occhi, le sorride amorevole.
“E rimasero in due...” cantilena Martha riempiendo nuovamente il bicchiere, ma questa volta con due dita di martini. Un borbottio arriva nuovamente dalla bambina, che corrucciata guarda la nonna. “Oh, perdonami tesoro, volevo dire in tre.”
Kate ride di sottecchi, andando poi a sedersi al bancone. “Martha, visto che siamo sole...”
“Vuoi parlarmi dell’affidamento?” l’anticipa l’attrice versando anche a lei qualcosa.
“Rick te ne ha parlato?” nervosa, gioca con il vetro del bicchiere lasciando tintinnare il cubetto di ghiaccio solitario che lentamente comincia a sciogliersi.
“Non ce n’è stato bisogno. Insomma, arriva l’avvocato, Richard ha urgenza di parlarti, è agitato... Anche un’anziana signora come me si accorge di certe cose.”
“Cosa ne pensi?”
“Darling, non è importante cosa ne pensi io, ma cosa ne pensiate voi.”
“Non dirlo a Rick, lui è così entusiasta e ha già pensato a tutto, ma temo veramente che potremmo non essere la scelta migliore per lei e, nonostante lui sembri convinto e sia disposto a sacrificare alcune cose, adesso dovrebbe concentrarsi su Alexis. Ho paura che potremmo trascurarla e Sarah Grace non ha bisogno di questo, ha bisogno di attenzioni e affetto.”
“E lo avrà. Credete che Madison non stia ricevendo le dovute attenzioni, credi che è per mancanza di amore che Alexis e Pi adesso si ritrovino in questa particolare situazione? Riuscirete a fare tutto, quando avrete bisogno di aiuto potete contare su di me, occuparsi di bambini fa sentire più giovani.” La rossa le prende le mani carezzandole poi il viso. “Io ho cresciuto Richard da sola e lui ha fatto lo stesso con Alexis. Io sono fiera di mio figlio e a dispetto di quello che sta accadendo ora, anche lui lo è della sua. Non so quanto questo sia merito nostro, ma ce l’abbiamo fatta. Sarah ha già provato tanto dolore, ma c’è ancora quella possibilità di essere felice. Adesso ha voi e potrebbe riavere sua madre. Un passo alla volta e capirete come organizzarvi. Qualche rinuncia, con la creazione di una famiglia, è indispensabile, ma vi accorgerete che alla fine quei sacrifici verranno ripagati.”
“Come faremmo senza di te Martha?”
“Oh cara, se tutto andrà bene, non dovrete mai scoprirlo.”
Kate scuote la testa. Quel suo ottimismo, il suo amore per la vita, la capacità di far sempre spuntare un sorriso sulle labbra a chiunque la circondi, davanti ai suoi occhi luminosi c’è la persona che ha plasmato l’uomo che ama. Sono tutte caratteristiche che Rick ha ereditato, sviluppato e fatto sue in un modo tutto particolare. Avvicina il bicchiere alle labbra, quando l’odore aspro e pungente glielo fa posare nuovamente sul bancone con una smorfia. Lo allontana spingendolo appena con le dita, chiedendosi cosa vi avesse messo dentro. Si volta guardandola avvicinarsi alla porta ruotando il pomello così da aprirla.
Il pugno di Castle cade nel vuoto facendolo sbilanciare in avanti.
“Ma... madre, come sapevi che ero qui?”
“Vedi Katherine”, si rivolge alla nuora ignorando totalmente le parole del figlio, “Con l’età si imparano anche altre cose.”
“Di cosa stavate parlando?”
“Mh, nulla”, sussurra Kate scambiando un’occhiata d’intesa con la rossa. “Ciao Sarah, sei stata dalla mamma?” La piccola annuisce, ancora con il viso nascosto nell’incavo creatosi tra la spalla e il collo di Rick. “Lei dorme”, sussurra, “nonno ha urlato con zio Rick, ma lei non si è svegliata.”
Kate alza lo sguardo accigliata verso di lui, inclinando il capo verso destra. “Cosa vuol dire che avete urlato?”
“Mh, nulla”, replica con la stessa risposta datagli da lei poco prima.
“Nulla, certo. Sarah, vieni con me, andiamo a farci un bagno e più tardi mi aiuterai a fare il solletico allo zio Rick fino a che non ci risponderà.” Prende per mano Sarah, afferrando poi dalla spalla del marito lo zainetto rosa. “Deduco che qui ci siano i suoi vestiti.”
“Sempre detto che sei un’ottima detective”, la bacia a fior di labbra, dicendole in un sussurro che a breve avrebbero dovuto chiamare Davis. Lasciandola poi andare e storcendo il naso, alzando gli occhi al cielo, alla risata divertita della madre.
“Questa risata?”
“Niente, niente... siete semplicemente adorabili”, sventola in aria le mani, tornando a rifornirsi.
“Dovresti andarci piano con quelli.” Con un’alzata di sopracciglia indica il bicchiere e la bottiglia che comincia lentamente a svuotarsi. “Ehi bellissima, ciao”, prende in braccio Maddie, che con le manine gli tasta accuratamente ogni parte del viso. “Si, mi sei mancata anche tu”, le bacia la fronte cercando poi lo sguardo della madre. “Hai sentito quello che ho detto?”
“Si caro, e sono felice che ti preoccupi, ma è solo il secondo.”
“Come sempre...”
“Tesoro, non sono un’alcolista.”
“Si, lo so, scusami. Sono solo un po’ nervoso.” Continua a giocare con la piccola, la sente sgambettare quasi furiosa contro il suo petto, mentre imperterrito le solletica il collo.
“Per l’affidamento immagino.”
“Te ne ha parlato Kate?”
“Si, in un certo senso. Cosa ti preoccupa?”
“Non dir nulla a Kate, ma non sono sicurissimo che potremmo farcela.”
Martha lo osserva a lungo, in silenzio, volgendo poi lo sguardo verso il bagno dove il suono dell’acqua che scorre riempiendo la vasca le giunge alle orecchie. È certa che anche tra di loro abbiano parlato del da farsi, eppure ancora si nascondono quelle piccole cose per la paura di poter deludere l’altro. Non può fare a meno di pensare che siano fatti l’uno per l’altro, come a completarsi, e per lei, grande amante di simboli e della cultura asiatica, specialmente per quanto concerne meditazione, rilassamento e amore, le è impossibile non pensare allo yin e lo yang. Sicuramente riuscirebbe ad elaborare una similitudine più originale, ma è altrettanto certa che se dovesse pronunciarla a voce alta suo figlio non la prenderebbe sul serio.
“Non fraintendermi”, lo sente proseguire in quel tentativo di districare quel gomitolo di sensazioni e controversie che prova. “Sono felice all’idea di poterci occupare di Sarah e sapere che Ryan e Jenny abbiano scelto proprio noi per farlo è fantastico, ma oggi in ospedale c’erano i genitori di Jenny e non è andata benissimo. Alla fine la signora O’Malley è riuscita a calmare suo marito e sembrano aver accettato la cosa. Gli ho lasciato il mio numero, gli ho detto di chiamarmi e di venire a trovare Sarah quando vogliono, però non posso fare a meno di chiedermi se non sia giusto lasciarla a loro. Io non ho intenzione di passare avanti a nessuno, non voglio iniziare così un rapporto.”
“Come ho già detto a...”
“Detto a chi?” la interrompe confuso con gran celerità.
“A... a me stessa. A chi altrimenti?” si porta i capelli appena dietro l’orecchio ringraziando la sua prontezza di spirito, mandando giù un sorso del liquido chiaro. “Sai, meditavo e mi dicevo che è presto per pensare a tutti gli aspetti negativi, insomma, so che adesso sembrano importanti, ma pensate a Sarah, pensate al perché Kevin e Jenny abbiano scelto voi. Cominciate con un passo alla volta, Jenny potrebbe svegliarsi da un giorno all’altro e tutto queste paranoie saranno state inutili, pensate a dare il meglio a quella bambina. Kiddo, il signor O’Malley capirà e vi metterete d’accordo.”
“Grazie madre”, le si avvicina tenendo ancora la piccola tra le braccia. Le labbra gli si posano con naturalezza sulla guancia, come faceva quando era bambino, con la differenza che ora è lui a doversi chinare su lei.
“La mia saggezza sarà sempre a vostra disposizione.” Con un inchino appena accennato, lascia il bicchiere ormai vuoto sul tavolo avvicinandosi alle scale. Ora che anche suo figlio è a casa, non c’è motivo di trattenersi. Raccoglierà le sue cose e saluterà Kate, sperando di convincere suo figlio a non accompagnarla e lasciarle prendere un taxi.
“Che cosa hai detto?”
“Che la mia saggezza è a vostra disposizione.” Ripete proseguendo di un altro scalino, ma il continuo e persistente borbottare di Rick la costringe a fermarsi a pochi passi dalla fine della rampa.
“Saggezza, saggezza... saggezza...” come improvvisamente colpito da una folgorazione, picchietta un paio di volte la mano sul marmo, stampando poi un bacio sulla fronte della figlia che lo guarda curiosa. “Mamma, sei un genio.”
“Oh, finalmente qualcuno che lo riconosce”, mormora più a se stessa, come vanto personale, richiamando poi più volte a gran voce Richard cercando di capire cosa lo abbia spinto ad un simile complimento.
“Cosa succede?” Dal corridoio, illuminato esclusivamente dalla luce fioca dell’aplique a muro, compare Kate, la fronte corrugata, il sopracciglio destro inarcato. Tra le braccia Sarah con ancora indosso l’accappatoio verde e in mano l’inseparabile canguro dal salto magico, ormai appesantito dalla quantità d’acqua che ha inzuppato il tessuto dopo il tuffo che la bambina gli ha fatto fare. L’acqua è traboccata dalla vasca lavando il pavimento e in parte la stessa Kate.
Non ricevendo riposta dalla rossa, si limita a seguire il marito nello studio che, concitato, sposta fogli su fogli accumulati sulla scrivania.
“Castle, cosa stai cercando?”
“Un... ehm, un foglietto. Ci ho preso degli appunti un paio di giorni fa, il telefonino era scarico.”
Con la sola mano libera, alza un paio di buste pesanti, un manoscritto che Gina gli aveva mandato pregandolo di leggerlo così da darle un parere personale su questo nuovo scrittore per il quale lei, pur trovandolo particolarmente interessante, non riusciva ad esprimere un giudizio con le sue sole forze.
Rick ancora non sa se quella nuova e promettente stella della Black Pawn sia o meno interessante, sa solo che ciò che cerca si trova proprio sotto il suo romanzo. “Eccolo!”
Prontamente Martha, dopo aver raggiunto la nuora nello studio, prende la piccola dalle braccia del figlio, cullandola e sentendola sbadigliare sonoramente. Rick sposta lo sguardo solo occasionalmente sul pezzo di carta rettangolare, digitando rapido sulla tastiera.
“Castle, si può sapere cosa c’è di tanto importante?”
Lentamente si ruota nella sua direzione, incontrando gli occhietti stanchi di Sarah Grace. “Queste”, esclama teatralmente passandole il foglio che Kate, spostando l’intero peso della bambina sul braccio destro, accoglie nella mano sinistra. “Sono le carte estratte da Gordon quella sera.”
“Te le sei appuntate?”
“Beh, era una cosa troppo bizzarra per non farlo, ma poi con tutto quello che è successo e sta succedendo mi è passato di mente. In ogni caso, non vi sembrano cose familiari?” Martha si avvicina alla detective, dando un’occhiata per cercare di capire ciò di cui stanno parlando, mentre Kate non può che guardare scetticamente negli occhi il marito.
“Ascoltami... gli Amanti. Potremmo dire che sia noi che Lanie ed Espo abbiamo passato una piacevole serata quel giorno almeno... almeno prima della chiamata. E beh, di sicuro momenti di riflessione ce ne sono stati.” La osserva, mentre arriccia le labbra storcendo così la bocca verso destra, chiaro invito a proseguire. “La prossima credo non ci sia bisogno che io provi a spiegartela.” La carta della Morte, fin troppo ovvio a chi evidentemente si riferiva, e pronunciarla a voce alta, specialmente davanti a Sarah Grace, sarebbe stato superfluo e di poco tatto. “La terza carta è stata la Torre, una vita diversa da come la si era progettata inizialmente”, legge dal monitor del pc, sul blog il cui indirizzo era apparso non appena digitata la parola tarocchi. “E questo mi fa ricordare che dobbiamo chiamare Davis”, ammette quasi in un sussurro. “ La Papessa... ed è qui, madre, che entri in gioco tu. Una forza spirituale e riflessiva. Riesce ad aiutare gli altri con la sua saggezza.”
“Rick, mi stai davvero dicendo che credi a queste cose?”
“Non ti sto dicendo che ci credo, ma che le prove dicono questo. Kate, Gordon ha detto chiaramente che questo sarebbe stato il tuo futuro. Puoi anche pensare che sia il solito credulone, ma se per una volta avessi ragione io?” Lei sospira, facendo sorvolare ancora una volta lo sguardo sull’inchiostro blu con cui Rick aveva impresso i nomi di quelle carte sul piccolo foglio. “D’accordo, ammettiamo che tu abbia ragione, qui c’è un’altra carta, il Mondo... cosa significa?”
“A quanto dice qui, parla di gioia, prosperità e bellezza.”
Kate poggia il foglio sulla scrivania, proprio accanto alla mano di Rick che prova, senza successo, a prendere la sua. “Vedi? Sciocchezze.”
“E se semplicemente non fosse ancora arrivato il suo turno? Il materiale che avevamo trovato su Gordon diceva che era il migliore nel suo mestiere. Gli articoli di giornale lo elogiavano, la clientela, prima che diventasse una sorta di rude mercenario, era completamente soddisfatta.”
“I giornali si pagano, la clientela anche.”
Sorride, un poco amareggiato dalla solita cocciutaggine e caparbietà di Kate e da quel cinismo che l’accompagna in certe situazioni. Allunga il braccio verso di lei e le prende la mano. “Non voglio obbligarti a credere che questo sia possibile, ma farò delle ricerche, voglio solo vederci chiaro.”
“Come vuoi”, mormora allontanandosi di poco, sentendo il tessuto bagnato dell’accappatoio inumidirle il palmo. “Vado ad asciugare Sarah o si prenderà un malanno.” Dalla voce pare come agitata. Altre volte Rick le aveva sottoposto le sue teorie, ma mai l’aveva vista reagire così cinicamente ed impuntarsi fino a questo punto, arrivando quasi ad essere indifferente alle sue parole. In effetti le circostanze ora la toccano molto più che in tutti i casi passati, ma forse questa volta il fatto è che anche Kate crede che lui possa aver ragione.
Martha è la seconda a lasciare la stanza. Mette la piccola nel box, riuscendo poi a salire al piano superiore per prendere le sue cose come aveva progettato poco prima.
Solo, ruota sulla sedia potendo così dare le spalle alla porta. Tentando di prendere il computer e portarselo in grembo, per l’inizio delle sue accurate ricerche, il telefonino comincia a vibrare sulle carte muovendosi convulsamente. Il nome Davis lampeggia sullo schermo. Un altro sospiro, solo l’ennesimo della giornata.
“Castle...”
Una decisione va presa e sa bene che ora né il suo umore, né quello di Kate è dei migliori per farlo.




Diletta's coroner:

Alexis fa quasi prendere un infarto a Kate, mentre Pi va nel panico dopo essere stato messo in imbarazzo. Poverino, non sa più come comportarsi, cosa dire o cosa fare :p
Martha è sempre pronta ad ascoltare ed aiutare e, nonostante battute varie, il suo animo un po' folle e forse qualche bicchierino di troppo, è sempre la scelta numero uno quando si tratta di chiedere consigli.
Rick ha avuto un'illuminazione che sembra aver scosso Kate forse più del dovuto e il suo scetticismo e la sua razionalità tornano a fare da padroni.
E Sarah Grace... beh, lei sembra divertirsi a fare il bagnetto *-*

Buona domenica a tutti!
Baci

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Capitolo 11
*** Il superstite ***







Il superstite



 
Nel primo pomeriggio del giorno seguente la folgorazione avuta da Castle circa il significato di quelle carte, che portavano con loro una sorta di magia antica, ha luogo quel funerale per cui sembrava avessero atteso un’eternità, e invece non era che passata una manciata di giorni. Elizabeth si era preoccupata di avvisarlo immediatamente e il caso aveva voluto che la chiamata arrivasse contemporaneamente a quella ricevuta da Kate da parte del capitano.
Come aveva ipotizzato Rick parlando con la sorella di Ryan in ospedale, la Gates non aveva rifiutato ad uno dei suoi migliori uomini una cerimonia solenne, come spetterebbe ad ogni agente caduto in servizio.
Si erano svegliati presto, avevano bisogno di tempo per loro stessi, per comprendere e realizzare che quello sarebbe stato un addio definitivo verso un uomo ed un padre straordinario, un amico che era stato presente in molte situazioni pericolose, che non si era mai tirato indietro nei momenti di bisogno. Sarebbe mancato a tutti, terribilmente.
Dopo pranzo, aggiustandosi la divisa davanti allo specchio, Kate non può fare a meno di pensare a Jenny, ancora all’oscuro di tutto, imprigionata in quel sonno profondo.
“Tutto bene?” Rick le posa un bacio sulla guancia, stringendola in vita cercando di tenerla il più possibile vicino a sé. Gli carezza le braccia voltandosi poi verso di lui e sentendo le sue mani scivolarle lungo i fianchi. “Pensavo a quanto sarà terribile quando Jenny si sveglierà. A come potremmo dirle di Kevin, a come reagirà. Se fosse successo a noi, se mi fossi svegliata e mi avessero detto che tu non ce l’avevi fatta...” la voce comincia ad incrinarsi, ma è troppo presto per iniziare a versare lacrime. “Probabilmente sarei impazzita.”
Non le dice nulla, perché non c’è niente che lui possa dire e che possa alleviare il dolore che prova, che possa cancellare dalla sua mente l’immagine che li vede per un istante entrare nei loro panni. La bacia ancora, questa volta a fior di labbra, aiutandola poi, in silenzio, ad indossare la giacca della divisa. “Raggiungi Javi al distretto, io verrò direttamente al cimitero con le bambine.”
Le porge il cappello sentendolo afferrare dal tocco delle sue mani tremanti. La guarda uscire dalla stanza, socchiudendo la porta dietro di lei ed una volta solo trae un profondo respiro prima di andare a preparare Sarah.
Tenerla con loro è stata la decisione giusta, continuano a ripeterselo da quando hanno firmato le carte portategli da Davis, e non perché cerchino di convincersi che sia la verità, ma perché in un certo qual modo è come se avessero bisogno di rassicurazione, benché l’avessero ricevuta in più di un’occasione non solo da Martha, ma, alla fine, anche dai genitori della stessa Jenny a discapito della riluttanza iniziale di Scott.
 
Il sole è alto, i raggi picchiano violentemente sui presenti ma questo non basta ad annullare il vento freddo di un inverno ancora nel fiore dei suoi giorni. Il prato, in estate così verde e brillante, è coperto da un leggerissimo strato di brina, tutto appare ghiacciato e accarezzato dal respiro gelido della morte.
Rick, dalla prima fila, osserva il viso di Kate. Fiero della sua risolutezza, di quel cedimento che si intravede solo dai suoi occhi. La bandiera viene piegata, accuratamente e con precisione. È proprio Kate a porgerla a Sarah Grace. I suoi occhioni chiari la fissano mentre le poggia il triangolo in stoffa sulle gambe che penzolano nel vuoto, troppo corte ancora per arrivare a toccare terra. Accanto alla bimba la nonna le sorride, carezzando la schiena della nipotina, asciugandosi poi la lacrima che le sfugge lungo il viso segnato dal tempo.
Il discorso spetta a Javier. Serio, breve, ricco di parole che al meglio possano descrivere il suo compagno, qualità che spesso, giocando o sfottendolo, non gli ha riconosciuto ed ora può solo rimpiangere di non averlo fatto.
Al termine della cerimonia le macchine nere cominciano a sfilare lungo la strada davanti ai cancelli del Green Wood come carri allegorici durante una festività. Anche la loro macchina si aggiunge a quel gregge, non prima che Rick abbia avuto il tempo di invitare Scott e la consorte da loro per un tè. Ancora un volta, invece, Elizabeth si è sottratta al gentile invito. Ha sempre odiato i funerali, sin da quando lei e Kevin avevano perso il padre. Tutti erano stati gentili, sempre da loro per aiutarli a  superare il momento, mentre la sola cosa che desiderava lei era un po’ di tranquillità, il poter stare sola nonostante fosse solo una bambina e tutti continuassero imperterriti a ripetere che doveva essere difficile per lei e per suo fratello e che probabilmente avrebbero preferito avere compagnia.
Ancora adesso sente quella necessità di isolarsi, di superare tutto con le sue forze. Vuole avere il tempo di pensare a suo fratello, di sentire quel dolore acuto nel petto ridursi tanto da non sembrare più un pugnale incastrato nel cuore, ma la punta di un ago, che rimarrà sotto pelle a lungo, ma prima o poi anche quella sensazione svanirà.
 
In casa c’è un calma surreale, solo il fischio del bollitore contamina il silenzio. Martha versa l’acqua calda nelle tazze, il vapore si condensa velocemente appannando appena la superficie di ceramica. Le bustine galleggiano, tingendo l’acqua di vari colori e riempiendo l’aria dei più vari profumi: limoni, mele, lamponi e more, un miscuglio di frutti che solletica l’olfatto dei presenti.
Kate arriva poco dopo, sedendosi al tavolo in compagnia degli ospiti dopo aver cambiato Madison e averla messa a dormire. Sarah sembra poco interessata alla presenza dei nonni, presa a giocare sul divano con i suoi peluche, lasciando così agli adulti il tempo di fare quattro chiacchiere.
“Sembra stare bene”, commenta Mary a tono basso, riferita alla piccola.
“Non penso si renda ancora pienamente conto di quello che sta accadendo cara.” Scott le stringe la mano, condividendo con lei la preoccupazione per la figlia.
“Credo che invece capisca più di quanto lasci credere. Ma i bambini hanno un modo tutto loro per affrontare certe cose.” Martha e Kate intuiscono che anche nelle parole di Richard ci sia più di quanto non voglia lasciar intuire ai suoi ospiti. Quel padre mai stato presente, la madre di sua figlia sparita da un giorno all’altro lasciando una bambina che aveva qualche anno in più di Sarah. Si, lui sa di cosa sta parlando, lui sa che Sarah ha capito perfettamente quanto accaduto e quanto sta ancora accadendo.
Scott sospira, bevendo poi un sorso del liquido ambrato. Sembra strano vedere un uomo della sua stazza sorseggiare amabilmente del tè. “Avete firmato le carte per l’affidamento quindi...”
“Scott”, tenta subito di fermarlo la moglie con quell’ammonimento bonario.
“Voglio solo sapere Mary e, anzi, scusarmi ancora per come ho reagito in ospedale.”
“Non credo ce ne sia bisogno, si è già scusato Scott e la sua reazione era del tutto comprensibile”, è sincero il sorriso che contorna le labbra di Kate, i capelli le ricadono sulle spalle, ora liberi dallo chignon, coprendo le decorazioni sulla divisa che ancora indossa. “Abbiamo firmato le carte questa mattina, domani o al più tardi tra un paio di giorni dovrebbe venire l’assistente sociale per un controllo prima dell’udienza che sancirà l’affidamento in modo legale.”
“E questo varrà anche per il bambino una volta che sarà nato, nel caso in cui Jenny non dovesse svegliarsi... e... agissero con un cesareo?”
“Il bambino? Di cosa, di cosa sta parlando?” Kate, a seguito della domanda, si perde con lo sguardo sul viso di Rick, sconcertato quanto il suo. Martha si alza, andando a mettere su altra acqua per il tè. Sa bene quanto sia inutile, ma è un modo come un altro per allontanarsi tanto da fare in modo che la sua solita curiosità non prenda il sopravvento con domande che si susseguono in rapida sequenza, ma non troppo così da sentire quanto verrà detto.
“Io e Scott credevamo lo sapeste”, la ciocca grigia le ricade davanti al viso; la scosta con un movimento naturale, un gesto ormai abitudinario. “Dovrebbe essere di ormai tre mesi. I medici ci hanno detto che il bambino era sopravvissuto all’impatto, una sorta di miracolo. L’intervento su Jenny avrebbe potuto mettere a serio rischio la sua vita, invece... Non so spiegare come sia possibile, ma ce l’ha fatta. Se Jenny non dovesse svegliarsi, giunta al termine della gravidanza interverranno con un cesareo.”
“Noi non sappiamo cosa succederà una volta nato”, comincia Rick ancora shoccato e sorpreso. “Le loro volontà si riferivano esclusivamente a Sarah, probabilmente dopo la nascita lo avrebbero modificato ulteriormente, dovremo informarci, ma non è il momento di essere negativi. Sono sicuro che si sveglierà e tornerà ad occuparsi di Sarah Grace e del nuovo arrivato, non ho alcun dubbio.” Sorride, cercando di essere il più convincente possibile. Non gli capita spesso, ma questa è una di quelle rare occasioni in cui dubita delle sue stesse parole. La certezza che Jenny si sveglierà si fa in lui più debole ogni giorno che passa.
 
La sera cala velocemente, forse prima del previsto con quel sole pallido già scomparso oltre le nubi da qualche ora. È solo in casa, se non si considera Madison e il suo respiro che riesce a sentire con il baby controller. Kate aveva pensato, per lasciare campo libero a lui ed Alexis, di andare a mangiare fuori, portando Sarah con sé e poi magari, usando le giuste argomentazioni e il distintivo, di portarla a trovare la mamma sebbene l’orario di visita fosse terminato.
Seduto sulla poltrona aspetta l’arrivo di Alexis, come un padre apprensivo in attesa che la porta di casa si apra e, dal buio del pianerottolo, compaia la figlia in ritardo di un paio d’ore rispetto al coprifuoco. L’aveva vista al funerale giusto un paio di minuti. Il tempo di fugaci saluti e lo scambio di due parole con lui e Kate. Pi era rimasto in disparte tutto il tempo, ancora intimorito dal pensiero di ciò che potrebbe fargli Rick. Pensieri sbagliati e fuorvianti. Per quanto alterato possa essere, Rick non farebbe mai del male a quel ragazzo che, nonostante la paura che ancora gli percuoteva con leggere ondate di brividi il corpo, non aveva mai distolto lo sguardo o abbassato il capo, sorridendo timidamente e alzando di poco il braccio in segno di saluto. Rick era rimasto piuttosto compiaciuto da quel suo atteggiamento, per quanto intimorito cercava in tutti i modi di nasconderlo sostenendo il suo sguardo quasi perforante.
La pasta sta cuocendo lentamente nell’acqua bollente di cui si sente il lieve e persistente bollire. Il gas pare contorcersi ogni qual volta una goccia d’acqua fugge dalla pentola precipitando verso i fornelli. Il sugo è pronto, tenuto in caldo nella padella, in attesa che la pasta una volta cotta vi ci sguazzi dentro.
Alla prima scampanellata si alza facendo pressione sui braccioli. Per un istante, posando la mano sulla maniglia di ingresso, si è fermato, la mano a mezz’aria il cui palmo coglie la leggera energia statica creatasi con il pomello. Non è più convinto sia una buona idea. La certezza di essere pronto ad affrontare quel discorso l’ha abbandonato lasciando in lui il timore di poter dire qualcosa di cui si sarebbe certamente pentito e che non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. Scaccia quel pensiero con una scrollata del capo, aprendo la porta poco prima che Alexis suoni una seconda volta.
“Ciao”, pronuncia con un  fil di voce. Lei gli sorride rispondendo timidamente al saluto. Passeggia per il salone, lascia la borsa sulla poltrona e si avvicina al padre per aiutarlo ad impiattare. Tutto è naturale, come se non fosse mancata neanche un giorno da quella casa, eppure sono settimane che è via e la rotondità che cerca disperatamente di nascondere sotto un ampio maglione aiuta suo padre a tenere il contro di quanti mesi siano in realtà passati.
“Kate non c’è?” domanda portando in tavola i piatti caldi.
“No, voleva portare Sarah in ospedale, ha pensato fosse la sera adatta.” Le siede di fronte, impugna la forchetta ma non compie alcun movimento, resta a fissarla mentre arrotola gli spaghetti portandoseli alla bocca, perso nei suoi pensieri e nelle sue elucubrazioni mentali.
Arrossisce accorgendosi di quello sguardo e Rick, ancora una volta, esce da quella trance momentanea cominciando a mangiare. La prima portata termina in fretta, tra i soli suoni delle posate che si scontrano con i piatti bianchi, dell’incessante muoversi delle loro bocche e dello scorrere dell’acqua contro il vetro del bicchiere mentre vi viene versata.
L’assenza di una qualsiasi conversazione comincia a divenire frustrante per entrambi. Alexis a disagio, in tensione. Le spalle rigide, la posizione compunta su quella sedia dalla quale non accinge a muoversi. Rick è convinto che il silenzio riservatogli dalla figlia possa essere una sorta di punizione ed inizia a temere che, se non sarà lui a dire qualcosa, quella serata non porterà a nulla ed è deciso più che mai a sciogliere ogni dubbio e quelle amarezze che si sono venute a creare.
“Senti Al, credo ormai sia inutile girarci intorno”, sospira rilassata, contenta che sia stato lui ad intraprendere il discorso. “quello che sta succedendo a te e Pi...”
“Non sta succedendo nulla”, lo interrompe improvvisamente. Tono basso, nessuna irruenza o acidità nella voce. “Aspetto un bambino papà, perché non riesci a dirlo?” è stanca di sentirlo parlare di particolare situazione, o usare vocaboli come quello o questo.
“Scusami, non volevo. Devo solo abituarmi, mi ci vorrà del tempo.”
“Spero ti basteranno i mesi che mancano, perché quando sarà nato avrò bisogno di te, lo sai vero?” Le servirà averlo vicino, spera che lui sarà disposto ad aiutarla e consigliarla. “Mi dispiace che sia accaduto, mi dispiace che tu non sia pronto, ma...” lascia cadere la forchetta, con cui stava timidamente giochicchiando, nel piatto. Lo scontro del metallo con la ceramica si disperde in un suono acuto e stridente. “Anzi, sai una cosa? Sono stanca di dovermi scusare continuamente. Sono sempre stata attenta ed è capitato comunque quindi non devo chiedere scusa.” Le parole escono veloci, lo sforzo le fa arrossare le guance e seccare la gola. Beve un po’ d’acqua che sembra placare quella rabbia che in un secondo l’aveva assalita e non sa se siano già gli ormoni oppure se quello che aveva dentro, tenuto nascosto per giorni, avesse deciso di venir fuori in una volta sola. “Tu eri poco più giovane di me, dovresti riuscire a capirmi”, bisbiglia fissandolo con gli occhi di ghiaccio velati di lacrime.
“Tesoro capisco il tuo punto di vista e hai ragione, non devi scusarti. Ma esattamente come tu sostieni di non doverti scusare, io credo che non dovremmo continuare a fare paragoni tra me e te. Erano tempi diversi, io ero diverso da come sei e anche tua madre lo era, ma soprattutto non voglio che in questo caso tu ti riveda in me perché non desidero che tu o Pi passiate quello che ho passato io. Non voglio che fraintenda e ora credo tu sia abbastanza grande per capire.” Fa una pausa perdendosi nei suoi ricordi, in quelli tristi e amari di un tempo. “Non voglio che lasci Pi in disparte durante la gravidanza, non voglio che lui lasci te, perché se lo dovesse fare o anche solo progettasse di farlo gli farei cambiare idea in un modo che credo preferirebbe non sperimentare. Io sono stato fortunato ad avere te e spero voi possiate avere la mia stessa fortuna. Sai, non sono arrabbiato perché aspetti un bambino, non sono arrabbiato perché lo aspetti da Pi e non lo sarei in nessun caso. Non sono arrabbiato, sono indispettito e deluso. Tu non te la sei sentita di parlare con me, quando lo hai scoperto hai preferito non dirmelo per paura e non ti nascondo che questo mi abbia fatto dubitare sulle mie capacità di genitore.”
La rossa sbarra gli occhi a quell’affermazione, incredula e dispiaciuta di aver fatto provare a suo padre quella sensazione di inadeguatezza. L’ha cresciuta, ha fatto sforzi e sacrifici, le ha dato tutto quello che desiderasse a tal punto che anche la mancanza di sua madre non si era mai fatta sentire più di tanto se non in determinate situazioni. “Io... non credevo ti fossi sentito così. Avevo paura nel dirtelo, è vero, ma non era mia intenzione farti credere che tu non sia un bravo genitore. Lo sei, sei il migliore papà del mondo e lo sai bene. La verità è che anche io dovevo pensare. Quello che ho detto in ospedale... non è vero, non temevo una tua scenata, tutt’altro. Se non avessi aspettato, se te lo avessi detto subito tu saresti stato così comprensivo nei miei confronti e probabilmente io mi sarei sentita in colpa. Egoisticamente ho pensato solo a me, a quanto fossi sconvolta quando il medico ha confermato i miei sospetti, dovevo discuterne con Pi, capire quanto la nostra relazione fosse solida, se lo fosse abbastanza da poter portare avanti un cosa che credevo più grande di me, e mi è servito più tempo di quanto credessi per digerire la notizia.”
“È giusto che tu abbia pensato a te e che abbia avuto voglia di mantenere questo segreto. Prima di ogni altra cosa dovevate affrontarla tu e Pi”, con amarezza ripensa a quando Meredith gli aveva dato la notizia, alla velocità con cui dopo era scomparsa, non facendosi più sentire, non rispondendo alle sue telefonate, ricomparendo poi dal nulla, decisa a portare avanti quella gravidanza con lui non appena si fossero sposati. Aveva preso la sua decisione, da sola, e nonostante lui l’appoggiasse in pieno, avrebbe preferito poter avere voce in capitolo, un confronto faccia a faccia, agire insieme. “Solo una cosa voglio sapere e poi non ne parleremo più a meno che tu non voglia.”
“Dimmi...” lo invita a proseguire con un velato timore e tremolio nella voce.
“Sei felice? Voglio solo saperti sicura e felice della tua decisione.”
In un gesto involontario si posa le mani sul ventre, accarezzando quella pancia che le sembra crescere ogni giorno di più. Quando se ne rende conto contempla le movenze delle sue dita sottili e finalmente quei movimenti la rilassano e la fanno sorridere. “Quando ho parlato con Kate, un paio di giorni fa, avevo ancora così tanti dubbi. Ero felice perché lo era Pi, lui ne è entusiasta.”
“Me lo immagino”, bofonchia ironicamente.
“Già...”, ridacchia, “ma adesso io sono felice, lo sono davvero. Mi servivi tu papà, mi serviva questa chiacchierata. Sarei dovuta venire prima.”
“Lo hai detto tu, non sarebbe stato uguale. Ogni cosa ha il suo tempo”, le sorride con quel luccichio negli occhi, quello di padre orgoglioso ed innamorato della sua bambina ormai donna e quasi madre. “Allora... che ne dici del dolce adesso? Ho fatto la torta al cioccolato.”
“Dico che è perfetto.”
 
Va da Madison, entra piano nella stanza dopo aver concluso la chiamata in cui Alexis lo informava di essere arrivata a casa. In fondo è ancora la sua bambina.
La guarda dormire serena, le braccia stese sopra la testa, le manine bene aperte. Le carezza la fronte sedendosi poi sulla sedia accanto al lettino, adora farlo, bisogno che si amplifica in lui quando Kate non è presente.
Come se il solo pensare a lei potesse farla materializzare, ecco che la porta della stanza cigola aprendosi del tutto. La figura di Kate si staglia contro la luce proveniente dal corridoio, tra le sue braccia Sarah con la testa poggiata sulla sua spalla e il respiro pesante.
“Ehi... è crollata?”
“Il tragitto verso casa è stato lungo. Non ho fatto in tempo a metterla nel seggiolino che già dormiva. Madison?”
“Piombata nel sonno profondo poco prima che arrivasse qui Alexis.” Tira indietro le coperte aiutandola così a mettere a letto la bambina. La guardano per qualche istante rigirarsi senza aprire gli occhi e sospirando ogni volta che cambia lato. Sorridono entrambi, mentre Rick avvolge Kate in un abbraccio. La bacia sul capo, avviandosi poi con lei verso la loro camera.
Si butta sul letto dopo essersi messo il pigiama, adora la sensazione della testa che affonda nel cuscino. Con i piedi sfiora dei fogli abbandonati sul copriletto qualche ora prima, si siede a rileggerli, prima che la sua attenzione venga richiamata dall’uscita della moglie dal bagno.
Kate si passa le mani sul viso sentendo la crema rinfrescarle la pelle, toglie l’elastico con cui aveva stretto i capelli in una coda poggiandolo sul comodino. “Come è andata con Alexis?” desidera chiederglielo da quando è rincasata, ma si è trattenuta aspettando di essere nell’intimità della loro camera, come se in qualsiasi altra stanza qualcuno avesse potuto ascoltarli invadendo il loro spazio.
“Bene. Bene è riduttivo, alla grande direi. È tutto chiarito, tutto sistemato. Sai, questo mi è servito per capire che a volte il non parlare porta solo a fraintendimenti. Io pensavo una cosa, lei un’altra... e questo mi fa ricordare che è accaduto anche a noi. Negli anni passati spesso non abbiamo comunicato, orgogliosi, testardi ed impauriti. Non succederà più, vero?”
Si sfila la vestaglia lasciandola sulla poltrona, sale sul letto inginocchiandosi alle sue spalle solleticandogli il collo con i capelli. “No, non accadrà più”, si china su di lui baciandolo. Le loro bocche fremono scontrandosi, la passione lascia che le loro lingue si muovano sciolte. Si staccano poggiando le loro fronti l’una contro l’altra sorridendosi.
“Cosa stai guardando?” gli domanda accennando ai fogli. Si siede a gambe incrociate al suo fianco portandosi i capelli dietro le orecchie.
“Sono gli appunti sul caso Gordon e... sulla lettura dei tarocchi che ti ha fatto. Lo so, lo so che non concordi con la mia teoria”, commenta vedendola rabbuiarsi, “avevo solo bisogno di tenermi occupato in attesa dell’arrivo di Alexis. Scusami.”
“Non devi scusarti, sei libero di fare quello che credi. Dormiamo? Sono stanca.” Si stende andando sotto le coperte, dandogli le spalle.
“Kate...” la richiama in un sussurro sporgendosi su di lei. “Non sarà uno di quei momenti di cui parlavamo prima in cui non comunichiamo? Hai promesso.” La punzecchia seguendo le  linee del suo corpo partendo dalla spalla fino al fianco dove il lenzuolo interrompe la sua discesa.
“No”, si volta verso di lui carezzandogli il viso, si perde nei suoi occhi blu che illuminano la stanza lasciata al buio dopo che aveva spento l’abat-jour. “Non è nulla, sono davvero stanca”, mormora dolcemente lasciandogli un bacio a fior di labbra. “E non credo molto a questa storia di Gordon e della sua veggenza. Mi conosci, sono miss scetticismo. Però tu fai tutte le ricerche che vuoi, ok?” un altro bacio prima di dargli la buona notte e chiudere gli occhi. Un brivido la percuote, proprio come la prima volta che Rick gliene aveva parlato.
 
Scende in salone, i piedi scalzi accarezzano delicatamente il pavimento. Si guarda intorno, tutto coperto dalla penombra, il silenzio cristallizzato, le foto di cui si vedono a malapena i profili dei soggetti.
Si prende un bicchier d’acqua restando poi poggiata con la schiena al piano della cucina.
Sognare Gordon non è stato piacevole. Sono anni che non ha incubi, che dormire al fianco di Rick la rende serena, sapere che la causa di quella notte agitata sia stato proprio lui le lascia una spiacevole sensazione addosso. Le sue teorie non l’hanno mai sconvolta o toccata più di tanto, al contrario si è sempre divertita ed in fondo rendevano meno cupo il lavoro di tutti i giorni. Eppure il solo pensiero che questa volta lui possa aver ragione ha sconvolto ed influenzato a tal punto la sua psiche e la sua sfera emotiva, che l’idea è tornata a tormentarla. Inoltre a giorni sarebbe arrivato l’assistente sociale, la data dell’udienza per l’affidamento sarebbe stata fissata per prima cosa, la scoperta della dolce attesa di Jenny e di quel piccolo che a pochi mesi ha già l’animo del combattente... Queste notizie hanno aumentato l’agitazione di Kate e la poca acqua bevuta ora non è sufficiente a dissipare dubbi e timori. Ha detto ad Alexis che non deve preoccuparsi, che tutto andrà bene con il bambino, che alla sua nascita ogni cosa andrà a posto. Per Kate, l’udienza è il suo bambino, spera che una volta usciti da quell’aula di tribunale potrà sentirsi più serena, che gli incubi, generati forse da tutta la confusione e la pienezza di quei giorni, svaniranno. Di certo non immagina che quelli ci saranno ogni notte a tenerle compagnia, che l’incontro serale tra sé e il suo io interiore in quel salone vuoto diverrà una costante per le settimane a seguire.





Diletta's coroner:

Il funerale è arrivato, Sarah Grace adesso ha quella bandiera che le ricorderà sempre del suo papà.
Tra tristezza e forse ancora un pizzico di rancore da parte di Scott per quell'affidamento, arriva la notizia di quel bambino di cui nessuno sapeva nulla...
Ma quello di Jenny non è l'unico futuro nascituro, finalmente Rick e Alexis chiariscono tra loro, del resto si adorano e hanno bisogno l'uno dell'altro.
Kate alla fine è un po' seccata dalla cocciutaggine di Rick, e gli incubi che comicnicano a perseguitarla ci riportano esattamente al prologo. Con il prossimo (e ultimo) capitolo vedremo come si concluderà questa piccola "avventura".
Ora smetto o l'angolo autrice rischia di essere più lungo del capitolo ;)
Baci

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Capitolo 12
*** Il mondo ***







Il mondo



"La speranza è un essere piumato che si posa sull'anima e canta melodie senza parole e non si ferma mai"
Emily Dickinson



 
[...]Solo una cosa resta incompiuta.
Si era avvalsa delle ricerche di Rick, aveva riguardato insieme a lui i significati di ogni singola carta.
Gioia, prosperità, bellezza, questo rappresenta la carta del Mondo, l’ultima carta girata e la sola che non ha avuto un riscontro nella realtà. Ma ora come ora non può credere che Elijah abbia sbagliato. Ancora spera che quella predizione si avveri. Deve avverarsi, poiché altrimenti nulla avrebbe senso.
Ma non deve pensarci adesso. In questo momento deve concentrarsi solo sul rosso che spicca maestoso davanti ai suoi occhi e godersi quei sessanta secondi di serenità, nonostante dei passi alle sue spalle sembrano volersi intromettere.

 
 
 
 
“Non volevo svegliarti”, bisbiglia ancora di spalle sentendo poi le grandi mani di Rick cominciare a massaggiarle il collo.
“Non lo hai fatto, è stato il tuo non essere al mio fianco a farlo. Mi sono allungato e il mio braccio è caduto nel vuoto.” Le sfiora la guancia con il naso continuando a massaggiarla sentendo pian piano i suoi muscoli rilassarsi. “Hai ancora gli incubi?”
Scivola lontano dalla sua presa così da poterlo guardare negli occhi. “Non fare quello sguardo. Come avrei potuto non accorgermene? Ti agiti nel sonno, sono settimane che fai avanti e indietro dal nostro letto a qui. Non ti ho detto nulla perché era evidente che tu per prima non eri pronta a farlo”, continua rispondendo a quella domanda che si era solo formulata nella mente di Kate.
“Ora sei qui... Cos’è cambiato?”
Le carezza le braccia, guardandola dall’alto dolcemente, come ama fare in quelle rare ed intime occasioni in cui la loro altezze sono così diverse. “Non saprei, chiamalo... istinto. Ho aperto gli occhi, constatando con dispiacere la tua assenza. Speravo che almeno per una sera riuscissi a dormire per più di quattro ore filate. E... non lo so, stanotte la tua assenza era insostenibile. Ho provato ad ignorarla, ma non ci sono riuscito. Volevo darti il tuo spazio. Mi rendo conto che le ultime settimane siano state soffocanti ed intense, che l’ultima vista di Janine sia avvenuta nel momento peggiore...” Ascoltandolo Kate ricorda la frenesia di quella giornata. La febbre di Madison che non accennava a voler scendere, Sarah che si rifiutava di mangiare piangendo cominciando a sentire la mancanza della mamma. In quel momento, il campanello era suonato rivelando al di là della porta l’assistente sociale lì per effettuare una delle sue ispezioni a sorpresa. Aveva sentito la testa scoppiarle, eppure riflettendoci ora, a distanza di qualche giorno, non può fare a meno che sorridere.
“... che abbiamo avuto molto da fare tra il distretto, il nuovo libro in pubblicazione, programmare le date del tour. Non volevo rischiare che ti rifugiassi totalmente in te stessa e ho creduto che tenendomi alla larga, aspettando che fossi tu a volerne parlare, le cose sarebbero andate bene. E ora mi sento un completo idiota, perché sono qui davanti a te che mi guardi come se fossi pazzo e io non so se ho sbagliato a starti lontano oppure a dirti tutto questo ora.”
Si alza sulle punte baciandolo lentamente.
“Ecco, adesso sono confuso.”
Lei scuote la testa baciandolo di nuovo, più a fondo, “Non sei pazzo e tantomeno un idiota. Avevamo fatto un patto, niente più segreti, niente questioni irrisolte e cose non dette e io l’ho infranto neanche due minuti dopo. Lo hai capito subito. E sono anche certa che non serve che io ti racconti il contenuto dei miei incubi. Gordon aveva ragione su tutto, tu lo sapevi. Io invece non riuscivo ad accettarlo per il semplice fatto che è qualcosa che non riesco a controllare. In famiglia e al distretto sono quella che tiene i piedi per terra, che si rifiuta di credere alla magia e agli incantesimi o all’esistenza di buffi omini verdi o uomini che riescono a viaggiare nel tempo. Rifiuto di credere nel soprannaturale solo perché non riuscirei ad avere il controllo su quello che comporterebbe. Ho smesso di crederci dalla morte di mia madre perché da quel momento ho avuto il bisogno di sentire di avere tutto sotto controllo. E il fatto che lui avesse ragione mi fa venire i brividi.”
Rick sospira, allungando la mano verso di lei così da afferrare la sua. La trascina dolcemente fino alla cucina suggerendole di sedersi su uno degli sgabelli, accingendosi poi a preparare il caffè.
“Non ti avrei detto nulla se solo avessi potuto immaginare che ti avrebbe sconvolto tanto.” Posa una tazza davanti a lei e l’atra al suo posto ancora vuoto. Prende la caraffa versando lentamente il caffè caldo. Il liquido nero riempie entrambi i recipienti fino all’orlo scaldando la ceramica e con essa le mani di Kate che l’avvolgono.
“Tu non centri affatto e con quello che hai detto prima, quello che hai fatto, il non volermi forzare la mano... a volte mi domando perché tu abbia scelto me e se io abbia fatto qualcosa o faccia abbastanza da meritarmi tutto ciò che mi dai per farmi felice. Ora sei tu a guardarmi come fossi pazza.” Sussurra dopo qualche secondo abbassando il capo. Non riesce a sostenere quei suoi occhi così chiari ed immensi che la fissano nonostante solitamente non vorrebbe mai si staccassero da lei, si chiudessero e smettessero di guardarla.
“Lo sei se ti poni certe domande”, questa volta è lui ad avvicinarsi per baciarla, dopo averle sollevato il viso portando l’indice sotto il suo mento.
“Ti amo così tanto”, sospira contro la sua fronte carezzandogli il viso con il palmo e poi col dorso della mano. Lui l’afferra portandola a contatto con le labbra che la sfiorano appena.
“C’è altro o sbaglio?”
Sorride per quanto bene la conosca. L’angolo destro della bocca punta verso l’alto mentre pare tenere l’altro immobile. La mano scivola giù dal bancone con le dita che accarezzano distrattamente il marmo prima di intrufolarsi quasi di soppiatto nella tasca della vestaglia. Ne estrae una striscia rettangolare di carta, evidentemente piegata più e più volte, posandola dinanzi a lui osservando poi le sue espressioni durante la lettura. Gli occhi che si muovono rapidi saltando da una parola all’altra come una pallina all’interno di un flipper. La fronte gli si corruga dando vita a quella ruga che gli conferisce un’aria pensierosa e particolarmente intellettuale, la mano sinistra passa lentamente tra i capelli corti alla base del collo.
“Sono giorni che leggo e rileggo, che ripenso ad ogni singolo avvenimento. Sono arrivata a pensare per un istante che potrebbe riferirsi al piccolo che si è salvato, ma questa, come tutte le altre carte che ha estratto Gordon, sono riferite alla mia vita e, per quanto sia felice che quel bambino possa ancora crescere e un giorno venire al mondo, sono sicura che quell’ultima carta si riferisca a qualcosa di davvero significativo. Non voglio sminuire quella piccola vita dicendo questo, ma...” si interrompe, rivedendo ancora una volta nella sua mente i significati del Mondo: gioia, prosperità, bellezza.
“Cosa ti farebbe gioire Kate? Cosa porterebbe bellezza nella tua vita?” e mentre Rick, con voce profonda ed avvolgente, scandisce quelle parole, la lancetta più lunga dell’orologio si posiziona perfettamente nel sottile spazio tra i due numeri che compongono il dodici.
Sono le sei.
Il telefono squilla interrompendo così Kate ancor prima che la sua bocca si schiuda, eppure la risposta che stava per dare è racchiusa nel contenuto di quella telefonata.
 
Come qualche settimana prima si cambiano in fretta. Kate si infila i pantaloni saltellando per la camera, andando a rovistare nell’armadio cercando dei vestiti per Sarah Grace.
La veste mentre la bambina è ancora in pieno dormiveglia, assonnata per l’orario inusuale in cui è stata svegliata. Ormai pronti e sul punto di uscire si ricordano di non avere nessuno che possa badare alla piccola di casa. È in circostanze come queste che scrittore e detective rimpiangono la decisione di Martha di affittare un appartamento tutto suo per non pesare sull’intimità della famiglia che avevano intenzione di creare.
Jim non aveva tardato molto a rispondere, nonostante non dovesse andare in ufficio, gli risultava difficile non svegliarsi presto, non seguire la sua solita routine. Mettere su il caffè, leggere il giornale mentre l’aroma dei chicchi tostati riempiva la cucina e sorseggiare la bevanda dedicandosi alla pagina sportiva.
Era arrivato poco dopo, di corsa. Aveva mormorato un breve saluto a Rick mentre baciava sulla guancia la figlia, carezzando i capelli della piccola Sarah che lei teneva fra le braccia.
Adorava il suo ruolo di nonno, poter coccolare Madison, viziarla quando sarebbe cresciuta, darle tutto ciò che non aveva potuto dare a Kate, poiché a lei doveva dare il buon esempio.
Una volta che loro erano usciti, aspettando con impazienza l’ascensore, era corso nella cameretta sedendosi a fianco del lettino. È così piccola, da anni non aveva occasione di occuparsi di un neonato, è come tornare indietro nel tempo, sentirsi ancora giovane, quando toccava a lui stare con la sua Katie, così impacciato e stranito mentre si destreggiava tra pannolini, borotalco e tutine.
Kate, nell’ascensore dell’ospedale, ripensa teneramente all’espressione di suo padre che, nonostante l’ora insolita, aveva un sorriso immenso stampato in volto, gli occhi che esprimevano felicità, una gioia che non gli aveva più visto dal giorno del suo matrimonio, nel momento in cui accompagnandola all’altare l’aveva affidata a Rick.
La campanellina suona, le porte si aprono con quel consueto cigolio che sveglia definitivamente
Sarah. Gli occhi chiari e grandi, spalancati, vagano per i corridoi, chiedendo quasi timidamente perché stiano andando dalla mamma così presto.
Rick apre lentamente la porta ed incatena immediatamente lo sguardo a quello del medico di turno, aspettando il suo consenso per entrare. Jenny è seduta stancamente, con la schiena poggiata al cuscino alle sue spalle. È stremata, si vede dagli occhi spenti, dalla mancata luminosità del viso che fin dalla prima volta in cui l’aveva incontrata ricordava di aver notato. Si solleva ulteriormente notando la sua bambina stretta al petto della detective e sorride commovendosi. Allunga le braccia, ancora parzialmente intorpidite, mentre Sarah continua a ripetere la parola “mamma”, come avesse dimenticato tutte le altre. La stringe a sé non appena Kate la lascia andare al suo fianco, in quel letto dalle lenzuola immacolate.
Rick avvolge la moglie nel suo abbraccio. Le bacia il capo, felice, e il tremore delle spalle di Kate gli fa capire che anche lei sta sorridendo.
Entrambi la osservano, persi nei suoi movimenti, nel suo baciare quasi compulsivamente il capo di sua figlia, il suo viso, solleticarle la pancia per sentirla ridere come se nelle settimane di coma ne avesse sentito la mancanza.
Il medico era stato molto sbrigativo con lei, quasi sentisse che dei visitatori sarebbero arrivati in fretta dopo che l’infermiera era stata mandata ad avvisare i familiari. Avevano parlato brevemente, qualche esame di routine per verificare la capacità respiratorie, i riflessi e, cosa più importante, l’attività cerebrale. I ricordi sembravano intatti e, prima che potesse riferirgli la prematura dipartita del marito, era stato interrotto dall’ingresso dei coniugi Castle.
“Scusate, non vi ho… non vi ho neanche salutato”, non è più che un sussurro quello che esce dalle sue labbra, ancora intervallato dai silenzi causati dalle labbra che posa sulle guance paffute di Sarah. “Kevin dov’è? Sta bene? Non mi hanno detto ancora nulla... lo hanno avvisato, oppure anche lui come me è...” non termina la frase, puntando lo sguardo sulla figlia non volendola turbare più del dovuto, ma del resto, il solo arrivo di Sarah in loro compagnia avrebbe dovuto svegliare in lei un campanello di allarme.
Kate sente il braccio di Rick stringerla maggiormente, quel gesto la fa sentire quasi a disagio per ciò che sta per dire a Jenny.
Il giorno del cordoglio per Kevin aveva pensato e ripensato a quello che aveva detto a Rick: se si fosse trovata lei nella situazione che ora sta affrontando Jenny sarebbe impazzita. Non ha alcun dubbio in merito. Sa cosa significhi affrontare la morte di una persona cara, sa cosa significhi scoprirlo all’improvviso durante un momento di pura felicità. Sarà dura, sarà difficile, proverà un dolore così acuto che crederà di morire. Lentamente, come colta da un soffocamento improvviso.
“Kevin non...” lascia cadere la frase a metà, nel vuoto. Le parole non dette rimbalzano nella stanza, fino a colpire Jenny con forza, come un boomerang che torna indietro ad alta velocità.
Con una mano massaggia la schiena di Sarah riscaldandola, mentre in un gesto automatico si porta una mano sul ventre ponendo quella domanda tacitamente.
Il sorriso della coppia davanti a lei è la sola risposta di cui ha bisogno. Un lacrima le graffia il viso, una sensazione pungente e dolce allo stesso tempo. Quella notizia non spazza via il dolore della perdita, ma riesce a sovrastarlo almeno per qualche istante. Il bambino è sopravvissuto quasi per un segno del destino. L’ora di Kevin era arrivata, eppure sembra che l’Universo non voglia toglierle tutto in una sola volta e, oltre a Sarah Grace, le ha lasciato quel piccolo di cui occuparsi, un bambino che forse avrà gli stessi occhi e gli stessi lineamenti di Kevin o che magari, una volta cresciuto, glielo ricorderà nei modi di fare, nelle movenze, nelle espressioni e smorfie del viso.
Kate non può fare a meno di voltarsi verso Rick, di soffermarsi sul suo sorriso, come a volerlo imprimere nella sua mente e renderlo indimenticabile, di catturare l’amore che rilascia il suo sguardo addolcito da quella scena madre figlia. Tornando a guardare Jenny, vede prendere vita davanti a sé quell’ultima predizione di Gordon per cui ormai credeva non ci fosse più speranza e, esattamente come quel giorno trascorso a Coney Island con suo padre diciotto anni fa, anche questo momento lo porterà nel cuore. Un ricordo dolce e amaro, che la farà sorridere tra le lacrime e ancora una volta le ricorderà quanto sia prezioso il dono della vita.
 
 
 
 
 
 
Diletta’s coroner:
 
Siamo giunti alla fine di questa “avventura”.
Non so se sia finita o si sia svolta come vi aspettavate (non so neanche se alla fine si sia svolta come io avevo progettato u.u), spero comunque che, per quanto triste (forse un tantinello deprimente) e con la solita vena angst che mi accompagna in ogni fan fiction, vi sia piaciuta e non sia stata troppo pesante da leggere.
Un grazie a tutti, ai lettori silenziosi e a chi invece si è fermato a lasciare un commento breve o lungo.
Un grazie particolare a Monica che mi ha aiutato sin da quando di questa storia esisteva solo il prologo.
 
Una buona domenica a tutti e ancora grazie!

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