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di lumelly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non ne voglio parlare ***
Capitolo 2: *** A casa ***
Capitolo 3: *** Lividi ***
Capitolo 4: *** Voleva ferirmi ***
Capitolo 5: *** Dolci chiarimenti ***
Capitolo 6: *** Sayuri ***
Capitolo 7: *** Vuoi essere il mio +1? ***
Capitolo 8: *** Il party - prima parte ***
Capitolo 9: *** In un flash ***



Capitolo 1
*** Non ne voglio parlare ***


«Slade ha preso Laurel perchè vuole uccidere la donna che amo.»
«Lo so e allora?»
«Allora ha preso la donna sbagliata.»
«Oh.»
«Ti amo… Lo capisci?»
«Sì.»
 
L’aereo stava atterrando all’aeroporto di Starling City e io continuavo a rivivere quella scena. Erano passati più di cinque mesi. Cinque mesi, in cui ero stata a New York da un’amica. Ma neanche la lontananza era servita a farmi mollare la presa. Pochi giorni dopo quelle due parole e quello che ne era seguito, ovvero avevamo riportato Slade su Lyan Yu e Oliver e io avevamo ribadito le nostre capacità attoriali, avevo capito di aver bisogno di un taglio netto. Dalla missione, dai tagli sul corpo, dai lividi, dalle intercettazioni, dai filmati violati nei circuiti di sicurezza, dal gruppo, dalle diverse preoccupazioni che scuotevano Roy e Diggle, da lui.
Erano stati i mesi più strani della mia vita. Era così irreale non vedere i miei amici tutti i giorni e le notti. Non vedere lui. Ricordavo ancora quando mi era scappata quella cavolata un giorno alla Queen Consolidated: “Adoro passare le notti con te.” . Mi ero vergognata a morte, ma era la verità. Pensavo che andare via mi avrebbe fatto bene. Insomma, Slade era fuori gioco, avevamo bisogno tutti di una pausa. Anche la criminalità sembrava in letargo, d’altronde c’era poco da rubare o uccidere in una città semidistrutta. Ma la verità era che avevo bisogno di mettere kilometri tra me e Oliver. Per un attimo ci avevo creduto, per un attimo i suoi occhi mi erano sembrati sinceri. Poi mi aveva passato quella siringa nella mano e di colpo avevo capito. Ok, avevamo detto di raggirare Slade ma non mi aspettavo che lo facessimo in quel modo. E in un primo momento l’avevo presa bene, come dovevo prenderla davvero, pensando che Oliver si fidasse a tal punto di me da darmi il compito più importante. Avevamo sconfitto Slade assieme, da solo non ce l’avrebbe fatta. Ma più le ore e i giorni passavano, più una parte di me si sentiva rotta. Era come se fino a quel momento, non parlando dei nostri sentimenti, ciò che sentivo potesse rimanere nascosto. Non davo voce a una speranza che però c’era. Ma con quella falsa dichiarazione mi era esploso tutto nel petto e dovevo prendermi del tempo per me. Per capire. Per accettare che io e Oliver semplicemente non saremmo mai stati. Lui non mi amava e questo non sarebbe cambiato. Mai.
 
«Cristo Roy, ne ho abbastanza. Thea se n’è andata, devi reagire!» Quel ragazzino mi stava davvero spazientendo.
«Ah, davvero! Certo, tu sì che sei un maestro nell’andare avanti!»
«E con questo che vuoi dire?» Lo guardai minaccioso.
«Che tu metti in un angolo le tue emozioni, le isoli e ti impedisci di star male. Chi è messo peggio? Io o te?»
«Anch’io sono preoccupato per lei, cosa credi? Non vederla tutti i giorni mi fa stare male ma se dice che sta bene e in questo momento vuole starsene per i fatti suoi, lo accetto. Cosa posso fare? Non posso andare a riprendere una persona che non vuole stare qua!»
«Sicuro di stare ancora parlando di Thea?» il ragazzino mi provocò.
Lo guardai in cagnesco.
«Non parli mai di lei. Se n’è andata e sembra che la cosa non ti scalfisca minimamente.» Mi girai e vidi dallo sguardo di Diggle che era d’accordo con lui. Mi voltai di nuovo, dando loro le spalle.
«Allora? Perché non lo dici? Perché non dici che avresti dovuto fermarla e invece sei solo un maledetto vigliacco e…»
«Taci Roy, Felicity voleva andarsene. Non potevo trattenerla.» lo interruppi urlando.
«Beh vedo che facciamo progressi. Non ho mai fatto il nome di Felicity.» Mi guardò con aria trionfante.
Lo osservai furente, poi presi la giacca e me ne andai. Ne avevamo già parlato fin troppo e io di Felicity non volevo parlare.

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Capitolo 2
*** A casa ***


Controllai l’ora. Erano da poco passate le 22.00, l’aereo era atterrato in orario a Starling City.
Aspettai la mia valigia sui nastri rotatori. Mi guardai attorno. Non sapevo chi sperare o temere di vedere, d’altronde nessuno era stato informato del mio arrivo.
Finalmente vidi spuntare il mio trolley. Lo afferrai decisa e mi precipitai fuori dall’aeroporto per chiamare un taxi: all’improvviso non vedevo l’ora di arrivare a casa.
Il traffico imperversava sulle strade, e guardando le luci della città scorrermi a fianco dal finestrino, una sensazione famigliare si impadronì di me. Scappare non era stata poi una grande mossa. Non era cambiato niente. I sentimenti che mi ero ostinata a nascondere, o meglio che avevo provato a soffocare erano ancora lì. E se non erano svaniti neanche a New York, metropoli dalle mille attrattive e dalle molteplici possibilità conoscitive in senso sentimentale, a maggior ragione non potevo aspettarmi  un miracolo ritornando in una città dalla densità demografica non così elevata quanto quella della mecca statunitense.
In fin dei conti però ero felice. La mia casa era lì, la mia famiglia. Nessun parente ovviamente, la famiglia vera. L’unica che contava per me. E io li avevo abbandonati in un momento difficilissimo per tutti, non potevo che chiedermi come avrebbero reagito al mio ritorno.
Appena varcata la soglia di casa del mio appartamento, il mio senso di completezza aumentò. Chi volevo prendere in giro? Il mio posto era qui. E io appartenevo a Starling City. Soprattutto ai suoi abitanti. Soprattutto a un abitante.
Mi lanciai sotto la doccia per ritemprarmi e decisi all’istante. Dovevo andare . Diggle mi aveva mandato un messaggio mentre ero a New York, informandomi del fatto che ormai usassero il secondo covo privato di Oliver come quartier generale. Il Verdant ormai era compromesso, nonché posto sotto sequestro almeno per la parte soprastante riservata al locale pubblico. Sarebbe stato rischioso continuare a usarlo. A parte questi dettagli comunque, non avevo mai risposto a quell’sms. Non volevo più essere informata sulle vicende starlinghiane, anche perché a quel tempo pensavo che non sarei più ritornata. E anche il mio caro amico John, dopo qualche insistenza iniziale, aveva capito l’antifona e non si era più fatto vivo.
Ora volevo vederli solo un attimo da lontano. Pensavo potesse andar meglio una reintroduzione graduale in quel mondo invece che entrare in scena improvvisamente con un “Ehi!  Sapete che c’è? Son tornata!”. Per quello c’era tempo.
 
«Ragazzi io vado. Spegnete tutto voi qua?» chiesi a Diggle e Roy.
«Vai Oliver, vai a casa tranquillo.» mi rispose Dig.
«Agli ordini capo!» gli fece eco il ragazzino. «Per stasera ne hai prese di botte!» mi guardò con un ghigno stampato in fronte.
«Beh, ti sto allenando perché venga questo giorno. Perché tu sia pronto per sostituirmi e io possa trovare finalmente pace e riposo» risposi, con un’occhiata stanca.
Si girarono con un’espressione tra lo stupito e lo scioccato dipinta in volto.
«Sei serio?»  mi chiese Roy.
«Mai stato più serio in vita mia.»
«Io credo che ti annoieresti a non prendere a calci in culo qualche criminale tutte le sere.» ribatté il ragazzo.
«Io credo che Oliver saprebbe come occupare il suo tempo in quel caso.» intervenne Dig laconico. «Soprattutto saprebbe cosa fare.» continuò il mio autista nonché braccio destro.
«O da chi andare.» azzardò Roy, con un’occhiata ridente ma spaventata allo stesso tempo.
«Roy, dopo che hai finito qui, ci sarebbe da dare un’occhiata agli ultimi sondaggi elettorali. Puoi farlo?» Visto che aveva tanta voglia di fare il furbo, sapevo io come fargli impiegare il suo tempo.
«Perché diavolo Felicity se n’è andata? Sarebbe toccato a lei aiutarti nella tua campagna elettorale.» Strinsi i pugni alla pronuncia di quel nome. Dig lo notò e intervenì: «Roy, piantala di blaterare e mettiti al lavoro. Sta già facendo tutto Laurel durante il giorno. Potresti smetterla di lamentarti sempre e dare una mano.» Il suo intervento non riuscì però a calmarmi.
«Adesso sentimi bene, ragazzino» incominciai, piantandomi a due centimetri dal suo naso e sussurrando aggressivo. «Felicity non tornerà. E noi dobbiamo andare avanti e cavarcela senza di lei.» Come se non fosse mai esistita, continuai la frase nella mia mente. «Mi sono spiegato?» Roy annuì impaurito dalla mia reazione e si smaterializzò da sotto il mio naso, piazzandosi davanti ai pc.
«A domani futuro sindaco di Starling City!» mi salutò Diggle.
«Sai bene perché lo faccio Dig. Per onorare la memoria di mia madre, per ricostruire questa città dall’interno e per ripulirmi l’immagine di imprenditore fallito, nella speranza che questo possa attirare qualche investitore e farmi riprendere il controllo della Queen Consolidated.» replicai. «Fosse solo per me, vorrei sprofondare in un sonno pesante e non svegliarmi più il giorno dopo.» terminai asciutto.
Ero rotto dentro e i miei amici, i miei partner, lo sapevano. Infatti non proferirono parola e io me ne andai, facendo le scale a due a due, ed entrando nella brezza notturna della mia città semidistrutta.
Osservai le macerie circostanti. Ogni cento metri c’era una palazzina crollata alle fondamenta. Mi chiesi dove avessero trovato asilo quelle persone sfollate, e se almeno fossero ancora vive. In fin dei conti Slade aveva pur sempre vinto. Si era preso direttamente o indirettamente quello che amavo e non mi era restato più nulla. Quelle poche motivazioni che avevo prima elencato a Dig erano le uniche mi tenevano ancora ancorato a questo mondo e mi davano uno scopo.
Camminavo distratto da questi pensieri verso la moto. D’un tratto ebbi una strana sensazione e mi voltai, cercando qualcosa. Qualcuno. Fu allora che la vidi.
 
Merda. Merda. Merda. Merda. Merda. Ho già detto merda? Pensavo di essermi nascosta bene, volevo solo guardare senza essere vista, volevo solo avere uno scorcio sul team da lontano. Invece ora un paio d’occhi color del mare mi inchiodava sulla strada. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a fare un passo né nella sua direzione, né in quella da dov’ero arrivata.
Oliver mi guardava e io mi stavo perdendo.
Di nuovo.
Ancora.
Come sempre.
Nessuno dei due staccava lo sguardo, incapaci di mostrare una reazione ma allo stesso tempo di interrompere quel contatto visivo.
Pensai che se mi avesse visto qualcuno in quel momento avrebbe osservato una miriade di cocci sparsi sulla strada ricomporsi a poco a poco nella mia figura, ridando forma lentamente a Felicity Smoak.
Oliver non aveva mosso un muscolo ancora. Da quanto? Dieci secondi? Dieci minuti? Dieci ore? Non avrei saputo dirlo. Ma tutto quello che non diceva o non mostrava con i gesti, io glielo leggevo in quegli occhi.
Dicevano “ti odio”, “mi manchi così tanto”, “perché te ne sei andata?”, “perché mi hai lasciato da solo ad affrontare tutto questo?”, “sono felice di vederti”, “vorrei abbracciarti ma non riesco”, “non so cosa fare”, “sei davvero qui?”…. Lo vidi prendere un grosso respiro e poi scorsi quello sguardo, quello di quando mi aveva detto che mi amava prima di consegnarmi la cura contro il mirakuru e farmi realizzare che era tutto un bluff per sconfiggere Slade. Un bluff che mi avrebbe vista raggirata e al centro del mirino del nostro nemico. Fu quello sguardo in particolare a farmi riprendere dall’incantesimo. Mi ridestai dal sonno della bella addormentata e mi resi conto che non potevo più permettergli di farmi questo. Soprattutto non lo potevo più permettere a me stessa. Dovevo combatterlo. E il primo passo era andarsene di lì alla svelta, prima che il principe Filippo mostrasse segni di reazione. La vita non era come nelle favole. Nella vita vera il principe non salvava la principessa dal drago cattivo, ma la consegnava nelle mani del guerriero malvagio, come esca per sconfiggerlo. Nessun “E vissero felici e contenti” ma solo finti “Ti amo… Lo capisci?”.
Lo guardai un’ultima volta e poi mi voltai.
 
Era lei. Non ci potevo credere. Non sapevo cosa fare, non sapevo se correre incontro ad abbracciarla, stringerle le mani, metterle una mano sulla spalla come avevo fatto tante volte. E così feci quello che più mi riusciva meglio: la guardai. A lungo. Sperando che capisse quanto fossi felice di vederla, ma anche contemporaneamente ferito dal suo allontanamento e turbato dal suo ritorno. Lei mi stava comunicando le stesse cose con gli occhi ma ad un tratto qualcosa mutò. Un cambiamento in quegli occhi azzurri impercettibile ai più ma non a me e lei si voltò. Se ne stava andando di nuovo.
«Sei qui per restare?» le gridai da lontano. Gli argini dei miei muri improvvisamente rotti.
Felicity si fermò ma non si voltò.
«Non lo so.» mi rispose, ancora lontana.
Volevo andare da lei, scuoterla, afferrarla per le braccia e inchiodare i suoi occhi nei miei.
Ma non lo feci.
«Ho bisogno di te. Ho bisogno di te qui.» sentii dire da uno sconosciuto me stesso, completamente vulnerabile.
«L’hai già detto una volta.» mi rispose, una nota ferita nella sua voce.
«Per favore.» la pregai. Non sapevo più che dirle. «Resta.» aggiunsi alla mia preghiera, sussurrando.
Non la vedevo in viso, ma sapevo che su quel volto a me tanto famigliare e caro si stava agitando un tumulto degno della tempesta che aveva fatto affondare il Queen’s Gambit.
Riprese a camminare. Via da me. «Felicity!» gridai il suo nome.
Ma non si girò più e io non la fermai. Le mie gambe sembravano ancorate al terreno da una qualche forza sconosciuta. Così la lasciai andare. Ancora una volta. Alzai lo sguardo al cielo e sospirai.
 
La sua voce spezzata mi aveva travolta, ma non potevo. Non potevo fargli vedere le mie lacrime. Non potevo fargli scorgere il mio muto invito a coprire la distanza che ci separava e prendermi tra le sue braccia.
Così feci quello in cui lui riusciva meglio di solito e in cui, a quanto pare, ero diventata grande maestra anch’io. Scappare.
Camminai spedita verso la mia macchina, sperando maledettamente che lui mi fermasse, che mi corresse dietro. Ma ovviamente non lo fece. E nella fredda brezza di Starling City, ripresi la via di casa.
 

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Capitolo 3
*** Lividi ***


«Ciao ragazzi!» Mi affacciai titubante nel nuovo sotterraneo del Team Arrow, non senza una certa ansia per quel primo incontro dopo tanto tempo. Erano passati tre giorni dal mio arrivo ed era notte fonda, ma sapevo di trovare qualcuno. Fortunatamente per me non c’era quel qualcuno.
«Non mi dire! La chiacchierona bionda è tornata!» Roy mi venne incontro. Rimasi stupita del suo abbraccio caloroso ma non mi ritrassi.
«Ehi! Come stai? Sono contenta anch’io di rivederti!» Lo guardai in viso e vi lessi tutto quello che c’era da sapere. Thea non era tornata e Roy ce l’aveva scritto a caratteri cubitali in faccia.
«Così…» fece spallucce. Osservai la sua solita felpa rossa e mi chiesi sorridendo se ne avesse uno stock a casa o se perlomeno si lavasse abitualmente quella che indossava in quel momento. Gli misi una mano sulla spalla, il tipico gesto di quando vuoi fare forza a qualcuno… o il tipico gesto inutile che fai quando non sai se considerare la persona che hai davanti solo come un’amica, una partner di lotta al crimine o qualcosa in più, ma quello era un altro discorso che in quel momento non avevo voglia di affrontare.
Mi girai verso la persona che in quel momento temevo di più, a parte Oliver: Dig. Quando me n’ero andata, sapevo che Diggle era in una situazione veramente delicata. Pochi giorni dopo il nostro ritorno da Lyan Yu, dopo la messa in carcere di Slade, John ci aveva infatti confessato che Lyla era incinta. E che aveva scoperto la cosa da Amanda Waller, che in un momento di pistole reciprocamente puntate, aveva snocciolato la verità nuda e cruda davanti a loro due, Deadshot e Bronze Tiger. La solita stronza praticamente. Se non poteva lanciare un drone in città, quanto meno doveva consolarsi sganciando una bomba di quel tipo.
Tornando ai fatti, io me ne ero andata su due piedi, lasciando a se stessi non solo Oliver e Roy, ma anche Dig che sicuro non meritava la mia assenza. Lui per me c’era sempre stato.
Ero immersa in questi pensieri che non realizzai il suo avvicinamento. Mi prese tra le braccia quasi stritolandomi, da buona montagna umana qual era, e mi sussurrò all’orecchio: «Non farlo mai più, Felicity. Guai a te se te ne vai di nuovo. Qua senza di te è diventato un inferno. E non sto parlando solo di Oliver.»
«Oh Dig, mi dispiace.» Lo guardai con occhi lucidi e lui mi diede un buffetto sulla testa. Gli stampai un bacio sulla guancia.
«Allora resti vero?» continuò.
«Sì.» risposi, dopo un attimo di incertezza. «Avete bisogno di me.»
«Parla al singolare bionda! Io sto benissimo!» scherzò Roy, sdrammatizzando.
«Ah sì, certo. Proprio tu parli! Dici così perché pensi di aver dormito sempre, dopo che ti abbiamo sedato con il veleno di vipera!» Accidenti a me! L’avevo detto davvero.
«Che intendi? Mi avevi detto che mi sono svegliato solo una volta iniettata la cura!» Roy mi guardò, un punto interrogativo sul viso. E ora?
«Intende dire che sognavi spesso.. e invocavi il nome di Thea.» intervenne Diggle per salvarmi. Roy si voltò verso di lui e io mimai un “grazie” silenzioso con le labbra all’autista di Oliver.
Roy si rabbuiò e io mi sentii in colpa ovviamente,  così lo abbracciai per confortarlo. «Ehi! Non puoi sapere adesso dove sia Thea o cosa stia facendo. Magari ti sta pensando in questo momento e sta tornando a Starling City.» Lo guardai con affetto. «E in ogni caso, noi saremo sempre qui per te, ok?»
Abercrombie, come lo chiamava Sin, annuì. A proposito di Sin… «Ehi, ma perché non provi a uscire con Sin?» azzardai.
«Sin? Ma che dici? Siamo solo amici e ogni tanto mi dà una mano per qualche caso a The Glades.» Roy mi guardò scioccato e mi ricordò immediatamente qualcun altro.
«Beh, non credo che lei ti definirebbe solo un amico, Roy.»
«Ma che dici?» ripeté.
«Dico solo che so cosa vuol dire quando ti piace qualcuno che non ti considera minimamente in quel senso e forse tu potresti dare una chance a Sin, prima di relegarla alla “friend zone”.» Pazzesco, sostanzialmente avevo ripetuto le parole di Barry quando mi aveva interrogato sui miei sentimenti per Oliver. Sentimenti che io avevo negato. Patetica.
Roy stava per replicare ma non ne ebbe il tempo. La porta del sotterraneo si aprì con uno schianto e Dig non riuscì a estrarre la pistola e farmi scudo dietro di lui che un ammasso verde rotolò a terra.
Un ammasso verde di pelle.
Un ammasso verde di pelle incappucciato.
Oliver.
«Oliver!» urlai e con uno scatto da centometrista superai i miei due amici e corsi alla base delle scale dove giaceva riverso a terra.
«Oliiiiveeeeeer!» ripetei.
Nessuna risposta.
Gli aprii un occhio, le pupille erano ribaltate verso l’alto. Tastai il polso: le pulsazioni erano bassissime e Oliver era completamente in stato di incoscienza.
«Ragazzi!» Mi girai verso di lui. «Aiutatemi, dobbiamo stenderlo sulla brandina!» Mi stavano guardando imbambolati, pur sapendo che da sola non avrei potuto muovere Oliver di un centimetro. «Muovetevi!!!» Il mio urlo li ridestò e si chinarono a prendere Oliver per braccia e piedi, fino a posizionarlo sul lettino.
«Che cos’hai? Che cos’hai? Oddio cosa posso darti?» farneticai senza senso.
D’un tratto Oliver aprì gli occhi, lanciando un grido spaventoso, come quello di uno che torna dal regno dei morti.
Si girò verso di me, paonazzo in volto, gli occhi che mi guardavano ma in realtà non mi vedevano.
Improvvisamente, mi afferrò per la gola. Mi stava stritolando in una morsa d’acciaio che erano le sue dita.
«O-O-Ol… i-ver» pronunciai a fatica.
Poi intravidi le sagome di Roy e Diggle cercare di aiutarmi. Sentii due tonfi sordi e vidi tutto nero.
 
****
 
Era una sensazione strana. Avevo gli occhi chiusi ma ero sveglio. Forse stavo sognando. Però anche così, mi parve che un bagliore bianco fosse diffuso nel posto in cui mi trovavo. Erano sicuramente luci al neon quindi forse ero al covo. Poi avvertii un fortissimo dolore alla testa e sentii arrivare il primo conato.
Vomitai.
Ancora.
Poi la diedi vinta alla stanchezza e mi abbandonai all’indietro. Ovunque fossi.
 
Aprii gli occhi. Dovevo aver dormito parecchio, perché avevo il fianco su cui ero girato completamente anchilosato. Mi guardai attorno e vidi due paia d’occhi che mi osservavano.
«Che diavolo è successo?» chiesi a fatica.
«Non lo sappiamo, Oliver.» mi rispose Dig. «Parecchie ore fa sei entrato nel covo ruzzolando privo di sensi al fondo della scala. Poi ti sei ripreso e sei impazzito e allora ti ho colpito con una sbarra di ferro in testa e ti abbiamo sedato.» finì il racconto, con uno sguardo colpevole.
«Con la stessa cura del mirakuru!» intervenne Roy piluccando delle patatine da un sacchetto di plastica.
«Cosa?» esclamai sconvolto.
«Mostravi gli stessi sintomi, capo.» rispose il ragazzino, continuando a mangiucchiare. «A parte il sangue dagli occhi, quello non ce l’avevi.» Addentò una patatina dopo averla scelta con cura. «Ma visto quello che hai fatto…»
«Cos’ho fatto?» li interrogai senza ottenere replica. «Qualcuno di voi vuole darmi una cazzo di risposta?»
«Hai quasi strangolato Felicity!» urlò Diggle di rimando.
«Che diavolo…?»
«Sì, sembravi mezzo morto e lei era lì che ti guardava con quel suo solito sguardo preoccupato che ha solo per te, e poi bam! Hai aperto gli occhi urlando come un pazzo e l’hai afferrata alla gola. E continuavi a stringerle il collo, sembrava volessi ucciderla, e poi… beh, io ho cercato di fermarti ma mi hai tirato un calcio e mi hai scaraventato dall’altra parte della stanza. Allora Dig ti ha preso alle spalle con quella sbarra di ferro e ti ha tramortito, poi dopo ti abbiamo dato l’anti-mirakuru.»
Continuavo a guardarlo strizzando gli occhi, ma non riuscivo a capacitarmi delle sue parole. Felicity era tornata ed era stata lì per me ancora una volta e io? Che le avevo fatto? Dov’era?
«Dov’è?» ruggii dando voce ai miei pensieri.
Diggle e Roy si guardarono l’un l’altro, come incerti sul da farsi.
«Se non me lo dite voi, allora andrò a cercarla io.» Scesi dalla brandina e per poco non caddi di nuovo per terra. Fu Diggle a sostenermi prendendomi al volo.
«Oliver, non hai una bella cera. Forse dovresti dormire prima. E affrontare questo domani.»
«Dig-gle.» sillabai il suo nome. «Portami da lei.»
«Ok.» accettò, prendendo un grosso respiro. «Non dovremo fare molta strada, è là dietro. Speravo solo di risparmiartelo fino a domani, visto lo stato in cui ti trovi ora.»
Mi appoggiai alla spalla di Diggle, guardandolo ancora senza capire. La testa mi girava, ma io volevo solo vederla. Quello che Roy aveva raccontato mi terrorizzava. Speravo solo che non fosse così grave quanto temevo.
Poi la vidi.
Rimasi paralizzato.
Su una schifosissima brandina di riserva, visto che quella più nuova e decente era stata occupata da me fino a poco prima, giaceva il corpo della mia partner. La pelle martoriata di ecchimosi. Vidi lo stampo delle mie impronte sulle braccia, un livido enorme circolare su una coscia, probabilmente dovuto a una caduta su qualche parte acuminata, forse uno spigolo o altro, e dieci dita violacee impresse sul collo, quel collo che un tempo era stato bianco e delicato. Risalii lo sguardo al volto. Aveva uno zigomo tumefatto e un labbro gonfio, e dall’espressione era addormentata, ma di un sonno notevolmente agitato seppur pesante.
Gli occhi mi si velarono e mi portai una mano alla bocca, indietreggiando.
Non potevo credere a quel triste spettacolo.
Serrai i pugni, poi sentii una mano posarsi sulla mia spalla. Dig. «Non eri in te Oliver. Lei lo sa, credimi.»
«Non sapevo neanche che avesse deciso di restare, non l’avevo più vista dall’altra sera…» mormorai, ripensando con rimpianto a quando l’avevo lasciata andare via da me qualche notte prima.
«Vi siete visti?»
«Sì.»
Dig non osò chiedermi cosa le avessi detto anche quella volta per ferirla, come sempre facevo. Mi diede solo una pacca amichevole e fece per voltarsi.
«Dig, sono stato io?» Non potevo crederci.
«Sì, Oliver.»
«Ma come…?»
«Come ti ha detto Roy. L’hai aggredita. Prima l’hai presa alla gola, poi lei è svenuta a un certo punto e noi abbiamo tentato di fermarti, ma tu inizialmente ci hai sopraffatti e… »
«E?» lo incalzai, senza staccare gli occhi da Felicity.
«E hai continuato a prendertela con lei.»
Chiusi gli occhi con orrore e una lacrima mi scivolò veloce fino al mento.
«Vai a casa Ollie, devi riposarti. Ancora non sappiamo cosa ti ha ridotto in quello stato.»
«Non ricordo nulla Dig, ero di pattuglia. Ma per il resto, vuoto totale.» risposi, senza distogliere lo sguardo dalla donna che avevo quasi ucciso. La donna che più di ogni altro contava per me. Le persona che più di ogni altro contava per me.
«Andate voi, Diggle. Io resto con lei.»
«Oliver, non credo sia la scelta migliore, inoltre non sappiamo se tu… ecco…»
«Vai avanti Dig, di’ quello che stavi per dire.»
«Non sappiamo se rappresenti ancora un pericolo per lei.» terminò la frase in un fiato, cercando però le migliori parole possibili.
«Diggle, mi avete dato l’antidoto per il mirakuru. Credo che non potrei essere più innocuo in questo momento. Il massimo che potrei fare è morire per il rigetto di quella sostanza. E credimi, lo vorrei davvero in questo momento.»
«D’accordo. Le abbiamo dato un calmante comunque. Se dovesse svegliarsi e avere male, ce n’è dell’altro su quel mobiletto.» aggiunse indicandomi un medicinale poco lontano da noi.
Annuii senza voltarmi.
Sentii Dig allontanarsi e chiamare Roy, dicendogli di raccattare le sue cose. Udii anche chiaramente il ragazzino protestare vibratamente. Captai distintamente qua e là “quel pazzo”, “lasciarla da sola”, “sei impazzito anche tu”, poi il silenzio calò sul covo.
Mi avvicinai per la prima volta da quando l’avevo vista. Mi chinai su di lei e le spostai un ciuffo ribelle che le era sceso sul viso. Mi sconvolsi alla sensazione soffice che mi restituì quel tocco.
Feci per posarle un dito su una guancia, per accarezzarla, ma la mia mano si bloccò all’ultimo, sospesa a un centimetro dal suo volto. Temevo di mandare in frantumi quel piccolo corpicino che ora più che mai sembrava fatto di cristallo.
Così avvicinai la mia brandina alla sua. Volevo spostarla, farla stare più comoda su quel materasso più morbido. Girai attorno al suo letto per arrivarle alle spalle e poterla sollevare. Appena la presi in braccio, si mosse nel sonno, aggrappandosi alle mie spalle e provocandomi una fitta ancora più acuta di dolore. Per quello che le avevo fatto, certo, ma anche per quella sensazione avvolgente, quel calore, quella dolcezza che mi perdevo ogni giorno, ogni minuto e ogni secondo, allontanandola da me. Averla tra le mie braccia in quel modo mi ricordava solo quello che non potevo avere. A causa della vita che facevo, come le avevo detto una volta. E quanto avvenuto quella notte ne era la dimostrazione: Felicity doveva stare lontana da me, le procuravo solo del male.
La adagiai con cura sul nuovo giaciglio, ravviandole i boccoli dietro la nuca e sparpagliandoglieli sul cuscino. Sorrisi al pensiero che coi capelli sciolti aveva un che di selvaggio davvero eccitante. Poi attaccai il lettino alla sua precedente branda e mi adagiai sopra.
La vegliai a lungo, tenendola per mano. Una mano che strinse prontamente, non appena le nostre dita si intrecciarono.
Sfinito, chiusi un attimo gli occhi. E in quella posizione, mi addormentai anch’io.
 
 

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Capitolo 4
*** Voleva ferirmi ***


Mi svegliai, vigile. Un movimento a fianco a me aveva fortunatamente posto fine ai miei incubi.
Aprii gli occhi e vidi Felicity girata dall’altra parte, il corpo scosso da singhiozzi convulsi.
Mi avvicinai alla sua branda e le misi una mano sul braccio, chiamandola, ma al mio tocco si ritrasse, come una belva impaurita. Si rintanò nell’angolo, dando l’idea di non voler essere né vista né toccata.
Sospirai e guardai il soffitto. Era tutta colpa mia e questa volta l’avevo ferita anche fisicamente.
Pronunciai ancora una volta il suo nome.
«Va’ via, Oliver. Ti prego.» La sua richiesta sussurrata mi trafisse come una lama nel petto.
«Non ti lascerò qui da sola. Dig e Roy non ci sono.»
«Allora me ne vado io.»
Fece per alzarsi, ma il dolore per le percosse e lo stordimento del calmante le causarono un capogiro. La presi al volo prima che rovinasse a terra, facendosi ancora del male.
«Lasciami, non mi toccare.»
Si girò e quello che vidi in quegli occhi mi spaventò. Non c’era più traccia dell’amore, dell’affetto che ero solito leggervi, solo disperazione e disprezzo.
«Felicity, ti giuro non so cosa sia successo, ero di pattuglia, poi mi sono svegliato qui al covo disteso su una branda. Diggle e Roy mi hanno raccontato cos’ho fatto, cosa ti ho fatto. Mi dispiace così tanto, vorrei poter prendere il tuo posto in questo momento e soffrire io.»
«Quand’è che smetterai di farmi del male, Oliver?»
Quella domanda mi lasciò spiazzato e mi spezzò. Sapevo a cosa si stava riferendo. Deglutii e chiusi gli occhi. L’afferrai di forza e la portai al mio petto, stringendola forte ma cercando anche di non aumentare la sua sofferenza fisica. Dio solo sapeva quanto male poteva avere in quelle piccole ossa ora. Felicity cercò di dimenarsi, ma non aveva le energie e men che meno la forza necessaria per sottrarsi alla mia presa, così dopo qualche secondo si arrese contro di me e iniziò a piangere ancora più convulsamente.
La tenni stretta tra le mie braccia non so per quanto tempo, poi ci addormentammo. Stretti l’uno all’altro. Sapevo di non doverlo fare, sapevo che il giorno dopo non avrei più potuto concedermelo e neanche quello dopo a venire, ma in quel momento ne avevamo bisogno entrambi.
 
«Oliver!»
Sentii qualcuno che dimenava i palmi contro i miei pettorali.
«Oliver!»
C’era solo qualcuno che poteva dire il mio nome con quel tono di voce. Sorrisi, poi aprii gli occhi e vidi come eravamo messi: esattamente come quando avevo chiuso gli occhi poche ore prima, stretti l’uno all’altra. Mi ritrassi impaurito da quello che provavo e vidi il suo viso rosso d’imbarazzo rivolgersi verso il mio.
«Ho di nuovo male. Ti prego dammi ancora dell’antidolorifico. Ma stavolta una dose più forte.»
Mi alzai obbedendo alla sua richiesta. Le somministrai il calmante poi mi sedetti al suo fianco, aspettando che facesse effetto da un momento all’altro.
«Sai, io non volevo mica tornare.»
La guardai tristemente.
«Non volevo per lo stesso motivo per cui me ne sono andata.»
«Felicity…»
«No tu non capisci. Quando mi hai detto che mi amavi quella sera, io ci ho creduto per un attimo. Ma creduto proprio, come una scema.»
«Io…»
«No Oliver, non capisci. È che io ho sempre pensato che mi avresti protetta sempre. Io ti vedo un po’ come il mio eroe personale, voglio dire… chi non ti vedrebbe come il suo eroe personale!? Beh in effetti Laurel che voleva denunciarti alla polizia, ma lasciamo stare Laurel…» continuava a blaterare nel suo solito fantastico modo che io tanto adoravo, ma iniziavo a sospettare che la sincerità del momento fosse dovuta anche al potente antidolorifico che le avevo dato. «Perché il fatto è che tu sembri proprio un supereroe. Hai i capelli biondi, quegli occhi, Dio i tuoi occhi sono veramente intensi Oliver… cioè non nel senso che ti fanno cedere le ginocchia se ti ci fissi, o meglio anche in quel senso… però io adesso intendevo dire che hai proprio uno sguardo... deciso!  Come da supereroe dei fumetti, quindi io credevo che… insomma, che sarei sempre stata la tua damigella in difficoltà. Invece, mi hai consegnata a Slade. E tutto per salvare Laurel, la tua stupenda fantastica meravigliosa e perfetta Laurel che da quando sei diventato Arrow non ha mai creduto neanche per un momento in te. Ma ovviamente nessuna  può competere con lei… Non che io voglia competere con lei, anche perché tu in fondo non sei il primo premio per una gara di pesca del miliardario, poi tra l’altro attualmente non lo sei manco più un miliardario… Però, ecco… Mi hai detto che io sarei sempre stata la tua ragazza e io pensavo che questo significasse qualcosa. Non nel senso di fidanzata, ovvio, perché insomma io e te… sarebbe davvero assurdo, però… beh hai capito che intendo no!?» Mi guardò con un’aria un po’ stordita. Parte della sua farneticazione mi aveva divertito, perché Felicity da sobria non era poi tanto distante da quella versione leggermente “sbronza di farmaci”, ma per il resto provai solo un profondo dolore per lei e una profonda pena per me. Non potevo dirle nulla, io e lei non avremmo mai potuto stare assieme. Così la guardai sospirando, incapace di smentire le sue accuse e impossibilitato al tempo stesso di darle quelle rassicurazioni che lei cercava.
Il mio sguardo vagò dai suoi occhi alla bocca e viceversa. Vi indugiai una volta. Due. Tre. Poi sentii un colpo di tosse alle mie spalle.
«Ehm, scusate.»
Roy. Dannato ragazzino, un tempismo davvero provvidenziale però.
«Che cosa vuoi?»
«Sono passato a vedere come sta la bionda, ero preoccupato.»
«Sta come la vedi, Roy.» La indicai.
Un mugugno sommesso si levò alle nostre spalle.
«Hmm… Ciaaaaaao.»
«Oddio.» esclamò Roy. «E’ completamente fatta!» affermò divertito.
«Già.» La guardai. Si stava stirando nel lento, allungando braccia e gambe. Un pensiero inopportuno mi colpì come uno schiaffo in faccia. Cercai di distogliere la mia mente da certe elucubrazioni.
«Ehi Roy!» Felicity notò improvvisamente la presenza del ragazzo.
«Ciao bionda!» Roy mi superò andandosi a sedersi su una parte del suo letto.
«Ma sai che non ci avevo mai fatto caso!? Hai degli occhi verdi incredibili!»
Roy rise divertito. Io non ci trovavo nulla di divertente.
«Ma sai che non sei mica male, Roy!? Davvero! Thea è veramente stupida!»
«Ti ringrazio Felicity» Le afferrò la mano, sorridendole. «E per la cronaca, anche tu non sei affatto male.» Lo vidi inclinare la testa da un lato, come a volerla studiare meglio. Poi riconobbi il suo sguardo, lo sguardo di uno che si rende conto in quel momento di qualcosa.
«Roy, perché non la pianti con queste assurdità? Abbiamo del lavoro da fare, se non sai come impiegare il tuo tempo.» Mi girai storto verso quel ragazzino che già mi aveva dato parecchio fastidio per i miei gusti.
«Oliver, sei sempre il solito.» mormorò Felicity assonnata, poi strofinò la guancia sul cuscino e si riaddormentò dolcemente.
Roy sorrise a vederla così rilassata e serena. E vidi con orrore che la sua mano stava andando sul suo viso, a darle quella carezza che io avevo negato a lei e soprattutto a me stesso.
«Roy!» urlai. La sua mano si bloccò a mezz’aria e il ragazzo si alzò, capendo l’antifona. Mi superò, guardandomi male mentre mi passava a fianco e scuotendo la testa. Io guardai in aria, scocciato, e sbuffai.
«Sarà meglio che tu vada ora.» mi disse in tono piatto.
«Scusami?» Mi parai dinnanzi a lui, come a sfidarlo a ripetere nuovamente quell’esortazione.
«Sono già le otto di mattina. Credo che tu abbia il tuo daffare come candidato sindaco e aspirante presidente della Queen Consolidated. O mi sbaglio?» pronunciò quelle parole con un tono tagliente e lo sguardo duro.
«Bene. Resti tu con lei qua?» gli chiesi asciutto.
«Certo. Lo sai che è al sicuro con me.» mi rispose, enfatizzando il pronome personale.
Lo guardai in tralice, schioccando la lingua. Decisi per il bene di tutti di non proseguire quella conversazione. Avevo un’insana voglia di tirargli un pugno ma Roy non era più sotto l’effetto del mirakuru e avrei potuto fargli male sul serio.
«Voglio che guardi i filmati delle telecamere qui fuori. Guarda se trovi qualche spiegazione a quello che mi è successo questa notte.»  e dandogli quel compito uscii dal covo col completo da ufficio che mi ero portato il giorno prima. Ormai, non dormivo praticamente più alla villa, era così triste e vuota senza la mamma, senza Speedy. Preferivo stare qui, circondato dai computer e confortato dalla presenza di una certa persona che lasciava il covo sempre per ultima.
 
Arrivai alla Queen Consolidated dopo una mezzora di traffico. Avevo perso la presidenza, certo, ma possedevo ancora delle quote azionarie che mi davano diritto ad entrare in quell’edificio, oltretutto c’era pur sempre il mio nome scritto a caratteri cubitali sul grattacielo. La sedia del presidente al momento era vacante: speravo quindi di poter attrarre in tempi brevi qualche investitore, giusto in tempo per il consiglio di amministrazione del mese seguente. Ma dovevo darmi da fare. Non potevo rischiare che il garante, nominato ad interim dai consiglieri, muovesse le giuste pedine per ottenere il comando definitivamente.
«Mister Queen.»
«Sì?» Mi voltai e vidi una delle impiegate del piano dirigersi a grandi falcate verso di me.
«Chiedo scusa, la signorina Smoak non ha avvisato della sua assenza. Sa se è solo in ritardo? Faccio prendere il suo posto da Monica?»
«Sì, grazie.»
«Bene.»
«Ah, signore. È arrivata la signorina Lance una decina di minuti fa, l’ho fatta accomodare nel suo ufficio.»
«Laurel?»
«Ehm sì, signore.» Mi guardò presa in contropiede. Evidentemente, la notizia del ritorno di Sara non era nota ancora a tutti. D’altronde si era fermata poco tempo in città e si era presentata solo alla stazione di polizia, da suo padre, o a casa mia. Per il resto era sempre stata in versione Canary. E ovviamente nessuno sapeva che sotto la parrucca bionda si celava la figlia minore del detective.
«Grazie.»
Che cosa voleva Laurel ora? Non ero dell’umore adatto questa mattina. Soprattutto il mio costante pensiero andava a una certa bionda che in quel momento si trovava sola soletta stesa in un letto con l’ex ragazzo di mia sorella nei paraggi. Ex ragazzo che aveva appena definito come “niente male” e con “degli occhi verdi incredibili” e che aveva a sua volta espresso un apprezzamento nei suoi confronti. Perfetto. Veramente non potevo essere più tranquillo in quel momento!
«Laurel.» La salutai chiudendomi la porta dietro.
«Ciao Ollie.» Mi venne incontro, depositandomi un bacio sulla guancia.
«Cosa ti porta qui?»
Laurel mi guardò, un’espressione ferita per la scarsa confidenza che le stavo dimostrando era dipinta sul suo volto.
«Intanto ti porto buone notizie. Gli ultimi sondaggi ti vedono in testa di quasi dieci punti percentuali contro il tuo avversario, nonché ex sindaco di Starling City.»
«Bene.» le risposi con un tono di voce che la invitava a continuare.
«E poi volevo chiederti come stavi. È un po’ che non ci vediamo.» ammise tristemente.
Eccolo lì il vero motivo. I sondaggi elettorali erano solo una scusa. Laurel voleva passare del tempo con me, il problema era che io in quel momento avevo davvero altro per la testa che non preoccuparmi della mia ex fidanzata. Per esempio riprendermi il controllo della mia azienda e vincere le elezioni. Per esempio scoprire che diavolo mi era successo per farmi tentare di uccidere Felicity. Per esempio mandare Dig il più in fretta possibile al covo per controllare quei due.
«Laurel, senti… io ti ringrazio davvero tanto per l’aiuto che mi stai dando in questo momento, con le elezioni e tutto il resto. Però, vedi, oggi non è affatto una buona giornata per parlare, quindi se non ti dispiace dovremo rimandare.» Le misi una mano sul braccio, stringendoglielo, come a volermi far perdonare per il trattamento sbrigativo che la stavo riservando.
«Cena stasera?»
«Laurel…» iniziai, ma lei mi fermò con una mano a mezz’aria.
«Senti Oliver, credo che dopo tutto quello che ho passato in quest’ultimo anno anche per colpa tua, tra Tommy, Slade Wilson, mia sorella, tu mi debba almeno una cena!» La solita Laurel, che giudicava e mi incolpava di tutto quello che di negativo succedeva nella sua vita. Ma in parte aveva detto il vero. Con Slade aveva rischiato la vita, senza contare l’aiuto che mi stava dando per la campagna elettorale.
«D’accordo.» assentii.
«Passi a prendermi alle otto?» mi chiese con rinnovato entusiasmo.
«Alle otto.» confermai.
«Allora a stasera… fatti bello.»
Mi baciò nuovamente sulla guancia con studiata lentezza e se ne andò.
Laurel era però l’ultimo dei miei pensieri adesso.
«Diggle, sono io.» composi il numero del mio autista-soldato.
«Dovresti andare subito al covo.»
“Che succede?”
«Ehm… niente. Però starei più tranquillo se sapessi che sei lì con lei.»
Sentii silenzio dall’altra parte e immaginai il mio amico capire quello che intendevo veramente e scuotere la testa in segno di disapprovazione.
“Oliver, è veramente un brutto momento. Lyla non sta bene stamattina e stiamo aspettando il dottore.”
In effetti quella mattina Diggle non era al covo e non si era manco presentato in ufficio. Ero stato talmente preso da una certa ragazza che non avevo neanche notato la sua assenza.
«Ok, scusami Dig. Certo, non ti preoccupare. Chiamami se ci sono novità, d’accordo?»
Salutai Dig e cercai di concentrarmi e iniziare a lavorare.
 
Nel primo pomeriggio già non ne potevo più. Avevo mangiato un sandwich veloce in ufficio ma la soglia della mia sopportazione era giunta al limite.
Andai dritto da Monica che sedeva al posto di Felicity, spalancando la porta del mio ufficio con fare sbrigativo.
«Signorina, mi sposti immediatamente tutti gli appuntamenti di oggi.»
«Ma signore, ha un colloquio tra un’ora con il signor Yang.»
Yang era un potenziale investitore. Esitai per qualche secondo. Sarebbe potuto essere determinante per la società.
«Sposti gli appuntamenti. Troveremo un altro momento.» conclusi ponendo fine alle mie incertezze e alle sue rimostranze. Dovevo accertarmi delle condizioni di Felicity. Mi dissi che la mia agitazione oltre la soglia normalmente accettabile dipendeva esclusivamente dal fatto che fosse stesa in un letto imbottita di antidolorifici per colpa mia. Il particolare che a vegliarla fosse quell’arrogante ragazzino non era minimamente rilevante.
 
Scesi di corsa le scale del sotterraneo e mi diressi a gran falcate verso il punto in cui avevo lasciato poco prima i due.
«C’è qualcuno qui?» chiesi ad alta voce, spazientito. Dove diavolo si erano cacciati?
«Siamo qui.» Sentii la voce di Roy provenire dal bagno.
Mi affrettai in quella direzione e d’innanzi mi si pararono l’aspirante Red Arrow e Felicity abbracciata a lui.
«Che sta succedendo?» chiesi confuso.
«Avevo bisogno di andare in bagno. Peccato che da sola fosse leggermente impossibile.»
L’effetto del calmante era passato. Felicity era perfettamente in sé e aveva pronunciato quella frase pungente senza neanche guardarmi in faccia.
«Felicity…» dissi il suo nome, senza sapere come continuare la frase.
«Roy, vai a vedere il pc. Dovrebbe aver finito di esaminare i filmati con le impostazioni che gli abbiamo dato.» si rivolse a Roy, ignorandomi volutamente.
Roy l’aiutò a tornare a letto dove lei si coricò girandosi dall’altra parte e dandomi le spalle. La sua indifferenza e completa volontà di ignorarmi mi ferì profondamente.
«Oh cazzo!» mi girai istintivamente a quella esclamazione. «Capo, mi sa che abbiamo un problema. Vieni a vedere.» mi disse Roy.
Mi avviai ai pc, sentendo Felicity che chiedeva ragguagli su cosa avesse scoperto Roy.
«Le telecamere qua fuori non avevano registrato nulla di strano a parte il tuo ruzzolone giù per le scale, allora con l’aiuto di Felicity abbiamo impostato dei parametri di ricerca, hackerando i video di sorveglianza dei negozi più vicini. Guarda che stava succedendo in questo vicolo una ventina di minuti prima del tuo capitombolo!?»
Puntai gli occhi sul monitor e vidi Arrow combattere con una figura incappucciata di nero, impossibile distinguere se uomo o donna. Il combattimento si stava svolgendo in parità, finché l’incappucciato non mi colpì sul braccio a distanza ravvicinata con la punta di un dardo, per poi riprendersi la freccia e sparire nell’oscurità.
Mi toccai istintivamente il braccio, provando dolore. Pensavo di essermi procurato quel taglio in modo accidentale prima di cadere per le scale.
«Puoi ingrandire sul volto?»
«Oliver, ma possibile che devi sempre fare queste domande?» esclamò Felicity spazientita dal letto. «I pc possono fare tutto. Non tradiscono mai, a differenza delle persone.» aggiunse.
Voleva ferirmi, era chiaro.
Roy applicò lo zoom e il viso del mio assalitore comparve a tutto schermo. Aveva solo gli occhi scoperti. Sembrava una donna.
I tratti non erano occidentali.
 

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Capitolo 5
*** Dolci chiarimenti ***


Erano passate alcune ore da quando Oliver era stato drogato con qualche misteriosa sostanza e se l'era presa con me e le mie povere ossa. I lividi dolevano ancora ma era la sofferenza dell'anima a tormentarmi. Mi sentivo in colpa. Tremendamente, assurdamente in colpa. Oliver aveva già così tante preoccupazioni, stava già così soffrendo per la morte della madre e la lontananza non ben chiara della sorella, che certamente non aveva bisogno anche del mio distacco e del mio disprezzo. Poco prima che lasciasse nuovamente il covo, avevo sentito l'impulso di fermarlo e abbracciarlo, dirgli che non era colpa sua, che gli era stata iniettata una sostanza sconosciuta che aveva alterato il suo comportamento inducendolo a farmi del male. Perchè io sapevo bene in fondo la verità. La verità era che Oliver avrebbe dato la sua vita per proteggermi, figuriamoci farmi del male intenzionalmente! In quelle ultime ore, gli avevo letto negli occhi solo una profonda pena e un'autoflagellazione morale. Allo stesso tempo, sapevo anche che la fatidica sera dello scontro con Slade non mi aveva messa in pericolo volutamente, ma le sue azioni erano state dettate dalla profonda e cieca fiducia che riponeva nei miei confronti: Oliver non mi aveva consegnata a Slade perchè quest'ultimo teneva in ostaggio Laurel. Sarebbe stata la stessa cosa e Oliver avrebbe ideato lo stesso stratagemma anche se Laurel si fosse trovata al sicuro a casa Lance. Il punto era che io ero la sua partner e non c'era nessun'altra persona cui Oliver avrebbe affidato il destino della città a occhi chiusi. Non c'era nessun'altra orrenda spiegazione. Ora dovevo solo trovare il coraggio di dirglielo e smetterla di fare del male a lui e a me stessa.

«Quando vi chiarirete voi due?» Diggle intercettò il filo dei miei pensieri, chissà come. Lo guardai, sperando che fosse indulgente con la sottoscritta, ma sostenne il mio sguardo. «Non potete continuare in eterno ad ignorarvi e a guardarvi di sottecchi con tenerezza. Dovreste parlare e sistemare la faccenda, per il bene di tutti. L'aria sta diventando irrespirabile.»

«Lo so, Dig, ma lo sai come sono fatta. Mi ci va un po'.»

«Già. Ma come ben sai, Oliver batte tutti su questo piano e ora come non mai ha paura di ferirti e di sbagliare, qualunque cosa dica o faccia. Tocca a te andar da lui. Ricordi quella volta che litigaste al tuo ritorno da Central City? Mi liquidò in un nano secondo quella sera e non mi ci volle molto per capire che Oliver Queen stava solo aspettando che io levassi le tende per chiederti scusa. E sai benissimo che non è uno che lo chieda molto spesso. In effetti diciamo che non lo chiede mai. A meno che si tratti di te.» continuò il mio amico sorridendomi.

Radunai le mie cose, avviandomi un po' zoppicando verso la scala.

«Dove vai?»

«Vado a parlare con Oliver.» gli risposi ormai di spalle.

«Vuoi che ti accompagni? Ce la fai?»

«Non preoccuparti Dig, prendo un taxi. Devo sbrigarmela da sola.»

Sorrisi a me stessa, pensando che presto io e Oliver avremmo fatto pace e tutto sarebbe tornato come prima.

 

Guardai l'ora. Erano da poco passate le sette e si trovava sicuramente ancora in ufficio: l'occasione perfetta per parlare da soli e chiarirci.

Uscii fuori dall'ascensore a grandi passi, improvvisamente mi sentivo impaziente e con un grande peso sul cuore da togliermi.

Il piano era completamente immerso nel silenzio. Solo la tenue luce di una lampada da tavolo filtrava dalle vetrate dell'ufficio di Oliver.

Mi affacciai, cercando di dare un'occhiata senza essere vista.

Lui era lì, con la sedia appoggiata alla parete e la testa rovesciata all'indietro, sul viso la stessa espressione di quando io e Diggle l'avevamo trovato in un cantuccio del nuovo covo, la sera che aveva deciso di consegnarsi a Slade e farsi uccidere.

Sembrava perso. Triste. Malinconico.

Moira doveva mancargli parecchio, si erano riconciliati pochi istanti prima del loro rapimento e qualche ora prima che Slade la trafiggesse con la sua katana, la stessa che poi aveva appoggiato sul mio collo, quando io e Oliver l'avevamo giocato.

D'un tratto Oliver chiuse gli occhi, come scosso da un pensiero particolare, e si portò i palmi delle mani sul viso, stropicciandolo. Non ce la facevo più a vederlo in quello stato, dovevo fare qualcosa.

«Ehi.» entrai, sorridente, e chiudendomi la porta alle spalle.

Oliver staccò le mani dal suo volto e la sua espressione ne rivelò molto bene i pensieri. Sorpresa, gioia e preoccupazione.

«Che ci fai qui? Stai bene?»

«Sì sì, tranquillo. Volevo solo parlarti.»

«Guarda qua.» continuò, non dando segno di avermi sentita. Si avvicinò e posò la sua calda mano sul mio zigomo, facendomi arrossire. «Guarda che ti ho fatto.» aggiunse, con una grande pena nello sguardo, chiudendo ancora una volta gli occhi come prima che entrassi nel suo ufficio.

«Ehi, va tutto bene.» lo rincuorai, in un sussurro. Istintivamente portai la mia mano sulla sua e gliela strinsi. Oliver la rigirò e la prese nella sua, più grande e protettiva.

«Felicity...» La sua voce era roca e calda, un sussurro sulla mia fronte.

Ci guardammo, in silenzio. Nulla aveva più importanza per me, ora. Mi sentivo a casa.

Oliver mise l'altra mano sul mio viso, accarezzandomi.

«Ti fa tanto male?» mi disse dolcemente. «Ti prego perdonami, Felicity. Non ero in me. Non avrei mai voluto farti del male. Non farei mai niente che possa farti del male.»

«Lo so.» Gli sorrisi, portando a mia volta la mano sulla sua guancia e depositandovi una carezza. Odiavo vederlo soffrire, non lo meritava. Perchè non era l'Oliver Queen che tutti descrivevano. O meglio, probabilmente un tempo era stato quell'Oliver, ma ora era questo: una persona buona, una persona che soffriva, una persona che non meritava tutto quello che gli era successo, un eroe che per salvare la sua città e redimere se stesso, aveva pagato un dazio troppo alto. La sua anima.

Non riuscivo più a sopportare quella distanza, così la colmai e lo abbracciai, forte, stretto. Sapevo che lo voleva anche lui, solo che non era ancora in grado di fare quei gesti. Ma io potevo leggergli nel cuore e le sue braccia serrate attorno alla mia schiena mi diedero la conferma che cercavo.

«Smettila di star male per me, okay?» gli sussurrai all'orecchio. «Sto bene. Oddio, forse non scoppio proprio di salute, in effetti» Mi staccai da lui e lo guardai. Un sorriso sincero si era affacciato sul suo splendido volto. «Ma starò bene, d'accordo?»

Lui continuava a guardarmi e a sorridere annuendo, mi mise allora nuovamente una mano sul viso. E io restai lì impalata, con le mani aggrappate sulle sue braccia come fossero un appiglio. Poi il suo volto si oscurò di nuovo per un attimo.

«La scorsa notte mi hai detto delle cose...»

«Oh Oliver, dimentica quello che ho detto.»

«No, ascoltami. Io non avrei mai detto quelle cose... quella sera... se non fossi stato assolutamente costretto.»

«Lo so, tranquillo. Non devi preoccuparti.»

«No Felicity, tu non lo sai. Quello che ho detto, io...»

«Oliver, smettila di tormentarti, io sto bene, sul serio!» Rafforzai la mia presa sulle sue braccia e lo guardai intensamente. «Io. Sto. Bene. Lo capisci?»

Mi partì un risolino, ero riuscita a fare una battuta anche su quel momento, pazzesco!

Ad Oliver non sfuggì il riferimento, così gli scappò una risatina liberatoria. Guardò in alto e rilassò le spalle, sciogliendosele a mo' di stretching. Poi scosse la testa, come a dire che ero sempre la solita. Era così bello vederlo sorridere di nuovo! Con il viso rivolto ancora verso l'alto, abbassò lo sguardo e incatenò i miei occhi ai suoi.

D'un tratto uno squillo telefonico spezzò quel momento.

Il suo telefono.

Lo vidi osservare il display e accigliarsi, come scocciato.

«Scusami, devo rispondere.»

Annuii e mi allontanai, dandogli un po' di privacy, mentre Oliver si avvicinava alla finestra.

«Pronto?»

Non sentii chi parlava dall'altra parte, ma era sicuramente una voce femminile.

«Ehi, ciao! Si, tra poco arrivo.»

Sentii la voce femminile replicare con un tono piccato, infastidito.

«Ne parliamo dopo, Laurel. Ciao.»

Laurel! Certo! Cercai di non scompormi più di tanto, quando Oliver si voltò. Non volevo fargli capire che ci ero rimasta male.

«Scusami. Dicevamo?»

«Oh nulla, nulla d'importante. Ti lascio al tuo appuntamento, vado. Ciao.» esclamai, camminando all'indietro. Mi sembrava di essere un gambero che batteva in ritirata.

«Ehi! Perchè te ne vai così? Ti accompagno a casa!»

«Ma no, no!» urlai un po' più stridula del necessario. «Non serve, davvero. Prendo un taxi, tranquillo!»

«Non se ne parla minimamente! Prendi la tua giacca, ho la macchina qui sotto.»

«Ma Laurel...»

«Niente “ma”, Laurel aspetterà, non ti mando a casa da sola in questo stato.»

«D'accordo.»

Non era possibile discutere con Oliver Queen.

 

Stavo guardando fuori dal finestrino. Era così irreale essere seduta in macchina a fianco a Oliver, io e lui. Da fuori saremmo potuti sembrare una coppia. Sorrisi a quel pensiero, ma poi lo scacciai con tristezza, pensando che ciò non sarebbe mai potuto essere.

«Ho questa cena con Laurel, stasera.» esclamò improvvisamente Oliver, distogliendomi dalle mie fantasticherie e disillusioni.

Mi girai verso di lui, guardandolo.

«Ha insistito parecchio. Ha menzionato Tommy, Slade. Non ho proprio potuto dirle di no.»

Sbuffai, senza rendermene conto.

«Che hai?»

«Niente, perchè?»

«Ho sentito il tuo verso.»

«Hmm no.» mentii. «Sono solo stanca.»

«Tra poco siamo arrivati, tranquilla.»

«Già.»

Era proprio tipico di Laurel Lance parlare a quel modo con Oliver. La classica ex che pensa di poter vantare diritti in eterno, solo perchè è successo quello o quell'altro.

«Siamo arrivati.» mi disse Oliver d'un tratto.

«Oh.» Osservai con stupore l'edificio, all'interno del quale si trovava il mio appartamento, che improvvisamente si era materializzato davanti ai miei occhi. «Allora buonanotte.»

Ci guardammo sorridendo entrambi l'uno all'altra.

«Buonanotte Felicity. A domani.»

«A domani, Oliver.»

Chiusi la portiera della macchina e non mi voltai più indietro. Sentii l'auto ripartire solo quando ero entrata in casa e avevo acceso la luce. “Che gentiluomo”, pensai. Mi affacciai al balcone e vidi la sua auto sparire in lontananza. Via da me. Verso Laurel.

 

***

 

«Dig, ciao sono io. Ci sono novità?» Stavo sfrecciando sulle vie di Starling City e avevo appena attivato il bluetooth.

“Ciao Oliver, nessuna purtroppo. Il riconoscimento facciale non ha rintracciato alcun tipo sospetto arrivato all'aeroporto di Starling City nelle ultime quarantott'ore.”

«C'è qualcosa che ci sfugge, dobbiamo continuare a cercare.»

“Se c'è qualcosa lo troveremo. Tu che mi dici? Hai parlato con Felicity?”

«Non farmi domande di cui sai già la risposta, Dig!»

Diggle era un gran furbacchione e voleva farmi dire un po' troppe cose per i miei gusti.

“Okay, okay capo. Non insisto. Passi al covo?”

«Uhm, no. Sto andando a prendere Laurel.»

Il mio amico non replicò così continuai a spiegare. «Mi ha fatto intendere che aveva bisogno di una persona amica con cui parlare, si sentiva sola.»

“Se lo dici tu, Oliver!”

Silenzio. Sapevo che Dig non nutriva particolare simpatia verso la mia ex.

“Allora, mando Roy a pattugliare da solo?”

«Sì, lo raggiungo appena mi libero. A più tardi.»

“Niente dopo-cena quindi?” mi chiese con tono sardonico.

«Non avevi smesso di far domande?»

“A più tardi, Oliver. Goditi la cena.” concluse soddisfatto.

 

«Non noti niente?» Laurel, seduta al tavolo del ristorante di fronte a me, mi richiamò dal pianeta su cui mi trovavo in quel momento.

«Scusami, ero distratto. Dicevi?» Le rivolsi colpevolmente la mia rinnovata attenzione.

«Me ne sono accorta!» mi rispose tagliente. «Ti dicevo se non noti niente!?»

«Uhm...»

«I capelli, Ollie, i capelli.» esclamò rassegnata.

«Oh, certo.»

Laurel si era schiarita i capelli ora che ci facevo caso, era assolutamente definibile una bionda. Ma io preferivo altre bionde ultimamente. Un'altra bionda.

Il viso dolce di Felicity e la sua espressione serena mi rimbalzarono in testa, sostituiti poco dopo dal suo sguardo ferito quando aveva saputo che mi vedevo con Laurel. Improvvisamente, mi sentivo fuori posto lì. Non volevo farla soffrire ancora. Ricordavo ancora i suoi occhi tristi quando mi aveva colto in flagrante con Isabel. Avevo ferito lei, certo, ma così facendo avevo ferito anche me stesso.

«Ollie?»

«Sì, scusa.»

«Stasera non c'è proprio verso di avere la tua attenzione, eh?»

«Scusami, che stavi dicendo?»

«Ti stavo raccontando le ultime, che Sara è tornata e mi sta allenando duramente. Così un giorno, potrò unirmi a voi, finalmente!» mi disse entusiasta. La sola cosa che provai in quel momento, però, non fu gioia per averla tra le nostre fila, per vederla combattere al mio fianco, ma preoccupazione per come Felicity avrebbe potuto prendere una notizia del genere. D'altronde, non me la sentivo di ferire Laurel dicendole che non la volevo, ne aveva già passate tante negli ultimi due anni. Ma non ferire lei significava ferire lei.

Sospirai. Il telefono però si mise a squillare, salvandomi.

“Oliver, abbiamo un problema!”

«Che succede?»

Stavo con tutta probabilità per avere una scusa per sfuggire a quella cena.

“Sembra che la tua amica incappucciata abbia degli amici. Roy non ce la fa da solo.”

«Arrivo. Mandami le coordinate sul palmare così lo raggiungo.»

Riagganciai.

«Problemi?» mi chiese Laurel, una nota di speranza nel tono della voce. Sperava probabilmente che le dicessi di aiutarmi e venire con me.

«Devo andare. Ti chiamo.» La salutai, lasciandola lì al tavolo evidentemente imbronciata e delusa.

Uscii fuori dal locale, diretto veloce alla macchina, sul retro.

D'un tratto un movimento alle mie spalle mi fece voltare. Intravidi un'ombra muoversi nell'oscurità, poi venni colpito alle spalle da un calcio alla schiena. Crollai a terra, colto alla sprovvista.

«Ti facevo più forte!»

Una voce femminile, alterata da un distorsore. Non mi ero sbagliato, era una donna il misterioso killer dalle frecce velenose.

«CHI SEI?»

Non feci in tempo ad urlare quella domanda che un altro calcio mi piegò le gambe. Era troppo veloce, non avevo mai incontrato un avversario così agile.

Scorsi una spranga di ferro buttata vicino a un cassonetto, l'afferrai e la brandii immediatamente andando a segno una volta.

Il secondo colpo invece mi venne parato facilmente e ci ritrovammo faccia a faccia.

Il suo sguardo aveva qualcosa di famigliare.

«Ti vedo sorpreso, Oliver!»

La fissai, incapace di muovere un muscolo.

Chi diavolo era quella donna?

Ricominciammo a combattere vorticosamente, inseguendoci vicendevolmente.

D'un tratto l'afferrai alle spalle, strappandole il cappuccio e liberando una chioma nera selvaggia.

La donna si girò e inchiodò i suoi occhi neri sui miei.

Raggelai, capendo all'istante, ora che vedevo la fisionomia intera del volto.

«Piaciuto lo scherzetto dell'altra notte? Hai quasi ucciso la tua Felicity, Oliver! E questo è solo l'inizio.»

Si girò, scomparendo nell'oscurità e lasciandomi inebetito con il suo cappuccio in mano.

Quegli occhi.

Gli occhi di Shado.

 

 

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Capitolo 6
*** Sayuri ***


“Oliver?” sentii la voce di Dig nell’auricolare.
“Oliver? Che cazzo succede?” lo sentii ripetere.
«Tutto a posto Dig. Roy?»
“Pare che gli incappucciati se ne siano andati.”
«Ho appena incontrato la signorina Rottermeier, evidentemente ha chiamato a raccolta Clara, Heidi e Pete.»
“Non ti seguo.”
«Niente, lascia stare vecchio mio.  Non hai avuto una sorella più piccola che viveva di cartoni animati. Ascolta, vediamoci al covo tra poco. Chiama anche Felicity, dobbiamo prepararci.»
 
Arrivai al covo e li trovai tutti lì. Felicity stava medicando Roy, che si era ferito nello scontro con gli incappucciati, e Dig li fissava a braccia conserte.
«Lo sai che hai un futuro come infermiera?» le stava dicendo il ragazzino.
Felicity era arrossita. «Piantala, Roy, e stai fermo, altrimenti mi sbaglio e ti faccio male.»
«Non sarebbe una cattiva idea.» esordii piantandomi di fronte a loro. «Se vuoi restare nel team, Roy, dovrai abituarti a ben di peggio e dovrai anche imparare a cucirti da solo.»
«Perché? Hai una prelazione personale per essere ricucito da Felicity?»
«Oddio.» sentii esclamare Dig sottovoce, guardando in alto.
Mi fermai, incerto se impartire una lezione a quel bambino o lasciar correre. Optai per la seconda. «Abbiamo problemi più gravi ora.»
«Di che si tratta?» La mia partner mollò ago e filo e mi rivolse la sua completa attenzione.
«Abbiamo un nuovo nemico in città. Una donna.»
«E figuriamoci!» si lasciò sfuggire Felicity. «La conosci?»
«No…» risposi incerto. «O meglio sì…»
«Sì o no, Oliver?» mi chiese Diggle.
«Non ne sono sicuro. Aveva anche lei un  cappuccio. Quando ci siamo scontrati, sono riuscito a levarglielo e per un attimo avrei giurato di aver visto Shado.»
«Aspetta, la Shado di Slade? Quella Shado?» intervenne la mia esperta infortmatica.
«Sì.»
«Ah. Ma non è morta quando tu hai scelto di salvare Sara?» La guardai alzando un sopracciglio, come per ringraziarla di avermelo ricordato. «Ops… scusa, non riesco mai a starmene zitta. Comunque, la donna alla quale quel dottore ha sparato in testa, no?» La guardammo tutti e tre. «Scusate» alzò le mani, «ma non c’era nessun modo per dirlo carinamente.»
«Sì, quella Shado.» tagliai corto. «Ma come hai detto tu, Ivo le ha sparato a distanza ravvicinata e io ero lì. L’ho vista morire e l’ho sepolta con le mie mani. Il punto è che la somiglianza era impressionante ma non era lei. Gli occhi però erano i suoi, dolci e gentili.»
Felicity guardò in aria. «Sì, ricordo che l’hai detto anche a Slade quando mi aveva rapita. Me ne stavo lì con una katana appoggiata sul collo a sentir parlare della dolcezza e bontà di questa donna. Ciò che tutti sognano in punto di morte!» Dig ridacchiò e Felicity si girò di nuovo verso i suoi computer.
«Quindi, hai qualche idea su chi fosse?» mi chiese il mio autista.
«Non lo so, Dig. Gli occhi erano i suoi ma non era lei. Non so spiegarvelo.»
«Beh, credo che le spiegazioni siano due: o ha fatto una plastica oppure è la gemella cattiva, succede così nei telefilm, no?» intervenne nuovamente Felicity.
«Tu guardi troppe soap opera, bionda!» La schernì Roy.
«Chi, io? Ma avete presente di chi state parlando? Segretaria di giorno e spia internazionale di notte. Spiegatemi dove troverei il tempo.»
«Esiste lo streaming, ragazza IT, non dirmi che non lo sai.»
In risposta, Felicity gli fece la linguaccia. Ero esterrefatto, Roy stava flirtando con lei! Cosa gli faceva pensare di poter avere quel diritto? Quel giochino tra quei due doveva finire il più presto possibile.
«Dobbiamo restare concentrati. Non è il momento ora di pensare a queste idiozie.» esclamai.
«Scusa, era per alleggerire un po’ l’atmosfera.» mi rispose Roy, scanzonato.
«Ricordamelo, perché ho deciso di allenarti!?» Lo guardai in cagnesco, fronteggiandolo.
«Me l’hai detto qualche giorno fa, non rammenti? Per poter appendere l’arco al chiodo e sentirti libero di vivere la tua vita come e con chi preferisci, o sbaglio?» Mi guardò divertito e io notai con la coda dell’occhio che Felicity aveva girato parzialmente il viso, interessata alla nostra conversazione.
«Okay, adesso basta bambini.» intervenne Dig. « Ti ha detto cosa vuole questa donna?»
Mi rivolsi verso di lui, dando le spalle al ragazzo con la felpa rossa. «Mi ha chiesto se mi fosse piaciuto lo scherzetto fatto a Felicity e mi ha detto che questo non era che l’inizio.»
Vidi Felicity girarsi lentamente verso di noi, spaventata. «Quindi, aveva preventivato che dandoti quella sostanza ti saresti rivoltato contro di me!?»
«Già.» ammisi sottovoce, fissandola.
«Quindi…»
«Quindi, non sei al sicuro vicino a me.»
«Ma Oliver…» iniziò a protestare.
«Nessuna obiezione Felicity. Finchè questa storia non sarà conclusa, non posso rischiare di metterti nuovamente in pericolo, quindi dovremo stare a debita distanza. Roy si occuperà della tua protezione.» dissi a malincuore.
«Evvai, non vedo l’ora!» esclamò Roy, guadagnandosi una mia occhiataccia.
«Come vuoi.» replicò lei, voltandosi amareggiata davanti ai suoi monitor.
Dig mi prese allora da parte. «Sei sicuro sia la soluzione migliore?»
«Non ho scelta, Dig. Da quello che ha detto quella donna, ha intenzionalmente colpito Felicity. Non so come abbia funzionato quella sostanza, ma so solo che…»
«… Che te la sei presa con la persona a te più cara.» Dig finì la frase per me.
«Non posso rischiare che succeda di nuovo. Roy è abbastanza forte da proteggerla e tu veglierai su di loro, vero?»
«Oliver…» iniziò a replicare il mio amico.
«Dig, per favore. So che stai per diventare padre e sei spaventato e preoccupato per Lyla, ma il pensiero che possa succedere qualcosa a Felicity…» lasciai la frase in sospeso.
«D’accordo, capo.» Dig mi mise una mano sulla spalla, tranquillizzandomi.
«Grazie. Soprattutto non mi fido moltissimo di quel ragazzino.» sussurrai abbozzando nella sua direzione.
«Barry 2 la vendetta?» mi chiese divertito Diggle.
«Che vuoi dire?»
«Niente, niente. Andiamo a casa ora. Dobbiamo dormire un po’.»
 
***
Mi alzai felice quella mattina. Era il compleanno di Roy. Finalmente, avremmo avuto una scusa per distrarci dai pensieri su quella donna misteriosa e far festa. Sì, una festa. Avevo costretto Oliver a far ritornare casa Queen agli antichi splendori. Ormai erano passati parecchi mesi dall’ultima volta che quella villa aveva ospitato un party. Era stata la volta in cui Oliver mi aveva sorpreso chiamando Barry. Io e lui avevamo ballato un lento dolcissimo ma qualche giorno dopo era finito in coma. Ora si era svegliato ma, a quanto sembrava, aveva già qualcuno al suo capezzale: Iris, stando alle farneticazioni di Cisco. Story of my life: nessuno si interessava mai più di cinque minuti alla sottoscritta. A parte queste considerazioni, gli ultimi giorni erano stati molto difficili. Roy si era piazzato sul divano di casa mia, come se fossi una sorvegliata speciale, e al povero Diggle era nuovamente toccato il sedile della sua macchina, in strada. Ovviamente c’era lo zampino di Oliver, dubitavo che Diggle potendo scegliere avrebbe volontariamente abbandonato il pancione della sua forse prossima non più ex moglie per venire a fare da sentinella alla sottoscritta. Che poi, io Oliver proprio non lo capivo. C’era già Roy con me, perché cavolo dovevamo disturbare anche Diggle? Ovviamente Mr Queen non aveva ammesso nulla e Dig mi aveva liquidata con un “Lo sai com’è fatto!”, per cui caso chiuso come al solito.
Schizzai in cucina per preparare le frittelle, volevo fare una sorpresa a Roy. Mi faceva così tanta tenerezza, dopo l’abbandono di Thea. Non che Roy fosse uno che, in generale,  facesse tenerezza, perché una ragazza vedendolo non era certo la prima parola a cui pensava, però ecco quell’espressione da cucciolo smarrito e quegli occhioni chiari e limpidi facevano tenerezza, abituata com’ero alle pozze blu torbide di qualcun altro.
Distolsi la mia mente da quel pensiero, proprio in tempo per venir sollevata verso l’alto.
«Io ti adoro, Felicity Smoak!»
«Ehi, piano! Mi stai stritolando!» gli risposi ridendo.
«Oggi è il mio compleanno e tu mi hai svegliato col profumo di queste deliziosa frittelle. Mmm…» Ne addentò una gustandosela e rivoltando gli occhi all’indietro come se fosse stata l’ottava meraviglia del mondo. «Dio, ampfvevo dimenticato quanto fosshero buone!» bonfonchiò con la bocca piena. «Io. Ti. Amo. Giuro!» continuò.
Arrossii. «Piano con le dichiarazioni. Sono parole un po’ troppo inflazionate ultimamente.»
«In che senso?»
«Lascia perdere.» risposi evasiva.
«Ehi Fel, siamo amici! Forza, sono tutt’orecchi!»
«Oliver mi ha detto “ti amo” quella sera.» risposi controvoglia.
«Che cosa???»
«No, no. Che vai a pensare!?» Mi sentii di precisare vedendo la sua espressione scioccata. «Era tutta una messinscena per sconfiggere Slade.»
«Sì, certo.»
«Roy, dico davvero.» insistei.
«Senti, io ho poi saputo del suo cavolo di piano di farti fare da esca, però questa non la sapevo. Non penso fosse nei piani.» continuò afferrando un’altra frittella.
«Che intendi?»
«Beh, ti ha detto che Slade aveva preso la donna sbagliata, no?»
«Sì.» risposi iniziando a capire doveva voleva andare a parare.
«Eh, e allora non aveva bisogno di fare quell’aggiunta. Era già credibile così secondo me.»
«Oliver non voleva correre rischi, in quel momento. Slade poteva non crederci fino in fondo.»
«Se per questo infatti non mi pare che Oliver sia un contaballe professionista!» mi incalzò.
«No, non lo è. Quella sera è stato parecchio bravo a entrare nella parte.»
«Un po’ troppo, forse.» mi guardò, socchiudendo un occhio, come uno che la sapeva lunga.
«Dai su, finisci quelle frittelle che io ho un party da organizzare, caro mio. E si dà il caso che il party in questione sia proprio per questo idiota che mi sta davanti.» Lo afferrai per il collo e gli strofinai il mio piccolo pugno sulla testa.
«Agli ordini, Raperonzolo!»
«Come mi hai chiamato!? Vieni qua che ti prendo!» iniziai a rincorrerlo per il salone con la spatolina delle frittelle in mano.
«Guarda che non era mica un insulto. È solo perché hai quella lunga coda bionda!» replicò, dirigendosi velocemente verso la porta del mio ingresso e spalancandola.
Usciti dalla soglia di casa, ci imbattemmo in Oliver. Ci fissò. La sua espressione passò dallo stupito, al triste, al sorridente in modo forzato.
«Abbiamo interrotto qualcosa?» mi chiese.
«Ma no, è quello stupido di Roy che… oh è uno stupido, non c’è altro da dire!»
«E tu sei Raperonzolo!» lo sentii replicare di rimando mentre si infilava in macchina, la stessa in cui il povero Diggle aveva passato la sua comodissima notte.
Scossi la testa, Oliver mi guardò non cogliendo il riferimento e mi disse con fermezza di andare a chiudere la porta di casa che per distrazione avevo lasciato aperta. Poi si infilò in macchina a fianco a Diggle. Non proferì parola per tutto il tragitto verso la Queen Consolidated, ma io ero seduta dietro di lui e potevo scorgere sul vetro  il riflesso del suo bel viso triste e tormentato, mentre guardava fuori dal finestrino.
 
***
Non era successo nulla no? Felicity e Roy stavano solo giocando, non li avevo colti in flagrante dopo una notte di passione come era capitato a lei, in Russia, con me e la Rochev, eppure qualcosa dentro di me bruciava e faceva male. E sapevo cos’era. Era l’averla vista sorridere davvero, averla vista come poteva essere tutti i giorni, se la sua altra vita non l’avesse risucchiata in un vortice continuo di eventi. Era la consapevolezza dell’essere un bieco egoista che se avesse avuto un briciolo di coraggio l’avrebbe allontanata facendole vivere la sua vita. Quello era ciò che avrei dovuto fare, invece non ci riuscivo e così relegavo me e lei in quel limbo che era la nostra esistenza, fatta di condivisione di tutto tranne che dell’unica cosa che avrebbe contato veramente. Guardai fuori dal finestrino e promisi a me stesso per l’ennesima volta che, se fossimo riusciti a uscirne anche stavolta indenni da quel nuovo attacco nemico, l’avrei lasciata andare. Almeno uno dei due doveva vivere. Anche per l‘altro.
 
***
La colpii con il mio bastone alle costole ma Sayuri non fece una piega.
«Bel colpo, Malcolm. Ma non abbastanza da impensierirmi.»
Era davvero una grande combattente. Neanche Nyssa al Ghul avrebbe potuto competere con lei e dire che Sayuri non era mai entrata nelle fila della Lega. Aveva imparato a combattere chissà dove in Cina, ma forse erano più le sue motivazioni personali a darle quella forza. Se c’era una cosa che avevo imparato in tutta la mia vita era che nessun guerriero poteva aver l’ambizione di diventare un grande combattente, senza una spinta interiore, una molla che lo spingesse al di là dei suoi limiti, fino alla perfezione.
«Come sta andando l’allenamento di tua figlia?» si interruppe, prendendo un po’ d’acqua.
«Sta imparando, ma è ancora troppo attaccata alle sue radici.»
«Sono passati solo cinque mesi Merlyn, non puoi pensare di farne una guerriera in così poco tempo.»
«Non è quello che mi impensierisce. Mi spaventa di più l’attaccamento al fratello.»
«Thea è giovane, sono pochi anni che ha imparato ad amare Oliver. Sarà più facile e veloce del previsto, credimi. Devi solo farle vedere tutte le sue menzogne. Quando avrà conosciuto gli orrori, le bugie che lui ha compiuto e raccontato, non le sarà difficile odiarlo quasi quanto noi.»
«Già.» conclusi. Poi riprendemmo ad allenarci.
 

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Capitolo 7
*** Vuoi essere il mio +1? ***


Il party iniziava alle 22.00. Erano le due del pomeriggio e io non avevo ancora nulla da mettermi. Approfittai di una riunione di Oliver con un investitore per sgattaiolare fuori dalla Queen Consolidated e fare un salto alla boutique sulla Sixth Avenue, poco distante dall’ufficio.

«Signorina Smoak! Che piacere rivederla.» esordì una delle commesse.

«Eh sì, buongiorno.» Ovviamente per loro era un piacere che fossi diventata un’habitué del loro atelier, per il mio portafoglio molto meno, ma fortunatamente Oliver mi pagava sufficientemente per permettermi qualche vestito importante. D’altronde, la segretaria di Oliver Queen non poteva certo accompagnarlo in giro vestita con una camicetta informale, gonna infeltrita e mocassini bassi! Sorrisi ripensando alla vecchia me. Solo due anni prima, scorrazzavo a piede libero proprio con delle mise del genere, ma ovviamente non potevo più permettermelo ora. Il fatto di voler vedere la reazione di Oliver e non sfigurare a fianco alle gambe chilometriche di Laurel Lance non c’entrava niente. Assolutamente niente. Che poi, santo cielo, quella ragazza era veramente troppo magra! Nell’ultimo anno era ancora più dimagrita tra la storia dell’alcol e tutto il resto, ma evidentemente tanti uomini apprezzavano quel tipo di magrezza. Sicuramente Oliver era il tipo d’uomo in questione. A questo pensiero, il sorriso mi si spense e ripensai al motivo per cui mi trovavo lì.

«Senta, questa sera ho un party. Avrei bisogno di un vestito lungo. Avete qualcosa di… non so… scintillante?»

«Che faccia colpo su qualcuno?» mi strizzò l’occhio la signora.

«Oddio, se vogliamo metterla in questi termini… beh no, cioè sì, insomma… che mi stia bene.»

«Non si preoccupi, ho capito che genere sta cercando. Venga, le faccio vedere gli ultimi arrivi.»

«Ecco, questa è la parola chiave! Non vorrei correre il rischio di avere lo stesso vestito di qualcun’altra.» le precisai.

«Una rivale?»

«No! No! Solo, ha presente l’imbarazzo di ritrovarsi ad una festa con lo stesso vestito di un’altra? Tipo Samantha Jones e Miley Cyrus in “Sex and the City”?»

La commessa mi guardò come se le si fosse accesa una lampadina nel cervello. «Oh, sì certo. Terribile!»

«Ecco, vorrei evitare una scena del genere.»

«Ma sicuro, non si preoccupi. I nostri capi sono esclusivi.»

Quella parola mi tranquillizzò e iniziai a provare decine di abiti, ma nessuno mi convinceva appieno. D’un tratto sentii suonare il telefonino.

«Roy? Tutto okay?»

“Ciao Raperonzolo!”

«Ancora con questa storia?» Finsi di arrabbiarmi.

“E dai, Smoaky Smoak! Dove sei?”

«In un atelier. Sto provando un vestito per stasera.»

“Sei incredibile! Ma se ne hai ottocento di abiti!”

«Ma non quello giusto per stasera!» trillai.

“Oh, così mi fai sentire importante!”

Arrossii. Fortuna che non mi poteva vedere. Roy aveva quello strano tipico modo di parlare che fa imbarazzare una ragazza, anche perché insomma… non era un caso se Sin lo chiamava Abercrombie!

“Senti bionda, Dig è lì con te vero?”

«Ehm… veramente no.» ammisi.

“Stai scherzando vero?”

«No. Sono sgattaiolata via dall’ufficio mentre Oliver andava in videoconferenza.»

“Okay, non ti muovere!”

«Roy, non è il caso…» iniziai a protestare.

“Non ci pensare neanche Smoakey. Se Oliver scopre che sei lì senza protezione, mi ammazza. E poi devo comprarmi uno smoking anch’io.” replicò. “C’è il reparto uomini lì?”

«Sì.» confessai controvoglia.

“Mandami il local su whatsapp che ti raggiungo.”

«Agli ordini capo!»

“Suona bene!” mi rispose ridendo, poi riagganciò.

 

«Felicity, vuoi uscire da lì?» mi incalzò Roy. Io però ero troppo imbarazzata dall’abito che indossavo in quel momento. Non mi sentivo a mio agio con tutte quelle zone scoperte. «Se non esci da lì entro 3 secondi, ti vengo a prendere io.» minacciò. Io non risposi e così lui iniziò il count down. «Uno… due… due e mezzo…»

«Okay, okay esco.» esclamai rassegnata, trascinandomi la coda dell’abito fuori dal camerino.

«W-wow.» tartagliò Roy. Vidi come mi squadrava dall’alto in basso e viceversa, la mascella spalancata. «A-accidenti.» continuò incespicando con le parole.

Mi guardai allo specchio ed effettivamente non ero affatto male. Avevo un abito smanicato, accollato, che dal nero acceso sfumava ad un verde intenso in un turbinio di strass, lungo fino ai piedi con taglio a sirena, schiena completamente nuda e uno spacco vertiginoso. Chiudevano il quadro delle decolleté a stiletto verde smeraldo.

Roy intanto era lì dietro a raccogliere la sua mandibola da qualche parte. Ridacchiai. «Pensi di riprenderti?» ammiccai, ma mentre glielo chiesi mi resi conto in quel momento che anche il mio amico aveva trovato il suo abito, uno smoking nero sciancrato e leggermente metallizzato, completato da un papillon nero e scarpe di vernice.

«Oh.» riuscii a dire. «Potresti prendere il posto di Daniel Craig un giorno.» esclamai.

Roy scoppiò a ridere e io lo seguii, ciononostante i nostri occhi vagavano ancora reciprocamente sulle nostre figure, con stupore nel vedere l’altrui trasformazione.

«Vuoi farlo secco, eh?»

«Chi?»

«Oliver!» sorrise ammiccando, mettendo una mano in tasca come un modello consumato. Abercrombie, eccolo lì!

Divenni istantaneamente paonazza e mi ripetei interiormente come un mantra che nessuna fibra del mio essere aveva pensato alla possibile reazione di Oliver Queen mentre provavo quel vestito. Fortunatamente, venni salvata dall’arrivo della commessa.

«Oh mio Dio!» esclamò, battendo le mani. «Siete favolosi! Sembrate usciti da un red carpet. Prendete questi vero?»

Roy e io ci guardammo, scoppiammo nuovamente a ridere e confermammo all’unisono. Mentre ci avviavamo verso la cassa, venni colpita da un pensiero. Mi vergognavo a dirlo, ma il mio amico viveva ancora a The Glades, come poteva permettersi un completo come quello? Roy notò il mio sguardo insistente verso l’etichetta in bella vista del suo smoking.

«Tranquilla bionda, Oliver mi ha assunto.» mi bisbigliò all’orecchio, mettendomi una mano sul braccio.

«Ma non mi dire!?»

«Oh, già. Facchino tuttofare.» mi spiegò.

«Capisco.» replicai sollevata.

«Senti, stavo pensando… visto che ormai sono sprovvisto di un’accompagnatrice e tu di un accompagnatore, se non mi sono perso qualcosa, ti andrebbe di essere il mio +1?» Non potei fare a meno di notare il suo sguardo velato di tristezza in quel riferimento a Thea.

«Che? Al massimo tu puoi farmi da +1, visto che io faccio parte del team originale.» scherzai, per sdrammatizzare.

«Uffaaaa. Ancora con questa storia? Pensavo che l’avessimo superata!» esclamò, fingendo di essere spazientito.

«E va bene Roy, ma se diventi un’altra volta un mirakurato non ne voglio sapere più nulla, okay?»

«Promesso.»

 

Ero tornata al mio posto, Dig e Oliver fortunatamente non avevano notato la mia assenza di circa due ore dalla mia postazione. Ne era valsa la pena, però. Ovviamente non stavo affatto pensando al fatto che io e Roy assieme avremmo potuto competere egregiamente con Oliver Queen e Laurel Lance, alias re e reginetta d’inverno a probabilmente tutti i balli studenteschi della Starling High School. Ovviamente lungi da me l’idea di far ingelosire Oliver. Oddio, forse una puntina… No, assolutamente no! Che poi fosse stato ancora con Sara, probabilmente non avrei fatto questi pensieri su di lei, lei era veramente una tosta! Una coi… controcazzi, ecco. Cioè, non è che facessi i salti di gioia, okay, però Sara era Sara… Non so, mi piaceva alla fine! Persa in questi pensieri, non mi accorsi della porta dell’ufficio di Oliver che si stava spalancando.

«Fe-li-ci-ty!» Se aveva scandito il mio nome, probabilmente era la terza volta che mi stava chiamando.

«Oh, sì, scusa. Che c’è?»

«Dove sei stata?»

«Hmm… qui?» risposi esitante e quasi chiedendo a lui conferma della validità della mia affermazione.

«Felicity, okay che ero girato verso il muro perché ero in videoconferenza, però me ne accorgo se non ci sei.»

Sorrisi arrossendo come una stupida a quell’esternazione. Oliver se ne accorse e giurai di averlo visto indietreggiare impercettibilmente, come un cagnone impaurito dal gattino. «Nel senso… che mi sono girato un attimo e ho visto che non c’eri.» si affrettò infatti a precisare.

«Ho avuto un’emergenza in… bagno.» Oddio, che scusa patetica.

«Un’emergenza di due ore?»

«Cose da donne, vuoi i dettagli?»

«No, lasciamo perdere.» mi rispose col suo solito sorriso che spuntava alle mie battute ridicole. «Mi pareva di averti detto che dobbiamo un po’ lavorare sulle tue scuse.» bisbigliò sorridendo.

«Sto imparando dal migliore.» replicai, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

Oliver inarcò un sopracciglio, allora mi resi conto che forse poteva aver pensato che mi stessi riferendo alla sua recita per giocare Slade.

«Non intendevo…» iniziai a incespicare saltando sulla sedia. Solo lui riusciva a rendermi così nervosa. Oliver sorrise, alzando gli occhi al soffitto, e fece per tornare al suo ufficio.

«A proposito... com’è andata?»

Si fermò sulla porta.

«Con l’investitore, intendo.» specificai.

«Bene, pare che la Wayne Enterprises sia interessata a investire nella Queen Consolidated. Il signor Grayson mi è parso molto fiducioso in merito.»

«Grayson? Credevo che la Wayne Enterprises fosse gestita da Bruce Wayne.»

«Sì, di nome lo è ancora, ma pare che Mr Wayne si stia ritirando dagli affari in prima persona e stia dando tutto in gestione al suo pupillo, Dick Grayson.»

«Oh, capisco.» conclusi.

«Se ho convinto l’amministratore delegato della più grande società di Gotham City, ce la possiamo fare.»

«Certo che ce la faremo. Siamo una squadra.» gli ricordai.

Dig sorrise e gli mise una mano sulla spalla. Oliver distese a sua volta la bocca per poi rientrare nuovamente nell’ufficio del, se tutto andava bene, prossimo presidente della Queen Consolidated.

 

 

 

 

Scusate l'aggiornamento un po' cortino ma sono malataaaaa quindi ho preferito mettere un po' a posto quello che avevo già scritto invece di scrivere cazzate nuove... pronti per il party e l'arrivo di Dick Grayson? Chi non avesse mai sentito questo nome, wikipedizzi...... ;) 

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Capitolo 8
*** Il party - prima parte ***


Erano le 22.30. Il bello di essere il +1 del festeggiato, o meglio avere il festeggiato come +1, come avevo puntualizzato ironicamente a Roy, era l’assoluto dovere di arrivare in ritardo. E dovevo ammettere che questo fatto solleticava giusto un pochetto il mio ego femminile. Una donna deve farsi attendere, no? Cioè, non che io dovessi far attendere qualcuno in particolare, era un pensiero così… campato per aria, giusto?
 
Il telefono squillò, Roy era arrivato. Diedi un’ultima occhiata allo specchio di casa e la figura che questo mi restituì mi confortò. Avevo optato per un make-up anni Trenta, quindi occhi leggeri ma con un tocco di eye-liner e abbondante mascara, e bocca sgargiante, un rosso magenta per la precisione. I capelli erano mossi e raccolti da un lato, come quella volta che mi ero infiltrata in un casinò sotto copertura. Mi girai da un lato, spostando la coda del mio abito con la mano. Dio, quello spacco forse era un po’ esagerato, per non parlare della schiena completamente nuda! Ma ormai non si poteva tornare indietro! A meno di inventare un mal di testa improvviso… Sì, poteva essere una soluzione… Il nuovo squillo di Roy però mi riportò alla realtà. Bando alle ciance Felicity, a casa ci saresti rimasta un’altra volta! Infilai il cappotto e uscii dal mio appartamento.
 
Arrivata sotto, vidi Roy appoggiato a una macchina nera sportiva, gambe incrociate e mani in tasca. Sembrava veramente James Bond con quello smoking. Lo vidi fissarmi con apprezzamento per poi ridacchiare improvvisamente.
 
«Ho qualcosa in faccia?» gli chiesi, passandomi istintivamente una mano sul viso.
 
«No, Smoakey sei perfetta. Rido perché prima o poi dovrai toglierti quel pastrano.»
 
«E allora? Oddio, faccio così tanto schifo?»
 
«Felicity, sei bellissima, te lo assicuro! Il fatto è che io so cosa c’è lì sotto, mentre gli altri ancora no!»
 
Arrossii a quel commento.
 
«Ma no dai! Che hai capito!?» mi guardò con aria divertita. «Intendo dire che so com’è fatto quel vestito che ti stai tanto ostinando a coprire. Ma prima o poi dovrai mostrare a qualcuno di nostra conoscenza quella schiena nuda e quello spacco infinito.»
 
«Roy, non mi stai aiutando.» Rinsaldai la presa sul mio cappotto, come a proteggermi. Perché diavolo non avevo messo un abito più castigato!?
 
«Ehi, se non l’hai capito, era un complimento. Hai un corpo sexy, amica, e il fatto che tu non ne sia consapevole ti rende molto dolce… e ancora più sexy ovviamente.» disse piegando la testa da un lato. «Vedrai appena ti vede… non mi stupirei se andasse subito a mettersi il costume di pelle e avessi poi addosso Arrow tutta la sera!» concluse ridacchiando.
 
«Roy, piantala! Oliver e io siamo solo… amici. E poi avrà occhi solo e soltanto per Laurel.»
 
«Sì, certo. Beh se rimanere amici era il tuo scopo, hai sbagliato abito!» ribatté facendomi l’occhiolino. «Monta in macchina, su. Siamo già in ritardo a sufficienza.»
 
«Inutile chiederti dove l’hai presa.» gli dissi indicando l’auto sportiva.
 
«Inutile, esatto.» Sorrise, confermando il furto a chissà quale miliardario. «Non fare quella faccia, Smoak, è il mio compleanno! Tra poche ore la restituirò immacolata al legittimo proprietario! E poi parla l’hacker internazionale!»
 
Non riuscii a replicare, effettivamente se avessi fatto la conta di tutti i sistemi federali in cui mi ero infiltrata, la mia fedina pensale non avrebbe più avuto neanche un misero pezzetto bianco.
 
 
***
 
Dove diavolo erano finiti? Del ritardo del festeggiato mi sarebbe anche importato poco, se non fosse stato che il suddetto doveva andare a prendere Felicity. Sapevo che la scelta di farli venire assieme era assolutamente sbagliata, avrei dovuto oppormi fin dall’inizio e accompagnarla io, invece Dig mi aveva fatto desistere.
 
«Stai calmo, Oliver. Saranno qui a momenti!» Come se mi avesse letto nel pensiero, Dig si era materializzato al mio fianco e mi aveva dato una rassicurante pacca sulla spalla.
 
«Dovevo fare di testa mia, invece ti ho dato retta ed ecco il risultato.» gli risposi tra i denti.
 
«E allora? Temi che si siano appartati da qualche parte?» Mi guardò sospettoso, sorridendo. Io  mi limitai a restituirgli uno sguardo assassino per poi sbuffare. Fortunatamente vidi entrare Laurel e… Sara!! Non ero mai stato così contento di vederle.
 
«Ehi, ciao!» Ne approfittai per smarcarmi da Diggle. «Sara, non sapevo fossi tornata!» esclamai nel salutarle.
 
«Pensavo che Laurel ti avesse informato del fatto che la stavo allenando.» rispose, guardandoci confusa.
 
«Sì, gliel’ho detto ma ultimamente non ci sta con la testa, vero Ollie?» replicò Laurel con un sorriso ironico.
 
«Hai ragione. Scusami.» Per un attimo ebbi un dejavous, ogni volta che stavo con una delle sorelle Lance tornavo al passato. Con Sara rivivevo gli orrori dell’isola che avevamo condiviso e quanto a Laurel, lei aveva sempre la capacità di farmi fare la parte del ragazzino immaturo e bugiardo che ero stato un tempo, il ragazzino che fortunatamente non ero più da un pezzo. C’era solo una persona con cui sentivo di poter essere completamente me stesso, il nuovo me stesso, e sfortunatamente non era né Laurel né Sara.
 
Scacciai quel pensiero inopportuno e cambiai argomento. «Come sta vostro padre?» Il detective Lance era rimasto gravemente ferito la notte del combattimento finale con Slade. Era rimasto in prognosi riservata per parecchi giorni, ma a quanto sapevo, o meglio a quanto sapeva Arrow, non era ancora rientrato in servizio.
 
«Si sta lentamente riprendendo. A parte le fratture, è stato il versamento pleurico la principale fonte di problemi in questi mesi, ma se tutto va bene dovrebbe tornare al lavoro la prossima settimana.» mi rispose Laurel, con uno sguardo sereno. Evidentemente il detective si stava davvero rimettendo in salute.
 
«Bene.» le risposi sorridendo. D’un tratto, un vociare proveniente dall’entrata di casa Queen mi distrasse. Il festeggiato e la sua accompagnatrice dovevano essere arrivati. Mi scusai con le mie due ex ragazze e mi avviai veloce all’ingresso.
 
Vidi la testa di Roy spuntare tra un manipolo di persone e dei boccoli biondi dietro di lui. Registrai il cappotto lungo di Felicity e sorrisi alla vista del suo sorriso timido. Quanto era dolce. Poi Roy l’aiutò a sfilarsi il giaccone e a quel punto rimasi di sasso, sconvolto dalla visione di quella giovane donna poco distante da me. Era bellissima. Un vestito che  virava dal nero al verde avvolgeva le sue curve sinuose sino a terra, i suoi esili e delicati piedini erano in equilibrio su tacchi vertiginosi, verdi anche quelli. Ma fu quando fece un passo verso il guardaroba, per sistemare il cappotto che Roy aveva malamente appeso, che rimasi gelato: la sua falcata rivelò infatti uno spacco vertiginoso e la sua candida schiena era completamente esposta in una scollatura che fortunatamente si chiudeva poco prima dell’inizio del fondoschiena. Avrebbero dovuto proibire vestiti del genere, pensai deglutendo a fatica. Con lo sguardo risalii la sua figura e notai che pure il collo era nudo, poiché i capelli erano stati legati lateralmente in soffici boccoli.
 
«Cerca di dissimulare un po’ il tuo apprezzamento, quando si avvicinerà.» mi bisbigliò all’orecchio Diggle sghignazzando. Lo vidi andarle incontro e salutarla facendole qualche complimento. Io ero ancora fermo nell’esatto punto del pavimento di qualche minuto prima. Fu Roy a distogliere il mio sguardo.
 
«Capo, troppo occupato a guardare Felicity o mi fai gli auguri?»
 
«No, ma che dici. Stavo guardando… la porta! Mi sembra che cigoli!» esclamai con un colpo di genio patetico. «Comunque auguri, Roy!» lo abbracciai, dandogli una vigorosa pacca sulla schiena che lo fece tossire. Così imparava! Lo sguardo che mi restituì mi fece intendere che aveva capito. Mi sganciai da Roy e mi diressi verso di lei, cercando il più possibile di contenermi.
 
«Felicity!» esordii con un tono di voce più roco di quello che avrei voluto. «Finalmente ce l’avete fatta!» Da vicino era ancora più bella. Aveva un trucco leggero sugli occhi e due labbra scarlatte che avrebbero fatto girare la testa anche a un morto.
 
«Ciao Oliver. Sì, scusate il ritardo.» Mi sorrise e l’attimo dopo arrossii, mentre io la fissavo. Sentii il sangue andarmi al cervello.
 
«Vieni, da questa parte.» Le feci cenno verso la sala che avevamo allestito per la festa e nel farlo le misi involontariamente la mano sulla schiena. Non una grande mossa, perché la mia mano toccava una pelle morbida e vellutata e ora non voleva staccarsi, mentre lei sembrava turbata dal mio tocco. Riluttante la lasciai andare, lei si voltò e mi guardò tristemente, provocandomi una fitta di rimpianto poco sopra il costato. Poi si mischiò alla folla e iniziò a salutare gli altri invitati.
 
Mi appoggiai al camino con il gomito e continuai a fissarla. Ero terrorizzato dal fatto che qualcuno potesse avvicinarla e fare il cascamorto con lei, non avevo mai provato un senso così forte di proprietà privata come in quel momento.
 
«Dig!» lo chiamai, facendogli un cenno col capo. Lui mi osservò e capì cosa stavo per chiedergli.
 
«Ah no, non ci provare amico! Stasera te la dovrai cavare da solo. Se vuoi che qualcuno marchi a uomo Felicity, quel qualcuno dovrai essere tu.» E così dicendo, se andò da dov’era venuto.
 
Strinsi le labbra spazientito e sbuffai.
 
«Dovresti essere un po’ più felice, sindaco
 
Mi girai. Laurel, con un bicchiere di succo di frutta in mano.
 
«Scusa?» La guardai con aria interrogativa.
 
«Mi hanno appena chiamato dai seggi: la votazione di domani sarà una formalità, i sondaggi parlano chiaro. Sei al 72%.»
 
«Settantadue?» Strabuzzai gli occhi.
 
«Esatto. Anche grazie a qualche bella e brava ragazza che si è data da fare.» si avvicinò, sussurrandomi all’orecchio con fare seducente.
 
Indietreggiai, mettendole le mani sulle braccia, come a voler ripristinare una certa distanza. «Non saprò mai come ringraziarti, Laurel, davvero.»
 
«Potresti invitarmi a cena un po’ più spesso, tanto per iniziare.» ammiccò sorridente.
 
«Laurel.» La guardai con tenerezza. «Ne abbiamo già parlato, non sarebbe una buona idea. Sono successe troppe cose. Io ci tengo a te, ma credo che dovremmo restare solo amici.»
 
«Sì, certo. Forse hai ragione tu.» replicò con una tristezza malcelata. «O forse, no. Chi lo sa?» Si allontanò indietreggiando, con un sorriso spavaldo. Se la conoscevo bene, non si sarebbe arresa così facilmente. E la conoscevo benissimo.
 
Mi diressi al bancone dove servivano drink e ordinai un bicchiere di whisky. Mi girai col bicchiere in mano a osservare gli invitati e il mio sguardo venne immediatamente catturato da uno scintillio verde-nero. Felicity era incredibile quella sera. Anche volendo, sarebbe stato impossibile toglierle gli occhi di dosso. La osservai mentre rideva alle battute di Roy, mentre gli metteva una mano sulla spalla con fare complice e provai invidia, un’invidia cieca per quel ragazzo. Con me era sempre tesa, mai rilassata o giocosa come in quel momento. Poi vidi Roy circondarle la vita con un braccio e d’istinto mossi un passo nella loro direzione, ma mi fermai. Che diavolo avevo intenzione di fare? Spaccare i denti a quel ragazzo? Che diritto avevo di intromettermi nella sua vita? Lei era libera di frequentare chi voleva e, se avesse scelto Roy, io avrei dovuto accettarlo.
 
Tornai sui miei passi e, con un groppone in gola, decisi di finire quel drink in camera mia. Mi sentivo solo. Thea se n’era andata, la mamma era morta, il mio amico Tommy era morto, e Felicity un giorno o l’altro sarebbe stata di qualcun altro. E la cosa peggiore era la consapevolezza che volente o nolente fossi stato io la causa di tutte quelle morti, separazioni e allontanamenti.
 
Ero solo e destinato a essere solo. E nessuno poteva farci nulla.
 
 
Fine prima paaaaarteeeeeeeeeeeeeeeeee!!! Diventava troppo lunga se no… troppa carne al fuoco!!! E non volevo tagliare delle scene x condensare tutto!! A presto con la seconda parte!!! ;)
 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** In un flash ***


Stavo parlando con Dig, Roy e Sin, quando volsi nuovamente gli occhi al punto dove avevo visto Oliver poco prima, ma non era più lì. Feci vagare lo sguardo per la stanza, mentre Roy mi teneva abbracciata e scherzava con gli altri due ma non lo scorsi da nessuna parte. Mi scusai allora con i miei amici e uscii dalla sala per cercarlo in giardino, forse era uscito a prendere una boccata d’aria. Lo chiamai ma non ottenni risposta, feci per voltarmi e tornare indietro quando con la coda dell’occhio notai un bagliore dal balcone del piano superiore. Forse Oliver era in camera sua. Non che io vi fossi mai stata per asserire con certezza che la stanza illuminata fosse proprio la sua, ma perché avrebbe dovuto entrare in un’altra in effetti? Rientrai, facendo attenzione a non incastrare il vestito nei ciottoli del patio e mi diressi alla scala di legno per salire al primo piano. Percorsi il corridoio fino alla camera in questione e mi accorsi subito che la porta era socchiusa. Istintivamente assunsi un passo felpato e mi avvicinai di soppiatto all’uscio per spiare all’interno, senza essere vista.
 
Oliver era seduto sul letto, si era tolto la giacca dello smoking e il cravattino. Un’espressione sconsolata era dipinta sul suo bel profilo. In grembo teneva una foto incorniciata che accarezzava con una mano. Forse una foto di Moira. O di Thea. O di Tommy. Speravo solo non si trattasse di Laurel, ma in fin dei conti perché accarezzare una sua foto visto che l’interessata era al piano di sotto e avrebbe potuto accarezzarla di persona?
 
Aprii leggermente la porta per vederlo meglio. Oliver era completamente assorto nei suoi pensieri e non si accorse della mia presenza. Lo vidi portarsi il dorso di una mano sul viso, come a scacciare una lacrima inopportuna e, a conferma di ciò, guardò in alto, inspirando forte dal naso e deglutendo un groppone amaro. Il mio cuore sussultò, triste per lui, annientata interiormente al vederlo in quello stato.
 
D’un tratto Oliver si alzò e con la foto ancora in mano andò verso la porta-finestra, lo sguardo perso nel vuoto. I miei occhi percorsero la sua figura sofferente e riuscii a scorgere le persone nella foto che ora era girata nella mia direzione: era un ritratto di famiglia, ma la scatto era spontaneo e raffigurava lui assieme a Moira, Robert e Thea. Potevo solo immaginare la grande pena che poteva albergare in lui: i genitori erano morti entrambi e tutti e due davanti ai suoi occhi e la sua tenera e dolce sorellina l’aveva abbandonato da parecchi mesi senza dare più notizie di lei.
 
Non sopportando oltre quella vista, entrai piano nella stanza, chiudendomi la porta alle spalle per estraniare il mondo circostante. Mi diressi verso di lui e gli presi la mano libera, stringendola forte nella mia. Oliver non si scompose, probabilmente coi suoi sensi vigili si era accorto già da tempo della mia silenziosa presenza, e, senza voltarsi, serrò la presa.
 
«Sono solo. Se ne sono andati tutti.» Lo sentii esclamare dopo non so quanti minuti che teneva le nostre dita intrecciate.
 
«Oliver.» Gli girai dietro le spalle e lo abbracciai da dietro, incrociando le mie braccia sul suo petto e appoggiando la guancia sulla sua schiena. Volevo che sentisse che ero lì con lui e che questo non sarebbe mai cambiato. Ben presto però, registrai anche la sensazione di sentire quell’addome scolpito sotto le mie mani e una vampata di calore mi invase dal basso.
 
«Promettimi che almeno tu non mi lascerai mai. Promettimelo Felicity.» mi rispose d’un fiato, appoggiando i palmi delle mani sulle mie ancora ancorate ai suoi addominali.
 
«Oliver.» mugolai senza volerlo.
 
Lui si voltò e i suoi occhi incatenarono i miei. «Promettimelo.» ribadì, prendendomi il viso tra le mani.
 
«S-sì.» incespicai nelle mie stesse parole.
 
Iniziai a guardargli forsennatamente le labbra, lui fece lo stesso con le mie. Era un continuo sali-scendi dalla bocca agli occhi. Ci stavamo avvicinando sempre di più, poi lui fece qualcosa che mi sconvolse letteralmente i sensi: posò una delle sue mani calde sulla mia schiena nuda, quasi all’inizio del sedere e mi trasse a sé facendo aderire il mio corpo al suo. Mille immagini di lui nudo si infilarono nella mia mente mentre diventavo cosciente dell’eccitazione che la mia vicinanza aveva suscitato nel suo corpo, ma poi venni distratta dal pollice della sua mano libera che scese dalla guancia alle labbra, strofinando via il mio rossetto.
 
«Oddio, Felicity.» mormorò con una voce roca che non riconoscevo come sua. «Non posso. Non posso.» continuò a ripetere, lamentandosi e toccandomi ancora le labbra. «Non posso. Non posso. Ti prego, vai via. Vai via. VAI VIA!!!!» ruggì, scostandomi da parte.
 
Lo guardai, senza capacitarmi di quello che era accaduto e stava ancora accadendo.
 
«Felicity, se non te ne vai…» iniziò a dire, ma non ne ebbe il tempo perché vidi un’ombra saltare giù dal balcone e lanciai un grido, indicando in quella direzione. Oliver si voltò e d’istinto spalancò la porta-finestra. Osservammo l’ombra muoversi velocemente nel giardino, per poi arrampicarsi sulla cinta muraria che si ergeva attorno a casa Queen. Poi si girò a fissarci. Era un uomo, con una tuta di pelle nera  e una specie di V azzurra disegnata sopra, che dal petto si irradiava fino alle braccia. I capelli erano corti e parevano neri. Li vidi fluttuare nell’oscurità, attorno al viso coperto per metà da una mascherina nera. Poi, con un balzo, sparì nella notte, oltre il parapetto.
 
 
****
 
«Stai bene?» le chiesi per sincerarmene.
 
«S-sì, tutto okay.» mormorò in un sussurro. L’abbracciai istintivamente per rassicurarla, accarezzandole quella testolina bionda che tanto mi faceva impazzire.
 
«Chi era?» mi chiese Felicity tra le mie braccia.
 
«Non lo so.» le risposi sottovoce. Non riuscivo a staccarmi da quell’abbraccio. Farlo voleva dire affrontare quello che era successo poco prima della comparsa di quello sconosciuto impellettato: le mie mani sul suo corpo, mentre sempre più malamente controllavo i miei impulsi.
 
«Sarà meglio che torni di sotto.» Felicity si staccò e mi inchiodò sul posto con i suoi occhi limpidi e cristallini, poi mi sorrise. «Scendi anche tu?»
 
«Sì.» le sorrisi si rimando, annuendo.
 
La vidi appropinquarsi alla porta e decisi di dire qualcosa. «Felicity, per quello che è successo prima…»
 
«Non parliamone più, Oliver.» Mi sorprese con quell’affermazione. Cosa aveva voluto dire? Forse era ancora legata a Barry e non voleva approfondire la questione? Sentii una fitta al cuore e lei colse il mio disagio.
 
«Ti sei fermato.» aggiunse.
 
«Sì. Io…»
 
«Lo so perché.»
 
Istintivamente, ripensai al nostro discorso di ritorno dalla Russia. Se solo avesse saputo a chi pensavo realmente mentre mi trovavo in quella camera con Isabel! Colsi nel suo sguardo mille sfumature, ma poi ne riconobbi una in particolare: lei sapeva. Sapeva che non avrei mai potuto permettere a me stesso che lei diventasse la mia debolezza. Il problema, però, era che non sapeva che lei lo era già. E che se solo avesse superato lei quel confine che io avevo eretto faticosamente attorno a me stesso, tutti i miei muri sarebbero crollati e io l’avrei fatta mia anche in quel momento, nel mio letto, sul pavimento, ovunque ci fossimo trovati.
 
Non aggiunsi più nulla e lei si voltò lentamente verso la porta. La visione di quel sedere piccolo e sodo fasciato da quel tessuto verde mi annebbiò la vista e un famigliare senso di possesso di impadronì nuovamente di me.
 
«Cerca di stare bene esposta alla luce quando scendi.»
 
Si girò a guardarmi, senza capire.
 
«Ci sono troppi angoli bui in questa casa e troppi invitati a questa festa che non conosco. E quel vestito… beh credo sia illegale in molti paesi.»
 
Un delicato rossore le imporporò le guance e la vidi sorridere imbarazzata a quel complimento. Era ancora più bella quando si intimidiva a causa mia. Ma io che diavolo stavo facendo?  Stavo flirtando con lei adesso?
 
Felicity si girò completamente verso di me, quel movimento scostò lo spacco del suo vestito e la sua gamba tornita e flessuosa si rivelò a me completamente. Annaspai.
 
«Oh santo cielo.» mormorò, avvicinandosi. Che cazzo stava facendo anche lei? La vidi guardarmi il petto e istintivamente abbassai la testa. Nell’abbracciarla poco prima così stretta, il residuo di quel rossetto che le avevo trascinato via col mio pollice si era stampato sulla mia camicia. «Forse sarà meglio sciacquarla un attimo.» mi disse. E l’attimo dopo mi stava slacciando i bottoni con le sue manine delicate. C’era qualcosa di molto intimo in quel gesto. Sì, teoricamente l’aveva fatto centinaia di volte quando ero sceso nel covo ferito e lei mi aveva aiutato a liberarmi dal mio costume per medicarmi. Ma un conto era togliermi il costume di Arrow per necessità mediche, un altro era slacciarmi la camicia bianca di uno smoking. Dopo avermela aperta completamente, la tirò oltre le spalle per sfilarmela, sfiorandomi il torace con i polpastrelli, e in quel momento si fermò, come avesse realizzato solo allora la situazione. «S-scusa. Fai tu.» mi disse, allontanandosi, come scottata improvvisamente dal tocco della mia pelle.
 
Mi sfilai lentamente la camicia di fronte a lei, che ormai paonazza in volto guardava in tutte le direzioni possibili pur di non soffermarsi su di me. «Ecco.» le dissi porgendogliela. «E ora?»
 
Me la prese di mano velocemente senza guardarmi negli occhi e si diresse nel piccolo bagno della mia camera per passarla sotto l’acqua. Vidi il suo profilo scuotersi mentre strofinava la camicia con il sapone.
 
«Stavo pensando che il tuo vestito è verde Arrow.» le dissi. Okay, ero completamente andato.
 
Lei non mi rispose e continuò a strofinare, sciacquò quel pezzo di stoffa e lo mise contro luce per osservare il risultato. La macchia era sparita. Tornò allora verso di me e velocemente mi porse la camicia, per poi sgattaiolare fuori dalla mia camera senza più guardarmi o parlarmi.
 
«Grazie!» le dissi, mentre chiudeva la porta. La sentii scendere veloce gli scalini e iniziai a riallacciarmi i bottoni. Potevo solo immaginare quali pensieri la agitassero in quel momento. Ora dovevo solo calmarmi e tornare anch’io alla festa.
 
 
 
Era notte fonda e la festa era ormai finita. Avevo dato la nottata libera ai miei amici, ma Arrow non aveva ancora finito la sua giornata. Avevo troppo bisogno di distrarmi da tutto quello che era successo con Felicity e il modo migliore era prendere arco e frecce e pattugliare. Non avevamo avuto più visite da nessun incappucciato e nessuna donna somigliante a Shado. Quella tranquillità iniziava a insospettirmi, come se qualcosa bollisse in pentola, ma non riuscivo a capire cosa.
 
Mi appollaiai su un tetto, per osservare i rumori della città e cogliere qualche movimento sospetto.  Stavo per mettere la mascherina ed essere così pronto a scattare, quando una folata di vento si agitò alle mie spalle. Una scia luminosa che non riuscii a decifrare mi passò a fianco.
 
Cercai di mettere a fuoco chi o cosa fosse, ma non vi riuscii. Poi il movimento cessò e una famigliare voce alle mie spalle richiamò la mia attenzione.
 
«Ciao Oliver.»
 
Mi voltai.
 
Barry Allen.
 
«Che diavolo…?» non feci in tempo a formulare la domanda che sparì dalla mia vista in un turbine rosso.
 
«Sono quassù.» Mi girai e lo vidi in cima a un palazzo vicino, col cappotto che ondeggiava al vento. Come accidenti era possibile? Poi sparì nuovamente e si materializzò davanti a me, spaventandomi. «Era più facile mostrartelo che raccontartelo.»
 
«Ma tu…? Ma che cavolo…? Com’è possibile?»
 
«Non lo so. So solo che quel fulmine mi ha colpito e io sono andato in coma, poi mi sono svegliato con gli addominali scolpiti e con la capacità di muovermi alla velocità della luce.»
 
Lo guardai scioccato, senza capire.
 
«Per cui, eccomi qui. Speravo mi potessi aiutare…»
 
«Aiutare?»
 
«So che una volta eri un assassino ma poi hai trovato un modo… e sei diventato un eroe. Vorrei mettere il mio potere al servizio di tutti ma non sono sicuro di come farlo. Voglio dire… e se non fossi un eroe?» mi incalzò. «Se fossi solo un ragazzo colpito da un fulmine?»
 
Era sconvolto, dovevo trovare le parole adatte. Lo guardai, pensando a cosa dirgli. Poi ripensai a Yao-Fey e capii in quel momento che aveva solo bisogno di una guida e di qualche parola di conforto.
 
«Non credo che quel fulmine ti abbia colpito, Barry. Credo ti abbia scelto, perché tu possa ispirare le persone, vegliare sulla tua città come un angelo custode. Puoi fare la differenza… e salvare le persone.» Feci una pausa voluta. «In un flash.»
 
Mi voltai verso il parapetto, colto da un altro pensiero improvviso. «Ti do un consiglio. Indossa una maschera.»
 
«Figo.» mi rispose.
 
Feci per andarmene, ma Barry mi fermò.
 
«Come sta Felicity?» mi chiese il ragazzo.
 
«Bene. La conosci, è Felicity.» replicai, sorridendo. «Sono certo che sarà felice di sapere che sei venuto a trovarla.» aggiunsi tristemente.
 
«Non sono qui per lei.» ribatté. «E sappiamo entrambi per chi batte il suo cuore.» mi disse duramente.
 
Lo guardai deglutendo.
 
«Ti chiedo solo di non ferirla.»
 
«E’ complicato.» gli precisai.
 
«Non lo è se provi qualcosa per lei.»
 
«Io la amo.» gli risposi, tremando a quell’ammissione così risoluta. Non l’avevo mai detto prima d’ora manco a me stesso con così tanta fermezza. «Ma non posso stare con lei.» conclusi tristemente.
 
«Se non lo farai, prima o poi arriverà qualcun altro. Magari qualcuno che faccia la tua stessa vita, ma che non abbia tutte le tue remore.» mi disse. «Pensaci.»
 
Poi sparì in una scia luminosa, lasciandomi su un tetto di Starling City a meditare.
 
 

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