La Trilogia del Castigo

di mrdancedance
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Per amore ***
Capitolo 2: *** Respirando ***
Capitolo 3: *** Quando si cade ***



Capitolo 1
*** Per amore ***


Per amore


Quando vidi quel sorriso sul volto di Eva, capii che era successo qualcosa. Stava venendo verso di me, quasi fluttuando nel chiarore della luna. Le mani reggevano un oggetto dalla forma sferica, che non riuscivo ad identificare, proprio all’altezza del cuore. I lunghi riccioli rossi ondeggiavano ad ogni passo, come tante foglie autunnali smosse dal vento. Delle gocce di sudore ne facevano brillare la pelle; la bocca socchiusa lasciava intravedere il biancore perlaceo dei denti. Una sfumatura nuova s’intravedeva nei suoi occhi, una sfumatura terribilmente brillante.

Quando incrociammo gli sguardi, lei si morse il labbro inferiore, come imbarazzata. Sbatté le ciglia un paio di volte e poi, arrivata ad un passo da me, si fermò.
La sua mano venne ad accarezzare i capelli che mi cadevano sulla fronte.
“Che cosa fai?” le chiesi a voce bassa.
“Ti tocco” rispose sussurrando.
“E perché?”
“Perché ho scoperto che mi piacciono le cose belle, e tu sei bello, proprio come questa mela.” Disse, mostrandomi il frutto che teneva vicino al petto.
Non capii bene cosa intendesse con quell’affermazione, ma già da un po’ di tempo avevo intuito quanto la donna sia una creatura incomprensibile.
“Le daresti un morso con me?” la sua voce risultò flebile, fragile, timorosa di un rifiuto. Inclinò la testa di lato e scoccò un’occhiata veloce alle mie labbra.
“Dove l’hai presa?”
Eva allargò un sorriso divertito. “Dove crescono normalmente le mele.”
“E perché dovrei farlo?”
Lei ci pensò un po’ su, poi sospirò e optò per una risposta semplice e vincolante.
“Per amor mio.”

 
***

Ieri sono andata alla polizia, e ho detto tutto. Salendo i gradini mi sono resa conto di essere ancora indecisa ma poi, in una sorta di ricordo color vinaccia, ho rivisto gli ultimi tre anni passati assieme.
Ho percorso i corridoi del comando con più decisione del previsto, ho spalancato la porta che conduceva all’ufficio del comandante e ho spifferato l’indirizzo del nascondiglio di quel disertore.
Non che non l’amassi più, anzi, era solo che… solo che…
I suoi sorrisi imbarazzati nell’udire una mia battuta si erano fatti sempre più rari, sempre meno contagiosi; la delicatezza con cui le sue labbra si posavano sulle mie si era trasformata in una bramosia ossessiva e… quei suoi occhi! Quei suoi occhi luminosi erano via via sbiaditi in una tenebra opprimente.

No, com’era comprensibile, Valentin non aveva voluto andare in guerra e alla chiamata alle armi aveva risposto con una veloce fuga. Ogni cosa era stata venduta, dalla casa alle industrie dello zio, dai vestiti d’alta sartoria all’orologio che gli avevo regalato per il suo ventesimo compleanno. Non si era tenuto nulla e aveva comprato un piccolo appartamento semi-arredato, ben incastrato tra una fabbrica di poltrone e un vicolo di poveracci senza cibo. Si era rinchiuso là e non ne era uscito più.
L’angolo di soffitto sopra il suo nuovo letto era stato ricoperto di mie fotografie color seppia. Ogni volta che facevamo l’amore, quelle immagini erano là a farmi rabbrividire, a rendermi inquieta. Mi facevano sentire un oggetto, un idolo di fragile porcellana che non doveva essere toccato con troppa forza, che poteva essere maneggiato solamente dal proprio accolito.
Quelle foto mi rendevano morta. Insulsi ricordi di momenti deceduti che non sarebbero più ritornati, ed ogni singola bocca mi sussurrava ‘sei sua, sua, sua, sua…’
Valentin diceva che gli piaceva addormentarsi ammirando i miei tratti, raccontava quanto adorasse svegliarsi e trovarmi lì, sopra di lui, come un angelo. Ogni giorno, dopo aver fatto l’amore, diceva che non poteva vivere senza di me, che io ero l’unica, la sola, che non avrei mai potuto lasciarlo perché non lo avrebbe sopportato. Io rimanevo zitta mentre le sue dita tremanti pettinavano i miei capelli. Gli davo le spalle, ma sapevo che aveva la bocca semiaperta e che, nel riflettere su quanto doveva dire, i suoi occhi correvano lungo la mia colonna vertebrale lievemente inarcata, proprio al centro della schiena.

“Sì, sei l’unica… sei mia… resta con me fino a morire d’amore!” allora io mi giravo, lo fissavo, lo studiavo. Le sue pupille parevano dilatate e i capelli, ora troppo lunghi, lo facevano sembrare un uomo di strada. Aveva perso chili su chili e non toccava il cibo che gli portavo ogni santo giorno; non lo tirava neanche fuori dalla borsa. Lo sforzo più grande che faceva era quello di spostarsi dal letto alla poltrona rossa, vicino al tavolino con tre gambe invece di quattro. Si accendeva una delle sigarette di contrabbando che io gli procuravo e soffiava il fumo verso di me. “Mi nutro della tua bellezza, e questo mi basta. Sei tu la mia ossessione!”

Il comandante mi guardò con aria rilassata; un sigaro in mano pronto per essere acceso. La divisa blu un po’ sbiadita lo fasciava come un salame incredibilmente rotondo, i baffi troppo folti gli solleticavano il naso e le guance rosse gli donavano un’aura d’allegria alcolica.
“E lei, com’è venuta a conoscenza del domicilio di questo disertore?”
Me ne rimasi zitta per un po’, osservando i bottoni dorati troppo tirati della sua giacca.
“Quasi per caso…”
“Era il suo amante?” chiese senza lasciarmi il tempo di parlare.
“No!” lui abbassò il sigaro spento e incrociò le dita delle mani, per niente ansioso di doversi sorbire una mia bugia. “No, non lo era… lo è ancora.”
“Ah!”
Aveva grandi occhi azzurri, estremamente limpidi, curiosamente vispi. Non smise di guardarmi nemmeno per un attimo. Mosse la bocca in una smorfia da ruminante, poi si lisciò velocemente i pochi capelli neri.
“E se ci sta ancora insieme, perché viene a denunciarlo?”
Per qualche brevissimo istante pensai di aver commesso una gran stupidaggine, ma in realtà non potevo sopportare quel senso di possessione che mi circondava ogni volta che entravo in quella stamberga, ogni volta che mi cingeva in un abbraccio, ogni volta che rivedevo quelle mie foto, disposte a centinaia sopra il letto. Io ero nata libera.
“Per amor mio.”

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Capitolo 2
*** Respirando ***


Respirando

 

"Per amor mio" gli dissi respirando un po' più affannosamente.
"Per amor…" I suoi occhi azzurri tremavano. Raggi di luna li investivano facendoli brillare come schegge di stelle.
Rimasi in silenzio, in attesa.
Portai la mela all'altezza della bocca e la baciai. Con le labbra riuscii a percepire quella superficie terribilmente liscia, paurosamente rossa. Mi chiamava con forza sovrumana e i miei denti volevano a tutti i costi poter saggiarne la polpa candida, leggermente farinosa.
La allungai ad Adamo. Un colpo di vento mi scosse violentemente i capelli.
"È… è… davvero molto…"
"Bella! Sì, lo penso anch'io." Gli sorrisi. Stava iniziando a capire cos'avevo provato io nel vederla appesa al ramo di quell'albero.
"Già, bella."
La sua mano arrivò ad accarezzare la pelle lucida del frutto e, per qualche secondo, riuscii a percepire il suo cuore battere più velocemente. Le pupille gli si allargarono e un'espressione quasi inebetita si posò sul suo volto.

 

***


Capii che si trattava di lei dal rumore secco che i suoi tacchi producevano sbattendo contro gli scalini di legno che conducono al mio appartamento. Indossava le scarpe rosse, indubbiamente; le indossava spesso da un po' di tempo, quasi troppo spesso.
La porta scricchiolò nell'aprirsi. Una mano bianca emerse dall'ombra per trasformarsi pian piano nella donna più bella che avessi mai incontrato.
Indossava una camicia nera, luttuosa, un po' troppo chiusa sul davanti. Una gonna rossa come le scarpe illuminava l'aria della stanza in cui stavamo. Aveva il respiro un po' pesante.
"Ciao tesoro!" Mi drizzai sulla poltrona e tirai una lunga boccata dalla sigaretta "Cosa mi hai portato di bello, oggi?"
Corinne si bloccò di colpo e, ergendosi in tutta la sua splendida altezza, scoccò uno sguardo atroce, che mi mandò in pezzi il cuore. Si portò le mani sui fianchi e con un colpo di tacco sbatté la porta.
"Cosa ti ho portato? Niente, Valentin, niente…" Mi si avvicinò, ma sempre tenendosi ad una distanza di sicurezza.
"E perché? Amore mio? Vieni. Vieni qui, sulle mie ginocchia, a spiegarmi…" e con le mani mi lisciai i pantaloni.
In risposta, scosse la testa ed andò a prendersi un bicchiere d'acqua nell'angolo cucina.
"Non ti ho portato nulla perché tanto non avresti mangiato nulla!" esclamò, senza degnarmi di uno sguardo.
Bevve, si passò una mano tra i capelli, bevve un altro sorso, posò il bicchiere sul ripiano porta stoviglie, ma lo posò con eccessiva energia e lo ruppe.
"Merda!" si accucciò a raccogliere i frammenti che splendevano sul pavimento lurido. Si tagliò un dito e se lo leccò. Buttò tutto nell'immondizia, poi tornò verso di me.
"Senti…" Respirava ancora troppo velocemente, come se non si fosse più ripresa dalla salita delle scale. Il petto le si abbassava e le si alzava freneticamente. I due seni sembravano riempirsi e prosciugarsi di una sostanza sconosciuta, ma che io desideravo ardentemente assaggiare.
"Sì?"
"Io…" Guardò verso il letto; si soffermò sulle sue foto, come faceva sempre. Credo le abbia sempre amate molto, o meglio, che abbia sempre amato essere così al centro delle mie attenzioni.
"Sì?" ripetei ancora. Continuava a torturarsi le mani con una crudeltà furiosa. Il taglietto lasciava ancora fuoriuscire qualche goccia scarlatta, ma lei sembrava non accorgersene.
"Io…"
Mi alzai e andai ad avvolgerla con le mie braccia. Un profumo di rosa mi penetrò fino al cervello. La sua soffice consistenza pareva così delicata, così effimera.
Le sollevai il mento e la baciai, la baciai con una delicatezza che da anni non mi riusciva più. La baciai con passione, passione pura e semplice, passione eterna.
Una lacrima salata scivolò dal suo occhio sinistro e andò a colpire le mie labbra secche; l'assaggiai nel bacio e mi ritrovai a fremere di piacere.

 

***


L'addentai con forza. A stento riuscii a superare la buccia, ma una volta dentro mi sentii immersa in un bagno di piacere. Del succo delicato fuggì dalle mie labbra e mi accarezzò la pelle fino al mento, per poi cadere sul mio petto latteo.
Una dolcezza superba mi sconvolse la bocca e lungo la spina dorsale corse un fremito gelido.
I miei occhi dovettero tradire ciò che provavo, perché Adamo allungò, affamato, la mano e mi strappò via il frutto.
Lo vidi mordere con ingordigia. Lo vidi mordere una, due, tre volte. Si fermò per un momento e guardò il cielo; respirava a fatica. Poi attaccò di nuovo e affondò ripetutamente nella mela. Quando riemerse, residui di polpa decoravano metà del suo viso.
Sembrava in estasi, un'estasi amorosa. Respirava a fatica.

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Capitolo 3
*** Quando si cade ***


Quando si cade

 

Quando le due bocche si staccarono, le lacrime di Corinne avevano ormai smesso di cadere. Gli occhi erano rossi, il trucco sbavato. Una riga nera le partiva dall’occhio sinistro per andarsi a disperdere nel rosato della guancia.

Valentin si leccò le labbra per tentar di catturare quel sapore intenso che l’aveva invaso fino ad un attimo prima. Afferrò le mani dell’amata e le strinse, senza volerlo veramente, un po’ soprappensiero. Sentì la pelle liscia sotto i suoi polpastrelli, se la immaginò sbiancare per la pressione che stava subendo. Poi lasciò la presa.

“Mi… mi spiace…” esordì Corinne, mandando il silenzio in mille pezzi “Io… io ho dovuto… farlo.”

Valentin non parve comprendere. La guardò incuriosito e si chiese il motivo di quel balbettio così poco aggraziato.

“Che cosa?” la domanda rimase sospesa nell’aria, inespressa. Un rumore di passi furiosi sulle scale congelò la scena in una silenziosa attesa.

Qualcuno bussò alla porta. Tre colpi possenti, pesanti. La donna si volse; le mani giunte, nervose. Bussarono ancora, altre tre volte. I due amanti si osservarono.

“Ti amo.” Si sentì sussurrare il ragazzo.

La porta venne sfondata e schegge di legno volarono ovunque. Un gran fracasso fece strada ad una decina di poliziotti che, nelle loro divise blu scuro, si posizionarono di fronte alla coppia.

 

***

 

Un tuono senza lampo annunciò l’inizio della fine.

Nel cielo sopra le loro teste, miliardi di stelle si erano nascoste dietro il manto soffice di nubi oscure. Il vento si era placato di colpo, lasciando spazio ad un insensato gelo.

Eva si strinse le braccia e con fare inquieto cominciò a massaggiarsi le membra intorpidite. Adamo aveva lasciato cadere la mela e se ne stava immobile, rigido, lo sguardo perso in un limbo di stordimento. Aveva morso il frutto, l’aveva morso più e più volte e poi… poi… poi aveva scorto la sua compagna, sua moglie, l’unica donna che condividesse con lui il mondo circostante. Se ne stava nuda di fronte a lui. Svergognata, spudorata, senza vesti a nasconderle ciò che andava nascosto.

Quando finalmente riuscì a riprendersi, si sentì orribilmente spoglio e osservato. Eva sembrava tranquilla ma, com’era possibile che lo fosse? Non sentiva tutti quegli occhi puntati su di loro? Non si vedeva oscenamente svestita? Non…

Un tuono, un altro. Di lampi neanche l’ombra.

Un cavernoso mormorio parve farsi largo nel sottosuolo e un nuovo boato squarciò la volta celeste.

Infine arrivò la pioggia, una pioggia talmente violenta da sradicare alberi enormi, da scavare buche immense, e da investire in pieno le due creature, farle scivolare al suolo, travolgerle, spingerle, sommergerle.

Adamo si sentì soffocare. La gola gli si era riempita d’acqua e fango e gli occhi non riuscivano più a distinguere nulla. Eva si lasciò trasportare placida. Certo, era terrorizzata, ma la mela l’aveva colta lei e a quel famoso albero, in fondo l’aveva sempre saputo, era collegata una proibizione. Lei aveva infranto un giuramento ed ora più che mai non se la sentiva di rinnegare le proprie azioni. Aveva staccato la mela, ma non per stupidità, non per sfidare Dio… l’aveva fatto semplicemente perché era rimasta abbagliata da quel frutto così rosso e perfetto, così liscio e delicato; non aveva saputo resistere alla bellezza, ed ora pagava un prezzo che le era già stato sussurrato da tempo, un prezzo forse meritato.

 

***

 

“Lei che ci fa qui?” era il comandante.

“Io…” Corinne si sentì mancare “un saluto.”

Gli agenti si guardarono l’un l’altro, poi spostarono le loro attenzioni sul ragazzo in vestaglia rossa, scavato, sporco.

“Signor De La Roche! Lei è in arresto per diserzione!”

Valentin sgranò gli occhi, arretrò di qualche passò e andò a sbattere contro un comodino, facendo cadere un vecchio mozzicone di candela. Respirava affannosamente e tremava di terrore. Non potevano averlo scoperto, nessuno sapeva niente di lui, nessuno!

“Chi…? Come avete fatto a…?” e poi vide Corinne, anche lei tremante. La vide ripiegare lentamente verso il piccolo esercito. La vide tentare di scivolar via senza farsi notare, cercando di rimpicciolire fino ad uno stadio di trasparenza assoluta. Un viso tirato e sul punto di piangere ammetteva spudoratamente di essere colpevole di tradimento. “Perché?!” le urlò contro “Che cosa ti ho fatto di così orribile? Ti ho amata, adorata, divinizzata! Ti ho…” la donna si morse le labbra ed osservò il pavimento per qualche istante. “Hai un altro? Rispondi! Hai un altro?!” un urlo di rabbia gli uscì dalla gola.

I poliziotti fecero per avvicinarsi, ma Valentin fu estremamente veloce. Aprì il cassettino che gli stava alle spalle e ne estrasse la pistola che zio Bernard gli aveva regalato anni addietro.

“Puttana! Sei una puttana!” Sparò un colpo, poi un altro, e Corinne cadde morta.

Uomini in blu gli si gettarono addosso e il giovane De La Roche non poté far altro che arrendersi alle manette, giunte però in ritardo sul luogo del delitto.

Non pianse nemmeno una lacrima per la vittima del proprio amore; si limitò ad ammirarla. Là, immersa in una pozza di tempera scarlatta, appariva più bella che mai. Angelica, ferma, gli occhi fissi verso il paradiso. Forse, con quel gesto violento le aveva donato la perfezione assoluta, una perfezione immobile, e poté sentirsi quasi in pace.

Due fori nel petto lasciavano uscire distillato di passione.

Passione… Valentin pensò che non esistesse parola più bella. L’avrebbe ripetuta anche mentre una corda si sarebbe stretta attorno al suo collo.

 

***

 

Si risvegliarono nel bel mezzo del nulla. Deserto a destra, deserto a sinistra. Sopra i loro corpi ricoperti di fango, l’azzurro e il calore atroce del sole si tuffavano l’uno nell’altro. Adamo si mise in piedi, coprendo con le mani le zone del corpo che più lo imbarazzavano. Eva non voleva alzarsi, preferiva lasciarsi morire, ma poi vide un minuscolo bagliore rossastro e, rizzatasi, corse in quella direzione.

Un miraggio, solo un inutile, inconsistente miraggio. La mela ormai era andata, perduta, svanita. Già, la mela non c’era più ma, dentro di lei, proprio tra il cuore e i polmoni, un desiderio pulsava ancora, un desiderio dal gusto intenso e brillante, un desiderio devastante che poteva portare alla fine, o ad un nuovo inizio.

Qualsiasi cosa sarebbe successa, sarebbe stata rossa e perfetta.

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