Il viaggio

di Yumao
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La partenza ***
Capitolo 2: *** Sono entrata in un clichè ***
Capitolo 3: *** Niente cellulare? ***
Capitolo 4: *** Mister Mojito ***



Capitolo 1
*** La partenza ***


1-partenza

Partenza




Non starò qui a raccontarvi di come sia perdere tutto da un giorno all’altro. Magari potete provare a immaginarlo. Immaginate di andare a dormire una sera avendo una vita normale, una famiglia abbastanza felice a cui volere bene, e una casa piena di oggetti inutili ma a cui, tutto sommato, siete legati, e di svegliarvi la mattina dopo per scoprire che niente di tutto questo esiste più.

Non è una storia strappalacrime quella che voglio raccontarvi, quindi non entrerò nei dettagli. Vi dirò solo che i giorni successivi ero completamente annichilita.
Non riuscivo a reagire, non riuscivo nemmeno a ragionare. Lasciavo che gli altri si occupassero di tutto al posto mio, che sistemassero i conti, vendessero la casa in cui non avevo voluto tornare, che mi dicessero dove andare a vivere e cosa fare dopo. Ed ero scocciata se non lo facevano abbastanza bene.
Non avevo progetti, non avevo voglia di fare nulla, e tutto sommato speravo di morire nel sonno.
 
Poi mi sono vista, come dall’esterno, e non mi sono piaciuta. È vero, quello che mi era successo era orribile, per quanto sia grande il dolore ci sono molti modi di affrontarlo.
Io non lo stavo affrontando per niente. Mi ci crogiolavo, quasi. Facevo completo affidamento sugli altri, mi lasciavo viziare, stavo appassendo come uva lasciata al sole, incapace di reagire. Ero troppo stanca e troppo vuota per fare qualsiasi cosa che non fosse lamentarmi…
 
Vuoto, era questo il problema.
Ricordo che lo pensai con insolita chiarezza e lucidità, mentre giacevo sveglia fissando il soffitto, nel cuore della notte.
Forse se avessi trovato il modo di riempire quel vuoto, avrei potuto reagire e smettere di vivere come un vegetale capriccioso, pretendendo che chi mi stava attorno si prendesse cura di me e appassendo nonostante si facessero in quattro per darmi la giusta quantità di luce e di acqua, lasciando che giustificassero il mio comportamento, adagiandomi nella loro compassione.
 
Appena giunsi a quella conclusione, buttai via le coperte, senza fare rumore, e mi alzai.
Ero a casa di una cugina di mia madre, con cui non avevo mai scambiato di quattro parole. Mi aveva preso con sé perché nessuno mi riteneva in grado di cavarmela da sola, e parenti più stretti non ne avevo. Si era sentita obbligata insomma, ma questo non sminuisce la sua gentilezza.
Presi il portafoglio con i documenti e la carta di credito. Non avevo molti soldi, ma per quel che dovevo fare sarebbero bastati.
Non presi altro: non volevo nulla che mi collegasse alla mia vecchia vita. Avevo bisogno di cose nuove. Uscii di casa senza fare rumore, lasciando solo un biglietto.
- Parto. Non so quando torno. Mi farò sentire io. Grazie di tutto.
 
La camminata fino alla stazione era stata lunga, e più di una volta avevo pensato di tornare indietro, tornarmene a letto.
Era logico che mi sentissi così vuota e depressa, ma se avessi aspettato le cose si sarebbero messe a posto da sole. Il dolore sarebbe diminuito prima o poi, e avrei ricominciato a vivere la mia vita, senza bisogno di fare qualcosa di così drastico.
Ma no. Come potevo reagire e andare avanti, se a una piccola, disgustosa parte di me piaceva essere al centro dell’attenzione, essere compatita ed essere tenuta nella bambagia? No, dovevo andarmene.
Avevo fatto il biglietto alla biglietteria automatica, scegliendo una città quasi a caso. Una città del nord, parecchio lontana da casa, ma ancora in Italia.
Era un treno notturno, di quelli con le cuccette per dormire. Il biglietto era costato parecchio, ma c’erano in dotazione acqua, salviettine e lenzuola.
Studiai tutti i pacchettini con una certa curiosità, poi mi preparai la cuccetta.
Sentii una strana sensazione, che non sentivo da così tanto tempo che faticai a riconoscerla. Come una scossa elettrica che partiva dal fondo dello stomaco e si diramava lungo le gambe e le braccia: eccitazione.
 
Quando mi svegliai la mattina dopo il treno era ancora in movimento, ma il paesaggio era molto cambiato.
Il treno stava sfrecciando fra alte colline, coperte di piccoli boschi e di campi coltivati. Notai che il grano era quasi maturo. Non pensavo che fossimo già così vicini all’estate.
C’era una signora sull’altra cuccetta. Doveva essere entrata mentre dormivo. «Buon giorno» mi salutò. «Hai dormito bene?» Mi stropicciai gli occhi un po’ spaesata e annuii. «Sei una persona dal risveglio lento eh? Anche io lo ero alla tua età.» Non sapevo cosa rispondere così mi limitai a sorridere e annuire. La signora aveva almeno sessant’anni, e aveva una strana somiglianza con Jessica Fletcher. Mi chiesi quando sarebbe spuntato fuori il morto. «Viaggi leggera? Non hai un bagaglio, o te l’hanno rubato?»
«È stata una partenza improvvisa.» Mi giustificai. La signora evidentemente non aveva ancora soddisfatto la sua curiosità. «Io sto andando a trovare mia sorella.» Spiegò, forse sperando che raccontassi più dettagli anch’io. «È andata a vivere a Torino col marito. Non mi è mai piaciuto molto quell’uomo.» Annuii, come se sapessi benissimo di cosa stava parlando, ma non dissi nulla mentre lei continuava a raccontarmi tutti i sordidi dettagli della vita di sua sorella.
Quando finì mi guardò speranzosa, ma io sorrisi scrollando le spalle e tornai a fissare fuori dal finestrino.
La signora aggrottò le sopracciglia, poi sospirò e inizio a tirare fuori dei pacchi di cibo per la colazione. Parecchi pacchi, troppi per una colazione sola. Forse aveva notato il mio sguardo incuriosito, perché si affrettò a spiegarsi. «Mia madre, santa donna. Ha ottant’anni e non si fida dei treni, ha paura che io possa rimanere bloccata qui sopra per giorni e giorni, e che possa patire la fame.»
La osservai aprire un contenitore con parecchie fette di torta, con lo stomaco che brontolava. «Santa pazienza, come faccio a mangiare tutta questa roba? Io glielo dico sempre a quella donna là, di non cucinare per me, ma non mi dà retta. Ecco, aiutami, prendine un po’.»
Mi allungò due o tre fette di dolce con aria decisa, e io accettai ringraziando. «Mi chiamo Mariuccia.»
«Jessica.» Risposi senza pensare. Non avevo un vero motivo per dare un nome finto, ma forse per la sua somiglianza con la signora in giallo mi era uscito così. Ora non valeva comunque la pena di cambiare versione. «Quanti anni hai? Sembri molto giovane per andare in giro da sola.»
«Sembro più giovane di quello che sono. Ho già ventitré anni.» Protestai, cercando di non indignarmi. Spesso mi scambiano per minorenne, probabilmente perché sono bassa e minuta.
«Ventitré anni sono pochi. Fidati di me, che li ho avuti.» Scrollai le spalle. Ovvio che avendo l’età dei dinosauri, chiunque abbia meno di quarant’anni deve sembrare giovane come l’acqua, pensai un po’ troppo acidamente. La torta però era buonissima, quindi decisi di perdonarla.
«Cosa ti porta a Torino?» Insistette la signora, ricordandomi improvvisamente che era quella la mia meta.
«Mi hanno chiamato per un colloquio di lavoro. Ho dovuto partire senza preavviso.» Improvvisai con una scioltezza che non mi era mai appartenuta «Oh che bello! Trovare lavoro, di questi tempi, deve essere difficile!»
«Sì, infatti.»
«Che lavoro?»
«Armetovaia.» Risposi assolutamente decisa. «Cosa?»  
«Si tratta di testare la solidità degli armatori di pastinaca.» Sperai che la tattica presa in prestito da “amici miei” funzionasse e che smettesse di farmi domande. Quando la signora annuì in preda alla confusione, probabilmente credendo di essere ormai arrivata alla demenza senile, mi sentii un po’ in colpa e pensai quasi di dirle che stavo scherzando, e di inventare qualche balla tipo “voglio fare la pasticcera.” In effetti sarebbe stato più semplice e sensato.
Fin da piccola mi divertiva spiazzare che mi chiedeva cosa volessi fare da grande inventando mestieri che non esistevano e, sotto sotto, riesumare quella vecchia passione mi fece quasi venire voglia di sorridere.
 
L’annuncio che il treno era arrivato al capolinea mi risparmiò la necessità di inventare altre balle. «Bene, allora buona fortuna Jessica» Mi salutò dopo che l’ebbi aiutata a scaricare le valigie. Sorrisi timidamente e corsi via, cercando di avere l’aria di chi sa esattamente dove sta andando.
 
Poco dopo ero sulla via principale di Torino, città che mi era completamente sconosciuta. E adesso era ora di darsi allo shopping.
Stranamente l’idea mi riempì di adrenalina e eccitazione. Non avevo mai amato lo shopping, di solito compravo le magliette in serie appena ne trovavo una che mi piaceva, per non dover tornare tanto presto.
Decisi che come prima cosa avevo bisogno di abiti di ricambio, e mi infilai in un negozio d’abbigliamento.
Avevo sempre avuto uno stile sobrio, colori scuri, pantaloni stretti… ma adesso scelsi abiti comodi, jeans strappati, qualche t-shirt e una felpa in cui avrei potuto entrare comodamente due volte, ma che era calda e confortevole. Passai anche in una libreria, dove comprai un quaderno e una penna, perché mi andava di scrivere, e un libro, per avere compagnia. Non troppa roba, perché avrei dovuto portarmela sulle spalle, in uno zaino che presi in un negozio di articoli sportivi assieme ad altre cose che mi sarebbero state utili.
Lo scelsi con cura, pensando che sarebbe stato mio compagno di viaggio per molto tempo. Era di un bel colore verde militare, un po’ freak. Pensai che mi desse un’aria un po’ hippie e avventurosa.
 
Alle tre non avevo ancora pranzato, e affamata, decisi di comprare degli spaghetti al curry a un takeaway vicino all’università. O almeno penso che fosse l’università, vista la gran quantità di giovani che si lamentavano degli esami lì attorno.
Anche io avrei avuto gli esami, se non avessi mollato tutto per andare all’avventura. Avrei avuto un esame di antropologia… avevo seguito solo le prime lezioni, ed erano state molto interessanti. Avevo già comprato i libri da studiare, carica di entusiasmo, immaginandomi come una specie di Indiana Jones. Chissà che fine avevano fatto?

«Stai scappando?» Mi girai verso la ragazza che aveva parlato, corrugando la fronte, sentendo il cuore battere forte nelle tempie. «Hai l’aria di una che sta scappando.»

«È per lo zaino?» Chiesi preoccupata. Non avevo proprio bisogno di attirare l’attenzione. La ragazza rise di gusto della mia preoccupazione, offendendomi un pochino.
«Non solo per quello, è per...» mi studò da capo a piedi con un'occhiata divertita «Un po' per tutto.» Adesso ero abbastanza offesa, anche se non dissi nulla, visto che aveva sicuramente ragione. Mi ero vista allo specchio mentre facevo shopping. Rise di nuovo, dandomi un pogno scherzoso sul braccio. «Eddai, stavo scherzando!»
Cercai di guardarla con la faccia di una che sa stare allo scherzo, ma non sono del tutto sicura che la cosa mi riuscì.

Era una tipa strana, con i capelli multicolore, vestiti indiani, piercing al sopracciglio e un’aria pacifica.

«Studi qui?» Mi chiese, accendendosi una sigaretta. Scossi la testa. «Nemmeno io. Mi sono ritirata. Tanto comunque la laurea non mi servirà a nulla. Fra poco il mondo finirà.»
«Ah sì?»
«Sì, massimo fra un paio d’anni. Quando le calotte polari si saranno sciolte del tutto.» Rispose serafica.
«Non sembri molto preoccupata.»
«E perché dovrei? Preoccuparmi mi serve a qualcosa? No. Ora parto, vado un po’ in giro. Vedo un po’ di posti, prima di morire annegata.»
«Sì, più o meno anch’io ho lo stesso programma.»
«Vedi? L’avevo capito, sai?» Esclamò esultante. Sorrisi timidamente. «Hai un posto dove stare questa notte?»
«Ancora non ci ho pensato.»
«Vieni da me. È l’ultima settimana che ho l’appartamento in affitto, faccio una festa.» Esitai, prima di ricordarmi che, se mi ero data una regola per quel viaggio, era quella di farmi guidare da qualsiasi cosa il destino avesse da propormi. E a quanto pare, quello che il destino aveva da propormi, era una strana ragazza, con abiti indiani e con ciocche viola, blu e verdi fra i capelli.
«Ok. Grazie.» Dissi cercando di sembrare più entusiasta e fiduciosa di quello che ero.

«Io sono Marta.» Sorrise, tendendomi la mano. «Lee.» Mi presentai, inventandomi un nuovo nome. Marta rise. «È un nome falso, vero?» Mi strinsi nelle spalle. «Oh beh, avrai i tuoi motivi. Vieni con me! Allons-y!» Si alzò piroettando e battendo le mani. Io mi alzai più goffamente e mi caricai lo zaino sulle spalle.
E seguii una perfetta estranea in un luogo ignoto.

Ciao! È la prima volta che provo a scrivere una storia semiseria e non fantasy, quindi se è il caso che lasci perdere, fatemelo sapere subito, ecco. ^^ 

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Capitolo 2
*** Sono entrata in un clichè ***


2-clichè

Sono entrata in un cliché






Casa di Marta non era lontana dall’università, camminammo solo una decina di minuti, durante i quali mi inondò di informazioni su quanto il mondo fosse corrotto e cattivo. Si fermò davanti a un vecchio portone di legno, armeggiò un attimo con le chiavi e entrammo in un androne stranamente bello.

Era vecchio e trascurato, sì. I muri erano scostati e il pavimento sporco, in un angolo c’era pure un notevole esemplare di arte falliforme. Però c’erano delle vetrate colorate che davano su un cortile interno al palazzo, che riempivano l’androne di calde sfumature rosse, arancioni, verdi e azzurrine. «Mi spiace, ma sto al quarto piano senza ascensore.»
«Non c’è problema» La rassicurai. Fare le scale mi avrebbe dato il tempo di chiedermi ancora per qualche minuto se stessi facendo una cosa saggia entrando nella casa di una perfetta sconosciuta. No, la risposta era decisamente no. Per qualche strano motivo mi venne da ridere.

«Ohi Marta. Chi è la ragazzina?» La salutò un uomo sui quarant'anni che fumava e beveva birra appoggiato alla balaustra delle scale. Era un tipo decisamente inquietante, con l'abito canonico dello scansafatiche: bermuda, pantofole e canottiera bianca bucata e macchiata di sugo. «Un’amica. Come hai detto che ti chiami?» Come avevo detto di chiamarmi? «Lee.» Risposi, già pentita di aver scelto un nome tanto scemo. «È un diminutivo di… uh… Lidia.» Cercai di rimediare. Mi tese la mano villosa sorridendo. «Piacere, Vee. È un diminutivo di Vittorio.» Scoppiò in una grassa risata alla sua battuta. Marta alzò gli occhi al cielo sbuffando, ma da un luccichio nei suoi occhi mi sembrò evidente che fosse solo una recita, e che sotto sotto l'uomo la divertiva. «Sta attenta a questa qua.» Mi disse avvicinandosi al mio orecchio con aria cospiratoria e indicando Marta con il pollice. Sapeva di sigaretta. «È pericolosa.» Rise ancora, e risi anch’io, molto nervosa, chiedendomi se ero ancora in tempo per scappare e andare in albergo.

Entrare in casa di Marta fu come entrare in un negozio Equo-solidale, sia per i colori molto etnici che per il forte odore di curry e di incenso. Entrammo in un salotto-cucina. I vari poster, locandine di film, di concerti e di proteste tappezzavano completamente le mura, rendendo la stanza caotica. La poca luce arrivava dalla porta-finestra da cui eravamo entrati, coperta da una tenda rossa, ma la penombra, con in caldo che faceva fuori, era fresca e piacevole.

In tutto quel marasma di colori e oggetti strani, era difficile individuare i pochi mobili. C’era un tavolo basso, che a un esame più attento si rivelò essere un asse appoggiato a due cassette della frutta, circondato da cuscini informi. In un angolo c’erano i cuscini di un divano, ma del divano non c’era traccia. Su un’altra cassetta della frutta c’era un narghilè molto colorato, che non sembrava essere usato solo come soprammobile. Individuai almeno tre coperte fatte all'uncinetto, in diverse sfumature di rosso, appoggiate su varie superfici. 

Il mio primo pensiero fu “Sono appena entrata in un cliché”.

Si lasciò cadere sui cuscini da divano con un tonfo notevole. «Ci credi che la maggiore parte di queste cose le ho trovato nella spazzatura? La gente butta via qualsiasi cosa!» Ci credevo. «Non preoccuparti, li ho lavati col vapore e ho cambiato le federe. Le ho cucite io.» Mi rassicurò, evidentemente notando la preoccupazione del mio sguardo. Hippie ma con il senso dell’igiene. «Vieni, ti faccio vedere la camera da letto.» Si alzò con un colpo di reni e mi condusse attraverso una porta che, essendo coperta di poster come il resto della stanza, non avevo nemmeno notato.

C’era un materasso appoggiato su dei bancali, una scrivania ingombra di libri di filosofia e materiale da cucito e un armadio senza porta, con i vestiti buttati dentro alla rinfusa. Dopo una breve ricognizione, individuai la porta dell'armadio, staccata dai cardini e appoggiata alla parete lì accanto. «Lascia pure lo zaino dove trovi posto!» Urlò allegramente sovrastando il suono del campanello. Lasciai cadere il mio zaino in un angolo relativamente sgombro, mentre Marta correva via per rispondere al citofono.

Sulla porta divelta dell'armadio c'era uno specchio, ricoperto di fotografie. Lo specchio rimandò la mia immagine, scialba e anonima. Avevo una t-shirt monocromatica, di un marrone scuro molto neutro, e i pantaloni neri di una tuta. Avrei dovuto liberarmi di quei vestiti al più presto, erano l'ultima cosa che mi rimaneva dalla mia vita precedente.

Guardai da vicino il mio viso, e il mio riflesso mi guardò con aria critica. Ero pallida e avevo dei cerchi scuri sotto gli occhi. Anche i capelli erano disordinati e secchi, la frangia iniziava a coprirmi gli occhi. Avevo decisamente bisogno di andare da una parrucchiera. Di certo facevo un contrasto netto con le due ragazze ritratte nelle foto. Una era Marta, con i suoi capelli multicolor e gli abiti dai colori accesi, l’altra era una ragazza molto carina, con capelli perfetti, vestiti eleganti e occhi azzurri e luminosi.

Sentii delle voci e mi voltai, trovandomi davanti la ragazza delle foto in carne e ossa. Si fermò sulla porta guardandomi incuriosita. «Oh, sì, lei è Lee. Lee, questa è Silvia.» annunciò Marta apparendo alle sue spalle. Silvia mi tese la mano sorridendo. «Poverina, anche tu sei rimasta catturata nella sua rete?» La guardai sollevando un sopracciglio. «Ogni volta che vengo a trovarla si è portata a casa qualcuno. Gatti, stranieri, studenti in Erasmus, turisti giapponesi… una volta persino un piccione ferito.» Si fermò un attimo squadrandomi da capo a piedi. «Ma tu sei un po’ meglio della media.» Marta le diede una gomitata nelle costole. «Ohi, non sei molto gentile con la mia ospite!» Silvia alzò gli occhi al cielo. «Che ho detto di male? Le ho detto che è meglio della media.»
«Le hai detto che è un po'’ meglio di gatti randagi e piccioni!» Sospirò, lanciandomi uno sguardo rassegnato. «Non darle retta. Io ospito sempre e solo gente che mi sembra simpatica.»
«Un giorno ospiterai un serial killer che ti taglierà la gola nel sonno solo perché ti sembrava simpatico.»
«Sono amichevole! Che c’è di male?» Il battibecco continuò abbastanza a lungo da consentirmi di scavare un buco e nascondermici, se fossimo state all’aperto. Purtroppo non era così, e non potei far altro che stare lì a osservarle imbarazzata.

Dopo un po’ decisero di sospendere la conversazione, e con mio orrore ancora maggiore tornarono a concentrarsi su di me. «Hai viaggiato tutta la notte vero?» Mi chiese Silvia guardandomi come si guarda un cucciolo di cane coperto di fango. Non mi sembrava di averlo detto, ma probabilmente di vedeva dai vestiti stropicciati e dall’aria da reduce di guerra. Annuii, ancora più imbarazzata. «Ho preso un intercity ieri sera tardi…»
«Allora vorrai fare una doccia? Vieni, ti faccio vedere il bagno.»

Marta mi afferrò energicamente una mano e mi trascinò di nuovo nell’ingresso, e poi attraverso un’altra porta mezza mimetizzata. Il bagno era piccolo e pieno di trucchi e di creme che non sembravano essere sue. «Puoi usare il mio shampoo, e anche il mio accappatoio se non ne hai uno. Per l’acqua calda dovrai aspettare qualche minuto.» Ascoltai le istruzioni annuendo in silenzio e mi lasciò da sola nel bagno.

Quando la porta si chiuse mi sedetti un minuto sul bordo della vasca, guardando i miei occhi scuri e cerchiati nello specchio. Ti sei fatta raccattare dalla spazzatura come i cuscini del divano. Bella mossa. Mi si formò un’immagine mentale di Marta vestita da massaia che mi passava addosso la pulitrice a vapore. Sorrisi al mio riflesso scuotendo la testa. Me ne ero andata perché ero stufa che gli altri si prendessero cura di me, e invece ci ero ricascata dopo nemmeno ventiquattro ore.

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Capitolo 3
*** Niente cellulare? ***


3/Niente

Niente cellulare?





Mi ero lavata nel minor tempo possibile, evitando di cedere alla tentazione di stare lunghi minuti a riflettere sotto l’acqua calda. Avevo l’impressione che se mi fossi fermata a riflettere sulla situazione in cui mi ero cacciata avrei pagato per potermi prendere a calci nel sedere da sola, e sarei tornata filata a casa.

Chi si ferma è perduto! Me lo ripetei più volte, come un mantra, mentre selezionavo fra i pochi vestiti che mi ero comprata un paio di pantaloni corti e una canottiera lunga, color verde e bianco sporco. Mi strofinai violentemente i capelli con un asciugamano in microfibra che avevo avuto l’accortezza di comprare, poi mi guardai allo specchio abbastanza soddisfatta. Con i capelli ancora bagnati così sparati in tutte le direzioni e quei vestiti sembravo appena uscita da una puntata di Lost. Tutto in me parlava di avventura e di viaggio e di mistero. O forse no, ma decisi di essere indulgente con me stessa e assecondare quell’illusione mettendo a tacere la parte più critica del mio cervello.
Chiusi i vestiti vecchi in una borsa di plastica, più tardi li avrei gettati in un cassone della Caritas.
Aprii cautamente la porta del bagno. Silvia e Marta stavano sussurrando, con le teste vicine. Silvia sembrava irritata e divertita e Marta le teneva le mani con uno sguardo dolce, che di solito è il preludio di un bacio. Mi sentii improvvisamente molto in imbarazzo. Richiusi la porta piano, e poi la aprii facendo molto rumore e guardandomi alle spalle, così che avrebbero avuto modo di interrompersi, se volevano. Marta alzò lo sguardo senza lasciare le mani di Silvia, che guardò altrove, imbarazzata. «Tutto a posto? L’acqua era calda?»
«Certo, nessun problema.»
«Vuoi usare il phon?»
«No grazie… mi piace avere i capelli bagnati.» Sorrisi imbarazzata. Più di una volta ero stata sgridata per il mio rifiuto di asciugare i capelli, anche in pieno inverno, ma Marta non sembrava il tipo da formalizzarsi per una cosa del genere, visto che si portava in casa perfetti estranei. «Hai bisogno di mettere sotto carica il telefono?»
«Non ce l’ho il telefono.» Marta e Silvia mi guardano con gli occhi sgranati. Ma certo: siamo in un’epoca in cui una ragazza può vagare senza meta in una città sconosciuta e farsi ospitare dalla prima persona che incontra per strada, tutto ok. Ma se non ha con se il telefono? Allora c'è sotto qualcosa di sinistro. «Te l’hanno rubato?»
«No, non me lo sono portato.» Risposi scrollando le spalle. «Come fai a stare senza telefono?»
«È stato strano all’inizio, continuavo a toccarmi le tasche e a pensare di averlo perso. Però poi mi sono abituata.»
«E come fanno i tuoi a contattarti?»
«Non mi contattano.» Abbassai gli occhi in modo che non mi potesse leggere niente nello sguardo, ma sentii le guance imporporarsi e un dolore anche troppo familiare pungermi lo stomaco e il petto come centinaia di spilli.
Marta mi guardò preoccupata. Dovevo avere una strana espressione, perché anche lei esitò prima di farmi ancora delle domande. «Facciamo così. Se non vuoi dirmi perché te ne sei andata di casa senza telefono e, immagino, senza dire a nessuno dove stavi andando, va bene. Ma almeno una cosa me la devi dire.» Esitò ancora, mentre iniziavo a pensare che mi avrebbe cacciato fuori senza darmi nemmeno il tempo di dire beh. «Non starai mica scappando dalla giustizia, neh?» Sbuffai divertita. «Andiamo, ti sembra?»
«No.» Ammise Marta ridendo di gusto. «Ma dovevo chiedere!» Silvia si limitò a sorridere, non del tutto tranquillizzata. «Non sto scappando dalla giustizia, non ho mai nemmeno fumato uno spinello o preso una sbronza. Avevo solo bisogno di cambiare aria.» Dissi decisa. In fondo era una domanda lecita: io ero una sconosciuta per loro quanto loro lo erano per me, e Marta aveva rischiato a riporre la sua fiducia in me offrendomi aiuto, avendo nulla da guadagnare e tutto da perdere. «E non ho portato il telefono perché tanto non ho nessuno da chiamare.» Dissi sperando che non mi chiedessero nulla di più. Marta e Silvia si scambiarono un’occhiata attraverso la quale avvenne un’intera conversazione, poi Silvia sbuffò, scrollò le spalle e si alzò. «Faccio il caffè. Poi se vuoi organizzare una festa qui dentro dovremo mettere a posto.»
«Sì mamma!» Rispose Marta irriverente strizzandole l’occhio. Poi si girò di scatto verso di me ostentando un’aria sconvolta. «Mai preso una sbronza?» Scossi il capo… In realtà non avevo motivo per essere imbarazzata, ma Marta con una sola occhiata riuscì a farmi sentire come se non aver mai perso il controllo per il troppo bere fosse un peccato capitale. «Questa sera rimediamo.» Promise, mentre Silvia sbuffava sulla caffettiera.
 
Passammo il pomeriggio a pulire la casa, cercando di spostare un po’ di oggetti per fare spazio agli ospiti che, iniziavo a temere, sarebbero stati troppo numerosi per uno spazio così stretto.
«Ti sei comprata solo vestiti da avventuriera?» Chiese Marta frugando senza riguardo fra le mie cose, non dopo aver espresso sgomento per il fatto che ero partita senza portarmi vestiti. Strinsi le spalle «Non pensavo che avrei avuto bisogno di altro.»
«No problema chica! Ti presto qualcosa di mio!» Così dicendo abbandonò i poveri resti disordinati del mio zaino e iniziò a frugare nel suo armadio, borbottando e tirando fuori abiti. «Te l’avevo appena messo a posto quell’armadio, possibile che sia già così?» Gemette Silvia. «La vita è breve, non c’è tempo per piegare vestiti! Tieni, prova questo. A me sta un po’ stretto ma a te dovrebbe andare.» Mi lanciò un abito chiaro che riuscii a prendere al volo per un pelo. Era un vestito stranamente sobrio per essere uscito dall’armadio di Marta, bianco sporco con degli inserti di pizzo, con una gonna svolazzante che arrivava sopra al ginocchio.
Non avevo mai messo un vestito in realtà, e mi faceva sentire strana… ma loro non potevano saperlo, quindi se mi fossi comportata come se fosse perfettamente normale magari non si sarebbero accorte che mi sentivo come se mi stessi travestendo per carnevale.
Da qualche parte nell’armadio rimediò una fusciacca multicolore che mi legò in vita, poi mi aiutò a pettinare i capelli in modo che non sembrassero troppo trascurati, intrecciandoli dietro la nuca e infilandoci degli ornamenti colorati.
Mi guardai allo specchio, cercando di nascondere il disagio: sembravo una perfetta figlia dei fiori. Incrociai lo sguardo di Silvia, riflesso nello specchio, e mi sorrise solidale, mentre Marta frugava nell’armadio piena di entusiasmo per la sua opera, allungandomi un paio di stivaletti bassi decisamente fuori stagione, ma che a suo dire sarebbero stati perfetti. Silvia mi diede una pacca sulla spalla, come se capisse perfettamente quello che stavo passando. Forse anche lei era stata oggetto dell’estro artistico di Marta.
Avevano appena finito di agghindarmi quando il campanello iniziò a suonare, e nel giro di trenta minuti la casa fu piena di persone e di cibo.

Hohey! Scusate il capitolo un po' corto. Spero che a qualcuno interessi la storia fin qui, anche se l'elemento romantico non si è ancora visto più di tanto. Ma se avete la pazienza di seguirmi (cit Neri Marcorè) presto qualcosa succederà ;) 羽毛

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Capitolo 4
*** Mister Mojito ***


摩jito

Mister Mojito





La cosa positiva era che Marta era così presa dall’intrattenere gli ospiti che non si curò più di me, e per un po’ riuscii a sfuggire alle sue vivaci attenzioni.

La cosa negativa era che quell’appartamento decisamente non era fatto per contenere tutte quelle persone. Provai a contarle, ma dopo un po’ rinunciai. Seriamente, era un miracolo che il pavimento non ci crollasse sotto i piedi.
La musica era altissima, la calca era opprimente, e le luci stroboscopiche mi stavano facendo uscire di testa. Chi è che si tiene delle luci stroboscopiche in casa? È da matti! Il che in effetti era perfettamente coerente con quello che sapevo di Marta fino a quel momento. La pazzia dico, non le luci stroboscopiche, quelle non me le aspettavo propio.

La camera di Marta era piena di persone che parlavano, urlavano e ridevano. Qualcuno stava anche pomiciando. In pochi minuti quella ressa mi fu insopportabile, e me ne andai alla ricerca di un posto tranquillo dove riposare le orecchie per un po’.
Mi spostai per l’appartamento con la schiena rasente al muro, cercando di non guardare le persone che sembravano muoversi a scatti come burattini, e cercai di raggiungere il bagno. Era occupato. Avrei voluto raggiungere la porta e uscire sulle scale, ma avrei dovuto attraversare la sala passando in mezzo a una trentina di persone che in quel momento, sotto la luce intermittente, mi ricordavano gli angeli piangenti di Doctor Who. Per qualche secondo fui sopraffatta dall'impulso di non battere le palpebre, poi con un gemito mi coprii gli occhi con le mani e mi lasciai scivolare contro il muro, accucciandomi in un angolo.

«Tutto bene?» qualcuno molto vicino a me urlò per farsi sentire sopra il rumore della musica. Sbirciai da dietro le dita, e vidi un ragazzo che si era accucciato davanti a me con aria perplessa. Coprii di nuovo gli occhi con le mani e annuii. «Non mi sembra.»
«Mi dà fastidio la luce.» Spiegai seccamente, per nulla desiderosa di avere una conversazione urlata a quel volume. «Vieni, ti accompagno fuori.» Senza darmi tempo di rispondere mi afferrò per un braccio e mi trascinò attraverso la sala gremita di mostri, mentre mi coprivo gli occhi con una mano. Uscire all’aria fresca fu come emergere in superficie dopo una lunga apnea in un oceano di lava.

Il ragazzo si sedette accanto a me sulle scale. «Meglio?» Annuii, e restammo in silenzio per un minuto. «Non si lamenteranno i vicini di tutto questo rumore?»
«Non penso, dato che sono tutti lì. In questo palazzo abitano quasi solo studenti.» Spiegò, indicando la porta. «Hai per caso problemi con i posti affollati?» Tenevo ancora gli occhi coperti con le mani, cercando di riprendere il controllo, e sorrisi amaramente. «Si vede?»
«Ma no, appena appena!» Rise divertito e nascosi il viso fra le ginocchia, rannicchiata sul gradino. Potevo provare a fingermi un’altra, abbandonare il mio nome, i miei vestiti, il mio cellulare e tutto quello che avevo, ma i miei difetti e le mie fobie, le cose che più avrei voluto abbandonare, non potevo non portarmeli dietro. Volevo tornare in mezzo agli altri e, almeno per una volta nella vita, partecipare a una festa di quel genere, essere anonima e normale, e allo stesso tempo mi sentivo completamente fuori posto, un’intrusa, e volevo scappare il più lontano possibile. «Vuoi che ti accompagni a casa?» Scossi la testa. «Dormo qui questa notte.»
«Vuoi andare a fare due passi?» Non risposi, non sapendo come spiegarmi. «Vuoi tornare dentro ma la folla e le luci ti danno fastidio?» Annuii, un po’ sorpresa del fatto che avesse inquadrato il problema così in fretta e senza nessun aiuto da parte mia. «Sai cosa può aiutare in questi casi?» Lo guardai di sottecchi, inclinando la testa. Le scale erano buie e tutto ciò che vidi di lui fu un sorriso provocatorio, che risplendeva bianco sul viso in ombra. «Cosa?» Mi allungò un bicchiere che sembrava contenere un Mojito, scuotendolo leggermente per far tintinnare il ghiaccio. «Non si accettano drink dagli sconosciuti. Potrebbero essere drogati.» Osservai, facendo palesemente la predica dal pulpito sbagliato. Ma lui non poteva saperlo.
«Hai ragione. Ma io non sono uno sconosciuto, sono un amico di Marta.» Mi venne quasi da ridere: quella non era sicuramente una garanzia. Eppure qualcosa mi spinse a fidarmi… forse, solo per quella volta, potevo fingere che il mondo non fosse pieno di mostri, pronti a tenderti un agguato appena dai loro un’occasione. Potevo fingere che il mondo fosse buono e che tutti fossero in buona fede, almeno per un po’, sperando che veramente qualcuno dall’alto avrebbe vegliato su di me. «Solo per questa volta.» Decisi. Bevvi un sorso e tossii, cercando di non rovesciare il bicchiere. «Ma questo è rum puro!»
«No, ci sono anche delle foglie di menta. E ghiaccio.»
«Ma sarà più di un quarto di litro!» Il ragazzo mi posò una mano sulla testa, con un gesto quasi paterno. «Se vuoi superare le tue inibizioni, bevilo e basta, ragazzina.» Poi si alzò e tornò dentro, lasciando la porta aperta.
 
Non dico di aver fatto una cosa saggia, anzi. Non ero mai stata una grande amante dei super alcolici, a meno che non fossero molto dolci e sorseggiati con calma. Invece scolai quella specie di mojito letale in pochi sorsi, come se fosse stata una medicina. E in un certo senso lo era.
Tornai dentro, con la testa piacevolmente leggera, e mi mischiai alla folla. Avevo ancora un po’ di affanno e di tensione, ma l’alcol annebbiava tutto e mi rendeva quasi sopportabili persino le luci, se stavo attenta a non guardarle direttamente. Per un momento rimasi lì, confusa, con la mente che funzionava a intermittenza, semplicemente godendomi il fatto che non ero più isolata dagli altri. Cercai con lo sguardo il ragazzo che mi aveva offerto il suo aiuto, ma non riuscii a trovarlo. Anche perché, avendolo visto solo al buio delle scale, non avevo un’idea precisa di che faccia avesse.
 
Per essere una festa tanto rumorosa e sregolata finì presto. «Saremo ribelli e trasgressivi, ma i vicini no. Quindi tutti a nanna!» Così dicendo, poco dopo la mezzanotte Marta spense la musica fra le giocose proteste degli invitati e io, con il terzo mojito assassino in mano (gentili stranieri mi avevano rifornito nel corso della serata) barcollai verso i cuscini del divano, ammonticchiati in un angolo, e mi lasciai cadere lì sopra sfinita. La gente pian piano uscì, salutando Marta con baci e abbracci e arrivederci. C’era anche Vittorio, vestito bene e sbarbato sembrava molto più giovane, doveva avere al massimo trentacinque anni. Mi strizzò l’occhio mentre usciva e mi accorsi che mi aveva offerto lui il terzo mojito. Non l’avevo riconosciuto.
Mi rannicchiai appoggiando la testa sulle ginocchia, sfinita. Marta si sedette accanto a me e mi scostò i capelli dal viso, mettendomeli dietro un orecchio con un gesto così dolce che mi venne da piangere. Girai la testa bruscamente, cercando di nasconderglielo, e con tutto l’alcool che avevo bevuto dominarmi e ritrovare il controllo fu difficile. «Allora, l’hai presa questa prima sbronza?» Mugugnai qualcosa sul fatto che volevo dormire, con la faccia ancora nascosta fra le ginocchia.
Non so quanto tempo dopo (a causa delle nebbie dell’alcol rimossi completamente dalla memoria qualche passaggio) mi ritrovai raggomitolata sotto una leggera coperta. Non ricordavo più se ero in camera di Marta o nel salotto, sui cuscini del divano o sul letto o su una cuccetta di un treno notturno. Potevo anche essere sdraiata sui gradini davanti all’università di Torino o su un sentiero ghiaioso delle campagne di casa mia, tutti quei luoghi vorticarono confusamente nella mia testa qualche istante. Ero solo grata di poter finalmente chiudere gli occhi e perdere conoscenza.
 
Salve a tutti! Confidando nella vostra intelligenza, mi sembra inutile dire "don't try this at home" XD La nostra misteriosa protagonista ha me a proteggerla dalla sorte avversa, almeno per il momento, quindi fin'ora le è andata bene.
Spero che vi sia piaciuta la storia fin qui. FInalmente è apparso un essere umano di sesso maschile, iniziavate a dubitare che avessi postato la storia nella sezione sbagliata vero? Abbiate pazienza, mi piacciono i preamboli.
Se qualcuno non conosce il Dottor Who e si sta chiedendo cosa sono gli angeli piangenti, sono solo le creature più spaventose mai concepite dall'ingegno umano. Vi passo un link con un video, ma vi consiglio di vedere la puntata per fare buoni incubi (o per non dormire affatto). https://www.youtube.com/watch?v=2zOtlEzq4FE

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