La bambina di Ishval

di _Elwing
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fuga ***
Capitolo 2: *** Cala la notte ***
Capitolo 3: *** La bambola ***



Capitolo 1
*** La fuga ***


Il turno di Jade per l’ennesima simulazione di combattimento era passato ormai da un paio d’ore. Era stato fisicamente sfiancante, come al solito, ma mai come la pressione del suo sguardo che scrutava ogni singolo movimento che compiva.
C’erano molti altri bambini, ragazzini e ragazzi di diverse età con lei durante quelle simulazioni, tutti vestiti allo stesso modo, tutti con i capelli cortissimi e pettinati allo stesso modo, troppi per riuscire a distinguerli uno dall’altro: eppure, lei sapeva che lui riusciva sempre ad individuarla in quella mischia ordinata, sapeva che non osservava altri che lei con quel fastidiosissimo sguardo pieno di disprezzo, risentimento e ironia. E lei, schiacciata dalla paura, eseguiva gli ordini che riceveva senza battere ciglio, senza manifestare emozioni, come un cane obbediente. Neanche il grilletto di una pistola avrebbe saputo obbedire al dito del suo cecchino con maggior diligenza.
Finito l’addestramento, l’avevano riportata nella sua cella, collocata in mezzo alle tante che ospitavano altri bambini come lei, divisa dalle altre da due spessissime pareti di cemento.
Sdraiata nel duro lettino di legno, avvolta solo in una coperta di lana ruvida e irritante, si era addormentata, senza mangiare il pasto che le era stato portato, essendo troppo stanca per farlo.
Non aveva badato nemmeno alle scomode manette che le mettevano ai polsi, con le quali lottava quasi quotidianamente e che le isolavano le mani, quelle mani pericolose che non doveva assolutamente poter usare.
Il rumore di un’esplosione, simile a quello delle bombe che le insegnavano a disinnescare durante i duri addestramenti, ma molto più forte, la svegliò bruscamente, facendola sobbalzare così forte che si fece male alla schiena sbattendo contro il letto. Frastornata dal sonno, pensò di aver sognato tutto – spesso le accadeva di rivivere di notte in modo storpiato ciò che succedeva di giorno – perché sembrava che fuori dalla sua cella regnasse il solito silenzio; ma si dovette ricredere quando l’assordante rumore di una sirena d'allarme risuonò per tutto l’edificio.
Si sollevò dal letto, rimanendo seduta sul bordo, lasciando che la coperta le scivolasse di dosso, finendo per terra. Doveva essere successo qualcosa, forse un incidente durante un'altra simulazione o in uno dei laboratori nei sotterranei. Non ebbe quasi il tempo di porsi queste domande che la porta di ferro della sua cella si aprì e le manette che le serravano i polsi le si sfilarono di dosso, cadendo con un acuto tintinnio sul pavimento.
Non capiva cosa stesse succedendo e non riusciva a pensare a causa di quell’allarme che continuava a strillare. Quando, finalmente, come abbagliata da una luce improvvisa, realizzò quel che stava accadendo. La porta della sua cella, le manette, gli ostacoli della sua libertà si erano arresi. Forse la colpa era di un cortocircuito, ma non le importava molto saperlo: un altro pensiero le occupava in quel momento la mente e il brivido di quel pensiero la scosse, facendole battere il cuore in petto così forte che sentì la testa girarle. Il sangue le pulsò sulle guance e i suoi occhi rossi come il fuoco brillarono, eccitati all’idea di mettere in atto un piano perfetto.
Mosse pochi passi e arrivata sulla soglia della cella si sporse per guardare cosa accadeva all’esterno. Non c’era nessuno nel corridoio, ma si sentiva un vociare confuso provenire dal piano inferiore, nel quale le parve di distinguere un gruppo di voci che si facevano sempre più vicine.
Infatti, degli uomini vestiti con la stessa divisa blu stavano salendo, armati di pistola. Appena li vide, si ritrasse spaventata nella cella.
Una strana agitazione, un senso di inquietudine si impadronì di lei, che cominciò a contorcersi nervosamente le mani e a vagare con lo sguardo confusamente, come alla ricerca di un’idea. L’occhio le scivolò sulle mani, avvolte in un paio di aderenti guanti bianchi.
Le voci dal corridoio si facevano sempre più vicine. Non poteva più aspettare: si sfilò i guanti, che infilò prontamente in una tasca dei pantaloni e toccò la parete di fondo della cella con il palmo delle mani: subito ci fu un’esplosione sorda e il muro si sgretolò come fosse stato di sabbia. Una brezza gentile le accarezzò il viso, portando con sé il profumo caldo dell’aria aperta, un piacere di cui di rado le era concesso di godere. Per la prima volta vedeva aprirsi davanti a sé uno sprazzo di libertà. Quell’illusione si infranse subito, perché nuovi ostacoli comparvero davanti ai suoi occhi.
Da dove si trovava lei a terra era un salto di cinque metri. Poi, si sarebbe trovata a dover superare il cancello, sorvegliato dai soldati dell’esercito. Per quest’ultimo non aveva paura, si sarebbe servita delle sue mani, l’aveva già deciso. Ora che poteva le avrebbe usate per ciò che voleva e non per eseguire ordini imposti.
L’altezza invece la faceva rabbrividire. Se solo avesse avuto una corda o delle lenzuola più lunghe di quella misera copertina di lana le avrebbe legate ad un piede del letto e calate dall’apertura sul muro.
« Si sono aperte tutte le prigioni! »
Una voce alle sue spalle la fece voltare di scatto, ricordandole che non aveva più tanto tempo e che se voleva scappare doveva farlo subito.
« Che i prigionieri non fuggano! – sentì dire ancora.
Guardò in basso: proprio sotto di lei, al di qua di un basso recinto in ferro, c’era una lunga siepe che seguiva tutto il perimetro del recinto, sparendo agli angoli dell’edificio.
« Tu, cosa credi di fare? Fermati o sparo! »
Jade lo guardò: teneva una pistola puntata contro di lei e sembrava davvero pronto a sparare in qualsiasi momento.
Decise che avrebbe saltato: quella libertà tanto agognata era a portata di mano, doveva fare il possibile per riuscire ad afferrarla, a rischio anche della sua vita. La sua vita le sembrava poca cosa in fondo: se il soldato l’avesse sparata e uccisa o se cadendo fosse morta sarebbe stato comunque meglio che vivere ancora rinchiusa. Rischiare ed essere libera, rischiare e morire, entrambe le alternative che le si prospettavano davanti sarebbero state comunque meglio di un altro solo giorno di prigionia, perché in ognuno dei due casi tutto sarebbe finito in quell’istante.
Saltò e un colpo di pistola risuonò alle sue spalle.
Mentre si lasciava cadere nel vuoto non sentiva altro se non la pressione dell’aria: era come se la stesse tagliando col suo corpo. Non riusciva nemmeno a capire se il proiettile l’aveva colpita.
Una scarica di adrenalina le attraversò il corpo, non si era mai sentita bene come in quella manciata di secondi.
Cadde sulla siepe, incastrandosi tra i rametti e le foglie, procurandosi qualche graffio ma nessuna ferita seria. Evidentemente, anche il proiettile aveva mancato il bersaglio.
A fatica si alzò ed era appena riuscita a mettersi in piedi quando un altro proiettile le sibilò vicino all’orecchio, penetrando nella terra sottile sotto ai suoi piedi. Il soldato dalla sua cella aveva sbagliato di nuovo di poco la mira.
Si guardò attorno: i soldati l’avevano vista e alcuni stavano già correndo verso di lei, imbracciando le loro armi da fuoco.
Scavalcò il recinto e corse verso le alte mura che circondavano l’edificio, attraversando la pioggia di proiettili che la investì: nemmeno lei seppe come, ma riuscì a schivarli, o meglio, nessuno riuscì a colpirla.
Senza arrestare la sua corsa, come se temesse che se si fosse fermata non sarebbe più riuscita a ripartire, si gettò con le braccia tese in avanti contro il muro, che come quello della sua cella crollò non appena l’ebbe toccato.
A lungo i soldati la rincorsero per le strade della città, una città che lei non aveva mai visto e che non si soffermò nemmeno a guardare e di cui non sapeva nemmeno il nome. Poi, d’un tratto, guardandosi indietro, si accorse che non la stavano più seguendo. Non sapeva quando fosse successo, ma dovevano averla persa di vista, o forse aveva corso così veloce da riuscire a seminarli.
Si infilò in un vicolo molto stretto e lì si fermò per un momento a prendere fiato; e a riflettere.
Ora era libera da quel laboratorio che l’aveva tenuta prigioniera per tre lunghi anni, ma non era il momento di sentirsi sicura e abbassare la guardia. Aveva visto troppe cose che non sarebbero dovute uscire dalle mura della sua prigione, i soldati l’avrebbero cercata e non si sarebbero dati pace finché non l’avrebbero trovata perché lui la voleva dove potesse sempre vederla.
Mentre saltava nel vuoto e correva inseguita dai soldati si era dimenticata di lui e ora che se ne era ricordata cominciò a insinuarsi in lei la paura che forse avrebbe fatto meglio a restare dov’era. Inoltre, c’era un altro, grosso problema, specie considerando il fatto che era solo una bambina di quasi sei anni: dove sarebbe andata? Non aveva un luogo in cui rifugiarsi e non sapeva nemmeno dove trovarlo, dal momento che non conosceva la città in cui si trovava ed era la prima volta che ne vedeva una, eccetto quel vago ricordo che aveva di un posto simile proveniente dal suo passato.
Un altro pensiero distolse la sua attenzione da quelli sulla sua sorte da lì in avanti: non si era ancora rimessa i guanti. Rischiava, in un posto affollato come la città, di fare inavvertitamente del male a qualcuno.
Non appena si fu rimessa il guanto uscì dal vicolo dalla parte opposto a quella da cui era entrata, ritrovandosi nel mezzo della frenetica vita della città.
 

 

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Capitolo 2
*** Cala la notte ***


Dovunque voltasse lo sguardo aveva costantemente addosso la terribile sensazione di essere riconosciuta e seguita, come se tutti sapessero chi fosse e da dove venisse.
Le presenze che più la rendevano inquieta e che la facevano sussultare ogni volta che svoltava un angolo erano quelle dei soldati: a giudicare dal loro comportamento quasi indifferente non stavano cercando lei, ma questo pensiero non la rincuorava per niente. Anche se non sapevano di lei, era certa che avrebbero saputo riconoscerla dai suoi occhi rossi e dalla sua pelle scura ereditati dal popolo di Ishval.
Si ritrovò, così, a giocare senza volerlo a nascondino con quei soldati ignari, domandandosi nell’ansia cosa ne sarebbe stato di lei e se esistesse un posto in cui rifugiarsi.
Concentrata com’era in quel gioco pericoloso Jade non si accorse del passare delle ore e la notte sopraggiunse inaspettata. Con il calare delle tenebre la percezione che fino a quel momento aveva avuto della città cambiò: provò una sensazione piacevole nel sentirsi avvolgere nel buio che si infittiva, un abbraccio nel quale le pareva quasi di fondersi fino a scomparire. Sentiva che la notte sarebbe stata sua alleata, l’avrebbe aiutata a nascondersi meglio e a passare più inosservata di quanto non le avesse permesso di fare la luce irruenta del sole del giorno.
Certo, la città era illuminata dalla luce artificiale dei lampioni, disposti in fila come tante sentinelle sul ciglio delle strade, ma la loro luce era poca cosa e non la spaventava. Bastava evitarli e nascondersi tra le ombre proiettate dalle tenebre.
La folla del giorno si stava disperdendo e cominciavano ad accendersi le luci delle abitazioni, nelle quali la gente tornava per concedersi riposo dopo il lavoro del giorno.
Anche Jade avrebbe tanto voluto avere una casa in cui una famiglia l’aspettava, dove avrebbe trovato un pasto caldo, riposo e affetto. Ma la sua famiglia le era stata portata via, strappata con crudeltà e non le restavano più che pochi ricordi sbiaditi che non bastavano più a consolarla.
Con la notte, sopraggiunsero anche stanchezza e fame. Fino a quel momento non li aveva sentiti, non aveva potuto farci caso, ma adesso che la tensione si era un po’ allenata i crampi della fame le davano il tormento.
Rimpianse di non aver mangiato prima di mettersi a dormire: se avesse saputo cosa sarebbe successo avrebbe pensato prima a riempirsi lo stomaco, ma come avrebbe potuto prevederlo? Ormai si faceva sempre più debole e non riusciva più a camminare, ma solo a trascinare debolmente le gambe.
Inciampò nei suoi stessi piedi e cadde a terra: era così stanca che non sentì quasi dolore cadendo. Rimase così, senza muoversi, sdraiata davanti a un enorme cancello dalle sbarre di ferro che non aveva nemmeno notato; presto perse i sensi, sprofondando nell’oblio dell’incoscienza.
Probabilmente, quella doveva essere una strada molto poco trafficata, perché per più di mezz’ora la bambina rimase distesa a terra come morta senza ricevere soccorso, senza che nessuno la notasse. Come se la situazione non fosse già abbastanza drammatica, si mise perfino a piovere. Inizialmente erano poche gocce, poi si trasformò in un vero e proprio acquazzone con il risultato che Jade si inzuppò completamente. L’unica fortuna era che lei non se ne accorse nemmeno.
Da una strada che si incrociava perpendicolarmente a quella dove si trovava Jade comparve una macchina nera, con i fari anteriori accesi. Tra la pioggia e il buio, il conducente non vide subito che c’era qualcuno disteso davanti al cancello, al quale per altro era diretto, ma se ne accorse comunque giusto in tempo per non investirla. Frenò di colpo e allungò il collo verso il parabrezza dell’auto, cercando di aguzzare il più possibile la vista.
« Perché l’auto si è fermata? – domandò un uomo che sedeva su uno dei sedili posteriori.
« C’è qualcuno davanti al cancello della villa, signore. – rispose il conducente – Sembra morto. »
« Morto? – esclamò il passeggero. Prese un ombrello appoggiato sul sedile accanto a lui e sceso dall’auto lo aprì avvicinandosi a quella sagoma indistinta. Si abbassò per osservarla meglio e, appena si accorse che si trattava di un bambino, ebbe un sussulto e come prima cosa si assicurò che respirasse. Gli ascoltò il petto, posandovi sopra un orecchio e sentì il cuore che batteva al suo interno. Questo lo sollevò.
Chiuse l’ombrello e prese in braccio la bambina, caricandola sulla macchina, sulla quale risalì anche lui.
« Sapete chi è signore? »
« No, ma non posso lasciarlo lì fuori sotto la pioggia, è un bambino. Inoltre scotta molto, credo che abbia la febbre. »
Il cancello si aprì e l’auto lo oltrepassò. Attraversò una strada ghiaiosa che correva tra l’erba di un immenso giardino e si fermò davanti a un porticato che circondava una villa dalle dimensioni di una reggia.
L’uomo che aveva soccorso Jade scese dall’auto con la bambina tra le braccia e passando sotto il portico entrò nella villa. All’ingresso andò ad accoglierlo un’anziana domestica, a cui però l’uomo non prestò attenzione.
« Chiamate mia sorella. – le ordinò, dirigendosi a passo svelto verso un salotto adiacente all’ingresso. Lì, distese Jade su un divano, senza preoccuparsi che si potesse bagnare; si tolse la lunga giacca nera che lo avvolgeva, andando lui stesso a riporla sull’attaccapanni che stava all’ingresso.
Quando tornò da Jade tornò anche la domestica, seguita da una ragazza dai capelli lunghi e biondi e gli occhi spiccatamente verdi, che avvicinandosi all’uomo disse:
« Perché mi hai fatto chiamare con così tanta urgenza Alex? »
Vedendo la creaturina che giaceva immobile sul divano si portò le mani alla bocca e, inginocchiandosi davanti al divano, disse:
« Cosa gli è successo? »
« Non lo so, l’ho trovato fuori dal cancello della villa. Credo che abbia la febbre. Te ne potresti occupare tu, Catherine? Io non saprei proprio da dove cominciare. »
« Certo. Prima però portiamolo in una delle stanze per gli ospiti. »
Alex prese di nuovo Jade in braccio e si diresse verso le scale che portavano al piano di sopra.
« Portatemi degli asciugamani, una bacinella e dell’acqua. – disse Catherine alla domestica prima di seguire il fratello per le scale.
Catherine volle restare da sola con la domestica nella stanza in cui portarono Jade. Solo quando l’ebbe spogliata per asciugarla si accorse che era una femmina: l’avevano tratta in inganno i capelli cortissimi e gli abiti maschili che indossava.
Le fece indossare una delle sue vecchie camicie da notte e la distesero sul letto, coprendola affinché potesse scaldarsi; durante tutta la notte si prese cura di lei, assistendola mentre delirava a causa della febbre.

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Capitolo 3
*** La bambola ***


Stanchissima, poco prima dell’alba Catherine si addormentò su una sedia che aveva accostato al letto di Jade, con le braccia mollemente appoggiate ai braccioli.
Si era presa cura di Jade per tutta la notte e quando finalmente la bambina si era calmata anche lei aveva ceduto al sonno.
Proprio allora Jade riaprì gli occhi: la prima cosa che vide fu il soffitto della stanza, bianco, nella mente non parlava nessun pensiero. Sentì di avere la fronte umida e quando sollevò una mano per toccarsela vi trovò sopra un panno bagnato.
Sentiva il cuore che le batteva forte in petto, debole; sentiva di non avere forze, come se le fossero state risucchiate.
Si sollevò un po’, lasciando che la schiena sprofondasse nel morbido strato di cuscini appoggiati alla testata del letto. Un letto immenso, notò, oltre che estremamente comodo.
Vide il lusso che la circondava, di quella stanza in cui si trovava e si chiese se non stesse sognando. Non ricordava di esserci arrivata da sola, forse qualcuno ce l’aveva portata. Non riusciva nemmeno a ricordare cosa fosse successo la sera prima.
Vagando confusamente con gli occhi nella stanza Jade notò la ragazza che dormiva accanto al suo letto. Si domandò chi fosse e se era stata lei a portarla fin lì. Dormiva e anche se avrebbe voluto farle delle domande non osò svegliarla. Decise che avrebbe aspettato che si svegliasse da sola.
Aspettava solo da pochi minuti quando sentì lo stomaco brontolarle per la fame. Le sfuggì un sospiro e chiuse gli occhi: pensò che se avesse dormito non avrebbe sentito i morsi della fame.
Il sonno però non arrivò e i suoi tentativi di dormire furono inutili.
Credeva che sarebbe morta per la fame o per la noia e che non le restava altro se non aspettare e scoprire quale delle due l’avrebbe uccisa per prima.
Quando finalmente sentì la ragazza mormorare: si svegliò e dopo che si fu sfregata gli occhi le rivolse uno sguardo sorpreso. Si alzò dalla sedia come fosse stata una molla e, con gentilezza, le disse:
« Sei sveglia. Come ti senti? »
Mentre parlava, le tolse il fazzoletto dalla fronte e gliela sfiorò con il palmo di una mano.
« Sembra che la febbre sia scesa. Avrai fame, immagino. »
« Dove sono? »
Catherine stette un attimo in silenzio; poi, sorridendo, rispose:
« Ieri sera mio fratello ti ha trovata svenuta davanti a casa nostra e ti ha portata qui. Il mio nome è Catherine Elle Armstrong, ma tu puoi chiamarmi solo Catherine. Il tuo nome invece qual è? »
« Jade. »
Mentre stava appoggiando il fazzoletto sul comodino, Catherine le domandò:
« Cosa significano quei cerchi alchemici che hai sui palmi delle mani? »
Jade si guardò le mani: solo allora si accorse che non aveva i guanti.
Terrorizzata, domandò:
« Dove sono i miei guanti? Perché me li avete tolti? »
Catherine la guardò stranita, senza riuscire a capire l’origine di tanta agitazione. La sera prima glieli aveva tolti e messi insieme agli altri vestiti in un cesto che si trovava ai piedi del letto, in attesa di farli lavare. Li prese e quando li porse a Jade questa glieli strappò di mano, indossandoli frettolosamente. Allora parve calmarsi.
Proprio in quel momento, per rompere la tensione che si era creata, si sentì bussare alla porta.                                                             Il mattino era ormai sorto, placido e sereno e l’anziana domestica che aveva aiutato Catherine durante la notte arrivò portando con sé la colazione per la piccola.
Le misero un vassoio stracolmo di cibo sulle gambe e le dissero che era tutto per lei e che poteva mangiare tutto quello che voleva.
Jade non aveva mai visto così tanto cibo e mai sentito profumi così buoni. Il primo che la colpì fu l’aroma del tè fumante, che riempiva con il suo colore ambrato una tazza trasparente; poi, fu investita dal profumo del pane tostato, della pasta delle brioche cosparse di zucchero a velo e della marmellata di ciliegie.
Non sapeva da dove cominciare.
Vedendola in difficoltà, Catherine prese una delle fette di pane tostato: vi spalmò sopra della marmellata e gliela porse.
« Assaggiala, è la mia preferita. »
Jade le diede un primo morso incerto: dire che le piacque è poco, anche se le sarebbe piaciuta qualunque pietanza le avessero servito.
Mentre lei mangiava Catherine le preparò anche le altre due fette di pane e le versò lo zucchero nel tè.
Era al terzo morso della brioche, alternando un boccone un sorso di tè, quando si sentì di nuovo bussare alla porta. Sia Jade che Catherine rivolsero lo sguardo alla porta, dalla quale entrò un uomo.
« Mi hanno detto che la bambina si è svegliata. »
La voce dell’uomo turbò un po’ Jade: era scura e profonda, così diversa da quella di Catherine. Le ricordava vagamente la  sua  voce, ma questa era priva di quella nota di risentimento e crudeltà.
Anche l’aspetto dell’uomo la spaventò all’inizio: era altissimo, immenso e benché coperto da una camicia e un paio di pantaloni neri si capiva che aveva una corporatura possente.
« Sono felice di vederti mangiare, significa che stai meglio. – disse. Jade ebbe l’impressione che volesse dire altro, ma qualcosa lo trattenne. Prese a guardarla stupito e poi disse:
« Sei una bambina di Ishval? »
Jade non rispose, si limitò a guardare spaventata, come colta di sorpresa, prima l’uomo e poi Catherine, che ora la guardava interrogativa.
« Cosa ci fai qui a Central City? I tuoi genitori si sono trasferiti qui? »
«No. – rispose Jade con un filo di voce – Non ho i genitori. »
Alcuni istanti di silenzio seguirono quella rivelazione.
« Che maleducato! – disse l’uomo quasi esclamando – Ho interrotto la tua colazione. Prima di lasciarti continuare permettimi di presentarmi: il mio nome è Alex Louis Armstrong. A parte la mia cara sorellina nessuno mi chiama per nome, ma vorrei che tu mi chiamassi solo Alex. E voi, signorina, come vi chiamate? »
Le porse la mano: era una mano enorme, non ne aveva mai vista una così, sembrava quasi scolpita nella pietra. Vi mise dentro la sua manina esile e piccina e accennando mezzo sorriso rispose:
« Mi chiamo Jade. »
 
Mattina e pomeriggio trascorsero tranquilli. Jade dormì molto e mangiò per la prima volta in tre anni pasti regolari e abbondanti. Rimase tutto il giorno a letto, alzandosi solo di tanto in tanto per andare in bagno e per pranzare seduta al tavolo che si trovava al centro della camera. Sempre per la prima volta godette della compagnia di qualcuno: Catherine non la lasciò sola quasi mai, rimase perfino a pranzare con lei. Chiacchierarono anche: per lo più fu la ragazza a parlare, mentre Jade si limitava ad ascoltare, ma la cosa non la infastidì. Non era abituata a parlare con la gente: le avevano insegnato solo ad obbedire agli ordini, non ad esporre le sue opinioni e i suoi pensieri. Al laboratorio le era capitato di parlare con alcuni bambini, ma per via delle circostanze erano sempre state conversazioni fatte di pochi scambi di parole appena bisbigliate.
 
Circa due ore prima di cena il sonno di Jade, che si era addormentata,                     
fu disturbato da incubi orribili. Doveva aver gridato perché quando si svegliò, ansimante, sudata e con il battito del cuore accelerato, trovò Catherine e Alex chini su di lei, che la osservavano preoccupati. Inoltre, le era rimasta come la sensazione di un grido nelle orecchie.
« Calmati Jade, hai avuto un incubo. – sentì la voce di Catherine parlare.
Appena fu riuscita a uscire dal suo incubo e vide il volto della ragazza, la bambina si strinse istintivamente al suo braccio, mentre le lacrime le rigavano il volto. Sussultando lasciò il braccio di Catherine e la guardò come se, avendo commesso un grave errore, si aspettasse di essere punita.
Catherine le prese le spalle e disse:
« Non voglio farti del male. »
La lasciò. Jade la vide andare verso il tavolo al centro della stanza sul quale c’erano una brocca d’acqua e un bicchiere.
Mentre la ragazza riempiva il bicchiere, Armstrong si sedette sul bordo del letto e aiutò Jade a raddrizzarsi.
Tornata da lei, Catherine la aiutò a bere sorreggendole il bicchiere. Quando si fu dissetata ed ebbe smesso di piangere e quando ebbe l’impressione che si fosse calmata un po’, Armstrong provò a porle questa domanda:
« Avresti voglia di raccontarci cosa hai sognato? »
« Un alchimista. »
La confessione di Jade, così stranamente diretta e concisa, colse di sorpresa i due fratelli, ma non quanto l’immagine che quelle parole avevano evocato.
 « Hai paura degli alchimisti? – disse Armstrong – Bé, non mi sorprende, gli adulti di Ishval ci considerano alla stregua di demoni e così ci faranno apparire agli occhi dei bambini. »
« No. – fu la secca risposta di Jade – Io non conosco quelli del mio popolo, non so cosa dicano ai bambini. E non ho parlato  degli  alchimisti, ma di  un  alchimista. »
« Perdonami, allora. – rispose Armstrong titubante – Come si chiama? Magari lo conosco, perché sai, anche io sono un alchimista, un Alchimista di Stato precisamente. »
Jade sgranò gli occhi: Armstrong si accorse della sua espressione quasi spaventata.
« Non siamo tutti cattivi noi alchimisti. Ce ne sono molti che usano l’alchimia a sproposito, è vero, ma altri se ne servono per aiutare le persone.»
« Gli Alchimisti di Stato non fanno questo. – disse Jade. Nel suo sguardo si poteva leggere del risentimento – Non credo nemmeno che un qualsiasi alchimista possa aiutare qualcuno. »
« Cosa sai dell’alchimia? »
« Niente, – disse, mentre osservava le sue mani avvolte nei guanti bianchi – se non che è un’arma che viene usata con lo scopo di distruggere. »
L’alchimista la guardò pensieroso.
« Bene, per oggi basta parlare di queste cose. Immagino che tu voglia dormire adesso, vero? Ma non da sola, dopo quell’incubo. Sei ancora spaventata? »
Jade non si mosse e non rispose, ma non fu necessario perché Armstrong capisse quale fosse la sua risposta.
« Catherine, perché non la portiamo nella tua stanza all’ultimo piano? Ormai tu non la usi più, ma la domestica la tiene sempre pulita e in ordine. »
Catherine, che aveva capito dove il fratello voleva andare a parare, sorrise e annuì.
Armstrong allora si alzò dal letto, scostò le lenzuola che coprivano Jade e prendendola in braccio disse:
« Non vorremmo che ti stancassi. »
Jade arrossì leggermente. Per Armstrong la bambina non doveva pesare più di una piuma o di una minuscola farfalla e Jade non ebbe paura nemmeno per un momento di cadergli dalle braccia, nemmeno quando salirono le lunghe scale che portavano al piano superiore.
Si fermarono davanti a una porta di legno dipinta di bianco e allora Armstrong la mise a terra. Si inginocchiò accanto a lei e le prese le mani; Jade parve irrigidirsi un po’ e gli rivolse uno sguardo a metà fra il diffidente e l’interrogativo.
« Non guardare finché non te lo dico. »
E le portò le manine al volto, per coprirle gli occhi.
Nel buio, Jade poté sentire il cigolio di una chiave che girava in una serratura e poi quello della porta che si apriva.
« Guarda. »
Jade aprì gli occhi. Non aveva mai visto niente del genere, anzi, non aveva mai immaginato che potesse esistere qualcosa di simile, nemmeno nei suoi sogni più belli.
La stanza che si apriva davanti a lei, immensa, era piena di...
« Bambole! »
Erano un’infinità e si trovavano ovunque, su mensole appese al muro, su scaffali, sedute su grossi comò; la stanza sembrava quasi casa loro: c’era un divanetto di velluto blu, un tavolino basso con delle sedie a misura di bambino, dagli schienali finemente intagliati. Un grande tappeto copriva metà del pavimento della stanza, contro la parete di fondo c’era un armadio e nella parete di fronte alla porta si apriva una finestra con due lunghe tende che ricadevano morbidamente a terra.
Sopraffatta dallo stupore, Jade rimase sulla soglia a bocca aperta.
« Entra, coraggio. Puoi andare a guardarle e giocare un po’ e scegliere quella che preferisci. »
Jade guardò ancora una volta Armstrong.
« Tutte le bambole che vedi sono mie, – disse Catherine – quando ero piccola trascorrevo giornate intere a giocare con loro in questa stanza. Ora se vuoi puoi giocarci tu e sarei ben felice di regalarti la bambola che preferisci. »
Jade allora entrò nella stanza: guardò una ad una tutte le bambole, esitando all’inizio a toccarle perché erano così delicate e belle che aveva paura di romperle. Incoraggiata dai fratelli Armstrong, guardò anche nell’armadio, che scoprì contenere vestiti di ricambio per le bambole, nastri per capelli, scarpe e altri accessori per giocare.
Ci trascorse dentro un’ora abbondante e alla fine scelse la bambola che ai suoi occhi risultò essere la più bella di tutte.
Stava seduta in disparte sull’angolo di un comò, una bambolina con la pelle di porcellana bianca e liscia, con cucito addosso un morbido vestitino azzurro cielo con le balze arricciate. La bocca, sottile, era colorata di un rosa appena percettibile e aveva un’espressione serena. Gli occhi, nascosti sotto delicate ciglia nere, erano disegnati con precisione, grigi e con una grossa pupilla nera e luccicante. I capelli sembravano veri ed erano lunghi e folti, lisci e neri. Jade vi passò sopra la mano più e più vote facendoli scorrere tra le dita lentamente, come se li stesse pettinando.
 Gli occhi di Jade brillavano, increduli. Le sembrava impossibile che una cosa tanto bella stesse succedendo a lei. non era mai stata trattata con così tanta gentilezza da qualcuno ed era sempre stata convinta che non sarebbe mai stata capace di suscitare sentimenti di gentilezza in nessuno.




Angolo Autrice
Eccomi qua con il terzo capitolo! Ci ho messo un po' ma alla fine è arrivato.
Spero che la storia vi stia piacendo e che in seguito possa piacervi di più. Spero anche di non averla resa esageratamente mielosa... >.< Ma ci sta, povera Jade, un pò di gentilezza anche per lei! E' così piccolina!
Forse qualcuno si starà chiedendo dov'è la guerra di cui ho detto che avrei parlato... abbiate pazienza, arriverà (purtroppo). 
Mi servivano però questi capitoli, diciamo, più tranquilli per introdurre un po' il personaggio di Jade.
Ringrazio molto le persone che leggono la mia storia e quelle che fino ad ora hanno commentato. Se gli altri avessero voglia di lasciarmi anche loro un commentino, anche piccolo piccolo, sarei felice di leggerlo^.^

_Elwing

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