Affari di famiglia

di IreChan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Salve a tutti! 
Eccomi qui con una fanfiction sulla mia coppia preferita in assoluto nell'universo Pokémon: la Silverspawnshipping ( Ovvero, GiovannixAtena ). Probabilmente il rating tra un paio di capitoli muterà ( suppongo ) in arancione. Ma dato che la cosa non è ancora assodata, beccatevi il prologo.
Buona lettura e spero di ricevere presto i vostri pareri sulla storia!

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" Madre. "

 

Una donna dai capelli rossi, sentendo queste parole, alzò appena lo sguardo da una pila di scartoffie che stava frettolosamente controllando e impilando. Non l'aveva sentito arrivare.

 

" Silver. "

 

Replicò, con un unico cenno del capo come saluto per il figlio.

 

" È da molto che non ti vedo. Cosa ti spinge a venire da queste parti? "

 

Chiese lei, senza cessare il suo operato. Il suo arrivo l'aveva piuttosto scombussolata, era da anni che non aveva più sua notizia, se non qualcuna, di rado, da parte sua. Eppure non lo diede a vedere.
Il loro rapporto, insomma, non era propriamente quello tipico di una madre e di un figlio.

 

" Curiosità. " Replicò lui, laconico, spostando lo sguardo, senza apparente interesse per la freddezza della madre.

 

" Che genere di curiosità, ragazzo? Perché, in caso tu non l'abbia notato, qui non mi sta andando di lusso " iniziò lei, indicando l'ambiente circostante, in stato di totale degrado.

" Il Team Rocket è stato sciolto, come penso che tu ben sappia, e qui ci sono documenti importanti da recuperare. E, fortunatamente, non sono andati persi dopo l'attacco alla base. "

 

" E a cosa dovrebbero servire?” Ribattè lui. “Ormai è finito. Lui l'ha sciolto, dopo che quel moccioso l'ha sconfitto. Era troppo debole, a quanto pare. Come quest'organizzazione, dato che è bastato un solo ragazzino per mettere tutto a soqquadro. " era disgustato, e si notava chiaramente.

Ma a quelle parole, lei si alzò di scatto, schiaffeggiando in modo assai violento il figlio, così simile a lei nell'aspetto. Ma anche simile a lui.

Cercò di rimuovere quel pensiero dalla mente. Aveva già sofferto abbastanza.

 

" Non ti permettere di parlare così di... Di lui e del Team! Tu non sai come stiano davvero le cose, razza di impertinente! "

 

Si poteva scorgere una strana luce dietro i suoi occhi scarlatti, infuocati di rabbia. Il ragazzino si scostò, sbuffando e socchiudendo gli occhi, non mostrando alcuna particolare reazione al violento schiaffo della donna: forse solo la guancia, che aveva assunto violentemente un colorito rosso, lo tradiva.

Lei si rimise a sedere, cercando di contenersi il più possibile. Quel moccioso aveva gettato sale su una ferita aperta, che chissà quanto tempo ancora avrebbe impiegato a sanarsi.

 

" Vai al sodo. " Bofonchiò poi, tentando di soffocare quel moto di rabbia.

 

Doveva essere qualcosa di molto importante, dato che si era scomodato a raggiungerla fin lì.

 

" Voglio dire, non penso tu sia venuto qui solo per salutare la tua adorata madre. E non penso nemmeno che tu sia qui in una gita di piacere. Quindi, a meno che tu non decida di evitare i tuoi indispensabili commenti, quella è la porta. "

 

E, in caso non fosse stata abbastanza chiara, all'indicazione vocale seguì un gesto in direzione della sopracitata, sottolineato dall'unghia dell'indice che, nonostante tutto, era impeccabilmente laccata di rosso.
Silver prese una sedia, che liberò dallo spesso strato di polvere che la ricopriva, e vi si sedette, mettendosi di fronte alla madre. Per la prima volta dall'inizio di quell'incontro, la guardò dritta negli occhi. In un certo senso, le sembrava di guardarsi allo specchio.

 

" Ho parlato con... Con lui, prima. "

 

Il cuore di lei mancò un battito ma, ancora, non lo diede a vedere.

 

“... Va' avanti.” Replicò, ma quasi esitante. Non aveva il coraggio di chiedergli a quanto tempo si riferisse quel “prima”.

Il ragazzino dai capelli rossi parve ancora più piccolo mentre cercava di tirare fuori quella frase che sembrava essersi incastrata nella sua gola.


" Parlamene. "

Sbottò improvvisamente il figlio in tono imperioso, quasi spaventandola.

Beh, quello che non aveva preso da lui nell'aspetto l'aveva compensato con il carattere, pensò la madre, ma scosse subito la testa, quasi a voler allontanare persino quel pensiero.

" Parlamene "

Riprese immediatamente, dopo quell’attimo di esitazione.

" Parlami di lui. Di Giovanni, di mio padre, parlami di come l'hai conosciuto, di come avete deciso di... Avermi e perché... Mi avete... respinto”

Su questo punto sembrava procedere esitante.

“ Dimmi del Team. Voglio sapere tutto. Almeno ora che... lui è sparito. ”

A mano a mano che le parole uscivano dalle sue labbra, sprezzanti e colme di rabbia, sembrava sgonfiarsi. E quel ragazzino tornò piccolo e indifeso, quasi come la prima volta che l’aveva tenuto in braccio. E, come allora, era ugualmente terrorizzata.

Non colse le provocazioni, ma sentì distintamente una fitta al cuore.
E in quel momento decise che gli avrebbe raccontato tutto, almeno per far placare quel mostro che le si agitava in petto. Avrebbe parlato.

" Sì. "

Disse semplicemente. Avrebbe parlato.

Appoggiò il mento sulle mani e, nuovamente, lo fissò a sua volta, dritto negli occhi, senza alcuna intenzione di distogliere lo sguardo.

E Atena iniziò a parlare.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Eeeee- Rieccomi! Finalmente si entra nel vivo della storia con il primo capitolo. Sento cori gioiosi levarsi intorno a me.
...Dunque, dato che non so che dire tranne fare l'idiota beccatevi il capitolo e buona lettura. 

---

Era assurdo, stava pensando Atena, era assurdo dover fare tutto quel lavoro per poi essere trattati come uno straccio dai superiori.
Lei, nel momento in cui aveva deciso di unirsi al Team Rocket, non aveva assolutamente pensato al suo futuro come a quello di una semplice recluta. No, aveva sperato che il suo potenziale venisse riconosciuto, aveva sperato di fare subito carriera.
Voleva i soldi, il potere, essere temuta, non l’aveva mai sfiorata il pensiero che avrebbe potuto passare il tempo a rubare i Pokémon a mocciosetti per poi essere oggetto delle frustrazioni dei suoi capi.
No, non desiderava quello.
Eppure, per il momento, sembrava essere obbligata a farlo, a rimanere infilata dentro un'anonima tuta nera, con persino i suoi ribelli capelli rossi schiacciati sotto l'altrettanto anonimo berretto della divisa e a continuare quelle stupide attività.
E a farlo ancora. Ancora. E ancora.
Giorno per giorno, niente di più della monotonia.
 
Magari, pensava con un po' di astio osservando le altre grigie e anonime figure che ogni giorno le sfilavano accanto, a loro andava bene così, magari dava loro una sensazione di potere.
Ma lei, sebbene poco più che una ragazzina, era ambiziosa, e non si sarebbe fermata finché non avrebbe raggiunto la vetta. Almeno di questo ne era certa.
Ambizione o meno, comunque, quella giornata era stata particolarmente stancante. Solita routine, solita noia, altra frustrazione.
E questo non l’aveva aiutata nel tentativo di sopportare un nuovo commento sgradevole da parte di Maxus, uno dei Generali del Team.

“Non credevo che una recluta potesse essere così straordinariamente debole!” aveva detto.

Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. E lo aveva sfidato a una lotta di Pokémon.
Sulle prime, lui aveva riso sguaiatamente, attirando così su entrambi l'attenzione di ogni persona nel raggio di qualche chilometro, ma poi, avendo capito che faceva sul serio, aveva accettato, ancora scosso dai singulti delle risate.
Ma ben presto aveva cessato di ridere: quella ragazzina all'apparenza così fragile, era una formidabile macchina da combattimento. Crudelissima, sì, aveva fatto combattere i suoi tre Pokémon quasi fino allo sfinimento, eppure, in quel momento, quello che giaceva a terra, chiaramente esausto, non era di Atena. Era di Maxus. Il suo ultimo Pokémon.
Calò il silenzio. Nessuno osava fiatare.
Ma, ben presto, fu infranto.

“Sai cosa vuol dire questo?”

Fece lei, con un ghigno impresso sul volto, fissando l'uomo che, attonito, era piantato di fronte a lei in una posizione alquanto comica.

“Dimmi, Maxus... Chi è quello così straordinariamente debole, ora? La recluta... O il Generale?”

Nessuna risposta. Qualche altra recluta, che aveva assistito a tutta la scena, ridacchiò.
Erano rare, se non quasi inesistenti, le occasioni in cui si poteva ridere di un superiore. O, più semplicemente, ridere.

“Murkrow, ritorna.”

Ordinò in tono secco al Pokémon che svolazzava di fronte a lei. E questo ebbe appena il tempo di gracchiare, in un'imitazione piuttosto convincente della sua voce, un "ritorna", prima di essere riportato dentro la sua sfera.
Guardò ancora verso l’uomo.
Niente, sembrava paralizzato, proprio come i suoi Pokémon. A quel pensiero ridacchiò ancora.
Il Generale solo in quel momento parve ridestarsi e, dopo aver urlato verso tutte reclute per coprire le loro risatine sempre più insistenti, rivolse nuovamente la sua attenzione alla ragazzina con i capelli di fiamma.

“Non permetto che una semplice recluta mi parli in questo modo! Farò... Farò rapporto al Capo!”

Tuonò, ma con un lieve sottofondo di isteria nella voce.
Ridicolo.
Proprio come la sua squadra.
Ma la replica al suo tentativo di difendersi non tardò ad arrivare.

“E cosa vorresti dirgli? Che sei stato battuto, o meglio, umiliato, da una ragazzina con metà dei tuoi anni?”

Questa frase, pronunciata con un vago sentore di disprezzo, non proveniva da Atena, bensì da un uomo. Lo sciame di reclute si disperse immediatamente, ma lei rimase lì. Maxus sembrò farsi piccolo piccolo.

“Capo, io non—“

Tentò lui, ma venne zittito da un semplice cenno della mano di Giovanni.

“Non peggiorare la situazione, al momento non volge a tuo favore. Piuttosto, la signorina...?”

Disse, voltando lo sguardo verso di lei e squadrandola dall'alto al basso. Non era un granché rassicurante, pensò Atena, sembrava un Pokémon feroce che soppesava con lo sguardo una possibile preda. Eppure, la cosa migliore da fare era sfruttare quella situazione a suo vantaggio.

“Incantato.”

Si ridestò lui, dopo che il suo sguardo penetrante aveva finito di valutare ogni suo singolo aspetto. E, inaspettatamente, le prese la mano, chinandosi e sfiorandola appena con le labbra, ma mantenendo il contatto visivo.
La ragazza non disse nulla: era troppo sconvolta per parlare, vuoi per l'inaspettato colpo di fortuna, vuoi per il baciamano improvviso. Perciò, approfittando di quell’attimo, Maxus se la diede a gambe. Il Capo sembrò non notarlo.

Quest’ultimo si rialzò poco dopo con un angolo della bocca leggermente all'insù, quasi in una sorta di sorriso. Abbastanza agghiacciante, però. Poi riprese a parlare.

“Ora, vediamo un po'. Una semplice recluta, eppure ha sconfitto uno dei nostri migliori Generali.”

“ Il migliore? Non avete di meglio da offrire? ” ribattè lei, ma si zittì un istante dopo. Maledizione alla sua linguaccia. Ma lui non parve prenderla male.

“Oh, certamente abbiamo di meglio. Ma comunque, posso chiederle come ci sia... riuscita? ”

La ragazza tacque: non ne aveva assolutamente idea. Non aveva nessun legame particolare con i suoi Pokémon che, anzi, considerava solo strumenti per sconfiggere la gente e fare soldi. Non era neanche particolarmente esperta come allenatrice. Eppure, Murkrow, Gloom ed Ekans avevano sconfitto, seppur non facilmente, Maxus, attirando su di sé l'attenzione del capo. Non c'erano spiegazioni. Era successo e basta.

“Dal suo silenzio quindi deduco che si tratti di mera fortuna del principiante.”

Terminò l'uomo. Solo in quel momento Atena si accorse del lunghissimo e imbarazzante silenzio in cui era piombata. Dannazione. Quello non era affatto un buon modo per ingraziarsi il capo.
In ogni modo, preferì continuare a tacere: almeno non avrebbe balbettato assurdità che l'avrebbero fatta piombare ancora di più in un cupo imbarazzo e di conseguenza spegnere quella scintilla di attenzione di lui nei suoi confronti. No. Doveva espandersi, quel fuocherello, doveva divampare. Solo così avrebbe potuto raggiungere le vette più alte del potere.
La nuova frase dell'uomo la colse nel bel mezzo dei suoi pensieri.

“Che ne direbbe di seguirmi? La sua richiesta precedente mi ha suggerito una proposta. Vorrei discutere con lei di... affari.”

Affari? E che genere di affari? Dopotutto l'aveva solo vista vincere una lotta. Certo, una lotta contro un Generale, ma pur sempre solo una lotta.
Ma magari aveva colto in lei del potenziale. A quell’idea le si illuminarono gli occhi.

“Certamente. Sarebbe un onore.”

Replicò dunque nel tono più zelante possibile.
E, in quel momento, capì che avrebbe fatto di tutto per occupare il posto che le spettava. Davvero di tutto.
 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Eccomi di nuovo, sono tornata ad aggiornare. Non vi ho abbandonati, non temete (?). Ci ho messo un po' ma, finalmente, aggiorno. Ah, e ci tengo a condividere questa gif che mi ha bloccato la scrittura per un giorno intero: http://i.imgur.com/Fwahn4n.gif
*Coffcoff*. Comunque, buona lettura. E Giovanni non vi sembrerà gentleman come prima ma più... boss ( ho preferito aggiungere "tematiche delicate" alle caratteristiche, preferirei non "traumatizzare" nessun lettore).
---

Quel percorso sembrava non finire mai. Da quanto stavano camminando? Eppure si trattava soltanto di un tragitto minimo, dovevano soltanto arrivare all'ufficio di lui, quello del capo.
Ma perché, allora, sembrava durare ore? Migliaia di interrogativi continuavano a confonderla e a farle perdere il senso della realtà.

Riusciva a stento a credere che quel tragitto fosse iniziato, ma il fatto che entrambi fossero caduti in un imbarazzante silenzio che nessuno dei due pareva essere intenzionato ad infrangere, chi per un motivo, chi per un altro, non l’aiutava affatto.
Un passo, e poi ancora uno, ed un altro ancora.
Maledetto cuore che sembrava volerle esplodere in petto.
Ma perché? In fondo aveva sempre saputo, da quando si era unita al Team, che prima o poi l’avrebbero notata, no?
Tra sé e sé, tentava di darsi una spiegazione logica per quella reazione, che certamente era determinata dal fatto che il motivo della convocazione non fosse stato del tutto esplicitato.
Per fortuna riusciva a rimanere impassibile, almeno in quello era brava, ma probabilmente non abbastanza da convincerlo del suo assoluto distacco rispetto alla situazione.
Chiuse gli occhi per qualche istante.
Quella visuale era più rassicurante.

Il nuovo dubbio che stava iniziando ad attanagliarle la mente, però, riguardava un’altra cosa, ovvero la richiesta che lui le aveva fatto: parlarne in privato.
E se avesse voluto punirla per aver osato sfidare un Generale e, addirittura, vincere? O avrebbe potuto farle pagare l’arroganza della prima frase che gli aveva rivolto. Sì, il motivo era sicuramente quello.
Spalancò gli occhi di colpo e respirò a fondo cercando di immagazzinare più aria possibile nei polmoni, come se quel pensiero l’avesse colpita così duramente da svuotarglieli del tutto.
Strinse convulsamente una delle pokéball che teneva alla cintura stando attenta a non farsi notare, ma la maledetta le scivolò dai palmi delle mani imperlati di sudore.
E si sganciò.
E cadde.
Si udì un rumore sordo che infranse quel silenzio e i punti interrogativi che ronzavano nel suo cervello come uno sciame di Combee.
Entrambi si fermarono, lui inarcò leggermente un sopracciglio.
Atena si chinò con l'intenzione di raccoglierla e di sfuggire al suo sguardo, ma l'uomo la precedette.

“Stia più attenta la prossima volta.”

Disse quindi nel porgergliela.
Dannazione, non avrebbe dovuto lasciarlo fare.
Ma di nuovo lei non disse nulla e non compì ulteriori gesti che potessero tradire il suo imbarazzo, limitandosi a fare solo un piccolo cenno d’assenso. Con quest’ultimo, però, cercò anche di abbassare lo sguardo e possibilmente di mantenerlo fisso sul pavimento. Quello, almeno, non avrebbe tradito la sua agitazione.
Dunque recuperò in fretta la pokéball e la riagganciò alla cintura.
Non poteva permettersi altri problemi del genere, non in quel momento.
Figurarsi come l’avrebbe considerata il capo.
No, aveva degli obiettivi, ed essi andavano raggiunti ad ogni scopo. Ripresero a camminare ma, a dispetto dell’agitazione del momento, quell’attimo aveva alleggerito la sua tensione: quei pensieri, che fino a poco prima la tormentavano, adesso sembravano essersi dileguati.
Di conseguenza era persino mutata l’espressione dipinta sul suo volto: quest’ultimo aveva addirittura recuperato quella vaga aria di superiorità che la caratterizzava.
In fondo, pensò, perché avrebbe dovuto chiamarla nel suo ufficio per infliggerle una punizione? Farlo davanti alle altre reclute sarebbe servita da monito, no? Non poteva essere per quel motivo, dunque.
Sospirò, finalmente serena, mentre il tamburo nel suo petto aveva finalmente cessato la sua folle musica.

Ed ecco che, d’improvviso, il suono dei cardini di una porta che cigolavano la riportò alla realtà.
Significava una sola cosa: erano arrivati.

“Prego, avanti.”

La invitò lui.
Atena, nel muovere i primi passi all'interno della stanza, si sentì quasi intimorita dall'imponenza del luogo, che sembrava essere stato costruito proprio a quello scopo.
Era in assoluto la stanza più grande dell'edificio... o almeno di quelle che lei aveva visto.
Cercò di non guardarsi troppo intorno, sicuramente non l'avrebbe aiutata a mantenere quella fragile calma che aveva ottenuto con enormi difficoltà.
Sarebbe stato davvero fantastico continuare a concentrarsi su ogni singola venatura del legno del quale era costruita la scrivania sennonché, ad un certo punto, si sentì picchiettare insistentemente sulla spalla.
Si voltò di scatto e lo vide con un’espressione di lieve incredulità dipinta in volto.
Oh, no.
Si era piantata lì, in mezzo alla stanza. Alla faccia di “ingraziarsi il capo”. Non aveva dubbi sul fatto che l’avesse trovata decisamente ridicola in quella posa rigida e immobile, nemmeno a voler mettere radici nello splendido parquet che rivestiva il pavimento.

“Gradirebbe sedersi?”

Le domandò d’un tratto, e lei gli fu immensamente grata per non aver infierito.
Si sedettero, lui nella posizione di potere, lei, di fronte, che si sentiva sempre più minuscola e impotente, diritta e rigida come prima.
Sicuramente anche la scrivania era stata specificamente progettata a quello scopo.

“Come le ho accennato prima, vorrei farle una proposta.”

Incominciò il capo.
Lei annuì in maniera quasi frenetica.

“L’ho vista combattere. Non è assolutamente da sottovalutare, signorina—?”

“Atena.”

Rispose nel tono che riteneva più determinato e colmo di sicurezza possibile ma che, in quel momento, suonava
quasi un sussurro.

“Atena, dunque. Le ho già chiesto prima come ci sia riuscita ma non ho ottenuto risposta, quindi non insisterò su questo argomento. Ma, ora, ho una proposta per lei.”

Di nuovo quel sorriso. Anzi, più che un sorriso era un ghigno.
Lei cercò di ricomporsi.
Ora più che mai non doveva mostrare cedimenti, eppure il folle tamburo nel suo petto aveva ricominciato a suonare.
Si schiarì appena la gola.

“Che genere di proposta?”

Domandò.

“Una che si possa risolvere con una battaglia di Pokémon, insomma. Dato che lei mi sembra piuttosto ambiziosa,
credo non la rifiuterà, nonostante le condizioni da me poste.”

Il fine giustifica i mezzi, tentò disperatamente di ricordarsi, il fine giustifica i mezzi.
Avrebbe accettato, a qualsiasi condizione.
Fece un cenno con la testa, invitandolo a continuare.

“Ora, noi combatteremo. Cerchi di vederla come una semplice lotta tra allenatore e capopalestra, non le sarà difficile. Ma, ad essa, pongo due condizioni: se sarà lei a vincere, sarà nominata Generale, ma, se a vincere sarò io...”
Il cuore non sembrava volerle dare tregua.

“... Le concederò comunque questa possibilità ma, dato che devo trarre beneficio anche io dalla sua sconfitta...”
Perché prolungava l’agonia?

“...Come posso dirlo senza risultare volgare-? Diciamo, insomma, che trarrò benefici... da lei.”

Ne era sicura. Non avrebbe potuto essere altrimenti.
Doveva solo dare una risposta, ma la scelta era ardua. Rischiare e magari ottenerne i benefici o rifiutare e tornare insieme al branco di reclute?
No.
Avrebbe dovuto fare qualsiasi cosa per raggiungere la vetta, come ripeteva da giorni, settimane, mesi.
Così, lentamente ma in modo deciso, annuì.
Di nuovo il ghigno sulla faccia del capo.

“Perfetto. Iniziamo.”

 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Rieccomi con un nuovo capitolo! Stavolta non ho molto da dire se non "scusate l'attesa".
...
Buona lettura e buone feste a tutti. :3
---

“Si rialzi.”

Solo in quell’istante, a quelle parole, Atena si era accorta di essere finita per terra in ginocchio, con il capo riverso sul petto. Non aveva idea di come fosse accaduto, probabilmente era crollata quando Gloom, il suo ultimo Pokémon, aveva fatto lo stesso sotto i colpi inferti dal Rhydon appartenente all'uomo. Aveva appena avuto il tempo di richiamarlo nella pokéball, che si era accasciata.
La sua evidente sconfitta l’aveva colpita come un pugno, un sordo dolore l’aveva invasa ed era rovinata sul pavimento.
Aveva perso.


Eppure capì solo in quel momento che non avrebbe potuto aspettarsi altro che quell’esito. Le speranze di vittoria erano pressoché nulle, lei era in evidente svantaggio, ma il trionfo precedente l'aveva gonfiata di eccessiva spavalderia. E, di conseguenza, era precipitata rovinosamente. E si sarebbe ridotta a sottostare a desideri e capricci del capo.

E quest’ultimo lo sapeva, sapeva perfettamente che a perdere sarebbe stata lei, ma l’aveva presa in giro facendole quella proposta. Come se ci fossero state alternative, a meno che non avesse considerato il ritorno in mezzo a quello stupido branco di reclute come opzione valida.

Inspirò profondamente.

Ora i polmoni sembravano volerle esplodere.

Espirò di colpo, emettendo un suono piuttosto buffo.
In sottofondo si udì un colpo di tosse che ricordava vagamente un tentativo di dissimulare una risatina.

“Si rialzi, per cortesia.”

Si udì ancora.
Sentì, poi, che la stava picchiettando su una spalla insistentemente ma, al contempo, con delicatezza.
Alzò lo sguardo e si guardò attorno come se solo in quel momento si fosse accorta di non essere da sola. E vide una mano tesa come supporto per aiutarla a rialzarsi.
Paradossalmente l'uomo sembrava aver conservato i modi cortesi. Non che a lei importasse molto, comunque.

Sebbene non desiderasse altro che rimanere sul pavimento e, possibilmente, sprofondarci, la sua richiesta suonava molto di più come un ordine al quale le sembrò opportuno non disobbedire.
Dunque tentò lentamente di riprendere il controllo di ogni arto e si rimise in piedi, ma da sola, rifiutando anche solo di sfiorargli la mano.
Alzò inavvertitamente lo sguardo su di lui, solo per un attimo, e vide lo stesso inquietante sorrisetto di prima che gli si dipingeva sul volto.
Sì, stava giocando con lei dal momento in cui l’aveva vista così baldanzosa per quell’unica vittoria, probabilmente frutto di una fortuna da principiante. Ogni aspettativa stava crollando con lei.

Ma la cosa che la irritava di più era il fatto che quell’uomo non la ripugnava affatto e, in un certo senso, l’attraeva anche solo per come stava gestendo la situazione. Era forte, carismatico, un degno capo per il Team.
Forse avrebbe dovuto semplicemente farselo piacere. Magari avrebbe reso tutta la situazione molto più semplice.
Insomma, il suo principio era “il fine giustifica i mezzi”, quella situazione non avrebbe nemmeno dovuto sfiorarla. Eppure perché tentava così disperatamente di richiamare alla mente quel concetto?

Per l’ennesima volta, però, i suoi vorticosi pensieri furono fermati da lui.

“Venga a sedersi.”

Le disse in tono imperioso. Avrebbe voluto capire come riuscisse a far sembrare ogni sua frase così simile ad un ordine.
Lo seguì in maniera quasi meccanica e fece per sedersi nuovamente sulla sedia piazzata di fronte alla sua, quella piccola e minuscola in confronto al resto della stanza, quando uno schioccare di dita la bloccò nel compiere l’azione.

“Venga qui.”

Disse soltanto.
Dunque aveva deciso di ridurre l’attesa e di metterle le mani addosso. Strano, in una persona del suo calibro si sarebbe aspettata più autocontrollo.

Il cuore aveva preso a tambureggiare in modo folle e, se non come prima, addirittura peggio. Non la spaventava l’atto in sé, insomma, lei non era nemmeno vergine a dirla tutta, ma... Non sapeva spiegarselo. Forse la tormentava il fallimento nel volgere la situazione a suo favore o magari altro, proprio non riusciva a comprendere. Eppure era ben lungi dall’essere calma.

Ogni sua azione era divenuta meccanica, un piede andava davanti all’altro in successione e a scatti e il suo unico scopo era quello di rimanere in equilibrio, cosa che, al momento, sembrava alquanto difficile, pur trattandosi di pochi passi.
Ecco, ce l’aveva fatta. Serrò gli occhi e attese.

Qui.

Sottolineò l’uomo, indicando le sue ginocchia.
Si morse il labbro. Quella posizione l’avrebbe fatta sentire ancora più a disagio e in balìa di lui ma, molto probabilmente, lo scopo era proprio quello. Ma non avrebbe potuto fiatare né tantomeno tentare di opporsi.
Di conseguenza, stando attenta a ogni possibile movimento imprevisto del suo corpo, si sedette sulle sue ginocchia.
Deglutì a vuoto, tenendo le braccia irrigidite lungo i fianchi.
Il fine giustifica i mezzi.
Lo ripeteva nella sua mente ancora, ancora e ancora, sperando potesse sortire qualche effetto.
Il fine giustifica i mezzi.
Nonostante i suoi tentativi di nascondere l’agitazione, continuava a sembrare tutt’altro che rilassata o, magari, un minimo provocante, il che non avrebbe guastato.
Avrebbe dovuto soddisfare il capo, sì, ma in quelle condizioni?
Udì un rumore attutito che somigliava a un cassetto che veniva richiuso. Tentò di fare finta di nulla.

“Si rilassi.”

Facile a dirsi, per lui.
Ogni singolo muscolo era talmente contratto da sembrare di pietra. I suoi occhi, più che aperti, erano sbarrati. E, evidentemente, la cosa lo divertiva a tal punto che, questa volta, non tentò nemmeno di dissimularla, la risatina.
Dannata quella situazione e dannata anche la vaga attrazione che provava per lui e che le impediva di lasciarsi andare.
Avrebbe preferito provare disgusto nei suoi confronti, per lo meno non sarebbe stata coinvolta emotivamente. Si sarebbe sforzata.

“Ti ho detto di rilassarti.

Persino quella fragile barriera di distacco delle buone maniere era stata infranta. E persino quello era un ordine. Non avrebbe potuto fare il contrario.

Provò a distendersi, a sciogliere quella tensione che la irrigidiva e, bene o male, ci riuscì.
Alzò lo sguardo su di lui.
Ora sembrava soddisfatto.

Ma poi, ecco che una sua mano cominciò ad accarezzarle la coscia, il ventre, fino ad arrivare appena sopra il seno.
Che si sbrigasse, almeno.
Serrò gli occhi.

Ci fu una lieve pressione, un clic sommesso e, improvvisamente, si ritrovò in piedi.

Abbassò lo sguardo sul suo petto, incredula.
Ora, vi svettava una spilla da Generale.

Riportò gli occhi su di lui, ancora seduto, che provava evidente soddisfazione nell’averle causato così tanta confusione.
Ma poi, si alzò a sua volta.

Sebbene sembrasse tutto finito, per il momento, si avvicinò lentamente ad Atena, attirandola a sé.
Avvicinò le labbra al suo volto.
Poi all’orecchio.

“Inizi domani.”

La congedò.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Per la gioia di tutti- *si sentono insulti in sottofondo* sono tornata. Esatto. Eccomi con un nuovo capitolo. Con IL capitolo. Sì, avete capito bene.
Scusate se ci ho messo tanto ad aggiornare, ma tra compiti, vacanze, cosplay, battling vario e, sì, anche vita sociale, non ho avuto tempo. Ma ora mi faccio perdonare. Grazie a tutti per i commenti, spero che anche altri inizino a seguirmi! \(°3°)/
Buona lettura!

---
Quella notte non aveva dormito. Aveva passato ore e ore rannicchiata sul letto a osservare il distintivo che fino a poco prima troneggiava all'altezza del seno prosperoso, a rigirarselo tra le mani, a cercare di distogliere i pensieri che, alla fine, tornavano comunque a tormentarla. Aveva maledetto i suoi Pokémon, poi se stessa, e subito dopo aveva scagliato le pokéball dall'altra parte di quella nuova stanza che le era stata assegnata in quanto generale. Quattro mura che sembravano volerla schiacciare.
Chiudeva gli occhi, li riapriva di scatto, poi si voltava, cambiava posizione, sbuffava. Niente, il sonno non sarebbe sicuramente giunto.
Eppure tentava di ragionare, di dirsi che il suo corpo non era un prezzo troppo alto da pagare per una luccicante spilla da generale e tutti i privilegi che ne conseguivano. Era stata lei, in fondo, ad aver giurato a se stessa che il suo obiettivo sarebbe stato raggiunto a qualunque scopo.
Ma, più tentava di razionalizzare, più tutte quelle parole apparivano vane e insensate, ben distanti dalla realtà: aveva paura ed era in preda all'agitazione, all’ansia, quasi alla claustrofobia.
Si voltò sul ventre, prese ad attorcigliarsi convulsamente intorno a un dito una ciocca dei suoi capelli scarlatti e si rannicchiò su se stessa.
Il suo cuore aveva ripreso a suonare quella musica selvaggia simile a quella di non molte ore prima che però ora, in quella posizione, percepiva con ogni singola parte del corpo. Sperò che quell’incubo finisse presto.
Voltò lo sguardo verso l'orologio appeso al muro.
Tic tac.
Le quattro del mattino e qualche non ben definito minuto.
Tic tac.
Non si era accorta di quanto fosse trascorso, aveva perso del tutto la concezione del tempo.
Tic tac.
Che smettesse, quel maledetto suono, che tacesse, quell’arnese infernale!
Ora, a invaderle le orecchie, la mente, c'era quest'incessante ticchettio. E aveva preso a contare ogni secondo, minuto, ora, nemmeno fosse una condannata a morte.
Ogni tentativo di abbandonarsi al sonno, possibilmente senza sogni, era inutile.
Serrò gli occhi del colore del rubino, si portò le mani alle orecchie, quasi a voler tenere quel rumore penetante il più lontano possibile da lei.
Affondò il volto nel cuscino.
E gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
Così nessuno avrebbe potuto sentirla. Quel modo era l’unico per potersi sfogare.
Poi, d'un tratto, un lampo le balenò nella mente in quell’attimo di follia e le sembrò di dimenticarsi qualcosa. Giusto, le pokéball, che ora, dopo essere rotolate di qualche metro, giacevano tristemente in un angolino della stanza. E non si erano nemmeno aperte.
Si mise a sedere di scatto così come si era riversa, per poi poggiare i piedi nudi a terra. Un brivido le corse lungo la spina dorsale.
Si mordicchiò un labbro.
Si alzò in piedi.
A passi felpati si avvicinò alla sua meta, recuperando le tre sfere.
Si accorse al tatto che la loro superficie, a seguito dell'impatto, non era più liscia, ma risultava irregolare. Probabilmente anche chi ci stava all'interno si era fatto male.
Tanto peggio per loro, pensò Atena, che le avevano fatto fare una figura così disastrosa. Anzi, più che un pensiero era quasi un augurio, e, se non era accaduto, gliel'avrebbe fatta pagare appena avrebbe avuto tempo. Un Pokémon debole per lei non valeva nulla.
Un Pokémon che la faceva perdere e stare a quel modo, ancora meno.
A piccoli passi e a capo chino si diresse nuovamente in direzione del suo letto e vi si lasciò cadere sopra. Aveva ancora le tre sfere Poké nelle mani.
Si mise nuovamente in posizione fetale, imprecando a denti stretti.
Immaginò che il capo, in quel momento, stesse dormendo della grossa, non curandosi nemmeno che una ragazzetta dai capelli rossi, fresca di nomina a Generale e a oggetto dei suoi desideri, potesse essere ridotta in quel modo. Eppure non riuscì a maledirlo, né a vomitare imprecazioni e parolacce a lui rivolte come avrebbe tanto desiderato. E per quello si detestava, per quella sorta di remissione che, nonostante tutto, provava nei suoi confronti. Maledetti fossero stati il suo carisma e le sue abilità di comando.
Serrò nuovamente gli occhi, imponendosi, chissà come, di non pensarci. Ma sapeva comunque dell’inutilità del tentativo ancor prima di provarci.
E si rigirò ancora e ancora, mentre il ticchettio dell'orologio continuava a ferirle le orecchie.
Andò avanti in questo modo almeno un paio d’ore.
Successivamente non avrebbe potuto dire con certezza quanto le ci fosse voluto a calmarsi o a ottenere qualcosa di almeno simile alla tranquillità, fatto stava che, alla fine, era riuscita ad addormentarsi.
---
La luce mattutina le ferì gli occhi.
Li aprì improvvisamente e si mise a sedere.
Un suono gracchiante, invece, le fece tappare le orecchie. Murkrow era uscito dalla pokéball divenuta difettosa e ora svolazzava intorno, emettendo un rumore veramente fastidioso. Avrebbe dovuto riparare al più presto quella sfera, prima che quello stupido uccello la disturbasse di nuovo. Lo richiamò dentro.
Poi si stiracchiò.
Aveva tutte le membra indolenzite per la pessima posizione che aveva mantenuto durante il sonno. Quello non le sarebbe stato d’aiuto. 
Di nuovo, ecco che il pensiero tornò.
Dopo averla congedata, il capo l’aveva richiamata un attimo per comunicarle l’infausto orario... che adesso era arrivato.
Si alzò in piedi.
Non avrebbe dovuto ritardare.
Svolse come un automa tutte le azioni quali lavarsi e vestirsi con i nuovi abiti da Generale che erano stati recapitati, per poi ricordare a se stessa di cercare almeno di sembrare un essere umano.
Si appuntò la spilla con la “R” rossa sul petto, poi le pokéball difettose alla cintura, e si contemplò.
Niente male, comunque.
Avrebbe sicuramente fatto una buona impressione: quella divisa, ben diversa dalla precedente, la valorizzava dove necessario. Chissà se era stato voluto. Sospirò.
Almeno i colori, un bel bianco con rare tracce di nero attorno al collo, alle maniche e al ventre, e il taglio erano decisamente migliori di quelli vecchi. La gonna era molto più lunga, gli stivali più alti.
Sì, così suggeriva decisamente un’idea di potere. Quello sembrò calmarla, finché non si ricordò delle tempistiche che avrebbe dovuto assolutamente rispettare.
Così chiuse la porta e, a brevi passettini e a testa alta si avviò verso l’ufficio del capo, col cuore che batteva all’impazzata.
Era la seconda volta che percorreva quel tragitto e, ironicamente, le sue condizioni psicologiche erano le stesse.
Ma ora la distanza da coprire sembrava molto più breve. Troppo, forse: in men che non si dica, era arrivata.
Respirò a fondo.
Prese coraggio.
Poi bussò energicamente.
Dall’interno della stanza sentì una sedia strisciare sul parquet e dei passi pesanti avvicinarsi.
Ancora pochi istanti.
La maniglia si abbassò.
Pochissimi.
Giovanni, ora, le stava davanti. Non osò guardare l’espressione sul suo volto.
“Prego, avanti.”
Fece, fin troppo cortesemente, chiudendo la porta alle sue spalle dopo che Atena aveva fatto il suo ingresso nell’ufficio. Quest’ultima sentì poi, distintamente, il suono di una chiave che girava nella serratura.
“Non vogliamo che qualcuno ci disturbi, vero?”
Si sentì chiedere.
“Assolutamente no, sarebbe un peccato.”
Rispose, con la voce più vicina alla sensualità che potesse ottenere. Dopo aver udito il risultato, convenne di essere un’ottima attrice.
“Vedo che capisce. Passato una piacevole nottata?”
Fece lui, poi le si avvicinò e le fece il baciamano. Niente a che vedere con lo scatto d’ira della sera precedente. Quell’uomo non avrebbe mai finito di sorprenderla, ne era sicura.
“Meravigliosa.”
Mentì spudoratamente, sperando che se la bevesse o che, almeno, non si avvicinasse. Altrimenti avrebbe avvertito la sua tachicardia, scoprendo la farsa.
Ma ovviamente, sperarlo era eccessivo.
Si avvicinò.
“Penso sia giunta l’ora di riscuotere il mio premio, lei non pensa?”
E, senza aspettare risposta, le si avvicinò a larghe falcate, prendendola e rovesciandola con la schiena appoggiata sulla scrivania.
Aveva improvvisamente preso a baciarla, a palparla, a toccarla, con una tale foga che lei non riusciva nemmeno a comprendere bene cosa stesse esattamente facendo. Ma il suo corpo parlava per lei.
“Adesso sta’ ferma.
Dichiarò ad un certo punto, scostandole gli slip.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


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Una spinta, poi un'altra. I loro bacini, di nuovo, cozzarono violentemente.
Gli unici rumori che si udivano nell'ufficio, non propriamente adibito a quello scopo, erano l'ansimare e il gemere di lei e il respiro affannoso di lui.
Le ondate di piacere l'avevano del tutto disinibita, era priva di freni, ormai. Gemette ancora, digrignò i denti e gli artigliò la schiena con tutta la forza di cui era dotata- non molta, a dirla tutta.
L'uomo, per tutta risposta, fece un affondo ancora più potente, e poi uno e un altro ancora. Non ci volle molto prima che raggiungesse il culmine del piacere, per poi riversarsi in lei.
Senza pensare, come sempre, alle conseguenze del gesto, si abbandonò completamente a lui. Ma una cosa, una sola parola che aveva gridato senza curarsi di soffocare la voce, la ridestò dall'oblio in cui stava scivolando.

“Atena!”

Nella foga aveva detto il suo nome. Nonostante quel loro "accordo" andasse avanti già da alcune settimane, era la prima volta che succedeva, la prima volta che non si controllava fino a giungere a quel punto.
Al contrario, lei aveva involontariamente chiamato più volte il suo nome in quella circostanza, ma per ricevere in risposta nient'altro che il suo respiro affannoso.
Quella volta era stato lui a farlo. Ed era la prima volta che sentiva il suo nome uscire da quelle labbra.
I suoi occhi del colore del fuoco, sgranati, si sollevarono verso il suo volto. Per la prima volta si guardarono negli occhi durante l'amplesso. Per la prima volta lei si avvicinò, poggiando le proprie labbra sulle sue.
Ma ecco che, dopo pochi istanti, si ritrovò a terra. La sua testa era troppo confusa per capire come potesse essere successo e si limitò, per un lasso di tempo non ben definito, ad osservare Giovanni che, in fretta e furia, recuperava i suoi indumenti da terra.
Maledizione a lei. Un solo gesto, pochi secondi di sentimenti rubati alla foga dell’atto le sarebbero costati chissà cosa.
Si alzò in piedi, decisa a fare qualcosa.
Il mondo, però, prese a girarle attorno. Si dovette appoggiare alla scrivania per non cadere. Miracolosamente riuscì a non crollare.
Il capo non diede segno di essersene accorto, sembrava, più che altro, desideroso di rivestirsi nel tempo più breve possibile. Con pessimi risultati.
Inspirò a fondo e si mise nuovamente a sedere sulla massiccia scrivania, sperando che quei capogiri svanissero nel minor tempo possibile. Probabilmente erano dovuti all’agitazione, all’essersi alzata di colpo, a qualcosa del genere. Non aveva altre idee a tal proposito.
Inspirò ed espirò.
Nonostante tutto tardavano a scomparire.
Chiuse gli occhi.

“Spostati.”

Atena, ormai, aveva imparato a capire come comportarsi con lui, sia quando faceva il gentiluomo che quando si comportava da perfetto boss. E nella seconda opzione, come in quel caso, obbedirgli sarebbe stata la cosa migliore da fare.
Così, come richiesto, si alzò.
E crollò a terra, in preda a vertigini sempre più forti.
In seguito non avrebbe saputo dire il motivo per il quale la reazione tempestiva dell’uomo l’aveva così sorpresa ma, in quel momento, nonostante la confusione che regnava sovrana nella sua testa, si stupì moltissimo quando si precipitò su di lei. Per aiutarla.

“Temevo mi avrebbe lasciata lì, sa, Capo?”

Biascicò, con la voce impastata dalle alterazioni della sua percezione della realtà. Le sfuggì una patetica risatina.
Lo vide avvicinarsi al suo volto. Per un folle istante pensò che stesse tentando di baciarla.
Invece, avvicinò le labbra al suo orecchio.

“Questo non è un gioco.”

Sibilò.

“Non è un gioco e noi non stiamo giocando a fare i fidanzatini.”

Quelle parole la colpirono più duramente di una pugnalata. Quell’avvenimento di nemmeno qualche minuto prima l’aveva illusa, in qualche modo, l’aveva illusa sul fatto che potesse provare qualcosa per lei, che non volesse solo il suo corpo. E invece no. Non erano i bacetti, né le effusioni da innamorati che lui voleva. Desiderava solo quello che aveva vinto e quello che avrebbe potuto portargli dei vantaggi.

“E ora rivestiti. Riprenderemo dopo.”

Le intimò bruscamente, aiutandola a rimettersi in piedi.
Atena barcollò ma, quantomeno, riuscì a non cadere. Man mano riprendeva lucidità e, di conseguenza, avvertiva sempre più insistentemente spifferi d’aria fredda che lambivano la sua pelle nuda.
Recuperò i vestiti e li indossò più lentamente del dovuto, mentre avvertiva il suo sguardo penetrante che non perdeva d’occhio un movimento.
Quello che non fu affatto lento, però, fu il suo congedo e la sua fuga da quell’ufficio.
Aria.
Aveva bisogno di una boccata d’aria.
Quelle stanze e quei corridoi la stavano facendo diventare claustrofobica.
Sì, sarebbe uscita all’esterno. Ne aveva bisogno.
A larghe falcate percorse i corridoi della base e cercò disperatamente con lo sguardo una qualunque porta d’accesso a una balconata, o qualcosa del genere. Le serviva solo aria.
Finalmente la trovò, quella porta. E la spalancò con forza, quasi come un’annegata nel disperato tentativo di tornare in superficie.
Quel violento e improvviso rumore fece sobbalzare chi aveva avuto la stessa idea prima di lei.
L’ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quel momento.

“Ciao, rossa.”

Sghignazzò Maxus, aspirando grandi boccate di fumo dalla sigaretta accesa. Atena si mise a tossire.

“Cosa ci fai qui?”

Sbottò lei, senza convenevoli.

“Potrei chiederti la stessa cosa.”

Sghignazzò l’uomo, espirando una gran quantità di fumo dalla bocca, probabilmente per infastidirla.

“Non eri troppo impegnata a portarti a letto il Capo per andare in giro per la base?”

Continuò, sbeffeggiandola.
Lei tacque non solo per le continue provocazioni dell’altro, ma anche per la nausea che quelle dense nubi grigie le stavano causando.

“Hai intenzione di scoparti qualcun altro ora, dolcezza?”

Questa volta, lei rispose. Sibilando insulti.
L’altro generale ridacchiò sempre più esaltato e, dopo un ultimo, prolungato sbuffo di fumo, si decise a buttare la sigaretta a terra e a schiacciarla sotto la suola dello stivale.

“Ne vuoi una anche tu, rossa?”

Chiese, sempre sghignazzando, ma ora sembrava più guardingo. Lo vide ripetutamente spiare dietro di lei, probabilmente in caso arrivasse qualcuno. A quanto pareva gli era tornato in mente il suo sfortunato incontro di poche settimane prima con il capo.
Le si avvicinò.
L’odore della nicotina le pervase sempre più insistentemente le narici, causandole un conato di vomito, che riuscì eroicamente a trattenere.
Strano, pensò. Aveva sempre tollerato, bene o male, quei miasmi. 
Ma tentò di non darlo troppo a vedere, o lo avrebbe incoraggiato a provocarla sempre più. Biascicò, dunque, una risposta non molto educata in relazione a quegli affari e dove avrebbe potuto metterseli, provocando uno scoppio di risate isteriche da parte sua. Proprio come quel giorno.

“E-Esilerante! Dovresti vederti in questo momento. Dov’è lui, adesso? Non ti senti più tanto sicura, ora che non c’è, vero?”

Le fece, con la voce disturbata da quelle risa sguaiate. Interessante, però, come non l’avesse mai chiamato per nome. Come una sorta di timore reverenziale. Questo le venne anche confermato quando, poco dopo, lo vide guardarsi nuovamente intorno, nemmeno l’avesse evocato.
Nonappena si fu accertato che Giovanni non si trovava nelle vicinanze, alzò le spalle, enfatizzando ancor di più quella sua ridicola posizione scomposta.

“So quanto ti possa dispiacere ma ora devo congedarmi. Ho dei programmi da seguire-a differenza tua-e... delle reclute da maltrattare.”

Riprese a ridacchiare tra sé e sé. Solo lui poteva trovare divertenti le sue parole. E il fatto di punzecchiarla nonappena ne avesse avuto l’occasione.
Atena lo congedò con un cenno della testa. Lui si voltò.
Ma, nel momento esatto in cui aveva pensato di essere riuscita a liberarsi di lui, ecco che ritornò sui suoi passi.

“Ah, e fossi in te mi farei dare una controllatina. Non mi sembri troppo... in forma, se così si può dire.”

E finalmente se ne andò.
Cosa intendeva con quelle parole? Allora si era accorto del suo andamento traballante e della sua nausea. Ma, in un caso normale, non gliel’avrebbe fatto notare, ne era certa. Ma allora...
Oh no.
Perché era stata così cieca?
Non era possibile. Non doveva essere possibile.  Certamente si trattava di una casualità.
Nausea e capogiri... No. Poteva essere solo quello.
All’improvviso si ricordò delle parole di lui.

Questo non è un gioco.

No. E solo ora l’aveva davvero capito.
Si portò le mani alla sommità del capo.
I giochi erano terminati già da un po’. E lei se n’era accorta solo in quel momento. Quando ormai era troppo tardi.



---
Angolino autrice:

Salvesalve a tutti! Eccomi di ritorno con il capitolo "clou". Insomma, capite cosa intendo. Questa parte è stata un parto (?), ci ho lavorato ore e ore di fila per almeno una settimana. Ma volevo fare le cose per bene.
Dunque, come al solito grazie a tutti coloro che mi seguono, leggono o recensiscono. Spero di sentire presto vostri pareri sulla piega che sta prendendo questa storia! Ps: l'editor fa i capricci, stasera. L'html è un po' sfasato. Provvederò, giuro.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Non era un gioco. Non era un gioco.

Quelle parole continuavano a rimbombarle nella mente, le toglievano la lucidità, il respiro, la estraniavano dal mondo, confinato, per il momento, solo a quell'anonimo corridoio della base. Era ormai ovvio che non si trattava di un gioco. Non che lo fosse mai stato.

Udì un ticchettio lieve, ovattato, distante, come se provenisse da un altro mondo.
Scosse il capo e si ricordò.
Era un orologio.
Uno dei tanti, nulla di particolare. Non riuscì a capire, quindi, perché anche quell’aggeggio le incutesse tanto timore.
Lo osservò con la coda dell’occhio.
Le sei e un quarto, minuto più, minuto meno. Mancavano esattamente un'ora e trenta minuti all'inizio della sua giornata lavorativa ufficiale e circa mezz'ora al suo incarico secondario.

Era piantata davanti all'imponente ingresso, volutamente in anticipo. E nervosa. Ma neanche quella era una novità. Non ricordava un solo giorno o anche solamente minuto di quelle settimane in cui non fosse stata così in preda a emozioni, sentimenti, sensazioni contrastanti.
Ansia, rabbia, amore. Spavento. E ancora tanto altro, cose a cui ancora non riusciva a dare un nome. Le sembrava impossibile essere riuscita a provare tutto quello senza esplodere.

Sentì l’impellente bisogno di una sigaretta per sfogare la tensione. Ma si decise a evitarla per due motivi, stranamente non collegati al suo stato attuale: le nausee mattutine che gli odori forti intensificavano e soprattutto il fatto che chiederne una a Maxus, l'unico fumatore tra i generali, le sarebbe costato svariati commenti -di cui la maggior parte non certamente educati- sulla pancia sempre più evidente che lei tentava invano di nascondere. Non era stupido, quell'uomo, nonostante i modi rudi e decisamente fuori dal comune. Ottuso per certi versi ma estremamente acuto per altri. Come ad esempio riuscire a vedere quello di cui lei non si era accorta. E ciò non l'aiutava.
Sbuffò. Nemmeno pensieri del genere lo avrebbero fatto.
Ma ecco che, subito, tornò a pensare al Capo. Non lo vedeva da almeno una settimana, si era dovuto spostare-stranamente proprio in seguito a quell'episodio-, e questo aveva impedito i loro incontri estremamente ravvicinati. Ma ora l’avrebbe spogliata e si sarebbe accorto subito del rigonfiamento insolito sul suo ventre. Negare di saperlo non sarebbe servito a nulla.
Doveva dirglielo. Doveva decidersi.
Probabilmente già arrivare in anticipo sarebbe stato sospetto di per sé ma, pensò, lo avrebbe portato a chiederle cosa succedeva.
Meglio così, decisamente, piuttosto che intraprendere il discorso di sua spontanea volontà.
Ridacchiò nervosamente, da sola, contenta del fatto che, a quell'ora, non ci fosse nessuno tra i piedi. Non vedeva di buon occhio gli altri generali- tutti uomini e poco propensi a considerarla loro pari dato che, chissà come, si erano diffuse notizie sul suo conto che sarebbero dovute rimanere al sicuro tra le quattro mura d’ufficio di Giovanni.
Da quel punto di vista le stava crollando tutto addosso; da un’altra parte, invece, l'essere sotto la protezione del Capo le consentiva almeno il rispetto apparente dei suoi sottoposti.
Ma solo apparente.
Non si sarebbero mai azzardati a comportarsi come facevano quelli, ma spesso il suo arrivo scatenava sussurri, mormorii, gomitate d'intesa e occhiate insistenti verso una certa zona del suo corpo che continuava ad aumentare di volume.
Certo, il suo stato interessante non era ancora particolarmente evidente, anche perché il suo fisico non era filiforme; ma addirittura quella voce si era insinuata nelle orecchie dello sciame grigio che lei, giorno dopo giorno, detestava sempre più. E stranamente, a quanto pareva, l'unico a non esserne informato era proprio il padre. A rigor di logica, però, le risultava difficile crederlo.
La sua mano si mosse verso il ventre, tastandolo.
C'era davvero qualcuno lì dentro, qualcuno in grado di scatenare tutto quel silenzioso putiferio? Ancora stentava a crederlo. Un figlio non rientrava di certo nei suoi piani di potere e dominio, e probabilmente neanche in quelli del Boss. Anzi.
Chissà come ci sarebbe rimasto. In fondo, pensò, era riuscita a giocargli un brutto tiro. Magra consolazione.
Si ridestò dai suoi pensieri di colpo, come svegliandosi da un brutto sogno. Si sentiva soffocare dalla sua stessa mente, avvertiva un peso invisibile che le schiacciava la cassa toracica.
Doveva decidersi in fretta. Con ogni probabilità quell'unica frase, "sono incinta", avrebbe cambiato radicalmente la vita di entrambi. E l'attesa doveva finire lì. Procrastinare non avrebbe portato a nulla.
In quel momento si decise.
E bussò.
Ecco subito una sequenza di rumori che aveva imparato a riconoscere alla perfezione. Rumore di una sedia che si spostava, poi di passi che le si avvicinavano. Una chiave nella serratura, un giro secco, poi il cigolìo della maniglia. E la porta si spalancò.

"Ate- cioè, tu? A quest'ora?"

L’espressione di stupore di Giovanni, evidentemente colto di sorpresa, durò pochi attimi e scomparve subito, lasciando spazio all'impassibilità.
 
Lei si sforzò a tendere gli angoli delle labbra in un sorriso che doveva essere accattivante ma, più che altro, ricordava una smorfia di dolore.

“È l’ora del nostro solito appuntamento, non ricorda, Capo?”

Si trovò a domandare in tono gracchiante, non decisamente quello seducente a cui aveva pensato.
Aspettava una risposta, ma si sentì tirare per un polso e trascinare dentro l’ufficio. E, inoltre, la porta che le veniva chiusa alle spalle.
C’era solo da sperare che non si fosse svegliato male, quella mattina.

“Devo parlarle-!”

Provò a dire con la voce che si era fatta flebile.
Giovanni la fece voltare verso di lui, guardandola con un sopracciglio inarcato che sembrava volerla invitare a dire ciò che doveva.
Lei squadrò il suo volto, prima di parlare. E si stupì che avesse profonde occhiaie, segno che, a sua volta, aveva trascorso notti insonni. 
Questo, in un certo senso, la incoraggiò, e si inumidì le labbra, divenute secche.

“Io...” esitò.

“Non abbiamo tutta la mattinata” cercò di farla proseguire lui.
“Abbiamo anche del tempo da dedicare al mio piccolo premio.”

E, a sua volta, si inumidì appena le labbra. Solo che dal suo punto di vista lui sembrava un pokémon feroce pronto a saltare addosso alla sua preda.

Non doveva lasciarsi intimidire. Non doveva esitare.
Doveva parlare, dirgli tutto.
Lui era il padre, in fondo. Il padre di quel piccolo affarino che si era annidato nel suo ventre.
Niente esitazioni. Niente remore.
Solo parole.
Chiuse gli occhi.

“Capo...” tossicchiò appena, ma era decisa a terminare quella frase.

“ Io... sono... cioè, io...” una perfetta imbecille, ecco cos’era.

Prese un respiro profondo.

“Io aspetto un figlio da t- da lei!”

Tutto d’un fiato ma l’aveva detto. E, ora, avrebbe desiderato avere gli occhi aperti per osservare la sua reazione, o, almeno, sapendo che non si sarebbe scomposto troppo, la sua espressione.
Invece tutto quello che avvertì fu il mondo che aveva preso a girarle attorno. E se stessa in caduta libera verso il pavimento.
Il suo unico pensiero, in quel momento, fu relativo al fatto che quei dannati svenimenti le capitassero sempre nei momenti più inopportuni.

 
-----
Dolcezze, pensavate vi avessi abbandonati? E invece no. Irene non sparisce mai. Non vi libererete mai di me. *Risata malefica*
Ok, lasciatemi perdere. Sono sclerata, domani ho un’altra gara di latino e l’influenza. Questo mix non va d’accordo.
Perdonatemi il ritardo, comunque. Tra gare di latino e greco, versioni, Battle Royale con il quale, confesso, mi sono davvero infognata, e i miei dannati amici che mi hanno messo in mano Animal Crossing non ho avuto un minuto libero. Me tapina, me sventurata. Me vittimista.
Comunque, smetto di rompervi, lo giuro sulla mia collezione storica di videogames dei Pokémon e sulla maglietta del Team Rocket. Grazie, come al solito, per le recensioni e grazie a Melody_Amber per il messaggio privato. Giuro che mi ha fatto tanto tanto piacere! ç_ç
A risentirci, zuccherini! 

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Indovinate chi è tornata a romp*coff* a deliziarvi con la sua fanfiction. Già. Io. *risata malefica*
No, facciamo le persone serie. Scusate il ritardo, ma la scuola mi ha tenuta impegnatissima. Ma ora, contentissima dei risultati finali, ritorno su efp a scrivere della mia amata silverspawn. Sono stata contentissima di incontrare, dal vivo e per caso, persone che hanno letto "Affari di famiglia" e l'hanno apprezzata. Penso sia stato uno dei momenti più bellini della mia vita, ecco. Okay, smetto di tediarvi. Buona lettura!
---

 
Inspirò ed espirò ripetutamente mentre i suoi sensi tornavano ad acuirsi, la vista per ultima.
L'immagine che aveva di fronte agli occhi, sebbene un po' sfocata, era per lei facilmente riconoscibile. Il capo. Che ancora una volta la sovrastava.
Atena, ancora stordita, non riusciva ancora a decifrare bene la sua espressione, non riusciva a capire in alcun modo se fosse furente, indifferente o anche solo sorpreso.
Nulla.
Il volto dell'uomo le appariva solo come una massa sfocata priva di alcun sentimento o emozione.
Così, allungò una mano per sfiorarlo, per capire se si trattasse di una mera illusione o se, invece, fosse reale.
Lui si ritrasse bruscamente.
Più chiaro di così, pensò.
Dunque niente amore folle e improvviso, nessuna dichiarazione, come la parte del suo cervello che ancora apparteneva a quella ragazzina sognatrice aveva -sotto sotto- sperato.
Cercò di muoversi ma la sua testa, ancora ottenebrata per via di ciò che era avvenuto, e i suoi arti, che avevano preso a formicolare, glielo resero sgradevole, se non addirittura complicato. Decise dunque di rinunciare a quel futile tentativo.
Sbattè ripetutamente le palpebre.
L’immagine che le si presentava davanti era rimasta immutata dal momento in cui aveva riaperto gli occhi. Lui non si era mosso, né aveva parlato.
Una forte nausea la prese, ma non capì se fosse dovuta alla gravidanza o, più semplicemente, a quella fortissima delusione, condita con un pizzico di rabbia e frustrazione.
All'improvviso fu sollevata da terra.
Non l'avrebbe mai detto ma, nonostante tutto, erano proprio le braccia di Giovanni a sostenerla.
Mi faccio pena da sola, pensò, senza accorgersi di quello che stava accadendo. Era troppo occupata a rimuginare su tutta quella situazione così ridicola.
Non aveva mai voluto un figlio, men che mai in quel modo.
Un figlio, dannazione. Un figlio era una responsabilità, richiedeva ben altra situazione rispetto a quella che stava avvenendo intorno a quel pericoloso giochetto erotico.
Lei aveva voluto il potere. E si ritrovava con un pancione.
Poi si accorse di aver cambiato posizione. Come diavolo era arrivata in piedi? Ah, l'aveva sollevata il capo.
E perché diavolo i suoi piedi non toccavano terra? Ah, la stava tenendo in braccio.
Appena quest'immagine riuscì a raggiungere il suo cervello, ancora confuso e annebbiato, sgranò gli occhi.

“M-Ma... Cosa...”

Balbettò, senza neppure avere un'idea precisa di ciò che avrebbe voluto dire davvero. La sorpresa era troppa.
Ma, così come aveva ripreso ad illudersi, si ricordò d'un tratto che lui non le aveva ancora detto nulla, non aveva reagito.
Quel suo gesto poteva avere molti significati. E non tutti positivi. Anzi, in quella situazione certamente nessuno di essi poteva essere positivo.
Cercò nuovamente di scrutare il suo volto, alla ricerca di qualche conferma. Impassibile. Quell'uomo non avrebbe mai finito di stupirla.
Così come era finita tra le sue braccia, all’improvviso, si ritrovò nuovamente in posizione eretta, mentre lui la squadrava da capo a piedi. Le sembrò -forse fu solo un'impressione- che il suo sguardo si fosse concentrato sul suo ventre. Istintivamente, gli fece scudo con le braccia, quasi a voler difendere chi c'era dentro da quell'uomo apparentemente così freddo e privo di scrupoli.

E, d'un tratto, realizzò. Lei era solo un incidente di percorso, una macchia in un piano apparentemente perfetto, un piano che comprendeva solo che il capo si sollazzasse a suo piacimento con il suo corpo.
E, se davvero aveva imparato a conoscerlo, avrebbe fatto di tutto per eliminare quel piccolo problema.

“... Mio?”

Atena sbatté le palpebre, confusa. Persa nei suoi pensieri, non aveva ascoltato la sua domanda.

“Come...?” sussurrò lei.

 “Mi ascolti, quando parlo.” proferì il capo in un tono ritornato sicuro e imperioso.

“Ti... Le ho chiesto... È mio?” ripetè.

La ragazza si chiese perché continuasse forzatamente a darle del lei. Tutto sommato si erano “conosciuti” in una maniera molto più intima rispetto a un semplice rapporto tra capo e sottoposto. Inoltre, portava suo figlio in grembo. Non era una cosa da poco.
Era una dannata forzatura, ecco di cosa si trattava, solo per farle capire chi davvero comandasse lì. Era furiosa. E sul punto di scoppiare in lacrime.

“Certo che lo è, mi pareva volesse l'esclusiva... Capo.”

Lo sforzo che fece nell'aggiungere quell'ultima parola fu immane.

Al diavolo. Al diavolo lui e il team. Era solo una pedina. Un'inutile pedina con un paio di tette.
Si accorse che sembrava così calmo. Quasi rilassato.
Lei, invece, era un fiume in piena, un tumultuoso torrente di emozioni che si ammassavano e prendevano il posto di altre nel giro di pochi secondi.

“Ah.”

Stranamente non aveva colto la velata provocazione. Magari stava cercando il modo di risolvere nel modo più veloce ed efficace possibile quell'increscioso problema. Un pargoletto urlante, peraltro avuto da una donna per la quale non provava sentimenti di alcun tipo, men che mai amorosi, sicuramente non rientrava nei suoi piani di dominio.
Lo vide muovere le labbra, ma alle sue orecchie non giunse alcun suono.
Si ridestò, ascoltandolo.

“... Capisce, dunque, che è un enorme problema?”

Lei tacque volontariamente.

“Mi ascolti. Devo... Ponderare attentamente la situazione...”

Silenzio.

Ponderare attentamente la situazione, eh? La faceva sembrare una cosa facile, risolvibile mediante qualche ragionamento, qualche confronto. Non più difficile di quando si occupava di ottenere più profitto possibile da qualche commercio illegale.

“...Dunque... Per il momento è congedata.” terminò, indicandole l'uscita.

E, senza aspettare altro, Atena si fiondò in quella direzione, per poi tirarsi dietro la porta.
Se fosse stata più attenta, si sarebbe accorta di Giovanni che si abbandonava, quasi turbato, sulla sua sedia.
Iniziò a camminare senza una meta, seguendo percorsi noti solo ai meandri più reconditi del suo cervello, mentre i tacchi dei suoi stivali sbattevano rumorosamente contro il lucido marmo del pavimento.
I pensieri che le balenavano in mente ora le scatenavano ira, ora le mettevano in corpo una tristezza inimmaginabile.

Al diavolo. Al diavolo tutti. Al diavolo Giovanni, al diavolo i sentimenti che provava per lui. Al diavolo i generali, al diavolo Maxus. Che finissero i loro giorni nel Mondo Distorto.
Ma, nel bel mezzo di queste imprecazioni pronunciate dentro di sé, fu interrotta da un chiacchiericcio concitato.
No, non poteva essere. Non in quel momento.

Eppure, tutti i suoi peggiori sospetti divennero realtà quando la figura di cui aveva riconosciuto la voce le capitò davanti.
Maxus.
Insieme a due giovanissimi generali di cui non ricordava il nome, tanto era il suo interesse nei loro confronti.

Appena lui la vide, gli si illuminarono gli occhi.
La ragazza si preparò al peggio.

“Rossa!” ridacchiò quest'ultimo, avvicinandosi.

“Si stava proprio parlando di te, qui.”

Gli altri due sghignazzarono. Atena li ignorò.

“Farai la mammina, eh? Splendido futuro. Dominio di Kanto, soldi e pannolini. Spettacolare.”

Atena notò quanto quei tre sembrassero infantili, nemmeno fossero bambini appena entrati alla scuola per allenatori.

“Ma qui ci stavamo chiedendo... Quando troverai un po' di tempo per noi? Non è giusto che solo il capo usufruisca di quel bel davanzale!”

E giù a darsi di gomito e a ridacchiare.
Lei si sforzò, ancora una volta, di mandare giù quel boccone amaro. Ma le era impossibile, ora. Non era il momento giusto per provocarla.
Silenziosamente si avvicinò ancora di più a Maxus, assottigliando gli occhi. E gli assestò un fortissimo ceffone in pieno volto.
Tutti tacquero.
Atena voltò le spalle e si mise a camminare nella direzione opposta, riprendendo a sbattere i tacchi contro il pavimento.

Il generale più anziano era a metà tra la sorpresa e il dolore.
Gli altri due erano a metà tra la soggezione e lo stupore.
L'unico generale donna, finalmente con un po' di soddisfazione, era già a metà del corridoio successivo.

 

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