Beyond the clouds

di Karan Haynes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First Chapter ***
Capitolo 2: *** Second Chapter ***
Capitolo 3: *** Third Chapter ***



Capitolo 1
*** First Chapter ***


First Chapter

 




La vita ai giorni d’oggi come viene vissuta realmente o meglio, come la vive la gente?
Tutto intorno a noi cambia, la tecnologia ne é un esempio, la musica e i libri sempre più scadenti, tessuti di bassa qualità e la lista sarebbe assai lunga. Ma una cosa non è cambiata, la gente. I pregiudizi non sono cambiati, sono rimasti immutati.
Tutto intorno a noi è mutato, ma la cosa che, prima di tutto doveva mutarsi, non l’ha fatto. Le vicende passate, le persone che sono morte per quelle vicende, si sono sacrificati per un po’ di libertà, ma essa viene sprecata dalle nuove generazioni.
«Mi piacerebbe vivere in quel tempo passato, solo per assicurarmi che questo tempo sia realmente meglio», mi rivolsi al cielo, aspettando chissà che miracolo. Ma niente accade, né quella notte né quella successiva, e nemmeno le altre a seguire.

Una mattina di un qualsiasi giorno di Ottobre presi il giornale lasciato davanti alla porta di casa, lo lessi. Niente di nuovo, le solite vicende; ragazzine minorenni che vanno in discoteca, scosciate e che vengono violentate; barboni che prendono fuoco per via di stupidi ragazzini problematici; uomini che uccidono moglie e figli, solo perché ella lo voleva lasciare; si, cose di tutti i giorni.
Giro le pagine del giornale, l’inchiostro scadente mi sporca le dita. Non saranno un giornale molto conosciuto, ma cosa gli costa usare un inchiostro abbastanza decente?
Un piccolo articolo, situato nelle ultime pagine cattura la mia attenzione.
«Uomo di mezz’età esce di testa gridando “io posso viaggiare nel tempo”!» risi di gusto, ma continuai.
«”Era sceso in piazza con vestaglia e pantofole” c’informò la signora Evans, sua vicina.
”Sapevo che era pazzo, sapevo che faceva cose strane, ma è la prima volta che ho avuto paura.
Vorrei che i miei figli possano stare tranquilli” spiega la donna».

Non seppi il perché ma non riuscì a trattenere le risate. Tutto ciò è assurdo, troppo assurdo.
«L’appartamento dell’uomo è stato perquisito, ma non è stato trovato alcun macchinario o qualsiasi oggetto pericoloso.
Al momento l’uomo è tenuto a rimanere in casa, finché il giudice non decide la sentenza».

Si preoccupano di un tizio del genere quando in giro c’è di peggio? Non sanno proprio che pesci pigliare, bella la giustizia. Utile come un pesce fuor d’acqua.
Finì di fare colazione e considerando che avevo la mattinata libera, decisi di fare le faccende di casa. Lavare i vetri – che oramai non pulivo da mesi –, stirare, e fare il bucato.
Ero arrivato alla fine della mattinata e mentre facevo il bucato pensai a quell’articolo e, non seppi il motivo di quell’impulso, ma fu più forte di me. Presi i primi vestiti che trovai ed uscì di casa. Volevo conoscere quell’uomo, forse per curiosità o forse per altro.

Riconobbi il quartiere dalla piccola foto. Londra è grande, ma unica.
Misi un cappello con la visiera per non farmi vedere troppo in viso, gli impiccioni ci sono sempre, soprattutto se sono vecchiette e non volevo avere problemi o chissà cosa per colpa loro. Fortunatamente nessuno mi prestò attenzione.
Il portone del palazzo in legno e un po’ rovinato – una sistemata non guasterebbe – era aperto, la fortuna mi assisteva!
All’interno dell’atrio c’era il postino, nell’intento di svolgere il suo lavoro, molto svogliatamente.
«Mi scusi, saprebbe dirmi in quale appartamento sta quell’uomo pazzo, quello che è finito sul giornale?»
«Si, per mia sfortuna gli devo portare la posta davanti alla porta».
Ghignai, si la fortuna girava totalmente dalla mia parte.
«Lei mi dice a che numero abita e io gli porto la sua posta, così lei non perde troppo tempo».
Mi guardò perplesso, ma alla fine accettò con piacere. Presi la posta e mi diressi verso gli ultimi piani.
Ero elettrizzato. Bussai con vigore. Dovetti aspettare qualche minuto prima di sentire del movimento. Alla fine mi aprì e senza chiedere permesso mi catapultai all’interno.
«Ehi! Chi sei e che credi di fare?» la sua voce irritata mi entrò da uno orecchio e uscì dall'altro.
«Mi scusi per la mia mancanza di rispetto… ma dov’è?» l’uomo dai suoi occhiali tondi non capiva di cosa stessi parlando.
«La macchina o l’aggeggio, non so come la chiama lei! Suvvia, lei enunciava con vigore di aver creato il modo per viaggiare nel tempo!»
Vidi l’uomo strabuzzare gli occhi, mi girò intorno osservandomi, come se fossi io quello strano.
«Tu ci credi davvero?»
«Non lo so ancora, ma se mi dà la prova…»
Si diresse velocemente per la stanza adiacente, scura, senza una finestra.
«Seguimi ragazzo!»
Aprì un grosso armadio, picchio sulla parete di fondo e si aprì una fessura, mi fece segno di seguirlo. Entrati richiuse la fessura, e mi ritrovai in una stanza bianca con vari oggetti sparsi, alcuni sul tavolo, altri su scaffali. C’era solo una finestra ed era sul soffitto, ma solo una cosa mi affascinò, prese interamente la mia attenzione.
Una cabina telefonica, rossa e vecchia. C’è ne sono ancora, ma stanno pian piano scomparendo.
«Questa è una cabina telefonica che tolsero negli anni ‘90, circa. Ora c’è una ditta di non ricordo che cosa», parlava veloce, ma riuscivo a cogliere le parole più importanti!
«Ed è questa la macchina?» chiesi scettico! Chi avrebbe mai potuto pensare che una cabina potesse essere la macchina del tempo? Nessuno.
«Si, però a un limite. Questa è stata una delle prime, quindi verso gli anni ’20, e perciò può viaggiare solo fino a quell'anno».
«Potrei farle da cavia!»
«Ragazzo, non scherziamo… non c’è certezza che vada tutto bene!»
«La prego, me lo faccia fare», cercai di non far vedere la mia esaltazione.
«Ci tieni così tanto?», accennai con il capo. «Domani sera vieni da me, alle undici».
Agitò le mani, poi mi prese e mi fece uscire da quella bizzarra stanza.
«Signore, io mi chiamo Kim Kibum. Piacere!»
«Stevens Cedric» e mi allungò la mano.

**********



Angolo Autrice: Dopo tanto tempo di titubanza ho deciso di ripostare il primo capitolo di questa storia. Non so se finirò mai il quinto capitolo (già iniziato), rileggendola non la sento più come prima e di riscriverla in modo che possa piacermi adesso non esiste. Non ho né voglia né tempo e soprattutto ispirazione.
Quindi non pensiate che questa cosa sia chissà cosa, non sperate aggiorni presto o che la finisca lol
Tuttavia ringrazio chi la leggerà e chi, un tempo l'ha letta e recensita! Grazie e buona serata a tutti~

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Capitolo 2
*** Second Chapter ***


Second Chapter

 




Non avevo passato molto tempo in quella casa, ma il tutto fu molto intenso che non mi accorsi dell’arredamento od altro e l’eccitazione era a mille. Uscendo e vagando sulla via del ritorno, entrai involontariamente al Cafe 1001, mi sedetti al solito posto e poco dopo una mano sulla spalla mi fece rinvenire.
«Sei in ritardo Kibum-ssi! Hai già pranzato?» il ragazzo che mi diede la pacca si mise seduto di fronte a me, con estrema disinvoltura.
«Oh, scusa me n’ero dimenticato. Sai ho anche altro da fare, io».
Usai un tono freddo, sapevo che a lui dava fastidio. Poco dopo lo vidi contrarre le labbra in una smorfia alterata.
«Se devi comportarti così potevi anche non venire, no?», e alla fine finisce per fare l’offeso.
«Ma tu sai che sono così, è colpa tua che mi parli… Tralasciando tutto questo, mi avevi chiamato per dirmi una cosa, dimmi!», nemmeno il tempo di rispondere che Clara venne al tavolo, stava per chiederci l’ordinazione.
«Oggi vorrei cambiare piatto, stupiscimi!» esclamai rivolgendogli un sorriso. Minho, dall’altro lato del tavolo chiese il solito e la congedò gentilmente.
«Come mai hai voluto cambiare? Non è da te… sai, oggi mi sembri strano!»
«Cambiare qualche volta non fa male, invece di cambiare discorso dimmi quella cosa».
Non sopportavo quando mi faceva aspettare per dirmi una cosa o cambiava discorso. Poi mi esporrà una futile paura o chissà cosa, me lo sento.
«Ti ricordi di quel ragazzo del terzo anno, quello che fa recitazione?» annui, per farlo continuare.
«Lui ha una casa abbastanza grande e domani sera dà una festa, mi ha invitato e mi ha detto che posso portare chiunque». Prima che potevo aprire bocca, Clara portò le consumazioni.
«Tagliolini con zucchine e gamberi, stupito?»
«Direi di sì», mi rispose con un sorriso per poi andarsene via.
«E perché lo chiedi a me? Hai paura ad andarci da solo?», presi una forchettata e me la misi in bocca.
La rana – chiamato così dagli amici per i suoi occhi grandi e tondi – aveva già preso un boccone e stava per parlare con la bocca piena.
«Se provi ad aprire e dire qualcosa con la bocca piena ti soffoco con la coscetta di pollo».
Si limitò ad annuire. Mandato giù il boccone − a fatica − aprì bocca.
«Non ho paura, è solo che… in mezzo a gente di un certo tipo, potrei essere fuori luogo».
«A che ora?»
«Verso le undici!», lentamente alzai lo sguardo.
«No, ho altro da fare per quell’ora».
«Del tipo? Hai un appuntamento?»
Mi misi del cibo in bocca e finsi di leggere la prima pagina del quotidiano che qualcuno lascio sul tavolo.
«Ho delle cose da fare, ma visto che sono una brava persona, alle dieci ti accompagnerò!»
«Alle dieci? Ma se vado prima dovrò aspettare fuori».
«Puoi sempre chiedergli se puoi andare prima, non vedo dove sia il problema. Anzi in questo modo puoi prendere più confidenza con lui e forse anche con gli invitati in anticipo», mi guardò con quei occhi da rana e il suo sguardo stava cominciando a darmi fastidio, sembrava volesse sondarmi.
«Non mi ringrazi?», lo guardo acidamente.
«Non è una cattiva idea, grazie per il consiglio. Perché non mi dici dove vai, è un segreto?»
« È una questione personale, e non vedo il motivo di stare qui a spiegartela…», e borbottando piano «tanto non capiresti!»
Finito il pasto, misi i soldi del mio pranzo sul tavolo.
«Ora vado, ho delle cose da fare», mi alzai e uscì dal locale, senza dargli tempo di dire niente.


*****



Per tutta la sera del giorno prima, non feci niente di particolare – se non fare zapping non trovando nulla da vedere – e anche se il mio cuore scoppiava, da fuori sarei sembrato tremendamente annoiato. Non feci niente neanche il giorno seguente, se non di scegliere i vestiti.
Nell’intento di farmi un bagno mi venne in mente che dovevo accompagnare quella stupidissima rana a quella stupidissima festa e, con molta probabilità dovrò pure stare lì, magari mi chiederà di tenergli la mano.
Quando uscì dal bagno, mi infilai i miei abiti sobri – nemmeno lui poteva capacitarsi di tale cosa – e nemmeno il tempo di mettermi a posto i capelli che qualcuno era già sul tasto del mio campanello.
«Kibum-ssi!! Fammi entrare!».
Non mi capaciterò mai della sua scarsa intelligenza, d’altronde come potrei farlo?
Solo pochi passi dalla porta e lui si riattacca al tasto maledetto di quel campanello, altrettanto maledetto.
«Se non te la pianti i vicini si arrabbieranno con me, anzi, la prossima volta evita di suonarlo».
«Allora perché hai messo il campanello? Sai, in parte faccio fatica a capirti».
«Ti rimembro che le persone normali suonano il campanello una volta e poi aspettano, mica ci rimangono attaccate con la colla, e per favore, non sforzare il tuo unico neurone per capirmi», il tono acido venne fuori da sé. Non seppi proprio trattenerlo o forse era proprio quello che volevo.
«Va bene, scusa…», mi girai verso di lui incuriosito dalla sua reazione.
«Solitamente sei infastidito dal mio atteggiamento acido, come mai oggi sei così pacifico?»
«Mi avevi detto che eri impegnato però mi accompagni lo stesso, quindi… grazie!»
Mi girai e sorrisi senza farmi vedere, non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi felice per la sua premura.
«Sei pronto?!»
«Se qualcuno non mi avesse disturbato, ora sarei già pronto; finisco di mettermi a posto i capelli!»
Mi girai di scatto e con passi ampi mi diressi in bagno, finì di sistemarmi facendo con comodo. Minho avrebbe dovuto aspettarmi, oh, è bello far aspettare le persone.
«Veloce, veloce! Usciamo da qua, su, forza!», dissi con troppa enfasi. «Non c’è bisogno, lo so che dobbiamo sbrigarci… detesto quando fai così!»
Lo spintonai di fuori e mi richiusi la porta alle spalle.


«Ya!! Perché non vuoi dirmi quanto manca?!»
«Perché siamo arrivati!», poco più il là c’era una villetta, bianca, e a mio avviso, troppo grande.
«Oh, quindi questo ragazzo è piazzato be-»
«Jinki-ssi è una persona dolce, disponibile, ed è altruista. Non parlare di lui come se fosse un riccone che sperpera i suoi soldi senza un criterio!», mi guardò con uno sguardo truce e per Dio!, non immaginavo potesse rispondere in questo modo.
«Ci tieni a lui o dovrei dire… ti sei preso una cotta?»
Non rispose apertamente alla mia domanda, ma dal suo verso, che poteva essere simile ad un “um”, si capì benissimo. «Andiamo!»
Arrivati davanti alla porta, lo spilungone suonò il campanello e sul volto gli si era stampato un sorriso idiota. Gli diedi una gomitata, dicendogli di non sembrare scemo.
Alla porta comparve un ragazzo poco più basso di me; capelli lunghi di un color castano chiaro dai riflessi rossicci e i suoi occhi erano due fessure strette, ad occhio e croce ricordavano un bancomat; sorrideva tutto felice e i denti davanti sembravano quelli di un coniglietto.
«Sono felice di vedervi… questo dovrebbe essere Kibum, giusto?» «Sì, sono io! Spero che il mio amico non ti abbia importunato con le sue gesta sportive, sai, a volte esagera», mi uscì una risata forzata, anche se, con tutta franchezza questo coniglio non se n’è accorto nemmeno. In poco tempo il baldo giovane si abituò presto alla compagnia del suo “amichetto” e degli altri invitanti, che man mano erano sempre di più.
Non sapendo cosa fare, feci una perlustrazione della casa e notai che in vari punti c’erano degli oggettini di valore, potrebbero essere falsi, ma con una villetta simile non mi sorprenderebbe fossero autentici.
Finito il mio giretto mi sistemai sul divano e m’incantai nel contemplare il nulla.

Tic tac, il tempo batteva ed ora giunto il momento di andarmene. Mi alzai e cercai Minho che si trovava in compagnia di Jinki.
«Minho, io devo andare, ma vedo che sei in ottime mani», gli diedi una pacca d’incoraggiamento alla spalla, feci l’occhiolino all’altro e, dopo essere uscito presi il primo bus disponibile.


*****



Mi avvicinai a passi rapidi all’edificio, che nella notte risultava più tetro.
Cercai di non pensare a nulla e di avviarmi per l’appartamento di Cedric e, scalino dopo scalino arrivai davanti alla sua porta. Le mani incominciarono a sudarmi ed esitai per un momento. Non ebbi il tempo di bussare che la porta si aprì, con il viso di Cedric a poco dal mio.
«Eccoti! Entra e siediti», richiusi la porta alle mie spalle e mi sedetti sul divano posto a lato, adiacente al muro e aspettai.
«Scusa per averti fatto aspettare, vediamo… Ti sei portato un borsa?»
«Sì, e anche dei soldi».
«Come sai non è stata provata, quindi non so come potrebbe andare, ma certamente stancherai il tuo corpo, quindi tieni queste bustine di zucchero», mi allungò tre o quattro bustine, poi continuò «Intorno alla cabina dovrebbe esserci un Motel, ma non ne sono del tutto sicuro e poi…»
«E poi come faccio a tornare indietro?»
«Dovresti ritornare nella cabina prima delle settanta ore, al momento non sto a spiegarti il perché, sarebbe troppo lungo e forse non capiresti nemmeno».
C’è la possibilità di non poter tornare indietro, di non poter vedere Minho, i miei genitori, ma sono deciso, voglio buttarmi in questa impresa folle.
«Va bene, sono deciso a farlo!»

Dopo essere entrato con la mia borsa e le gambe gelatinose nella cabina, ricordo una luce chiara.
Una luce che mi attraversò il corpo rubandomi le energie e, se la stanza era illuminata da poche luci, ora vedo solo il buio più totale.
Non vedo le figure fuori, solo qualche fioca luce e, ad essere onesti, non ho la forza di guardare o di fare altro. Mi accascio nella cabina e chiudo gli occhi.


**********



Angolo Autrice: Pensavo di riuscire ad aggiornare prima questa storia (perché era da un po' che mi ero detta "posta"), ma ho avuto poco tempo per mettermici e postare (colpa delle scan)... ma alla fine eccomi qua~
Inoltre per quanto strano sia, sono andata avanti con una os (di poco), chissà... magari riprendo a scrivere e finisco la raccolta OnHo o la os yuri! Spero di riuscirci, chissà... ho tanto di quella roba arretrata! Vi lascio con questo capitolo bruttino e... a presto~

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Capitolo 3
*** Third Chapter ***


Third Chapter

 




Un raggio di luce mi colpisce il viso e qualcuno mi è davanti, facendomi ombra. Mi metto a sedere e riesco a scorgere che è un poliziotto.
«Mi scusi…»
«Signore ha bisogno d’aiuto?», il poliziotto un poco paffuto me lo chiese con estrema gentilezza.
«Non si preoccupi, sto bene è solo… che ero stanco e dopo essere entrato qui mi sono addormentato di colpo!» un po’ titubante gli chiesi un favore, «E se non l’è di troppo disturbo, potrebbe indicarmi un motel ha basso costo, per favore?»
«Ce n’è uno qui vicino, l’accompagno… è così pallido che non vorrei che svenisse», mi allungò una mano e mi aiutò a rialzarmi.
Qualche metro più distante alla cabina, in una via secondaria si trovava un motel a due stelle.

Lungo il breve tragitto non chiese niente, di chi fossi o del perché ero lì dentro.
Entrati nella hall, una ragazza piccola venne incontro al poliziotto, sorridendo.
«John che bello vederti! Ti fermi per la colazione?»
«No, sono in servizio, ma penso che il mio amico abbia bisogno d’aiuto», la ragazza si girò verso di me scrutandomi dalla testa ai piedi. «Dove hai pescato questo straniero?» «Hanno segnalato che un ragazzo stava dormendo in una cabina qui vicino, pensavo fosse uno dei soliti sbandati, invece…»
«Capisco».
«La vecchia Beth mi aveva detto che avevate bisogno di una mano qui, magari potreste dare vitto e alloggio a questo ragazzo in cambio di lavoro!» disse dandomi una pacca sulla spalla.
La ragazza sembrò pensarci un attimo e in meno che non si dica mi prese per il braccio.
«Lo porterò da zia Beth, grazie Jonh!» e con un gesto veloce della mano lo salutò!
Mi portò verso le scale secondarie e salimmo. I gradini si susseguivano e sembrano infiniti, ma arrivati al pianerottolo, sulla sinistra, si trovava una porta, massiccia e scura – e il colore non c’entrava nulla con quello delle pareti.
«Zia Beth! Jonh ci ha portato un potenziale lavoratore, ma ha bisogno di vitto e alloggio».
Pareti e pavimento erano in legno e la stanza era abbellita con colori pastello e mobili di buon gusto – e non c’era il contrasto che vidi nel pianerottolo. Il soffitto – basso e con travi alternate – mi fece intuire che eravamo in una mansarda.
«Davvero? Ragazzo, voglio sapere di dove sei e come ti chiami».
«Sono nato a Seoul, Corea del Sud… il mio nome è Kim Kibum, signora!»
«Ho conosciuto pochi asiatici così belli e dimmi Kibum, cosa sai fare?»
«So fare tutti i lavori di casa e tempo addietro feci il cameriere».
Alla signora – piuttosto ordinaria – brillarono gli occhi e ciò mi spaventò un poco, poi si alzo e mi diede la mano.
«Congratulazioni ragazzo, sei stato fortunato… ci serviva proprio un cameriere», sorrisi leggermente.
Mi sballottò fuori dalla stanza e in breve tempo mi fece vedere tutto l’edificio, la stanza in cui avrei alloggiato e quali fossero gli orari di lavoro.


*****



Mi feci una doccia e poi misi la divisa da cameriere portata gentilmente da una cameriera – o qualcuno che lavorava lì.
«Ehi, sei pronto?», la ragazza di prima, Sarah – solo dopo si era presentata – aprii con poco garbo la porta della stanza.
«Sì!», usciti dalla stanza la seguii fino alla sala.
Quando feci il giro non la vidi bene, ma ora con tutte le luci accese e i tavoli arredati, trovavo la stanza davvero accogliente. Pareti calde, fiori in vasi decorati ai lati. Per non essere un motel lussuoso non era sporco o brutto, ma accogliente e semplice.
Dalla cucina uscii Ramon – Sarah ne parlava in continuazione, non tralasciando nemmeno un centimetro di come fosse fatto – che, vedendomi gli venne naturale esclamare «Oh, Platypus, c’è un tuo compaesano!» e ricevetti una pacca sulla spalla. Lo guardai storto, ma non perché mi avesse paragonato a un qualsiasi asiatico senza sapere la mia nazionalità, ma per il semplice fatto che mi avesse rivolto tutta quella confidenza, senza presentarsi… Dio, le buone maniere – per certi individui – erano state tirate nello sciacquone?
Poco dopo Ramon mi portò in cucina, perché secondo lui dovevo vedere come lavoravano i ragazzi e di quanto fossero alettanti alle ragazze che ci lavoravo. Onestamente mi importava ben poco delle ragazze che civettavano come ossesse solo per aver un contatto fisico o altro con uno di loro.
Tuttavia, dovetti ammettere che Platypus non era affatto un brutto ragazzo, tutt'altro.
Era il tipico ragazzo che piace – carino, solare e con muscoli pronunciati −, ma il bello è che, quando lavorava ci metteva sentimento, lo si percepiva.
Dopo il cicalio incensante di Ramon, su come era bravo il suo amico come cuoco, lui, mi guardò solo di sfuggita, per poi riprendere l’amico, intimandolo a lavorare.

Per quanto quello fosse il mio primo giorno lavorativo andò bene, più di quanto sperassi, soprattutto i miei colleghi – che mi fecero anche i più sentiti complimenti.


*****



Presi le chiavi che aveva lasciato sul tavolo, vicino al bicchiere di birra appena finito e accorsi di fuori per la porta del personale; con tutta la buona volontà e convinzione urlai “Platypus” e un attimo dopo volermi sotterrare per la faccia stranita e forse un po’ per il fatto che fosse irritato – il nomignolo che viene usato dai suoi colleghi e l’atto di essere chiamato così, da uno sconosciuto, non era il massimo −, mi guardò male e mi rispose.
«Umm?», aveva gli occhi lucidi, probabilmente per l'alcool che aveva bevuto. Mi avvicinai e senza volerlo incominciai a balbettare.
«E-ecco… hai dimenticato le chiavi…» e senza guardarlo troppo glieli feci vedere. Le afferrò con non troppo garbo per poi girarsi e andarsene.
«M-mi dispiace se ti ho… chiamato così, m-ma è che… non so il tuo nome».
«Fa niente e… se vuoi saperlo è Jonghyun» biascicò, ma non ebbi tempo di riprendere fiato che aggiunse «per essere stato il tuo primo giorno, non è andato male!»
Ne fui felice – e se anche avrei voluto strozzarmi perché sembravo come quelle ragazze che gli sbavano dietro – non feci in tempo ad andare alla porta che lo sentii cadere a terra, come un sacco di patate. Mi girai e andai verso di lui. Son sicuro che il troppo alcool l’abbia fatto collassare, per fortuna che non si è messo alla guida.




Tic toc e il tempo scorre, ogni momento prezioso sfugge via e non ci si accorge di quanto effimero, il tempo, sia.
E restar son solo 48 ore, tic toc.


**********



Angolo Autrice: Sono tornata a rompervi la balle uwu
Dopo tanto tempo mi sono decisa di aggiornare e mi piacerebbe dirvi che ho ripreso a scrivere, ma l'unica cosa che ho scritto è una flash comica che di comico ha ben poco, e che non vedrà mai la luce del sole. Però spero mi venga voglia di finire questa mini long ed esultare, ma impegnata come sono mi sto chiedendo cosa sia scrivere... si mangia? Detto ciò mi eclisso e visto che non penso di pubblicare qualcosa... vi do i miei auguri di buon natale e fine anno nuovo ♥

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