Heart Of Stone (traduzione di Mycroftssexylegs)

di twistedthicket1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Tagliare i legami ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


No, non state avendo un déjà-vu. Avevo già postato il capitolo, ma dal mio account, sperando di cavarmela raccogliendo tutte le fan fiction che sto per tradurre da una sola parte.

Ellipse mi ha però ricordato (grazie grazie <3) che il regolamento è molto rigido in proposito, quindi ho creato l’account dell’autrice e posto la storia qui.

Ne approfitto per rompere ancora un po’ per difendere questa storia. sofaa aveva recensito la fic esprimendo un po’ il pensiero comune, ovvero che all’inizio può sembrare noiosa/ insensato e puro angst, ma, come ha detto anche lei, arrivati a fine capitolo acquista un senso e fa appassionare.

Ok, la smetto, giuro.

Sotto c’è un altro mio commento copiaeincollato (?), non era per rompere  T.T

 

 

***

 

Salve a tutti! Esordisco nel fandom con questa traduzione, che mi è stata richiesta sul gruppo facebook ~ We are JohnLOCKed.

 Lo so che non ci speravate più, gente, ma nella mia innocenza ho scelto di iniziare da quella di soli 4 capitoli per poi scoprire che ad esempio questo era di 19 PAGINE WORD.

E' davvero bellissimo, ma mio dio. Vabbé, non voglio rompere la meravigliosa atmosfera angst che permea il capitolo, quindi vi dico solo che sono una traduttrice alle prime armi, ma nel mio piccolo ho cercato di rispettare il più possibile lo stile dell'autrice, le scelte lessicali e fonetiche (no, non sono pazza, secondo me la musicalità che si dà alle parole è importante u.u).

Detto questo, qualora troviate degli errori o ci sono dei pezzi che secondo voi in italiano sono un po' macchinosi, vi prego di farmelo sapere, così posso migliorare e darvi un lavoro migliore :D

Eh ok basta, I hope you enjoy the reading ~

 

 

 

 

 Can you keep a secret?

Will you hold your hand among the flames? 
Honey, youre a shipwreck 
With your heart of stone

Can I get a witness? 
To the bruises and the wasted tears 
You could dry a river 
With your heart of stone 
With your heart of stone

I can breathe 
I can breathe 
Water 
Water 
I can breathe 
I can breathe 
Water 
Water

When youre here with me, 
Youre not here with me~ Iko, Heart Of Stone

 E’ il suono dell’acqua che scorre che fa venire voglia a John di rimpicciolirsi sul posto.

Il suo suono lo porta alla distrazione, ad arricciare le mani in pugni stretti contro il bracciolo della sedia. Lo colpisce di nuovo, come un vero pugno alla base della spina dorsale. Gli occhi si agitano, chiusi in doloroso silenzio, ma sono di nuovo aperti quando la sua terapista ritorna, ora con un bicchiere d’acqua in mano. Per ora ha imparato come fermarlo, prima che diventi fuori controllo. Uccide l’emozione, l’attutisce finché non può assumere una maschera di vuoto che se non soddisfatta, è almeno neutra all’apparenza. In ogni caso, lei lo guarda fermamente per un lungo momento prima di mettere il bicchiere sul tavolo tra loro, occhi marrone scuro che valutano la tensione nella linea della sua mascella e nelle mani, prima che si segga.

 

John è una figura silenziosa, e quelli che non lo conoscono da molto tempo sarebbero propensi a dire che ha da sempre avuto uno sguardo esausto in faccia. E’ un uomo magro, davvero troppo magro, e dà l’impressione di qualcuno appena un po’ perso nella propria testa. I suoi occhi si tiravano sempre indietro dalla faccia della persona con cui stava parlando, quelle iridi blu che indugiano su un punto molto lontano, come se stesse vedendo qualcosa o qualcuno che era scomparso tempo fa. Non guardava direttamente le persone, optando invece di andare alla deriva, di galleggiare e di fissare le sue scarpe come ha fatto ora, o forse i palmi delle sue mani. Ella Thompson può contare sulle dita di una mano il numero di volte che John l’ha effettivamente guardata da quando la seduta era ricominciata quasi un anno fa, e sta diventando chiaro che il numero non aumenterà neanche in questa seduta.

La mano sinistra di John trema leggermente quando fa correre le dita fra i capelli, di nuovo guardando fuori dalla finestra. Si rifiuta di guardare la tazza poggiata innocentemente davanti a lui, il liquido freddo che luccica trasparente e indifeso. Invece fissa le mani incrociate di Ella,  le sue dita che sembravano un fascio di ramoscelli legati insieme, un puzzle intricato impossibile da sciogliere. Il mistero delle mani, come possono rivelare così tanto di una persona. Un tempo, avrebbe potuto non accorgersene.

Ora, non può farci nulla.

John si ritrova a notare questo tipo di cose ancora e ancora, come se qualche interruttore fosse stato fatto scattare nell’occhio della sua mente. Si chiede se possa vedere tutto, potrebbe raccogliere quanto credeva che facesse. Sa di non essere neanche lontanamente perfetto. Non sarebbe mai capace di... beh… non sarebbe mai capace di copiare lui. La sua gola si stringe al pensiero, e scaccia la vipera opprimente che gli stringe il collo quando si sforza nelle deduzioni, insicuro che siano anche solo corrette. Ella ha le mani pulite, morbide per la crema per le mani al profumo di menta e la meticolosa attenzione. John crede che ciò potrebbe significare che fosse solita mantenere un certo aspetto, il che avrebbe senso data la natura del suo lavoro. Le sue unghie sono tutte esattamente della stessa lunghezza, smaltate con  una vernice di un triste rosa abbinata al suo vestiario. Aveva dei leggeri calli sulle punte- suonava la chitarra?  O solo dipendenza da messaggi?- e le sue dita non si contraevano nel minimo segno di agitazione. Si chiede quali altre storie possano esserci qui, cosa gli resta sfuggente e sconosciuto. Quali segreti sono rinchiusi nelle pieghe della sua pelle.

Ma questi pensieri lo portavano solo lungo un sentiero che non voleva percorrere, almeno non lì. Non con occhi che poteva sentire tediosi sulla sua attaccatura dei capelli, e una penna ferma che aspettava l’occasione di scarabocchiare ogni emozione che attraversava la sua faccia su un blocco di carta.

“John, sono qui per aiutarti. Ma non posso aiutarti se non ti fidi di me.”

Le parole uscirono dalla bocca di John, automatiche. Meccanicamente. Parole che poteva applicare in molte situazioni differenti, impersonali.

 

“Sto bene. Va tutto bene.”

 

Le mani di lei si stringono. Frustrazione. Questo non è difficile da dedurre.

 

Ovvio John, sul serio.

 

Basta.

 

Le labbra di Ella sono una linea sottile. Quando forma le prossime parole che dice, John può vedere in loro l’esasperazione. Velata pietà. Parole dure non dette.

Se ha ragione su tutto, ovviamente. Ancora non lo sa. Non può chiederlo. L’abilità di chiedere cose ad alta voce è da tempo scomparsa dalle sue abilità. E’ morta il giorno in cui ha chiesto un altro miracolo, e non ne ha ricevuto nessuno.

Neanche il sussurro di una possibilità.

La sua voce è rassegnata.

 

“Davvero, John?”

 

John non risponde. Non deve.

Il suo silenzio risponde per lui.

 

****

 

Ha piovuto quel giorno. Come se il mondo si fosse in qualche modo fatto carico del dolore insormontabile di John e vi avesse simpatizzato, il cielo si era aperto ed era scoppiato in lacrime su tutta Londra. Cadde a pezzi, minacciando di annegare tutti nel suo torrente mentre lavava via tutto come un’onda della marea. Quando i suoi occhi si chiusero, John ricordò il grigiore di quella settimana.

La pioggia.

Come l’aveva sentita sul suo volto.

Freddo.

Più freddo di qualunque cosa avesse provato prima, tranne forse quel polso pallido quando aveva cercato disperatamente un battito che non c’era. Era parso come se Londra piangesse amaramente per il suo detective perduto quel giorno, piangendo al posto di John quando era troppo sotto shock e troppo confuso per versare lacrime. Piangeva per la perdita di qualcosa troppo importante per essere accuratamente definito, e gridava il vuoto che riempì la città il giorno in cui un solitario cappotto scuro smise di fendere i suoi vicoli e strade.

Comunque non importava quanto forte piovesse, non importava quanti giorni John passò congelato e zuppo fuori tardi di notte, non avrebbe potuto lavare la sensazione del sangue di Sherlock sulle sue mani.

Nulla potrebbe cambiare il fatto che ogni notte John andava a dormire con la visione di una figura che cadeva stampata dietro le sue palpebre, e si svegliava col sapore amaro di un urlo che gli moriva sulle labbra.

Nessuno potrebbe aggiustarlo, e forse era perché John non voleva che lo aggiustassero.

Dopotutto, guarire vorrebbe dire dimenticare.

Lui non voleva dimenticare.

 

Non voleva andare avanti.

 

Non quando il suo corpo sarebbe stato per sempre intrappolato sotto le pressanti onde del dolore, anche se i suoi occhi restavano secchissimi. Non quando al cielo stesso era permesso di lamentarsi, e lui dolorosamente non poteva.

Bloccato tra voler singhiozzare fino a perdere la voce e non voler mai più vedere di nuovo un’altra goccia d’acqua, John chiudeva gli occhi  e voleva svanire.

E qualche volta, nella calma della notte, appena prima che il Sole sorga all’orizzonte, mentre lavava il salotto con un bagliore ambrato, crede di sentire l’eco morente di un violino trascinato al suo orecchio.

Crede di poter sentire una voce che gli mormora piano, accusandolo ma comunque riempiendolo di un misto di soddisfazione e gioia.

 

Mi aspettavo meglio da te.

 

Finché avrebbe potuto immaginare quella voce, avrebbe potuto far finta di stare bene.

Che tutto era ok e andava bene.

 

Finché sarebbe riuscito a ricordare perfettamente quel volto quando chiudeva gli occhi, John Watson si sarebbe lasciato annegare.

 

****

 

Sale le scale verso l’appartamento, e John può già dire chi è dal picchiettare ritmico dell’ombrello con la punta di metallo che marcava i passi di Mrs. Hudson. Pensa che riconoscerebbe quell’andatura anche ubriaco fradicio, come in effetti è stasera. Beve più ora di quanto era solito prima, un cambiamento che non gli va sempre a genio se smette di pensarci troppo a lungo. Gli sembra che quando è solo, non sia mai senza il bruciore del whiskey o dello scotch sul retro della lingua, pesante e forte. Era sempre stato cauto con l’alcohol, dato che aveva fatto marcire la mente e il cuore di sua sorella finché non era nulla più di un guscio arido. Vuoto. Una parte di John si chiede se non è già cavo. Si chiede se qualcuno lo aprisse, cosa troverebbe.

 

Cosa vedrebbero una volta finito di sbucciare strato di pelle dopo strato di pelle? Era ancora pieno? Oppure era una parte del travestimento. Un fantasma tra ciò che era solido e vero. Si sente così, a volte. John sente come se fosse lì, ma non davvero presente. Non come chiunque altro. Si chiede se lo era davvero, o se Sherlock

 

Se lui lo rendeva presente.

 

Suppone che sia una strana prospettiva da cui guardare le cose.

E di nuovo, Sherlock diceva sempre che tra i due, John era di gran lunga quello più strano. Dopotutto faceva parte dell’essere un sociopatico, era un’altra delle cose per cui vivere volentieri con uno.

 

Sembra più vecchio.

Pensa rispondendo alla porta, non appena la figura solitaria di Mycroft compiva innecessariamente l’azione di bussare. Gli occhi dell’ufficiale del governo non sono più chiari e pungenti come apparivano una volta, offuscati dallo stress, offuscati dal dolore. Mycroft si appoggia sul suo ombrello come se fosse l’unica cosa che lo tenesse in piedi, e aveva perso peso nell’ultimo paio di mesi, da quando John aveva posato l’ultima volta gli occhi su di lui. Si fissano l’un l’altro in silenzio, un rumore bianco [1] dato che John spesso non sapeva più che dire. Come una coperta di neve che scivolava a ricoprire un paesino addormentato, è fredda e lo seppellisce.

Tranquillo dalla vista di uno spettatore esterno, e opprimente da quella di un interno.

 

Per un momento, l’ex-soldato considera di offrirgli un drink. Comunque, decide di no quando nota come lo sguardo fisso del maggiore degli Holmes lo perlustra, soffermandosi sulla piccola macchia di scotch sul suo colletto e sul modo in cui la sua mano sinistra trema sul manico del suo bastone. E’ ancora sconvolgente per John, quanto una rapida occhiata possa lasciarlo boccheggiante e con la voglia di urlare, la sua pelle brucia sentendo occhi simili e non uguali a quelli che vedeva di notte nei suoi incubi più oscuri e nei sogni più dolci. Vuole urlare, vuole gridare a Mycroft di andarsene. Di andarsene e basta, perché ogni volta che John vede quell’uomo, non vuole nient’altro che dilaniarlo in pezzi e lasciarlo sanguinante all’angolo della strada. E ancora il pianto non riesce a trovare la strada per le sue labbra, e la sua espressione è da molto bloccata in un’emozione:

 

Incurante.

 

In qualche modo, ritiene che Mycroft possa ancora vederlo. In ogni caso dà a John un grande ancoraggio, aspettando pazientemente che lo invitasse ad entrare invece di arsi strada come avrebbe fatto in passato a quel punto. Il dottore è disposto a dargli così tanto.

Il maggiore degli Holmes ha imparato a non spingerlo.

 

Mycroft si siede sul divano. La prima volta che si era fatto vivo dopo L’Incidente aveva provato a sedersi sulla poltrona vuota posta di fronte a quella di John. Nonostante John non ricordi esattamente cosa face, ricorda cosa disse. O meglio, gridò.

 

L’eco di “Tu non hai capito! Tu non riuscirai a cancellarlo!” lo imbarazza ancora quando è seduto da solo rannicchiato al suo posto e guardando fisso la poltrona vuota. Vorrebbe sentirsi in colpa di aver spruzzato il vetriolo al maggiore degli Holmes.

Renderebbe più facile guardarlo e realizzare che sta soffrendo anche lui a suo modo.

Potrebbe anche far sentire John meno disinteressato quando si siede, non curandosi di offrire del tè. Il suo stomaco è in subbuglio per l’aver bevuto a stomaco vuoto, e Mycroft non ha un aspetto migliore. La sua pelle è bianca come quella di un fantasma, quasi cerea, e quando finalmente rompe il silenzio la sua voce è un po’ più morbida di come era stata un tempo. John sa cosa sta per essere detto. Lo sa da molto tempo.

Il che è la ragione per cui ha deciso di essere particolarmente sbronzo oggi, nonostante sia a stento  pomeriggio.

 

John… sono stato informato che fatta eccezione per le tue sedute di terapia obbligatorie, hai a stento lasciato l’appartamento.”

Prevedibilmente, gli occhi di John si abbassano sulle mani di Mycroft. Sono strette al manico del suo ombrello, le nocche sbiancate per la forza. E’ l’unico segno che il maggiore degli Holmes non sta controllando le sue emozioni. La faccia e il tono sono impassibili, bianchi e regolari. Aspetta che John risponda, e quando non lo fa singhiozza e continua come se si fosse aspettato che non avrebbe per nulla parlato.

 

“Mrs. Hudson è preoccupata per te…  E anche Gregory Lestrade… L’ispettore mi ha detto che non rispondi ai suoi messaggi da mesi. Lui non avrebbe voluto questo, John.”

 

Una cosa intenzionale. John aveva deliberatamente tagliato i legami col DI solo pochi mesi dopo L’Incidente. Aveva realizzato velocemente che passare una qualsiasi quantità di tempo con l’uomo avrebbe solo fatto si che i ricordi lo inondassero, il che gli faceva sperare di tonare sul campo di battaglia, pur di soffocare il suono del suo cuore che batteva. Dei colpi di pistola in qualunque giorno sarebbero preferibili al silenzio assordante di un appartamento vuoto, e le urla degli sconosciuti ferirebbero e basta, non lacererebbero come il suono del suo stesso grido sgualcito di “SHERLOCK!” quando si svegliava ogni notte col sudore freddo.

Lo sguardo fisso di Mycroft è come un peso solido sulle sue spalle. Minacciando di distruggerlo con la sua imperiosa presenza. Comunque John era sopravvissuto ad una guerra, e non era tipo da scappare da qualcosa, anche una discussione chiaramente privata e carica di emozioni come questa.  La sua mascella si contrae, e ricomponendosi abbastanza da guardare finalmente in alto, chiede al maggiore degli Holmes la stessa domanda che pone ogni volta che viene.

Ogni volta che prova a incolparlo.

 

“Non hai mai detto la verità tanto per cominciare, quindi perché dovrei iniziare a crederti ora?”

Anche se un tempo John non avrebbe mai pensato a sé stesso come una persona crudele, pare che lo sia diventato.

Anche Mycroft non riesce a nascondere completamente il flash doloroso nei suoi occhi, prima che i suoi lineamenti si risistemino in una maschera di serenità.

 

Se ne va e non ritorna.

 

John tenta di convincersi che gli importi.

 

****

 

Dalla morte di Sherlock, John si è ritrovato spesso a indugiare sul suo passato. Si trova costantemente a ripercorrere i suoi passi, attardandosi nel tempo come l’eco dei passi della camminata di un boia. Pensando a cosa ha fatto, e cosa no, e cosa avrebbe potuto. In questo va un sacco di tempo, cosa avrebbe potuto fare. Notti intere, in cui la luna è sospesa pesantemente nella sua forma insonne e lui fissa  il vuoto del suo blog, cercando di decidere cosa dire.

Non è riuscito a scrivere una parola, non una frase o una proposizione per molto tempo. Ogni volta la pagina bianca lo guarda accusatoria quando apre il suo portatile, e ogni volta la guarda di rimando, il silenzio che echeggia nella sua mente. Come potrebbe riassumere i suoi sentimenti, se neanche lui potrebbe sentirli sotto il ghiaccio paralizzante che ha congelato il suo mondo? Come si pretendeva che trovasse le parole, quando sembrava che sarebbe stato come fare una muta di indifferenza e distacco dalla realtà? Questa azione minaccia di distruggerlo, di fargli perdere la testa, e così John è silenzioso, muto come se sentisse il silenzioso paio di occhi verde-blu toccare il retro del suo collo.

 

Li sente su di lui, quando pensa che il detective avrebbe disapprovato.

E Sherlock, per tutte le sue idiosincrasie e intuizioni, non sarebbe stato in grado di capire l’esitazione di John. La paura di perdere l’unico pezzo del detective che gli era rimasto.

Quindi John è silenzioso.

E la sua terapista continua ad esortarlo a lasciar perdere.

E lui rifiuta ancora e ancora senza dire una parola.

 

 

Almeno, è così all’inizio. Poi legge i commenti lasciati dagli altri. Le frasi d’odio, che sostengono che Sherlock Holmes è un falso. La lettere che non ha avuto il coraggio di aprire fino ad una notte in cui è mezzo sbronzo e ha passato troppo tempo a fissare la bocca della sua pistola.

 

John le legge tutte. Si sofferma su ogni riga, le lascia affondarlo e riempirlo, inondare il vuoto infinito nelle sue viscere. Per un attimo lo consuma, e lui chiude gli occhi e scrive una singola risposta a tutte, mandandola prima che possa smettere di pensare.

 

Era il mio migliore amico e crederò sempre in Sherlock Holmes.

 

Riceve più di un centinaio di risposte in meno di un’ora.

John non le legge, va a letto e finge di dormire, se solo così Mrs. Hudson la smetterà di salire all’appartamento ogni ora e preoccuparsi per lui.

 

****

 

Il suo nome è Mary, ed è tutto ciò che Sherlock non era. Ha i capelli biondi del colore del grano in un pomeriggio d’estate e gli occhi di un profondissimo, caldo blu. Le piace il cibo fatto in casa più del takeaway e non urla o suona strumenti a strane ore della notte.  Le sue mani sono sfregiate non per agenti chimici o esperimenti, ma per anni di lavoro fisico, essendo la sua famiglia vissuta in una fattoria. Le piace leggere e ha un sottile senso dell’umorismo.

 

E comunque è in qualche modo come lui.

C’è qualcosa nei suoi occhi, qualcosa di percepibile e appena un po’ vulnerabile quando guarda John, e lui sembra intuire che lei sa che è a pezzi. Ma lei non se ne va, non come Lestrade e Mycroft e perfino Mrs. Hudson. Infatti, sembra che farla indugiare, guardarlo con interesse sopra l’orlo della sua tazza di tè al bar in cui si incontrano. La sua lingua è sottile come la sua, anche se lei non è solita mutilare e ferire intenzionalmente. Invece la usa per invitarlo a uscire per un caffè, e stranamente, John accetta.

 

Dice di sì alla fine perché quando lo coglie a fissarla, non lo guarda male. A stento arcua un sopracciglio chiaro, e in una sorprendente mimica fa una sola domanda.

“Problemi?”

 

Gli piace.

Non è certo che sia amore, ma è il primo sentimento che riesce ad agitare nel suo petto da quasi tre anni ormai, e vi si aggrappa come se avesse paura che se non l’afferrasse strettamente la piccola fiamma avvizzirebbe e morirebbe nell’oscurità.

Pensa che lei lo sappia, e che l’abbia saputo dal primo momento che l’ha vista, ma non le importa.

Non fa differenza, alla fine.

Perché anche Lei è sola.

 

****

 

A dispetto di ciò che a Sherlock piaceva presupporre, John riconosceva e gradiva i benefici della musica. Non che abbia esperienza con degli strumenti a corda. No, non sa suonare neanche una melodia semplice al violino. Tuttavia quando era piccolo, sua madre in un tentativo di farlo uscire di casa (e per estensione via dal suo padre alcolizzato) aveva raccolto quei pochi soldi che avevano e l’aveva costretto ad andare a lezioni di pianoforte. Aveva recuperato un pianoforte da un’amica di famiglia, e nonostante fosse terribilmente scordato, era posto lì come monito dell’orgoglio della vita di Maria Watson nel salone affinché tutti lo vedessero. Inizialmente, John l’aveva odiato. Detestava la sua insegnante, una donna arcigna e severa della Cecoslovacchia, e si sentiva una checca, seduto di fronte ai tasti d’avorio, incapace di suonare molto a parte twinkle twinkle little star. Le lezioni furono intense, e spesso aveva sentito le nocche doloranti tutta la notte da quando tornava al tramonto ogni settimana e le sue spalle ingobbite dall’esasperazione.

 

All’età di otto anni John aveva immaginato l’omicidio della sua insegnante di musica in un centinaio di modi diversi, e i suoi commenti collerici all’inizio gli avevano fatto desiderare di arrendersi. Aveva considerato di bruciarsi le dita sulla stufa, anche solo per evitare un’altra lezione dissanguante. Aveva anche oziosamente pensato di bruciare il pianoforte stesso, una volta. Come un’animale rannicchiato in casa sua l’aveva schernito come bambino, i rumori che ne faceva uscire sofferenti e ringhianti e piangenti, stridenti nelle orecchie.

 

Con rabbia, colpiva i tasti e urlava ingiurie mentre nessuno era a casa, e qualche volta si trovava persino comicamente a cercare di ragionare con lo strumento come se avrebbe emesso un suono più dolce se preso dal verso giusto.

 

Questo battibecco avrebbe potuto decretare la fine della già difficile carriera musicale di un giovane John, se non gli fosse accaduto di scoprire Harry, che era cinque anni avanti a lui nel pianoforte, suonare di notte tardi. Quando John chiude gli occhi, può ricordare come si è sentito, strisciando cautamente giù per le scale per sentire l’ossessionante melodia che serpeggiava attraverso la casa. La madre era addormentata, e il padre era di nuovo svenuto, e John stava avendo incubi da tutta la settimana. Poteva assaporare il gelo nell’aria, ricordare come il suo respiro sostava in volute di fronte al suo volto e come la Luna gli aveva fatto diventare gli occhi argentati nello specchio, i suoi lineamenti giovani che ricambiavano il suo sguardo. Poteva ricordare come Harry era sembrata allora, non la piccola e ferita adulta che era oggi, ma una persona vibrante, allegra e solo un po’ rude, l’orlo di qualcosa di selvaggio della sua personalità. I suoi ricci biondi ricadevano in onde sulla sua schiena, la sua camicia da notte brillava sotto la luce delle stelle mentre una melodia dolorosamente dolce si agitava dalle sue dita come un maremoto. L’aveva guardata, nascosto sull’ultimo scalino e ascoltando ad occhi spalancati, perché sua sorella aveva rovesciato il suo cuore nel pianoforte e lo strumento era costretto. Niente suoni terribili, niente note sporche, solo movimento puro e profondo in un brano che si sbrogliava lentamente nella notte e stringeva il cuore di John nel petto così stretto che non era riuscito a respirare.

 

Per la prima volta, era riuscito a sbirciare nella profonda tristezza nel cuore di sua sorella. Dal modo in cui la melodia era allegra e comunque sembrava forzata, suonando gravosamente una parte solo per incespicare di nuovo nel tasto più basso appena c’erano dei silenzi. Una danza che non aveva speranza di concludere. Un brano che si scusava anche mentre faceva errori comunque bellissimi, contorcendosi e curvandosi in un finale gonfio che si chiuse in una singola, solitaria nota sola nel buio.

 

Una musica di disperazione.

 

Avrebbe scoperto in seguito il nome della melodia, quando era più grande e avrebbe scoperto che Harry si appoggiava allo stesso pianoforte, quando era ubriaca fradicia e piangeva.

L’aveva chiamata in nome della sua personale salvatrice e disperazione. La sua migliore amica e amante e un giorno, peggiore nemica.

 

Clara.

 

Fu la notte in cui John decise che voleva suonare. Che voleva riuscirci.

 

Così come un qualunque Watson, vi si sedette, testardo nel cuore e risoluto nonostante lo sforzo. Sempre incalzando per andare avanti, incurante delle conseguenze.

 

La prima volta che la sua insegnante gli aveva fatto i complimenti, era riuscito a suonare il suo pezzo perfettamente dopo una sola settimana di prove.

John avrebbe guadagnato molti altri complimenti da altre persone andando avanti.

 

Infatti suonò per tutta la sua adolescenza, la sensazione delle sue dita che correvano amorevolmente per i tasti lucidati gli davano un senso di gravità che lo spingeva sulla Terra. Divenne un conforto, il solo punto fisso nella sua vita in perenne cambiamento. Suonava a lungo di sera, talvolta anche di notte. John suonava il giorno prima di andare via di casa a diciotto anni, e suonava la notte in cui scoprì che sua sorella aveva quasi investito qualcuno mentre guidava ubriaca. Aveva suonato quando aveva sentito la notizia della morte di sua madre e si slanciava con rabbia su un brano la notte prima di essere mandato in Afghanistan.

 

Quella sarebbe stata l’ultima canzone che avrebbe suonato per molti anni, notando che i pianoforte scarseggiavano in zona di guerra, poi andò avanti e si fece sparare.

La musica non era sembrata importante, dopo.

 

Non davvero molto.

Niente lo sembra tranne respirare e dormire e mangiare e cercare di sopravvivere quando ti senti come se metà della tua anima sia stata strappata via da una bomba piena di esplosivo. La musica non poteva fermare gli incubi, non poteva soffocare le grida di uomini sanguinanti sotto le tue mani e di bambini che piangono per la strada sui corpi dei loro genitori. La musica si perse sotto il brusio di Londra, sotto lo stress di cercare di tenersi insieme quando tutto ciò che John desiderava era lasciarsi andare in pezzi.

 

La musica si perse il secondo in cui perse l’ebbrezza dell’avventura, il sapore dell’azione e dell’utilità sulle sue labbra. A cosa servivano delle mani capaci, se non potevano salvare quelli che amava di più?

Aveva amato molti dei suoi amici in battaglia, e molti di loro non lasciarono mai il deserto.

 

E tuttavia in qualche modo, John lo fece.

John Watson tra tutti, era riuscito a sopravvivere.

 

A suo tempo, l’aveva quasi pensato ironicamente.

 

Pensò che per lui la musica sarebbe stata persa per sempre.

Poi aveva incontrato Sherlock Holmes, una sinfonia in forma umana.

 

Il detective l’aveva fissato con dei chiari occhi blu-verdi, e aveva detto esattamente otto parole e in qualche modo… in qualche modo John sentì di nuovo la musica.

 

E ho detto pericoloso, ed eccoti qui.

 

Come un uomo sordo improvvisamente capace di sentire, aveva sentito le dita prudere dal bisogno e la sua mente visualizzare note su un pentagramma. Per scrivere, per catturare la melodia che circondava lo strano uomo sottoforma di polvere da sparo e tè e un cappotto largo e rumore. Assieme al suo blog, John incominciò a suonare di nuovo, anche se di nascosto dal suo coinquilino a casa di sua sorella tardi nei weekend. Iniziò a costruire, a formare Sherlock Holmes in note acute, nette, crome. Prese l’essenza del suo sorriso e la mise dentro come melodia, il tuono nelle sue iridi e lo mise nelle note basse. Prese l’eleganza delle mani del detective e le rese trilli nel mezzo della canzone, ed estese la sua altezza in un crescendo vertiginoso. Lavorò e pensò e rise dei ricordi, la loro presenza facilitava la notte in cui a Harry non stava andando tanto bene e lasciava un sorriso affettuoso ad addolcirgli i lineamenti quando tornava a casa.

 

Le sue mani tremano qualche volta, quando guarda lo spartito poggiato sul fondo del comodino nella sua stanza. Le note gli giacciono davanti, e può sentire il suono che faranno. Il brano che suoneranno, così doloroso e comunque così amabile. Si morde il labbro e si obbliga a tenere le note, a trattenersi dal buttarle nell’aria notturna dove saranno ingoiate dal vento e trasportate via. Trattiene le sue mani dal fare a pezzi i fogli, permettendo loro invece solo di accarezzare i bordi, di ricalcare la calligrafia. Si ferma dal suonarle, perché se lo fa, sa cosa sentirà.

Sa cosa l’ha fissato in faccia tutto questo tempo, cosa non ha visto finché non è stato troppo tardi.

 

Il pensiero gli fa chiudere gli occhi in agonia.

 

John sentirà quello che sa da tempo.

 

Sto affogando.

 

Che amava quell’uomo, e non importa ciò che fa, lo amerà sempre.

 

Ma persino sott’acqua, lui mi fa respirare.

 

Non c’era nulla che Sherlock Holmes avrebbe potuto fare che l’avrebbe cambiato.

 

Finché all’improvviso, c’è stato.

 

****

 

Non è reale.

Questo non è reale.

Tutta un’illusione, in tondo nel giardino come un orsacchiotto.

 

Ma deve esserlo, altrimenti John è impazzito. Davvero, e alla fine. Il suo stomaco si sta arrotolando dolorosamente dentro di lui, e pensa che potrebbe vomitare proprio lì, sul pavimento lucidato del Diogene’s Club di Mycroft. Digrigna i denti, le sue mani si chiudono contro le sue ginocchia guardando l’uomo davanti a lui, quello che sta per far finire il mondo, per distruggerlo completamente. Frantumarlo in pezzi e guardarli sparpagliarsi. La tela di un ragno che si distruggeva.

 

Il maggiore degli Holmes lo guarda con prudenza, e John sa che in quel momento non è più intontito, perché qualcosa si sta agitando doloroso nel suo petto,  e non riesce ad avere abbastanza aria per respirare. Fa male, è un coltello che lo colpisce ancora e ancora, e gasolio versato su una fiamma libera.

 

E’ impossibile, e comunque Mycroft ha l’audacia di sedersi nella sua poltrona, di giocherellare col manico del suo ombrello e guardarlo negli occhi. Quei chiari occhi blu sono calmi e fottutamente regali, quando si indirizzano verso di lui, e non c’è neanche la traccia di una scusa quando le parole abbandonano di nuovo le sue labbra.

 

La voce di John interrompe qualsiasi cosa stia per dire, qualunque scusa. Qualunque dichiarazione che dovrebbe annullare la colpa. La pesante, distruttiva colpa che deve cadere su qualcuno ma ancora fluttua nell’aria.

 

Quindi… è stata tutta una grande bugia.

 

Il silenzio dopo le sue parole gocciola come mercurio liquido nelle vene si entrambi, qualcosa vacillava negli occhi di acciaio del maggiore degli Holmes. Legge le parole non dette tra le righe, le parole che fanno smettere alle sue dita di giocherellare con l’ombrello e con la sua colonna vertebrale per ingobbirsi leggermente come se si aspettasse un colpo. Improvvisamente, il grande uomo appare molto più piccolo, e molto più stanco di prima. Le parole John le sta urlando, gridando nella sua testa.

 

Apre la bocca,inizia davvero, poi si ferma.

Ricomincia.

 

“Non intendevo.. non mi sarei mai sognato di…

 

Qualcosa nello sguardo di John congela l’uomo sul posto, facendo sembrare di pensare meglio alle parole che sta per far uscire dalle labbra. Al divertimento distante di John, le guance di Mycroft arrossiscono nel più nudo indizio di vergogna prima di sbattere gli occhi e raccogliersi con solennità.

 

“Mi dispiace…

 

Una volta, John avrebbe potuto crederci. Invece gli rimane solo il sapore di ferro sulle sue labbra quando ride di incredulità, in piedi come se stesse per andarsene. Si decide che non è reale. Che questa conversazione può essere cancellata, come direbbe Sherlock. Non è mai successa, perché John non è pronto ad affrontare le ripercussioni se fosse vera. Non ci crede, non ci può credere, perché può sentire l’intontimento scomparire, ed è presto rimpiazzato da qualcosa a cui non deve essere permesso di esistere.

 

Mycroft lo chiama, e nonostante John non si fermi, sente le parole indirizzate a lui chiaramente quanto l’uomo in piedi vicino al suo orecchio.

 

“Lui vuole incontrarti, ha sempre voluto farlo… Io gli ho chiesto di darti tempo. Se vuoi vederlo… ci sarà un auto ad aspettarti fuori dall’appartamento ogni giorno per un mese… Hai fino ad allora per decidere.”

 

L’unica risposta che il maggiore degli Holmes riceve è il suono dei passi di John che si allontanano con risolutezza.

 

****

 

Fino ad ora, il titolo del pezzo è rimasto ostinatamente bianco. Non importa quanto John ci provasse, non riusciva mai a venirne fuori con un nome per il prezzo che aveva preso così tanto della sua vita, riempiendola con così tanta vitalità e colore.

 

Una pagina bianca.

 

John va a casa e fissa a lungo lo spartito, una tazza di tè che diventa fredda nelle sue mani quando si perde in ricordi che fanno così male che gli viene voglia di urlare.

 

Invece si copre la bocca col palmo della mano, raggomitolandosi nella sua poltrona finché è in una posizione fetale nel buio del salotto. Tremando; e John finalmente, finalmente sente le lacrime che gli sono state negate tanto a lungo iniziare a strisciare giù per le sue guance. Una volta che iniziano, non possono essere fermate. Si morde l’interno della mano per attutire il rumore, torturando singhiozzi che lo lasciano tremante.  Le lacrime sono salate, colme di dolore e davvero molto reali.

John non può fingere quando ne sente il sapore sulla lingua, e invece piange più forte.

 

Piange fino a sentire come se le sue viscere si siano liquefatte, singhiozza fino a farsi bruciare gli occhi ed è sicuro che Mrs. Hudson abbia acceso il televisore per non sentirlo. John piange e piange sentendo l’ultima, piccola parte della sua compostezza che l’ha trattenuto dal diventare un assoluto disastro destinato a spaccarsi e a diventare polvere. Col tempo i singhiozzi si affievoliscono in piccoli rumori irregolari, ma non scompaiono.

 

Quando finalmente cade in un sonno esausto,  sogna di quella sera. La Caduta, il funerale.

 

E l’appartamento sembra vuoto e freddo, una casa abbandonata anche se il suo proprietario ne è al centro. Rifiutata.

 

John  è quasi certo che non lo sta immaginando quando il mattino successivo guarda fuori e vede un’auto nera che lo sta aspettando pazientemente allineata al marciapiede.

 

Regolando la sua mascella, ignora la sua presenza, mandando un messaggio a Mary.

Tieni la testa sott’acqua. Continua a nuotare. E’ quello che sai fare meglio.

 

Lei risponde immediatamente, d’accordo con la sua proposta di andare al cinema sabato.

 

John cerca di convincersi che non sta passando tutta la mattinata prima di andare a lavoro a guardare fisso dalla finestra, sorseggiando la sua tazza di tè, con le dita che battono distrattamente sul tavolo in un ritmo senza suono.

 

Ignora l’acqua che ti sta riempiendo i polmoni con fermezza.

 

 

[1] Per chi non lo sapesse (dato che prima di questa traduzione non lo sapevo o^o) il rumore bianco è un particolare tipo di rumore caratterizzato dall'assenza di periodicità nel tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze. (Wikipedia <3)

 

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Capitolo 2
*** Tagliare i legami ***


Eeeebbene sì, eccovi anche il secondo capitolo con una velocità che credo non rivedrete mai più, quindi rallegratevene u.u Volevo annunciare solo che siamo a metà dell’opera, ovvero c’è un altro capitolo e poi l’epilogo. Ora, buona sofferenza, ma presto ne saremo fuori o^o Ciaociao <3
 
 
 
 
 
 
 
I can breathe, I can breathe
Water, water
I can breathe, I can breathe 
Water, water
When you're here with me 
You're not here with me
  Can I pry your finger
From everything I
Say and do?   ~ Iko, Heart Of Stone

 


 
Due settimane.
Tra le gocce di pioggia che picchettano con insistenza alla finestra e il battito irregolare del suo stesso cuore, John non sa se è stato del tutto in grado di prendere una decisione. I giorni si confondono insieme, e come uno studente del college che si rende conto di una scadenza imminente all’orizzonte, continua a scacciare la decisione da davanti la sua mente finché può affrontarla dopo. Lasciando che l’acqua scorra sulla sua pelle senza agitazione. Continua a dirsi domani, affrontala domani.
 
Domani si trasforma facilmente nel giorno successivo, si scoglie nella mezzanotte prima che John possa anche seriamente prendere in considerazione di lasciare l’appartamento. Prima che possa riuscire a non urlare nel momento in cui si sveglia.
 
Perché questo è un incubo, e se si piega a ciò che realmente vuole fare, lo renderà reale. Spaventosamente reale. Significherebbe che la vita che ha vissuto per quasi tre anni, tutto il dolore e la paranoia e l’intontimento e il dolore sono stati una bugia.
 
Come?
Com’è possibile che ciò che ho pensato sia così sbagliato?
 
Tu vedi, ma non osservi.
 
Quasi trasale quando quel brontolio sussurra nel suo orecchio, distogliendolo dall’assente contemplazione del suo tè. Si è raffreddato, ma a John non interessa. Non importa, almeno non quanto il ricordo che gli balena davanti agli occhi. Correre nella fredda aria notturna, il petto piacevolmente indolenzito per l’immissione di ossigeno ghiacciato. Potrebbe far male, se non ci fosse stato un punto di luce che lo spingeva, che lo trascinava nell’ignoto. Non è spaventato, quella mano è forte, inflessibile. Possessiva. Grida non ti lascerò andare, mentre John  è guidato tra vicoli contorti, il tintinnio di manette d’argento che sbattono tra loro. L’immagine fa agitare lo stomaco del dottore, e posa la tazza con un rumore secco e si alza. Scacciando l’immagine come una maledizione, si porta alla finestra, strattonando parte delle tende.
 
La macchina è ancora lì, nera e anonima. Paziente. Sputa fuori un mormorato “Fanculo.” Modera il respiro prima di rilasciarlo, girandosi per tirare un pugno al muro con una forza così violenta che John sente le nocche far male. Si tiene la mano, prendendo respiri bassi e profondi attraverso la bocca. Il suo cuore martella, pulsando nelle orecchie. Non l’ha sentito battere così forte per mesi, e sembra orribilmente ironico che per la prima volta, vorrebbe solo tornare a essere intorpidito.
 
Perché questo, questo così tanto più male.
John si morde il labbro abbastanza forte da poter assaporare il sangue, ferroso e vivido nella sua bocca. I suoi occhi blu scivolano fino a chiudersi, la fronte si appoggia al braccio, quando considera le opzioni che ha davanti, a stento credendo che davvero sta accadendo. Quasi chiama Mary per chiederle la sua opinione, ma una sensazione di tensione nel suo petto lo ferma dal prendere davvero il telefono. Sembra qualcosa che non può dire, neanche a lei, nonostante le abbia precedentemente detto di Sherlock.
 
In realtà è perché le ha parlato di lui, che le sue dita esitano a muoversi. Ultimamente, aveva iniziato a parlarle del suo passato, aprendosi lentamente con la sua presenza gentile e il suo supporto. Mary è la prima persona con cui si sentiva a suo agio a parlare di Sherlock dopo molto tempo,  da quando inizialmente i media erano diventati inconfutabilmente aggressivi nel cercare di accaparrarsi il dottore per un’intervista. Ha problemi di fiducia, e probabilmente li avrà sempre, ma i reporter li avevano aggravati. L’avevano portato ad un punto di rottura, finché per John non era diventato a stento possibile scambiare poche parole con la gente, figurarsi divulgare segreti personali.
 
E aveva donato a Mary il più grande segreto fra tutti durante il loro ultimo incontro, durante il quale aveva decantato con triste passione la folle brillantezza del detective.
 
Quando lo abbracciò, con le dita che accarezzavano gentilmente i suoi capelli mentre erano stesi a letto, John aveva finalmente ceduto.
Ranicchiandosi vicino a lei, le labbra contro la sua spalla, finalmente si era permesso di sussurrare cosa l’aveva consumato dal momento in cui aveva assistito alla morte di Sherlock, cosa ancora lo consumava.
 
Cosa gli sta facendo rimettere la giacca e afferrare il suo bastone.
 
Io lo amavo.
Io lo amavo così… così tanto, e lui non lo saprà mai.
Lui non saprà mai quanto significava per me.
Quanto ancora ha importanza, per me.
 
Alla fine, John sale sulla macchina. Non appena lo fa, le parole della sua terapista echeggiano nella sua mente.
 
Lasciati andare John. Devi solo lasciarti andare.
 
Ma non può, e non l’ha mai fatto.
Perché se si lasciasse andare, affogherebbe. Il peso della sua esistenza in un mondo senza Sherlock Holmes lo trascinerà giù, la pressione gli incrinerà le costole e gli spezzerà il cuore. Lo lascerà a soffocare.
Il calore di quella mano smetterà di raggiungerlo nei suoi sogni, e tutto quello che rimarrà sarà il freddo.
 
****
 
La centrale elettrica in cui è portato lo lascia con ricordi nostalgici. La riconosce senza neanche dover riflettere, conoscendo  il corridoio vuoto in cui cammina perché l’ha percorso molte volte nella sua mente, chiedendosi se avrebbe potuto cambiare il passato se avesse camminato diversamente. E’ il magazzino nel quale si è confrontato l’ultima volta con Irene Adler, e il posto in cui l’aveva pregata di rivelare al suo migliore amico che era sopravvissuta. I muri stessi sembrano salutarlo con un’eco, richiamandogli le parole scambiate, sussurrandogli nell’orecchio con la sua voce.
 
Non siamo una coppia-
 
Sì, lo siete.
 
per la cronaca- se a qualcuno lì fuori ancora importa, io non sono gay.
 
Beh , io lo sono. Guardaci.
 
A questo punto deve chiudere gli occhi, perché le parole che vengono dopo non sono quello che vuole sentire. Ciò di cui ha bisogno.
 
Quando li riapre, è nella stanza principale. Per un attimo si guarda intorno, ammirando la solida infrastruttura dell’edificio, le mani nelle tasche, rifiutandosi categoricamente di guardare avanti. C’è silenzio mentre è in piedi da solo nell’ombra delle mura, l’intero corpo è illuminato con le tonalità d’argento della luce che riflette sull’acciaio.
Sente qualcuno inspirare, troppo forte dato che John vuole credere di essere solo.
Che questa è stata tutta una grande bugia. Un ultimo scherzo per far davvero andare John avanti. Un ultimo tentativo di farlo ridere per quanto questo mondo sia contorto.
 
Invece, la sua testa si gira controvoglia verso il rumore, il respiro gli muore nel petto quando una figura familiare appare da dietro un pilastro. John sente il sangue nelle sue vene congelarsi, minacciando di non scorrere mai di nuovo. Il cuore si restringe nel petto, le mani si serrano in aria, improvvisamente sperando di avere un bastone a cui appoggiarsi.
Non riesce a respirare.
 
Perché lì, proprio lì c’è la prova per cui si era contestato tanto a lungo, la ragione di tutto il suo dolore e tutta la sua sofferenza per quasi tre anni. La fonte di tutta la sua agonia e di ogni grammo di gioia che abbia avuto nella sua vita da adulto.
L’inizio e la fine.
 
Sherlock.
 
E il detective era lì, i ricci un po’ più indomiti del solito e la faccia un po’ più pallida dell’ultima volta, ma molto viva. Così tanto viva.
 
Fa più male di quanto potrebbe aver mai immaginato.
Come se un chiodo di ferro fosse stato portato al suo collo, è angosciante.
Perché Sherlock lo guarda, e sul suo volto non c’è uno “scusa” o un qualunque segno di dolore. C’è semplicemente un’aspettativa, una consapevolezza che fa sentire John come calpestato da un rullo stradale. Le labbra del detective si alzano in un ampio sorriso, e lo guarda senza traccia di nervosismo quando parla. La sua voce è cucita con orgoglio, come se avesse fatto qualcosa di davvero notevole ed eccezionale.
 
“Finalmente sei venuto.”
 
John Watson vuole morire.
 
****
 
La prima volta che John aveva incontrato Irene Adler, aveva odiato il modo in cui manipolava Sherlock. Soprattutto, sarebbe potuto sembrare gelosia, ma inizialmente il medico militare era stato solo furioso per il modo in cui la dominatrice giocava col cuore del suo migliore amico. Nonostante John stesso non possa dire di non aver impersonato la parte di Casanova (Tre Continenti Watson era uno scherzo diffuso nell’esercito) può tranquillamente dimostrare che non è mai stato tipo da giocare con le emozioni degli altri. C’è qualcosa di decisamente sbagliato nell’idea, non era mai andata d’accordo col medico militare e mai lo farà.
Manipolare volontariamente l’affetto di una persona per guadagno personale.
 
Per lui, è qualcosa che non può essere perdonato.
 
Solo che adesso sembra che l’uomo di cui ha sentito la mancanza così a lungo, la persona che involontariamente amava più di tutto, stia essenzialmente facendo la cosa che John non può assolutamente perdonare.
L’ha preso in giro, e ora sta lì come se non ci sia nulla di cui preoccuparsi al mondo, mentre i suoi ricci scuri brillano leggermente alla luce. Come se fosse sempre stato lì, invece che così tanto fuori dalla sua portata. Invece che un fantasma al confine della vista del dottore.
 
Ora, gli angoli della sua visuale diventano rossi. Pulsano, ronzano.
Lo pervadono incontrollabilmente, rubandogli il respiro.
 
Perché qui c’è la conferma alle sue peggiori paure.
I suoi incubi.
 
Sherlock non è morto.
No.
Sherlock se n’è andato.
 
E improvvisamente, tutto si inclina, e deve reggersi perché le sue ginocchia si sono indebolite. Si ranicchia per la sorpresa quando due mani forti si avvicinano come per sorreggerlo, scattando lontano dal tocco del detective come se fosse fatto di elettricità. Una scossa.
 
“No!”
 
Gli esce dalle labbra.
E in qualche modo, è quello che continua a ripetersi, anche dopo che Sherlock si allontana.
John si piega su se stesso, il torpore lo abbandona, sostituito invece da un dolore ardente che brucia l’interno delle sue ossa.
 
“No. No, no,no,no,no Cristo No-”
 
E le mani sono su entrambi i lati della sua faccia, descrivendo cerchi contro le sue tempie per calmarsi, la loro freddezza congelava la sua pelle accaldata. Quegli occhi blu-verdi si rivolgono a lui con una familiarità che i due uomini non hanno più, non l’hanno avuta per molto tempo, e la voce di Sherlock è ferma e sicura. John odia come vi si sofferma per calmare il suo panico.
 
“Shh, è okay-”
 
John a mala pena realizza di aver tirato un pugno all’uomo finché quei ricci scuri non volano indietro, un taglio germoglia tra le labbra di Sherlock, sula guancia spunta un pallido e promettente rosa. Diminuisce un po’ del rosso nella vista di John. Si lecca le labbra e stringe il pugno per trattenersi dal colpirlo di nuovo. Al contrario si alza instabile, indietreggiando per riprendere fiato.
 
Sembra che non riesca per nulla a pensare, e quando i suoi rantoli ricominciano a intopparsi, Sherlock allunga la mano come per toccarlo, ma sembra ripensarci dato l’ultimo risultato. La sua voce è dello stesso tono basso, irritante.
Comprensivo.
 
Ma non è più lenitivo per John, perché l’ultima volta l’aveva sentito  quando stava crollando e gli stava dicendo addio.
 
“Va tutto bene adesso, John, è okay-
 
NO NON LO E’! NON E’ OKAY!”
 
La sua voce rimbomba e rimbalza attraverso l’edificio, suonando metallica alle sue orecchie, assordante. Quasi assordante quanto l’immagine che vacilla dietro le sue palpebre ogni volta che le sbatte.
 
Sono un falso.
SHERLOCK!
Addio, John.
 
Cristo… Dio, no…
 
Sbatte le palpebre, e l’immagine si scioglie, mostrandogli l’uomo che è stato la luce ricorrente sia dei suoi sogni che dei suoi incubi per quasi tre anni. Come la sabbia che passa per un setaccio, i suoi ricordi si sbucciano, livello dopo livello, la prova schiacciante è troppo forte per trattenerli.
 
E improvvisamente John realizza che guardare la persona che ami suicidarsi non è stata la cosa peggiore, no. La cosa peggiore è realizzare che la persona che hai amato ti lascia volentieri credere di essersi suicidata solo per vincere un Gioco.
 
Perché è questo che sussurra nell’orecchio di John, la voce di Moriarty che canta. La follia è come degli allarmi che gli suonano in testa.
 
Basta giocare, Papino ne ha avuto abbastanza!
 
E’ troppo.
Dio, è troppo. E poiché John ha imparato ad affrontare le sue emozioni scacciandole, è quello che fa. La sua schiena si irrigidisce, costringe il suo respiro ad appiattirsi. Nella sua testa, il consiglio del militare per respirare sotto stress si ripete come una canzoncina.
 
Quattro Quattro Quattro. [1]
 
Si appoggia al suo bastone, ma non lo lascia diventare una stampella. Lentamente, si gira a fronteggiare l’uomo di fronte a lui, alza il mento con aria di sfida, gli occhi azzurri brillano. Sherlock si alza in piedi, massaggiando il livido che gli sta già spuntando sulla mascella, gli occhi verdi si assottigliano vedendo che John non è per nulla calmo ma anzi, emotivamente morto.
 
E’ scritto nei suoi occhi, nella loro oscurità. E’ bisbigliato nel modo in cui guarda attraverso il detective invece che lui direttamente. E’ detto dal modo in cui la sua mano non trema più, ma la sua gamba non più ancora sopportare il suo intero peso. Per la prima volta, Sherlock Holmes vede il John Watson che è stato creato in sua assenza, e si ritrova a guardare nello sguardo fisso di uno sconosciuto. No, non creato, ritornato. Perché è il John dai suoi giorni di guerra, schiena dritta come un bastone, sull’attenti, e occhi che passano velocemente su tutte le uscite, prima di poggiarsi su Sherlock.
L’assottigliarsi dello sguardo dice soltanto una cosa, e non è una promessa di amicizia.
 
E’ la sfiducia data a un nemico.
 
Sherlock si trova solo in compagnia dell’unica persona per cui ha sempre aspettato di essere in grado di tornare.
 
Aveva sempre sperato di no.
 
Ora, nota che forse avrebbe dovuto tenere in conto qualcosa di cui si preoccupava raramente.
 
Dolore.
 
Perché John Watson sta soffrendo, e lo urla in ogni arto, in ogni punto, in ogni giuntura del suo corpo.
Così tanto dolore che il detective si chiede come possa ancora stare in piedi.
 
Anche John se lo chiede, tra sé e sé.
 
E’ anche più sorpreso di sé stesso quando riesce a parlare.
 
“Tre anni. Tre fottuti anni-
La gola gli si serra, delle emozioni bollenti gli bruciano gli occhi quando si abbassa per guardare il pavimento e prendere un respiro traballante.
 
Sherlock rimane accuratamente neutrale. Il volto è una maschera di ghiaccio. Dentro, sta contando ogni ferita che si è fatto in questi ultimi tre anni. Catalogando mentalmente ogni taglio, ogni osso rotto, ogni tortura che gli è stata fatta.
 
Percepisce comunque che John appare più emaciato, la sua espressione più ferita. Ma il detective se n’è andato per tre anni, e ha imparato ad essere distaccato. Ha imparato ad essere obbiettivo. Malgrado Mycroft l’avesse relativamente reinserito nella società, le barbarie del mondo ancora dolgono sotto la sua pelle. Come una pulsazione. Come vernice rossa.
 
Così dice cosa per primo gli viene in mente, ed è tagliente e crudele e lui lo sa, non appena lascia la sua bocca.
Accusatoria come un coltello.
 
“L’ho fatto per te.”
Quello che intende è
Lasciami spiegare. Ti prego lasciami spiegare prima di guardarmi così. Ho fatto così tanto e sono stato via così a lungo, e voglio solo stare di nuovo accanto a te.
 
Un tempo, John sarebbe stato capace di vederlo.
Ora è troppo arrabbiato.
Troppo furioso per il modo calmo e controllato con cui quest’uomo sta affrontando la sua miracolosa rinascita. John sbuffa, distogliendo lo sguardo. I suoi occhi sono freddi.
 
Sherlock inarca un sopracciglio scuro. Realizza che potrebbe dover spiegare di più. Ma questo non è il luogo. E’ freddo, e John non sembra appropriatamente vestito. Il cappotto che indossa è logoro, e il detective può affermare  che il rivestimento interno è anche messo peggio dal modo in cui il medico militare trema.
 
Voltandosi, decide che questa conversazione può essere ripresa nell’appartamento.
Lo dice con disinvoltura, non si aspetta la risposta che segue.
 
“Credi ciò che vuoi. Forza, stiamo tornando a casa.”
 
Io credo in Sherlock Holmes-
 
No.
 
La parola resta sospesa fra di loro, e per un attimo, entrambi immaginano che non sia mai stata detta. Poi gli occhi di John si chiudono, e vede sé stesso, cosa quei mesi l’hanno reso. La testa del detective scatta, gli occhi chiari si spalancano di una piccola sorpresa e confusione. Ma John non è mai stato più concentrato in vita sua. La sua voce è priva di incertezze, le spalle si fanno in una posa rigida da soldato appena rifiuta di distogliere lo sguardo dalla faccia di Sherlock. La sua mano sinistra gli trema al lato. Perché è questo quello che è, quest’uomo a pezzi, e la persona da incolpare è in piedi proprio di fronte a lui, completamente senza rimorsi.
Pietra.
Freddo e distaccato.
 
E John ricorda, e questo lo uccide, sapendo quante volte era crollato per questa statua immobile.
 
Quelle settimane in cui non faceva nient’altro che star fermo, le ore che ha passato stringendo quell’inutile teschio sul camino come un portafortuna, passandogli il proprio dolore sfregando la punta delle dita. Ricorda una notte, quasi un anno dopo la morte di Sherlock. Quando la sua pistola era sembrata incredibilmente tentatrice, scintillando sul suo cassetto. Come le sue mani avevano tremato quando l’avevano afferrata, e come l’unica cosa che l’aveva fermato dall’andare in fondo era stata il pensiero che Sherlock non avrebbe voluto che se ne andasse così.
E John vuole odiarlo. Non vuole nient’altro che disprezzare l’uomo d’avanti a lui, dal profondo di sé stesso. Il suo sangue ribolle, minaccia di straripare.
 
E potrebbe riuscirci, se potesse parlare prima che Sherlock apra la bocca. Così John dice quello che gli passa per la testa , sbotta per coprire qualunque risposta scioccata il detective stia per rivolgergli. Taglia brutalmente fuori tutte le sensazioni di affetto, mettendo solo benzina sul fuoco che divampa nel suo petto e urla per divorare tutto. Il fuoco che prima era stato spento dal dolore.
 
“Tu… tu non hai idea di cosa mi hai fatto passare.”
 
Sherlock lo guarda, i suoi occhi sono stranamente sbarrati e vulnerabili. Sembra che voglia parlare, ma John non glie ne dà occasione.
Non più.
Non lascerà più che Sherlock abbia l’ultima parola.
 
Questo è il suo addio, e d’un tratto non vuole nient’altro che assicurarsi che il detective non lo dimentichi mai, che non sia mai in grado di cancellare il suo sguardo stanco per il dolore dal suo stupido Mind Palace.
 
“Ho pianto per te, Sherlock. Ti ho guardato saltare da un dannato palazzo, sono stato tutto il tempo a singhiozzare a me stesso che tu non eri un falso. Ho visto il tuo sangue farsi una pozza sul pavimento, mi ha sporcato i vestiti e le mani, e per quanto le lavassi non riuscivo mai a renderle pulite. Ho vissuto per tre anni. Tre dannati anni convivendo col pensiero che non avrei più potuto parlarti-”
 
“Moriarty-”
 
Sherlock gracchia, ma John gli urla contro, rifiutandosi di sentire mai, mai più quel nome.
 
“Non ci provare!
 
Sherlock si zittisce, le sue labbra si stringono in una linea chiara. Il detective, intimorito dal soldato invalido. Nonostante John sia più basso, improvvisamente sembra riempire la stanza con la sua presenza, costringendo l’uomo più alto a ritirarsi per la sua collera senza freni. Ricorda quanto si è sentito debole nell’ufficio di Ella, vuoto.
Pensa a come non possa neanche baciare Mary senza vedere il volto di Sherlock, senza sentire la sua voce nelle sue sottili battute.
 
Pensa a come quest’uomo gli abbia portato tutto via, persino la sua vita.
Soprattutto, pensa a come non si ridarà mai al detective, mai più.
No.
Mai.
 
“E mi rifiuto, mi rifiuto di lasciare che mi senta di nuovo allo stesso modo.”
 
Sherlock è silenzioso, apparentemente spaventato e caduto nel mutismo. E’ un inizio. John vorrebbe quasi ridere. Invece sospira, il respiro lo lascia in un’unica corsa.  Si accascia in avanti, appoggiandosi al bastone mentre le sue dita svolazzano sulla maniglia, rigida alla sua presa.
Gli occhi azzurri si fanno freddi per l’intorpidimento, l’invadente sensazione di affogare ritorna, concedendogli per grazia divina di dire cosa doveva dire dopo.
 
Cosa doveva dire da molto,molto tempo, ma non c’è mai riuscito.
 
Cosa mormora nonostante sul suo cuore si stiano di nuovo creando delle crepe irreparabili.
 
“Per quanto ne so, tu sei morto quel giorno.”
 
E Sherlock lo guarda, sbiancato, le sopracciglia tese in un’evidente confusione e lieve disagio. Ma a John non importa, perché se ne sta già andando. Se ne sta già tagliando fuori. E’ troppo da provare, troppo da dire.
 
Troppo lasciato non detto. La sua voce è piena del suo addio, ma si rifiuta di lasciarla vacillare. Si rifiuta di farla spezzare.
 
Rifiuta che rifletta il disastro che si sente dentro, come se si stesse separando da un organo che ancora batte nella sua gabbia toracica.
 
“Non voglio rivederti mai più”
 
E allora Sherlock ritrova le parole, e riesce a emettere uno strozzato
John-
 
Ma il medico militare sta già annegando, la sua testa è di nuovo ricoperta dalle onde. Non si gira, e il detective non si azzarda a seguirlo. Tutto è argentato e bianco, metallico e freddo.
 
Tranne Sherlock, che è un punto oscuro nei colori altrimenti chiari dell’edificio.
 
Un’ombra, dimenticata o lasciata dietro.
 
****
 
 
[1] Ah non chiedete a me, non ho idea di cosa significhi D:

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