Les Fleurs de Paris di SenseAndSensibility (/viewuser.php?uid=50942)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** âmes et Théatres. ***
Capitolo 2: *** Petite Danseuse ***
Capitolo 3: *** Les Amants. ***
Capitolo 1 *** âmes et Théatres. ***
Les
Fleurs de Paris
Capitolo
numero 1. âmes et Théatres.
Parigi dall'alto
è davvero bellissima. Una distesa di luci ammiccanti nel
buio della notte. Luci più grandi, che nella loro ansia di
protagonismo si scontrano con le altre, e tentano di superare le
stelle. Luci piccole, dalla fiamma tenue e aranciata come quella di una
candela.
Piccole e senza
pretese, povere e romantiche. Tanti piccoli lumi che vagano per la
città, ogni sera diversi.
Ma, tra le luci,
frammenti di buio di una Parigi di tenebra. Nebbiosa e cupa nei suoi
quartieri di periferia, silenziosa nella sua vita di pietra, sospesa in
un secolo di chiaro di luna.
L'atmosfera
è densa e scura come fumo nella Parigi che dall'alto non si
vede. Frammenti di passato cristallizzati in aria, fantasmi e anime
illustri che vagano di luce in luce.
Quale particella
è di nebbia, quale di anima? Tutto sembra confondersi nel
grigio della notte parigina.
Notte di teatro
spettrale, di riunioni, di libri, di lumi a olio. Notte di anime in
decadenza e di profumo di cucina.
Che cosa succede nelle
profondità scure della città dei fiori?
Stringiamo il campo
sulle vie di pietra. Esaminiamo ogni vicolo di foschia.
Ascoltiamo i sussurri
nell'aria immobile...
"Ogni notte, alle
quattro, ecco aprirsi il grande teatro delle anime di Parigi. Benvenuti
allo spettacolo, signori e signore".
Osserviamo dall'alto
Rue André Antoine. Sul suo viale lastricato, leggermente in
salita, scorre una scia di luce tenue, gli ultimi frammenti di tempo si
uniscono al grande pubblico del teatro. Le anime di Parigi si
incontrano ogni notte, quando possono vedersi, e scorrono indisturbate
tra gli ultimi ritardatari sulle strade, persi nelle loro parole, in un
po' di alcool, persi nel godere tutto ciò che la vita, in
questa città dorata e scintillante anche nella sua parte
più infima, ha da offrire a chi ne sa approfittare.
Le ultime donne
insonni si parlano, scambiandosi sguardi e risate dalle finestre delle
vecchie case. Ingannano il tempo che scorre, che porterà a
una nuova giornata di duro lavoro, ignare della storia che scorre sotto
di loro, trasparente e argentea, ma dalla forma ancora umana.
Ed ecco anche gli
ultimi partecipanti alla rappresentazione. Le porte del vecchio teatro
di rue André, arso in tempi remoti e rinato scintillante in
ogni notte dopo la sua morte, si chiudono.
Si muovono i sipari
polverosi, si acquietano le voci sussurranti.
Quello che un tempo,
in epoca ottocentesca, era stato un uomo distinto, robusto, in giacca e
panciotto si presenta sul palco, scivolando lieve senza lasciare
traccia sul pavimento di legno. Fiero, osserva l'orologio d'argento
intarsiato, appeso ad una sottile catena alla sua giacca.
Si guarda intorno, gli
occhi scintillanti.
E parla.
"Quale mirabile
spettacolo anche questa notte ci offre, signori miei. Quale altra
città al mondo può vantare anime e fiori in ugual
misura? Oh, si, signori miei. I fiori di Parigi siamo noi".
Si guarda intorno,
senza realmente vedere la sala. Paradossale se ci pensiamo. Un anima
intrappolata, invisibile al mondo, che guarda quello stesso mondo senza
vederlo.
Strana Parigi...
"Parigi, nei suoi
infiniti misteri, nelle infinite vie al lume di luna, nelle sue
infinite increspature di un fiume di origine fumosa, seduce, attira,
ghermisce. Occorre stare lontani da Parigi e dalle sue pietre d'oro,
signori miei. Parigi non molla e non perdona.
E voi? Siete pronti a
conoscere i suoi lumi ad acetilene, le sue bettole, le sue innumerevoli
anime peccaminose ed inquiete?
Ognuno di noi a Parigi
è nato e a Parigi ha trovato la morte. Che cos'ha di
speciale questa città? Forse il suo profumo di sole e di oro
durante il giorno? O il suo effluvio di argento e luna durante la notte?
Oppure sono speciali i
suoi fiori fantasma, che di questa aria si nutrono e crescono, signori
miei? E che partecipano alla danza spettrale ogni notte, riluttanti
all'idea del buio delle quinte dietro ad un sipario polveroso?
Il nostro cibo sono le
storie, la nostra acqua è l'aria di Parigi. Noi beviamo i
suoi profumi, e nella nostra vita di luna li gustiamo. I Parigini che
faranno altrettanto saranno certamente ben accolti in questo teatro.
Muori pensando a
Parigi, e Parigi ti darà l'eternità.
I fiori si curano, si
fanno crescere, si amano. Così noi ci prendiamo cura l'uno
dell'altro, per il resto della nostra fugace esistenza.
Noi cresciamo tra le
pietre e nella nebbia, al lume delle lampade a olio troppo vecchie per
far parte ancora di questa realtà. Ma cresciamo anche nel
sole, accanto alle persone, nel profumo di pane appena sfornato e
nell'acqua della Senna che scorre lenta.
Quello che sto
cercando di dirvi, Parigini, è che noi siamo qui da sempre.
E questa notte reclamiamo attenzione.
Andremo a raccontarvi,
signori miei, alcune storie. Una ballerina, due amanti, un musicista,
un pittore ed un assassino.
Piccoli tasselli di un
mosaico romantico ed inquieto...
Se volete seguirci,
questa notte è solo nostra".
----
Nota dell'autrice:
Non sono sicura di poter aggiornare con regolarità,
purtroppo ultimamente l'ispirazione è un po' calante. In
ogni caso, spero che vi piaccia.
Per le critiche, sono qui. Per i complimenti, sebbene li veda come
improbabili, sono comunque qui xD
A presto!
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Capitolo 2 *** Petite Danseuse ***
Note iniziali: Come
non
ringraziare LadySpleen
e AshleyRiddle
per i loro complimenti? Siete
gentilissime!
Grazie, ragazze, sul
serio. Mi hanno fatto davvero molto piacere! E sì,
è vero, lo ammetto.
Non sono mai stata a
Parigi! Ma vedrete... presto vi approderò (e probabilmente
mi rifiuterò di tornare indietro, ma questo è un
altro discorso xD).
Bè, questo
è il secondo capitolo.
Hope you like it!
Capitolo
2. Petite Danseuse
Tra il pubblico corre
un mormorio eccitato, mille e più teste si voltano qua e
là nel buio della platea, lasciando nell'aria una dolce scia
di frammenti d'argento.
Leggero e silenzioso
com'era arrivato, quello che una volta era stato un uomo scende dal
palco, lasciando lo spazio alla protagonista di questa notte. Timida,
un po' ritrosa, ma orgogliosa di essere ormai un fiore immortale, il
fondamento arcano, magico, notturno di questa città.
Conserva ancora la
forma umana, sebbene il suo bel corpo, un tempo così
splendido e tornito, tremoli adesso a contatto con l'aria, dandole
l'aspetto di ologramma fatuo, di un'apparizione malinconica destinata a
sparire con un sorriso e uno sbuffo di luna.
Ma quanta bellezza in
questa apparizione evanescente! Quanta la grazia di quelle fragili
braccia avvolte dal broccato lacerato, di quelle dita piccole come
quelle di una bambina, eppure segnate da profondi solchi.
Quelli sulle mani,
però, sono solo quelli visibili. Chissà quanti
altri tagli nasconde il suo cuore perlaceo. Chissà quanta
sabbia del tempo avrà sfiorato quelle ferite brucianti.
Il suo aspetto
è strano e tetro, a dispetto del suo volto ingenuo,
semplice. I suoi occhi, però, sono troppo grandi per non
aver mai posato lo sguardo su di un luogo nascosto. Un luogo che
neppure la morte può trargli fuori dal cuore.
Adesso i suoi occhi
vagano sull'aria immobile della sala, dove le particelle di polvere si
uniscono a quelle di Parigi, fremente e nebbiosa città in
attesa di un racconto.
E' venuto il momento
di parlare.
"Sono Colette, e sono
nata nell'inverno del 1894, nel baluginio di candele da altare che si
andavano spegnendo.
L'aria, quel giorno,
era particolarmente profumata. La notte era limpida e chiara, fredda
come una lama. E altrettanto tagliente era il suono del mondo intorno a
me. Ancora non sapevo quale sarebbe stata la musica che avrebbe
accompagnato la mia vita, se i suoni del violino, del pianoforte,
dell'arpa di quella notte sarebbero entrati di nuovo nella mia
esistenza decadente e bizzarra. Ma sapevo che questa città
in cui danzano le stelle, questa città languida, turgida di
bellezza e rigogliosa come un fiore, mi avrebbe condizionata. Per
sempre.
Non ho mai saputo chi
fosse mia madre. Mi piace pensare di essere nata da quelle candele, dal
suono di quell'arpa. Mi piace pensare di essere nata dal torpore
notturno e brumoso di Parigi, dal miele vischioso e tossico che
rappresenta tutta la sua arcana sostanza.
Ho vissuto undici anni
tra le vie della città di cui ora sono una presenza notturna
e barocca.
Ho imparato che a
Parigi puoi imbatterti in angoli dimenticati in pieno sole. Ho imparato
che i suoi lumi ad olio danno riparo ad anime stravaganti, poetiche,
artistiche.
Conosco ogni singolo
ciottolo di queste vie di pietra, ogni singolo sfregio nell'anima di
questa città. Ogni odore di cucina, di pane, di burro, ogni
tovaglia a quadri.
Ma ancora, ad undici
anni, non conoscevo il velluto, il suono lascivo del piano, una bettola
fumosa e le perle maledette che mi hanno portato alla morte.
In una sera
malinconica, in cui la luna fumosa sembrava giocare ad adagiarsi sui
terrazzini di pietra ornati da fiori, inseguendo l'odore del cibo, di
un lume, di un letto, ho fatto il mio primo passo nella nebbia.
Era una di quelle
notti in cui il mondo si confonde, rimescolando le sue particelle
malsane in un miscuglio in cui rimanere morbosamente invischiati.
Confusa dalle mie
fantasie ed abbagliata dall'acetilene delle vecchie lampade, sono
entrata in quella che, ad un primo sguardo, sembrava una bettola
brumosa, stravagante e dal vago odore di birra.
Ragazze ben pettinate,
fasciate dolcemente di broccato lacerato agli orli, tinte di belletto,
offuscate dal lucore delle gemme, scivolavano tra i tavoli senza peso,
oscure come lune di tregenda, come malinconia che regna sulla
devastazione.
Guardavo il mondo di
sghembo, per un tozzo di pane ho lasciato comprare la mia
vanità.
Quella non era
un'osteria, immagino che tutti voi l'avrete capito. No, signori miei,
quella sera non ho trovato un riparo. Ho trovato l'ultima parte della
mia vita, ho trovato il dolce veleno parigino al suono di perle sul
legno.
Quella sera la luna e
i fiori che la incorniciavano mi avevano tradita.
Il mio cuore di
spettro freme ancora al delicato effluvio di quelle notti di seta.
Da quella volta, quel
luogo è diventato la mia casa.
E’ vero, non
ero altro che una puttana di lusso. Ma adesso anch’io vestivo
di broccato e velluto, adesso anch’io sentivo il dolce e
rotondo peso delle perle tra i miei capelli lunghi. Potevo gustare
l’essenza più torbida di Parigi direttamente
dall’interno, assaporarne la morbosità mesta,
l’odore di pioggia confuso a quello della birra, e ogni
tanto, quando un’artista capitava per caso nel mio regno di
Rue de La Chapelle, il profumo di colori e di pittura, di mondo visto
attraverso gli occhi di qualcun altro.
Ero diventata, col
tempo, una ballerina. Avendo passato la mia vita a camminare in una
città dove danzare al suono della vita è
d’obbligo, scivolavo nel locale con la grazia di una stoffa
di seta su un corpo morbido.
Intrattenevo i clienti
con il mio passo sfuggente, con il fruscio dei miei abiti a terra, con
un sussurro danzato all’orecchio. Era, nonostante tutto, una
bella vita.
Avevo così
tanti amanti. Mi adoravano, veneravano le mie forme, ritrovavano nel
mio corpo una certa oscurità mesta, la stessa che si
annidava in fondo alle loro anime.
Ma io, io avevo
un’unica vera
amante. Parigi.
Fino
a quel giorno.
Lui si chiamava
Jacques, ed era troppo persino per me. I capelli neri, gli occhi verdi
come le foglie dei meli, il colorito eburneo di chi letteralmente beve la
città solo di notte. Era magro, eppure non ho mai visto
qualcuno di così solido. Un gran ciuffo notturno gli
scivolava sugli occhi, nascondendo i suoi pensieri al resto del mondo.
Ricordo che
entrò nella mia vita con il passo tranquillo che lo
contraddistingueva, in una sera chiara e musicale come quella in cui io
ero nata.
Pur cercando di
stargli il più possibile lontana, la mia rovina fu il suo
sguardo. Nei suoi occhi saliva lentamente la nebbia del fiume, nei suoi
occhi scintille d’argento danzavano in cerchio, nei suoi
occhi spettri di un passato che, lo sapevo, lo speravo, sarebbe stato
mio.
Nonostante le
apparenze, mi innamorai di lui a poco a poco.
Al tempo non sapevo
ancora cosa volesse dire la parola amore. E quando mi sono accorta di
quale fosse il guaio in cui mi ero cacciata, era troppo tardi.
Ho amato perdutamente
Jacques, l’ho amato per ogni minuto della mia misera vita,
l’ho amato più di quanto io stessa riuscissi a
capire.
Il mio non era un
amore sdolcinato. Non lo è mai stato, e non lo
sarà mai, non violerò così il ricordo
che di lui mi porto nell’eternità. Il mio forse
non era neppure amore, chissà. Forse era solo
l’ossessione di una donna innamorata di una visione, di uno
sguardo, di un sorriso.
Eppure io sono sicura
che ci fosse qualcosa di più. Non posso dire di aver amato
Jacques più della mia stessa esistenza,
perchè lui era la mia esistenza. Il mio respiro dipendeva
dallo scorrere del sangue nelle sue vene. Era un amore oscuro, era
un’ossessione.
Sì, Jacques
era la mia ossessione, era un errore, era la voglia di accecarmi per
non vederlo più, era il ticchettio dell’orologio
che mi ricordava con angosciante precisione quanto tempo fosse che non
lo vedevo.
Jacques era la morte,
era la vita, era la mia follia, era il sorriso, la pioggia, il vento.
Jacques era il profumo.
Jacques era lo stesso
destino, che mi diceva che per quanto avessi fatto, l’avrei
amato per sempre. Era un volo alla fine del tempo, era un sorriso e il
baluginio dorato impressosi nelle mie retine quando ero nata.
Ho offerto a lui ogni
molecola del mio torbido amore.
Ma lui, lui non mi
amava.
“Non ti amo,
Colette, non ti amo. Non lo farò mai. Io non amo.
Non credere che io non
possa amare. Non è così.
Io non voglio
amare. Io non ti voglio amare”.
Sì, Jacques
fu la mia follia.
- - -
L’amore non
corrisposto. Quale clichè. Cosa c’è di
più scontato alla fin fine? Una donna si innamora di un
uomo, ma lui non la ama. Niente di più semplice da capire.
Verissimo.
Se, dopo aver offerto
la tua eternità in dono a un bastardo, riesci ancora a
capire qualcosa.
Io non ce la feci. Non
so quello che avreste fatto voi, signori, non so neppure se un tale
amore sia ripetibile su questa terra, non so se abbiate ma visto il suo
sguardo in ogni pietra, in ogni goccia di pioggia, in ogni perla. Io ho
fatto di più. Ho visto il suo sguardo nella mia anima. Il
suo sorriso marchiato a fuoco sul mio cuore. Ho visto il suo volto
sovrapporsi a quello della luna che faceva capolino dai tetti, mentre
mi guardavo morire.
Anche quando sono
morta era una notte d’inverno. Vagavo per la
città, folle di un profumo, ebbra di vita ad un passo
dall’addio. Poche perle erano rimaste tra i capelli, le
maniche del vestito si erano lacerate, le mani erano segnate da tagli
profondi, che mi ero procurata nel tentativo di infliggere
all’anima della città tanti sfregi quanti quelli
del mio cuore, ormai talmente gonfio d’amore da sembrare
pieno d’odio.
Era notte, erano i
bassifondi di Parigi. Quartieri di artisti e di assassini.
E io ero pazza. Oh
sì, ero pazza.
Talmente pazza da non
accorgermi chi fosse a trafiggere il mio petto con una lama. Anche se,
scavando nei miei ultimi ricordi, posso forse trovare un indizio.
Un paio di occhi verdi
come le foglie dei meli.
Quando sono morta, le
ultime perle che avevo tra i capelli sono scivolate via, rotolando
lontano”.
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Capitolo 3 *** Les Amants. ***
Note iniziali: Ed
eccomi di nuovo! Questo
è il terzo capitolo di questa mia storia un po' sconnessa.
Prima di cominciare, un breve appunto. Grazie, davvero, grazie a tutti
coloro che hanno commentato questa storia, che l'hanno inserita tra i
preferiti, o che l'hanno semplicemente letta! Sono così
felice!
Scusate l'attesa per questo capitolo, ma ho avuto qualche problema, e
di conseguenza l'ispirazione è venuta a mancare. Ma ora
eccolo, e spero vi piaccia.
A presto!
Capitolo 3. Les Amants.
Diamo ancora uno
sguardo all'aria luminosa del teatro. Colette ha terminato il suo
racconto: il primo fiore di questa notte è sbocciato, al
suono di arpe e violini, è sbocciato nel verde delle foglie
dei meli, nel velo di tristezza dorata che copre Parigi.
Colette si inchina al
suo fatuo pubblico, facendo tremare l'aria intorno a sè di
particelle argentate e fiamme aranciate di candela, e si allontana.
Timida e oscura come era arrivata, le mani nascoste dai pizzi del
vestito, gli sfregi rivelatori occultati nel broccato. Porta il pesante
fardello di un amore ebbro di morte per il resto
dell'eternità, ma i suoi tagli, profondi fino al cuore,
quelli li può vedere solo Parigi. E se ne va,
folle nella sua semplicità, e tanto, tanto semplice nella
sua follia.
Il palco polveroso
attende quindi nuove parole, nuove musiche, nuovi profumi. Ancora
amore, ancora nebbia, ancora perle, notte e argento.
Anne e Maximilien sono
pronti ad offrirglieli. Sono pronti ad offrire a Parigi, alla
sua anima traboccante e vischiosa, ogni cosa. Prima fu il loro amore,
poi la loro vita. E adesso, la loro storia.
Una piccola ragazza si
fa avanti, scivolando sulle assi del piccolo palco di periferia. E'
Anne, gli occhi brillanti, i gesti veloci, i capelli nerissimi. Il suo
sguardo sporge sull'infinito, contempla un mondo di reliquie, di
gioielli, una stagione verde rame. Contempla un mondo di pietra, di
erba che cresce sulle tombe, un mondo di cuori appoggiati su
una bara, misterioso, ambiguo e oscuro come lo era stata la vita,
polveroso, sghembo, scintillante come l'oro sotto la fuliggine come era
stato l'amore.
Contempla il mondo
dall'alto, osservando le guglie, le cupole, i tetti della vita con una
sorta di inquieto distacco, creando, illuminando, distruggendo la
città immaginaria nata dalle corde del suo cuore.
Dietro di lei di solo
pochi passi, c'è Maximilien. Il volto attento di
timida concentrazione, le mani intrecciate alla ricerca di un contatto
di un argenteo fulgore, gli occhi ambrati, di caramello e miele, fissi
sulla ragazza. Incontrata un giorno, baciata un attimo, amata per
sempre.
Ancora la notte freme
e la luce della luna trema nell'attesa di una memoria, bianchi ventagli
del ricordo sollevano l'aria del tempo, diradano la nebbia.
Ed ecco apparire dalla
foschia lunare le forme ancora indistinte di una giornata d'acqua, di
tombe e di erba verde. Erba soffice e leggera sotto i piedi di una
ragazza inseguita da un ricordo, alla ricerca di un'ombra e dello
scintillare dell'oro in mezzo alla danza delle nuvole su Parigi.
"Ricordi come pioveva,
quel giorno, Maximilien? Il cielo lasciava cadere su Parigi le sue
lacrime con l'impeto di una madre disperata. E l'acqua scivolava nelle
fessure, nei canali, picchiettava sul fiume lento, sollevava e acuiva
gli odori della città, mentre, allo stesso tempo, la
nascondeva alla vista dietro una cortina argentea, scintillante di
piccoli fuochi freddi.
Ed ecco tutto quello
che rimaneva della grande Parigi, barocca, stramba e decadente alla
luce dei suoi lumi sempiterni. Solo... un odore.
Mi sembrava di
dissolvermi ad ogni passo che compivo nella foschia piovosa, di
lasciare che la me stessa che camminava tra i vicoli di pietra si
trasformasse in odore, un profumo di quelli che un giorno ti sfiorano i
pensieri con un tocco fugace, da catturare, nella certezza che no, non
tornano più.
Quel giorno era
insolitamente privo di avvenimenti per me. Niente scuola, nessun
incontro, nessun appuntamento e niente cibo in frigo. Solo pioggia,
tanta pioggia, e un indefinibile sentore di burro e di miele che
aleggiava nelle strade, come se, nelle profondità della
città, un negozio di caramelle polveroso lavorasse a pieno
ritmo, per spandere nell’aria molecole di infinita dolcezza.
Camminavo per dare
almeno alle mie gambe qualcosa da fare, l’orlo dei jeans
completamente inzuppato di acqua gelida, i capelli gocciolanti, le
labbra violacee e screpolate.
Non ero certo nella
mia forma migliore, ma non ci pensai. Solo continuai a camminare, i
passi decisi e la testa altrove. Chissà se dentro di me
sapevo dove mi avrebbe portato quella folle camminata in riva a un
baratro, sui marciapiedi sbreccati e deserti.
In ogni caso, prima
ancora che mi rendessi conto che il mio viaggio era terminato, poggiai
le mani alle sbarre di un cancello di ferro, gelido e scuro, e spinsi
per entrare.
I miei piedi - al
sicuro dall’acqua in scarpe da ginnastica che mi fornivano
tutto il calore necessario - calpestarono la ghiaia bianca di un
sentiero e, inspiegabilmente, sentirono freddo.
Mi guardai intorno,
osservai il paesaggio che emergeva lentamente dalla foschia umida, e
rabbrividii. Lapidi di pietra scheggiata dal tempo, lavate dalla
pioggia, stavano immobili sui tappeti d'erba fresca, piccoli monticelli
funerei. Non avevo paura di un cimitero. Anzi, passeggiarvi, lasciare
fiori e rivolgere un pensiero a tombe e anime sconosciute, era per me
preziosa fonte di pace, nelle giornate frenetiche e ansiose.
Ma questo... era
così diverso. Tanti piccoli lumi rilucevano fiochi nella
nebbia d'argento. Piccole candele ornavano gli altari nascosti
dall'ombra bagnata dei cipressi, ragnatele sottili di filo di cristallo
si tendevano tra le urne, e i rami scheletrici del sambuco seguivano
l'inclinazione delle lapidi erose dall'acqua. Bianche infiorescenze
ornavano dipinti scoloriti dal tempo, e sotto la ghiaia bianca
luccicava il nero della terra dei morti. Statue di marmo, mai stanche,
immobili tendevano le braccia in alto, implorando il perdono dei
silenziosi cieli mossi dal vento.
Sai Maximilien? Sulle
prime pensai che tu fossi una statua. Seduto su una lapide, lo sguardo
rivolto all'alto, le mani intrecciate proprio come le stai tenendo ora.
E invece, quando mi avvicinai facendo scricchiolare sotto i miei piedi
la ghiaia del sentiero con il suono tintinnante di mille campanelle di
tomba, volgesti lo sguardo e, nelle labbra un impercettibile sorriso,
mi osservasti.
Non mi squadrasti, e
neppure scrutasti nella mi anima o qualcosa di simile. Semplicemente mi
guardasti, mi tendesti la mano, e facesti sì che io mi
sedessi accanto a te, sulla lapide grigia, tormentata
nell’eternità dagli avvolgimenti ansiosi di edera
e rami di sambuco.
Facesti sì
che io mi sedessi ad osservare il cielo gonfio di pioggia, in attesa di
redenzione, accanto a te incurante delle gocce che si impigliavano
nelle tue ciglia, distorcendoti la visuale e rendendo il mondo un unico
globo acquoso, dai contorni indefiniti.
Ecco come passammo la
nostra prima -e ultima- giornata insieme. Seduti in bilico su di una
pietra, l’odore di terra, erba e fumo di candela che si
mescolava a quello del miele, dolce come il peccato e tagliente come
una lama.
Quando il buio
cominciò ad allargare la sua mano intrisa di stelle sopra la
città, ci alzammo. Leggermente intorpiditi, completamente
bagnati. I nostri corpi erano così freddi...
Non c’era
stato bisogno di parole, durante quelle ore di acqua, e non ce ne fu
bisogno neppure in quel momento. Non sapevo neppure come ti chiamassi,
chi tu fossi, o quanti anni avessi, ma ti seguii, persa nelle
profondità di zucchero dei tuoi occhi. Ancora una volta la
città e i suoi profumi fecero da sfondo al mio cammino,
adesso non più solitario.
Oh, la mia Parigi!
Eterno fondale della mia vita, sempre nei miei occhi, nelle mie
orecchie, nella mia testa. Si, è assolutamente impossibile
liberarsi di questa città. Ti cattura con i suoi artigli
imbevuti di miele, ti tormenta dolcemente nelle sere fresche al suono
della vita, ti spinge a danzare in cerchio ammaliata
dall’odore di incenso dei luoghi sacri che si mischia a
quello profano del cibo in tutte le sue forme e qualità.
Tende a righe, tovaglie a scacchi, candele dei cafè, angoli
sbreccati e panni stesi... Ogni singola particella di Parigi ti seduce
senza pietà alcuna.
Avanzando lentamente
tra le vie deserte, in strano contrasto con i negozi scintillanti di
vita e di calore, riflettevo, senza accorgermi che la mia
personalissima ode alla città si andava trasformando in
amore incondizionato per quel ragazzo sconosciuto, che Parigi mi aveva
offerto su un piatto d’argento.
Arrivammo piano al mio
appartamento. Mi accorsi senza il necessario stupore che mi ci avevi
portato tu. Dunque conoscevi già ogni crepa
dell’intonaco di questa mia modesta casa, ogni suo rumore
notturno, ogni odore di tiepido dei miei maldestri - ma sentiti -pranzi
in cucina. Mi aspettavi, Maximilien?
Ancora una volta
lasciai che tu mi guidassi in quella serata, ancora una volta senza
parole, solo con l’ombra del sorriso, lo stesso che mi
lasciasti sulla pelle e nell’anima.
Ancora bagnati, i
nostri capelli che gocciolavano sulla modesta moquette che copriva il
pavimento, ci baciammo a lungo, e sì, in silenzio.
Un silenzio quasi
sacro, rotto solo dal tintinnare dei vetri scossi dal vento, e
dall’impercettibile rumore di fiamma dei nostri cuori.
Al ritmo dello stesso
lieve rumore quella notte ci unimmo.
Infine, senza parola
alcuna, al buio acquoso della notte di pioggia della città,
fremente spettatrice del nostro amore, ci addormentammo.
Quella mattina, al
posto tuo, sulla moquette umida, un semplice fiore e un biglietto
vergato con grafia elegante.
“Sulla mia tomba, il tuo cuore.”
Uscii di casa tenendo
il foglio ingiallito, leggermente profumato di zucchero e cannella -non
uno dei miei, sicuramente- stretto al petto.
Aveva smesso di
piovere, ma il cielo era ancora grigio, umido e gonfio di lacrime non
versate.
E ancora
l’odore di burro e miele persisteva, invisibile ed
impalpabile: aveva la stessa consistenza del chiaro di luna.
Ancora camminando
senza meta, giunsi di fronte ad una piccola edicola ornata di fiori, i
rami turgidi di gemme che si arrampicavano intorno ai fogli dei
giornali, colorati e patinati, pieni di vita in forma scritta.
Senza curarmene
troppo, gettai uno sguardo al giornale in vetrina, avvolto nel
cellophane per proteggerlo dalla pioggia che la giornata avrebbe
sicuramente riservato.
La sua foto, un nome
-Maximilien Dumas- e due date. Una di nascita, e una di morte.
Aveva 19 anni, come
me.
Aveva 19 anni, e di
più non ne avrebbe avuti mai.
E un incidente, una
strada bagnata, alcune rose sparse sull’asfalto e poche
parole su carta erano tutto ciò che rimaneva di lui.
Maximilien, quel
giorno sei morto, mentre venivi a trovarmi, portandomi i fiori e la
colazione.
Quel giorno sei morto,
lasciandomi quel biglietto -eterno mistero cittadino il modo in cui mi
sia arrivato- scivolato in una pozzanghera quando le mie mani
intorpidite si sono aperte dallo stupore.
Quel giorno tu sei
morto, e sono morta anch’io, dissolvendo il mio dolore
nell’aria della mia amata città.
Anch’io,
adesso, sono fiore e odore.
Una folle corsa verso
l’ospedale, la promessa strappata per disperazione ad un
amico chirurgo, un altro biglietto, con la mia grafia agitata e
tremante, e una scatola intarsiata.
Ecco come
un’ultima volta in vita, eseguii le tue volontà
mute.
Le mie ultime parole
in un sussurro.
“Strappami il cuore”.
Il giorno dopo, un
funerale, nella nebbia densa, vedeva protagoniste non una, ma due bare.
Una grande, sbozzata
nella forma mortuaria di un uomo.
L’altra
molto piccola, dalla forma di una scatolina intarsiata, poggiata sulla
prima, in alto, a sinistra. Al posto del cuore.
Sulla lapide -nello
stesso cimitero infiorescente in cui ci eravamo incontrati ci univamo
di nuovo- un biglietto già scolorito, ripetizione variata di
poche parole.
“Sulla tua tomba, il mio cuore”.
Nell’aria un
requiem malinconico e sognante si mescolò ad un intenso
odore dolce, di miele e burro”.
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