Il viaggio di Yumao (/viewuser.php?uid=689641)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La partenza ***
Capitolo 2: *** Sono entrata in un clichè ***
Capitolo 3: *** Niente cellulare? ***
Capitolo 4: *** Mister Mojito ***
Capitolo 1 *** La partenza ***
1-partenza
Partenza
Non starò qui a raccontarvi di come sia perdere tutto
da un giorno all’altro. Magari potete provare a immaginarlo. Immaginate di
andare a dormire una sera avendo una vita normale, una famiglia abbastanza
felice a cui volere bene, e una casa piena di oggetti inutili ma a cui, tutto sommato,
siete legati, e di svegliarvi la mattina dopo per scoprire che niente di tutto
questo esiste più.
Non è una storia strappalacrime quella che voglio
raccontarvi, quindi non entrerò nei dettagli. Vi dirò solo che i giorni successivi
ero completamente annichilita.
Non riuscivo a reagire, non riuscivo nemmeno a
ragionare. Lasciavo che gli altri si occupassero di tutto al posto mio, che
sistemassero i conti, vendessero la casa in cui non avevo voluto tornare, che
mi dicessero dove andare a vivere e cosa fare dopo. Ed ero scocciata se non lo
facevano abbastanza bene.
Non avevo progetti, non avevo voglia di fare nulla, e
tutto sommato speravo di morire nel sonno.
Poi mi sono vista, come dall’esterno, e non mi sono
piaciuta. È vero, quello che mi era successo era orribile, per quanto sia
grande il dolore ci sono molti modi di affrontarlo.
Io non lo stavo affrontando per niente. Mi ci
crogiolavo, quasi. Facevo completo affidamento sugli altri, mi lasciavo
viziare, stavo appassendo come uva lasciata al sole, incapace di reagire. Ero
troppo stanca e troppo vuota per fare qualsiasi cosa che non fosse lamentarmi…
Vuoto, era questo il problema.
Ricordo che lo pensai con insolita chiarezza e
lucidità, mentre giacevo sveglia fissando il soffitto, nel cuore della notte.
Forse se avessi trovato il modo di riempire quel
vuoto, avrei potuto reagire e smettere di vivere come un vegetale capriccioso,
pretendendo che chi mi stava attorno si prendesse cura di me e appassendo
nonostante si facessero in quattro per darmi la giusta quantità di luce e di
acqua, lasciando che giustificassero il mio comportamento, adagiandomi nella
loro compassione.
Appena giunsi a quella conclusione, buttai via le
coperte, senza fare rumore, e mi alzai.
Ero a casa di una cugina di mia madre, con cui non
avevo mai scambiato di quattro parole. Mi aveva preso con sé perché nessuno mi
riteneva in grado di cavarmela da sola, e parenti più stretti non ne avevo. Si era
sentita obbligata insomma, ma questo non sminuisce la sua gentilezza.
Presi il portafoglio con i documenti e la carta di
credito. Non avevo molti soldi, ma per quel che dovevo fare sarebbero bastati.
Non presi altro: non volevo nulla che mi collegasse
alla mia vecchia vita. Avevo bisogno di cose nuove. Uscii di casa senza fare
rumore, lasciando solo un biglietto.
- Parto. Non so quando torno. Mi farò sentire io.
Grazie di tutto.
La camminata fino alla stazione era stata lunga, e più
di una volta avevo pensato di tornare indietro, tornarmene a letto.
Era logico che mi sentissi così vuota e depressa, ma
se avessi aspettato le cose si sarebbero messe a posto da sole. Il dolore
sarebbe diminuito prima o poi, e avrei ricominciato a vivere la mia vita, senza
bisogno di fare qualcosa di così drastico.
Ma no. Come potevo reagire e andare avanti, se a una
piccola, disgustosa parte di me piaceva essere al centro dell’attenzione,
essere compatita ed essere tenuta nella bambagia? No, dovevo andarmene.
Avevo fatto il biglietto alla biglietteria automatica,
scegliendo una città quasi a caso. Una città del nord, parecchio lontana da
casa, ma ancora in Italia.
Era un treno notturno, di quelli con le cuccette per
dormire. Il biglietto era costato parecchio, ma c’erano in dotazione acqua,
salviettine e lenzuola.
Studiai tutti i pacchettini con una certa curiosità,
poi mi preparai la cuccetta.
Sentii una strana sensazione, che non sentivo da così
tanto tempo che faticai a riconoscerla. Come una scossa elettrica che partiva
dal fondo dello stomaco e si diramava lungo le gambe e le braccia: eccitazione.
Quando mi svegliai la mattina dopo il treno era ancora
in movimento, ma il paesaggio era molto cambiato.
Il treno stava sfrecciando fra alte colline, coperte
di piccoli boschi e di campi coltivati. Notai che il grano era quasi maturo. Non
pensavo che fossimo già così vicini all’estate.
C’era una signora sull’altra cuccetta. Doveva essere
entrata mentre dormivo. «Buon giorno» mi salutò. «Hai dormito bene?» Mi
stropicciai gli occhi un po’ spaesata e annuii. «Sei una persona dal risveglio
lento eh? Anche io lo ero alla tua età.» Non sapevo cosa rispondere così mi
limitai a sorridere e annuire. La signora aveva almeno sessant’anni, e aveva
una strana somiglianza con Jessica Fletcher. Mi chiesi quando sarebbe spuntato
fuori il morto. «Viaggi leggera? Non hai un bagaglio, o te l’hanno rubato?»
«È stata una partenza improvvisa.» Mi giustificai. La
signora evidentemente non aveva ancora soddisfatto la sua curiosità. «Io sto
andando a trovare mia sorella.» Spiegò, forse sperando che raccontassi più
dettagli anch’io. «È andata a vivere a Torino col marito. Non mi è mai piaciuto
molto quell’uomo.» Annuii, come se sapessi benissimo di cosa stava parlando, ma
non dissi nulla mentre lei continuava a raccontarmi tutti i sordidi dettagli
della vita di sua sorella.
Quando finì mi guardò speranzosa, ma io sorrisi
scrollando le spalle e tornai a fissare fuori dal finestrino.
La signora aggrottò le sopracciglia, poi sospirò e
inizio a tirare fuori dei pacchi di cibo per la colazione. Parecchi pacchi,
troppi per una colazione sola. Forse aveva notato il mio sguardo incuriosito,
perché si affrettò a spiegarsi. «Mia madre, santa donna. Ha ottant’anni e non
si fida dei treni, ha paura che io possa rimanere bloccata qui sopra per giorni
e giorni, e che possa patire la fame.»
La osservai aprire un contenitore con parecchie fette
di torta, con lo stomaco che brontolava. «Santa pazienza, come faccio a
mangiare tutta questa roba? Io glielo dico sempre a quella donna là, di non
cucinare per me, ma non mi dà retta. Ecco, aiutami, prendine un po’.»
Mi allungò due o tre fette di dolce con aria decisa, e
io accettai ringraziando. «Mi chiamo Mariuccia.»
«Jessica.» Risposi senza pensare. Non avevo un vero
motivo per dare un nome finto, ma forse per la sua somiglianza con la signora
in giallo mi era uscito così. Ora non valeva comunque la pena di cambiare
versione. «Quanti anni hai? Sembri molto giovane per andare in giro da sola.»
«Sembro più giovane di quello che sono. Ho già
ventitré anni.» Protestai, cercando di non indignarmi. Spesso mi scambiano per
minorenne, probabilmente perché sono bassa e minuta.
«Ventitré anni sono pochi. Fidati di me, che li ho
avuti.» Scrollai le spalle. Ovvio che avendo l’età dei dinosauri, chiunque
abbia meno di quarant’anni deve sembrare giovane come l’acqua, pensai un po’
troppo acidamente. La torta però era buonissima, quindi decisi di perdonarla.
«Cosa ti porta a Torino?» Insistette la signora,
ricordandomi improvvisamente che era quella la mia meta.
«Mi hanno chiamato per un colloquio di lavoro. Ho
dovuto partire senza preavviso.» Improvvisai con una scioltezza che non mi era
mai appartenuta «Oh che bello! Trovare lavoro, di questi tempi, deve essere
difficile!»
«Sì, infatti.»
«Che lavoro?»
«Armetovaia.» Risposi assolutamente decisa. «Cosa?»
«Si tratta di testare la solidità degli armatori di
pastinaca.» Sperai che la tattica presa in prestito da “amici miei” funzionasse
e che smettesse di farmi domande. Quando la signora annuì in preda alla
confusione, probabilmente credendo di essere ormai arrivata alla demenza
senile, mi sentii un po’ in colpa e pensai quasi di dirle che stavo scherzando,
e di inventare qualche balla tipo “voglio fare la pasticcera.” In effetti
sarebbe stato più semplice e sensato.
Fin da piccola mi divertiva spiazzare che mi chiedeva
cosa volessi fare da grande inventando mestieri che non esistevano e, sotto
sotto, riesumare quella vecchia passione mi fece quasi venire voglia di
sorridere.
L’annuncio che il treno era arrivato al capolinea mi
risparmiò la necessità di inventare altre balle. «Bene, allora buona fortuna
Jessica» Mi salutò dopo che l’ebbi aiutata a scaricare le valigie. Sorrisi
timidamente e corsi via, cercando di avere l’aria di chi sa esattamente dove
sta andando.
Poco dopo ero sulla via principale di Torino, città
che mi era completamente sconosciuta. E adesso era ora di darsi allo shopping.
Stranamente l’idea mi riempì di adrenalina e
eccitazione. Non avevo mai amato lo shopping, di solito compravo le magliette
in serie appena ne trovavo una che mi piaceva, per non dover tornare tanto
presto.
Decisi che come prima cosa avevo bisogno di abiti di
ricambio, e mi infilai in un negozio d’abbigliamento.
Avevo sempre avuto uno stile sobrio, colori scuri,
pantaloni stretti… ma adesso scelsi abiti comodi, jeans strappati, qualche
t-shirt e una felpa in cui avrei potuto entrare comodamente due volte, ma che
era calda e confortevole. Passai anche in una libreria, dove comprai un
quaderno e una penna, perché mi andava di scrivere, e un libro, per avere
compagnia. Non troppa roba, perché avrei dovuto portarmela sulle spalle, in uno
zaino che presi in un negozio di articoli sportivi assieme ad altre cose che mi
sarebbero state utili.
Lo scelsi con cura, pensando che sarebbe stato mio
compagno di viaggio per molto tempo. Era di un bel colore verde militare, un
po’ freak. Pensai che mi desse un’aria un po’ hippie e avventurosa.
Alle tre non avevo ancora pranzato, e affamata, decisi
di comprare degli spaghetti al curry a un takeaway vicino all’università. O almeno
penso che fosse l’università, vista la gran quantità di giovani che si
lamentavano degli esami lì attorno.
Anche io avrei avuto gli esami, se non avessi mollato
tutto per andare all’avventura. Avrei avuto un esame di antropologia… avevo
seguito solo le prime lezioni, ed erano state molto interessanti. Avevo già
comprato i libri da studiare, carica di entusiasmo, immaginandomi come una
specie di Indiana Jones. Chissà che fine avevano fatto?
«Stai scappando?» Mi
girai verso la ragazza che aveva parlato, corrugando la fronte,
sentendo il cuore battere forte nelle tempie. «Hai l’aria
di
una che sta scappando.»
«È per lo zaino?» Chiesi preoccupata. Non avevo
proprio bisogno di attirare l’attenzione. La ragazza rise di gusto della mia preoccupazione, offendendomi un pochino.
«Non solo per quello, è per...» mi studò da capo a piedi con un'occhiata divertita «Un po' per tutto.» Adesso ero abbastanza offesa, anche se non dissi nulla, visto che aveva sicuramente ragione. Mi ero vista allo specchio mentre facevo shopping. Rise di nuovo, dandomi un pogno scherzoso sul braccio. «Eddai, stavo scherzando!»
Cercai di guardarla con la faccia di una che sa stare allo scherzo, ma non sono del tutto sicura che la cosa mi riuscì.
Era una
tipa strana, con i capelli multicolore, vestiti indiani, piercing al
sopracciglio e un’aria pacifica.
«Studi qui?» Mi chiese, accendendosi una sigaretta.
Scossi la testa. «Nemmeno io. Mi sono ritirata. Tanto comunque la laurea non mi
servirà a nulla. Fra poco il mondo finirà.»
«Ah sì?»
«Sì, massimo fra un paio d’anni. Quando le calotte
polari si saranno sciolte del tutto.» Rispose serafica.
«Non sembri molto preoccupata.»
«E perché dovrei? Preoccuparmi mi serve a qualcosa?
No. Ora parto, vado un po’ in giro. Vedo un po’ di posti, prima di morire
annegata.»
«Sì, più o meno anch’io ho lo stesso programma.»
«Vedi? L’avevo capito, sai?» Esclamò esultante.
Sorrisi timidamente. «Hai un posto dove stare questa notte?»
«Ancora non ci ho pensato.»
«Vieni da me. È l’ultima settimana che ho l’appartamento in
affitto, faccio una festa.» Esitai, prima di ricordarmi che, se mi ero data una
regola per quel viaggio, era quella di farmi guidare da qualsiasi cosa il
destino avesse da propormi. E a quanto pare, quello che il destino aveva da
propormi, era una strana ragazza, con abiti indiani e con ciocche viola, blu e
verdi fra i capelli.
«Ok. Grazie.» Dissi cercando di sembrare più entusiasta e fiduciosa di quello che ero.
«Io
sono Marta.» Sorrise, tendendomi la mano. «Lee.»
Mi presentai, inventandomi un nuovo nome. Marta rise. «È
un nome falso, vero?»
Mi strinsi nelle spalle. «Oh beh, avrai i tuoi motivi. Vieni con
me! Allons-y!» Si alzò piroettando e battendo le mani. Io
mi alzai più goffamente e mi caricai lo zaino sulle spalle.
E seguii una perfetta estranea in un luogo ignoto.
Ciao! È
la prima volta che provo a scrivere una storia semiseria e non fantasy,
quindi se è il caso che lasci perdere, fatemelo sapere
subito, ecco. ^^
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Capitolo 2 *** Sono entrata in un clichè ***
2-clichè
Sono entrata in un cliché
Casa di Marta non era lontana dall’università, camminammo
solo una decina di minuti, durante i quali mi inondò di
informazioni su quanto il mondo fosse corrotto e cattivo. Si
fermò davanti a un vecchio portone di legno, armeggiò un
attimo con le chiavi e entrammo in un androne stranamente bello.
Era
vecchio e trascurato, sì. I muri erano scostati e il pavimento
sporco, in un angolo c’era pure un notevole esemplare di arte
falliforme. Però c’erano delle vetrate colorate che davano
su un cortile interno al palazzo, che riempivano l’androne di
calde sfumature rosse, arancioni, verdi e azzurrine. «Mi spiace,
ma sto al quarto piano senza ascensore.»
«Non
c’è problema» La rassicurai. Fare le scale mi
avrebbe dato il tempo di chiedermi ancora per qualche minuto se stessi
facendo una cosa saggia entrando nella casa di una perfetta
sconosciuta. No, la risposta era decisamente no. Per qualche strano
motivo mi venne da ridere.
«Ohi
Marta. Chi è la ragazzina?» La salutò un uomo sui
quarant'anni che fumava e beveva birra appoggiato alla balaustra delle
scale. Era un tipo decisamente inquietante, con l'abito canonico dello
scansafatiche: bermuda, pantofole e canottiera bianca bucata e
macchiata di sugo. «Un’amica. Come hai detto che ti
chiami?» Come avevo detto di chiamarmi? «Lee.»
Risposi, già pentita di aver scelto un nome tanto scemo.
«È un diminutivo di… uh… Lidia.»
Cercai di rimediare. Mi tese la mano villosa sorridendo.
«Piacere, Vee. È un diminutivo di Vittorio.»
Scoppiò in una grassa risata alla sua battuta. Marta alzò
gli occhi al cielo sbuffando, ma da un luccichio nei suoi occhi mi
sembrò evidente che fosse solo una recita, e che sotto sotto
l'uomo la divertiva. «Sta attenta a questa qua.» Mi disse
avvicinandosi al mio orecchio con aria cospiratoria e indicando Marta
con il pollice. Sapeva di sigaretta. «È pericolosa.»
Rise ancora, e risi anch’io, molto nervosa, chiedendomi se ero
ancora in tempo per scappare e andare in albergo.
Entrare
in casa di Marta fu come entrare in un negozio Equo-solidale, sia per i
colori molto etnici che per il forte odore di curry e di incenso.
Entrammo in un salotto-cucina. I vari poster, locandine di film, di
concerti e di proteste tappezzavano completamente le mura, rendendo la
stanza caotica. La poca luce arrivava dalla porta-finestra da cui
eravamo entrati, coperta da una tenda rossa, ma la penombra, con in
caldo che faceva fuori, era fresca e piacevole.
In
tutto quel marasma di colori e oggetti strani, era difficile
individuare i pochi mobili. C’era un tavolo basso, che a un esame
più attento si rivelò essere un asse appoggiato a due
cassette della frutta, circondato da cuscini informi. In un angolo
c’erano i cuscini di un divano, ma del divano non c’era
traccia. Su un’altra cassetta della frutta c’era un
narghilè molto colorato, che non sembrava essere usato solo come
soprammobile. Individuai almeno tre coperte fatte all'uncinetto, in
diverse sfumature di rosso, appoggiate su varie superfici.
Il mio primo pensiero fu “Sono appena entrata in un cliché”.
Si
lasciò cadere sui cuscini da divano con un tonfo notevole.
«Ci credi che la maggiore parte di queste cose le ho trovato
nella spazzatura? La gente butta via qualsiasi cosa!» Ci credevo.
«Non preoccuparti, li ho lavati col vapore e ho cambiato le
federe. Le ho cucite io.» Mi rassicurò, evidentemente
notando la preoccupazione del mio sguardo. Hippie ma con il senso
dell’igiene. «Vieni, ti faccio vedere la camera da
letto.» Si alzò con un colpo di reni e mi condusse
attraverso una porta che, essendo coperta di poster come il resto della
stanza, non avevo nemmeno notato.
C’era
un materasso appoggiato su dei bancali, una scrivania ingombra di libri
di filosofia e materiale da cucito e un armadio senza porta, con i
vestiti buttati dentro alla rinfusa. Dopo una breve ricognizione,
individuai la porta dell'armadio, staccata dai cardini e appoggiata
alla parete lì accanto. «Lascia pure lo zaino dove trovi
posto!» Urlò allegramente sovrastando il suono del
campanello. Lasciai cadere il mio zaino in un angolo relativamente
sgombro, mentre Marta correva via per rispondere al citofono.
Sulla
porta divelta dell'armadio c'era uno specchio, ricoperto di fotografie.
Lo specchio rimandò la mia immagine, scialba e anonima. Avevo
una t-shirt monocromatica, di un marrone scuro molto neutro, e i
pantaloni neri di una tuta. Avrei dovuto liberarmi di quei vestiti al
più presto, erano l'ultima cosa che mi rimaneva dalla mia vita
precedente.
Guardai
da vicino il mio viso, e il mio riflesso mi guardò con aria
critica. Ero pallida e avevo dei cerchi scuri sotto gli occhi. Anche i
capelli erano disordinati e secchi, la frangia iniziava a coprirmi gli
occhi. Avevo decisamente bisogno di andare da una parrucchiera. Di
certo facevo un contrasto netto con le due ragazze ritratte nelle foto.
Una era Marta, con i suoi capelli multicolor e gli abiti dai colori
accesi, l’altra era una ragazza molto carina, con capelli
perfetti, vestiti eleganti e occhi azzurri e luminosi.
Sentii
delle voci e mi voltai, trovandomi davanti la ragazza delle foto in
carne e ossa. Si fermò sulla porta guardandomi incuriosita.
«Oh, sì, lei è Lee. Lee, questa è
Silvia.» annunciò Marta apparendo alle sue spalle. Silvia
mi tese la mano sorridendo. «Poverina, anche tu sei rimasta
catturata nella sua rete?» La guardai sollevando un sopracciglio.
«Ogni volta che vengo a trovarla si è portata a casa
qualcuno. Gatti, stranieri, studenti in Erasmus, turisti
giapponesi… una volta persino un piccione ferito.» Si
fermò un attimo squadrandomi da capo a piedi. «Ma tu sei
un po’ meglio della media.» Marta le diede una gomitata
nelle costole. «Ohi, non sei molto gentile con la mia
ospite!» Silvia alzò gli occhi al cielo. «Che ho
detto di male? Le ho detto che è meglio della media.»
«Le hai detto che è un po'’ meglio
di gatti randagi e piccioni!» Sospirò, lanciandomi uno
sguardo rassegnato. «Non darle retta. Io ospito sempre e solo
gente che mi sembra simpatica.»
«Un
giorno ospiterai un serial killer che ti taglierà la gola nel
sonno solo perché ti sembrava simpatico.»
«Sono amichevole! Che
c’è di male?» Il battibecco continuò
abbastanza a lungo da consentirmi di scavare un buco e nascondermici,
se fossimo state all’aperto. Purtroppo non era così, e non
potei far altro che stare lì a osservarle imbarazzata.
Dopo
un po’ decisero di sospendere la conversazione, e con mio orrore
ancora maggiore tornarono a concentrarsi su di me. «Hai viaggiato
tutta la notte vero?» Mi chiese Silvia guardandomi come si guarda
un cucciolo di cane coperto di fango. Non mi sembrava di averlo detto,
ma probabilmente di vedeva dai vestiti stropicciati e dall’aria
da reduce di guerra. Annuii, ancora più imbarazzata. «Ho
preso un intercity ieri sera tardi…»
«Allora vorrai fare una doccia? Vieni, ti faccio vedere il bagno.»
Marta
mi afferrò energicamente una mano e mi trascinò di nuovo
nell’ingresso, e poi attraverso un’altra porta mezza
mimetizzata. Il bagno era piccolo e pieno di trucchi e di creme che non
sembravano essere sue. «Puoi usare il mio shampoo, e anche il mio
accappatoio se non ne hai uno. Per l’acqua calda dovrai aspettare
qualche minuto.» Ascoltai le istruzioni annuendo in silenzio e mi
lasciò da sola nel bagno.
Quando la porta si chiuse mi sedetti un minuto sul bordo della vasca, guardando i miei occhi scuri e cerchiati nello specchio. Ti sei fatta raccattare dalla spazzatura come i cuscini del divano. Bella mossa. Mi
si formò un’immagine mentale di Marta vestita da massaia
che mi passava addosso la pulitrice a vapore. Sorrisi al mio riflesso
scuotendo la testa. Me ne ero andata perché ero stufa che gli
altri si prendessero cura di me, e invece ci ero ricascata dopo nemmeno
ventiquattro ore.
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Capitolo 3 *** Niente cellulare? ***
3/Niente
Niente cellulare?
Mi ero lavata nel minor tempo possibile, evitando di cedere alla
tentazione di stare lunghi minuti a riflettere sotto l’acqua
calda. Avevo l’impressione che se mi fossi fermata a riflettere
sulla situazione in cui mi ero cacciata avrei pagato per potermi
prendere a calci nel sedere da sola, e sarei tornata filata a casa.
Chi si ferma è perduto! Me
lo ripetei più volte, come un mantra, mentre selezionavo fra i
pochi vestiti che mi ero comprata un paio di pantaloni corti e una
canottiera lunga, color verde e bianco sporco. Mi strofinai
violentemente i capelli con un asciugamano in microfibra che avevo
avuto l’accortezza di comprare, poi mi guardai allo specchio
abbastanza soddisfatta. Con i capelli ancora bagnati così
sparati in tutte le direzioni e quei vestiti sembravo appena uscita da
una puntata di Lost. Tutto in me parlava di avventura e di viaggio e di
mistero. O forse no, ma decisi di essere indulgente con me stessa e
assecondare quell’illusione mettendo a tacere la parte più
critica del mio cervello.
Chiusi i vestiti vecchi in una borsa di plastica, più tardi li avrei gettati in un cassone della Caritas.
Aprii
cautamente la porta del bagno. Silvia e Marta stavano sussurrando, con
le teste vicine. Silvia sembrava irritata e divertita e Marta le teneva
le mani con uno sguardo dolce, che di solito è il preludio di un
bacio. Mi sentii improvvisamente molto in imbarazzo. Richiusi la porta
piano, e poi la aprii facendo molto rumore e guardandomi alle spalle,
così che avrebbero avuto modo di interrompersi, se volevano.
Marta alzò lo sguardo senza lasciare le mani di Silvia, che
guardò altrove, imbarazzata. «Tutto a posto? L’acqua
era calda?»
«Certo, nessun problema.»
«Vuoi usare il phon?»
«No
grazie… mi piace avere i capelli bagnati.» Sorrisi
imbarazzata. Più di una volta ero stata sgridata per il mio
rifiuto di asciugare i capelli, anche in pieno inverno, ma Marta non
sembrava il tipo da formalizzarsi per una cosa del genere, visto che si
portava in casa perfetti estranei. «Hai bisogno di mettere sotto
carica il telefono?»
«Non
ce l’ho il telefono.» Marta e Silvia mi guardano con gli
occhi sgranati. Ma certo: siamo in un’epoca in cui una ragazza
può vagare senza meta in una città sconosciuta e farsi
ospitare dalla prima persona che incontra per strada, tutto ok. Ma se
non ha con se il telefono? Allora c'è sotto qualcosa di
sinistro. «Te l’hanno rubato?»
«No, non me lo sono portato.» Risposi scrollando le spalle. «Come fai a stare senza telefono?»
«È
stato strano all’inizio, continuavo a toccarmi le tasche e a
pensare di averlo perso. Però poi mi sono abituata.»
«E come fanno i tuoi a contattarti?»
«Non
mi contattano.» Abbassai gli occhi in modo che non mi potesse
leggere niente nello sguardo, ma sentii le guance imporporarsi e un
dolore anche troppo familiare pungermi lo stomaco e il petto come
centinaia di spilli.
Marta
mi guardò preoccupata. Dovevo avere una strana espressione,
perché anche lei esitò prima di farmi ancora delle
domande. «Facciamo così. Se non vuoi dirmi perché
te ne sei andata di casa senza telefono e, immagino, senza dire a
nessuno dove stavi andando, va bene. Ma almeno una cosa me la devi
dire.» Esitò ancora, mentre iniziavo a pensare che mi
avrebbe cacciato fuori senza darmi nemmeno il tempo di dire beh.
«Non starai mica scappando dalla giustizia, neh?» Sbuffai
divertita. «Andiamo, ti sembra?»
«No.»
Ammise Marta ridendo di gusto. «Ma dovevo
chiedere!» Silvia si limitò a sorridere, non del
tutto tranquillizzata. «Non sto scappando dalla giustizia, non ho
mai nemmeno fumato uno spinello o preso una sbronza. Avevo solo bisogno
di cambiare aria.» Dissi decisa. In fondo era una domanda lecita:
io ero una sconosciuta per loro quanto loro lo erano per me, e Marta
aveva rischiato a riporre la sua fiducia in me offrendomi aiuto, avendo
nulla da guadagnare e tutto da perdere. «E non ho portato il
telefono perché tanto non ho nessuno da chiamare.» Dissi
sperando che non mi chiedessero nulla di più. Marta e Silvia si
scambiarono un’occhiata attraverso la quale avvenne
un’intera conversazione, poi Silvia sbuffò, scrollò
le spalle e si alzò. «Faccio il caffè. Poi se vuoi
organizzare una festa qui dentro dovremo mettere a posto.»
«Sì
mamma!» Rispose Marta irriverente strizzandole l’occhio.
Poi si girò di scatto verso di me ostentando un’aria
sconvolta. «Mai preso una sbronza?» Scossi il capo…
In realtà non avevo motivo per essere imbarazzata, ma Marta con
una sola occhiata riuscì a farmi sentire come se non aver mai
perso il controllo per il troppo bere fosse un peccato capitale.
«Questa sera rimediamo.» Promise, mentre Silvia sbuffava
sulla caffettiera.
Passammo
il pomeriggio a pulire la casa, cercando di spostare un po’ di
oggetti per fare spazio agli ospiti che, iniziavo a temere, sarebbero
stati troppo numerosi per uno spazio così stretto.
«Ti
sei comprata solo vestiti da avventuriera?» Chiese Marta frugando
senza riguardo fra le mie cose, non dopo aver espresso sgomento per il
fatto che ero partita senza portarmi vestiti. Strinsi le spalle
«Non pensavo che avrei avuto bisogno di altro.»
«No problema chica! Ti
presto qualcosa di mio!» Così dicendo abbandonò i
poveri resti disordinati del mio zaino e iniziò a frugare nel
suo armadio, borbottando e tirando fuori abiti. «Te l’avevo
appena messo a posto quell’armadio, possibile che sia già
così?» Gemette Silvia. «La vita è breve, non
c’è tempo per piegare vestiti! Tieni, prova questo. A me
sta un po’ stretto ma a te dovrebbe andare.» Mi
lanciò un abito chiaro che riuscii a prendere al volo per un
pelo. Era un vestito stranamente sobrio per essere uscito
dall’armadio di Marta, bianco sporco con degli inserti di pizzo,
con una gonna svolazzante che arrivava sopra al ginocchio.
Non
avevo mai messo un vestito in realtà, e mi faceva sentire
strana… ma loro non potevano saperlo, quindi se mi fossi
comportata come se fosse perfettamente normale magari non si sarebbero
accorte che mi sentivo come se mi stessi travestendo per carnevale.
Da
qualche parte nell’armadio rimediò una fusciacca
multicolore che mi legò in vita, poi mi aiutò a pettinare
i capelli in modo che non sembrassero troppo trascurati, intrecciandoli
dietro la nuca e infilandoci degli ornamenti colorati.
Mi
guardai allo specchio, cercando di nascondere il disagio: sembravo una
perfetta figlia dei fiori. Incrociai lo sguardo di Silvia, riflesso
nello specchio, e mi sorrise solidale, mentre Marta frugava
nell’armadio piena di entusiasmo per la sua opera, allungandomi
un paio di stivaletti bassi decisamente fuori stagione, ma che a suo
dire sarebbero stati perfetti. Silvia mi diede una pacca sulla spalla,
come se capisse perfettamente quello che stavo passando. Forse anche
lei era stata oggetto dell’estro artistico di Marta.
Avevano
appena finito di agghindarmi quando il campanello iniziò a
suonare, e nel giro di trenta minuti la casa fu piena di persone e di
cibo.
Hohey!
Scusate il capitolo un po' corto. Spero che a qualcuno interessi la
storia fin qui, anche se l'elemento romantico non si è ancora
visto più di tanto. Ma se avete la pazienza di seguirmi (cit
Neri Marcorè) presto qualcosa succederà ;) 羽毛
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Capitolo 4 *** Mister Mojito ***
摩jito
Mister Mojito
La cosa positiva era che Marta era così presa
dall’intrattenere gli ospiti che non si curò più di
me, e per un po’ riuscii a sfuggire alle sue vivaci attenzioni.
La
cosa negativa era che quell’appartamento decisamente non era
fatto per contenere tutte quelle persone. Provai a contarle, ma dopo un
po’ rinunciai. Seriamente, era un miracolo che il pavimento non
ci crollasse sotto i piedi.
La
musica era altissima, la calca era opprimente, e le luci stroboscopiche
mi stavano facendo uscire di testa. Chi è che si tiene delle
luci stroboscopiche in casa? È da matti! Il che in effetti era
perfettamente coerente con quello che sapevo di Marta fino a quel
momento. La pazzia dico, non le luci stroboscopiche, quelle non me le
aspettavo propio.
La
camera di Marta era piena di persone che parlavano, urlavano e
ridevano. Qualcuno stava anche pomiciando. In pochi minuti quella ressa
mi fu insopportabile, e me ne andai alla ricerca di un posto tranquillo
dove riposare le orecchie per un po’.
Mi
spostai per l’appartamento con la schiena rasente al muro,
cercando di non guardare le persone che sembravano muoversi a scatti
come burattini, e cercai di raggiungere il bagno. Era occupato. Avrei
voluto raggiungere la porta e uscire sulle scale, ma avrei dovuto
attraversare la sala passando in mezzo a una trentina di persone che in
quel momento, sotto la luce intermittente, mi ricordavano gli angeli
piangenti di Doctor Who. Per qualche secondo fui sopraffatta
dall'impulso di non battere le palpebre, poi con un gemito mi coprii
gli occhi con le mani e mi lasciai scivolare contro il muro,
accucciandomi in un angolo.
«Tutto
bene?» qualcuno molto vicino a me urlò per farsi sentire
sopra il rumore della musica. Sbirciai da dietro le dita, e vidi un
ragazzo che si era accucciato davanti a me con aria perplessa. Coprii
di nuovo gli occhi con le mani e annuii. «Non mi sembra.»
«Mi
dà fastidio la luce.» Spiegai seccamente, per nulla
desiderosa di avere una conversazione urlata a quel volume.
«Vieni, ti accompagno fuori.» Senza darmi tempo di
rispondere mi afferrò per un braccio e mi trascinò
attraverso la sala gremita di mostri, mentre mi coprivo gli occhi con
una mano. Uscire all’aria fresca fu come emergere in superficie
dopo una lunga apnea in un oceano di lava.
Il
ragazzo si sedette accanto a me sulle scale. «Meglio?»
Annuii, e restammo in silenzio per un minuto. «Non si
lamenteranno i vicini di tutto questo rumore?»
«Non
penso, dato che sono tutti lì. In questo palazzo abitano quasi
solo studenti.» Spiegò, indicando la porta. «Hai per
caso problemi con i posti affollati?» Tenevo ancora gli occhi
coperti con le mani, cercando di riprendere il controllo, e sorrisi
amaramente. «Si vede?»
«Ma
no, appena appena!» Rise divertito e nascosi il viso fra le
ginocchia, rannicchiata sul gradino. Potevo provare a fingermi
un’altra, abbandonare il mio nome, i miei vestiti, il mio
cellulare e tutto quello che avevo, ma i miei difetti e le mie fobie,
le cose che più avrei voluto abbandonare, non potevo non
portarmeli dietro. Volevo tornare in mezzo agli altri e, almeno per una
volta nella vita, partecipare a una festa di quel genere, essere
anonima e normale, e allo stesso tempo mi sentivo completamente fuori
posto, un’intrusa, e volevo scappare il più lontano
possibile. «Vuoi che ti accompagni a casa?» Scossi la
testa. «Dormo qui questa notte.»
«Vuoi
andare a fare due passi?» Non risposi, non sapendo come
spiegarmi. «Vuoi tornare dentro ma la folla e le luci ti danno
fastidio?» Annuii, un po’ sorpresa del fatto che avesse
inquadrato il problema così in fretta e senza nessun aiuto da
parte mia. «Sai cosa può aiutare in questi casi?» Lo
guardai di sottecchi, inclinando la testa. Le scale erano buie e tutto
ciò che vidi di lui fu un sorriso provocatorio, che risplendeva
bianco sul viso in ombra. «Cosa?» Mi allungò un
bicchiere che sembrava contenere un Mojito, scuotendolo leggermente per
far tintinnare il ghiaccio. «Non si accettano drink dagli
sconosciuti. Potrebbero essere drogati.» Osservai, facendo
palesemente la predica dal pulpito sbagliato. Ma lui non poteva saperlo.
«Hai
ragione. Ma io non sono uno sconosciuto, sono un amico di Marta.»
Mi venne quasi da ridere: quella non era sicuramente una garanzia.
Eppure qualcosa mi spinse a fidarmi… forse, solo per quella
volta, potevo fingere che il mondo non fosse pieno di mostri, pronti a
tenderti un agguato appena dai loro un’occasione. Potevo fingere
che il mondo fosse buono e che tutti fossero in buona fede, almeno per
un po’, sperando che veramente qualcuno dall’alto avrebbe
vegliato su di me. «Solo per questa volta.» Decisi. Bevvi
un sorso e tossii, cercando di non rovesciare il bicchiere. «Ma
questo è rum puro!»
«No, ci sono anche delle foglie di menta. E ghiaccio.»
«Ma
sarà più di un quarto di litro!» Il ragazzo mi
posò una mano sulla testa, con un gesto quasi paterno. «Se
vuoi superare le tue inibizioni, bevilo e basta, ragazzina.» Poi
si alzò e tornò dentro, lasciando la porta aperta.
Non
dico di aver fatto una cosa saggia, anzi. Non ero mai stata una grande
amante dei super alcolici, a meno che non fossero molto dolci e
sorseggiati con calma. Invece scolai quella specie di mojito letale in
pochi sorsi, come se fosse stata una medicina. E in un certo senso lo
era.
Tornai
dentro, con la testa piacevolmente leggera, e mi mischiai alla folla.
Avevo ancora un po’ di affanno e di tensione, ma l’alcol
annebbiava tutto e mi rendeva quasi sopportabili persino le luci, se
stavo attenta a non guardarle direttamente. Per un momento rimasi
lì, confusa, con la mente che funzionava a intermittenza,
semplicemente godendomi il fatto che non ero più isolata dagli
altri. Cercai con lo sguardo il ragazzo che mi aveva offerto il suo
aiuto, ma non riuscii a trovarlo. Anche perché, avendolo visto
solo al buio delle scale, non avevo un’idea precisa di che faccia
avesse.
Per
essere una festa tanto rumorosa e sregolata finì presto.
«Saremo ribelli e trasgressivi, ma i vicini no. Quindi tutti a
nanna!» Così dicendo, poco dopo la mezzanotte Marta spense
la musica fra le giocose proteste degli invitati e io, con il terzo
mojito assassino in mano (gentili stranieri mi avevano rifornito nel
corso della serata) barcollai verso i cuscini del divano,
ammonticchiati in un angolo, e mi lasciai cadere lì sopra
sfinita. La gente pian piano uscì, salutando Marta con baci e
abbracci e arrivederci. C’era anche Vittorio, vestito bene e
sbarbato sembrava molto più giovane, doveva avere al massimo
trentacinque anni. Mi strizzò l’occhio mentre usciva e mi
accorsi che mi aveva offerto lui il terzo mojito. Non l’avevo
riconosciuto.
Mi
rannicchiai appoggiando la testa sulle ginocchia, sfinita. Marta si
sedette accanto a me e mi scostò i capelli dal viso,
mettendomeli dietro un orecchio con un gesto così dolce che mi
venne da piangere. Girai la testa bruscamente, cercando di
nasconderglielo, e con tutto l’alcool che avevo bevuto dominarmi
e ritrovare il controllo fu difficile. «Allora, l’hai presa
questa prima sbronza?» Mugugnai qualcosa sul fatto che volevo
dormire, con la faccia ancora nascosta fra le ginocchia.
Non
so quanto tempo dopo (a causa delle nebbie dell’alcol rimossi
completamente dalla memoria qualche passaggio) mi ritrovai
raggomitolata sotto una leggera coperta. Non ricordavo più se
ero in camera di Marta o nel salotto, sui cuscini del divano o sul
letto o su una cuccetta di un treno notturno. Potevo anche essere
sdraiata sui gradini davanti all’università di Torino o su
un sentiero ghiaioso delle campagne di casa mia, tutti quei luoghi
vorticarono confusamente nella mia testa qualche istante. Ero solo
grata di poter finalmente chiudere gli occhi e perdere conoscenza.
Salve a
tutti! Confidando nella vostra intelligenza, mi sembra inutile dire
"don't try this at home" XD La nostra misteriosa protagonista ha me a
proteggerla dalla sorte avversa, almeno per il momento, quindi fin'ora
le è andata bene.
Spero
che vi sia piaciuta la storia fin qui. FInalmente è apparso un
essere umano di sesso maschile, iniziavate a dubitare che avessi
postato la storia nella sezione sbagliata vero? Abbiate pazienza, mi
piacciono i preamboli.
Se
qualcuno non conosce il Dottor Who e si sta chiedendo cosa sono gli
angeli piangenti, sono solo le creature più spaventose mai
concepite dall'ingegno umano. Vi passo un link con un video, ma vi
consiglio di vedere la puntata per fare buoni incubi (o per non dormire
affatto). https://www.youtube.com/watch?v=2zOtlEzq4FE
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