A piedi nudi sul cemento

di iononbrucio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ghiaccio tra le vertebre ***
Capitolo 2: *** Lacrime di sangue ***
Capitolo 3: *** Impercettibili sfumature ***
Capitolo 4: *** Lucida follia ***



Capitolo 1
*** Ghiaccio tra le vertebre ***


Ho 16 anni, e anche se provassi a descrivere oggettivamente il corso della mia esistenza, tu proveresti compassione nei miei confronti. Sta a te intravedere le macchie di sangue in questo candido lenzuolo di parole steso sul mio cadavere. Per la prima volta in vita mia, ho voglia di urlare. Io, che ho sempre preferito l'inchiostro al sangue. Io, che i sentimenti li ho sempre vomitati sulla carta, e mai in faccia alla gente. La gente mi terrorizza. Il loro sguardo, la loro intelligenza, le loro mani che gesticolano nervosamente. So che una sola parola cattiva sussurrata potrebbero spezzare quest'ammasso di ossa fragili e carne debole che sono. Peso 43 kg, colleziono bigliettini trovati per terra, che siano liste della spesa o promemoria scritti con calligrafia disordinata e sbiadita, dalla pioggia o dal tempo, amo fotografare, mai me stessa, solo ciò che mi circonda, adoro passeggiare da sola nelle vie secondarie e desolate della mia città, il grigio del cemento colora i miei occhi, io e le mie cuffiette viviamo in simbiosi, solo il fragore della musica può coprire le voci delle persone e il rumore della mia mente incasinata. All'apparenza, sono una normale adolescente. Scavando a fondo, si nascondono mostri che strillano e cadaveri in putrefazione, lasciati a marcire da più di un decennio. Frequento il liceo artistico, ma non ho nulla da dire con i miei disegni. Mi limito a ripetere a memoria lezioni poco interessanti e a tracciare disegni che nessuno capisce. Ho la pelle trasparente, di carta velina, così sottile da strapparsi con un soffio. Non sono bella. Non sono simpatica. Non sono interessante. Mi trascino per le strade, gli occhi vuoti e le mani in tasca, qualche cantante che mi strilla nelle orecchie. Nessuno si pone domande su di me. L'ho già detto, all'apparenza sono una normale adolescente, un po' di acne punteggia le mie guance, ogni tanto una finta cotta per qualche bello e impossibile. Non ho amici, è stata una mia decisione. Tengo sempre gli altri ad una distanza di sicurezza, per impedire che vedano cosa si cela dietro i miei occhi, per non permetter loro di affogare nei mari bui dei miei pensieri. Agli altri va bene così, sono una semplice conoscente con cui scherzare nelle noiose ore scolastice. Mi chiamo Gaia, ma non sono felice. Il mio nome è un'imposizione, Gaia è un nome allegro, io che convivo con tristezza perenne, sedute dallo psicologo ed antidepressivi. Anche questo l'ha deciso mamma. Io accetto passivamente le decisioni altrui, non importa, questo corpo non mi appartiene, non più, ecco perché lo distruggo in ogni maniera possibile. Cicatrici, lividi, polmoni neri, fegato a puttane. E Gaia sembra solo una presa in giro, se la associ ad una ragazza dalle occhiaie grigie, le costole che premono contro la carne, quasi vogliano fuggire da questo corpo marcio, le braccia violacee. Gaia non è una secchiata d'acqua cristallina, fresca. Gaia è acqua sporca, putrida. 

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Capitolo 2
*** Lacrime di sangue ***


Alice è affetta dalla sindrome di Down. Alice è mia sorella. In un giardino di fiori di plastica, lei è l'unica rosa, dal colore intenso e dal profumo inebriante. Alice è vera, conserva l'autenticità di una bambina malgrado i suoi 14 anni. Oggi è il suo compleanno. 14 anni esatti che non vedo mio padre. Lui, che non aveva paura di niente, è fuggito da una malattia. Lui, che non merita di esser chiamato nè padre, nè essere umano, ha lasciato un misero bigliettino per mia madre, scritto con calligrafia incerta in inchiostro rosso, color sangue, che ancora oggi conservo. "Non sono pronto a tutto questo, perdonami." Stropicciato, intriso di lacrime, quasi illeggibile, eppure lo porto sempre in tasca. Sotto questa corazza di spine che mi avvolge si nasconde una persona dall'immensa fragilità. Alice piange. Si scruta attentamente allo specchio e poi piange. Alice è come me, odia il suo riflesso, lo prende a pugni, si scortica le nocche fino a sanguinare, frantuma il vetro. Siamo anime dannate, destinate a soffrire, noi. Mia madre, ogni sera, dopo aver liberato i suoi lunghi capelli dalla crocchia a cui è costretta per lavorare, e indossato una camicia da notte in cotone leggero, prega per noi. Prega così intensamente da tremare, piegata sulle ginocchia, le mani giunte e i capelli che sfiorano il pavimento. Provo compassione per lei, una donna così bella, con un futuro brillante che la attendeva dietro l'angolo, costretta a crescere due bambine pallide e malate, da sola. Abbandonata da tutti, da una famiglia austera e mentalmente chiusa, un quasi-marito che scompare alla minima difficoltà, degli amici che poi tanto amici non sono. Ogni sera mia madre piange sangue e Dio non l'ascolta. La mia vita è un film dell'orrore, si compone di scene continue che, susseguendosi una dopo l'altra, mostrano sofferenza e degrado. La colonna sonora è il pianto lamentoso di Alice, le urla di mia madre, le risate forzate a scuola, il silenzio lugubre della mia cameretta di notte. Ogni tanto riemergo da questo oceano di dolore, una boccata d'aria a pieni polmoni un attimo prima di soffocare: una dose di Xanax, un intruglio alcolico, una sigaretta, qualche grammo di marijuana e riesco a dimenticare in che razza di croce sono stata inchiodata.

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Capitolo 3
*** Impercettibili sfumature ***


È notte fonda. Ho infilato la felpa che avevo abbandonato sulla sedia qualche ora prima, afferrato le cuffie e sono fuggita, confondendomi con il buio della città. Alice dormiva serenamente, le ho sorriso anche se non mi poteva vedere. A mamma ho dato una carezza leggera, quasi impercettibile. È da anni che progetto questa fuga. Anni passati a racimolare soldi, ma soprattutto, a cercare il coraggio di compiere una tale follia. Dopo tanti anni, eccomi qui. Non so dove andrò. Ho con me la musica, una penna carica d’inchiostro e un quadernino tascabile dalle pagine candide. Sono le due e ventitré. Cammino senza una metà, non mangio da quarantotto ore eppure sono carica di energie. Mi auto convinco di essere invincibile, ma dopo qualche minuto la paranoia mi afferra da dietro e comincia a torturarmi lentamente.
Siamo solo io e lei, lei ed io. 
“È inutile, Gaia. Non puoi fuggire da te stessa.”
Parlo da sola. Cerco di tranquillizzarmi. Sono folle, comincio a piangere. Non posso fuggire da questo corpo, tempio dei brutti ricordi. I lividi, le cicatrici, non scompaiono. Rimangono lì, immobili, mi aiutano a non dimenticare. Mi sento più pesante che mai, trascino le mie ossa per strade che al buio appaiono diverse, dai profili più spigolosi. Ogni tanto auto con i fanali accesi mi sfrecciano accanto, facendomi sobbalzare.
Quattro e quarantadue.
Conto le cicche di sigaretta che mi circondano. 
Trentotto.
I miei polmoni sono neri.

La mia anima è grigia.
Impercettibili sfumature.

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Capitolo 4
*** Lucida follia ***


Non riesco più a distinguere la realtà dalla fantasia. Allucinazioni, incubi, buio. Il buio mi circonda, intravedo appena la mia cameretta alla luce fioca di una lampadina malfunzionante. Mi carezzo i capelli, delineo il mio profilo con la delicatezza di un pianista che sfiora i tasti del proprio pianoforte. Un canto funebre proviene dall'esterno, o forse si tratta solo dell'ennesimo scherzo della mia mente malata.
Ho solo 16 anni, e non vedo la luce del sole da due mesi. Mia madre lo ha accettato, con le lacrime che premevano agli angoli degli occhi e la voce incrinata dalla delusione, ma lo ha accettato. Alice, mia sorella, continua a piangere e a tormentarsi, vorrebbe passeggiare con me come pochi mesi fa, prendere un gelato alla gelateria dell'angolo e godersi i raggi di sole sulla pelle. Crede di essere il problema.
Lei è ingenua.
Lei è ignara, non sa degli sguardi della gente, dei risolini soffocati, delle occhiate cariche di commiserazione.
Lei non se ne rende conto
.
L'ultima volta che abbiamo camminato per le vie della città, sono rientrata in casa con parecchi lividi, le osse doloranti e un labbro spaccato. Gente cattiva, bulli, criminali, chiamateli come volete, ci hanno soprannominate 'la drogata anoressica e l'handicappata', e dopodichè, hanno sfogato la propria rabbia sull'involucro morto che ancora trascinavo per le strade. E la mia impassibilità non ha fatto che aumentare il loro rancore e l'energia con cui mi colpivano. Ho preso per mano Alice, che tremava in un angolo, il suo sguardo era smarrito ma fiducioso. Ho tamponato le ferite, coperto i lividi in maniera abbastanza convincente, e ho chiuso la porta a chiave. A doppia mandata.
Sono passati due mesi.
Piango silenziosamente e cammino in bilico tra follia e lucidità, barcollando pericolosamente, rischiando di precipitare nell'oblio.

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