La Spettrosonda di Afaneia (/viewuser.php?uid=67759)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Seel. ***
Capitolo 3: *** Meowth. ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
Buonasera!
Che cosa è mai questa, vi chiederete?
Penso
che si possa definire una poképasta, o almeno questo
è quello che
desideravo creare quando l'ho scritta durante una lezione... che
dire? È il mio primo tentativo di fare una cosa del genere,
quindi
non mi aspetto acclamazioni; se però lasciaste un commento,
positivo
o negativo che sia, ve ne sarei grata. Preannuncio che la pasta, se
tale vogliamo definirla, è pressoché compiuta e
che a questo
faranno seguito altri due capitoli.
Bando
agli indugi, vi lascio alla lettura: spero possa essere di vostro
gradimento!
Afaneia
La Spettrosonda
Egli
si svegliò d'improvviso, ma i suoi occhi si aprirono su un
nero buio
imperscrutabile, e quell'oscurità lo spaventò:
emise un grido
disumano, tanto terribile da sembrare proveniente da qualche luogo
molto al di fuori del suo corpo. Si trovava in un luogo buio e
silente e sentiva il suo corpo stendersi nudo e immobile su un piano
rigido, strettamente avvinto come da cinghie... Dove si trovava? Non
ricordava nulla. Provò a scuotersi, ad agitarsi, a ritrarre
contro
il busto le braccia e le gambe, ma invisibili legacci gli serravano
polsi e caviglie e le sue dita annasparono e tentarono invano di far
forza contro quei freni che lo avvincevano. Egli sentiva crescere in
sé la disperazione, sentiva il proprio petto riempirsi
d'angoscia
mentre le sue membra si contraevano al freddo nel buio, e insieme
provava tutto l'imbarazzo del suo corpo molle, delle sue
intimità
flosce e visibili a tutti al minimo filo di luce...
"Aiuto!
C'è qualcuno qui? Venite ad aiutarmi!"
Ma
le sue grida sembravano prolungarsi senza scopo nell'aria immobile,
le sue parole si accavallavano con la loro stesssa eco, rimbombavano
come su concave pareti; tornavano a invertirlo, quasi schernendolo
per la sua solitudine, come a dirgli che l'eco stessa sarebbe stata
l'unica risposta alla sua chiamata. "Aiuto!" tornò a
ripetere disperatamente, cominciando a temere che forse realmente non
vi sarebbe stata per lui altra risposta che le sue proprie parole.
E
d'un tratto, senza preavviso, una luce abbagliante si rivelò
nell'oscurità ed egli si ritrovò a chiudere gli
occhi acciecato,
cercando di aggrapparsi al buio che rimaneva nelle sue palpebre
chiuse, e poi a sbatterle furiosamente nell'ansia di guardare. Scorse
oscure figure muoversi ai margini del suo campo visivo, le vide
agitarsi, scambiarsi e scomparire tra stridule risate sguaiate,
agghiaccianti.
"Aiutatemi!"
gridò disperatamente. "Aiutatemi, vi prego!"
D'un
tratto una voce nitida si levò sopra le altre in risposta
alla sua e
tutte le altre fecero silenzio quando essa parlò.
La
voce gli chiese: "Qual è il tuo nome?"
Egli
sgranò gli occhi in quella luce, mentre le sagome ora mute,
indistinte, avanzavano incombendo verso di lui da ogni parte.
Un
nome? Ne aveva dunque egli uno?
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Capitolo 2 *** Seel. ***
L'unica
cosa per cui Lavandonia era famosa nella regione di Kanto era il suo
cimitero, e i suoi abitanti fingevano pubblicamente di andarne
orgogliosi, sebbene, in realtà, essi facessero di tutto per
ignorarlo.
La
Torre si levava fieramente verso il cielo, si stagliava verso il sole
e contro l'orizzonte, proiettava la sua lunga ombra su tutta la
città, eppure i suoi abitanti non ne parlavano mai
spontaneamente; e
se qualche straniero sollevava l'argomento, o se era inevitabile, ne
parlavano a voce alta, scherzosamente quasi, come di una sciocchezza,
e brevemente. Se qualcuno poi chiedeva dei vari misteri della Torre,
essi lo liquidavano ridendo apertamente, criticandolo per la
sciocchezza della sua domanda, e negavano tutto: no,
non c'erano morti viventi sulla Torre, rispondevano, né
strane
canzoni che, non suonate da nessuno, echeggiassero nelle vuote aule
silenti. Solo Pokémon, affermavano con sicurezza.
Pokémon morti? Ma
certo, morti. Era un cimitero, no?
Tuttavia,
calata la sera, tutti si chiudevano in casa, mettevano a letto i
figli, facevano rientrare i Pokémon, serravano bene le
porte. Perché
lo fate?,
chiedeva qualcuno. Ma
per i ladri, ovviamente; e poi, fa freddo qui, ai piedi dei monti,
vicino al mare. Non sente che vento freddo? Vada dentro anche lei. Ma
essi, nel profondo della loro intimità, sapevano bene
perché lo
facevano: c'era davvero una presenza nella Torre. E no, non era uno
strano, aggressivo zombie, e non c'era nessuna musica capace di far
impazzire chi la udisse. No, era ben altra la presenza che abitava la
Torre: era la risata che pareva echeggiare tra le alte volte buie,
quando calava il silenzio dopo un funerale; erano gli occhi che
parevano brillare, talora, nell'ombra nera... sì. Essi
sapevano che
c'era qualcuno, eppure mai lo avrebbero ammesso... neppure davanti a
se stessi.
Ammettere
che quella presenza potesse esistere, di più, soltanto
soffermarsi a
pensarvi avrebbe significato renderla reale, concreta, innegabile;
non avrebbero più potuto fingere che non esistesse,
avrebbero dovuto
affrontarla, accettarla. I loro figli non avrebbero più
accettato di
vivere lì le loro esistenze, sarebbero andati via, scappati;
nessun
turista sarebbe mai più venuto a onorare le tombe. Quale
vantaggio
poteva dunque derivarne? Finché la ignoravano, la presenza
li
lasciava in pace. Non avevano mai avuto problemi, dopotutto, e quella
Torre vegliava su Lavandonia da prima che i loro nonni, i loro
bisnonni vedessero la luce: perché disturbarla? Era quello
il tacito
accordo su cui riposava la placida Lavandonia: essi avevano paura, ma
non potevano ammetterlo senza ammettere che la presenza esisteva.
Nessuno poteva andare da
solo sulla
Torre. Il motivo dichiarato per questa regola era quello di evitare
atti di vandalismo nei confronti delle lapidi più antiche e
preziose, alcune delle quali erano lì da più di
un secolo. Anche i
funerali erano eventi pubblici, cui partecipava tutto il paese: si
svolgevano di giorno, con le grandi finestre spalancate per inondare
le aule di luce, ed erano accompagnati da alti, sonori canti
liturgici. Al termine, tutti andavano via in massa, parlando tra loro
ad alta voce delle virtù del defunto, facendo di tutto per
ignorare
l'inquietante sensazione di essere osservati. Le grandi porte
venivano poi chiuse dall'esterno, e la Torre sprofondava di nuovo nel
buio e nel silenzio.
Era questo dunque il
grande potere
della Torre su Lavandonia: la teneva avvinta, in modo tanto sottile
da non essere neppure ammissibile, colla paura di una presenza che
essi non volevano affatto accettare.
Egli viveva a Lavandonia da tutta
la
vita, e i suoi lunghi diciotto anni erano trascorsi all'ombra di
quell'alta Torre imperiosa; tuttavia, chissà come, egli non
ne aveva
paura. Non aveva neppure dubbi: egli era certo, certo come lo era
delle sue proprie mani, dell'esistenza di quella presenza, del suo
innegabile, tacito potere su Lavandonia. Sì, egli sapeva, ma
pareva
essere l'unico: nessuno mai in tutta la città, a quanto
ricordava,
gli aveva mai parlato della presenza, né tantomeno aveva
accettato
di rispondere alle sue domande, ai suoi dubbi. I suoi genitori
avevano ignorato le sue parole, o lo avevano messo a tacere con brevi
cenni del capo, proibendogli tassativamente di parlarne con alcuno.
Egli a malapena, molti anni prima, aveva trovato il coraggio per
chiederlo alla maestra: ma quella gli aveva risposto che a scuola si
parlava di fatti e non di leggende e lo aveva ammonito aggiungendo
che avrebbe dovuto riferire la sua domanda ai suoi genitori. Per
fortuna non lo aveva fatto, ma la minaccia era stata sufficiente a
farlo desistere.
Qualcosa dunque lo aveva
portato a
maturare la convinzione che non esisteva che un modo, uno soltanto
per conoscere quella terribile verità, se davvero lo voleva,
e che
non c'era nulla di più chiaro, di più lampante di
quella decisione
nella sua vita: solo la Torre conosceva la risposta. Ma come fare?
Senza che neppure se ne
accorgesse,
l'occasione gli capitò il giorno della morte di Seel. Seel
era
appartenuto a suo padre, ed era sopravvissuto per quasi cinque anni
dopo la sua morte; ma era un Pokémon vecchio e stanco,
sfiancato
dalle lunghe battaglie del passato, distrutto da un dolore che, con
le vecchie ferite, non aveva nulla a che fare, e aveva per di
più
quarantasette anni. Seel era malato ormai da mesi, e sua madre
l'aveva curato, ma con gesti fiacchi e stanchi, con gli occhi tristi,
e al suo sguardo vacuo Seel aveva risposto con quieta rassegnazione,
come se nessuno dei due nutrisse ormai più nessuna speranza
sulla
sua guarigione, e sulla sua malattia avessero ormai raggiunto un
tacito accordo. Egli aveva assistito alla sua malattia dall'uscio
della porta, quasi senza avvicinarsi: voleva bene a Seel, ma anche
lui, come sua madre, aveva capito che bisognava lasciarlo andare; che
c'era qualcosa, molto più forte delle loro cure, che lo
stava
lentamente portando via da ciascuna delle loro vite e lo stava
conducendo, inevitabilmente, da suo padre. Questo però la
sua
sorellina non l'aveva capito: si era aggrappata alla vita di Seel
come a quella di suo padre stesso, come se il povero Pokémon
fosse
rimasto l'ultimo segno visibile del passaggio di quell'uomo sulla
loro Terra. Andava e veniva dalla spiaggia, portando grandi secchi di
acqua di mare, anche se sua madre aveva detto che bastava quella del
rubinetto per riempire la grande vasca dove avevano messo Seel a
bagnarsi; faceva questo nella speranza che il sale, il profumo del
mare lo facessero guarire. Ma a dispetto degli sforzi della bambina,
dell'acqua di mare, del suo profumo, lentamente Seel morì. E
anche
se trascorse molte ore a consolare il pianto interminabile della
sorellina, egli sapeva di condividere con sua madre la stessa
sensazione di sollievo a quella morte: entrambi sapevano che Seel
aveva ormai smesso di soffrire e soprattutto, cosa ben più
importante, più profonda e più difficile da
spiegare, entrambi
speravano che avesse ritrovato, in qualche regione molto lontana
dello spazio, il suo allenatore.
Anche il funerale di Seel
si svolse
come al solito: nelle aule cupe e inondate di luce, con alti canti
nasali che vibravano elevandosi su, su, verso le volte ricurve. Era
stato altre volte, certo, nella Torre Pokémon, eppure quella
volta
egli si sentì molto profondamente distante da quegli uomini
accanto
a lui, distante come mai gli era capitato dal regno dei vivi. In
qualche modo, egli si sentì vicino, vicinissimo a Seel,
quasi nella
stessa sua tomba inghirlandata di anemoni. Si guardava furiosamente
attorno, e si trovava a pensare che molti di loro non erano venuti
neppure al funerale di suo padre. Ma chi sono queste persone?
Non
dovrebbero essere al funerale di Seel! Seel era di mio padre! Non lo
conoscevano neppure. Vengono solo per dimostrare a se stessi che la
presenza non esiste! Che non c'è pericolo, qui, e che
è pieno solo
di tombe. Vengono solo perché hanno paura, e questo
è il solo modo
per esorcizzarla: far finta che questo non sia che un cimitero come
tanti altri, e che nessuna presenza vi vegli mai..."
E poi, d'improvviso, quel
fatto gli
parve chiaro, evidente, terribile. Come aveva potuto non pensarvi
prima? Stavano per lasciare Seel solo con quella terribile presenza!
Povero, affettuoso Seel! Non era forse una crudeltà quella?
Seel non
avrebbe potuto difendersi! E poi, e poi... sì! S'egli solo
avesse
avuto il coraggio di restar lì, di nascondersi, di rimanere
a far
compagnia al povero vecchio amico di suo padre, egli finalmente
avrebbe potuto...
Rimuginando su queste
cose, gli fu
naturale, mentre tutti al tramonto abbandonavano le lugubri stanze,
lasciare di soppiatto il fianco di sua madre e la mano della
sorellina; ritrarsi lentamente, nervosamente lungo i tetri corridoi;
e poi, quando non riuscì a scorgere dei suoi concittadini
che le
spalle, allora correre su, per le stanze vuote, per le scale
sporche...
Rimase a lungo a guardare
la folla
dalle finestre della sala. Sapeva che sua madre doveva già
essersi
accorta della sua mancanza e che probabilmente, inquieta, si guardava
attorno attardandosi sulla strada di casa, domandando a qualcuno se
l'aveva visto; che probabilmente tentava d'illudersi che fosse andato
a passeggio sulla riva del mare, pensando a Seel... pensò
che la sua
sorellina doveva aver ripreso a piangere. Stava facendo la cosa
giusta? Era giusto infliggere loro ancora un dolore, solo per temer
compagnia al povero Seel nella sua prima notte in quel luogo?
Dopotutto, pensò, il giorno dopo sarebbe tornato a casa, le
avrebbe
rassicurate, avrebbe giurato di essersi perso. Certo, sua madre non
gli avrebbe creduto, lo avrebbe punito; ma in una settimana tutto
sarebbe tornato a posto, come se nulla fosse successo. Seel, invece,
avrebbe dovuto restar lì per sempre. E poi, e poi,
quell'entità...
A quel pensiero tutta la
sua
convinzione svanì: il sole stava calando e grige ombre
livide già
si stendevano dalle alte finestre sul pavimento della sala...
Balzò
in piedi e volò giù lungo le scale e le aule
silenti, echeggianti i
suoi passi... mai, mai quella Torre gli era parsa tanto immensa e
silenziosa! Ma quando raggiunse il pesante portone, esso era chiuso.
Era la regola della
Torre: dal
tramonto all'alba nessuno poteva per nessun motivo aprire i portali.
Sapeva che sua madre sarebbe andata dal sindaco, avrebbe insistito,
avrebbe chiamato... ma che tutti avrebbero fatto finta di non potere,
di dover chiedere il permesso a qualcuno, di dover... avrebbero
procrastinato fino all'alba e nel frattempo l'avrebbero rassicurata
con mezze parole, dicendole che, dopotutto, non c'era alcun reale
pericolo in quella Torre, che una notte fuori casa non aveva mai
ucciso nessuno, e che, in fondo, i ragazzi devono imparare a
comportarsi! Sì sentì d'un tratto molto
più piccolo dei suoi
diciotto anni, e in effetti, pensò amaramente, non si era
comportato
proprio da adulto, rimanendo a nascondersi là dentro. Gli
parve di
udire la nitida voce di sua madre chiamare aldilà del
portone- ma
era troppo tardi per raggiungerla. Se doveva passar la notte
là
dentro, pensò allontanandosi dal portone, bisognava che si
trovasse
un posto per dormire.
Ma posti per dormire non ce
n'erano.
Si ritrovò disteso contro la lapide di Seel, avvolto nel suo
magro
giubbotto di pelle nera, cogli occhi infissi e spalancati nel buio.
La presenza! La presenza... oh, povero Seel, dover trascorrere qui
tutte le tue notti a venire! Egli giaceva disteso contro la dura
lapide, accarezzando talora con la mano la fredda pietra tombale.
Era salito
lassù progettando di
dormire, ma appena il sole era calato del tutto, e la stanza era
sprofondata in un buio impenetrabile agli occhi, si era scoperto
troppo spaventato per dormire troppo, sfortunatamente, anche per
ridiscendere e tornare al portone: certo, anche lì sarebbe
stato
immerso nel buio, ma almeno non sarebbe stato circondato da tutte
quelle tombe... gli dispiaceva per Seel, ma tutto il suo coraggio non
gli era tornato, e anzi se possibile era ancor più
diminuito, ed
egli ora non desiderava altro che trovarsi nel suo letto, anche farsi
punire da sua madre, se necessario, ma tornare a casa.
Non avrebbe saputo dire
quanto tempo
aveva trascorso dentro l'immensa aula vuota, prima di cominciare a
udire i rumori.
Dapprima furono tanto
lievi e
lontani ch'egli credette di averli immaginati, o quanto meno
riuscì
a convincersene; ma la sua convinzione non durò a lungo. A
poco a
poco i suoni aumentarono d'intensità, si fecero vicini,
vicini,
vicini! E finalmente egli seppe di non essere solo.
Si rese conto
d'improvviso che il
suo corpo era rigido, contratto, paralizzato dal terrore e dal freddo
contro la tomba. Balzò dolorosamente in piedi, sentendo quei
suoni,
quelle presenze molteplici intorno a lui; cercò di guardarsi
intorno
nel buio, ma non scorse altro che ciò che aveva a malapena
intravisto fino ad allora, le scure sagome delle lapidi che lo
circondavano. Ansimava pesantemente. Eppure egli era certo di non
essere solo e che molte fossero le presenze in quel momento con lui!
Quei suoni che gli erano
parsi
finora indistinti erano ora vicinissimi a lui, addosso a lui, e
distingueva come stridule risate acute, che si accavallavano col suo
respiro affannoso e pesante, irregolare... E poi, come se l'avesse
sempre saputo e solo in quel momento lo ricordasse, egli
capì che
venivano a prendere l'anima di Seel, forse per renderla simile a
loro... Si lanciò davanti alla lunga lastra tombale che
giaceva al
suolo e fece la sola cosa che gli parve sensata, possibile:
agitò le
braccia sopra il capo, gridando: "Via, via! Andate via! Io, io
lo so che esistete! Non ho paura di voi! Lasciatelo in pace!".
Calò subito un
silenzio terribile,
più grave ancora di quello che aveva preceduto l'arrivo
delle
presenze, ed egli capì che solo in quel momento, quando
aveva
parlato, le presenze si erano accorte di lui e che ora lo stavano
scrutando, studiando: egli doveva essere il primo essere umano a
introdursi in quel luogo dopo il calar del sole dalla fondazione
della Torre...
Quello che accadde in
seguito fu
troppo rapido perché egli realmente potesse comprenderlo, ma
un
grande gelo improvviso afferrò le sue membra e sui suoi
occhi cadde
un velo più impenetrabile del buio e la sua mente
abbandonò il suo
corpo inerme.
Un nome? Ne aveva dunque egli
uno?
Ma per quanto tentasse di ricordare, per quanto frugasse nei recessi
della sua mente, egli non vedeva altro che un vuoto incolmabile,
un'oscurità insondabile. Nel suo passato non sembrava
esserci stato
altro che quel buio, per tutta la sua vita, e la prima sensazione di
cui avesse ricordo era quella del suo corpo nudo, freddo, su quella
superficie, e di quelle ombre che lo scrutavano.
"Non lo so" gemette,
scuotendo forsennatamente il capo e strattonando con ogni muscolo del
proprio corpo: perché era lì legato? Se mai ne
aveva saputo il
motivo, non lo ricordava. "Non ce l'ho, un nome! Ora vi prego,
aiutatemi. Voglio andare a casa!"
"Dov'è la tua
casa?"
chiese nervosamente la voce. Sembrava una domanda importante. E di
nuovo quella domanda cadde nel vuoto della sua mente: all'improvviso
si accorse che non c'era nessuna casa nella sua memoria.
Come da una profonda,
irreparabile
distanza egli udì la propria voce spezzata dire lentamente:
"Non
lo so più." Avrebbe voluto non averlo mai detto. Eppure era
certo che una casa ci fosse stata, un tempo, tanto spontaneamente,
naturalmente aveva asserito di volerci tornare.
Alle sue parole rispose
come un
grido di giubilo: le ombre che percepiva ai margini del suo campo
visivo gioivano, esultavano forse perché egli non ricordava?
Ma
quando la stessa voce parlò, tutte le altre fecero silenzio.
"Hai solo immaginato di
esser
legato. Hai solo immaginato le nostre voci. Ora alzati e vattene."
Ma che sciocchezze andava
dicendo?
Certo che era legato. O forse no? Egli mosse timidamente gli arti,
sentendosi profondamente stupido, e meravigliato si accorse che era
vero: poteva allungare e ritrarre le braccia, sollevare le gambe. Ma
com'era possibile?
Dopo lunghi momenti di
esitazione,
si sollevò in piedi sulle gambe nude e tremanti. In quel
momento,
finalmente in piedi, egli ebbe modo di vedere chiaramente per un
attimo, in quella bianca luce cui i suoi occhi si erano a poco a poco
abituati, le ombre di quelle presenze, prima che si ritraessero
fuggendo furiosamente dalla stanza ... le ombre, le ombre, come neri
fantasmi ghignanti, che si ritraevano lungo le pareti... ombre? Ma
dov'erano i corpi che si era aspettato di vedere?
D'improvviso egli
comprese ed emise
un terribile grido, prima di sprofondare nuovamente nel buio.
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Capitolo 3 *** Meowth. ***
Buongiorno
a tutti!
Come
vedete, ho deciso di postare molto presto il capitolo conclusivo;
questo perché ho altri progetti dei quali devo occuparmi, in
primis
la conclusione di Paternità,
e perché comunque, essendo la storia conclusa, non aveva
senso
tirarla per le lunghe. Desidero molto ringraziarvi anche solo per
averla aperta; in particolar modo, i miei più sentiti
ringraziamenti
vanno a Andy Black e a cristal_93 per le loro cortesissime
recensioni.
Vi
lascio alla lettura; spero che questo ultimo capitoletto possa
chiarire ogni cosa. In ogni caso, in fondo al testo metterò
una
piccola noticina per eliminare ogni dubbio. Detto questo, buona
lettura a tutti!
Afaneia
Lo trovarono seduto
vicino alla tomba di Seel, cogli occhi vacui e assorti, completamente
nudo, con la pelle irrigidita, illividita dal freddo. Ma quando lo
scossero, lo agitarono, lo chiamarono, egli neppure mosse gli occhi,
eppure non era cieco, né sordo: semplicemente, sembrava
instupidito.
Sua
madre urlò, pianse
di gioia al vederlo, ma egli neppure volse lo sguardo su di lei. La
donna non si perse d'animo: lo portò a casa, avvolto in una
coperta,
lo lavò con vigore, lo fece sedere in giardino; rimase
seduta al suo
fianco, tenendogli la mano, parlandogli con voce chiara e calma,
invogliando la sua sorellina a fare lo stesso; a sera lo
portò in
camera sua, lo mise a letto, appoggiò sulle coperte vari
pupazzi e
vecchi giocattoli, sperando che la loro memoria lo stimolasse. Lo
stesso, instancabilmente, continuò a fare ogni singolo
giorno per
settimane, muovendolo, lavandolo, vestendolo come fosse paralizzato,
parlandogli, leggendogli storie come se ancora fosse un bambino
piccolo. Sua sorella sedeva ai suoi piedi, giocando con lui per
quanto la sua immobilità lo permetteva: gli appoggiava dei
bambolotti sulle ginocchia, fingendo che fosse lui a dar loro la
voce, e talora si arrabbiava perché non proprio non riusciva
a
convincerlo a partecipare; ma egli a malapena muoveva gli occhi a
seguire i suoi giochi.
Sua
madre giunse a
spingersi lungo il percorso 8 per catturargli un Pokémon,
sperando
che una creatura capace di dedicargli affetto e attenzioni potesse
riscuoterlo. Tornò a casa un giorno con un Meowth
dall'aspetto
fragile e malaticcio, e lo portò in camera sua dicendo con
voce alta
e chiara: "Ti ho portato un Pokémon molto debole. Ho pensato
che potresti prendertene cura tu."
Ma
per vari giorni egli
continuò a rimanere immobile e apatico, scrutando con occhi
spenti
la creatura che si aggirava, per la camera o il giardino, o dormiva
in fondo al suo letto o persino sulle sue ginocchia. Sua madre lo
stimolava, lo invogliava, gli ripeteva di occuparsi lui stesso del
Meowth, ma a nulla serviva: la sua mente sembrava irrimediabilmente
compromessa.
In
qualche modo fu proprio quel Meowth a salvarlo. Il Pokémon
gli si
avvicinava ogni giorno di più, cominciava a giocare con le
sue dita,
a inseguire i suoi piedi sotto le coperte; quando sua madre lo
conduceva in giardino, il Meowth lo seguiva, dormiva sulle sue
ginocchia, leccava la sua mano. Un giorno, finalmente, dopo aver
vagato a lungo per il giardino, tornò da lui trotterellando
e gli
depose qualcosa di caldo in grembo. Egli chinò un momento lo
sguardo, come obbedendo a un istintivo impulso, e d'un tratto lo
colse un senso profondo di orrore e disgusto: forse pensando di
portargli un regalo gradito, Meowth gli aveva deposto in grembo un
topolino morto! Reagendo d'istinto, egli cacciò un grido
disgustato
e balzando in piedi gettò sul prato il topolino e
gridò a Meowth:
"Non farlo mai più!". Poi, come se quel suo slancio vitale
avesse esaurito tutta la sua forza, egli ricadde pesantemente sulla
sedia e rimase immobile e pensieroso.
Sua
madre aveva udito il suo grido ed era accorsa, e ora ristava immobile
sulla soglia di casa, a guardarlo con occhi pieni di lacrime. Era la
prima volta ch'egli si riscuoteva da quella sua terribile paralisi.
"Oh,
Sakaki!" esclamò con voce spezzata. Alla
sua voce egli
si riscosse e alzò su di lei gli scuri occhi cupi. Poi, dopo
un
momento, domandò: "Chi è Sakaki?"
La
sua domanda cadde come un fulmine tra loro: una luce terribile, una
luce di angoscia e comprensione, si accese negli occhi di sua madre.
La donna lo fissò come fissando uno sconosciuto,
aprì la bocca, poi
la richiuse. Infine, avanzò lentamente e andò a
inginocchiarsi
accanto a lui, prendendo la sua mano. Il suo petto si muoveva
affannosamente, ed ella a fatica riuscì a parlargli.
"Sei
tu Sakaki" mormorò infine. E, con sforzo ancora maggiore,
soggiunse: "Vuoi forse dirmi che non te lo ricordi?"
Egli
tacque lungamente. Poi, scuotendo il capo, rispose: "No. Tu sei
mia madre?"
Ma
la donna emise solo un singhiozzo disperato, angustiato, e lentamente
reclinò il capo sulle sue ginocchia. Gli occorsero lunghi
secondi
per comprendere che, facendole quella domanda, le aveva dato un
grande dolore.
"Mi
dispiace" disse, e realmente provò una fitta di rimorso
guardandola piangere. Incerto, confuso sul da farsi,
appoggiò una
mano sui suoi capelli; balbettò: "Sento, percepisco che sei
mia
madre, che questa è la mia casa, quella è mia
sorella, ma... non ci
riesco. Mi dispiace tanto" soggiunse, e gli dispiaceva ancor
più
per il fatto stesso che percepiva il suo pianto come se fosse quello
di un'estranea, non di sua madre. "Non ricordo nulla, non...
tutto è nuovo per me. Vorrei ricordarmi di voi, di me" disse
con voce tremante, e l'avrebbe voluto davvero, vedendo tutto l'amore
che quella donna, quella bambina provavano per lui. Ma poi non seppe
più cosa dire, e tacque.
Finalmente
la donna si riprese un poco, si asciugò gli occhi, rimase in
silenzio. Fissando i suoi cupi occhi muti egli, Sakaki, se questo era
il suo nome, trovò il coraggio di chiedere: "Mio padre...
non
c'è?"
Temette
per un attimo che la donna avrebbe ripreso a piangere e si
pentì
subito di averle posto quella domanda, ma ella rimase ostinatamente,
rigidamente immobile e disse lentamente: "Tuo padre è morto
da
più di quattro anni."
Sakaki
non seppe bene come accogliere questa notizia e rimase immobile,
pensieroso. Non ricordava nulla di suo padre, per lui avrebbe potuto
non essere esistito mai: ma proprio questo gli causò un
grande
dolore.
Sua
madre si alzò finalmente dal suo fianco, traendo un sospiro
profondo
e dolcemente appoggiò una fresca mano sul suo volto; egli
percepì
un caro tocco materno e affettuoso, e provò un terribile
senso di
colpa all'idea di essersi scordato di lei.
Quando
parlò, la sua voce sembrava profondamente spezzata, eppure
carica di
speranza e di quiete. "Va tutto bene" disse dolcemente.
"Non importa. Chiameremo il medico. Faremo qualunque cosa per
te, Sakaki, mio caro tesoro... ma per favore, nel frattempo"
soggiunse, e la tonalità della sua voce gli fece intuire che
questa
postilla era molto importante "ti prego, non farlo ancora capire
a tua sorella."
Quella
sera, Sakaki tornò da solo in camera sua, senza l'aiuto di
nessuno,
e da solo si cambiò, ma non si mise subito a letto. Sentiva
sua
sorella, nell'altra stanza, insistere con sua madre perché
la
lasciasse andare in camera sua; ma la donna, irremovibilmente, la
tratteneva ripetendole: "Tuo fratello è stanco. Lascialo
stare.
Ci sarà tempo domani per giocare."
Gli
pareva di essersi risvegliato quel giorno da un sonno incredibilmente
lungo, e ora non aveva voglia di andare a dormire. Cominciò
ad
aggirarsi per la camera, senza scopo, e si soffermò davanti
all'ampio cassettone nell'angolo della stanza, dove lo attiravano
alcune foto incorniciate, vagamente impolverate, sorridenti.
Sì:
lui, sua madre, sua sorella... era quello suo padre? Rimase a lungo a
fissare quella foto, il suo volto spigoloso e virile, i suoi neri
occhi sorridenti; nella foto, suo padre era alle sue spalle, entrambi
chini su una torta di compleanno con dieci candeline. Assomigliava
molto a suo padre, pensò: quanto avrebbe voluto ricordarsi
di lui!
Era stato un uomo affettuoso, severo, irascibile, pigro, sportivo,
silenzioso? Sentì una fitta di rimpianto a quel pensiero, il
pensiero non solo d'aver perduto suo padre, ma soprattutto di averlo
dimenticato. Anche la sua sorellina era orfana come lo era lui; ma a
lui, quelle identità che vedeva vagamente riemergere dalla
nebbia
della sua memoria, avevano strappato i soli ricordi che mai avrebbe
potuto avere di suo padre... e non solo. Era dunque quello che doveva
scontare per qualche peccato che aveva commesso? Perdere tutto, il
suo passato, la sua stessa identità... non avrebbe mai
ritrovato suo
padre, pensò dolorosamente, strappandosi bruscamente da
quella foto;
si sentiva gli occhi bruciare. Ah, ma egli sapeva a chi doveva tutto
ciò! Egli ricordava, come primissima memoria nella sua
mente, ciò
che quelle presenze gli avevano fatto...
Udì
un ticchettio sonoro proveniente dalla finestra: quando si
voltò,
scorse il suo Meowth che graffiava il vetro per farsi aprire. Povera
creatura! pensò lanciandosi ad aprire la finestra
per farlo
entrare: doveva essere scappato quando lui gli aveva urlato quel
pomeriggio in giardino, ed egli insensibilmente se n'era scordato...
"Vieni
dentro, caro" mormorò. "Ti ringrazio per l'aiuto che mi
hai dato oggi. Perdonami: non avrei dovuto urlarti contro. Oggi mi
hai aiutato a riprendermi, e io mi prenderò cura di te,
d'ora in
poi..." Accarezzò il suo morbido capo peloso, e la creatura
fece le fusa e cominciò a pulirsi il pelo.
Sakaki
riprese le sue riflessioni: era ancora davanti alla finestra aperta e
la brezza accarezzava il suo volto già di giovane uomo.
Sì: egli
sapeva chi gli aveva tolto la memoria, chi lo aveva privato l'unico
ricordo che mai avrebbe potuto avere di suo padre... chi, per finire,
gli aveva rubato il suo nome, la sua identità, sottraendolo
a se
stesso! Erano state quelle presenze che lui aveva percepito nello
svegliarsi al buio in quella stanza, quegli spettri che aveva visto
chiaramente ridere di lui! Sì, egli sapeva che essi avevano
tentato
d'ingannarlo per mantenere il segreto sulla loro identità,
sul
potere con cui tenevano avvinta la città... Essi avevano
voluto
fargli credere di essere sue allucinazioni, ma avevano fallito: egli
ricordava quel loro aspetto di spettri; sapeva che avevano un potere
tanto grande da fargli scordare persino il suo nome...
Le
sue dita strinsero spasmodicamente il davanzale della finestra, le
nocche illividirono: ebbene! poiché essi per impedirgli di
scoprire
la loro identità gli avevano sottratto il suo nome, egli per
vendetta avrebbe scoperto il loro! A qualunque costo egli avrebbe
dato loro un corpo fisico, un corpo su cui potersi vendicare,
poiché
da spettri era per lui impossibile agire su di loro: ma come
miserabili, impotenti Pokémon mortali li avrebbe catturati,
avvinti
come essi avevano avvinto lui! Avrebbe svelato, mostrato a tutti le
presenze di quella Torre, che volevano restar nascoste!
Avrebbe
avuto bisogno di qualche cosa, certo, di un qualche strumento,
probabilmente di molto aiuto, ma non avrebbe desistito, a costo di
impiegare anni. La sua mente lavorava già meccanicamente,
incessantemente su quel progetto, che di tutta la sua vita era la
sola cosa che gli fosse rimasta. Accarezzò pensierosamente
il capo
di Meowth, sentendosi il petto pieno di eccitazione e ambizione, del
desiderio grande della sua vendetta, continuando a meditare: si
sentiva preso da un'emozione folle, avida, ambiziosa. Gli sarebbe
occorso uno strumento capace di mostrargli il vero volto di quelle
creature, la loro vera identità... un oggetto che lo
aiutasse a
sondare quei corpi ectoplasmatici, impalpabili, quegli spettri...
Sì...!
egli aveva bisogno di una Spettrosonda!
Nota
dell'autrice: come forse alcuni di voi già
sanno, Sakaki è il nome
giapponese di Giovanni. Ho scelto di utilizzare il nome giapponese
per differenziare questa versione di Giovanni da quella che compare
nella mia Saga
della Prescelta
Creatura, in quanto questa storia non fa
riferimento a
quella serie.
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