When Love arrives in the dark

di Anna Wanderer Love
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dolore ***
Capitolo 2: *** Un brutto guaio ***
Capitolo 3: *** Non smetti mai di parlare? ***
Capitolo 4: *** Non è vero ***
Capitolo 5: *** Infatuazioni ***
Capitolo 6: *** Perdono? ***
Capitolo 7: *** Leave ***
Capitolo 8: *** A New Beginning ***
Capitolo 9: *** I must go ***
Capitolo 10: *** When I'll repay you ***



Capitolo 1
*** Dolore ***


When Love arrives in the dark


( immagine di Ashqtara su Deviantart )


Il respiro usciva dalla mia bocca in rantoli spezzati. Ero piegata in due, mi mordevo la lingua così forte che sentivo in bocca il sapore ferroso del sangue.

- Jemima! - la voce di Natasha mi arrivò lontana, alle orecchie.

- Nat - la voce uscì dalla mia gola in un sussurro. La gamba pulsava e sentivo il sangue colare lungo la coscia, inzuppando il tessuto dei pantaloni. I passi rimbombavano tra le macerie dell’edificio, ma quando guardai in alto non furono gli occhi di Nat che vidi.

- No - la mia mano scattò a cercare la pistola, che avevo lasciato cadere quando mi era crollata la colonna addosso. Le mie dita l’avevano sfiorata quando lui la calciò via, torreggiando su di me. I suoi occhi erano frammenti di ghiaccio, freddo, impassibile, senza vita. Ma c’era una scintilla di curiosità in quelle iridi spente.

Si chinò, inginocchiandosi. Lo guardavo con le lacrime agli occhi e la bocca piena di sangue, ma ero determinata a non cedere. Non capivo nemmeno perché non mi avesse ancora uccisa, a dir la verità.

Il suo sguardo si spostò sulla mia gamba, intrappolata sotto a pezzi di cemento.

Con uno scatto si spostò vicino alla mia anca e sollevò un piccolo masso. Il sollievo che provai nel sentire quel peso non gravare più sulla mia carne fu quasi violento, ma prima che potessi muovermi o trascinarmi via da quella trappola un palo di ferro rovinò sulla gamba.

Urlai con tutto il fiato che avevo, mentre il dolore esplodeva nella mia mente.

L’ultima cosa che vidi prima di svenire fu il bagliore del suo braccio metallico.
 

Un anno e due mesi dopo.


Mi svegliai sudata, tremando incontrollabilmente.  Avevo sognato di nuovo quella notte, la notte in cui l’avevo visto per la prima e ultima volta.

Mi passai una mano tra i capelli, raccogliendoli in una coda spettinata per evitare che si appiccicassero al collo. Gettai un’occhiata alla sveglia sul comodino. Le lettere fosforescenti segnavano le sei e sedici minuti.

Sbuffai, scostando le lenzuola blu notte e massaggiandomi le tempie. Il mio sguardo cadde sulla gamba destra. La cicatrice era sempre lì, orribile, di un rosa più chiaro rispetto alla pelle. Era lunga circa una spanna e mezzo, grossa e dritta, che mi attraversava la coscia zigzagando in verticale.

Quando ero rinvenuta in ospedale, con i medici che dicevano che avrei anche potuto rimanere paralizzata, Natasha mi aveva detto che mi avevano ritrovato un paio di metri lontana dalle macerie. Ero arrivata a una conclusione: era stato lui a tirarmi fuori di lì. Ma perché, se poche ore prima aveva cercato di uccidermi?

Avevo fatto credere a tutti che ero riuscita a strisciare fuori dalle macerie da sola, ma ogni volta che lo ripetevo nessuno sembrava convincersi più di tanto.

Mia mamma e mia sorella non sapevano nemmeno che lavorassi come agente dello S.H.I.E.L.D. perciò avevo fatto credere loro di aver avuto un incidente con la macchina. Ma ogni volta che qualcuno sfiorava quell’argomento mi affrettavo a cambiare discorso, evitandolo come la peste.

Dopo i tre mesi passati in ospedale, in riabilitazione, in cui ero riuscita a camminare dopo duri sforzi, ero tornata a casa e avevo dato le dimissioni come agente. Natasha era l’unica con cui avevo mantenuto i contatti e che veniva a trovarmi sporadicamente, quando non era impegnata a salvare la pelle al mondo da tutti e tutto.

Mi morsi il labbro, prendendo un respiro profondo. La cicatrice pulsava, i muscoli della gamba erano contratti. Succedeva ogni volta che facevo quell’incubo.

Non era un incubo... semplicemente ricordavo cos’era successo quella notte. Ma ogni volta era come se fossi di nuovo lì, tra le macerie, sanguinante e dolorante, con la disperazione che prendeva lentamente il posto del sangue.

Appoggiai le mani sulla coscia e cominciai a massaggiare lentamente i muscoli. Odiavo quelle notti.

Quando finalmente riuscii a rilassarmi, mi alzai, stando attenta a non caricare il peso sulla gamba. Con un sospiro mi diressi in cucina per fare colazione, ricordandomi di dover andare al lavoro.

Fare la cameriera non procurava l’adrenalina di essere un'agente dello S.H.I.E.L.D, ma se volevi startene tranquilla senza altro da fare che dover servire alcolici e cercare di sventare gli attacchi del tuo capo al tuo fondoschiena... be’, era esattamente il lavoro che faceva per te.

Mi vestii, dopo una breve colazione -latte e una fetta di torta al cioccolato... già, avevo messo su un paio di chili da quando non dovevo più saltare e sparare a destra e manca.

La divisa del bar-ristorante era semplice e molto libera: potevi metterti qualunque cosa, bastava che indossassi il grembiule nero con la scritta bianca stampata sul petto DANTE’S.

Afferrai il sacchetto con il grembiule, indossai gli stivali e il giubbetto beige e uscii di casa, ancora assonnata e frastornata.


Quando entrai nel bar una folata di aria calda e umida mi investì. Chiusi la porta di vetro dietro di me. Il bar era completamente vuoto, le sedie erano ancora sistemate sopra ai tavoli, ma se era aperto allora Dante non doveva essere molto lontano. Probabilmente stava facendo esperimenti in cucina. Come sempre.

- Sono qui! - gridai verso la cucina, andando dietro al bancone e indossando il grembiule.

Dante apparì da dietro l’arco che faceva da passaggio in cucina. Mi sorrise. Era un ometto piccolo, con folti capelli neri sempre spettinati e sempre entusiasta di tutto e tutti.

- Tesoro! - esclamò ammiccando, mentre osservavo rassegnata le macchie di olio e verdure sulla sua divisa da chef.

- Ciao - mormorai abbozzando un sorriso stentato.

Il suo sorriso si appannò, mentre aggrottava le sopracciglia e mi fissava imbronciato.

- Ahimé, mon chéri! Che hai fatto? Quella faccia non va bene, nonono! I clienti scapperanno! Sorridi un peu - mi rimproverò col suo accento francese, mentre tornava in cucina e spadellava con fragore.

Mi lasciai scappare una risatina, mentre un frastuono di pentole che cadevano riempiva il bar. Un “ahi” piuttosto forte spazzò via l’ultima traccia di tristezza.

I primi clienti arrivarono dopo una quarantina di minuti. Era sabato mattina, perciò c’era più gente del solito, ma riuscii a cavarmela... finché non arrivò mezzogiorno. L’ora di pranzo era quella più odiata da chiunque lavorasse in un bar o in un ristorante. I clienti aumentavano, le ordinazioni si confondevano, tutti diventavano irascibili e di fretta.

- Jemima! Vai a prendere le ordinazioni al tavolo sei - gridò Louis da dietro il bancone.

Feci un cenno distratto con la mano, sorridendo alla coppia a cui stavo chiedendo le ordinazioni. La ragazza era tremendamente indecisa e continuava a cambiare opinione; come tutte le volte che mi ritrovavo in quella situazione provavo un feroce istinto che mi diceva di prendere la pistola e puntargliela alla testa per risolvere il problema, ma mi limitai a sorridere e a scappare prima ancora che potesse cambiare di nuovo idea.

Finalmente, dopo mille interminabili giri tra la cucina e la sala da pranzo, i clienti diminuirono e finì il mio turno. Sospirai di sollievo, mentre mi slegavo il grembiule e lo infilavo nel sacchetto. Mi sciolsi i capelli dalla coda di cavallo e salutai Louis, Dante e gli altri tre camerieri/aiuto cuochi prima di dirigermi verso l’uscita, schivando i tavoli e le persone che chiacchieravano allegre.

Non vedevo l’ora di uscire; quel lavoro mi piaceva abbastanza, ma alla lunga mi stufavo. Niente a che fare con l’essere agente...

Mentre uscivo urtai una spalla di un uomo che stava entrando proprio i quel momento.

Feci una smorfia di dolore, portandomi la mano al braccio, colpito dal suo gomito, ma lui era ormai sparito nella calca del bar.

Alzai gli occhi al cielo, borbottando contro la maleducazione di certe persone, e uscii.

Lasciandomi alle spalle il calore del locale mi sembrò anche di lasciare indietro uno sguardo puntato sulla mia schiena, ma quando mi voltai per controllare non c’era nessuno che mi stava guardando al di là della vetrata.

Stringendomi nelle spalle mi voltai e cominciai a camminare, diretta verso casa.


Fu una settimana stressante, non solo perché cominciai ad avere incubi ogni notte, ma anche perché sentivo che c’era qualcosa che non andava.

Certo, era da un anno o poco più che non prendevo in mano una pistola, ma di sicuro mi sentivo più sicura se ne avevo una a portata di mano; perciò presi l’abitudine di dormire con la mia Beretta sul comodino.

Mi sentivo osservata, soprattutto al lavoro o quando ero a casa, perciò iniziai a restare in giro per la città fino a tarda sera. Quando rientravo avevo a malapena la forza di mangiare qualcosa e ficcarmi sotto alle coperte, temendo di fare il solito incubo, cosa che puntualmente si avverava.

Giovedì notte però mi svegliai in silenzio. Gettai un’occhiata al comodino, restando immobile e continuando a respirare profondamente. Erano le due e trenta.

Sospirai, ma quando feci per chiudere gli occhi vidi un’ombra muoversi sul pavimento, e mi immobilizzai, mentre il respiro mi si bloccava. L’ombra si fermò all’istante, ma quando non mi mossi allora la vidi spostarsi lentamente verso destra.

Chiusi gli occhi.

Qualcuno mi stava spiando dalla finestra.

Avevo due possibilità: stare ferma e aspettare che lui o lei facesse la sua mossa, o afferrare la pistola e cominciare a sparare. Non ero mai stata un tipo molto paziente, perciò decisi all’istante.

Con uno scatto mi allungai verso il comodino, afferrando la Beretta, e mi voltai di scatto.

Sparai due colpi e il vetro della finestra andò in frantumi. Grazie a Dio l’appartamento era al primo piano.

L’ombra però fu più rapida di me: si abbassò e prima che potessi fare qualsiasi cosa saltò dentro alla stanza con un balzo agile. Atterrò sul letto, e schizzai in avanti, provando a colpirlo -era un uomo, era troppo muscoloso e alto per essere una donna- ma lui mi afferrò il braccio con una presa ferrea.

Gridai dal dolore, mentre mi torceva il braccio e le mie dita si aprivano, lasciando che la pistola cadesse sul letto. Mi dimenai, mentre la mia mente registrava un dettaglio che all’improvviso mi fece fermare del tutto, mentre il cuore mi balzava in gola.

Le dita che mi stringevano il braccio -e non poi così forte- erano troppo fredde e dure per essere fatte di carne.

- Ferma - sibilò la sua voce roca, mentre si chinava verso di me. - Non voglio farti male.

Approfittai di quella vicinanza. Gli diedi una testata che gli fece perdere la presa.

Gemette, mentre io correvo via dalla stanza, terrorizzata a morte. La cicatrice pulsava e sembrava che le mie gambe fossero fatte di gelatina.

Mi ritrovai in cucina, con lui alle calcagna. Afferrai il coltello che avevo usato per affettare il pane quella mattina, e girandomi lo lanciai mirando alla sua testa. Si spostò, e la lama si conficcò nello stipite della porta.

Il suo volto non era più in ombra, così ebbi la possibilità di vederlo per la prima volta, dato che quella sera di un anno prima non ci ero riuscita: due occhi scuri mi fissavano freddi, ma pieni di... qualcosa di indefinito, un misto tra odio, ammirazione e confusione. I capelli, marroni e lunghi, gli circondavano un volto che trasudava freddezza da ogni piega del viso, freddo ma pieno di perplessità. Un accenno di barba gli colorava le guance. L’avrei trovato carino, se non fosse stata la stessa persona che aveva cercato di ammazzarmi due volte.

Fece un passo in avanti e io tre indietro. Afferrai il cassetto e lo aprii, afferrando due coltelli, uno per ogni mano. Ero sempre stata brava nel lanciarli.

Lui alzò le mani, una rosa, l’altra di metallo e fredda come il ghiaccio.

- Aspet... - cominciò a dire, ma non lo lasciai finire.

Lanciai i coltelli, e lui si abbassò di scatto sulle ginocchia, correndo in avanti ed evitando che le lame gli si conficcassero in gola. Non riuscii nemmeno a fare un respiro che mi ritrovai afferrata per la gola, mentre mi buttava di schiena sul tavolo. Il dolore esplose in macchioline viola nel mio campo visivo, mentre sentivo la gola bruciare per la forza della sua presa. Allungai le mani e afferrai il bordo della sua tuta da combattimento, ansimando per lo sforzo di far entrare aria nei miei polmoni. Il suo volto era a mezzo centimetro dal mio, i suoi occhi scuri e cupi come abissi che si specchiavano nei miei.

Non si mosse, nemmeno quando tirai la stoffa dei suoi vestiti con tutte le mie forze.

- Non... respiro... - rantolai, mentre il mio corpo cominciava a tremare.

Lui assunse un’espressione sorpresa, mentre allentava la presa sulla mia gola. L’ossigeno entrò con violenza nei polmoni, facendomi tossire. Lui non si scostò, ma continuò a tenere la mano -quella naturale- sulla mia gola, aspettando che mi riprendessi.

Pochi secondi dopo sbattei le palpebre e lo vidi ancora lì.

- Chi diavolo sei? - sussurrai con voce strozzata.

I suoi occhi si rabbuiarono, mentre una ruga si formava tra le sue sopracciglia.

- Non lo so - mormorò, col fiato che si infrangeva sulle mia guance.

Lo guardai sgranando gli occhi. Quello che aveva detto era impossibile, ma non sembrava che stesse mentendo. E rimasi ancora più sorpresa quando lui si ritrasse di scatto, togliendo la mano dalla mia gola.

Mi raddrizzai con una smorfia di dolore. Lui abbassò gli occhi e rimasi impietrita, mentre la sua espressione variava da impassibilmente gelida a lievemente colpevole. Seguii il suo sguardo e mi accorsi che i pantaloncini verde mela che indossavo non mi arrivavano neanche a metà coscia, scoprendo così del tutto la brutta cicatrice.

Dopo qualche secondo tornai a guardarlo, e scoprii che mi stava fissando.

Qualche secondo dopo le parole più insensate della mia vita mi uscirono dalla bocca.

- Ti va una tazza di caffé?







ANGOLO DELLE CIAMBELLE CARNIVORE BLU:
Bene, ehm. Salve a tutti *agita la manina*
Sempre se c'è qualcuno a cui dire salve O.o
Allora, dato che ieri mi sono guardata il primo film di Cap e mi sono terribilmente innamorata di Bucky e lo amo ancora di più se penso che è il supercattivo non tanto cattivo del secondo... be', ho deciso di scrivere una fanfiction su di lui.
Jemima è una giovane ragazza con ferite fresche... povera piccola :( ok, ma non è tanto povera piccola quando lancia coltelli ovunque :D
Aaw, ma non sono teneri? Ok, mi sto s*********o davanti a tutti allegria :D
Ma ovviamente, come sempre, c'è qualcos'altro sotto. Chi sarà la misteriosa Natasha? Perché Dante combina sempre casini?
Uhm, okay, l'ultima domanda non c'entra nulla :D sono solo un po' fusa.
Ora, dato che siete arrivati fino a qui...

 
Recensite!
Sebastian apprezzerà moltissimo!



 
Bacio!
Anna

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Capitolo 2
*** Un brutto guaio ***



When Love arrives in the dark
 

( immagine di kostinalena su Deviantart )
 

Il Soldato d’Inverno non sapeva come diamine gli fosse saltato in testa di mettersi a spiarla.

Abbandonato a sé stesso, evitando di farsi trovare da HYDRA e S.H.I.E.L.D, era riuscito a trovare un po’ di pace. Ma non molta: ogni volta che chiudeva gli occhi e provava a dormire rivedeva i volti degli innocenti che aveva ucciso. Madri, padri, uomini, donne, anziani, adolescenti, bambini. Ma sopra a tutti spiccava un volto, lo stesso volto che in quel momento gli stava davanti, shockato, spaventato e terribilmente confuso.

Non sapeva dire il motivo per cui i volti delle sue vittime continuavano a tornargli in mente. Aveva recuperato brandelli di memoria, brandelli sufficienti a farlo nascondere da tutto e da tutti. Ricordava l’elettroshock, e quello era bastato a fargli decidere di scappare e nascondersi.

Non voleva più essere il burattino di nessuno.

Iniziava a sentire il rimorso crescere dentro di lui, aumentare giorno dopo giorno. Perché, in fondo, tutti quelli che aveva tentato di uccidere non erano colpevoli di nulla, se non di essere dei bravi uomini nel mirino dell’HYDRA. Aveva anche provato a uccidere quell’uomo... quello che aveva scatenato la tempesta in lui. Quello che odiava, ma a cui era tremendamente grato e da cui sentiva di essere legato. Quello che aveva cercato di uccidere insieme all’agente rossa. Sapeva solo che si chiamavano Steve e Romanoff. Non voleva sapere altro, non finché non avrebbe capito chi fosse veramente: se il Soldato d’Inverno o James.

Ma non sapeva perché quella ragazza dai capelli color miele continuasse a tornargli in testa, assieme ai ricordi di quella notte. Se la ricordava perfettamente. Era l’unico viso che gli era rimasto chiaro nella mente, senza confondersi con la nebbia che avvolgeva le facce delle sue vittime.

Aveva ricevuto l’ordine di ammazzarla e far sembrare che fosse stato un incidente.

Aveva dato fuoco all’edificio in cui si trovava e mentre tutti uscivano l’aveva chiusa in una sala. Non appena l’aveva visto aveva iniziato a sparare, così come lui, ma a un certo punto erano finiti i colpi. Perciò era passato al combattimento corpo a corpo. Era balzato verso di lei, atterrando sul tavolo dietro cui si nascondeva, e l’aveva afferrata per il collo. Come aveva appena fatto nella sua casa, sul suo tavolo.

L’aveva fatta svenire, ma non sapeva perché si fosse fermato; non se l’era sentita di ucciderla.

Così era riuscito a farle crollare un pilastro della sala addosso.

Aveva visto perfettamente il cemento rovinare sulla sua gamba, e si era sentito un mostro mentre l’urlo di lei gli rimbombava nelle orecchie. Si era vergognato di sé stesso, per la prima volta.

Aveva deciso di aiutarla, di spostare il cemento, cercando di convincersi che quello che stava facendo era normale, che non avrebbe avuto conseguenze. Aveva alzato il cemento, mentre lei lo guardava, penetrandogli l’anima con quei suoi maledetti occhi verdi.

E poi, dannazione, era caduto il palo di ferro.

Il suo grido di dolore era stato anche peggiore del precedente.

Adesso risentiva quelle urla, anche se la cucina era vuota e silenziosa.

Si rese conto che lei stava ancora aspettando una risposta, seduta sul tavolo. Si impedì di tornare a guardare quella cicatrice orribile che sfigurava la sua gamba, e annuì incerto.

Era da tempo che non beveva del caffé, ma a renderlo spiazzato e sospettoso era stato il suo gesto.

Aveva appena scoperto che la spiava e dopo aver rischiato di morire di nuovo -a quel pensiero il Soldato sentì una vaga punta di vergogna intaccare la sua espressione impenetrabile- gli offriva da bere.

Lei si mosse con cautela, scendendo giù dal tavolo e continuando a fissarlo con quei suoi occhi color giada. Erano belli, sembravano catturare la luce esigua rimasta nella stanza. Sembravano quelli di un cucciolo spaurito che cercava di farsi forza. Il Soldato aveva imparato a distinguere le emozioni che apparivano sui volti delle persone che incontrava, ma con stupore si rese conto che non c’era disgusto, rabbia o voglia di vendetta nello sguardo limpido che gli lanciò.

Intuendo che era comunque a disagio fece un paio di passi indietro, fino ad appiattirsi contro lo stipite della porta. Lei lo guardò sorpresa, ma le sue labbra presero  una piega più rilassata.

Gli voltò le spalle, e vide chiaramente quanto la sua postura era rigida. Aveva paura di lui? Be’, non poteva biasimarla.

Si mosse veloce, afferrando dalla credenza color panna una busta di caffé e la moca. La riempì di polvere scura e la mise sul fuoco, mentre recuperava due tazze dal mobiletto al suo fianco.

Il silenzio riempiva la stanza, mentre l’odore di caffé si spandeva nell’aria.
Lei non gli chiese di accendere la luce, e lui non lo fece. Non era abituato a quei gesti spontanei, ma non era quello il motivo. In realtà non lo sapeva nemmeno lui, il motivo. Forse non voleva che lei lo vedesse in faccia più del necessario, o forse non voleva che guardasse il suo braccio di metallo.

Lo odiava, ma almeno non era rimasto senza un arto.

Dopo qualche minuto, in cui lei continuò ad abbassare lo sguardo e a giocare con il braccialetto di stoffa che aveva al polso, il caffé cominciò a uscire gorgogliando dalla moca e lei si affrettò a versarlo nelle due tazze.

Si voltò verso di lui, incerta, porgendogliene una.

Lui si tese in avanti, prendendola col braccio sano. Le sue dita sfiorarono il dorso della mano di Jemima -ecco quel’era il nome!- mentre si chiudevano sulla ceramica, e lei sussultò.

Ritrasse il braccio, guardando la tazza che gli aveva dato.

Era nera, con i bordi bianchi, e ritraeva un canarino giallo stilizzato con una testa troppo grande e ciglia troppo lunghe. Un vago ricordo affiorò nella sua mente: un cartellone pubblicitario di un cinema con disegnato quello stesso canarino.*

- Non lo conosci? - chiese lei, e alzando lo sguardo Soldato la vide appoggiata al ripiano della cucina, con in mano un’altra tazza a pallini blu, viola e verdi. La sua espressione era incerta.

- Sì... sì - mormorò lui, distogliendo lo guardo dalla ragazza.

Ogni volta che la guardava il suo volto impolverato e dolorante sostituiva quello pulito e cauto.

- Come... come ti chiami?

Soldato prese un respiro profondo. Bella domanda. Sapeva che una volta era stato un certo Bucky, ma un altro nome affiorò nella sua mente.

- James - disse piano.

Non chiese il suo nome, entrambi sapevano che lo conosceva già.

- Volevi... uccidermi? - James alzò la testa verso di lei. Era paura, quella che le faceva tendere le labbra e stringere più forte la tazza?

- No - rispose guardandola negli occhi.

- Allora... perché sei qui? - chiese Jemima, aggrottando le sopracciglia.

Posò la tazza sul ripiano di marmo dietro di lei. Il volto del Soldato d’Inverno era una maschera di ghiaccio... ma con molte crepe. Per un secondo all’ex agente sembrò di vedere una scintilla di curiosità nei suoi occhi scuri, prima che lui appoggiasse la testa alla parete e li chiudesse.

Jemima si ritrovò ad osservare il suo corpo muscoloso, con lo sguardo che continuava ad essere attratto da quel braccio di metallo. Si chiese, non per la prima volta, come si sentisse a poterlo muovere ma a non poter provare sensazioni.

- Non lo so.

James riaprì gli occhi e lei si ritrovò a osservare quelle iridi profonde. Si accorse che i suoi occhi non erano marroni, come le era sembrato all’inizio. Erano chiari, di un colore tra il grigio e l’azzurro. La guardava in silenzio, ma a Jemima sembrava che stesse urlando, chiedendo aiuto con lo sguardo.

Fece un paio di passi verso di lui, ancora incerta. Sentiva la paura rimbombarle nelle vene. Nonostante tutto il ricordo di quella notte continuava a tormentarla. Temeva che la stesse imbrogliando.

Lui si irrigidì. Forse non gradiva quell’improvvisa vicinanza, ma a Jemima non importava.

- Senti... vuoi che... - non fece in tempo a finire la frase che degli spari ruppero i vetri della finestra.

Jemima gridò, mentre frammenti di vetro volarono nell’aria.

Il Soldato d’Inverno reagì senza nemmeno pensare. Si lanciò in avanti, scagliando la tazza ancora colma di caffé sul pavimento, e si gettò su di lei.

Jemima urlò, mentre cadevano sul pavimento, lui sopra di lei. Gli spari continuavano a raffica, e l’ex agente dello S.H.I.E.L.D. si ritrovò a serrare gli occhi stringendosi a lui.

Quella manciata di secondi fu molto strana: ad un certo punto il cervello della ragazza smise di pensare ai proiettili che volavano, distruggendo la sua povera, innocente cucina, ma si rese conto del peso che la inchiodava al pavimento, schiacciandole i polmoni, dei capelli lunghi dell’uomo contro la guancia, e che il suo odore la stava avvolgendo in una gabbia.

Dopo una decina di secondi tutto finì, e calò il silenzio.

Il Soldato si alzò sugli avambracci per guardarla in volto, mentre gli occhi della donna si incupivano, realizzando cos’era appena successo. James non fece in tempo ad aprire la bocca che si ritrovò a rantolare, rotolando via da lei. Gli aveva tirato un calcio nel basso ventre.

Jemima si alzò di scatto, cominciando a correre come una gazzella.

Con un’imprecazione furiosa, lui si rialzò e stringendo i denti la seguì.

Jemima era veloce, ma era fuori esercizio, anche se ogni domenica mattina andava a correre, e James era molto più che allenato.

- Ferma! - in poche falcate l’afferrò per il braccio e la tirò contro il proprio petto. Jem trasalì, frapponendo tra i loro corpi gli avambracci.

Lui la guardò negli occhi, scuotendo la testa. Aveva il respiro corto.

- Dalla finestra - sibilò.

Lei aprì la bocca per dire qualcosa, ma una raffica di colpi crivellò la porta d’ingresso, e lui scattò verso la camera di lei, trascinandosela dietro.

Saltò sul letto e da lì sul davanzale, atterrando poi sul marciapiede. Si voltò, e la vide incerta, affacciata alla finestra. Sentiva già le urla dei tedeschi dell’HYDRA.

- Salta - ringhiò.

James sapeva che lei aveva paura di lui, ma probabilmente era più spaventata dall’HYDRA. Fu per questo che saltò subito. Fece una smorfia di dolore quando finì in ginocchio sul cemento, ma non potevano permettersi di indugiare. Il Soldato scattò in avanti, afferrando con la mano metallica il braccio della ragazza, e cominciò a correre. Jemima fu costretta a seguirlo, anche se lui correva troppo veloce e ogni pochi passi incespicava. Strinse le dita attorno alle scarpe da ginnastica che aveva avuto la prontezza di prendere dal pavimento della camera.

Non si fermarono nemmeno quando ebbero superato due isolati di distanza, ma a quel punto i polmoni -e il braccio- di Jemima reclamavano pietà.

- Fermo - ansimò, ribellandosi alla sua presa quando arrivarono in un parcheggio vuoto e buio.

Lui rallentò fino a fermarsi, e la lasciò andare. La ragazza si piegò, tenendo le mani sulle ginocchia, boccheggiando. Una volta che il respiro si fu calmato abbastanza da permetterle di parlare alzò la testa e gli lanciò un’occhiata di fuoco, raddrizzandosi.

- Perché mi hai detto che non volevi uccidermi?

Lui serrò i muscoli di tutto il corpo, mentre un’ondata di rabbia lo scuoteva. Non gli piaceva essere accusato di aver mentito.

- Non sono miei alleati - ringhiò, avvicinandosi fin quando il suo volto fu a mezzo centimetro di distanza da quello di lei.

- Allora perché erano tedeschi? E perché hanno distrutto casa mia? - sibilò Jemima in risposta, alzando il mento.

- Perché vogliono uccidere me - sputò in risposta James.

Lei lo guardò schiudendo le labbra, sorpresa. I suoi occhi verdi chiedevano urgentemente un chiarimento.

Il Soldato d’Inverno si ritrasse, passandosi nervosamente una mano tra i lunghi capelli marroni. Sospirò, scuotendo la testa, e individuò un’auto nera poco distante. Irrigidì la mascella e cominciò a dirigervisi a grandi passi.

Jemima lo seguì, trottellandogli alle calcagna e tempestandolo di domande.

- Ehi, voglio una risposta! Perché vogliono farti fuori? L’HYDRA, poi! Capirei lo S.H.I.E.L.D. ma... che stai facendo? - chiese perplessa, mentre lui si accostava al finestrino del guidatore della macchina.

Lui grugnì, e prima che lei potesse fermarlo tirò un pugno al vetro con il braccio di metallo. Jemima trasalì, mentre le schegge volavano dappertutto.

- Che diavolo fai? - esclamò, guardandosi intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno a guardarli. Niente, il parcheggio era vuoto e il lampione più vicino era distante una decina di metri.

Il Soldato infilò il braccio nella macchina e aprì la portiera. Poi si voltò verso di lei, scoccandole un’occhiata cupa e aggirando la macchina.

- Siediti e guida se non vuoi che finiamo in fondo a un fosso entro dieci minuti.

Jemima alzò gli occhi al cielo e con uno sbuffo si sedette al posto di guida. Si chinò, mettendo le scarpe. James era già salito e la guardava in attesa. Jemima posò le mani sul volante, poi arricciò il naso, voltandosi verso di lui.

- Non ho le chiavi.

Detto fatto.  Quattro minuti dopo stavano uscendo dal parcheggio. Il Soldato aveva avviato la macchina con i cavi.

- Dobbiamo uscire dalla città - mormorò aspro lui, provocando uno sbuffo e una smorfia.
 

* * *

JEMIMA:
 

Non riuscivo a crederci. Insomma, era più che assurdo!

Ero rinchiusa in una macchina rubata con lo stesso uomo che aveva cercato di uccidermi una volta e che mi aveva salvato la vita altre due, prima buttandosi su di me perché non mi ferissi con i proiettili e poi trascinandomi via da casa mentre dei nazisti megalomani mi davano la caccia.

Non sapevo cosa pensare. La mia testa era un turbinio di pensieri fastidiosi e inutili. Dovevo restare concentrata e guidare, non perdermi a rimarcare l’assurdità di quella situazione.

Gettai una veloce occhiata al mio compagno di sventure. Aveva la testa reclinata all’indietro, e gli occhi chiusi. Stava dormendo?

James aprì gli occhi e girò la testa verso di me. Arrossii, tornando a guardare la strada e cercando di non pensare a quanto sembrasse stanco e sfiduciato.

- Non capisco - dissi schietta dopo qualche minuto, mentre eravamo fermi ad un semaforo.

- Cosa? - la sua voce era appena udibile, ma riuscii lo stesso a captarla.

- Perché mi stai aiutando. Hai detto che vogliono catturarti, che io non c’entro niente. Perché mi stai facendo scappare con te?

Lui rimase in silenzio per qualche istante. Con la coda dell’occhio vidi che si guardava le mani, abbandonate sulle gambe.

- Perché mi hanno seguito fino a casa tua - mormorò, la voce piena di... rassegnazione? -e quindi non sei al sicuro.

Il semaforo tornò verde e ripartii veloce.

- Perché ti importa? - sbottai. Guardandolo vidi che sembrava confuso -ancora non ero riuscita a decifrare per bene i suoi lineamenti- e puntualizzai: - Che io sia al sicuro o no, intendo.

A quel punto sentii il suo sguardo di ghiaccio su di me, e rabbrividii. Era come se fossi una cavia e lui fosse lo scienziato che mi osservava.

- Perché ho cercato di ucciderti - disse, la voce roca - e non ci sono riuscito.

Aggrottai le sopracciglia, mentre sentivo una fitta di fastidio alla gamba, alla cicatrice.

- Ero per terra, sommersa da chili di cemento - ribattei aspramente - potevi farmi fuori senza problemi. Mi avresti anche fatto un favore, avrei evitato tutto quel dolore e la convalescenza in ospedale.

- Non ce l’ho fatta - ringhiò lui, sporgendosi verso di me. Deglutii. Non aveva apprezzato la mia acidità e il tono pieno di biasimo, evidentemente. Il mio cuore aveva preso a battere all’impazzata, mentre il suo viso era a poca distanza dal mio, le sue mani che artigliavano le sue cosce per impedire che prendesse a pugni qualcosa.

- Hai ammazzato migliaia di persone! - esclamai, forse con un tono un po’ troppo alto. Voltai la testa verso di lui, pur continuando a guardare la strada, vuota a quell’ora di notte. - Perché diavolo ti sei fatto degli scrupoli proprio con me?

Allacciai lo sguardo al suo, e quello che riuscii a vedere mi strinse il cuore. In quelle iridi cupe c’era un sacco di odio, un odio vivo, bruciante. Non sapevo se per me o per quelli che lo avevano costretto a fare quelle cose. Ma c’era anche una richiesta d’aiuto nascosta in fondo, seppellita e quasi dimenticata.

James serrò le labbra, mentre tornavo a guardare davanti a me. L’aria era gelida, e stavo tremando.

- Non lo so - mormorò.

Dopo quella conversazione non parlammo più.


Due ore dopo ci eravamo fermati in una stazione di servizio, vicino a un piccolo hotel sperduto.

- Ho preso la carta di credito - dissi girandomi verso di lui. - Ma non puoi entrare così.

Lui alzò un sopracciglio, poi annuì una sola volta, anche se aveva un’aria scontenta.

Arricciai il naso, sospirando. Aprii la portiera e uscii dalla macchina. L’aria fredda della notte mi colpì come uno schiaffo. Prima di chiudere la portiera esitai.

- Stai qui - mi raccomandai, per poi voltarmi senza aspettare una risposta.

Mi stavo cacciando in un gran, bel, brutto guaio.
 

* Titti (Tweety) è stato creato per un cortometraggio del 1942, perciò Bucky l’ha visto in un cinema. Secondo me. :D


 ♦   


ANGOLO DELLE CIAMBELLE CARNIVORE BLU:
Ciauuu.
Non sono affatto sicura di questo capitolo, ma va be'. :D Lascio a voi il compito di giudicare ;)
In questo capitolo troviamo Jem e James in fuga, con l'HYDRA alle calcagna :) è una sorta di convivenza forzata...
Perché da sola Jem non riuscirebbe mai a scappare, dato che è fuori allenamento, ma non è una completa incapace, vedrete ;)
Dato che Bucky... ops, James (scusate, ormai ero abituata a chiamarlo Bucky) sembra sentirsi in colpa e volerla aiutare... be', perché non approfittarne? ^^
Ditemi che ne pensate!
Lui apprezzerà ;)




Un bacione! :*
Anna
 

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Capitolo 3
*** Non smetti mai di parlare? ***



When Love arrives in the dark


( immagine di nile-can-too su Deviantart)
 

La camera del piccolo motel non era niente da speciale, ma almeno era accettabile. Era una piccola camera con un solo letto matrimoniale -quello era un bel problema- e una finestra che dava sul parcheggio, di fronte alla stazione di servizio.

Mi ero sporta e avevo fatto cenno a James di salire da lì, arrampicandosi sull’edera che ricopriva metà facciata dell’edificio. Ci era riuscito senza problemi, e dopo un quarto d’ora dal nostro arrivo ero seduta sul letto, dalle coperte color mattone, a guardare il telegiornale.

A quanto pareva per mascherare il tentativo di ucciderci l’HYDRA aveva distrutto anche altri appartamenti in giro per la città. Sospirai, strofinandomi gli occhi.

Mia madre e mia sorella avrebbero avuto un infarto, ma non potevo contattarle. La cosa migliore era andare da loro di persona; avremmo anche potuto trovare un rifugio sicuro, nella loro fattoria.

L’acqua nel bagno smise di scorrere, e mi irrigidii.

Pochi minuti dopo lui uscì dal bagno, lentamente. I suoi occhi erano già puntati nella mia direzione.  Sentii il mio cuoricino bloccarsi in gola quando mi accorsi che era a torso nudo. Woah.

Subito dopo mi diedi uno schiaffo mentale, e i miei occhi vennero attratti dal suo braccio metallico. Era... strano. Formava un tutt’uno con la sua spalla, ma il bordo della pelle era arrossato.

- Hai paura che ti possa sparare? Non ho una pistola - dissi, cercando di abbozzare un sorriso nonostante la mia voce fosse uscita dalla mia bocca più acuta di un’ottava. Sembrava nervoso... il che non aveva senso, perché la mia vita era nelle sue mani. Sapevo che avrebbe potuto decidere di ammazzarmi da un momento all’altro, e non avrei potuto impedirlo.

La sua espressione impenetrabile mostrò qualche crepa. Socchiuse la porta del bagno, chinando la testa e guardando verso il pavimento.

Strinsi le labbra. E ora?

- Dobbiamo andare da mia madre.

Lui alzò gli occhi, scuotendo la testa mentre mi guardava. Fece un paio di passi di lato, sempre rivolto verso di me e con lo sguardo puntato sul mio viso. Afferrò la sedia sgangherata vicino alla scrivania e la sistemò in modo da sedersi di fronte a me.

- No - disse, appoggiandosi le mani sul collo.

- Come?

Lui sospirò, sembrava davvero stanco. - Non possiamo. L’HYDRA andrà a controllare.

Sgranai gli occhi. - Ma mia madre e mia sorella, allora? Dobbiamo andare ad aiutarle!

Mi alzai di scatto, ma lui fu più veloce di me e mi si parò davanti. Bastò quello a farmi fermare a pochi centimetri di distanza dal suo petto. Alzai gli occhi e allacciai il mio sguardo al suo.

- Possiamo fare ancora in tempo - insistetti.

- Se non sono già arrivati lo saranno presto - scossi la testa. Cercai di aggirarlo, ma lui mi afferrò per le spalle. Trasalii, la sua stretta era forte e il metallo gelido sulla pelle.

- Posso... posso chiamare un’amica - dissi, cercando di non farmi soffocare dal panico.  Subito un’ombra di sospetto gli oscurò gli occhi. Feci una smorfia mentre affondava sempre di più le dita nella mia carne. Gli afferrai le braccia, ma sentivo solo fasci di muscoli... e di metallo. Non avevo nessuna possibilità di batterlo e darmela a gambe... a meno che non lo colpissi . Lui probabilmente intuì il mio pensiero, perché con uno scatto mi colpì la gamba destra e frappose la sua tra le mie, in modo da non rischiare.

Tralasciando il fatto che ormai ero arrossita come un peperone e sentivo il cuore battere a mille e che quindi non potevo recuperare un minimo di lucidità, provai a convincerlo.

- Per favore - lo supplicai, lasciando andare la presa sul suo braccio destro e afferrandogli il fianco. Lui trasalì, sorpreso, e schiuse le labbra.

Cazzo quant’è bello.

Subito dopo il mio cervello si ribellò a sé stesso. Aveva appena deciso di fare sciopero. Insomma, avevo definito bello l’assassino di centinaia di persone, lo stesso uomo che mi aveva fatto nascere la paura ossessiva di relazionarmi con chiunque essere maschile. In parte per la cicatrice, in parte perché non riuscivo a non pensare che chiunque mi si avvicinasse facesse parte dell’HYDRA o volesse uccidermi.

- Ti prego. Se non vuoi che vada... perché pensi che ci uccideranno... okay, va bene. Ma non posso far finta di niente. Mia madre e mia sorella sono le uniche persone che ho al mondo... fammi chiamare la mia amica. Lo S.H.I.E.L.D. le porterà via, non dirò nulla su di te o di dove siamo. Per favore - ripetei, cercando di mantenere il sangue freddo.

James serrò la mascella. Nei suoi occhi di ghiaccio si frantumò qualcosa, rendendoli più caldi.

- Va bene - ringhiò, abbassandosi alla mia altezza finché le nostre fronti non furono appoggiate l’una sull’altra - ma ti dirò io cosa dire.

Annuii, deglutendo. Non mi era sfuggito il tono di minaccia. Era come se avesse lasciato in sospeso delle parole, delle parole che però conoscevo perfettamente: se provi a imbrogliarmi ti uccido davvero, stavolta.

Mi lasciò andare, e mi strinsi le spalle doloranti. La sua stretta sembrava la stessa di una trappola per orsi. Non potevi scappare.

James si voltò e afferrò dei fogli e una penna, posati sulla scrivania. Dopo qualche secondo cominciò a scrivere. Dopo pochi secondi si voltò e mi porse il foglio. Con la mano che tremava lo afferrai e lo lessi. Aveva una bella scrittura, regolare, ordinata.

L’HYDRA MI HA TROVATA A CASA. MIA SORELLA E MIA MADRE SONO LE PROSSIME. PORTALE VIA DA CASA E ASSICURATI CHE CI SIANO DUE SQUADRE DI AGENTI A PROTEGGERLE IN UNA BASE SEGRETA.

Alzai lo sguardo e lo guardai.

- Solo questo?

Lui fece un cenno affermativo, aggirandomi e sedendosi sul bordo del letto. Anche da seduto aveva una posa rigida, le spalle e la schiena dritte.

- Solo questo - confermò. Storsi le labbra, aggirandolo e scavalcando le sue lunghe gambe, per salire sul materasso dall’altro lato. Mi rannicchiai con la schiena appoggiata al cuscino, fissando quelle piccole parole e sentendo il suo sguardo su di me. Le mani erano sudate, ma non sapevo perché.

- Ma... - alzai lo sguardo su di lui. Mi stava guardando da sopra la spalla, i suoi occhi che formavano un abisso profondo.

- Si insospettirà se dico solo questo.

Lui scrollò le spalle, e il braccio metallico catturò la luce della lampada, brillando per un attimo.

- Puoi salutarla. Dille ciao, ma quelle sono le parole che devi usare. E voglio sentire anche io.

Annuii, poi presi un respiro profondo. Mi sporsi sul comodino, stringendo il foglio tra le dita. Afferrai il telefono e composi l’ultimo numero di Natasha.

Rispose dopo pochi squilli, la voce assonnata.

- Pronto?

James si irrigidì e contrasse i suoi lineamenti in una smorfia feroce. Cazzo. Dovevo dirglielo prima che la mia amica era la stessa che gli era sopravvissuta due volte.

- Natasha - la mia voce tremava, e sentii un groppo in gola. Era bellissimo risentire la sua voce.

- Jemima! - esclamò, più attenta. -Ho visto il telegiornale. Stai bene?

- Se non ti conoscessi direi che sei preoccupata - sorrisi, mentre lei ridacchiava. Trasalii quando mi sentii afferrare con forza per il braccio. Mi voltai e vidi che lui stringeva il foglio davanti a me. Sembrava impaziente. Annuii.

- Sto bene, Nat. Comunque... sai che l’HYDRA mi ha trovata a casa. Probabilmente mamma e Rees... e mia sorella saranno le prossime. Portale via da casa loro, mettile in una base segreta e assicurati che ci siano due squadre a proteggerle... o meglio ancora, tu stessa.

- Jem - mi interruppe lei - perché diamine l’HYDRA ti sta cercando?

Esitai. Avrei tanto voluto risponderle, ma se mi azzardavo a dire un’altra parola stavolta sarei morta davvero. James sembrava davvero contrariato, sembrava emanare irritazione da ogni singola cellula.

- Devo andare, Nat - risposi in fretta - fallo, ti prego. Io starò bene.

Riattaccai, proprio mentre lei iniziava a chiedere qualcosa. Trassi un respiro profondo, e mi presi il volto tra le mani.

Stranamente lui non proferì parola, ma restò in silenzio. Dopo qualche minuto lo sentii alzarsi.

- Dovresti farti una doccia e riposare. Dopo partiremo di nuovo.

- Dobbiamo comprare dei vestiti nuovi - borbottai.

- Ci penseremo domani - ribatté freddo.

Sbuffai e mi alzai dal letto. Avevo improvvisamente perso tutte le forze. Mi diressi verso il bagno, e chiusi la porta. Dopo un breve istante decisi di non chiuderla a chiave. Se avesse voluto entrare per qualche strana ragione avrebbe tranquillamente potuto spaccare il legno. Il bagno era minuscolo, c’era a malapena spazio per muoversi. Mi spogliai e misi tutti i vestiti sul piccolo termosifone. Entrai nella doccia e lasciai scorrere l’acqua per un po’, finché non diventò bollente.

 

James non era molto gentile, questo l’avevo capito. Ma ne ebbi la conferma quando, la mattina dopo, tese un agguato a un poveraccio nel parcheggio e lo fece svenire.

- Sali in macchina - mi ordinò, lanciandomi le chiavi e afferrando l’uomo e trascinandolo nell’ombra di alcuni alberi.

Distolsi lo sguardo, sentendomi assurdamente in colpa. Dovevamo scappare, era per una buona causa. James salì in macchina pochi secondi dopo.

- Andiamo - ordinò secco.

Misi in moto e uscii dal parcheggio.

- Dove? - chiesi, gettandogli un’occhiata. Era cupo. Meglio non infastidirlo.

- Continua su questa strada. Ti dirò quando dovrai cambiare.

- Ma dove mi stai portando? - domandai, infastidita dalla mancanza di informazioni. Sentii distintamente il suo sbuffo esasperato.

- Fidati.

- Mmh.

Un’ora dopo ero dentro a un negozio di vestiti in un piccolo paesino. Stavo pagando i vestiti che avevo comprato per entrambi, quando diedi un’occhiata alla televisione e mi gelai.

- Può alzare il volume? - chiesi alla nonnina dai capelli argentati che era dietro al bancone.

Lei annuì con un sorriso e si girò.

La fattoria in fiamme era quella di mia mamma.

- ...dato l’allarme pochi minuti fa. Le proprietarie, Dakota Prior e sua figlia Reesa, sono state viste partire dalla fattoria con una donna bianca, sui trent’anni, dai capelli rossi. L’altra figlia di Dakota Prior, Jemima, risulta scomparsa da questa notte, quando il suo appartamento è stato completamente distrutto da uomini armati di fucili e mitragliatori. I poliziotti stanno investigando, ma la famiglia Prior sembra scomparsa. Chiunque avesse visto una delle tre donne della famiglia Prior chiami questo numero...

L’anziana si voltò verso di me, quando sullo schermo apparve una mia foto insieme a quello di mamma e Reesa. Sgranò gli occhi, ma scossi la testa.

- Per favore - sussurrai sporgendomi verso di lei - non dica nulla. La prego. Siamo al sicuro, ma non se qualcuno dice alla polizia che mi ha vista. Per favore, signora, è importante. Sono con un uomo di cui mi fido, non parli a nessuno di me!

Lei sembrava scombussolata, ma alla fine annuì. Mi restituì la carta di credito.

- Mi fido, signorina. Tenga la carta, ti rintracceranno. Vai via, allontanati più che puoi.

- Grazie, grazie mille - mormorai.

Afferrai la busta e corsi via. James era ancora in macchina.

Salii velocemente e gli passai la busta.

- Al telegiornale hanno dato l’annuncio di scomparsa - ringhiai.

- Come?

- Hanno incendiato la casa di mamma. Dobbiamo andarcene, ma dove?

Lui rimase in silenzio per qualche istante.

- Prendi la statale - disse infine. - Conosco un posto sicuro - la sua voce sembrava incerta, ma obbedii.


 

Ci vollero circa due ore e mezza per raggiungere un posto sperduto nei campi.

Era una casetta piccola, in legno bianco.

James era diventato stranamente silenzioso quando eravamo arrivati lungo il vialetto ghiaioso, e ancora più cupo di quanto non fosse prima. Parcheggiai davanti alla casa e mi voltai a guardarlo. Lui non mi degnò di un’occhiata e scese dalla macchina, una strana espressione in volto. Con un sospiro lo seguii, afferrando la pesante borsa con i nostri vestiti.

- Dove siamo? - domandai curiosa, mentre mi affiancavo a lui.

- A casa mia - rispose incerto.

- I-in che senso? - balbettai sorpresa.

Lui voltò la testa e mi guardò intensamente, un’ombra di timore nelle iride chiare.

- Questa è la casa che l’HYDRA mi ha... regalato - nella sua voce c’era solo disprezzo, odio e rancore. Faceva un po’ paura. Sbattei le palpebre, registrando l’informazione, e sentii la mia bocca spalancarsi.

- No, aspetta - esclamai arrancandogli dietro, mentre camminava veloce verso la porta. - Vuoi dirmi che siamo in un covo dell’HYDRA? Sei fuori?

- Mi stanno cercando dappertutto, ma non controlleranno qui. Sanno che non ci verrei mai.

- Ah. Quindi è la... prima volta? Che vieni qui, intendo - aggiunsi precipitosamente, arrossendo di botto, mentre mi scoccava un’occhiata scandalizzata. Perché proprio a me? Ero l’ultima che facevo doppi sensi ambigui! Natasha e Sam erano molto ma molto peggio!

- Sì - rispose lui.

Se non fosse stato un soldato perfetto con un’assurda capacità di sopravvivere a tutto e tutti e una stupenda predisposizione ad ammazzare -ironico, ovvio- avrei detto che era turbato. Ma boh.

- Wow. Che emozione.

- Non smetti mai di parlare, tu? - sbottò esasperato, voltandosi di scatto verso di me, così veloce che barcollai per non finirgli addosso. Lo guardai. Sembrava arrabbiato.

- Okay - la mia voce era tutto fuorché arrabbiata. Vidi i suoi occhi sgranarsi quando vide le lacrime che mi premevano gli occhi per uscire, ma scrollai le spalle e lo superai.

Odiavo quando qualcuno mi urlava contro. Riportava in mente brutti ricordi. Tipo mio padre.

Non feci nemmeno in tempo a salire due gradini della veranda in legno bianco che una mano si serrò dolcemente sul mio polso.

- Mi dispiace.

Oh Cristoforo. Era vicino... così vicino che sentivo il suo respiro sul collo, il suo petto che mi sfiorava le spalle. Un’ondata di rossore mi colorò violentemente le guance.

- N-non importa.

Lui continuò a stringermi il polso per qualche istante con le sue lunghe dita pallide, poi mi lasciò andare e mi oltrepassò, lasciandomi lì a guardarlo con occhi vacui.

Perché sembrava così sincero? Era un supersoldato a metà robot. Va bene, forse definirlo così era malvagio da parte mia, ma era così. Era stato una marionetta dell’HYDRA per anni, stando al poco che Nat mi aveva detto su di lui. Non avrebbe dovuto provare sentimenti. Allora perché sembrava sincero? Allora mi stava usando, mi stava tendendo una trappola? E perché mi facevo tutte quelle domande?

- Vieni o no?

Sbattei le palpebre e mi accorsi che lui era lì, sulla soglia, la porta aperta, e mi stava guardando da chissà quanto.

Dandomi un bel ceffone mentale salii i gradini della veranda e lui si scostò, facendomi entrare dopo di lui.

La casa era carina; eravamo sbucati in un salotto provvisto di divano di un violetto che sfumava nel rosso, coperto da un telo bianco panna con delle tartarughe nere stampate, una lampada viola tipo quella della Pixar, un tavolino in vetro e un mobile bianco dov’era posata una televisione.

- La tua camera è di qua, ricordo la piantina della casa - disse sparendo in un ampio corridoio, pieno di luce grazie alla grande finestra in fondo che faceva entrare fiotti di luce.

Si era fermato davanti a una porta bianca. Mi guardò mentre l’aprivo e guardavo la camera.

Era molto carina, con le pareti dipinte nella metà inferiore di verde smeraldo e quella superiore di bianco. Il letto matrimoniale aveva la testiera in legno bianco. Le coperte erano verde mela, il piccolo tappeto rettangolare ai piedi del letto era di un azzurro chiarissimo. Di fianco al letto c’era un grande armadio. Nella parete opposta, cioè alla mia sinistra, spuntava una porta che probabilmente conduceva a un bagno.

- Grazie.

Mi voltai e incontrai i suoi occhi. Lui annuì debolmente, una volta sola, poi sparì nel corridoio. Sbirciando lo vidi aprire un’altra di quelle porte e dedussi che stava entrando nella sua camera. Tornai nella mia e afferrai il sacchetto pieno di vestiti.

La prima cosa che avevo intenzione di fare era una bella doccia.
 

  


ANGOLO DELLE CIAMBELLE CARNIVORE BLU:
Lo so che sono in ritardo scusatemi tantissimo D:
Però sono andata un paio di giorni in Liguria e nel paesino sperduto dov'ero non c'era connessione.
Mi spiace ma spero che con questo capitolo mi perdoniate :D
Come vedete qui i nostri cuccioli iniziano ad essere "braccati" sia dalla polizia che dall'HYDRA, e anche da Nat, presto, molto presto eheheh :D
Iniziano anche a fidarsi... e Jem comincia a farsi le prime domande su James, e James su di lei. Nel prossimo capitolo... aaah, non posso fare spoiler, sorry :D
Una cosa, anzi due: per chi avesse twitter, io sono @Anna_Love21 e per chi seguisse il fandom di Harry Potter ho appena pubblicato una raccolta di tre capitoli su Fiorenzo. Se passaste e mi diceste che ne pensate, così come vi invito a farlo qui, mi farebbe molto piacere ;)
Un bacione, e ringrazio le due carissime che hanno recensito finora e chi legge, ricorda, preferisce o segue.
Anna


 

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Capitolo 4
*** Non è vero ***


When Love arrives in the dark



Avevo lo stomaco chiuso, perciò me ne ero rimasta rintanata in camera per tutta la sera, ma ma a mezzanotte e un quarto circa la mia pancia cominciò ad emettere fastidiosi brontolii.

Aspettai qualche minuto prima di uscire. Era vero che James mi aveva salvato la vita due, forse tre volte, ma dopo aver fatto la doccia ed essermi rilassata un po’ dei pensieri negativi avevano cominciato a far breccia nella mia testa.

Se fosse stata tutta una trappola? Magari James voleva farmi fidare di lui per poi farmi catturare dall’HYDRA, ed era stata tutta una montatura.

Per non parlare del fatto che aveva cercato di ammazzarmi. Durante la sera mi era tornato in mente che avrebbe potuto uccidermi in ogni momento. Potevo davvero fidarmi di lui?

La mia testa diceva di no, il mio istinto strillava di sì. Perciò mi ero limitata a rinchiudermi in camera e ad evitarlo come la peste... non che lui cercasse di avvicinarsi a me. In quelle ore non era nemmeno venuto a vedere se stessi bene.

Con un sospiro mi alzai dal letto. Avevo indosso gli stessi pantaloncini che avevo da quella mattina, ma mi e

ro cambiata la maglia. Era una senza maniche, una canottiera nera senza scritte.

Presi un respiro profondo cercando di calmare il battito del mio cuore mentre percorrevo l’ampio corridoio. La porta della sua camera era socchiusa, non c’era nessun rumore.

Deglutii e in fretta mi avviai verso la cucina. Nel salotto non c’era, perciò le opzioni erano due: o me lo sarei ritrovato davanti in cucina oppure stava dormendo.

Grazie al cielo fu la seconda ipotesi ad avverarsi, e io potei sgraffignare una barretta dalla credenza. Era al cioccolato... perché quelli dell’HYDRA amavano il cioccolato? Erano brutti e cattivi, non poteva piacere anche a loro. Avrebbe dovuto esserci una legge che lo impedisse.

Contenta, finii la barretta in pochi secondi e appallottolai la carta, buttandola nel cestino. Per il momento sazia, decisi di tornare in camera prima di incontrarlo. Dovevo ancora decidermi e avevo sonno.

Percorsi a passi veloci il corridoio, stando attenta a non fare rumore, ma quando arrivai vicino alla porta della mia camera sentii un gemito.

Mi bloccai, mentre il cuore prendeva a battere forte. Dopo qualche secondo il lamentò si ripeté, più forte, e mi voltai, fissando il legno bianco dello stipite della stanza di James.

Cosa diamine stava succedendo?

Un altro gemito mi fece trasalire, ma stavolta fu seguito da delle parole sconnesse che non riuscii a capire. Forse stava male... avrei dovuto aiutarlo?

Le mie gambe decisero per me. Veloce, mi avvicinai alla sua camera e spinsi la porta in avanti.

La stanza era uguale alla mia. Il letto era al centro, e James era disteso sopra alle coperte blu.

Indossava solo i pantaloni, e il suo braccio di metallo rimandava con riflessi cupi la poca luce presente.

- ... no... no... no, smettila... basta... per favore, basta... basta!...

Era come se un pugno di ghiaccio si fosse stretto attorno al mio cuore.

James si agitava nel sonno, voltando la testa e respirando pesantemente. I suoi respiri si spezzavano in gemiti spaventati, mentre sognava qualcosa di orribile. Il suo petto si sollevava veloce, e quando mi avvicinai mi accorsi che la sua fronte era coperta da un velo di sudore.

-... ti prego, ti prego, no... perdonami... basta...

Allungai una mano, tremante, mentre ansimava. Volevo svegliarlo, risparmiarlo da quell’incubo. Aveva cercato di uccidermi, ma sembrava terrorizzato.

Non appena le mie dita sfiorarono la pelle appiccicosa della sua spalla lui si svegliò e mi ritrovai sotto al suo corpo, una delle sue mani stretta attorno al mio braccio con forza e l’altra, quella umana, attorno alla gola, che stringeva.

Aprii la bocca, ma l’ossigeno non entrava. Sgranai gli occhi, dimenandomi, ma solo dopo qualche secondo i suoi occhi di ghiaccio si schiarirono. Ritirò la mano dalla mia gola, piegando il braccio di fianco alla mia testa, mentre ansimavo in cerca d’aria, la gola che bruciava.

Ero letteralmente schiacciata dal suo peso. Sentivo il suo corpo scattante gravare su di me, costringermi a stare sdraiata sul letto, le sue gambe sopra le mie e il suo busto che premeva sul mio.

-Levati- soffiai, senza riuscire a controllare il panico che minacciava di sopraffarmi.

L’odore di sudore mischiato a quello della sua pelle mi avvolgeva, mentre sentivo il suo calore attraverso la stoffa sottile dei vestiti. Con le mani mi aggrappai alle sue spalle, cercando di spingerlo via.

-TOGLITI DI DOSSO!

No, non si toglieva, anzi. Si aggrappò alle lenzuola per mantenersi sopra di me, mentre gli tiravo pugni contro il petto.

-Ferma, fermati!

Con un ringhio e con un colpo di reni arcui la schiena verso l’alto, senza darmi tempo per pensare a come i nostri corpi aderissero grazie a quel movimento, e gli tirai una testata.

Lui soffocò un grido di dolore più simile a un ringhio, ma mollò la presa e riuscii a scivolare via dalla morsa del suo corpo. Sgusciai di lato, scattando verso la porta, in panico, ma prima ancora che potessi allungare una mano per aprirla la sua mano di metallo si schiantò sul legno da sopra la mia spalla. Trasalii, strillando terrorizzata, mentre il legno si infossava nei cardini. Il suo braccio si avvolse attorno alla mia vita, e gridai a pieni polmoni cercando di fare resistenza. Mi divincolai, con il solo risultato di far serrare ancora di più la sua presa sul mio fianco.

-Lasciami, levati di dosso!- Strillai, tirandogli un calcio nello stinco. Ebbi l’impressione che facesse più male a me che a lui, ma il suo gemito di dolore mi ripagò.

Dato che il suo braccio era impossibile da togliere dalla mia vita optai per un’altra strategia.

Piegai le gambe e mi trascinai a terra, costringendolo a inginocchiarsi dietro di me.

-Ti prego, sta’ ferma!

Non lo ascoltai. Con un ringhio mi spinsi sui talloni e gli caddi addosso.

James grugnì mentre gli piombavo sul petto con tutto il mio peso. Riuscii a fargli indebolire la presa e tirandogli una gomitata nello stomaco scattai in piedi, verso la porta, ma la sua mano si chiuse attorno alla mia caviglia e sentii una fitta di dolore atroce mentre mi tirava verso di lui, facendomi piombare a terra. Grazie al cielo riuscii a frapporre tra il mio petto e il terreno gli avambracci piegati, ma fece male lo stesso.
Per un attimo rimasi senza fiato, mentre il colpo mi svuotava i polmoni.

James mi afferrò per la vita e mi alzò di peso, buttandomi sul letto a pancia in giù. Strillai mentre le sue mani si serravano attorno ai miei polsi e si sdraiava su di me. Si puntellò con le braccia in modo da non pesarmi addosso, ma al momento ero troppo occupata a ringhiare e a divincolarmi.

-Stai ferma- la sua voce era troppo troppo vicina al mio orecchio.

Come se avesse capito quel che stavo per fare mi piegò il polso in modo da farmi male, ma da non spezzarmelo. Soffocai un urlo, mentre il dolore si inerpicava su per il mio braccio in fiammate.

-Per favore, Jemima- mormorò. Il suo fiato soffiava sul mio collo provocandomi brividi di paura.

-Non... non respiro- dissi, ansimando. Era vero. Pesava troppo.

Immediatamente il suo peso si alleggerì, ma rimase comunque lì.

-Ti lascio- disse piano -ma per favore, basta.

Quelle parole le aveva dette con lo stesso tono supplichevole che aveva mentre dormiva, poco prima. Lasciai andare tutta l’aria che avevo nei polmoni, mentre lui si toglieva lentamente da sopra di me.

Voltai cautamente la testa verso di lui. Si era seduto di fianco a me. Mi raddrizzai, guardinga, mentre lui mi guardava. I suoi occhi erano una trappola. Una volta catturata, non ne uscivi più.

-Va bene- sospirai, strisciando indietro di qualche spanna. I suoi occhi mi seguivano tristi, ma non si mosse. Incrociai le gambe, tremando.

-Mi dispiace- lo guardai incredula. Quelle parole erano inverosimili, dette da lui, ma sembrava sincero. Le sue iridi erano imploranti. -Non... non volevo, davvero.

Non dissi nulla. Mi limitai a guardarlo. Sembrava davvero scosso...

-Okay- dissi, quasi senza voce. Mi alzai, nervosa.

-Meglio che... meglio che vada,

E in un secondo ero fuori, scossa dai brividi. Mi rifugiai nel letto, rannicchiandomi sotto alle coperte, prima di rendermi conto che il suo odore mi aveva impregnato la pelle.

Oddio, no... tutto tranne questo, pensai quando sentii una fitta al petto al pensiero di come James si sentisse male, in quel momento. E invece era proprio senso di colpa.

Chiusi gli occhi, ma quella notte non dormii.


La mattina dopo ero talmente inebetita che non mi ricordai di cos’era successo la sera prima finché fui in cucina. E davanti a lui.

Era seduto su una sedia vicino alla credenza, e davanti a lui c’era un bicchiere mezzo pieno d’acqua. Sentendomi arrivare alzò gli occhi, e avrei potuto scommettere che c’era una scintilla di sorpresa in quelle iridi grigie.

Mi bloccai, mentre il sangue affluiva alle mie guance con sorprendente velocità e dei brividi freddi mi attraversavano la schiena.

-Uhm... ciao- mormorai.

-Ciao- rispose lui, aggrottando le sopracciglia in un’espressione alquanto perplessa.

Deglutii e, sempre seguita dal suo sguardo, andai al frigo a pescare qualcosa di commestibile. Non c’era molto, se non una confezione di cereali congelati -ma chi metteva i cereali in frigorifero? Va bene che quelli dell’HYDRA erano strani, ma non pensavo che fossero così imbecilli!- e una di succo d’arancia.

-Dovremmo andare a fare la spesa- dissi funerea.

-Mmh.

James sembrava a dir poco uno zombie. Forse era perché si sentiva in colpa per la sera prima. O forse perché aveva deciso di ammazzarmi. Be’, non avevo intenzione di finire al tappeto senza prima mangiare qualcosa.

Irritata, mi diressi verso la credenza. La confezione di barrette mi saltò agli occhi. Feci una smorfia, ma avevo fame e quella era l’unica cosa presente là dentro.

Con uno sbuffo allungai la mano e ne presi una. Mi procurai anche un bicchiere d’acqua e mi sedetti di fronte a James. Mentre mi accomodavo allungai le gambe sotto il tavolo e trasalii quando urtai la sua.

James alzò gli occhi dal suo bicchiere e mi fissò con una marea di sentimenti nello sguardo che potevano voler dire tutto o niente.

Ritrassi la gamba di scatto e mi affrettai  bere un sorso d’acqua.

Il silenzio pesava. Sentivo delle ondate di ostilità provenire da lui, ma cercai di non farci caso. Alla fine, quando proprio non ce la feci più, sbottai.

-Senti, James.

Lui sollevò lo sguardo e si ritrasse, poggiando la schiena nuda contro la sedia.

-Io non ho intenzione di incazzarmi o fare l’offesa. Non so cosa sia precisamente successo là dentro- e con un cenno indicai verso il corridoio, mentre lui mi guardava stupito -ma non me ne importa. Se dobbiamo convivere per sopravvivere di certo non possiamo rivolgerci due parole al giorno, quindi, per favore, dì qualsiasi cosa.

Per qualche minuto stette in silenzio, fissandomi. Man mano che il tempo passava mi sentii una bambina capricciosa, ma riuscii in qualche modo a  reggere il suo sguardo indecifrabile. Era come se mi stesse mettendo alla prova.

-Sei una ragazza strana- disse infine. Da una parte tirai un sospiro di sollievo, dall’altra ebbi il piacevole istinto di tirargli il bicchiere. Probabilmente aveva notato la mia faccia contrariata, perché si affrettò a parlare. -Nessuno avrebbe deciso di seguire il proprio assassino e fidarsi di lui.

La sua voce mi lasciò una strana sensazione. Dai suoi occhi, dalla sua postura e dal suo tono percepivo quanto fosse sconfortato e l’odio che provava nei propri confronti.

Abbassai lo sguardo.

Anche lui lo fece.

-Io non sono nessuno- dissi all’improvviso, rialzando gli occhi e guardandolo determinata. -Io sono Jemima Wright. Ti sembra poco?

Restai sbalordita quando vidi un piccolo sorriso increspargli le labbra e illuminargli gli occhi. Fu un peccato, perché lo soffocò subito e tornò serio.

Sorrisi soddisfatta, mentre lui abbassava lo sguardo, e mi diressi verso il salotto. Sulla soglia della cucina, però, mi fermai, guardando il mio bicchiere mezzo vuoto.

-Sai- dissi senza voltarmi -dovresti sorridere più spesso. Sei bello quando sorridi.

Non ebbi bisogno di voltarmi per sapere che aveva sgranato gli occhi ed era rimasto a bocca aperta, sconcertato.


* * *

Il Soldato d’Inverno sapeva che la ragazza stava architettando qualcosa. Nel primo pomeriggio era andata a fare la spesa. Aveva categoricamente rifiutato che lui andasse con lei. Diceva che qualcuno avrebbe dovuto essere in casa, se qualche “nazista del cazzo” avesse deciso di fare un salto a controllare, e che un braccio di metallo non passava di certo inosservato. Parole sue.

E lui non aveva potuto darle torto.

Era tornata a casa con cinque sacchi così straripanti di cose varie -cibi, vestiti, vestiti, vestiti e delle scatolette di plastica colorate di cui ignorava l’esistenza e che lei aveva chiamato dvd- che si era sentito morire. Avevano passato circa mezz’ora a mettere a posto scatolette e confezioni. Mentre lei era girata, in bilico su una sedia per riuscire a raggiungere lo scaffale più alto, James aveva allungato la mano verso una delle scatole rettangolari.

-Giù le mani dal dvd, James!

Storcendo il naso, il ragazzo aveva lasciato perdere.

A pranzo Jemima aveva cucinato quella che aveva chiamato “carbonara”. James aveva faticato a mangiarla. Non era abituato a sapori così forti. L’HYDRA lo sfamava di barrette dietetiche e pasti militari, brodaglie e pane vecchio.

Jemima l’aveva guardato per tutto il pranzo con un’espressione meditabonda. James sapeva che aveva capito. Il pomeriggio era passato velocemente, e dopo cena l’uomo stava per tornare in camera quando Jemima lo placcò.

-James!

Si voltò verso di lei. Aveva un sorriso che le illuminava gli occhi color giada. Era vestita con i soliti pantaloncini verdi e la canottiera nera. I capelli erano raccolti, come sempre, in una coda.

-Vieni qui. Avanti.

Esitante, entrò nel salotto, circospetto. Il televisore era acceso. Spostò nuovamente lo sguardo sulla ragazza.

-Dai, siediti.

-Perché?- Non si mosse di un passo, facendola rabbuiare. Jemima si mise le mani sui fianchi e si avvicinò a lui.

-Non ti fidi? Siediti. Per favore- disse in tono più gentile.

James strinse le labbra in una linea sottile, poi, con un gran sospiro, obbedì. Si sedette sul divano, appoggiando la schiena allo schienale, e seguì con lo sguardo i movimenti della ragazza.

-Dato che, mi par di capire, l’HYDRA ti ha privato dei grandi piaceri della vita- Jemima si interruppe, arrossendo per il significato ambiguo delle sue stesse parole, e ringraziò di essere girata di spalle -suppongo che tu non conosca Harry Potter. O sbaglio?

James rimase in silenzio. Quando lei voltò la testa da sopra la spalla, scosse la testa.

Lei sospirò rassegnata, poi premette un pulsante e partì la sigla del film. Con un paio di saltelli Jemima si buttò sul divano, accoccolandosi di fianco al ragazzo. Il Soldato s’irrigidì, ma scoccandole un’occhiata di nascosto la vide sorridente, con gli occhi puntati sullo schermo. Lei girò lo sguardo, mentre le luci le illuminavano artificialmente il volto.

Gli rifilò un pugno debole sulla spalla.

-Guarda, dai. E’ un film stupendo.

James si rassegnò.

Il film non aveva il minimo senso, ma a quella strana ragazza sembrava piacere un sacco. La mente pratica di James lo trovava completamente irrazionale. Non esisteva la magia, né una scuola come quella.

Quando lo disse sottovoce, mentre i tre bambini finivano davanti al cane a tre teste, più a sé stesso che a lei, Jemima sbuffò.

-Non capisci? E’ proprio questo il bello. Pensa se fosse vero. Smetti di pensare e goditi il film- lo rimproverò dolcemente.

James ci provò.  Man mano che le immagini scorrevano sullo schermo, sorprendentemente si rese conto che non era male. Certo, era comunque impossibile, ma aveva un gran fascino. Ben presto si ritrovò con gli occhi incollati al televisore, a malapena consapevole delle lunghe occhiate che la sua compagna gli rivolgeva sorridendo sotto i baffi.

Verso la fine del film la sentì muoversi.

Il suo cuore prese a battere forte quando si rese conto che si era avvicinata a lui, così vicina che le loro braccia si sfioravano. Dopo qualche minuto, lentamente, dandogli il tempo necessario per scostarsi, Jemima piegò la testa e l’appoggiò alla sua spalla.

James si irrigidì, ma lei non si spostò. Rimase lì, rannicchiata contro di lui, senza tremare né allontanarsi. Lui non capiva. Avrebbe dovuto avere paura di lui, invece gli stava vicino come un cucciolo cerca il calore di qualcuno che si prenda cura di lui.

Deglutendo, il Soldato abbassò lentamente lo sguardo.

La gamba di Jemima era vicina alla sua. La cicatrice spiccava sulla pelle liscia come un fulmine in una notte plumbea. James sentì il proprio respiro farsi pesante, la rabbia invadergli i muscoli, ma si sforzò di riportare gli occhi sullo schermo e stare tranquillo.

La mano della ragazza lo colse di sorpresa. Si posò sul suo polso, accarezzandogli lievemente la pelle prima di ritrarsi. Il ragazzo voltò la testa, incurante del bambino che sveniva con la pietra rossa in mano, e osservò il profilo del suo viso, le ciocche di capelli sfuggiti alla coda sistemati dietro le orecchie. Lei era tranquilla, rilassata, appoggiata a lui come se niente fosse. Come se non lo odiasse per quello che le aveva fatto. Le aveva distrutto la vita.

Degli applausi proveniente dalla televisione lo distrassero. Aggrottò le sopracciglia, cercando di capire cosa fosse successo mentre era distratto, senza riuscirci.

Qualche secondo dopo, Jemima si alzò. James si morse la lingua, impedendo alla propria mano di afferrarla e tirarla di nuovo giù. Aveva bisogno di quel contatto, un contatto amichevole, di qualcuno che non avesse paura.

-Bene- disse Jemima, un po’ incerta, voltandosi verso di lui.

-Allora? Verdetto?

James si morse le labbra. -Carino.

Lo sguardo di fuoco che gli lanciò avrebbe demolito un edificio di cemento armato, ma non lui.

-Carino?- Ripeté offesa, incrociando le braccia. -Carino. Ah, carino. Bah, è un capolavoro- borbottò contrariata, inginocchiandosi e tirando fuori il dvd. James la guardò compiere quei movimenti fluidi, con una familiarità sconosciuta. -Carino... beh, per tua sfortuna e mia somma felicità domani guarderemo il secondo!

James sgranò gli occhi, tendendosi in avanti. -Il secondo? Quanti ce ne sono?- Chiese vagamente preoccupato.

Il ghigno di lei lo demoralizzò. -Otto.

Il Soldato d’Inverno, che era sopravvissuto a mille scontri, battaglie e spie, rischiò di soffocarsi con la sue stessa saliva alla notizia. Forse Harry Potter sarebbe riuscito ad ucciderlo, là dove Natasha Romanoff e mille altri avevano fallito.


Un urlo lo svegliò dal sonno. James scattò a sedere, afferrando il pugnale che aveva sul comodino per precauzione. I suoi occhi scandagliarono la stanza buia per qualche istante, prima che si rendesse conto che, primo, l’urlo era di una voce femminile e, secondo, era da solo e, terzo, il grido doveva appartenere a...

-Jemima!

James saltò fuori dal letto, con una spallato distrusse definitivamente la porta mezza rotta della camera e fu nel corridoio in meno di tre secondi. Corse verso la stanza della ragazza, l’ansia e la preoccupazione che gli infiammavano le vene.

Spalancò la porta, mentre un secondo urlo infrangeva l’aria.

Passò qualche istante prima che James capisse quello che stava succedendo.

Non c’era nessuna spia, nessun agente dell’HYDRA.

Jemima stava avendo un incubo... come lui stesso la sera prima.

James lasciò cadere il coltello sul pavimento e in un paio di falcate fu di fianco a lei. Ebbe un solo momento di esitazione, nel guardare il suo viso contorto dal dolore e dalla paura, prima di afferrarla per le spalle.

-Jemima! Jemima svegliati, svegliati!

La ragazza gridò di nuovo, tirandogli un pugno che il Soldato placcò con facilità. Si ritrovò a guardare quegli occhi verdi pieni di lacrime e una morsa gli serrò la gola. Jemima si tirò rapidamente su, aggrappandosi a lui, ansimando. Le sue mani corsero alla gamba, e James si sentì morire quando capì cosa stava succedendo. Lei stava sognando quella notte.

Lentamente, James indietreggiò. Le lacrime brillavano sulle guance di Jemima. Tremava tutta, stringendo la gamba al petto. Ma quando lui si voltò e, pieno di odio verso sé stesso, fece per aprire la porta e scappare via, lei lo trattenne.

-James, torna qui... ti prego.


* * *

JEMIMA:


Non avevo la minima idea del motivo per cui l’avessi fatto. Non avrei dovuto. Era lui che mi aveva quasi uccisa. Era per colpa sua che avevo degli incubi e la cicatrice bruciava da morire, che certe notti mi ritrovavo paralizzata dal dolore e dalla paura.

Ma troppe volte mi ero svegliata senza nessuno accanto. Troppe volte mi ero arrangiata da sola.

E poi lui stava cambiando, l’avevo visto nei suoi occhi, nei suoi gesti, nell’aiuto che mi aveva offerto senza volere nulla in cambio.

-Ti prego- insistetti, piegata in due dal dolore.

Lui si avvicinò piano, sedendosi sul bordo del letto mentre recuperavo il controllo del respiro. Stava tutto nella respirazione. Il dolore scemava e riuscivo a scrollarmi di dosso i ricordi.

Senza aver ben presente quello che facevo mi inclinai di lato e mi appoggiai a lui. Trasalì, ma non mi spostai. Avevo freddo, un freddo tremendo che mi congelava fin nelle ossa, nonostante le vampate di dolore che mi percorrevano i muscoli contratti della gamba.

La sua pelle era calda, morbida. Sentivo i fasci di muscoli indurirsi contro il mio tocco, ma non m’importava. Respirando a fondo, ricacciando indietro le lacrime, allungai le mani e presi a massaggiare la pelle che contornava la cicatrice.

Il mio respiro spezzato era l’unico suono nella stanza. Lui era immobile. Non si muoveva, ma sentivo i suoi occhi osservare attenti i miei movimenti.

Lentamente riuscii a calmare il dolore e qualche minuto dopo mi mordevo il labbro.

Come diavolo mi era venuto in mente di appoggiarmi a lui?

-Scusa- mormorai tirando su col naso e asciugandomi le lacrime umide sulle guance. Feci per spostarmi, ma trasalii quando la sua mano mi afferrò per il fianco. Deglutii, girandomi verso di lui, mentre il mio respiro si frammentava. I suoi occhi mi guardavano. Le sue iridi di ghiaccio erano incrinate, piene di una vulnerabilità che non avrei mai pensato di vedergli.

Con forza, ma senza farmi male, mi trascinò più vicina a lui. Cercai di non agitarmi.

La sua mano premeva sulla mia schiena, e mi ritrovai con la testa appoggiata al suo petto.

-Mi dispiace- la sua voce tremava, così come il suo corpo. -Mi dispiace tanto.

Spensi il cervello. Lo abbracciai, aggrappandomi alla sua schiena, rabbrividendo nel sentire il metallo del suo braccio sulla pelle. Un brivido lo scosse.

Sempre tenendolo stretto a me mi sdraiai. Non provai imbarazzo quando, seguendo i miei movimenti, fu sopra di me. -Va tutto bene- gli mormorai all’orecchio, accarezzandogli i capelli. Erano morbidi al tatto, si infilavano tra le mie dita solleticandomi il collo. -Va tutto bene, James.

Un singhiozzo lo fece tremare, mentre si stringeva di più al mio corpo come un cucciolo in cerca di calore.

Sto consolando lo stesso mostro che ha cercato di uccidermi.

Ma lui non è un mostro.

Sì, lo è.

No. Ha solo bisogno di affetto.

-Mi dispiace tanto- il suo fiato era caldo sulla pelle. Il suo braccio di metallo era tiepido contro il mio fianco. -Mi dispiace... sono un mostro- sentii qualcosa di umido bagnarmi l’incavo del collo. Era una lacrima. Serrai le braccia attorno alle sue spalle, cullandolo.

-Non è vero- sussurrai tra i suoi singhiozzi soffocati. Gli baciai la tempia, mentre piangeva.

Si addormentò un’ora dopo, rannicchiato su di me, le braccia che stringevano la mia vita come se non volesse più lasciarmi andare. Caddi tra le braccia di Morfeo qualche minuto dopo di lui.





ANGOLINO DELL'AUTRICE:
Innanzitutto, se qualcuno sta leggendo, mi scuso per il ritardo, ma mio padre mi ha riparato il pc solo dopo due mesi (-.-) e non riuscivo ad aggiornare sul portatile. Eheh oops :D
La bella notizia è che ho scritto qualcosa come tipo dieci capitoli, perciò non avrò blocchi e potrò aggiornare regolarmente... scuola permettendo, ovviamente :) sono disperata, ho la prof di greco e geostoria che mi odia e io la odio, MA VI RENDETE CONTO??? Dovrebbe essere in pensione da 4 anni ma NO! Lei non vuole andarsene T.T
Ahah lasciatemi perdere... e perdonatemiiii per il ritardo :)
Oggi vado a vedere colpa delle stelle agh :) piangerò come una fontana come la prima volta eheheh so che non c'entra nulla ma boh avevo voglia di dirlo :D
Un bacio, recensite, mi raccomando!
Anna

 

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Capitolo 5
*** Infatuazioni ***


When Love arrives in the dark

 

 

Mi svegliai all’improvviso. Tenni gli occhi chiusi. Ero circondata ancora dal calore del sonno, non volevo che svanisse non appena avrei aperto gli occhi. Sospirai, provando a girarmi sul fianco, ma un peso sullo stomaco mi impedì di muovermi. Confusa, aggrottai la fronte e aprii gli occhi.

Sbattei le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco la situazione.

Poi mi resi conto che non potevo muovermi perché era il braccio di James la cosa che mi premeva sullo stomaco. Il suo braccio metallico. Voltai la testa e realizzai che... cazzo.

Avevamo dormito insieme... abbracciati.

Lui aveva la testa posata contro la mia spalla, il torace che aderiva al mio fianco. Sentivo il suo respiro soffiare sul collo, la sua gamba contro la mia.

Mi morsi a sangue il labbro.

Cosa stavo facendo?

Mi aveva rovinato la vita. L’aveva rovinata a chissà quante persone... e io dormivo con lui? Lo abbracciavo?

All’improvviso i ricordi della sera prima mi colpirono come un violento schiaffo.

Non se n’era andato quando gli avevo chiesto di aiutarmi. Mi aveva guardata, mi aveva abbracciata, e quando lui aveva avuto bisogno di aiuto non ero riuscita a ritrarmi.

Sospirai.

Lo sentii muoversi, e immediatamente chiusi gli occhi, fingendo di dormire. Penso che non si accorse che stavo fingendo, perché, dopo aver sospirato, lo sentii immobilizzarsi.

Poi il suo respiro si avvicinò, mentre il suo torace premeva sul mio braccio. Si era chinato, posizionando il volto sopra al mio. Il mio cuore fece le capriole.

-Mi dispiace- sussurrò.

In qualche modo riuscii ad evitare di trasalire quando sentii la sua mano d’acciaio scostarmi i capelli dal collo. Il metallo era tiepido.

Subito dopo si alzò senza fare rumore. Quando la porta si chiuse aprii le palpebre e strizzai gli occhi. Il suo calore mi aveva abbandonata, e avevo freddo. Con un brivido che mi percorreva la schiena afferrai il lenzuolo e lo tirai con forza verso di me, appallottolandomici dentro.

 

* * *

James non riusciva a capire perché la ragazza avesse fatto finta di dormire. Guardando l’acqua limpida nel bicchiere bombato aggrottò le sopracciglia. Poteva darsi che avesse ancora paura di lui. Non avrebbe potuto biasimarla, in effetti. L’aveva quasi uccisa.

L’immagine degli occhi terrorizzati e doloranti di Jemima tornò nella sua mente, sostituita ben presto da quella della sera prima. Le sue iridi color giada erano piene di lacrime.

Scosse la testa, passandosi meccanicamente la mano tra i capelli.

Non capiva lui cosa stesse facendo, figurarsi lei. L’unica cosa di cui era sicuro, oltre al fatto di dover restare nascosto, era che non voleva ucciderla. Né farle del male.

Quella ragazza stava iniziando a risvegliare prepotentemente i suoi sentimenti, le sue emozioni nascoste e soppresse per anni e anni.
James si comportava come una macchina: come una macchina eseguiva gli ordini, obbediva a quello che gli dicevano. Ma quella ragazza, quella notte, aveva scavato una crepa profonda nelle sue convinzioni e nel suo petto. E, per quanto spaventato, non voleva smettere di provare quei sentimenti nuovi.

Sentì dei passi leggeri. Alzò lo sguardo appena in tempo per vederla sbucare dal corridoio con un sorriso leggero sulle labbra rosee.

- Buongiorno - disse sorridendo. Lui stirò le labbra, e lei sospirò alla sua mancata reazione.

Velocemente si diresse verso la credenza e aprì l’anta, per poi rendersi conto che i cereali erano stati sistemati sul ripiano più alto, fuori dalla sua portata.

- Lascia, faccio io - disse James, vedendola afferrare una sedia.

Lei si voltò a guardarlo, sorpresa. Le sue guance erano ancora leggermente rosse, i capelli arruffati e i vestiti stropicciati. Senza dire nulla, il Soldato si avvicinò a lei senza lasciarsi sfuggire il rossore che le affluì al viso quando le fu vicino. Allungò il braccio e afferrò la scatola colorata, porgendogliela. Jemima l’afferrò con un sorriso incerto, mormorando un vago “grazie”.

Non rispose. Si limitò a guardare quelle iridi che l’avevano stregato e a girarsi, tornando a sedersi.

Tornò a guardare il bicchiere.

- Immagino che non possiamo uscire. E che dobbiamo disfarci della macchina.

James annuì. - Me ne occuperò stanotte.

Jemima si sedette sul piano di lavoro con un sospiro. Posò la tazza di latte piena di cereali di fianco a sé, legandosi i capelli in una coda spettinata, poi afferrò il cucchiaio e cominciò a mescolare l’intruglio. James non sapeva che sapore avesse, ma sembrava piacerle.

- D’accordo - disse deglutendo. - Allora che facciamo?

James alzò lo sguardo su di lei, perplesso. Perché al plurale?

Ma lei gli puntò il cucchiaio contro e lo fissò minacciosa. - Non ci provare. Non ho intenzione di mollarti da solo. Potresti decidere di ucciderti, e non ho nessuna intenzione di passare un giorno sdraiata sul letto. A quanto ne so quando l’HYDRA ti aveva nelle sue grinfie ti sei perso tutto il meglio di questo mondo, perciò voglio aiutarti a recuperare. E non fare quella faccia, mi sono informata su di te dopo... l’attacco. Non so molto, praticamente solo questo.

James la guardò, suo malgrado incuriosito. Sembrava perfettamente tranquilla, ma aveva messo i pantaloni lunghi, neri e aderenti. Forse per nascondere la cicatrice. Era possibile che non volesse parlare della notte appena trascorsa... e non l’avrebbe biasimata se così fosse stato.

- Ah - mormorò. Jemima scrollò le spalle, alzando il mento e guardandolo.

- Dai, scegli cosa fare. Dobbiamo pur passare il tempo in questo posto. Harry Potter lo guardiamo stasera. Abbiamo una mattinata e un pomeriggio.

James scrollò le spalle, a disagio. Non sapeva cosa avrebbe dovuto dire.

Dato che il silenzio si protrasse per lunghi minuti e avrebbe continuato a farlo, la ragazza si arrese. Sospirando, saltò giù dal bancone e appoggiò la tazza vuota nel lavandino.

- Ho capito. Decido io. Mmh... andiamo in salotto?

James si ritrovò a seguire la sua schiena mentre camminava lentamente verso il salotto. Jemima si sedette a gambe incrociate sul divano, lui sul lato opposto del tappeto. Voleva mantenere le distanze. Dall’espressione della ragazza comprese che aveva capito le sue ragioni e che non ne era molto felice, ma non disse nulla.

- Allora. Conosci il Signore degli Anelli?

James scosse la testa, e Jemima stirò le labbra, scontenta.

- Guerre Stellari?

Al suo cenno di diniego sbuffò.

- Che tipi di libri ti piacciono?

Se fosse stato l’uomo che era prima della guerra, di cui conservava ancora qualche memoria, avrebbe risposto senza esitare. Ma James era stato prigioniero per più di trent’anni, aveva subito elettroshock e l’HYDRA l’aveva annientato, sottoponendolo al proprio volere. Non aveva idea di cosa gli piacesse o no. Era solo un soldato, una macchina che eseguiva gli ordini e non si curava di sé stessa.

- Non ne ho idea.

Dopo qualche altra domanda, Jemima lasciò perdere. Era chiaro che le sue domande lo stessero mettendo in difficoltà, e non voleva pressarlo troppo. Quell’uomo non conosceva nemmeno il suo gusto preferito del gelato. Era una cosa terribile.

La mattina passò veloce, tra lunghi silenzi e domande reciproche. Dopo un po’ James cominciò a chiederle della sua vita, dei suoi amici.

- Come sei guarita dalla ferita? - chiese all’improvviso.

Erano in cucina, e la stava aiutando a fare la pasta. Era buffo vederlo tagliare con precisione chirurgica ogni strisciolina, o impastare il grumo di farina e acqua con la guancia macchiata di bianco.

Jemima trasalì, rischiando di farsi scivolare di mano il coltello con cui stava affettando le zucchine. Alzò lo sguardo, posando il coltello di fianco alle verdure mezze tagliate, e si asciugò le mani con uno straccio.

- Perché vuoi saperlo? - chiese seria, gli occhi verdi che scintillavano incerti. - Vuoi farti ancora più del male di quanto te ne abbiano già fatto?

James serrò la mascella. Quelle parole gli stavano scatenando una tempesta dentro.

- Aspetta, tagliale un po’ più sottili. James, se vuoi che te lo dica va bene, ma...

- So gestire le mie emozioni - la interruppe lui con calma, guardandola con i suoi occhi di ghiaccio. Si era fermato anche lui, e aveva le mani appoggiate lontano dal coltello.

- Già, fin troppo - mormorò Jemima, riprendendo a tagliare. Rimase in silenzio per qualche minuto, riordinando le idee sotto allo sguardo tranquillo del ragazzo.

- Mi sono svegliata in ospedale con il femore fratturato in tre pezzi. Mi hanno sottoposta ad un’operazione che ha avuto successo. Poi ci sono voluti mesi di terapia, ma in un anno avevo finito. Tutti... tutti hanno creduto -e credono ancora- che sia stata io a tirarmi fuori dalle macerie. Gliel’ho lasciato credere, ma... - Jemima si interruppe, mordendosi il labbro.

- Forse se avessi detto la verità ora non ti starebbero dando la caccia - sussurrò, raccogliendo i rettangolini verdi nel palmo della mano e lasciandoli ricadere sul tagliere. Sussultò quando James le afferrò il mento, sporgendosi sul tavolo, e la obbligò a guardarlo.

- Non è colpa tua - disse a voce bassa, guardandola negli occhi. - Non hai colpa se sono diventato un mostro.

Jemima posò la mano su quella del Soldato, sorridendo con dolcezza, anche se i suoi occhi erano velati da un sottile strato di lacrime.

- Tu non sei un mostro.

Guardando le sue iridi verdi, James non ebbe più dubbi. Anche se avesse potuto dubitare della sincerità nella sua voce, non avrebbe potuto non scorgere la dolcezza nascosta nei suoi occhi. Jemima non aveva più paura di lui.

Con un sorrisetto, la ragazza interruppe il contatto visivo, ma quando lui fece per togliere la mano dalla pelle morbida del suo viso, la sua mano lo strinse forte.

- Aspetta - sussurrò, con un sorriso dispettoso che le illuminava il viso.

James trasalì quando le sue dita gli dipinsero una striscia di farina sulla guancia.

Jemima scoppiò a ridere, tirandosi indietro di scatto per non fare la stessa fine.

Lui rimase a guardarla incerto, senza sapere cosa fare. Poi, come se il suo braccio umano avesse preso vita, la sua mano si immerse nel mucchio di farina e acqua e scattò verso di lei seguendo un impulso che gli veniva dritto dal petto.

Lei strillò, cercando di correre via, ma lui l’afferrò per la maglia e la tirò contro il proprio petto.

- No - strillò lei, mentre le dita di James si insinuavano sotto ai suoi capelli, scorrendo su tutto il suo collo. Con un colpo di reni riuscì a liberarsi e a scattare verso la porta, ma lui le afferrò il polso e con un sorriso che nacque spontaneo sulle sue labbra le accarezzò la guancia.  Jemima finì con le spalle al muro, il corpo di James sopra al suo, la mano di metallo del ragazzo aggrappata al suo fianco e l’altra ferma sullo zigomo.

Lentamente le risate scemarono, mentre James si rendeva di cosa il suo corpo avesse appena fatto. Non era stato spiacevole... così come non lo era sentire il respiro della ragazza sulla spalla, mentre lo abbracciava... perché lei lo stava abbracciando.

- Non farlo - mormorò Jemima, col respiro ancora corto per le risate.

James voltò la testa, guardandola confuso. - Cosa?

Lei alzò la mano e posò l’indice sulle sue labbra. A quel contatto un brivido percorse la schiena del Soldato.  Gli occhi della ragazza riflettevano quelli di ghiaccio di James, ma vi era anche malinconia.

- Non smettere di sorridere - sussurrò, accarezzando con il dito l’angolo della bocca di James e proseguendo poi con la carezza lungo la sua guancia. - Sei bello quando sorridi.

Se c’era un aggettivo che James pensava che non avrebbe mai potuto descriverlo, era proprio bello. Da vaghi sprazzi di memoria sapeva che l’uomo che era stato prima -quello amico di Steve Rogers, con due braccia naturali- andava bene con le donne. Ma sapeva anche che non aveva avuto una relazione seria, altrimenti l’avrebbe scoperto.  Le foto che aveva visto al museo lo ritraevano come un’eroe, un soldato orgoglioso caduto gloriosamente in battaglia. Aveva sentito un paio di ragazze dire che Bucky era bello. Ma il nuovo James non era bello, né un eroe, e tantomeno un caduto con orgoglio. Era un mostro.

Cercò di sciogliere l’abbraccio, ma le sue dita non rispondevano ai suoi comandi. Restavano strette alla vita della ragazza. James sentiva il dolce profumo di camomilla dei suoi capelli riempirgli i polmoni. Jemima posò il mento sulla sua spalla, incurante di sfiorare l’attaccatura del braccio metallico.

- Non capisco - sussurrò dolcemente al suo orecchio, accarezzandogli la schiena con lunghe e lente carezze calmanti - non parli quasi mai. Sei sempre silenzioso. Non capisco se tu voglia uccidermi o meno. Anche l’altra notte. Pensavo... quando mi hai afferrata, pensavo che volessi finire la tua missione. Ma... ma poi... poi hai demolito la camera per riuscire a spiegarmi cosa stava succedendo - la sua voce tremava. James era sicuro che stesse cercando di non piangere. Puntò gli occhi sulla parete chiara di fronte a lui. La morbidezza del corpo della ragazza stava diventando insopportabile.

- Ho avuto paura... e ce l’ho ancora adesso - James si irrigidì alle parole della ragazza, mentre il suo cuore batteva forte - ho paura di non riuscire a scappare dall’HYDRA.

Jemima si aggrappò alle sue spalle con forza, premendo la fronte sulla sua spalla. Poco importava che fosse quella metallica. Poi lo lasciò andare.

- Forza - disse con un’allegria forzata - dobbiamo finire di fare la pasta.

 

* * *

JEMIMA:

 

Dato che ero troppo pigra per togliere le cose dalla lavastoviglie decisi di lavare i piatti a mano. La pasta era buonissima, e quando l’avevo detto anche James si era mostrato d’accordo con me, anche se si era espresso solo con un’occhiatina veloce. Per il resto, non aveva detto nulla, ma mentre stavo lavando i piatti continuava a fissarmi.

- Quanti mesi dopo hai iniziato a lavorare al bar?

Mi voltai di scatto, schizzandomi con l’acqua insaponata.

- Ma che schifo - esclamai, guardando la chiazza sulla maglietta. Poi sbuffai, scrollando le spalle e tornando a guardarlo. - Ma come fai a... mi spiavi? Dio, mi spiavi?

James mi guardò con i suoi occhi azzurri, con il suo sguardo che ti faceva capire che sì, avevi ragione, anche se non diceva nulla.

- Perché diamine mi spiavi? - chiesi perplessa. Lui scrollò le spalle, giocherellando con il tappo di una bottiglia rimasto sul tavolo. Aveva dei riflessi impossibili.

- Ero curioso.

- Tanto per sapere, per quanto mi hai spiata?

- Tre mesi.

Repressi a malapena l’istinto di lanciargli addosso il coltello insaponato che stavo sciacquando. L’avrebbe evitato o, quantomeno, afferrato al volo. Lo fulminai con un’occhiataccia.

- L’HYDRA non ti ha trovato?

La sua espressione si inasprì. Mi morsi la lingua. Possibile che non sapessi non tirare fuori qualcosa che lo ferisse ogni volta che parlavamo?

- No - disse secco. Poi si alzò.

Pensai che volesse darmi un pugno, ma afferrò semplicemente un panno e cominciò ad asciugare la pila di posate che avevo appoggiato di fianco a me. Man mano che lavavo le cose gliele passavo in silenzio. Le nostre dita si incrociavano ogni tanto, e ad ogni volta una fitta di calore mi attraversava il braccio partendo dal punto dove mi aveva sfiorata.

- Sai - disse all’improvviso, incerto - dovevo ucciderti. Eri la mia missione. Ma non ci sono riuscito.

Posai l’ultimo piatto, asciugandomi le mani mentre lo fissavo. Sapevo già quello che aveva detto, ma... faceva male comunque. James non mi guardò. Continuò ad asciugare il piatto con movimenti lenti e regolari, fissandolo corrucciato.

- È sempre stato tutto semplice - continuò - mi davano ordini e io... li eseguivo.

I suoi occhi si scurirono, la sua voce diventò amara e fredda al tempo stesso.

- Non mi spiegavano perché dovevo porre fine alle vite di quelle persone. Uccidevo e basta. Quando mi diedero il tuo fascicolo mi dissero che saresti stata in quell’edificio ad una cena con una tua amica. Diedi fuoco alla sala accanto. Fecero uscire tutti, tranne te. Mentre ti... mentre combattevo sapevo di dover prendere la pistola e spararti. Lo sapevo. Ma anche quando eri distesa ai miei piedi... non ci riuscii. Ti feci crollare la colonna addosso. E quando sentii il tuo urlo... in quel momento capii cos’avevo fatto.

James posò con lentezza il piatto e si girò verso di me. Non dissi nulla, mentre mi guardava in attesa di una mia reazione. I suoi occhi sembravano due frammenti di ghiaccio pieni di crepe. Allungò una mano e mi afferrò il braccio con delicatezza.

- Quando ho sentito il tuo urlo - riprese con voce tremante - e ti ho vista lì sotto, svenuta, ho capito che ero diventato un mostro. Non avrei dovuto provare quelle cose. Non dovrei provarle ora. Ti ho liberata, mi vergognavo di me stesso. Mi vergogno di me stesso adesso. Io... io sono una macchina. Sono un soldato. Non... non posso... non so nemmeno come si chiamano le emozioni che provo, perché non dovrei provarle. Sono... sono... non so nemmeno chi sono. Non so niente di me. Sono sempre stato un soldato, capisci? Non... non so come fare- si interruppe quando gli posai l’indice sulle labbra.  Con la mano destra gli accarezzai la guancia, sentendo la pelle prudere mente veniva solleticata dalla sua barba sottile.

- Io vorrei aiutarti. Vorrei... vorrei aiutarti a capire. Chi sei, ma anche cosa provi. So che è tutto nuovo per te... posso insegnarti, se vuoi. Voglio provare a farti accettare i tuoi sentimenti, ma solo se me lo permetti.

Lui mi guardò per un tempo indefinito. Vedevo la paura nei suoi occhi, l’incertezza, la confusione. Un moto di rabbia mi salì in gola. L’HYDRA l’aveva rovinato, l’aveva fatto a petti, l’aveva trattato come un giocattolino sostituibile da un momento all’altro.

- Io... non lo so - sussurrò con la voce spezzata - non so cosa voglio, Jemima.

A quel punto feci l’unica cosa che ero in grado di fare.

Lo abbracciai, tuffando il volto nel suo petto, inspirando il suo odore caldo. Le sue braccia si chiusero su di me, e trasalii quando sentii le sue labbra contro il mio collo. Chiusi gli occhi, col cuore in gola.

Mi stavo infatuando di James.





















 
ANGOLO AUTRICE:

Non ho scusanti, lo so, ma guardiamo il lato positivo: sono qui, e ho molti capitoli già scritti. 
Spero almeno che qualcuno legga ancora questa storia ugh. 


 

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Capitolo 6
*** Perdono? ***


When Love arrives in the dark


(Monique Martinez su Pinterest)

 

Era l’una passata, e James era uscito da più di un’ora. Si era liberato della macchina, riportandola in una cittadina distante una trentina di chilometri. Era tornato con l’autobus, poi aveva proseguito a piedi per un’oretta seguendo il sentiero sterrato che portava alla casa.
L’aria fredda della notte si condensava in piccole nuvolette davanti al suo volto. Faceva abbastanza freddo, ma non gli dava fastidio. Era abituato a sopportare tutto.

Quando fu in vista della casa si concesse un impercettibile sospiro. Era stanco, ma più perché sapeva già e non sarebbe riuscito a dormire senza incubi, che per la spossatezza fisica.

Silenziosamente, salì i gradini e fece attenzione a non far scricchiolare le assi di legno della veranda. Jemima aveva il sonno leggero, e non ci teneva a distruggere l’altra metà della casa lottando con lei.

Aprì la porta e la richiuse senza fare rumore dietro alle sue spalle. Il silenzio permeava l’aria.

James si diresse verso il salotto, ma si bloccò nel gettare un’occhiata a destra mentre camminava verso il corridoio.

Jemima si era addormentata sul divano. I capelli dorati ricadevano oltre il tessuto del bracciolo, sospesi sopra il pavimento. Un braccio era allungato e pendeva nel vuoto, le dita chiuse in un pugno.

James si avvicinò al corpo inerme della ragazza, osservandola. Era a piedi nudi, accoccolata su sé stessa. Aveva la pelle d’oca, ma un’espressione rilassata. Le labbra erano schiuse, e quando si chinò di fianco a lei James sentì il suo respiro sul braccio.

Con più delicatezza possibile allungò le braccia. Infilò quello di metallo sotto all’incavo del ginocchio destro della ragazza, e passò il braccio sinistro attorno alle sue spalle.

La sollevò, avvertendo la pressione della gravità che voleva trascinarla giù.

La testa di Jemima ricadde sul suo braccio, spostandosi poi contro l’incavo della sua gola.

James sussultò, e dopo qualche secondo d’incertezza si voltò, camminando rapido verso la camera della ragazza, facendo però attenzione a non farle urtare i muri o i mobili con le gambe.

Si infilò nella stanza e si avvicinò al letto. La depose con dolcezza sul materasso, e lei mormorò qualcosa, rannicchiandosi di nuovo. James la guardò per un istante, poi, con un gesto istintivo, afferrò le coperte aggrovigliate dal fondo del letto e le depose sopra al suo corpo addormentato.

Non indugiò oltre. Il suo cuore batteva con troppa intensità, e sentiva il riverbero dei battiti propagarsi nelle vene di tutto il suo corpo. Non voleva soffermarsi a studiare il profilo morbido della sua gola bianca, o a sfiorare la sua pelle pallida con le dita. Non poteva accarezzarle i capelli. Non doveva chinarsi su di lei e affondare il viso nel suo petto per sentirne il calore, o intrecciare le dita alle sue mentre le stringeva la vita e sfiorava con le labbra la curva della sua spalla.

James sentì il proprio respiro farsi pesante. Cosa gli stava succedendo? Perché pensava quelle cose, ma, soprattutto, perché pensarle gli provocava quelle fitte al petto che erano quasi peggio dell’elettroshock?

Mentre andava verso la porta, il suo sguardo venne catturato da un quadernetto posato sulla scrivania in vetro. Era piccolo, non più grande del palmo della sua mano, rilegato di una stoffa verde scuro. Incuriosito, si avvicinò, anche se l’istinto gli urlava di non farlo.

Prese in mano il quadernino. Era morbido al tatto, setoso. Lo aprì a una pagina a caso.

... non sono più sicura di niente. Ho paura, ma non che possa tradirmi, ma di non riuscire a capirlo.

Saltò un paio di righe.

... l’attacco di panico. Mi sono sentita sola più che mai...

... c’era lui stavolta.

... male, non posso farne a meno. Vorrei dirlo a qualcuno... questo silenzio è insopportabile.

Voglio aiutarlo... ma come? Non sa nemmeno cos’è la curiosità...

... piacere, accarezzarlo, cullarlo...

paura... bello... curioso... triste... silenzio...

James smise di leggere sentendo un sapore aspro risalirgli su per la gola. Parlava di lui. Leggendo degli sprazzi d’inchiostro sulle pagine bianche, aveva violato la sua mente. Si sentiva colpevole, macchiato, sporco... quasi come si era sentito quella notte. Ma prima che chiudesse di scatto il quaderno un piccolo scarabocchio attirò la sua attenzione. Lo guardò più attentamente, e si accorse che non era affatto uno scarabocchio, ma ritraeva qualcuno, girato di spalle, seduto con le spalle curve e la testa china.

Ma quel qualcuno aveva un braccio di metallo, e del sangue colava dalla spalla artificiale.

James si morse a sangue la lingua, e ripose di nuovo il quaderno sul vetro cristallino della scrivania. Si voltò.

Quella notte non riuscì a dormire.

Le parole di Jemima continuavano a rimbombargli nella testa, assieme all’immagine dei suoi occhi color giada, al suono della sua risata e al ricordo delle sue curve premute contro il suo petto.

 

Si rinchiuse nella sua camera per tutta la mattina, cosa non facile dato che avevano rotto la porta nel combattimento. Ma non riusciva nemmeno a pensare di poterle parlare, figuriamoci passare delle ore insieme a lei.

Rimase disteso sul letto a fissare il soffitto, con le mani strette alla nuca. Per la prima volta, la sua mente era vuota da tutti i punti interrogativi che l’avevano accompagnato per mesi. Per la prima volta, riuscì a non chiedersi chi fosse davvero Steve Rogers per lui. Riuscì a non pensare alle sue vittime.

Ma la sua mente era preda di altri pensieri confusi. Perché aveva pensato quelle cose? Per quale astruso motivo si era sentito in quel modo, mentre la prendeva in braccio e sentiva il suo respiro sulla pelle?

Un lieve bussare lo distolse dalle sue riflessioni, e si mise seduto mentre Jemima apriva con cautela la porta rimasta socchiusa. Stranamente i suoi capelli biondi erano sciolti sulle spalle, coperte -o forse era meglio dire scoperte- da una canottiera lilla.

Quando lo vide sul letto gli sorrise ed entrò.

- Hey- disse, appollaiandosi sul fondo del materasso. - Tutto a posto? Ti va di mangiare?

James negò con un rapido movimento della testa. Aveva lo stomaco chiuso. Evitava di guardarla negli occhi, ed ebbe l’impressione che lei se ne accorgesse.

- James, stai bene? Magari stanotte hai preso freddo.

Un brivido percorse la schiena di James a quelle parole. Perché voleva costringerlo a pensare a quella notte? Non le bastava che si tormentasse abbastanza da solo?

- Sto bene - rispose secco. Con la coda dell’occhio la vide aggrottare la fronte.

- Vuoi stare da solo? - chiese incerta.

Senza guardarla, annuì. Dopo qualche secondo lei si alzò, incerta ed esitante.

- Va bene... se vuoi mangiare ti tengo qualcosa da parte.

James annuì di nuovo, fissandosi le braccia. La porta scricchiolò, mentre lei la socchiudeva. Sentì i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio, e solo quando calò di nuovo il silenzio permise al senso di colpa di torcergli lo stomaco.

 

* * *

JEMIMA:

 

Non permisi al mio cervello di intasarsi di brutti, stupidi, terrificanti e malfiduciosi pensieri. Anzi, decisi di darmi da fare e provare a fare una torta. A mezz’ora dall’inizio, dato che l’impasto era venuto una schifezza, ci rinunciai e ripiegai su un semplice tiramisù. Anche il nome del dolce era adatto al mio umore decisamente pessimo.

La casa era troppo silenziosa, ma non potevo farci nulla. Mentre provavo a combinare qualcosa di decente continuavo a ripensare a quello che era successo.

James mi aveva... evitata per tutta la mattina. Non mi aveva neppure guardata.

Che ci stesse ripensando? Dopo che eravamo arrivati lì? Dopo che avevo irrazionalmente deciso di fidarmi di lui?

No, era impossibile. Non mi avrebbe tradita. Ma una vocina si insinuò fastidiosamente nella mia testa.

Come non ha provato ad ucciderti.

- Jemima?

Trasalii, schizzandomi la faccia con la crema. Alzai lo sguardo e vidi James in piedi sulla soglia della cucina, un po’ imbarazzato.

- Non volevo spaventarti.

Mi affrettai a togliere la crema dalla guancia con un dito e me lo infilai in bocca. Era buona. Caffè.

- Non mi hai spaventata. Stavo solo pensando, ecco.

Mi asciugai il dito nel grembiule che portavo, e vidi il suo sguardo scendere. La sua espressione si confuse un po’, probabilmente notando le faccine stampate sulla stoffa.

- Cosa stai facendo?

Perché diamine era così cauto? Non avevo mica una pistola in mano, per quanto avessi voluto averla.

- Tiramisù. Ti va di aiutarmi?

Una sottospecie microscopica di sorriso si dipinse sulle sue labbra.

- Non so cosa fare.

- Non importa. Ti dico io cosa devi fare. Lavati le mani.

James si diresse in silenzio verso il lavandino e obbedì. Si asciugò le mani -la mano- e poi mi si affiancò.

Non disse nulla, attese i miei ordini.

Gli indicai la ciotola piena di caffé freddo e i savoiardi.

- Inzuppali nel caffé e poi mettili nella teglia formando uno strato.

Esitante, James afferrò un biscotto e lo tenne per qualche secondo nel liquido. Poi lo posò sul vetro, spostandolo contro il bordo. Mi misi a farlo anche io, dato che non avevo nulla da fare.

- Mi dispiace per prima - mormorò a bassa voce James dopo un po’.

Alzai lo sguardo su di lui. - Nah, ma figurati.

- Davvero - insistette, voltando la testa e guardandomi. Era la prima volta che parlava tanto, e voleva parlare così tanto.

Scrollai le spalle, a corto di parole.

- Non volevo offenderti - continuò. Gli presi il polso, fermandolo dall’intingere un altro biscotto nel caffé.

- Basta così, adesso devo mettere la crema. Comunque... non mi sono offesa, davvero. Lo capisco se vuoi stare da solo.

- Però è controproducente - osservò lui, allontanandosi leggermente dal tavolo e fissando i miei movimenti mentre spalmavo la crema sopra ai savoiardi.

- Non capisco. In che senso?

- Vuoi tirarmi fuori dal mio buco. Stai facendo in modo di non lasciarmi mai da solo. Mi fai compagnia, anche se so che non è proprio semplice... soprattutto se ti ho quasi uccisa.

Mi irrigidii a quelle parole, posando la ciotola di ceramica piena di crema. Afferrai un biscotto e lo spiaccicai nel caffé con un po’ troppa forza, forse, dato che mi schizzai il grembiule. James si avvicinò e riprese ad aiutarmi.

- Io ti ho perdonato per quello che hai fatto, James - gli dissi, indurendo il tono della voce apposta - ma finché non lo farai tu non riuscirai a togliertelo dalla testa. E comunque hai ragione. Voglio aiutarti a uscire dal tuo buco, ma non posso farlo se prima non decidi di volerlo tu stesso.

Rimase in silenzio per un po’, tutto il tempo in cui impiegammo a finire gli strati del dolce. Rimase in silenzio mentre spolveravo di cacao in polvere la superficie del tiramisù.

Passai il dito nella ciotola della crema e lo leccai. Gli porsi la scodella.

- Avanti, provalo. E’ troppo buono per sprecarlo.

James mi fissò sorpreso per qualche secondo, prima di abbassare la testa e scuoterla.

Sbuffai, passando l’indice dell’altra mano sulla superficie chiara della scodella, e glielo misi davanti alla bocca.

- Non farmi sentire un’idiota. Vuoi provare a capire cos’è la normalità? Fallo e basta - ordinai inflessibile.

Gli occhi chiari di James mi studiarono per un tempo indefinito, prima che lentamente allungasse la mano. Mi aspettavo che avrebbe raccolto la crema dalla mia pelle, invece mi afferrò il polso e se lo avvicinò alle labbra. Schiuse la bocca e si infilò il mio dito in bocca.

Brividi mi percorsero la schiena insieme a vampate di calore mentre sentivo la sua lingua umida leccare il dolce dal mio dito, e mi ritrovai a sudare all’improvviso, arrossendo.

Le iridi di James non si staccarono dal mio viso nemmeno per un secondo. Poi schiuse le labbra e scostò lentamente la mia mano, chiudendo la propria sopra alla mia.

Caldo. Avevo dannatamente caldo.
- Hai ragione - disse piano, con la voce più rauca del solito - è buono.

Deglutii, con il cuore a mille, e abbassai lo sguardo. Ma che mi era venuto in mente?

James mi lasciò andare il polso, e mi affrettai ad afferrare la teglia e a voltarmi per metterla in frigo. L’aria fredda che mi investì la faccia quando lo aprii mi aiutò a riprendere un contegno decente.

- Uhm... d-d’accordo. Ehm... mettiamo a posto?

James annuì, ma giuro -giuro- che intravidi un sorrisetto increspare le sue labbra.

 

- MERDA!

Tirai un pugno nel cuscino del divano, sbuffando, il volto in fiamme. Subito dopo gemetti e mi lasciai cadere a pancia in giù sulle imbottiture, affondando la faccia nel cuscino.

- Che stai facendo?

La voce di James mi arrivò soffocata.

- Cerco di soffocarmi - mugugnai.

Trasalii quando mi afferrò per i fianchi e mi tirò seduta in mezzo secondo. Sbattei le palpebre, arrossendo ancora di più, e mi accorsi dei suoi occhi che mi fissavano a poche spanne dal mio viso.

- Non ho capito.

Mi divincolai dalla sua presa e mi rannicchiai, premendo la faccia contro le cosce e le mani sul volto.

- Stavo cercando di soffocarmi - ripetei. La temperatura del mio corpo era schizzata alle stelle.

- Perché?

Sbottai.

- Non mi sei d’aiuto, James! Distraimi dalla mia testa. Ora.

James inarcò un sopracciglio, perplesso. E come potevo dargli torto? Ma quello che avevo appena sognato... Dio mio. Ma perché mi ero appisolata sul divano?

- Penso che dovremmo andarcene entro un giorno, massimo due. Non è prudente restare qui ancora a lungo.
Quelle parole ebbero l’effetto di una doccia fredda; del resto, era quello di cui avevo bisogno. Alzai di scatto la testa e lo guardai.

- Penso che tu abbia ragione - ammisi passandomi una mano tra i capelli. - Però stavolta decido io dove andare.

A giudicare dalla sua espressione non era molto felice della cosa, ma non ribatté.

Sospirai, incrociando le gambe, e appoggiai i pugni alle guance. Una domanda si insinuò nella mia testa, una domanda che non riuscii a ignorare.

- Per quanto?

James mi rivolse un’occhiata interrogativa. - Che cosa? - chiese andandosi a sedere dall’altra parte del divano. Reclinai la testa all’indietro, appoggiandomi al divano con la schiena.

- Tutta questa cosa. Per quanto ci daranno la caccia?

- Non lo so - ammise lui dopo vari minuti. - Non lo so.

Calò il silenzio, o almeno fino a quando non mi venne un’idea geniale.

- Guardiamo Harry Potter?

James fece una smorfia strana, ma vedendo il mio sguardo assassino mutò l’espressione disperata in un pessimo tentativo di sorridere debolmente.

- Va bene.

Improvvisamente contenta, saltai in piedi e mi affrettai a mettere il dvd. Mentre il film partiva, col solito marchio della Warner Bros, mi sedetti di nuovo. James si spostò in silenzio vicino a me.

I fotogrammi iniziarono a scorrere sullo schermo. All’inizio riuscii a prestare attenzione alle immagini e ai suoni, ma, mentre i minuti passavano veloci, cominciai a distrarmi gettando occhiate al mio compagno di disavventure.

Era concentrato -o almeno presumevo- sul film. I capelli gli ricadevano ai lati del volto, e il suo sguardo era fisso davanti a sé, mentre le luci mutavano i suoi lineamenti rendendoli più dolci o affilati.

Scossi impercettibilmente la testa e tornai a guardare il televisore.
Il cuore mi saltò in gola quando sentii le sue dita metalliche affiancarsi alle mie. Riuscii miracolosamente a non distogliere lo sguardo dall’immagine di Hermione, ma per qualche istante il mio respiro si fece più veloce, mentre il suo braccio, coperto dalla maglia a maniche lunghe, premeva contro il mio.

A metà film, non ce la feci più a trattenere le parole che mi riempivano la bocca.

- James - sussurrai, tremando quasi. Lui si voltò, guardandomi serio. I suoi occhi erano pezzi di vetro. - Posso fare una cosa?

Dopo un attimo di esitazione, annuì.

Allora sciolsi la presa delle sue dita sulla mia mano e allungai il braccio lungo le sue spalle. Senza avere il coraggio di credere a quello che stavo facendo, feci pressione sulla sua spalle e lentamente lo feci sdraiare fino a fargli posare la testa sulle mie gambe.

I dialoghi del film erano un blando sottofondo a quello che stava succedendo -che stavo facendo accadere. James mi fissava dal basso, mentre le mie dita tremanti si insinuavano nei suoi capelli, accarezzandoli dolcemente e sfiorando la pelle.

- Dovremmo guardare il film - mormorò lui dopo un po’.  Annuii, e rialzai lo sguardo.

Anche lui girò la testa. Sentivo il suo respiro soffiare sulle gambe. Perché, perché avevo messo i pantaloncini?

La mia attenzione non si rivolse a lungo al film. Il mio sguardo scese di nuovo su di lui, sull’uomo che stavo tenendo sulle mie gambe. In quel momento un pensiero assurdo galleggiò nella mia mente.

È bello.

Sì, era dannatamente bello. La maglia gli aderiva perfettamente al torace, evidenziando il corpo tonico e muscoloso. I lacci che la chiudevano erano sciolti, perciò riuscivo a intravedere un lembo del petto. Ma in quel momento l’unica cosa che mi catturava era l’espressione lievemente persa e confusa che aleggiava sul suo viso, rendendolo più dolce.

Probabilmente passai tutto il resto del tempo a contemplarlo.

Solo quando partì la sigla e lui si girò di nuovo mi accorsi che il film era finito. Arrossii come una ragazzina, mentre mi dedicava una lunga e profonda occhiata, ma non smisi di muovere le dita sulla sua pelle. Scesi sulla sua nuca e poi sulle sue spalle, massaggiando i muscoli contratti, e un sospiro sfuggì dalle sue labbra.

Mi bloccai, temendo di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma lui riaprì gli occhi socchiusi e mi guardò. - Continua - mormorò roco - per favore.

Le mie dita ripresero a muoversi esitanti. Le sue spalle erano fasci di nervi accavallati e in tensione. James richiuse gli occhi, e col passare dei minuti il suo respiro si fece più pesante.

Ero terrorizzata. Avevo paura di fare qualcosa di sbagliato, provocare una sua reazione -magari anche violenta, ma lui rimase in silenzio, senza proferir parola.

Lentamente, lo sentii rilassarsi. Prima fu il braccio a cedere, poi le spalle e la testa. Si abbandonò completamente alle mie carezze, dandomi l’impressione di essere un cucciolo in cerca di calore e affetto. E magari era proprio così.

- Mi dispiace - bisbigliò quando la televisione si oscurò. Era buio, non lo vedevo, ma sentivo la sua mano calda sfiorare la mia coscia, alla ricerca della cicatrice. Girò la testa, e rabbrividii quando il suo respiro soffiò sulla mia pelle. Le sue dita mi sfioravano appena, ma bastava eccome a mandare vampate di calore su per tutto il mio corpo. Mi morsi il labbro quando le sue dita trovarono la superficie frastagliata del taglio, ma invece di ritrarre la mano premette con più forza, forse per ricordarmi che era stato lui a causarmi tutto quel dolore.

- L’hai già detto - mormorai.

La mia mano scese lungo il suo volto, sfiorando le labbra. Lo sentii ansimare quando con un dito seguii il profilo della sua gola, scendendo sul suo petto. Iniziavo a sentirmi accaldata, eppure non c’era nulla di passionale in quel contatto. Ero solo imbarazzata... penso.

- Ti ricordi quando... quando hai detto che mi avresti aiutato a capire? - sussurrò con una voce strana.

- Certo.

- Cos’è? - chiese a voce bassa.

- Cosa?

- Questa... sensazione... non so cosa... è come se... ho caldo. Tanto caldo - disse infine - ma mi piace. E... il mio cuore batte veloce. Senti.

Mi afferrò la mano, quella libera, e la portò sul suo petto, proprio sopra al cuore. Sussultai. Era forte, e veloce. - E ho dei pensieri... strani.

Oh, cazzo.

Con dolcezza liberai la mia mano, intrecciando le dita alle sue. Con l’altra sfiorai il profilo del suo braccio di metallo, coperto dalla stoffa.

- Una cosa alla volta - mormorai. - Ti piace?

- Sì - disse incerto, dopo un lungo silenzio.

- Allora va bene.

- Sei... sei sicura?

Sorrisi, intenerita. - Ma certo.








 
sbaduuum. Che stiano iniziando a sciogliersi, finalmente?

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Capitolo 7
*** Leave ***


When Love arrives in the dark

(ka-kang su Rebloggy)

 

- Cazzo! - imprecai, finendo a terra per la seconda volta in pochi minuti. Trattenni un gemito di dolore mentre James rafforzava la presa sul mio povero braccio. Era praticamente seduto sulla mia schiena. Mi lasciò dopo qualche secondo.
- Ma come fai? - gemetti, rotolando sulla schiena per voltarmi verso di lui. James mi guardava dall’alto in basso, sulle labbra quella che sembrava la vaghissima ombra di un sorriso. Mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi, tirandomi su di peso con un fluido movimento del braccio e nessuna fatica.
- Sei fuori allenamento - mi fece notare, mentre mi allontanavo di qualche passo. Era piuttosto bravo ad evitare le domande.
- Lo so - risposi con un’occhiataccia - ma non posso farci nient... ah!
Non ci provai neppure, a difendermi. James mi afferrò di nuovo per il braccio e me lo torse dietro la schiena -di nuovo-, facendomi inarcare la schiena per il dolore. Di nuovo. Con il braccio di metallo mi cinse la vita in meno di un battito di palpebre e mi strinse al proprio petto, impedendomi di accasciarmi a terra. Sentivo il suo respiro sul collo, i suoi capelli sfiorarmi la pelle.
- Non puoi arrenderti - mi rimproverò, la voce piena di biasimo. Sbuffai, angosciata. Perché non mi mollava? E perché era così loquace? Sentivo il suo odore riempirmi i polmoni, e il profilo teso del suo addome contro le spalle.
- Non posso farci nulla! Sei troppo forte, tanto vale non provarci nemmeno.
James mi lasciò andare il braccio dolorante, ma posò le mani sui miei fianchi, tirandomi verso di lui in modo da far aderire la mia schiena al suo petto. E anche altri punti. Ma che gli prendeva?
- Jemima - mi redaguì contrariato. - Saresti già morta. Non puoi arrenderti, non importa la superiorità del nemico. Devi sempre combattere.
Gli lanciai un’occhiataccia.
- C’è un modo per darti un po’ di incoraggiamento?
Ci pensai un attimo, cercando di non distrarmi nel sentire le sue mani affondare nella pelle e reprimendo il brivido che mi corse giù per la schiena a quel tocco.
- Non so...
- Aspetta - mi interruppe lui. Mi lasciò andare e si voltò, sparendo dentro alla casa con lunghi passi felpati.

 

• • •

James sapeva che quello che stava per fare era scorretto, e molto. Molto molto molto scorretto.
Ma Jemima quella mattina era proprio giù di corda. Non gli aveva neppure sorriso, nemmeno una volta, il che era molto preoccupante. La sera prima si erano addormentati sul divano, e la mattina dopo James si era risvegliato come pochi giorni prima, sdraiato su di lei, le braccia raccolte lungo i fianchi della ragazza e la guancia premuta sul suo petto morbido.
Si era affrettato ad alzarsi prima che lei si svegliasse. Come pochi giorni prima.
Anche se molti pensieri confusi si agitavano nel suo cervello era riuscito ad accantonarli per l’allenamento. Ma a quanto pareva lei no. L’aveva spedita al tappeto una dozzina di volte, per così dire, dato che erano state molte di più, senza nemmeno sforzarsi. Certo, Jemima era fuori allenamento, ma nelle loro lotte recenti aveva dato prova di essere ancora capace di combattere strenuamente, anche se non era capace di tenergli testa a lungo.
James entrò nella camera della ragazza, mentre il suo sguardo vagliava la stanza. Finalmente trovò quello che cercava, lo afferrò e tornò veloce fuori, sul prato.
Sentendolo arrivare, Jemima si voltò perplessa, ma non appena si accorse di quello che teneva in mano sbiancò di colpo.
- Che stai facendo? - esclamò dopo qualche istante, precipitandosi verso di lui. James la placcò con un braccio e la spedì a terra. Con un ringhio furioso, completamente dimentica del dolore fisico, lei si rialzò.
- Ridammelo ora - sibilò.
James scosse la testa, sventolando il quadernetto sopra alle loro teste.
- Te lo darò solo quando sarò soddisfatto del tuo impegno.
Jemima non ci impiegò molto per attaccare, stavolta. Si lanciò contro di lui, colpendo il suo zigomo con un pugno ben assestato. James non si mosse di un millimetro, mentre lei barcollò, stringendosi la mano allo stomaco con espressione ferita.
- Ahi - esclamò.
James attaccò, veloce.
Non pensava; eseguiva. Pugni, parate e calci colpivano e proteggevano l’uno dall’altra. Anche se James era più forte, Jemima era veloce e sembrava aver trovato la concentrazione. Non furono poche le volte in cui sembrò persino essere in grado di eguagliarlo, spostandosi così velocemente che James si accorse un millesimo di secondo in ritardo di dov’era e che stava per colpirlo.
Quando lei lo centrava, lui ricambiava il colpo senza pietà, e viceversa. Dopo un po’ di tempo, Jemima si stufò.
Con un movimento rapido si spostò dietro al ragazzo e saltò, cingendogli il collo con le braccia, e strinse. Con un grugnito soffocato, James si chinò in avanti e la sbatté a terra, liberandosi della sua presa. Jemima gli afferrò la caviglia e lo fece sbilanciare; mentre lui cercava di recuperare l’equilibrio gli fu addosso con tutto il suo peso e riuscì a farlo cadere. Peccato che James l’avesse previsto e non appena la sua schiena toccò terra rotolò su sé stesso, finendo sopra alla ragazza. Le immobilizzò le braccia e le allargò le gambe, infilando le proprie tra di esse in modo da non rischiare di essere colpito da qualche calcio.
Si fermarono entrambi, ansimanti e sudati. Jemima lo guardò per qualche istante, poi sbuffò sonoramente e abbandonò la testa sull’erba. James la guardava, suo malgrado affascinato. Era bella anche stanca e scompigliata. I capelli biondi erano sfuggiti alla morsa dell’elastico e si erano sparpagliati attorno alla testa della ragazza in morbide spirali.
Il petto di Jemima si abbassava e si alzava velocemente, sfiorando il torace di James.
Di colpo, il Soldato si ritrovò a combattere con uno strano calore che gli nasceva in petto e scendeva fino al basso ventre.
Cosa diavolo sto facendo? si chiese inorridito, quando l’immagine delle proprie labbra che raggiungevano la pelle bianca del collo di Jemima gli balenò nella mente.
Con uno scatto si tirò in piedi, voltandole le spalle e aggrappandosi al legno della veranda. Le sue dita incisero il legno, sbriciolandolo. Non gli servirono i sensi amplificati per sentire il sospiro di Jemima, anche se non avrebbe saputo a cosa attribuirlo: confusione, tristezza... tristezza? Come poteva anche solo pensare che fosse dovuto a tristezza?
Le spalle di James erano scosse da fremiti. Non solo l’aveva quasi uccisa, ora pensava a lei in quel modo. Non conosceva i sentimenti, ma quello sì. Quello era un istinto animale, adatto ad un animale come lui, ad un mostro.
- James... - si scostò bruscamente quando lei gli posò la mano sulla spalla.
- Non toccarmi - ringhiò. - Abbiamo finito.
Con rapidi passi salì i due gradini della veranda, gettando a terra il quadernetto che aveva ancora in mano, e sparì in casa, con lo sguardo stupito e ferito di Jemima puntato sulla schiena.

 

JEMIMA:

Quella sera partimmo. Infilammo le cose essenziali in degli zaini comprati qualche giorno prima, e il resto lo buttammo a qualche chilometro da casa. Non potevamo lasciare nulla nella casa: se l’HYDRA fosse andata a controllare avrebbe sicuramente trovato le cose.
Era più o meno da un’ora che stavamo viaggiando in silenzio, e James non sembrava intenzionato a schiodarsi dal suo mutismo. Io, del resto, facevo del mio meglio per non sentirmi offesa.
Era scappato da me come se fossi un mostro. Come se... l’avessi disgustato.
A quel pensiero mi morsi il labbro, trattenendo un sospiro. Quella consapevolezza faceva male. Un sacco male.
Strinsi la presa sul volante, battendo le palpebre per liberarmi dal velo di lacrime che mi appannava la vista.
Premetti di più il piede sull’acceleratore. James si era procurato la macchina senza dirmi chi gliel’avesse ceduta, e avevo l’impressione che, se me l’avesse riferito, non mi sarebbe piaciuto molto. Perciò ero rimasta zitta. L’auto era ideale: un SUV di dimensioni medie, di un grigio argento metallizzato e con i finestrini oscurati.
- Jemima?
Trasalii sentendo la voce di James risuonare nell’abitacolo come una carezza. Dolce, contrita.
Serrai le dita sul volante, mio malgrado arrabbiata.
- Mi dispiace.
L’immagine di lui che si sollevava dal mio corpo si abbatté con forza nella mia mente. Il ricordo della sua espressione, dello sguardo grondante di disgusto che mi aveva lanciato mi trapassarono il petto con un dolore acuto. Strinsi i denti, sterzando bruscamente a destra verso un sentierino nascosto dalle erbacce che passava tra i campi.
James si aggrappò al sedile.
- Cosa succede? - chiese allarmato.
Non risposi, limitandomi ad accelerare.
- Jemima?
- Taci.
Vidi uno spiazzo tra gli alberi che si facevano più fitti. Infilai la macchina lì, mi slacciai la cintura e aprii la portiera.
- Scendi - ordinai secca. Chiusi la portiera con un bel tonfo e girai davanti al muso dell’auto, piazzandomi con le braccia sui fianchi pochi metri più in là, incazzata nera. Sentivo il cuore pulsare la rabbia al posto del sangue.
James obbedì e, con aria un po’ perplessa, mi raggiunse, fissandomi circospetto.
- Jemima, cosa succede?
Prima ancora che potesse anche solo pensare di aspettarsi una risposta, il mio pugno si abbatté sul suo zigomo con forza, facendolo barcollare un paio di passi indietro. Avrebbe potuto parare il colpo, ma non lo fece. Si portò una mano al volto, sbalordito, fissandomi come se fossi improvvisamente impazzita.
E non potevo dargli torto.
- Volevi che combattessi, no? Perfetto. Combatti! - ruggii, scattando in avanti e mollandogli un gancio destro. James indietreggiò. I suoi occhi erano un misto di stupore, rabbia, senso di colpa. Era bellissimo.
Non appena mi resi conto di quel pensiero una nuova ondata di rabbia mi percorse da capo a piedi.
- Jemi...
Lo colpii con un calcio al torace.
- COMBATTI!
James non si mosse mentre lo tempestavo di pugni, ma le sue mani si strinsero, i muscoli si contrassero. Spensi il cervello e lasciai che tutta la mia rabbia si abbattesse su di lui attraverso i colpi, e le parole.
- Allora? Non combatti contro una donna? O solo contro di me? - ad ogni parola, un colpo.
James cominciò a parare, senza attaccare. Ad ogni pugno, ad ogni calcio, mi bloccava e mi lasciava andare, spingendomi alcuni passi più indietro. I suoi occhi erano cupi, la sua postura rigida.
- Strano, sai? Perché non mi sembra che quella notte tu l’abbia fatto!
Un ringhio risalì dalle labbra di James. Mi afferrò il braccio e me lo torse dietro la schiena, facendomi urlare mentre una vampata di dolore mi infiammava il braccio. Inarcai la schiena, premuta sul suo busto, ma mi lasciò andare, spingendomi nuovamente più in là. Caddi a terra, ma mi rialzai, ansimando.
- Oh, poverino. Ti ho fatto incazzare? Ma che ti prende? Dov’è finito il mostro che mi ha quasi uccisa? - sibilai. Non realizzai nemmeno che cosa avessi detto, ebbi un solo secondo di preavviso prima che un pugno mi si abbattesse nello stomaco. Mi piegai in due, senza fiato, mentre James ruggiva al mio orecchio. Le sue mani si erano impresse nella carne delle mie braccia, così forte da farmi salire lacrime di dolore agli occhi.
- Non sono un mostro! - la voce graffiante era colma di disperazione.
- No, è quello che speri di non essere - soffiai tossendo, cercando di riprendere fiato. - Ma tu, tu sei un mostro!
James mi afferrò per le spalle e mi gettò a terra, caricando un pugno. I suoi occhi erano una pozza senza fondo, un buco pieno di rabbia, rabbia e solo rabbia. Una rabbia animale.
Parai il pugno a fatica. Mi sembrò di sentire il polso scricchiolare sotto alla sua forza, e quando James si liberò dalla mia presa vidi una scintilla di lucidità nei suoi occhi, di orrore per ciò che stava facendo. 
Lasciai andare le ultime parole che mi tenevo dentro da giorni.
- Tu mi hai uccisa - sputai. - Hai reso la mia vita un inferno!
James si avventò su di me. Gli tirai una testata che gli fece perdere per un attimo stabilità. Sgusciai via dalla sua presa, rantolando per il dolore. Era riuscito a colpirmi alla gamba, proprio dov’era la cicatrice.
Mi tirai in piedi ansimando, così come lui. Mi scagliai su di lui, sorprendendolo. Pensava che avrei chiesto di finirla? Be’, si sbagliava. L’adrenalina mi scorreva nel corpo, e con un urlo mi abbattei su di lui. Non sapevo nemmeno perché, davanti agli occhi rivedevo solo il fumo e il suo volto sopra al mio di quella notte. Volevo solo colpirlo, ferirlo, volevo vendetta. Rotolammo a terra, io sopra di lui e lui sopra di me, finché non riuscii a far leva sulla gamba e a posizionarmi sopra il suo petto.
Lo colpii con un manrovescio che gli fece voltare la testa, ma lui mi afferrò il fianco con una mano e con l’altra, quella metallica, mi agguantò per la gola, spingendosi sopra di me. Non avrebbe dovuto farlo.
Gli tirai un calcio nel basso ventre, abbastanza forte da fargli sentire dolore ma abbastanza piano per far sì che passasse dopo qualche secondo. James emise un gemito roco, e lo spinsi via, balzando in piedi. Ma un secondo dopo un braccio mi circondò il collo, stringendo e sollevandomi da terra. Rantolai, senza aria, e feci la prima cosa che mi venne in mente. Con un grido gli morsi il braccio -quello umano. James gridò qualcosa in una lingua strana, lasciandomi andare.
Mi voltai e gli saltai addosso, cademmo di nuovo a terra.
Bloccai le sue mani, facendo resistenza ai suoi movimenti con ogni singola cellula del mio corpo, puntando i piedi a terra, ai suoi fianchi.
L’adrenalina era sparita. C’era solo un grande vuoto. La rabbia era sparita, evaporata, e al suo posto c’erano solo i sensi di colpa e il dolore, sia fisico che mentale. La cicatrice pulsava, il fianco pure, il polso doleva come non mai, ogni muscolo tirava, e mi sentivo malissimo.
James ansimava, cercando di liberarsi dalla mia presa; e alla fine ci riuscì. Mi colpì con un pugno. Non reagii, nemmeno quando mi sovrastò, con un braccio sollevato in aria per abbatterlo sul mio volto. Chiusi gli occhi, in attesa del colpo, il fiato mozzo e il cuore a mille, il suo peso che gravava sul mio bacino.
Il pugno non arrivò. Al suo posto, ci fu l’oblio.

•••

James colpì la terra di fianco alla testa di Jemima con un urlo. La furia cieca sparì in un momento, lasciandolo tremante e svuotato.
- Jemima - mormorò. Lei continuò a tenere gli occhi chiusi.
- Jemima - posò la mano umana sulla sua guancia, accarezzando la pelle che pochi istanti prima aveva colpito. La sua voce si ruppe, frantumandosi in mille schegge di dolore.
- Jemima!
La scosse, ma lei si abbandonò inerte alla sua presa, la pelle calda sotto alle sue dita.
L’ho uccisa. L’ho uccisa.
James trattenne il panico, chinandosi sul suo volto e ascoltando il suo respiro.
È solo svenuta. È solo svenuta. È solo svenuta.
Si rannicchiò sul suo corpo, posando la testa sul petto di Jem, mentre un singhiozzo gli risaliva su per la gola. Era successo, era appena successo. Aveva perso il controllo, aveva fatto ciò che non avrebbe mai voluto che si ripetesse. Quella consapevolezza lo abbatteva, ma era conscio di doversi muovere. Respirò a fondo, alzandosi rapido dal corpo inerte della ragazza. Si abbassò, accucciandosi, posò la mano sulla sua schiena e con l’altra le afferrò l’incavo del ginocchio. Si alzò, nonostante sentisse ancora il dolore pulsargli nel torace e al basso ventre.
Riportò Jemima in macchina, deponendola con delicatezza sui sedili posteriori. Recuperò un cuscino da viaggio e glielo sistemò velocemente, ma con cura, sotto la testa, poi si mise seduto al posto di guida.
Appoggiò la testa al sedile, respirando a fondo.
Non sapeva cos’era successo. Non capiva.
James girò le chiavi e mise in moto.

JEMIMA:

Mi risvegliai con un forte dolore alla pancia. In effetti, sentivo dolore dappertutto. Con un gemito mi misi supina. Fissai il soffitto color bianco panna che stava sopra di me, prima di rendermi conto che ero in un letto matrimoniale, avvolta nelle lenzuola di uno splendido azzurro chiaro, morbide come la seta.
Girai la testa, ma tutto quello che vidi fu una porta e una scrivania.
Rinunciai a guardare dall’altro lato della stanza. Con un respiro profondo ignorai la fitta che mi percorse i muscoli e mi misi lentamente seduta. Inarcai un sopracciglio quando mi accorsi che davanti a me c’era un grande specchio a muro, e feci una smorfia quando mi accorsi che in realtà era un armadio.
Trattenendo un gemito mi alzai, barcollando un po’. Mi posizionai davanti al vetro, e alzai la maglietta.
Cazzo.
Un livido violaceo, attorniato da molti altri, si spandeva affianco all’ombelico, proprio nel punto in cui la carne doleva di più.
Un rumore mi fece trasalire, e girai la testa, in allarme.
Il fiato mi si strozzò in gola quando incrociai gli occhi sorpresi di James. Dopo un secondo, si chiuse la porta alle spalle, mentre i suoi occhi scivolavano da me al mio riflesso nello specchio. Mi accorsi troppo tardi di cosa stesse fissando, e arrossendo mollai la maglietta, che ricadde giù, coprendo di nuovo i lividi.
- Ti sei svegliata - aveva la voce leggermente roca. Annuii, senza voltarmi.
Le immagini di -quanto? Qualche ora prima?, mi attraversarono la mente. Ma come diavolo avevo fatto a perdere il controllo in quel modo?
Trasalii quando James mi afferrò e mi sollevò in aria, una sua mano sul fianco e l’altra, di metallo, a stringermi la gamba. Non mi ero nemmeno accorta che si fosse avvicinato, rapido e silenzioso come sempre. Avvampai, aggrappandomi alla sua spalla, senza avere il coraggio di guardarlo. Mi sentivo malissimo, e non solo fisicamente. James mi riportò al letto, appoggiandomi delicatamente sopra alle lenzuola. Il suo tocco era caldo e delicato; niente a che vedere con i colpi della sera prima. La luce entrava a fiotti dall’ampia finestra, lasciata scoperta, senza le tende tirate. Gli illuminava il viso, sospeso poco sopra al mio, addolcendo i lineamenti e rendendo ancora più chiari i suoi occhi. Si sedette sul bordo del letto, la schiena che sfiorava la mia anca.
- Jemima... io... mi dispiace.
Scossi la testa, girandomi sul fianco in modo da poterlo vedere meglio. Allungai la mano e gli sfiorai la guancia in una carezza, mentre la barba di pochi giorni mi solleticava il palmo.
- È stata colpa mia - dissi. Non mi sentivo in colpa. Forse avrei dovuto sfogarmi in modo civile, ma quel che era fatto era fatto. - Ti ho provocato... apposta.
Il suo volto espresse tutta la sua sorpresa.
- L’hai... l’hai fatto apposta?
Annuii. Gli spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
- Già. Almeno, all’inizio, ma non volevo... esagerare in quel modo. Poi... ho perso il controllo - mi sentivo estremamente piccola, sotto al suo sguardo penetrante e imperturbabile.
Lui rimase in silenzio per un po’. Poi indicò il mio ventre con un cauto cenno del capo.
- Non volevo lasciarti lividi, è che...
- È tutto a posto, davvero. Piuttosto... mi dispiace di... averti colpito... - non finii la frase, ma con un cenno del mento indicai la parte inferiore del suo corpo.
Una scintilla di divertimento guizzò nel suo sguardo, e arrossii.
- Non fa niente. È passato. Non fa più male.
Avvampai ancora di più, dandogli una piccola spinta che non lo smosse nemmeno di un centimetro. - Mi stai facendo sentire in colpa apposta? - esclamai indispettita. Dirlo mi venne naturale, senza doverci riflettere sopra.
La sua reazione fu la cosa più bella che mi fosse mai successa. Rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere, non un ghigno, ma una risata vera. Mi ritrovai a contemplare i suoi lineamenti morbidi, tesi in un’espressione che aumentava la sua bellezza di cento volte.
Abbassai lo sguardo, sorridendo, ma il suo dito mi sollevò il mento. Rimasi senza fiato: era vicinissimo.
- Non è vero quello che ho detto - mormorò, posando la fronte contro la mia. - Sei brava a combattere. Mi hai tenuto testa... hai tenuto testa al Soldato d’Inverno - la sua voce si tinse di amarezza.
Non riuscii a farne a meno. Mi sollevai su un gomito, i muscoli che contraendosi urlavano di dolore, appoggiandogli una mano sulla guancia. I suoi
 occhi azzurri mi fissarono sorpresi.

- Non è vero - dissi dolcemente - io ho tenuto testa a James.
Le sue labbra si schiusero stupite, e sorrisi. Il suo sguardo si abbassò e io arrossii, cercando di tirarmi indietro di scatto, ma la sua mano si chiuse sul mio polso. James mi tirò più vicino a sé, sul bordo del letto. Appoggiò la mano metallica sul mio fianco e chinò la testa, fino a posarla sul mio petto. Repressi un brivido e gli accarezzai la nuca, chiudendo gli occhi e baciandogli i capelli. Il suo respiro era un refolo sulla mia pelle.
- Sai che non sei un mostro, vero? - sussurrai. Lui non si irrigidì. - Sei un uomo che si è perso. Sei un uomo che sopravvive, un uomo che diventa migliore ogni giorno che passa.
- Come fai a saperlo? - mormorò lui sulla mia pelle.
- Perché io ti sono accanto, James, e lo vedo - risposi con dolcezza. - Sono tua amica.
Il suo braccio mi cinse la vita, sfiorando la curva della parte bassa della mia schiena.
- Ho sempre voluto un’amica - bisbigliò.

Mi addormentai.
E mi svegliai sdraiata su di lui, acciambellata sul suo petto, le gambe insinuate tra le sue, la guancia premuta sul suo petto nudo. Quando riaprii gli occhi, emergendo dalla dolcezza di un sogno che non ricordavo, sentivo un piacevole tepore circondarmi.
Quando, poi, capii dov’ero, il mio cuore decise di battere a un ritmo tutto suo.
La sua mano era scivolata lungo la mia coscia, nel sonno. Quando cercai di scivolare via senza svegliarlo, lui si mosse, profondamente addormentato, sfiorandomi l’interno della gamba. Sussultai, ma lui non si svegliò comunque.
Ma diavolo.
Provai a cadere al suo fianco anziché alzarmi, ma non ottenni grandi risultati.
Riuscii a sdraiarmi accanto a lui, ma prima che potessi rotolare via si spostò sul fianco, seguendo i miei movimenti, e mi passò un braccio attorno alla vita, tirandomi contro il suo petto, la sua mano pericolosamente vicina al mio basso ventre.
Rassegnata, provai a non morire d’imbarazzo e mi arresi ad aspettare che lui si svegliasse.
Ci volle un po’, ma in effetti non fu spiacevole.
La presa di James era gentile persino nel sonno, il suo petto si sollevava, incontrando la mia schiena ogni volta che espirava, e il suo braccio metallico era allungato sopra alle nostre teste.
Passarono più o meno una quarantina di minuti prima che lo sentissi muoversi.
Chiusi gli occhi, facendo finta di dormire, e pochi secondi dopo sentii uno sbadiglio soffocato. Quel suono mi fece quasi scappare un sorriso. Quasi.
James mosse il braccio, spostando la mano verso il mio sterno, ma lo sentii immobilizzarsi.
Mi venne la pelle d’oca quando sentii il suo respiro sulla pelle. Per fortuna ero raggomitolata  sotto le coperte, così non poteva vederla.
- Jemima - sussurrò con voce fioca.
La sua mano sinistra scese ad accarezzarmi esitante una ciocca di capelli sparsa sul cuscino.
Sentendo la sua presa farsi più salda, mentre lui mi tirava più vicina, facendo aderire dei punti particolari, decisi che non avevo più motivo di fingere di dormire. Ma prima che potessi parlare James premette le labbra sulla mia nuca.
- Mi dispiace di essere un mostro.
Sentii il mio cuore frantumarsi assieme alla sua voce.
- Mi dispiace di averti ferita. Vorrei tanto essere l’eroe che ero prima di cadere da quel ponte. Ma quell’uomo, Bucky, è... è come se fosse un estraneo.  È  come se fossi nato in questo corpo, capisci? Io sono nato, a causa del dolore, delle torture, delle missioni, ho cambiato l’eroe che c’era prima di me, e lui è morto. Sono sempre io, ma cambiato, e... mi sento in colpa, perché lui era migliore di me. Molto. Ho... ho provato ad essere diverso, e ci sono riuscito, su quel divano, sul tuo letto, quelle sere. Sono riuscito a far riemergere... lui. Ma prima... quando ho perso la calma... non ero io. Non ero lui. Ero di nuovo il Soldato d’Inverno. Non posso restare ancora con te, ti metterei solo più in pericolo. Devo andarmene.
Le lacrime premevano per uscire, per scorrere sulla mia pelle arrossata. La mia gola era gonfia e temevo che potesse scapparmi un singhiozzo. Il groppo in gola era doloroso da mandare giù.
Le labbra di James premettero sull’incavo della mia spalla, e sentii la mia pelle andare in fiamme, mentre un dolore straziante si faceva strada nel mio petto.
- Grazie per aver cercato di aiutarmi... me ne ricorderò sempre. Mi dispiace.
Mi lasciò andare e sentii l’improvvisa mancanza del suo calore, delle sue braccia, del suo petto. Una lacrima mi sfuggì al controllo, ma le mie labbra serrate non lasciarono uscire nessun suono.
Il materasso si sollevò improvvisamente, sotto alla mancanza del peso di James. Lo sentii andare dall’altra parte della stanza, infilarsi la maglietta. Volevo disperatamente fare qualcosa, muovermi, ma era una sua scelta. Era lui che decideva per se stesso, non io per lui.
Era la sua vita, e se riteneva di dovermi lasciar andare, non gliel’avrei impedito.










 
Spero non mi odierete troppo per la fine,
ma deve andare così. Grazie alle meravigliose persone che mi hanno fatto sapere il loro parere!
Ci vediamo al prossimo capitolo! 
Anna
P.S: la scuola sta finendo, quindi aggiornerò -probabilmente- più in fretta!

 

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Capitolo 8
*** A New Beginning ***


When Love arrives in the dark

A New Beginning.


 

Erano passati due mesi da quando James l’aveva lasciata. Jemima era sparita dalla circolazione, in attesa che le acque si calmassero. Aveva contattato lo SHIELD, fornito le formazioni strettamente indispensabili per riuscire a uscire da quella situazione  ed era partita.
Si era rifugiata in Spagna, dopo aver passato qualche giorno con la madre e la sorella in una casa sicura.
Sapeva già di non poter stare con loro a lungo. Sebbene l’emergenza fosse rientrata e lo SHIELD le avesse fornito protezione, era ancora una preda ambita dall’HYDRA. Per questo motivo aveva fatto fagotto il prima possibile ed era salita sul primo aereo che aveva trovato, dopo aver subito passivamente le urla di sua madre che le imponeva di non muoversi da lì. Con tono calmo, quasi supplichevole, Jemima l’aveva convinta che allontanarsi sarebbe stata la cosa migliore per tutte e tre. Il che non dipendeva affatto dalla massa di pensieri tristi e rabbiosi che le affollavano la mente, né dalla struggente malinconia che una particolare assenza provocava, certo che no.
Da un mese e mezzo lavorava come cameriera in un bar squallido di Granada. Si trovava nella periferia della città, pieno di vecchi perennemente in cerca di una sbronza e camionisti maleducati. Il lavoro era duro, la paga minima e a fine giornata crollava distrutta sul letto del minuscolo appartamento in affitto, ma per il momento era sufficiente così.
E poi, Jemima doveva essere esausta a fine giornata. Sentiva il bisogno di continuare a distrarsi, o avrebbe avuto fin troppo tempo per pensare a ciò che era successo. A ciò che era successo... e a James.
Quella sera il suo desiderio si stava realizzando perfettamente. Nel bar si era accalcata una massa di camionisti assetati di alcool ed era da due ore che Jemima faceva la spola tra il bancone e i vari tavoli. Si era raccolta i capelli, che aveva tagliato di modo che arrivassero appena sopra alle spalle, in una coda spettinata; le guance erano arrossate dall’eccessivo caldo del locale, e le sue gambe urlavano pietà.
Il proprietario del bar, un cinquantenne brizzolato e allampanato, non faceva altro che alternare occhiate tra lei, l’altra cameriera e il televisore, dove era trasmessa una partita di calcio.
Jemima posò sul bancone l’ennesimo vassoio ingombro di bicchieri vuoti, lanciando un’occhiata esausta a Gabriela, la sua collega, che stava scaricando nuovamente le stoviglie appena lavate.
- Non ce la faccio più - mormorò in spagnolo, passandosi una mano sulla fronte sudata. Per fortuna la lingua non era stata un problema -Jemima aveva studiato fin da piccola lo spagnolo, e oltretutto le varie missioni in Spagna per conto dello SHIELD le avevano dato l’opportunità di assorbirlo completamente.
- Puoi farcela, il turno finisce tra un’ora - cercò di confortarla Gabriela. Jemima annuì distrattamente, anche se sapevano entrambe che, vista la quantità di clienti, avrebbero dovuto fermarsi per molto più tempo. Almeno avrebbe guadagnato qualcosa di più del solito.
Con un sospiro Jemima tolse i bicchieri dal vassoio, lanciando un’occhiata al televisore.  Un coro di vittoria salì dai camionisti che stavano assistendo al match quando un giocatore fece goal. La partita sarebbe finita entro mezz’ora, perciò se la fortuna l’avesse graziata entro l’una sarebbe stata a casa, sprofondata nel letto.

 

Il sole scaldava piacevolmente la sua pelle, mentre correva per le stradine pittoresche del centro. Come ogni mattina, nonostante fosse riuscita ad addormentarsi solo alle due e mezza, si era svegliata alle sette ed era andata a correre. Il suo percorso variava di giorno in giorno; la fugace avventura con lui aveva risvegliato tutte le precauzioni, frutto del duro addestramento allo SHIELD, che si erano assopite nei mesi dopo il fallimento della sua missione, durante la riabilitazione.
La gamba non le dava particolari problemi. Da quando James l’aveva lasciata il dolore fisico si era attenuato, contrariamente a quello psicologico. Gli attacchi di dolore fantasma si erano fatti più rari, ma quando capitavano la sofferenza era più insopportabile che mai.
Jemima riemerse dai propri pensieri quando urtò un ragazzo vestito elegantemente.
- Stai attenta! - la redarguì lui inferocito, mentre lei si fermava.
- Mi dispiace - disse solamente, senza fare una piega e fissando il giovane negli occhi. Il ragazzo batté le palpebre, quasi stupito dalla sua reazione.
- Non... non fa niente.
- Perfetto allora - Jemima abbozzò un sorriso e fece per ricominciare a correre, ma lui le afferrò il polso. - Posso offrirti la colazione?
Dieci minuti dopo erano seduti al caffè in centro.
- Allora, cosa ti porta qui in Spagna? L’America non è affascinante come dicono?
La ragazza abbozzò un sorriso, mescolando lo zucchero nel cappuccino. - Certo che lo è, ma... avevo bisogno di cambiare aria.
I lineamenti cesellati del ragazzo, Asier, si accigliarono mentre increspava le labbra. Aveva una carnagione olivastra, capelli neri e un sorriso affascinante; in giacca e cravatta, poi, era fatta. - E come mai, se posso essere così indiscreto da chiedere?
Jemima si passò una mano tra i capelli, inarcando un sopracciglio biondo. Nonostante l’espressione pacata che riuscì a mantenere in viso, sentì una fitta al petto.
- Qualche problema con un ragazzo, diciamo così.
- Oh - Asier inarcò un sopracciglio - chi mai potrebbe lasciarsi sfuggire una ragazza così bella?
Stucchevole, pensò Jemima, nascondendo a fatica un sorriso mentre in mente le balenava il commento che Natasha, se fosse stata presente, avrebbe fatto.
- A quanto pare, lui non ha avuto problemi a farlo.
Decise di tagliare corto, posando sul tavolo una banconota e alzandosi. Si era esposta già fin troppo e aveva la sensazione che quella conversazione non sarebbe finita bene, se quell’Asier avesse insistito sull’argomento.
- Devo andare. Grazie per la colazione.
E senza nemmeno aspettare una risposta si voltò e sparì nella folla del mercato.
 

- Dolcezza, dammi un’altro po’ di birra, avanti - Jemima strinse i denti nel sentire la voce del mastino in fondo alla sala alzarsi prepotentemente nella sua direzione.
- Giuro che lo uccido - sibilò tra i denti.
- Ti darei volentieri una mano - ridacchiò Gabriela in risposta. Le porse il taccuino per gli ordini e tornò ad occuparsi dei clienti al bancone. Jemima prese un respiro profondo e si sistemò il grembiule, mentre camminava svelta verso il tavolo.
Il camionista, già brillo, continuava a chiamarla ‘bionda’, ‘zuccherino’ e a rivolgerle altri appellativi che Jemima trovava rivoltanti. Si fermò con un sorriso cauto a qualche passo dal tavolo, appuntando lo sguardo sugli occhi piccoli dell’uomo e sul suo volto squadrato, circondato da una barba incolta e dai tatuaggi lungo il collo che scomparivano sotto alla scollatura della maglia. Aveva dei bicipiti gonfi di muscoli e il collo taurino; ogni dettagli in lui urlava ‘attaccabrighe’.
Non che ne fosse spaventata, anzi. 
- Dimmi, dolcezza - ghignò l’uomo con voce strascicata, provocando le risatine dei compagni di bevuta. - Quanto costa avere un po’ di compagnia, qui?
Jemima arricciò ironicamente le labbra, mentre la sua voce si affilava. 
- Dipende dalla grandezza della bottiglia, sai com’è.
Un coro di risate schernì il camionista, il cui volto cominciò a diventare purpureo per la rabbia dell’affronto. 
- Troietta - sputò - vieni qui!
Si lanciò in avanti, afferrandole il polso. Jemima si spostò di lato e il camionista, che si era lanciato in avanti con tutto il suo peso, rovinò a terra, picchiando il mento. Rialzandosi mugghiò di dolore, mentre gonfiava i muscoli delle braccia e si voltava verso di lei. - Ora scappi, eh? - era così ubriaco da non reggersi nemmeno in piedi, ma Jemima sentì il grido impaurito di Gabriela trapassarle il cervello. 
L’uomo si lanciò in avanti, e un secondo dopo era piegato sul tavolo, la guancia pressata sul legno, il braccio di Jemima a circondargli il collo e un coltello, che la ragazza aveva fulmineamente afferrato dal tavolo, che premeva sulla pelle. 
- Mi basta un secondo per bucarti lo sterno e sei morto in meno di un minuto - sibilò al suo orecchio la donna. Lasciò che l’altro agonizzasse senz’aria per qualche secondo, prima di spingerlo via. 
- Fuori da questo locale, ora - intimò. - E paga.
Il camionista se la diede a gambe levate, dopo aver buttato sul tavolo una manciata di banconote estratte dalla tasca. 
Era calato il silenzio, e tutti gli occhi dei clienti erano puntati sulla schiena di Jemima. Lei si girò e vide Gabriela e il proprietario del locale fissarla impietriti qualche metro più in là, evidentemente accorsi in suo aiuto. Si strinse nelle spalle, recuperò il taccuino da terra e tornò al bancone.

 

Erano passate da un pezzo le tre di notte, la strada era silenziosa. Giusto di tanto in tanto si sentiva qualche gatto randagio miagolare, rompendo il silenzio con i suoi lamenti.
Jemima si svegliò all’improvviso, con una strana sensazione addosso. Rimase immobile nel letto, rannicchiata su se stessa, con il cuore che batteva a mille.
Lentamente aprì gli occhi, mettendosi seduta, ma quando puntò lo sguardo sulla scala antincendio su cui si affacciava la sua finestra per un attimo si sentì pervadere dal panico.
L’ombra di una figura rannicchiata su se stessa era proiettata dalla luce della luna sul reticolo di fili metallici.
Jemima prese un respiro profondo, mentre i suoi occhi si appannavano di lacrime e serrava la presa sulle lenzuola. Déjà vu, pensò amaramente. Per un terribile attimo, fu sicura che fosse lui. Sperò che fosse lui, con il cuore che batteva impazzito.  Sentiva le lacrime premere per uscire. Voleva che fosse lui, che fosse tornato per dirle che aveva commesso un errore, che gli mancava, che sentiva la mancanza dell’umanità che lei, con i suoi piccoli gesti, gli faceva riscoprire un passo alla volta.
Poi realizzò che non era possibile.
James se ne era andato, e definitivamente.
Perciò rimanevano due possibilità: o l’ombra apparteneva a una spia dello SHIELD o a una dell’HYDRA. E l’ipotesi più probabile tra le due era la seconda, dato che aveva ricevuto carta bianca da Stark in persona, quando aveva deciso di andarsene.
Si alzò, afferrando la pistola sul comodino e camminando con passo silenzioso verso la seconda delle tre stanze del suo appartamento. Si sedette su una sedia di fianco al tavolo, posò l’arma davanti a sè e aspettò. Tutta la notte.

- Hai delle occhiaie terribili - Jemima apprezzava la sincerità di Gabriela, in genere, ma quella mattina non era proprio dell’umore giusto. La ragazza si scosse i lunghi capelli neri mentre li raccoglieva in una coda ordinata, arricciando le labbra.
- Ho un po’ di correttore, se vuoi.
- No, grazie - rispose apatica Jemima. Gabriela sospirò.
- Oh, insomma Jem. Dovrai pur trovare qualcuno prima o poi, e di certo non ci riuscirai con quelle occhiaie.
Jemima le scoccò un’occhiataccia. Il solo menzionare un coinvolgimento sentimentale la scombussolava tutta, e i suoi pensieri volevano a lui, per quanto cercasse di convincersi che era tutta immaginazione. - Non ne ho la minima voglia. Né intenzione - sottolineò, portandosi alle labbra la tazza bollente, ricolma di cappuccino. Gabriela alzò un sopracciglio, scettica.
- Come no. Comunque, il caro stronzo che ci ha malauguratamente assunte ha deciso di abbassarci ancora lo stipendio - la informò, una vena astiosa nello sguardo.
Jemima la guardò incredula.
- Come scusa? Ma se a malapena riesco a pagare l’affitto ora! Per non parlare degli straordinari mai pagati! - esclamò indignata.
Gabriela sospirò. - Non sarebbe male se usassi una di quelle mosse da ragnetto dell’altra sera per minacciare lui, invece di un camionista ubriaco - borbottò serafica.
La risata di Jemima la fece sorridere ampiamente. Ma dentro, la ragazza sentì una fitta di dolore nel ricordare con chi aveva combattuto seriamente per l’ultima volta.

 

Il suono ritmico delle gocce che cadevano dal lavandino gli urtava i nervi, ma non aveva le forze per alzarsi, anche se sapeva che di lì a poco avrebbe dovuto farlo per forza. Il suo petto si alzava e si abbassava freneticamente, mentre cercava di serrare ancora di più la stoffa attorno al torace. Non appena strinse la benda improvvisataattorno alla ferita un gemito lasciò le sue labbra, ma senza perdere tempo legò in un nodo le estremità inzuppate di sangue.
James lasciò che il suo sguardo vagasse per la stanza umida e buia, fino a trovare la sua divisa da Soldato d’Inverno. La fissò per qualche secondo, abbandonata sul divano scavato dagli acari, prima di alzarsi dalla sedia. Una fitta di dolore gli percorse il fianco, esplodendo nei suoi muscoli quando caricò il peso sulla gamba sinistra; si maledisse per l’ennesima volta in quei pochi minuti.
Scavalcò il corpo a terra, gettando un’occhiata gelida all’aureola di liquido scuro che si era allargata attorno alla testa della defunta spia, prima di afferrare la tuta e infilarsela con gesti veloci e dolorosi. Si sentiva bruciare, e il calore del sangue che colava attraverso la stoffa lo preoccupava. Doveva sbrigarsi.
Afferrò la tanica che aveva comprato pochi giorni prima e ne sparse il contenuto per tutta la stanza, gettandolo anche sulle pareti.
Si passò una mano tra i capelli, prendendo un respiro profondo e afferrando l’accendino posato sul tavolo. Zoppicò fino alla porta d’ingresso, poi si voltò e i suoi occhi chiari esaminarono i tre cadaveri a terra che avevano avuto la malaugurata idea di attaccarlo mentre dormiva. Con un sorriso freddo, James accese l’accendino e diede fuoco al pavimento di legno.
Poi, mentre le fiamme attecchivano e si propagavano nella stanza seguendo le scie di benzina, si girò e sparì nella notte.

 

 

│✪│


ce l'abbiamo fatta! 
Finita la scuola, via le preoccupazioni... e più tempo per scrivere.
So che probabilmente questo capitolo non vi ha catturate molto, in quanto di passaggio e, ugh, James non compare quasi mai.
Ma ne sono piuttosto orgogliosa, dato che è il primo di questa storia che scrivo di mio pugno dopo mesi di stallo.
Ho deciso di cambiare il titolo: When Love arrives in the dark.. simile, ma almeno tolgo quel maledetto articolo; se gli inglesi lo vedessero mi ucciderebbero. A voi che ve ne pare?
Grazie davvero a tutte le dolcissime lettrici che mi hanno lasciato una recensione all'ultimo capitolo, spero vogliate farlo anche ora, 
perché vorrei davvero sapere quali sono i punti deboli di questo capitolo, se vi è piaciuto o meno! xx
Anna



 

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Capitolo 9
*** I must go ***




When Love arrives in the dark

I must go.
 


Il mercato di Rabat era una moltitudine di odori pungenti, colori sgargianti e suoni di tutti i tipi. Le voci dei mercanti che cercavano di attirare i passanti a dare un’occhiata alle loro merci si mischiavano alle grida dei bambini che giocavano sotto il sole del mattino, inseguiti dalle urla delle madri. Ridevano, schivando donne avvolte in abiti color pastello e ragazzi vestiti all’occidentale, mentre rincorrevano una palla rossa.
Uno di loro, il più piccolo, urtò una cesta di fagioli e ne fece rovesciare il contenuto a terra. La proprietaria, una donna anziana, cominciò a urlargli dietro e il bimbo iniziò a correre per evitare gli schiaffi, mentre i suoi compagni guardavano il tutto ridendo.
Svoltò in una stradina laterale, ma non percorse nemmeno un metro che andò a sbattere contro un uomo alto e vestito di scuro.
- Üzgünüm bayanlar - cominciò a scusarsi, ma l’uomo alzò una mano a fermarlo.
- Parli inglese? - gli chiese. La sua voce era roca, stanca, ma tranquilla. Alzò un angolo delle labbra in un debole sorriso.
Il bimbo annuì freneticamente.
- Sì signore! Scusa signore! Non volevo, signore!
- Non c’è problema - sorrise lo straniero. - Puoi dirmi dove posso trovare un’erboristeria?
- La accompagno, signore, venga - il bambino lo prese per mano e cominciò a tirarlo verso una stradina ripida che spariva in un edificio di pietra.
James lo seguì, faticando a stargli dietro a causa della ferita. A un certo punto dovette premere una mano sullo sterno, battendo gli occhi per dissipare i puntini neri che gli apparivano davanti agli occhi.
Il piccolo gli fece percorrere una miriade di scale, discese e scorciatoie mentre passavano per il centro del mercato, sempre tenendolo saldamente per la mano. Ogni tanto si girava a guardarlo, preoccupato nel vederlo così affaticato.
- Stai bene, signore? Vuoi che ci fermiamo, signore? - chiedeva, ma James scuoteva la testa e continuava a procedere, stringendo i denti. Alla fine arrivarono davanti a un negozio senza insegne, scavato sotto il livello della strada, a cui si accedeva scendendo vari scalini. Già da fuori si sentiva un forte aroma di erbe e spezie.
- Ecco, signore. Ciao ciao, signore - James non fece nemmeno in tempo a ringraziarlo che il bambino sparì dalla sua vista. Prese un respiro profondo e scese le scale.
L’odore intenso di maggiorana e timo che impregnava l’angusto negozietto gli fece girare la testa. Dovette appoggiarsi allo stipite della porta a causa del capogiro, stringendo i denti mentre inalava un respiro profondo e la ferita sembrava pulsare, sotto alle sue dita.
James riaprì gli occhi e individuò subito la figura curva di un vecchio seduto su una seggiola scalfita dal tempo, in un angolo della stanza. Dietro di lui c’era una tenda che copriva un piccolo corridoio, che probabilmente portava all’abitazione dell’uomo. Attorno a lui erano disposte varie ceste ricolme di frutti freschi.
Avanzò lentamente, analizzando la struttura: c’era solo una via d’uscita, ovvero la porta d’entrata, se si escludeva la minuscola finestrella a livello della strada, sulla parete a est. In condizioni normali gli sarebbe bastato un salto per raggiungerla, ma James dubitava che con quelle ferite avrebbe potuto riuscirci. Era già difficoltoso camminare.
I colori accesi delle erbe aromatiche e delle spezie baluginavano nella penombra. James ci passò accanto, facendo finta di osservarle e di ponderare quali prendere. Cercò di capire se quel vecchio, Abhik, vendesse anche erbe medicinali come gli aveva detto il bambino del mercato. Se era vero, non erano esposte.
- Ne arıyorsun? *
James scoccò un’occhiata al vecchio. Aveva il volto cotto dal sole, pieno di rughe, e i capelli grigi erano tirati indietro in una treccia che gli cadeva sulla schiena.
- Ho bisogno di erbe medicinali - rispose. Sperò che l’uomo parlasse inglese, o quantomeno lo capisse; ma a giudicare dalla sua espressione, che si era incupita, non era affatto così. 
James si costrinse a mantenere una postura rilassata, ma la sua presa sul coltello da combattimento, nascosto nella tasca del giubbotto, si fece più salda. Si sentiva sempre più debole.
- Hale, buraya gel! **
James rimpianse amaramente di non sapere il turco, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa la tenda dietro al vecchio si spostò, e una figura femminile emerse dallo stretto e buio corridoio.
Era giovane, probabilmente aveva meno di vent’anni. Era minuta, avvolta in una semplice tunica blu scuro, e i capelli color ebano erano raccolti in una treccia. La cosa che lo sorprese per un attimo, però, furono le iridi azzurrissime che spiccavano su quei lineamenti orientali e di cui si accorse non appena lei notò la sua presenza e posò lo sguardo su di lui. 
- Ihtiyacı neler yapmaktan hoşlandığını sor - disse burbero il vecchio, guardando diffidente il loro ospite. 
La ragazza annuì appena prima di puntare lo sguardo su James. 
- Mio padre chiede di che cosa hai bisogno - disse in un inglese quasi perfetto, con un forte accento turco.
- Erbe medicinali - la ragazza aggrottò le sopracciglia scure. 
- Per che motivo, signore? Ferite, ustioni, per cicatrizzare?
- Io... - all’improvviso l’odore delle spezie si acuì, diventando fin troppo intenso. James ebbe un capogiro, la sua vista si oscurò e cadde a terra. 
 

Qualcosa di morbido si adagiò con delicatezza sulla sua fronte imperlata di sudore, e in una frazione di secondo l’urlo di Hale risuonò nella stanza. Un momento prima James era incosciente, sdraiato febbricitante e madido di sudore sul letto, e l’attimo dopo la sua mano le stringeva il polso così forte da farla gridare di dolore.
- Non farmi male! - con le lacrime agli occhi, la ragazza lasciò andare il panno con cui gli stava bagnando la fronte e cercò di tirarsi indietro, fissando spaventata gli occhi vacui del Soldato.
James si rese conto solo in quel momento di cosa stava succedendo e la lasciò immediatamente andare. Hale si tirò indietro, stringendosi il braccio dolorante al petto mentre il padre faceva trafelato il suo ingresso nella stanza.
Puntò prima lo sguardo sulla figlia e poi su James, in una muta domanda.
Hale mormorò qualcosa nella sua lingua, abbassando lo sguardo a terra. Raccolse il panno da terra e uscì dalla camera, mentre le vesti rosse turbinavano dietro ai suoi passi svelti.
James guardò il punto in cui era sparita ancora per qualche secondo, prima di mettersi seduto.
- Hayır!***- il vecchio fu di fianco a lui e gli posò la mano sulle spalle. Al contatto delle sue dita ruvide sulla pelle, James trasalì e si ritrasse di scatto.
Abbassò lo sguardo su di sè, accorgendosi per la prima volta di essere a torso nudo. Sgranò gli occhi, afferrandosi la spalla metallica e guardando Abhik. Il suo volto anziano era neutro, forse con qualche accenno di curiosità negli occhi.
- Onlar hasta azalttı - commentò, attirando un’espressione attonita da James. - Yatmak, aptal. ****
Lentamente gli posò di nuovo le mani sulle spalle e fece pressione, in modo da farlo sdraiare. Lo coprì con le lenzuola che James aveva spinto ai piedi del letto e anche lui se ne andò, lasciandolo sdraiato in preda alla febbre e al rimorso.
James si strinse nelle coperte, tremando. Chiuse gli occhi, cercando di riprendere il controllo del proprio corpo, rilassando i muscoli. 
Ma nemmeno così i ricordi smisero di dargli pace. Appena prima di sprofondare nel sonno, un volto riemerse dalla nube di pensieri a cui si rifiutava di dar seguito.
Jemima, dove sei? pensò disperato.
 

Anche stavolta rinvenne mentre Hale si stava prendendo cura di lui, ma rimase immobile, senza aprire gli occhi. Il peso della ragazza faceva incurvare appena il materasso. Gli passò un panno umido sulla pelle bagnata di sudore, per poi appoggiare il palmo della mano sulla sua fronte per sentire la febbre.
Il suo tocco era lieve, rassicurante.
- Mi dispiace - mormorò.
La sentì sussultare, e la sua mano si ritrasse subito dalla sua fronte. James aprì gli occhi lucidi di stanchezza, battendo le palpebre per riuscire a rendere la sua figura nitida. 
- Come ti chiami? Chi sei? - lei si chinò appena su di lui, i suoi morbidi capelli neri si adagiarono sul suo petto mentre gli accarezzava piano la guancia. 
- Qualcuno che non avresti mai dovuto incontrare - rispose lui, prima di sprofondare di nuovo nell’incoscienza, tormentato dagli incubi.


Nella piccola cucina al piano di sotto, padre e figlia stavano discutendo in modo alquanto acceso, in turco.
- Dobbiamo dirlo alla polizia! - insistette Hale, posando un piatto pieno di mandorle caramellate davanti alla bimba seduta al tavolo. Aveva i lunghi capelli intrecciati e un sorriso sdentato. Anche lei, come la madre, aveva gli occhi di un azzurro impressionante.
- Non se ne parla! - Abhik batté un pugno sul tavolo, facendo sussultare la bambina, che smise di disegnare per puntare lo sguardo sul nonno. - Per ora ci limiteremo ad aspettare che guarisca.
Hale sospirò, passandosi le mani sulla fronte.
- Papà, non mi sento al sicuro - disse a bassa voce, di modo che la figlia non la sentisse. Abhik le posò una mano sul ventre appena gonfio, tranquillizzandola.
- Non vi succederà nulla. Non è nemmeno in grado di alzarsi in piedi.
- Ma quel braccio... - il volto di Hale era pieno d’inquietudine.
Un urlo disumano, proveniente dal piano di sopra, li spaventò Abhik. Hale fece cadere la tazza in cui stava versando il tè, rovesciando la bevanda sul tavolo per lo spavento.
La bambina di fronte a lei trasalì.
- Che succede? - chiese spaventata.
Abhik scosse la testa, sbuffando, e sparì lungo le scale. Hale sorrise alla piccola, stringendola al petto.
- Tutto bene - sussurrò. - Va tutto bene.
Abhik intanto salì le scale di corsa ed entrò nella stanza in cui avevano sistemato James. L’uomo si contorceva nel sonno, in preda agli incubi.
- No, no... no, ti prego, no... mi dispiace - nel sonno, si afferrò il braccio metallico e cercò di strapparlo via.
Abhik si precipitò su di lui, cercando di fermarlo. - Fermo, fermo! - gridò, e si ritrovò con le mani di James attorno al collo. Strabuzzò gli occhi, mentre il Soldato, ansimante, lo fissava con lo sguardo pieno d’odio.
- Abhik! - l’urlo di terrore di Hale risvegliò la coscienza di James. Spinse lontano il vecchio, inorridito, e singhiozzò mentre il panico dilagava nel suo petto.
Era pericoloso.
Era un’arma. Non importava quanti sforzi avesse fatto per tornare alla normalità, con quanta fatica la sua Jemima avesse provato a farlo tornare umano, a convincerlo che non era più una macchina assassina.
L’Hydra era lì, lo era sempre stata, annidata nelle profondità del suo cervello, e governava lui e il suo corpo, annientava la sua volontà.
James si alzò, con un gemito di dolore. Barcollò verso la porta, disperato.
- Devo andarmene - gridò, quando Hale e Abhik si lanciarono su di lui, cercando di costringerlo a stendersi di nuovo. Fece resistenza, ma era troppo debole, le ferite troppo gravi, il dolore troppo forte. Si aggrappò alla vita di Hale, mentre lei gridava spaventata dal suo tocco, con la vista che andava e veniva, punteggiata di macchioline nere.
- Io devo... devo... Jemima - chiamò, con un lamento straziante. L’ultima cosa che vide prima di svenire fu l’azzurro impressionante degli occhi della donna. Anche se avrebbe disperatamente voluto scorgere del verde, in quegli occhi.
 

- Oh, ma guarda un po’ chi c’è qui - Jemima girò la testa e incontrò lo sguardo di uno sconosciuto dal volto familiare. Volto familiare che, per inciso, si aprì in un sorriso smagliante. Uno di quei sorrisi grazie a cui il proprietario sapeva di essere in grado di far cadere ai suoi piedi e a bocca aperta ogni donna che incontrava.
Ogni donna, a parte quell’americana bionda dagli occhi verdi fin troppo tristi per i suoi gusti.
- Oh - le labbra soffici di Jemima si piegarono appena verso l’alto - Amir... giusto?
Il ragazzo alzò un sopracciglio, afferrando lo sgabello accanto a lei e avvicinandolo. Jemima si voltò verso di lui, tornando a posare le labbra sul bordo del bicchiere di vodka. Se c’era una cosa che Natasha le aveva trasmesso, oltre a molti utili consigli pratici da spia, era l’amore per la vodka russa. 
- Asier, veramente. Farò finta di non aver sentito e che tu ti ricordi di me.
- Oh, ma io mi ricordo di te, Mister Passione Per I Vestiti Attillati - l’alcool le aveva sciolto la lingua, almeno quello ogni tanto poteva concederselo. E Jemima doveva ammettere che il modo in cui il ragazzo davanti a lei reclinò la testa all’indietro e scoppiò a ridere, scoprendo i denti bianchissimi, era alquanto affascinante. Così come il suono della sua risata; calda, avvolgente, allegra. 
Un piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. 
- Be’, chica, tu sì che sei interessante - involontariamente Jemima cedette e lasciò che i suoi occhi si spostassero sulla lingua del ragazzo, che stava percorrendo lentamente le sue labbra. Un ghigno di trionfo illuminò il volto di Asier.
Jemima sapeva che non doveva farlo, ma l’alcool che aveva in corpo e che aveva annebbiato la sua mente aveva inibito la parte razionale del suo cervello. Senza dire altro si alzò e uscì dal pub, con il cuore a mille e la fronte imperlata di un leggero strato di sudore. Aveva caldo, ogni centimetro del suo corpo era in fiamme e i suoi pensieri erano senza controllo.
Una mano le afferrò il polso e Jemima si ritrovò trascinata nel vicolo dietro al pub, spinta contro al muro di mattoni e il respiro di Asier sul collo. Ridacchiò, inclinando la testa e afferrando la camicia bianca che gli stava da dio, su quella carnagione scura. Un sospiro languido lasciò le sue labbra quando la lingua di Asier sfiorò la sua pelle, mentre le mani del ragazzo si appoggiavano sui suoi fianchi e il suo corpo si spingeva sul suo. La bocca di Asier si avventò sulla sua, mordendole il labbro, accarezzandolo con la lingua. Le afferrò i polsi e li fermò sopra alla sua testa mentre l’adrenalina cresceva e le mordeva la pelle morbida del collo. 
- James... - Jemima si rese conto di ciò che le era sfuggito assieme a un mezzo gemito solo quando Asier si fermò, ansimando sul suo collo. Sgranò gli occhi, rendendosi conto di cosa stesse per succedere.
Maledizione.
Non perché la serata di piacere era ormai una lontana prospettiva, né perché sentiva di aver tradito James con quei baci bollenti. Certo, un minuscolo senso di colpa stava cercando di farsi strada nel suo petto, ma tra lei e James non c’era stato niente. Niente che facesse supporre che lui provasse un qualche coinvolgimento emotivo al suo stesso livello.
Era arrabbiata perché si era resa conto che comunque, nonostante stesse in compagnia di un uomo completamente diverso, con entrambe le mani calde e morbide, più alto e meno possente, comunque aveva pensato a lui mentre le sue labbra la marchiavano, mentre perdeva il controllo dei propri pensieri e immaginava cose proibite. Con James.
Asier si scostò da lei con un sorriso obliquo, lo sguardo lucido.
- Penso che non sia il caso, principessa. 
Jemima ringraziò il cielo che se ne stesse andando, voltatole le spalle e tornatosene verso il pub. Perché se fosse rimasto, gli avrebbe tirato un ceffone per quei soprannomi ridicoli.



 

* * * 

* Ne arıyorsun? : Cosa stai cercando?
** buraya gel!: vieni qui!
*** Hayır: no
**** Onlar hasta azalttı. Yatmak, aptal: Ti hanno ridotto male. Mettiti giù, sciocco.










 
Well well well.
Che abbiamo qui?
Un piccolo, raro esemplare di James ferito... chi vuole prendersene cura?
Ecco lasciato più spazio al nostro darling. Contente? Be', so che avreste preferito andasse diversamente ma...
Vi tocca stare a leggere eheh. 
Le vostre prime impressioni su Hale e Abhik? E Asier? Non ho ancora le idee chiare su ques'ultimo...
Potrebbe come non potrebbe ricapitare fuori, chissà. Secondo voi cosa succederà nel prossimo capitolo?
Un grazie speciale a tutte coloro che mi hanno illuminata con la loro recensione la scorsa volta!
Spero sarete così carine e coccolose (e incazzate nere per come ho ridotto il nostro James MUAHAHAH) da rifarlo anche ora!
Un bacione a tutti! xx
Anna


 

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Capitolo 10
*** When I'll repay you ***



When Love arrives in the dark

When I'll repay you.

 
 

(drawingjustforfun su tumblr)

 

- Chi è? - Jemima si voltò e si irrigidì nel vedere Gabriela con in mano il suo diario. Per carità, normalmente non si sarebbe fatta alcun problema, dato che Gab era una delle poche persone che le erano rimaste vicine. Ma quel diario non era uno di quelli in cui ogni ragazza normale scrive delle sue cotte, dei suoi sentimenti e delle serate passate in discoteca a limonare con degli sconosciuti. Fosse stato così, non avrebbe fatto una piega.
 Ma in quelle pagine macchiate da disordinate linee d’inchiostro, Jemima aveva riportato la maggior parte dei suoi pensieri riguardo a lui, senza trattenersi dal menzionare il braccio di metallo o i suoi sensi iperpotenziati, accennando brevemente anche alle torture che lui aveva subìto. Sapeva bene che era pericoloso farlo, che, se caduto in mani sbagliate, quel piccolo oggettino avrebbe potuto provocare danni alquanto consistenti; ma aveva bisogno di trovare un modo di sfogarsi, e un diario così piccolo che conteneva segreti così grandi le era sembrato il male minore, tra tutto ciò che stava passando. 
Tuttavia Gab voltò il diario verso di lei, tenendolo aperto con l’indice e il medio per mostrarle un disegno impresso sulla carta. 
Jemima si sentì stringere il cuore mentre si alzava e si avvicinava, fissando il volto ritratto sulla carta. Era James, ovviamente; era un suo primo piano che mostrava solo metà del suo volto. L’iride verde fissava un punto lontano, mentre ogni dettaglio del suo viso lasciava capire che l’uomo era assorto in pensieri ben poco piacevoli. Ogni tratto era stato curato con la perfezione più accurata.
- James - si limitò a dire, allungando la mano e riprendendosi il diario. Lo chiuse, serrando le labbra, e Gab si rese conto di aver fatto la domanda sbagliata.
- Io... Jem, scusami. Non avrei dovuto chiedertelo...
Jemima scosse la testa, girando e allargando le braccia. - No. No, tranquilla. 
Si sedette sul divano, incrociando le braccia e accarezzando con le dita la superficie ruvida del diario, levigata dall’uso. 
Alzò lo sguardo verso Gab, che era rimasta a fissarla in piedi, di fianco al mobile. Era spoglio, senza fotografie. Quella era la prima volta che Jemima la invitava a casa sua, ed era rimasta sorpresa dall’assenza di tutto ciò che normalmente indicava un coinvolgimento emotivo con persone o oggetti. Niente quadri, niente foto incorniciate, niente pupazzi d’infanzia, niente post-it sul frigo. Sembrava che Jemima si fosse trasferita lì solo da qualche giorno, e invece era passata già qualche settimana dal suo arrivo in città.
- Ti va di raccontarmi cosa è successo? - chiese Gab, sedendosi a gambe incrociate accanto a lei. Abbracciò un cuscino e ci affondò il mento.
Jemima si strofinò con stanchezza la fronte, sospirando. Prima o poi sarebbe dovuto succedere, pensò.
- Semplicemente eravamo troppo... diversi. Lui non ha avuto una vita facile, ha passato lunghi anni orribili che l’hanno trasformato in una persona completamente diversa da quella che era stata. Era in queste condizioni che l’ho incontrato per la prima volta. Non è stato un incontro piacevole, ne ho subìto le conseguenze per molto tempo, e talvolta ancora adesso mi ricapita di sentirmi male, quando ci penso. Poi... poi il caso, il destino, chiamalo come vuoi, ha voluto che ci incontrassimo di nuovo. E lui stava cambiando. Ho provato ad aiutarlo ad andare avanti, a superare quelle torture che aveva passato ma... - la voce le si spezzò e Gab le strinse una mano, con lo sguardo intriso di dispiacere nel vederla asciugarsi le lacrime. - Evidentemente non voleva trascinarmi ancora più a fondo nei suoi incubi, con lui. Non sono riuscita ad aiutarlo come vorrei, anche se ancora adesso continuo a pensare, a sperare, che lui continui a pensare a me.
Jemima fece una breve pausa, riprendendo il controllo sulla propria voce e abbozzando un debole sorriso.
- Ora devo andare avanti e ci sto provando. È passato molto tempo, e se avesse voluto tornare da me l’avrebbe già fatto, perciò...
Gab le sorrise, avvicinandosi a lei e abbracciandola. Jemima posò la testa sulla sua spalla, lasciandosi cullare dalla sua stretta rassicurante.
- Sei ammirevole, ragazza. E io direi che il modo migliore per cominciare è una bella pizza. Che ne dici?
Tutta l’atmosfera nostalgica si dissolse con le loro risate.
- Io ci sto - esclamò Jemima.

 

La pelle era morbida e calda sotto al suo tocco, mentre le sue dita scivolavano avanti e indietro a tracciare il profilo del suo fianco.
James respirava lentamente, lasciando che i suoi polmoni si riempissero di quel profumo appena percepibile. Il corpo di lei era caldo contro il suo, rannicchiato tra la miriade di coperte e il suo petto.
James sfiorò con le labbra la pelle morbida del collo, disegnando una scia delicata lungo la giugulare della ragazza.
Un breve sorriso fece capolino sulle labbra di Jemima mentre girava il volto verso di lui, con la voce impastata dal sonno. - Non sapevo uccidessi le tue vittime mordendogli la gola, Buck.
James le afferrò il fianco e la fece voltare completamente verso di sè, appoggiando la fronte alla sua.
- È un nuovo metodo, dovresti sentirti onorata di essere la prima a sperimentarlo.
Lei ridacchiò, mentre James si sdraiava sulla schiena e lei si rannicchiava sopra di lui, appoggiando il volto nell’incavo della sua spalla.
- Ma io lo sono infatti. Chi mai potrebbe dire di essere torturato così piacevolmente da un uomo così sexy?
Il Soldato chiuse gli occhi e appoggiò una mano sulle spalle nude di Jemina, massaggiando lentamente i muscoli contratti e facendola gemere.
- Non prendermi in giro.
Rallentò il respiro, godendosi la sensazione del calore del corpo della sua ragazza contro il suo, del suo respiro che gli scivolava sul collo, delle sue forme che premevano morbide contro il suo torace sotto al tessuto leggero della maglietta.
- Dammi un bacio - sussurrò.
Jemima sospirò, socchiudendo gli occhi con un mugugno. - Continua a massaggiare lì, prima.
Uno sbuffo la fece ridere, e Jemima si allungò per appoggiare la bocca su quella di lui, rimanendo così per qualche secondo prima di accarezzare le sue labbra con le proprie.
James le passò una mano tra i capelli, approfondendo il bacio e mordendole piano il labbro inferiore.
- Ti amo, James Buchanan Barnes - mormorò Jemima, aprendo gli occhi e guardandolo con intensità.
Gli occhi di James si illuminarono.
- Ti amo anche io, Jemima Wright.

 

Quando riaprì gli occhi, James sentì una fitta al petto. Avrebbe voluto continuare a sognare di averla accanto, stringerla a sè, baciarla. Invece era sdraiato un letto in una casa piena di sconosciuti che aveva potenzialmente messo in pericolo, febbricitante e ben lontano dalla guarigione.
Finalmente si decise a porre attenzione alla figura sulla porta.
La donna teneva gli occhi bassi, torturandosi le mani. - In questo momento la febbre ti è calata, non ci metterà molto a salire. Devi lavarti, così ti sentirai meglio.
James doveva ammettere che ormai il suo odore doveva essere piuttosto disgustoso, tra il sudore e il sangue accumulati in quei giorni.
Non fece obiezioni, e anche se la testa gli girava terribilmente fece uno sforzo atroce per mettersi in piedi. Barcollò e Hale si affrettò a soccorrerlo, passandosi il suo braccio attorno alle spalle per sorreggerlo.
Ci vollero diversi minuti per raggiungere il bagno, e alla fine Bucky crollò ansimante sul pavimento, cercando di non rigettare quel poco che aveva mangiato poche ore prima.
Mentre recuperava osservò l’ambiente.
Il bagno era una stanzina quadrata e piccolissima, con uno minuscolo scaffale ingombro di boccette e flaconi che occupava l’unica parete non occupata dai sanitari.
La vasca da bagno era piena di acqua calda e fumante. Hale gli aveva procurato dei vestiti puliti che aveva messo sul ripiano del lavandino, e ora se ne stava in piedi, a disagio, sfuggendo il suo sguardo.
- Se hai bisogno... di aiuto per spogliarti, io... - le sue guance erano arrossite, James riuscì a vederlo nonostante la sua carnagione scura.
- Ce la faccio - disse soltanto, a corto di fiato.
- Allora vado. Sono qua fuori - Hale uscì, seguita dalla gonna svolazzante, chiudendosi la porta alle spalle.
Solo dopo cinque minuti James si sentì abbastanza in forze da riuscire ad alzarsi. Lentamente si spogliò, accompagnato costantemente dalla sensazione di nausea e dai giramenti di testa, fino a rimanere nudo. Si immerse senza esitare nell’acqua calda e si lasciò sfuggire un gemito quando il suo calore gli raggiunse la pelle.
Chiuse gli occhi e si godette quella sensazione di calma e benessere, così insolita per lui. Lentamente andò a tastarsi la ferita, sfiorandola delicatamente con il palmo della mano, per poi passare alle cicatrici risalenti alle operazioni dell’Hydra, quando gli avevano impiantato l’arto metallico. Talvolta gli dolevano ancora. Era un dolore atroce, che lo teneva sveglio per tutta la notte e gli impediva di riposare sia il corpo che la mente.
Subito la sua mente volò all’unico rimedio in grado di guarirlo. Lei. 
Devo smetterla di pensarci, si rimproverò stancamente. Si concentrò piuttosto a elaborare un piano per fuggire il più presto possibile. Non poteva rimanere ospite di Hale e Abhik per molto altro tempo, o li avrebbe entrambi messi in pericolo. Ma era ancora nel bel mezzo della convalescenza, se mai sarebbe guarito. Il veleno che aveva in circolo nel sangue evidentemente si era diffuso molto rapidamente, fino a portarlo a condizioni critiche. Se il suo corpo fosse stato come quello di un normale essere umano, probabilmente sarebbe stato già morto. Anche se, c’era da dire, se lui fosse stato un normale essere umano di certo non avrebbe avuto il corpo di un quasi trentenne a cento anni suonati. 
Sarei nella tomba, pensò. E sinceramente, avrebbe voluto esserci andato molto tempo prima.
Un lieve bussare lo distolse dai suoi pensieri.
- Tutto bene?
- Sì - la voce gli uscì più roca del solito. - Solo un altro minuto. 
Velocemente si insaponò e lavò via tutto il sangue dalla ferita, senza alcuna delicatezza. Non gli importava del dolore, aveva imparato a tenerlo a bada molto tempo prima. Almeno, quello fisico. 
Quando dovette alzarsi, una vampata di dolore gli percorse i muscoli ma strinse i denti e si issò a forza fuori dalla vasca, afferrando l’asciugamano posato accanto al lavandino. La sua mente gli urlava di chiedere aiuto, ma la vergogna di farsi vedere in quelle condizioni gli impediva di chiamare Hale.
Lui era il Soldato d’Inverno, non un debole bambinetto incapace di vestirsi. 
Ci impiegò più tempo di quando avrebbe voluto, ma alla fine riuscì a farcela da solo. Quando aprì silenziosamente la porta, individuò subito la figura di Hale che si sorreggeva al muro, con una mano posata sul ventre, nascosto dalle vesti fluttuanti. 
Aveva gli occhi chiusi, i capelli scuri le erano in parte scivolati davanti al volto, ma riuscì a scorgere ugualmente la sua espressione sofferente. 
- Stai bene? 
La giovane donna sussultò, raddrizzandosi e puntando per un attimo lo sguardo su di lui. Lo distolse dopo pochi secondi. 
- Sì, io-ti riaccompagno in camera. 
- Vorrei... se posso, uscire un attimo all’aria aperta. 
James sapeva che poteva essere rischioso, ma sentiva davvero il bisogno di cambiare ambiente. Hale si morse il labbro, esitante. 
- C’è un piccolo cortile interno, se vuoi...
- Sarebbe perfetto. Ti ringrazio - mormorò lui. Hale abbozzò un sorriso stentato, prima di avvicinarsi e prenderlo sotto braccio. 
Lentamente percorsero lo stretto corridoio. James sentiva il battito accelerato della vena cefalica del braccio di Hale sotto alle dita. 
Le scale furono dure. Per poco non cadde. La testa cominciò a girargli, sentiva la temperatura corporea del proprio corpo estremamente elevata, ma continuò a camminare, un piccolo passo alla volta, finché non si trovò davanti ad un piccolo salotto. Al centro, seduta a un tavolo e attorniata da pastelli e fogli colorati, lo fissava una bambina. Il colore delle sue iridi era un blu di un’intensità impressionante, così come quello degli occhi di Hale. Ne rimase sorpreso, dato che la donna dimostrava al massimo diciannove anni. 
La bambina, avvolta in una tunica di un verde tenue, gli rivolse un timido sorriso sdentato che lui ricambiò. E fu allora che la presa di Hale sul suo bracciò si rafforzò e la sua voce si fece più brusca. 
- Andiamo. 
James si lasciò condurre fino alla porta che dava sul cortile interno. Era un rettangolo d’erba ombreggiata dagli edifici accanto alla casa, con una vecchia bicicletta e una palla abbandonati accanto a uno sgabello. 
James si sedette lì, appoggiando la nuca alla parete di mattoni. Hale rientrò per pochi minuti, tornando con una brocca e un bicchiere pieni d’acqua. James lo accettò con gratitudine, bagnandosi le labbra screpolate. 
Lei si sedette a gambe incrociate a terra, a qualche metro di distanza da lui, fissando le mani che aveva lasciato sul grembo. 
- Se può rassicurarti in qualche modo, non ho intenzione di fare del male né a te né al tuo bambino. 
Hale sussultò e lo guardo con gli occhi sgranati. - Come hai capito che...
- Ti sfiori continuamente il ventre - rispose lui a bassa voce, stringendosi nelle spalle. Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore, osservandola. Si chiese dove fosse il padre dei due bambini in quel momento. - Il bambino è debole?
Il volto di Hale riflesse chiaramente il tormento interiore che la colse a quella domanda. 
- Temo di sì - rispose con voce sommessa. - Sto cercando di riposare il più possibile, ma ho continui dolori... 
James strinse le labbra. - E io non aiuto a farti rimanere serena, immagino - Hale alzò lo sguardo per parlare, ma lui la fermò con un sorriso d’amarezza misto a divertimento. - Va tutto bene. Ormai, è ciò a cui sono destinato. Portare solo ansia e morte con me... non preoccuparti. Non ti ferirò in alcun modo. Se dovesse essere necessario ti proteggerò per ripagarti dell’aiuto. 
Nello sguardo della giovane donna scorse una silenziosa gratitudine che alleviò il suo dolore. 
- Vorrei rientrare - disse dopo qualche secondo. Era rimasto esposto fin troppo a lungo.
Hale si alzò. - Ma certo - disse, come se la conversazione non si fosse mai temuta. Ma in realtà, mentre guardava quel viso stanco, un filo di tenerezza cominciava a insinuarsi nel suo cuore.







Perdonatemi per il ritardo! Ma sono stata in Irlanda per due settimane e ho dei problemi familiari che mi rendono difficile concentrarmi sullo scrivere... spero di farmi perdonare con questo capitolo, comunque. 
Che ne pensate di Hale? Vi piace? Come pensate che evolverà il suo rapporto con James?
E in quanto a Jemima? 
Fatemi sapere se questo capitolo è stato di vostro gradimento, ladies!
Anna xx

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