Memories of us

di Laylath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. 1876. La pasticciera ed il poliziotto ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. 1876. Colazione segreta. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. 1876. Increscioso equivoco ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. 1876. Voglio stare con te ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. 1876. Ufficialmente noi. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. 1876 - 7. Per una promozione ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. 1877. Proposta di matrimonio ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. 1877. Marito e moglie ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. 1877. Sorella felice, marito furioso. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. 1877. Le cose importanti della vita ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. 1879. Una destabilizzante novità ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. 1880. Vato ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. 1880. L'anarchico di famiglia. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. 1882. Piccoli Falman crescono ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. 1884. Sconvolgimenti ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. 1884. Le conseguenze delle proprie scelte ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17. 1884. Tornare assieme ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18. 1885. Arriva Elisa ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19. 1885. Tutta colpa dei temporali ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20. 1885. Ambientarsi ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21. 1885 - 6. Un bambino troppo accademico ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22. 1887. Dieci anni di noi ***
Capitolo 23: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. 1876. La pasticciera ed il poliziotto ***


Capitolo I

1876. La pasticciera ed il poliziotto.

 

Erano le nove di mattina e, come sempre, nella pasticceria era un momento di quiete: le persone che erano venute a fare colazione avevano iniziato la loro giornata di lavoro e sicuramente prima di un’ora e mezza sarebbero stati ben pochi i clienti.
Rosie sospirò con soddisfazione, entrando in cucina per andare a levare una grossa teglia di biscotti dal forno: adorava quei momenti di quiete dopo la tempesta. Le sembrava che il silenzio si caricasse di un significato del tutto speciale, che gli odori del negozio si sentissero meglio e tutto la faceva sentire enormemente soddisfatta del lavoro che aveva svolto fino a quel momento.
“Ormai stanno diventando una tua specialità – commentò sua madre, andandole accanto e osservando con soddisfazione i biscotti dal colore perfetto e dall’odore invitante – intendi decorarli?”
“A dire il vero pensavo di lasciarli così – propose lei, sempre felice di quando le veniva data la possibilità di scegliere – per inzupparli nel caffè o nella cioccolata. In questo modo non si mischiano troppo i sapori.”
“Buona idea, tesoro. Forza, vai a sistemarli al bancone: ogni volta che servite caffè o cioccolata potete portare un piattino con qualcuno di questi.”
Rosie annuì con soddisfazione e si diresse verso la porta che portava al locale, lasciando sua madre a destreggiarsi con un impasto da stendere. Con un’abile manovra si girò, in modo che il vassoio bollente non subisse scossoni ed entrò nel locale silenzioso dove sua sorella maggiore stava finendo di rimettere in ordine i tavoli.
“Secondo me gli piaci davvero parecchio.”
Quelle parole maliziose da parte di Daisy le fecero salire un lieve rossore alle guance e subito si affretto a portare il vassoio dei biscotti ancora caldi al bancone. Il fumo emanato da quei dolci la fece sentire ancora più accaldata del previsto, ma fu contenta che in qualche modo mascherasse il suo imbarazzo.
“Smettila di dire sciocchezze, è solo gentile.” commentò, girando prudentemente lo sguardo da un’altra parte.
“Con te è gentile in maniera molto particolare – ridacchio Daisy, sicura dei chiari segnali che aveva visto nelle ultime settimane – e ti cerca sempre con lo sguardo. Hai fatto colpo, sorellina, ed è davvero un bel giovanotto: farò delle indagini su di lui, fidati di me.”
“Che cosa? – il vassoio quasi le cadde dalle mani e fece in tempo a salvarlo e posarlo – Daisy, non metterti in testa strane idee, capito? Tra noi sorelle sei la maggiore e dovresti essere quella con più giudizio, non credi?”
“Sono quella che si preoccupa delle altre – ritorse lei, andandole vicino e sistemandole una ciocca dei lisci capelli neri – hai appena compiuto ventuno anni e ancora non hai avuto uno straccio di corteggiatore, mentre Alyce che ne ha diciotto si sta praticamente sistemando con Luke.”
“Tu ne hai ventitré e…”
“… e devo aiutare mamma e papà a tenere il negozio: il matrimonio non rientra nei miei futuri progetti, quest’attività non mi permetterebbe mai di dedicarmi a casa e famiglia – la interruppe, con la sicurezza di chi ha già deciso la sua strada da tempo – Ma tu sei solo riservata, sorellina, un fidanzato ti farebbe davvero bene. E quel tipo mi sembra quello giusto per te.”
“Anche io voglio aiutare nel negozio: lo faccio da quando avevo sedici anni… e pure Alyce continua ad aiutare anche se si sposerà presto. Perché devi essere così ostinata?” Rosie si guardò attorno, come se temesse che all’improvviso qualcuno venisse a rapirla da quel posto a cui era abituata da quando era nata e dove era cresciuta assieme alle sue sorelle.
“Perché ti conosco troppo bene, Rosie McLane, e so che non aver avuto uno straccio di fidanzato a ventuno anni è una cosa disdicevole, specie con questo visino e questi occhioni che ti ritrovi… dannazione, fossi così carina avrei già fatto strage di cuori. E’ proprio vero che chi ha pane non ha denti e viceversa.”
“Daisy, Rosie – chiamò la voce della loro madre dalla cucina – una di voi può venire a darmi una mano con l’impasto?”
“Arrivo subito, mamma! – rispose Daisy, bloccando sul nascere la risposta della sorella – E no, mia cara, resti tu al bancone: il tuo ammiratore ha dimenticato qui il berretto, apposta, ne sono sicura. Vedi di non rovinare tutto… sciogliti un po’ coraggio, vedrai che non sarà così male fare due chiacchiere con lui.”
“Daisy!”
“Eccomi, mamma!”
 
Rosie rimase sola in negozio e con rassegnazione iniziò a sistemare i dolci nella vetrina del bancone.
Il suo sguardo cadde distrattamente sul berretto lasciato apposta su uno dei tavoli e si chiese se fosse giusto seguire i consigli della sorella maggiore.
Era carino, certo, e anche molto simpatico: le faceva tanti complimenti ogni volta che veniva al loro negozio e chiedeva esplicitamente qualcosa cucinato da lei (anche se, oggettivamente, tra le donne di famiglia era la meno brava nel preparare dolci). Non ci voleva molto a intuire che era interessato, anche se Rosie proprio non capiva cosa avesse di così speciale per meritarsi simili attenzioni: tra le tre sorelle riteneva di essere quella meno evidente.
Daisy forse era meno carina di lei, ma aveva una personalità così frizzante e trascinante che poteva benissimo fare colpo su qualsiasi uomo volesse, solo che era estremamente indipendente e tutto quello che le interessava era il negozio di famiglia. Alyce aveva molto del carattere della maggiore a cui aggiungeva una bellezza tale che era considerata il fiore all’occhiello della famiglia: nessuno si era sorpreso quando si era trovata un bravo ragazzo di ottima estrazione sociale a nemmeno diciassette anni.
E poi c’era lei… quella timida e riservata, molto spesso le sembrava di scomparire accanto alle due sorelle.
Con un sospiro si recò al tavolo da sparecchiare, dove il suo ammiratore ed un amico avevano consumato una ricca colazione a base di fette di torta e caffè, e si premurò di mettere il berretto da parte.
Portò il vassoio con la roba sporca dietro il bancone e tornò a pulire il tavolo con un canovaccio.
“Mi scusi, signorina Rosie – una voce attrasse la sua attenzione, mentre la porta del locale veniva aperta con uno scampanellio – credo di aver dimenticato il cappello.”
“Ah, certo – sorrise lei – eccolo qua, signore.”
Già… il sorriso era davvero bello e anche i capelli castano chiaro e gli occhi del medesimo colore erano perfetti in quel viso avvenente. Era comparso in negozio circa sei mesi fa, come accompagnatore di uno dei clienti abituali, e da allora erano veramente pochi i giorni in cui non si era presentato per la colazione.
Signore? Suvvia, ormai ci vediamo quasi tutti i giorni – commentò il giovane, allentandosi il colletto della camicia in un gesto imbarazzato –  posso chiederle di chiamarmi per nome?”
“Oh, ecco, io non so se sia il caso – arrossì violentemente – del resto ci conosciamo appena.”
“Possiamo presentarci, allora – propose immediatamente lui, tendendo la mano – mi chiamo Nath: ad essere sinceri mi dispiaceva tanto che lei non sapesse il mio nome quando io conosco il suo.”
Rosie esitò per qualche secondo e poi strinse quella mano con sincero piacere, dicendosi che tutto sommato non c’era niente di male a dare un pochino di confidenza in più a quello che era un cliente abituale. Era semplicemente essere cortesi e, come diceva suo padre, la cortesia assieme al cibo buono è il modo migliore per indurre i clienti a tornare.
Del resto, il vecchio signor Louis lei e le sue sorelle ormai lo chiamavano “nonno Louis” in quanto lo conoscevano sin da piccole.
Forse in alcuni casi era giusto andare un po’ oltre.
“Allora ci vediamo domani, signorina Rosie.” salutò lui, lasciando con gentilezza la presa, anche se era chiaro che avrebbe voluto continuare a tenere stretta la sua mano.
“Ma certo, signor… Nath. Arrivederci.”
Lo guardò uscire, camminando all’indietro, per avere fino all’ultimo il viso rivolto verso di lei. E la strizzata d’occhio finale fu davvero spiazzante.
Ma non ebbe tempo di pensare a queste cose che la voce della sorella la richiamò.
“Oh, finalmente ci siamo date una mossa! Bene, bene, e così si chiama Nath: nome affascinante, niente da dire; visto, sorellina? Ci voleva molto a fare un passetto in avanti?”
“Stavi spiando!” Rosie si voltò verso di lei con aria profondamente offesa e imbarazzata.
“Stavo per tornare al bancone, ma ho sentito la sua voce e non ho voluto interrompere questo momento cruciale della tua vita sentimentale.”
“Daisy McLane, proprio non sai cosa sia il tatto.”
“Meno male che tu ne hai per tutte e tre le sorelle – Daisy la abbracciò con sincero affetto e le baciò la guancia – Ah, la mia Rosie tutta timida e riservata, finalmente inizi a crescere un pochino. Adesso torno dalla mamma, quando iniziano a venire troppi clienti vengo ad aiutarti, promesso.”
“Daisy…” la richiamò, quando la donna stava per scomparire dietro la porta.
“Sì?”
“E’… è davvero carino, lo ammetto.”
“Ah, lo vedi? Devi sempre dare retta alla tua sorellona.”
 
Circa un’ora dopo, su una via di New Optain poco distante dalla pasticceria dei McLane, tre poliziotti si godevano la loro pausa mattuttina.
“Fidati di me, Vincent, la pasticceria dove vi sto portando è veramente eccezionale. Alan c’è stato più volte e non può che confermare, vero?”
Max diede una pacca sulla spalla al poliziotto che camminava accanto a lui il quale sorrise con convinzione.
“Confermo e sottoscrivo, non credo di aver mai assaggiato delle torte così buone.”
“Sì, ma ricordiamoci che la nostra pausa dura solo mezz’ora, poi dobbiamo tornare in servizio.” il terzo poliziotto che camminava un passo dietro di loro li squadrò con aria di estremo disappunto. Aveva il vago sentore che i due colleghi avessero intenzione di prolungare la pausa più del dovuto, una cosa assolutamente inaccettabile.
“Oh, Vincent, smettila di essere così rigido: tanto in un periodo tranquillo come questo non succede mai niente e tre poliziotti affamati possono concedersi una pausa per una fetta di torta ed un caffè.”
“Adesso non esagerare, Max, abbiamo già avuto l’onore di convincere il grande Vincent Falman a venire a fare colazione con noi, non stuzzichiamolo troppo.”
“Davvero divertente, ragazzi – sbottò l’interessato, lanciando un’occhiata distratta al negozio dove stavano per entrare – se non ci fossi io a tenervi in riga sforereste gli orari ogni volta.”
“Per i dolci che fanno qui ti assicuro che ne vale la pena – ridacchiò Max aprendo la porta e alzando la voce per farsi sentire in quel trambusto – e siamo fortunati che ci sono ancora dei tavoli liberi, a volte si riempie tantissimo. Forza seguitemi: lì vicino al bancone.”
Vincent seguì i suoi entusiasti compagni fino al tavolo, passando in mezzo a tutta quella gente che chiacchierava allegramente mentre mangiava fette di torta dall’aspetto decisamente gustoso. Non era solito frequentare locali di questo tipo, i dolci poi non lo facevano impazzire, ma per una volta tanto aveva deciso di farsi trascinare dai suoi compagni di squadra. Max non faceva altro che parlare di questa fantomatica pasticceria da quando lo conosceva, ossia da almeno cinque anni, ed erano innumerevoli le volte che aveva cercato di trascinarlo in quel posto.
“E dai, slacciati almeno la parte superiore della giacca, Vincent: hai venticinque anni non cinquanta come il nostro capitano.”
“Va bene, va bene… accidenti a voi.”
Con un sospiro si slacciò il primo bottone, sentendosi lievemente a disagio nell’avere quella piccola pecca nella sua divisa perfetta. Non era la prima volta che gli facevano notare quanto fosse troppo severo in determinate cose, ma non ci poteva fare niente: del resto un poliziotto non era certo pagato per elargire sorrisi, ma per tenere l’ordine.
“Chissà se c’è la mia preferita.” fece Max, lanciando un’occhiata al bancone.
“Io preferirei di gran lunga quella piccola. E’ davvero una bellezza.”
“Ah, smettila di farti tante illusioni, Alan! Da quello che so si sta per sposare: del resto una come lei non rimane sola per molto. Speriamo che venga a servirci Daisy, la mia meravigliosa fatina dello zucchero e...”
“Mi dispiace deluderti – lo interruppe Alan – ma sta arrivando proprio quella che ci interessa di meno.”
“Finitela con questi commenti sgradevoli – li rimproverò Vincent, sistemandosi il berretto della divisa in grembo – non è educato.”
“Buongiorno, signori – salutò Rosie, con un timido sorriso – cosa vi porto?”
“Tua sorella Daisy non c’è?” chiese Max strizzando l’occhio.
“E’ in cucina ad aiutare mia madre – rispose prontamente la ragazza, conoscendo bene il grande ammiratore di sua sorella – vi dovrete accontentare di me.”
“Li scusi tanto, signorina.” si sentì in dovere di dire Vincent, alzando lo sguardo su di lei.
“Oh, non si preoccupi, signore – scosse il capo Rosie, sistemandosi una ciocca di capelli neri che era sfuggita dal fermaglio – allora, cosa vi porto? Daisy ha appena fatto una torta alla crema che si accosta particolarmente bene con il caffè che faccio io.”
“Uhm, iniziamo a ragionare: affare fatto! – annuì Max – E fai i migliori complimenti a Daisy: ancora prima che io abbia mangiato la torta sono sicuro che sarà ottima.”
“Riferirò, signore – ridacchiò la ragazza, stringendosi al petto il vassoio – torno da voi tra un paio di minuti.”
“Carina anche lei – commentò Alan, lanciandole un’occhiata mentre si allontanava tra i tavoli – ma niente a che vedere con la minore.”
“Ah, e tu la vedi adesso che con me ha un minimo di confidenza: è l’unica delle tre che ancora non mi da del tu, nonostante ci conosciamo da tantissimi anni. Prima era così rigida e riservata, ce n’è voluto di tempo per farla sciogliere un po’. A volte è difficile pensare che sia sorella di quell’uragano di Daisy… che dici Vincent? Questa mi sa che va bene per te.”
“Vi ho detto di finirla con questi commenti idioti.”
Con un sospiro seccato si girò a guardare la ragazza, dispiaciuto per le cose poco lusinghiere che i suoi compagni avevano appena detto alle sue spalle. E poi non capiva che cosa ci trovassero di sbagliato in lei: era snella, di altezza normale con un viso delicato, circondato da lisci capelli neri; sembrava a suo agio tra la clientela, ma dipendeva dagli avventori: si capiva che c’erano alcuni con cui aveva maggior confidenza, mentre con altri, evidentemente non abituali, era più timida e chiusa in se stessa.
Rigida e riservata…
Ma proprio quando ripeteva quegli aggettivi, la ragazza andò in un tavolo all’angolo dove stava un anziano signore che leggeva un libro ed il sorriso che gli rivolse le illuminò il viso in un modo delizioso. Posò il vassoio sul tavolo e con estrema tenerezza e si sporse per baciare sulla guancia quella persona che le diede un delicato buffetto sul mento.
Rigida e riservata? No, proprio non avevano capito niente.
“Come si chiama? Mi dimentico sempre il suo nome.” la voce di Alan lo riscosse.
“Rosie, quante volte te lo dovrò ricordare?”
“Rosie…” le labbra di Vincent si mossero appena nel pronunciare quel nome.
 
“Daisy, la tua torta alla crema – chiamò Rosie entrando in cucina – c’è il tuo grande ammiratore in divisa.”
“Chi, Max?” sospirò la ragazza iniziando a tagliare la sua specialità in fette perfette.
“Proprio lui e ha chiesto di te, ovviamente – sorrise la sorella, posando la guancia sulla sua spalla e decidendo di renderle un po’ pan per focaccia per la scena di qualche ora prima con Nath – dovresti lasciarti andare un po’ con lui, non credi?”
“Ehi, piccolo fiore, battute di questo tipo lasciale a me… beh, presumo che un ragazzo così costante meriti un premio. Dammi un piatto: a lui ci penso io.”
“Allora ti piace, eh?”
“Forse, ma non pensare che mi dimentichi di te e il tuo corteggiatore che, se proprio dobbiamo essere onesti, è molto più galante ed educato del mio. Forza, andiamo a servire le nostra onorata polizia.”
Rosie non poté dar a meno di ridacchiare finendo di sistemare il resto dell’ordinazione nel vassoio e seguendo la sorella nella sala. Con una grazia derivata dall’esperienza, si infilarono in mezzo alle persone e giunsero al tavolo.
“Oh, Daisy! – esclamò Max, alzandosi con un gran sorriso – quale onore ci fai con la tua presenza!”
“Mia sorella mi ha detto che sono stata richiesta a gran voce, Max – sorrise lei, mettendo il piatto con la torta davanti a lui – come potevo deluderti? Ehi, non credo di conoscere uno dei tuoi colleghi.”
“E già, e la prima volta che riusciamo a trasciniamo qui: lui è Vincent.”
“Vincent Falman al suo servizio, signorina.” si alzò in piedi, scattando sull’attenti.
“Uh, riposo soldato – si sorprese lei, davanti a quella formalità – qui non siamo in caserma.”
“E’ fatto così, dovrei portarlo più spesso in questo posto: è magro, vero?” ridacchiò Max.
“Fidati che qui il cibo buono non manca – strizzò l’occhio lei – bene, devo scappare in cucina, vi lascio alle cure della mia sorellina. Fate onore alla mia torta, mi raccomando.”
“Contaci, Daisy!”
“Ahah, ti ha proprio messo a posto, Vincent – rise Alan – quella ragazza non ha peli sulla lingua e credimi che se continui ad essere così rigido non mancherà di stuzzicarti.”
“Non se la prenda, signore – arrossì Rosie, sentendosi in dovere di intervenire – mia sorella è fatta così, non voleva assolutamente essere scortese.”
“Non fa niente – mormorò Vincent, nonostante il suo viso si fosse fatto più serio del normale – non si preoccupi, signorina.”
Lei in quel momento stava versando il caffè e gli rivolse un sorriso così bello che per un attimo Vincent si sentì rapito. Non si sarebbe mai aspettato che una ragazza sconosciuta gli potesse fare un simile effetto.




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bene! eccoci arrivati ai tanto attesi spin off di "Un anno per crescere"
Se vi state chiedendo come ho fatto ad essere così rapida ad iniziare è semplicemente perché questo era già in fase di scrittura mentre ancora era in corso l'opera principale xD
L'ho già messo come avvertimento nell'introduzione, ma è bene riperterlo: per capire fino in fondo di chi sto parlando è necessario aver letto l'altra fic. 
La mia intenzione è di arrivare cronologicamente più o meno all'inizio delle scuole medie di Vato ed Elisa, mi sarebbe dispiaciuto negare a questi due personaggi il loro incontro e i loro primi anni come amici. Anche se, ovviamente, i veri protagonisti della storia saranno Vincent e Rosie. 
Enjoy!
Ah, ps: per vostra gioia anche in questi spin off ci saranno i meravigliosi disegni di Mary, come quello che ho messo e che ci accompagnerà all'inizio di ogni capitolo ^__^

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. 1876. Colazione segreta. ***


Capitolo II

1876. Colazione segreta

 

Vincent Falman non aveva mai avuto molti rapporti con il gentil sesso.
La vita non era stata buona con lui, privandolo di entrambi i genitori in tenera età, e si era sempre dedicato allo studio prima e al lavoro poi. Solo quando era diventato poliziotto ed aveva avuto finalmente uno stipendio per rendersi indipendente dalla zia che l’avevano ospitato per tutti quegli anni si era sentito in qualche modo appagato.
Tuttavia queste sue vicende personali l’avevano spinto a una notevole severità e rigidità in primis nei confronti di se stesso: anche adesso che in qualche modo era libero non abbandonava la sua aria marziale che ormai faceva parte di lui.
Si concedeva veramente pochi strappi alle regole, spesso trascinato dai suoi compagni di squadra, ed in ogni caso le donne non rientravano certo nei suoi interessi.
Per questo per lui fu estremamente imbarazzante quando, un paio di mattine dopo, almeno un’ora prima di entrare in servizio, si trovò davanti a quella pasticceria.
Non sapeva nemmeno lui perché l’aveva fatto: era uscito prima di casa, senza nemmeno prepararsi il solito caffè, ed i suoi piedi si erano mossi da soli in quella direzione. Una cosa veramente stupida considerato il freddo che faceva a gennaio, dove ogni minuto passato dentro casa era prezioso.
Guardando la vetrina illuminata dalla luce del lampione lì vicino si chiese che cosa diavolo gli era saltato in mente. Trovò una risposta, ma gli sembrò decisamente stupida ed infantile e poco adatta a lui: certo in quei giorni quella timida ragazza con quel suo sorriso così dolce ed incantevole gli era tornata in mente diverse volte, però arrivare addirittura a questo…
Andiamo che sciocchezza, non ci siamo scambiati che poche parole e non…
“Buongiorno.” salutò una voce accanto a lui, distraendolo dai suoi pensieri.
Si girò e vide che si trattava proprio di lei, il volto mezzo coperto da una sciarpa lilla ed un pesante cappotto verde scuro abbottonato: se gli era sembrata minuta qualche giorno prima, infagottata in quell’indumento lo era ancora di più. Vincent fu quasi sicuro che lo doveva aver ereditato da una delle sorelle.
Nella parte del viso lasciata libera dalla sciarpa, occhi spalancati e lievemente timorosi lo fissavano con curiosità, probabilmente chiedendosi cosa ci facesse in giro a quell’ora.
“Buongiorno, signorina.” salutò, girandosi completamente verso di lei.
“Aspettava che aprissi? Mi scusi, oggi sono un po’ in ritardo: ci sono mia madre e mia sorellina con la febbre e a casa dobbiamo fare tutto in due perché mio padre è fuori città – armeggiò con la chiave del negozio e aprì la porta – venga dentro, la prego, fuori si gela: sono appena le sette e mezza.”
“Veramente passavo qui per caso mentre andavo a lavoro – mentì lui, seguendola dentro e osservandola levarsi la sciarpa per liberare i capelli neri che le caddero dolcemente sulla schiena – mi… mi sono ricordato che qualche giorno fa mi hanno portato qui dei miei colleghi, tutto qui.”
“Sì, lei è l’amico di Max, vero? – anche il cappotto venne appeso all’attaccapanni e lei rimase con un caldo vestito di lana azzurra – Le chiedo ancora scusa per mia sorella, non voleva offenderla, sul serio.”
“Non si deve preoccupare – Vincent scrollò lievemente le spalle, accorgendosi di come fosse delicata la sua voce senza l’esigenza di alzare il tono per farsi sentire in mezzo alla clientela – Mi scusi, lei dovrà sicuramente avviare il negozio, non la voglio disturbare più di tanto.”
“Cosa? – Rosie si girò verso di lui, la punta del naso arrossata per il freddo, sgranando gli occhi scuri – Ma no, non dica questo: fa freddo fuori, perché non prende un caffè?”
“Se lo deve fare…”
“Ma certo! Sono uscita da casa di corsa per non fare tardi e se non bevo qualcosa di caldo pure io mi congelo. Si sieda pure e non si preoccupi per me, tanto a quest’ora non credo di aver mai avuto clienti.”
Vincent si levò il cappotto e si sedette al tavolo dove si era accomodato la volta precedente con Max ed Alan e la guardò sparire dentro la cucina. Era così strano come con poche frasi quella ragazza l’avesse fatto sentire incredibilmente accettato: senza tutti quei clienti attorno, con quel silenzio e la luce soffusa che veniva dalla lampada sul soffitto, e quel profumo di caffè che iniziava ad arrivare alle sue narici.
Dovette aspettare solo pochi minuti prima che lei ricomparisse, il grembiule legato attorno alla vita, con un vassoio tra le mani.
“Ecco, caffè appena fatto: l’ideale per una mattinata così fredda – annunciò posando una tazza sul tavolo e versandolo dal contenitore fumante – le ho portato anche dei biscotti. Li ho fatti ieri, mi dispiace di non poterglieli offrire di giornata, ma le assicuro che ad inzupparli sono favolosi. Le lascio qui il caffè se ne vuole altro…”
“E lei non lo prende, signorina?”
Fu una domanda improvvisa e fuori luogo, totalmente non da lui, e se ne pentì subito. Ma gli dispiaceva troppo l’idea di non poter condividere quel momento assieme a lei.
“Io…? Ecco, non è cortese prenderlo al tavolo del cliente – annaspò lei, arrossendo e guardandosi intorno, come una bestiolina spaventata che cerca una via di fuga – non si preoccupi lo berrò in cucina, stia tranquillo.”
E senza aspettare risposta scappò letteralmente via con il vassoio stretto al petto.
Dannazione a me, ma che sto facendo? – Vincent posò lo sguardo sulla tazza di caffè fumante – Se non fosse per la divisa che indosso mi avrebbe preso per un malintenzionato da subito. E ovvio che è spaventata all’idea che siamo da soli in negozio e fuori è ancora buio e non c’è nessuno.
Si chiese se era il caso di andare da lei, scusarsi e rassicurarla del fatto che non aveva nessun’intenzione disdicevole nei suoi confronti, ma poi si rese conto che forse avrebbe solo peggiorato la situazione.
Così, con un sospiro si rassegnò a bere quel caffè da solo, ripromettendosi di lasciare i soldi sul tavolo senza dire niente alla ragazza.
 
Rosie nel frattempo era pesantemente posata contro la porta della cucina e cercava di calmare i battiti del suo cuore.
Oh no, Rosie, non va bene: non si tratta un cliente in questo modo.
Era stata veramente maleducata, l’aveva lasciato solo in sala in un modo così brusco, dopo che era stata lei ad insistere per farlo entrare a bere qualcosa di caldo.
Come poteva esser stata così stupida da reagire così? Era un poliziotto ed un amico di Max, non aveva di certo cattive intenzioni nei suoi confronti. Semplicemente non era bello stare da soli in quella sala deserta e silenziosa.
Per un attimo rimase perplessa sul da farsi, chiedendosi se era il caso di ripresentarsi davanti a lui dopo quella drastica fuga, ma poi si fece coraggio: posò il vassoio e da una delle mensole recuperò un’altra tazza.
Si affacciò timidamente dalla porta e vide che lui era lì, seduto composto al tavolo, la schiena perfettamente dritta. Tenendo stretta la tazza al petto si avvicinò al tavolo.
“Mi dispiace, sono stata scortese… posso… posso sedermi?”
“Prego – fece lui alzandosi di scatto e scostandole la sedia accanto alla sua – anzi, mi perdoni per il mio comportamento poco consono. Non si deve sentire obbligata, tutt’altro.”
Rimasero in silenzio, mentre lei si versava la bevanda fumante nella tazza: solo allora iniziarono entrambi a sorseggiarla in un clima di notevole imbarazzo.
Rosie lo fissò bene per la prima volta: era alto, davvero tanto, e magro, nel viso gli zigomi erano troppo evidenti. Il taglio degli occhi, poi, era davvero particolare… allungato? Di certo non aveva mai visto una cosa del genere in altre persone. E poi c’era quella rigidità in tutta la sua persona, l’aria severa che restava anche quando voleva essere gentile.
Solo.
Fu una parola che le esplose nell’anima, una di quelle intuizioni che giungono all’improvviso e che fanno capire l’essenza di una persona. Si trovò a guardarlo con maggiore attenzione, accorgendosi di quanto fosse diverso da Max e dall’altro loro collega, sempre sorridenti ed allegri.
Però c’era uno strano piacere nello stare accanto a lui, levato il primo imbarazzo Rosie si accorse di sentirsi protetta e a suo agio.
“Le piace? – si trovò a chiedere, vedendo che l’uomo stava mangiando uno dei suoi biscotti – i… i biscotti fatti da me, intendo.”
“Sono la cosa più buona che abbia mai assaggiato.”
Lei arrossì, percependo la sincerità di quelle parole: nessun complimento da parte di altre persone le aveva mai dato un simile piacere.
E poi, anche se la sua espressione era seria, la sua voce sapeva essere davvero calda e piacevole.
 
Qualche ora dopo le due sorelle McLane si stavano godendo la quiete dopo la tempesta del momento di tregua dato dall’orda di clienti. Come sempre Rosie assaporava quel momento, dove c’erano pochi e conosciuti avventori, ma a differenza delle altre volte si sentiva particolarmente felice, come se qualche evento le avesse illuminato tutta la giornata.
“Buongiorno, signorina Rosie, signorina Daisy.”
Uno scampanellio e la porta che si apriva fecero riscuotere le due ragazze.
“Buongiorno a lei, signore – sorrise Daisy, riconoscendo Nath – anche oggi il solito?”
“Certamente – annuì lui, sedendosi al solito tavolo – non potrei mai fare a meno di una colazione preparata dalla signorina Rosie. Oggi mi dovete scusare ma ho fatto più tardi del previsto.”
“Non si preoccupi. Arrivo subito – arrossì Rosie, prima di correre in cucina – si metta comodo.”
“Bene, bene – ridacchiò Daisy raggiungendola e aiutandola a preparare il necessario – e oggi un nuovo passo avanti lo vogliamo fare?”
“Che cosa vuoi dire?”
“Beh – scrollò le spalle lei con malizia – secondo me dovresti dargli dei segnali pure tu. Insomma, fagli capire che sei interessata.”
“Oh, Daisy, non potrei mai!”
“Suvvia: ti piace, no?”
“E’ carino, certo e anche simpatico, ma… ma lo conosco appena!”
“Non lo conoscerai mai meglio se rimani ferma così.”
“Sorellona, ti prego!” supplicò lei, intuendo che Daisy aveva tutta l’intenzione di prendere in mano le redini della situazione. Fece per aggiungere altro, ma poi si fermò con un sussulto al cuore.
Come poteva dirle che improvvisamente le erano tornati in mente quei momenti passati con quel poliziotto? Eppure era una cosa così assurda: si erano detti poco e niente e lui era andato via salutandola con estrema cortesia e augurandole una buona giornata.
Insomma, non c’è stato niente di compromettente!
“Dai che lui aspetta – la riscosse Daisy, mettendole in mano il vassoio – forza e coraggio, piccolo fiore!”
Fu quasi spinta fuori dalla cucina, il vassoio che rischiò di caderle rovinosamente per terra. Con un respiro imbarazzato cercò di darsi tutto il contegno possibile, traendo forza dal fatto che erano presenti anche altre persone e dunque non ci si poteva certo lasciar andare a gesti eclatanti o a discorsi imbarazzanti.
“Scusi tanto l’attesa – sorrise timidamente, servendo la colazione – oggi noto che non è con il suo solito amico.”
“Eh già oggi aveva un impegno di lavoro e mi ha abbandonato – ammise lui, fissandola con ammirazione – a dire il vero, speravo di poter parlare con lei, signorina.”
“Oh – arrossì lei, capendo che le cose stavano correndo davvero troppo – però… però in questo momento devo dare una mano in negozio e non posso dedicarle molto tempo, sign… Nath.”
“Allora – disse lui, prendendole il polso con timidezza – potrei chiederle se magari le va di vederci quando lei è libera?”
A Rosie quella presa, nonostante fosse estremamente gentile, sembrò bruciare più del fuoco. Il suo cuore smise di battere e pregò che qualcosa o qualcuno la aiutasse ad uscire da quella situazione.
“Un appuntamento? – fece Daisy, accostandosi a loro – Ma che idea fantastica! Rosie, scusa, sabato è il tuo giorno di riposo, perché non ne approfittate?”
“Ma io…” annaspò lei, cercando una qualsiasi scusa per poter scappare senza dare una risposta.
“Proprio sabato mattina al parco devono fare un piccolo concerto, mi chiedevo se le andasse…”
“Ma che coincidenza! Rosie adora la musica, vero sorellina?”
“Sì, ma…”
“Davvero, signorina? – Nath si alzò dal tavolo con un sorriso – Sarei davvero felice di essere il suo accompagnatore.”
E a Rosie non restò che annuire, ma in cuor suo si sentiva tremendamente in colpa, senza nemmeno capirne il motivo.
 
Nello stesso momento, quasi per una disgraziata coincidenza, Vincent e i suoi colleghi ricevevano un nuovo incarico.
“Che cosa? Sabato dobbiamo andare di servizio al parco? Ah, ma che rottura, era il nostro giorno libero!” Max sgranò gli occhi e poi si sedette alla sua scrivania mettendo il broncio.
“E’ solo per la mattina – disse Vincent con una scrollata di spalle che indicava come a lui la cosa fosse completamente indifferente – c’è un concerto all’aperto ed è stato chiesto di mandare qualche uomo, giusto per sicurezza.”
“Sempre noi, eh? – sbottò – E io che volevo godermi un giorno di vacanza completo.”
“E’ il nostro dovere, se ti può consolare nemmeno a me piace la musica.”
“Non ho detto che non mi piaccia, solo che preferirei assistervi da borghese e con una bella ragazza… ah, ma che cosa ne parlo con te, Vincent.”
“Volevi andare da Daisy, ci scommetto – disse Alan con l’espressione di chi la sa lunga– ma un giorno di dieta non ti farà male. I troppi dolci sono pericolosi per la salute, non credi?”
“Ma finiscila! – sbottò l’uomo, sentendosi preso in giro – Meglio che vada a prendere una boccata d’aria…”
“Uh, la presa peggio del previsto.”
“Non ti preoccupare – fece Vincent con un lieve sorriso, riprendendo a lavorare al suo rapporto – si rifarà la settimana successiva.”
“Ehi, oggi sei meno rigido del solito, che ti succede?” Alex lo sbirciò con curiosità, sorpreso nel vedere quell’atteggiamento così rilassato: non aveva nemmeno richiamato Max all’ordine.
“Niente. Perché mi trovi diverso?”
“Sarà solo l’impressione, andiamo a prendere un caffè in mensa?”
“No grazie, ne ho bevuto uno ottimo stamattina e non voglio rovinarmi il sapore con quello della mensa.”
“Anche questa è una buona osservazione. Dai, vado a provare a recuperare Max.”
Rimasto solo nell’ufficio che divideva con i suoi compagni, Vincent si alzò ed andò alla finestra: ripensò a quella ragazza dolce e timida che si sedeva accanto a lui e gli faceva compagnia nel bere il caffè, con la punta del naso ancora rossa, i capelli neri sciolti sulle spalle.
Anche se non si erano parlati molto si era sentito così felice nell’averla vicino.
Si chiese se sarebbe stato molto scorretto andare da lei anche il giorno successivo, anche se aveva già preso la sua decisione.
 
La mattina dopo Rosie si svegliò alle sette meno dieci e uscì con discrezione dalla camera che condivideva con la sorella minore che ancora dormiva tormentata dall’influenza. Rabbrividendo per il contatto dei piedi scalzi sul pavimento, andò in camera di Daisy e mise una mano sulla sagoma addormentata.
“Daisy – bisbigliò – vado io ad aprire il negozio, va bene? Tu rimani pure a letto ancora per una mezz’ora e poi pensa a mamma e Alyce.”
“Sicura?” mormorò Daisy, senza nemmeno aprire gli occhi.
“Tranquilla, sorellona, ci penso io.”
Niente sarebbe stato più piacevole di restare al caldo, sotto le coperte, tuttavia Rosie sentiva l’esigenza di andare al negozio alle sette e mezza, proprio come il giorno prima. Probabilmente era solo una sua sciocca fantasia, ma se lui fosse venuto non poteva non farsi trovare: gli sarebbe sembrato un gesto veramente pessimo da parte sua.
Mentre correva per le vie ancora buie, il freddo che le sbatteva sulla parte del viso non protetta dalla sciarpa, continuava a ripetersi che era solo una stupida ingenua, del resto non gli aveva nemmeno chiesto il suo nome… anche se si ricordava che si chiamava Vincent. E probabilmente lui non si ricordava il suo e nemmeno gli importava.
Ma quando girò l’angolo e lo vide davanti al negozio il suo cuore smise di battere per la gioia.
“Buong…” iniziò a correre nell’ultimo tratto di marciapiede, ma un leggero strato di ghiaccio la fece scivolare in avanti.
In teoria sarebbe dovuta cadere rovinosamente con la faccia a terra, ma delle braccia forti la sostennero in tempo ed il suo viso si trovò premuto contro il cappotto di lui.
“Si è fatta male, signorina?” chiese Vincent con preoccupazione, aiutandola a rimettersi dritta.
“N… no – arrossì lei, sentendosi veramente imbarazzata per quella figura pietosa – il… il ghiaccio, non l’avevo visto. Grazie tante.”
“Si figuri – le sue mani ancora la tenevano per le spalle: nonostante i guanti la loro presa era così bella e bruciava in un modo completamente diverso da quella di Nath – è sicura che vada tutto bene?”
“Certo! E mi scusi per il ritardo: ho fatto più in fretta che potevo.”
Si frugò nella tasca del cappotto e prese le chiavi, cercando di controllare il tremore delle mani.
Entrarono e ancora una volta lui si sedette al solito posto, mentre lei andava a preparare il caffè ed i biscotti. Questa volta nel vassoio mise direttamente due tazze e quando la bevanda bollente fu pronta andò a sedersi al suo tavolo.
“L’altra volta non le ho nemmeno detto il mio nome, signorina.” fece lui alzandosi in piedi e aspettando cortesemente che lei si sistemasse
“Vincent…” mormorò lei con timidezza, sperando che lui notasse che se l’era ricordato.
“Vincent Falman.” e le sorrise, un sorriso intimo e caldo, solo per lei.
“Io invece mi chiamo Rosie McLane.”
“Lo so, me lo ricordo dal primo giorno… è un bellissimo nome.”
E se lo dici con quel sorriso, mi sento impazzire.


 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. 1876. Increscioso equivoco ***


Capitolo III

1876. Increscioso equivoco

 

Il venerdì di quella stessa settimana Rosie si sentiva particolarmente felice: proprio quella mattina suo padre era rientrato a casa dopo due settimane d’assenza e le sembrava che la sua vita avesse ripreso a scorrere con la giusta regolarità che, per quel breve periodo, era stata leggermente alterata.
“Tornerai a lavorare in negozio già da domani? – chiese, mentre cenavano tutti assieme – Se sei stanco non ti preoccupare, ci penso io.”
“Tranquilla, piccolo fiore – sorrise l’uomo, guardando con orgoglio le sue tre figlie – sono perfettamente in grado di riprendere in mano l’attività di famiglia. E poi sono sicuro che non c’è niente fuori posto in negozio, vero Margaret?”
“Le ragazze si sono date davvero da fare – annuì la moglie, tornando dalla cucina con il secondo – non puoi che essere fiero di loro.”
“E comunque tu domani hai altro da fare – disse Daisy, rivolgendosi alla sorella con aria maliziosa – ti sei dimenticata che hai un appuntamento?”
“Eh?” Rosie cadde dalle nuvole, completamente dimentica di quell’impegno che aveva preso.
“Hai un appuntamento? – chiese subito Alyce, finalmente guarita dall’influenza, così come la madre e dunque di nuovo a pieno regime – E non mi dici niente? Avanti, racconta! Chi è?”
“Sveglia, sorellina – la riprese Daisy, dandole una lieve gomitata – il nome Nath non ti dice niente? Dovete andare al concerto che si terrà al parco, non mi dire che te ne sei scordata.”
“Nath? Quello che ti fa chiaramente la corte da mesi? Oh, che bello!” Alyce si mise le mani sulle guance, pregustando già i pettegolezzi che sarebbero derivati da quella storia. Quando mai la sua riservata sorella aveva avuto un appuntamento?
“Ma io… io me ne ero proprio scordata.”
Ed era vero: in quei giorni Nath non era passato più per impegni di lavoro e dunque niente le aveva ricordato quell’appuntamento che, praticamente, le aveva combinato la sorella. Ma la motivazione fondamentale era un’altra: adesso quello che lei aspettava ogni giorno con impazienza era di andare ad aprire il negozio e trovare Vincent che l’attendeva.
Quella mezz’ora trascorsa insieme, prima che lui andasse a lavorare, le scaldava il cuore in una maniera incredibile: dopo il primo imbarazzo avevano iniziato anche a parlare, non che lui fosse molto loquace, ma la faceva sentire così bene…
“Allora, dobbiamo pensare a farti mettere qualcosa di carino: magari dopo il concerto andrete da qualche parte a mangiare e dunque non resterai in cappotto. Ah, mettiti quello rosa chiaro, ti sta benissimo.”
“E mi raccomando, che ti tratti col dovuto rispetto – disse suo padre – e poi voglio conoscerlo.”
“Papà, finiscila, i tempi sono cambiati.”
“Stiamo parlando di una delle mie bambine.”
“Oh, tesoro, lascia che si diverta per una volta tanto: è sempre in negozio a darci una mano.”
Ma nel frattempo che la sua famiglia discuteva allegramente di quella novità, Rosie cercava un qualsiasi modo per non presentarsi all’appuntamento di domani.
Come posso fare?
 
La mattina dopo Vincent si preparò il caffè nella piccola cucina del suo appartamento.
L’odore non gli sembrava per niente paragonabile a quello che preparava Rosie e anche quando ne mandò giù qualche sorso fece una smorfia di disappunto: non credeva che in meno di una settimana si potesse viziare in un simile modo.
Rosie gli aveva detto che oggi era il suo giorno libero e di conseguenza non era andato a fare quella strana forma di colazione assieme a lei: e ne sentiva già la mancanza, doveva essere sincero. Era ormai abituato alla sua voce dolce che parlava, riempiendo quella sala vuota di un calore del tutto particolare, a quello sguardo timido ed insicuro, con quei capelli neri che circondavano il viso adorabile.
Innamorato, Vincent?
Una domanda che non si era ancora fatto, ma non faticava ad ammettere che la risposta era sì. Sarebbe stato da stupidi girarci intorno, tanto valeva dire le cose come stavano. Se gliel’avessero chiesto due settimane prima avrebbe risposto, senza esitare, che non ci si poteva innamorare così in fretta, ma si era dovuto ricredere. Non poteva negare che i sentimenti suscitati in lui quella ragazza fossero speciali. Rosie era completamente diversa dalla tipologia di donna a cui aspiravano i suoi colleghi: certamente era un po’ riservata e forse questo la faceva risaltare di meno, ma lui trovava adorabile anche questo. C’era una placida tranquillità nello stare assieme a lei: aveva il dono di farlo sentire a casa, anche se erano all’interno di una sala con decine di tavoli vuoti.
Sistemando la tazzina ancora mezzo piena nel lavandino, si chiese come doveva procedere in quel delicato sentiero che era l’amore. Non era abituato a tutte le strane regole che lo governavano, come fare la corte o simili e questo poteva essere un problema. In genere le ragazze ci tenevano parecchio.
Ma probabilmente le sembrerei solo uno stupido…
La cosa migliore da fare era rimanere se stessi: appena l’avrebbe rivista le avrebbe chiesto se gli avrebbe fatto l’onore di accettare il suo interessamento.
Era il minimo essere corretti nelle proprie intenzioni.
Con un lieve sorriso finì di sistemarsi la divisa ed uscì per andare al parco assieme ai suoi colleghi, pronto a sentire tutte le lamentele di Max. Ma per una volta tanto non gli avrebbero dato così tanto fastidio, ne era certo.
 
“Sono davvero felice di poterla vedere anche fuori dal negozio, signorina – sorrise Nath, mentre a braccetto si dirigevano verso il grande gazebo dove l’orchestra stava prendendo posto – non ha idea di quanto abbia atteso questo momento. Le confesso che avevo anche paura che se ne scordasse, del resto non sono potuto passare in negozio negli ultimi giorni.”
“Davvero? – Rosie arrossì davanti a tutto quell’entusiasmo – Mi… mi sta lusingando troppo Nath, sul serio.”
“Ma no, non è vero. Ecco, sediamoci qui, avremo un’ottima visuale.”
E la fece accomodare in una delle panchine che erano state sistemate per l’occasione.
Nell’arco di pochi di minuti tutti i posti vennero occupati da decine e decine di persone liete di trascorrere quel sabato mattina in maniera diversa dal solito. Coppiette sorridenti, famigliole, nonni con nipoti… il clima era così sereno e ben si accompagnava a quel tiepido sole, tanto che Rosie si sentì enormemente dispiaciuta di non riuscire a godersi un momento così piacevole.
E la riempiva di tristezza pensare che era la compagnia quella che non andava, dato che Nath si stava comportando come il migliore degli accompagnatori e si vedeva che ci teneva tanto a quei momenti.
Se ci fosse stata una delle sue sorelle o  i suoi genitori sarebbe stata felicissima di trovarsi lì.
E se ci fosse stato Vinc… oh no, Rosie! Smettila subito!
Lanciò una timida occhiata a Nath che stava leggendo il programma del concerto: cercò di ritrovare l’entusiasmo che aveva prima di incontrare Vincent, ma era impossibile. Adesso, per quanto riconoscesse che era un giovane carino e cortese, non poteva fare a meno di sentirsi terribilmente in errore ad essere insieme a lui in quel posto.
“Rosie.”
“Sì?”
“Mi chiedevo se dopo le andasse di andare a mangiare qualcosa assieme.”
“A pranzo, dice? – un’eventualità che aveva sperato fino all’ultimo non accadesse – Non saprei…”
“Oh, suvvia non si faccia pregare – sorrise lui – sarebbe perfetto per continuare la nostra uscita. Oh, ma ecco che cominciano, ne parliamo dopo.”
E fu con estremo sollievo che Rosie si mise ad applaudire, rimandando per il momento quella spinosa situazione.
 
“Una mattinata decente sprecata a stare a guardare questo concerto – sospirò Max, soffiandosi le mani per riscaldarle prima di armeggiare nelle tasche alla ricerca dei guanti – certo che tutti questi cittadini sono un grande pericolo, eh?”
“Finiscila di essere sarcastico, ormai è andata – alzò le spalle Alan, prendendola con filosofia – e poi, nonostante siamo costretti a stare in piedi e non seduti, non è male questa musica.”
“Perdonami, ma non rientrava tra le cose che volevo fare in quello che, in teoria, doveva essere il nostro giorno di riposo. E tu che ne pensi, Vincent?”
“Gli ordini sono ordini, anche se a volte sono spiacevoli.” rispose l’interessato con la solita postura rigida e l’atteggiamento composto.
“Uff, stupido io che ti faccio domande simili: vediamo almeno se tra il pubblico c’è qualche signorina carina.”
“Non volevi andare dalla tua Daisy? – ridacchiò Alan – Guarda che non è delicato guardare le altre ragazze, o forse ti sei rassegnato?”
“No, prima o poi la mia bella pasticciera capitolerà, fidati – strizzò l’occhio lui, ritrovando il buonumore nel parlare della ragazza – oh, ma sbaglio o quella è sua sorella? Ma guarda, allora anche lei ha una vita sociale, non l’avrei mai detto.”
“Chi? La piccola?” si incuriosì Alan sbirciando tra la gente seduta.
“No, l’altra, la vedi? In terza fila a sinistra, accanto a quel tipo con il cappotto blu scuro.”
A quelle parole Vincent si riscosse dal suo atteggiamento marziale e guardò nel punto indicato dal suo collega. La riconobbe subito, quei capelli lisci e neri erano ormai inconfondibili per lui: la sciarpa lilla le avvolgeva il collo nel solito modo, ma il viso era scoperto e non lasciava dubbi sull’identità.
Improvvisamente si sentì un grandissimo idiota, ma non potè far a meno di provare anche un briciolo di amarezza e rancore nei confronti di lei.
“Aspetta, mi pare di riconoscere anche lui – fece Max, senza rendersi conto di rigirare il coltello nella piaga – l’ho visto qualche volta al locale… beh, non ci avrei mai creduto, ma qualcuno è riuscito a convincere la Signorina Riservatezza ad uscire. Buon per lei.”
“Se c’è speranza per lei allora c’è anche per te e Daisy – lo prese in giro Alan – e tu che ne pensi Vincent?”
“Io non penso niente. Non fate troppo gli spiritosi, siamo in servizio.”
E per tutta la durata del concerto, che sembrò infinitamente lungo, non spiaccicò una parola. Fissava il direttore d’orchestra come se fosse il suo più grande nemico, ma ogni tanto il suo sguardo saettava su Rosie, seduta accanto a quello sconosciuto.
E in quei momenti non poteva far a meno di sentire un gran vuoto dentro al cuore.
Ovviamente aveva frainteso tutto quanto.
 
“E’ stato davvero un bel concerto.” commentò Nath, come si alzarono in piedi e si avviarono fuori da quel piccolo labirinto di panchine.
“Sì, sono stati molto bravi e hanno suonato dei brani che mi piacciono tanto.” annuì Rosie che, alla fine, era riuscita a rilassarsi un pochino.
“Per quanto riguarda la mia proposta di andare a pranzo assieme?”
“Oh, quella. Ecco, io veramente non sono sicura e…”
“Buongiorno, signorina Rosie!”
I due si girarono e alla ragazza si gelò il sangue nelle vene quando vide un trio di poliziotti poco distanti da loro: due salutavano con cortesia, un altro stava rigido e immobile, gli occhi dal taglio allungato puntati su di lei, quasi a trafiggerla.
“Li conosce?” chiese Nath con perplessità.
“S… sono… clienti del locale.” balbettò lei, mentre il trio si avvicinava.
No, no, no! Perché proprio Vincent! E ora che penserà?
“Sono davvero sorpreso di vederla al di fuori del locale, signorina – sorrise con malizia Max, facendosi avanti – non ho intenzione di interrompere il suo appuntamento, ma stasera le prego di porgere le mie ferventi scuse a sua sorella Daisy: sarei tanto voluto passare stamattina, ma il dovere ci ha chiamato qui.”
“Sei davvero senza speranza – ridacchiò Alan – ma lo faccia contento, signorina, altrimenti ci resta male.”
Si dovette riscuotere per rispondere timidamente a quella richiesta e fare almeno un sorriso.
Ma mentre Nath scambiava un saluto con i due poliziotti, trovò la forza di alzare lo sguardo su colui che era rimasto in silenzio ed un passo dietro agli altri. Non appena lo fece, tuttavia, lui girò la testa di lato, il suo volto impassibile come mai era successo… granitico.
Le venne da piangere: si sentiva dolorosamente in torto per l’essere a braccetto con Nath, per aver passato quelle ore con lui, per non averglielo detto. Si sentiva una donna veramente pessima che aveva appena tradito la fiducia di una persona davvero importante.
E fu veramente difficile mantenere le apparenze per quei brevi ed orribili minuti.
 
Quella sera, come rientrò a casa, Vincent si preparò una rapida cena che non toccò, limitandosi a stare seduto a fissare il piatto senza alcun interesse.
Che cosa era mai andato a pensare?
Era ovvio che qualcun altro si era accorto di quanto era speciale quella ragazza ed era arrivato prima di lui. Li aveva osservati bene durante il concerto ed erano davvero una bella coppia, lui sicuramente era un giovane di buona famiglia e poteva offrirle molto di più di lui, semplice poliziotto. Senza contare il confronto fisico: aveva sempre saputo di non essere un bell’uomo, troppo alto e troppo magro e con tratti eccessivamente spigolosi; il suo rivale invece era un giovane avvenente e dal viso cordiale, una di quelle persone che fanno immediata simpatia.
Non c’era nemmeno da riflettere su chi la ragazza potesse preferire.
Il suo sguardo percorse il piccolo e spoglio appartamento che si poteva permettere con il suo stipendio: anche se sarebbe stato molto più comodo stare nel dormitorio della stazione di polizia, per una strana forma di orgoglio ed indipendenza personale aveva voluto vivere da solo.
Quelle tre stanze fredde e spoglie non erano adatte per una ragazza come lei, forse era stato meglio capirlo subito ed evitare di farsi troppe illusioni.
Ma, ad onor del vero, gli era bastata una settimana per farsele: si era lasciato trasportare da quella persona più del dovuto, arrivando a considerare quella mezz’ora trascorsa assieme a lei come la parte più bella di tutta la giornata.
Ma evidentemente Rosie voleva solo essere gentile e non era interessata.
La cosa migliore sarebbe stato dimenticare per sempre il suo viso e la sua voce.
Anche se sarà veramente difficile.
E mentre pensava questo si sentì tremendamente solo e ammise che, ogni tanto, aveva sperato di vederla un giorno a portare un calore tutto nuovo in quella piccola casa.
 
La mattina successiva alle sette e venti, Rosie correva come una disperata per le strade silenziose.
Sperava con tutto il cuore che lui venisse ugualmente, nonostante tutto quello che sicuramente aveva pensato di lei. Il giorno prima avrebbe tanto voluto tornare indietro e spiegargli quel malinteso… che poi malinteso non era dato che lei stava effettivamente uscendo con Nath.
Si era sentita un mostro: aveva chiesto al suo accompagnatore di riportarla a casa, adducendo come scusa il fatto che non si sentiva molto bene, ma tutto sommato era vero. Si era chiusa in camera sdraiandosi nel letto e aveva inzuppato di lacrime il suo cuscino. Era rimasta tutta la sera in quella posizione, addormentandosi esausta e ricomponendosi giusto in tempo per quando il resto della famiglia era tornato a casa.
Non era mai uscita con un ragazzo ed in un colpo solo aveva deluso due persone, ma mentre per Nath le dispiaceva, per Vincent provava una tremenda angoscia all’idea di averlo perso.
Ormai le mancava il fiato per quanto correva, ma quando arrivò in prossimità del negozio accelerò ulteriormente il passo, sperando in un miracolo. Ma come girò l’angolo si fermò bruscamente.
Davanti alla vetrina non c’era nessuno.
Forse… forse sono solo io che sono arrivata in anticipo.
Si strinse meglio nel cappotto e si poggiò contro quel vetro gelido ad attendere, mentre una leggera nevicata iniziava a cadere. Rimase in quella posizione per cinque, dieci, quindici minuti, mentre silenziose lacrime le rotolavano sulle guance.
Alla fine il freddo e l’approssimarsi dell’apertura la obbligarono ad aprire.
Tremava così tanto per quell’attesa che fu imperativo preparasi un caffè bollente.
Uscì dalla cucina e si sedette al solito tavolo, con quella tazza stretta tra le mani.
Vedendo il posto vuoto accanto al suo si sentì il cuore a pezzi.
Io… io lo amo… e l’ho perso!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. 1876. Voglio stare con te ***


Capitolo IV

1876. Voglio stare con te.

 

“Insomma, ma si può sapere che ti è successo? E’ da una settimana che parli pochissimo e quando c’è quel poveretto di Nath stai sempre chiusa in cucina.”
Rosie sospirò, mentre sistemava i piatti puliti nei ripiani: era l’ennesima volta che Daisy la rimproverava quella mattina, come del resto aveva fatto nei giorni precedenti, e sapeva bene che non le avrebbe dato pace fino a quando non avesse scoperto cosa stava succedendo.
Aveva provato in tutti i modi a nascondere la sua tristezza, ma mentire sul suo stato d’animo non era mai stato il suo forte. Aveva sperato che il dolore scemasse con il passare dei giorni, più di una volta si era ripetuta che in fondo lo conosceva appena.
Tuttavia sapeva benissimo di mentire a se stessa.
“Lascia stare, Daisy, per favore.” supplicò, cercando di trattenere la nuova ondata di lacrime che era prossima a travolgerla.
“Sono tua sorella maggiore, mi preoccupo. Ma che hai, piccolo fiore? – la abbracciò con gentilezza, accarezzandole i lisci capelli neri – Dov’è finito il tuo dolce sorriso? Sei così triste e non è da te.”
Lei si poggiò a quel conforto fisico, come sempre aveva fatto sin da quando erano bambine, ma non disse una parola. Da una parte avrebbe voluto sfogarsi con lei e chiederle consiglio, ma dall’altra non aveva la forza di dirle che si era comportata così male nei confronti di Nath e, soprattutto, che si era innamorata di una persona che aveva visto ogni mattina, senza dire niente a nessuno.
“Non è…” sospirò ad occhi chiusi, ma poi non riuscì a proseguire.
“Anche mamma e papà iniziano a capire che c’è qualcosa che non va e…”
“Daisy! – fece Alyce entrando in cucina dalla sala, come una ventata d’aria fresca – è arrivato Max con il suo amico. E ovviamente chiede di te, che cosa gli dico?”
Sentendo il nome del collega di Vincent, Rosie si riscosse.
“Santa pazienza, ostinato il poliziotto! – sospirò Daisy, ma poi notò il cambiamento d’atteggiamento della sorella e le strizzò l’occhio – Adesso arrivo, che si dia una calmata.”
“Ah, ma è così carino: ti corteggia da tempo ormai – ridacchiò la sorella minore, sistemandosi uno dei suoi boccoli neri con aria civettuola, mentre la osservava preparare l’ordinazione – dovresti arrenderti a lui, te lo dico ormai da tempo.”
“Ehi, ehi, piano piccola vanitosa – la rimproverò Daisy, dandole una lieve sculacciata – hai diciotto anni e non è ancora il caso che ti lanci in certi commenti.”
“L’anno prossimo mi sposo, cosa credi?”
“Appunto, l’anno prossimo, nel frattempo comportati da brava bambina. E lascia il nostro insistente poliziotto a me.”
“Vengo pure io.” disse Rosie.
“Eh?”
“Beh – arrossì lei, andandole accanto e prendendole il vassoio – tu prendi solo l’ordinazione di Max ed io l’altra, no?”
Uscendo in sala le due ragazze raggiunsero il tavolo dove stavano i due poliziotti e Rosie ci rimase parecchio male nel scoprire che il secondo non era Vincent.
Ma del resto me l’aspettavo.
Non sapeva nemmeno perché aveva avuto la smania di unirsi alla sorella, ma in qualche modo quelle due persone costituivano una strana forma di contatto con Vincent.
“Manchi per giorni e poi pretendi la mia presenza – disse Daisy con una leggera smorfia, mettendo il piattino con la torta davanti a Max – stiamo diventando sfacciati: forse dovrei impedirti di darmi del tu.”
“Scusami tanto, mia divina pasticciera – rispose lui mettendosi a mani giunte – ma il dovere ci ha chiamato troppe volte, impedendomi di venire da te. Siamo riusciti a sganciarci dal nostro rigido compagno almeno stamattina e non sai che fatica.”
“Mh, scuse accettate, ma giusto perché sei un cliente affezionato – lo squadrò lei con aria dubbiosa –  Che è successo a Mister Rigidità? Allergico ai dolci?”
“Daisy!” la rimproverò Rosie.
“Oh, lasci stare signorina, è vero: a volte è troppo rigido e in certi periodi è anche peggio del solito. Questa settimana poi sembra avere la luna particolarmente storta.” scrollò le spalle Alan.
“Mi dispiace tanto.”
“Che? – si sorprese il poliziotto, guardandola con gli occhi castano chiari. Ma subito fece un sorriso – Oh beh, allora glielo diremo che la sua assenza è stata notata.”
Rosie a quelle parole arrossì notevolmente e stava per protestare con violenza, ma poi si bloccò: forse quello era il modo giusto per fargli sapere che era davvero dispiaciuta.
“Sì, fatelo per favore.” si trovò a dire con timidezza.
 
Vincent stava alla scrivania, lavorando con quella che si poteva definire ferocia: da quando era arrivato in ufficio non si era concesso un minuto di tregua, nemmeno tra una pratica e l’altra. L’unico momento di distrazione che si concedeva era guardare l’orologio per controllare che Max e Alan non sgarrassero un minuto con la loro pausa.
Una piccola parte di lui si rendeva conto di essere stato troppo duro nell’ultima settimana, era stato più severo del solito nel pretendere efficienza e puntualità. Sperava che il suo malumore scemasse col tempo, anche se bastava che Max facesse accenno a Daisy o alla pasticceria per farglielo ritornare.
Il ricordo di Rosie continuava a tormentarlo, così come la sgradevole sensazione di essere stato preso in giro.
“Ehilà, Mister Rigidità, siamo tornati.” annunciò Max, entrando in ufficio assieme ad Alan.
“Mister Rigidità? – lo guardò male lui – Molto divertente, forza rimettetevi a lavoro.”
“Uh che risposta acida: il soprannome che ti ha dato Daisy ti sta proprio a meraviglia.” rispose a tono l’altro, leggermente offeso per l’atteggiamento indisposto dell’amico. Si girò a guardare Alan che si stava risedendo alla scrivania, cercando manforte.
Tuttavia il giovane fu più accondiscendente, nel chiaro tentativo di non far peggiorare l’umore di Vincent.
“Suvvia, Vincent, non te la prendere. Ah, sai, ti abbiamo anche portato un messaggio da parte di una bella signorina che si è dimostrata rammaricata per la tua assenza al tavolo.”
A quelle parole Vincent si irrigidì nella sedia ed il suo viso si tese.
“Scusa, ma proprio non capisco di che cosa parli.”
“Ma sì, Rosie, hai presente? – fece Max, sfogliando con uno sbadiglio la nuova pratica da compilare – Quella che abbiamo visto al parco sabato scorso: chissà gli sarà andata male con quell’altro.”
“E dai, Max…”
“Finitela con queste idiozie e rimettetevi a lavoro, coraggio.”
“Mamma mia, che noioso che sei!”
“Comunque sembrava sinceramente dispiaciuta…” mormorò Alan con timidezza, chiudendo quella conversazione.
 
Ovviamente il gesto temerario di Rosie non era passato inosservato.
“Allora, adesso mi racconti cosa succede – fece Daisy, entrando in camera della sorella e sedendosi nel letto di Alyce che quella sera era a cena a casa del fidanzato – oggi eri più strana del solito e c’entra il collega di Max, vero?”
Rosie alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, accoccolata nel suo letto, e si sentì chiusa in trappola: doveva capirlo subito che si era esposta in maniera troppo palese.
“Lui… lui mi piace molto.” confessò alla fine.
“Mi pare una dichiarazione un po’ forte per una persona che hai visto solo una volta.” sbuffò la maggiore, un ciuffo di capelli neri che si sollevava.
“Non proprio…” ammise lei, arrossendo e mettendosi a sedere composta.
E così si trovò a raccontare di quelle colazioni segrete che aveva consumato insieme a Vincent, quando le strade erano ancora buie e deserte. Fu come rivivere la vicenda passo per passo, fino al tragico equivoco che si era creato il giorno del concerto. Per tutto quel tempo tenne lo sguardo fisso sul libro che teneva tra le mani e quando terminò si accorse che c’erano diverse lacrime sulla copertina rigida.
“Oh diamine, piccolo fiore, allora è una cosa seria, eh?” Daisy si alzò dal letto di Alyce e andò a sedersi accanto a lei, asciugandole le lacrime.
“Ho rovinato tutto! Dovevi vedere la faccia che ha fatto quando mi ha visto con Nath… sono una persona orribile!”
“Ma no, che dici? – provò a consolarla – Del resto non gli hai mai detto nulla che gli facesse intendere che eri interessata.”
“Anche se non gliel’ho detto capivo benissimo che stava nascendo qualcosa. Dovevo dire di no a quell’appuntamento, da subito.”
“Adesso mi fai anche sentire in colpa: sono stata io a spingerti verso Nath. Caspita, sorellina, dovevi parlarmene. E adesso che farai?”
“Non lo so: non ho nemmeno idea se i suoi colleghi gli riferiranno che ho notato la sua assenza – si disperò lei – e anche se fosse lui avrebbe tutti i diritti del mondo per non volermi più vedere.”
“Tranquilla, Rosie – la abbracciò Daisy – vedrai che tutto si risolverà. La prossima volta che verranno i ragazzi ne parleremo e vedrai che troveremo la soluzione giusta.”
 
Qualche ora dopo Vincent si rigirò nel letto con impazienza, non riuscendo a prendere sonno.
Accese la luce sul comodino e vide che era mezzanotte passata: era da più di due ore che si agitava nel letto, tutto per colpa di quello che Max ed Alan gli avevano riferito
Possibile che lei senta davvero la mia mancanza?
Tutto questo non aveva senso perché quel sabato era chiaramente con un accompagnatore e dunque non aveva motivo per sentire nostalgia di lui. Molto probabilmente era stata solo una frase gentile da dire ai suoi colleghi, tutto qui.
Del resto, tra me e quel giovanotto che l’accompagnava, la scelta non è molto difficile.
Insomma, lo sapeva di non essere bellissimo, tutt’altro, ed il suo atteggiamento certo non contribuiva a renderlo piacevole alle donne.
Scuotendo il capo cercò di convincersi che in realtà stava solo facendo dei castelli in aria: lei era semplicemente molto gentile e lui aveva interpretato male la sua cortesia.
“Comunque sembrava sinceramente dispiaciuta…”
Ma quella frase detta da Alan continuava a rimbalzargli nella mente.
 
La mattina successiva Rosie uscì di casa con gli occhi ancora doloranti per tutte le lacrime che aveva versato la sera prima: sfogarsi con Daisy le aveva fatto bene, ma la tristezza dentro il suo cuore restava. Niente le garantiva che le cose sarebbero tornate a posto: del resto era un sentimento di cui lui non era mai venuto a conoscenza e non c’era alcuna sicurezza che l’avrebbe ricambiato.
E alla luce dei fatti adesso più che mai non l’avrebbe fatto.
Anche se Max ed il suo collega gli avessero riferito quel suo particolare messaggio, lui poteva non farci caso o peggio.
All’idea di un suo commento rovente serrò gli occhi e scosse il capo.
Continuò a camminare per le strade deserte, soffiandosi di tanto in tanto le mani: aveva dimenticato i guanti a casa, questa proprio era una bella seccatura. Anche quella mattina una fredda nevicata le stava facendo compagnia, sferzandole il viso e penetrando attraverso gli indumenti.
Girando l’angolo di fretta, anelando di entrare dentro il negozio e scaldarsi, si fermò di colpo sentendo il cuore che le si fermava in petto.
Lui era lì, davanti alla vetrina.
“Vincent – sussurrò, mentre una prima lacrima le colava sulla guancia – sei venuto…”
Lui la vide e le fece un lieve cenno con il capo.
“Signorina – salutò, come lo raggiunse – io…”
Ma si fermò come la vide piangere.
“Mi scusi – singhiozzò Rosie – sono una stupida… adesso apro, aspetti un secondo.”
Armeggiò con le chiavi, ma le mani le tremavano così tanto che caddero sul marciapiede. Fece per raccoglierle, ma lui la precedette e provvide ad aprire la porta. Come furono entrati, la neve ed il vento lasciati all’esterno, Vincent si levò i guanti e le prese le mani tra le sue.
“Ha le mani gelate.” mormorò, massaggiandole lievemente le dita.
“Ho dimenticato i guanti a casa – mormorò lei, sentendo il contatto così caldo e desiderando che non finisse mai – io… io credevo che non sarebbe più venuto, dopo che mi ha vista sabato con quella persona.”
“Mi perdoni se non mi sono più presentato, senza nemmeno avvisarla.”
“Mi sono sentita così disperata! – si sfogò Rosie serrando gli occhi, le lacrime che colavano con ancora maggior intensità – credevo che lei non volesse più avere a che fare con me, che mi considerasse una persona orribile!”
“Signorina Rosie…”
“Lui non mi interessa, ma mia sorella insisteva tanto perché ci uscissi. Ma per tutto quel tempo mi sono sentita così a disagio…” scosse il capo lei, sentendo il disperato bisogno di dirgli tutto, di spiegargli una volta per tutte quel disgraziato malinteso.
“Rosie.” la chiamò lui, bloccandola.
Lei alzò lo sguardo su quegli occhi così particolari che si era accorta di amare, su quei capelli neri ed umidi che cadevano in ciocche sulla fronte, su quel viso magro.
“… mi sono sentita così a disagio perché volevo stare con te.” terminò con un sussurro a malapena udibile.
Vincent non rispose, ma strinse le mani di quella ragazza così meravigliosa, mentre il suo cuore impazziva d’amore per lei. Aveva creduto di non contare niente ed invece Rosie gli aveva confidato quei sentimenti bellissimi a cui lui non sperava più.
“Signorina…”
“Per favore – le guance di lei arrossirono vistosamente – mi potresti chiamare per nome come prima?”
“Rosie… mi hai reso la persona più felice del mondo con queste parole.”
Si portò le sue mani alle labbra e le baciò con estrema tenerezza. Non si sarebbe mai lasciato andare ad un gesto simile dopo così poco tempo che la conosceva, ma aveva temuto di averla persa per sempre e sentiva l’esigenza di ricambiare in qualche modo quella dichiarazione che gli aveva fatto.
Rimasero così per diversi minuti, con quel contatto che faceva battere forte il cuore di entrambi, totalmente incuranti della luce appena soffusa che proveniva dal lampione sulla strada o dei cappotti gocciolanti.
“Vincent…” si riscosse alla fine lei.
“Dimmi.”
“Tornerai qui ogni mattina? Mi… mi piacerebbe tanto che venissi a fare colazione da me, noi due soli. Ne ho sentito così tanto la mancanza in questi giorni che non ti sei presentato.”
“Certamente – sorrise lui, ed era un sorriso così bello, quello giusto che era destinato a farle battere il cuore per sempre – non hai idea di quanto siano mancati anche a me questi momenti assieme.”
“Allora levati il cappotto e siediti – sorrise lei asciugandosi le lacrime – Adesso vado a preparare il caffè: ci metto un secondo, promesso.”
Fu perfettamente consapevole dello sguardo di Vincent che la seguiva in qualsiasi suo movimento mentre si levava il cappotto e la sciarpa e li sistemava nell’attaccapanni dietro il bancone. Entrata in cucina, attendendo che il caffè scaldasse, si portò le mani alle guance e si sentì incredibilmente accaldata.
Mio dio, mio dio! Sono così felice! Lui è qui… è tornato per me! Oh, Vincent!
Preparò il vassoio e tornò in sala, accolta dal suo sorriso.
Si sedette accanto a lui nel solito tavolo, il loro tavolo, e gli mise davanti la tazza.
Stava per ritirare la mano quando quella di lui la coprì delicatamente.
“Rosie – mormorò – vorresti concedermi l’onore di uscire con me, qualche volta?”
“Certo – annuì lei con il più dolce dei suoi sorrisi – non voglio uscire con nessun altro.”
“E quel ragazzo?”
“Ci devo ancora parlare – ammise lei – l’ho evitato da quel sabato. Ma lo farò oggi stesso e chiuderò la questione: è anche giusto nei suoi confronti… del resto è tutta colpa mia che ho gestito malissimo le cose, sono veramente un disastro.”
Ma l’occhiata che le lanciò Vincent diceva chiaramente un’altra cosa:
Sei il più adorabile disastro del mondo.
E le loro colazioni insieme ripresero, questa volta nella consapevolezza che c’era davvero qualcosa di molto speciale tra di loro.

 
 


disegno di Mary ^__________^

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. 1876. Ufficialmente noi. ***


Capitolo V

1876. Ufficialmente noi

 

Quando la mattina successiva Rosie si svegliò dovette riflettere qualche secondo prima di ricordarsi che il miracolo era avvenuto e che alle sette e mezza lui sarebbe stato ad attenderla davanti al negozio. Gli avvenimenti del giorno prima erano stati così sconvolgenti che ancora doveva capacitarsene.
Preparandosi silenziosamente, in modo da non svegliare la sorella minore, ripercorse quanto era accaduto e prese coscienza della nuova vita che le si presentava davanti.
Per prima cosa non c’era più la questione in sospeso di Nath.
Quella era stata decisamente la cosa più difficile da fare, ma per rispetto a lui e a Vincent non poteva rimandarla. Il giovane c’era rimasto molto male, nonostante lei avesse cercato di essere il più delicata possibile e si fosse profusa in decine di scuse e parole di mortificazione. Era comunque brutto deludere un bravo ragazzo come lui che non aveva nessuna colpa di quanto era successo.
Probabilmente aveva ragione Daisy nel dire che non l’avrebbero rivisto più così spesso: era chiaro che veniva qui soprattutto per vedere Rosie e sicuramente questa delusione gli avrebbe reso difficile tornare nel posto dove lei lavorava.
 “Era inevitabile, piccolo fiore, ma vedrai che troverà una brava ragazza pure lui – aveva dichiarato Daisy, mettendole un braccio attorno alle spalle nel vedere la sua inevitabile tristezza –  La cosa importante è che ora tu sia felice.”
Quella frase le rimbalzò nella testa mentre usciva di casa, chiudendo discretamente la porta, e scendendo le scale del palazzo dove viveva con la sua famiglia. Accorgendosi che fuori nevicava si strinse meglio la sciarpa, si sistemò i guanti e poi si mise in cammino, rabbrividendo leggermente quando una prima raffica di vento la colpì. Tuttavia, ben presto si rese conto che quei fiocchi bianchi non le risultavano più così antipatici, e come potevano? La neve era la sua fedele accompagnatrice per andare alla colazione segreta, quel piccolo momento magico che aveva ritagliato per loro due soltanto.
“Buongiorno – sorrise, vedendolo già fermo davanti al negozio – scusa il ritardo.”
Arrossì lievemente nel rendersi conto che gli aveva appena dato del tu, ma lui non sembrò assolutamente contrariato, anzi le sorrise con dolcezza.
“Figurati – rispose – sono arrivato qualche minuto fa.”
Si guardarono per qualche istante con imbarazzo, chiedendosi se era il caso di fare riferimento a quanto era successo il giorno prima, ma poi lei sbloccò la situazione andando ad aprire e fu come se fosse il segnale per riprendere il loro solito rituale. Quell’orribile settimana di separazione andava semplicemente dimenticata.
E le cose continuarono ad andare avanti in quel modo: si vedevano praticamente ogni giorno per quella mezz’ora, prima che il dovere richiamasse entrambi. Era come se si dessero la carica a vicenda per iniziare la giornata con l’umore giusto, con la consapevolezza di avere una persona che ti aspetta per il giorno successivo.
Ed era strano perché in fondo non parlavano molto: godevano della discreta compagnia l’uno dell’altra, lasciando che molto spesso fossero gli sguardi ed il dolce silenzio a parlare. Sulle prime sembrava imbarazzante, pareva che non ci fossero argomenti su cui impostare una conversazione, ma poi si accorsero che era una scelta di entrambi.
“In fondo se parliamo tanto non sarebbe più segreta…” ammise una mattina Rosie, finendo di bere il caffè.
“Segreta?” lui inclinò la testa di lato con curiosità.
“Oh, scusa! – arrossì lei – è un pensiero a voce alta. E’ che mi piace chiamarle le nostre colazioni segrete, lo so è sciocco ed infantile. Ma mi dava l’idea che fossero solo per noi.”
Lo fissò con imbarazzo, sperando che non la considerasse una sciocchina: a leggere troppi romanzi spesso le venivano in mente queste idee da sognatrice. E per uno come lui che sembrava molto pratico forse appariva come una cosa veramente stupida.
“Colazione segreta – Vincent soppesò quelle parole – mi piace come idea. E se piace a te non vedo perché non chiamarle così.”
 
Considerato che la loro relazione era ormai ufficiale, fu necessario rendere partecipi anche gli altri in modo da evitare altri malintesi e sgradite sorprese.
“Non ci posso credere che ti unisci di nuovo a noi nel venire alla pasticceria – commentò Max la settimana successiva – che cosa ti è successo? Hai sbattuto la testa contro qualcosa?”
“Il tuo senso dell’umorismo è completamente fuori luogo – gli rispose Vincent – potresti iniziare a comportarti meglio considerata la tua età.”
“Oh suvvia, non litigate – sorrise Alan – però, Vincent, devi ammettere che è stata una sorpresa per noi quando hai detto che venivi pure tu. Possibile che l’appello di quella signorina abbia avuto effetto su di te?”
“Già, a proposito di lei – l’uomo colse l’occasione al volo – gradirei che la finiste di fare commenti su di lei, non è educato per principio…”
“Non ce l’abbiamo mica con lei…” iniziò Max.
“… e adesso lo è ancora di meno considerato che è impegnata con me.”
A quella dichiarazione Alan e Max si fermarono in mezzo al marciapiede e si girarono a guardare il loro collega. Vincent annuì con enfasi e con aria decisamente soddisfatta, felice tutto sommato di dare uno smacco a quei due che l’avevano sempre ritenuto non idoneo all’amore. Invece, alla faccia loro, era il primo dei tre ad aver trovato una fidanzata.
“Ma davvero? – Alan si riscosse immediatamente e un sorriso felice gli illuminò il viso – Allora congratulazioni! Adesso capisco perché quella ragazza era così triste quando non sei venuto.”
“Ti ringrazio.” accettò volentieri quella stretta di mano, ma poi si accorse dello sguardo arrabbiato di Max e volse a lui l’attenzione con aria di sfida.
“Fammi capire – Max si parò davanti a lui, quasi sovrastandolo con la sua stazza decisamente più grossa – io sto dietro a Daisy da anni senza ottenere ancora un appuntamento mentre tu ti palesi una sola volta in negozio e fai capitolare ai tuoi piedi quella ragazza che a stento rivolge la parola ai clienti?”
“Piano con i commenti ti ho detto…” Vincent quasi ringhiò quella frase, pronto a difendere Rosie.
“Suvvia, ragazzi…” Alan li fissò impanicato, sperando che non si scatenasse un litigio.
“Come diavolo hai fatto?” Max afferrò il colletto di Vincent con aria supplichevole, la tensione che si allentava all’improvviso.
“Fatto? Ci siamo solo rivisti ogni mattina e…”
“Ogni mattina? Dannazione a te! – sospirò il collega, lasciandolo e riprendendo a camminare – Ma ti giuro che prima o poi anche Daisy capitolerà, fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia!”
Alan si accostò a Vincent ed osservarono il robusto poliziotto che andava ad aprire con veemenza la porta del negozio, il suo buongiorno che riecheggiò in tutta la strada.
“Credo che per lui sia stato un notevole smacco…” ammise il più giovane.
“Si riprenderà.”
“Comunque tu e lei state bene assieme, sai? Ora che ci penso siete entrambi molto riservati e lei sembra una persona molto dolce e gentile, sebbene molto timida. Sul serio, sono felice che tu abbia trovato una simile ragazza.”
E Vincent sorrise, lieto che almeno uno dei membri della sua squadra, nonché unici amici, fosse sinceramente felice della sua svolta sentimentale. Non che dubitasse di Max, ma era chiaro che il colpo andava assorbito.
 
E anche Rosie si trovò a fare i conti con una situazione simile, sebbene Vincent avesse già conosciuto le sue sorelle in negozio.
“Beh, quando ce lo presenterai ufficialmente? – chiese Daisy, una sera che erano tutte e tre sedute nel suo letto a spazzolarsi i capelli prima di andare a dormire, una buffa catena di montaggio come la definiva la loro madre – Certo che siete davvero strani: vi vedete per le vostre fantomatiche colazioni segrete, ma non siete ancora usciti assieme.”
“Ci sarà occasione per uscire – rispose Rosie con pazienza, pettinando i boccoli naturali della sorellina – lui è molto impegnato e spesso fa gli straordinari anche il suo giorno libero per cui dobbiamo sfruttare quella mezz’ora che abbiamo la mattina presto. Pare che il suo superiore lo stia chiamando spesso per delle questioni e dunque non può nemmeno venire con Max ed Alan, se non qualche volta.”
“Mamma mia – commentò Alyce, giochicchiando con una decorazione della sua camicia da notte – un fidanzato che non ti ha ancora portato fuori dopo… quanto? Tre settimane o forse più? L’avrei già sistemato per le feste.”
“Non dire così, – la rimproverò Rosie, tirandole leggermente una ciocca – il tuo Luke è molto benestante e dunque può permettersi determinate cose, ma non tutti siamo uguali.”
“Non ti deve portare mica al ristorante più costoso, ma almeno una passeggiata.” protestò lei
“Ci sarà occasione, ve l’ho detto.”
“Contenta tu – sospirò Daisy – adeguati pure agli orari di Mister Rigidità.”
“Daisy, ti prego – Rosie si girò verso di lei con l’aria supplichevole – ne stavo giusto parlando con mamma e papà e vorrei presentarlo a casa. Quando lo farò, presumibilmente per una cena, non distruggerlo con il tuo sarcasmo. E non chiamarlo così!”
“Sarcasmo? Io? Sorellina, io mi limito a commentare con completa sincerità… oh, e va bene, se fai quel musino da gattina triste sarò più tranquilla del solito, promesso.”
“Ma è davvero così rigido?” chiese Alyce con curiosità, mentre la sorella finiva di sistemarle i capelli. Al contrario di Daisy non aveva ancora avuto occasione di conoscerlo quando veniva in negozio.
“Tu non ne hai idea – ridacchiò Daisy – e non guardarmi così, piccolo fiore, è vero. Forza, girati che ti finisco la treccia, così tu e questa piccola pettegola potete andare in camera vostra.”
 
Nemmeno a farlo apposta la mattina successiva Vincent, durante la loro colazione segreta, disse.
“Sabato pomeriggio non ho impegni, ti andrebbe di fare una passeggiata? Se non sbaglio è anche il tuo giorno di riposo.”
“Davvero? – Rosie batté le mani, deliziata – Ne sarei felicissima: sei sempre così impegnato e non volevo chiederti di uscire per non stancarti troppo.”
“Tranquilla, mi dispiace solo di poterti dedicare così poco tempo. In oltre tre settimane che ci vediamo ancora non ho avuto occasione di portarti fuori.”
Non le disse che aveva iniziato a lavorare di più per mettere da parte quanto più poteva in modo da poterle un giorno chiederle di sposarlo. Forse era prematuro pensare a cose simili, ma lui era sicuro che Rosie era la donna della sua vita e quindi non vedeva il motivo per cui posticipare quei dettagli.
Del resto con il negozio ben avviato, la sua famiglia era discretamente agiata e non gli sembrava giusto trascinarla in una situazione molto più modesta.
“Senti, posso chiederti una cosa?”
“Dimmi pure.”
“Ecco – Rosie si tormentò la manica del vestito con aria imbarazzata – ti dispiacerebbe venire a cena a casa dopodomani? E’ che vorrei presentarti ai miei genitori, così sono più tranquilli: sai com’è…”
“Ma certo – annuì lui – anzi, dovrò chiedere loro scusa per questa scorrettezza nel mio comportamento. E’ una mancanza nei loro confronti che io non mi sia ancora presentato ufficialmente.”
Rosie annuì e sperò che non mantenesse un tono così formale anche durante la cena. Ma aveva il vago sospetto che non sarebbe andata in questo modo, così come era sicura che Daisy non si sarebbe trattenuta.
 
Rosie aveva avuto da subito qualche vago sentore che i caratteri di Vincent e Daisy fossero leggermente cozzanti tra di loro e alla fantomatica cena a casa dei suoi ne ebbe conferma.
Le sembrava di essere tra due fuochi, seduta in mezzo ai due contendenti: lui in divisa, dato che era appena uscito da lavoro, serio e rigido come non mai e lei, alla faccia delle promesse, con la battuta pronta. Ed era inutile aver provato di mettere a suo agio l’uno e cercare di calmare l’altra: era una contesa aperta.
“Allora, Vincent – disse sua madre per fare conversazione in un momento in cui tutti erano silenziosi – sono davvero felice che la mia bambina si sia finalmente trovata un fidanzato. Dimmi, ti trovi bene con il tuo lavoro alla polizia?”
“Sì, signora – disse lui, con la schiena dritta, manco fosse sull’attenti – è un lavoro che mi soddisfa e conto di ricevere entro un anno un avanzamento.”
“Un avanzamento perché sei più rigido degli altri?”
“Daisy!” sibilò Rosie.
“Ma se tra un po’ mi fa il saluto militare se gli chiedo di passarmi l’insalata – esplose lei, non potendone più di stare in silenzio dopo due minuti di tregua – Rilassa quelle spalle, Vincent Falman, non sei mica ad un’ispezione!”
Alyce scoppiò a ridere a quella battuta e Vincent si irrigidì ancora di più.
“Daisy – la rabbonì il padre – sii gentile con il nostro ospite. Comunque mi piaci, giovanotto, mi pari quello giusto per il mio piccolo fiore.” annuì con convinzione, ma Rosie non aveva mai avuto dubbi che a suo padre sarebbe piaciuto: aveva sempre avuto grande ammirazione per le persone in divisa.
“La ringrazio, signore, non la deluderò: tratterò sua figlia con il dovuto rispetto, sempre.”
“Lo giuro su questa bandiera!” scimmiottò Daisy.
“Non si scherza su questi giuramenti.” la rimproverò Vincent.
“Mamma mia, ma come fai ad essere collega di Max? Spero che non lo contagerai con questo tuo atteggiamento, Mister Rigidità. E fattela una risata!”
“Daisy! Avevi detto che non l’avresti chiamato così!”
“E’ lui che mi provoca!”
“Gli sta benissimo!” Alyce quasi lacrimava per le risate.
“Non è mai stata mia intenzione provocarla, signorina.”
“Era sarcasmo: strano, credevo che Rosie ti avesse scelto per il tuo senso dell’umorismo.”
“Qualcuno vuole un altro po’ di arrosto? – chiese la madre con imbarazzo – altrimenti servo la frutta ed il dolce: oggi Daisy ha fatto una splendida crostata alla marmellata.”
“Sarà velenosa…” sibilò Vincent.
“Hai fatto una battuta! Non ci posso credere, allora sei umano.”
A quel punto Rosie decise di abbandonare i suoi pietosi tentativi di mettere pace a tavola e lasciò che quel battibecco continuo si prolungasse sino a fine serata. L’unica cosa che sperava era che Vincent non decidesse di lasciarla dopo quell’impatto con la sua rumorosa famiglia, specie con le sue sorelle.
Tanto che, quando quella tragica cena terminò, decise di accompagnarlo per una decina di metri lungo la strada.
“Torna dentro che fa freddo.” le disse lui, vedendo che aveva solo la sciarpa per proteggersi.
“Stai tranquillo – sorrise Rosie – il vestito è pesante.”
“Lo dici tu, ma non voglio correre rischi: aspetta, ti do il mio cappotto.”
“E se mi abbracciassi?” propose lei, arrossendo.
Anche lui arrossì a quella richiesta: non erano ancora arrivati ad un contatto fisico simile. Ma dopo qualche secondo di esitazione la cinse con dolcezza, con lei che si accoccolava nella stoffa calda e chiudeva gli occhi con soddisfazione.
“Daisy è così – spiegò con un sospiro – e anche Alyce non scherza, l’hai visto pure tu. Ma non lo fanno con cattiveria e a mamma e papà sei piaciuto, si capiva.”
“Sei davvero diversa dalle tue sorelle.” la sua mano destra le accarezzò dolcemente i capelli.
“Lo so, e forse è per questo che mi chiamano piccolo fiore e tendono a proteggermi.”
“Posso proteggerti pure io, piccolo fiore?” sorrise nel chiamarla in quel modo e lei alzò lo sguardo con sorpresa. Detto da lui aveva tutto un altro effetto: si sentiva davvero un piccolo fiore che sarebbe stato protetto da tutto e tutti, tra quelle braccia così meravigliose.
“Certo che puoi.” mormorò.
“E posso anche baciarti, piccolo fiore?”
A quelle parole lei si sentì impazzire: la sua voce era così calda e morbida, il suo viso finalmente rilassato e con quel sorriso che faceva solo per lei. Si alzò in punta dei piedi, considerata la differenza d’altezza, e protese il viso.
Le sue labbra furono così gentili e anche così goffe in quel primo bacio per entrambi.
Lei sollevò le mani per accarezzargli i capelli, stringendo lievemente alcune ciocche sulla nuca, assaporando quel bellissimo momento che suggellava il loro amore.
In fondo quella serata non era andata così male.
 
“Lo vedi che una volta provocato è anche in grado di fare delle battute?” scherzò Daisy con malizia, mentre si preparavano per andare a letto.
“Sei perfida, sorellona – la rimproverò Rosie, finendo di allacciarsi la camicia da notte – mi avevi promesso di comportarti bene con lui.”
“Fosse dipeso da lui questa cena sarebbe stata una veglia funebre.”
“Non ha proprio un gran senso dell’umorismo.” annuì Alyce con aria convinta.
“Zitta tu, piccola pettegola.”
“E come bacia? – continuò lei imperterrita – Perché sei stata giù per parecchio quando l’hai accompagnato … troppo direi.”
“Alyce!”
“Non essere indiscreta, stupidina – le diede una spinta Daisy – forza, vai a prendere il pettine che ti sistemo i boccoli per la notte.”
E come fu uscita, Daisy abbracciò con foga la sorella, ridacchiando.
“Comunque confermo, è innamorato cotto di te. E dalla tua faccia direi che bacia veramente bene, vero piccolo fiore?”
La ragazza arrossì, ma poi non poté fare a meno di scoppiare a ridere e restituire quell’abbraccio con la medesima intensità: sì, decisamente Vincent baciava bene… molto bene.
 
E dopo la presentazione formale, sabato finalmente ci fu la loro prima uscita assieme.
Non fecero niente di particolare, non ci fu nessun concerto o ristorante: semplicemente si concessero una lunga passeggiata al parco per poi finire seduti in una panchina isolata. Rimasero a guardare degli scoiattoli che timidamente si muovevano tra le radici innevate di un albero poco distante quando, all’improvviso, lui le prese la mano e la strinse.
“Posso confessarti una cosa?” disse Rosie ricambiando la stretta.
“Certamente.”
“E’… è strano vederti senza divisa, sei bello in un modo tutto nuovo.” arrossì come finì quella frase.
“Dici? – fece lui, considerando che sotto il cappotto aveva camicia e maglione pesante, una delle opzioni più decenti del suo guardaroba “borghese” – Sono felice che ti piaccia anche così. Ti confesso che mi fa strano uscire senza la divisa, ormai ci sono così abituato.” un sorriso imbarazzato e lievemente contrito gli apparve nel viso, un cambiamento che lei trovò bellissimo. Era come se in quell’uscita priva di divisa lui si stesse esponendo molto di più, facendole capire quanto in realtà fosse impacciato in determinate cose.
“Ed io sto bene?” chiese lei con aria leggermente civettuola, volendo ricambiare la cosa e mettendolo a conoscenza del suo piccolo lato espansivo. Del resto era sempre sorella di Daisy e Alyce.
“Certo che stai bene – sorrise, accarezzandole la guancia rossa per il fresco – sei bellissima.”
Non le disse che con quell’aria così sbarazzina l’aveva fatto letteralmente impazzire.
“Non l’hai notato?”
“Cosa?”
“Ho… ho un nuovo fermaglio per capelli: il vecchio si è rotto e così Daisy me ne ha regalato uno suo.”
“Oh – annuì Vincent, notando solo in quel momento il piccolo fermaglio azzurrino che le tirava indietro parte dei capelli neri – è vero. Scusami, non sono abituato a fare caso a simili particolari… cercherò di stare più attento, lo prometto. Da quello che so voi ragazze ci tenete parecchio a queste cose.”
“Ma no, stai tranquillo – lei gli riprese la mano – non sono esageratamente civettuola come quella piccola peste di Alyce.”
“Se lo fai qualche volta ti assicuro che sei adorabilissima.”
“Dici davvero?” arrossì lei.
“Davvero.” sorrise Vincent, prima di cercare le sue labbra nel loro secondo bacio.
Ed era così bello potersi baciare in quella panchina isolata, dove non c’erano sguardi indiscreti.
Sembrava che la luce di quel timido sole di gennaio fosse tutta per loro.
Le cose non potevano andare meglio di così.
 

 

 
le tre sorelle pettinose sono opera di Mary <3

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. 1876 - 7. Per una promozione ***


Capitolo VI

1876 - 7. Per una promozione.

 

 

L’inverno con il suo freddo pungente era andato via e così pure la primavera. Anche l’estate tiepida di New Optain stava finendo ed il mese di settembre era ormai alle porte.
“E con settembre ricominceranno le solite noie – commento Max, sbadigliando e allungando le gambe sotto la scrivania – tutti si accorgeranno di avere lavoro arretrato e saremo sommersi.”
“E’ la conseguenza di non avere un superiore in sede – scrollò le spalle Alan con il solito pragmatismo – sai bene che da quando è stato chiamato ad East City il nostro capo non si è fatto vedere che tre volte in tutto l’anno, a volte mi dimentico anche la sua faccia. Ma la conseguenza peggiore è che siamo praticamente confinati in ufficio, senza possibilità di svolgere missioni.”
“Non capisco perché tiene due posti invece che uno; fossi in lui io me ne starei ad East City.”
“Da quanto dicono al reparto relazioni sembra che stia aspettando il suo trasferimento definitivo: sai come vanno queste cose, vuole essere sicuro di avere il posto. Solo allora rassegnerà le dimissioni da qui.”
“E noi, poveri poliziotti, siamo lasciati alla mercè del resto del commissariato: non credo che esista una squadra sfortunata come la nostra.”
“Se non hai qualche critica da fare non sei contento, vero Max?” Vincent entrò nell’ufficio con un grosso carico di dispense e dossier. Immediatamente Alan si accostò a lui e lo liberò di parte del carico andando a posarlo sopra la scrivania.
“Tutto lavoro per noi?” Max si alzò dal suo posto e raggiunse gli altri con aria rassegnata.
“Solo in parte – lo consolò Vincent, indicando un numero esiguo di cartelle – il resto è roba mia.”
“Ma che è? – Alan prese in mano una delle dispense e la sfogliò con distrazione, ma poi i suoi occhi castani si dilatarono – Non mi dire… vuoi tentare il colpaccio?”
Vincent annuì con determinazione.
“Adesso ho il grado di brigadiere capo e fonti certe dicono che entro dicembre ci sarà un posto da sottotenente vacante, quello del nostro superiore. Ho chiesto conferma all’ufficio di competenza e posso partecipare al concorso… considerata la carenza di personale hanno deciso di concedere l’ammissione anche al grado inferiore a quello di maresciallo.”
“Fammi capire bene – sogghignò Max – ti sei così stancato di essere al nostro livello che ora pretendi di diventare nostro capo?” ma il suo sguardo e la sua espressione mostravano che l’idea gli era assai gradita.
“Settembre è alle porte, ragazzi – dichiarò Vincent, mettendo una mano sulla spalla di ciascuno dei suoi amici – se la fortuna ci sorride entro marzo saremo una squadra completamente indipendente.”
“Sottotenente Vincent Falman, eh? – Alan soppesò quella combinazione di nome e titolo – direi che suona proprio bene. Ma non sarà facile, lo sai vero? Dovrai studiare il doppio rispetto a quelli di grado superiore al tuo e da quanto si dice le prove sono davvero difficili… gli esaminatori non ci vanno mai leggeri.”
“Stai tranquillo che la determinazione non mi manca.”
 
Che la determinazione non mancasse a Vincent Falman era un dato di fatto: ne aveva fatto la sua religione sin da quando studiava da ragazzino e poi dopo scuola correva subito a fare qualche lavoretto. Certamente era stata la necessità a rendere così estrema questa sua caratteristica, ma era da diverso tempo che non gli era più capitato di doverne dimostrare così tanta.
Quello che si proponeva non era impossibile, ma era altamente ambizioso e di certo non alla portata di tutti. Venire promossi per concorso era decisamente più difficile che ottenere avanzamenti per meriti e seguendo la corretta carriera. Si trattava di mettersi sotto con i libri più di quanto avesse mai fatto in vita sua: nozioni che avrebbe dovuto apprendere nel corso degli anni dovevano essere imparate invece in pochi mesi.
Fortunatamente per Vincent, Max ed Alan vedevano di buon occhio l’idea di averlo come loro diretto superiore e così, per aiutarlo, iniziarono a lavorare più alacremente del solito cercando di sollevarlo dalla compilazione di banali pratiche per consentirgli di studiare.
Tuttavia il materiale era così tanto che era costretto a fare le ore piccole di notte e a sacrificare tutte le pause che aveva durante la settimana: andava a letto leggendo un libro e si risvegliava con le nozioni che si accavvallavano nella sua mente esausta.
E fu chiaro che, con il ritmo che stava tenendo, dopo qualche settimana se ne sentissero gli effetti.
 
“Vincent, va tutto bene?”
La voce di Rosie gli fece aprire gli occhi di colpo e si accorse di essersi mezzo appisolato mentre lei era andata in cucina a preparare la loro solita colazione.
“Sì, scusa… ho solo bisogno del caffè per svegliarmi del tutto.”
Caffè… a dire il vero si stava ormai saturando di quella bevanda: ne prendeva almeno cinque tazze al giorno per restare sveglio e arrivare al punto che si era prefissato. Aveva elaborato uno spietato programma che non poteva sgarrare di una virgola.
“Senti – lei abbassò con timidezza lo sguardo – questo sabato ti va di fare una passeggiata al parco?”
Lui la guardò e si sentì incredibilmente in colpa: la stava trascurando, se ne rendeva perfettamente conto. Anche durante queste colazioni era assente e intento a ripassare mentalmente qualche materia.
Forse dovrei parlarle di quanto sta succedendo.
Per ora non avevano mai discusso dei rispettivi lavori: insomma lei aiutava in negozio e lui faceva il poliziotto. Parlare di impasti e creme sarebbe stato improduttivo così come discutere di casi e amministrazione: l’altro non ci avrebbe capito niente.
“Mi dispiace, ma non posso.”
“Ancora straordinari?” non lo disse in tono di protesta, ma di rassegnazione e questo lo fece ancora di più sprofondare nell’abisso della disperazione.
“No, ma devo… studiare…”
“Studiare?” lei alzò gli occhi scuri con notevole sorpresa, non riuscendo a capire.
“Voglio provare ad ottenere un avanzamento a marzo – spiegò lui, grattandosi la nuca con imbarazzo – sarebbe davvero fantastico, ma ci sono delle prove molto difficili e anche altre persone sicuramente tenteranno questo concorso. Devo studiare sodo ed è per questo che non posso uscire con te, scusami.”
“E’ per questo che ultimamente sei così stanco – capì lei, allungando una mano per sfiorargli una ciocca di capelli – oh, caro, ma stai dormendo la notte?”
“Tranquilla, tra una cosa e l’altra un cinque ore di sonno a notte riesco a farmele.”
“Cinque? Ma a che ora vai a dormire?”
“L’una, le due – scrollò le spalle lui – dipende da quanto reggo nello studio… eh, ma che hai?”
“Oh no! E ti svegli anche prima per venire qui ad accontentare il mio stupido vezzo delle colazioni segrete!”
“Rosie, ehi! – la bloccò immediatamente – Non è un vezzo, che dici? E’ l’unico momento della giornata in cui possiamo vederci, come potrei rinunciarci? Non mi pesa, stai tranquilla.”
“Ma io…”
“Tranquilla – le sorrise lui, mettendole un dito davanti alle labbra – piccolo fiore, fidati di me, va tutto bene.”
 
Ma Rosie non era per niente tranquilla: adesso che sapeva quello che stava succedendo si accorgeva maggiormente dei segni di stanchezza del suo fidanzato. Era più pallido del solito, più smunto e man mano che i giorni passavano iniziarono a comparire anche le occhiaie.
Più di una volta l’aveva supplicato di rinunciare alle loro colazioni, una scelta dolorosa perché voleva dire non vederlo per giorni, ma lui era stato irremovibile.
E dunque, una mattina, quando Max ed Alan arrivarono al negozio, si affrettò a raggiungerli.
“Ciao, Rosie, come stai?” la salutò il più grande, dato che ormai si davano del tu.
“Posso parlarvi? Ma dovete giurarmi di essere completamente sinceri.”
I due poliziotti si scambiarono un’occhiata, ma poi annuirono: si intuiva che c’era qualcosa che non andava.
“Si sta distruggendo per quel concorso, vero?” le mani di lei si serrarono sul vassoio mentre li fissava con aria impolorante.
“Sta facendo un grande sforzo – ammise Max dopo qualche secondo – ma chiedergli di desistere sarebbe come parlare al vento. E non fare quella faccia, Rosie, ti parlo io che lo conosco sin dal primo anno in cui è entrato nella polizia: abbiamo persino fatto il corso assieme.”
“Non possiamo fare niente?”
“In ufficio cerchiamo di fare anche parte del suo lavoro – spiegò Alan con voce gentile – gli rendiamo tutto più facile in modo che niente lo distragga.”
“Ma sta mangiando decentemente? Non vi chiedo nemmeno del dormire perché so già la risposta.”
“Beh, non è mai stato una grande forchetta come me – commentò Max, mettendosi a braccia conserte – ma ammetto che mangia meno del solito: è la tensione, sicuramente ha lo stomaco chiuso.”
“Dovrebbe mangiare di più – sospirò lei, mettendosi una mano in fronte – non c’è proprio nessuno a casa sua che…”
Si interruppe perché vide gli sguardi imbarazzati che i due uomini le lanciavano.
“Rosie – Alan esitò leggermente, grattandosi una guancia – lo sai che lui non ha famiglia, vero?”
“Beh lo presumevo – ammise lei, abbassando lo sguardo con tristezza – non mi ha mai detto niente in proposito e conoscendolo ho pensato che ci doveva essere un motivo per cui non ha mai parlato di presentarmi a casa sua.”
“Capisci? – Max la fissò con attenzione – Non è come me che ho mia madre a casa che se solo mi vede mangiare poco grida allo scandalo… non c’è una persona… o forse ora sì?”
“Io…?”
“Aspetta – Alan tirò fuori dalla tasca una penna e prese uno dei tovaglioli di carta – ti scrivo il suo indirizzo.”
 
“Sono almeno trenta minuti di camminata da casa nostra – sbuffò Daisy mentre lei e Rosie percorrevano le strade sempre meno affollate dato l’approssimarsi dell’ora di cena – non ci fermeremo molto vero?”
“Scusami se ti ho coinvolto – mormorò Rosie, tenendo due pesanti buste in ogni mano – ma avevo paura ad andare da sola in un posto dove non sono ancora stata: è una parte della città che non conosco bene ed è ormai buio.”
“Dai qua, piccolo fiore – sospirò la grande, prendendole parte del carico – Mister Rigidità deve davvero ringraziare di avere un tesoro di ragazza come te. Fosse dipeso da me starebbe marcendo tra i suoi studi.”
“Ci tiene davvero tanto. Non l’ho mai visto così determinato e la cosa mi rende davvero fiera di lui… però si sta davvero trascurando e sento in dovere di fare qualcosa. Del resto come sua fidanzata è mio dovere sostenerlo.”
“Comunque è tipico degli uomini, non hanno un briciolo di organizzazione per queste cose… bene, la strada è questa. Certo che non è proprio come il palazzo dove abitiamo noi, vero?”
“Eh già – ammise lei mentre entravano nella vecchia e malandata palazzina e salivano al secondo piano – ecco, ci siamo.”
Bussò con discrezione alla porta, augurandosi che l’indirizzo dell’appartamento fosse quello giusto. L’idea di avere a che fare con qualche losco personaggio la spaventava parecchio. Ma quando la porta si aprì e vide Vincent sorrise e sospirò di sollievo.
“Rosie?”  esclamò lui con sorpresa.
“E anche Daisy… sì, ciao, è una bella serata, ma che ne dici di farci entrare?”
Senza aspettare risposta la donna si fece largo ed entrò andando a posare le pesanti buste sul tavolo.
Ma Vincent la degnò di un’occhiata appena e riportò la sua attenzione su Rosie.
“Ti… ti ho portato da mangiare – spiegò lei, restando ferma sulla soglia – lo so, forse mi consideri una ficcanaso, ma ti giuro che ogni giorno che passa stai sempre peggio, anche se tu non te ne accorgi. E così Max ed Alan sono stati così gentili da darmi il tuo indirizzo perché… ecco, io volevo solo prendermi cura di te, specie in questi momenti così difficili.”
“Ma che è questa cosa attaccata alla pentola? – la voce di Daisy li riscosse – Piccolo fiore, se vuoi che prepariamo una cena decente al tuo uomo vieni ad aiutarmi. Questa cucina è minuscola ma è un vero e proprio disastro!”
“Avevo paura di fare la strada da sola…” Rosie sorrise con imbarazzo.
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma lui l’avvolse con le sue braccia e rimase lì, all’ingresso, a tenerla stretta senza dire una parola. Solo dopo qualche tempo si riscosse e la baciò in fronte.
“Grazie, sei stata stupenda.”
“Davvero? – lei arrossì, chiaramente felice che la sua idea avesse avuto successo – E comunque aspetta di assaggiare tutto quello che ti abbiamo in mente di cucinare… e ti lasceremo anche roba da scaldare così per due giorni sei sistemato. Ho calcolato tutto quanto, sai?”
“Calcolato?” la seguì al tavolo ed iniziò a levare tutti i fogli sparsi su cui stava studiando.
“Esatto, allora il lunedì, il mercoledì ed il venerdì vieni a fare colazione come al solito, mentre il martedì, il giovedì ed il sabato vengo io qui e ti preparo la cena. Ho calcolato tutto ed in questo modo riesci a dormire di più e poi mangiando meglio sarai anche più in forze.”
“Falla contenta – ridacchiò Daisy sistemando il contenuto delle buste sul tavolo – è rimasta tutto ieri a fare un simile schema cercando di orientarsi con i tuoi orari e con i suoi impegni. Fosse dipeso da me non saresti stato così viziato, credimi.”
“Presumo di dover ringraziare anche te – il viso di Vincent si indurì mentre si volgeva verso la donna – immagino che sia stato un grande sforzo venire qui dato che è distante da casa vostra. Grazie mille.”
“Di questo ringraziamento apprezzo soprattutto il sorriso.”  
“Oh suvvia! – Rosie afferrò Vincent per una manica – ci hai già visto all’opera come pasticciere, ma non hai idea di quanto siamo brave anche con altre pietanze. Abbiamo intenzione di prepararti un sacco di cose… uh, a proposito: hai anche roba da lavare? Ci penso io così non perdi tempo.”
“Io inizio a cucinare!” Daisy si buttò verso la piccola cucina con entusiasmo.
Vincent fissò Rosie per qualche secondo e poi la condusse a fare un piccolo giro della casa, molto breve considerato che oltre alla cucina – soggiorno c’erano solo la camera da letto ed il bagno.
“Scusa il disastro – commentò quando accese la luce della stanza da letto mostrando il caos d fogli e vestiti – sono ordinato in genere, ma in questo periodo proprio mi sono lasciato andare.”
“Tranquillo – sorrise lei, iniziando a raccogliere le camicie – e… e così abiti qui, non c’ero mai stata.”
“Non è proprio una bellissima zona – ammise Vincent, aiutandola – ma non mi posso permettere di più. Senti, piccolo fiore, sul serio… non devi prenderti questo impegno per me.”
“Ma è così che funziona tra fidanzati, no? – lei strinse a se quelle camicie sgualcite quasi a difendere il suo diritto di aiutarlo – Non sei solo… ci sono io.”
“Rosie…”
“Argh! Rosie, vieni qui! Questo fornello sta per esplodere!”
“Non quello a sinistra! E’ guasto!” esclamò Vincent correndo verso la cucina.
“E lo dici solo adesso?”
 
Ci volle una settimana d’assestamento per quella nuova soluzione, ma alla fine fu chiaro che il piano funzionava alla perfezione. Nei giorni della cena, Rosie decise di uscire in anticipo dal negozio in modo da essere a casa di Vincent quando ancora c’era gente in giro, liberando dunque Daisy dalla dispensa di accompagnarla. E il fidanzato la riaccompagnava per buona parte del percorso di ritorno: oggettivamente si trattava della soluzione perfetta. In quelle due ore di tempo Vincent staccava il cervello dallo studio e questo era un vero toccasana per la sua mente, senza contare che mangiava decisamente meglio e la sua casa era assai meno caotica di quanto lo fosse stata all’inizio di quel periodo folle.
Ed era strano e allo stesso tempo piacevole vedere Rosie che si affaccendava attorno a lui come una piccola ape operaia. Si capiva benissimo che era una perfetta padrona di casa e all’uomo tornò in mente di quando ancora non stavano insieme ed aveva sperato di vederla portare calore in quel piccolo appartamento.
Oh, se ci riesce…
 
E finalmente arrivò marzo con i fatidici giorni del concorso.
Fu una settimana snervante per tutti quanti e ogni volta che Max e Alex vedevano il loro amico tornare in ufficio dopo una prova e sedersi ad occhi chiusi sulla scrivania non avevano il coraggio di chiedere come fosse andata: era troppo stanco e fuso per poter commentare o dare qualche impressione in merito.
Quando anche l’ultima prova terminò, l’uomo si prese un intero finesettimana per riposare in maniera totale ed assoluta. Dormì così profondamente che quando Rosie gli fece un’improvvisata la domenica all’ora di pranzo lo trovò ancora in pigiama.
Nessuno osò parlare dell’esito di quella prova e le due settimane previste prima dei risultati trascorsero con tranquillità, anche troppa. Era chiaro che tutti facevano volutamente finta di niente.
 
Ma un lunedì mattina.
“Tutti e tre assieme allo stesso tavolo – Daisy ridacchiò – da quanto tempo non vedevo la mia onorata polizia al completo.”
“Ciao! – Rosie li raggiunse – Vincent, non mi avevi detto che saresti passato anche a metà mattina e…”
“Signorina Rosie McLane – la interruppe Max – la prego di fare i suoi migliori complimenti al neopromosso sottotenente Vincent Falman. La notizia è fresca fresca, nemmeno di due ore fa!”
“Che cosa? – lei era così emozionata che, incurante del resto dei clienti corse ad abbracciare il fidanzato – oh, Vincent, sono così felice per te!”
“Ehi! – arrossì lui, enormente imbarazzato – Grazie, Rosie, sul serio…”
“Ah, il fascino dei gradi in più… che dici, Daisy, se vengo promosso esci assieme a me?”
“Mangia la tua torta e non fare troppo lo spudorato, Max – lo rimproverò lei – in questo momento sono solo felice per il mio piccolo fiore. E così ora è il vostro superiore, eh?”
“Già, e credimi se lo merita. Adesso le cose cambieranno.”
“Speriamo in meglio!”
“Ovviamente… non potrebbe essere altrimenti.”

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. 1877. Proposta di matrimonio ***


Capitolo VII

1877. Proposta di matrimonio

 

 

“Allora, so che mi pentirò di quanto sto per dire – esordì Daisy, portandosi le mani ai fianchi e squadrando il tavolo dove stavano Max e Vincent – ma fra tre settimane c’è il matrimonio di mia sorella e mi servirebbe un accompagnatore.”
“Daisy, tu mi stai rendendo l’uomo più felice del mondo! – esclamò Max, alzandosi in piedi e aggirando il tavolo per andare davanti a lei e prenderle le mani – Ti seguirò ovunque mia dolce pasticciera, andrei fin sulla luna per te.”
“Devi solo accompagnarmi, Max, niente di speciale – sospirò lei, volgendo lo sguardo al soffitto, senza però ritirare le mani – diamine sei davvero teatrale, te l’hanno mai detto? Ogni volta dai spettacolo.”
“Ma lo faccio per te, mia meravigliosa fatina dello zucchero e della crema: spero sempre di attirare l’attenzione dei tuoi occhi color cioccolato fondente e finalmente mi hai notato.”
“Un vero poeta, non c’è che dire. Che ne dici, Rosie? Tu ti becchi Mister Rigidità e io Mister Smielato: una via di mezzo non esiste? Mi sa che solo Alyce ha trovato un giusto mezzo e se lo tiene stretto.”
“Ah, io del mio fidanzato sono pienamente soddisfatta – sorrise lei, prendendo dal vassoio il caffè e mettendolo davanti a Vincent – ecco qua, caro, c’è già una zolletta di zucchero come piace a te.”
“Grazie, tesoro.”
“Senti un po’ sergente…”
“Si dice sottotenente – puntualizzò Vincent, facendosi serio – e poi sergente è un grado dell’esercito.”
“Cip cip cip cip… sento gli uccellini intorno a me – fece Daisy con esasperazione, mentre Rosie arrossiva e scuoteva la testa sconsolata – in ogni caso, adesso che hai ottenuto la tua promozione, a quando le nozze tra te e il mio piccolo fiore?”
“Daisy!” Rosie quasi voleva scomparire mentre buona parte della sala assisteva a quel curioso battibecco.
“Perché invece di aspettare il loro matrimonio non accetti la mia corte? – si intromise Max cingendole la vita con un braccio – Ti giuro che sarò il miglior marito del mondo.”
“Non correre tu, caporale…” lei gli spinse il viso indietro con la mano.
Appuntato.”
“Vincent Falman, se non la smetti ti butto quel caffè in faccia!”
“Sono termini specifici, come te lo devo dire?”
“Che nervi! Non ci posso credere che prima o poi diventerai mio cognato! Rosie, sei proprio sicura di voler passare la tua vita assieme a Mister Rigidità?”
“Ti ho detto di non chiamarlo in questo modo. Possibile che ogni volta che vi vedete dovete litigare?”
 
Quella sera, come rientrava a casa, Vincent riflettè su come Daisy non avesse tutti i torti a parlare di matrimonio: ormai lui e Rosie erano fidanzati da quasi un anno e mezzo e presto sarebbe stato il caso di fare un ulteriore passo avanti. Il fatto di aver ottenuto quella promozione e di aver finalmente uno stipendio più alto gli faceva ben sperare di poter presto offrire una casa decente alla sua amata. Certamente non poteva chiederle di venire a vivere nel suo piccolo appartamento: era troppo piccolo e non era adatto a una come lei.
Ma soprattutto sentiva l’esigenza di averla accanto molto di più rispetto a quanto ormai era abituato. Era una sensazione che aveva iniziato a tormentarlo da qualche mese, ossia da quando aveva ottenuto la promozione e dunque Rosie non era più obbligata a venire a cena da lui a giorni alterni. Adesso stare in quelle stanze lo faceva sentire estremamente solo: continuava a cercare il fantasma della sua fidanzata che aleggiava tra quelle pareti, con il suo sorriso, la sua buona volontà, la sua capacità di rendere quella casa un posto completamente diverso.
Famiglia.
Ne aveva fatto a meno per tanti anni, tanto da esser arrivato a credere che non ne aveva davvero bisogno. Ma Rosie aveva completamente ribaltato questa sua prospettiva, facendogli capire che era un esigenza che non poteva più rimandare.
Ma a queste problematiche più spirituali si aggiungeva un dettaglio più pressante e concreto.
 Come succedeva da ormai parecchi giorni si fermò a guardare le gioiellerie, sentendo che lui ed il mondo delle donne ingioiellate erano agli opposti.
Non l’aveva ancora detto a nessuno, ma stava cercando di districarsi nel complicato mondo dei anelli di fidanzamento: voleva regalarne uno a Rosie, in modo da rendere ufficiali le sue intenzioni, ma proprio non sapeva con che criteri sceglierlo. Ovviamente non poteva permettersi una spesa troppo alta, ma non voleva nemmeno comprarle un gioiello da quattro soldi, anche perché aveva ben presente il bell’anello di fidanzamento di Alyce… ma quello era decisamente fuori dalla sua portata.
Con un sospiro si preparò a concludere senza risultati quell’ennesima ispezione, quando il suo sguardo fu attratto da un piccolo bagliore rosato. Sbirciando tra le collane ed i bracciali, individuò un piccolo anellino con una brillante pietrina lilla… l’identico colore della sciarpa di Rosie. Era così delicato, tanto che sfigurava accanto a tutti gli altri gioielli: sembrava finito lì quasi per errore.
Eppure, come in una visione, riuscì ad immaginarselo al dito della sua fidanzata, una cosa che non gli era mai capitata guardando gli altri anelli: un chiaro segnale che finalmente la sua ricerca era giunta al termine.
E anche il prezzo era alla sua portata.
Adesso non restava che trovare il momento buono per fare la proposta.
 
“Oh, è stato meraviglioso – sospirò deliziata Rosie, mentre la gonna del suo bell’abito da damigella seguiva i movimenti della piccola piroetta – e Alyce e Luke erano così felici! E’ stato un matrimonio stupendo. E  poi questa bella giornata di giugno è stata l’ideale per il ricevimento all’aperto.”
“Scusami se non ho ballato con te, ma proprio non sono capace.” arrossì leggermente Vincent mentre andavano a sedersi ad uno dei tavoli ormai vuoti del grande cortile dove si era svolta la festa. Ormai non c’era più nessuno eccetto qualche parente che ancora si attardava a chiacchierare ed era davvero piacevole godersi quei momenti di quiete.
“Non fa niente, ci hanno pensato Daisy e Max a dare spettacolo – sorrise lei, liberando i capelli da alcune forcine e facendoli ricadere sulle spalle –  sono sicura che a breve Max verrà presentato a casa… ha insistito così tanto che mia sorella ha finalmente capitolato. Ne sono così felice, ci speravo da anni.”
Era così bella, incredibilmente sorridente e felice in quel giorno d’estate: il poliziotto fu sicuro che il sole la baciasse in un modo del tutto speciale, facendo risplendere i capelli neri, arrossandole lievemente le guance.
Ora o mai più.
“Rosie…”
“Adesso Alyce e Luke andranno a vivere in una casa nel nuovo quartiere residenziale, sai quello pieni di viali e giardinetti: sono stata a vederla, è bellissima. Praticamente un villino tutto per loro, con tanto di giardino; mi pare siano dieci ambienti fra i due piani.”
La mano che rigirava l’anello in tasca si fermò, pensando all’appartamento che aveva in mente lui: quattro stanze e non certo in un quartiere bello come quello dove sarebbe andata a vivere Alyce. Un confronto decisamente impietoso, come il suo piccolo anellino dalla pietra rosa contro il vistoso brillante dell’anello di Alyce.
Dannazione, che figura le farei fare?
“Vincent? Mi ascolti? – lo riscosse lei – Hai l’aria sperduta.”
“Niente.” scosse il capo lui, allentandosi il colletto della camicia.
“Comunque, ti dicevo che Alyce ha detto che per ora devono finire di sistemare diverse cose con il trasloco, ma non appena la casa sarà in perfetto ordine vorrà invitarci tutti a pranzo o a cena. Ah, la mia piccola sorellina, è davvero cresciuta in quest’anno. Sarà un’ottima moglie, ne sono certa.”
“Ne sono certo pure io.”
“Sai, sarà strano avere la camera tutta per me da oggi in poi…”
E mentre Rosie continuava a parlare, l’anello rimase in tasca.
 
In seguito quell’episodio Vincent decise di aspettare ulteriormente, in modo da trovare una sistemazione migliore rispetto a quella che si era proposto all’inizio. Tuttavia, dopo un paio di settimane arrivò un imprevisto che fece rivedere i piani d’attesa e rese necessaria una decisione drastica.
Mentre entrava nella pasticceria sentiva lo stomaco aggrovigliato, più di quando era successo quando aveva sostenuto il concorso per la promozione. Come vide Rosie al bancone, intenta a pulire la superficie di legno con un canovaccio, gli sembrò una creatura troppo bella e preziosa per meritarsi quanto stava per proporle.
Ma non posso rimandare oltre…
“Puoi prenderti una pausa? Devo parlarti ed è urgente.” disse, porgendole la mano per invitarla a seguirlo.
“Che? – Rosie lo fissò perplessa, non avendolo mai visto così agitato – Sì, non credo ci siano problemi. Daisy, mamma: torno tra poco, venite voi il sala.”
Si tolse il grembiule ed oltrepassò il bancone, non riuscendo a capire il motivo di tutta quell’agitazione.
Vincent la prese per mano e, usciti dal locale, iniziò a camminare con passo rapido, ignorando tutte le domande che lei gli rivolgeva. Non sapeva ancora come avrebbe fatto, ma non c’era più tempo.
Dopo qualche isolato arrivarono davanti ad una palazzina di quattro piani che sicuramente aveva visto tempi migliori.
“Vieni…” mormorò, mentre la conduceva su per le scale all’ultimo piano.
Con un sospiro, mentre lei si guardava attorno perplessa, sicuramente notando le crepe sulla verniciatura del pianerottolo, aprì la porta, introducendola nell’appartamento non ancora arredato.
“Eh? Ma che posto è questo?” chiese lei, fissando quella stanza spoglia ed impolverata, dove la luce entrava con difficoltà dalle finestre sporche.
“Ti fa… ti fa molto schifo?”
“Cosa?”
“In confronto a casa di Alyce fa molto schifo?”
“Beh, è diverso – ammise lei, andando ad una finestra e cercando di aprirla. Ma evidentemente l’apertura era difettosa perché proprio non ne voleva sapere – e ha bisogno di una bella sistemata. Nnhg! No, non si apre! Dammi una mano… l’odore di chiuso è molto forte.”
Lui le andò accanto e dopo qualche sforzo riuscì ad avere la meglio sulla finestra che si aprì con una notevole nuvola di polvere che fece tossire entrambi.
“Aria! – esclamò lei, facendosi indietro – C’è proprio bisogno di pulizie qui.”
“Potresti dare un’occhiata anche al resto?”
Tenendola per mano la condusse nelle altre stanze, notando come le sue sopracciglia si aggrottassero lievemente nell’esaminare il bagno e la piccola cucina che certamente aveva visto tempi migliori. Effettivamente non era un appartamento che si presentava molto bene con le pareti scrostate, l’odore di chiuso e quell’aria generale di trascuratezza.
 “E allora?” chiese.
“E’… è carino, insomma… c’è da lavorarci. Ma che c’è?”
Lui non disse altro e la portò al centro del piccolo soggiorno: si frugò in tasca e tirò fuori il piccolo anello.
“E’ pietoso in confronto a casa di tua sorella, me ne rendo perfettamente conto, ma non posso permettermi altro… sistemerò tutto quello che posso e piano piano lo migliorerò, te lo prometto. Rosie, io… è piccolo come anello e… e come tutte le cose che potrò offrirti non è tanto… ma ti va di sposarmi?”
Aveva tenuto lo sguardo basso su quell’anellino che ancora un po’ si frantumava tra le sue dita; solo alla fine alzò lo sguardo su di lei, sperando di non vedere troppa delusione: ogni ragazza si aspetta sempre una proposta da favola, ma quell’anello e quell’appartamento non erano proprio fantastici. Forse, spinto dall’impulsività, aveva sbagliato tutto.
“Davvero? – gli occhi di lei erano lucidi e la voce tremante – Davvero me lo stai chiedendo?”
“Ehm… sì – annuì lui, impreparato a quella reazione – aspetta, vuoi che mi metta in ginocchio? Scusa non ci ho pensato, ma effettivamente si fa così e…”
“Lo voglio… certo che voglio sposarti!” lo bloccò lei, tendendo la mano.
Lui le mise l’anellino all’anulare e ci stava così bene: piccolo e delicato come lei.
“Non sei… delusa?”
“Sei pazzo? Perché mai dovrei essere delusa? – Rosie gli strinse le braccia al collo – Vincent! Sei meraviglioso! E questo appartamento sarà tutto per noi?”
“Sì – annuì lui – volevo trovare qualcosa di meglio, ma il padrone di casa mi ha detto che c’erano anche altri interessati e se non mi decidevo…”
“Prendilo! E’ perfetto!”
“Sicura?”
“Ma certo… oh, amore, pensavo che non arrivasse mai questo momento. E invece!”
“A fine anno!”
“Eh?”
“Entro la fine dell’anno te lo rimetto a nuovo lo giuro – la prese per la vita e la sollevò in modo che i loro visi fossero alla medesima altezza – ci procuriamo i mobili, sistemo la cucina e gli infissi, ridipingo tutte le pareti… e come è pronto ci sposiamo.”
“A fine anno? Nemmeno cinque mesi.” mormorò lei, arrossendo.
“Voglio vivere assieme a te, amore mio. Mi sono accorto che non mi basta più vederti ogni mattina per la nostra colazione. Voglio trovarti a casa ogni giorno, stare con te… voglio… voglio svegliarmi la mattina e trovarti abbracciata.”
“Voglio fare l’amore con te…” aggiunse lei, baciandolo con tenerezza, le guance rosse.
A Vincent sembrò di impazzire a quelle parole, consapevole che Rosie era molto più di un viso adorabile incorniciato da splendidi capelli neri: era un corpo caldo e morbido che in quel momento era stretto a lui, chiedendo di essere amato.
Sentì le sue stesse mani che tremavano dal desiderio di scivolare lungo quella schiena, sotto l’abito di lino azzurro. Voleva spogliarla, esplorarla, imprimersi nella mente ogni singola parte del suo corpo.
Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non cedere, ma non poté fare a meno di metterla a terra e portare la sua mano alla guancia di lei.
“Fermiamoci, ti prego – mormorò – non voglio mancarti di rispetto, non adesso.”
“Cinque mesi – ansimò lei – mi sembrano così tanti… oh Vincent, non pensavo di… di sentirmi così…”
“Accidenti, piccolo fiore, hai la capacità di farmi impazzire…”
Lei trasse un profondo respiro ed si affacciò alla finestra, recuperando il controllo di se.
“Cinque mesi e sarò la signora Rosie Falman, è deciso.”
“Rosie Falman – Vincent assaporò quell’accostamento – decisamente perfetto.”





disegno di Mary ^__^

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. 1877. Marito e moglie ***


Capitolo VIII

1877. Marito e moglie

 

Quando Rosie aprì gli occhi e si accorse della penombra nella stanza per un attimo pensò di doversi alzare in silenzio per non svegliare il resto della casa ed iniziare a prepararsi per andare in negozio. La sua mano si strinse al lenzuolo e solo con quel movimento si rese conto che al suo anulare c’era qualcosa di diverso: un piccolo cerchio d’oro che le dava una strana sensazione perché non era abituata a portare gioielli.
Questo la fece riscuotere del tutto e si rese conto che non era nella sua solita camera.
Si girò immediatamente dall’altra parte del letto per accertarsi che fosse tutto vero e non solo il frutto di un assurdo sogno dove lei si era sposata.
Nella foga e nella sua inesperienza di condividere il giaciglio con una persona, andò quasi a sbattere contro Vincent che dormiva girato verso di lei e, imbarazzante dettaglio, si accorse di essere completamente nuda così come lui.
D’impulso si strinse ulteriormente le coperte attorno al corpo affondando la testa sul cuscino: che cosa doveva fare? Come ci si doveva comportare la prima mattina dopo il matrimonio?
I suoi ricordi tornarono alla notte che avevano passato insieme, ripercorrendo tutti i momenti di quella nuova esperienza dell’amore così strana e allo stesso tempo imbarazzante. Era stato così surreale quando finalmente aveva realizzato che erano soli in camera da letto, tutta la gente che aveva festeggiato con loro ormai distante: per un attimo aveva desiderato tanto essere di nuovo a casa sua con i suoi genitori e Daisy che le sistemava i capelli per la notte. Aveva tanto desiderato fare l’amore con Vincent, ma arrivati al punto aveva scoperto di avere una grande paura.
Erano rimasti a guardarsi per diversi imbarazzati secondi prima che lui si accostasse e le mettesse la mano sulla spallina dell’abito da sposa. Aveva chiuso gli occhi, cercando le sue labbra, ma non aveva potuto fare a meno di tremare quando aveva sentito le sue mani sfilarle delicatamente il vestito bianco, quando si era resa conto che nessun uomo l’aveva mai vista completamente nuda. A quel punto era arrossita vistosamente coprendosi i seni con le mani, in preda ad un pudore che non riusciva a capire. Era suo marito, certo che desiderava fare l’amore con lui, anche se non aveva la minima idea di che sensazione si provasse, eppure si era sentita così imbarazzata all’idea che lui la vedesse senza niente addosso.
E Vincent era stato così… buono.
Aveva capito perfettamente il suo stato d’animo, erano rimasti abbracciati così tanto tempo per permetterle di abituarsi a quell’idea, rilassarsi. Le aveva parlato dolcemente, vezzeggiandola come una bambina, accarezzandole i capelli con le sue mani che solo per gradi erano scese sul resto del corpo, esplorandola con una delicatezza estrema e goffa, perché anche per lui era la prima volta.
Un pensiero che l’aveva fatta sospirare di sollievo perché aveva paura che la trovasse in qualche modo inadeguata. La sua mente del resto era un caos totale di aspettative, paure, cose di cui aveva sentito parlare ma che a provarle veramente…
Come il dolore. L’aveva messo in conto, ma non aveva immaginato che potesse essere così forte tanto da farla piangere.
Ero decisamente troppo tesa… e poi chi immaginava che uscisse tutto quel sangue!
Girò la testa e iniziò a fissare suo marito dormiente, notando le braccia magre ma muscolose, la parte di torace che emergeva dalle coperte, i capelli spettinati. Era così strano, era come vederlo per la prima volta, una concezione di uomo completamente diversa da quello che era stato il suo fidanzato in divisa.
Probabilmente si accorse di essere osservato perché aprì gli occhi e la fissò con attenzione.
“Ciao, piccolo fiore…”
Il suo braccio nudo si allungò per toglierle una ciocca di capelli neri dal viso ed era così bello mentre le sorrideva.
“Ciao – si avvicinò con timidezza, rifugiandosi contro il suo petto e facendosi stringere, ma si irrigidì lievemente sentendo il contatto dei loro corpi nudi – è ancora presto per alzarsi.”
“Pare di sì – mormorò lui, baciandole i capelli arruffati – Come ti senti?”
“Bene.”
“Ancora dolore? Scusami, stanotte ti ho fatto anche piangere.”
“Colpa mia, non devi preoccuparti. Ero un po’ spaventata e l’ho gestita male… scusami, è proprio il caso di dirlo che sono una stupida verginella.”
“Non più – inarcò il sopracciglio lui – e sei bellissima e sapere che sei mia moglie è la cosa che mi rende l’uomo più felice del mondo. Sei la prima e l’unica, lo sai?”
“Lo so.” allungò la mano e gli accarezzò il braccio, accorgendosi di quanto si sentissero incredibilmente i muscoli. La sua pelle era così calda e rassicurante.
Voglio fare l’amore con te…
L’aveva detta mesi fa quella frase e diverse volte l’aveva pensato nell’attesa delle nozze.
Le sue labbra cercarono quelle del marito e si rifugiò nel rassicurante bacio che ormai conosceva bene.
E quando sentì il corpo di lui che ancora la desiderava non si tirò più indietro.
Da quella mattina iniziava la loro vita come famiglia.
 
“Cosa c’è in queste scatole?” Vincent fissò con perplessità le scatole di cartone che erano avanzate dal trasloco.
“Ah, ecco dov’erano finite – Rosie gli andò vicino e con un paio di grosse forbici provvide ad aprire la prima – sono i miei libri e sistemati questi direi che abbiamo finito.”
“Quattro scatole di libri? Diamine piccolo fiore, ma quanto leggi?”
“Oh, alcuni sono vecchi libri di scuola – arrossì lei – non mi andava assolutamente di buttarli e poi… forse non te l’ho mai detto ma mi è sempre piaciuto leggere.”
Già, probabilmente Vincent non era mai venuto a conoscenza di questa sua piccola passione: a dire il vero considerato il lavoro in pasticceria aveva avuto ben poco tempo per svilupparla e dopo che aveva conosciuto lui il tempo si era ulteriormente ridotto. Ma ogni volta che poteva si era comprata un libro e l’aveva letteralmente divorato nelle sere dopo cena o nei giorni in cui era libera. Le piacevano i romanzi: ammirava la capacità degli scrittori di farla immergere in quei mondi meravigliosi dove le persone compivano delle imprese eccezionali, risolvevano segreti da tempo nascosti, trovavano il grande amore della loro vita. Era una piccola evasione dal mondo reale, un po’ Alyce l’aveva sempre presa in giro per questa sua passione, mentre suo padre spesso l’aveva incoraggiata regalandole libri per il suo compleanno.
“Sono parecchi, eh…” Vincent finì di aprire l’ultima scatola.
“Già – ammise lei rendendosi conto che non c’era molto spazio per poterli mettere – in camera mia usavo la libreria che avevo in comune con Alyce… che poi è diventata solo mia dato che lei era già tanto se apriva i libri di scuola.”
“Possiamo chiedere ai tuoi genitori se la possiamo prendere – propose lui – la mettiamo nella seconda stanza e ne facciamo un piccolo studio personale per me e te quando ne abbiamo voglia.”
“Oh, tesoro! Questi sì che è una meravigliosa idea! Lunedì come rientro a lavoro lo chiedo a mamma e papà, non credo che faranno problemi.”
“Libri, eh – lui le sfiorò la guancia – ma guarda, sei proprio piena di sorprese.”
 
“Ehilà, il nostro grande capo è tornato dalla piccola vacanza che si è preso per godersi la sua novella sposa!” Max sogghignò con malizia e andò accanto a Vincent per battergli una mano sulla spalla con fare complice.
“Davvero divertente e discreto, Max – commentò l’uomo – beh come sono andate le cose in mia assenza?”
“Tranquillo, in questi cinque giorni che sei mancato il commissariato non è crollato, come puoi ben vedere e tutto è in ordine come piace a te.”
“Sul serio, Vincent – Alan sorrise con discrezione – è tutto tranquillo, te lo garantisco. Tutto bene? Tu e Rosie vi trovate bene?”
“Sì, decisamente tutto bene – ammise lui andando a sedersi alla sua scrivania – questa settimana finiamo di sistemare le ultime cose.”
“Splendido.”
Vincent annuì e poi si grattò la testa, ricordandogli di cosa gli aveva chiesto sua moglie ma trovando la cosa decisamente strana e nuova. Tuttavia era una cosa che Rosie aveva tutto il diritto di avere dato che ormai era la padrona di casa.
“Ragazzi…”
Max ed Alan alzarono lo sguardo su di lui.
“Come finiamo di sistemare casa Rosie vorrebbe fare una cena di inaugurazione… alla fine niente di speciale, la sua famiglia e voi due. Se volete venire…”
“Oh, ma certo!” sorrise subito Alan.
“Ovviamente ci sarà pure Daisy, vero?”
“Considerato che è sua sorella… ma che domande fai, Max?”
“Verrò, ma ad una condizione: mi devo sedere vicino a lei!”
“Ma che siamo, alle scuole elementari? – Vincent lo guardò con rassegnazione – Max perché non…”
“Perché come è vero che mi chiamo Max Maffer devo far capitolare quella donna ai miei piedi: sono sulla buona strada, finalmente sta accettando l’idea di uscire assieme a me e mi serve tutto l’aiuto possibile. Andiamo Vin, del resto senza il mio intervento tu non avresti mai conosciuto tua moglie.”
“Ricatto emotivo?”
“No, semplicemente dato di fatto e richiesta da parte di uno dei tuoi migliori amici.”
Vincent squadrò l’uomo che addirittura si era messo a mani giunte e con espressione supplichevole, alla faccia della sua stazza e della sua altezza: adesso iniziava a capire tutte le reticenze di Daisy per accettare la corte di quel cucciolone troppo cresciuto.
Ma in fondo è davvero uno dei miei migliori amici…
“Vedrò quello che posso fare…”
 
“Certo che Daisy e Max si siedono vicini – Rosie lo guardò come se le avesse chiesto una cosa veramente ovvia e sciocca – bisogna favorire la cosa.”
Vincent osservò la moglie alzarsi dal tavolo e raggiungere la cucina per prendere il secondo.
Era così bello averla a casa la sera, senza vederla arrivare carica di buste per la spesa, ma completamente a suo agio nella sua cucina. Se era bastato un caffè a viziarlo incredibilmente, adesso si sentiva irrimediabilmente dipendente dalla presenza di quella donna.
“Comunque mi sembra davvero un complotto – ammise, versandosi lo stufato dalla pirofila – insomma io non è che ho chiesto l’aiuto di Alan e Max per conquistarti e…”
“L’ho chiesto io dicendo loro di riferirti che mi mancavi tanto – gli ricordò lei con un sorriso malizioso – o forse ti sei dimenticato di questo piccolo dettaglio?”
Vincent sospirò: non era tipo da questi giochetti. In tutti quei mesi che erano passati da quando Daisy aveva accettato un minimo la corte di Max non c’erano stati cambiamenti significativi. Il ragazzo continuava a dire che ormai era sul punto di farla capitolare e anche Rosie era stata molto ottimista, ma non era accaduto niente di simile. Era come se la ragazza avesse in parte cambiato idea, senza però rinunciare totalmente al suo spasimante.
“Un comportamento davvero scorretto. Dovrebbe essere più chiara e mettere l’animo in pace a Max.”
“Che dici?”
“Niente – scosse il capo lui – ma non vedo come metterli seduti vicino possa cambiare le cose.”
“Sarà una cosa simbolica – spiegò lei con pazienza – si siederà accanto a lui con i miei genitori presenti, capisci? E’ un po’ come ufficializzare la cosa e forse aiuterà Daisy a fare un passo avanti.”
“O indietro.”
“Non essere pessimista, amore – mise il broncio lei – non vuoi che il tuo compagno di squadra sia finalmente felice?”
“Se questo può migliorare le sue prestazioni a lavoro – commentò Vincent, mettendosi a braccia conserte – è da parecchio che non lo vedo più motivato come i primi tempi. Forse dipende davvero da tutta questa storia… anche se quando c’è stato quel periodo di separazione tra di noi stavo malissimo non ho trascurato il mio dovere.”
“Una settimana contro mesi e mesi di situazione in bilico?”
“Credi di non essere così importante per me?”
“No – ridacchiò lei – assolutamente.”
 
Nonostante le aspettative di Rosie e Max la cena non ebbe l’effetto desiderato.
I due ragazzi si sedettero vicino proprio come era stato progettato, ma Daisy si comportò come al solito senza fare il fatidico passo in avanti che tutti si erano aspettati, genitori compresi. Non che non avesse rivolto la parola a Max, tutt’altro, ma non c’era stato niente che andasse oltre la normale conversazione e le battute.
Considerato quel fallimento e intuendo che nella sorella maggiore c’era qualcosa che non andava, Rosie decise di prendere l’iniziativa e così la invitò a casa per un caffè un giorno che erano libere entrambe data la chiusura del negozio per alcune riparazioni nella cucina.
“Finiscila di pensare agli operai – la rimproverò Rosie tornando al tavolo con il vassoio – papà sovrintende a queste cose da anni ed è sempre filato tutto liscio.”
“Sì, ma ormai dovrei pensarci pure io: come vado via da qui passo al negozio per vedere come procedono le cose – disse quella frase con un sospiro, ma poi si accorse dell’occhiata che le lanciava Rosie e sorrise – Scusa, mi inviti a casa tua per farmi vedere quanto sei una brava donnina di casa e io ti trascuro parlando del negozio. Allora, sposina, come ti senti nel tuo nido personale?”
C’era un tono da lieve presa in giro, ma Rosie conosceva la sorella per capire che il suo interessamento era davvero sincero.
“Mi sento una regina – sorrise con convinzione – se penso a come era questa casa la prima volta che l’ho vista! Adesso è un vero e proprio castello delle meraviglie, credimi: e poi abbiamo fatto tutto io e Vincent, come potrei non adorarlo?”
“Ah, piccolo fiore, tu sei decisamente troppo romantica e sognatrice.”
Disse quell’ultima frase con una lieve rassegnazione e Rosie capì di dover cogliere la palla al balzo.
“Dovresti provarlo anche tu, Daisy: perché non cedi definitivamente a Max? – chiese senza giri di parole – Insomma, si capisce che lui ti chiederebbe su due piedi di sposarlo e state bene assieme… lui ti piace non negarlo.”
“Siamo usciti due volte assieme, non te l’ho mai detto.”
“Cosa? – Rosie batté le mani a quella notizia – Sorellona è meraviglioso! Ma perché quella faccia triste, è andata così male.”
“E’ andata fin troppo bene, ci stavamo anche per baciare.”
“Che? Ma perché non l’hai baciato?”
“Oh, Rosie, lascia stare! E’ davvero complicato.” scosse il capo con ostinazione e abbassò lo sguardo sulla tazzina di caffè.
“Daisy – Rosie si alzò e la abbracciò – ma che hai? Si vede lontano un miglio che lui ti piace.”
“E’ difficile, piccolo fiore – lei ricambiò l’abbraccio – tu e Alyce avete potuto rincorrere i vostri sogni d’amore, ma io non posso. C’è il negozio di famiglia e…”
“Sai benissimo che non è quello il problema: io ci lavoro ogni giorno. Anche se ho una casa ed un marito a cui pensare non mi crea alcun problema fare esattamente quello che facevo prima.”
Daisy alzò lo sguardo su di lei con lieve rimprovero
“E’ diverso: sai bene quanto mamma e papà facciano affidamento su di me. Alyce con la bella società che si è aperta davanti a lei è sempre più impegnata e non posso biasimarla se passa sempre di meno. E tu… piccolo fiore, tu sei sempre accanto a me, certamente. Ma quello che mi sono caricata sulle spalle non mi permetterebbe mai di potermi dedicare ad un marito, capisci?”
“Mamma e papà…”
“Loro hanno sempre lavorato assieme al negozio, non avevano questo tipo di problemi, capisci? E mano a mano che gli anni passeranno e loro invecchieranno io voglio caricarmi ancora di più di tutte le responsabilità, in modo che loro non debbano fare nessuno sforzo.”
“Sì, ma loro vorrebbero anche vederti felice… e prima che tu lo dica, credo che il negozio per un’unica volta sia anche causa di dispiacere per te. Stai rinunciando a Max…”
“Tesoro mio, non potrei mai essere una moglie premurosa e presente come te, capisci?”
Rosie scosse il capo con rabbia: non poteva credere che sua sorella rinunciasse in questo modo. Poteva capire tutti i ragionamenti che stavano dietro la sua decisione e se da un certo punto di vista erano encomiabili, dall’altra erano inaccettabili. Alla fine le venne un’idea.
“Quello che Max desidera è stare accanto a te, a prescindere da tutto e tutti – dichiarò – a questo punto perché non gli chiedi se gli va di… di lasciare il suo lavoro di poliziotto. Io credo che sarebbe felice di lavorare in una pasticceria fianco a fianco con la sua fatina dello zucchero e della crema.”
“Ehi, ehi, piccolo fiore, da quando si fanno queste battute alla tua sorella maggiore?”
“Comunque, scherzi a parte, è un’ipotesi da tenere in considerazione – continuò Rosie, notando come la sorella non avesse opposto obiezioni, segno che l’idea non le dispiaceva – lui è in gamba e sicuramente sarebbe felice di dare una mano… e mamma e papà lo adorano. Credo che tra tutti e tre sia il genero che preferiscono.”
“Non è loro genero.”
“Non ancora, vorrai dire – Rosie si sciolse dalla sua presa – coraggio sorellona, cedi a lui. E’ tanto innamorato e pure tu, ti conosco bene… perché non ti vuoi concedere una simile felicità? E dai.”
“Capisci che si tratterà di mettere le cose in chiaro con lui? Capisci che cosa gli sto chiedendo?”
“Certo e capisco anche che lui sarà felice di accettare.”
Daisy rimase in silenzio per qualche minuto, ma poi sorrise.
“Credi che accetterà davvero? – c’era tanta speranza nella sua voce – Credi che…”
“Max Maffer farebbe qualsiasi cosa per te… e sono sicura che sarà felicissimo! Parlagli, sorellona, esponigli tutti i tuoi dubbi ed i tuoi sentimenti. E’ il vostro futuro assieme ed è la cosa che conta di più…”
 
E Daisy, finalmente spinta nella direzione giusta lo fece.
Tuttavia Rosie non poteva immaginare le conseguenze di quella sua idea.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. 1877. Sorella felice, marito furioso. ***


Capitolo IX

1877. Sorella felice, marito furioso .

 

Ritenendo che Daisy dovesse parlare con Max seguendo i suoi tempi e l’istinto, Rosie preferì tenere segreta la cosa anche al marito, così come a tutto il resto della famiglia.
Fu per questo motivo che Vincent, qualche settimana dopo, fu totalmente impreparato quando Max entrò nel loro ufficio con delle importanti novità.
“Sei in ritardo di più di un’ora – alzò lo sguardo il sottotenente – va bene che per oggi non era programmata nessuna missione, ma non mi pare il caso di essere così trascurato con gli orari.”
“Quando sentirai quello che ho da dire l’orario ti sembrerà l’ultima cosa importante.”
Max sorrideva, un tipo di sorriso che né Vincent né Alan gli avevano mai visto: era come se gli fosse successa la cosa più meravigliosa del mondo, come se all’improvviso la sua vita avesse preso tutto un nuovo significato.
“Non mi dire! – Alan interpretò quel sorriso nel modo giusto – Daisy ha finalmente ceduto!”
“Fatemi le congratulazioni, ragazzi – esclamò Max assumendo una posa da eroe a petto in fuori – la mia meravigliosa fatina dello zucchero e della crema, dopo circa sette anni di resistenza ha capitolato davanti ai miei sentimenti e ha accettato di fidanzarsi con me!”
“Congratulazioni!”
Mentre Alan e Max si stringevano la mano e si scambiavano felici pacche sulle spalle (con Max che quasi rischiava di buttare a terra il più esile compagno), Vincent sospirò e si posò alla schienale della sua sedia: non erano certo scene degne di un ufficio di polizia, tutt’altro. Ma poi si permise di mettere da parte la sua severità e sorrise lievemente: Max era l’amico più stretto che avesse e la sua felicità era importante. Per tutti questi anni non aveva desiderato altro che ottenere l’amore di Daisy e sicuramente sistemarsi gli avrebbe fatto bene.
Che cosa ci trovi in quella vipera è ancora un mistero, ma se a lui va bene così pazienza.
“Congratulazioni davvero – fece, alzandosi dalla scrivania e andando loro incontro – adesso che i tuoi lamenti d’amore finiranno spero che il tuo rendimento a lavoro torni a livelli superiori, non come negli ultimi mesi.”
“Ah, già, il lavoro – Max strinse la mano del suo superiore e poi rimase qualche secondo in silenzio, con aria profondamente imbarazzata, come se cercasse le parole giuste per quanto stava per dire – beh, credo che sia inutile rimandare o girarci intorno: Vincent, Alan… io lascio la polizia.”
Fu una frase di quattro semplici parole, ma bastò per far rombare le orecchie di Vincent come mai gli era successo in vita sua. In genere si parlava di ricevere secchiate di acqua fredda, ma lui si sentiva come se gli fosse caduta addosso un’intera cascata.
 
La sera Rosie era particolarmente felice mentre preparava la cena, aspettando che il marito tornasse a casa: quella mattina Daisy era corsa da lei abbracciandola, ridendo e piangendo allo stesso tempo.
“Ha detto sì!”
Una semplice frase che aveva avuto il potere di illuminare in modo tutto speciale la sua giornata. Finalmente questo dramma d’amore trovava la migliore conclusione, un po’ per merito suo se doveva essere sincera: adesso non vedeva l’ora che la sorella lo annunciasse a tutta la famiglia, probabilmente domani stesso. Si chiese se poteva permettersi di dirlo a Vincent in anteprima quella sera stessa, ma forse gli avrebbe rovinato la bella sorpresa e…
La porta che sbatteva con violenza la fece sobbalzare, tanto che il mestolo con cui stava rigirando lo stufato le sfuggì di mano, macchiandole leggermente il grembiule. Spegnendo il fornello si affacciò dalla piccola porzione di muro che divideva la cucina dal soggiorno giusto in tempo per vedere il marito dirigersi con rabbia verso la camera da letto.
“Tesoro? – con aria perplessa lo raggiunse, non capendo la sua aria furente e sconvolta – che succede?”
Vincent si girò verso di lei e la fissò con rabbia, come se fosse ovvio quello che era successo.
 “Tua sorella è la strega peggiore che io conosca, ecco cosa succede!”
Iniziò a sbottonarsi con rabbia la giacca della divisa, buttandola nel letto con una foga tale che Rosie temette che sfondasse il materasso.
“… dannata vipera, non aspettava altro che farmi un colpo gobbo simile!”
“Daisy? Perché?”
“Max lascia la polizia: un uomo della mia personale squadra mi pianta in asso e sai perché?” si girò verso di lei per guardarla con rabbiosa ironia, la sua voce che era diventata fastidiosamente sarcastica.
“Ecco…” Rosie cercò di mantenere la calma mentre iniziava a capire cosa era successo: Max aveva annunciato le sue intenzioni a Vincent. La donna non avrebbe mai immaginato che il poliziotto agisse così repentinamente, addirittura prima di annunciare alla famiglia il suo fidanzamento. E soprattutto non si aspettava che Vincent avesse una simile reazione
 “Mi pianta in asso perché adesso andrà a lavorare nel negozio della tua famiglia: da poliziotto a pasticciere, complimenti! E pensare che stava anche per avanzare di grado… una carriera buttata al vento! Tua sorella l’ha proprio stregato a furia di torte!”
“Veramente…” Rosie si torse il grembiule con le mani, cercando un modo di bloccare quella filippica. Ma sembrava che il suo rigidissimo marito avesse una notevole esigenza di sfogarsi, senza far caso ai suoi tentativi di intromettersi nel discorso.
Oh, mamma, non l’ho mai visto così…
“Lavorerà assieme a lei – sorrise sarcasticamente, mentre iniziava a camminare avanti ed indietro per la stanza –  si sposeranno e lui diventerà lo schiavetto di quella dannata! E dovevi vederlo come gongolava: sembrava che gli avessero appena consegnato una medaglia al valore.”
“Però se è quello che vuole…” osò dire lei.
Una frase che ebbe il potere di bloccare Vincent che le rivolse la sua completa attenzione, come se si accorgesse per la prima volta della sua presenza in quella stanza.
“Che hai detto?” le chiese.
“Ecco – Rosie si trovò veramente in difficoltà a confrontarsi con quella versione sconosciuta di suo marito e dovette farsi forza per non abbassare lo sguardo – magari è quello che Max vuole davvero, altrimenti non… non avrebbe mai preso una decisione così radicale, non credi?”
“Oh sì! Sarà proprio bello lasciare la divisa per immergersi negli impasti e nella farina come una donnicciola e…”
“Mio padre fa il pasticciere da una vita!” protestò lei con incredulità.
“E’ diverso – scosse il capo lui, ancora troppo furioso per quello smacco – Max aveva un futuro come poliziotto e si è rovinato con le sue stesse mani.”
“Ha semplicemente preso la sua decisione – Rosie trovò la forza di reagire a quell’atteggiamento: sentiva sua sorella e la sua felicità minacciate e avrebbe fatto di tutto per difenderle – credo che sia abbastanza grande per poter capire cosa…”
“C’è solo una cosa da capire! Ossia che tua sorella è proprio un genio del male! Scommetto che ci ha goduto un sacco nel farmi questo giochetto e…”
“E’ stata un’idea mia.” confessò Rosie tutto d’un fiato.
E nella stanza si fece un pesante silenzio, tanto che girò il viso con timore, fissando il marito solo di sbieco.
Vincent la guardava con sorpresa, come se non riuscisse a credere a quanto gli era appena stato detto.
Per un secondo Rosie temette che si arrabbiasse anche con lei, ma poi continuò con tutta la fermezza di cui era capace.
“Daisy non si voleva sposare perché si è presa da sempre l’impegno di portare avanti il negozio anche quando i miei non ce la faranno più. E’ una cosa molto impegnativa ed ora che io ed Alyce siamo sposate non possiamo dedicarci al lavoro come prima…”
“E dunque leviamo Max dal suo lavoro alla polizia per farlo diventare pasticciere? – chiese lui andandole vicino – Una bella trovata, davvero!”
“Nessuno l’ha obbligato: Daisy è soltanto stata onesta con lui e… a me è venuta in mente questa via d’uscita e se Max l’ha accettata vuol dire che è felice e…”
“E’ solo cotto come una pera per tua sorella, non lo capisci? – la prese per le spalle come se fosse una bambina a cui spiegare il perché sta sbagliando – Se lei gli dicesse di correre da qui a Central City lo farebbe.” il tono della sua voce era esasperato, come se fosse ovvio che tutto stesse andando male, senza possibilità di aggiustare le cose.
“Se saranno felici che problema ci sarà? – Rosie scosse il capo – Max è in gamba ed in negozio darà una mano e poi più volte ha detto che se non fosse poliziotto gli sarebbe piaciuto lavorare nel nostro negozio e…”
“Finiscila con queste idiozie romantiche, Rosie! Lui è un poliziotto! E’ un mio uomo!”
“E’ la persona che mia sorella ama!” ritorse lei, liberandosi dalla sua presa, la sua voce che si alzava di un’ottava come mai era successo. Possibile che Vincent fosse così ottuso da non capire quali erano davvero le cose che contavano? Possibile che per lui fosse più importante il suo lavoro che la felicità di due persone a lui vicine?
Ma mentre pensava queste cose non poté fare a meno di vedere il suo sguardo profondamente ferito e deluso: sicuramente non si aspettava una reazione simile, una difesa di Daisy e Max così spudorata.
“Senti…” lei fece un passo in avanti, protendendo la mano, ma lui si ritrasse.
“Non aspettarmi per cena – sbottò, andando a recuperare la giacca dal letto – ho decisamente bisogno di una passeggiata fuori.”
“Ma io…” ansimò lei.
Ma non fece in tempo a dire altro che lui era già all’ingresso e uscì sbattendo la porta.
 
“E per farla breve… io e Max ci sposiamo entro primavera e lui viene a lavorare qui!”
Daisy fece in tempo a terminare la frase che il fidanzato la prese tra le braccia come se fosse un fuscello.
I due si scambiarono un bacio così appassionato che tutta la famiglia non poté far a meno di applaudire felice.
“Ah, ragazzo mio, aspettavo con ansia una notizia simile! Pensavo che la mia ragazza non si decidesse mai! Benvenuto in famiglia!”
“Grazie mille, signore!” sorrise Max, mentre tutti quanti si accostavano alla nuova coppia per fare le congratulazioni, la cucina del negozio che esplodeva di felicità.
Solo Rosie si tenne leggermente in disparte, sperando che nessuno la notasse: aveva paura di non poter reggere la faccia di allegria, anche se era effettivamente felice per la sorella. La verità era che Vincent non si era ripresentato a casa, nemmeno a tarda ora. Era rimasta alzata ad aspettarlo fino all’una di notte, quando aveva ceduto al sonno. Era stato così brutto dormire in quel letto da sola: più di una volta aveva allungato una mano dalla parte del marito, stringendo il lenzuolo e sentendo in maniera incredibile la sua mancanza. Aveva sperato di svegliarsi e trovarlo addormentato accanto a lei come sempre, ma la sua parte di letto era ancora intatta quando aveva aperto gli occhi.
Quel piccolo appartamento le era sembrato così vuoto senza di lui.
Non avrei mai immaginato che la prendesse così male.
Non pensava che suo marito si potesse sentire tradito in questo modo da quanto era successo. Era la prima volta che litigavano in maniera così marcata e che succedesse per Daisy e Max non era un buon segno: sarebbe stato molto meglio litigare per una cena andata male o qualcosa di simile.
E poi noi non abbiamo mai litigato sul serio.
“Oh, piccolo fiore! – Daisy le si accostò abbracciandola con gioia – Ti devo ringraziare sorellina, tanto! Se non fosse stato per te forse non avrei mai avuto la forza di parlare con Max!”
“E di che, sorellona – lei restituì l’abbraccio cercando di tenere l’espressione lieta: mai e poi mai avrebbe rovinato quel momento – era ora che ti decidessi ad essere veramente felice.”
“Sarò proprio curiosa di vedere la faccia di Mister Rigidità quando verrà a saperlo!”
Rosie si irrigidì a quelle parole dette in tono scherzoso: lei l’aveva vista la faccia di suo marito ed era stata una cosa bruttissima.
 
“Credo che Max voglia sbrigare le cose più in fretta del previsto – ammise Alan, giochicchiando con aria imbarazzata con una penna – ha detto che già stamane andrà all’ufficio personale a presentare la sua domanda e se tutto va bene in circa un mese dovr…”
“Non mi interessa niente dell’iter burocratico da poliziotto a pasticcere, Alan – lo bloccò Vincent con voce impassibile – anzi, dal momento che Max non fa più parte della squadra ti pregherei di non parlare di lui in orario di lavoro.”
“Sissignore…”
“Maledetta strega, non la perdonerò mai!”
“Scusa?”
“Niente, tu continua pure a lavorare… grazie a questo improvviso abbandono siamo sommersi di cose da fare e dobbiamo pensare a come ridividerci i compiti.”
Alan si mise a lavorare di buona lena, cercando in qualche modo di rasserenare il clima teso in ufficio, ma Vincent Falman non aveva nessuna intenzione di farsi passare il cattivo umore. Si sentiva tradito, non solo dal suo migliore amico, ma anche, e forse soprattutto, da sua moglie. Mai e poi mai l’avrebbe creduta capace di pensare ad un piano simile, senza nemmeno metterlo al corrente della situazione… senza chiedergli che cosa ne pensasse, come se la perdita di un membro della propria squadra fosse una cosa di poco conto.
Aveva lavorato come un disperato per ottenere l’indipendenza della sua squadra, sin da quando erano sotto il comando di un superiore che non ritenevano alla loro altezza. Sacrifici, notti in bianco, straordinari, sogni… ma che importava, tanto c’era la fatina della crema e dello zucchero a portargli via Max.
“E’ la persona che mia sorella ama!”
E’ la persona che con il suo irruente egoismo ora ci metterà nei guai, piccola incosciente.
Gli fece male pensare una cosa simile di sua moglie, in tutti quegli anni che la conosceva aveva pensato solo il meglio di lei.
“Vincent…”
“Dimmi, Alan.”
“Credi… credi che adesso ci verrà assegnato un nuovo componente per la squadra? Sai bene che solo in due non possiamo restare.”
“Non pensare a queste cose – scosse il capo, cercando di assumere un tono di voce rassicurante – sistemerò tutto io, vedrai.”
“E’ che con il poco organico…”
“Alan, tranquillo.”
“Va bene…”
“Piuttosto stasera ceno in mensa, ti va di farmi compagnia?”
“In mensa? – il ragazzo lo guardò con aria sorpresa – Come mai?”
“Ho delle cose da fare e resto a dormire in caserma – Vincent scrollò le spalle – libero di scegliere.”
“Oh, ma certo che resto a cena pure io, Vincent, nessun problema.”
“Ottimo.”

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. 1877. Le cose importanti della vita ***


Capitolo X

1877. Le cose importanti della vita.

 

Quando Rosie si svegliò la mattina successiva e si accorse che nemmeno quella notte Vincent era tornato a casa, sentì il mondo crollarle addosso. Le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento iniziarono ad uscire, senza che lei riuscisse a fermarle: si sentiva incredibilmente sola e abbandonata, la persona più importante della sua vita che era andata via senza nemmeno lasciarle il tempo di spiegarsi.
Del resto cosa c’era da spiegare? Ci siamo detti tutto.
Ma una parte di lei non poteva e non voleva accettare quella realtà: continuava a dirsi che era tutto sbagliato e che le cose non dovevano andare assolutamente in un modo simile. Mai e poi mai avrebbe immaginato che Vincent se la potesse prendere in quel modo anche con lei: sapeva che non avrebbe fatto salti di gioia come gli altri, ma non si aspettava nemmeno un’arrabbiatura simile.
E una delusione simile… l’ultimo sguardo che mi ha lanciato è stato quello di una persona tradita nel peggiore dei modi.
Si ricordò di come si era sentita quella terribile settimana in cui aveva creduto di averlo perso per sempre, quando nemmeno stavano insieme: adesso quel vuoto era amplificato oltremisura e lei non sarebbe stata in grado di sopportarlo per molto tempo.
Si costrinse ad alzarsi per prepararsi ed andare a lavoro: doveva mantenere la facciata di allegria per non rovinare il momento felice che Daisy e Max stavano vivendo assieme al resto della famiglia. Non era giusto che venissero a sapere che per una sorella che si sposava, un’altra era stata abbandonata dal marito.
Come entrò in negozio cercò di lasciarsi tutti quei pensieri alle spalle e fare i migliori sorrisi di circostanza. Fortunatamente ancora una volta l’attenzione era catalizzata su Daisy e dunque nessuno fece caso ai momenti che si concedeva per versare qualche lacrima: bastava andare in bagno e riusciva a recuperare un aspetto decente in qualche minuto.
Proprio come usciva da una di queste tappe forzate, quasi si scontrò con Max che era appena arrivato in negozio.
“Ehi, Rosie – la salutò – come va?”
“Benone, Max – sorrise lei – non sapevo saresti passato stamattina.”
“Mi sono sbrigato prima del previsto all’ufficio personale e allora sono venuto qui. A proposito, dovresti dire a tuo marito di farsi trovare in ufficio più spesso.”
“Che cosa?” lei tese le orecchie, sperando di capire che fine avesse fatto Vincent.
“Sì, mi ha detto Alan che ieri è rimasto a cena in mensa e poi ha continuato a lavorare anche dopo che lui è andato via. E anche oggi era fuori per qualche cosa… pare che sia più musone che mai. Insomma, sapevo che non l’avrebbe presa molto bene, ma non mi aspettavo una cosa simile.”
A Rosie dispiacque tantissimo vedere quel ragazzone così buono e gentile assumere un’espressione così desolata. Evidentemente anche con lui Vincent non aveva esitato ad esprimere tutto il suo disappunto.
“Mi dispiace se ti ha trattato male…”
“Oh, non ti preoccupare – subito un sorriso ricomparve nei bei lineamenti dell’uomo – è fatto così: quando qualcosa non va come vuole lui entra in completa crisi. Gli serve del tempo per accettare l’idea, scommetto che a casa ancora non spiaccica una parola, vero? Comunque se vuoi stasera passo a trovarlo e…”
A quella richiesta Rosie si irrigidì e le lacrime appena asciugate vennero sostituite da altre.
Max la guardò interdetto, ma poi entrambi si voltarono, sentendo la voce di Daisy che dalla cucina si avvicinava alla sala. Prima che la ragazza potesse dire o fare qualcosa, Max la prese per mano e la portò fuori dal negozio, facendo attenzione ad andare oltre la vetrina in modo da non essere visti da nessuno.
“Che ti succede, Rosie? – le chiese, vedendo che continuava a piangere senza parere – Tu e Vincent avete avuto qualche problema?”
“E’ la seconda notte che non torna a casa! – si sfogò lei posandosi contro il muro e singhiozzando – Non so dove possa essere! E' andato via così arrabbiato… non so che fare, Max!”
“Dannazione alla sua testardaggine! – sbottò l’uomo passandosi con rabbia una mano sui capelli neri e mossi – Come diavolo ha pensato di prendersela con te?”
“E’ tutto un disastro… ho suggerito io a Daisy l’idea di parlare con te e di proporti di lasciare la polizia. E quando Vincent è venuto a saperlo è andato su tutte le furie… era come se l’avessi tradito nel modo peggiore che potessi…”
“Oh, finiscila! Asciugati le lacrime, da brava… ci penso io a parlare con quello zuccone di tuo marito.”
“Mi tradisce?”
“Che? Ma Rosie, cosa vai a pensare…?” Max la prese per le spalle.
“Non lo so – sospirò lei – ma… ma non so più cosa pensare e forse… non succede così? Che… che per consolarvi voi uomini andate…”
“Ma che sciocchezze dici! – la rimproverò l’uomo scrollandola gentilmente – Quell’idiota non farebbe mai una cosa del genere. In tutti questi anni che lo conosco ha avuto occhi che per una sola donna e sei tu.”
“E allora perché? Perché non torna a casa?”
“Vedi che entro stasera torna… adesso calmati, coraggio, vedrai che risolvo tutto io. In fondo è anche colpa mia se si è creata questa situazione.”
“Oh, Max, scusami tanto – sospirò lei, recuperando il controllo e asciugandosi le lacrime col grembiule – in questo momento dovresti solo essere felice e pensare a Daisy… non dovresti caricarti di queste cose.”
“Invece penso proprio che devo – sorrise l’uomo con imbarazzo – non posso permettere che prima damigella e testimone litighino per colpa del mio matrimonio. Fidati di me, risolviamo tutto senza che Daisy lo venga a sapere.”
 
Era da un sacco di tempo che non faceva una ronda in solitaria.
Ma sentiva l’esigenza di camminare senza meta per sfogare tutta la rabbia che aveva addosso.
Vincent continuava a guardare il marciapiede che si snodava davanti a lui, evitando le persone giusto perché i loro piedi entravano nel suo campo visivo. Ma più che altro erano i passanti a scansarsi da lui, quasi intuissero la sua rabbia e ne venissero respinti.
Aveva dormito male anche quella notte: si era dimenticato di quanto i letti della caserma potessero essere scomodi. Per non parlare del pessimo pasto che gli era stato servito in mensa. Tutte cose che inevitabilmente lo facevano pensare a Rosie… e a questo punto il circolo vizioso di rabbia e delusione riprendeva.
Uno stupido cane che si morde la coda!
Ma non aveva intenzione di perdonare: era colpa degli altri che si erano intromessi nella sua perfetta vita dopo che aveva fatto tanti sacrifici per arrivare a quel punto. Nessuno l’aveva tenuto in considerazione: avevano agito nel loro egoismo, senza riflettere, senza pensare alle conseguenze di quell’idea sconsiderata.
E se per Max e Daisy poteva persino tollerare una cosa simile, del resto avevano un determinato carattere, da Rosie proprio non lo accettava.
Compagna, persona fidata, colei da cui non si sarebbe mai aspettato una pugnalata alle spalle simile.
Ogni tanto si sentiva in colpa per essere andato via di casa in quel modo, senza avvisarla che non sarebbe tornato: aveva agito in preda alla rabbia e un simile gesto non era proprio quello che ci si aspetta da un marito. Ma poi tutto il resto della sua persona tornava a convincersi con prepotenza che era meglio sbollire ancora e trovare una soluzione per…
“Eccoti qua! – una mano gli si posò sulla spalla, facendolo trasalire – Adesso mi spieghi che cosa ci fai in giro per le strade.”
“Max Maffer, tu non sei più un poliziotto – disse rigidamente, girandosi verso di lui – non devo certo rendere conto a te, anche perché sono un sottotenente.”
“Sei anche il più grande imbecille del mondo! – il viso gioviale del giovane era storpiato da una smorfia di disappunto – Che cos’è questa storia che non torni a casa da due notti?”
“Sono fatti miei – Vincent si liberò di quella stretta – al contrario di qualcuno, io ho molto lavoro da fare, delle responsabilità che…”
“E le responsabilità nei confronti di quella santa donna che hai sposato? E’ in lacrime, preoccupata che ti sia successo qualcosa… non sa più che fare.”
A quelle dichiarazioni Vincent abbassò leggermente lo sguardo, ma poi scosse il capo con ostinazione.
“Quello che succede tra me e mia moglie è estremamente privato. E di certo non riguarda te! Se non ti dispiace adesso devo riprendere la rond…”
“Sì che mi riguarda! – lo prese per le braccia – Avanti, dimmelo in faccia che cosa c’è che non va! Non ti va che mi sposi con Daisy e lasci la polizia? Perché per te, maledetto Mister Rigidità, conta solo il tuo lavoro, la tua carriera, vero?”
“Smettila, non sai quello che dici!” Vincent gli mise le mani sul petto, allontanandolo dalla sua persona.
“Sei proprio un’idiota: invece di ringraziare ogni giorno di avere una moglie come Rosie, la tratti in questo modo… l’unica persona che probabilmente ti fa vedere le cose nel verso giusto!”
“Ti avviso, Max – la voce dell’uomo era letale – levami le mani di dosso e lascia stare questa storia. Altrimenti la divisa che indosso ti metterà nei guai: non sei più poliziotto, ma sai bene cosa voglia dire la frase aggressione ed oltraggio a pubblico ufficiale.”
Max lo guardò con odio, come se avesse appena scoperto la più viscida delle persone.
“Perché devi rovinare la felicità degli altri? Perché devi far piangere tua moglie.”
“Torna da Daisy, Max Maffer, e lascia mia moglie a me.”
A quelle parole il grosso ragazzo girò le spalle con violenza e si avviò a grandi passi via da quella strada. Vincent lo guardò allontanarsi con un pizzico di rammarico, ma poi lanciò un’occhiata alle persone che avevano fissato con curiosità il battibecco e si riscosse.
“Circolare, andiamo: non c’è proprio niente da vedere qui.”
Sentendo i rintocchi del campanile capì che era mezzogiorno e si affrettò a tornare al commissariato: aveva ancora tante cose da sbrigare e poco tempo per farle.
 
Quella sera Rosie tornò a casa e non rimase sorpresa di non trovarvi Vincent. Chissà perché si era rassegnata all’idea che nemmeno quel giorno sarebbe rientrato. Anche se Max le aveva promesso che sarebbe andato a parlare con lui, conosceva abbastanza bene suo marito per sapere che non gli avrebbe prestato ascolto: era troppo ferito nel suo orgoglio.
Almeno adesso aveva qualcuno con cui sfogare le sue paure: tenere Daisy fuori dalla questione era la cosa migliore che potesse mai fare, non solo perché non era proprio il momento di disturbarla, ma anche perché una sua eventuale intromissione avrebbe potuto rendere la rottura con Vincent irreparabile.
Dopo aver sbocconcellato distrattamente qualcosa per cena andò a sdraiarsi nel letto matrimoniale, fissando con apatia la parte vuota dove in genere dormiva lui.
Le tornò in mente l’idea che fosse andato in qualche locale malfamato a sfogarsi tra le braccia di qualche donna sconosciuta, ma poi si convinse che Vincent non era certo uno da fare cose simili. Proprio come le aveva garantito Max.
E allora dove sei?
Si raggomitolò su se stessa, sentendosi incredibilmente vulnerabile e triste. Aveva anche pensato di andare al commissariato di polizia, ma sapeva che i civili non erano ammessi e poi lui si sarebbe potuto rifiutare di riceverla… avrebbe causato più danno che altro.
Non poteva far altro che aspettare, ma era un attesa che le stava straziando il cuore e…
Sentì un familiare girò di chiave e il lieve cigolio della porta che si apriva.
Si sedette nel letto incredula, le lacrime che riprendevano a scendere, e poi si districò da lenzuola e coperte, correndo scalza all’ingresso.
Ti prego… ti prego, dimmi che sei tu!
 “Vincent?” chiamò con un singhiozzo.
Lui era lì e non fece in tempo a dire niente che gli saltò addosso, cingendogli le braccia attorno al collo e immergendo il viso nella giacca della sua divisa.
Sentì le sue braccia stringerla, le sue labbra baciarle i capelli: il senso di protezione e sicurezza che l’avvolse fu qualcosa di meraviglioso.
“Scusami…” fu tutto quello che lui disse.
Ma lei non rispose: non gli importava se avevano litigato o se lui era stato lontano per così tanto tempo senza farle sapere niente. Era di nuovo a casa e questo era l’importante: cercò le sue labbra e lo baciò con foga, afferrando il colletto della divisa e iniziando a sbottonargli la giacca. Nell’arco di pochi minuti erano a letto, nudi, una tra le braccia dell’altro a fare l’amore in una maniera del tutto nuova e disperata.
 
“Dove sei stato?” chiese lei, la testa posata sul suo petto.
“Ho dormito in caserma e poi ho fatto il mio solito lavoro con degli straordinari. Non mi sono nemmeno preso la briga di avvisarti… sarai stata in pensiero.”
Lei non rispose, ma si strinse in un modo tale a lui che era chiaro tutto il tuo disagio nell’essersi sentita abbandonata in quel modo così improvviso. Sentì le sue braccia che la stringevano, facendola sentire incredibilmente bene: com’era possibile che avessero litigato nemmeno tre giorni prima?
“Presumo che mi dovrò congratulare con Max…” fece lui dopo qualche secondo.
“Lo accetterai?”
“Non è il suo matrimonio il problema, Rosie.”
“E’ perché ha lasciato la tua squadra, lo so – sospirò, baciandogli la guancia con estremo affetto – scusami, ma pensavo che non ti avrebbe creato problemi. In fondo non stai certo perdendo un tuo amico dato che entra a far parte della famiglia, no?”
“Oh, piccolo fiore, sei così ingenua e ti adoro per questo – sorrise lui girandosi a guardarla e accarezzandole il dorso del naso – non ho mai pensato di perderlo come amico. Diciamo che… che la situazione a lavoro sarà tutta da rivedere.”
“Che intendi dire?” lei alzò lo sguardo con preoccupazione, non immaginando che la scelta di Max potesse condizionare in maniera così drastica il lavoro del marito.
“Beh, semplicemente siamo rimasti io ed Alan… e le squadre devono essere formate da almeno tre persone. Purtroppo però, negli ultimi anni l’organico è davvero poco e non è possibile trovare un sostituto per Max… sotto un certo punto di vista è meglio così: è sempre difficile trovare un affiatamento dopo che è andata via una persona con cui si collabora da sempre.”
“E quindi? Adesso che succederà?”
“In teoria io ed Alan siamo diventati poliziotti a disposizione – sospirò lui – non abbiamo più autonomia e dobbiamo aspettare che qualcuno abbia bisogno di noi per poter partecipare a qualche missione.”
“Oh… no, Vincent, non puoi dirmi questo!” lei era incredula: quell’indipendenza della squadra era tutto quello per cui suo marito aveva lavorato in quegli anni. Era la sua realizzazione come poliziotto. Non poteva crollargli addosso tutto quanto in una simile maniera.
“Comunque è andata meglio del previsto – continuò lui, come se stesse raccontando una normale giornata d’ufficio – sai Alan ha notevoli esperienze nelle relazioni pubbliche e sono riuscito a fare in modo che entro un mese venga promosso e trasferito in un ufficio specializzato. Ha già collaborato diverse volte con loro e si troverà bene.”
“E tu?”
 “Ed io non avrò più le missioni, verrò aggregato ad altre squadre quando ci sarà bisogno di me. Diciamo che farò parecchio lavoro d’ufficio. Ehi, tranquilla, non è che mi stanno licenziando o cose simili: non c’è nessun problema.”
Ma lei scosse il capo con tristezza.
Nessun problema? E’ da quando lo conosco che voleva finalmente avere il comando della sua squadra e solo diventando sottotenente c’è riuscito… e adesso… dopo un anno gli si è distrutto tutto.
“Perdonami, è stata tutta colpa della mia idea…”
“Beh, era quello che Max e tua sorella volevano, no?”
“Ma non pensavo che il tuo sogno ne risentisse così tanto.”
“L’avrebbero fatto comunque, piccolo fiore, tu sei solo arrivata prima ad un’idea che avrebbero avuto anche loro. Doveva andare così, semplicemente, non essere triste: vedrai che le cose si sistemeranno e prima o poi avrò una nuova squadra.”
Lo disse con sincerità, cercando di tranquillizzarla: adesso che era riuscito in parte a sistemare le cose, almeno per Alan, la sua rabbia era scemata come neve al sole. Certo non avrebbe mai dimenticato lo smacco del tradimento di Max, ma era sicuro che con il tempo sarebbe riuscito a parlare con lui senza troppi problemi.
E poi non mi è crollato tutto addosso… lei è qui, accanto a me ed è questo che conta. Sono certo che potrò riniziare daccapo senza troppi problemi.
 
“E mia madre allora si rivolge a Daisy e dice “figliola, se hai fatto diventare pasticciere questo bestione di figlio che mi ritrovo buon per te. Ma attenta alla dispensa!” Ma vi pare bello da dire?”
Daisy scoppiò a ridere e l’acqua quasi le andò di traverso e anche Rosie non poté far a meno di ridacchiare davanti alla faccia profondamente offesa di Max.
Vincent si mise a braccia conserte e squadrò con aria critica il suo ex collega e futuro cognato: sua madre non aveva tutti i torti nel dire una cosa simile. A pensarci bene senza esercizio fisico e con tante tentazioni a portata di mano, Max sarebbe aumentato di stazza molto presto.
“Rosie, perché non proponi anche a tuo marito di lasciare la polizia – propose Daisy con un’occhiata maliziosa a Vincent – magari lavorando al negozio mette su qualche chilo, non gli farebbe male.”
“Sto benissimo così, grazie tante per la tua preoccupazione.”
“Sembri denutrito, se non ti avessi visto con i miei occhi mangiare non ci crederei.”
“E’ costituzione.”
“Già, metti tutto in altezza e rigidità. A volte credo che tu ti nutra di manici di scopa.”
“Daisy!” esclamò Rosie.
“Beh, questa cena tra futuri sposi e testimone e prima damigella sta andando decisamente bene – rise Max – allora Vin, vogliamo fare un brindisi alle cose importanti della vita?”
“Non è un brindisi a caso, vero? – chiese lui versando il vino che i suoi ospiti avevano portato per quella cena speciale – Sempre meglio di una quasi rissa in mezzo alla strada.”
“Eh? – Daisy li guardò di sbieco – ma di che parlate?”
“Niente di importante – scrollò le spalle lui – cin cin ai futuri sposi e alle cose importanti nella vita.”

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. 1879. Una destabilizzante novità ***


Capitolo XI

1879. Una destabilizzante novità.

 

La bambina continuava a strillare così tanto che Alyce dovette prenderla di corsa dalle braccia di Vincent e cullarla fino a chetarla.
“Niente da fare, proprio non ci vuole stare con te – sospirò la donna, addormentando la sua figlioletta – eppure con gli altri proprio non fa problemi, anche se li conosce da poco.”
E quasi a conferma passò la piccola di un anno a Max che se la accomodò tra le braccia. Gli occhioni scuri finirono di chiudersi e dopo qualche secondo era nel mondo dei sogni.
“Strano – ridacchiò Daisy, sedendosi accanto al marito e lanciando un’occhiata ironica a Vincent – tutti i bambini vorrebbero stare con Mister Rigidità!”
“Andiamo, illuminami con qualche consiglio, tanto so che lo farai.” ribatté lui, guardando torvo la cognata.
Rosie sospirò e posò una mano sul braccio del marito, invitandolo a non reagire ulteriormente alla provocazione. Tuttavia non si preoccupò: i grandi pranzi in famiglia non erano tali senza qualche battibecco tra Vincent e Daisy ed ormai tutti si erano abituati, anzi era ormai una tradizione.
Guardando il grande e accogliente salone di casa di Alyce, dove si erano tutti spostati per il dolce ed il caffè, pensò che era bellissimo passare quei momenti tutti assieme, specie che ora la famiglia si era notevolmente allargata. Era passato più di un anno da quel brutto litigio con Vincent, e Daisy e Max erano ormai una coppia di sposi affiatati, sicuramente la parte più rumorosa e divertente della famiglia.
Per quanto agli occhi di un estraneo la favola di un poliziotto che diventa pasticciere potesse sembrare inverosimile, l’idea aveva avuto pieno successo. Sulle prime Max si era limitato ad aiutare in sala o nell’amministrazione spicciola, ma piano piano si era voluto cimentare anche in cucina con ottimi risultati: ormai era parte attiva del negozio e sembrava che lavorasse lì da sempre; era quasi impossibile credere che nemmeno due anni fa quel ragazzone sorridente dai capelli ed occhi scuri vestisse la medesima divisa di Vincent
Ed in fondo era stato un bene considerando che con la nascita di Ally, un anno prima, Alyce aveva praticamente smesso di aiutare l’attività di famiglia. Lei e suo marito Luke proseguivano la loro vita assieme con grande entusiasmo, e la bambina prometteva di diventare bella come la madre con i boccoli neri naturali e gli occhioni scuri.
Un bambino…
Rosie fissò con estrema tenerezza la nipotina che si era ormai appisolata della grossa. Max intercettò il suo sguardo e con un sorriso si alzò in piedi per sistemargliela tra le braccia. Era una così bella sensazione sentire quel corpicino morbido e caldo che si stringeva a lei.
“Quant’è dolce…” mormorò, asciugandole una gocciolina di saliva con il bavaglino rosa.
Mentre compiva quel gesto sentì suo marito che si scostava leggermente da lei ed alzando lo sguardo vide che la fissava con un misto di timore e disappunto: considerato che il suo rapporto con Ally era fondamentalmente basato sui pianti della bambina c’erano tutte le motivazioni del mondo perché…
“Pare quasi che tua moglie stia tenendo in mano una bomba pronta ad esplodere!” la risatina di Daisy li fece riscuotere entrambi.
“Non esplode nel senso vero del termine, ma parlando di strilli direi che si difende bene…” commentò lui con estremo disappunto.
“Del resto come pretendi che non pianga se la tieni come se fosse un mazzo di serpenti? Proprio non sei tagliato per aver a che fare con i bambini… non credo che ti piacciano.”
“Sono rumorosi e imprevedibili, senza alcuna disciplina a cui aggrapparsi e…”
“Diamine, cognato, scherzavo! Si vede che il tuo è proprio un caso disperato, eh?”
“E dai, amore, non lo provocare. Dai Vincent, prendi un’altra fetta di torta.”
“Vediamo se il dolce rimette in equilibrio il tuo acido…”
“Non credo proprio dato che l’hai fatta tu ed il veleno non mancherà!”
A quell’ultima frase, detta in tono profondamente infastidito, Ally aprì gli occhi, come se avesse appena riconosciuto il suo mortale nemico, e scoppiò in lacrime. Immediatamente Rosie si alzò in piedi e iniziò a cullarla.
“Ehi! Oh no, Vincent, non dovevi usare quel tono… no Ally, non piangere.”
“Ahaha – rise Daisy – è proprio una reazione automatica! Niente da fare, i bambini odiano Mister Rigidità, e come dargli torto?”
Nel frattempo Alyce si fece avanti e recuperò la bambina.
“Su su, la mamma è qui, è tutto a posto, da brava.”
A Rosie non restò che risedersi accanto a Vincent e lo fissò con curiosità.
Ormai erano passati due anni dal matrimonio, ma non avevano mai parlato della possibilità di avere un bambino. Guardando le sue sorelle si rendeva conto che forse lei e Vincent erano la coppia meno adatta delle tre per avere bambini, ma l’idea le sarebbe piaciuta tanto. Tuttavia c’era una problematica di fondo che le impediva anche solo di affrontare l’argomento con lui ed era il fatto che…
“Tenetela a distanza di sicurezza da me, ne guadagniamo sia io che lei.”
… lui non sembrava molto favorevole alla cosa.
 
Però a volte le cose sembra proprio che uno se le chiami addosso.
Nemmeno due settimane dopo quel pranzo, Rosie era come al solito al negozio e stava aiutando Max con gli impasti dei pasticcini.
“Questa serie è con la cannella, vero?” chiese l’uomo.
“Sì – annuì lei posando la terrina e allungando la mano per prendere il sacchetto con la cannella – quelli con la vaniglia li facciamo dopo.”
Prese una generosa cucchiaiata di polvere marrone chiaro e la versò nell’impasto con l’intenzione di iniziare a mischiare quando quell’odore le sembro troppo forte.
Decisamente troppo.
Improvvisamente un fortissimo senso di nausea le risalì lo stomaco, mentre un cerchio le cingeva la testa. Sentì un forte brivido lungo la schiena e dovette fare dei tremanti passi indietro per andare a posarsi pesantemente contro il tavolo da lavoro che stava dietro di lei. Come ebbe quell’appiglio credette che l’emergenza fosse finita, ma subito un violento capogiro la costrinse a serrare gli occhi.
 “Rosie! – Max le fu subito accanto, sorreggendola – Che ti succede? Sei pallidissima.”
“Niente – balbettò, cercando di recuperare il controllo –  è un capogiro… mi fai sedere?”
“Vieni – annuì lui, sollevandola con delicatezza e facendola accomodare su una sedia – Aspetta qui vado a prenderti un bicchiere d’acqua e a chiamare Daisy.”
“Ma no, non credo che sia il caso…” cercò di tranquillizzarlo lei.
“Sì che è il caso, hai una faccia tremenda… ah, ecco Daisy. Cara, vieni qui: tua sorella non sta bene.”
“Cosa? – subito lei notò la ragazza seduta ed ansimante e si accostò a lei – Max tu vai in sala, ci penso io!”
Immediatamente la donna più grande prese in mano la situazione ed iniziò a confortare la sorella: le passò una pezzuola umida sul polsi e sulla fronte e le fece bere dell’acqua zuccherata.
Fortunatamente nell’arco di qualche minuto la crisi venne superata.
“Posso alzarmi adesso, sto bene.” dichiarò Rosie cercando di mettersi in piedi.
“No, stai ancora seduto piccolo fiore, sei ancora pallida – scosse il capo Daisy, tenendole le spalle – Ma che ti è successo?”
“Non lo so – ammise lei confusa – stavo benissimo e all’improvviso l’odore della cannella mi ha dato grande fastidio e mi è venuta la nausea con i capogiri… sarà stato solo un attimo di affaticamento.”
“Strano la cannella non ti ha mai creato problemi – Daisy andò verso la terrina dove c’era l’impasto e annusò – e non è che l’odore sia più forte del solito non… oh oh oh. Sai a chi creava problemi la cannella?”
Si girò verso di lei mettendo le mani dietro la schiena e fissandola con aria maliziosa.
“A chi?” chiese Rosie, finendo di bere l’acqua e posando il bicchiere sul tavolo.
“A mamma… quando era incinta di me e di te!”
A quelle parole Rosie sgranò gli occhi e si portò le mani al ventre.
“Oh mio…”
“Domanda indiscreta, piccolo fiore – sorrise ancora Daisy, andandole accanto e abbracciandola – è vero che il tuo ciclo a volte è irregolare e dunque non ci pensi più di tanto, ma da quando non ti viene?”
“Due mesi buoni…” realizzò lei che, effettivamente, non aveva mai fatto caso a simili ritardi.
“Ah, tesoro! Congratulazioni! Un nuovo pupo in famiglia, che gioia!”
“Un bambino…” ansimò con le lacrime agli occhi.
Improvvisamente si sentì la donna più felice del mondo.
 
Per sicurezza Daisy la accompagnò seduta stante dal medico che fu rapido a confermare la diagnosi.
“Secondo mese avanzato e sembra che tutto proceda benissimo, anche se siamo appena agli inizi. Se le vengono nausee o capogiri è normale, nel caso eviti di sforzarsi troppo… tanto ha visto pure lei che passano nell’arco di qualche minuto.”
Lei e Daisy avevano riso e pianto di gioia mentre si abbracciavano e ovviamente anche Max era stato felicissimo di quella notizia. Per non parlare dei suoi genitori: sua madre si era dovuta sedere perché le tremavano le gambe e anche suo padre non era riuscito a trattenere una lacrimuccia di gioia.
Insomma, lei era il piccolo fiore di famiglia, quella dolce e riservata che tutti adoravano e proteggevano: quella notizia era la cosa più bella del mondo.
E così, come la sera Rosie tornò a casa, era incredibilmente felice ed incredula.
Non faceva altro che mettersi la mano sul ventre cercando di sentire il piccolo, anche se ovviamente era troppo presto: secondo i calcoli sarebbe dovuto nascere fra meno di sette mesi ossia a fine gennaio dell’anno successivo.
Tuttavia, accanto a questa felicità, c’era anche una piccola grande componente di nervosismo.
Per tutti era stata una grande notizia, ma…
Lo sarà anche per lui?
Se lo chiese per la centesima volta, sapendo bene quanto Vincent ed il mondo infantile fossero due opposti mai destinati ad incontrarsi… almeno fino a quel momento.
Manco a farlo apposta la porta venne aperta, facendola sobbalzare di sorpresa, e Vincent entrò con aria tranquilla e rilassata, totalmente ignaro di quanto lo aspettava.
“Ciao, caro.”
“Ciao, amore – la salutò, andando al tavolo e baciandola in fronte – tutto bene?”
“Sì, benissimo – annuì lei – e tu? A lavoro tutto bene?”
“Sì, tutto bene… tante scartoffie ma tutto in ordine, come sempre – andò in camera a posare la giacca della divisa e poi tornò nel piccolo soggiorno – Ah, tanti saluti da Alan, ci siamo incontrati quando stavamo uscendo. Comunque, stasera voglio godermi la compagnia del mio adorato piccolo fiore. Ceniamo e poi ti riempio di coccole… uh? Ma non hai preparato niente?” solo in quel momento si accorse che il tavolo non era nemmeno apparecchiato, nonostante fossero le otto passate. In genere erano parecchio metodici e puntuali.
“Ecco – arrossì lei, capendo che non era il caso di rimandare oltre e decidendo di affrontare il discorso da lontano – sai, stamattina non mi sono sentita molto bene in negozio…”
“Eh? – si preoccupò subito lui, sedendosi accanto e prendendole la mano – Che è successo?”
“Alcuni capogiri e un po’ di nausea. Ma ora sto bene, tranquillo.”
“Sicura? – le tastò immediatamente la fronte – In ogni caso conviene che ti metti a letto o sul divano: non ti preoccupare, alla cena ci penso io e ti preparo qualcosa di leggero. Magari è l’influenza che sta circolando… oppure sei semplicemente stanca: a volte lavori davvero tanto in quel negozio.”
Rosie scosse il capo, stringendogli la mano.
“Sono stata dal medico e ha detto che è tutto nella norma…”
“Nella norma? Hai avuto un malore, no che non è nella norma. Magari è dovuto a…”
“Aspetto un bambino.” annunciò lei, bloccando le sue diagnosi preoccupate.
“Ah…”
“Ah?”
Non è proprio la risposta che ti aspetti dal padre del bambino, considerato che siete sposati da più di due anni e che è naturale che facendo l’amore si possa restare incinta. Tutti l’avevano abbracciata e le avevano fatto le congratulazioni non appena aveva detto loro la notizia… perché proprio lui che era il diretto interessato reagiva con un semplice Ah?
“E’ che…” iniziò Vincent, arrossendo e grattandosi la nuca con aria confusa.
“Non… non volevi figli?”
“Che? Oh no, Rosie… è che io non è che…” annaspò lui, guardandosi attorno come a cercare una via di fuga.
“Lo so, non è che con i bambini abbia un gran rapporto. Ma lui è nostro…” gli disse in tono incoraggiante.
“Ecco è… – era la prima volta che Vincent Falman andava nel panico più totale davanti a sua moglie – una cosa così improvvisa che non so cosa dire e… il problema è che…”
“Problema?” chiese lei incredula.
Si portò entrambe le mani sul ventre quasi a difendere il problema.
Ma perché? Perché dev’essere vissuto come un problema invece che come una gioia?
Lei lo desiderava tanto.
“Io sono tanto felice.” lo fissò con aria supplicante, una singola lacrima che le colava sulla guancia destra, come a chiedergli di non portarle via questo bellissimo sogno che era appena iniziato. Lo pregò di darle un segno, un qualcosa che le facesse capire che andava tutto bene.
Sei felice?
Ma lo sguardo dell’uomo continuava ad esprimere solo estremo panico: sembrava quasi di vedere nella sua mente immagini di lui circondato da decine e decine di neonati urlanti e sporchi senza sapere nemmeno da che parte cominciare. La paternità sembrava mandare in completa crisi Mister Rigidità Vincent Falman.
“Forse dovevamo pensarci e…”
“Pensarci?”
Rosie si alzò dalla sedia con un sospiro ed andò in camera matrimoniale, non riuscendo a sopportare quell’espressione impanicata che sembrava cercare un modo per tirarsi fuori dal problema.
Problema!
Si sdraiò supina nel letto, tenendosi una mano sul grembo e mettendo l’altra davanti agli occhi, a nascondere la luce del lampadario.
C’era rimasta male, inutile negarlo.
Insomma, aveva passato tutta la sera ad ipotizzare che, con molta probabilità, Vincent non sarebbe stato entusiasta come gli altri per quella notizia, ma non a simili livelli. Definire il bambino un problema, dire che ci avrebbero dovuto pensare… non era questo il tipo di reazione che si era aspettata.
In un piccolo angolo della sua mente aveva persino sperato, che fossero solo delle sue paure e che, alla bella notizia, Vincent la prendesse tra le braccia, la baciasse, le dicesse quanto era felice per quel figlio in arrivo…
Sono stata solo una sciocca. Però… come si può rifiutare in un simile modo una notizia così bella?
 
Passò almeno un’ora in quella posizione, tanto che alla fine si stava per appisolare, quando la porta si aprì e Vincent entrò andando a sdraiarsi accanto a lei.
“Ehi – la sua mano le accarezzò i capelli – piccolo fiore, stai dormendo?”
“No.” sospirò lei, levandosi la mano da davanti agli occhi, ma rifiutandosi di guardarlo.
“E così… aspettiamo un bambino.”
“Già.”
A quel punto fu troppo curiosa di vedere la sua reazione e girò il viso.
Lui la stava fissando con una strana forma di meraviglia, come se cercasse di accettare l’idea che dentro di lei c’era una piccola vita che cresceva.
“Il medico ha detto che sono al secondo mese avanzato – continuò  – dovrebbe nascere a gennaio. E’ stata la cannella… mia mamma quando era incinta di Daisy e me non riusciva a sopportarne l’odore… Daisy l’ha capito subito.”
“Capisco…”
“Ho passato tutta la giornata a mettermi la mano sulla pancia. Che stupida che sono, mi sono anche illusa di sentirlo più volte, anche se è chiaro che è ancora minuscolo e non posso sentirlo.”
Sentì che le lacrime stavano per ritornare: parlare di quelle sensazioni e di quelle emozioni le provocava un simile effetto. Girò il viso dall’altra parte: non voleva che lui la vedesse, terrorizzata dall’idea di spaventarlo ulteriormente.
“Rosie – Vincent la baciò sul braccio – Posso provare a sentire pure io?” chiese con dolcezza.
Lei si girò a guardarlo, incredula nel notare l’espressione dolce e calma che aveva assunto il suo viso, la stessa che avevano nei momenti di maggiore intimità e tenerezza. Annuendo spostò la mano dal ventre, lasciando che fosse quella del marito a posarsi su di esso.
Non disse niente, il suo tocco caldo e delicato, rimase così a sentire anche lui un bambino che ancora non poteva far avvertire la sua presenza.
“Sì che si può sentire – mormorò infine – è nostro figlio… e non vedo l’ora che nasca.”

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. 1880. Vato ***


Capitolo XII

1880. Vato

 

“Vedrai che Daisy starà per arrivare – sospirò Rosie avvolgendosi nella coperta e sedendosi nel divano, cercando di ignorare il fastidio provocato dalle caviglie gonfie – puoi anche uscire, tranquillo. Rischi di far tardi a lavoro.”
“E lasciarti sola con il bambino che può nascere da un momento all’altro?” chiese Vincent finendo di indossare il cappotto e guardando con aria nervosa la porta.
“Nevica da ieri, è normale che ci impieghi più del solito. Dai che sto benone e anche lui – si accarezzò il pancione con un dolce sorriso – vero piccolo? Sei al calduccio e tutto va bene.”
“Senti un po’ piccoletto – Vincent si inginocchiò e si accostò al pancione della moglie – se arriva tua zia Daisy e decidi di nascere in sua presenza, fai attenzione perché è molto pericolosa.”
“E dai…”
“Sicuramente ti dirà cose pessime su di me, su tuo padre, ma in realtà lei è solo una vipera.”
“Vincent!”
“Mi limito a metterlo in guardia… ah eccola! – diede un bacio alla moglie ed andò alla porta – Arrivo!”
“Scusate il ritardo – esclamò Daisy entrando e levandosi il berretto pieno di neve – Copriti bene tu che fuori fa un freddo cane, mi ci manca solo che ti raffreddi per complicare le cose. Ciao, piccolo fiore, come andiamo oggi?”
“Buongiorno anche a te – borbottò Vincent – allora l’indirizzo del medico è scritto qui e c’è anche segnato il percorso per arrivarci più in fretta, la roba necessaria per...”
“Sono le stesse identiche cose che mi dici da una settimana! – sbottò Daisy, finendo di levarsi il cappotto – credimi, ormai le so a memoria.”
“Meglio essere prudenti: bisogna essere pronti e preparati.”
“Non vorrai di nuovo proporre quell’assurda idea dell’esercitazione, spero.”
“Non è assurda: ci darebbe la giusta idea di… oh, lasciamo stare! Stasera torno prima del previsto.”
Rosie ridacchiò mentre il marito si affrettava ad uscire e Daisy gli lanciava un’ultima occhiata irritata. Solo quando la porta si fu chiusa rivolse un sorriso alla sorella e andò a sedersi accanto a lei, avvolgendosi in un’altra coperta che stava lì piegata.
“Poggiati pure a me – suggerì offrendole la spalla – Mettiti comoda: con quel pancione deve essere dura trovare una posizione decente, eh?”
“Direi che ci siamo quasi – Rosie si posò volentieri contro la donna, riuscendo trovare una sistemazione più comoda per la schiena – mi dispiace far venire a turno te e la mamma.”
“Ma che dici, sciocchina? Pensi che ti lasceremo sola in simili condizioni? Con questo tempo poi. No, no, per una volta tanto sono d’accordo con Mister Rigidità: deve sempre esserci qualcuno con te. E non ti preoccupare: in negozio tutto procede benone e Max se la cava splendidamente. Pensiamo a te, piuttosto: hai fatto colazione?”
“Non ancora – ammise lei, chiudendo gli occhi e avvolgendosi meglio nella coperta – Vincent ha bevuto il suo caffè, ma io avevo solo voglia di stare al caldo.”
“Ti preparo un the, allora. Anzi lo prenderò pure io: ho portato metà torta al limone che ho fatto ieri a casa. L’ho preservata dalle grinfie di Max.”
“La mia preferita… sorellona pensi proprio a tutto. Aspetta adesso mi alzo e prendo le…”
“Ferma dove sei – la bloccò – resta comoda, piccolo fiore, e lascia fare a me.”
Con un sospiro Rosie si arrese e lasciò che fosse Daisy ad occuparsi di tutto quanto: in quelle ultime due settimane, con l’approssimarsi del parto, le era proibito di compiere anche la più semplice faccenda domestica. Da un certo punto di vista le faceva piacere vedere tutta la sua famiglia che si occupava di lei, tuttavia quello stato di inattività ogni tanto era snervante.
Ma è anche vero che con questo pancione riuscirei a combinare ben poco.
Nell’ultimo mese era cresciuto veramente tanto e anche stare seduta le creava dei problemi.
Tutto sommato la gravidanza era stata molto tranquilla: verso il terzo mese le nausee erano scemate fino a sparire e la pancia aveva cominciato a crescere. Per tutti quei mesi il bambino non era stato irruento, tutt’altro: si era sempre limitato a qualche calcetto ogni tanto, come a ricordare a tutti la sua presenza, ma per il resto era stato estremamente tranquillo.
Secondo Vincent era la dimostrazione che era un bimbo estremamente disciplinato, una cosa che la faceva ridere ogni volta.
Dopo il primo impatto di incredulità e leggero spavento, l’uomo aveva preso in mano la situazione, accettando la paternità meglio del previsto: aveva trasformato la seconda camera, occupata fondamentalmente dai loro libri, mettendoci tutto il necessario per il bambino. Più di una volta Rosie si era soffermata a guardarlo mentre stava inginocchiato a terra a montare la culla o a sistemare qualcos’altro.
La paternità non calzava a Vincent Falman? Tutt’altro…
“Allora, piccolino – Daisy si accostò e mise una mano sul pancione – tutto bene?”
“Lui o lei sta benone – sorrise Rosie, posando la sua mano sopra quella della sorella – ma vedo che ormai siete tutti sicuri che sarà un maschio.”
“Già, probabilmente perché dopo l’esperienza di Ally, nessuno di noi riesce ad immaginare Mister Rigidità con una femminuccia.”
“Ma dai! Finiscila con questa storia, suvvia – ridacchiò la donna – però ormai mi sto abituando pure io all’idea che sia un maschio. Vato… mi piace tanto il nome che ha scelto Vincent.”
“Egocentrico, ovviamente: stessa iniziale.”
“Allora se è femmina il suo nome inizia con la mia iniziale… o con la tua?”
“Sì, così Mister Rigidità la disconosce, povera piccola. No dai, un nome con la “r” si trova.”
Rosie iniziò a riflettere su qualche possibilità, quando all’improvviso una fitta la obbligò ad alzarsi di scatto dalla posizione semisdraiata.
“Ouch!” protestò facendo quasi cadere la tazza di the.
“Che succede?” chiese Daisy prendendogliela di mano.
“Non lo so, non hai mai fatto così – annaspò lei, dopo qualche secondo, cercando di sedersi più dritta nel divano – oh, che disastro, deve aver premuto troppo e mi sono bagnata… che imbarazzo!”
“Ahah, tranquilla sorellina, è capitato anche ad Alyce ricordi? – ridacchiò Daisy aiutandola ad alzarsi in piedi – Eh… però mi sa che queste sono le tue acque, sai.”
“Eh?” Rosie spalancò gli occhi, girandosi a guardare il divano bagnato.
“Sì, cara, del resto è da un paio di giorni che ce l’aspettiamo no? E credo che quella che hai appena avuto sia stata una contrazione: sei entrata in travaglio.”
“Oh no – si impanicò subito lei, scoprendo di non essere assolutamente pronta – e adesso?”
“E adesso calma! – la bloccò Daisy, mettendole le mani sulle spalle – ora andiamo a farti sdraiare nel letto: tanto ci vorranno alcune ore prima che tu sia pronta per il parto. Nel frattempo io corro a chiamare il medico. Forza e coraggio, sorellina, non vedo l’ora di vedere il mio nipotino!”
 
“Coraggio, tesoro, stai andando benissimo!”
La voce di Daisy sembrava venire da molto lontano e sembrava prenderla in giro.
Come poteva dire che stava andando benissimo se era piegata in due dal dolore? E, come se non bastasse, la cosa andava avanti da quella che le sembrava un’eternità.
Come l’ennesima contrazione finì, Rosie ricadde tra i cuscini con il fiato corto, cercando di non pensare che nell’arco di un paio di minuti ne sarebbe arrivata un’altra sempre più forte.
Era una sensazione tremenda: ormai non aveva più il minimo controllo del suo corpo che si contorceva per quelle contrazioni così feroci, minacciando di cedere da un momento all’altro. Ma se da una parte lei pensava questo, dall’altra la natura continuava a fare il suo corso, ignorando il suo dolore e portando avanti uno dei più antichi riti del mondo.
La nuova contrazione arrivò prima del previsto e si dovette aggrappare con forza alla mano della sorella, emettendo un grido straziante.
“L’ultima contrazione è stata molto più forte delle altre, signora – disse il medico – ci siamo quasi. Le sta andando anche bene per essere il suo primo figlio: è in travaglio da appena quattro ore.”
“Fa maleeeeee!” gridò con tutte le sue forze.
“Dai, piccolo fiore, ci siamo quasi – Daisy l’aiutò a mettersi seduta per sistemare meglio i cuscini dietro di lei – sei così brava, sorellina, sono tanto fiera di te.”
“Vincent… dov’è? – pianse – Perché non è qui?”
“E’ a lavoro, cara, ma tornerà presto, l’ha promesso, no? Ma adesso devi pensare al piccolo, da brava.”
“Non ce la faccio! Sta facendo così male! – singhiozzò, stringendo la mano della donna – E se lo sto uccidendo?”
“Ma no, cara… il piccolo sta solo cercando di uscire, ma ci vuole del tempo.”
Rosie annuì, ma fu costretta di nuovo a serrare i denti per la nuova contrazione: era esausta, negli ultimi venti minuti erano sempre più ravvicinate e forti. Non poteva reggere ancora per molto, ne era certa.
“Ci siamo, inizio a vedere la testa.” l’annuncio del medico ebbe la capacità di farla entrare nel panico più totale.
“Cosa? Oh no! No, vi prego.. vi prego… Farà male!” ansimò disperata.
“Oh che emozione! Dai sorellina, un ultimo sforzo, coraggio!”
Ma Rosie non riuscì a sentire l’ultima parte della frase di Daisy.
Fu un dolore atroce quello che parve squarciarla in due: durò cinque interminabili secondi, ma poi ebbe la sensazione di qualcosa che scivolava fuori dal suo corpo con incredibile facilità.
“E’ un maschio, signora.”
Sentì quella frase a malapena, mentre si riadagiava sui cuscini stremata.
Ma poi ci fu quel primo forte vagito e tutto il suo dolore sparì.
“Rosie – la voce di sua sorella le fece aprire gli occhi – guardalo, è il tuo piccolino… è così bello…”
L’asciugamano che sua sorella teneva tra le braccia era imbrattato di sangue, ma da esso sporgeva una testolina arrossata e con una smorfia di disappunto per trovarsi in un mondo così freddo quando fino a poco prima era al caldo nel grembo materno. Una minuscola manina tremante artigliava l’aria, cercando il contatto con la madre.
“Vato… piccolo – sussurrò con un sorriso, allungando una mano per sfiorare quelle dita così minuscole e perfette – per favore… dammelo… ahu!”
“E’ la placenta, signora – la avvisò il medico, mentre una nuova debole contrazione faceva terminare il parto – adesso si distenda e si rilassi.”
“Il mio bambino – chiamò lei con urgenza, sentendolo piangere – Daisy…”
“Arriva, arriva – sorrise Daisy, mentre il medico si avvicinava con le forbici e tagliava il cordone ombelicale – gli leviamo tutto questo sangue di dosso e poi sarà tutto per te, piccolo fiore. Ed è il caso di sistemare anche te.”
Ma Rosie si diede pace solo quando, qualche minuto dopo, poté finalmente prendere il figlio tra le braccia, quando il mondo acquistò di colpo un nuovo significato.
 
“A me pare proprio bianco – commentò Daisy, allungando un dito per sfiorare perplessa i ciuffi del bambino – e poi guarda, quelli di sotto sono scuri. Ma come diamine ha i capelli?”
Ma Rosie nemmeno le ascoltava: teneva il neonato sul suo petto, la testolina che sporgeva dalla coperta che lo avvolgeva. Aveva il medesimo taglio di occhi di Vincent, non c’erano dubbi: in genere nei neonati bisogna aspettare qualche settimana per iniziare a vedere delle somiglianze coi genitori, ma in questo caso era palese.
E la guardava con aria così timida e perplessa, chiedendosi chi fosse quella persona che lo teneva stretto, regalandogli calore e protezione.
“Fiocco di neve – sussurrò, accarezzandogli la manina che usciva fuori dalla tutina azzurra – tu sei il mio piccolo fiocco di neve…”
Perché stava nevicando quella mattina e la neve aveva deciso di regalarle il suo fiocco più bello.
“Beh, è ben strano il pupo – ammise Daisy, seduta accanto a lei – ma è proprio dolce. Oh, ma guarda queste manine… ciao pasticcino, sono zia Daisy. Dannazione, non posso crederci che il padre è Mister Rigidità.”
A quell’ultima frase Rosie si riscosse e si concesse di ridacchiare.
Ormai era completamente rilassata, avvolta nelle coperte e con il bambino stretto a lei. Niente poteva andare meglio: i dolori del parto le sembravano un qualcosa di ormai lontano anche se, ad onor del vero, non riusciva a muoversi se non con estremo fastidio.
“Sicura che non vuoi che resti per la notte? – le chiese Daisy, seguendo il suo filo di pensieri – potresti aver bisogno di una mano femminile.”
“No, tranquilla – sorrise, accarezzando con l’indice la tempia del bambino – hai visto pure tu come è tranquillo e buono e poi Vincent sarà sicuramente pronto a qualsiasi evenienza.”
“A proposito di Mister Rigidità pare che l’abbiamo evocato – rise Daisy, sentendo la porta aprirsi – Adesso lo avviso io.”
 
Vincent chiuse la porta alle sue spalle e si levò il cappotto umido per la neve.
Aveva passato tutta la giornata in ufficio, un bene considerato che eventuali missioni sotto la neve non sarebbero state che un inutile accumulo di freddo. Eppure gli procurava una grande insofferenza essere bloccato su inutili pratiche quando sarebbe dovuto stare accanto a sua moglie.
Per fortuna era riuscito a finire anche prima del previsto e…
“Ah! Ci degniamo di tornare, finalmente!”
Daisy comparve dal corridoio e si piantò davanti a lui, le mani sui fianchi.
“Anche prima del previsto – la squadrò Vincent, con aria seccata – scusami tanto se ti ho fatto attendere, fatina del veleno, adesso puoi tornare a casa da Max. Alla cena ci penso io… Rosie come sta?”
“E’ a letto, certamente non pretendevi che rimanesse alzata ad attenderti…”
“Non ho mai detto…”
“… ad attenderti dopo che ha partorito!”
A quella frase quasi strillata, Vincent rimase impietrito.
Daisy fu così estasiata di quella reazione che si mise a saltellare sul posto come una bambina. Poi,  l’emozione della giornata tornava prepotentemente, corse da lui e gli strinse le braccia al collo.
“E’ nato?” riuscì a balbettare Vincent, restituendo incredibilmente quell’abbraccio.
“Certo che è nato, papà! E’ un maschietto ed è bellissimo! – Daisy non la smetteva di ridere – Oggi ti voglio un mondo di bene Vincent Falman, non te ne puoi nemmeno rendere conto!”
 “Un maschio?  E Rosie come sta? E il piccolo? E…”
“E niente – lo zittì lei, sciogliendosi dalla presa e andando a prendere il proprio cappotto – adesso che sei tornato è giusto che restiate soli. Io vado a dare la bella notizia a tutti quanti! Congratulazioni, cognato.”
Fu un commiato così rapido ed inaspettato, senza contare che seguiva quell’improvvisa notizia della nascita del bambino, che Vincent rimase qualche secondo interdetto come la porta venne chiusa alle sue spalle.
Una volta che l’uragano Daisy fu terminato si dovette fare forza per accettare l’idea che nella stanza a pochi metri di distanza da lui c’era sua moglie con suo figlio.
Gli sembrava impossibile che adesso non c’era più un pancione, ma un bambino.
Con un sospiro si avviò a passi lenti nel corridoio e con tutta la delicatezza possibile, quasi avesse paura di disturbare, aprì la porta della stanza matrimoniale.
La prima cosa che lo colpì fu l’odore: non di sangue o di sudore, come ci si potrebbe aspettare dopo un parto, ma qualcosa di molto simile al latte caldo. Era come entrare in un piccolo mondo ovattato e tiepido dove a farla da regina era Rosie, seduta al centro del letto, tutti i cuscini a sostenerla.
E lo guardava, con i suoi teneri e bellissimi occhi neri, invitandolo ad avvicinarsi a lei e al fagottino avvolto in una copertina verde che teneva tra le braccia.
“Vincent – mormorò, infine – è… è così bello.”
L’uomo si accostò al letto, mantenendo lo sguardo su di lei che, nonostante fosse sfinita, non gli era mai apparsa così bella come in quel momento. Le si sedette accanto e, dopo una lieve esitazione, la baciò sulle guance, sulla fronte, sulle labbra.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma appena aprì bocca un piccolo richiamo di sorpresa si fece sentire dalla copertina.
“Lui è Vato – sorrise Rosie – il nostro bambino. Si è appena svegliato.”
Vincent finalmente abbassò lo sguardo sul neonato che lo fissava con occhi identici ai suoi, estremamente incuriosito dalla presenza di quella nuova persona. Padre e figlio si scrutarono per diversi secondi, indecisi su cosa fare, fino a quando il bambino ruppe il ghiaccio con un piccolo vagito, mentre una manina sbucava fuori dalla copertina per andare a posarsi sul petto di Rosie.
“Lo vuoi prendere in braccio?” propose la donna, accarezzando il braccino del bimbo.
“Si metterà a piangere – mormorò, allungando una mano per sfiorare la piccola guancia rosata – lo sai che va sempre a finire così.”
Però come finì la frase tese le braccia e prese con goffaggine quel fagottino di circa due chili e mezza che si dimenò leggermente, contrariato di aver lasciato la comoda posizione sopra il petto della mamma. Ma dopo qualche secondo si acquietò, scoprendo che anche quell’altra persona lo faceva sentire protetto e al sicuro.
“Oh, ma che sorpresa – sorrise Rosie, approfittando di quella piccola libertà per sedersi meglio – non piange. E come potrebbe in braccio al suo papà?”
“Vato – Vincent mormorò quel nome con reverenza e amore – Vato Falman… mio figlio.”
“E’ meraviglioso.” sospirò lei, posandosi al suo fianco e osservando con infinito amore il bambino.
“Sono padre… Rosie… siamo genitori.” c’era una grande commozione nella sua voce.
“E’ il nostro fiocco di neve.”
“Fiocco di neve? Perché lo… oh, i suoi capelli…”
“Eh già, secondo me sono proprio bianchi, ma sono così morbidi e setosi.”
“Uh, ma sotto sono più scuri…neri oserei dire, è… normale?” ma sorrideva mentre lo diceva, per niente preoccupato di quella particolarità cromatica dei capelli del figlio.
“Per me va benissimo. Del resto lui è nato con tutta questa neve. Oh, ma guardalo, si sta addormentando…”
“Allora è meglio che lo faccia tra le braccia della mamma – sussurrò lui, passandoglielo con gentilezza – i miei due tesori più preziosi.”
“Il mio fiocco di neve… il mio dolcissimo fiocco di neve.”
Non poteva chiedere altro dalla vita, andava tutto a meraviglia così.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. 1880. L'anarchico di famiglia. ***


Capitolo XIII

1880. L'anarchico di famiglia

 

Al pianto del bambino Vincent aprì gli occhi, emettendo un lieve lamento nel scoprire che era ancora buio pesto. Senza girarsi sentì dei movimenti nel letto e capì che Rosie si stava alzando per andare verso la culla che stava dalla sua parte.
“Che hai fiocco di neve? – la sentì sussurrare – Hai fame? Adesso ci pensa la mamma.”
Ancora dei movimenti, i lamenti del bambino che diventavano più flebili fino a tacere del tutto.
Solo a quel punto Vincent allungò una mano per accendere la piccola lampada che stava nel comodino e si girò a guardare Rosie, seduta nel bordo del letto, intenta ad allattare Vato.
“Scusa, amore – mormorò lei, chiudendo gli occhi – ti abbiamo svegliato.”
“Fa niente – sbadigliò l’uomo, mettendosi a sedere ed avvicinandosi alla moglie – ma tu non devi stare così al freddo in camicia da notte.”
Allungò una mano ai piedi del letto, dove stava una coperta di riserva piegata e la drappeggiò attorno a loro, provvedendo poi ad abbracciare la vita di Rosie e stringerla a sé. I suoi occhi si posarono quindi sul bambino che mangiava tranquillo, la manina sinistra posata sul seno della madre.
“Sono le quattro di notte, amore – constatò Rosie – tra nemmeno tre ore ti devi alzare. Riposati ancora.”
“Tranquilla.” la sua mano provvide a sistemare meglio la copertina che avvolgeva Vato, coprendo una gambetta che era scivolata fuori.
Il piccolo aveva quasi tre mesi, ma a Vincent sembrava che fosse con loro da una vita intera: le giornate di Rosie ruotavano intorno a lui tra poppate e cambi di pannolino. Ma era un bimbo estremamente tranquillo: piangeva solo per effettive necessità come mangiare o essere cambiato.
Fisicamente aveva poco della madre: si capiva benissimo che crescendo sarebbe diventato identico a Vincent. In quei tre mesi era cresciuto soprattutto in altezza, tanto che molte tutine ormai non gli andavano più.
“Questo pomeriggio ha avuto qualche piccola colica – sospirò Rosie, accarezzando la guancia del bambino che alzò lo sguardo su di lei, perdendo la presa sul seno: subito tossì ed emise una lieve protesta – sssh, cucciolo, tranquillo ecco, va tutto bene. Speriamo che sia un caso isolato, è così buono.”
“Oh, dai che andrà bene – la rassicurò Vincent – per ora mangia ogni cinque ore e poi fondamentalmente dorme. E’ un bimbo disciplinato il nostro.”
“Quanto orgoglio in questa dichiarazione, Vincent Falman – lo prese in giro Rosie – non vorrai dargli una medaglia al merito, spero.”
“Non ancora – sorrise lui, mentre la moglie faceva sedere il piccolo in grembo e gli dava piccole pacche sulla schiena per fargli fare il ruttino – uh, salute figliolo. Adesso che farai? Ti riaddormenterai subito, vero? Vuoi venire in braccio a me?”
“Sì, ma piano – sussurrò Rosie, passandoglielo – se lo tieni contro la spalla va meglio, ha appena mangiato e tenerlo subito sdraiato può dargli fastidio.”
Ma per quanto Vincent sembrasse negato per i bambini, almeno a guardarlo con la nipotina in braccio, con il figlio ci sapeva davvero fare. Con lui Vato aveva un’affinità del tutto particolare: appena posava la testolina bicolore sulla spalla paterna, chiudeva gli occhi e si rilassava del tutto.
Rosie osservò con amore il marito che accarezzava delicatamente la piccola schiena, inducendo il bambino ad addormentarsi: c’era una particolare magia nel vederlo compiere un gesto così spontaneo eppure carico di meraviglia ogni volta che veniva fatto.
A volte stento a credere che siamo davvero genitori.
 
Anche se Rosie lo prendeva come uno scherzo, Vincent andava particolarmente fiero della tranquillità di Vato. Gli piaceva considerare come alla sua età la figlia di Alyce fosse tutt’altro che silenziosa, anzi pronta a piangere e strillare per la minima cosa.
“Non per niente è mio figlio – dichiarò con soddisfazione circa una settimana dopo, mentre lui e Rosie si mettevano a letto – con tutto il rispetto per Ally, ma Vato è una vera roccia!”
Proprio in quel momento la roccia fece un verso strano ed iniziò a strillare.
“Ma se si era appena addormentato – Rosie corse subito a controllare – oh no, amore, hai rigettato tutto il latte. No, no… non piangere.”
Fu così che la roccia iniziò a creare i primi problemi ad i suoi genitori che, per tre mesi, avevano avuto la fortuna di godersi un neonato particolarmente sereno. Ad aggiungere la beffa al danno, questo scoppio ritardato delle coliche fece sì che si manifestassero in maniera particolarmente violenta.
Nell’arco di un paio di giorni la vita quotidiana della famiglia Falman venne sconvolta da sveglie improvvise durante la notte e da crisi ripetute durante il giorno.
“Il medico dice che è una fase – sospirò Rosie, prendendo in braccio il bambino e cullandolo – passerà da sola.”
Ma una simile frase detta alle tre del mattino dopo che nemmeno mezz’ora prima c’era stata un’altra sveglia, sapeva quasi di presa in giro. Vincent fissò il bambino che strillava in braccio alla donna e per qualche secondo ebbe la netta sensazione che lo stesse facendo per il puro gusto di tenere sveglio suo padre, in barba al fatto che lui alle otto e venti doveva essere a lavoro.
Con un sospiro si alzò dal letto e andò accanto alla moglie, tendendo le mani per prendere in braccio il piccolo disturbatore della quiete.
“Piano – suggerì lei – altrimenti rigetta e… Vincent!”
“Senti, ragazzino – l’uomo lo sollevò eretto, tenendolo sotto le braccia, in modo che fossero faccia a faccia – mamma e papà devono dormire almeno un paio di ore filate, capisci? Ci sono orari da rispettare e di notte si fa la nanna, a meno che tu non debba mangiare o essere cambiato, ma per il resto…”
La filippica sugli orari da rispettare venne interrotta da un inevitabile rigetto che andò dritto sul viso dell’oratore e su buona parte del suo pigiama.
“Amore… – Rosie fu rapida a recuperare Vato e a portarlo verso il bagno per cambiare la tutina sporca – senti, perché non prendi cuscino e coperta e vai a dormire nel divano?”
“Sfrattato da camera mia? – l’uomo la seguì, levandosi con fastidio la casacca del pigiama sporca e aprendo il rubinetto per lavarsi la faccia – Non ho intenzione di cedere in questa battaglia… specie se è contro un marmocchio di tre mesi. Se iniziamo a dargliela vinta adesso…”
“Vincent – Rosie, china sul fasciatoio, lo guardò con aria perplessa – non sta facendo i capricci, ha le coliche. E’ il primo a non esserne felice.”
Con un brontolio il poliziotto fissò il suo rampollo che, vestito solo col pannolino, emetteva singhiozzi congestionati. Immediatamente Rosie riprese a dedicargli tutta l’attenzione possibile, cantandogli una ninnananna e provvedendo a mettergli una tutina pulita.
“Mi sistemo nel divano…” borbottò sconfitto.
Ma non finisce qui, piccolo anarchico.
 
In conseguenza a quel piccolo incidente notturno, Vincent iniziò a dormire nel divano.
Inizialmente la prese come un provvedimento temporaneo, della durata di massimo due giorni, ma le aspettative non vennero rispettate. Quella sistemazione non gli piaceva assolutamente, non solo per la scomodità, ma anche perché si sentiva in qualche modo usurpato nel suo posto di diritto nel letto matrimoniale.
Ma che altro si poteva fare?
Un conto era essere svegliato due, massimo tre volte a notte e sempre con intervalli di diverse ore tra un pianto e l’altro (pianti che, per la sola fame, duravano il tempo che Rosie iniziasse ad allattare il figlio), un altro era sentire quei vagiti di continuo, senza possibilità di dormire per un intervallo di tempo decente.
E così, dato che a lavoro doveva essere un minimo efficiente, Vincent si adatto alle regole dell’anarchico di casa.
“Povero piccolo – commentò Alan, un giorno che lui e Vincent si erano incontrati in mensa per pranzo – le coliche sono tra i disturbi più fastidiosi per un neonato. Entrambi i figli di mia sorella ne hanno sofferto.”
“Povero piccolo? – Vincent fece una smorfia di disappunto – e cosa dovremmo dire dei poveri genitori? Io sono costretto a dormire nel divano se voglio fare almeno quattro ore filate di sonno. Sempre che quell'anarchico non strilli così forte da svegliarmi.”
“Anarchico? – Alan ridacchio – Suvvia, Vin, non te la prendere troppo con lui. E poi è solo una fase, in genere passa in fretta…”
“E’ quasi un mese che va avanti questa storia.”
“Ah. Beh, si vede che ha una forma di coliche piuttosto resistente.”
“E non hai idea della resistenza dei suoi polmoni. Se ci sfrattano dal palazzo per rumori molesti non potrò che dare ragione ai vicini.”
Alan ridacchiò: vedere il grande Vincent Falman in quelle condizioni di papà in crisi era abbastanza divertente. Per i primissimi mesi si era tanto vantato della disciplina del neonato che a volte aveva rasentato persino il ridicolo: tutto sommato vederlo ridimensionato per delle coliche infantili non era male.
Ma non poteva immaginare quanto la situazione fosse critica a casa Falman.
 
Vato dormiva al centro del letto matrimoniale: aveva la testolina girata di lato, il ciuccio in bocca, e sembrava finalmente rilassato. Il respiro meno congestionato, in via di normalizzazione, testimoniava che almeno per un’oretta non ci sarebbero stati problemi.
Con un sospiro Rosie sistemò meglio la copertina sopra il figlio e si sdraiò accanto a lui, accarezzandogli il palmo della mano. Di riflesso le piccole dita si chiusero sull’indice della donna, un gesto che come sempre la riempì di meraviglia. Quant’era bello il suo piccolo, ora che dormiva sereno ancora di più.
“Fiocco di neve – sussurrò, guardando una ciocca di capelli candidi che scendeva sulla fronte in seguito ad un piccolo movimento – per quanto darai tregua alla mamma questa volta, eh?”
Perché tanto lo sapeva che era solo questione di tempo: ormai l’esperienza le diceva che nell’arco di massimo due ore il bambino avrebbe ripreso a strillare in preda ai dolori. Notte, giorno… ormai queste erano banali differenze nella vita di Rosie Falman: voleva dire solo accendere la luce o meno, il pianto di Vato era sempre lo stesso.
I suoi pensieri vennero interrotti da qualcuno che bussava alla porta.
Si ricordò improvvisamente che Daisy aveva promesso di passare dato che era il suo giorno libero. Con angoscia spostò lo sguardo su Vato, supplicando che non si svegliasse per quel rumore e con tutta la cautela possibile si alzò dal letto e corse ad aprire la porta.
“Ehilà, è arrivata la zia Da…uhmpf!”
Rosie tappò la bocca della sorella non appena aprì la porta.
“Si è addormentato da due minuti… sveglialo e ti giuro che avrò una crisi isterica!” bisbigliò con sguardo omicida, ulteriormente inasprito dalle occhiaie evidenti.
Le due sorelle si guardarono per qualche secondo e poi Rosie sospirò con disperazione, posando la testa sulla spalla di Daisy che ancora stava ferma sulla soglia.
“Uh – mormorò la maggiore – a quanto vedo siamo in piena crisi, vero?”
Effettivamente se Vincent risentiva di quelle notti di pianti e coliche, Rosie ne era letteralmente distrutta: la sua vita ormai era ridotta a tenere d’occhio Vato nel terrore che si risvegliasse in preda ad un nuovo attacco. Oltre la stanchezza, a farla da padrone era il suo senso materno che soffriva all’idea di non poter fare niente per far passare quei fastidiosi dolori. Le aveva tentate tutte: massaggi allo stomaco, camomille, e quanto altro le avevano suggerito sua madre od il medico, ma sembrava che solo il tempo potesse far passare quella fase.
“Il periodo di anarchia, come lo chiama Vincent, prosegue senza soluzione di continuità.”
“Anarchia?  Bah! Figurati se Mister Rigidità non trovava qualche termine originale e militare – sbuffò Daisy entrando con delle grosse buste – ti ho portato un po’ di scorte, sorellina. Lo so che è un momento particolarmente stressante per te.”
“Grazie – iniziò ad aiutarla a mettere la roba sul tavolo – la sola idea di uscire mi deprime e guardandomi allo specchio mi spavento… ho delle occhiaie da paura.”
“Dovresti far fare qualche notte a tuo marito – le consigliò Daisy – almeno recuperi un poco di sonno. Diamine, Vato è anche suo figlio.”
Rosie scosse il capo con ostinazione: se doveva essere sincera non voleva che Vincent si occupasse del bambino in quelle condizioni. Quella scena madre conclusasi con un rigetto mastodontico in faccia l’aveva profondamente turbata: non che Vincent avesse maltrattato il piccolo, assolutamente. Ma gli era mancata quella delicatezza che era invece necessaria.
L’idea di Vato di nuovo tenuto in quella scomoda presa, con Vincent che gli diceva quali erano gli orari vietati per gli schiamazzi era allo stesso tempo disarmante e preoccupante.
Dentro di sé, Rosie aveva deciso di evitare al minimo i contatti padre e figlio, almeno fino a quando quella fase non fosse passata e tutti loro avessero recuperato un minimo di sonno.
“Senti, domani è il suo giorno libero – insistette Daisy – perché non lo fai diventare anche il tuo giorno libero, eh? Ti metti nel divano e dormi e Mister Rigidità si occupa di Vato.”
“Quanto potrebbe succedere mi terrorizza…”
“Pensi che lo arresterebbe per disturbo della quiete pubblica?”
“No, però…”
“Suvvia, piccolo fiore, e prenditi un attimo di tregua.”
 
Tregua…
Un paio di ore di tregua: sembravano un sogno.
E quella sera a cena Rosie capì di averne veramente bisogno.
“Che è quella faccia? – chiese dopo che il marito ebbe messo in bocca la prima cucchiaiata di stufato – Non ti piace?”
“Zucchero…”  fece una smorfia lui, affrettandosi a versarsi un bicchiere d’acqua.
“Eh?” lei guardò incredula il suo piatto e assaggiò a sua volta.
“Zucchero al posto del sale.” Vincent confermò la sua tesi provando un secondo cucchiaio, ma poi scosse il capo con rassegnazione e allontanò il piatto da sé.
“Non me ne sono nemmeno resa conto – spiegò lei, allontanando il piatto a sua volta – dammi tre minuti e arrangio qualcos’altro per cena e…”
Il pianto di Vato interruppe qualsiasi buona intenzione.
Rosie a quel punto crollò definitivamente e scoppiò in lacrime, nascondendo il viso tra le mani: sentiva di essere un fallimento come cuoca, come madre, come moglie… e soprattutto era esausta e distrutta.
“Arrivo, Vato…” singhiozzò, dopo qualche secondo, cercando di alzarsi in piedi.
Ma la mano di Vincent la bloccò.
“No, tu ora ti siedi e ti calmi, vado io da lui.”
“Cosa? – il panico si impossessò della donna – No, no! Vado io, tu non sei capace!”
“Che?”
“Non sei capace, ti vomiterà di nuovo addosso se lo prendi come l’altra volta.” si alzò in piedi, liberandosi di quella stretta
“Non lo prendo come l’altra volta, tranquilla.”
“Vincent, ti prego – singhiozzò lei, in preda a quella famosa crisi isterica di cui aveva parlato a Daisy – ha bisogno di me!”
“Ehi! – lui si era alzato in piedi a sua volta e l’aveva presa per le spalle – Rosie! Calmati adesso!”
La scrollò lievemente e lei si riscosse, rendendosi conto che ormai era arrivata veramente al limite: era questo il risultato di aver dormito pochissime ore nell’ultima settimana, dell’essere imprigionata da quell’esserino piangente… che continuava a strillare, invocando la presenza di un adulto.
“Ti prego, fallo smettere!” sussurrò, mettendosi le mani nelle orecchie.
“Siediti nel divano – le consigliò lui, accompagnandola – e lascia fare a me.”
 
Vincent Falman aveva compiuto diverse missioni nei suoi anni da poliziotto.
Sapeva tenere i nervi saldi ed era una dote che tutti quanti apprezzavano: negli ultimi tempi diverse squadre avevano richiesto il suo intervento per situazioni veramente difficili.
“Non sarai tu, piccolo anarchico, a mettermi in difficoltà.” dichiarò, entrando in camera e chiudendo la porta alle sue spalle.
Si diresse a grandi passi verso la culla, dove Vato si dimenava e strillava a pieni polmoni.
Liberandolo dalla copertina lo prese in braccio e, memore dell’altra volta, evitò la scomoda presa che lo lasciava penzoloni e lo posò sul suo petto, la testolina bicolore contro la sua spalla.
“Possiamo parlarne? – chiese, iniziando a passeggiare avanti ed indietro per la stanza – Questo tuo regno del terrore deve finire una volta per tutte, Vato Falman, ti rendi conto che stai ammazzando tua madre? E anche me, sebbene più lentamente… vuoi essere accusato di omicidio aggravato dalla parentela stretta a nemmeno quattro mesi?”
E sembrava che le intenzioni del bambino fossero quelle dato che continuava a strillare come un ossesso.
Visto che il passeggiare per la stanza non sembrava avere alcun effetto, il sottotenente si sedette sul letto e si mise il bimbo seduto sulle ginocchia.
“Dannazione, se devi rigettarlo, fallo! – disse, dandogli dei piccoli colpetti sulla schiena – hai il bavaglino apposta per questo, coraggio…”
L’effetto fu quasi immediato, ma non era quella la parte difficile: la questione stava nel calmarlo. Adesso che era anche libero dal fastidioso peso allo stomaco, il piccolo anarchico era ancora più pronto a far sentire la sua voce di protesta per quel momento critico.
“Eh no, non ti permetterò di prendere quest’andazzo, signorino – Vincent lo liberò dal bavaglino sporco e  lo tenne seduto, facendogli volgere con ferma dolcezza il visino piangente verso di lui – se avevi bisogno di rigurgitare bene, ma adesso è finita ed è il momento di calmarti.”
Vato quasi si capovolse nell’emettere uno strillo più acuto e fu solo la presa del padre che evitò il primo capitombolo della sua vita.
“Ci sono delle regole in casa, Vato Falman, e tu devi imparare a rispettale – continuò Vincent, impassibile, cercando di convincere anche se stesso che era il momento di porre fine all’anarchia – anche se hai quattro mesi sono sicuro che puoi capire. E guardami quando ti parlo.”
Ovviamente Vato non era molto disponibile a collaborare: a lui piaceva la voce dolce della mamma che lo cullava e lo faceva stare meglio dopo il brutto dolore della colica. Gli piaceva sentire la sua mano amorevole che gli accarezzava il pancino e la guancia, asciugandogli le lacrime. Quella voce ferma e severa e quella mancanza di coccole proprio non andavano bene.
Ma se testardo era il figlio, più testardo era il padre e, oggettivamente, Vincent aveva dalla sua un’età ed una resistenza maggiori. E se aveva deciso che suo figlio di quattro mesi poteva capire ed obbedire, allora così doveva andare.
“Sai che cos’è il disturbo della quiete pubblica? E’ quello che stai facendo tu distruggendo il sonno di tutti noi con i tuoi strilli. Ci sono delle leggi, delle norme da rispettare… codice civile, ragazzino, e una sua piccola forma si applica anche in questa casa…”
 
Rosie emise un ultimo lieve singhiozzo e poi trovò la forza di alzarsi dal divano e di andare in bagno a lavarsi il viso. Il contatto con l’acqua fresca la aiutò a recuperare la calma, tanto che rimase diverso tempo con il viso sotto il getto del rubinetto.
Risistemandosi i capelli decise di andare a vedere cosa stava succedendo in camera da letto.
Il pianto di Vato non si sentiva più e questo voleva dire che Vincent era riuscito nel suo intento… oppure era accaduto il peggio.
“Amore?” bisbigliò, socchiudendo la porta con l’intenzione di dare solo una sbirciatina.
“Articolo 14, comma tre: in caso di reato, il poliziotto è autorizzato ad intervenire e a far valere la propria autorità sopra i civili, rispettandone tuttavia i diritti. E’ suo dovere… suo dovere addormentarsi – la voce di Vincent si abbassò sensibilmente – proprio in questo modo. Bene, benissimo… piccolo anarchico di papà.”
“Articolo… comma?” Rosie entrò e fissò con meraviglia l’uomo che si alzava dal letto e andava a rimettere il bambino nella culla.
“Beh, come ho iniziato a parlargli di regole si è calmato ed ha iniziato ad ascoltarmi.” spiegò lui, recuperando il ciuccio e mettendolo in bocca al piccolo.
Ad ascoltarti?”
“Se vuoi ti presto il codice civile per leggerglielo quando piange di nuovo.”
La proposta fu così seria che Rosie scoppiò a ridere e dovette correre via dalla stanza per evitare di svegliare Vato.
Quando Vincent la raggiunse in salone lei si stava asciugando le lacrime con il grembiule.
“Codice civile!”
“Che c’è da ridere?”
“Niente… niente! E’ proprio tuo figlio, amore!”

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. 1882. Piccoli Falman crescono ***


Capitolo XIV

1882. Piccoli Falman crescono.

 

“Mestolo!”
“Che? – Rosie si girò di scatto e vide che Vato stava con l’indice puntato verso l’oggetto che teneva in mano – Oh, sì, amore, il mestolo.”
Il bambino sorrise soddisfatto e batté le manine. Orgoglioso del nuovo termine aggiunto al suo vocabolario e vedendo che la mamma approvava, iniziò a fare il suo gioco preferito: si mise ad indicare tutti gli oggetti presenti nella stanza dicendo per ciascuno il nome corretto.
“Sedia! Tavolo! Piatto…”
Rosie ridacchiò nel sentire la vocetta squillante riempire la stanza e tornò a prestare attenzione alla minestra che stava finendo di riscaldare: Vato era tranquillo nel seggiolone ed il suo passatempo lo poteva tenere impegnato per decine e decine di minuti.
A quasi tre anni le parole conosciute da un bambino aumentano di giorno in giorno, ma lei era convinta che suo figlio avesse una rapidità d’apprendimento fuori dal comune. Era quasi ossessionato dal voler conoscere il nome di tutte le cose che lo circondavano: passava le sue giornate in giro per la casa, nominando i vari oggetti e indicandoli con la manina.
E poi era estremamente attento agli errori, una cosa che Rosie aveva notato diverse volte: quando imparava una parola difficile si volgeva verso di lei, quasi a chiederle conferma che la stesse pronunciando nel modo corretto. Se era sbagliata lei gliela ripeteva con lentezza, scandendo bene le sillabe: allora il piccolo assumeva un’aria estremamente concentrata e poi passava i minuti successivi a ripeterla decine e decine di volte, tanto da sembrare un disco rotto.
“Allora, cucciolo, hai fame? – chiese la donna versando la minestra nella scodella e andando a sedersi accanto al seggiolone – La mamma ti ha preparato la minestrina.”
“Minestrina! – annuì lui con convinzione, la pronuncia della “erre” ormai perfetta – Prima bavaglino, Vato non si sporca!”
“Oh, ma che bravo, te lo ricordi – ridacchiò lei sistemandoglielo attorno al collo – eh sì, sei proprio un fiocco di neve attento e ordinato: non vogliamo certo sporcarci la magliettina, vero?”
“Vato pulito.”
“Ma certo, e adesso apri la bocca e mangia… lo vedi che è uno scoiattolo che vuole andare nella tana?”
“No, è cucchiaio! Scoiattolo – si interruppe mentre mandava già la prima cucchiaiata – scoiattolo è in libro di Vato, con animaletti del bosco.” disse questa frase con estrema serietà, come se non potesse credere che la madre sbagliasse una cosa così semplice.
“Scusa, hai proprio ragione: lo scoiattolo sta con gli altri animaletti nel tuo libro. Questo è il cucchiaio per mangiare la minestra.”
“Cucchiaio è per minestra e omo… omog – si impappinò in quella parola lunga, tanto che batté la mano con impazienza nel seggiolone – omogeiz… mamma, aiutami.”
“O – mog – ge – neiz –za – to.”
“… omogeneizzato… omo… mh!”
“Sì, amore mio, ma non dimenticare di mangiare, altrimenti la minestra si fredda.”
Richiamato all’ordine, il bambino riprese a farsi imboccare con docilità. La minestra di verdure non era certo un piatto che lo faceva impazzire e ogni tanto faceva una piccola smorfia nell’incontrare qualche pezzetto di ortaggio, tuttavia non si mise a fare i capricci.
Alla fine era proprio come aveva detto Vincent: il loro era un bambino estremamente disciplinato.
Probabilmente quella vecchia storia delle coliche, assieme alle altre volte che era stato malato, era il peggio che Vato avesse mai osato fare: raramente era capriccioso o esagitato, tutt’altro.  Al contrario di altri bambini, molto più indipendenti ed intraprendenti, lui tendeva a cercare la conferma degli adulti prima di fare qualcosa di nuovo, come toccare un oggetto a lui sconosciuto.
Questo accadeva soprattutto con il padre: bastava un no con voce appena severa e lui abbandonava qualsiasi proposito di fare quella cosa proibita.
“Mamma, ora leggi libro?” chiese Vato, come ebbe finito di mangiare tutta la sua minestrina e Rosie gli asciugò il mento col bavaglino.
“Adesso devi mangiare la frutta, amore – gli spiegò la donna, andando a posare il piatto vuoto nel lavandino e prendendone un altro con i pezzetti di mela già tagliati e sbucciati – e poi devi fare il sonnellino.”
A quella rivelazione il bambino mise il broncio: l’idea di dormire, quando invece poteva stare in braccio alla mamma e ascoltare le belle favole, non gli piaceva per niente.
“Sonnellino, mh…” mormorò finendo di mangiando il primo pezzetto di mela che Rosie gli dava.
“Oh, suvvia – lo consolò lei – per farti addormentare la mamma ti canta la canzoncina della stellina bianca, quella che ti piace tanto.”
Già quella concessione parve far tornare il buonumore al bambino, ma Rosie decise di rincarare la dose e lo guardò con aria cospiratoria.
“E poi devi essere ben riposato dato che questo pomeriggio usciamo. E indovina dove ti porta la mamma?”
“Al parco?” sorrise lui, inclinando la testolina bicolore.
“No – lei lo prese in braccio, liberando le gambette dal seggiolone: se continuava a crescere in altezza ben presto si sarebbe potuto sistemare tranquillamente sulla sedia, magari con l’aiuto di qualche cuscino – andiamo a trovare una persona, in un posto dove ci sono tanti e tanti dolci… effettivamente si starà chiedendo come mai il suo pasticcino non passa a trovarla da qualche giorno e…”
“Zia Dedè! Zia Dedè!” a quella rivelazione Vato impazzì letteralmente di gioia.
Iniziò a battere le mani e a sgambettare, mettendo in lieve difficoltà la madre che dovette rinsaldare la presa su di lui con una risata. Perché zia Dedè (per quanto sapesse dire Daisy per la zia aveva sempre preferito il primo nomignolo che era riuscito a pronunciare) era per Vato qualcosa di magico e meraviglioso. Era la zia che lo faceva sempre ridere, giocare, in una maniera del tutto esuberante, così diversa dai genitori. E poi con zia Dedè c’erano i nonni e lo zio Max: anche lui era una grande fonte di divertimento. A volte lo prendeva e faceva finta di gettarlo nell’impasto dei dolci o nei sacchi di farina. Stare con loro era decisamente meglio di andare al parco o in qualsiasi altro posto.
“Sì, da zia Daisy – sorrise Rosie, portandolo in camera sua e facendolo sdraiare nel lettino – e stiamo lì fino a sera: papà viene a prenderci e torniamo a casa assieme, sei contento?”
“Papà tiene Vato in braccio?”
“Sono sicura che se glielo chiediamo per favore lo farà. Adesso però chiudi gli occhi e dormi, amore mio, da bravo.”
 
Come sempre, come mise piede in negozio, Vato si strinse con timidezza alla gonna della madre: la presenza di così tanti estranei lo metteva spesso in difficoltà e lo faceva chiudere malamente in se stesso.
“Buonasera a tutti – salutò Rosie, venendo riconosciuta e salutata da diversi clienti – da bravo, amore, saluta pure tu.”
Il piccolo alzò lo sguardo su di lei con aria supplicante, ma poi si arrischiò a girarsi verso la sala e a biascicare un ciao a malapena udibile: immediatamente serrò le mani con ancora più forza sulla gonna materna e arrossì vistosamente.
“Oh! E’ arrivato il mio pasticcino!”
Daisy comparve dalla cucina e si affrettò ad andare verso la sorella ed il bambino.
La sua voce fece avvenire la metamorfosi più completa: Vato perse qualsiasi timidezza e iniziò a correre verso di lei, le braccia protese per farsi prendere in braccio.
“Zia Dedè! Zia Dedè!” esclamò gioioso, rischiando di sbattere contro diverse persone sedute.
“Ciao, tesoro! – lo prese tra le braccia e lo sollevò di scatto, provocando una risata divertita – Come mai manchi tanto dal negozio? Guarda che zia è triste senza di te che passi a trovarla.”
“Lo so, scusa – sorrise Rosie avvicinandosi a loro e accarezzando con dolcezza la chioma bicolore del figlio – ma in questi giorni era un po’ raffreddato e ho preferito non farlo uscire.”
“Raffreddato? – Daisy baciò la fronte del bambino, notando il nasino leggermente arrossato per l’aria fresca dell’autunno inoltrato – Oh ma allora qui ci vuole qualcosa di caldo per proteggere il mio pasticcino dal freddo che c’è fuori. Vieni, amore, la zia ti porta in cucina e ti prepara una cioccolata calda…”
“E i biscotti di animaletti!” chiese lui speranzoso.
“Ma certo! Li facciamo insieme: ti ricordi come si fanno i cagnolini ed i gattini? E chiediamo anche alla nonna se ci aiuta, sono sicura che dirà di sì!”
Mentre Daisy scompariva nella cucina con il bambino in braccio, Rosie sospirò divertita e poi si decise a seguirli. Sistemò il suo cappotto nell’appendiabiti, certa che la sorella avrebbe provveduto a liberare Vato dal suo piccolo soprabito, e si mise il grembiule.
“Ehi, ciao Rosie – la salutò Max – ma dai, non devi prenderti il disturbo.”
“O finiscila – sorrise lei, sistemandosi meglio i capelli dietro la schiena – adesso Daisy si dedicherà completamente a Vato, lo sai bene. E poi ti ho detto decine di volte che mi fa piacere poter lavorare in negozio per qualche ora.”
Ed era vero: per circa un anno Vato aveva assorbito completamente la sua vita, ma come si era dimostrato un minimo indipendente, Rosie aveva ripreso a frequentare il negozio. Ovviamente non era una cosa che poteva fare con continuità, del resto suo figlio doveva ancora compiere tre anni, ma essendo membro della famiglia e non una vera dipendente, poteva agire come le sembrava opportuno in base ai suoi impegni di madre e moglie. Poter tornare a lavorare tra impasti e tavoli era una piacevole uscita dai ritmi quotidiani e poi le faceva estremo piacere che Vato potesse frequentare così tanto la zia: quei due si adoravano, non c’era dubbio. Per quanto Daisy amasse profondamente anche Ally e Loris, l’ultimo nato di Alyce e Luke, per Vato aveva una vera e propria predilezione, completamente ricambiata dal bambino.
“Vato, mi raccomando, non disturbare troppo. Ricorda che stiamo lavorando.”
“Vato fa da bravo, mamma!” annuì il bambino mentre la zia lo sollevava e lo metteva a sedere sopra un tavolo.
“Allora, pasticcino, racconta: che cosa hai fatto in questi giorni?”
“Imparato tante parole nuove! Vuoi sentire?”
“Ma certo… anzi, come me le dici proviamo a fare i biscotti a forma di tutto quanto. Avanti, dimmi la prima.”
“Mestolo!”
“Questa è facile: allora, prendiamo un pezzo di pastafrolla e…”
 
“Sei sicura di non volere una copertina?” chiese Daisy.
“Ma no, è abbastanza coperto così – la donna per prudenza si levò la sua vecchia sciarpa lilla e la sistemò sul collo del bambino profondamente addormentato – lo prendi tu, amore?”
“Certo – annuì Vincent, prendendo tra le braccia il bambino e sistemandoselo contro il cappotto semiaperto in modo da proteggerlo ulteriormente dal freddo – questo è proprio crollato, si è agitato troppo, vero?”
“Beh, sicuramente si è divertito di più con me che con te – sbuffò Daisy, girandosi a chiudere a chiave la porta del negozio – chissà che giochi gli fai fare. Ah sì: stiamo dritti e composti e facciamo il gioco del silenzio.”
“Finiscila, che cosa ne vuoi sapere di come educo mio figlio.”
“Mi basta vedere la smania che ha di divertirsi quando viene qui.”
“Suvvia, possiamo finirla? – sospirò Rosie, mentre Max accanto a loro ridacchiava – Adesso è meglio che andiamo, così evitiamo che prenda freddo.”
Dopo che si furono congedati, Rosie e Vincent iniziarono a percorrere in silenzio la strada che portava a casa. Ogni tanto la donna lanciava occhiate amorevoli al marito: adorava vederlo con Vato in braccio, così protettivo e dolce… era come vedere una nuova versione dell’atteggiamento che teneva con lei nei momenti di tenera intimità.
Però Daisy aveva ragione su una cosa: Vincent non era molto propenso al gioco, nemmeno per il suo stesso figlio. Forse Vato davvero sfogava le sue esigenze ludiche con la zia e lo zio: a casa imparava nuove parole, amava farsi leggere le favole, ma eccetto l’orsetto di pezza con cui dormiva non aveva molto interesse per i giocattoli. Anche qualche volta che gli capitava di stare con i cuginetti non sapeva bene come interagire con loro: Ally era molto propositiva e cercava di farlo giocare, ma sembrava che lui non fosse ben consapevole di come comportarsi con una palla in mano o con le costruzioni con i cubi di legno.
Oh, meglio non ricordarsi dei cubi…
“Che hai?” chiese Vincent, vedendola sospirare.
“Niente, ripensavo all’ultima volta che siamo stati a pranzo da Alyce e c’è stato l’incidente con i cubi.”
“Sono solo giochi tra bambini –scrollò le spalle lui mentre entravano nel palazzo e salivano le scale – apri tu la porta? Con lui in braccio è un po’ difficile e non voglio svegliarlo.”
“Sì, poi mettilo nel divano: io preparo la cena e lo sveglio giusto per dargli il latte e cambiarlo per la notte.”
 
“E poi zia Dedè ha fatto il sole e la luna coi biscotti! – esclamò Vato con soddisfazione, ansioso di raccontare al padre la sua giornata – E poi… e poi zio Max li ha mangiati e zia l’ha sgridato!”
“Sì, ma non agitarti così – Vincent gli bloccò le gambe per poterlo mettere nel seggiolone – a tavola si deve stare buoni e composti, lo sai bene.”
I due adulti avevano pensato che il piccolo restasse sveglio giusto il tempo di mangiare, ma l’eccitazione per la serata trascorsa con la zia la faceva ancora da padrone. Era così esagitato che afferrò la manica della camicia di Vincent per avere la sua completa attenzione.
“Sì, ti sto ascoltando – annuì il padre, liberandosi da quella piccola presa – non è necessario che tu tiri così i vestiti. Allora, zia Daisy ha sgridato zio Max, perfetto… che altro è successo poi?”
Rosie ridacchiò nel sentire la voce leggermente esasperata di Vincent: un piccolo Vato in quelle condizioni non era il massimo dopo una giornata di lavoro. Lui era abituato al bambino più docile che con timidezza gli raccontava le parole nuove che aveva imparato o al massimo gli diceva che cosa aveva mangiato per merenda. Il piccolo esagitato che smaniava di raccontare il minimo dettaglio della serata trascorsa con la zia gli doveva sembrare una versione di suo figlio alterata… ovviamente per colpa di Daisy.
“Su, su, piccolo oratore – lo chiamò Rosie, arrivando con il biberon di latte caldo – adesso dai tregua a tuo padre e bevi il tuo latte. Si sta facendo tardi per te.”
Ovviamente non era affamato, considerando quanto aveva mangiato in negozio, ma come sempre la docilità davanti agli ordini della mamma prese il sopravvento. Afferrato il biberon con le manine, iniziò a ciucciare beatamente senza fare il minimo rumore.
“Tregua!” sospirò Vincent, mentre Rosie gli si sedeva accanto ed iniziavano pure loro a cenare.
“E’ solo felice di poter condividere le sue piccole avventure con te – ridacchiò la donna, accarezzando con amore la chioma bicolore del figlio – il suo papà gli manca tanto durante la giornata, sai.”
“Mi manca anche lui, cosa credi?” sorrise Vincent, guardando il suo rampollo sollevare leggermente il biberon per permettere al latte di scendere meglio. Eccetto la chioma bicolore era la sua copia perfetta.
“Ed invece la tua giornata come è andata?”
“Niente di eccitate come fare i biscotti con la vipera, ma tutto bene.”
“Gradirei che non chiamassi così mia sorella, specie davanti al bambino. Che cosa andrà a pensare?”
“La semplice verità?” chiese Vincent con malizia, inarcando un sopracciglio con aria significativa.
“Mamma, Vato bevuto tutto latte!”
“Bravo, fiocco di neve – sorrise lei, recuperando il biberon e asciugandogli la bocca col bavaglino – adesso fai il bravo mentre mamma e papà finiscono di cenare?”
“Sì… ah! Papà! Zia Dedè insegnato a Vato una nuova parola… difficile, sai!”
“Ah sì? E quale?”
Vato si concentrò, cercando di ricordare la perfetta pronuncia e poi sorrise con soddisfazione, indicando il padre con la manina.
Mister Rigidità!”
“Che? – Vincent quasi sputò il suo stufato – Che hai detto?”
“Mister Rigidità! – ripeté Vato con orgoglio – Mister Rigidità!”
“Oh no… Vincent, amore, lascia stare dai.”
“Maledetta vipera, lo vedi che sta influenzando male mio figlio?”
“Papà, che è una madetta vipea?” chiese Vato, curioso di fronte a quelle nuove parole.
“E’ tua z…”
“E’ un animaletto, amore – intervenne Rosie con perfetto tempismo, alzandosi dal tavolo e andando a recuperarlo dal seggiolone – ma adesso credo che sia ora di cambiarsi, mettersi il pigiamino e fare la nanna, vero? Da bravo, dai la buonanotte al papà.”
“Buonanotte, papà!” Vato si sporse dalle braccia della madre per dare un bacio sulla guancia di Vincent e poi con un sorriso soddisfatto, felice di aver potuto sfoggiare la nuova e difficile parola, si appellicciò alla mamma.
“Buonanotte, figliolo…” borbottò Vincent, ancora profondamente offeso dallo smacco ricevuto dalla cognata.
 
“Mamma, una, dai!”
Rosie sospirò con accondiscendenza e poi si sedette vicino al bambino, già sotto le coperte e prese il libro di favole.
“Una paginetta, va bene?”
“Sì.” Vato si spostò in modo che lei potesse sistemare il libro vicino a lui e subito mise il ditino sulla prima parola. Vedendogli compiere quel gesto, niente di insolito, Rosie iniziò a ripensare alla storia dei cubi di Ally. Tutti lo archiviavano come piccolo incidente di gioco, ma lei era rimasta perplessa davanti ad un comportamento così strano da parte di un bambino timido come Vato.
Li avevano lasciati che stavano giocando con i dadi di legno con le lettere colorate su ogni faccia e qualche minuto dopo erano dovuti intervenire perché sia lui che Ally stavano piangendo. Sembrava che avessero litigato per il possesso dei dadi, tuttavia…
“Sbagliato parola e non vuole fare giusto!”
Vato aveva singhiozzato come un disperato mentre veniva preso in braccio.
Rosie cercò di ricordare le lettere nei cubi… sembrava un particolare sciocco però.
“C’era una volta in un bosco magico…” la sua voce era accompagnata da quella del bambino che quella fiaba la conosceva ormai a memoria e…
Bosc… bosca… ma certo!
Non poteva sbagliare: Vato mentre singhiozzava indicava i dadi messi in fila l’uno accanto all’altro.
Lui stava… scrivendo!
A nemmeno tre anni? Sembrava una follia, però…
“… un fata che parlava con gli animali.”
Rosie provò a scostare il dito, lasciando che fosse solo quello del bambino a tenere il segno. Fece la cosa con noncuranza, continuando a leggere con lentezza. E lui continuava a tenere il segno con precisione. Il piccolo indice seguiva la parola mano a mano che veniva pronunciata, lettera per lettera, sillaba per sillaba.
“Amore – mormorò Rosie, arrivando alla fine della pagina – cerchi la parola bosco, per favore?”
Vato la guardò perplesso e poi sorrise felice: immediatamente il piccolo indice corse alla parola ad inizio frase. Nessuna esitazione.
“E poi qui!” sorrise ancora il piccolo, scendendo alla seconda ripetizione, in mezzo alla pagina.
Per sicurezza Rosie ripeté quello che a Vato sembrava un gioco con altre parole, persino con l’articolo indeterminativo una. E puntualmente il figlio eseguiva, anzi sembrava felice di poter sfoggiare questa sua dote.
“Amore… Ally ha levato il dado con la o e ha messo quello con la a, vero?”
“E’ bosco, non bosca.” disse lui incupendosi.
“Ma certo – sorrise lei, accarezzandogli i capelli – hai ragione, è bosco.”
Rimase ancora qualche minuto con lui, il tempo di farlo addormentare. Restò a contemplare il visino rilassato che già si stava intrufolando sotto le coperte.
A nemmeno tre anni? E’ possibile?
Però gli elementi c’erano tutti: riconosceva le parole, le sapeva trovare, le sapeva… replicare, sebbene con l’aiuto dei dadi.
“Ehi – la chiamò la voce di Vincent – dorme?”
Rosie si girò verso il marito che si era affacciato discretamente alla porta.
“Sì, dorme – annuì lei – e legge anche…”

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. 1884. Sconvolgimenti ***


Capitolo XV

1884. Sconvolgimenti.

 

Il piccolo indice di Vato si muoveva sulla farina che era sparsa sul tavolo ma, nonostante la concentrazione del bambino, la lettera r proprio non voleva uscire. All’ennesimo tentativo fallito il bambino batté la mano sulla superficie infarinata con notevole stizza, ottenendo come risultato una nuvola bianca che lo fece starnutire più volte.
Con aria profondamente offesa il piccolo, ormai quattro anni e mezza, scese dalla sedia e andò ad accoccolarsi in un angolino del salone, la faccia volta contro il muro: non venire a patti con lo scrivere gli dava profondo fastidio. Sembrava che tutta la sua grande intelligenza si fosse riversata nel leggere e nell’imparare a memoria, ma per quanto concerneva lo scrivere incontrava le difficoltà di qualsiasi bambino della sua età.
“Che succede, amore?” chiese Rosie, andando verso di lui con un panno bagnato e pulendogli il viso e le mani sporche di farina.
“Non so scrivere – mormorò lui con profonda delusione – non ci riesco.”
“Non te la devi prendere così – lo consolò lei – ogni cosa a suo tempo.”
“Ma io so come si scrivono le lettere – confessò il piccolo, guardandosi le mani che proprio non volevano collaborare con quanto aveva in testa – perché non funziona, mamma?”
“Vedrai che col tempo ci riesci, fiocco di neve. Anche io ho imparato quasi subito a preparare i biscotti, ma per fare la crema buona come la faccio adesso ho dovuto fare molta e molta pratica. Ci sono cose che una persona riesce a fare con più facilità e altre che invece risultano più difficili.”
“Ally sa scrivere ed è già in prima elementare.”
“Amore, Ally ha sei anni non quattro come te.”
“Quattro e mezza, mamma – specificò lui con importanza – anzi quasi cinque.”
“In ogni caso, piccolo mio, devi renderti conto che a quasi cinque anni ci sono molte cose che ancora non puoi fare, ma non è niente di grave.”
Vato emise un piccolo lamento, come se quella spiegazione non lo soddisfacesse del tutto. Ma poi si arrese a quella piccola e nuova lezione di vita e si fece abbracciare dalla madre, riuscendo persino a sorridere timidamente.
“Vieni, mio piccolo lettore – lo consolò Rosie, vedendo che il momento di autocommiserazione era finito – se vuoi la mamma ti fa leggere un nuovo libro.”
Quelle parole bastarono per far tornare l’entusiasmo al bambino che corse immediatamente verso la libreria, aspettando che la madre lo raggiungesse: ormai i libri delle favole li conosceva tutti a memoria e, anche se amava tantissimo rileggerli, bramava di poter scoprire qualcosa di nuovo in tutti gli altri libri che c’erano a casa.
Purtroppo però, sembrava che non fossero sempre adatti a lui, tutt’altro: doveva chiedere alla mamma o al papà se andava bene che lui li prendesse o meno. Su questo il papà era stato categorico e l’unica volta che gli aveva disobbedito era stato messo in castigo nell’angolino e aveva ricevuto anche una sculacciata.
Per questo ricevere un libro dalle mani della mamma era una grande cosa.
Dopo aver scoperto la sua precocità, Rosie e Vincent aveva discusso parecchio su quanto era meglio fare. La soluzione migliore era stata quella di mezzo: non l’avevano forzato ad abbandonare un’attività che per la sua età era troppo impegnativa, ma non gli avevano nemmeno permesso di eccedere. Poteva leggere, certamente, ma sempre e solo quello che gli era permesso, senza contare che non poteva stare sui libri più di qualche ora in tutta la giornata.
Rosie scrutò con attenzione i titoli, chiedendosi quale libro potesse andare bene a un bambino dalla precoce intelligenza, ma pur sempre di quattro anni. I romanzi erano da escludere, così come i libri che riguardavano il lavoro di Vincent… effettivamente la loro libreria stava offrendo sempre meno possibilità.
“Vediamo un po’ – sorrise infine, prendendo un volume dai ripiani più alti – questo è il libro di scienze della mamma di quando andava alle scuole elementari.”
“Scienze?” chiese il piccolo perplesso, avvicinandosi ancora di più a lei e mettendosi in punta di piedi per poter osservare la copertina rigida.
“I concetti sono spiegati in maniera semplice e non dovresti avere problemi. Qui dentro sono spiegate tante cose di animali, piante e quanto altro: credi che possa essere interessante?”
“Oh sì, mamma! – esclamò lui, allungando le mani per prendere il prezioso tesoro – Grazie!”
Immediatamente corse in camera sua, nel piccolo angolino che aveva dedicato alle letture: si trattava di uno spazio che aveva ricavato tra la parete e il cassettone dove stavano i suoi vestiti e la biancheria per il letto. Vi aveva messo dei vecchi cuscini in modo da creare un comodo nido e ogni volta recuperava il suo orsetto di pezza e si metteva a leggere con lui accanto.
Sicura che il piccolo sarebbe stato immerso nelle letture per diverso tempo, Rosie tornò a preparare la torta per la visita di sua sorella quello stesso pomeriggio.
 
“Nomina a capitano?” Vincent sgranò gli occhi con incredulità mentre Alan annuiva.
“Sì, ma non prenderla come un premio – spiegò con serietà squadrando l’amico – in realtà ti voglio levare di torno, Vin.”
“Per quella storia della missione del mese scorso, presumo.” capì lui, facendo due più due con estrema rapidità.
“Indovinato – Alan si grattò in capo con aria pensosa, come se cercasse una soluzione a quella situazione spinosa che gli si era presentata – è una notizia quasi certa e dovrebbe venir notificata entro il prossimo mese. In genere cose simili non dovrebbero uscire fuori dall’ufficio, ma sapendo che riguardava te…”
“Apprezzo molto il pensiero, amico mio – Vincent sorrise e mise una mano sulla spalla del giovane che, in tutti quegli anni, gli era comunque rimasto vicino – e sta tranquillo che non ti metterò nei guai.”
“Vorrei solo poter fare di più – sospirò l’altro – insomma, non è giusto che tu venga spedito in un posto così lontano: quel paesino è così… fuori mano! Tu vali decisamente di più che essere il capitano di polizia di un piccolo angolo di mondo come quello e...”
“Tenente Vincent Falman! – una nuova voce fece scattare i due poliziotti sull’attenti – è da qualche giorno che non la vedevo.”
“Non c’è stata occasione, signore – disse con tono neutro Vincent, squadrando il suo superiore nonché il sicuro artefice di tutta quella storia – il lavoro d’ufficio mi ha tenuto molto impegnato.”
Non si erano mai sopportati, sin dalla prima missione a cui Vincent era stato aggregato, ma per i compiti che svolgeva quella particolare squadra le doti del tenente Falman erano state necessarie diverse volte.
“Ah, davvero peccato – l’uomo si lisciò il pizzetto con espressione falsamente delusa – nessun’altra missione per mettere in mostra il tuo grande valore? Questa città non offre grandi spunti, vero ragazzo mio? Eppure avresti una grande carriera davanti, considerato che sei tenente a trentatre anni. Chissà, magari troveremo altri luoghi più interessanti dove il tuo talento sarà utilissimo.”
Non diede tempo di replica, del resto che cosa avrebbe potuto dire Vincent Falman, un grado inferiore a quell’uomo?  Almeno questo era quello che sicuramente pensava mentre si allontanava con aria tronfia: in realtà Vincent non aveva replicato perché sapeva che con certa gente era meglio lasciar parlare i fatti. Quell’ufficiale era un grandissimo incompetente, arrivato in alto solo grazie al nome di famiglia, tutti lo sapevano.
“Non dovevi prendere l’iniziativa durante la missione.” commentò Alan a bassa voce come l’uomo ebbe girato l’angolo del corridoio.
“Non potevo permettere che degli uomini rischiassero la vita per la sua incompetenza – ritorse Vincent, tutt’ora convinto della sua scelta – e se il prezzo da pagare per averli riportati in commissariato illesi e con quella banda arrestata è questo, ben venga. Dunque è proprio certa la cosa, eh? Me l’ha praticamente detto lui stesso.”
“E’ una persona odiosa, ma purtroppo i suoi gradi ed il nome della sua famiglia contano molto. E ora cosa farai, Vin?”
“Non c’è niente che possa fare: se tentassi di oppormi quello potrebbe anche accusarmi di insubordinazione per aver preso il controllo della missione. E vincerebbe, a prescindere dalle testimonianze… sappiamo come vanno queste cose. Presumo che ne dovrò parlare con Rosie e prospettarle l’idea di un prossimo trasferimento…”
Disse quelle parole con notevole disinvoltura, addirittura scrollando le spalle, ma in cuor suo si sentiva in colpa per coinvolgere in qualche modo sua moglie e suo figlio nel suo lavoro. Insomma, Rosie sapeva benissimo che rischi comportava essere un poliziotto, ma l’idea che dovesse subire un trasferimento simile e degradante… praticamente una punizione, un’umiliazione.
Era molto combattuto: da una parte non rinnegava assolutamente la sua iniziativa, anzi ci aveva goduto parecchio nel mettere in secondo piano quel pallone gonfiato. Anche tutti gli altri poliziotti la pensavano in questo modo. E lui sapeva benissimo sin da principio che conseguenze potevano esserci per quel suo gesto. Ma sul piatto della bilancia c’era anche la sicurezza dei suoi colleghi di lavoro: la scelta alla fine era obbligata e non l’avrebbe mai rinnegata.
Dannazione, ora che ho famiglia però…
Già, fosse stato ancora celibe sarebbe stato tutto più facile e quel trasferimento l’avrebbe accettato con maggiore serenità. Ma se a New Optain lui non aveva molti legami, Rosie aveva tutta la sua amata famiglia che, in un modo o nell’altro, aveva adottato anche lui.
Oggettivamente… con che faccia tosta poteva dirle che nell’arco di un paio di mesi avrebbero dovuto fare le valige?
 
“Se vuoi lo metto a letto – suggerì Rosie, vedendo che Vato si stava ormai appisolando tra le braccia della zia – ce l’hai in braccio da quando sei arrivata.”
“Ma no, lascialo stare – sorrise Daisy, accomodandoselo meglio – adoro tenerlo in braccio, per quanto stia diventando davvero alto: è un po’ difficile trovare una sistemazione comoda oramai.”
“E’ più alto di Ally, nonostante lei sia più grande di due anni – constatò Rosie – nell’ultimo mese è cresciuto di due centimetri buoni. Mettesse su anche un po’ di pancia… eppure mangia con appetito.”
“Costituzione, direbbe tuo marito, ed in questo caso non posso che dargli ragione. Ma come può un adorabile pasticcino come Vato avere come padre Mister Rigidità?”
“Proprio non ce la puoi fare ad abbandonare quel nomignolo, vero?”
“E’ un po’ come chiedermi di non chiamarti più piccolo fiore. Pensi che non sappia che lui mi chiama vipera?”
“Vi meritate a vicenda come cognati… uh, attenta, così ti sbava il vestito.”
Immediatamente recuperò un fazzoletto e lo passò con delicatezza sulla bocca semiaperta di Vato che, a quel gesto, ne approfitto per mettersi il pollice in bocca.
“Dannazione è tremendamente dolce – sospirò lei con malinconia, accarezzando la guancia del bambino – non so cosa darei per…”
La frase si interruppe ed una lacrima scivolò sulla guancia della donna.
Fu una cosa così improvvisa che Rosie ne rimase interdetta: niente fino a quel momento aveva fatto presagire un simile cambio d’umore.
“Ehi – le disse andandole accanto – che succede, sorellona.”
“Prendilo che altrimenti rischio di svegliarlo – consigliò lei, tendendole il bambino – oh, piccolo fiore… credo di non poter avere figli.”
“Che?” Rosie sgranò gli occhi e d’istinto strinse il bambino al suo petto. Per qualche istante fu colta dal pensiero di non poter più godere della presenza di suo figlio, del legame che aveva con lui e si sentì incredibilmente persa e svuotata. Guardò con ansia la sorella, incredula che proprio lei e Max non potessero avere figli.
“Nell’ultimo anno ho avuto due aborti e non sono i primi – spiegò la donna, con un sospiro tremante – Max non lo sa e non lo deve venire a sapere assolutamente… lo sai solo tu e la mamma, nemmeno Alyce. Ovviamente deve restare tra di noi.”
“Ma sei andata dal medico?”
“Sì, l’ultimo aborto mi ha provocato perdite per diversi giorni… niente di preoccupante, del resto non ero nemmeno al secondo mese. Insomma non è che sia escluso, ma forse in me c’è qualcosa che mi impedisce di portare avanti la gestazione… non che sia sterile, ma… a questo punto è la stessa cosa, no?”
Rosie scosse il capo e andò a sistemare Vato nel divano. Poi corse ad abbracciare la sorella che, finalmente libera di sfogarsi, scoppiò in un pianto dirotto. Non era per niente giusto: Daisy era una di quelle donne che avrebbe fatto faville come madre, lo si capiva da come sapeva destreggiarsi con i nipoti. E anche Max era stupendo come padre, senza ombra di dubbio.
Ma perché proprio a loro?
“Daisy – la riscosse con dolcezza – secondo me ne devi parlare con Max.”
“Scherzi, vero?” scosse il capo lei.
“No – Rosie si fece seria – ha il diritto di saperlo e non perché devi dargli un erede o idiozie simili. Ma semplicemente perché è tuo marito e ti ama… sicuramente vuole condividere con te anche questo.”
“E se la cosa invece distruggesse il nostro rapporto? No, a Max l’idea di diventare padre piace tantissimo e non posso levargliela in questo modo… dannazione, forse sarebbe stato meglio non sposarlo: sarebbe ancora poliziotto, per la gioia di tuo marito, e non sarebbe sposato con… Rosie, mi sento un albero scheletrico che non può dare frutti… ed è… la sensazione peggiore del mondo!
Con un sospiro Rosie continuò a tenerla stretta, accarezzandole i mossi e splendidi capelli neri. Si sentiva così a disagio nel dover consolare sua sorella, quella che in genere era più forte di tutti quanti, quella che dava sostegno invece di chiederlo. Ma non l’avrebbe lasciata sola in questo momento difficile, assolutamente e, per quanto non fosse assolutamente una donna di polso, era decisa a convincerla a parlarne con Max.
“Zia… zia, perché piangi?” la vocina perplessa di Vato le fece riscuotere e videro che era accanto a loro, stropicciandosi gli occhietti per il sonnellino interrotto.
“Oh, niente, pasticcino, scusa – cercò di sorridere Daisy, asciugandosi le lacrime – la zia è solo un po’ triste, tutto qui.”
“Oh – lui la fissò con esitazione, non essendo abituato a quella versione della zia, sempre allegra e pronta al gioco – no dai, non essere triste. Non mi piace se sei triste.”
“Come posso essere triste con un nipotino come te? – lo prese in braccio – Avanti, dammi un bacio, Vato Falman, ma forte, altrimenti non è valido.”
 
Vato a volte era un po’ estraniato dal mondo, ma sentiva quando qualcosa turbava la sua quotidianità.
Quella sera era già turbato dall’aver visto sua zia piangere ed inoltre si rendeva conto che anche la mamma era in qualche modo triste, nonostante lei gli avesse assicurato che andava tutto bene. Dopo che si era svegliato per il pianto della zia, sua madre l’aveva quasi immediatamente mandato in camera sua, dicendogli di mettersi a leggere e di aspettare che lei lo chiamasse. Ed aveva passato tanto tempo ad aspettare, il libro di scienze che aveva perso qualsiasi interesse ai suoi occhi: era rimasto seduto nel letto con l’orsetto di pezza stretto tra le braccia, sentendo ancora i singhiozzi della zia… non l’aveva detto alla mamma, ma a un certo punto aveva pianto pure lui, senza capirne il motivo.
Sperava dunque che con il ritorno del papà tutto tornasse normale e tranquillo... rassicurante. Sentiva l’esigenza di stare con i genitori, senza più essere mandato in camera sua ad aspettare. Che cosa poi? Se andava in camera magari questa volta sarebbe stata la mamma a piangere e questo era anche peggio.
“Papà – mormorò timidamente, ansioso di condividere con lui qualche momento prima della cena – lo sai che la mamma mi ha permesso di leggere un nuovo libro?” ecco, era meglio parlare di cose normali e belle.
“Non adesso, Vato – mormorò l’uomo senza nemmeno guardarlo – devo parlare con tua madre, vai in camera tua da bravo.”
A quelle parole il bambino mise il broncio: ecco il peggiore dei suoi timori che si avverava. Tuttavia non era disposto a cedere così facilmente, non quella sera così brutta: con un gesto temerario, non obbedì immediatamente e afferrò la camicia del padre.
“Posso restare?” chiese.
“No, sono cose da grandi, forza adesso vai.”
“Ma io voglio…”
“Giovanotto, cosa abbiamo sempre detto a proposito dell’obbedire subito a quanto dicono papà e mamma? – la voce di Vincent assunse un tono più severo e l’occhiata che lanciò al piccolo prometteva guai – Vuoi ricevere una sculacciata prima di cena giusto per stare più comodo sulla sedia?”
“Non arrabbiarti, per favore – una prima lacrima scivolò sulla guancia del bambino che continuava a tenere la presa sulla manica del padre – io… volevo solo stare con te e mamma.”
Fu questione di due secondi che Vincent si era già inginocchiato per prenderlo in braccio.
“Sssh, ehi – gli accarezzò la chioma bicolore mentre lui gli stringeva le braccia al collo e affondava il viso sulla sua spalla – dai, Vatino, non piangere. Scusa, papà è solo un po’ stanco… non voleva sgridarti così.”
“Ma che succede?” Rosie arrivò dalla camera da letto dove si trovava fino a poco prima.
“Io non voglio che zia piange! – singhiozzò Vato – Non voglio che… che non state con me! E’… è perché non so scrivere? Papà, ti giuro che imparo!”
“Oh no, amore, ne abbiamo già parlato – Rosie sospirò e si unì al marito nell’abbracciarlo – non importa se non sai ancora scrivere. Ma quando mai pensi che papà non voglia stare con te?”
Ma una volta che Vato iniziava a piangere era difficile farlo smettere, specie se era per crisi emotive come quelle. Non era un bambino dalla lacrima facile, ma quando si sfogava lo faceva in modo davvero violento. I due adulti dovettero stare diversi minuti a calmarlo, rassicurandolo che quelle lettere che non riusciva a scrivere non importavano assolutamente nulla.
Nel prenderlo tra le braccia, Rosie pensò ancora una volta a sua sorella e alla sua incapacità di portare avanti la gravidanza. In quel momento Vato fu più che mai la cosa più preziosa che avesse al mondo: la sua creatura, il suo piccolo bambino… lettura, memoria, ma che cosa le importava? Era vivo, caldo, stretto a lei e la amava in un modo incondizionato: semplicemente questo.
Vincent abbracciò la moglie ed il figlio, stringendoli al petto. Erano tutta la sua vita, quello che contava veramente, più di qualsiasi stupido posto dove l’avrebbero mandato. Se erano assieme a lui poteva affrontare tutto quanto.
“Dobbiamo parlare…” disse, cercando con lo sguardo la moglie.
Ma Rosie sorrise lievemente e indicò con aria significativa il bambino che finalmente, stretto tra di loro, smetteva di piangere.
No, non era proprio il momento di parlare di trasferimenti; era più importante stare assieme a lui.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16. 1884. Le conseguenze delle proprie scelte ***


Capitolo XVI

1884. Le conseguenze delle proprie scelte.

 

Nonostante fosse convinto della bontà della sua scelta di prendere il comando di quella missione, Vincent non aveva ancora trovato il coraggio di dirlo a Rosie. La notte e la mattina erano scivolati via senza che lui riuscisse a darle quell’annuncio ed ogni volta che sembrava decidersi bastava guardarla per rimandare ancora. Una cosa decisamente non da lui.
Si era sentito un vigliacco nel fare l’amore con sua moglie con quella notizia che pendeva su di lei, nel prendere tra le braccia Vato la mattina successiva e salutarlo come se fosse una normale domenica.
Come se non bastasse, a rendere la situazione ancora più brutta, proprio quel giorno erano invitati a pranzo a casa di Alyce, in una delle tante riunioni di famiglia che erano quasi una tradizione ogni secondo weekend del mese. Più passavano i minuti più si rendeva conto di quanto quelle persone fossero importanti per lui e soprattutto per Rosie: erano la sua famiglia, il suo nido, la certezza di avere qualcuno vicino nei momenti difficili. Persone buone ed oneste che in fondo avevano accolto pure lui…
Dannazione, come faccio a dirglielo?
“Ah, ragazzi miei – il padre di Rosie, seduto a capotavola si rivolse a lui, Luke e Max – come posso ringraziarvi per aver reso felici le mie bambine? Me lo chiedo ogni volta che sono seduto a guardare la mia bella ed unita famiglia.”
“Oh, papà, non lasciarti andare ai soliti discorsi – ridacchiò Alyce, sistemando meglio il piccolo Loris sul seggiolone – semmai devono essere questi tre signori a ringraziare te per avere delle mogli così, vero ragazze?”
“Ma quanto sei ochetta!” disse Rosie con un’occhiata di divertito rimprovero.
Da parte di Daisy invece non ci fu nessun commento, un fatto insolito a cui però nessuno fece caso, considerato che l’uomo riprese a parlare con aria convinta.
“Le donne McLane sono rinomate come ottime mogli ed è giusto che questi giovanotti se ne prendano cura. E lo stanno facendo egregiamente. Max, sono fiero specialmente di te: non avrei mai pensato che potesse essere così valido come lavoratore al negozio.”
“Sono un uomo dalle molteplici sorprese, vero?” ridacchiò l’interessato, bevendo una generosa sorsata di vino.
“Ehi, allora voglio anche io un po’ di merito! – gli fece eco Luke, alzando il proprio bicchiere con una strizzata d’occhio – sono lieto di annunciarvi che sono diventato ufficialmente socio dello studio legale di mio padre.”
Immediatamente la tavolata si profuse di complimenti per quella grande notizia: il padre di Luke era uno dei più famosi legali della città e quella promozione indicava quanto il figlio fosse destinato a seguirne le orme nell’attività forense.
Fu una conseguenza scontata che poi l’attenzione si spostasse verso Vincent. Tutti lo guardarono aspettando che dicesse qualcosa per glorificare il proprio lavoro: anche se non si parlava di promozioni o eventi speciali sarebbe andato bene lo stesso… era una cosa successa altre volte.
“Ecco… dato che siamo in tema di annunci lavorativi, credo di doverne fare uno pure io – si grattò la nuca con imbarazzo, non sapendo come guardare in faccia tutte quelle persone – entro un mese verrò probabilmente promosso capitano…”
“Davvero? – Max, accanto a lui, gli diede una pacca sulle spalle – Congratulazioni, Vin! Capitano a nemmeno trentaquattro anni… dannazione, credo che pochissime persone possano vantare una carriera simile! Che cosa hai combinato per meritare una promozione?”
“Ho avuto una parte fondamentale nella riuscita di una missione, tutto qui – scrollò le spalle l’uomo – però… ecco…”
“Ho sempre saputo che eri un ottimo poliziotto, figliolo – commentò il padre di Rosie con ammirazione – il mio piccolo fiore è davvero in buone mani.”
“Amore, non me l’avevi detto – sorrise Rosie, baciandolo sulla guancia – sono felicissima per te. Come la nomina diventa ufficiale dovremmo festeggiare tutti assieme, non credi?”
“Bravo, papà!”
“Ecco – lui si alzò in piedi per ottenere silenzio, per evitare che tutto quel rumore gli impedisse di dire la parte più importante del discorso – verrò promosso, ma verrò anche trasferito.”
Oh, se lo ottenne, ma fu un silenzio così attonito che gli fece male, come se avesse appena pugnalato alle spalle ciascuno di loro. Si arrischiò a lanciare un’occhiata a Max e vide il suo sguardo farsi cupo: sì, lui poteva intuire quanto era successo.
“Trasferito?” la voce tremante di Rosie lo obbligò a voltarsi verso di lei.
Teneva in braccio Vato e lo guardava con incredulità... e crescente timore, man mano che prendeva consapevolezza del vero significato di quell’annuncio.
“Papà, cosa vuol dire trasferito?” chiese Vato.
“E dove?” chiese ancora lei, posando una mano sulla guancia del piccolo per farlo tacere.
Quanto avrebbe voluto dire East City, Central City, qualsiasi altro posto che potesse mettere un minimo in buona luce il fatto. Ma fu costretto ad ingoiare il groppo che aveva in gola e dire con voce calma e piatta.
“In un piccolo paese a circa dieci ore di treno da New Optain.”
Fu come liberarsi di un peso che di ora in ora era diventato sempre più grave.
Ma invece di sentirsi sollevato stava anche peggio.
 
Rosie non aveva mai provato nel vero senso del termine la parola terrore.
Sentire le viscere aggrovigliate era una sensazione tremenda, mentre tutta la sua vita sembrava sfuggirle di mano come finissima sabbia.
Era passata una settimana da quell’annuncio, ma non se ne era ancora fatta una ragione: lei e Vincent si parlavano a malapena e mano a mano che quella fatidica data si avvicinava era sempre più difficile persino guardarsi negli occhi.
Sradicata in un posto a lei sconosciuto, senza più il sostegno della sua famiglia… la sola idea era inconcepibile.
“Dannazione, Rosie, bevi questo caffè, da brava – suggerì Daisy, un pomeriggio che era passata a trovarla a casa – l’ho anche corretto lievemente, ne hai proprio bisogno.”
“Capisci? Mi ha detto che la cosa potrebbe avvenire prima del previsto: insomma sembra che una volta che si ha l’ufficializzazione lui debba prendere servizio già il giorno dopo.”
“Ahi ahi! Quante ce ne fa passare tuo marito – sospirò la maggiore, sedendosi e prendendole la mano – sorellina, posso davvero lasciarti andare via? Come farò senza il mio piccolo fiore?”
“Daisy, lo so che è egoista e pessimo da dire come moglie, ma… io non so se ce la posso fare a seguirlo.”
Lei rimase in silenzio, condividendo appieno i suoi sentimenti, ma non trovando giusto dirli ad alta voce: in fondo si trattava di questioni familiari… c’era in gioco il legame legale di marito e moglie, la patria potestà su Vato e tanti altri fattori. Legalmente Vincent aveva tutti i diritti di imporre alla sua sposa di seguirlo.
“Vorrei svegliarmi e scoprire che è solo un brutto sogno.” ammise Rosie.
“Ah, a chi lo dici: me la ripeto da tempo questa frase.”
“E già – sospirò – fra me e te siamo cariche di problemi, sorellona. Dimmi almeno che ne hai parlato con Max.”
“No – scosse il capo lei con decisione – e non credo di volerlo fare.”
“Ne abbiamo già discusso.”
“E sai che cosa ne penso: se gli dicessi tutto quanto sarebbe la fine, credimi.”
“Daisy…”
“Niente ma, piccolo fiore, è mio diritto scegliere, non credi?”
“Allora è anche il mio diritto… non me ne andrò via da New Optain finché non avrai parlato con Max.”
Le due sorelle si guardarono con aria di sfida come mai era successo: erano ferite ed arrabbiate con il mondo e sembrava che il problema di una fosse strettamente legato a quello dell’altra.
“Potrei anche decidere di non parlarne mai, allora – sorrise ad un certo punto Daisy – ti terrei qui con Vato e lascerei andare tuo marito in quel posto sperduto. Chissà se ci arriva l’elettricità…”
“Mamma, mamma! – proprio Vato fece la sua comparsa con un piccolo fagotto tenuto insieme dal lenzuolo del letto – Sono pronto!”
“Pronto? – Rosie lo fissò con perplessità – E dove vuoi andare?”
“Dove va papà – rispose lui, inclinando la testa con aria curiosa, come se fosse ovvio – però anche tu e zia Daisy dovete fare le valige, e dobbiamo dirlo a tutti, altrimenti facciamo tardi. Zia, pensi che sarà faticoso portare il negozio? Ti aiuto io se vuoi.”
“Diamine è sempre più difficile – sospirò Daisy, prima di rivolgersi a Vato – oh no, pasticcino, zia non viene, non si può.”
“Che? – si incupì lui – Ma no, dai: si chiama trasferimento. Se lo faccio io e la mamma perché non lo fai pure tu? Insieme è più bello!”
E fu difficile da spiegare ad un bambino di quattro anni e mezza, troppo difficile… specialmente quando iniziò a prendere consapevolezza del fatto che trasferirsi voleva dire non vedere la propria famiglia per tanto tempo.
 
Una settimana dopo, Vincent sentiva che la sua vita stava andando a rotoli.
Incontrando per i corridoi del commissariato l’artefice della sua rovina e vedendolo sorridergli in maniera untuosa, si doveva sempre controllare per non spaccargli la faccia con un pugno. Si rendeva conto che rischiava di perdere in maniera irrimediabile la sua famiglia? Era consapevole di tutto questo mentre proponeva quel suo trasferimento, in un posto che sulla cartina era un misero puntino senza nemmeno un nome?
Sì che lo sa, bastardo… scommetto che ci ha goduto un sacco.
Ormai era certo che mancavano solo dieci giorni al suo trasferimento e la tensione a casa era alle stelle: Vato era quasi sempre in lacrime, avendo capito che sarebbe stato ben presto allontanato da tutte le persone che conosceva ed amava, Rosie quasi più non gli rivolgeva la parola. Da una parte capiva il suo gesto responsabile nei confronti degli altri poliziotti, ma dall’altra non poteva fare a meno di odiarlo per quanto le stava imponendo.
Come se non bastasse Max gli aveva detto che c’era qualcosa che sua moglie gli stava tenendo nascosto. E sembrava che pure Rosie fosse in qualche modo coinvolta… ed il suo amico era in completa paranoia perché intuiva che era qualcosa di grave ma non trovava il coraggio di affrontare l’argomento con Daisy per paura delle conseguenze.
Già, le conseguenze… quanto odiava quella parola.
Aprendo la porta di casa cercò di farsi forza per affrontare quella nuova serata di tensione in famiglia: era arrivato il momento di aggiungere un nuovo tassello.
“Dobbiamo parlare – sospirò, accostandosi a Rosie che stava preparando la cena. Non si preoccupò nemmeno di levarsi il cappotto – ci sono novità.”
Lei si girò a guardarlo, l’espressione di un animale rinchiuso nell’angolo senza possibilità di fuga. E vederla in questo stato fece veramente male: era la persona che amava, la sua compagna… non avrebbe mai dovuto provocare in lei delle reazioni simili, arrivare a suscitarle una simile paura manco dovesse alzare le mani su di lei.
“Ecco – continuò, cercando di rimanere calmo – fra due giorni è necessario che io parta. Sono… devo andare lì per trovare un alloggio decente, sistemare le cose burocratiche e…”
“Non ce la faccio – ammise lei con voce flebile e tremante, abbassando lo sguardo – non puoi chiedermi di… di andare via da qui.”
“Rosie, che scelta ho?”
“Hai la scelta che ha fatto Max – supplicò  – sei una persona in gamba: puoi trovare un altro lavoro… Max e Luke sicuramente ti daranno una mano e vedrai che andrà tutto per il meglio.”
Lui scosse il capo, incredulo a quella proposta: sembrava la soluzione migliore, certamente. Basta umiliazioni e dover stare al comando di gente incompetente. Ma la parte incorruttibile di lui diceva che non era possibile: era quello il suo lavoro e non gli importava se c’erano altre persone che portavano immeritatamente quella divisa… lui ne andava fiero ed avrebbe continuato ad indossarla e a fare il suo dovere. Che fosse a New Optain o in un minuscolo angolo di mondo… che consistesse nel dare la caccia a criminali o rendere più sicura la gente di campagna. Era questa la sua missione di vita, quello in cui aveva sempre creduto e a cui non avrebbe mai smesso di credere.
“Ti prego…” supplicò ancora Rosie, illudendosi per quella piccola esitazione.
“Non posso obbligare te e Vato a venire in un posto così sperduto, lo capisco – sorrise con gentilezza lui, dopo qualche secondo, prendendole le mani – hai bisogno della tua famiglia e in questo periodo pare che anche loro abbiano estremo bisogno di te… Piccolo fiore, davanti all’altare ho promesso di renderti felice, non di provocarti dolore. Io… –  dovette fare uno sforzo per continuare, per dire quella che gli sembrava la soluzione più giusta, anche se tremendamente dolorosa perché voleva dire rinunciare a lei e a suo figlio – andrò solo io in quel posto: tu e il bambino starete qui a New Optain… magari andate a stare dai tuoi genitori.”
“Ma che stai dicendo…?” scosse il capo lei, con incredulità.
“Io tornerò ogni volta che posso, spero ogni finesettimana – continuò lui – è giusto del resto: è stata una mia deliberata scelta quella di disobbedire di fatto ad un mio superiore. Tu e Vato non siete responsabili di niente e non dovete pagare per me.”
“Vincent…”
“E’ la decisione che ho preso – chiuse la discussione lui, baciandola in fronte – e spero sia solo temporanea in qualche modo. Ti amo, lo sai? Ti amo con tutto me stesso… non potrei mai renderti infelice.”
E sentì sua moglie perdere tutta la tensione di quei giorni: la sentì singhiozzare ed abbracciarlo con tutta la forza che aveva. Era la soluzione più ovvia, più giusta, doveva pensarci da subito… e forse l’aveva fatto, in un piccolo e remoto angolo della sua anima che, per ironia, era lo stesso che aveva sperato che una timida pasticciera potesse un giorno portare calore nella sua vita.
Solo che – pensò, mentre ricambiava quella stretta e non riusciva a trattenere una lacrima – sarà tremendamente dura senza di te, amore mio.
 
Vato fissava la stazione ferroviaria con grande stupore.
Non era mai stato in un posto così grande e pieno di cose strane e meravigliose. Quelle grandi carrozze si chiamavano vagoni, e poi c’era la locomotiva, i binari, le banchine… tantissimi nuovi nomi da memorizzare e capire bene cosa fossero. C’era un libro sui treni e le stazioni? Magari era uno di quelli che lui poteva leggere.
“E’ una vera sorpresa per te questo posto, vero giovanotto?” Vincent gli arruffò i capelli e ridacchiò nel vederlo così impegnato a voltare la testa da una parte all’altra, letteralmente impazzito per tutte quelle cose nuove che vedeva.
Rosie prese in braccio il piccolo e lo strinse a sé: riuscì persino a sorridere, come se quella fosse una normale passeggiata con marito e figlio. Eppure quell’orologio appeso alla parete bianca andava troppo in fretta e l’ora della partenza si avvicinava sempre di più.
“Scrivi appena arrivi, mi raccomando – sospirò posando il capo contro il petto dell’uomo in divisa – lo so, ci vorranno almeno tre giorni se non di più prima che la posta arrivi, però… insomma, guarda che farò caso alla data sulla lettera.”
“Promesso, piccolo fiore… cercherò di tornare il prima possibile.”
Ma quando? Non era uno scherzo fare quel viaggio e anche i biglietti non costavano poco considerata la distanza: tornare ogni finesettimana oggettivamente sarebbe stato impossibile. A conti fatti se andava bene sarebbe potuto tornare una volta al mese.
“Ti aspetteremo con ansia.”
“Sicura di voler restare a casa e non andare dai tuoi?”
“Sicurissima – annuì lei con convinzione – è casa nostra del resto.”
“Penso io a mamma, papà.”
“Bravissimo, ometto, vieni in braccio, da bravo.”
Con un gesto spontaneo, Vato protese le manine e afferrò il berretto della sua divisa, mettendoselo sulla testolina e risultando ovviamente molto buffo, tanto che Rosie dovette mettersi una mano davanti alla bocca per non ridere e offendere la sua piccola dignità.
“Papà, da grande io divento come te, vero?” chiese Vato, scostandosi leggermente il berretto per poter guardare meglio il genitore.
“Guarda che per diventare come me devi essere molto maturo e responsabile, piccolo mio.” gli ricordò Vincent, accorgendosi di quanto suo figlio fosse diventato grande… e di quanto rischiava di perdere nello stare così lontano da lui. Tra qualche mese sicuramente sarebbe riuscito a padroneggiare la scrittura…
E io lo verrò a sapere solo per lettera… o quando tornerò a casa e tu l’avrai già imparato da giorni.
“Re… reponabile…” la vocina di Vato interruppe quei pensieri tristi.
“Responsabile, ometto – lo aiutò nella nuova parola – e cioè devi sempre essere buono e obbediente e non fare mai le cose sbagliate.”
“Io sono buono papà! Io obbedisco a mamma e a te, sempre.”
“Bravo, ragazzino: mi rendi fiero di te.”
“Vato è repos…responsabile!”
“Ne sono certo” annuì rimettendosi il berretto in testa
Il fischio del capostazione annunciò che mancava poco alla partenza. Fu come se Vato capisse che era giunto il momento del distacco, una cosa che fino a quel momento sembrava non dover arrivare mai, non veramente: con ansia strinse le braccia al collo di Vincent, rifiutandosi di lasciarlo andare.
“Ehi, ehi – lo consolò l’uomo, accarezzandogli la schiena – ti ricordi che mi hai appena detto? Che sei responsabile, piccolo mio. Devi essere forte e pensare alla mamma: dovete farvi forza a vicenda.”
E doveva farsene anche lui davanti a quei visi piangenti, davanti a sua moglie e suo figlio che non si arrendevano ancora all’idea che lui stesse andando così lontano. Li strinse entrambi, chiedendosi quando sarebbe stata la prossima volta che avrebbe potuto compiere un gesto simile.
“Vi amo… per qualsiasi cosa rivolgetevi a Max e Daisy, o ai tuoi genitori, mi raccomando.” mormorò prima di sciogliersi da loro e afferrare la valigia che aveva accanto a sé.
“Papà, non lasciarci – singhiozzò Vato, vedendolo allontanarsi – non prendere quel… quella cosa cattiva che ti porta via!”
Il pianto di suo figlio lo accompangò per tutte quelle tremende dieci ore di treno, più forte del rumore delle ruote ferrate, del fischio della locomotiva.
Smise solo quando scese in quella banchina e per la prima volta mise piede in quel piccolo angolo di mondo.





disegno di Mary ^_^

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Capitolo 17
*** Capitolo 17. 1884. Tornare assieme ***


Capitolo XVII

1884. Tornare assieme

 

“Sì, è vero, sembra un po’ trascurata – disse la donna, guardandosi intorno con aria noncurante – ma non ha bisogno di grandissimi lavori e con un poco di olio di gomito torna come nuova. Per le cose più pesanti, come sostituire quella porta rovinata, le darà una mano mio marito, stia tranquillo.”
Vincent annuì soddisfatto, felice di aver trovato una casa decente nell’arco di due settimane. Per quanto potesse stare alla locanda a tempo indeterminato, considerato che la comunità era molto felice del suo arrivo, aveva preferito mettersi immediatamente alla ricerca di un posto che avrebbe potuto chiamare casa. Certamente gli dava maggiore intimità e libertà rispetto alla stanza nel piccolo albergo del paese, ma soprattutto gli dava l’illusione che un primo passo verso la riunione con la sua famiglia era stato fatto.
Adesso aveva una casa dove accoglierli.
“Sono felice che abbia voluto prendere questa casa, signore – sorrise Steve mentre uscivano dall’edificio e si congedavano dalla donna, pronti ad iniziare la loro giornata di lavoro – era ormai abbandonata da sette anni dopo che i vecchi proprietari sono morti senza nessuno a cui lasciarla. Ed era un peccato, trovandosi proprio al centro del paese.”
“Però me la state praticamente regalando – ammise Vincent con lieve fastidio – il prezzo è irrisorio per una casa di quelle dimensioni: l’appartamento che avevo a New Optain costava molto di più ed era la metà.”
“Però da quello che si dice i prezzi tra città e campagna sono molto differenti.”
“Anche questo è vero.”
“Spero che la sua famiglia la raggiunga presto, signore. Saranno i benvenuti qui gliel’assicuro.”
Vincent sorrise, non trovando niente da ridire nelle parole del giovane che era diventato di fatto il suo assistente. Se doveva essere sincero quel posto non si stava rivelando così malvagio come invece si era prospettato, una volta che si prendeva coscienza che non era la città e che dunque andavano un attimo ridimensionate le proprie ambizioni e abitudini di vita.
Dando un’occhiata a diversa documentazione, giusto per prendere confidenza con il suo nuovo incarico, il capitano aveva scoperto che si trattava di circa seicento anime, buona parte delle quali si trovava in fattorie sparse in giro per la campagna. Il paese vero e proprio contava poco meno di quattrocento persone e si trovava poco distante da un’ansa del grande fiume che scorreva in quella regione, un affluente di quello che poi attraversava East City gli aveva spiegato Steve, autonominatosi sua guida per quei primi tempi.
I negozi ed i servizi erano ovviamente essenziali, ma Vincent non aveva mancato di notare che avevano comunque una loro varietà che riusciva a rendere indipendente il paese quasi in tutto.
“Dopo la ronda presumo che ci aspetti il solito lavoro d’ufficio…” sospirò Steve.
“E’ una cosa che avete trascurato per tantissimo tempo – obbiettò Vincent – quell’archivio è un disastro.”
“Dannazione, è proprio vero che voi cittadini siete fissati con la documentazione.”
Già, rimettere un minimo di ordine in tutte quelle scartoffie non era certo un’attività divertente, ma andava fatta. Una delle prime cose che Vincent aveva imparato su quelle persone era che avevano uno spirito pratico molto forte e, di conseguenza, erano poco inclini alla burocrazia. Un esempio su tutti era stato al suo arrivo: si era aspettato di dover riempire decine e decine di moduli ed invece si era trovato davanti un unico foglio con il quale dichiarava di aver iniziato a prestare servizio in quel posto.
Sembrava una follia, eppure era bastato quello perché potesse percepire lo stipendio che gli spettava e tutto il resto.
“Comunque consolati, Steve, vedrai che… uh?”
“Lasciami!” una voce li fece girare di scatto verso un vicolo laterale.
Immediatamente videro un robusto ragazzone che stava spingendo contro il muro una ragazza.
“Ehi – scattò immediatamente Vincent, andando verso di loro, tallonato da Steve – lasciala subito andare.”
Il giovane si voltò verso di loro: non aveva l’aria propriamente cattiva, ma sembrava reduce da una bella bevuta.
“E’ una sgualdrina – rispose con voce leggermente impastata – sta solo facendo il suo mestiere.”
“Il locale ha i suoi orari – protestò la ragazza – e noi non prestiamo servizio al di fuori e… ahia!”
“Zitta, stupida!” la prese per un braccio, torcendoglielo bruscamente.
Ma quel gesto durò poco perché Vincent l’aveva già allontanato con un brusco spintone.
“Vai a prendere una boccata d’aria, ragazzo – gli disse, guardandolo con severità – altrimenti una notte al fresco non te la leva nessuno. Chissà se i fumi dell’alcool ti passano con maggiore rapidità.”
Davanti ad una simile minaccia, dato che era palese che Vincent non scherzava, il giovane si dileguò.
“Grazie, capitano – sospirò la ragazza, massaggiandosi lievemente il polso – quando quello beve troppo non capisce più niente, ma le assicuro che in genere è un bravo ragazzo. Ecco, guarda che disastro, mi ha fatto cadere il cestino con la spesa… spero che non si sia rovinato nulla, sennò Madame Christmas chi la sente.”
Facendo un cenno a Steve, Vincent si chinò per aiutare la giovane a raccogliere la spesa che, fortunatamente, non aveva subito troppi danni. Alla fine insistette per fare da scorta alla ragazza, nonostante il locale si trovasse a nemmeno cinquanta metri di distanza.
“Perché non entrate a bere un caffè? – chiese lei, salendo i gradini – Giusto per ringraziarvi.”
“Ehi, siamo entrambi sposati.” le ricordò Steve, alzando la mano per mostrare l’anulare con la vera.
“Perché pensi che tutti i nostri clienti siano celibi? – lo prese in giro la ragazza, con una risatina divertita – E comunque era solo per un caffè: noi ragazze lavoriamo solo la sera, a partire dalle nove.”
Vincent stava per rifiutare e congedarsi, ma poi gli venne in mente un pensiero: nella sua carriera di poliziotto aveva imparato che niente è meglio di un buon informatore. Ora, non che quel paese presentasse particolari problemi di quel tipo, tutt’altro, ma dove poteva trovare qualcuno che sapesse bene dei soggetti più pericolosi da tenere d’occhio? E che fosse anche abbastanza smaliziato da parlarne?
Ovviamente in un bordello.
“Steve, tu prosegui pure la ronda: io invece quel caffè lo prendo volentieri. Mi sono accorto che in questo posto non ci sono ancora stato e mi pare una lacuna da colmare.”
Steve lo guardò perplesso, ma poi annuì docilmente: non che penasse chissà che cosa, ma proprio non capiva che cosa ci facesse un capitano di polizia, chiaramente non interessato alla tipologia di servizi offerti, dentro un posto simile.
Vincent aveva visto diversi bordelli in vita sua, da quelli di alto livello ai più infimi: questo si discostava da qualsiasi altro per l’aria di tranquillità che emanava. Ovviamente si era in un orario di chiusura, ma l’uomo fu sicuro che anche durante l’attività ci fosse comunque una notevole serietà.
“Madame Christmas? Ho portato un ospite! – chiamò la ragazza ad alta voce – Ah, mi scusi, io sono Luana, non mi sono ancora presentata.”
“Capitano Vincent Falman al suo servizio, signorina.”
“Signorina? – i suoi occhi scuri brillarono di malizia – Molte persone dovrebbero prendere lezioni da lei.”
“Che succede, ochetta?”
“Madame Christmas, ho il piacere di presentarle il nostro nuovo capitano di polizia che, poco fa, mi ha gentilmente offerto il suo aiuto contro un cliente troppo… entusiasta. Che dice? Lo merita un caffè?”
Vincent stava per salutare con cortesia anche la nuova arrivata, ma poi si girò verso di lei e rimase di stucco: quel donnone era molto diverso dalle altre donne d’affari che lui aveva conosciuto. Grossa e tozza, viso segnato da rughe, era una che ne aveva visto di cotte e di crude, certamente. Ma invece che subire lei aveva giocato con il suo destino ed aveva vinto la sua partita: lo si notava dall’atteggiamento sicuro con cui indossava quella vestaglia sgargiante e teneva tra le labbra quel bocchino d’oro. Delle cose che addosso ad altre donne, magari più belle, sarebbero risultate esagerate e fuori luogo, ma che su di lei contribuivano a dare vita ad un vero e proprio personaggio.
“Ah, ecco il nostro nuovo arrivo – la voce era roca, ma non mancava di una certa eleganza: non era originaria del paese, si capiva – benvenuto nel mio piccolo regno, capitano. Sono Chris Mustang, ma tutti qui mi conoscono come Madame Christmas.”
“E’ un piacere conoscerla, signora.”
E lo disse con sincerità, il suo istinto che lo avvisava che con quella donna si sarebbe creato un bel legame.
 
“No, amore, oggi non può arrivare una lettera di papà: bisogna aspettare almeno altri due giorni.”
A quell’avviso Vato si sedette sconsolato davanti alla porta: quella era l’ora in cui passava il postino ed ogni giorno si metteva lì in attesa. Per quanto Rosie cercasse di spiegargli come funzionava il flusso postale, lui non demordeva nel suo piccolo rituale quotidiano.
“E non possiamo spedirla noi a papà?”
“L’abbiamo fatto ieri – gli tese la mano e lo fece alzare – adesso vieni, dobbiamo prepararci: siamo a pranzo dai nonni oggi. Sei felice?”
Lui annuì con un lieve sorriso e le trotterellò docilmente accanto.
Erano felici, davvero?
Rosie sospirò mentre spogliava il bambino per fargli il bagno.
Era quasi passato un mese dalla partenza di Vincent e, nonostante le lettere, la mancanza si sentiva eccome. Quella casa le sembrava così vuota senza il marito, specie la camera da letto: tanto che aveva accolto con piacere l’iniziativa di Vato di voler dormire assieme a lei.
Perché sono responsabile, mamma.
Erano state quelle le sue parole mentre si infilava nel letto la prima notte, trascinando con sé il suo orso di pezza. Ma Rosie sapeva bene che anche lui sentiva quell’assenza e voleva essere rassicurato, quasi avesse paura che all’improvviso anche lei potesse andare via.
“Mamma, posso portare anche Lollo?” chiese il bambino, riferendosi al suo pupazzo.
“Vato, te lo stai sempre trascinando dietro. Perché non lo lasci a casa almeno per questa volta, eh? Sono sicura che Lollo è stanco e vuole dormire.”
Almeno per qualche ora voleva separarlo da quello che stava diventando un vero e proprio feticcio. Aveva sempre avuto una predilezione per quell’animale di pezza, ma da quando Vincent era partito era diventata una vera e propria ossessione. Se lo trascinava ovunque, masticando e succhiando l’orecchio destro non appena gli capitava l’occasione… e guai a separarlo da lui durante la notte: voleva dire scatenare una crisi di pianto non indifferente.
A conti fatti era ovvio che il bambino stava risentendo della mancanza del padre: abituato a vederlo quotidianamente, le lettere non bastavano più. Ogni giorno chiedeva quando sarebbe tornato a casa, la sua piccola mente che si rifiutava di accettare per intero l’idea del trasferimento. Suo padre era semplicemente andato via per lavoro, ma non per sempre: prima o poi sarebbe tornato e tutto avrebbe ripreso a funzionare come prima. E per quanto Rosie cercasse di spiegargli con gentilezza come stavano le cose, per una volta Vato rifiutata la sua tanto preziosa razionalità, per rifugiarsi nelle piccole ed illusorie convinzioni infantili.
“Ma se poi si sveglia e si sente solo?”
“Tranquillo, Lollo è un orso che se la sa cavare.”
Lui fece una piccola smorfia di disappunto, non completamente convinto da quella nuova separazione. Ma alla fine Rosie lo convinse e il pupazzo venne diligentemente messo sopra il letto matrimoniale, dove ormai Vato dormiva ogni sera.
 
“Vieni, giovanotto, il nonno ti fa vedere un libro con i treni.”
“Come quello che riporta papà a casa?” chiese prontamente il  bambino, seguendo l’uomo verso il salotto.
“Esatto, forza vediamo un po’ come è fatto un treno.”
Vedendo che Vato si era finalmente lasciato distrarre da qualcosa Rosie si sentì decisamente sollevata e seguì la madre in cucina, per aiutarla a lavare i piatti. Tutto sommato era stato un pranzo tranquillo, persino il bambino era stato più lieto del previsto, sapientemente distratto dai nonni.
Le due donne rimasero in completo silenzio per qualche minuto, l’acqua che scorreva ed il tintinnio delle stoviglie come unici rumori.
“Non sono affatto felice di quanto sta succedendo – disse Margaret infine – stai sbagliando tutto con tuo marito e con tuo figlio. E tuo padre è perfettamente d’accordo con me.”
A quel rimprovero, fatto con voce calma ma grave, Rosie abbassò lievemente lo sguardo.
Sì, se ne rendeva conto pure lei che c’era qualcosa di sbagliato nella soluzione che avevano adottato, ma ammetterlo ufficialmente voleva dire accettare l’idea di lasciare tutti loro e di andare in un posto sconosciuto dove non avrebbe avuto nessuno. E lei non aveva amici a New Optain, figuriamoci in un paese che non sapeva nemmeno esistesse fino a due mesi prima.
“E’ che sono preoccupata per Daisy e…”
“Quella testona di tua sorella deve risolverli da sola i suoi problemi – scosse il capo la donna – non usarla come scusa per le tue paure, figlia mia. Sono stufa di vedere che vi girate intorno come due gatte infuriate: questa situazione vi sta logorando e basta.”
“Non ne vuole parlare con Max, proprio non la capisco – si ostinò Rosie, rifiutandosi di guardare la madre negli occhi – sposarsi con una persona vuol dire condividere tutto quanto, per quanto possa essere difficile. Per quanto è dura la situazione, Max sarà sempre li per lei, ne sono certa… con o senza figli il suo amore non smetterà mai.”
“A New Optain o in quel paesino il tuo amore per Vincent potrà mai cambiare?”
Fu una domanda trabocchetto e Rosie capì di essere cascata in pieno nella rete che sua madre aveva sapientemente teso: sì, era molto ipocrita il discorso che stava facendo. Criticava tanto Daisy per aver escluso il marito da quella parte fondamentale della sua vita, ma lei forse aveva fatto anche peggio lasciando che Vincent andasse da solo in quel posto.
“E’ diverso…” provò comunque ad obbiettare.
“E’ solo paura, Rosie. E sarà difficile sia per te che per noi… ma è tuo marito, l’uomo con cui hai scelto di passare la tua vita. E se posso fare appello ai tuoi doveri di sposa, preferisco tuttavia pensare alla tua felicità, mia cara. Il tuo posto è accanto a lui, perché è con lui che sei felice… e anche Vato lo è. Hai visto pure tu come è deperito il bambino in questo mese.”
Davanti a quelle motivazioni che la spingevano con ferma gentilezza verso quella che era la cosa migliore da fare, Rosie non riuscì a trattenere le lacrime ed il piatto che teneva le cadde sul pavimento frantumandosi in mille pezzi.
“Scusa, mamma – singhiozzò, chinandosi a raccoglierlo – sono proprio un disastro.”
“No, devi semplicemente farti forza ed affrontare la tua vita, per quanto la cosa ti sembri difficile. Ma tu sei più coraggiosa di quello che pensi, figlia mia – le si inginocchiò accanto e le prese le mani – e per la tua famiglia sei disposta a fare di tutto.”
“E’ così lontano…” pianse lei.
“Ma c’è lui ed è la cosa che per te e Vato conta, lo sai bene pure tu.”
Fu sentirlo da un’altra persona che la convinse? Non lo seppe mai dire.
 
“Ehi, non sapevo saresti passata in negozio. Credevo che restassi tutto il pomeriggio da mamma e papà.”
Daisy si girò verso la sorella e la fissò con sorpresa.
“Ho lasciato Vato da loro, ti devo dire una cosa importante.” Rosie si diresse verso la cucina, prendendo la maggiore per un braccio. Chiuse la porta alle loro spalle e la fissò dritto negli occhi.
“Se è ancora per la solita storia…” iniziò Daisy.
“No, semplicemente io tra due giorni prendo Vato e parto: raggiungo mio marito.”
“Che cosa? – gli occhi scuri di Daisy si sgranarono per la sorpresa – Rosie, che cosa stai dicendo? Sei completamente fuori di testa, è chiaro.”
“No – scosse il capo lei – lo sono stata per  tutto questo mese in cui ho rimandato il più possibile… c’è voluta mamma per farmi capire quanto stavo rovinando la vita a me stessa e a Vato.”
“E quindi prendi il bambino e te ne vai a raggiungere Mister Rigidità, molto bene.”
C’era una lieve forma di accusa in quella frase, e come poteva non esserci? Non si erano mai rese conto di quanto forte fosse il loro legame e di quanto in quell’ultimo periodo si stesse in qualche modo incrinando. La Daisy di un anno prima non si sarebbe mai comportata in un modo simile.
“Sì, molto bene… io mi assumo le mie responsabilità, tu quando hai intenzione di farlo con Max? Ce li siamo sposati, Daisy, abbiamo scelto deliberatamente di passare la vita assieme a loro… e non solo per le cose belle, ma anche per quelle difficili.”
“Ehi, che succede?” proprio Max, quasi evocato, entrò dalla porta, rischiando di impattare contro le due sorelle.
“Io parto Max – annunciò Rosie, senza smettere di guardare la sorella – tra due giorni raggiungo Vincent.”
“Oh, bene, ti sei decisa.” sorrise l’uomo, mettendole una mano sulla spalla.
“Max, ma che le stai dicendo?” Daisy si girò verso di lui.
“Quello che penso – disse con semplicità l’uomo – immaginavo che ti ci sarebbe voluto un po’ di tempo, cognata, del resto sei fatta così. Ma sta tranquilla che lui ti sta aspettando a braccia aperte.”
“Parlatene.” Rosie disse quell’unica parola, prendendo una mano della sorella e una di Max.
“Rosie, ti avviso…”
“Di quello che mi stai nascondendo da mesi? – chiese con gentilezza Max, accarezzando i capelli di Daisy, cogliendo di sorpresa entrambe – Forse so già di che si tratta… ho visto alcuni medicinali che hai preso e li conosco: mia zia ha avuto il medesimo problema e… oh no, stupidina, e ora perché piangi?”
“Secondo te? – singhiozzò lei, rifugiandosi nell’abbraccio del marito – Come credi che mi senta… non potrò mai avere figli!”
“Sssh, va tutto bene, amore mio – la consolò lui – tranquilla.”
Rosie esitò qualche secondo, ma poi abbracciò le spalle della sorella: sentirla scossa da quegli orribili singhiozzi era tremendo, ma sapere che finalmente si era aperta a Max le dava un enorme sollievo.
Le cose non potevano che migliorare, ne era certa.
“Penso io alla sala – mormorò, andando a recuperare un grembiule – faccio un ultimo turno in questo negozio.”
 
“Vato, amore, svegliati, stiamo arrivando.”
Il bambino aprì gli occhi e se li stropicciò con fare assonnato.
“Oh, ma mi sono addormentato!” protestò, deluso dell’essersi perso così tanto delle meraviglie del viaggio in treno.
“E’ stato stancante – lo consolò Rosie, passandogli una salvietta umida sul viso – però adesso pensiamo a coprirci bene: fa parecchio freddo fuori.”
Effettivamente era metà dicembre e a dispetto di essere scesi parecchio a sud il freddo era parecchio pungente. Per questo provvide ad abbottonare fino in fondo il cappotto pesante del bambino e a mettergli la sciarpa attorno al collo.
“Mettiti anche i guanti – lo aiutò – altrimenti ti vengono i geloni.”
“Ma con i guanti faccio fatica a tenere Lollo.”
“Tienilo sottobraccio, da bravo… e adesso aspetta che la mamma deve recuperare le valigie.”
Certo non era facile destreggiarsi con due pesanti bagagli ed un bambino piccolo. Ma non si poteva fare altrimenti: aveva ridotto quello da portare al minimo necessario, ma era comunque diversa roba. Con cautela, non essendo per niente abituata all’andatura del treno, condusse il bambino fino alla fine del vagone, proprio mentre la vettura rallentava del tutto per fermarsi alla stazione. Per qualche secondo Rosie esitò, vedendo che nessuno degli altri passeggeri aveva intenzione di muoversi dai propri posti. Però poi sentì la manina di Vato che le tirava il cappotto e si fece forza.
Adesso iniziava una nuova vita, in una nuova casa: si era lasciata alle spalle New Optain con i suoi primi ventinove anni di vita, il negozio e tutta la sua famiglia. Ma aveva capito che stando lì rischiava di allontanarsi da loro in una maniera più tremenda, rovinando anche la vita di Vato.
“Attento ai gradini, tesoro – lo avvisò – sono un po’ scivolosi. Forse è meglio che scenda prima e…”
“Aspetti, signora, le do una mano io – una voce gentile e subito il capostazione la liberò dai due pesi portandoli sulla banchina – pensi pure al bambino.”
“Grazie mille – sorrise lei, lieta di quel gesto così umano che l’aveva accolta in quel posto – Vato, stringi forte la mano della mamma, da bravo.”
Una volta che furono approdati sani e salvi nel piano lastricato, Rosie si guardò attorno con perplessità: eccetto la piccola costruzione che costituiva la stazione c’era solo aperta campagna, così grigia e spoglia nella sua versione invernale. Sembrava che il treno si fosse fermato nel nulla più assoluto.
“Deve venire qualcuno a prenderla, signora?” le chiese l’uomo.
“Ecco io – arrossì Rosie, leggermente confusa da quel primo impatto con la sua nuova casa – dovrei raggiungere il paese, mio marito si è trasferito poco più di un mese fa e…”
“Mio papà è capitano di polizia!” esclamò Vato, stringendo Lollo.
“Ah, ma certo, voi siete la famiglia del capitano Falman! – l’uomo si tolse il berretto per un saluto formale – Del resto guardando questo giovanotto dovevo capirlo. Ma non sapevamo del suo arrivo, signora, il capitano non ci ha detto nulla.”
“A dire il vero non lo sa – spiegò lei – è stata una decisione improvvisa.”
“Dobbiamo fare una sorpresa a papà.” spiegò con timidezza Vato.
“Capisco. Beh… però è una bella camminata fino al paese: sono almeno venti minuti e con quelle valigie non sarà facile – l’uomo si guardò attorno con aria sconsolata, all’evidente ricerca di una soluzione, cosa assai improbabile dato che era chiaro che non c’era nessun’altro – vediamo se… ah, ecco il nostro salvatore! Salve James!”
Dalla porta dell’edificio entrò un uomo biondo, alto e robusto, che si faceva beffe del freddo indossando solo una leggera giacca sopra il maglione.
“Sono qui per il pacco che doveva arrivare.”
“Eccolo lì sulla banchina – il capostazione accennò ad un grosso involucro che giaceva a terra – scusa ma stavo aiutando questa giovane signora.”
“Tranquillo – sorrise l’altro, caricandoselo con disinvoltura sulle spalle – non richiede mica attenzioni.”
“Sei venuto con il carro?”
“Ovviamente, altrimenti all’emporio ci tornerei fra due ore! E non posso lasciare Angela con il piccolo soli per troppo tempo.”
“Allora ti dispiace dare un passaggio alla signora e al suo bambino? Devono andare in paese, sono la famiglia del capitano Falman.”
“Nessun problema: andiamo, amico mio, porta le loro valigie al carro, tanto è proprio qui fuori.”
“Non dovete prendervi così tanto disturbo…” cercò di protestare Rosie, confusa da tutta quella confidenza.
“Ma si figuri – sorrise l’uomo chiamato James – è sempre un piacere aiutare le persone. Venga, l’aiuto a salire in cassetta… uh, che hai ragazzino?”
“Mamma, il cavallo è grande… fa paura.” Vato indietreggiò di qualche passo vedendo il grosso equino attaccato al carro. Quasi a farlo apposta l’animale si girò verso di lui e sbuffò, una densa nuvola bianca che usciva dalle grosse narici..
“Ah, tranquillo, piccoletto – James lo prese in braccio e lo sollevò per darlo a Rosie – la vecchia Margherita è una bonacciona. Bene, possiamo andare.”
E così iniziò il piccolo viaggio nel carro, con James che si dimostrò molto amichevole e gioviale, tanto da far uscire qualche timido sorriso anche a Vato. Ad un certo punto proprio il bambino chiese:
“Mamma, ma questo è un grande parco? Non lo capisco…”
“No, Vato, questa è la campagna.”
“Vedrai, ragazzino – sorrise l’uomo – sono sicuro che ti piacerà stare qui. Avrai un sacco di spazio dove giocare. Ecco, quello è il paese: vi lascio davanti alla stazione di polizia, va bene?”
“Sì, grazie, è stato gentilissimo signor… oh, non credo di sapere il suo cognome e…”
“James Havoc, signora Falman. E mi lasci dire che su suo marito ci sono solo commenti buoni da fare, per quanto sia qui da nemmeno un mese. Benvenuta tra di noi, stia certa che si troverà bene qui.”
Fu un congedo rapido e pratico, eppure carico di sincero calore.
In qualche modo aiutò Rosie a sentirsi bene accetta in quel posto sconosciuto, dove sembrava che la gente andasse oltre un educato ma freddo buongiorno.
“Andiamo da papà adesso?” chiese Vato, stringendo Lollo con entrambe le braccia.
“Certo, amore, adesso andiamo da…” si era girata a sinistra per recuperare le valigie e il suo sguardo si incrociò con quelli di Vincent che, assieme ad un altro poliziotto, era appena uscito da una strada laterale.
Improvvisamente la vista si offuscò per le lacrime, mentre tutto quello che aveva passato in quel brutto periodo di separazione svaniva come neve al sole.
“Papà!” esclamò Vato, correndo verso il genitore e rischiando di inciampare su quella strada fatta di terra battuta. Furono le braccia di Vincent ad evitare che finisse ingloriosamente a terra assieme a Lollo.
“Vato! – l’uomo lo strinse a se, baciandolo sulla guancia – ma che ci fate qui? Io… io…”
“Io e mamma ti abbiamo fatto una sorpresa – esclamò il bambino, mentre le lacrime gli scendevano sulle guance – è che ci mancavi tanto.”
“Scusa per non aver avvisato – Rosie si accostò a loro, cercando di controllare i singhiozzi – però… ora siamo qui, con te. Non… non dovevamo essere in nessun altro posto… Oh, Vincent, non hai idea… di quanto…”
Forse avrebbe aggiunto altro, la il capitano la strinse a se.
“Benvenuta a casa, piccolo fiore.” si limitò a dire con un sussurro.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18. 1885. Arriva Elisa ***


Capitolo XVIII

1885. Arriva Elisa.

 

Una cosa che Vincent aveva sempre riconosciuto a sua moglie era la capacità di rendere qualsiasi posto caldo e accogliente con la sola presenza: che fosse una sala del negozio nelle primissime ore del mattino, un piccolo appartamento da scapolo o quello di una famiglia che si era allargata con la nascita di un bambino. Non importava, lei era comunque in grado di donare calore e conforto a prescindere dall’ambiente.
E lo stesso avvenne per la casa che il capitano aveva preso in paese.
All’arrivo di sua moglie e suo figlio stava ancora facendo dei lavori di ristrutturazione assieme ad alcune persone che si erano offerte volontarie per aiutarlo, tra cui Steve e suo fratello, e dunque aveva preferito sistemarli nella locanda. Tuttavia nell’arco di nemmeno una settimana questi lavori erano finiti e la casa era stata finalmente inaugurata; e vedere Rosie che imperversava facendo le pulizie e sistemando ogni cosa donava al capitano quel senso di rifugio di cui aveva tanto sentito la mancanza.
Poter tornare a casa la sera e trovarla illuminata, calda, col profumo della cena in preparazione era un qualcosa che gli era profondamente mancato. Così come gli era mancato sentire lei che lo salutava dalla cucina o vedere Vato che correva ansioso di raccontagli la sua giornata.
Ovviamente quelle prime settimane furono molto impegnative: fu necessario terminare il trasloco, vendere l’appartamento di New Optain e quanto altro. Dicembre e Gennaio passarono senza che la famiglia se ne rendesse conto, impegnata com’era a districarsi in quella nuova casa che, ad onor del vero, era parecchio più grande della precedente. La cucina era una stanza separata rispetto al salotto ed era anche molto più ampia e agevole; le camere da letto erano lo stesso di dimensioni ragguardevoli tanto che anche in quella di Vato era possibile pensare ad altro arredamento che non fosse il lettino ed il cassettone per i vestiti. E c’era anche una grande camera per gli ospiti ed un ripostiglio, insomma, come commentò Rosie, sembrava una vera e propria reggia in confronto a dove stavano prima.
Alla luce di tutto questo, quando una sera di fine gennaio, dopo cena, il capitano si sedette sul divano per godersi finalmente la quiete di casa, ritenne di esserselo ampiamente meritato. Niente più mobili da spostare o roba da sistemare: solo il caminetto acceso ed il giornale arrivato all’ufficio postale quella mattina.
Quasi immediatamente Vato si arrampicò accanto a lui, assieme a Lollo e ad un libro. Appena si fu sistemato provvide ad accomodare Lollo contro il bracciolo imbottito.
“Ecco, sistemati pure così – disse – ti ricordi a che punto siamo arrivati?”
“Vato, i giocattoli non parlano.” gli ricordò Vincent, guardandolo con aria perplessa.
 “Ma papà, lui non è un giocattolo, è Lollo – rispose il bambino alzando lo sguardo dal libro e posandolo sul suo amico di pezza – e a lui piace stare accanto a me, così può leggere.”
“Leggere…”
“Certamente, gliel’ho insegnato io. Vero, Lollo?”
Disse questa frase con sincera convinzione, come se il giocattolo fosse in grado di rispondere, tanto che Vincent non riuscì a ribattere.
A dire il vero la questione di Lollo era un qualcosa che non si era aspettato: quando era partito quel pupazzo non costituiva niente di più che il giocattolo preferito di suo figlio. Ma adesso faceva uno strano effetto vedere il bambino che interagiva con lui come se fosse in grado di parlare e capire.
Rosie gli aveva raccontato l’importanza che aveva assunto Lollo durante il periodo della separazione e anzi era molto sollevata perché la mania ossessiva verso quel pupazzo era diminuita in maniera esponenziale: bastava pensare che Vato aveva smesso di ciucciargli l’orecchio destro che, comunque, avrebbe sempre portato i segni di quel mese di crisi.
“No, amore, aspetta – lo richiamò Rosie, arrivando – scendi dal divano che ti devo misurare questo maglione.”
“Va bene, mamma.” annuì volenteroso lui mettendosi proprio davanti al fuoco per evitare di prendere freddo.
“Niente da fare – sospirò alla fine, facendogli cenno di tirare su le braccia per sfilarglielo – sei ancora cresciuto e ormai ti va quasi tutto corto, fiocco di neve.”
“E’ perché domani compio cinque anni – spiegò lui con aria di chi la sapeva lunga – non mi vanno più i maglioni dei bambini di quattro anni. Sono grande, mamma.”
Più che grande era davvero alto per la sua età e sembrava che l’aria di campagna contribuisse a fargli aggiungere centimetri su centimetri. Peccato che, nonostante il suo appetito fosse tornato quello di una volta, anzi fosse sensibilmente aumentato, restava magro e slanciato proprio come il padre.
“Cinque anni, eh? Già, come vola il tempo: non ci posso credere che era solo cinque anni fa che eri un fagottino che profumava di talco e di latte. Comunque domani vieni con me a fare compere: bisogna prenderti dei nuovi vestiti. Forza, torna pure a leggere.”
Mentre il bambino si arrampicava di nuovo sul divano, Vincent ne approfittò per seguire la moglie in camera da letto, chiudendo la porta alle loro spalle.
“Il fatto che nostro figlio parli con un orso di pezza non ti preoccupa?” chiese.
Lei si girò a guardarlo con aria perplessa, ma poi scrollò le spalle e si mise a piegare l’indumento.
“Beh, considerato che tutt’ora Ally parla con le sue bambole e le fa sedere per prendere il the, direi proprio di no.”
“Non stiamo parlando di tua nipote – scosse il capo lui – ma di nostro figlio.”
“Vincent, ha cinque anni – la donna sorrise leggermente – è solo una fase. Tutti alla sua età avevamo un gioco preferito che avremmo sempre voluto fosse vivo.”
“Io no.”
Rosie lo fissò in modo tale che lui arrivò a sentirsi leggermente stupido per non aver passato mai quella particolare esperienza dell’infanzia. Ma, oggettivamente, da piccolo aveva ben altro a cui pensare rispetto al crearsi degli amici falsi o immaginari: lo trovava altamente controproducente e alienante dalla realtà.
“Ti assicuro che nostro figlio non si sta comportando in modo strano – lo rassicurò ancora lei baciandolo sulla guancia – lascialo con il suo Lollo. Per lui è anche un aiuto considerato che non ha ancora fatto alcuna amicizia.”
“Se lo dici tu… però per me è strano.”
 
Il giorno successivo, il compleanno di Vato, come regalo Rosie lo portò alla libreria del paese.
“Davvero posso scegliere io, mamma?” chiese il bambino estasiato mentre entravano e il campanello appeso alla porta tintinnava allegramente.
“Sì, però deve essere adatto a te, intesi?”
“Certamente, così lo può leggere anche Lollo.”
“Ma certo… uh, però non vedo nessuno qui.”
“Arrivo subito! – una voce dal retro rassicurò sulla presenza del proprietario – Un attimo di pazienza.”
Nel frattempo Vato si guardava attorno con meraviglia: non era mai stato in una libreria e non credeva che potesse esistere una stanza con tanti libri tutti assieme. Fu una scoperta così esaltante che si sentì il bambino più felice del mondo, come se il regalo più bello per il suo compleanno fosse esser stato portato in quel posto, a prescindere dal libro che avrebbe scelto.
Con delicatezza liberò la mano dalla presa della madre ed iniziò a camminare tra quegli scaffali così alti e colmi di volumi, i dorsi delle copertine così invitanti e carichi di promesse. C’erano tantissime cose da imparare, storie da conoscere, informazioni che l’avrebbero tenuto impegnato per il resto della vita...
Distrattamente sentì sua madre che si metteva a parlare con qualcuno e si sentì autorizzato a proseguire con la sua ricerca: sapere che non era sola lo rassicurava, così non si sarebbe preoccupata per lui.
Del resto… come poteva non proseguire in quel labirinto di libri?
Arrivò alla fine del piccolo corridoio, fino ad una grande libreria di legno: i volumi erano così grossi che sicuramente dovevano pesare parecchio. Dovevano essere i classici libri per i grandi, quelli che lui non era ancora autorizzato a leggere: sua madre gli diceva sempre che erano argomenti troppo complicati per la sua età, ma Vato, in una piccola e ribelle parte di lui, era convinto che bastava leggere attentamente per capire le cose e…
Il suo flusso di pensieri venne interrotto da un lieve formicolio dietro la nuca. Fu una strana sensazione che lo avvisò di essere osservato. Si girò lentamente, ma non vide nessuno e, nonostante si sentisse come quando sua cugina Ally gli faceva qualche agguato, preferì riportare la sua attenzione ai libri.
Stava per allungare la mano e toccarne uno, quando la sensazione si ripresentò più forte di prima.
Questa volta optò per girarsi di scatto e con una torsione che quasi gli fece perdere l’equilibrio, considerato che indossava ancora il pesante cappotto, si voltò per affrontare il suo osservatore…
Osservatrice più che altro.
La bambina era a quattro zampe, per metà nascosta dietro una delle librerie. Lo fissava con quella che si poteva definire divertita curiosità, gli occhi verdi che non si distoglievano da lui.
Il bambino non aveva un grande rapporto con i propri coetanei, in particolare con le femmine: la sua esperienza si fermava ad Ally che, ad essere sinceri, rientrava nel campo delle creature totalmente incomprensibili. Ogni volta che andava da lei lo obbligava a sedersi e a prendere il the con le sue bambole… una cosa molto stupida: è chiaro che le bambole sono giocattoli e non possono parlare ed era altrettanto ovvio che in quelle piccole tazzine non era contenuto alcun liquido, tantomeno the.
E anche quando facevano altri giochi era profondamente civettuola e capace di metterlo in netta difficoltà.
Manco a dire che i libri non le interessavano minimamente, nonostante avesse la fortuna di andare già a scuola ed imparare un sacco di cose nuove.
Il fatto che lo sguardo della nuova bambina ricordasse vagamente quello di Ally non era un buon segno.
“Ciao.” sorrise infine lei, alzandosi in piedi ed uscendo allo scoperto.
Con qualche movimento esperto delle mani si lisciò il grembiulino rosa che indossava sopra il vestito verde e poi fece qualche passo in avanti, portandosi accanto a Vato.
“Ciao…” salutò lui con voce sommessa.
“Che hanno i tuoi capelli?”
“Perché?” chiese lui, ignaro che la bicromia fosse una rarità.
“Perché sono strani: non ho mai visto un bimbo con capelli bianchi e neri.”
“Li ho così da sempre. Però tu hai gli occhi verdi ed io non ho mai visto una bambina con gli occhi verdi.”
“Anche mia mamma li ha verdi, ed io sono come lei. Tu a chi somigli?”
“A papà… però – rifletté – lui  ha tutti i capelli neri.”
“E la tua mamma?”
“Anche lei.”
“Oh.”
Non seppero cosa dire, a quanto sembrava le loro conoscenze infantili non arrivavano alla soluzione del problema. E la cosa non andava: bisognava trovare almeno un dato di fatto a cui potersi aggrappare.
“Un giorno troverò la risposta in qualche libro – promise Vato – e poi te la dico.”
“Però non ti stanno male.” disse lei, mettendosi le mani dietro la schiena.
“Uh… va bene.”
“Ti ho seguito da quando sei entrato, ma non ti sei accorto di me… sei strano!” ridacchiò lei, avvicinandosi ancora e scrutandolo con attenzione. Arrivò persino ad allungare un indice per toccargli una guancia, come si stesse assicurando che era un bambino vero.
Vato arrossì: le femmine piccole proprio lo mettevano in difficoltà, non c’era niente da fare. Questa poi sembrava averlo preso in simpatia e non sembrava aver intenzione di andarsene e lasciarlo tornare ai suoi libri.
Non aveva una mamma che la richiamasse?
“Questi libri non sono belli – disse la bambina, volgendosi verso i volumi che Vato aveva bramato fino a qualche minuto prima – sono scritti in piccolo piccolo e non hanno figure.”
“Però si leggono.”
“Io non so ancora leggere – scosse il capo, mentre ciocche di capelli castani le cadevano davanti al viso, tanto che se le dovette tirare indietro con la mano – devo andare in prima elementare a settembre.”
“Pure io. Però io so leggere… e anche un po’ scrivere.”
“Davvero?” sgranò gli occhi.
“… solo il mio nome –  si corresse Vato, accorgendosi di aver esagerato nell’ultima affermazione – ed in stampatello…”
“Stamp… che?”
“Stampatello. Come questo…” indicò un titolo.
“Ma quelle sono lettere.”
“Sì, ma sono in stampatello e… oh, lascia stare, a scuola te lo spiegano.”
“Se lo dici tu… comunque io mi chiamo Elisa – sorrise la bambina tendendo la mano – e questo negozio è quello del mio nonnino. Oggi sono venuta a trovarlo con la mamma. E tu chi sei? Non ti ho mai visto.”
“Io sono Vato e sono qui perché mia mamma per il compleanno mi deve regalare un libro che scelgo io.”
disse quell’ultimo dettaglio con aria di grande importanza.
“Compi gli anni oggi? Che bello! Io ne ho quattro e mezza e tu?”
“Oggi cinque!”
“Però sei alto – lei si mise una mano sopra la testa castana e poi la spinse verso Vato, arrivando appena al mento – sembri un bimbo più grande. Se hai cinque anni allora a settembre andiamo a scuola assieme!”
“Vato, amore? – Rosie comparve dagli scaffali – Ah, eccoti qui… oh, ma stavi facendo amicizia.”
“Buongiorno signora – sorrise Elisa, prendendo i lembi del grembiulino e facendo una piccola riverenza – io mi chiamo Elisa Meril.”
“Lo immaginavo. Stavo parlando con tua mamma e tuo nonno fino ad adesso. Allora vi siete già conosciuti, eh? Hai visto, tesoro, ti sei fatto un' amichetta… avete anche la stessa età.”
“No, non è corretto – specificò lui – lei non ha ancora cinque anni.”
“Li compio a giugno, il sette giugno… mamma mi ha insegnato che io sono nata il sette giugno 1880. E tu?”
“Il ventisette gennaio 1880.”
“Elisa? – una nuova donna, chiaramente la madre data la somiglianza, si avvicinò a loro – Ecco dove eri finita: sempre a gironzolare per gli scaffali. Oh, ciao piccolo, tu devi essere Vato, vero?”
“Sì – arrossì lui – mi chiamo Vato Falman.”
“Ma che tenero, è timido!”
“Sei diventato tutto rosso in viso – constatò Elisa, inclinando la testa con curiosità – sei rosso, bianco e nero… sei un bambino dai tanti colori.”
“Elisa – la richiamò Rosie – dato che tu e Vato avete fatto amicizia, questo pomeriggio vuoi venire a casa a mangiare una fetta di torta?”
“Che?” Vato annaspò sentendo quell’invito, senza che nemmeno gli venisse chiesto un parere.
“Mamma, posso?” chiese subito Elisa, giungendo le mani in segno di supplica.
“Ma certo, cara, abbiamo anche scoperto che abitiamo parecchio vicino. Così tu e Vato potrete giocare spesso assieme. Non è meraviglioso?”
“Evviva!”
Ma mentre la bambina saltellava sul posto, i capelli castani che si muovevano assieme a lei in ciocche disordinate e ribelli, Vato si sentiva come preso in trappola. Davvero doveva giocare spesso, ossia tante volte, assieme a lei? Non gli sembrava una bella prospettiva, proprio per niente. Lui aveva già Lollo con cui giocare ed il suo amico aveva i suoi medesimi interessi: i loro desideri coincidevano sempre e nessuno poteva prendere il suo posto.
Anche se lei era davvero carina e incredibilmente diversa da Ally.
 
Nonostante fosse partito abbastanza prevenuto nei confronti di quell’ospite a sorpresa per il suo compleanno, Vato si dovette ricredere e, a circa metà serata, arrivò alla conclusione che non tutte le bambine erano come sua cugina, alla quale, nonostante tutto, voleva un gran bene.
Elisa si era dimostrata una bambina molto differente che non aveva preteso nessun gioco strano da parte sua. Non si era portata dietro bambole o simili, era stata felice di partecipare a tutto quello che Rosie proponeva loro e che incontrava anche i gusti di Vato. E poi era interessata a tanti argomenti: per la prima volta in vita sua Vato aveva scoperto il piacere di spiegare qualcosa: un esperienza molto differente dal parlare con degli adulti che erano già informati su determinati argomenti. Come se non bastasse sapeva molte cose pure lei: gli aveva raccontato che sua madre, oltre che pensare alla casa, si occupava anche di far crescere diverse erbe che poi venivano usate in medicina. Disse alcuni nomi così strani e affascinanti che Vato ne restò profondamente affascinato e questo fece salire Elisa su un piedistallo del tutto particolare, tanto che a un certo punto decise di presentarla anche a Lollo.
“Ti voglio far conoscere un amico – disse, mentre avanzavano nel corridoio – si chiama Lollo.”
“E perché non ha partecipato pure lui alla festa?” chiese Elisa, prendendogli la mano, un gesto che fece irrigidire il bambino come mai gli era successo. Che era tutta questa confidenza? Si conoscevano da nemmeno un giorno.
“Mi hai preso la mano…”
“Mh, ho un po’ paura quando sono nei corridoi e ci sono le porte chiuse: se poi esce fuori un mostro?”
“No, non esistono i mostri. Per lo meno non a casa mia.” la tranquillizzò lui, sollevando la mano libera per aprire la porta di camera sua.
Come la bambina venne introdotta in quell’ambiente, Vato rimase sulla soglia ad osservarla: aveva paura che all’improvviso si mettesse a fare danni o a chiedere come mai non c’erano bambole o simili. Ma poi la vide andare verso il letto e puntare il dito verso Lollo, sistemato seduto contro il cuscino.
“E’ lui – dichiarò subito, facendosi avanti e sentendosi in dovere di fare le presentazioni ufficiali – si chiama Lollo ed è speciale.”
“Ciao, Lollo.”
“Sai, lui è un orso istruito – fece ancora Vato con aria di grande importanza – sa tutto quello che so io perché glielo insegno sempre. Quando leggo qualcosa lui è assieme a me e se non capisce glielo spiego.”
“Si vede che ha l’aria intelligente – annuì con convinzione Elisa – oh, ma ha l’orecchio destro rovinato.”
“E’ stato malato quando mio papà era qui ed io e mamma eravamo ancora a New Optain.”
“Che cos’è Niuoptan?”
“E’ il posto dove stavo prima – Vato allungò la mano e prese Lollo tra le braccia in modo da mostrarlo meglio – lì stanno ancora i miei nonni, zia Daisy e zio Max, zia Alyce e zio Luke con i miei cuginetti Ally e Loris.”
Elisa mise una mano sull’orecchio rovinato del pupazzo, un gesto che in qualche modo disturbò Vato. Tuttavia, nonostante quella trasgressione, il bambino capì che non c’erano cattive intenzioni.
“Aspetta – esclamò ad un tratto lei, iniziando a frugarsi nella tasca del grembiule – adesso lo curiamo. Sta dicendo che l’orecchio gli dà ancora fastidio.”
“Sì, ma Lollo è coraggioso e sopporta.”
“Però quando uno si fa male deve mettere il cerotto – spiegò lei prendendo un fazzoletto coi ricami rosa – tienilo che gli metto questo. Così poi non ha più la bua, funziona così.”
Con mosse leggermente maldestre avvolse l’improvvisato bendaggio sull’orecchio del pupazzo, fermandolo con un nodo instabile. Poi fece un passo indietro, fissando con orgoglio il suo operato.
“Ehi – ammise Vato – ora è contento.”
“E’ vero, guarda sorride. Sì, è vero, Lollo, ti sta proprio bene.”
“Dice che sei stata gentile.”
“Guarda che sento quello che dice. Mi piace, hai un amico davvero simpatico.”
“Credo che pure lui ti trovi simpatica.”
“Ho un’idea, perché non giochiamo assieme a lui? In tre è divertente.”
“Mh – annuì Vato, sedendosi sul pavimento – Lollo conosce un sacco di indovinelli e anche io!”
“Indovinelli? Belli! Quelli con le filastrocche?”
“Certamente. Dai, Lollo, inizia pure tu.”
 
“Stanno interagendo con quel pupazzo…”
Vincent lo disse con un’espressione così abbattuta che Rosie dovette mettersi la mano in bocca per trattenere una risata. Fece un cenno al marito per allontanarsi silenziosamente dalla porta aperta della camera di Vato e si avviarono fino alla cucina.
Il capitano era rientrato prima del previsto, lieto di poter fare quella piccola sorpresa al figlio, ed aveva scoperto che avevano una piccola ospite in casa. La cosa gli aveva fatto enorme piacere, del resto in quasi un mese e mezza che era in paese Vato ancora non aveva fatto alcuna amicizia… tuttavia come si era affacciato in camera aveva visto che Lollo ancora la faceva da padrone.
“Amore – Rosie scoppiò a ridere non appena la porta della cucina fu chiusa alle loro spalle – sei incredibile! Sul serio, dovevi vedere la tua faccia.”
“Nostro figlio e quella bambina hanno comportamenti anomali e tu ridi?”
“No, sei tu che sei anomalo, ma ti amo lo stesso – lo abbracciò lei – te l’ho detto: a cinque anni i bambini parlano con i loro giocattoli. Evidentemente tu sei stato l’eccezione che conferma la regola… non c’è niente che non va in Vato ed Elisa, anzi hanno l’aria di divertirsi parecchio. Non credo di aver mai visto nostro figlio così complice con Ally.”
“Una che faceva prendere il the alle bambole e chiacchierava con loro… – borbottò Vincent – ci credo che poi Vato mi diceva che le femmine sono strane. Eccezion fatta per la qui presente, ovviamente.”
“Ovviamente. Allora, Vincent Falman, sei pronto a fare buon viso a cattivo gioco e presentarti ad Elisa?”
“E di sicuro devo far finta che Lollo sia vivo…”
“Consideralo un regalo di compleanno per tuo figlio.”
 
Quella sera, dopo cena, Rosie andò in camera di Vato per aiutarlo a cambiarsi per la notte. Tuttavia il bambino era ormai deciso a dimostrare che era autonomo e si cambiò da solo, sebbene con qualche difficoltà. Così non le rimase che stare seduta nel letto, osservandolo districarsi per far entrare le braccia nelle maniche.
“Vieni, mio piccolo fiocco di neve – sorrise, infine – hai fatto un ottimo lavoro, ma c’è qualche cosa da sistemare.”
“Però i bottoni sono giusti.” fece notare Vato.
“Sì, sei stato bravo – si complimentò lei, sistemandogli meglio il colletto ed i pantaloni – ma col pigiama bisogna stare attenti altrimenti poi la notte ti scopri…”
“… e prendo il raffreddore, lo so.”
Finita l’ispezione, Rosie si alzò e fece cenno al figlio di mettersi sotto le coperte.
“Oggi non credo che tu voglia leggere prima di dormire, ti vedo molto stanco.”
“Io no, ma Lollo sì – ammise Vato, sistemando il pupazzo sotto le coperte accanto a lui – abbiamo giocato tanto con Elisa. E poi adesso Lollo deve guarire bene, vedi che ha il cerotto?”
“Gliel’ha messo Elisa? E’ proprio brava quella bimba vero?”
Vato si girò verso l’orso e fissò quel fazzoletto sistemato in maniera goffa, ma gentile.
“Credo che a Lollo piaccia molto.”
“E a te?”
Vato arrossì.
“E’ diversa da Ally…”
“La vogliamo invitare altre volte a casa?”
“Per me va bene… mamma, perché sorridi così? Mi stai facendo uno scherzo?”
“No, amore – ridacchiò Rosie – adesso chiudi gli occhi e dormi. Buonanotte.”
“Buonanotte…”
Come la luce venne spenta e la porta chiusa, Vato abbracciò Lollo e rifletté sul fatto che molto spesso le femmine erano strane… persino sua madre. Però Elisa era speciale, ne era certo.
Altrimenti Lollo non avrebbe parlato con lei.





Pew! Ce l'ho fatta a terminare il capitolo prima di partire. Purtroppo non sono riuscita nel mio intento di finire la fic per tempo, per cui per gli ultimi capitoli (non so ancora quanti) dovrete aspettare che io torni dopo il 12 agosto :P Buone vacanze

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Capitolo 19
*** Capitolo 19. 1885. Tutta colpa dei temporali ***


Capitolo XIX

1885. Tutta colpa dei temporali

 

Fu questione di qualche settimana prima che Vato ed Elisa diventassero davvero inseparabili.
La cosa fece enormemente piacere a Vincent e Rosie che, finalmente, vedevano il loro figlio molto più partecipe del mondo esterno, come se venisse stimolato nel modo giusto, senza forzature. Elisa sembrava intuire come prenderlo: sempre gentile e calma, nonostante l’età, era perfettamente consapevole di avere a che fare con una personalità un po’ particolare che, tuttavia, le andava a genio.
Effettivamente anche la madre della bambina confermò che era la prima volta che Elisa stringeva amicizia in maniera così profonda. Non che avesse mai disdegnato la compagnia ed i giochi con le sue coetanee, ma sembrava preferire nettamente quella istruita di Vato.
Così divenne normale per Rosie avere quella piccola ospite a casa: entrambi i genitori di Elisa lavoravano e spesso la bambina era lasciata dal nonno o da qualche parente. Poter passare il pomeriggio con Vato le risultava decisamente più gradito.
“E questa è una e – spiegò il bambino un pomeriggio, indicando la lettera con il dito – vedi? E’ facile: le metti tutte assieme e diventa cane.
Tuttavia quello che sembrava normale e facile per lui non era alla portata di Elisa che, ovviamente, aveva bisogno di una spiegazione più semplice e fatta da una persona esperta.
“Non ci riesco…” ammise lei, cercando di seguire le lettere con l’indice.
“Vato, non essere insistente – lo rimproverò leggermente Rosie, vedendo l’aria abbattuta d maestro e allieva di fronte all’ennesimo fallimento – quante volte ti devo ripetere che ogni persona ha i suoi tempi?”
“Quando inizio la scuola ti prometto che imparo – disse Elisa, cercando di consolarlo – magari la maestra mi aiuterà a capire bene come si fa… forse tu hai imparato in modo diverso.”
“Però è strano – scosse il capo lui – tu sai un sacco di nomi delle erbe e conosci tante altre cose… dovresti riuscire a leggere senza problemi. Sei sicura di non voler riprovare?”
“Vuoi proprio farlo?” e la sua aria sconsolata faceva capire che gli esercizi di lettura non erano il miglior modo per passare quel pomeriggio.
“Beh, se vuoi posso leggere io – si arrese lui – andiamo in camera e… oh, piove.”
Si girò verso la finestra, sentendo le prime gocce che si abbattevano sui vetri.
“Oh no – sospirò Elisa – i temporali sono iniziati!”
“E’ un solo temporale. Inizia e finisce.” corresse lui
“No – scosse il capo la bambina, con aria preoccupata – qui durano tanti giorni e sono uno dopo l’altro. E sono brutti perché fanno i tuoni forti e di notte mi fanno tanta paura.”
Vato la fissò con perplessità, non riuscendo a capire dove stesse il problema. Ovviamente conosceva i temporali: a New Optain, in autunno, accadeva spesso che ce ne fossero. Tuttavia trovandosi molto più a nord erano assai più frequenti le nevicate, sicuramente molto meno rumorose.
E, di conseguenza, il bambino non aveva ancora sperimentato cosa volesse dire sentire tuoni così violenti che continuavano ad imperversare per ore ed ore.
 
“Non smette ancora!” si lamentò Vato all’ora di cena, osservando con apprensione il cielo che si illuminava a giorno per il nuovo fulmine.
“Sì – spiegò Vincent – qui c’è una vera e propria piccola stagione delle piogge, me lo stavano raccontando alcuni agricoltori proprio stamattina. Per qualche settimana ci sono questi temporali intensi e di conseguenza bisogna sempre tenere d’occhio il fiume: a volte capita che esondi.”
“Spero che non ci siano pericoli in vista – commentò Rosie, aiutando il bambino a riempire il proprio bicchiere d’acqua – a New Optain non succede mai nulla del genere. I problemi più gravi li ha sempre causati la neve con le strade impraticabili, ma niente che preoccupasse davvero la città.”
“E’ un tipo di clima diverso – scrollò le spalle Vincent – si tratterà solo di farci l’abitudine.”
Come il padre disse la parola clima a Vato tornò in mente il libro di scienze che gli aveva dato sua madre diversi mesi prima. Forse poteva trovare una risposta a quello che si prospettava essere un problema bello grosso: quei temporali proprio non gli piacevano, erano totalmente diversi rispetto a quelli che aveva conosciuto a New Optain. Non aveva mai visto lampi così violenti e soprattutto non gli era mai capitato di udire dei tuoni così forti ed improvvisi: più di una volta era sobbalzato, colto di sorpresa da quel fenomeno e, se doveva essere sincero, iniziava ad avere una certa paura, specie man mano che l’ora di andare a letto si avvicinava. Elisa gli aveva raccontato che i tuoni e lampi erano spaventosi soprattutto la notte quando si era soli nei propri letti e lui iniziava a credere che fosse vero.
Così, dopo cena, corse in camera sua a recuperare il prezioso libro e lo sfogliò con impazienza, cercando la pagina dove veniva spiegato il fenomeno dei temporali. Perché per lui funzionava così: quando conosceva bene qualcosa smetteva di averne paura.
Per quale motivo non doveva funzionare anche questa volta?
Avrebbe dimostrato ad Elisa che lui era un bimbo forte e coraggioso.
 
“Accidenti, proprio non smette d’intensità – commentò Rosie, finendo di prepararsi per la notte – raramente ne ho visto di simili a New Optain… quando ero ragazzina li consideravo come qualcosa di romantico, ma in questo caso non ci vedo niente di bello. Preferisco di gran lunga la neve…specie da quando incontrai un giovane poliziotto davanti al mio negozio.”
“Ah, il mio piccolo fiore romantico e sognatore – sorrise Vincent, baciandola sul collo non appena lei si infilò sotto le coperte – lo sai che a volte sento la mancanza delle nostre colazioni segrete sotto la neve?”
“Solo noi due, con la città ancora addormentata… i tuoi capelli erano sempre umidi. Come non ti prendessi un raffreddore ancora non lo so.”
“Mh, avevo il tuo meraviglioso caffè a scaldarmi: sarei uscito anche in mezzo ad una bufera per raggiungerti, Rosie McLane.”
“Qui più che altro mi dovrai raggiungere in mezzo ai temporali.” ridacchiò lei accoccolandosi nell’abbraccio del marito.
 
Alle due di notte fu come se un piccolo fulmine fosse riuscito ad entrare dalla finestra, superando imposte e tende, per saltare sopra di lei. All’improvviso il suo sonno venne interrotto da qualcosa che le saliva sullo stomaco.
“E’ il fronte freddo!” ansimò una vocina, mentre delle piccole mani le tiravano la manica della camicia da notte.
“Eh? – Rosie aprì gli occhi, spaventata da quel risveglio così brusco – Che…?”
“L’aria fredda incontra la calda – c’era una disperata urgenza in quella spiegazione – e la fa sollevare! E cala la pressione… e poi si crea il tuono… ed è quando si ha…” la spiegazione accademica venne interrotta da un tuono particolarmente forte e con un singhiozzo Vato si strinse al petto della madre.
“Amore! – lo consolò lei, cercando di allentare quella stretta così forte – Vato, è solo un temporale, non c’è nulla di cui aver paura…”
“Ma che ha…?” la voce assonnata di Vincent arrivò dall’altra parte del letto.
“I tuoni…” spiegò lei, cercando di calmare il bambino. Non l’aveva mai visto così spaventato in vita sua.
“I fulmini e i lampi avvengono nello stesso momento – continuò Vato, tremando lievemente e cercando di mantenere un tono di voce saldo – solo che… che la luce è più veloce del suono e si vede prima il fulmine rispetto al tuon… mamma!”
Quasi urlò quando un tuono particolarmente forte fece vibrare le imposte.
“Perché ci sta spiegando i temporali a notte fonda?” sospirò Vincent accendendo la luce e girandosi a guardare suo figlio stretto al petto di Rosie.
“La luce è più veloce del suono…” singhiozzò Vato, come se quella frase spiegasse tutto.
“Oh no, fiocco di neve – lo consolò la madre, accarezzandogli i capelli – non devi aver paura dei tuoni. Sei a casa, al sicuro… va tutto bene.”
“E hai anche una tua camera ed un tuo letto – gli ricordò Vincent, riadagiandosi sul cuscino – sai bene che nel letto di mamma e papà dormi solo quando sei malato e vai tenuto d’occhio durante la notte.”
Rosie fissò il marito con aria di supplica, ma sapeva che per determinate cose era irremovibile. Una di queste era impedire al bambino di prendere determinati vizi, come quello di dormire sul lettone. Faceva parte di quelle regole che Vato aveva imparato sin dai primissimi anni e che andavano rispettate senza alcuna discussione.
Tuttavia, sentendo il bambino così disperato, per una volta tanto non se la sentì di assecondare quella rigidità così marcata: in fondo quella che stava vivendo era un’esperienza del tutto nuova e spaventosa che andava assimilata con una certa dolcezza e…
“Forza, adesso dai il bacio della buonanotte a tua madre e torna in camera. Non hai niente di cui preoccuparti: i tuoni sono solo rumorosi, niente di più.”
“Mamma, per favore! – pianse il bambino – Non voglio stare solo…”
“Non potremmo almeno per stanotte?” propose Rosie, intuendo che il problema poteva degenerare.
“Le regole sono regole e lui lo sa bene – Vincent si sedette nel letto, passandosi una mano tra i capelli arruffati – non vanno assecondati i capricci.”
“Ha solo paura.”
L’uomo lanciò uno sguardo alla moglie e annuì.
“Può stare per altri cinque minuti, il tempo di calmarsi. Poi dritto in camera, giovanotto.”
“Ma i tuoni…”protestò lui.
Ho detto dritto in camera tua – la voce era quella che non ammetteva repliche – non hai né influenza né altra malattia ed il tuo lettino ti aspetta. E’ notte fonda ed i bravi bambini sono a fare la nanna.”
“Papà…”
“Che c’è?”
“Perché quando due correnti d’aria si incontrano devono generare il fenomeno atmosferico del temporale? – c’era una notevole componente di supplica nella sua voce – Non… non capisco.”
Era così patetico e buffo sentire quella vocina che diceva termini così particolari come fenomeno atmosferico e se non fosse stato per il cipiglio arrabbiato del marito, Rosie sarebbe scoppiata a ridere.
“Non lo so, Vato – disse Vincent – sono un poliziotto e non rientra tra le cose che ho studiato. E soprattutto non ho voglia di discuterne alle due di notte. Forza, torna in camera tua.”
“Lo riaccompagno io –  Rosie scostò le coperte e prese in braccio il figlio – vieni, cucciolo, la mamma ti aiuta a riaddormentarti.”
Vincent li osservò uscire con un cipiglio contrariato: conferenze sui fenomeni atmosferici alle due di notte? Decisamente a volte suo figlio si dimostrava davvero un bambino strano.
E che sia solo un caso isolato… non ho nessuna intenzione di improvvisarmi scienziato per lui ed i suoi capricci infantili.
 
“Inizio ad odiare questo maledetto tempo, sul serio.”
Vincent quasi ringhiò quella frase circa due settimane dopo quel primo incidente notturno.
“Non otterrai nulla in questo modo – sospirò Rosie, rimettendosi sotto le coperte – domani notte sarà di nuovo la stessa storia.”
“E allora anche domani notte si prenderà un paio di sculacciate e continuerà così fino a quando non la smetterà… o non smetteranno questi temporali. E non guardarmi così, non lo sto mica frustando.”
“Se mi permettessi di riaccompagnarlo a letto e di calmarlo come si deve, eviteremmo ampiamente questi pianti notturni.”
“Non devi accorrere da lui per il minimo capriccio infantile. E’ così che si rovina il carattere.”
“Ma quali capricci – lei si incupì – ha paura, tutto qui. Con la luce spenta il temporale è tutta un’altra cosa per lui, così come lo è per tantissimi bambini.”
“E allora che impari a superare questa maledetta paura! Dannazione, stiamo imparando a memoria tutti i segreti dei fenomeni atmosferici a furia di vederlo piombare qui ogni notte… sembra che alle due gli scatti una sveglia per la quale deve venire a sfogare le sue paure interrompendo il nostro sonno.”
“Ha cinque anni… Vincent, possibile che tu non capisca? Stai pretendendo troppo da lui!”
I due si fissarono con aria di sfida, in totale disaccordo sul metodo con il quale affrontare quel problema. Quasi a fare da contorno a quel momento di tensione il temporale si fece sentire ancora di più e puntualmente tornò il pianto del bambino.
“Mamma!” la voce ovattata dalla porta chiusa giunse chiara e nitida.
“Questa volta le prende sul serio – si incupì Vincent – vedi come gli passa la paura…”
“Non ci provare nemmeno – sibilò Rosie, alzandosi dal letto ed andando ad aprire la porta giusto in tempo per far entrare il bambino – vieni, fiocco di neve, la mamma dorme assieme a te stanotte.”
“Sul serio?” esitò Vato, mentre veniva preso in braccio.
“Ma certo – lo baciò sulla guancia umida per le lacrime – vedrai che i tuoni non ti disturberanno più.”
E prima di chiudere lanciò al marito un’occhiataccia che lo sfidava a contraddire quanto aveva appena detto.
 
Vincent era un sostenitore dell’educazione vecchio stile che non concedeva troppi capricci ai bambini.
Riteneva che, per quanto piccolo, suo figlio fosse perfettamente in grado di assimilare determinate e basilari regole ed era altrettanto convinto che a queste regole si dovesse attenere senza troppe discussioni. Effettivamente con un bambino come Vato, di carattere obbediente e tranquillo, erano rare le volte in cui le regole erano disattese e bastava sempre un richiamo per riportarlo all’ordine. Di conseguenza erano anche rare le volte in cui lui e Rosie avevano discusso riguardo i metodi pedagogici da adottare.
Tuttavia sembrava che quell’idillio durato cinque anni fosse messo a dura prova da quei temporali che non accennavano a finire, così come le sveglie notturne del meteorologo di famiglia, come ormai l’aveva soprannominato Vincent.
Rosie l’aveva diffidato dall’alzare le mani sul bambino per quanto concerneva quel problema notturno. Ogni notte, quando arrivava il momento di mettere a letto Vato, i loro sguardi si incontravano come a sfidarsi.
Gentilezza e comprensione – sbuffò il capitano, mentre la osservava sistemare il pigiama del bambino e rassicurarlo con dolci parole –sciocchezze, sta solo assecondando i suoi capricci. E ad andare avanti così finirà per viziarlo.
Perché non aveva dubbi in merito: andare con lui nel lettino ogni volta voleva dire viziarlo. Era vero che poi  Vato riprendeva a dormire tutta la notte senza più svegliarsi, ma non andava bene. Era abbastanza grande per dormire da solo, e se proprio aveva bisogno di compagnia che usasse il suo orso di pezza.
“Per quanto ancora intendi obbligare tua madre a venire da te ogni notte?” chiese con voce severa, mettendosi a braccia conserte.
“Non lo sgridare – Rosie fece subito da contraltare all’uomo – tranquillo, fiocco di neve, alla mamma non crea alcun problema stare nel lettino con te.”
“E’ che i tuoni qui sono forti – spiegò Vato con vergogna – più che nelle altre stanze, ne sono sicuro.”
“No, è solo la tua impressione. Te l’ho già spiegato: non entrano dentro casa.”
“Lo fanno – scosse il capo bicolore il bambino – solo quando c’è la mamma se ne stanno lontani.”
Ovviamente non c’era nessuna spiegazione accademica a questo fenomeno, lo sapeva bene. Aveva provato a cercare nel libro se si parlava del potere delle madri di allontanare il pericolo, ma non se ne faceva accenno: dunque non poteva mostrare al padre una pagina relativa a tale cosa e dimostrargli così il fondamento della sua teoria.
“E il tuo amico orso che cosa ne pensa di questa storia? – Vincent accennò al pupazzo – Non ti dice di vergognarti perché ormai sei grande e non dovresti aver paura?”
Vato fissò il suo amico di pezza che da qualche tempo non parlava più come una volta. Sicuramente era così spaventato dai temporali che preferiva essere solo un pupazzo ed evitarsi così tutte le paure che comportava l’essere cosciente… come dargli torto?
“Quando ci sono i temporali Lollo fa il pupazzo, così non lo sente e non ha paura… però io non posso.”
“Ma che discorsi sta facendo…”
“Vincent, ti prego. Adesso stai tranquillo, fiocco di neve, mettiti sotto le coperte e chiudi gli occhi, da bravo. La mamma resta con te fino a quando non ti addormenti.”
“… papà…”
“Che c’è?”
“Non… non mi dai il bacio della buonanotte?”
“Ti darei volentieri un paio di sculacciate della buonanotte – sospirò l’uomo, accostandosi al letto per arruffare con gentilezza i capelli del bambino – cerca di fare la nanna per tutta la notte, intesi?”
“Io ci provo, sul serio.”
“Lo so, ragazzino. Forza, chiudi gli occhi adesso.”
 
“Stai iniziando a cedere – disse Rosie con notevole soddisfazione mentre si mettevano a letto – cominci a capire che per determinate cose bisogna essere comprensivi e non severi.”
Vincent rispose con un mugugno a quella provocazione ed evitò di incontrare lo sguardo della moglie: detestava ammettere di aver sbagliato ed era sicuro che in quel momento l’espressione di Rosie era molto simile a quella di Daisy.
“Forza, andiamo – continuò lei pungolandolo lievemente sul fianco – ti stai chiedendo se forse non è il caso di smetterla con le sgridate ogni volta che viene qui. Sei suo padre, da te ricerca amore e protezione quando ha paura… perché è così difficile capirlo e provare a cambiare atteggiamento?”
“Sarebbe come viziarlo.”
“No, sarebbe semplicemente aiutarlo – la voce di Rosie si addolcì – non vedi come è mortificato con te? Ogni volta che vado da lui piange tanto perché sa che tu sei arrabbiato: lo fai sentire una delusione.”
“Ma che idee si mette in testa? – Vincent si girò a guardare la moglie – Lo sto solo sgridando, non gli ho mai detto di essere una delusione.”
“Amore, ha cinque anni – lei scosse il capo con incredulità – i suoi ragionamenti sono più semplici del previsto, a prescindere da quello che legge. Se tu lo sgridi lui lo interpreta come una mancanza nei tuoi confronti.”
Ormai il seme era stato piantato: se c’era una cosa che Rosie sapeva fare era instillare nel marito i giusti dubbi per fargli rivedere determinati atteggiamenti nei confronti di Vato. Nonostante il bambino idolatrasse il genitore, era lei quella che meglio comprendeva i suoi atteggiamenti, le sue espressioni, le sue piccole e grandi paure infantili. E dunque era quella che sapeva fare da tramite tra un figlio troppo timido per affrontare il problema col padre ed un marito che spesso faticava a tralasciare atteggiamenti troppo rigidi e radicati.
“Stanotte, se si sveglia vai tu da lui e parlagli – suggerì, abbracciandolo – vedrai che gli sarà di grande conforto e magari lo aiuterà a superare la paura.”
 
Anche quella notte aveva fallito nel suo proposito: i tuoni erano sempre forti, qualsiasi metodo per allontanare il rumore era andato male e così si era ritrovato a singhiozzare e a chiamare i genitori. Stava nel suo lettino, il viso affondato sul cuscino, sperando che la mamma lo sentisse così da non essere costretto ad andare in camera dei genitori ed essere sgridato di nuovo dal papà.
Era così brutto vederlo arrabbiato: negli ultimi giorni non faceva altro che rimproverarlo per questa sua fobia notturna. Ma come poteva spiegargli che ci aveva provato in tutti i modi a non aver paura?
“Ehilà, meteorologo di famiglia – proprio la voce del padre lo fece riscuotere ed alzò lo sguardo con estrema sorpresa, accorgendosi che la luce era stata accesa – hai chiamato?”
Il fatto che fosse venuto lui e non la mamma poteva essere indice di guai seri, ma la piccola mente di Vato percepiva soltanto la paura per i tuoni e contro questo fenomeno così spaventoso la presenza degli adulti funzionava da conforto, a prescindere dalle loro intenzioni.
“I tuoni fanno paura.” mormorò, passandosi il dorso della mano sugli occhi.
“Va bene, vediamo che cosa possiamo inventarci – con un sospiro Vincent si sedette accanto a lui, permettendogli di accoccolarsi sul suo grembo – ci sarà un modo per allontanare questi tuoni, no?”
“Sono sempre qui – scosse il capo Vato – solo la mamma li allontana.”
“No, semplicemente con la mamma hai meno paura perché non sei solo. Senti, lo sai come si fa a capire se un temporale si allontana o si avvicina?”
“No…” Vato si girò di lato in modo da scrutare il padre, una prima forma di curiosità che compariva negli occhi dal taglio allungato.
“Quando vedi la luce del lampo dalle imposte inizia a contare quanti secondi passano prima del tuono: se aumentano vuol dire che il temporale si sta allontanando.”
“Perché la luce viaggia più veloce del suono?” chiese ansioso lui.
“Ehm, presumo che sia per questo… vogliamo provare assieme?”
“Va bene! – annuì lui, trovando il coraggio di districarsi dalle coperte per sistemarsi seduto accanto al padre – so contare solo fino a dieci, pensi che basterà?”
“Spero proprio di sì. Allora sei pronto?”
“Prontissimo! Un…ahhh!”
Il tuono scoppiò praticamente in contemporanea al lampo e Vato si strinse contro il fianco di Vincent con un singhiozzo. Il capitano si trovò in estrema difficoltà a staccarlo dalla propria persona, sembrava che avesse artigli al posto delle dita.
“Va bene, vuol dire che è proprio sopra di noi – cercò di rassicurarlo – però ora si dovrebbe allontanare, vogliamo riprovare? Uno… Non urlare! C’è già il tuono a fare rumore!”
“Non se ne va! – singhiozzò Vato – Continueranno per sempre e riusciranno ad entrare in camera e rapirmi, lo so!”
“Ma che idiozie vai a dire?”
“Papà, per favore… mandali via, ti prego!”
“Vato, sono dei dannati tuoni, non posso mandarli via: bisogna aspettare che passi, ma non c’è pericolo.”
“Sì invece!”
Vincent sospirò, capendo che non c’era alcun modo di far ragionare il suo pargolo: solitamente razionale, ora era in preda ad una paura cieca che gli impediva di accettare qualunque spiegazione. E sembrava che il temporale ci mettesse del suo, scegliendo quei minuti per manifestarsi con maggiore intensità.
“Se provano ad entrare li arresto!” esclamò infine per calmare quel delirio.
Ecco, l’aveva fatto: si era abbassato a scendere a patti con le puerilità di Vato. Arrestare i tuoni, certamente: se qualcuno l’avesse sentito avrebbe di certo messo in dubbio la sua sanità mentale.
Però sembrava che con Vato funzionasse.
“Davvero?” chiese infatti il piccolo nascondendo il viso sulla sua spalla.
“Dannazione, certo – annuì Vincent, accarezzandogli la schiena e cercando assumere un tono di voce carico di contegno, nonostante si vergognasse profondamente di se stesso – se provano ad entrare in camera tua li arresto per violazione di domicilio e soprattutto per tentato rapimento di mio figlio. E tu sai bene che papà compie sempre il suo dovere.”
“Oh, papà! – le braccia del bambino si strinsero ancora di più attorno a lui – allora sei il poliziotto dei temporali! Li tieni buoni e impedisci che facciano male ai bambini!”
“Certo… ovviamente. E’ uno dei motivi per cui sono stato chiamato in questo posto: qui ci sono temporali più cattivi rispetto a New Optain e avevano bisogno di me.”
Dannazione, ma che sto andando a dire…?
“Avete sentito brutti cattivi? – Vato si girò con sfacciataggine verso la finestra – Provate a venire e mio papà vi arresta tutti! E lui è capitano di polizia e lo fa senza problemi!”
“Vero, amore? – la voce di Rosie fece voltare Vincent – Papà è proprio un bravo poliziotto.”
“Li tiene buoni, mamma, è fantastico! Ascolta… si sentono già di meno: hanno paura di papà!”
“Hai il sogghigno di quella vipera di tua sorella…” sibilò Vincent, cercando di non farsi sentire da Vato che, in quel momento, si stringeva di nuovo a lui con orgoglio e felicità e sfregava la testolina bicolore contro il suo collo.
“Scommettiamo che nell’arco di un paio di giorni non si spaventa più?” strizzò l’occhio lei con aria complice.
“Va bene, lo ammetto, avevi ragione tu… sei contenta ora?”
“Anche Lollo dice che sei fantastico, papà! Ora che i tuoni si sono spaventati è tornato pure lui.”
“Vigliacco di un pupazzo… il lavoro sporco l’ha fatto fare a me.”
“Eh?”
“Niente, Vato, niente! Bene, adesso direi che possiamo tutti tornare a dormire, non credi?”
“Va bene! Però… glielo ricordi ai tuoni di non fare da cattivi? Così… per essere sicuri…”
A quella supplica del bambino, Vincent si sentì preso in trappola: fare una scena madre davanti a sua moglie? Ma perché il mondo gli voleva così male quella notte?
Ma a fare da contraltare a quel problema di dignità, c’era il faccino speranzoso di Vato. E così…
“Statemi a sentire, tuoni! Siete tenuti costantemente sotto controllo, lo sapete bene: ci sono celle per tutti voi alla stazione di polizia e non esiterò a sbattervi in galera se disturberete ancora il sonno di mio figlio…”
“… e di Lollo!”
“… e del suo amico Lollo, sono stato chiaro? Adesso siete pregati di circolare, non c’è niente da vedere qui. Forza e coraggio, ciascuno se ne torni a casa propria. Il poliziotto dei temporali, Vincent Falman, vi tiene sotto costante osservazione, ricordatelo.”
Quella scena madre gli valse l’imperitura ammirazione di Vato (e di Lollo) e dieci minuti di risate da parte di Rosie che, per i giorni successivi, non smise di chiamarlo poliziotto dei temporali. Ma almeno l’emergenza venne risolta… anche perché nell’arco dei successivi due giorni terminarono di loro spontanea volontà.
 





disegno di Mary ^__^

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Capitolo 20
*** Capitolo 20. 1885. Ambientarsi ***


Capitolo XX

1885. Ambientarsi.

 

“Come mai una donna d’affari come lei si è trasferita in un posto come questo?”
Era una domanda che a Vincent bruciava da parecchio, ma aveva aspettato di aver raggiunto un minimo rapporto di confidenza e fiducia con Madame Christmas prima di porla. Se doveva essere sincero quel donnone era la persona più interessante di tutto il paese; non che gli altri fossero cattive persone, tutt’altro, ma erano spesso chiusi in schemi molto semplici e campagnoli e ogni tanto Vincent sentiva la mancanza di menti più cittadine e che in qualche modo gli ricordassero il tipo del lavoro che svolgeva quando stava a New Optain.
Chris Mustang era il tipo di persona adatta: nonostante paresse perfettamente adattata a quella realtà tranquilla, si capiva che la sua mente era rapida e che nella sua vita ne aveva viste di tutti i colori. Era una di quelle persone a cui piace tenere le redini del gioco, in silenzio, dietro le quinte… il tipo a cui un poliziotto avrebbe chiesto informazioni. Però lei andava oltre tutto questo e Vincent lo intuiva: nelle sue missioni gli era capitato spesso di vedere proprietarie di bordelli e la maggior parte delle volte si trattava di donne senza scrupoli che trattavano quelle ragazze come merci per i propri scopi. Non era una bella realtà specie se si considerava che diverse di quelle donne erano solo poverette con cui la vita era stata particolarmente crudele e che le aveva obbligate ad una simile scelta.
Madame Christmas aveva una risata acida e sfrontata, la lingua pronta al sarcasmo e ad osservazioni acute, ma era chiaro che teneva a tutte le sue ragazze. Certo le chiamava oche e molto spesso le rimproverava per il loro poltrire, ma Vincent intuiva che non avrebbe mai permesso che una di loro venisse bistrattata o obbligata a fare cose che non voleva. E questo era un trattamento che non aveva mai riscontrato a New Optain.
“Potrei fare la stessa domanda a lei, capitano – sorrise la donna, versandogli il caffè – ma le notizie corrono veloci e so già della sua prodezza a New Optain. Devo ammettere che è raro incontrare poliziotti come lei e nel mio lavoro ne ho visti parecchi… però quelli onesti molto spesso si tengono lontani da simili locali.”
“Se il mio lavoro mi impone di cercare informazioni o andare in posti come un bordello lo faccio senza rimpianti. Non manco di rispetto a mia moglie nel parlare con lei o le ragazze: siete esseri umani, persone, avete una vostra dignità. Se non la pensassi così allora dovrei evitare di rivolgere la parola a qualsiasi donna sulla faccia della terra.”
“Sua moglie lo sa che viene qui quasi ogni mattina a prendere un caffè e a parlare con me?”
“Sì, lo sa – annuì lui senza problemi – gliel’ho detto da quando è arrivata e lei non ha posto alcun problema: ci fidiamo l’uno dell’altra e sa benissimo che non riuscirei a stare con un’altra donna che non sia lei.”
“Accidenti – scoppiò a ridere l’altra – in genere anche i più saldi nella loro fedeltà vacillerebbero davanti alle mie ragazze, ma in qualche modo intuisco che lei parla sul serio capitano. E comunque la sua signora non ha nulla da temere: le mie ochette lavorano solo la sera e solo su richiesta, non seducono. Del resto in un posto come questo bisogna essere discreti, è la regola: sanno che esistiamo e sanno anche che in fondo c’è bisogno di un locale così… ma tutto deve restare qui dentro e per il resto del tempo noi dobbiamo fare le brave. E non è male come compromesso.”
“E’ una delle motivazioni che l’ha spinta qui? Il suo accento non mi sembra di questa parte… nemmeno dell’Est.”
“La mia famiglia è originaria di Central City, se proprio vuole saperlo – la grossa mano frugò nelle tasche della vestaglia per tirare fuori un accendino: era incredibile la leggerezza e l’agilità di quelle dita considerata la stazza della proprietaria – e si stupirebbe nel sapere che il cognome Mustang è stato abbastanza importante nella buona società. Effettivamente i miei vecchi non sono stati molto felici di sapere che strada aveva intrapreso la loro figliola… chissà, magari speravano in un bel matrimonio per dare nuova linfa al polveroso nome di famiglia. Ma i soldi per la dote non erano molti e non ero proprio un bel bocconcino e, se devo essere sincera, non ero molto interessata a quel tipo di vita.”
La risata era acida, ma non priva di una certa eleganza: la parte più profonda dei suoi modi di fare indicava chiaramente le sue origini borghesi e la buona educazione. E se la base di partenza era quella, per far arrivare Chris Mustang alla persona che stava seduta con lui in un bordello, doveva esserci una storia parecchio interessante.
“Io non posso vantare origini così particolari – ammise Vincent, restituendo il sorriso – anzi la mia storia personale vista dall’esterno è noiosa e deprimente, almeno per i primi ventitré anni. Credo di essermi dato una svegliata solo quando ho conosciuto mia moglie.”
“Ah! Capitano! Si vede che lei è una di quelle persone che si innamora una sola volta e per sempre. Sembra una romanticheria, ma ne ho viste tante nella mia vita che non mi sorprendo di niente… molte delle mie ochette sono finite qui proprio perché hanno creduto alla storia del vero amore o cavolate simili. Ma sua moglie è stata così fortunata da trovare uno di quegli sciocchi che ci credono davvero.”
“E’ sciocco?”
“In città come Central City molto spesso sì… forse in queste realtà campagnole è più facile. Magari i sentimenti sono più semplici così come la vita. Per esempio non credo che mio fratello e sua moglie siano stati davvero innamorati l’uno dell’altra, per quanto abbiano scodellato persino un marmocchio… uh, che è quella faccia? Sì, ho un fratello maggiore e certamente la sorte è stata più buona con lui, almeno sotto il punto di vista dell’aspetto fisico!”
“Se devo essere sincero preferisco i sentimenti nelle loro forme più semplici – ammise Vincent, bevendo l’ultimo sorso di caffè – già tutte le regole del corteggiare e simili mi risultano fastidiose: preferisco un rapporto basato sulla sincerità. Se una persona mi piace glielo dico, non ha senso nascondersi dietro gesti o parole che deve interpretare.”
“E sua moglie non le ha mai rifilato uno schiaffo per questa mancanza di fantasia?”
“No – sogghignò Vincent – evidentemente anche lei la pensa in questo modo.”
 
“Grazie mille e arrivederci. Vieni, Vato, dobbiamo andare.”
Rosie si sistemò meglio la busta della spesa tra le braccia e si avviò fuori dal negozio, assicurandosi che il figlio le trotterellasse accanto come sempre. Come accadeva spesso, come la porta si chiuse alle sue spalle con uno scampanellio, tirò un sospiro di sollievo: la gente continuava a guardarla con curiosità, un fatto a cui non si era ancora abituata. A New Optain era normalissimo avere a che fare con degli sconosciuti nei negozi, ma in una realtà dove si conoscevano tutti, essere l’unica estranea non era facile.
La salutavano tutti con cortesia, ma intuiva che lei era la moglie del capitano Falman e non Rosie McLane. Una bella differenza rispetto a quando lavorava in pasticceria e tutti la salutavano, riconoscendola per quello che era, allo stesso modo di sua madre o delle sue sorelle. Le mancava quella sua piccola realtà, doveva essere sincera: era ridotta al negozio o poco più, ma era quella dove si era sentita veramente se stessa. Non riusciva a trovare un modo per relazionarsi a quelle persone, non con qualcosa che andasse oltre la cortesia: era come se il suo ruolo fosse totalmente indefinito, al contrario di Vincent che ormai era perfettamente ambientato in quel posto.
Lo capiva da come lo vedeva andare in giro parlando con gli altri poliziotti, con le persone per strada che già lo salutavano e scambiavano alcune chiacchiere con lui. Si era instaurato già un grande rapporto di fiducia tra capitano di polizia e cittadini, un fatto che magari poteva sembrare strano se si pensava alla compostezza di Vincent Falman, ma che in realtà era una delle doti migliori del poliziotto.
Ma la moglie del capitano non aveva la medesima fortuna, anche perché aveva a che fare con la parte del paese più difficile, ossia quella femminile. Non che le altre donne fossero cattive, tutt’altro, ma sapeva che comunque c’era un grande viavai di pettegolezzi su di lei: chi era, che cosa faceva prima di trasferirsi, perché non era arrivata insieme a suo marito ma solo un mese dopo… e sapere che si mormorava su di questo le faceva una certa impressione, specie ora che non c’era Daisy a farle da scudo. Le mancava da morire la sua sorellona e avrebbe tanto voluto esserle accanto ora che finalmente quella piccola crisi con Max era stata risolta. Le lettere potevano dare conforto, certo, ma mai quanto il sentire la voce, vedere lo sguardo di quegli occhi scuri identici ai suoi… essere consapevoli di quell’abbraccio morbido che sin dall’infanzia l’aveva fatta stare bene, a volte di più rispetto a quello materno.
“Mamma, questo pomeriggio viene Elisa, va bene?”
“Certamente, amore, vi preparo la torta, sei contento?”
“Grazie.”
Guardando suo figlio che sorrideva contento e continuava a procedere sicuro per la strada, Rosie riflettè che persino lui aveva trovato una sua piccola e sicura dimensione grazie ad Elisa. Sotto un certo punto di vista Vato era quello che aveva tratto maggiore giovamento da quel trasferimento, come se fosse uscito da un bozzolo troppo protettivo, ridotto ai genitori, ai nonni, zii e cugini, per aprirsi a qualcosa di più complesso come l’amicizia.
“Uh, Vato, aiuta la signora, da bravo – lo avvisò, vedendo la scena davanti a lei – ha difficoltà a raccogliere quel barattolo da sola.”
Annuendo il piccolo corse a pochi metri di distanza e raccolse da terra il barattolo di latta per poi porgerlo ad una donna al termine della gravidanza.
“Ecco signora.” sorrise con timidezza.
“Grazie, piccolino – rispose lei, riponendo l’oggetto nella busta della spesa – sei proprio gentile.”
“Anche mia zia aveva la pancia così quando stava per arrivare mio cugino Loris.” commentò Vato, incuriosito da quella novità.
“Ed infatti la signora sta per avere un bambino, caro – gli spiegò Rosie, accostandosi – mi sa che manca davvero poco.”
“Una decina di giorni – ammise l’altra, mentre una ciocca di capelli rosso fuoco le cadeva davanti all’orecchio – e ormai scalcia davvero tanto. Voi pargoletti siete davvero impegnativi nell’ultimo periodo di gravidanza… anche il mio primo piccolo, Heymans, mi ha fatto penare, specie perché è nato a Luglio. Almeno lui nasce in un mese più fresco.”
“Lui invece è nato in mezzo ad una nevicata di fine gennaio– ridacchiò Rosie – fanno quello che vogliono.”
“E già. Però adesso è meglio che vada, ho lasciato un pupo di tre anni che ora pretederà di mangiare. Buona giornata e grazie mille per l’aiuto, piccolo gentiluomo.”
Rosie osservò quella donna allontanarsi e sorrise. Eccetto la madre di Elisa era stata la prima con cui aveva avuto una conversazione totalmente sincera e disinteressata per quanto fosse stata di poche frasi. Era completamente mancata la curiosità di fondo, quel voler per forza carpire qualche dettaglio dalle parole pronunciate, dai gesti fatti o cose simili.
“Mamma, credi che il bambino avrà i capelli rossi come la sua mamma?” chiese Vato tirandole la gonna.
“Probabile amore mio, e sarebbe fortunato perché sono davvero belli.”
“A me piacciono di più i tuoi neri: quelli di quella signora sono un po’ mossi e credo che facciano i nodi quando si pettina.”
“E dimmi, quelli castani di Elisa sono belli?”
“Sì, certo, perché?”
“Lascia stare, piccolo gentiluomo, e torniamo a casa. Credo che sia ora della pappa anche per te.”
 
“Mi stava raccontando della sua famiglia.” incitò Vincent, rigirando leggermente la tazzina.
“Ah già… a pensarci bene è la prima volta che ne parlo da almeno una decina d’anni. Presumo che entrambi i miei vecchi siano morti ormai, anche se nessuno si è degnato di dirmi del loro funerale: non che ci sarei andata. Come può immaginare i rapporti non erano buoni da parecchio tempo… una Mustang che gestisce un simile locale non è stata una bella storia nel mondo incantato della buona società.”
“Non credo che l’abbia fatto per necessità.”
“Necessità? Ah, ma quando mai… sfizio personale: lei non ha idea di quanto marcio ci sia sotto la patina di perbenismo dei grandi cognomi. Io mi sono accorta che ero molto brava a combinare appuntamenti e, piano piano, sono arrivata a livelli interessanti.”
“Non fatico ad immaginarlo.”
“Con i contatti giusti entrai nel mondo dei bordelli di alta classe, anche se a guardare il locale dall’esterno nessuno ci avrebbe fatto caso. Spesso lì le proprietarie erano solo delle vecchie sfruttratrici senza un briciolo di fantasia: ci volle ben poco per prendere sotto la mia protezione un discreto numero di ragazze. Diciamo che in breve tempo il mio locale si fece una bella fama. Volevi una ragazza? La scelta migliore era da Madame Christmas… vino buono, belle ragazze, educate e discrete, ma ovviamente vivaci quanto basta.”
“Ma…? Perché c’è un ma, vero?”
“Sì, c’è e forse sono una sciocca a raccontarlo ad un capitano di polizia, ma si sa, il tempo passa per tutti e ci si rincitrullisce prima del previsto. Il nome di famiglia ha evitato per vie traverse guai troppo seri, ma ho dovuto levare le tende… le ochette che vede qui sono quelle che mi hanno seguito perché scioccamente hanno preferito alla carriera la loro protrettrice. Un gesto di fedeltà degno di un soldato, vero?”
“Cliente troppo focoso?”
“E troppo pieno di sé. La bimba si chiamava Clarissa e stava ancora allattando… sono le storie che odio di più quelle delle sciocchine abbandonate dal fidanzato non appena restano incinta. L’aveva trovata una delle mie ragazze piangente al quinto mese di gravidanza, buttata fuori di casa non appena la pancia era diventata impossibile da nascondere. E questa vecchia sciocca è troppo debole per chiudere la porta in faccia a una povera disgraziata che a diciassette anni ha scoperto la crudeltà del mondo.”
“Ha preso con sé lei e il bambino?”
“E’ sorprendente quanto le prostitute siano a volte più solidali della brava gente, vero? E lei aveva un visino da bambina tale che tutte le ragazze si affezionarono subito, me compresa. Dopo una prima paura divenne laboriosa in tutto e per tutto… non la facevamo certo lavorare in quel senso date le sue condizioni, ma di sua spontanea volontà aiutava in cucina, a lavare a stirare, una specie di cameriera per tutte le ragazze. E ovviamente quando è nato il bambino si sono tutte proclamate zie dell’infante. Era davvero simpatico quel marmocchio, lo ammetto… chissà se mio nipote è così, ma probabilmente non lo saprò mai. E’ già tanto che mi ricordo che si chiama Roy.”
“E che è successo poi?”
“Un cretino una sera l’ha vista che usciva dalla cucina per andare ad allattare. Era così ubriaco che non ha capito la differenza tra prostituta consenziente e ragazza che invece non deve toccare…se conosce i bordelli sa bene come è facile degenerare, specie quando l’alcool gira da diverse ore. E durante quella piccola scaramuccia erano presenti nel locale persone che aspettavano solo una scintilla per pareggiare alcuni conti personali. E diversi di loro non ne sono usciti vivi, compreso quell’idiota che aveva messo le mani sulla ragazzina.”
“Brutta storia…” commentò Vincent, mettendosi a braccia conserte.
“Già, anche perché quell’idiota era anche uno di buona famiglia, prossimo al matrimonio pergiunta. La futura sposa mi avrebbe dovuto ringraziare per il favore che le ho fatto.”
“Ovviamente nessuno sa da chi è partito il colpo che l’ha ucciso, vero?”
Vincent squadrò la donna con aria furba, notando ancora una volta quanto quelle mani fossero abbastanza rapide da estrarre una pistola da sotto il bancone e fare fuoco. Ed era pronto a scommettere che oltre alla rapidità quella donna possedeva anche una discreta mira.
“E chi può dirlo in quella confusione, sa benissimo come vanno queste cose, capitano – scrollò le spalle lei, un gesto che voleva dire tutto o niente – però il mio locale era compromesso e non mi andava che io o qualcuna delle mie ochette diventassimo bersaglio di qualche gesto di rappresaglia o simili. Diciamo che il trasferimento era necessario e più era lontano da Central meglio era… e così da circa cinque anni deliziamo il paese con la nostra presenza. Un tocco di modernità se vogliamo.”
“Non sente la mancanza di quella vita? – Vincent mise il cucchiaino dentro la tazza ormai vuota – Lei non mi sembra il tipo da abbandonare così facilmente una posizione di prestigio. Non senza lottare. Avrebbe potuto scegliere una realtà minore come East City, ma certo più grande di questo angolo di mondo… persino New Optain era una scelta più plausibile.”
“Ammetto che ogni tanto qui ci si annoia e non girano certo i grandi affari di Central City. Ma New Optain è decisamente troppo fresca per queste povere ossa ed East City è troppo provinciale; a questo punto meglio il meritato riposo in campagna E per rispondere alla sua domanda… suvvia, capitano, come dice lei, non è che rinuncio facilmente a tutto..”
Vincent fece un lieve sogghigno e annuì: ovvio che Chris Mustang aveva ancora dei contatti a Central City e chissà dove. Tramite carta si poteva fare lo stesso che tramite voce e sotto un certo punto di vista era anche più affascinante.
Indagare su tutto questo? No, assolutamente: Vincent Falman era un poliziotto integerrimo, ma intuiva quali erano determinati limiti. Gli affari di Central gli erano sconosciuti e non lo riguardavano perché erano più intricati di quanto potevano esserlo a New Optain o East City. E sapeva benissimo che in situazioni simili la fazione dell’ordine non sempre era nel giusto.
No, Madame Christmas stava bene dove stava, così come le sue ragazze che in qualche modo avevano trovato una realtà più tranquilla di quella che avevano sperimentato a Central. Qui in fondo erano più protette e sicure, dato che il massimo in cui potevano incorrere era qualche cliente in preda al fumo dell’alcool. Ma pistole o cose simili non circolavano certo tra la gente di campagna.
“E lei, capitano? – la donna lo guardò con aria interessata – Ha rinunciato del tutto a quello che era a New Optain? O ha fatto come me?”
Vincent ci riflettè a lungo in quanto quello era un punto davvero interessante. Tutto sommato avrebbe potuto in qualche modo lottare contro quel trasferimento e fare in modo che fosse solo temporaneo: se voleva qualche cavillo legale l’avrebbe trovato e se non a New Optain avrebbe potuto ottenere il trasferimento in una realtà un po’ più grande, ovviamente nell’arco di qualche anno almeno.
Però poi scosse il capo: la gente di quel posto ormai si fidava di lui e per quanto non avesse ancora fatto niente di particolare lo vedeva come un punto di riferimento. Molto probabilmente erano anche inorgogliti dal fatto di avere un capitano di polizia proveniente da una grande realtà. Notava come la sua piccola squadra fosse volenterosa nei suoi confronti: facevano di tutto per farlo ambientare, insegnandogli i segreti di quel piccolo mondo contadino così semplice eppure pieno di decine e decine di segreti, di accorgimenti da prendere, di problematiche quotidiane con cui avere a che fare.
Era quella la sua realtà e lui non sarebbe fuggito: a New Optain Max ed Alan erano stati la sua squadra ed aveva provveduto a loro fino a quando le vicende non li avevano separati. Adesso erano Steve e gli altri il suo gruppo ed aveva dei doveri nei loro confronti: non li avrebbe disattesi.
“Rinunciare a quello che ero è una parola grossa – sorrise alzandosi in piedi – diciamo che mi sono riadattato alla nuova realtà, un po’ come ha fatto lei. E proprio come lei ho imparato che una vita tranquilla non è niente male, specie se poi si ha occasione di fare incontri interessanti.”
“Ah, capitano – rise la donna, rispondendo al cenno di congedo –lo sa che ho pensato in questi cinque anni? Che l’unica cosa che mancava a questo posto era una persona con cui parlare decentemente… e a quanto pare è finalmente arrivata. Le offrirei anche un bicchierino per brindare alla nostra amicizia, ma scommetto che quando è in servizio non beve.”
“Indovinato.”
“E sua moglie?” chiese all’improvviso la donna, mentre Vincent aveva già la mano sulla maniglia.
“Mia moglie?”
“Anche lei ha rinunciato a qualcosa, no? Ha trovato una dimensione pure lei? Sa, a volte noi ragazze siamo piene di segreti tenuti ben nascosti.”
“Come le ho detto il rapporto tra me e Rosie è basato sulla fiducia.” si limitò a rispondere l’uomo.
 
Quella pomeriggio, mentre i bambini giocavano tranquillamente seduti davanti al caminetto, Rosie si accomodò al tavolo con l’intenzione di scrivere una lettera a Daisy. Aprì la scatoletta di cartone dove teneva la sua corrispondenza con New Optain e riflettè sul contenuto di quelle lettere.
Erano passati più di due mesi da quando si era trasferita e le lettere erano già quattro: si scrivevano ogni due settimane e, se doveva essere sincera, attendeva l’arrivo della posta con notevole ansia. Leggendo del negozio, della sua famiglia, le sembrava di essere in qualche modo a New Optain, di percorrere quelle strade che aveva imparato a conoscere con gli anni, di risentire i profumi del negozio e il vociare di sottofondo dei clienti. In qualche modo le sembrava di rivedere la vecchia Rosie McLane.
La calligrafia di Daisy era rotonda e piacevole da guardare, un po’ rifletteva l’aspetto fisico della scrittrice: era come sentire la voce gaia della donna che raccontava tutti quegli avvenienti seduta al tavolo davanti ad una fetta di torta.
“… e quindi quel poverino di Loris si è spaventato quando Max ha fatto finta di gettarlo nel sacco di farina. E’ molto differente rispetto a quando faceva il medesimo gioco con Vato. Il  mio piccolo pasticcino non faceva altro che ridere.”
E Rosie ebbe la certezza di vedere lo sguardo malinconico di Daisy. Sapeva benissimo quanto le doveva mancare il suo nipote prediletto e sapeva altrettanto bene che pure Vato sentiva l’assenza della zia più di quella di tutti gli altri parenti. Ogni tanto le chiedeva di lei e si raccomandava di salutarla tanto nelle lettere: uno dei motivi per cui ora smaniava più che mai di imparare a scrivere era di poter pensare da solo alla propria corrispondenza con la zia.
“… e comunque si sente la mancanza dei tuoi biscotti, piccolo fiore, come li facevi tu erano insuperabili. A dire il vero manca proprio la tua presenza in negozio, e so benissimo che non dovrei scriverlo perché rendo le cose più difficili per entrambe… ma sarebbe stato ipocrita nascondere questi sentimenti dietro frasi liete e gioiose, non trovi?”
Sì, sarebbe stato ipocrita e non sarebbe servito a molto. E tutto quello che era scritto in quelle pagine a righe era vero. Rosie McLane in qualche modo si sentiva stretta in quel piccolo angolo di mondo, una cosa che non avrebbe mai creduto possibile.
Ma più che sentirmi stretta, mi sento priva d’identità…
Posando la lettera della sorella prese in mano la penna per rispondere, chiedendosi cosa scrivere per equilibrare alla perfezione apparente felicità e malinconia. Però, non era vero: lei era felice in quel posto. C’erano Vincent e Vato e occuparsi della casa le dava soddisfazione incredibile perché sotto quel punto di vista si sentiva per la prima volta davvero indipendente in tutto e per tutto. Però come usciva al di fuori dall’ambito domestico si trovava profondamente spaesata e straniera e questa non era una bella sensazione, tutt’altro.
 
“E’ strano come posto, non credi?” chiese quella notte mentre si metteva a letto con Vincent.
“E’ successo qualcosa?”
“No, è solo che riflettevo… e se aprissi una pasticceria?”
Vincent la guardò con aria stranita, probabilmente domandandosi se fosse seria  o lo stesse prendendo in giro. Davanti a quella perplessità Rosie sorrise e scosse il capo.
“Tranquillo, era solo una sciocca idea… e credo che qui tutte le donne sappiano cucinare dolci più che bene, senza bisogno di venire in un locale di cui non hanno davvero bisogno.”
“Va bene, che sta succedendo?” Vincent ormai aveva capito che qualcosa non andava e si mise a sedere, accarezzandole i capelli neri. Inconsapevolmente gli tornarono in mente le ultime parole che Madame Christmas gli aveva rivolto quella mattina.
“Niente, sciocchezze infantili – ammise lei – è che fa uno strano effetto non poter lavorare ed essere vista solo come tua moglie, senza avere altro ruolo che quello. Devo ammettere che ho un po’ di difficoltà ad adattarmi alla gente di campagna… e prima che tu me lo chieda, nessuno mi ha dato fastidio, ma è inevitabile che tutti mi guardino con un po’ di curiosità.”
Nonostante il tono fosse noncurante, Vincent capì che sua moglie continuava a trovarsi leggermente a disagio nonostante i mesi passati in quel posto. Non gli aveva detto niente, anzi nelle sue manifestazioni quotidiane sembrava sempre la stessa.
Ed in realtà mi stavi nascondendo i tuoi sentimenti, o forse ero io che non volevo vederli.
“Senti la mancanza della tua famiglia e anche del negozio, posso immaginarlo – la fissò con aria rammaricata – mi dovevo aspettare che presto o tardi succedesse una cosa simile. Di fatto ti ho privato del tuo lavoro e di buona parte della tua vita: ti ho chiesto un sacrificio davvero grande.”
“Non vorrei che pensassi che… oh, Vincent, tu e Vato siete tutta la mia vita e io non voglio essere in nessun altro posto se non accanto a voi. Non hai niente da rimproverarti, sul serio… te l’ho detto, sono solo sciocchi pensieri. E’ che a settembre Vato andrà a scuola e così anche le mie mattinate saranno meno impegnate senza di lui. Ma vedrai che mi passa…”
Lo baciò in fronte e poi si accoccolò a lui, evidentemente considerando chiusa la questione.
Tuttavia il capitano rimase per diverso tempo ad osservarla, anche dopo che si era addormentata: doveva trovare un modo per far sentire sua moglie più a suo agio in quel posto.
 
Nemmeno una settimana dopo Rosie aprì la porta a Tania, la madre di Elisa, che era venuta a riprendere la bambina dopo un pomeriggio passato con Vato.
“Elisa, rimani ancora un po’ a giocare – disse la donna, vedendo che la bambina si stava già alzando dal divano – devo parlare con la signora Falman.”
Rosie rimase interdetta davanti a quella dichiarazione e si chiese cosa potesse volere da lei quella donna con cui aveva un rapporto molto cortese ed amichevole, ma con la quale non era mai avuto una conversazione che andasse oltre i convenevoli o i bambini.
La fece accomodare in cucina e le offrì una tazza di caffè, notando come fosse davvero simile alla figlia, con quei bellissimi occhi verdi ed i mossi capelli castani. Si notava che era leggermente diversa dalle altre donne del paese: aveva un modo di fare più delicato, forse dovuto al fatto che il suo lavoro richiedeva molta precisione. Era un’erborista e collaborava spesso con la farmacia locale: quando l’aveva saputo Rosie aveva pensato a lei come una specie di ammaliante strega dei boschi, il tipo di donna saggia che si trova spesso nei romanzi. Aveva cercato di smettere con quelle fantasticherie, ma quel pizzico di magia restava sempre, non ci poteva fare nulla.
“Lo so, è scortese quello che le sto per chiedere – iniziò la donna – ma proprio stamattina ho incontrato suo marito e mi ha detto delle cose su di lei che la rendono la donna perfetta.”
“Come?” Rosie sgranò gli occhi, chiedendosi cosa mai avesse detto Vincent su di lei.
“E’ tutto un disastro – sospirò ancora la sua ospite – dopo la festa del primo dicembre si hanno un paio di mesi di tregua, ma poi il paese si sveglia e decide di fare decine e decine di iniziative che andranno avanti fino alla vendemmia e anche oltre. E a chi tocca fare tutto? Al comitato organizzativo che fa capo a me, come se non avessi altro da fare…”
“Iniziative?” Rosie scosse il capo non riuscendo a capire.
“Tre giorni fa è venuto da me il sindaco parlandomi con entusiasmo di raccolta fondi per rimettere a nuovo il vecchio ponte, una festa per l’insediamento del nuovo consiglio cittadino… senza contare che abbiamo già in mente anche la solita fiera di maggio a cui parteciperanno anche persone dei paesi vicini. Insomma un disastro a livello organizzativo.”
“Capisco che sia un bel problema, ma…”
“Suo marito mi ha detto che lei a New Optain lavorava in una rinomata pasticceria.”
“Beh, è il negozio di famiglia e…”
“Una pasticceria! Che meraviglia! Una volta, da bambina, andai con mio padre ad East City e portò me e i miei fratelli in una pasticceria: fu un esperienza fantastica. Qui purtroppo non c’è niente del genere… però non divaghiamo! Mi serve una mano con l’organizzazione di tutti questi eventi e suo marito mi diceva che lei è molto abile in queste cose.”
“Ha detto cosa?”
“Beh, del resto immagino che gestire un’attività come quella richieda molta abilità: è proprio la persona che mi serve, signora, la prego dica di sì. Bisogna pensare agli allestimenti, ai costi, ai fondi… a quello da mangiare a come dividere il lavoro, insomma è un disastro. Non ho portato i registri con me per non sconfortarla subito, ma le assicuro che il suo aiuto sarebbe indispensabile.”
Rosie scuoteva leggermente la testa, cercando di mettere a fuoco la situazione e cercando di capire cosa c’entrasse suo marito in tutto questo. E nel frattempo Tania continuava a parlare e parlare, illustrandole le decine di cose a cui provvedere, e sostenendo che aveva decisamente bisogno di una mano.
Ed io non avevo detto di sentire la mancanza di un lavoro che mi facesse sentire utile?
“Tutta opera di Vincent…” sorrise, capendo finalmente l’intento del marito.
“Scusi?”
“No, niente. Sarò ben lieta di aiutarla, signora. Possiamo vedere quei registri già domani stesso: non ho mai fatto cose simili, ma vedrò di mettere la mia esperienza al servizio di queste iniziative.”
“Ottimo! Signora Falman, lei è la mia salvatrice.”
 
Gestione della pasticceria – quella notte non riuscì a trattenersi e iniziò a tirare per scherzo i capelli di Vincent – se ti sentisse mia sorella le verrebbe un infarto! La gestione della pasticceria affidata a qualcuno che non è lei o al massimo papà?”
“Un motivo in più per dire una cosa simile – ridacchiò l’uomo liberandosi da quella presa e bloccandola – dare uno smacco di questo tipo alla vipera mi darebbe parecchio gusto. Dovresti scriverlo la prossima volta che le spedisci una lettera.”
“Finiscila… Vincent Falman, a volte sei davvero perfido, lo sai?”
“Ah sì? E allora perché sorridi, piccolo fiore? Eppure dovresti essere felice di esser stata coinvolta nel comitato organizzativo del paese. Sono certa che la tua mente gestionale cittadina farà faville.”
“Stupido!”
“Che c’è, non ti senti all’altezza?”
La fissò con malizia, sperando di scuscitare in lei quella scintilla d’orgoglio che molto spesso veniva messa da parte.
“Non mi sento all’altezza? Ah! Vedrai Vincent Falman, questo posto conoscerà ben presto quello di cui sono capace… ma la cosa resterà solo tra me, te ed il comitato organizzativo.”
“Non avevo dubbi.”

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Capitolo 21
*** Capitolo 21. 1885 - 6. Un bambino troppo accademico ***


Capitolo XI

1885 - 6. Un bambino troppo accademico.

 

Le stagioni calde si erano succedute con regolarità e la scuola era ormai iniziata da due mesi.
Dopo cinque anni passati con un bambino che praticamente la seguiva passo dopo passo, Rosie trovava strano avere quelle mattinate a disposizione, senza Vato di cui preoccuparsi. Non che il bambino avesse mai alterato i suoi orari e le sue faccende, ma faceva effetto non sentire più la sua silenziosa presenza in giro per la casa.
La scuola non si trovava per niente lontano dal paese, si trattava di dieci minuti di camminata: dopo la prima settimana Vato aveva chiesto il permesso di andare da solo assieme ad Elisa, iniziando a pretendere un’indipendenza maggiore. Una cosa che a New Optain sarebbe stata impensabile per dei bambini di prima elementare in quel posto così tranquillo e dove tutti si conoscevano era fattibile e così, nonostante i primi giorni di apprensione, Rosie accettò quella concessione fatta dal marito e lasciò che Vato facesse la strada assieme alla sua amichetta.
Sembrava che tutto procedesse nel verso giusto, che ormai la famiglia Falman fosse perfettamente inserita in quel piccolo angolo di mondo. Ma questo fu prima che Vato tornasse a casa un sabato mattina e annunciasse ai genitori che la sua maestra voleva parlare con loro.
 
La maestra di Vato era una giovane di nemmeno trent’anni che, nonostante l’età, aveva un’ottima reputazione tra genitori e bambini. Era una di quelle persone che vedono il proprio lavoro come una vocazione e per lei niente era più importante che il benessere e la crescita dei suoi dodici alunni di prima elementare.
“Vi ringrazio per essere venuti a questo incontro che ho richiesto con voi, signori – sorrise, mentre li faceva entrare nella classe occupata dalla prima, i banchi perfettamente allineati e diversi disegni, opera dei bambini, appesi alle pareti – per i piccoli di prima elementare è mia abitudine avere dei colloqui con i loro genitori in modo che si venga a creare un buon rapporto. In genere aspetto che le vacanze di natale siano alle porte, ma per Vato ho preferito anticipare considerata la particolarità del caso.”
Vincent e Rosie rimasero perplessi davanti a quell’ultima dichiarazione: Vato non era molto loquace su quanto succedeva a scuola, ma non sembrava incontrare problemi. Aveva sempre parlato in termini molto affettuosi della sua maestra ed il fatto che fosse in classe assieme ad Elisa era una garanzia che tutto andasse per il verso giusto.
Lo sguardo dei tre adulti si spostò quindi alla finestra, da dove era possibile vedere il bambino che, nell’attesa, si era accoccolato per terra e si era messo a leggere un grosso libro, escludendo il mondo circostante tra cui una piccola farfalla che volava a pochi centimetri dal suo naso.
“Il bambino le crea qualche problema?” chiese Vincent, non riuscendo a credere che il suo educatissimo e timido figlio potesse creare qualche tipo di guaio durante le ore scolastiche.
“Se si riferisce a problemi comportamentali, assolutamente no, capitano – scosse il capo la donna – non ho mai conosciuto un bambino così educato come Vato. E’ sempre corretto, attento, silenzioso: non credo di averlo mai richiamato in questi mesi che lo conosco. Sotto quel punto di vista è un alunno modello.”
“Anche Vato è molto contento di lei, signorina – disse Rosie – dice sempre che è una persona molto buona e gentile ed è raro che mio figlio si affezioni così a qualcuno.”
“Sì, è vero, ho notato che è molto restio a dare confidenza. Eccetto Elisa devo dire che non ha fatto amicizia con gli altri bambini. In genere quando un bambino non stringe rapporti con gli altri compagni è perché è preso in giro o gli altri lo rifiutano, ma in questo caso è l’esatto contrario… no – si corresse con aria pensosa – non è nemmeno corretto parlare di rifiuto: è come se avesse deciso che a lui basta la compagnia di Elisa. Con gli altri riduce i rapporti al minimo: li saluta, risponde se gli chiedono qualcosa, sempre in maniera molto educata e tranquilla, ma è come se non volesse andare oltre. E’ molto solitario sotto questo punto di vista e, forse è un po’ forte come affermazione, pare che preferisca la compagnia dei libri a quella delle persone.”
Vincent si passò la mano tra i capelli con aria leggermente imbarazzata, constatando come la maestra di suo figlio non avesse sbagliato di molto la realtà dei fatti. Anche lui col passare del tempo si era convinto che Vato avesse instaurato un rapporto privilegiato con la parola scritta piuttosto che con i suoi coetanei e le persone in generale. La scuola oltre che luogo di apprendimento è anche luogo di socializzazione e per i bambini è naturale giocare insieme, relazionarsi e quanto altro. Ma eccetto Elisa non era stato mai pronunciato altro nome nei resoconti del bambino e non c’era mai stato nessun compagnetto che fosse stato invitato a casa o viceversa.
“Non è molto socievole, è vero – la voce di Rosie interruppe i pensieri dell’uomo – ha una sensibilità tutta sua e ha raggiunto un suo modo di vivere che lo soddisfa. Non avrebbe senso imporgli delle amicizie che non vuole.”
Il capitano colse una lieve urgenza nelle parole della moglie, come se Rosie avesse appena colto una minaccia per Vato e si stesse ergendo in sua difesa. Da una parte poteva anche capire questo atteggiamento, ma dall’altra gli sembrava prematuro anche perché la maestra non aveva accennato a nessun provvedimento in merito.
“La prego, signora – disse – continui a dirci di nostro figlio.”
“Ecco, ci sarebbe da parlare del suo rendimento e credo che sia il problema più grosso.”
“Problema?”
“Guardate voi stessi il libro che sta leggendo adesso in cortile… quando mai un bambino che ancora deve compiere i sei anni legge un libro con tale abilità. E sono pronta a scommettere che non è una favola e gli argomenti trattati non sono facili.”
“Uhm…”
“No, capitano, suo figlio non ha problemi di rendimento, tutt’altro – sospirò la maestra – è che... per il leggere e lo scrivere e, a quanto ho potuto constatare, la conoscenza di altre materie che in genere si iniziano più avanti, Vato è già al livello di uno studente di terza elementare, se non di quarta. Da quanto tempo sa leggere e scrivere?”
“Ecco – ammise Rosie – sicuramente dai tre anni e mezza sapeva già leggere e riconosceva alla perfezione le lettere. Per scrivere ha impiegato di più, ma nell’arco di circa otto mesi ha padroneggiato alla perfezione sia lo stampatello che il corsivo. Per quanto riguarda le altre conoscenze… adora leggere, come si poteva levargli questa sua passione? Abbiamo fatto sempre in modo che si limitasse a libri adatti a lui, ma dopo un po’ le favole non sono più bastate e così ho iniziato a dargli i miei vecchi libri delle scuole elementari.”
“Eccetto quelli di matematica, vero?”
“Sì, i numeri non gli interessavano.”
“Ed infatti in matematica è solo di poco avanti rispetto agli altri: sa scrivere le cifre e contare fino a venti senza titubare, ma per il resto è perfettamente allineato con i suoi coetanei.”
“Insomma eccetto le ore di matematica si annoia.” Vincent riassunse i pensieri della donna mettendosi a braccia conserte.
“E come non potrebbe? – la giovane andò alla cattedra e passò loro due quaderni – questo è di Vato e questo è di Elisa: vi posso assicurare che, dopo di lui, è la bambina più brava della classe. Guardate le differenze: avevo chiesto di scrivere una paginetta di ogni vocale e poi cinque nomi che iniziassero per la stessa: a fine novembre, ossia nemmeno tre mesi dopo l’inizio della scuola, è un esercizio molto impegnativo, ve l’assicuro. La calligrafia di Elisa è ancora un po’ incerta, prende una certa scioltezza solo dopo le prime righe, ma Vato… signori, vostro figlio ha scritto tre pagine per ogni vocale! Ed in ogni pagina ha scritto almeno trenta termini inizianti per quella vocale… parole a volte incredibili per la sua età, atmosfera, esoscheletro, incongruenza, onomatopea, urbanizzazione… è spiazzante. E tutte in perfetto ordine alfabetico: ha praticamente estrapolato le pagine di un dizionario.”
“E’ precoce più che altro.”
“Sì, capitano, ma è un problema in una classe di dodici bambini. E lui è il primo ad essere in difficoltà perché è ansioso di imparare cose nuove. Ma non posso pretendere che gli altri corrano e raggiungano il suo livello, non è possibile. Ed è difficile anche lodarlo perché così scoraggerei profondamente gli altri che si rendono conto del divario che c’è tra di loro.”
Rosie scosse il capo e si portò una mano alla fronte.
“Posso capire tutte le difficoltà del caso e la capisco, ma… Vato è un tesoro di bambino. Certo, sicuramente è molto precoce rispetto a tutti gli altri…”
“E’ precoce solo per alcune cose. Per il resto è un bambino di nemmeno sei anni che si trova a gestire una situazione difficile. Signori, potrei chiedervi di ridurre le letture di vostro figlio? Almeno per quest’anno scolastico.”
“Ridurre le sue letture?” Rosie sgranò gli occhi, ma subito Vincent le posò una mano sul braccio.
“Continui, signorina.”
“Ho notato che Vato è molto accademico: quello che scrive o dice pare estrapolato da un libro. E’ come se ci impedisse di conoscere veramente quello che lui pensa e prova: come se dire cose estremamente difficili sia un modo di proteggersi dal mondo. Se gli faccio una domanda semplicissima come il colore dell’erba lui inizia un discorso di clorofilla e quanto altro, come se dire verde gli creasse difficoltà.”
“Non ha problemi…” Rosie girò il capo di lato, rifiutandosi di ascoltare ancora.
“Non è che ha problemi, signora. Ma se gli limitate le letture, specie quelle complicate, e mi consentite di procedere in un determinato modo, possiamo rendere il bambino più partecipe del mondo… perché per come stanno le cose, Vato crede che il mondo sia nei libri.”
“In che modo vuole procedere?” chiese Vincent, più disposto ad accettare quella che effettivamente era una problematica di Vato.
“Lo voglio spronare a stare al livello dei suoi compagni – spiegò la donna – se gli chiedo un pensierino su qualcosa non deve rispondermi con una definizione: dovrà dirmi cosa pensa lui stesso. Sicuramente all’inizio sarà un po’ difficile, ma è meglio intervenire subito per evitare di estraniarlo troppo.”
“Sarebbe una violenza vera e propria su di lui! – esclamò Rosie – Non ha ancora sei anni, per l’amor del cielo, ha il suo piccolo mondo di letture, è vero… ma è felice così! Perché lo volete spronare a stringere rapporti di cui non ha bisogno?”
“Non rapporti, signora – corresse la maestra – per quelli non ha problemi, ed Elisa ne è la prova lampante. Per quelli Vato è semplicemente selettivo. No, io lo voglio portare a vedere il mondo reale e non quello della parola scritta. Se io gli chiedo di descrivermi una farfalla non voglio sentirmi dire dei nomi scientifici o altre cose degne di un esperto: voglio che mi parli del colore delle ali, del fatto che gli è volata vicino al naso e ha provato a prenderla… voglio che mi dica cose degne di un bambino. E per farlo deve essere spronato anche a casa, altrimenti il lavoro che faccio qui a scuola verrebbe vanificato. E poi, una volta che Vato avrà superato questo ostacolo, allora potrò fare per lui un programma un po’ diversificato in modo da favorire la sua precocità. Ma prima è necessario che abbia delle basi personali.”
“E’ giusto.” annuì Vincent.
“No – Rosie iniziò a piangere – non possiamo fargli questo, Vincent. Non possiamo brutalizzarlo in questo modo, ti prego… è così indifeso.”
“Non gli stiamo facendo del male – la abbracciò lui – ma è vero che è estraniato dal mondo che lo circonda. Rosie, è per lui che lo stiamo facendo, per il suo bene. E’ qualcosa che faremo con pazienza e per gradi, senza grossi traumi…”
“Non puoi levargli i libri.”
“Non glieli stiamo levando per sempre – le ricordò l’uomo – solo finché non avrà imparato a trovare un giusto equilibrio, coraggio. La sua maestra ha ragione: deve imparare a pensare come un bambino.”
 
“Albume? Vuoi dire la parte bianca dell’uovo?”
“No – Vato scosse il capo e guardò con aria stranita Elisa – ho detto albinismo. Proprio ieri ho scoperto che i miei capelli bianchi non sono così per questo fenomeno. Altrimenti sarebbero tutti bianchi e avrei anche gli occhi rossi.”
“Gli occhi rossi li hanno i mostri delle favole, quelli che vengono uccisi dai buoni. Se non li hai rossi vuol dire che non sei un mostro!” esclamò la bambina con sollievo mentre tornavano in classe dopo l’intervallo.
Vato annuì con un sospiro, capendo che da Elisa non poteva ottenere altro. Finalmente era riuscito a scoprire qualcosa sulla sua particolarità cromatica ed era ansioso di condividere con lei la notizia, ma sembrava che la sua amica non riuscisse ad andare oltre determinati schemi.
E tutto perché non vuole leggere i libri che le voglio prestare.
Si sedette con diligenza al suo posto, aspettando che anche gli ultimi compagni rientrassero e la maestra riprendesse la lezione. Sperava che proponesse qualche argomento interessante, ma essendo l’ora di lettere era un po’ difficile: non che la maestra non fosse brava, Vato era sicuro che avesse molto da insegnargli, ma gli altri bambini erano troppo lenti per lui. Ancora non riuscivano a leggere e scrivere decentemente, per non parlare delle altre materie. Solo in matematica erano quasi al suo livello.
C’era rimasto malissimo il primo giorno di scuola.
“Allora, oggi iniziamo ad imparare le lettere: guardate… è la A di ape. Forza tutti assieme. A – p – e.”
“A – p – e!”
Gli era sembrato uno scherzo quando aveva visto la maestra prendere quei cartoncini colorati con diversi soggetti rappresentati e mostrarli uno ad uno per insegnare un banalissimo alfabeto. Aveva sempre ritenuto che la scuola dovesse dargli nuovo sapere… che senso aveva quel ripasso di cose che lui sapeva?
Tuttavia i suoi pensieri vennero interrotti dalla maestra che si alzava dalla cattedra, segno che la lezione stava riprendendo. Allora, per istinto, si protese per dare attenzione.
“Molto bene, bambini – iniziò – avete visto che oggi è una bellissima giornata d’autunno. Sono sicura che mi potete dire un sacco di cose interessanti sull’autunno. Elisa, perché non ti alzi in piedi e ci dici un tuo pensierino?”
“Va bene, maestra – annuì la bambina – allora… l’autunno è molto bello perché ancora non fa il freddo dell’inverno e poi è tutto rosso e a me piace molto il rosso: prima in cortile ho fatto un mucchio di foglie rosse, anche se alcune erano arancioni.”
“E sì, il rosso ha molte sfumature, ma sono tutte bellissime. Anche a me piace molto il rosso, sai? E tu, Robert? Che cosa mi vuoi dire sull’autunno?”
“L’autunno mi piace tanto perché si mangiano le castagne!” esclamò il bambino, alzandosi in piedi.
“Vero, che buone!”
“Mia mamma le ha fatte ieri!”
“Waaah, che bello!”
“Ehi che entusiasmo – li calmò la maestra con un sorriso – abbiamo capito che a tutti noi piacciono molto le castagne, ma ora silenzio, da bravi. Vato, dicci tu un pensierino sull’autunno.”
“Sì – si alzò in piedi lui, pronto a sfoggiare tutto il suo sapere in merito, altro che quei pensierini banali – l’autunno inizia il 22 settembre, chiamato equinozio d’autunno e finisce il 21 dicembre, solstizio d’inverno. Però è da dire che alcuni sostengono che la data del solstizio sia il 22 e non il 21. Le caratteristiche di questa stagione sono…”
“No, Vato, aspetta – lo bloccò la donna, andandogli accanto e posandogli una mano sulla testa – non ti ho chiesto di parlarmi dell’autunno. Ma di dire un tuo pensiero in merito.”
“Pensiero?”
“Sì, un pensiero, una frase, un qualcosa che ti piace dell’autunno.”
“E’ solo una stagione dell’anno…” mormorò lui perplesso, non riuscendo a capire. Tutto quello che avevano detto fino a quel momento non significava niente: delle castagne e delle foglie rosse si doveva parlare in termini totalmente differenti.
“Ad Elisa l’autunno piace perché tutto diventa rosso e perché c’è fresco senza che però ci sia il freddo dell’inverno; a Robert perché ci sono le castagne… questi sono pensierini. Non cose che sono scritte sui libri, ma cose che pensi tu.”
“Uh, allora… ecco io… a me piace l’autunno perché – esitò, vedendo i compagni che lo fissavano perplessi dalle sue difficoltà per una cosa estremamente facile – perché… perché…”
“Ma perché esita?”
“E dai che è facile!”
“Che ci vuole?”
“Sssh, buoni bambini…”
“Uh, ma sta per piangere.”
“Scusa, maestra – mormorò il bambino mentre le prime lacrime scendevano sulle guance – non… non lo so fare un pensierino.”
“Eeeh? Ma che dice? E’ stupido o cosa?”
“Se vuoi ti presto il mio pensierino – disse subito Elisa alzandosi in piedi – non fa niente.”
“Da bravi bambini, avete sentito? Prendete il vostro quaderno e fatemi un bel disegno sull’autunno. Vieni, Vato, andiamo a lavarci il viso, non è successo niente di grave, tranquillo.”
 
“Beh, non ha mai brillato per fantasia e direi che in questo ha preso tutto da te.”
Rosie alzò le spalle quel pomeriggio come lei ed il marito poterono finalmente discutere della questione.
Vato era tornato a casa profondamente triste e solo dopo qualche ora aveva confidato ai genitori quanto era successo. Poi si era chiuso in un profondo silenzio, abbracciando Lollo, e si era sdraiato a letto fino a quando non si era addormentato.
“Sì, è vero: tra noi due sono io quello che non ha molta fantasia – ammise Vincent – ma non ho mai rifiutato la realtà per andare a rifugiarmi nei libri. Nonostante i nostri controlli Vato si è estraniato dalla realtà più del previsto.”
Guardò con attenzione la moglie, ben sapendo che lei era ancora ostile al provvedimento che avevano deciso di adottare assieme alla sua maestra. Certo, non era facile accettare che il proprio figlio avesse dei problemi, ma chiudere gli occhi poteva solo peggiorare le cose.
“Non ha niente che non si può risolvere…” riprese l’uomo.
“No! Il mio bambino non ha niente e basta – scattò lei – è intelligente ed ama leggere e questo l’ha portato a sapere molte cose nonostante sia ancora piccolo. Perché invece di andarne fieri ne stiamo facendo un problema?”
“Perché se gli chiedo di farmi un pensierino su qualsiasi cosa lui mi risponde con frasi prese dai libri. Rosie, questo non va bene: i libri gli stanno levando lo spirito d’osservazione, o meglio le capacità espressive.”
“Ha parlato il grande pedagogo! Proprio tu che non facevi che sgridarlo quando aveva paura dei tuoni.”
“Anche la maestra…”
“Quella donna non conosce Vato come me! Lei non…”
“Lei si è accorta di alcuni problemi che per ora non sono gravi, ma in futuro possono condizionare Vato. E io voglio che mio figlio sia in grado di osservare il mondo e di esprimere i suoi pensieri, come tutti gli altri.”
“Levandogli i libri pensi di aiutarlo? – lei quasi piangeva – Lo distruggerai e basta! Ma perché ce l’avete tutti con lui? Che male ti ha fatto?”
“Non ce l’ho con lui, quando mai potrei? E non gli levo i libri per capriccio: limito le sue letture per il tempo necessario, e vorrei che tu facessi altrettanto. Dobbiamo stimolarlo a parlare di cose che pensa, non di cose che ha letto, capisci?”
“E’ così piccolo…”
“Proprio perché è piccolo – la consolò lui abbracciandola, sentendo che stava cedendo – sarà una cosa relativamente facile. Hai sentito che ci ha detto la maestra: alla sua età i bambini recepiscono molto in fretta. Vedrai che entro la prima elementare si risolve. Ma per farlo c’è bisogno anche del tuo appoggio… soprattutto del tuo appoggio, piccolo fiore.”
 
Non fu una cosa facile, specie agli inizi.
I libri erano un chiaro rifugio per Vato e molto spesso li considerava uno sfogo ai suoi problemi: immergersi in letture difficili teneva la sua mente lontana dalla realtà che lo metteva in difficoltà. Le nozioni chiedevano solo di essere imparate e non gli imponevano di reagire.
Per questo quando gli vennero proibite le letture più avanzate ci rimase malissimo: in quel momento aveva estremo bisogno di quei libri. Anche perché doveva dimostrare agli adulti e alla maestra quanto valeva: se non sapeva fare i pensierini non potevano prenderlo per stupido se sapeva così tante cose.
Ma sembrava che i suoi genitori non fossero dello stesso avviso.
E nemmeno per Vincent e Rosie era facile quella situazione.
Era così strano vedere quel visino perplesso: era come se Vato avesse appena scoperto dei modi di vivere che non corrispondevano assolutamente ai suoi. La cosa gli procurava non solo smarrimento, ma anche una prima forma di autoanalisi. Come se iniziasse a chiedersi se davvero fosse lui a sbagliare e non gli altri.
Ma nonostante tutto era chiaro che aveva una strana riluttanza ad esprimere i propri pensieri ed era necessario spronarlo sotto questo punto di vista.
Certo non era facile correggere così all’improvviso un modo di agire che si è usato per così tanto tempo.
Per la prima volta iniziò ad avere difficoltà a scuola perché anche la maestra pretendeva che lui scrivesse solo e comunque pensierini che derivavano dalle sue impressioni ed osservazioni. A guardarla bene stava facendo un processo inverso rispetto a quello dei suoi compagni che, mano a mano, nei loro compiti andavano oltre la loro semplice immaginazione. Ma le difficoltà che incontrava erano molto forti perché doveva sempre combattere contro la smania di scrivere tutto quello che sapeva su qualsiasi argomento: era come se dovesse esercitare un forte autocontrollo per evitare che un secondo Vato prendesse possesso di lui, della sua parola e della mano che scriveva.
Inaspettatamente, a casa, fu Vincent a prendere in mano la situazione: ogni sera, dopo cena, si sedeva assieme a lui e gli faceva compagnia in quelli che erano i compitini supplementari. Non che Vato disdegnasse fare i compiti, tutt’altro, ma questi erano specifici per lui e ovviamente erano una sofferenza.
“L’autunno è bello perché è una stagione temperata… va bene così, papà?”
“Figliolo, è un dato di fatto che è una stagione temperata: tu devi dire qualcosa per cui piace a te.” la voce del capitano non era mai severa in quelle occasioni. Era calma, come se volesse rassicurare il bambino che andava tutto bene e quello che stava succedendo non era niente di grave.
“Ma a me non piace l’autunno – protestò il piccolo, posando la penna sul tavolo – anzi, no, non è corretto. E’ solo una stagione, perché devo trovare qualcosa di bello?”
Era difficile sentire simili ragionamenti da parte di un bambino della sua età: sembrava completamente privo di immaginazione, come se il mondo attorno a lui non fosse interessante se non dal punto di vista accademico.
“E’ solo questione di pensarci: vedrai che qualcosa di bello la trovi. Coraggio, dimmi quello che ti viene in mente. Proviamo a cambiare stagione. Adesso siamo in inverno, guarda dalla finestra.”
“C’è la neve.”
“Mh, e quindi? Ti piace la neve?”
“E’ acqua che per il freddo…”
“Ehi, signorino – l’indice di Vincent si posò sulla fronte del piccolo – niente nozioni, ricordi?”
“Ma è quello che è – scosse il capo con impazienza: succedeva sempre quando era smanioso di dire qualcosa di accademico – basta, non voglio più fare pensierini. Posso leggere un libro adesso?”
“Uno per ogni stagione – gli ricordò il padre, impassibile – è il compito di questa sera. E poi sai bene che ti devi concentrare sulle cose di scuola. Gli altri libri li puoi leggere il finesettimana, ma sempre un paio di pagine alla volta.”
“E’ un compito stupido – lui chiuse il quaderno con aria desolata, quel divieto di lettura che pesava nella sua anima – e la maestra lo dà solo a me. Agli altri bambini ha detto di fare un tema sulla neve. E io ne potrei scrivere di cose sulla neve, ne so un sacco, persino come si formano le slavine.”
“Vato, perché dovrebbe essere stupido quello che pensi tu?”
Il bambino mise il broncio e rimase con le mani sul tavolo a fissare la copertina azzurra del quaderno. Sentì la mano del padre che gli arruffava i capelli e lo incitava a parlare. Ed era più difficile di una sgridata perché in quel caso non devi rispondere ma solo stare zitto ed obbedire.
Biascicò qualcosa di incomprensibile, sperando che bastasse.
“Ehi – lo richiamò ancora l’uomo – mi piacerebbe che mi guardassi negli occhi e che scandissi le parole correttamente.”
“E’ che sono cose stupide e non interessanti – confessò – i libri dicono le cose vere. Non è neve, è acqua solidificata.”
La voce aveva il tipico tremito di quando stava per piangere e Vincent fu rapido a bloccare con un’occhiata Rosie che stava per intervenire per consolarlo.
“Vato, non c’è niente di stupido, coraggio. Ti aiuto io: a me la neve piace perché mi ricorda il primo incontro con tua madre… e perché nevicava quando sei nato tu.”
“Allora posso dire che l’inverno mi piace perché c’è il mio compleanno?” il bambino alzò lo sguardo speranzoso, tirando su col naso per evitare che le prime lacrime colassero sulle guance.
“Ecco, vedi? Questa è già un’osservazione più personale: un pensierino tutto tuo.” annuì Vincent.
 “Allora l’autunno mi piace perché c’è il compleanno di zia Daisy.”
“Ecco, questo sarebbe più un motivo per detestare l’autunno.” commentò il capitano.
“Molto bene, tesoro – Rosie si accostò al figlio e gli diede un bacio sulla guancia – però invece di pensare solo a queste cose, perché non ti guardi attorno? La natura, gli animaletti, tutto quanto… e quello che ti piace osservare vuol dire che è degno di essere un tuo pensierino.”
“Osservare... ossia guardare qualcosa o qualcuno con attenzione…”
“Beh, sì, proprio così. Coraggio,sono sicura che ci riesci.”
 
“Si chiama osservare con i propri occhi – spiegò il bambino con orgoglio il giorno successivo, mentre con Elisa camminava nel cortile della scuola durante l’intervallo – e con questo trucco fare i pensierini non sarà più un problema.”
“Perché? Non è mica un trucco: anche io osservo con gli occhi. Mica con il naso.”
“Ma no! E’ diverso! – scosse il capo lui – a volte guardiamo senza vedere…”
“Ma che stai dicendo.”
“Che guardiamo però non vediamo, almeno non veramente.”
“Se io guardo certo che vedo.”
“Ma non veramente.”
“Vato, a volte dici cose senza senso. Perché non giochiamo a mosca cieca? In quel caso allora sarò sicura di non vedere e di non guardare.”
“Ma Eli! – protestò lui – non era questo il senso del mio discorso!”
Tuttavia, nonostante persino Elisa fosse scettica sul suo nuovo modo di fare, Vato aveva deciso di impegnarsi fino in fondo in quel nuovo atteggiamento che, a quanto pareva, era quello corretto da mantenere.
“Neve – mormorò, fissando la massa bianca sotto i suoi piedi – e ci lascio le orme… e anche gli animali. E così posso riconoscere quali animali sono passati. E a me piace riconoscere gli animali.”
“Che hai detto?” chiese Elisa.
“Niente, facevo un pensierino sulla neve… vedi come rimangono le impronte.”
“Oh sì! – sorrise lei, andando a staccare un ramoscello da un cespuglio – è come un bianco foglio da disegno grandissimo! Ora ti disegno, eh: guarda… tanto è facile perché hai i capelli per metà bianchi e quindi si capisce che sei tu.”
 
Ovviamente la supposizione di Vato era stata troppo ottimista ed il suo percorso di recupero durò fino a primavera inoltrata, per quanto, piano piano, i libri vennero riammessi nelle sue ore di svago.
Le famose basi di cui aveva parlato la maestra vennero costruite con solide fondamenta e fu un grande giovamento per il bambino: nel momento in cui fu maggiormente consapevole del suo spirito d’osservazione si accorse che anche il resto della classe lo capiva con maggiore facilità. Per lui divenne quasi una piccola sfida riuscire a farsi capire dai suoi compagni quando parlava di qualche cosa: faceva ricorrente uso di esempi e metafore, ma cercando di semplificare al massimo il concetto.
“E finalmente esprime anche le sue impressioni – sorrise con soddisfazione la donna in un colloquio con Vincent e Rosie – ha capito che dire le cose che pensa non è per niente stupido, tutt’altro. E questa è una bella scarica di autostima per lui. Anche nei suoi compiti non si limita a scrivere nozioni imparate a memoria: è molto più critico nei confronti di quello che ha imparato in precedenza.”
“Quindi l’emergenza è finita?” chiese Rosie con un sospiro di sollievo.
“Emergenza, che parola grossa… comunque sì, signora, direi che ci siamo. Vato sarà ben felice di scoprire che ho creato per lui un programma più adeguato e stimolante che però va in parallelo con quello dei suoi compagni.”
Furono le parole più belle del mondo per Rosie.
Per tutti quei mesi era quella che maggiormente aveva sofferto di più, anche quando lo stesso Vato si era abituato al compito che gli era stato richiesto. Gli sembrava di aver sbagliato come madre sia per la sua incapacità di difendere suo figlio contro una problematica, sia perché se ne sentiva in parte responsabile per via di tutti i libri che gli aveva concesso di leggere.
Fu quasi automatico per lei prendere in braccio il bambino, non appena uscirono nel cortile della scuola, e singhiozzare felice mentre lo stringeva a sé.
“Mamma, perché piangi? – le chiese lui – E’ successo qualcosa?”
“Niente, amore – sorrise lei – la mamma è felice perché tra poco inizieranno le vacanze estive e ti avrò di nuovo a casa anche la mattina. Sai che mi sei mancato tanto?”
“Uh, davvero? Però io ci devo andare a scuola, mamma. E a settembre inizia la seconda elementare… non essere triste, va bene?”
“Ma no, tranquillo. E se durante le vacanze estive andassimo per una settimana a New Optain a trovare tutti quanti?”
“Sul serio? – si illuminò lui – Davvero possiamo? Papà, vieni anche tu, vero?”
“Giusto per qualche giorno – annuì Vincent – poi dovrò tornare, ma voi potrete restare di più.”
“Ah! Non vedo l’ora di vedere zia Daisy!”
“Appunto…”

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Capitolo 22
*** Capitolo 22. 1887. Dieci anni di noi ***


Capitolo XXII

1887. Dieci anni di noi.

 

“Non ci posso credere – commentò Daisy – domani saranno dieci anni che sei sposata a Mister Rigidità. Come tu riesca ancora a sorridere nonostante la sua presenza quotidiana è un mistero.”
“Lo trovo meno rigido del solito – disse Alyce dando una gomitata complice alla sorella – ma forse dipende dal fatto che non è in divisa e quel maglione è parecchio abbondante.”
“E’ solo l’impressione… ecco, lo vedi? Guarda come si irrigidisce ancora alla perfezione! E’ come il primo giorno: sei una certezza nelle nostre vite, Vincent!”
“Daisy, Alyce, la volete smettere?” Rosie si mise una mano sulla tempia, cercando di ignorare il sordo ringhio del marito, seduto accanto a lei.
“In realtà stanno dimostrando che hanno sentito l’uno la mancanza dell’altra – ridacchiò Max, alzando il bicchiere – e devo ammettere che mi mancava la tavolata completa.”
“Decisamente – gli fece eco Luke – è stato fantastico che abbiate deciso di venire qui per parte delle vacanze di natale.”
“Sì, è vero, non ce lo possiamo permettere molto spesso – sospirò Rosie – ma del resto domani è il nostro decimo anniversario e volevamo passarlo in famiglia.”
“Io me ne sto già pentendo.”
“E dai, amore…”
Vincent lanciò un’occhiata rassegnata alla moglie, ma vedendola così felice in quell’abito azzurro chiaro tutta la sua rabbia nei confronti delle cognate svanì come neve al sole. E doveva ammettere che era felice pure lui di essere a New Optain per quei dieci giorni di vacanza che si erano concessi: nonostante le battute di Daisy e Alyce quella era anche la sua famiglia ed il senso di calore che provava nel stare a quella tavolata, in uno dei classici pranzi, era sempre lo stesso.
Dieci anni… domani saranno dieci anni.
Ma lei era sempre incredibilmente bella, i capelli neri che splendevano come il giorno del loro primo incontro. Certo qualcosa era cambiato, ma era più nell’espressione che nell’aspetto: quando l’aveva conosciuta Rosie McLane era una creaturina timida e impacciata, un piccolo e fragile fiore che lui aveva giurato di amare e proteggere per sempre. Ora era compagna, moglie, madre e ciascuna di queste caratteristiche si amalgamava perfettamente nel suo fisico snello e morbido, nel viso delicato, negli occhi scuri e sorridenti.
E’ possibile che io mi accorga di amarti più di prima?
 
“Siamo stupidamente infantili, te ne rendi conto?” Rosie sospirò  e alzò lo sguardo al soffitto.
“No, stiamo semplicemente recuperando un nostro personale rituale prima di andare a letto – ridacchiò Daisy, seduta dietro di lei nel letto della camera degli ospiti – e sono felice di constatare che i tuoi capelli sono sempre facili da pettinare: non te l’ho mai detto, ma farti la treccia era rilassante, quasi ipnotico.”
“Manca solo Alyce davanti a me in modo che le possa sistemare i boccoli… e a proposito, forse era meglio che io, Vincent e Vato fossimo andati a stare a casa sua. Tu e Max siete sempre affaccendati con la pasticceria e avere ospiti non è certo comodo.”
“Tu non sei un’ospite, sei mia sorella – la corresse Daisy – e poi a che serve un’altra camera? Certo abbiamo dovuto unire i due letti singoli per fare il matrimoniale e questo non è certo il massimo dell’agio, lo ammetto. Ma… ti volevo accanto a me, piccolo fiore, almeno per questi giorni in cui starete qui.”
“Sai benissimo che mi manchi pure tu – la donna si lasciò andare all’indietro, in modo da posare la testa sul petto della sorella – è l’unica parte della mia vita che cambierei: averti vicino, tu più di mamma, papà ed Alyce.”
“Per somma gioia del tuo maritino, vero? Scommetto che lui, Max ed Alan si stanno divertendo un sacco, ma sono sicura che i nostri uomini non faranno troppo tardi: non sono tipi da bagordi.”
“Sono stata felice di sapere che anche Alan ha finalmente trovato una brava ragazza. Hai detto che si chiama Nicole? E’ un bel nome.”
“Eh sì, spesso si incontrano proprio al negozio dato che è vicino alla merceria della sua famiglia; e lei è davvero carina e dolce, sotto diversi punti di vista mi ricorda te. Sono sicura che Alan te la presenterà in questi giorni… sai, ammetto che a volte ho pensato che era lui quello adatto a te.”
“Insomma! Prima con Nath, ora con Alan! Con quanti uomini mi volevi sistemare?”
“Tutti meno Mister Rigidità… e dai che scherzo! Ferma non ti agitare! Oh no – rise – la treccia si è disfatta. Ferma che ricomincio. E comunque ammetto che Vincent Falman ti ha reso felice, piccolo fiore, non potevo chiedergli di più.”
Un movimento alla loro destra le fece voltare, ma si tranquillizzarono nel vedere che le loro chiacchiere non avevano minimamente svegliato Vato: il bambino si era semplicemente girato nel sonno e aveva proteso un braccio sul cuscino.
“Quanto è cresciuto il mio pasticcino: ormai non è uno scherzo prenderlo in braccio. Tra un mese compie otto anni, non mi sembra vero.”
Il tono di voce di Daisy fu leggermente malinconico quando disse questa frase e Rosie fu rapida ad accorgersene. Come sentì le agili dita della sorella che finivano di legare il nastro che teneva la treccia si posò di nuovo contro di lei e non fu sorpresa di venire abbracciata con forza.
“Ci pensi ancora, vero?” le chiese, posando la guancia contro la sua.
“Ogni tanto, magari quando meno me l’aspetto – ammise lei – oh, Ally e Loris sono fantastici, lo sai bene. Ally ora passa alla pasticceria ogni mattina prima di andare a scuola: dice che a merenda vuole solo qualcosa di preparato da me. E Loris è così affettuoso e giocherellone… però, non è come averli a casa, no?”
“Se c’è una cosa che mi dispiace è di aver portato via Vato da te. E viceversa, non credere che lui non senta la tua mancanza.”
“In ogni caso lui non è davvero mio – ammise Daisy – ma insomma, ormai è chiaro che la vita va avanti… e poi ho una meravigliosa famiglia a cui pensare, no? Diciamo che il tempo per sentirmi triste è relativamente poco.”
“E diciamo che Max ha un grande ruolo in tutto questo, no?” chiese con malizia Rosie.
“Lui è… è semplicemente Max, lo conosci – la voce della maggiore esprimeva infinito amore, unito a un grande divertimento – è smielatamente cotto di me come agli inizi, sarebbe sempre capace di correre sino alla luna se glielo chiedessi. Quando credo che abbia esaurito le sue risorse ne esce fuori con qualche pensiero adorabile e stupido allo stesso tempo. Hai presente quei cagnoloni affettuosi che non ti lasciano mai?”
“E lui non ti lascia mai, davvero!”
“E meno male… piccolo fiore, forse è stato per merito tuo che ho ceduto alle sue richieste e di questo non finirò mai di ringraziarti.”
“Tra sorelle funziona così, no?”
“Eh già.”
“Papà… – Vato mosse leggermente la testa e aprì gli occhi – sei tornato?”
“Scusa, amore, ti abbiamo svegliato – Rosie gli accarezzò i capelli – papà è ancora fuori con zio Max, da bravo. Chiudi gli occhi e dormi: adesso la mamma spegne la luce e si sdraia accanto a te.”
“Effettivamente si è fatto tardi – bisbigliò Daisy, vedendo come il bambino si riaddormentava – siamo rimaste a spettegolare anche troppo. E’ meglio che anche noi andiamo a dormire, tanto penso che Max e Mister Rigidità non tarderanno ancora molto. Buonanotte, piccolo fiore.”
“Buonanotte… ah, Daisy! Posso chiederti un enorme favore?”
“Dimmi.” annuì lei, alzandosi dal letto.
“Dato che ormai pensi tu ad aprire il negozio, mi lasceresti le chiavi… come quando andavo io ad aprire, sai. Tu e Max venite verso le otto e un quarto e portate anche Vato.”
“Non c’è problema, ma che hai in mente?”
“Diciamo che ho una piccola nostalgia.”
 
“Buonanotte, ragazzi – salutò Alan – state certi che in questi giorni faremo almeno un’altra rimpatriata di squadra.”
“Contaci!” salutò Max, mentre lui e Vincent facevano un cenno al giovane in divisa.
Come lo videro girare l’angolo si incamminarono nell’atrio del palazzo ed iniziarono a salire le scale.
“Dimmi la verità – commentò Max dopo qualche gradino – sei maledettamente fiero di vedere il grado di tenente nella divisa di Alan. Il giovanotto della squadra si è fatto valere in tutti i campi della vita, vero?”
“Non lo nego – ammise Vincent con un sorriso – e sapere di aver in minima parte contribuito alla sua crescita mi rende molto felice. L’ho sempre considerato un bravissimo ragazzo ed un poliziotto molto valido: vederlo ormai sistemato è una grande cosa.”
“Sì, lo so, tra i due sono stato io la grande delusione, vero Vin?”
“Hai fatto la tua scelta – scrollò le spalle l’uomo, ricacciando indietro quel briciolo di rabbia che non sarebbe mai sparito del tutto – ed a venticinque anni eri decisamente adulto ed in grado decidere da solo. Ero il tuo superiore, non la tua balia.”
“Ma…? Dai, confessalo.”
“Confessare cosa? Sai benissimo che penso di Daisy McLane, non ne ho mai fatto mistero.”
“Ahah, ti stai irrigidendo.”
“Max Maffer, sei pregato di smetterla.”
“Agli ordini, capitano Falman – si mise sull’attenti l’altro proprio mentre arrivavano al pianerottolo – e posso avere l’onore di offrirti un ultimo bicchierino prima di andare a dormire? E’ la bottiglia di liquore per le grandi occasioni.”
“Se la metti in questo modo non vedo perché rifiutare.”
“Perfetto – la voce di Max si abbassò mentre chiudeva la porta alle loro spalle – tanto le luci sono tutte spente e considerato che è mezzanotte direi che sono tutti a dormire.”
In silenzio si accomodarono nel confortevole salotto. Max andò alla credenza e prese dal servizio buono due bicchierini per poi portarli al basso tavolino davanti al divano assieme a una bottiglia di vetro.
“Con questo si brinda per le cose più importanti – sorrise, versando una generosa dose di liquido rossastro nei bicchieri – come i dieci anni di matrimonio del mio migliore amico. E credimi, non posso che augurare ancora decine e decine di anni felici a te e a quel tesoro di Rosie.”
I due bicchieri si incontrarono con un lieve tintinnio che risuonò in tutta la stanza. I due assaggiarono il liquido denso e poi posarono i bicchieri.
“Auguro la medesima felicità a te e a Daisy, così come a tutta la famiglia McLane – disse Vincent infine – che siano benedetti, lo dico con sincerità.”
“Ottime persone, vero? Ti fanno sentire in famiglia come mai ti saresti aspettato. Non avrei potuto scegliere donna migliore di Daisy… non avrei potuto amare nessun’altra.”
Vincent annuì, concedendo alla sua dispettosa cognata la dote di aver reso veramente felice Max. Anche se non indossava più la divisa quel ragazzone restava comunque una delle persone più buone del mondo e si meritava ogni felicità possibile.
“Mi è dispiaciuto sapere che non potete avere figli.”
Non seppe perché disse quella frase: Rosie gli aveva detto dei problemi che lui e Daisy avevano dovuto affrontare. Per quanto spesso quella donna gli sembrasse insopportabile ci era rimasto sinceramente male.
Il destino era proprio beffardo: lui non aveva mai programmato di avere figli ed invece la vita gli aveva regalato Vato; Max aveva sempre parlato di avere decine e decine di rumorosi bambini ed invece sua moglie non era in grado di portare avanti una gravidanza.
“Lei ci pensa ancora, e come non potrebbe? – c’era una velata malinconia negli occhi scuri di Max – Ma io la amo con tutto me stesso. Certo, avrei voluto avere dei figli, sai che adoro le famiglie numerose, ma quanto è successo non mi fa rimpiangere assolutamente nulla del mio percorso.”
“Percorso…”
“Mh?”
“Pensavo – Vincent bevette un’altra sorsata di liquore – ho trentasei anni e domani festeggio il  mio decimo anniversario di matrimonio. Sai, è uno di quei momenti in cui, come si suol dire, uno tira le somme della propria vita… o qualcosa di simile.”
“Uh, uao! Sono discorsi profondi, Vin: forse è l’alcool che sta parlando per te… anche se hai bevuto relativamente poco.”
“Finiscila – sorrise il capitano con un gesto secco della mano – perché ogni volta devi fare lo spiritoso?”
“E allora mi dica, Vincent Falman, guardando indietro si pente di qualcosa?”
“No.”
Ed era vero: pensò alla sua infanzia ed adolescenza difficili, in cui aveva dovuto imparare ad essere indipendente, l’amore sincero di una famiglia che gli era stato negato da quella brutta febbre che gli aveva portato via i genitori. Ripensò ai suoi anni nel corso di polizia ed all’amicizia sincera che aveva stretto con Max ed Alan, un legame che ancora sopravviveva dopo più di quindici anni. E ripensò alla sua decisione, apparentemente sciocca, di andare in quella pasticceria una fredda mattina di gennaio, spinto dal ricordo di una timida pasticciera che gli aveva sorriso in modo così adorabile.
Da più di dieci anni quella donna era per lui una compagna, un’amica, una moglie. Il centro del suo mondo che gli aveva dato un figlio che lui amava con tutto se stesso.
“Assolutamente no…” ribadì con un sorriso.
Dopo aver terminato quell’ultimo sorso insieme, i due si diedero la buonanotte e raggiunsero le rispettive camere. Accendendo la luce con discrezione, Vincent si cambiò il più silenziosamente possibile, in modo da non svegliare Rosie e Vato che dormivano nel lettone.
Si sdraiò accanto a loro, il bambino che veniva così a trovarsi in mezzo: dormiva supino, un braccio disteso lungo il fianco.
Ammirò quel piccolo viso, così somigliante al suo: seguì con l’indice i lineamenti ancora dolci della fanciullezza, la linea del naso, le sopracciglia sottili. Salì quindi ad accarezzare la chioma bicolore, provocando un mormorio del bambino ed un lieve sorriso.
Certo non era il tipo di figlio che si era aspettato: timido, introverso, con quella precocità che sotto molti punti di vista era stata più un problema che un vantaggio. Forse fisicamente somigliava a lui, ma molto del suo carattere era di derivazione materna, sebbene Rosie ora fosse molto più sicura di se stessa.
Ma non l’avrebbe cambiato di una virgola: non avrebbe mai potuto fare a meno di quella vocina che diceva termini così assurdi per la sua età, di quegli occhi che spesso lo fissavano con timore, cercando la sua approvazione, del modo tutto particolare di affrontare le prime piccole problematiche della vita… tra spiegazioni accademiche ed orso di pezza.
“Papà?” mormorò Vato nel sonno.
“Sssh, sono tornato – lo baciò sulla guancia – dormi, figlio mio.”
 
“Vincent…” la voce sommessa di Rosie, le sue labbra che gli sfioravano l’orecchio lo fecero svegliare.
Aprendo gli occhi notò che era ancora buio e l’udito colse un suono tipico dell’inverno di New Optain: la neve che cadeva nelle fredde ore del primo mattino.
“Che c’è?” mormorò.
“Sssh, piano: Vato sta dormendo.”
Mentre diceva queste parole, la donna lo prese per mano e lo indusse a mettersi seduto: solo in quel momento il capitano si accorse che era già vestita e pettinata, un caldo abito di lana che avvolgeva il suo corpo snello.
“Che ore sono?” si alzò in piedi e la osservò accostarsi al letto per rimboccare le coperte a Vato.
“Sono le sette meno un quarto – dichiarò con un sorriso malizioso – forza, preparati: è importante. Ti concedo dieci minuti di tempo.”
“Ma perché?” iniziò lui, ma venne zittito da l’indice di lei che si posò sulle sue labbra.
“Fidati di me, capitano.”
Ormai desto, Vincent capì che era uno di quei momenti in cui sua moglie voleva essere assecondata. Considerato che era il giorno del loro anniversario e si era ripromesso di dedicarsi completamente a lei, decise di ignorare l’invitante e caldo letto, dove ancora Vato dormiva beatamente, e con uno sbadiglio recuperò il necessario per prepararsi e si recò in bagno.
 
“Rosie! Ma si può sapere che ti succede?”
Ma lei non rispondeva, continuava a correre nella città illuminata ancora dai lampioni, con la neve che cadeva sopra di loro, rendendo umidi i capelli. Ogni tanto si girava come ad assicurarsi che la seguisse, il suoi occhi che avevano la medesima vitalità di dodici anni prima, quando la vedeva arrivare ogni mattina per le loro…
Colazioni segrete!
Mentre quel lampo di intuizione attraversava la mente di Vincent, i due girarono l’angolo e si ritrovarono proprio davanti al negozio. Solo a quel punto lei si fermò, piegandosi leggermente per riprendere fiato.
“Accidenti – mormorò, mentre una nuvoletta di vapore si formava davanti alla sua bocca – non sono più in forma come quando avevo ventuno anni e correvo ogni mattina ad aprire il negozio.”
“Rosie McLane…” scosse il capo Vincent con un sorriso.
“E meno male che non ho scivolato sul ghiaccio come varie volte è successo – ridacchiò lei, rimettendosi dritta e frugando nella tasca del cappotto – o mi avresti afferrata al volo anche questa volta?”
“Certo che l’avrei fatto.”
“Sono le sette e mezza adesso, Vincent – aprì la porta ed il lieve scampanellio risuonò nella sala silenziosa – sono felice che dopo più di dieci anni tu sia qui per la nostra colazione segreta.”
La luce dei lampioni di strada illuminava il locale proprio come Vincent ricordava. La sala vuota faceva sempre lo stesso effetto ovattato che regalava tranquillità, tanto che i loro respiri e le piccole gocce d’acqua che cadevano sul pavimento erano gli unici rumori udibili.
Ma tu sei sempre qui, piccola e dolce pasticciera che mi hai rubato il cuore, che hai condiviso con me il caffè per non so quante mattine della mia vita… che mi hai regalato quel calore a cui ho sempre aspirato.
“Lo so – ammise lei, aiutandolo a levarsi il cappotto e andando ad appenderlo nell’appendiabiti – è stata un’idea un po’ assurda, ma…”
“Buongiorno, signorina.” lui le si affiancò e le rivolse un gentile cenno del capo.
“Buongiorno, signore – sorrise lei, arrossendo in quella maniera adorabile che lo faceva impazzire – scusi il ritardo, è molto che aspetta?”
“No, sono appena arrivato.”
“Si sieda, la prego – gli indicò il loro solito tavolo e poi si avviò verso la cucina – torno subito con il caffè.”
E lui si sedette in quella sedia, come aveva fatto infinite volte, come avrebbe continuato a fare anche se si trattava del tavolo della propria cucina. Assaporò l’aroma del caffè che iniziava a diffondersi nel negozio, lo stesso che l’aveva viziato nell’arco di nemmeno una settimana circa dodici anni prima.
E poi lei arrivò, con il grembiule stretto alla vita, come se fosse pronta ad avviare il negozio nell’attesa dei primi clienti, della propria famiglia che veniva a lavorare. Posò il vassoio sul tavolo e si sedette accanto a lui, provvedendo a servire il caffè nella solita maniera perfetta ed impeccabile.
“Sa, signorina – mormorò il capitano, mettendo una mano sopra quella minuta di lei – mi sono appena accorto che durante tutte le nostre colazioni segrete non le ho mai pagato nemmeno un caffè. Il conto è molto alto?”
Ed era vero: nemmeno la prima volta aveva pagato. Sembrava un pensiero così assurdo a distanza di anni.
Lei parve riflettere su quell’ultima domanda, ma poi ricambiò la stretta e mormorò:
“Tutta la tua vita… è l’unico pagamento che accetto.”
“Ce l’hai già, Rosie McLane. La possiedi da sempre.” sussurrò Vincent, accarezzandole la guancia prima di accostarsi alle sue labbra.
Ed il bacio che si scambiarono non aveva bisogno di altre parole.
Buon anniversario, amore mio.

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Capitolo 23
*** Epilogo. ***


Capitolo X

Epilogo.

 

1890
 
“Andiamo, mamma! Tra un quarto d’ora devo uscire per incontrarmi con Elisa – la voce di Vato era davvero impaziente – non posso fare tardi il primo giorno di scuola media.”
“Lo so, tesoro – Rosie assunse un’aria estremamente concentrata mentre cercava di sistemare l’orlo dei pantaloncini al ginocchio – non è colpa mia se in questi mesi estivi sei ancora cresciuto. Siamo alle solite, dovrò rivedere tutta la tua roba. Ecco, sistemato!”
“Meno male! – il ragazzino si rilassò, lieto che quell’imprevisto non avesse disturbato più di tanto il suo programma – Resta anche il tempo per fare colazione.”
“Vato, per arrivare a scuola ci impiegate dieci minuti e sono le otto meno un quarto – commentò la madre mentre si sedevano entrambi a tavola – che senso ha arrivare così presto?”
“Ambientazione.” spiegò lui con serietà, spalmando la marmellata su una fetta di pane.
“Ambientazione?” Vincent squadrò suo figlio con aria perplessa.
“Certamente: anche se siamo sempre gli stessi in classe, oggi varchiamo l’importantissima soglia della prima media. Non c’è più la maestra ma i professori e le materie da studiare saranno molte di più…”
“Con tua somma gioia, immagino.”
“… dicevo che è necessario prendere bene atto di tutto questo, nonché di altri dettagli come la classe con i banchi più grandi, nell’altra ala della scuola e così via.”
“Secondo me la potresti prendere con molta più tranquillità – Vincent allungò una mano e gli arruffò i capelli bicolori – capisco un po’ di eccitazione per il primo giorno, ma sembra che tu stia andando ad una conferenza di pace tra Amestris e Drachma e che dal tuo parere dipenderà il destino del mondo intero.”
“Credi?” Vato si girò a guardarlo con estrema perplessità ed un pizzico di delusione.
“Sono sicuro che anche senza tutti i tuoi accorgimenti, come l’aver ricontrollato il materiale scolastico almeno dieci volte ieri sera, andrà tutto bene.”
“Se lo dici tu, papà…”
“Sono sicura che sarà un anno fantastico, tesoro – lo consolò Rosie – e che imparerai un sacco di cose nuove ed interessanti. Vedrai che i nuovi professori saranno estremamente felici di te, così come del resto della classe.”
“Elisa mi ha chiesto se eventualmente la aiuterò con le nuove materie – disse ancora Vato, come se fosse la cosa più naturale del mondo – ha paura che siano difficili rispetto a quelle che abbiamo sempre fatto. Ed io le ho risposto di sì.”
“Sarete sempre vicini di banco?” Rosie gli lanciò un’occhiata maliziosa.
“Certamente, non vedo perché no.”
“E’ diventata davvero carina, vero? – la donna strizzò l’occhio mentre prendeva la caraffa del caffè – Ora avete dieci anni, come vola il tempo: ormai lei è una signorinella e tu un ometto.”
“E’ sempre Elisa – alzò le spalle lui – però adesso devo andare.”
“Vogliamo fare un pezzo di strada insieme? – chiese Vincent alzandosi dalla sedia – tanto sto uscendo pure io.”
“Sul serio, papà? – il viso del bambino si illuminò – mi farebbe veramente piacere!”
“Mi metto la giacca e possiamo andare.”
“Perfetto!”
“Non dimenticare la merenda, Vato – gli ricordò Rosie – è sopra il piano da lavoro.”
“Grazie mille.”
Come la porta si chiuse dietro padre e figlio, Rosie ridacchiò ed iniziò a sparecchiare. Era veramente buffo vedere Vincent muoversi con quella piccola variate di se stesso dietro di lui.
Piccola… santo cielo, ha dieci anni e gli arriva al petto. Sono destinata ad essere la più bassa di famiglia nell’arco di poco tempo.
Però era vero parlare di variante: si era accorta che man mano che cresceva Vato cercava di emulare il padre in tutto e per tutto. Sicuramente lo considerava l’esempio da seguire in ogni occasione, ma spesso la donna si chiedeva se questa non fosse una delle classiche estremizzazioni di suo figlio. Proprio come da piccolo tendeva a dare troppa fede alla parola scritta, non dando alcuna importanza al suo pensiero, sembrava che adesso preferisse allinearsi al padre piuttosto che esternare il vero carattere.
Ma potevano essere semplici timori materni: Vato era rimasto molto obbediente e tranquillo e forse era questa poca vivacità a farlo sembrare troppo attaccato a Vincent.
E sono abbastanza sicura che anche Vincent sia estremamente compiaciuto di questo attaccamento.
In ogni caso era un bene che i due uomini della sua vita fossero usciti e le avessero lasciato campo libero: la festa per la prima vendemmia si stava avvicinando e il comitato organizzativo era in piena attività. Aveva un mucchio di cose da fare, tra cui incontrarsi con Tania per controllare i registri ed i fondi necessari.
Si adoperò per lavare immediatamente i piatti e poi pulì il tavolo con un canovaccio bagnato.
Doveva ancora sistemare le camere, poi andare a casa di Tania, indi fare la spesa, preparare il pranzo…
Oh, andiamo! – sorrise con soddisfazione – Le cose non potrebbero andare meglio di così.
 
“Credo che Elisa arriverà tra pochi minuti – ammise Vato, mentre si sedeva su un muretto – forse sono in anticipo io. Se tu devi andare non ti preoccupare, papà.”
“Tranquillo, aspetto pure io, così la saluto.”
Vincent arruffò con gentilezza i capelli del bambino e si mise accanto a lui ad osservare il viavai di ragazzi che andavano verso la scuola. La maggior parte di loro aveva un’andatura tranquilla, come se ancora non fossero del tutto consapevoli che ormai era riniziata la routine fatta di ore trascorse tra i banchi, e dunque fu più che naturale che una figura snella all’improvviso catturasse la loro attenzione.
“Muoviti Roy! – il bambino con gli occhiali smise di correre e si girò per attendere l’amico – Non vorrai arrivare giusto in tempo il primo giorno di scuola, spero!”
“Tanto non si fa niente il primo giorno – un altro bambino moro che procedeva con le mani in tasca, lo fissò con aria annoiata – potremmo anche saltare scuola.”
“Oh suvvia – sogghignò l’altro – sono sicuro che in cortile ci sarà qualcosa di interessante da fare prima delle lezioni. Magari incontriamo anche quegli stupidi con cui abbiamo litigato la settimana scorsa.”
“Ecco, se la metti così ci sto, Maes.”
Mentre i due ragazzini proseguivano oltre, Vato lanciò una rapida occhiata al padre e vide un lieve disappunto dipinto nel suo volto. Saltare la scuola, litigare… non erano certo cose che facevano piacere ad un poliziotto come lui.
“Quello con gli occhiali abita vicino a casa di Elisa – spiegò per spezzare quel silenzio – quest’anno sono in quinta elementare e anche l’anno scorso erano famosi per litigare con i bambini più grandi… anche delle scuole medie. L’altro bambino mi pare si chiami Roy… vive nel locale dove tu vai diverse volte, vero?”
“Sì, è il nipote della proprietaria – annuì Vincent, continuando a seguire con lo sguardo i due ragazzini – è arrivato qui l’anno scorso perché i suoi genitori sono morti.”
“Oh, capisco – Vato abbassò lo sguardo, ma poi la curiosità prese il sopravvento: era raro che suo padre parlasse di quel locale – Papà, senti, ma che tipo di locale è quello in cui lavora sua zia? Ogni tanto a scuola se ne parla, ma io ancora non capisco e nemmeno Elisa. Sai, dicono che non è un posto per la brava gente, ma tu ci vai…”
“E’ un discorso che sei ancora troppo giovane per affrontare, Vato. Ma sappi che le persone che lavorano lì hanno tutte una loro dignità e vorrei che questo lo tenessi sempre a mente, va bene?”
“Uh… certamente, però non ho ancora capito che…”
“Ehi, Vato! – l’arrivo di Elisa interruppe quel dialogo – Buongiorno e scusa il ritardo. Buongiorno anche a lei, capitano Falman.”
“Ciao, Elisa – sorrise Vincent – allora, tutto bene?”
“Certamente. E’ da molto che attendete?”
“No, tranquilla – il capitano le sistemò una ciocca di capelli castani – io adesso vado, ed è meglio che vi avviate pure voi. Buon rientro a scuola, ragazzi.”
 
I due ragazzini si avviarono verso l’uscita del paese, dove stava il grande edificio scolastico. Come sempre iniziarono a chiacchierare tra di loro: Vato che cercava di introdurre argomenti importanti, mentre Elisa lo riportava sempre alla semplice realtà quotidiana.
Specie quando si raggiunse un determinato argomento.
“Che cosa avrebbero detto gli altri?” Vato si girò a guardare la ragazzina con aria incredula.
“Che siamo amici del cuore – annuì lei con convinzione – dicono che quando due stanno sempre insieme per tutte le classi elementari allora sono amici del cuore. Non lo sapevo, è la prima volta che lo sento. Però se vuol dire che siamo amici in maniera speciale credo sia vero.”
Vato si mise a braccia conserte con aria pensosa, fermandosi addirittura in mezzo alla strada, esaminando da tutte le sfumature possibili quella nuova definizione. No, per quanto si sforzasse non c’era alcun libro che parlasse di amici del cuore: sicuramente non era una cosa ufficiale, ma una particolarità linguistica usata dai ragazzi della loro età. Un infantilismo, come era solito definirli.
“Probabilmente hai ragione tu – annuì, riprendendo a camminare e raggiungendo Elisa che si era fermata ad aspettarlo – Credi che ora che siamo amici del cuore cambi qualcosa?”
“Non credo, in fondo dicono così perché lo siamo già.”
“Sarà… Comunque, torniamo a noi: non sei eccitata all’idea di scoprire tutte le materie nuove che abbiamo? Non vedo l’ora di studiare lettere in maniera più approfondita, e lo stesso vale per storia: a volte trovavo le cose decisamente troppo semplici…”
“Come fai ad essere emozionato per queste cose? Io piuttosto ne sono terrorizzata! E se sono difficili?”
“Tranquilla, Eli, ti aiuto io!”
Rassicurata da quell’offerta Elisa sorrise e con un gesto spontaneo prese la mano di Vato.
A quel gesto il ragazzino si irrigidì leggermente: si erano già tenuti per mano altre volte, ma ora che sapeva che erano amici del cuore, forse la cosa assumeva delle sfumature diverse. Arrossendo si girò a guardare Elisa e considerò che era proprio bella con il nuovo vestito che la madre le aveva comprato. Ormai erano cinque anni che si conoscevano e lui era sicuro che fosse speciale, diversa da tutte le altre: si era chiesto più volte se il fatto che la considerasse speciale voleva dire che un giorno l’avrebbe sposata, del resto è quello che succedeva da grandi. Però arrivava sempre alla conclusione che era troppo affrettato pensare a determinate cose.
Però ora era in prima media ed era giusto che si dimostrasse più grande almeno sotto certi punti di vista.
“Adesso che sono in prima media credo che leverò Lollo dal letto e lo metterò via assieme agli altri giochi.”
“Cosa? – lei si girò a guardarlo con aria sconcertata – oh no! Non puoi fare questo a Lollo! Ci resterà malissimo.”
“E’ un pupazzo, non parla… credevamo che parlasse, ma in realtà…”
“Forse siamo noi che non possiamo più sentirlo! – annaspò lei – Magari è una cosa che si perde crescendo, ma sono sicura che Lollo ha dei sentimenti e… lo posso tenere io se vuoi.”
“Vuoi tenerlo tu?” chiese il bambino sorpreso.
“Sì, ne avrò cura, te lo prometto. Lollo è troppo speciale per metterlo via.”
“Sì – annuì Vato, dopo averci pensato attentamente– sei l’unica di cui mi fido veramente e sono sicuro che lo tratterai bene.”
“Ne sono felice! – sorrise lei rinsaldando la stretta sulla sua mano – Allora lo prendo la prossima volta che passo a casa tua, va bene?”
“Ecco… facciamo che aspettiamo qualche tempo, se non ti dispiace.”
“Più che giusto! Dai, corriamo fino al cortile!”
“Ma perché? – chiese lui, sentendo che era una cosa ormai poco dignitosa – non siamo in ritardo!”
“Perché è divertente!” rise Elisa, tenendo stretta la sua mano.
 
“… e comunque con il nuovo regolamento è indifferente che i bambini vadano a scuola a cinque o sei anni. Io ed Andrew abbiamo deciso che per Kain è meglio aspettare ancora.”
“Mi sembra completamente in forze, guarda come dorme tra le tue braccia.”
“Lo so, Laura, ma a volte ancora stento a crederci che… oh, beh, in ogni caso stamane il medico farà un nuovo controllo: anche lui è sorpreso che negli ultimi sei mesi non abbia avuto più la febbre.”
“Va tutto bene, Ellie, coraggio. Comunque anche io manderò Henry a scuola l’anno prossimo, pare che la sua presenza in casa sia molto… distensiva. Coraggio, adesso è meglio che andiamo ciascuna per conto proprio, non è il caso di creare pettegolezzi. Ma è stato bellissimo incontrarti. Salutami Andrew.”
“Non mancherò, speriamo di vederci presto.”
Le due donne si separarono e Vincent, mentre attendeva che Steve uscisse dall’ufficio postale, osservò quella con la folta treccia bruna che si allontanava con il bambino tra le braccia. Per qualche secondo le sembrò di rivedere Rosie con in braccio il piccolo Vato e la cosa lo fece sorridere.
Il fatto che suo figlio avesse iniziato la prima media era un altro segnale di quanto il tempo passasse in fretta: un giorno era un bambinetto minuscolo tra le braccia di Rosie, e all’improvviso era un alto e snello ragazzino di prima media.
“Fatto, signore – Steve richiamò la sua attenzione – ho spedito tutto quanto.”
“Ottimo, allora possiamo cominciare la nostra ronda.”
Il giovane si stiracchiò con soddisfazione.
“Ah, il primo settembre! Sono le giornate che preferisco.”
“Clima eccellente, lo ammetto: adesso portare questa divisa non è più tremendo e finirai di lamentarti.”
“Io le avevo proposto di levare la giacca d’estate, capitano, ma lei…”
“Quando si è in servizio bisogna essere impeccabili, ricordalo bene.”
“Uh, agli ordini, signore.”
Vincent gli lanciò un’occhiata significativa, come a sfidarlo nel dire quella parola proibita.
Lo sapeva, spesso era un po’ più rigido del dovuto, ma per determinate cose era sicuro che non sarebbe mai cambiato. Da che mondo e mondo la divisa doveva essere tenuta in perfette condizioni, in quanto era un modo di essere prima che di apparire.
“Allora… tra qualche mese saranno sei anni che è arrivato in questo sperduto angolo di mondo. Ma a nome di tutti posso dire che è come se fosse in paese da sempre: ed è un complimento, si fidi.”
“Fa parte del mio dovere stare in buoni rapporti con i civili ed i colleghi.”
Ma era vero: ormai gli sembrava da stare da sempre in quel posto.
Le missioni di New Optain, la vita cittadina, gli sembravano ormai lontani echi di una vita passata, anche se era sicuro che sarebbe stato sempre pronto ad affrontare quel tipo di lavoro. La realtà di paese era molto più tranquilla e bucolica, eppure lui ci aveva preso gusto: aveva ormai trovato il giusto equilibrio e motivazione, così come la sua famiglia.
Insomma era il primo settembre del 1890 e tutto andava a meraviglia in quel piccolo angolo di mondo.




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nda
Eccoci arrivati alla fine di questo primo spin off della serie Un anno per crescere.
La famiglia Falman ci ha raccontato la sua storia, un po' semplice, un po' particolare, ma ricca di quella quotidianità che tanto mi piace. 
E' stato divertente e romantico seguire le vicende di Rosie e Vincent, una coppia un po' atipica considerata la rigidità di lui e la timidezza di lei, un fatto anche confermato dal figlio particolare che hanno avuto. Vato bambino è davvero un personaggio interessante e dolce, sempre in bilico tra razionalità e fantasia.
Ovviamente mancano ancora sei anni agli avvenimenti dell'opera principale e dunque capiamo come questi personaggi abbiano ancora il tempo di maturare per diventare quelli che abbiamo imparato a conoscere.
Ma come ha detto Vincent, tutto procede bene in quel piccolo angolo di mondo ^*^

Adesso cercherò di riprendere in mano quello dei Fury - Breda. L'avevo già iniziato ma voglio modificare diverse cose.
In realtà pensavo che i Falman mi prendessero meno tempo (e capitoli) ma alla fine non è stato così ^^''



 

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