Mad as a hatter

di Weightlessness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Fabbricatore di orologi ***
Capitolo 3: *** Come divenni Cappellaio ***
Capitolo 4: *** Perchè un corvo è simile ad una scrivania? ***
Capitolo 5: *** Approccio alla follia ***
Capitolo 6: *** È l'ora del te, per sempre. ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Il Cappellaio diede un'ennesima occhiata al proprio orologio da taschino. Le sei. (Sempre solo le sei.)
-Dannazione, è l'ora del tè.
Farfugliò quasi incredulo.
ancora l'ora del tè, Cappellaio.
Lo corresse la Lepre-Marzolina afferrando l'orologio e intingendolo nel te come se si fosse trattato di un biscotto. Il Cappellaio si grattò il naso, osservando con sguardo obliquo e un tantino irritato prima il ghiro che sghignazzava nel sonno e poi il suo "compagno di tè" addentare il quadrante del suo orologio.
-Sarebbe più gustoso con un po' di burro, amico mio.
Constatò con aria arrogante il Cappellaio.
Alice aggrottò le sopracciglia, ma continuò a sorseggiare in silenzio il suo tè senza osar infierire, anche se non riusciva proprio a capire come la Lepre potesse trovare appetibile un vecchio orologio rotto: anche ammettendo che col burro fosse diventato commestibile e magari persino gustoso, di sicuro sarebbe stato pesante da digerire.
-Ticchetta, ticchetta!
Strillò l'animale dopo aver tentato di assaggiarlo.
-In tal caso, propongo un brindisi.
Annunciò entusiasta il Cappellaio con aria enfatica e altezzosa, sollevando in aria una tazza vuota e gonfiando il petto fino a che uno dei bottoni del consunto panciotto non schizzò via. La lepre lo imitò sollevando pomposamente la zuccheriera, ma non avendo il panciotto evitò di gonfiare il petto e preferì drizzare le orecchie. Anche Alice si alzò per partecipare al brindisi. 
-Agli orologi, ai mulini a vento e alle zuccheriere!
-E ai panciotti!
-E alle scrivanie!
Alice inclinò il capo.
-Chi mai brinderebbe ad una scrivania?
-Io!
Ribattè il Cappellaio battendosi fieramente una mano sul petto.
-Le scrivanie sono molto importanti.
-Giusto! Ben detto! ...Netto, affetto, corretto, grassetto, farsetto.
-Saresti in grado di spiegare perché un corvo è simile ad una scrivania?
 Senza attendere nemmeno un secondo alcuna risposta da Alice, si risedettero. E mentre il duo di matti si affaccendava a versare altro tè in ogni tazza per un nuovo brindisi, dalle siepi di moribes che accerchiavano il giardino della piccola pelosa casetta della Lepre-marzolina, spuntò tutto affaticato e ansimante un tre di quadri con una pergamena in mano.
-Oh guarda! Un messo reale!
Esclamò il Cappellaio.
-Chi ha messo cosa dove?
Domandò la Lepre strabuzzando gli occhi e finendo per guadagnarsi una cucchiaiata suo muso. La goffa ed esausta carta si piegò su se stessa per riprendere fiato. 
-Bambina, spostati di un posto, lascia al messo un posto a sedere.
-Ammesso dove?
Intervenne di nuovo con aria elettrizzata la Lepre, ma anche questa volta nessuno gli prestó attenzione. Dopotutto il suo sguardo stesso faceva ben intendere che nemmeno lui in realtà si aspettava una risposta.
Alice sbuffò incrociando le braccia sul petto. Le piaceva la poltrona sulla quale era seduta, era grande e comoda, non aveva nient'affatto voglia di spostarsi.
-Perché dovrei spostarmi? Ci sono tanti altri posti liberi!
-Proprio per questo, bambina, hai tanti altri posti in cui puoi sederti.
Alice pensò che in fondo il Cappellaio non aveva tutti i torti e scelse un'altra poltrona. Tutti gli altri scalarono di un posto e la carta di accomodò al posto lasciato libero da Alice.
-Vuoi altro tè?
Domandò con piglio galante la Lepre alla carta, saltando in piedi sulla sedia con una teiera rosa in mano.
-Come può volerne altro se non ne ha ancora preso?
L'obiezione di Alice indignò enormemente la Lepre.
-Non si deve rispondere ad una domanda che è stata fatta ad un altro, è scortese (marchese, olandese, riprese)... e non si può rispondere ad una domanda con un'altra domanda, è come se domandassi qualcosa con una risposta. Giusto?
Il ghiro aprì pigramente gli occhi per assentire; la carta si grattò il capo per rifletterci su; Alice si costrinse a star zitta perché le soggiunse alla mente un'altra domanda e, doveva ammetterlo, non poteva rispondere con una domanda.
-Quale buona brezza ti ha portato da noi quest'oggi?
Chiese gentilmente il Cappellaio al tre di quadri allungandosi sul tavolo per versargli il tè.
-La Regina convoca tutti i sudditi alla riunione annuale del Ciancia-Storie e a chi si rifiuta di partecipare verrà tagliata la testa.
-Che genere di ricorrenza è?
Chiese curiosa Alice alla carta.
-Da dove vieni bambina per non saper di che si tratta il Ciancia-Storie?
Alice avrebbe voluto ammonirlo e ricordargli che non si poteva rispondere ad una domanda con una domanda, ma fu preceduta in parola dal ghiro, che schiudendo gli occhi e stiracchiandosi iniziò a spiegare:
-Durante il Ciancia-Storie ogni partecipante è costretto a raccontare una storia e, se la storia non piace alla Regina, si rischia di perdere la testa.
-Cosa che non ci preoccupa, dato che abbiamo perso la testa già da un po'.
Ironizzò la Lepre-marzolina passandosi un dito sotto il mento per imitare il gesto della decapitazione. Il Cappellaio invece rabbrividì.
-Come posso fare? 
Si chiese coprendosi il volto con le mani.
-Ho già raccontato tutte le storie migliori che conosco.
Sembrava quasi che stesse per piangere.
-Cappellaio! Racconta la tua storia.
Propose il ghiro rigirandosi pigramente nel suo giaciglio di tovaglioli arrotolati. Il Cappellaio fece scivolare lentamente le mani dal viso e scoprì i suoi grandi occhi neri e scintillanti. L'idea doveva piacergli parecchio perché si alzò in piedi con un sorriso smagliante sulle labbra.
-Ebbene che aspettiamo?

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Capitolo 2
*** Fabbricatore di orologi ***


Il Ciancia-storie doveva essere un avvenimento molto sentito, perché la piazza in cui si riunirono era affollatissima di bizzarri personaggi d'ogni genere. La Regina svettava austeramente sui propri sudditi, comodamente seduta su un trono di legno sostenuto da quattro ranocchi in giacca scarlatta. Scrutava assorta e accigliata tra la folla, poi i suoi occhi si posarono sul personaggio che aveva preso parola. Alice riconobbe esattamente al centro di quella massa brulicante la Falsa Testuggine che piangendo appassionatamente decantava la sua sfortunata storia. I più sensibili intorno a lei, toccati nel profondo da tanta tristezza, si asciugavano sommessamente alcune lacrimucce agli angoli degli occhi. Quando la Falsa Testuggine ebbe finito di parlare, la Regina si alzò e sollevò con fare pomposo lo scettro.
-Avanti il prossimo!
Strillò arcigna, ma nessuno si fece avanti.
-Il prossimo, ho detto!
Ripeté rossa di rabbia.
Alice alzò gli occhi verso il Cappellaio, che con mani tremanti si tolse il cilindro dalla testa.
-Io ho una storia.
Disse ad alta voce e gli sguardi di tutti si volsero verso di lui. Il Cappellaio deglutì nervosamente, ma sorrise comunque. In men che non si dica la folla si spostò lasciando uno spazio vuoto attorno a lui. Alice si sedette sul selciato accanto alla Lepre-Marzolina e attese pazientemente che il Cappellaio cominciasse a parlare.
-Era una fredda giornata di Aprile...
Mormorò egli guardando il proprio orologio.
-Esattamente sestordici anni fa.
Commentò tra sé battendo l'indice sul quadrante.
-...quando vidi il mio primo cappello.

Ero solo un fanciulletto all'epoca. Vivevo con mio padre sulla cima di una collina così isolata che nessuno veniva mai a trovarci. Si chiamava la Collina dei Corvi, ma stranamente non si vedeva mai un volatile nei dintorni.
Mio padre era un orologiaio, sapete, costruiva orologi: grandi orologi ed enormi orologi, piccoli orologi e orologi minuscoli, pendoli, orologi da taschino, orologi ad acqua, meridiane, orologi a cucù, orologi d'oro e orologi logici. Siccome io avevo delle dita piccine e sottili egli mi obbligava a incastonare i più minuscoli ingranaggi negli orologi più piccoli. Così trascorsi la mia infanzia rinchiuso nel laboratorio di orologi. Me ne stavo seduto giornate intere alla mia scrivania costruendo metodicamente gli orologi che mio padre il venerdì andava a vendere.
Egli mi parlava spesso di come il Tempo fosse suo amico. Mi diceva che non dovevo mai perderlo né tanto meno cercare di ammazzarlo...
Ricordo ancora molto bene quel lontano venerdì.
Mio padre era uscito la mattina presto con il carretto pieno di orologi da vendere ed io ero rimasto solo nella bottega, sempre seduto alla mia scrivania, sempre intento a far combaciare le rotelle degli orologi di mio padre. Stavo costruendo un orologio molto bizzarro, un orologio da taschino tutto d'oro che non segnava le ore, bensì i giorni e i mesi. Ed ero giusto sul pinto di inserire l'asse del bilanciere nel bellissimo orologio, quando udii bussare debolmente alla porta. Inizialmente non andai ad aprire, perché credetti fosse stato il vento -che come sapete, ogni tanto si diverte a far sciocchi scherzi. Ma dopo pochi minuti, il toc toc si ripeté, questa volta più forte e violento. Allora non esitai ulteriormente, doveva essere mio padre. Attraversai la stanza per raggiungere la porta a passi svelti, provando ad immaginare perchè mio padre fosse tornato così presto.
-Avrà dimenticato qualcosa, o si è rotto il carretto, o gli servono altri orologi.
Formulando tali ipotesi aprii solerte l'uscio. Già sulle mie labbra si stava sciogliendo meccanicamente la frase "perché già a casa, padre?", ma mi bloccai, come se fossi stato congelato all'istante. Sulla soglia della mia casa, vestito di nero e appoggiato ad un lungo bastone bianco d'avorio se ne stava tutto storto e tremante un vecchietto sconosciuto, tanto anziano che credetti potesse morire da un momento all'altro. Mi spaventai oltre modo. Sentivo il sangue raggelarsi nelle vene. Credo che non avrei avuto così paura nemmeno se mi fossi trovato davanti un fantasma. 
-Theophilus!*
Esclamò egli lacrimante e si gettò su di me per abbracciarmi. In quella voce così disperata, in quel nome -il mio nome- pronunciato con tanta enfasi e tanta amarezza, riconobbi un accento familiare che mi terrificò, se possibile, ancora di più.
-Padre? Voi?
Gridai in preda all'emozione. Egli annuì tristemente e mi fece segno di sedermi.
Dopo aver chiuso la porta alle proprie spalle con bianche mani scarne, si sedette accanto a me su uno sgabello e mi raccontò ciò che gli era accaduto. Mi narrò che mesi prima un uomo col cilindro gli aveva chiesto di costruire un orologio che invece di andare avanti, andasse indietro. Questo aveva enormemente offeso il Tempo, che aveva deciso di far invecchiare di un anno mio padre per ogni minuto al contrario che compiva la lancetta di quell'orologio.
Avrei voluto piangere, ma non potevo non agire. Dovevo cercare un buon consiglio, così partii alla ricerca del Brucaliffo. Mio padre mi aveva parlato della sua sconfinata saggezza e nel mio tenero ed inesperto cuore sentivo che egli mi avrebbe saputo aiutare.
Lo trovai seduto sul cappello di un grande fungo rosa, avvolto in una nuvola di fumo.
-Chi sei tu?
Mi chiese con voce languida aspirando lentamente dalla sua pipa turca.
-Non importa chi sono io. Sono qui per porti un quesito.
Il Bruco socchiuse gli occhi, ma non capii se fosse per assaporare meglio la pipa o per vedermi meglio in mezzo a tutto quel fumo.
-Ebbene?
Chiese già spazientito.
-Il Tempo ha fatto invecchiare velocemente mio padre. Perché? Come posso fare per rimediare? C'è una soluzione?
-Quante domande!
Sbottò incrociando due paia di braccia.
-Prima di tutto, il Tempo è un dio e può fare ciò che vuole, entro certi limiti. Tuo padre ha evidentemente fatto qualcosa di sbagliato e il Tempo si è voluto giustamente vendicare. Vedi, ognuno ha il suo tempo. Comprendi?
-Poco, anzi, affatto, signore.
-Non importa, cerca di seguirmi. Sai che si dice "è giunto il tuo tempo" a una persona che sta per morire?
-Sì.
-Ecco, il Tempo è quasi onnipotente, ma se vuole giungere da una persona, deve far in modo che essa stessa raggiunga la sua ora. Mi spiego, sciocco ragazzino?
Non avevo capito bene, in realtà, ma annuii comunque perché il suo tono non ammetteva contestazioni.
-Il Tempo voleva giungere da tuo padre al più presto, così l'ha fatto invecchiare. Tuttavia, suppongo basti riparare allo sbaglio di tuo padre per placare l'ira del Tempo.
Soddisfatto di quel responso decisi di andare a trovare l'uomo col cilindro al quale mio padre aveva venduto l'orologio. Sapendomi abile nel mettere insieme gli ingranaggi, ero convinto che sarei riuscito a far girare le lancette di quell'orologio nel verso giusto.
Mentre mi allontanavo dal fungo del Brucaliffo, egli mi gridó:
-Ricorda, il Tempo è un dio, ma non può tutto. Può fermarsi e andare più veloce, ma non può ritornare indietr!o







*Theophiulus è il nome del rivenditore di mobili realmente esistito (Theophilus Carter) al quale Carroll -o per lo meno l'illustratore del libro- probabilmente si ispirò per creare il personaggio del Cappellaio Matto. 

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Capitolo 3
*** Come divenni Cappellaio ***


A quel punto il Cappellaio si concesse una breve pausa. Si guardò intorno compiendo goffamente due giri su sé stesso, uno in senso antiorario e uno in senso orario, quindi si bloccó e dopo un secondo di smarrimento si portò un dito alle labbra con fare incerto e pensieroso: sembrava come se si fosse improvvisamente dimenticato di quello che stava dicendo.
Nel grande piazzale tutti gli occhi erano inchiodati a lui e regnava il più assoluto silenzio. Perfino la Regina stava muta e imbambolata ad aspettare di udire di nuovo la voce del Cappellaio.
Alice tentò di ragionare sullo strano modo di quella gente di personificare il Tempo. Le era capitato di sentire le espressioni "Ammazzare il tempo" e "Era giunta la sua ora", la prima molto spesso, quando suo padre partecipava ai balli organizzati dalla mamma, la seconda una sola volta, quando era morto il vecchio, scorbutico zio Lewis. Ma non aveva mai pensato che simili detti potessero essere letterali.
D'un tratto la Regina cominciò a battere lo scettro sulla testa di una delle rane che sostenevano il trono.
-Vogliamo continuare, prego?
Domandò spazientita. Il Cappellaio le rivolse uno sguardo incolore mentre sul suo viso si allargava un sorriso buffo, ma senza alcuna nota di gaiezza. Quindi riprese rapidamente a parlare.


Pregai il Tempo di fermarsi per mio padre, promettendogli di trovare al più presto l'uomo col cappello a cilindro per dare il verso giusto all'orologio. Non potevo sapere se mi avesse ascoltato o meno, perché fu come parlare con il vento e nessuno mi rispose. Ma la mia supplica era così accorata e devota che supposi che il Tempo l'avesse accolta.
Per trovare l'uomo col cappello a cilindro dovetti viaggiare molto a lungo. Viaggiai per tutto l'autumno e tutto l'invernico. Mi fermai in tutte le case che incontravo sulla strada, chiedevo a tutti gli esseri che vedevo se conoscessero un uomo con un cilindro e un orologio che andava al contrario, ma nessuno mi sapeva rispondere.
Attraversai campi innevati, scalai montagne altissime, percorsi tutte le strade senza mai fermarmi perché ritenevo saggiamente che non avrei dovuto (né potuto) perdere tempo, altrimenti egli non sarebbe stato più mio amico. E così camminai e camminai senza tregua, ero stanco, certo, ma man mano che proseguivo sentivo meno stanchezza e meno freddo. Scoprii allora di aver portato distrattamente con me l'orologio che stavo costruendo prima di partire e consultandolo notai che era Aprile.
Capii dunque perché il mio vagare mi pareva più piacevole: stava tornando la primaverta. Sollevando gli occhi verso le fronde degli alberi che costeggiavano le strade che percorrevo, ogni tanto scorgevo alcuni fiori che sbocciavano timidi sui rami ancora bagnati dalla pioggia di Marzo.
Camminai ancora.
L'orologio mi informava che i giorni passavano e il tempo mi incalzava -letteralmente signori.
Era l'alba dell'ultimo giorno di Aprile. Il cielo era tinto di un morbido rosa pastello e gli uccellini cantavamo armoniose canzoni d'amore planando spensierati nell'aria, sopra la mia testa. Quasi d'improvviso apparve all'orizzonte la sagoma scura di un mulino a vento (non ne avevo mai visto uno, ma supposi che fosse un mulino a vento perché mi ricordavo di averlo visto disegnato nelle immagini di uno strano libro nel quale il protagonista scambiava i mulini per dei giganti) e allungai il passo verso di esso.
Man mano che mi avvicinavo, la sagoma del mulino si ingrandì tanto che per un momento credetti davvero che quel enorme edificio con le braccia rotanti fosse un gigante furioso. Tuttavia mi resi conto dell'insensatezza della mia paura, perché notai sul busto del mulino una porticina rossa e una finestrella contornata di fiori azzurri. Salii lentamente gli scalini che mi separavano dalla porta e bussai. Non dovetti attendere a lungo che qualcuno si facesse vivo, perché subito udii un tintinnio di chiavi e uno scatto all'interno della serratura. Quella che mi si presentó davanti agli occhi fu la creatura più graziosa e adorabile che avessi mai visto. Il suo bel visino rotondo era deformato da un'espressione di timore e i suoi occhioni blu notte mi squadrarono con aria inquisitoria.
-Salve,
Esordii con molta cortesia.
-Cerco un uomo con un cappello a cilindro e con un orologio che va al contrario.
La fanciulla non disse nulla, ma la sua espressione mutò e si addolcì. Mi diede le spalle volgendosi su se stessa con un'eleganza superba e, lasciando la porta aperta, corse su per le scale chiamando "Padre! Padre!". Attesi sulla soglia, impacciato ed emozionato per il mio recente incontro con una creatura di simile bellezza.
La ragazza ricomparve sulla rampa di scale in compagnia del padre. Era un uomo tozzo e tarchiato e con le guance e i naso coperti da una strana fuliggine e le mani insaccate in logori guanti da lavoro.
-Mia figlia dice che cerchi un uomo con un cappello a cilindro e un orologio che va all'indietro.
Annuii convinto.
-Ebbene, mi hai trovato, giovanotto! Come posso esserti utile?
Esclamò infine allargando le braccia. Io lo guardai obliquamente. Non aveva niente sulla testa (non aveva nemmeno i capelli) che assomigliasse ad un cappello a cilindro. C'è da specificare che io prima di allora non avevo mai visto cappelli a cilindro, quindi potevo solo immaginare come fosse fatto.
-Lei non ha nessun cappello, signore.
Osservai deluso e irritato. L'uomo si volse repentinamente e andò a frugare in un armadio. Tirò quindi fuori da una montagna di strani oggetti di cuoio, una specie di strano vaso cilindrico tutto nero e impolverato.
-Ecco il mio cappello.
Disse tornando verso di me.
Osservai a lungo e con forte curiosità quel bizzarro oggetto che teneva tra le mani. Aveva una forma così simmetrica e una linea così signorile, che ne rimasi affascinato. Chiesi a quell'uomo di indossarlo ed egli mi ubbidì senza fiatare. Rimasi oltremodo stupito nel vedere che grazie al suo cappello quell'uomo aveva al medesimo tempo alzato la propria statura di almeno venti centimetri e tolto dalla vista altrui il cranio lucido senza capelli.
Tuttavia, pur essendo davvero stupito, non commentai.
-L'orologio, signore?
Domandai inflessibile come un giudice.
L'uomo si volse ancora e tirò fuori dal cassetto di un mobile sbilenco un orologio da taschino dorato. Riconobbi a occhio la manifattura e quasi non ritenni necessario controllarne il verso.
Non c'erano dubbi. Avevo trovato l'uomo che aveva causato l'invecchiamento precoce e irreversibile di mio padre.
-Sono qui per proporle un accordo:
Cominciai molto seriamente.
-Farò tutto ciò che vorrà, ma mi deve permettere di mutare la direzione delle lancette del suo orologio.
-E perché mai?
-Perché il Tempo é arrabbiato.
Fu la mia spiegazione... molto evasiva in effetti.



Alice tossicchiò, provocando involontariamente l'interruzione del racconto. La Regina si drizzò in piedi furiosa e gridó:
-Ha interrotto illecitamente il Cappellaio! Tagliatele la testa!
Il Cappellaio si volse lentamente verso Alice e la fissò con occhi dolci, ma il suo sguardo era perso, probabilmente non la vedeva nemmeno. Poi subito riprese, placando l'ira della Regina.

Lei aveva i capelli biondi come il grano e gli occhi azzurri come il cielo d'autumno. Non parlava mai, era molto timida, ma i suoi occhi brillanti parlavano per lei. Passava le giornate a raccogliere moribes e uva lamponia nei campi intorno al mulino e preparava la cena a me e a suo padre sempre con un sorriso sul volto. Era molto più giovane di me, aveva solo diciassette anni. Io non sapevo esattamente quanti anni avessi dato che mio padre non me l'aveva mai detto, sapevo solo che ero nato alle sette quarantaquattro minuti e dodici secondi di una giornata piovosa di molti anni prima. In ogni caso non reputavo necessario conoscere la mia età. Ciò che mi mancava davvero era festeggiare il compleanno. Ricordo che lei compiva gli anni il 17 luglio e suo padre il 33 agosto (o il 34?). Così, siccome ella aveva un grande cuore, ogni giorno dell'anno quando mi veniva a svegliare la mattina, con la sua voce da fringuello mi augurava un buon non-compleanno* e mi preparava un dolce.
Mi sono scordato un pezzo di storia, temo.
L'uomo con il cappello a cilindro era un cappellaio, l'unico al mondo sapete, e mi propose di lavorare per lui; in cambio mi avrebbe concesso di regolare il suo orologio.
Accettai con un entusiasmo che non potrei descrivere ora. L'orologio riprese a camminare nel verso ortodosso ed io mi ritrovai di nuovo rinchiuso in un laboratorio con il titolo di apprendista cappellaio. 
Di giorno in giorno il mio maestro mi insegnava a costruire sempre nuovi generi di cappelli ed io mi appassionavo sempre di più a quel mestiere. Lavoravo giorno e notte incessantemente e con passione ardente. Ben presto i miei cappelli superarono in bellezza e in precisione persino quelli del mio maestro, tanto che egli un giorno dichiarò con amara rassegnazione che avrei potuto succedergli e mi cedette il suo posto.
Divenni cappellaio. Anzi, divenni il Cappellaio.
Mi chiamavano Cappellaio così spesso che avrei facilmente dimenticato il mio nome di battesimo se non l'avessi avuto cucito all'interno della mia giacca.
In poco tempo avevo fabbricato così tanti cappelli che la casa ne era piena. Usavamo i baschi come piatti, i tricorni come candelieri, i cappelli a cilindro come vasi e i sombreri come ombrelli. Andavo molte volte in compagnia di Fiordaliso (l'adorabile figlia del mio maestro) a regalare i cappelli in giro per la zona. Capitava talvolta che qualcuno rimanesse così soddisfatto da far scivolare nelle nostre mani qualche moneta. Così che dal regalare cappelli, iniziai a venderli e questo genere di commercio ci fruttó tanti bei denari sonanti. 
Vivevamo felici, eravamo una fam... Fam... Beh, eravamo molto uniti.
Ma anche i più bei fiori appassiscono e la primaverta non dura per sempre. Così anche la mia vita così piena di sole doveva conoscere l'invernico.
Tutto cominciò quando incontrai lo Stregatto.
Era una calda giornata di inizio Settembre e mi aggiravo da solo nei boschi immaginando nuovi stili e modelli per i miei cappelli (Oh, ho fatto la rima..). D'un tratto sul ramo di un albero vidi comparire un ghigno così largo e brillante che lo scambiai per la luna (ma sapevo bene che la luna non risplende di giorno). Avvicinandomi scorsi anche una coda, poi un paio di orecchie a punta, poi ancora due occhi luminosi come smeraldi e infine mi resi conto che il ghigno apparteneva ad un gatto. 
-Dove vai?
Mi chiese laconico, senza smettere di mostrarmi i suoi denti bianchi e aguzzi.
-In nessun luogo in particolare.
Risposi mostrandomi gentile.
-Non conosco "Nessun-luogo-in-particolare", dove si trova?
-Da nessuna parte.
Il gatto allargò il suo sorriso.
-Non conosco nemmeno "Nessuna-parte", probabilmente è molto lontano.
Detto ciò evaporò lasciando dietro di sé solamente una traccia evanescente del suo ghigno sarcastico.
Continuai per la mia strada...


La Regina interruppe la narrazione con un grido ferino.
-Cappellaio!
Gracchiò puntandogli il dito contro.
-Non puoi affermare che una strada sia stata tua! Tutte le strade sono state, sono e saranno sempre mie! 
Poi si girò verso il fante di cuori.
-Quando avrà finito il racconto, tagliategli la testa!
Il fante la guardò severamente, ma non le rispose. Il Cappellaio, mortificato e sorpreso si inchinò verso l'irascibile sovrana.
-Vogliate perdonarmi, vostra magnificenzolissimolenza, non commetterò più errori simili.
-Sarà meglio per il tuo collo.
Rispose lei alzando il naso superbamente.


Dicevo, procedetti per la strada (appartenente per diritto di sovranità alla nostra Regina) che stavo percorrendo in precedenza, inoltrandomi nel bosco e schizzando sul mio quaderno decine di cappelli stravaganti. Stavo proprio dando forma con la matita ad un cappello a cilindro molto particolare, quando sentii sulla spalla una morbida carezza. Mi resi conto allora che lo Stregatto si era comodamente adagiato sulle mie spalle e la sua coda ondeggiante mi provocava un fastidioso solletico.
-Sei il Cappellaio? Ho sentito parlare di te. Che bei cappelli che disegni! Mi piacerebbe averne uno.
Mugolò facendo spudoratamente le fusa.
-Va bene Gatto, che cappello vuoi?
-Questo mi sembra il più bello.
E indicó proprio la figura del cappello che la mia matita aveva appena finito di tracciare.
-Ma lo vorrei evanescente come me.
Aggiunse stirando il suo sorriso e avvolgendomi la coda intorno al collo come un cappio.
-Non saprei come renderlo evanescente.
Risposi.
-Basta che tu gli faccia un bagno in acqua. Dopotutto tutti sanno che l'acqua evapora, così se lo bagni evaporerà anche lui insieme a me.
Convinto dalla logica dello Stregatto e curioso di provare una tecnica così particolare, tornai a casa correndo e mi misi subito al lavoro. Bastò una notte e tre quarti di lavoro per concludere la mia opera. Era un cappello stupendo. Aveva il cilindro leggermente obliquo e la tesa abbastanza larga da coprire gli occhi dal sole ed un po' ricurva ai lati. Avevo usato diverse stoffe per realizzarlo, stoffe colorate e dalle fantasie strambe ed infine avevo aggiunto un nastro di raso rosso corallo le cui code scendevano a cascata dalla tesa.
Soddisfatto ed esausto lasciai il Cappello a mollo in una tinozza piena d'acqua e raccomandai alla dolce Fiordaliso di non toccarlo. Ed uscii a cercare lo Stregatto... Oh, se mai me ne fossi andato!


Calde lacrime scendevano copiose dagli occhi iridescenti del Cappellaio. La Lepre e il Ghiro singhiozzavano insieme a lui e si asciugavano gli occhi sulla gonna di Alice.
La curiosità generale era aumentata a dismisura. Qualcuno osò allungare un fazzoletto al Cappellaio che lo prese subito e si asciugò nervosamente le guance.


Non trovai lo Stregatto, ma lo cercai così a lungo che si fece sera. E quando tornai indietro non trovai più il mulino. Al suo posto strepitavano pezzi di legna carbonizzati e sterpaglie in mezzo a mucchi di pietre sparse. Della struttura rimaneva a mala pena visibile la scala di legno divorata dalle fiamme, un pezzo di muro e l'armadio annerito nel quale il mio maestro teneva i suoi cappelli. Vagai tra le macerie con il cuore che palpitava come impazzito. Mi sembrava di essere capitombolato improvvisamente in un incubo terrificante fatto di distruzione e di braci. Scavai tra i pochi resti come un indemoniato cercando disperatamente qualcosa di integro. Non si era salvato nulla. Non trovai nemmeno i corpi della mia adorata Fiordaliso e del mio abile maestro. Volli credere che si fossero salvati.
I miei occhi improvvisamente vennero attratti da uno scintillio tremolante. Mi ci fiondai. Era la mia tinozza, ancora piena d'acqua, con dentro il cappello dello Stregatto. Lo tirai fuori e me lo rigirai tra le mani con amarezza. Quel bellissimo cappello era l'unico superstite di quella tragedia consumatasi in mia assenza. Non mi sono mai perdonato di averli lasciati.
Indossai il cappello e mi accorsi che non evaporava affatto, come invece sosteneva lo Stregatto. Mi ripromisi che l'avrei tenuto con me e che non avrei più fabbricato cappelli per nessuno. 

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Capitolo 4
*** Perchè un corvo è simile ad una scrivania? ***


Quel racconto così drammatico aveva suscitato nella folla un moto di commozione e, a catena, un piagnisteo generale. Alice, riconoscendo al Cappellaio delle ottime qualità oratorie e credendo che la storia fosse finita, scattò in piedi applaudendo con vigore.
-Alice, ragazzina sciocchina che non sei altra, risiediti subito!
La sgridò la Lepre indicandole il suolo con la punta di un orecchio.
-Il Cappellaio non ha ancora finito.
Alice ubbidì subito, perché si sentiva terribilmente in imbarazzo.
Il Cappellaio, dal canto suo, sembrava essere diventato totalmente estraneo a tutto ciò che lo circondava e i suoi occhi, ora verdi come l'Oceano ora gialli come l'ambra, fissavano con sguardo rapito il famoso cappello che si era tolto dal capo e che ora si rigirava lentamente tra le mani.


Comunque, 

Riprese drasticamente cancellando dal proprio volto ogni traccia di quella tenebrosa malinconia.


Mi rimisi in rimisi in viaggio. Tutto ciò che avevo con me non era che lo stesso vestito e lo stesso orologio con cui ero partito da casa mia ed in più quel cappello. Non sapevo dove andare né come tornare a casa da mio padre. Col tempo mi ero dimenticato quasi tutto di lui e della mia casa. Mi restava nella memoria soltanto l'immagine offuscata della mia scrivania e di tutti gli attrezzi che usavo per costruire gli orologi.
Cercai invano un corvo che sapesse indicarmi la via per la la Collina dei Corvi, ma scoprii con amarezza che i corvi sono uccelli molto scontrosi e scortesi e nessuno di loro mi aiutò. Sentivo di aver bisogno di un consiglio. Un saggio consiglio. 
L'unico saggio che conoscevo era il Brucaliffo, così mi misi diligentemente a cercarlo. Controllai su ogni fungo in cui mi imbattevo, ma fu una ricerca vana, perché non lo trovai e siccome l'invernico si avvicinava, decisi di arrangiarmi a trovare qualche altro saggio in grado di aiutarmi.
Tralascerò di raccontarvi tutto il noiosissimo tragitto che feci per trovare un saggio in grado di aiutarmi. Passerò a descrivervi lo strambo luogo dove viveva e la gente che abitava quel luogo.
Giunsi dopo diverso tempo in un villaggio. Non avevo mai fatto una pausa da quando ero partito dalle macerie del mulino, avevo camminato giorno e notte senza fermarmi mai e di conseguenza ero piuttosto stanco. Notai con forte sorpresa che non faceva più freddo, anzi, la leggera brezza che spirava era tiepida come il venticello della primaverta. Mi addentrai nel villaggio.
Era un villaggio molto bizzarro: tutte le case erano fatte al contrario. Cioè, il tetto era in basso e le fondamenta erano in alto, si accedeva alla porta, che stava sotto le fondamenta, tramite una lunga e altissima scala senza ringhiere. Le finestre non avevano imposte e all'interno non c'erano tende, così che passando chiunque avrebbe potuto vedere cosa si stava facendo in quella casa. Non mi soffermerò a dirvi che cosa combinasse quella gente in casa propria, in parte perché non me ne ricordo, in parte perché non saprei spiegarlo.
Quando arrivai nel villaggio era il tramonto e molti si stavano appena svegliando (perché, da quanto appresi in seguito, quella gente dormiva di giorno e stava sveglia di notte), altri già cenavano (prima veniva la cena, poi il pranzo e poi la colazione per loro). Iniziarono ad uscire di casa alcune donne. Erano molto più basse di me (questo perché in quel villaggio bevevano l'acqua di una sorgente che per qualche strana ragione rendeva le persone più piccine del normale), avevano i capelli biondi e il loro vestito era fatto in modo che la gonna fosse rivolta verso la testa e il corpetto verso i piedi. In vero erano vestite in modo piuttosto bizzarro, eppure sembravano sentirsi perfettamente a loro agio. Mi avvicinai ad una di loro, quella che mi parve più alta delle altre, e le domandai con molta cortesia se potesse indicarmi la dimora di un saggio. Ella prima mi squadrò con gli occhi fuori dalle orbite per la sorpresa e poi mormorò:
-Oreinarts, icid asoc? 
Mi ci volle molto profondo ragionamento per capire che quella gente, che viveva in un mondo al contrario, parlava anche al contrario. Dovetti scrivere sul terriccio rossastro che componeva il suolo ciò che mi disse per poter capire cosa intendesse e per farmi comprendere.
Infine mi sorrise e mi indicó il Tribunale del paese. "Il giudice Er Cock è la persona più intelligente della città" mi disse a rovescio. Io la ringraziai regalandole una spilla che portavo sul panciotto e mi diressi verso il Tribunale indicatomi.
Guardandomi intorno constatai che era tutto terribilmente strano e tuttavia affascinante. Le strade principali erano strette e sterrate, mentre i vicoli erano larghi e alberati (gli alberi naturalmente avevano la chioma verso il basso e le radici verso l'alto). Ritenni di dover stare molto attento a come mi comportavo, perché avendo quella gente abitudini e tendenze bizzarre, se mi fossi comportato nel modo in cui mi comportavo solitamente avrei potuto destare alcune avversità.
Il Tribunale era un grande edificio completamente deserto. Quando entrai non incontrai che un paio di Beagol color sabbia a macchie marroni intenti a scambiarsi dei fascicoli. Mi guardarono con un paio di occhioni neri straniti e diffidenti. Mi avvicinai con cautela e domandai sforzandomi di parlare al contrario se avessero saputo indicarmi dove avrei potuto trovare il giudice Er Cock. Uno dei due emise un guaito, l'altro uno sbuffo e all'unisono mi indicarono una porta in fondo ad un corridoio. Percorrendo il soffitto e cercando di evitare i lampadari che fuoriuscivano come fontane di cristallo da terra, osservai con curiosità il pavimento che stava sopra la mia testa. Era in piastrelle romboidali bianche e nere, incastrate tra loro in alternanza come tessere di una scacchiera.
Giunto alla porta bussai e immediatamente udii un rauco "orteidnI!" dall'accento indefinibile. Supponendo che per quella gente "Indietro" significasse "Avanti", entrai.
Il giudice Er Cock era seduto di fronte a me sulla sua sedia di legno foderata in raso rosso dietro un'elegante scrivania in mogano e mi fissava un po' interdetto con i suoi piccoli occhietti pigri. Con una zampa si sistemò gli occhialetti sul suo naso nero sproporzionato e si grattò le lunghe orecchie pelose, tremendamente simili ad una parrucca da magistrato. Abbaiò un paio di volte e, per mia sorpresa, cominciò a parlare in modo...tradizionale.
-Ho sentito così tanto parlare di te che non avrei potuto non riconoscerti, Cappellaio.
Ero troppo sconvolto per rispondere e anche abbastanza irritato dal momento che avevo percorso tutta la strada preparandomi e ripetendo mille volte nella mente un completo discorso al contrario, convinto che il giudice non capisse la mia lingua. Ora che scoprivo che il giudice sapeva parlare normalmente non avevo più un discorso già pronto da fare.
Seguendo la sua zampa che mi indicava gentilmente la sedia di fronte alla sua scrivania, mi sedetti e incrociai le dita sulle gambe cercando di trovare le parole in quattro e quattr'otto-bre.
-Mi hanno detto che voi siete l'uom...
Vedendo che storceva il muso mi sbrigai a mutare sostantivo.
-La creatura più saggia del villaggio.
-È così.
Rispose semplicemente.
-Ebbene, mi chiedevo se voi aveste mai sentito parlare del Corvo delle colline, cioè, voglio dire, della Collina dei Corvi.
Sotto quello sguardo inquisitore ed austero mi sentivo terribilmente a disagio e impacciato. Quello, senza far apparentemente caso alla mia agitazione, si concesse un momento per riflettere.
-Sí, certamente. Vi abita un disgraziato vecchio orologiaio mezzo matto... È una buffa storia, se ti va di ascoltarla.  
-Naturalmente.
Risposi fingendo di essere del tutto estraneo a queila faccenda.
-Dunque, parliamo di più di un anno fa... C'era un mugnaio, brav'uomo, lavoratore, grande osservatore della legge, che aveva un'ossessione piuttosto particolare: non sopportava l'idea di invecchiare. Quando iniziò a perdere i capelli, sintomo indiscutibile dell'avanzare degli anni, terrorizzato all'idea di dover vedere allo specchio un cranio calvo, iniziò a costruirsi strani copricapi che inizialmente chiamò "rimpiazza-capelli", poi per comodità "capelli" ed in seguito, per via di evidenti problemi in termini di significato, aggiungendovi una "p", li battezzò definitivamente "cappelli". La gente lo adorava per questa sua particolarità, ma ancora di più amava i suoi cappelli, così che egli cominciò a venderli al mercato. Guadagnò quanto basta per vivere sereno e senza pensieri, quasi dimentico della sua ossessione. Ma ella lo attanagliava ancora, più silenziosa, certo, ma comunque presente e si risvegliò furiosa il giorno in cui davanti alla porta del suo mulino a vento trovò una bambina abbandonata in una cesta. L'idea di fare il padre e allo stesso tempo di vivere insieme ad una creatura molto più giovane di lui lo convinse che sarebbe apparso sempre più vecchio agli occhi degli altri. Allora decise di ingannare il Tempo e se stesso, facendosi costruire da un ingenuo orologiaio un orologio che procedeva all'incontrario. Il Tempo, folle d'ira per la mancanza di rispetto nei suoi confronti, venne da me per far causa. Dovetti riconoscergli di aver ragione e gli diedi la facoltà di decretare la pena. Morte, naturalmente, per entrambi. Il cappellaio sarebbe morto di una precoce e dura vecchiaia, l'orologiaio, in affinità ai meccanismi degli orologi, sarebbe morto di pazzia o meglio, come affermò il Tempo, sarebbe morto "senza rotelle". Poi commisi un errore. Mi trasferii in questa cittadina, ma non considerai i problemi che un mondo al contrario può dare alla giurisdizione. Insomma, finì tutto sottosopra e la punizione dell'uno fu imposta all'altro e vice versa. Disperato e mortificato per l'accaduto, cercai di aggiustare il guaio e tentai di riportare le cose come erano state disposte in precedenza, ma combinai un guaio maggiore poichè l'orologiaio, al contrario del cappellaio, era già stato colpito dalla terribile vecchiaia ed io, tentando di invertire le pene, finii per infliggergli anche quella della pazzia. Ma a quanto pare il giovane figlio dell'orologiaio è riuscito a placare l'ira del Tempo ed ora l'orologiaio vive vecchio e matto sulla sua collina e il cappellaio ha rinunciato alla sua battaglia contro la vecchiaia ed ora vive tranquillamente nel suo mulino a vento con la giovane figlioletta.
Il giudice tirò fuori la lingua e mi guardò ansimando con gli occhietti svelti e brillanti.
-Sei tu quel giovane, giusto?
Annuii con estrema lentezza. Udire la storia della disgrazia di mio padre mi aveva lasciato senza parole, non che abbastanza scioccato, ma mi ritenni soddisfatto nel aver finalmente saputo com'erano andate le cose. Ricordando tristemente la sorte del mio maestro e della dolce Fiordaliso, raccontai al giudice dello sfortunato accaduto.
-Mi dispiace.
Commentò lui sinceramente costernato.
-Avete detto di sapere dove si trova la Collina dei Corvi...
Ripresi io.
-No. Io ho solo detto di averne sentito parlare. Certamente é molto lontana da qui, ma di più non so dirti.
Abbassai la testa cercando di riflettere, avrei dovuto trovare un altro saggio, ma forse nemmeno lui mi avrebbe saputo rispondere e così ne avrei dovuto cercare un altro ancora e così via. Sarebbe stato inutile e sciocco vagare per il mondo alla ricerca di qualcuno che sapesse indicarmi la via per la casa di un vecchio tutto matto, che probabilmente non mi avrebbe riconosciuto. Conclusi che non mi conveniva proseguire con le ricerche.
Mi alzai dalla sedia e ringraziai il giudice Er Cock per il suo tempo.
-Cappellaio!
Esclamò lui balzando in piedi appena prima che io raggiungessi la porta.
-Come farai a vivere ora? Dove andrai?
Sospirai e mi concessi un attimo per pensare alla risposta. Sembrava ovvia, invece non la trovai.
-Non lo so.
Lasciai cadere tranquillamente. Per uno strano motivo, non sentivo di dovermi preoccupare.
-Hai denaro?
Chiese.
-No, nemmeno una monetina.
Ghignai io, divertito dal mio stato di miseria, appoggiando la mano sul pomello della porta.
-Mi venderesti un tuo cappello?
Mi incupii all'istante.
-Non ne fabbrico più.
-Perché? So di cappelli meravigliosi prodotti dalla tua fantasia e dalle tue abili mani. E poi guadagneresti moltissimo, saresti l'unico cappellaio sulla faccia del globo.
-Ho promesso a me stesso, in memoria del mio maestro che non costruirò più cappelli.
-Allora mi venderesti il cappello che porti in testa, è bizzarramente bizzarro.
Istintivamente vi misi le mani sopra per proteggerlo. Immediatamente mi resi conto che la bellezza del mio cappello avrebbe potuto invogliare moltissime persone e che in tanti avrebbero tentato di estorcermelo.
-Ve lo donerei volentieri...
Ringhiai sforzandomi di sembrare gentile.
-Se voi rispondeste ad un indovinello.
Il giudice si sporse sulla sua scrivania e sollevò le sue orecchie pelose per ascoltare il mio enigma.
Guardai quella scrivania in mogano e ripensai alla mia, quella della casa sulla Collina dei Corvi e come uno schiocco di dita inventai il mio indovinello.
-Perché un corvo è simile ad una scrivania?
Il giudice assottigliò gli occhi e assunse un'espressione di profonda meditazione. Attingendo alle fonti della sua vasta cultura rispose:
-So di uno scrittore che, presumibilmente su una scrivania, scrisse Il Corvo.
Iniziai a battere le mani saltellando.
-Risposta... Sbagliata!
Gridai puntandogli il dito contro minacciosamente.
-Niente indovinello, niente cappello. 
Canterellai uscendo danzando dalla porta. 


Me ne andai immediatamente dal paese del contrario e la primaverta tornò ad essere autumno inoltrato e le giornate si fecero sempre più grigie, corte e piovose. Io resistevo con tenacia ai temporali e alle gelide folate di vento anche grazie al mio robusto cappello, ma un giorno cominciò a grandinare. E grandinava così forte che fui costretto a cercarmi un riparo. Camminavo alla cieca per via della nebbia che si addensava intorno a me come una lugubre presenza fatta di minuscole gocce d'acqua, tagliata dai chicchi di grandine che piovevano con la rapidità e la spietatezza delle frecce, poi d'un tratto scorsi un bagliore lontano e soffuso. Seguendo quella luce dorata mi trovai ben presto davanti ad una finestra con le ante aperte. Sbirciai dentro e notai un fuoco acceso e sopra di esso una pentola piena di minestra ribollente. In qualche altra stanza della casa qualcuno schiamazzava e talvolta si udiva il rumore di un piatto rotto. Pensai subito che fossero matti, ma chiunque abitasse là dentro sarebbe stato la mia unica salvezza. Cercai dunque a tastoni la porta della casa e quando la trovai la tempestai di pugni.
-Aprite, vi prego! Cerco riparo!
Le urla e gli strani rumori che si udivano prima si placarono e sentii che qualcuno si apprestava ad aprire. La testa schiacciata e verdastra di un servo-ranocchio in livrea e con una parrucca incipriata sul capo si affacciò alla porta e vedendomi così disperato mi fece segno di entrare.
-Per tutti gli stagni, come vi siete ridotto così, signore?
Esclamò conducendomi immediatamente nella stanza col fuoco e gettandomi sulle spalle una coperta. Il servo-ranocchio mi tolse la giacca e il cappello, ma io riafferrai prontamente quest'ultimo lanciando in direzione del ranocchio uno sguardo di fuoco. Calmatomi, mi sedetti e allora cominciai a starnutire. Inizialmente credetti che fosse dovuto al freddo che avevo patito nelle ultime ore, ma poi mi resi conto che nell'aria aleggiava un fastidioso pulviscolo dall'odore tremendamente starnutificante.
-Ti dico che c'é troppo pepe! 
Strilló qualcuno nella stanza attigua. Allungai il collo per sbirciare attraverso la porta semi-aperta; vidi del movimento e scorsi qualcuno con un grembiule bianco, ma niente di più. Tutto tornò silenzioso e pacifico ed io, esausto, cominciavo a sentirmi la testa pesante, così mi accoccolai nella poltrona in cui mi ero seduto e chiusi gli occhi. Ma quando stavo per addormentarmi, ecco che qualcuno irruppe nella stanza con passi pesanti e nervosi e iniziò a smanettare con la pentola sul fuoco. Aprii gli occhi di colpo e vidi una donna altissima che, dandomi le spalle, si piegava sul fuoco girando con impeto un macinino sopra la pentola. Ancora una volta cominciai a starnutire ed ella, accortasi della mia presenza, si voltò di scatto e mi squadrò con curiosità da testa a piedi, poi, soddisfatta della sua analisi, tornò a pepare la zuppa che bolliva nella pentola. A quel punto alla porta apparì...



Il Cappellaio deglutì e si allargò il colletto della camicia, lanciando un'occhiata sbilenca alla Duchessa che, seduta accanto alla Regina su una seggiola di legno, aveva stretto gli occhi con fare minaccioso. Il Cappellaio continuò, non senza una certa sottile ironia.


Apparì una signora dall'aria superba, vestita in modo molto ricercato e ingioiellata da testa a piedi. La sua figura era tremendamente carismatica non ché imponente.


La Duchessa sembrò soddisfatta della descrizione, perché mostrò una fila di denti giallognoli e scheggiati e batté sommessamente le mani grassocce. Il Cappellaio la fissò disgustato e guardando poi Alice fece una smorfia di ribrezzo.


Dicevo, apparve questa signorona dall'aria importante, che con le braccia incrociate sul petto avanzò verso la cuoca e le strappò il pepe dalle mani. Questa in risposta le tirò contro il mestolo e il piatto che teneva tra le mani, ma la signora non parve nemmeno avvertire i colpi. Io, un po' scioccato e intimidito, mi alzai e andai verso di loro, anche e soprattutto per far notare la mia presenza. La signora prima mi guardò molto male, poi il suo sguardo si addolcì e mi sorrise misericordiosamente offrendomi un piatto di minestra. Ebbene rifiutai dichiarando che doveva esserci troppo pepe per i miei gusti in quella zuppa. Tale risposta irritò visibilmente entrambe e la cuoca strappatomi il piatto dalle mani, lo gettò violentemente contro l'altra.
-Chi sei, straniero?
Mi chiese allora la più elegante, riassumendo un'espressione cordiale.
-Lui é il Cappellaio.
Chi aveva parlato? Riconobbi quella voce appena la mia mente un po' intricata fu in grado di ricordarsene.
-Stregatto!
Esclamai senza troppa sorpresa. Il ghigno del Gatto si materializzò sul camino e lentamente anche tutti gli altri vari pezzi del corpo. Mi guardò inclinando il capo con fare circospetto e leccandosi la zampa mormorò:
-Il cappello che indossi dovrebbe essere mio.
E scomparendo in un lampo, riapparì sulla mia testa sotto il mio cappello e se lo portò con sé svolazzando nella stanza. 
Fuori di me dalla rabbia gli corsi dietro tentando di afferrare le code del nastro che pendevano dal cappello. Con un balzo riuscii finalmente ad afferrarlo e rimettendomelo in capo lanciai uno sguardo furente allo Stregatto, che ricambiò con un sorriso ancor più beffardo.
-Se vuoi questo meraviglioso cappello a cilindro,
Ringhiai.
-Dovrai risolvere il mio indovinello.
Il Gatto ammiccò.
-Proponimelo, dunque.
-Perché un corvo è simile ad una scrivania?
Per un momento tutti gli esseri nella stanza smisero per un momento di respirare e subito dopo si chiusero in un silenzio meditativo.
-Perché entrambi hanno le penne?
Azzardò lo Stregatto con un sorriso quasi supplice.
-Molto astuto, ma no!
Esclamai io facendo una piroetta di trionfo. Ero entusiasta della mia astuzia: grazie al mio indovinello nessuno sarebbe mai riuscito a sottrarmi il mio meraviglioso, armonioso, strambo, affascinante cappello. Mai.



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Capitolo 5
*** Approccio alla follia ***


Me ne andai da quella casa di matti appena il tempo migliorò e smise di diluviare. Ogni giorno lo Stregatto aveva provato ad estorcermi il cappello con i suoi infidi trucchetti di evaporiere, ma io ero stato più furbo ed ero riuscito a tenermelo ben stretto.
Da quel momento il cappello divenne il mio compagno di viaggio, il mio migliore amico e, anzi, perfino una parte di me. Lo tenni in testa così a lungo e con così tanta costanza che le rare volte che mi capitava di toglierlo mi sentivo vuoto, come un arancia spremuta, come un libro senza pagine.
A mia insaputa, intanto, il mio indovinello era diventato celebre. Celeberrissimo! E tutto questo nel giro di un mese scarso. Seppi, mentre attraversavo un paesino posto esattamente nel mezzo di decine di sterminati campi di papaveri, che stavano organizzando una sorta di gara per trovare la soluzione.


Il cappellaio scoppiò in una sonora e isterica risata e i suoi occhi divennero color bronzo e brillarono sotto la tesa del suo cappello. I suoi capelli color grano maturo riflessati di uno strano rosso corallo furono scossi da un soffio di vento e le code del nastro del cappello si sollevarono e si riabbassarono quasi come se il cappello stesse ridendo con lui. Alice indietreggiò istintivamente con la schiena e sentì un brivido freddo percorrerla mentre fissava il Cappellaio che ghignava. A volte la pazzia può far paura a chi non la sa comprendere e talvolta le cose più bizzarre, quelle che deviano dalla normalità, possono infondere un certo timore. Ma appena la parte matta di Alice si risvegliò, la paura svanì e la bambina rise insieme al Cappellaio, anche se fondamentalmente non ne capiva il motivo, ma non importava.


Nessuno sciocco sarebbe mai riuscito a risolvere il mio indovinello.

Riprese il Cappellaio con un buffo sguardo di trionfo e sicurezza sul volto ancora marcatamente giovane.


Così potevo essere certo che il mio cappello sarebbe stato al sicuro sulla mia testa e sulla mia testa soltanto.
Era gennaio, avevo trascorso l'inverno un po' qua e un po' là: qualcuno mi aveva ospitato a casa sua per qualche giorno e qualcun altro mi aveva offerto un pasto caldo quando fuori faceva freddo. Mi ero riparato nei fienili abbandonati, nelle cavità di alcune montagne, nelle strampalate osterie in cui per riuscire a pagarmi l'alloggio per un paio di giorni ero stato costretto riparare i cappelli, ormai brutti e logori che io stesso avevo fabbricato anni prima, di tutti i viaggiatori che come me cercavano un posto in cui riposare. E intanto in molti provavano a risolvere il mio indovinello, senza successo alcuno naturalmente.
Un giorno in cui il vento gelido mi pungeva la faccia e le mani scoperte in modo intollerabile, entrai in una piccola locanda dal nome ridicolo: Corri-canta-coniglio. All'interno splendeva un fuocherello sfavillante in un caminetto decorato con statuette dipinte a mano di conigli in livrea e panciotto.
Alcune lepri e leprotti stavano sgranocchiando carote e bastoncini di sedano con il muso rivolto ad un'altra lepre che decantava poesie. Un coniglio color cioccolato che stava dietro al bancone mi squadrò circospetto, poi mi spiegò -evidentemente si era accorto della mia curiosità per quello strano spettacolo- che Martin, così si chiamava il leprotto-poeta, cantava i suoi componimenti in quella locanda da un paio di anni per guadagnarsi un tozzo di pane. Ma a quanto pare non era ben visto dai suoi simili.
-Va pazzo per il tè. Dimmi, tu hai mai sentito di una lepre che beve il tè?
-Per la verità non ho mai sentito parlare di questo "tè" 
-Allora Martin é proprio matto se nemmeno gli umani come te lo bevono.
Grugnì quello, con una voce più degna di un maiale che di un morbido coniglietto.
Da quel momento, tuttavia, fui terribilmente attratto dalla figura di Martin. I suoi occhi strabici gli conferivano un'espressione sciocca e le sue orecchie un po' spelacchiate rivelavano un'età ormai piuttosto avanzata per un leprotto. Comunque il fatto che egli fosse "diverso" da tutti gli altri noiosi conigli mi attraeva. Sentivo che sarebbe diventato mio amico.
Fui l'unico ad applaudire quando Martin concluse il suo spettacolo. Credo di essergli parso subito simpatico, perché mi mostrò una fila di denti tra i quali almeno quattro erano d'oro.
Parlammo insieme per il resto della serata e si mostrò un animale estremamente dotto. Mi parlò specialmente di letteratura e mi lasciò senza parole davanti alla vastità della sua cultura. Probabilmente gli apparvi piuttosto stupido e ignorante, visto che non avevo mai studiato. Si propose quindi con entusiasmo di insegnarmi la storia e le lettere, e disse che poi mi avrebbe consigliato i libri migliori e mi avrebbe insegnato come scrivere poesie. In cambio di questo suo favore, mi chiese di regalargli un orologio. Mi parve un po' strana la sua richiesta. Non che non sia normale volere un orologio. Ciò che mi lasciò un po' perplesso fu la sua ansietà. Era evidente che ne desiderasse ardentemente uno.
-Ho un orologio molto speciale con me e ammetto che un po' mi dispiace doverlo dar via, ma credo che un'istruzione sia molto più importante di un futile marchingegno.
Gli donai dunque il mio orologio che segnava i mesi e i giorni e lui ne parve più che soddisfatto. Mi spiegò il perchè della sua richiesta con la voce tremolante per l'imbarazzo:
-Sai, tutti i conigli e le lepri più rispettabili hanno un orologio e io ci tenevo a non essere da meno. Guarda il Bianconiglio...
E mi indicò un batuffolo candido che sedeva ad un tavolino da solo. Aveva un muso arcigno e coronato da un paio di occhialetti da lettura con le lenti rotonde e la montatura sottile e ogni tanto i suoi occhietti lucidi davano una sbirciata preoccupata ad un grosso orologio da taschino.
"Riconosco la fattura di quell'orologio..." Pensai io assottigliando gli occhi. 
-Lui ha una collezione di innumerevoli orologi di ogni genere e epoca. È famoso per non essere mai in ritardo, è ossessionato dai ritardi.
Sghignazzammo insieme e riprendemmo a sgranocchiare succose carote.
Le lezioni cominciarono il giorno successivo. E devo dire, senza nemmeno una briciola di modestia, che mi rivelai un allievo molto promettente. Conobbi la passione di Martin per il tè e ne fui contagiato. Ogni giorno bevevamo in due almeno dieci teiere di tè bollente. Gli altri conigli sostenevano che così tanto tè desse alla testa, ma a noi sembrava di essere sempre uguali.
Nel giro di un mese divenni molto bravo con la retorica e la grammatica, ma la poesia non mi coinvolgeva come coinvolgeva Martin. Inventava le rime con la stessa facilità e disinvoltura con cui io un tempo avevo costruito migliaia di cappelli. Il suo talento era impareggiabile. Un giorno sentimmo parlare di una gara di poesia indetta dai sovrani per l'ultimo giorno di febbraio. Martin decise che avrebbe partecipato a tutti i costi ed io ero certo che sarebbe stato l'indiscusso vincitore. Così gli promisi che l'avrei accompagnato.


La Lepre Marzolina sussultò accanto ad Alice.
-Sta parlando di me.
Mormorò con voce rotta dalla commozione. E si asciugò il naso roseo sgocciolante sulla gonna di Alice.
-Che maleducato!
Esclamò Alice tirandogli un orecchio. La Lepre sghignazzò.
-Mi fai il solletico (anestetico, etico, patetico,...)!

Ma purtroppo quello fu un anno bisestile ed io non mi ero mai reso conto che il mio orologio non contemplasse il 29 febbraio. Fu così che andammo a palazzo il giorno prima, cioè 28 febbraio, e giustamente non trovammo nessuno. Ma quando Martin scoprì che per aver sbagliato di un giorno non aveva potuto partecipare alla gara, per la rabbia lanciò per terra l'orologio rompendolo irreparabilmente e poi impazzì del tutto. E nutriva la sua pazzia a forza di tè.
I suoi simili cominciarono a canzonarlo e a chiamarlo Leprotto Bisestile o Lepre Marzolina proprio a causa di quel famoso malinteso. E dato che io ero sempre insieme a lui e che a rigor di proverbio se si va insieme allo zoppo, si impara a zoppicare, in molti aggiunsero al mio ormai noto e abusato soprannome un altro aggettivo. A sentire la gente non era un attributo positivo, eppure io lo trovavo straordinariamente adeguato al semplice e banale nomignolo di Cappellaio. "Guardate! È arrivato il Cappellaio Matto!" dicevano. Io lo trovavo un appellativo musicale e regale quasi quanto un titolo nobiliare. E fu così che da Cappellaio, divenni Cappellaio Matto.  

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Capitolo 6
*** È l'ora del te, per sempre. ***


Il Cappellaio tirò fuori dal taschino il suo orologio facendo in modo che l'oro che lo ricopriva risplendesse alla luce del sole al tramonto. Lo osservò a lungo con quegli occhioni color nocciola da cucciolo curioso, senza curarsi del silenzio reverenziale della piazza.
-Per tutti i barbagianni, é l'ora del tè!
Esclamò sorpreso picchiettandosi le dita sottili sulla coscia. Per un momento tutti si guardarono l'un l'altro titubanti poi qualcuno scrollò le spalle o sollevò le mani.
-Noccioline in salsa di capperi.
Mormorò tra sé la Lepre mentre il suo volto veniva scosso a ritmo di un bizzarro e violento ticchettio all'occhio.
Alice non lo degnò di alcuna attenzione: era troppo attenta ad osservare il Cappellaio. Inclinò la testa fino quasi ad appoggiarla sulla spalla destra, sorridendo. Il Cappellaio aveva un'espressione tale che sembrava credere davvero che fosse l'ora del té, ma probabilmente stava solo recitando. Anzi, doveva per forza essere consapevole che l'ora del tè era già passata. Alice si lasciò sfuggire un risolino: il viso scioccato e l'aria sperduta del Cappellaio erano tremendamente buffe! Poi quella stessa espressione ingenua e sognante sul volto si tramutò in un ghigno amaro.

Ho dimenticato di precisare che é da quando questo orologio non funziona più che é stranamente sempre l'ora del tè.

Infilò due dita sotto la tesa del cappello per grattarsi la testa.

Io e Martin andammo a vivere l'uno accanto all'altro, in una radura accogliente ai margini del bosco. Era un bel posto, silenzioso e piacevole, pieno di nidi di uccellini colorati e canterini. Il loro canto mi metteva allegria e trovavo molto più simpatici quegli usignoli dei corvi (gli unici uccelli che avevo conosciuto in vita mia).
Poi un giorno tra l'erba del mio giardino scovai un piccolo e tremate ghiro che si guardava intorno spaventato. Mi raccontò di essere stato mandato via dalla dalla reggia di Cuori. Fino a poco tempo prima egli lavorava rispettabilmente come palla da croquet, ma quando una disposizione reale aveva riformato il gioco, erano state sostituite anche le palle -prima si usavano i ghiri, poi furono adottati i ricci, perché i ghiri tendevano ad addormentarsi sul campo- e così tutti i ghiri erano stati licenziati e cacciati. 


Il Cappellaio alzò gli occhi verso la Regina e aggiunse con fin troppa enfasi:
-Saggia fu la decisione della nostra maestade di servirsi dei ricci: sono per natura ottime palle.
La Regina abbozzò un sorriso poco convinta.

Accolsi volentieri il ghiro a casa mia o meglio, lo accolsi nella mia teiera, che a quanto pare si rivelò molto comoda per il mio piccolo amico.
Un giorno, per caso, mentre io e Martin parlavamo, ci rendemmo conto che l'orologio ormai rotto segnava esattamente le sei in punto. Fu una scoperta assolutamente sbalorditiva. Noi non avevamo mai mancato al nostro appuntamento rituale del tè del pomeriggio e se l'orologio segnava le sei allora era l'ora del tè, e se era l'ora del tè allora bisognava prendere il tè. Così imbandimmo un'enorme tavola e invitammo tutti coloro che avevamo conosciuto a bere tè con noi. Venne la Duchessa con la serva fissata con il pepe, lo Stregatto, il Bianconiglio, il Ghiro, il Brucaliffo, il giudice Er cock e molti altri.
Ma mentre per loro, che avevano orologi funzionanti, l'ora del tè ad un certo punto passò, per me, il Ghiro e Martin l'ora del tè non passava.
"E non passerà mai, sciocco ragazzo" mi disse il Brucaliffo quel giorno prima di lasciarci. E aveva ragione: avevo voluto che il tempo si fermasse per mio padre ed inevitabilmente la condizione che avevo ricevuto era quella di subire la stessa sorte del mio genitore. Non avrei più potuto aggiustare l'orologio, perché proprio a causa di quell'aggeggio erano cominciate tutte le disgrazie. E con esso stesso dovevano finire.
Inutile dire che tentai di aggiustarlo, ma fu una fatica vana anche perché oramai avevo perso le mie abilità orologiaie.
Così decisi di abituarmi a vivere a ritmo di brindate e fischi di teiere. E non mi stava nemmeno tanto male come stile di vita.


Improvvisamente dal pubblico che circondava il Cappellaio si levò una voce.
-Cappellaio Matto! Rivedesti mai Fiordaliso?
Il Cappellaio lanciò uno sguardo incolore verso il punto della folla da cui era giunta quella domanda e i suoi occhi cambiarono ancora una volta colore. Il suo viso si fece dolce e lui si concesse un sospiro appassionato.

La rividi, sì.

La folla sussultò e tutti gli si fecero più vicini spinti da sempre maggiore curiosità.

Un pomeriggio decisi di andare a vedere il tramonto da una collina ricoperta di fiori che sorgeva poco distante dalla radura in cui vivevo. Lasciai Martin con il Ghiro e portai con me una teiera, una tazza e qualche biscotto e mi incamminai prima che il cielo cominciasse a tingersi di rosso.
Giunsi sulla collina appena in tempo. Mi sdraiai sull'erba e cominciai a sgranocchiare i miei biscotti mentre aspettavo che il sole si immergesse tra le nuvole rosa che giacevano sull'orizzonte. E proprio mentre ammiravo quello spettacolo udii un leggero canto.
Tesi l'orecchio. "Le mie orecchie mi ingannano?" Pensai guardandomi freneticamente intorno.
Quella era la dolce voce della mia dolce Fiordaliso.
D'improvviso il canto si affievolì fino a diventare un sussurrino e poi si dissolse. Ecco che allora colsi nitidamente le sue parole:
-Buon non-compleanno Theophilus.
Lei era lì, accanto a me, tra l'erba, e mi sorrideva con il suo volto giallo di pistillo e muoveva lentamente la sua corolla di petali dello stesso colore dei suoi occhi. Non so dire quanto piansi a quella tremenda scoperta.
Ma lei mi consolò e mi spiegò che quella era la sua vera natura. Ero scioccato e le chiesi chiarimenti. Mi rivelò così che molti anni prima che ci conoscessimo aveva avuto in dono venti anni di vita tra gli umani e che quel lontano giorno, in cui avevo creduto di averla persa, in realtà era stata lei stessa a volermi far credere di essere morta nell'incendio da lei stessa appiccato con il consenso del padre. Così non era stata costretta ad ammettere l'aspra verità e a dirmi addio. Infine mi assicurò che suo padre adottivo, il mio maestro, era salvo e stava bene.
Mi chinai su di lei e le diedi un tenero bacio. Piangevano i miei occhi e mi piangeva il cuore.
-Non piangere Theophilus. Guarda, i tuoi occhi sono diventati gialli, mi piacciono di più verdi.


Il Cappellaio incrociò le braccia sul petto e abbassò la testa con aria triste e pensierosa.

Quando si fece notte e dovetti andarmene, Fiordaliso mi pregò di non tornare.
-I fiori vivono poco, proprio come tutte le cose belle, Theophilus, e se tu un giorno tornassi e non mi trovassi più qui, soffriresti. Vai ora e pensami ogni tanto, ma non tornare. Promettimelo.
Glielo promisi, perché ammisi a me stesso che in fondo aveva ragione. Ero felice di averla rivista ed ero felice di aver saputo la verità.
Da allora ripresi la mia vita piena di tè, indovinelli, orologi, cappelli e follia. E, dopotutto, non potrei desiderare altro. 

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