Cinque Centesimi

di Sheep01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 [Barney] ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 [Barney] ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 [Barney] ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 [Vladimir Petrov] ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 [Agente Phil Coulson] ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 [Barbara 'Bobbi' Morse] ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 [Marty & Elwood plus one] ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 [Barney] ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 [La Vedova Nera] ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 [Natasha Romanoff] ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 [Jacques Duquesne] ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 [Clint Barton] ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 [RedHeads & Lucky] ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 [Bow & Arrows] ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 [Forgotten Children] ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 [Dott. Erik Selvig] ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 [Loki] ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 [Phil] ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 [Nat] ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 [Avengers] ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 [Kate Bishop] ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 [Harold & Edith] ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 [Hydra] ***
Capitolo 24: *** Epilogo [Hawkeye] ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 [Barney] ***


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DISCLAIMER: Tutti i personaggi citati non mi appartengono, ma sono di proprietà Disney e Marvel.

 

Di ritorno dalla missione mai conclusa: “scrostiamo un po’ di ruggine”, eccomi con una storia del tutto incentrata su Occhio di Falco. Una liberissima rivisitazione di quello che si sa di lui dai fumetti, dai film, incentrata, soprattutto, sui rapporti che hanno determinato la sua esistenza. Dall’infanzia, fino all’età adulta. Per arrivare a ciò che ci è più o meno noto. Insomma, un piccolo omaggio a un personaggio, a mio avviso, tutto da scoprire (io, se non si fosse capito, ne sono follemente innamorata).

Il titolo si ispira a un episodio in particolare, raccontato nei comics, in cui il fratello Barney insegna a Clint a mirare e colpire bottiglie con monete da un nichelino (appunto: cinque centesimi). Un riferimento che ritornerà più o meno in ogni capitolo. Ocio.

Direi che concludiamo qui le spiegazioni. Ma non prima di presentare la splendida locandina che la talentuosa Blackmoody ha pensato per questa storia. Riempiendomi di sorpresa e lusinga! Perché ispirare una fanart del genere è stata una delle cose più carine che mi siano capitate dacché scrivo. Perciò la metto qui, in apertura di storia, così dove è giusto che stia. Con Mr. Renner nei panni del nostro conosciuto Clint Barton e il neo scoperto (almeno da parte mia) Ben Browder nei panni di Barney Barton. Mai scelte furono più azzeccate. Per vederla più grande basta cliccare direttamente sull'immagine. Ed ora direi che ci siamo veramente, orsù... Buona lettura.

 

CAPITOLO 1

[Barney]

L’erba alta gli sferzava le caviglie, frustandolo con dolorosa consapevolezza.

Non era riuscito a rivestirsi. Nemmeno presa in considerazione l’eventualità, data la fretta con cui aveva racimolato le proprie cose. Il cotone leggero del pigiama, ben misero schermo al freddo della notte. Nella tasca della giacca, solo cinque centesimi.

Barney! B-Barney, aspetta!” la sua voce rimbalzava rumorosa da un albero all’altro.

Taci.”

Il sussurro appena percepito, da qualche parte, metri di fronte a lui.

Il fratello aveva gambe più lunghe e resistenza ben maggiore della sua. E non aveva dovuto lottare con la fiacchezza di muscoli intorpiditi dal sonno.

 

La realtà era che settimane prima avevano preso la decisione di scappare. Ma la fantasia era rimasta tale a lungo, nessun progetto, nessuna reale intenzione.

Si tendeva a fantasticare di una vita lontano da quel casermone tutto stanze e regole. Di bambini pieni di moccio e pasti a orari prestabiliti. Di ronde notturne, di lezioni a suon di bastonate, di educatori dall’aria severa di chi in realtà non ha altro a cui aspirare se non quel luogo, pieno di ragazzini che detestavano e che avevano, a loro dire, solo bisogno di una sonora raddrizzata. Figli di nessuno. Potenziali ladri, poco di buono, assassini. Così come lo erano stati i loro genitori, prima di loro. Così come era comodo credere. Rendeva più semplice alzare le difese, restare distaccati, non affezionarsi, punirli.

 

Clint si era trovato fuori dalle mura nell’arco di dieci minuti. Un diversivo. Un incendio alle cucine. Una fuga di gas a dare l’allarme. Il caos, la fuga.

Barney, suo fratello, lo aveva scaraventato giù dalla branda e gli aveva rifilato un lenzuolo legato alla bell’è meglio, riempito con i vestiti del giorno prima e un paio di scarpe.

Muoviti, ce ne andiamo.”

Il ragazzino nemmeno si era reso conto di quello che stava succedendo. Lo aveva seguito, con la cieca fiducia di un fratello minore. Si era lasciato alle spalle fumo e grida. Solo una vaga sensazione di sogno. Avrebbe avuto tempo di realizzarla altrove, in un altro momento, la portata della loro decisione.

Sei stato tu?” l’unica domanda che gli aveva posto, mentre scavalcavano la recinzione. Il pensiero della sorte degli altri ragazzi, relegato in un angolo ancora intorpidito del suo cervello.

Barney non aveva risposto.

 

E ora la notte era fredda e oscura. Oscura così come può esserlo per un ragazzino di dodici anni. La minaccia dietro ogni angolo, l’immaginazione ad alimentare fervide fantasie di terrore.

Ogni albero un uomo. Il viso di Roger “Reggie” Murdoc. Il suo ghigno crudele, la mano alla cintola, la lingua uno schiocco, a simulare quella di una frusta (Di nuovo in punizione, ragazzaccio?). Quello della signorina Grace “Naso d’Aquila” Jackson, sorrisi affettati e sguardo maligno. Non avrebbe più rivisto nessuno di loro? Non avrebbe più sentito pianti notturni, scossi da incubi ricorrenti? Non più la degradazione morale e psicologica. I ricatti, le minacce?

Si concentrò sulla schiena solida del fratello. L’unica cosa concreta a dargli un senso di stabilità e calore.

Barney era tutto per lui. Fratello, amico, consigliere, padre e madre assieme. Lui che del padre ricordava solo la voce tonante e l’alito che sapeva di alcool e il peso delle sue percosse. Che della madre ricordava solo il profumo dei suoi capelli e i singhiozzi spezzati, umiliati, nella notte. Il fratello era stato il pilastro della sua vita, l’unico esempio da seguire. Protettore e cavaliere dall’armatura scintillante. Ed ora il suo salvatore.

 

Clint muoviti, vieni! Vieni a vedere.” Il ragazzo lo raggiunse, gambe doloranti e respiro affrettato. Persino deglutire, ora, gli faceva male.

Un intricato ammasso di sterpaglia e poi tendoni, tendoni a perdita d’occhio e carri coloratissimi, rischiarati dalla luce di mille luminarie.

In un’altra occasione uno spettacolo invitante.

Te lo ricordi il circo? I cartelloni appesi in città”, gli rammentò Barney, la voce velata di determinazione “Quando Stevie si è azzardato a chiedere a naso d’aquila una gita si è beccato una bacchettata sui denti”.

Clint lo ricordava, lo ricordava bene. Le labbra gonfie avevano impedito a Stevie di mangiare per due giorni.

Credevo se ne fossero andati.” Sussurrò Clint, quasi inudibile, la paura di essere scoperto.

Ma no, scemo, le locandine dicevano che sarebbero rimasti fino a fine mese.”

Il mese finisce oggi.” Gli specificò burbero, punto sul vivo.

Esattamente. E’ la nostra occasione”. Clint si volse ad osservare il fratello, confuso. La tacita richiesta di ricevere spiegazioni. “Partire con la carovana. È l’unica via di fuga che non ci costringa a rubare per tirare a campare.”

Chi ti dice che… ci vorranno con loro?”

Chi ti dice che non ci vorranno con loro?” lo rimbeccò, probabilmente alterato dal suo pessimismo. Barney era quello dei piani geniali. Detestava venissero smentiti, soprattutto quando sembrava averci ragionato con cognizione di causa. “Ci sono un sacco di animali. Chi credi che pulisca la loro merda? Chi da’ a loro da mangiare? Di certo non le star del tendone.”

Clint ora lo ascoltava interessato. Il suo modo di parlare adulto – anche con una parolaccia detta senza malizia - gli incuteva sempre un certo rispetto “Un paio di giovani braccia servono sempre. Non dovremo pretendere altro che un paio di pasti caldi al giorno e un posto dove dormire. Ci basterà questo per i primi tempi.”

Clint si chiese che cosa sarebbe successo nel caso che avessero già abbastanza giovani braccia per svolgere quelle mansioni, ma lo tenne per sé. L’ultima cosa che voleva fare era innervosire il fratello. Lui era uno di quelli che stava tutto il giorno a progettare. Lui leggeva i libri e si rimpinzava di televisione, giù nella sala comune. Sicuramente ne sapeva più del mondo di quanto ne sapesse lui.

Non lo allettava l’idea di finire, di nuovo, sballottato in una realtà di sconosciuti e nuove regole. Non ora che aveva pregustato una mezz’ora di illusoria, completa, assoluta libertà.

Si costrinse però ad annuire, manifestando il suo consenso.

Perfetto. Lascia parlare me.”

Il ragazzino rimase in silenzio. Si domandò che cosa avrebbe potuto dire, comunque.

 

Barney sembrava sicuro di sé, come sempre quando si trattava di questioni da “uomo”. Aveva imparato ad imitarne gli atteggiamenti troppo presto. Un po’ per costrizione, un po’ per emulazione. Si doveva pur sopravvivere. E lui il suo ruolo di maggiore lo aveva sempre preso fin troppo seriamente.

Prese Clint per un polso, guidandolo attraverso quello spiazzo sterrato. Il profumo di carne alla brace e selvatico a mescolarsi in una mistura ubriacante.

Forse dormono…” alluse Clint, diffidente da quella realtà del tutto estranea. Gente che dormiva in carri coloratissimi. Come gli zingari. Non gli avevano sempre detto di diffidare degli zingari?

Non sono mica orfani, non hanno orari, questi qui.” Barney lo zittì nuovamente.

Un uomo attraversò il piazzale, armato di una sola bottiglia di vino.

Barney lo puntò come una preda, gonfiando il petto, l’espressione serissima.

Buonasera!” esordì con voce potente, che purtroppo manteneva ancora quei tratti sgraziati della pubertà.

L’uomo si fermò a mezza strada, squadrandoli stranito così come si guarda una razza di animale di dubbia natura.

E voi chi diavolo siete?” l’alito alcolico palesava lo sguardo umido e le guance colorate di un rosso vivo.

Bernard e Clinton Barton.” Spiegò.

Clint fece una smorfia, odiava l’uso improprio del suo nome per intero. L’uomo che li fronteggiava sembrava aver avuto il suo stesso pensiero.

Si mise a ridere.

E che razza di nomi sono Bernard e Clinton? Da dove uscite fuori, principini?”

Barney non sembrò apprezzare lo scherno. Clint nemmeno, già pronto a ribattere aspramente all’offesa, si vide frenare con una stretta di mano, ancora artigliata al suo polso, dal fratello.

Implicita la raccomandazione che si era sentito fare così tante volte da averne la nausea.

 

Non puoi saltare addosso a tutte le persone che ti irritano, Clint.”

Non mi irritano, mi provocano!”

Dovresti imparare l’arte della diplomazia”

Diplo… che?”

Te lo spiego dopo.”

 

Si placò, ricordando come era andata a finire l’ultima volta che aveva fatto di testa sua. Era ancora lunga la strada che lo avrebbe condotto alla diplo-cosa che tanto il fratello decantava.

Stiamo cercando un lavoro.” Aggiunse Barney sbrigativamente per non dover rivelare altro.

L’uomo rise di nuovo.

Girate al largo, ragazzini, qui non c’è posto per due scappati di casa.” Doveva averne valutato l’abbigliamento e tirato le somme.

Non siamo scappati di casa. Siamo orfani. E abbiamo bisogno di un lavoro. Qui sembrate avere molto da fare. Possiamo badare agli animali, siamo bravi, lavoravamo in una fattoria.”

Clint dovette trattenersi dal dire che non era vero affatto. Avevano aiutato a strigliare i cavalli del maneggio, accanto all’orfanotrofio, ma non si poteva certo dire che sapessero come prendersi cura di un animale.

Oltre alla diplo-cosa, forse avrebbe dovuto ricevere qualche lezione sull’arte della menzogna a fin di bene.

L’uomo, per la prima volta, li scrutò con malcelato interesse.

Sentite, è inutile insistere, tanto io non posso assumere proprio nessuno, quindi vi conviene smammare e andare a cercare altrove.”

Fateci parlare con il direttore del circo.” Barney era più che determinato a proseguire quella bislacca conversazione.

Il direttore del circo ha altro a cui pensare, vi ho detto di levarvi dai coglioni. Se non lo fate con le buone…”

Clint cominciava ad avvertire un vago sentore di nausea. Voleva suggerire a Barney di lasciar perdere, di smammare, così come gli aveva suggerito quell’omone tagliato male. Se tanto gli dava tanto, vittima dell’alcool traditore, avrebbe cominciato a menar le mani, prima ancora di poter dire diplo… insomma, quella cosa lì. E il ricordo vivo, delle percosse dell’amorevole, deceduto genitore, era ancora troppo recente per non averne timore.

Ma il fratello sembrava sul piede di guerra, i muscoli tesi a un qualsiasi tipo di scontro.

La diplo… mazia! Messa da parte. Si trovò a valutare che la linea di confine fra le buone maniere e il non passare per fesso, era veramente sottile.

Mentre l’omone era altrettanto pronto a scaricare la sua accesa irritabilità e Barney aveva levato i pugni, qualcuno prese i ragazzini alle spalle, sollevandoli sulla punta dei piedi, trattenendoli per la collottola.

Ma bene bene, chi abbiamo qui, signor Duquesne?”

La sorpresa frenò entrambi i fratelli. A Barney ci volle qualche istante di troppo per reagire, Clint, preso letteralmente alla sprovvista, sembrava sedato come un gatto, fra le fauci della madre.

Sopra di loro troneggiava un singolare individuo, indossava i più clamorosi baffi neri che avessero mai visto in vita loro. Clint ci riconobbe la figura stampata sulle locandine sparse in giro per tutta la città.

Signor Carson… direttore.” Pronunciò l’uomo che li aveva ostacolati, che adesso pareva un mansueto animaletto da compagnia “i due ragazzini se ne stavano andando.”

Non è vero!” protestò Barney, dimenandosi appena “Siamo qui per cercare lavoro.”

Lavoro, mh?” l’uomo li lasciò andare entrambi per poterli valutare con aria critica.

Che tipo di lavoro? Siete atleti? Artisti? Pagliacci, forse?”

Qualsiasi tipo di lavoro, signore. Di quelli di fatica, se possono servire. Badare agli animali, nutrire i leoni.”

Un po’ gracilini per questo, ragazzini. Lo sapete quante libbre di carne al giorno deve mangiare un leone per evitare che stacchi la testa a uno dei miei addestratori?”

Barney serrò la bocca. Clint non l’aveva mai aperta.

Che facce, hai visto che facce, Duquesne?” una grassa, potente risata, forse consumata dal tabacco di troppi sigari, emerse da quelle labbra invisibili sotto i baffi, “tranquillizzatevi, dacché ho messo in piedi questo circo, i miei leoni ancora non hanno mai avuto il piacere di assaggiare carne umana.”

Clint si astenne dal tirare un sospiro di sollievo. Avrebbero sempre potuto cominciare con loro.

Come siamo messi a posti letto, signor Duquesne?” una domanda che sembrava un’accettazione del tutto inaspettata.

Siamo al c-completo, direttore. C’è la branda del vecchio Greyson… ancora calda del suo corpo consumato dalla polmonite. Ma…”

Sentito?” lo interruppe il signor Carson “Un solo posto. Se non sono io a vedere doppio, voi siete in due…”

Barney era diventato rosso dall’eccitazione.

Ci stringeremo sulla branda, signore! Ci accomoderemo in qualche modo! Quattro braccia sono meglio di due… p-potremmo persino dividere i p-pasti, non consumiamo molto.”

Carson li fissò con due occhi di brace, intensamente, a lungo, prima di scoppiare nell’ennesima risata.

Prendi nota, Duquesne. Un pasto, un posto letto, al prezzo di due. Direi che a quanto pare ho fatto un affare.”

Il signor Duquesne lo fissava un po’ instupidito. Fra l’incredulo e il confuso. Non gli era chiaro se il direttore li stesse ancora prendendo in giro oppure no.

Si preoccupi di dar loro qualcosa da mangiare.” le parole del direttore misero a tacere qualsiasi dubbio “E domattina di trovar loro qualcosa di utile da fare.”

Solo quando l’uomo tese la mano a Barney, fu chiaro che erano stati ingaggiati. Che la determinazione di Barney aveva vinto, ancora una volta.

Avrete a che fare con una delle star del nostro Show. Il signor Duquesne è un abile spadaccino, sono sicuro che saprà farvi rigar dritto... e darvi preziosi consigli per sopravvivere in questo ambiente.”

Clint non registrò quasi le dovute presentazioni: mentre stringeva la mano del direttore Carson era al fratello Barney che stava rivolgendo il suo sguardo più carico di orgoglio e gratitudine.

 

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Un ringraziamento particolare a Serena, lei sa per cosa.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 [Barney] ***


CAPITOLO 2

[Barney]

“You have a destiny, and now is your time to fulfill it.” (Carnivàle)

 *


Tese l'arco, prese la mira, un solo alito di vento a distrarlo. Le voci erano sbiadite, una dopo l'altra si erano fatte ovattate, l'unico obiettivo quel bersaglio tutt'altro che ravvicinato.

Inspirò a fondo, rilasciò piano il fiato e scoccò la freccia.

Il boato che ne seguì fu l'indizio certo che, anche questa volta, aveva fatto centro.

“L'allievo che supera il maestro!” a dirlo non un occasionale spettatore ma Buck Chisholm, arciere e uomo di spettacolo, nonché attrazione di punta del Carson Carnival of Travelling Wonders. Si avvicinò a Clint con aperto orgoglio, un pacca sulla spalla a decretare la sua approvazione. “Ormai sei pronto”.

Clint avvertì di nuovo quel vago sentore d'ansia stringergli lo stomaco. Non era affatto sicuro che entrare effettivamente a far parte dello staff artistico del circo fosse la sua reale aspirazione.

Certo, usare arco e frecce gli riusciva bene, gli piaceva, l'allenamento lo faceva sentire vivo, ma non era sicuro che fosse proprio il successo ciò che andasse cercando, e non le esibizioni in mezzo a un numero imprecisato di bambinetti urlanti accompagnati da altrettanti genitori oziosi.

La verità era che la sensazione, l'assetto di arco e frecce gli era risultata congeniale. Un prolungamento del suo braccio, un'aspirazione che non pensava di avere. Liberare la mente, prendere la mira, e sganciare la freccia. Precisione. Buona vista. Erano tutto ciò che gli serviva.  Aveva trovato una dimensione in cui si trovava a suo agio, un luogo in cui non doveva rendere conto a nessuno. Se non a se stesso.

Gli piaceva come lo faceva sentire. E non c'erano molte cose che riuscivano nell'impresa.

L'adolescenza è una merda, avrebbe ricordato tempo dopo a chiunque gli avesse chiesto di quel periodo.

Ma arco e frecce le avrebbe sempre ricordate come il suo aggancio alle cose belle della vita.

 

Erano ormai passati tre anni da quando, orfani e soli, Clint e suo fratello Barney erano entrati a far parte del circo.

Le difficoltà iniziali, superate dall'aiuto di quell'improbabile spadaccino ubriacone che li aveva ripuliti, accolti, addestrati.

Il direttore Carson aveva avuto ragione fin dall'inizio: la vita del circo era dura. Soprattutto per due ragazzini apparentemente privi di qualsivoglia abilità in particolare.

Braccianti, schiavetti personali di artisti e operai. Inizialmente non un compito facile, ma non tardò ad arrivare, solo dopo alcune settimane, la simpatia di alcune delle persone  che lavoravano lì. Un po' colpiti dalla loro storia, un po' dalla tenacia con cui affrontavano quella situazione.

Diventarono, in breve tempo, le mascotte della comitiva. La permanenza in quel luogo estraneo fu un po' più facile.

Barney spiccava per il senso del dovere, la precisione, la sua instancabile voglia di rendersi operativo e collaborativo a qualsiasi iniziativa del circo.

Clint, più che altro, si distinse per la sua innata, quanto inaspettata forza di spirito e marcate doti atletiche. Per quanto più volte ripreso per la sua sconsiderata impulsività.

Sapeva di aver sedato e attutito questo suo imprevedibile lato del carattere. La paura delle ripercussioni – che spesso gli avevano provocato punizioni e percosse – in orfanotrofio avevano aiutato a placare la sua indole. Ma il circo pareva averla riaccesa. Forse per la quantità di libero arbitrio presente in un posto dove regole e buone maniere venivano plasmate a seconda delle necessità. Non un luogo di santi, non un luogo di classe. Certo non privo di una sua certa morale. Colori, luci, magie, abiti succinti e acrobazie, pagliacci e animali esotici, allettanti e vibranti a chi si affaccia ai primi stralci di vera vita.

Sul lavoro però non aveva mai dato problemi. Si era sempre rimesso alle decisioni del loro mentore. Duquesne aveva fatto loro da maestro. Aveva insegnato loro un lavoro, li aveva addestrati a basilari tecniche di combattimento (Perché, stronzetti, potrete crescere quanto volete, ma prima o poi vi capiterà di avere di fronte un uomo grosso abbastanza che vorrà farvela pagare per qualcosa... a me capita un sacco spesso, sapete) e dato grandi lezioni di vita. Come per esempio: mai ubriacarsi nei pressi delle vasche per l'acqua degli animali. O mai ubriacarsi… in qualunque occasione. Duquesne poteva essere divertente da brillo, ma a volte, riservava solo espressioni tutt’altro che rassicuranti. Era quello il momento di stargli alla larga.

In ogni caso l’alcool non li aveva mai particolarmente attratti. Non dopo il pessimo esempio che aveva dato loro il defunto padre.

Clint, a volte, ancora se lo sognava di notte. Poteva sentire il peso di quell'alito fetido, le parole  che decretavano il loro fallimento come figli... come se fosse loro la colpa della loro disastrosa situazione familiare.

Per quel che lo riguardava, Clint era più che soddisfatto che la sua famiglia ormai contasse di un unico elemento.

Poi era giunta l'inaspettata svolta.

Solo l'anno successivo, Buck l'arciere, conosciuto con il nome d'arte di Trick Shot aveva mostrato interesse artistico per il giovane Clint. Colpito dalla mira con cui lui e il fratello si divertivano a colpire barattoli in fila sulle staccionate con monete da cinque centesimi. Li aveva osservati per un pomeriggio intero. E poi aveva preso la sua decisione.

Duquesne non si era fatto troppi problemi a sganciare il ragazzo. Almeno era quella l'impressione che ne aveva dato, il giorno in cui Buck era venuto a chiederne il temporaneo affido professionale. Solo le cinque bottiglie di whiskey vuote, nascoste sotto al letto, avevano testimoniato, seppur celata, l'amarezza di quel distacco.

Barney non aveva accolto del tutto positivamente i progressi del fratello.

E Clint, spesso, sentiva su di sé il peso del suo illogico giudizio.

 

Come, nello specifico, quel giorno. Poteva avvertire, alle sue spalle, lo sguardo accusatorio di Barney. Come se sfruttare una delle doti che, finalmente, sembrano venire a galla, fosse un peccato mortale. O peggio lo fosse il volerlo escludere del tutto da quel trionfo.

Se mai si fosse preso la briga di domandargli che cosa ne pensasse di tutta quella faccenda, forse avrebbero potuto avere un confronto onesto, ma Barney non sembrava interessato e Clint non aveva voglia di intavolare conversazioni sgradevoli.

Come erano cambiate le cose.

Clint però non era il tipo da portare rancore, abbandonato arco e frecce, si lasciò acclamare dai complimenti della gente che aveva assistito al suo allenamento e aveva raggiunto Barney alle prese con un grosso sacco di mangime per animali.

“Ehi, ti serve una mano?” lo affiancò, senza ombra di fastidio, facendo per prendere il sacco dalla parte opposta. Barney si oppose con un movimento brusco.

“E mettere a repentaglio la salute di un astro nascente del circo? Non sia mai.”

Clint gli scoccò un'occhiata in tralice. Non era pronto ad un’uscita così diretta. Non ancora. Ma forse, era meglio levarsi immediatamente il dente prima che marcisse.

“Credevo di essere un arciere, non un astro.” Tentò un approccio ben diverso da quello che gli aveva riservato il fratello, ma non parve attecchire. Barney sbuffò infastidito. “Non sono un bel niente, Barney. Solo un paio di frecce andate a bersaglio e la fai suonare come una colpa.”

Il ragazzo abbandonò il sacco di lato per poterlo fronteggiare.

“Credevo che il nostro obbiettivo fosse quello di fare abbastanza soldi per potercene andare da qui, un giorno. Non mi sembra che questo ci porti nelle condizioni di farlo...”

“Questo cosa?” allargò le braccia e osservò Barney con ostile stupore “Un paio di esibizioni in pubblico? Ma se non ho nemmeno iniziato? E poi, per quanto credi che potrà durare? Ci aiuterà a guadagnare di più, se è questo che ti preoccupa. Lo sanno tutti che gli artisti sono quelli che stanno messi meglio.”

“Ah, ovvio, che stupido, non ci avevo pensato che questa fosse una tecnica per portarci il più velocemente possibile lontano da qui.”

“Non credevo avessi così tanta fretta di andartene. Credevo ci stessi bene quanto me, qui.”

Barney fece una smorfia alla quale Clint non seppe dare grande interpretazione. Se mai avesse avuto bisogno di una conferma dell’affievolirsi della loro storica empatia, quella lo sembrava in modo preoccupante.

“Non ho detto il contrario”,  rispose criptico “a volte però mi dai l'impressione di volerci rimanere per sempre, in questo posto.”

Clint non riuscì a smentirlo, non subito almeno.

“Questa gente ci ha dato cibo e riparo”, fu l'unica cosa sensata che gli venne da ribattere con una scrollata di spalle “Hanno avuto per noi premure speciali... che altro-”

“Questo lo so”, lo troncò Barney “però eravamo d'accordo sull'andarcene da qui. Trovare un lavoro sicuro, un posto che si possa finalmente chiamare casa.”

“Anche questo posto lo puoi chiamare casa...” fu la flebile risposta di Clint.

Ed era vero. Sebbene avessero incontrato diverse difficoltà in una vita tanto precaria, scandita da ritmi tutt’altro che regolari, tutt’altro che incline a regalare qualcosa, c’era una cosa che, al di sopra di tutto il resto, non poteva trascurare: non aveva mai avuto paura.

Non quella paura di quando era bambino, a casa con i suoi genitori. Quella paura di sentire il cigolio della porta, del padre di ritorno da una nottata alcolica al bar del paese. La paura di aver commesso un’insignificante sgarro che gli sarebbe costato una punizione esemplare, che gli avrebbe regalato, percosse, denti rotti, abrasioni e lividi. La paura delle grida atterrite della madre, che prima o poi, ne erano sicuri, ci avrebbe lasciato le penne, stessa al suolo, dolorante, abbattuta come selvaggina.

Non la paura degli stanzoni pieni di bambini, dei tutori violenti, delle lezioni impartite a suon di insulti.

No, non quella paura. Nessuno li aveva mai umiliati come avevano fatto le persone che avrebbero davvero dovuto prendersi cura di loro. Una famiglia che non avevano ereditato, a cui non erano stati affidati. Ma che avevano scelto, tre anni prima, e che li aveva accolti, nel bene e nel male, senza fargli mancare mai niente.

“Una carovana di artisti da quattro soldi che se ne va in giro per gli Stati Uniti, senza nemmeno dare degna sepoltura ai suoi morti? Senza fissa dimora? E' vero, ci hanno dato tutto quello di cui avevamo bisogno e… non voglio sembrare un ingrato, ma non credo che avere aspirazioni diverse, dopo aver sputato sangue in questo posto per guadagnarci rispetto e profitto, sia da considerarsi tradimento.” Barney non sembrava affatto pensarla come lui.

“Non ho detto questo.” No, non aveva mai pensato alla parola tradimento. Non da parte loro.

“E allora vienimi incontro Clint. Vuoi farti una carriera in questo posto? Non credi sarebbe quantomeno di cattivo gusto illudere tutti quanti se un giorno avrai in mente di levare le tende?”

“Non credevo fosse un problema così grave. Faccio qualcosa che mi piace, tutto qui. Se un giorno avrò intenzione di andarmene nessuno me lo potrà impedire, non credi?”

Barney parve improvvisamente animato da qualcosa di violento.

“Cresci, Clint! Ci sono dei patti che vanno mantenuti, sei qui da tre anni, ancora non hai capito le regole di questo posto? Ricordi che è successo a Jack Mani di Pietra quando ha deciso di scappare con quella ragazzina, nel Texas?”

Clint lo ricordava bene. Lo avevano trovato, una mattina, legato a un albero con entrambi i polsi e le caviglie spezzate. Non avrebbe più potuto lavorare nel circo, e la sua promessa sposa  avrebbe dovuto portarselo a casa menomato e inservibile. Ma non erano entrambi giunti alla conclusione che non poteva essere stato solo quello il motivo per cui Jack si fosse meritato quella punizione? Nessuno dei due si era dimenticato i suoi eccessi, le sue mancanze sul lavoro, le sue condizioni prima e dopo ogni spettacolo. Il circo dava… e toglieva. A seconda di quello che tu eri disposto a fare per l’intera comunità. A sacrificare. Una semplice regola. L’unica vera regola.

Lui non avrebbe fatto la fine di Jack. Avrebbe svolto bene il suo lavoro. E quando si sarebbe stufato, avrebbe preso le redini della sua vita e dato le dimissioni. Pago dell’ottimo lavoro svolto. O almeno...

“So quello che sto facendo, Barney.”

“Sei davvero un ingenuo, Clint.” la voce sprezzante del fratello fu la goccia finale. Credeva di sapere sempre tutto? Erano passati i tempi in cui si faceva abbindolare. Se avvertì un vago sentore di colpa, per aver partorito il pensiero, fu scacciato altrettanto velocemente dall’irritazione.

“E tu sei invidioso!” per un attimo non fu certo di aver pronunciato per davvero quella frase, ma appena lo realizzò, non riuscì più a frenare quelle parole bloccate nella testa, nella gola, da troppo tempo “Abbi almeno la decenza di ammetterlo.”

“Cos-” Barney esplose in una risata che però risultò nervosa e forzata “Invidioso di cosa? Di te? Tiri solo frecce, ragazzino. Non fai niente di così straordinario!”

“A te però non riesce altrettanto bene, ah? Credi che non mi sia accorto di tutte le volte che prendi in prestito il mio arco per allenarti? Tu credi che io non ce li abbia gli occhi, che sia ancora quel ragazzino che ti seguiva in tutto e per tutto, ma sono cresciuto anche io Barney e sono capace di fare qualcosa in cui tu non eccelli! E per una volta che mi si prende sul serio a te non va giù.”

“Questa è una stronzata!” di nuovo quella risata, che per un istante ricordò a Clint quella roca e crudele del padre.

“Ti ho sempre reputato un esempio da seguire e a te è sempre piaciuto tanto istruirmi a dovere. Ma adesso che sembro sfuggire al tuo controllo, a te non va bene, mh?”

“Di che cazzo stai parlando? Ma non ti ascolti? Un minimo di popolarità e già ti sei montato la testa.”

“No, sei tu che non capisci...” e Clint improvvisamente non ebbe nemmeno voglia di spiegargli cosa ci fosse di sbagliato in quella discussione.

Erano passati i tempi in cui Barney era il suo lume di riferimento. Poteva prendere le sue decisioni, scegliere cosa farne della sua vita, senza dover rendere conto a un fratello che, da mesi, non aveva per lui nemmeno una parola di incoraggiamento.

Barney era cambiato o forse era cambiato lui. Una cosa era certa: non esisteva più quella condizione di totale dipendenza. Se Clint ancora non riusciva a considerarlo un progresso come individuo, era solo per il grosso debito che aveva nei suoi confronti. Gli voleva bene, avrebbe fatto di tutto per lui, ne avrebbe seguito i consigli, forse, ma assecondarlo e farsi dare ordini quando aveva deciso di prendere in mano le redini del proprio destino, no, non lo avrebbe accettato, non più.

“Immagino non ti vedrò stasera al mio debutto”, concluse, con una nota amara nella voce.

“Avrai già tutto il pubblico di cui hai bisogno.”

Quella sarebbe stata l'ultima vera discussione con Barney per un sacco di anni.

 

*

 

Il pubblico andò in visibilio all'ennesimo centro.

La mela che Clint aveva colpito, era saltata dalla testa della ragazza, esplodendo, letteralmente in mille pezzi, in una polpa scomposta.

Il fragore della folla lo inondò ubriacante. Guardandosi attorno non riuscì a percepire che immagini confuse di luci e colori, la concentrazione svanita appena concluso lo straordinario numero.

Quello certo, fu uno dei debutti più indimenticabili del Circo del direttore Carson.

Qualcuno cominciò a gridare qualcosa dalla folla festante. Un turbine di parole che, ben presto si concretizzarono all'unanime grido di: Occhio di Falco.

Clint non capiva, non realizzava. Non sapeva ancora che quello sarebbe stato il nome con cui si sarebbe fatto conoscere negli anni a venire, quali che fossero gli avvenimenti a cui avrebbe dovuto partecipare. Circensi, o meno.

Trick Shot lo aspettava dietro le quinte, bottiglie alla mano e violenti abbracci da chi voleva accertarsi che fosse proprio lui quel ragazzino tutto ossa che aveva chiesto asilo solo qualche anno prima.

Incredulo e confuso, Clint fu sicuro di non essere mai stato più felice di così. Il mal di stomaco ancora presente, concreto, ma adesso velato di sfumature tutt'altro che spiacevoli.

Unico neo in quella straordinaria serata: l'invisibile ma consistente mancanza dell'unica persona che avrebbe dovuto davvero brindare al suo successo.

Barney non si era nemmeno presentato. Aveva passato la serata ad assorbire gli echi del tendone, dal suo carrozzone, sdraiato al buio sulla sua branda.

A rimuginare su un confronto che si era concluso amaramente, a pensare a come dare una svolta rapida alla sua esistenza, il più lontano possibile da quel posto.

Forse Clint non aveva del tutto torto. Forse era davvero invidioso. E doveva fare qualcosa, prima che la sua invidia si tramutasse in qualcosa di pericoloso.

 

Clint non aveva potuto resistere all'insistenza di una bevuta. Fu così quella la prima sera che provò la vera ebbrezza dell'alcool. Non era sicuro gli dispiacesse poi così tanto. Non ebbe nemmeno la possibilità di abbracciare il senso di colpa. Si sentiva troppo bene per pensare alle conseguenze negative della cosa. Decise di godersi quell'inaspettato successo, quell'attimo d'incolpevole gloria, di eccitazione per qualcosa che aveva prodotto grazie ai suoi talenti. Si concesse l'azzardo di pensare di far parte finalmente di qualcosa di grande, di essere accettato e ben voluto, di avere, finalmente, tutte le gratificazioni che meritava.

Non inadeguato, non il figlio ingrato, non il fratello debole. Solo Clint. L'Occhio di Falco, capace di fare cose straordinarie.

Non riuscì nemmeno a provare sorpresa quando Olivia, una delle trapeziste dello spettacolo della domenica sera, occhi da gatta e capelli sottili come fili d’argento, gli si avvicinò con la scusa di un brindisi e si trovò ad assaggiare invece il sapore delle sue labbra e la vischiosa consistenza della sua lingua.

Gli era capitato di baciare altre ragazze (ricordava ancora con una certa malinconia la ragazzina con le treccine rosse, delle lunghe giornate estive, nell’Iowa), ma nessuna mai si era avvicinata tanto dalla promessa di qualcosa di più concreto.

Era sicuro che Olivia fosse ben più navigata di lui in quel campo per età anagrafica e note esperienze pregresse.

Assecondò volentieri l'occasione e si fece trascinare, letteralmente, sul suo camper, accompagnato dal tifo entusiasta dei colleghi che ben conoscevano la sua inesperienza.

Si trovò ad studiare parti anatomiche aveva sempre solo potuto intuire dietro quei costumi succinti, durante le esibizioni. Sentì su di sé il peso di quel corpo solido e muscoloso. Quel seno piccolo ma sodo, quelle cosce tornite e un profumo che non seppe precisare.

Era sicuro di dover fare qualcosa, ma un po' per l'alcool, un po' per ingenuità, lasciò che fosse lei a dirigere le operazioni. Si sentiva stanco ed euforico al tempo stesso. Era una sensazione possibile?

Sentiva l'eccitazione crescere senza che potesse fare niente per frenarla e se per un attimo il dubbio che tutta quella frenesia avrebbe potuto produrre un clamoroso fallimento, venne a stuzzicargli la coscienza, fu spazzato via, quando sentì le mani di lei, armeggiare con i suoi pantaloni, insinuare la mano e occuparsi di quel giocattolo a cui, fino a quel momento, solo lui aveva avuto accesso per divertimenti in solitaria.

Si concesse un paio di imbarazzanti singhiozzi, prima che lei non decidesse fosse arrivato il momento di fare sul serio.

Clint non ebbe proprio niente in contrario a riguardo.

Furono una manciata di minuti piuttosto intensi. Per lui.

Appena tutto si fu concluso, lei si limitò a rivolgergli uno sguardo divertito che, non fosse stato per la mente ancora annebbiata da un amplesso frettoloso e quel poco di alcool ancora in corpo, sarebbe bastato a farlo sentire in imbarazzo per le settimane a venire. La sentì aggiungere che ci sarebbe stato tempo per istruirlo a dovere, che aveva del potenziale. Lui si limitò ad annuire, esausto e completamente fuori fase.

Quella notte dormì come non aveva mai fatto in vita sua.

 

Si svegliò che l'alba era appena spuntata. La ragazza dormiva al suo fianco, ancora nuda. L'immagine di quella schiena pallida e invitante avrebbe popolato i suoi sogni anche in età adulta.

Aveva un gran mal di testa e i muscoli impazzivano per il dolore. La tensione che aveva accumulato nei giorni precedenti si era allentata tutta insieme. Recuperò i suoi vestiti e ci poté sentire l'odore dell'alcool, impregnato nelle trame del tessuto. Fece una smorfia, mentre ricordi sfocati della sera precedente, dopo l'esibizione, presero a vorticargli nella mente.

Per quanto fosse ancora acceso per il successo riscosso, arrivò improvviso il ricordo della mancanza della serata. Fosse stato come un tempo, avrebbe passato l'intera notte a raccontare a ripetizione l'evento a Barney. Il confidente di una vita.

Sentì qualcosa che gli si aggrovigliava alla base dello stomaco.

Doveva per forza essere così? Doveva per forza essersi tutto concluso con quella brusca discussione?

La decisione fu presa all'istante e senza discernimento. Aveva bisogno di parlare con Barney, anche solo per avere la conferma che a lui non sarebbe importato nulla di quello che aveva da dire.

Ancora inondato da quella sferzata di positività, ottimismo e buon umore, doveva raccontargli tutto, fare chiarezza mentale, fargli capire che non era colpa sua se i loro desideri per il futuro non riuscivano più a collimare, che gli avrebbe sempre voluto bene, che anche se non riuscivano più a capirsi, come quando erano ragazzini, non per questo dovevano portare insensato rancore.

Ma sì, avrebbe ricevuto l'approvazione che desiderava, Barney avrebbe capito e Clint avrebbe capito lui. Era ancora la sua famiglia, la sua unica famiglia, e con chi altri avrebbe dovuto condividere un momento del genere, se non con l'unica persona che, nonostante tutto, gli era stata sempre vicina? Per proteggerlo. Per assicurargli un futuro.

Percorse silenziosamente la strada che conduceva al carrozzone che li ospitava, sicuro di trovare il fratello ancora addormentato. Sarebbe entrato, senza far rumore, lo avrebbe svegliato e gli avrebbe chiesto di uscire, di veder nascere l'alba, di fare due chiacchiere, da uomo a uomo, perché erano ciò in cui si stavano trasformando, no? Due uomini, maturi abbastanza per discuterne con razionalità.

 

Quando aprì la porta però il letto di Barney era vuoto e la schiena di Duquesne si stagliava come un'ombra sullo sfondo della carrozza, le mani in un borsone stracolmo.

Gracchiava una vecchia canzone, alla radio.

 

If I leave here tomorrow, would you still remember me?*

 

 “Jaques?” la voce si spense in un’eco tutt'altro che rassicurante. La strofa della canzone interrotta.

L'uomo si volse, con un espressione di puro terrore dipinta in viso, gli occhi sgranati, allucinati, da pazzo.

“Che stai facendo?” nessuna risposta, solo con la coda dell'occhio riuscì ad individuare il movimento di alcune banconote che cadevano da quel borsone.

Soldi.

Era pieno di soldi?

“Niente che possa interessarti. Fuori dai c-coglioni, Clint...”

“Di chi sono quei soldi, Jaques?” Clint insisteva, c'era qualcosa di profondamente sbagliato in ciò a cui stava assistendo. L'uomo sembrava non avere nemmeno voglia di starlo ad ascoltare, compromesso, in un modo un cui Clint avrebbe ben presto imparato a conoscere.

Imparare a non sottovalutare mai la paura e la forza della disperazione, sarebbe stata la regola principale del resto della sua esistenza.

“Ho detto di levarti dai coglioni! Non ci senti?” tuonò l'uomo, avanzando di qualche passo nella sua direzione, imperioso, orribile. Trasfigurato.

Il tanfo dell'alcool a scandire ogni sua singola parola. Non era ubriaco, quello no. L'alcool tendeva a stendere Duquesne o a renderlo divertente, questa volta era qualcosa di peggio di una bottiglia di whiskey ad animarlo.

“Sono i soldi dell'incasso di ieri sera, quelli?” aveva riconosciuto la borsa. Come diavolo aveva fatto a forzare la cassaforte? Forse la notte di bagordi aveva coinvolto tutti, direttore compreso?

Quali che fossero stati i suoi mezzi, Clint ebbe subito chiaro quello che stava accadendo e come dovesse impedire che si concludesse.

Duquesne forse aveva intuito le sue intenzioni perché si fece improvvisamente tranquillo. L'aria sopita, da pazzo, però rimaneva nascosta ma ben visibile dietro quegli occhi.

“Possiamo fare a metà, Clint. Tu ed io. Sono molti soldi. Ce n'è abbastanza per tutti e due.”

Clint fece una smorfia, non registrò il brivido che gli era appena scorso lungo la schiena.

“C-che cazzo stai dicendo Jaques... ?”

“Basterebbero per te... e per Barney. Non volevate andarvene da qui un giorno? Potrebbe essere la vostra occasione, no? Un modo per riconciliarvi...” sorrise in modo inquietante “so tutto. So che avete litigato. Conosco le tue motivazioni. Stella nascente o meno, presto verrai messo anche tu da parte... è questo il destino di ogni circense, lo sai, no? Si perdono le qualità, la forza fisica, la memoria. Si viene messi da parte, abbandonati. Rimpiazzati più rapidamente di quanto pensi. I rimpianti non aiutano, lo sai. E allora perché non prendere la palla al balzo? Partire, abbandonare tutto, prima che sia troppo tardi, prima che la decadenza si abbatta su di te, come è successo ad altri cento, prima...” come è successo a te “rifarsi una vita. E' allettante, non è vero? Puoi farlo Clint. Come posso farlo io... basta saper cogliere le occasioni.”

Clint lo guardava come si osservano i folli. Se davvero credeva di averlo intortato con quel discorso da quattro soldi, si sbagliava di grosso.

“Se avessi messo da parte i tuoi guadagni, invece di barattare il tuo lavoro per casse di whiskey, a quest'ora avresti potuto andartene da qui senza dover rubare interi incassi! Sono soldi di gente che ha lavorato, quelli!”

“Oh, non venire a farmi la predica, ragazzino. Sono soldi che mi sono guadagnato! Dopo anni, ho diritto a una degna liquidazione!”

“Ma non sottraendoli in questo modo!” cercò disperatamente di fargli capire che cosa c'era di sbagliato ma non vide nessun guizzo di comprensione, dietro quelle iridi torbide, cattive.

“E allora cosa pensi di fare, Clint, ah? Cosa? Vuoi fermarmi? Vuoi chiamare la vigilanza? Uh, che paura.” il tono di Duquesne era tornato sprezzante, crudele, venato di minacce.

Gli si parò di fronte, con il pesante borsone, con aria di sfida, con quello sguardo che lo invitava ad agire, a fare la prima mossa, ma attenuato dallo scetticismo di chi ha la certezza che non sarebbe successo.

Clint, invece, dopo un unico terribile minuto di incertezza, levò le mani e prese con forza il borsone, che rimase impigliato negli artigli delle mani di Duquesne.

Non poteva permetterlo. Doveva impedirgli di fare una stronzata colossale.

Preso alla sprovvista da quella mossa, la reazione dell'uomo non si fece attendere: abbatté un pugno dritto sul viso del ragazzo che barcollò, più per lo stupore che per la reale potenza del contraccolpo.

Duquesne aveva abbandonato il borsone di lato, pronto allora a un vero e proprio scontro.

Clint gli si avventò addosso con tutta la forza di cui era capace, e per qualche minuto non ci furono che pugni e violente piroette.

Duquesne era un abile combattente, ma aveva insegnato bene ai suoi pupilli. E l'età non lo aiutava, né con i tempi di reazione, né con la forza fisica.

Quando Clint già pregustava l'amaro sapore della vittoria, Duquesne sembrò chiedere una tregua.

“H-hai vinto, C-Clint... lasciami... lasciami prendere fiato...” in ginocchio di fronte a lui, l'aria da penitente, un labbro spaccato e gocce di sudore a velare quel viso ormai decadente, fra quei capelli brizzolati, radi. Gli apparve, per la prima volta, vecchissimo.

Diffidente, Clint non fece altro che abbassare per un misero secondo la guardia, forse, dopotutto, non sarebbe stato necessario denunciarlo. Doveva essere stato un infelice momento di debolezza. Chi non ne aveva mai avuti, dopotutto?

Non si aspettò certo la conclusione che si palesò di lì a poco.

Duquesne aveva estratto dalla cintola un lungo coltello a serramanico. Si levò in piedi, con una rapidità che non gli era appartenuta in quel breve scontro e, con un colpo diretto, rapido, aveva spinto la lama nel ventre di Clint, che non riuscì nemmeno a registrare il dolore.

Solo quando vide il manico di quel coltello, spuntare dal suo stomaco, aggrappato alle sue carni e alla camicia che cominciava ad arrossarsi in un intruglio caldo, vischioso, allora si rese conto che il pizzicore allo stomaco non era solo una sensazione… era appena stato pugnalato.

Gli lanciò uno sguardo incredulo, stranito. Duquesne gli restituiva lo stesso sguardo, come se si fosse trovato solo ad assistere a quella scena, come se non fosse stato davvero lui.

 

'Cause I'm as free as a bird now, and this bird you'll never change, oh...

 

Se per un attimo l’improbabile risveglio di coscienza sembrò rianimare Duquesne, appena Clint fece per estrarre la lama, l’uomo gli si abbatté di nuovo contro. La paura che il ragazzo potesse chiamare i rinforzi, il terrore della realizzazione di quello che aveva appena fatto. Coprire gli strati di coscienza con quell’impeto violento che riusciva ad annullarlo.

Solo quando Clint fu di nuovo al suolo, indebolito e distrutto, andò a recuperare il borsone, in un mostruoso delirio da ubriaco.

 “Non doveva finire così, ragazzo.” Si ripulì le mani, sporche di sangue, sulla giacca sgualcita.

Non si volse nemmeno a guardarlo un'ultima volta, dopo che fu uscito dal caravan che li aveva accolti.

Il canale alla radio, come a decretare la fine di qualcosa, perse del tutto il segnale.

 

“Clint… Clint rispondi! Clint!”

Forse stava solo sognando.

Sensazioni ovattate.

“Clint, cazzo! SVEGLIATI!”

Barney?

“AIUTO! Per favore, aiuto!”

Che sogno del cazzo.

 

___


*La canzone è: Freebird dei Lynyrd Skynyrd.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 [Barney] ***


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CAPITOLO 3

[Barney]

 

"Non riuscirò mai ad andarmene da questo posto, vero Gordie?"

"Puoi fare tutto, basta volerlo."

(Stand by me)

 

Camminare gli faceva male: odiava avere così poca padronanza del suo stesso corpo.

Un piede di fronte all’altro, così gli avevano detto di affrontarla.

In più, quella stupida fasciatura non faceva altro che limitarlo nei movimenti.

 

Sembro un po’… hai presente il film: la mummia?”

Quello con Christopher Lee?”

Perché, ne conosci altri?”

Ignorante.”

Sarai intelligente tu.”

Barney rise. Clint lo seguì, ma si trovò a piegarsi in due dal dolore.

Non. Farlo. Mai. Più.”

Guarda che hai fatto tutto da solo.”

 

I dottori avevano detto di averlo recuperato per il rotto della cuffia. Per un attimo Clint si era immaginato a navigare in un mare rosso sangue e un paio di forti braccia a trascinarlo a riva, per i capelli.

E se non fosse stato per il provvidenziale arrivo di Barney e Trick Shot, forse non ci sarebbe stato molto da fare con la sua carcassa bucherellata. Si era lasciato alle spalle una bella pozza di sangue.

L’ironia della faccenda stava però nel fatto che le conseguenze più dolorose non aveva dovuto affrontarle con la trasfusione, la convalescenza, il recupero fisico, il cambio delle bende, le medicazioni. Quello si era rivelato il meno. O comunque qualcosa che lo avrebbe preparato per gli anni a venire, suo malgrado. No. La cosa che più di ogni altra lo aveva steso era a livello emotivo.

Duquesne. Il loro tutore, l’uomo che li aveva addestrati, accolti, cresciuti (per il poco tempo in cui si erano trovati a condividere una porzione di vita con lui), stentava a credere fosse stato in grado di piantargli un coltello dritto nelle budella. Di aver provato a ucciderlo.

Era ubriaco forse, in preda a non si sa che delirio terrorizzato, ma dietro a tutte quelle giustificazioni, non riusciva a spiegarsi come avesse davvero trovato il coraggio di farlo.

Non dopo tutte le puttanate sempre ben nascoste che si erano detti in tre anni di “amicizia”.

Barney, non meno sorpreso, non meno adirato, si era riavvicinato al fratello. E per quel che valeva, i rapporti sembravano essersi saldati, alla meno peggio. Almeno per il tempo che ancora gli sarebbe stato concesso di restare assieme.

Dicono sia sparito. Qualcuno parla del sud, Messico. Qualcosa del genere.” Gli stava raccontando Barney, tenendo il passo malconcio del fratello, lungo il tetto dell’ospedale presso cui era ricoverato. Uno dei pochi posti dove potevi sgattaiolare, senza dover essere circondato da malati lamentosi o famiglie in visita.

E poi la vista era impagabile.

Per me potrebbe essersi anche spinto fino all’inferno”, commentò Clint, la vena amareggiata che stentava a mascherare ogni volta che l’argomento deviava su Duquesne. I primi giorni dopo il risveglio non voleva nemmeno sentirlo nominare.

Ci finirà senza dover fare niente, tranquillo. Come credi che possa sopravvivere un uomo come lui, nel mondo reale?”

Clint non trattenne un verso di scherno.

Avrebbe sperperato i suoi soldi in alcool, donne e scommesse. In pochi mesi si sarebbe trovato punto e a capo, finché qualcuno non lo avrebbe trovato stecchito, nel retro di qualche bettola. Sbudellato, proprio come aveva fatto con lui.

Non provò pena per Duquesne, per il suo probabile destino, ancora troppo fresca la ferita. Lontano il perdono. O la compassione.

Alla fine ti sei preoccupato per niente, hai visto?” Clint tentò disperatamente di cambiare argomento. Soffriva già abbastanza a doversi trascinare con una stampella.

Che vuoi dire?”

Voglio dire che il mio debutto è stato unico e irripetibile.” Si fermò vicino al parapetto che precipitava giù, verso il cortile.

In realtà chiedono di te continuamente”, Barney non si sbilanciò, e se la cosa lo infastidiva o meno, non lo diede a vedere “Credo aspettino che tu ti sia rimesso completamente… il posto ti attende.”

Clint si voltò a guardarlo. Non sapeva se sperarci o meno. Il fatto di non poter più tirare con l’arco non gli aveva mai nemmeno sfiorato il cervello, ma riprendere con gli spettacoli…

Che c’è? Hai cambiato idea a riguardo?” la domanda di Barney sembrava seria. In modo quasi rassegnato.

Non lo so…”

Andiamo! Mi hanno detto che sei stato straordinario.” Questa volta Clint non dissimulò lo stupore. “Non è da tutti farsi affibbiare un nome d’arte alla prima esibizione. Occhio di Falco, mh? Un po’ pretenzioso, ma efficace.”

A me suona un po’ da scemo.”

Preferivi: Clinton il magnifico? Posso sempre dirgli che vorresti essere chiamato così, sai? Anzi, stasera vado da Trick Shot e glielo-“

No! Non ci provare nemmeno!”

Non ti piace: il magnifico? Possiamo cambiarlo con: Clinton l’insuperabile o Clinton il supremo dio della mira o…”

Ti ammazzo”, e nel dirlo gli rifilò un pugno sulla spalla, un po’ deboluccio e totalmente privo dell’intenzione di fargli del male.

Barney lo prese per il collo, agganciandolo con un braccio, serrandolo in una morsa che non lasciava scampo. Gli scompigliò i capelli e lo lasciò andare, prima di dargli tempo di divincolarsi.

Stronzo…”

Mai quanto te. Ti sei scopato la più carina delle trapeziste, lo sapevi che le facevo il filo da mesi.”

Clint cercò di sistemarsi i capelli, sorpreso e un po’ sulla difensiva: “Non è vero.”

Barney sorrise.

No, non è vero. Però così mi hai confermato che te la sei scopata. Giravano delle voci…”

Non me la sono… scopata”, sottolineò la parola come se lo ripugnasse “semmai lo ha fatto lei.” Deviò il tiro sul finale e Barney scoppiò a ridere.

Ormai non ho più niente da insegnarti. Il mio fratellino è sbocciato come una rosa.”

Come se potessi insegnarmi qualcosa su quel fronte.”

Come prendere sonori due di picche, sicuro.”

Deficiente.”

Coglione.”

Clint soffocò il riso in un doloroso colpo di tosse.

Forse è meglio rientrare”, si preoccupò Barney.

Ancora due minuti… sta tramontando il sole.”

 

I giorni si susseguirono rapidi. Clint era stato congedato, tornato all’ovile, con un inaspettato trionfo. Il direttore Carson in persona si era assicurato che ricevesse tutto quello di cui aveva bisogno. Lo aveva invitato a cena, lui e il fratello, come se si sentisse responsabile in prima persona per quello che era successo con Duquesne.

In realtà, i fratelli lo sapevano bene, il direttore si era raccomandato che la storia non uscisse troppo dalle file del circo: non fosse stato per le condizioni disperate del ragazzo, probabilmente non avrebbe nemmeno lasciato che lo trascinassero in un ospedale. Una pessima pubblicità.

Si era assicurato che si evitassero domande scomode. Clint aveva solo avuto un incidente. L’assicurazione avrebbe pagato. Era un artista, lavorava con arco e frecce, oggetti acuminati, erano cose che potevano capitare. Clint non aveva smentito quella versione… aveva capito, in un certo modo.

Anche se non era del tutto sicuro che Duquesne avrebbe dovuto passarla liscia.

 

Avevano lasciato la città, ripreso il loro artistico vagabondare. Alcune tappe meglio di altre.

I giorni si tramutarono in settimane, le settimane in mesi. E fu passato un altro anno.

Clint aveva ripreso la sua attività a livelli insperati.

Occhio di Falco splendeva nei deliri della folla, sotto lo sguardo attento e bramoso di Trick Shot. Barney metteva da parte i soldi, per la svolta.

Quando annunciò finalmente di essere pronto per levare le tende, Clint venne preso alla sprovvista.

Ho vent’anni, Clint. Sono pronto.”

E dove te ne andrai?” non voleva dargli la soddisfazione di chiedergli che ne sarebbe stato di loro, della loro famiglia.

Ho sentito che arruolano gente… sai… nell’esercito.”

Vuoi entrare nei marines?”

Credi che non sia abbastanza in gamba per poterlo fare?”

Non… ho detto questo. Ma… quelli ammazzano la gente.”

Non lo fanno ovunque? Anche qui.” Clint non poté ribattere ad un’affermazione tanto veritiera.

Credevo volessi sistemarti in un altro modo.”

In quale altro modo? Pulendo le gabbie? Dando da mangiare agli animali? Allestire le scenografie? Non so fare che questo. Questo… e tirare con l’arco. Non bene quanto te, certo, ma… una buona mira può sempre far comodo nell’esercito.”

Hai visto troppi film sul genere.”

Anche tu, se per questo.”

No, lo sai che preferisco i western.”

Ah sì, Clint Eastwood. Solo perché condividete lo stesso nome non devi per forza fartelo piacere.”

A me piacciono sul serio.”

Lo so.” Aggiungere futilità alla conversazione la alleggeriva. Entrambi si rendevano conto del peso che avevano quelle parole. Per loro, per il loro futuro.

Vieni con me, Clint.”

Il ragazzo alzò lo sguardo, stranito, confuso. Era un’uscita che non si aspettava. Non più.

Non credo arruolino sedicenni, nell’esercito.”

E invece sì.”

Non è questa la mia strada, Barney,” e nel dirlo non era nemmeno sicuro di sapere quale fosse, la sua vera strada.

Non voglio che resti qui solo.” Le prime vere parole di conforto e reale preoccupazione. Ci ritrovò il fratello di sempre, in quella frase. Qualcosa che, fino a quel momento, aveva sempre e solo dimostrato con i fatti. Sentirglielo dire ebbe un effetto completamente diverso. Potente.

Non… sono solo. E ormai sono cresciuto anche io.”

Barney non nascose un sorriso mesto.

Lo so.”

Tu sai sempre tutto, ah?”

Già.”

 

Barney lasciò il circo che era un sabato mattina. Clint lo aveva seguito con lo sguardo, abbarbicato sopra un grosso albero, fuori dai tendoni, mentre si allontanava, diretto in paese alla stazione degli autobus. Uno di questi lo avrebbe portato via per sempre. Per sempre dal circo, se non altro.

Poche le raccomandazioni. Rapidi i saluti. Fra le righe, l’ultima richiesta di partire insieme.

Barney gli aveva lasciato in eredità tutti i suoi fumetti (roba piena di supereroi che lo faceva sorridere per come andavano in giro vestiti) e un barattolo vuoto, salvo una monetina da cinque centesimi (la moneta fortunata sulla quale avrebbe dovuto costruire il suo futuro), Clint gli aveva regalato una freccia, la prima freccia che era andata a segno, il giorno del suo debutto, e se ne era andato di corsa per non mostrargli gli occhi umidi.

Sentiva già la sua mancanza. Il distacco, questa volta, sarebbe stato reale, concreto. Lo colpì come uno schiaffo il pensiero che quella sarebbe stata la prima volta, in sedici anni, che non avrebbe rivisto il fratello il giorno successivo. La sensazione gli risultò, per un spaventoso istante, claustrofobica.

Torna indietro...” si trovò stupidamente a bisbigliare, mentre il fratello non era che un punto lontano, sulla strada polverosa che portava fuori dal campo. Nessuno che si fosse degnato di dargli un passaggio, accompagnarlo in città. Un augurio distaccato e tanti saluti. Dopo quattro anni. Era quello che avrebbero riservato anche a lui, il giorno che avesse deciso di andarsene?

Perché sì, un giorno sarebbe successo.

Quanto tempo pensava di restare ancora?

Gli tornarono crudelmente alla memoria le parole di Duquesne. Nel suo delirio, il giorno della coltellata nello stomaco, aveva detto una grande verità.

Ti metteranno da parte, quando non gli servirai più.

O qualcosa così.

Il terrore di tramutarsi, in pochi anni, in un vecchio e inasprito ubriacone gli procurò i brividi.

 

Durante le sue considerazioni Barney era sparito.

Rimase su quell’albero finché lo stomaco non reclamò un pasto decente.

 

Credi sarebbe un problema se decidessi di non esibirmi stasera?” la domanda era stata lanciata casualmente. Buck “Trick Shot” stava sistemando un buco nei pantaloni dei suoi costumi di scena.

Scusa?”

Clint si schiarì la voce, cercando il coraggio per portare avanti la conversazione.

Non credo di essere in forma. Potrebbe essere un disastro.”

Un disastro? Tu? Non farmi ridere.”

No, davvero… non sono in forma. Non vorrei che la povera Claire debba finire al pronto soccorso con una freccia nella zucca.”

Buck lo squadrò per un istante, l’espressione che non preannunciava niente di buono.

Bè, possiamo levare il numero della mela. Non è un problema”, si costrinse a concedergli, alla fine.

Non è solo la mela… non me la sento.”

Questa volta, l’uomo non sembrò prenderla bene.

E’ per tuo fratello? Perché se n’è andato? Non è mica morto. Vi siete salutati, lui ha preso la sua strada, tu continui con la tua. Life goes on… dicevano.”

Sono solo un po’…”

E la prossima volta cosa sarà? La morte del leone sdentato? La rasatura della donna barbuta? Finiscila di piagnucolare. Tu stasera ti esibisci, come hai sempre fatto. Va' a fare qualche tiro, vedrai che una volta che ti sarai scaldato andrà tutto bene.”

Clint rimase ad osservare per qualche istante Buck. Per un attimo pensò che aveva ragione, che non era successo poi niente di così grave, ma quando uscì dalla tenda, sentì quel peso allo stomaco riprendere a fare il suo dovere. Era quello che lo aspettava da lì a qualche anno? Lavoro e scarsa considerazione. Se non era grave aver appena “perso” un fratello, allora cosa lo era? Che valore veniva dato ai rapporti umani? Che cosa avrebbe imparato fra quella gente?

Superò a passo rapido le gabbie degli animali, il punto di ritrovo dei clown, il palco delle attrazioni a bersaglio, superò il tendone dove stavano provando gli acrobati, ignorò il saluto di un paio di stallieri, il profumo delle mele caramellate della sera precedente, il richiamo dell'elefante africano... e infine, cominciò a correre, come a volersi scrollare via di dosso tutto ciò che al momento riteneva superfluo.

 

Una ventina di minuti dopo stava percorrendo la stessa strada che aveva percorso Barney quella stessa mattina, recuperato uno zaino in cui aveva infilato le poche cose che gli servivano, caricato sulle spalle arco e frecce e rubato il motorino scassato di Nigel, uno degli operai che dormiva beatamente sotto un albero. Se avesse sentito o meno lo scoppiettio del motore, non fu più un problema di Clint.

Avrebbe seguito Barney; il circo, le sue luci, i suoi colori già alle sue spalle, accantonati.

Il suo autobus sarebbe partito nel tardo pomeriggio, ce l'avrebbe fatta a raggiungerlo. Già si immaginava la sua faccia.

Non aveva che pochi spiccioli con sé, ma avrebbe trovato il modo di restituire a Barney tutto quello che avrebbe dovuto prestargli.

Scese di volata dal motorino, raggiunse la stazione solo per scoprire che non c'era nessuno in attesa dell'autobus.

M-mi scusi! A che ora parte il primo autobus per la California?” aveva raggiunto uno dei controllori che stavano richiudendo le transenne.

Lo vide guardare l'orologio.

Mi spiace ragazzo, te ne sei appena fatto sfuggire uno.”

Rimase a fissarlo imbambolato, come se avesse appena detto una stupidaggine.

Dunque Barney era già partito? Andato? Non c'era modo di rintracciarlo, in nessun modo, se non quando si sarebbe fatto vivo lui per primo, come aveva promesso?

Si frugò nelle tasche per capire quanta liquidità avesse.

D-dove riesco ad arrivare con questi?” domandò con urgenza, allo stesso uomo, che ora lo fissava sospetto. Probabilmente aveva l'aria di uno scappato di casa. La cosa peggiore era che, in un certo modo, era davvero così.

Non lo so... fino a Denver?”

Clint fece un calcolo rapido. Denver era tremendamente lontano dalla meta finale. Ma era sempre più vicino di dove si trovava adesso.

I biglietti si fanno laggiù.”

Clint non ebbe bisogno di ulteriori esortazioni.

Avrebbe raggiunto Barney prima o poi... avesse anche dovuto cominciare a rubare, per farlo.

 

---

 

E la prima parte, l'infanzia e l'adolescenza del nostro Clint, si conclude qui. Dal prossimo capitolo si cresce... o ci si prova. Da questo capitolo ho deciso di inserire, prima dell'inizio del capitolo, il nome del personaggio o dei personaggi con cui Clint avrà a che fare. Qualcuno notissimo, qualcun altro meno noto, qualcuno proprio sconosciuto (anche perché magari me lo sono inventato io).

Un ringraziamento a tutti i lettori, a quelli silenti, a chi si sofferma solo incuriosito, a chi ci ha cliccato per sbaglio. E uno speciale a Sere per aver betato il capitolo e tifare come solo Thor con la birra saprebbe fare: Grazie fanciulla, non ci fossi tu!

Ne approfitto per fare gli auguri di buona Pasqua & buone feste.

Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 [Vladimir Petrov] ***


CAPITOLO 4

 [Vladimir Petrov]

 

 Come diceva John Wayne: "Un giorno senza sangue è come un giorno senza sole"
(Soldato Joker - Full Metal Jacket)

 

 * 

“E come si dice: dov’è il cesso, in russo?”

“YA ssat' v litso…*”

Clint scoccò a Vladimir Petrov uno sguardo strano.

“Sei sicuro?”

“E’ la lingua di mio padre, amico… so cosa sto dicendo.”

Imbracciò il fucile e scrutò, fuori dalla finestra, il paesaggio di polverose strade irachene. Un gruppo di bambini che stavano giocando a pallone erano sciamati lontano, all'inizio della sparatoria. Echi di risate smorzate dal vento caldo e fatale del deserto.

“Bè… l’ultima volta ti ho chiesto una forma di saluto cortese... è venuto fuori che mi avevi appena fatto mandare a cagare il sergente.”

“Era solo uno scherzo, Barton.”

“Sì, però intanto mi sono beccato una punizione.”

Petrov si mise a ridere, in modo innaturale, finto, nervoso. Battute per scaricare la tensione: “Non potevo sapere che il sergente conosceva il russo.”

“Prima o poi la capirò, la tua maledetta lingua.”

“Dovresti starci attento, potrebbero scambiarti per un comunista.”

“Sei sicuro esistano ancora i comunisti?”

“Non farti sentire in giro.”

Clint si posizionò a favore di tiro. La canna del fucile poggiata sul davanzale, puntata con precisione millimetrica.

Questo lo sapeva fare bene: individuare l'obiettivo. Agganciarlo. Fare fuoco.

Un'eco reale, mostruosa, senza storia.

 

Clint ormai era convinto che la sua vita fosse suddivisa in scomparti specifici. Ogni sua azione vedeva la sua vita spartirsi fra gruppi di persone specifiche.

Non era sicuro di poterle etichettare tutte allo stesso modo, ma la parola famiglia, era la prima che gli veniva in mente, quando pensava alle modalità.

Prima c'era stato Barney. Poi era arrivato il circo, con la sua moltitudine di individui tutt'altro che ordinari. Successivamente il gruppo di ragazzacci con cui aveva finito per alimentare la sua pessima vena per la microcriminalità. E infine (almeno per il momento) era arrivato l'esercito degli Stati Uniti d'America.

Nessuno slancio di patriottismo nella scelta. Solo una necessità. Un'opzione, un'ispirazione forzata. Spinto dalla convinzione che prima o dopo avrebbe potuto ritrovare Barney... forse.

Dal fratello non erano mai più giunte notizie. Non aveva i mezzi necessari per procurarsi informazioni sulla faccenda. Per quello che ne sapeva, poteva anche aver cambiato nome.

La sua fuga dal circo del signor Carson non era stata d'aiuto.

Si era messo a lavorare sodo per procurarsi le carte in regola per essere reclutato. E poi, semplicemente, l'obiettivo Barney si era trasformato, aveva cambiato forma. Diventare un soldato, raggiungere un buon livello di preparazione, essere spedito in guerra. Tutte cose che non aveva esattamente chiesto, alle quali non aveva mai aspirato, ma che si erano materializzate, una dopo l'altra, come quelle onde che non riesci a contrastare e che, allora, decidi di assecondare.

Era stato spedito in Iraq ancora prima che potesse realizzare mentalmente cosa fosse una guerra.

Era diventato un cecchino professionista (altro sbocco naturale alle sue particolari inclinazioni), arco e frecce soppiantate dall'abilità di saper usare un fucile di precisione.

Tutt'altra faccenda, per la cronaca. Una brutta, sporca, crudele faccenda.

Occhio di Falcogli era rimasto aggrappato addosso come una seconda pelle. Non più ludica, di facciata, ma come vero e proprio grido di combattimento, un modo per sbandierare la propria identità sul piano attivo della questione. Un segno di riconoscimento tangibile, affidabile, spietato.

Non aveva che quello, al momento. E gli bastava. Non era che un soldato fra i soldati. In giorni che si trascinavano a volte troppo pigri, a volte in attesa di qualcosa che non arrivava mai. Come in quel libro che era sicuro di aver sfogliato, una volta... e che non aveva mai finito di leggere. Il deserto dei... ?

Oppure c'erano giorni come quello. Imprevedibili. Che iniziavano con un giro di ricognizione e finivano con un cecchino che faceva fuori almeno due dei tuoi... mentre tu ti trovavi con il fucile in mano, puntato su un obiettivo umano, intenzionato quanto te a concludere alla svelta la faccenda.

“Non riesco a vederlo.”

“Divertente, detto da te, Hawkeye.”

“Ti preferisco quando mi insulti in russo.”

Una goccia di sudore fra le ciglia, fastidiosa.

“Io non ti insulto, ti depisto.”

Il caldo opprimente a ricordargli che non stavano giocando. Che se lo avessero fatto, avrebbe già abbandonato il campo. Cinque centesimi nel portafoglio in cambio di un ghiacciolo. Di quelli freschi, al limone.

Un ricordo lontano di estati infantili, trascorse pigramente. Il cicaleccio frenetico degli insetti, un tuffo al lago, la voce di mamma che chiamava lui ed il fratello per la merenda. Uno dei pochi momenti felici della giornata. Dell'anno forse. Ricordi troppo innocenti. Puri. A scagionarlo da quella realtà infernale.

Avrebbe dato di tutto per un dannato ghiacciolo al limone.

 

Ma la sete non si sarebbe placata facilmente, non con negli occhi la vista di quello scenario desolante a ricordargli dove fosse, cosa stesse facendo. Un paio di cadaveri al suolo, a pochi metri di distanza dal loro nascondiglio. Il sangue, tutto quel sangue a terra, cancellato già da strati di polvere.

Il deserto è un bastardo, cancella le tracce, anche quelle che ti tengono mostruosamente ancorato alla realtà. Una realtà necessaria, che ti ricordava di essere implacabile. Perché nessuno, con te, sarebbe stato magnanimo abbastanza.

Un movimento a ore sei. Prese di nuovo la mira e fece fuoco.

Scorse, con la coda dell'occhio, un paio dei suoi entrare nell'edificio adiacente. Sarebbero andati a prendere quel figlio di puttana, chiunque egli fosse.

Probabilmente il cecchino pensava lo stesso di Clint.

Lo slancio di empatia però non durò che un istante, troppo vivide nella mente le terribili immagini di compagni abbattuti. Come insetti.

A farne il prezzo, come sempre, la sua innocenza. Persa ormai da troppo tempo, distrutta, strato dopo strato.

Vivido però il ricordo dell'attimo preciso.

La prima volta che aveva ucciso un uomo.

 

“Spara, Barton, spara, cazzo!”

Le mani non gli avevano mai tremato tanto. Ma poi aveva preso la mira. Fatto fuoco.

Centro.

Il rumore del corpo che cadeva al suolo con un gemito strozzato, innaturale, lo avrebbe ricordato per il resto dei suoi giorni.

“Ottimo lavoro, soldato.”

Una pacca sulle spalle, di quelle che gli ricordavano i compagni del circo.

Niente di tutto quello aveva l’aria di risultare “ottimo”. Non era nemmeno sicuro fosse solo...  lavoro.

 

“A ore sei e un quarto”, il comando appena accennato. Lo sguardo che si spostava, rapido come un battito di ciglia.

Fuoco.

Di nuovo quel gemito, lontano, sparpagliato nel vento come la sabbia del deserto.

Così come il ricordo d'infanzia ancorato ai giorni felici della sua esistenza.

 

*

 

“Tutto bene, amico?” il dondolio della jeep a scandire le tappe bruciate.

Clint non aveva fatto altro che guardare fuori dal finestrino per tutto il tempo. Non avrebbe dovuto pensarci tanto. Forse non ci era tagliato. Glielo avevano detto in mille modi, peròdiavolo... quella mira. Quel talento, ragazzo, non lo puoi mica sprecare!

“Mi sta venendo sonno”, una risposta rapida, concisa. Petrov non se la sarebbe bevuta. Ormai lo conosceva abbastanza per sapere cosa gli passava per la testa.

“Stasera ci facciamo una bella bevuta. Che dici? Vodka? Offro io.”

Clint si sistemò sul sedile, voltandosi appena nella sua direzione. Uno scarpone polveroso sul cruscotto. Sapeva quanto questo lo facesse incazzare.

“Non so se essere più colpito del fatto che tu abbia della vodka... o che... offri tu.”

“Io penso che tu mi sottovaluti un po' troppo, Barton”, e nel dirlo, un gesto secco della mano a spostargli quello scarpone maledetto. “Vodka, sigarette, mancano solo le donne...”

“Quelle ti mancano sempre, mica solo perché siamo in guerra.”

“Ancora mi sottovaluti? Verrà il giorno che ti rimangerai tutte le parole, Barton.”

“My uvidim...”**

Petrov quasi sbandò con la jeep, per poterlo guardare.

“Scusa e questo da dove diavolo ti è uscito?” nel suo tono sorpreso però anche una punta di divertimento e ammirazione.

“Non me le bevo mica tutte, le tue stronzate.”

“Mi sa che ci sottovalutiamo un po' troppo entrambi.”

Clint pensava che, nonostante tutto, non aveva mai sottovalutato Petrov. La parola amico, laggiù, assumeva sfumature del tutto diverse. Chiamarlo cameratismo, a volte, sembrava  riduttivo. Non che fosse facile raccontare comunque qualcosa di te, della vita che avevi prima, fuori dai dormitori, dagli accampamenti. Clint in particolare, non era mai stato propenso a condividere tratti della sua esistenza. Era convinto che il suo io continuasse a rimodellarsi. In costante progresso (o regresso?) e che difficile sarebbe stato trarne un quadro generale.

Adattabile. Ecco come si considerava. Era una qualità che non sapeva di possedere, ma a giudicare dagli eventi che lo avevano portato fin lì, si scoprì preparato ad affrontare ogni tipo di evenienza.

Petrov era un amico. E no, non lo aveva mai sottovalutato. E questo era quanto. Sufficiente e senza complicate sfumature.

“Quando pensi che potremo tornare a casa?” lo sentì aggiungere. La domanda, a dire il vero, non se l’era mai nemmeno posta.

Lanciò a Petrov uno sguardo strano, lontano.

Quale casa? Avrebbe voluto rispondergli, ma optò per una soluzione meno complicata da spiegare. I giorni di congedo gli sembravano troppo lontani, comunque.

“Sei stanco di stare qui?” gli chiese allora, di rimando.

“Perché, tu no, Barton?”

“Non lo so. Forse. Finché ho lo stomaco pieno, va tutto bene.”

Petrov rise: “Ecco perché mi piaci. Sei un ottimista.”

“Tu dici?”

“Altroché.”

“Lo prenderò come un complimento.”

“Lo è. Non è così facile continuare ad esserlo. E’ una qualità di cui si dovrebbe andare fieri.”

“Magari è solo incoscienza.”

“Adesso sei tu che ti sottovaluti.”

Clint sorrise, mentre la jeep continuava a macinare chilometri. Sarebbero arrivati al campo prima di sera. Forse sarebbe stata l’occasione buona per riprendere quelle ricerche abbandonate da troppo tempo. Qualche domanda. Un Barney Barton non si dimentica facilmente.

 

La considerazione sul fratello fu l’ultima cosa che registrò, prima che la traiettoria della sua esistenza cambiasse di nuovo. Inaspettatamente, in una brutale improvvisata.

Non registrò quasi il boato.

La jeep che sterzava bruscamente, la forza di gravità che perdeva d’importanza. La polvere che gli entrava nel naso, negli occhi, in gola. Si trovò a testa in giù prima ancora di capire che avevano subito un incidente.

Che era esplosa una bomba che aveva disintegrato il veicolo che procedeva di fronte alla loro.

La cintura di sicurezza lo aveva tenuto agganciato al sedile - e dire che lo prendevano sempre tutti in giro, per quella premura del tutto fuori luogo. (In un posto dove mangiano con le mani?)

Respirava affannosamente, il sapore del sangue fra le labbra, la mistura vischiosa che colava calda dal naso, dalla fronte.

Un fischio ininterrotto a impedirgli di capire cosa stesse succedendo. Si volse alla ricerca del compagno. Di lui non vi era traccia. Non registrò il panico. Gli ci vollero cinque minuti buoni, prima di riuscire a muoversi, di prendere anche solo in considerazione l’eventualità. Di ordinare al suo cervello di aiutarlo a reagire, ancora una volta.

L’operazione non fu semplice. Sganciare quella maledetta cintura di sicurezza a mani nude. Mani che tremavano, scosse, che non avevano forza nelle dita.

La polvere si dissipava lentamente tutt’intorno. E finalmente qualcosa si mosse, l'aggancio della cintura scattò e cedette.

Si preparò all’urto con il soffitto della jeep ora divenuto il suo punto d’appoggio. Meno peggio di quanto pensasse.

Il dolore era talmente diffuso che non sapeva dire che cosa, della propria carcassa mortale, si fosse salvato e cosa fosse compromesso.

Si fece largo fra le lamiere, verso la portiera mancante dalla parte dell’autista. Mise la mano su qualcosa di morbido, vischioso, mentre guadagnava l’uscita.

Trattenne a malapena il ribrezzo, quando si rese conto di star osservando una gamba. O quello che ne restava. Una cosa era certa: non era la sua.

D’improvviso l’urgenza di uscire da lì si fece impellente. Si trascinò sui gomiti, incurante del dolore, delle abrasioni. Le gambe gli facevano un male del diavolo, ma non si fermò. La polvere ancora gli ostruiva la visuale, ma prese comunque una boccata d’aria, e mentre tossiva gli sembrò quasi di sentire il sapore della bile risalirgli su per la gola.

Non ricordò, in seguito, di aver vomitato.

Quando alzò lo sguardo si rese conto, con orrore, di quello che lo circondava, mentre una voce, un rantolo, chiedeva aiuto. O così gli sembrava.

Petrov. A pochi passi di distanza dalla vettura. Doveva essere stato sbalzato senza criterio, fuori dalla jeep in corsa.

Clint non ci pensò due volte. Cercò di rimettersi in piedi, ma un folle dolore al bacino frenò sul nascere le sue buone intenzioni. Cadde di nuovo al suolo, in una dolorosa caduta.

“P-Petrov!” la sua voce non era che un rantolo, al pari di quella del compagno a terra.

L’altro gli rispose con un singulto e niente più.

“P-Petrov, a-arrivo.” Continuò, pregando qualsiasi cosa pur di sentirlo parlare ancora una volta. Ma la risposta non arrivò e forse questo gli diede la forza di trascinarsi di nuovo sui gomiti, sul ventre, come un serpente su quelle vie polverose.

Lo raggiunse dopo quella che gli parve un’eternità. La gamba del compagno svanita: dietro di lui una scia nauseabonda di sangue e carne maciullata.

“Petrov, mi senti?” l’uomo lo stava fissando con un’insistenza che non avrebbe mai più dimenticato. Lo agganciò con forza per la divisa, cercò di capire se ancora respirava, se era vivo. Non v'era che un soffio esile, rapido.

Singhiozzò qualcosa. In quello sguardo umido una richiesta d'aiuto, un ultimo saluto? O forse niente altro che l'ultimo spasmo di un uomo che muore.

 

*

 

La giornata era afosa. La tenda accanto al letto, animata, di tanto in tanto, da un avaro alito di vento. Fuori, il canto delle cicale, a tratti così assordante da risultare fastidioso.

Aveva chiesto una radiolina, un walkman, delle cuffie. Il dottore si era allontanato da più di un quarto d'ora e non era ancora tornato.

Forse aveva a che fare con quell'elicottero che aveva sentito atterrare, solo una mezz'ora prima.

L'ospedale si sarebbe presto di nuovo riempito. Non aveva fatto altro che vedere gente nuova, dacché era stato trasferito lì. Non conosceva nessuno. Non che lo preferisse: le uniche persone che avrebbe voluto vedere... non c'erano più.

Socchiuse gli occhi, sperando in una dose di antidolorifico. Gli avevano detto che non sarebbe stato più necessario, ma forse non si rendevano conto di quanto fosse importante, per lui compiere quei misurati, abitudinari, gesti quotidiani. E una buona dose di pace dei sensi.

Dormire era l'unico vero sollievo. Non era certo di voler ancora affrontare la realtà dei fatti.

Petrov era morto, lo sapeva benissimo, inutile crogiolarsi in deliranti drammi da quattro soldi. I soldati morivano, di tanto in tanto, ne era consapevole, (Quelli uccidono la gente...) solo non era ancora pronto a doverlo affrontare in piena coscienza. Non di dover fare i conti con le continue immagini di quella giornata che, nei suoi sogni, nella sua mente, non facevano che ripetersi all'infinito. E lo soffocavano, oh, sì... lo soffocavano come la sabbia del deserto.

Non aveva parlato per giorni: disturbo post traumatico, diceva la sua cartellina medica. Qualsiasi cosa volesse dire, Clint sapeva che non c'era proprio niente da esprimere a riguardo. Nemmeno agli ispettori che non avevano fatto altro che andare e venire al suo capezzale che sapeva di disinfettante e bucato fresco, cercando di strappargli una dichiarazione in grado di chiarire la vicenda della bomba.

Chiarire cosa? Per quale motivo? E' una guerra. Le cose esplodono. Alcuni soldati sono morti. Sono cose che capitano. Fine della questione.

Chiedere uno stracazzo di walkman era stata la prima vera dichiarazione dopo il fattaccio.

L'unica richiesta cosciente, ed ora nemmeno si degnavano di esaudirla.

Il dottore tornò proprio durante una serie di improperi mentali nei suoi riguardi.

“Soldato... sarà felice di sapere che è stato ufficialmente congedato. Può tornare a casa.” nel suo tono una certa dose di benevolenza. Del tutto fuori luogo, se proprio c'era da dirla tutta.

Clint gli lanciò uno sguardo perplesso, infastidito. Quale casa? Si chiese.

“Quando?” gli uscì invece, ancora arrochito dai troppi giorni di silenzio.

“Al più tardi, domani”, di nuovo quello sguardo benevolo, seccante. Come se gli stesse dando la notizia del secolo.

“Bene”, gli rispose, senza concedergli la gratificazione di un ringraziamento “Io però ancora non vedo il mio walkman.”

Se non altro, la soddisfazione di avergli levato quel sorriso idiota dalla faccia.

 

___

 
*Ti piscio in faccia.
**Staremo a vedere.
 
N.d.A: *Le frasi sono in russo ma non garantisco sull'attendibilità di google translator, prendiamola come una licenza poetica. Ahem. Inutile spiegare che Vladimir Petrov me lo sono inventata di sana pianta. Mi serviva un aggancio russo per il collegamento futuro con un’altra russa… di nostra conoscenza.
Dal prossimo capitolo entriamo in un universo un po’ più familiare. Con l’entrata in scena di un personaggio decisamente noto. Almeno a chi è affezionato all’MCU.

Un continuo grazie a Sere per il suo solerte lavoro di betaggio (e in tuo onore, ho anche trovato Thor nell’uovo di pasqua Kinder, vedi le coincidenze?) E grazie a chiunque si sia fermato, pensando valesse la pena continuare a leggere. Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 [Agente Phil Coulson] ***


CAPITOLO 5

[Agente Phil Coulson]

  

“Quando sei felice bevi per festeggiare. Quando sei triste bevi per dimenticare, quando non hai nulla per essere triste o essere felice, bevi per fare accadere qualcosa.”
(Charles Bukowski)

*

 

Doveva proprio dirlo: aveva davvero un pavimento schifoso.

Visto da quella prospettiva poi, a pochi centimetri dalla punta del naso, la tonalità aveva un non so che di nauseabondo. Non ci aveva mai fatto caso.

Certo, non ricordava nemmeno come avesse fatto a finire lì, per terra a masticare polvere, ma il mal di testa martellante gli suggeriva, finalmente, di essere quantomeno tornato sobrio.

Ci mise qualche minuto prima di decidersi a provare a rimettersi seduto. Le ossa massacrate da una notte passata sulle piastrelle del suo salotto. Un paio di metri e avrebbe almeno raggiunto il tappeto. E invece il fato impietoso non gli aveva concesso nemmeno quella precaria comodità.

Si guardò attorno, le mani a strofinarsi il viso pallido. La bocca ancora impastata da un’improbabile miscela di alcool.

Avrebbe dovuto farsi una doccia, radersi, aprire le finestre dell’appartamento per cambiare quell’aria mefitica. Tutte operazioni che gli sembravano troppo faticose. Optò per inaugurare e benedire l’inizio di quella giornata (un’altra schifida giornata) con un’aspirina.

Doveva raggiungere il bagno, però. Impresa non facile. Scoprì di essere se non altro positivo al fatto che fosse riuscito a non vomitare. Ripulire quella schifezza da terra avrebbe richiesto troppe energie.

Guadagnò il corridoio sulle gambe instabili. La testa che pulsava costantemente, ogni lurida mattina a ricordargli cosa c’era di sbagliato nel modo in cui aveva deciso di combattere le conseguenze del suo rientro dall’Iraq.

Affrontare la vita di tutti giorni gli era risultato più complicato del previsto. Aveva dovuto entrare in contatto, durante repentina solitudine quotidiana, con una serie di demoni personali dai quali non aveva la minima idea di essere perseguitato. Era stato costretto a fare la loro conoscenza, a scontrarcisi, uno alla volta, finché non aveva decretato di averne abbastanza.

L’alcool gli era sembrato la soluzione più semplice. La più pericolosa, certo, ma la più efficace nel mettere a tacere la coscienza, la certezza di non avere una famiglia su cui sfogare la sua irascibilità, il suo fallimento. Si sentiva giustificato a farlo. Quasi fosse stato un diritto.

Pochi i momenti lucidi per afferrare l’orrore in cui era precipitato. Sfondarsi lo stomaco di alcool gli permetteva di non pensare. Di non ricordare, non lucidamente almeno. Il ricordo è doloroso, inutile, ti rende debole. E allora, dimenticarsi persino di vivere, sembrava un’idea geniale.

Era un debole. Su questo non aveva più dubbi. Il fatto che non ci fosse nessuno a ricordarglielo, però, non faceva altro che lasciarlo libero da agire da sconsiderato. Degno figlio di suo padre. Lo sapeva che i geni, prima o dopo, avrebbero preso il sopravvento.

Se per qualche motivo, anche una sola volta gli fosse venuta l’ispirazione di mandare una richiesta d’aiuto, non avvenne mai. Gli avevano detto che c’erano gruppi di recupero per i militari. Spinto da intenzioni poco convinte era anche andato a recuperare una serie di opuscoli informativi… quegli stessi opuscoli che giacevano nella polvere, sparpagliati assieme al resto della spazzatura, per la casa.

Disordine mentale e fisico.

Non aveva nemmeno mai più messo mano al suo arco. Le sue poche cose ancora inscatolate, imballate.

L’appartamento fornitogli temporaneamente dall’esercito non era la sua casa, dopotutto. Una soluzione di comodo, quattro pareti costrette ad assistere al suo degrado.

 

Trovò l’ultima aspirina in fondo all’armadietto dei medicinali. Sarebbe servito a qualcosa dividerla a metà e sperare di prolungare, almeno di un giorno, la costrizione di uscire di casa, durante le ore diurne?

Fece una smorfia al riflesso di se stesso che vide allo specchio. Richiuse l’armadietto con un colpo secco. Forse era arrivato il momento di coprire gli specchi e trasformarsi a tutti gli effetti in un vampiro.

Infilò una maglia raccattata dalla pila di vestiti che ancora non puzzavano. Si infilò un paio di Converse e dopo essersi accertato di avere ancora soldi nel portafoglio (o la fedele carta di credito dono dell’esercito degli Stati Uniti d’America), uscì di casa.

Il sole gli ferì gli occhi. Non era del tutto sicuro che non si sarebbe sciolto da lì a poco. Proprio come un vampiro.

A pochi passi dagli scalini che lo separavano dalla strada, scorse un uomo. L’unico ostacolo fra lui e il mondo esterno. Cercò di evitarlo, prima di rendersi conto che lo stava fissando, dietro un paio di occhiali scuri, un sorriso sulle labbra (o forse era solo una paresi?). Fece per superarlo ma questo si volse a guardarlo.

“Buongiorno.”

Clint si fermò, un piede sull’ultimo scalino, un piede sul marciapiede. Stava dicendo a lui?

Si guardò attorno, prima di decretare di essere solo, e poi di nuovo sull’uomo che si era appena tolto gli occhiali per poterlo guardare senza schermi.

“Buongiorno”, borbottò di rimando, titubante. Non lo conosceva. La gente a New York era parecchio strana. Forse era una loro abitudine quella di salutare perfetti sconosciuti.

“Signor Barton, dico giusto?” riprese quell'insolito individuo in giacca e cravatta.

“Dice il… giusto”, si fermò e gli indirizzò uno sguardo strano, domandandosi chi fosse, se lo conoscesse, e nel caso, se fosse davvero così rimbambito da non ricordare più un volto.

Sembrava una persona per bene, certo, ma non era del tutto sicuro non si trattasse di una semplice facciata.

“Agente Phil Coulson”, si presentò dunque, allungando una mano in una sorta di formale presentazione. No, nemmeno il nome gli diceva niente.

Il titolo agente, però, lo aveva messo in guardia.

“Sono per caso nei guai?” gli domandò. Dopotutto non era sempre stato uno stinco di santo. Si era atteso, in qualsiasi momento, che qualcuno venisse a riscuotere debiti che aveva sparpagliato in giro durante gli anni che aveva passato rubando.

Certo sperava le sue malefatte fossero state spazzate via dalla sua redenzione militare, ma c’era sempre tempo per scoprire quanto si stesse sbagliando.

“Non lo so. Lo è?” si sentì rispondere. Quel sorriso cortese sempre lì. Diverso da quello comprensivo del dottore del campo in Iraq, meno carico di sgradevole compatimento.

“Dipende da chi lo chiede”, si concesse una scrollata di spalle, appena sulla difensiva. Si schermò gli occhi per poterlo vedere meglio. Non doveva essere tanto più vecchio di lui. Nessun segno distintivo gli permise di metterlo a fuoco.

“Lavoro per lo S.H.I.E.L.D. Un’organizzazione di cui forse avrà già sentito parlare.”

Clint fece una smorfia: non aveva la minima idea di cosa stesse parlando.

“Un’organizzazione di rievocazioni storiche medievali?” rispose associando stupidamente la sigla a uno scudo di ferro.

Se l’uomo apprezzò la battuta non lo diede a vedere, continuava a sorridere. Clint non fu più tanto sicuro che non si trattasse di una presa per il culo.

“Mi occupo del reclutamento di nuovo personale di servizio. Lei ci è stato segnalato direttamente dall’esercito degli Stati Uniti.”

Sul serio? E per cosa? Per esperienze sul campo in fatto di bombe e sparatorie?

“Lusinghiero”, commentò stringato, affatto persuaso fosse una buona notizia “Io però non sto cercando nessun impiego.”

“Non sono qui per offrirle un lavoro, solo per valutare la segnalazione.”

“Allora diciamo che non sono interessato ad essere… valutato.”

L’agente non si fece abbattere. Continuava a guardarlo placidamente, come se fosse arrivato per caso ed avesse avuto tutto il tempo del mondo a disposizione.

“Ho avuto modo di consultare i fascicoli che la riguardano, sono rimasto piuttosto impressionato dalla valutazione che le è stata assegnata. Per questo sono qui, perché credo di non perdere tempo.”

Presunzione o meno, Clint non riuscì a inquadrare la situazione.
“Forse però ne sta facendo perdere a me, di tempo”, ribatté adesso bruscamente. Non era uscito per fare una conversazione con un perfetto sconosciuto. Né a farsi giudicare da chicchessia. Aveva solo bisogno delle sue aspirine per poi tornare a dormire, in vista della serata al pub.

“Credevo fosse in congedo.”

“Lo sono. Ma ho anche una vita, io.”

L’uomo lo scrutò per un lungo attimo, il sorriso appena smorzato. Non seppe dire se fosse un brutto segno o se avesse solo capito l’inganno. Non doveva sembrare poi troppo in forma.

“Capisco”, estrasse allora qualcosa dal taschino interno della giacca. Per un folle attimo, Clint si aspettò di veder sbucare una pistola. No, decisamente era ancora in quella fase post traumatica di cui tanto aveva sentito parlare.

Quello che gli venne messo sotto al naso però non aveva l’aria di essere un’arma da fuoco, ma quella di un innocuo, innocente pezzo di carta.

Un biglietto da visita, nello specifico.

Sopra di esso, lo stemma dell’organizzazione di cui non aveva mai sentito parlare e il nome dell’uomo, con tanto di indirizzi e numeri di telefono.

“Nel caso cambiasse idea. O fosse anche solo curioso di approfondire il discorso.”

Clint lo prese fra le mani, rigirandoselo fra le dita con agilità. Finì nella tasca dei suoi jeans in un istante. Liquidato.

“Registrato”, chiuse il discorso. Questa volta fu lui a concedersi un sorriso, soddisfatto o meno della conclusione, quello non seppe dirlo.

Si allontanò lungo il marciapiede, avvertendo su di sé lo sguardo dell’agente Coulson finché non ebbe svoltato l’angolo.

 

*

 

Di nuovo lo sguardo puntato sulle fughe delle piastrelle del suo salotto. In una rete di prospettiva quantomeno interessante.

La testa pulsava, e la bocca era gonfia e dolorante; il sapore del sangue la faceva da padrone.

Ricordava a malapena gli eventi della sera precedente.

Un po’ troppo alcool in corpo, una gara di freccette andata a male, un paio di insulti azzardati, botte volanti. Lo avevano steso senza troppa fatica. Come avesse fatto a trascinarsi a casa, quello non seppe dirlo.

Vaghi ricordi di qualcuno che gli chiamava un taxi.

 

“Non si regge in piedi, chi pagherà per lui?”

“I soldi li ho io, lei non si preoccupi.”

“Mi preoccupo se mi vomita sui sedili!”

“E allora si tenga il resto.”

 

Si chiese se non avesse sognato tutto. Il fatto che non gli fossero rimasti che cinque centesimi nel portafoglio, prima del degenero serale, avrebbe dovuto dargli qualche indizio. Nessun tassista si offre di fare beneficenza a un ubriacone.

Si mise in piedi con fatica. Ogni giorno sempre peggio del precedente.

Se non altro aveva fatto scorta di aspirine.

Stavolta, forse, si sarebbe persino concesso il lusso di una doccia.

Quando tornò in salotto vide una luce rossa pulsante su quella che doveva essere la segreteria telefonica. Non aveva mai capito l’utilità di averne una. Non conosceva abbastanza gente o, comunque, nessuno che conoscesse il suo numero, a parte i suoi “datori di lavoro”.

La scrutò per qualche istante come se avesse di fronte un incomprensibile quadro d’arte contemporanea prima di capire che tasto premere.

“Signor Barton, sono l’agente Coulson. Ci siamo visti qualche giorno fa, rammenta? Mi domandavo se avesse avuto tempo di valutare la mia proposta. Devo liquidare i suggerimenti in esubero, mi chiedevo se dovessi archiviare il suo caso.”

Clint si chiese se fosse davvero necessario richiamarlo. Poi, solo mentalmente, lo invitò a farne un po’ quel diavolo che gli pareva del suo caso.

Aveva altri pensieri per la testa: tipo provare a ridimensionare le proporzioni della sua faccia.

Sprofondò nella poltrona, crogiolandosi nel beneficio di una borsa con del ghiaccio. Una bustina tutt'altro che sofisticata, ma che sopperiva egregiamente alla mancanza di strumenti più adeguati.

Nel silenzio si trovò, suo malgrado, a scrutare quel suo misero appartamento. Spoglio di mobili eppure disordinato. Il paragone con la sua vita calzava a pennello.

Non era che una stanza semi vuota, priva di significato, dove qualcuno si era divertito a incasinare i suoi pochi punti fermi, senza alcun criterio.

Il sibilo del silenzio cominciò a farsi ben presto insistente. Troppo simile a quello che ricordava tutti i santi giorni, dopo l'esplosione.

Il pensiero innescò un meccanismo devastante. Impellente tornò la necessità di obnubilare i sensi, la ragione. A sole poche ore di distanza dalla sua notte brava.

Non si fece pregare per assecondare quell'istinto del tutto sbagliato. Per la prima volta, non era del tutto certo di volerlo fare con l'alcool, ma, sicuramente, aveva dei conti in sospeso da saldare.

 

*

 

“Ehi, capo, quello è il tizio di ieri sera.” un capannello di gente in fondo al locale. Li aveva identificati non appena entrato. Non ricordava perfettamente i volti, ma non c'erano dubbi che fossero loro. Il tizio grasso dai lunghi baffi biondi, quello smilzo con le orecchie a sventola, erano di certo alcuni dei principali responsabili del suo pessimo quarto d'ora della sera precedente. Approfittarsi di un povero ubriacone... era veramente da vigliacchi.

Decise di non farsi avanti per primo, ma non dovette aspettare molto prima che lo facessero loro.

“Ma bene, il nostro amico è tornato. Non ne hai avuto abbastanza? Vuoi fare il bis, ragazzino?”

Il barista teneva la testa bassa, come la sera precedente, del tutto intenzionato a non immischiarsi in quel tipo di faccenda, come se ci fosse ormai abituato.

Un locale per bene, insomma.

“Pensavo più a una rivincita...” si trovò a rispondere, senza averlo veramente preventivato. Loro erano in cinque, lui era solo. La differenza con la sera appena trascorsa, era il fatto che fosse del tutto sobrio.

Il tipo smilzo alzò i pugni, come a dimostrare la seria intenzione a non farsi sopraffare.

Clint, alzò le mani in segno di resa.

“Wo, wo, non era esattamente quello che intendevo io.”

“E che diavolo intendevi, ragazzino?” grasse risate e cameratismo del tutto fuori luogo.

Clint fece muovere le dita nell'aria: “Partita a freccette?”

La perplessità fu così palpabile che Clint dovette mordersi la lingua per non scoppiare a ridere. Le espressioni del grassone e dello smilzo erano semplicemente impagabili.

“Cos'è, ci stai prendendo per il culo? Ci sta prendendo per il culo, Jude?” il baffo si rivolse allo smilzo.

“Non lo so. A noi non piace essere presi per il culo.”

“No, non ci piace.” di nuovo mormorii di approvazione.

“Dio, quanto siete malfidenti. Volevo solo permettervi di recuperare la figuraccia di ieri sera. Un centro su dieci, un po' scarso, non trovate?” fece notare Clint. Lui che, ne era certo, aveva fatto dieci centri perfetti. Fu improvvisamente consapevole di quello che li aveva scatenati: l'umiliazione.

“Ci sta decisamente prendendo per il culo, Jude”, il ringhio del baffo ormai lanciato.

“Che intuizione a dir poco geniale, Watson”, lo apostrofò Clint.

“Non mi chiamo Watson, ragazzino.”

Clint fece una smorfia: se aveva avuto dei dubbi sull'intelligenza globale del gruppo di scazzottate felici, erano appena evaporati, puff, uno dopo l'altro.

La mossa successiva avvenne in pochi istanti. Quando il grassone scattò verso di lui, Clint recuperò, in uno slancio, le freccette aggrappate disordinatamente al bersaglio sulla parete e una dopo l'altra vennero lanciate in direzione dei malcapitati. Un paio andarono a centrare i regali gioielli di famiglia. Un altro paio finirono per inchiodare le mani del grassone, una si infilzò sulla coscia del tizio ancora seduto e l'ultima, la più divertente, andò a infilzarsi direttamente nel naso dello smilzo. Un piercing di tutto rispetto.

“Sei lanci, sei centri. Mi sa che ho vinto di nuovo!”

Le grida irate del gruppo erano una colonna sonora piuttosto gratificante. Sapeva che non gli ci sarebbe voluto molto ai cinque per riprendersi e... le freccette erano finite.

Con la coda dell'occhio vide il barista sparire sotto al bancone.

Clint alzò i pugni e, lanciando un grido di battaglia piuttosto scadente, si buttò nella rissa.

 

*

 

L'ora successiva, lo scenario era incredibilmente mutato in quello di una sala d'attesa di una centrale di polizia.

Il barista doveva aver deciso di dire basta alla distruzione coatta della sua bettola di periferia.

I cinque malcapitati erano già stati trascinati chissà dove. Clint, misteriosamente, era ancora seduto nel corridoio, manette a bloccargli i polsi e faccia gonfia da record.

“Ehi, posso avere un bicchiere d'acqua?” domandò a un poliziotto di passaggio. Tutto quello che guadagnò fu un'occhiata priva di calore. “Un bicchiere d'acqua non si rifiuta nemmeno a un condannato a morte...” borbottò stancamente.

“E questo come lo sa?”

La voce arrivava dalla sua destra. Clint aveva appena scoperto di fare una fatica assurda a voltare il collo in quella direzione.

Ma niente gli impedì di farlo comunque e rimanere di sasso nel trovarsi fronte niente popò di meno che il caro, vecchio, sorridente agente Coulson.

Che gli stava porgendo un bicchiere colmo di caffè nero. Americano.

“Ancora lei?” domandò prima di decidere di afferrare quell'intruglio malefico. Non era sicuro che gli piacesse. Uno confronto impari con una bottiglia di alcool, al momento. Se l'uno sedava le coscienze, l'altro le eccitava.

“Aspettava qualcun altro?”

“No. Mi sta pedinando, per caso?” qualche anno dopo avrebbe imparato la parola stalking.

“Può darsi. Le avevo detto che ero convinto di non perdere tempo, con lei.”

“Forse dovrebbe rivedere un attimo le sue decisioni”, non si era reso conto di che razza di individuo fosse? Uno che cercava le risse nei bar per poter sfogare un po' di adrenalina e depressione “oppure è semplicemente stupido.”

Non si pentì dell'epiteto, finché non si rese conto che l'uomo continuava a sorridere. Sì, non poteva che essere una paresi. Prendere in giro persone con un handicap non era nelle sue corde.

“Magari lo sono. Mi sono appena assicurato il suo rilascio immediato.”

Clint adesso lo osservava sorpreso. Che cosa aveva appena detto? Rilascio? E perché diavolo avrebbe dovuto farlo?

“Per quanto tempo crede che potrà andare avanti in questo modo?” la domanda a bruciapelo smorzò qualsiasi ulteriore quesito a riguardo.

“Cos'è, una predica? Non credevo di star parlando con mio padre”, il paragone non gli sembrò calzante. A suo padre non sarebbe fregato un cazzo saperlo nei guai con la legge, almeno finché non fossero andati a chiedergli dei soldi.

“Solo una constatazione”, proseguì l'agente Coulson, affatto turbato dalle precisazioni di Clint “L'esercito non continuerà a pagarle il congedo e quando sarà il momento di reintegrarla si vedrà costretto a darle la liquidazione, se continua a mettersi nei guai.”

“Me la caverò in altro modo.” L'ho già fatto. Ma questo non desiderò confessarlo all'agente Coulson.

“Potrebbe ancora valutare la mia proposta.”

“Le ho già detto che non mi interessa.”

Il sorriso imperturbabile di Coulson vacillò per la prima volta.

“E che cosa le interessa, allora?”

Clint gli rivolse uno sguardo in tralice, infastidito: ubriacarmi dalla mattina alla sera e non avere a che fare con rompicoglioni come lei?

“Questo, se mi permette, non è affar suo.”

“Lo è, se credo che ne possa valere la pena.”

Stavolta a Clint sfuggì una risata sarcastica.

“Lei non mi conosce nemmeno.”

“La conosco più di quanto pensi.”

“Cos'è, una spia? Un agente dell'intelligence?”

“Qualcosa di simile.”

Non ne era del tutto sicuro, ma non gli sembrava mentisse.

“Non merito tutte queste attenzioni, glielo posso assicurare.”

“Questo, se mi permette...” e nel dirlo, gli sembrò che l'agente lo stesse scimmiottando “sarò io a valutarlo.”

Clint scosse la testa. Qualcosa gli diceva che non se lo sarebbe levato dalle palle tanto facilmente. E poi, qualcosa gli suggeriva che fosse stato proprio l'agente Coulson a caricarlo sul taxi la sera precedente, evitandogli di fare una brutta fine, devastato sul ciglio di una strada. Qualche stralcio di conversazione lo ricordava. Il tono di voce e il sorrisetto da paralisi, se non altro.

“Se ne pentirà”, concluse con una sorta di pigra rassegnazione. Non era in grado di gestire i debiti nei confronti delle persone. E con la storia del rilascio e tutto quanto, era già arrivato a quota due.

“Ho le spalle abbastanza robuste per sopportarlo.”

“A me non sembrano tanto robuste.”

Coulson non sembrò aversene a male.

 

Quando il poliziotto che gli aveva negato l'acqua venne a levargli le manette, Clint gli rivolse il suo sorriso migliore.

Seguì l'agente Coulson fuori dalla centrale di polizia e si scoprì sorpreso nel constatare che fosse già sera.

“Allora siamo d'accordo. La aspetto domani per un colloquio.”

Clint sbuffò qualcosa.

“E se non mi presentassi? Mi verreste a prelevare con un bazooka? Il jet invisibile di Wonder Woman?” lo prese deliberatamente in giro, pavoneggiandosi internamente per la sagacia.

“I bazooka sono superati dalle nostre parti e il jet invisibile... è in fase di sperimentazione.”

“Mi sta prendendo per il culo”.

Coulson si limitò a rivolgergli uno sguardo ambiguo.

“Ci vediamo domani, Barton.”

“Vedremo”, non voleva dargli la soddisfazione di aver vinto, ma quando il dibattito sembrò terminato, Coulson aggiunse: “Dimenticavo di dirle che abbiamo anche reti di contatti piuttosto vaste, nel nostro organico. Mi sono trovato sottomano dei file che credevo le appartenessero ma... non era così. Conosce per caso un certo Barney Barton?”

A Clint mancò un battito.

“Che cosa... ?”

“Ne parliamo domani, sono già in ritardo.”

Clint non fece in tempo a fermarlo che era già salito in macchina e volato, letteralmente, lungo la via.

Lo stava prendendo per il culo?

Così non fosse stato, i debiti con l'agente Coulson sarebbero già saliti a quota tre.

___

 

N.d.A: Effinalmente è arrivato Coulson! Per chi se lo stesse chiedendo, sono una forte sostenitrice del rapporto d’amicizia Clint/Coulson (sebbene non abbiano che una mezza, rapidissima interazione in Thor). Ma si tratta di fiction per cui è lecito fantasticare. Le precedenti esperienze fan ficcare (in collaborazione con la mia socia letteraria) ve lo possono confermare. Chiunque fosse curioso, può andare a ripescare le nostre storie qui: BlackEyedSheeps.
In una delle storie ci trovate anche un vago riferimento allo stato di Clint in questo preciso capitolo.
*Imbarazzante momento di auto pubblicità*
Sì, sono/siamo anche votate alla setta del Clintasha, intesa in qualsiasi forma. Ma a questo punto ci arriveremo più avanti.
 
Bon, assodato ciò, passo ai ringraziamenti di rito. A chi legge (fatevi pure avanti, non mordo, giuro), ai nuovi arrivi e alla mia super beta che mi sprona continuamente a scrivere. I reclami inoltrateli a lei, e grazie.
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 [Barbara 'Bobbi' Morse] ***


CAPITOLO 6

[Barbara 'Bobbi' Morse]

 

Dio crea i dinosauri, Dio distrugge i dinosauri, Dio crea l'uomo, l'uomo distrugge Dio, l'uomo crea i dinosauri.”
I dinosauri mangiano l'uomo, la donna eredita la Terra.”
(Jurassic Park)
 

*

 

Se avesse sbadigliato ancora una volta, gli si sarebbe slogata la mascella.

Quella lezione di informatica lo stava uccidendo, pezzo per pezzo.

L'agente Coulson era stato infido. Quando lo aveva reclutato, ormai mesi prima, non gli aveva detto che oltre all'addestramento specifico per poter entrare a far parte della sua organizzazione segreta, avrebbe dovuto affrontare lezioni teoriche, come se fosse tornato al liceo.

Lui, che il liceo non lo aveva nemmeno mai frequentato. La cui educazione si riassumeva nelle lezioni private al circo, e poi con quelle dell'esercito che, siamo sinceri, non sforna sempre propriamente dei geni.

La cosa che apprezzava in tutto quel calderone era il fatto che ci fosse sempre qualcosa da fare. Non un minuto per pensare alle sue passate sventure, non quello di perdersi nuovamente nell'oblio dell'alcool: di questo non poteva certo lamentarsi. Solo che la sera, quando rientrava a casa (un appartamento tutto nuovo, a Brooklyn, piccolo ma funzionale) non aveva quasi il tempo di svestirsi prima di crollare distrutto sul letto. Mentalmente e fisicamente stremato.

 

Coulson si era rivelato una scoperta inaspettata. Se aveva creduto che dopo aver assolto al suo compito di reclutatore si sarebbe dato alla macchia, trovò invece in lui un sostenitore e un amico. Non passava un giorno che non si interessasse dei suoi progressi, della sua giornata. Sembrava quasi lo monitorasse a distanza con una certa, presente discrezione.

Se inizialmente la cosa lo infastidiva, perché non ci vedeva che qualche sotto trama segreta atta a spiarlo, a condannare una sua qualsivoglia ricaduta, lentamente cominciò ad abituarsi a lui. Sì, persino a quel sorriso che gli sembrava finto. Coulson era una persona gentile. Non era stato mai abituato ad avere a che fare con persone gentili. A lungo andare, la sua presenza fu un sollievo in quella folla di sconosciuti.

 

Quella della lezione di informatica però no, non gliel'avrebbe perdonata. Odiava la tecnologia. Soprattutto quando non riusciva a capirci un'acca.

Il professor Brown, poi, sembrava uscito direttamente dal paleolitico. Il viso: una trama di fitte ragnatele di rughe. La voce tremante, i modi lenti, tremendamente lenti.

Cosa poteva saperne di tecnologia moderna un tartarugone preistorico?

Stava spiegando l'efficacia di sistemi di protezione a lungo raggio, quando l'intera classe lo vide irrigidirsi. La mano che stringeva il gessetto alzata verso il cielo.

Cadde a terra con un suono ovattato, come se fosse stato un sacco di farina.

“Oh, merda”, l'intera classe scattò in piedi.

Il professor Brown aveva appena presenziato alla sua ultima lezione.

 

“Quanti anni aveva si sa?”

Clint cercava di capire quanta panna aggiungere al suo caffè. Ormai una droga. Non beveva alcool da settimane, ma il caffè sopperiva alla grande a quella mancanza. Tutta colpa di Coulson, per la cronaca.

“Puoi anche parlare al presente, non è mica morto”, lo rimproverò Coulson, un po' suscettibile sulla faccenda dato che era stato anche un suo istruttore. “Una settantina, comunque. Anno più, anno meno. Ha sempre sostenuto di voler cadere sul campo, in un certo senso lo ha fatto.”

“Caduto letteralmente. Avresti dovuto sentire il botto.”

“Non fare lo spiritoso”, non v'era però, stavolta, un vero ammonimento.

“Questo significa che siamo esonerati dal frequentare lezioni di informatica per le prossime settimane?” Una nota di speranza.

Coulson gli rivolse uno sguardo scettico e vagamente sadico.

“C'è già un nuovo insegnante, pronto a prendere il suo posto. Domani la lezione si svolgerà regolarmente.”

“No, dai, ma che caz-”

La parolaccia si perse in una scia di risate.

 

*

 

La struttura ginnica e il poligono dell'accademia dello SHIELD erano ciò che di più grandioso e meraviglioso Clint avesse mai potuto sperimentare.

La prima volta che ce lo avevano accompagnato, sembrava un ragazzino alle prese con un parco giochi. Attrezzature moderne, super accessoriate, niente che si avvicinasse a ciò con cui era stato abituato ad allenarsi. Il circo era stato un ottimo maestro, ma nessuno si era mai preoccupato di istruirlo su come potenziare, nello specifico, muscoli di cui non aveva nemmeno mai sentito parlare.

Il poligono era il suo mondo segreto. Nessuno allo SHIELD sembrava prediligere l'utilizzo di arco e frecce, erano tutti proiettati verso le armi di ultima generazione, pistole, fucili, laser paralizzanti. Clint non sentiva la necessità di esercitarsi con cose che aveva già sperimentato in modo fin troppo ravvicinato durante la guerra.

L'arco, il fedele compagno di una vita, una volta imbracciato lo faceva sentire a suo agio.

Per quello il poligono per gli allenamenti a tiro con l'arco era sempre relativamente deserto. Quel giorno poi, la solitudine e il silenzio la facevano da padrone.

Clint sorrise a se stesso. Si infilò un paio di cuffie, accese il lettore CD che aveva comprato meno di un mese prima, lo appese alla cintola della divisa e selezionò una delle sue canzoni preferite del momento.

Imbracciò l'arco, irrigidì la schiena, tese i muscoli, espirò... e sull'introduzione di Highway Star dei Deep Purple, scoccò la sua prima freccia.

Un centro perfetto.

Ora si cominciava a ragionare.

 

Quando un'ora e svariate frecce dopo, Clint decise che era arrivato il momento di terminare l'allenamento, spento il lettore CD si rese conto di non essere solo.

Talmente concentrato sul suo obiettivo, non si era affatto reso conto di avere uno spettatore. Una cosa su cui avrebbe dovuto sicuramente lavorare, in futuro.

Rimase fermo ad osservarla, come se si fosse appena trovato di fronte un fantasma, colto totalmente di sorpresa. Una donna... una ragazza. Linea atletica, lunghi capelli biondi, viso dall'espressione severa. L'età poteva oscillare tranquillamente dai venticinque ai trenta.

Non fece in tempo nemmeno a giustificare la sua mancanza che la donna gli sorrise e gli riservò un accenno di applauso.

“Erano anni che non assistevo a qualcosa di tanto interessante”, la sentì dire, senza sapere se prendere l'osservazione come un complimento “spero non sia tua abitudine quella di usare gli auricolari”.

Clint avvertì forse una nota di rimprovero.

“E' solo un allenamento”, le rispose allora, un po' più bruscamente di quanto avesse preventivato.

“Ne va della tua concentrazione, lo dico per te...”

“La mia concentrazione non ne risente, sono abituato a lavorare con la musica”.

Quando era nel circo, c'erano sempre jingle di dubbio gusto ad accompagnare le sue performance. Aveva imparato ad ignorarle.

“Me lo avevano detto.”

Clint alzò un sopracciglio.

“Detto cosa?”

“Che hai lavorato in un circo.”

“Fantastico, sono già così famoso?”

La guardò avvicinarsi senza fare una piega. Lei fece spallucce.

“Non proprio. Sono amica di Coulson”, rivelò il suo informatore.

“Ovviamente”, eppure Coulson sembrava uno di quelli che sapeva tenere la bocca chiusa. E poi, per quale motivo avrebbe dovuto parlare di lui a una perfetta sconosciuta? Non doveva essere una frequentatrice dell'accademia. Non l'aveva mai vista, se ne sarebbe ricordato. “Quindi avrei il piacere di parlare con... ?” le domandò, senza porgerle la mano.

“Agente Barbara Morse. Gli amici mi chiamano Bobbi. Tu puoi continuare a chiamarmi... Agente Morse”.

“Come l'alfabeto”, commentò solamente. Clint aveva realizzato immediatamente di aver fatto bene a non tenderle la mano. Non sembrava granché incline a stringere amicizia. O a qualsiasi rapporto degno di nota. Un po' troppo supponente, per quanto lo riguardava.

La donna gli sganciò giusto un sorrisetto di sufficienza.

“La memoria associativa è un buon inizio per un aspirante agente operativo”.

Supponenza, di nuovo. Si chiese quale fosse il suo livello per potersi permettere di parlargli come se fosse uno stupido ragazzino.
Nemmeno Fury, il direttore dello SHIELD Nick Fury, l'uomo con un occhio solo, si era permesso di parlargli in quei termini al loro primo colloquio.

Ancora interessato a scoprire per quale motivo fosse stato argomento di conversazione fra la donna e Coulson la vide esitare.

“Hai finito?” le sue parole lo riportarono alla realtà.

“Di fare cosa?” domandò stupidamente, lanciandole uno sguardo perplesso.

“Di allenarti. Speravo di avere una mezz'ora in solitudine”.

Clint capì al volo e annuì.

Paura di non reggere il confronto? Quanto avrebbe pagato per poterglielo dire.

“Sì, certo. E' tutto tuo.” le disse invece, abbandonando l'arco in uso nella rastrelliera con le armi.

La donna gli sorrise e andò a tastare il terreno.

“Ci vediamo in giro, allora”, lo congedò così. Clint non le rispose.

Non era affatto sicuro di voler ripetere l'esperienza. Il primo impatto con l'agente Morse, come l'alfabeto, era stato disastroso.

 

*

 

Se da una parte l'aver ottenuto un rimpiazzo immediato al caro, vecchio professor Brown, fosse per molti una tragedia, dall'altro la visione d'insieme migliorò parecchio. Più o meno per tutti.

Ma non per Clint.

La nuova professoressa non era stata una sorpresa poi così piacevole, nonostante l'avvenenza. Agente speciale dello SHIELD, esperta di informatica, nonché operativa da anni sul campo. Una soluzione temporanea, aveva specificato.

Si era presentata con il nome di Barbara Morse. E Clint aveva soffocato in un gemito la sua disapprovazione.

L'intera classe, al contrario di lui, sembrava essersi animata di adolescenziale lussuria. A dimostrarlo, il continuo, fastidioso brusio di sottofondo.

“Non avrà nemmeno trent'anni.”

“Ma quali trent'anni, per me non raggiunge nemmeno i venticinque.”

“Dicono sia un genio.”

“Dicono sia raccomandata.”

“Dicono sia...”

Clint aveva preso la mira con un pallino di gomma e aveva fatto centro dritto dritto nell'orecchio di uno dei suoi rumorosi compagni.
Questo gli rifilò uno sguardo tagliente, ma si zittì. La faccenda sembrò giovare alla lezione, sebbene Clint non lo avesse esattamente fatto per agevolare il compito alla donna.

L'intera sessione però si era rivelata una scoperta insperata. A differenza del professor Brown l'agente Morse aveva parlantina brillante e concisa e, se non altro, sembrava conversare di argomenti che si sarebbero rivelati piuttosto utili, durante una missione.

A guardarla bene, Clint si rese conto che non poteva davvero avere più di venticinque anni. Questo poteva voler dire sul serio che era una specie di genio. O qualcosa che ci si avvicinava abbastanza. La cosa non migliorò il suo umore.

 

La lezione, tuttavia, sembrò durare meno del previsto. Doveva ammettere che ci sapeva fare.

Al contrario dei compagni non si fermò alla cattedra per le presentazioni, tirò dritto fuori dall'aula, sperando di procurarsi un caffè e magari di contattare Coulson: gli doveva decisamente delle spiegazioni.

 

Era in preda a una crisi mistica di fronte alla macchinetta degli snack. Era la terza volta in un mese che risucchiava le sue monetine senza restituirgli nient'altro che aria. Nello specifico, stavolta il pacchetto di patatine era incastrato nel meccanismo senza possibilità di restituzione. E ora non gli restavano che cinque centesimi.

In più non era nemmeno riuscito a chiamare Coulson. Peggio di così...

“Serve una mano?”

L'agente Morse, come l'alfabeto. Sì, poteva andare decisamente peggio.

“Sì, una mano di gomma”, le rispose, senza voltarsi, restando a guardarla attraverso il riflesso del vetro.

“Come prego?”

“Di gomma. Come il tizio dei Fantastici Quattro. Per infilarla là dentro e recuperare il mio pacchetto di patatine”.

Vide la donna scuotere la testa con quella sua aria di sufficienza, che aveva già avuto modo di testare.

“Lascia fare a me”.

Clint si scostò con aria scettica, lasciandole il campo libero. Non aspettava altro che poterla schernire per il fallimento.

La Morse, come l'alfabeto, si avvicinò alla macchinetta, diede un colpo d'anca al vetro e in due secondi netti la sua merendina era caduta nel cassetto di raccoglimento.

Clint rimase letteralmente con la bocca aperta. Dovette aspettare di vedersi porgere il pacchetto di patatine dalla donna per riprendersi.

“E questo dove lo hai imparato?” si informò.

“Anni di lotte con le malefiche macchinette dello SHIELD.”

Clint le lanciò uno sguardo strano.

“Adesso mi trovo di fronte a un grande dilemma. In quanto quasi collega dovrei darti del tu o in veste di mio professore dovrei darle del lei?”

La donna, per la prima volta gli rivolse un sorriso senza aggiunte di sarcasmo.

“Possiamo continuare con il tu.”

“Perfetto, stona un tantino con la faccenda dell'Agente Morse, ma...”

“Oh, andiamo, quella era una battuta.”

“Un po' scarsa come battuta”

“Mai quanto quella abusata del Morse, come l'alfabeto”.

“A me sembrava divertente.”

“Non per una che se la sente fare dai tempi delle elementari.”

“Woah, impressionante per dei bambini di sei anni”.

La Morse sbuffò una risata. L'aria severa si disperse. Il sorriso le illuminava il viso. Non stonava affatto.

“A proposito: volevo ringraziarti per aver sedato gli animi, in aula, prima”. Il ragazzo non comprese immediatamente. Parlava del centro perfetto nel timpano di Liam? Lo aveva visto?

“Non volevo sedare gli animi. Il mio era un atto di deliberato bullismo”.

Di nuovo la donna rise. Clint cominciò a farci l'abitudine. Non erano poi in molti quelli che ridevano delle sue battute. Non Coulson comunque.

“Bè, comunque spero la lezione non sia stata un completo disastro. Non sono una massima esperta in materia di... insegnamento. Sono più efficace sul campo.” gli stava per caso chiedendo un parere? Al loro primo incontro non gli era sembrata una donna che aveva bisogno di approvazione. Che si fosse sbagliato a dare il primo giudizio? Forse si era rimbambito.

“Non dovresti sottovalutarti in questo modo. Hai avuto la mia attenzione per almeno dieci minuti. Il professor Brown raggiungeva al massimo i due.”

“Questo mi lusinga”.

“Non esageriamo. Non ho ancora detto di aver raggiunto un buon rapporto con la tecnologia.”

“Abbiamo almeno un mese per arrivarci”.

“Un mese? Potrei non avere abbastanza gomma per Liam, fino a quel giorno.”

“Magari dovresti trovare altri tipi di intrattenimento”. E il pensiero di Clint andò a parare proprio dove non doveva. E anche il suo sguardo seguì una traiettoria tutt'altro che lusinghiera per una donna.

“Ho sempre arco e frecce”, deviò con una brusca sterzata.

“Certo, quello è piuttosto avvincente, ma... pensavo a qualcosa di più comune”.

“Comune tipo cosa?”

“Non lo so... un film al cinema, una cena fuori.”

“Tutte cose che fatte da solo fanno piuttosto sfigato.”

Barbara Morse gli lanciò uno sguardo ambiguo.

“Non necessariamente da solo.”

“Al momento è l'unica compagnia che posso permettermi”, si trovò a commentare... e commiserarsi un poco. Non che la faccenda lo disturbasse, ma cominciò a pensare che farlo credere a lei sarebbe stato un diversivo interessante per la conversazione.

“Se per questo anche io”, la vide esitare “potremmo essere da soli in due, magari fa meno sfigato”.

La proposta animò Clint, o quantomeno animò il suo ego, improvvisamente risorto.

Doveva ancora capire da quando il fastidio per l'agente Morse si era tramutato in interesse per Barbara.

“In effetti… era un po' che pensavo di andare a vedere quel nuovo film di Spielberg... quello con i dinosauri. Dicono sia bello”, non riuscì a frenarsi di comunicarle.

“Se tu pensi al cinema io penso al ristorante. Ti piace il sushi?”

Le scoccò un'occhiata ridicola.

“Non so nemmeno cosa sia, il sushi.”

“Allora sarà divertente.”

Clint aprì il pacchetto di patatine e gliene offrì una, come a suggellare il patto.

Si rese conto solo successivamente e con un certo orrore, che quello sarebbe stato il suo primo vero appuntamento con una donna.

 

*

 

Più che una sorpresa, il sushi si rivelò un disastro. Pesce crudo: avrebbe dovuto avvisarlo. Si chiese se fosse sano mangiare quella specie di guaina annerita attorno a quell'assemblaggio di riso e pesce tutt'altro che invitante. Sembrava di cartone.

“E questa roba la fanno anche pagare?” si ritrovò a commentare, mentre Barbara sembrava totalmente a suo agio con un paio di bacchette in mano.

“E a caro prezzo. Spero tu abbia portato la carta di credito”, Clint fece una smorfia. La vide allungarsi e versare sul suo riso di cartone un liquido scuro. “Provali con la salsa di soia.”

“Ah, adesso sì che sono invitanti”, cartone al guazzetto.

“Non essere così scettico: provali! Non vorrai restare digiuno.”

“Tranquilla, ci sono abituato. Davvero.”

Messa da parte la riluttanza, agguantò le bacchette. Cercò di imitare le mosse della donna e, con quelle, afferrò il pezzo di sushi: “Dai la cera, togli la cera.” commentò prima di infilarselo in bocca. Fu un'esplosione di sapori inediti. Inizialmente disgustosi, poi vagamente piacevoli.

“Questo sushi ti somiglia”, commentò a sorpresa, dopo aver inghiottito.

Barbara lo guardò in attesa di una spiegazione al commento, che però non arrivò mai.

“Ti lascio solo a sperimentare. Devo andare alla toilette.” annunciò qualche secondo dopo.

A vomitare? Si domandò Clint, ma non lo espresse a voce alta. Si limitò ad annuire e seguirla con lo sguardo. Aveva addosso una minigonna piuttosto... gradevole.

Si era reso conto di non averle nemmeno fatto i complimenti per come era vestita.

In realtà non aveva la minima idea se fosse necessario. In realtà... non aveva la minima idea di come ci si doveva comportare.

Si sentì rinfrancato dal fatto che dopo cena si sarebbero ritrovati in una stanza buia. E no, purtroppo non era una camera da letto. Jurassic Park li attendeva al varco. Lì, almeno, non avrebbe dovuto riempire il silenzio di stronzate pur di sentirsi a suo agio.

Aveva abbandonato l'idea di finire il suo piatto di sushi, quando si rese conto che Barbara si stava trattenendo alla toilette un po' troppo a lungo. Che si fosse sentita male?

Che fosse scappata? Non si sarebbe sorpreso in entrambi i casi.

Attese un'altra manciata di minuti, prima di decidersi ad andare a controllare. Appuntamento o meno, c'era qualcosa che non andava. Non voleva essere paranoico, ma aveva imparato ad annusare il pericolo quando ci si trovava a un passo di distanza.

Si diresse a passo spedito verso i bagni, prima di scoprire che erano inagibili. Il cartello sulla porta era accompagnato da un disegno di dubbio gusto che ritraeva un giapponese inchinato a mo' di scuse.

Dove diavolo si era andata a cacciare allora? Intravide la porta che dava sul retro. Nello stanzino accanto alle cucine. Uno stralcio di capelli biondi. I giapponesi... non avevano i capelli biondi.

Si avvicinò con discrezione. Voci ovattate.

Quando aprì la porta, di un solo spiraglio, Barbara era coinvolta in una conversazione piuttosto animata con un piccoletto dall'aria ostile.

Parlavano una lingua straniera. Giapponese. Orientale comunque.

Non ci volle molto a Clint per assistere al degenero dell'amabile dibattito. Il giapponese aveva cominciato a urlare e, in pochi istanti, un gruppo di cinque compari dagli occhi a mandorla era sbucato nello stanzino da chissà dove.

“Ma che cazzo sta succedendo?”

Barbara si era voltata, lanciandogli uno sguardo che era tutto un programma.

“Chiudi la porta!” si inasprì, senza dargli una spiegazione razionale.

Clint che non ci pensava minimamente a chiudere la porta, avanzò nell'attimo esatto in cui l'ometto scagliava il suo primo, letale colpo. Karate, Judo, qualsiasi fosse la tecnica era degna del migliore Bruce Lee in circolazione... tralasciando il non trascurabile dettaglio che Bruce Lee era cinese.

Il gruppo orientale di sostegno si concentrò su Clint, che non ebbe altra soluzione se non quella di venir coinvolto in una rissa di cui non aveva capito un accidenti di niente.

Picchio forte, picchiò duro. Non fu facile, un paio di calci erano andati a segno, ma per il resto le aveva prese senza un lamento. Barbara si concentrava sull'agile piccoletto. Non le ci volle molto per metterlo a tappeto.

Clint rotolò di lato all'ennesimo attacco e solo dopo aver valutato le distanze aveva scagliato loro contro una delle scrivanie che si trovavano nella stanza: un diversivo piuttosto efficace perché Barbara, che ormai aveva terminato il suo confronto, gli venne in aiuto, stendendo con un paio di straordinari calci rotanti (con tanto di visione celestiale di mutandine di pizzo nero), due degli occhi a mandorla del gruppo di sostegno.

Clint non ebbe difficoltà a completare l'opera con i tre restanti.

La conclusione fu: sei a zero per il duo occidentale.

I giapponesi erano stesi al suolo, privi di conoscenza.

“A-Adesso però me lo spieghi che cazzo è appena successo?”

“Chiudi la porta, non abbiamo finito.”

“Abbiamo?” domandò Clint, senza però farselo ripetere una seconda volta. Non era il caso di farsi scoprire proprio ora che avevano steso il probabile proprietario del ristorante e tutti i suoi dipendenti, consapevoli o meno.

“Se era per non pagare il sushi avremmo potuto trovare una soluzione migliore.”

“Taci”, lo zittì la donna che aveva tirato fuori quello che sembrava un floppy disk. Stava armeggiando con il computer sistemato su uno dei tavoli non coinvolti nello scontro.

Decisamente, se ancora avesse avuto qualche dubbio a riguardo, c'era qualcosa che non andava.

“Qualsiasi cosa tu stia facendo ti conviene muoverti. Uno dei giapponesi si sta svegliando.”

“E tu impedisciglielo”, si sentì rispondere, senza un ringraziamento.

“Questa è bella”, se per un attimo Clint aveva preso in considerazione l'idea di abbandonarla al suo triste destino, dall'altra fece ciò che gli veniva ordinato.

“Scusa amico, non so nemmeno perché lo faccio. Immagino un giorno mi ringrazierai. O anche no.”

Barbara aveva completato le sue misteriose operazioni.
“Andiamocene”, gli annunciò solamente, prima di sistemarsi alla bell'è meglio e uscire come se niente fosse dallo stanzino.

Clint si limitò seguirla. Pagarono la cena come se tutto fosse andato secondo i piani e un attimo dopo erano fuori all'aperto, a metri di distanza dal ristorante giapponese.

“Adesso pretendo una spiegazione”, Clint l'afferrò per un braccio per fermarla, per costringerla a guardarlo. Aveva perso la voglia di scherzare.

La donna gli lanciò uno sguardo di sfida, che però si perse un istante dopo.

“Dovevo monitorare una situazione”, fu la stringata risposta.

“Monitorare... e proprio stasera dovevi monitorare una... ?” Lo sguardo della donna, improvvisamente palesò la situazione “Ero la tua copertura?” o come diavolo la chiamassero allo SHIELD.

Barbara serrò le labbra e fece un cenno impercettibile con il capo.

La delusione nel suo sguardo doveva essere stata piuttosto evidente perché la donna cercò immediatamente un contatto fisico.

“Pensavo che tu, più di chiunque altro, avresti potuto affrontare una situazione del genere se fosse degenerata... per qualche motivo.”

Clint si scostò irritato.

“Bella roba. Avrei dovuto annusare odore di stronzata solo per la scelta del ristorante”.

“Clint, per favore...”

“Per favore un cazzo. Ma chi credi di essere?” si sentì stupido per il modo in cui era stato abbindolato. Gli aveva fatto credere chissà cosa e lui ci era cascato come un adolescente dagli ormoni impazziti. Per quanto non volesse ammetterlo, il pizzico di umiliazione maschile gli aveva dato la stoccata finale. “Mi chiedo perché abbia deciso di scartare la pessima impressione che avevo avuto su di te, al poligono. Mi ero persino dato dell'imbecille per quanto mi fossi sbagliato”, non era sicuro che vomitarle addosso tutta quel risentimento fosse consigliato, ma se c'era una cosa che non amava era essere preso in giro, a maggior ragione se si trattava di lavoro. Era convinto che servisse una buona dose di fiducia, in una professione come la loro.

“Avresti dovuto dirmelo.”

“No... non avrei dovuto.”

Clint rimase fermo a fissarla per qualche istante, aspettandosi una qualche spiegazione o delle scuse, che però non arrivarono.

“Spero almeno che la missione sia andata a buon fine”.

“In modo più... che soddisfacente”, fu la sua risposta.

“Se non altro qualcuno è rimasto realizzato dalla serata...”

“Clint...” se Barbara aveva altro da dire, Clint non le lasciò il tempo di finire la frase.

Lo spettacolo al cinema iniziava in meno di mezz'ora. La grottesca compagnia di giganteschi dinosauri in digitale gli parve di gran lunga preferibile.

Barbara Morse, come l'alfabeto, lo guardò raccattare il suo risentimento e svoltare l'angolo della strada a bordo di un taxi.

 

*

 

“La prossima volta che vuoi parlare di me a qualcuna delle tue amiche, assicurati che non lavorino per lo SHIELD”, Clint aveva abbandonato il cinema talmente soddisfatto dalla performance spielberghiana che avrebbe dovuto contattare un amico per raccontargli le strabilianti gesta di John Hammond* e clan dinosauro. Dato che la sua rete di amici era ancora piuttosto ridotta e l'unico che avrebbe potuto costringere ad ascoltarlo era Coulson, ecco che il giorno successivo si era trovato nella sala break dell'accademia dello SHIELD a parlare di eccellente cinematografia e... questioni misteriose da chiarire.

“Hai conosciuto Barbara?”

“Più che conosciuto... siamo usciti insieme.”

Coulson gli lanciò un'occhiata sospetta: “Oh, di già?” fece casuale, mentre si versava una tazza di caffè.

“Che cavolo vuoi dire?” Clint si era messo a sedere e lo stava fissando insistentemente.

“Non posso parlartene.”

“Scusa?”

“E' una... questione riservata.”

“Riservato cosa? Perché?!” lo additò “No, Cristo, non vorrai dirmi che era tutto programmato!”

“Non è come pensi, Barton.”

“Non penso un cazzo di niente. Perché qui, nessuno mi dice le cose come stanno. Mi ha usato come copertura. Per una roba con dei giapponesi in un ristorante dove nemmeno devono cucinare perché servono pesce crudo!”

“Non è il caso di diventare isterico.”

“Isterico?” sbuffò una risata nervosa. “certo che sono isterico! Parli di me a una che non so chi sia, che si scopre essere la mia nuova professoressa di informatica, che mi invita a cena dopo una mezza chiacchierata di fronte a una squallidissima macchinetta del caffè. Mi porta a mangiare poltiglia orientale condita di zuffa e furto. Tutti sembrano sapere che cazzo sta succedendo, tranne me, e dovrei anche non fare l'isterico?”

“Esatto”, lo liquidò candidamente Coulson “E' così che funziona qui.”

“Allora funziona proprio da schifo, se mi permetti...”

 

“Funziona tutto alla perfezione...” a parlare stavolta non era stato Coulson. La voce profonda e vagamente minacciosa poteva appartenere a una sola persona.

I due si voltarono entrambi nello stesso momento. Nick Fury li stava guardando. Con il suo unico occhio.

Clint si rimise in piedi, affatto sicuro di non essere sul punto di ricevere un foglio di via per la vaga calunnia appena perpetrata ai danni del sistema.

“Barton, vorrei invitarla nel mio ufficio... ora.”

Clint lanciò a Coulson uno sguardo piuttosto allarmato. L'uomo risolse la questione con il suo solito, ambiguo sorrisetto.

Una sola domanda sorse spontanea a Clint: che cazzo ci faceva Nick Fury all'accademia?

 

La mezz'ora che seguì quel colloquio gli aveva chiarito un paio di questioni piuttosto importanti.

Né Coulson, né la Morse, avevano colpe riguardo tutto quello che era successo con il marasma giapponese. Era stato un piano diabolicamente ordito da Fury.

Un test. Così lo aveva definito. Gli erano arrivate voci riguardo la smania del cadetto Barton riguardo la necessità di diventare operativo. Il direttore, che aveva già avuto modo di ricevere valutazioni positive a riguardo, aveva solo bisogno di una conferma.

E per averla, doveva accertarsi dell'affidabilità del ragazzo direttamente sul campo.

L'appuntamento, la missione della Morse, tutto organizzato. La donna avrebbe dovuto solo registrare la riuscita della missione (peraltro tutt'altro che simulata) e fare rapporto al direttore.

Fury aveva decretato l'attendibilità della relazione e preso la decisione di rendere operativo il neo nominato: Agente Barton.

Più facile di così.

Ora però doveva fare i conti con le conseguenze del suo isterismo: saltava fuori che avrebbe dovuto delle scuse a Coulson e alla Morse.

 

Per quanto riguardava Coulson sarebbe bastata l'offerta di pace di un caffè, per quello che concerneva la Morse, invece...

 

La trovò casualmente il giorno successivo che stava facendo colazione al bar di fronte all'accademia. Ciambelle e caffè. Niente di più americano di così.

Prese coraggio ed entrò nel locale. Senza dire una parola, né chiedere permesso si era seduto di fronte a lei, al tavolo.

La donna gli riservò uno sguardo sorpreso e poi comprese: “Fury ti ha già dato la bella notizia?”

Clint annuì.

“Inaspettata”, le rispose “Sono passato da cadetto a fare i turni di pattuglia. Una promozione di tutto rispetto.”

“Qui funziona per gradi. Non a tutti è concesso il passaggio successivo in così pochi mesi.”

Clint lo prese come un complimento. Ma non volle correre troppo.

“Spero un giorno di potermi destreggiare abilmente come te”, nella finzione. Ma quello lo tenne per sé. Barbara sembrò cogliere il sottinteso.

“Lo farai”, gli assicurò con un sorrisetto. “Imparerai a mentire e mantenere segreti ben più macchinosi di questo. Terrai la bocca chiusa, senza che nessuno debba costantemente assicurarsi che tu lo faccia.”

“Ha un che di vagamente spaventoso.”

“Paura delle responsabilità?” gli domandò.

“Chi può dirlo?”

“No, non credo tu ne abbia. O non avresti resistito fino ad ora”, eccola ancora lì, quella vena di supponenza. A seguito degli ultimi avvenimenti, gli dava un po' meno fastidio.

“Non ti pare di correre un po' troppo? Potrei avere solo un'alta, ma limitata soglia di sopportazione...”

“Non lo so... ti ho visto piuttosto impegnato con quei giapponesi, l'altra sera. Mi è sembrato che la situazione ti fosse congeniale.”

“E' che sono un maschio, lo sai che a noi maschi piace menare le mani, di tanto in tanto”, non gli toccò specificare che era solo una battuta, perché Barbara sorrise.

Sì, decisamente le rischiarava l'espressione.

“Bè, allora immagino che ci vedremo in giro, in veste di colleghi la prossima volta”, gli ricordò.

“Giusto”, Clint si fece meditabondo, “non l'avevo ancora vista sotto questa prospettiva. Potrebbe essere un problema...”

La donna gli lanciò uno sguardo obliquo: “Se sei ancora offeso per il modo in cui ho eseguito gli ordini del direttore Fury, bè...”

Clint alzò una mano per frenare la sequela di scuse o reclami più o meno violenti.

“No, mi chiedevo solo quale fosse la politica di rapporti interpersonali fra colleghi.”

Barbara aprì le labbra per dire qualcosa, ma le richiuse immediatamente. Clint si domandò se non dovesse essere un po' più specifico di così. “Mi domandavo cosa avessi da fare sabato sera.”

“Oh...” non era sicuro che un “oh” fosse una bella risposta.

Non si lasciò comunque intimorire: “Mi devi un cinema. E... un risarcimento in pasti decenti.”

La risata della donna sciolse di nuovo la situazione. “E questa volta il posto lo scelgo io.”

Barbara Morse, come l'alfabeto, lo guardò divertita e, porgendogli una delle sue ciambelle, suggellò il patto.

 

Clint realizzò che avere due appuntamenti di seguito con la stessa donna, e per di più nel giro di una settimana, sarebbe stato un record difficile da battere negli anni a venire.

___

 

 

*John Hammond: finanziatore e ideatore del Jurassic Park.
 
N.d.A: Capitolo più rilassato, anche perché persino un 'eroe' della Marvel ha bisogno di momenti tranquilli (più o meno) ogni tanto. Barbara ‘Bobbi’ Morse, è un personaggio Marvel a tutti gli effetti (per chi non ne fosse a conoscenza). Ex moglie di Clint Barton, agente dello SHIELD e membro dei Vendicatori.
Non ho seguito la trama (le mille trame) del fumetto, in questo caso. Ho solo preso in prestito il personaggio e l’ho elaborato a favore di storia. Non me ne vogliano i sostenitori!
 
Grazie di nuovo alla mia beta, alle new entry, a vecchi e nuovi lettori, e tutto il resto.
Per chi vorrà scoprire l'evoluzione dell'agente Barton nello SHIELD, li rimando alla prossima!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 [Marty & Elwood plus one] ***


CAPITOLO 7

[Marty & Elwood plus one]

 

 
Sono 126 miglia per Chicago. Abbiamo un serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio e portiamo gli occhiali da sole.”
(The Blues Brothers)

*

 

Correva da così tanto tempo che i polmoni avevano cominciato a bruciare.

Le sirene riecheggiavano assordanti per quei corridoi infiniti. Un paio di svolte e ce l’avrebbe fatta, forse.

Si era studiato la mappa, ne aveva memorizzato i tratti. Era sicuro di avere almeno un paio di soluzioni diverse a portata di obiettivo.

Quando svoltò l’angolo però, la porta che avrebbe dovuto essere aperta era già sbarrata. Andò a scontrarsi con un freddo muro di metallo.

“Merda!” esclamò, frenandosi bruscamente. Si volse, facendo per tornare sui suoi passi. Alle sue spalle lo scalpiccio di un certo numero di scarponi.

“Barton, mi copi?” la voce di Coulson dall’altra parte dell’auricolare.

“La porta del blocco 'C' è sbarrata”, gli fece presente la situazione.

“Che fine ha fatto Quinn?”

“Ci siamo dovuti dividere. E’ tornato indietro”, rispose con una certa stizza. Gli avevano assicurato che sarebbe stato il compagno ideale, ma lo aveva visto perdere il controllo così tante volte in quell’operazione, da averne perso il conto.

“Non c’è più tempo Barton, devi tornare indietro anche tu. Un paio di svolte, abbiamo già sbloccato i cancelli dell’area 4A.”

“C’è l’uscita da quella parte...”

“Appunto.”

“Che diavolo vuol dire?”

“Che la missione è appena abortita.”

Clint trattenne un gesto stizzito.

“Col cazzo! Non sono arrivato fin qui per niente!”

“Barton…” il tono condiscendente di Coulson non aiutava.

“No. Niente: Barton. Ci sono quasi.”

Il gemito di innegabile esasperazione dall’altra parte gli diede, però, una certa soddisfazione.

Individuò rapidamente la grata del condotto dell’aria condizionata. Se non poteva superare quella diavolo di porta nel modo tradizionale, si sarebbe fatto strada nel blocco successivo, strisciando.

“C’è una macchina che ti sta aspettando, Barton.”

“Ah sì?” Clint aveva mirato direttamente alla grata, facendola saltare con una freccia. “Non me ne volere, ma se non si tratta di una Mustang non credo accetterò il passaggio.”

“Barton che stai facendo?” Coulson doveva aver sentito il rimbombo della grata che cadeva al suolo. Le diede un calcio per allontanarla momentaneamente da occhi indiscreti. Lo scalpiccio sempre più vicino, adrenalinico.

L’arciere si munì di un’altra freccia, e l’uncino che ne uscì, gli fu utile per arrivare al soffitto e issarsi su per il condotto.

“Prendo un po’ d’aria, Coulson”, un po’ claustrofobico ma abbastanza ampio per poterci strisciare attraverso, con una buona dose di esercizio muscolare.

Cominciò a muoversi rapidamente. La faretra non aiutava il movimento. Avrebbe dovuto liberarsene prima di entrare lì dentro. Se lo appuntò per la prossima volta. “Se non mi affetto il culo stavolta, non succede più, sai?”

“Barton, ascoltami, devi abbandonare l’operazione. E’ la tua ultima occasione. Non sono sicuro di poterti assicurare un piano d’estrazione sicuro, se perderai altro tempo.”

Clint sentiva il sudore colargli giù dalla fronte e lungo la linea della spina dorsale.

“Vorrà dire che mi abituerò a farne a meno”.

“Non sto scherzando…” era forse preoccupazione, stavolta, quella che percepiva?

“Nemmeno io Coulson”, e poi con voce impostata: “Ti fidi di me?

“Non credo che citare Titanic giochi in tuo favore. E’ finito da schifo.”

“Per Di Caprio, sicuro.”

“Già, ma tu non sei Kate Winslet.”

“Forse dovrei farmi rosso.”

Dopo qualche metro sul ventre - che non aveva per nulla giovato a gomiti e ginocchia - decretò di aver raggiunto l’obiettivo. Le voci ovattate sotto di lui lo rassicuravano sul fatto che fosse arrivato a destinazione: la stanza del blocco C. L’ordigno che avrebbe dovuto estrarre o, in caso di soluzione estrema, disattivare. Le direttive erano state specifiche, riguardo il recupero, ma il piano B prevedeva la più ovvia delle soluzioni: se non riusciamo ad averla noi, nemmeno loro.

Il problema stava nel fatto che fosse Quinn - il suo inaffidabile partner - l’esperto artificiere.

Adesso si sarebbe trovato a improvvisare. Doveva ammettere che la cosa dava una spinta d'adrenalina alla faccenda. Da quando lavorava per lo SHIELD si era scoperto un sostenitore degli imprevisti.

“Barton…” se Coulson avesse pronunciato un’altra volta quel suo odioso cognome…

Senza pensarci due volte estrasse l’auricolare e se l’infilo nella tasca dei pantaloni. Un mossa azzardata e probabilmente altrettanto stupida, ma aveva bisogno di tutta la concentrazione necessaria.

Sbirciò attraverso la grata sotto di lui.

Quattro uomini. Due di questi – allertati dalle sirene e dalla sicurezza del palazzo - stavano caricando l’ordigno su un anonimo furgoncino grigio; gli altri due sorvegliavano il portone d’uscita. Non gli restava molto tempo.

Quando le porte furono aperte e il furgoncino mise in moto, decise fosse l’attimo esatto per attaccare.

Sganciò la grata con un calcio ben assestato. Non ci volle molto ai due vigilanti al portone per accorgersi della sua presenza. Era ancora in bilico fra la grata e il pavimento quando sentì risuonare gli spari. Deviò di lato appena in tempo e, mentre il furgone sgommava fuori, per la strada, Clint prese al volo due frecce, centrando, con un’unica scoccata, entrambi i malcapitati che si erano messi fra lui e l’obiettivo.

Furono a terra ancora prima di capire cosa li avesse colpiti.

Il bello doveva ancora venire.

Clint corse fuori dallo stabile, il furgoncino aveva già preso una bella distanza. Non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo. Non aveva ancora i super poteri di Flash e le macchine che gli stavano dietro non gli permettevano di avere una visuale limpida.

Individuò le scale esterne del palazzo di fronte. La soluzione gli sembrò ideale. Non si vantava del fatto di vedere meglio da una certa distanza? Si chiese se fosse possibile battere un record.

Si arrampicò rapidamente, macinando gradini a una velocità tale che sentì ogni muscolo teso nello sforzo. Saltò da una scalinata all’altra, cercando appigli più o meno solidi. Nell’arco di pochi minuti era arrivato al tetto del palazzo e aveva corso fino al parapetto.

Il furgoncino grigio ancora visibile, nonostante la distanza.

“Fa che scatti il rosso, fa che scatti il rosso”, l’unica vera preghiera che sperò venisse esaudita.

Un istante dopo, il furgone si fermò. Rosso.

Estrasse una freccia. Prese la mira.

Dietro il furgone si stava avvicinando una macchina. Doveva pensare velocemente.

La prima freccia finì dritta nel pneumatico della macchina, facendola sbandare abbastanza lontana dal furgoncino.

La seconda avrebbe dovuto permettergli di raggiungere l’ordigno all’interno del furgone.

Le macchine dell’incrocio cominciavano a fermarsi: presto sarebbe scattato il verde per il suo obiettivo.

Estrasse una freccia esplosiva: nessun’altra buona alternativa.

Nel momento stesso in cui il semaforo cambiava colore, la porta del furgoncino esplodeva con gran fragore.

Clint prese di nuovo la mira: i suoi occhi si fecero strada fra i palazzi, la cortina di fumo e le lamiera della porta divelta; irrigidì la schiena, rilasciò piano il fiato e scoccò la freccia. La sua ultima occasione.

La nuova esplosione che ne seguì fu la conferma che era riuscito nella sua impresa.

Le macchine attorno vennero spazzate via, dall’onda d’urto della deflagrazione.

“Boom”, fu l’unica cosa che riuscì a dire, prima che una scarica di mitra gli si abbattesse addosso.

Fu un miracolo non venir colpito. Riprese a correre come se avesse il diavolo alle calcagna, saltò da un palazzo all’altro, senza avere nemmeno il tempo di considerare le probabilità di rischio.

Vide una via d’uscita, agganciando una delle tubazioni per l’acqua piovana.

Si accorse troppo tardi che il palazzo non doveva essere soggetto a grandi controlli sulla qualità: il tubo si sganciò con la stessa facilità con cui si piega una cannuccia di plastica.

Liberò le mani e, quando si trovò a fluttuare nel vuoto, si preparò al colpo.

BOOM.

Il tettuccio dell’auto, che abbracciò la sua caduta, non fu magnanimo.

 

*

 

Aveva sempre odiato gli ospedali. Quell’odore di disinfettante e rancido. Odore di malattia e morte.

Lo scalpiccio delle infermiere. Il rumore dei macchinari. Quel beep fastidioso che ti entrava dentro e scandiva mostruosamente un tempo infinito.

Bobbi era stesa su quel lettino da quasi una settimana, e lui arrivava solo adesso.

Odiava il suo lavoro.

Il viso gonfio, pesto. I capelli biondi sparsi sulle lenzuola candide, cambiate di fresco.

Una missione finita male. Una distrazione che non faceva sconti.

E lui era dall’altra parte del mondo a giocare alla spia.

Sapeva di non essere nel torto, ma gestire tutto quanto, spesso gli risultava ancora troppo difficile. Glielo avevano rimproverato dopo il suo scatto d’ira per avergli così tardivamente comunicato l’incidente.

Gli avevano rimproverato il suo coinvolgimento emotivo. Che avrebbe dovuto imparare a gestire le sue stupide emozioni.

Il giorno che sarebbe successo, si disse, forse avrebbe smesso di vivere.

A volte sì, lo odiava davvero il suo lavoro.

 

*

 

Quando si svegliò, ore dopo l’incidente del tubo, Clint era steso su un lettuccio. La gamba ingessata di fresco. Un fastidioso collare a sostenergli la testa: non una posizione comoda.

Doveva aver sognato di nuovo. La sgradevole sensazione di aver ripercorso ricordi scomodi.

Un indolenzimento fitto, continuo, per tutto il corpo. Se non altro sapeva di essere ancora vivo. Non lo avrebbe dato così per scontato, stavolta.

Fece per muoversi ma, con la coda dell’occhio, vide qualcosa entrare nel suo campo visivo.

Coulson. Anche senza vederlo bene in viso, si capiva che era incazzato… incazzato nero.

“Ehilà”, lo accolse, senza azzardarsi ad alzare un braccio per un saluto. Aveva la netta sensazione che, se ci avesse provato, sarebbe schizzato in piedi dal dolore.

“Ehilà un corno. Hai idea dei casini in cui ci siamo infilati per venirti a recuperare?”

Oltre che incazzato nero, sembrava anche piuttosto isterico.

“Se siamo qui entrambi, significa che dopotutto è andata bene, n-no?”

“Sono una persona abbastanza a modo per non mandartici direttamente…”

“Dove… ?”

“Affanculo.”

Clint represse una risata che si trasformò in un attacco di tosse piuttosto doloroso: “Ah, m-merda…”

“Sì: merda. Ci sei dentro fino al collo.”

“L’arma è stata disinnescata?” gli domandò retoricamente, deglutendo a fatica.

“Per forza, è esplosa.”

“Allora la missione è riuscita, no?”

“Dovrei farti rapporto anche solo per esserti liberato del nostro auricolare.”

Clint sorrise: “Ma non lo farai.”

“E chi te lo dice?”

“Il fatto che mi vuoi troppo bene.”

“In realtà comincio ad odiarti.”

“Non è vero… sennò che ci faresti qui?”

“Magari sono venuto per soffocarti nel sonno”, Clint serrò le labbra, stavolta ben conscio che non gli sarebbe convenuto ridere di nuovo. “Sul serio, Barton. Devi smetterla di disobbedire agli ordini. Non potrò pararti il culo per sempre.”

“Non voglio che tu lo faccia”, e nel dirlo fu fin troppo sincero. Non voleva essere una responsabilità di Coulson. Non la sua spada di Damocle.

“E io non voglio trovarti stecchito o sbudellato la prossima volta che deciderai di fare di testa tua.” Clint represse una smorfia, e non per il dolore. “Lo so che quello di Bobbi è stato un duro colpo per te, ma non…”

“Non voglio parlarne, Coulson”, lo zittì bruscamente “E’ una questione chiusa.”

Coulson decise di tenere per sé il fatto che invece non lo era affatto.

Barbara ormai era fuori dalla sua vita, così come erano uscite dalla sua vita tutte le altre persone che aveva ritenuto importanti. La conclusione, per Clint, fu che la gente che giura il contrario è invece sempre e solo di passaggio. Un dato di fatto con cui avrebbe dovuto fare i conti, per sempre. Questa volta aveva solo trovato il suo modo di affrontare la perdita. O il suo ennesimo fallimento.

Dopo qualche istante di doloroso e imbarazzante silenzio, Coulson si congedò con un saluto smorzato. Non avrebbe fatto rapporto. E Clint si concesse il lusso di chiudere gli occhi e cercare di riposare. O di dimenticare.

 

*

 

Clint osservava le valige all’ingresso del suo appartamento, senza realizzare davvero quell’immagine.

Le levo di mezzo in una decina di minuti. Il taxi sta arrivando.” Bobbi si stava abbottonando il trench con una mano, mentre con l’altra recuperava gli occhiali da sole.

La guardò compiere quei gesti quotidiani senza registrare del tutto che sarebbe stata l’ultima volta che glielo avrebbe visto fare.

Non deve essere per forza tutto così… definitivo”, aveva sentito uscire quelle parole dalle sue stesse labbra, ma fu come se le avesse dette qualcun altro.

Lo sguardo di Barbara fu difficile da digerire.

A me sembrava di sì”, disse lei, irrigidendo i tratti del viso, “Non sono io quella inadatta a gestire le situazioni.”

Situazioni? Ti hanno massacrata. Che altra reazione pensavi che potessi avere?”

Non sono una principiante, e non siamo due ragazzini. Lo sapevamo entrambi a cosa saremmo andati incontro con un lavoro come il nostro. Lo avevamo messo in conto. Avevamo fatto un patto, il giorno che abbiamo deciso di andare contro i regolamenti e le convenzioni dell’organizzazione… poi… tu… tu hai sputtanato tutto.”

E’ solo perché ci tengo a te.”

In un rapporto come il nostro, tenere a una persona, significa anche fidarsi di lei”.

Ma io mi fido di te…”

Non mi sembrava una manifestazione di fiducia, quella di chiedere alla direzione di esonerarmi dal servizio.”

Non eri pronta a tornare operativa.”

E tu non avevi alcun diritto di immischiarti in faccende che non ti riguardano.”

Bobbi…”

Hai ancora un sacco di strada da fare Clint”, il tono da brusco si era improvvisamente smorzato, come a voler sedare quell'ennesimo confronto “puoi lavorare bene, puoi fare carriera nello SHIELD. Ma dovrai imparare a fidarti delle persone che ti sono accanto.”

E lo imparerò, Bobbi… ma… questo non ha niente a che fare con noi due…”

Ha esattamente a che fare… con noi due.”

Non riuscì a dire niente altro. La stoccata finale arrivò con il bacio d’addio.

Stammi bene, Clint”, la mano che accarezzò la sua guancia fu l’ultima cosa che avvertì prima del rumore della porta che si apriva.

Erano passati cinque anni. Cinque anni... ed ora tutto quello che gli restava, era una lezione di vita che avrebbe gettato nel cesso, non appena la porta dell’appartamento che avevano condiviso, si sarebbe chiusa alle spalle di Bobbi per l’ultima volta.

 

*

 

Non poteva credere si aspettassero sul serio che salisse a bordo di una sedia a rotelle.

Per andare dove, comunque? In giro per l’ospedale come una sorta di pilota di Go-Kart disabile?

“Voglio un paio di stampelle”, aveva reclamato la sua indipendenza, in bilico fra il letto e il comodino.

“Agente Barton, per favore…” l’infermiera vacillava fra il frustrato e il disperato.

“Giusto. Ha ragione: vorrei un paio di stampelle… per favore”, disse allora, le sole braccia a sostenerlo in quella situazione precaria.

“Non è questione di educazione, agente, non è ancora in grado di camminare…”

“E chi lo dice questo? Le cartelle cliniche? Lo saprò o meno cosa è in grado di sostenere il mio fisico, no?”

“Ma…”

“Che sta succedendo qui?” ci mancava solo il collega corpulento. Sembrava uno di quei messicani usciti direttamente da una cartolina. Baffoni e capelli neri come la pece.

“L’agente Barton insiste per avere un paio di stampelle”, l’infermiera sordidamente sollevata dal compito di dover gestire quella pigna in… [inserire orifizio qui].

Il messicano aveva preso in gestione la sua cartella clinica: “Qui è richiesto l’uso di una sedia a rotelle.”

Clint gemette in preda alla frustrazione.

“Mentre voi discutete su cosa cazzo dice una cartellina, io nel frattempo mi sto pisciando addosso!”

“Non c’è bisogno di essere così volgare, agente Barton”, lo redarguì il messicano.

“Per il cazzo o la pisciata? Sono sicuro siano due cose con cui avete a che fare quotidianamente entrambi.” Non fece in tempo a pensare alle implicazioni più o meno insinuanti della faccenda. Lui aveva inteso il tutto in senso… clinico. Se poi il messicano ci avesse visto qualcosa di offensivo nei confronti della sua virilità o della virtù della sua collega… bé erano affari suoi.

 

Pochi minuti dopo Clint era in giro sulla sua brava sedia a rotelle, controllato a vista da due infermieri furenti.

“Non riesco nemmeno a vedermi il piede sano su sta cosa”, borbottò fra sé e sé mentre raggiungeva il corridoio con l’ascensore. Si sentiva ridicolo. La gamba ingessata tesa come la prua di una nave. Capitan Occhio di Falco, aveva un che di poderoso. Se era esistito un Capitan America...

Su queste considerazioni profonde, pensò cosa ci fosse di male a lasciarsi andare all’avventura? L’occasione diventò improvvisamente succulenta.

Sbirciò i due infermieri intenti in una sobria conversazione: non lo stavano guardando. Alzò un braccio e chiamò l’ascensore. Lo maledì per la rumorosa segnalazione, una volta giunto a destinazione.

Agganciò le rotelle, e si spinse all'interno.

“Ehi! Dove crede di andare?!” la voce del messicano e i suoi passi in corsa gli suggerivano che lo avevano beccato.

Pigiò il pulsante del piano terra.

Le porte si richiusero su una serie di improperi, dove, era sicuro, il tanto decantato cazzo, la faceva da padrone.

Avvertì una sorta di provvisoria ventata di libertà, quando le porte dell’ascensore si aprirono sull’atrio.

Avrebbe fatto un figurone con le infermiere, su quella specie di mostro a due ruote e camicina da notte che, sul fondoschiena, non lasciava spazio all’immaginazione.

Si spinse lungo il corridoio, ignorando le occhiate curiose. Dopotutto aveva ancora permesso di andare a farsi un giro al tristissimo parco dell’ospedale, no?

Non era lì che i nipoti accompagnavano i nonni reumatici?

Si sarebbe sentito a suo agio su una sedia a rotelle.

La sua sicurezza venne meno quando individuò un paio di agenti dello SHIELD alla porta d’ingresso.
Stavano discutendo con un paio di tizi in giacca e cravatta dall’aria piuttosto austera.

La versione triste dei Blues Brothers, si ritrovò a pensare, mentre, passando oltre il bancone dell’accettazione, canticchiava a mezza voce Gimme some Lovin’: fingere indifferenza non gli era mai riuscito granché bene.

Raggiunse una posizione abbastanza comoda per godersi la diatriba. Non aveva ancora avuto modo di assistere a discussioni interessanti. Sentir parlare di medicinali, vomito e ferite purulente non era proprio un gran bel modo di distrarsi.

Coulson non era nemmeno più venuto a trovarlo. Anche se forse era meglio così, dopotutto.

“Non possiamo farvi parlare con nessuno, è una questione riservata”, stava dicendo uno dei tizi dello SHIELD. Marty, si chiamava, o così almeno gli pareva di ricordare.

“La questione riguarda lo SHIELD tanto quanto riguarda la CIA”, ribatté uno dei Blues Brothers. Clint decise di identificarlo con Elwood*, per la statura.

“Non più dal momento che non esiste più nessun ordigno da recuperare…” ribadì Marty.

Stavano per caso discutendo della missione che lo aveva visto coinvolto?

Se anche la CIA era interessata al caso, la questione sarebbe diventata un bel po’ più complicata.

“Dobbiamo accertarci di come si sono svolti i fatti… abbiamo un lavoro di cui rispondere”, disse Elwood.

“Anche noi abbiamo un lavoro, ed è quello di impedire che il nostro agente operativo venga disturbato per questioni che non riguardano la nostra organizzazione.”

Agente? Stavano parlando di lui? Commovente il modo in cui stavano portando avanti il dialogo solo per garantire la sua incolumità.

“Potremo procurarci un mandato!” Elwood.

“E’ una minaccia?” Marty (cominciava a piacergli, Marty).

“Può ben dirlo!” Elwood.

“C'è qualche problema?” no, questa volta non aveva un nome da affibbiare all’intervento fuori campo di un terzo incomodo.

“Signore…” Elwood aveva adottato un atteggiamento remissivo. Doveva essere arrivato un pezzo grosso.

“Volete spiegarmi, signori?” quella voce... improvvisamente non gli sembrò così estranea.

Clint si sporse per vedere meglio. La pianta di papiro, dietro cui si stava nascondendo come un ladro, non gli agevolava la visuale.

Poi tutto accadde così rapidamente che, se fosse stato un po’ più lucido, avrebbe sentito urlare al miracolo, al modo in cui scattò in piedi dalla sedia a rotelle.

Capelli rossi, schiena solida.

Quel viso non lo aveva mai dimenticato.

“BARNEY!” gridò.

L’istante successivo fu solo un groviglio di gambe e braccia di infermieri baffuti che cercavano di placcarlo.

In seguito, gli avrebbero raccontato di come avesse girato con le chiappe al vento per mezzo corridoio, prima di essere sedato come un animale.

Il tintinnio di cinque centesimi che cadevano al suolo.

Barney…

Forse, dopotutto, ogni tanto qualcuno era destinato a tornare.

___

 

*Elwood Blues: uno dei protagonisti dei Blues Brothers, interpretato da Dan Aykroyd.
 
N.d.A: Lunga è la strada, stretta è la via, dite la vostra, che ho detto la mia... e su queste note, ringrazio tutti coloro che hanno avuto il coraggio di farsi avanti per regalarmi un parere sulla storia, a chi, silente, si è solo fermato a leggere, a chi ci è inciampato dentro, inorridito gridando: non volevo, giuro!
Un ringraziamento speciale, come al solito a beta e socia di sventura: Hermione Weasley. Leggete le sue ultime fanfiction sugli Avengers, sono piccole, incredibili perle!
Per tutto il resto... c'è Tony Stark.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 [Barney] ***


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CAPITOLO 8

[Barney]

 
 
Un uomo può convincere gli altri di essere cambiato, ma non riuscirà mai a convincere se stesso.
(I Soliti Sospetti)

 

*

 

Clint scoprì che, oltre ad avere delle gravi difficoltà a camminare con le grucce, le scale sarebbero state un enorme problema per i giorni a venire.

Il gesso alla gamba, un impiccio non indifferente, era già stato adeguatamente scarabocchiato da un via vai d'agenti dello SHIELD che nemmeno credeva suoi sostenitori... o presunti amici. Coulson aveva condannato quell'infantilismo per poi disegnare il simbolo di Capitan America, proprio in corrispondenza dello stinco, tanto per gradire.

Il problema peggiore però era che prudeva. Quella maledetta gamba prudeva da impazzire. Ci aveva infilato dentro di tutto per fronteggiare il supplizio. Quando gli avrebbero tolto il gesso non si sarebbe stupito di trovarci dentro gomme, matite, monete da cinque centesimi e residui acuminati per combattere il prurito.

Adesso però doveva affrontare un problema ben più grosso: capire come uscire indenne dalla scalata.

Erano solo sei scalini, ma porco mondo come gli sembravano ripidi.

“Hai bisogno di una mano?”

Clint si volse giusto il tempo di alzare il dito medio: aveva detto che ce l'avrebbe fatta da solo, guai a rimangiarsi la parola data.

Barney lo osservava divertito, a pochi metri di distanza, accanto a quella lucida e austera macchinona nera di sua proprietà con la quale lo aveva accompagnato a... casa.

“Non aveva l'aria di un sì, vero?”

“Piuttosto mi faccio rompere l'altra gamba”, e su quel commento totalmente candido, Clint cominciò la sua ascesa verso la meta.

 

Era saltato fuori che Barney era diventato una specie di capo di una qualche sezione della CIA. Un posto di responsabilità non indifferente: stesse modalità di Clint, ma diverse direzioni.

Non avevano avuto molto tempo per parlare, ma quando Clint si era risvegliato, dopo essere stato abbattuto brutalmente per un sospetto caso di isteria post traumatica (o qualsiasi patologia gli avessero affibbiato), aveva trovato il fratello accanto al letto e, per un istante, fu come se non si fossero mai separati.

 

Com'è che sono passati tanti anni e tu stai sempre steso in un letto d'ospedale?”

Perché le vecchie abitudini sono dure a morire.”

Allora era vero che lavoravi per lo SHIELD.”

Hai chiesto di me...?”

Continuamente.”

 

L'appartamento di Clint era così come lo aveva lasciato: disastroso.

Da quando Barbara se ne era andata, le condizioni delle stanze, che in cinque anni avevano assunto una parvenza di ordine, erano tornate ad essere lo stesso identico caos dei primi tempi in cui lo aveva occupato.

La differenza stava nel fatto che, almeno stavolta, non c'erano scatoloni.

“La mia umile dimora”, aveva invitato Barney ad entrare, senza essersi risparmiato la fatica di farsi almeno un'altra rampa di scale. I giorni di inattività all'ospedale avevano minato un po' al suo fisico già acciaccato. Avrebbe dovuto ricominciare con gli allenamenti in palestra: Dio, se odiava gli allenamenti in palestra.

“Carina...” commentò Barney, entrando di soppiatto, quasi avesse timore di disturbare il caotico santuario del fratello.

Clint lanciò le chiavi sul bancone del cucinino e andò a stimare i danni della sua dispensa.

“Vuoi qualcosa da bere?” domandò casualmente.

“Che hai da offrire?”

Clint aprì il frigorifero: “Latte... scaduto. Un succo di frutta ai... frutti di bosco? (probabilmente è qui dall'anno scorso). Birra. Mezza birra.”

“Un bicchiere d'acqua?”

“Quello ce l'ho”, dichiarò soddisfatto dell'agevolazione, “oppure posso fare del caffè.”

Agitò esultante il barattolo ancora mezzo pieno (o mezzo vuoto?) che aveva trovato nella dispensa, accanto alla marmellata (muffita).

“Wow, qualcosa che non è defunto durante la tua assenza.”

“E' nei momenti di difficoltà che puoi fare affidamento sul... caffè.”

Barney sedette sullo sgabello accanto al bancone, Clint dovette reprimere un sorriso: possibile che una situazione mai vissuta potesse risultare tanto familiare?

“Allora è qui che hai deciso di mettere... radici”, fu il commento di Barney.

Clint recuperò due tazze: nemmeno a farlo apposta quelle dipinte con le lettere dell'alfabeto (una collezione che Bobbi doveva aver raccolto con i punti del supermercato). Mise di fronte a Barney quella con la lettera B. Per sé prese quella con la H*.

“Per il tempo che passo a New York almeno... sì”, gli rispose.

“Giusto... agente operativo Barton.”

“Lo fai suonare come se fosse chissà che titolo.”

“Bè, lo è. Un titolo. Non dirmi che hai ancora problemi a...”

“... gestire gli appellativi: sì, ne ho ancora.”

Barney gli sorrise. Nonostante una ruga d'espressione (ormai doveva avere trentatré anni) che gli solcava la fronte proprio in mezzo agli occhi, era lo stesso Barney di dodici anni prima.

La considerazione sul tempo lo prese alla sprovvista. Quante cose erano cambiate, in dodici anni? Tante, troppe. Gli ci sarebbero voluti almeno altri dieci anni per mettersi in pari.

L'aroma del caffè cominciò a invadere l'aria.

“Dimmi come mi hai trovato”, Clint adesso gli stava di fronte. La tazza fumante a completare il quadro.

“Non è stato facile. Sei stato un osso duro.”

“Io sono sempre un osso duro.”

Sorrisero entrambi.

“Ho provato a contattarti qualche giorno dopo essere partito dal circo di Carson, ma non mi sono arrivate risposte. Quando sono riuscito a parlare con qualcuno, mi hanno detto che te ne eri andato. Tu e il motorino scassato di Nigel...”

“Dio, Nigel, chissà che fine ha fatto quel povero diavolo?”, la mente divagò per un attimo, prima di tornare al presente.

“Non hai idea di quanto sia andato nel panico”, nel dichiararlo Barney gli aveva rivolto uno sguardo severo, non dissimile da quello di disapprovazione di quando erano ragazzini.

Per un attimo, Clint era tornato ad avere dodici anni: “Credevo sarei riuscito a raggiungerti, prima che partissi”, confessò a Barney.

“Hai avuto un tempismo di merda.”

“Lo so.”

“Avresti potuto aspettare, ti avrei detto come raggiungermi, ti avrei inviato dei soldi.”

“Non potevo aspettare.”

“Sei sempre stato troppo impulsivo”, lo squadrò a lungo “qualcosa mi dice che non sei cambiato neanche in questo.”

Clint soffocò il disagio in un sorso di caffè nero. Aggiungere che aveva imparato, in qualche modo, a gestire le attese... come arciere, sarebbe risultato fuori luogo.

“Bé, comunque...” Barney parve intenzionato a proseguire, cavandolo dall'imbarazzo. “Sono tornato indietro.”

Clint stavolta avvertì il senso di colpa stuzzicarlo insolente.

“Ho seguito il circo, per scoprire che li avevi veramente lasciati nella merda. Il numero di punta dello spettacolo era fuggito senza dare una spiegazione. C'è mancato poco che mi facessero la pelle...” su questo Clint non ebbe problemi a credergli. “Ho chiesto di te a chiunque, in città... finché un controllore alla stazione degli autobus non mi ha detto di aver incontrato un ragazzino... che corrispondeva alla descrizione e che aveva preso un autobus per Denver.”

“La prima tappa del mio viaggio”, commentò Clint.

“E la seconda del mio”, confermò Barney, “ma è stato a Denver che ho perso definitivamente le tue tracce.”

“Sono finito nel New Mexico, per un periodo.” Il periodo in cui, per tirare a campare, si era unito a un gruppo di ladri e spacciatori. Aveva imparato dei trucchetti niente male, in quegli anni, senza però sviluppare una grossa stima di sé. Questo non lo disse a Barney. E forse non aveva nemmeno bisogno di spiegarglielo. Barney era sempre stato quello intelligente, quello sveglio: doveva esserselo immaginato. Sentì di nuovo su di sé il suo sguardo.

“Mi sono reso conto abbastanza rapidamente che non avrei potuto passare al pettine tutti gli Stati Uniti, affidandomi solo al caso.”

“Speravo di raggiungere la California, per venirti a cercare personalmente.”

“E' lì che sono tornato. Speravo nella stessa cosa.” Barney bevve un sorso di caffè e si fece meditabondo. “Ho finito per arruolarmi nel corpo dei Marines e a lasciarmi travolgere da questa nuova vita. Pensavo che sarebbe stato più semplice cercare un fratello nell'esercito invece che per tutto il continente. Il campo forse si sarebbe ristretto.”

Barney lo guardò come a cercare una conferma alla sua convinzione. Clint annuì: “Mi sono arruolato anche io.”

“Questo ora lo so.”

“Sono stato in Iraq. Per un anno.”

“So anche questo. Ma sono sempre stato un passo indietro a te. Quando mi sembrava di averti raggiunto, eri già passato alla fase successiva.”

“Troppo veloce, mh?”

“Cazzo, sì... rapido come un falco.”

Clint sorrise appena del paragone. Anche se al momento, per come stava messo, gli sembrava un po' troppo forzato.

“E poi cosa è successo?” lo spronò a continuare.

“E poi sono entrato nella CIA. Nel senso...”

“Hai bussato e ti hanno aperto?”

Barney non riuscì ad impedirsi di sorridere: “Non ci avevo pensato, sai? Avrei dovuto provare, prima di farmi il culo all'accademia”, rispose a tono, scuotendo il capo, prima di tornare serio. “Ho studiato duramente. Ci ho lavorato... tanto. Vorrei dire che è stata solo bravura fine a sé stessa, ma no... era soprattutto questa spinta mostruosa che mi spronava a dare sempre il meglio”, il fratello lo guardò negli occhi per un attimo e Clint si sentì accartocciare lo stomaco: “Questo incentivo... eri tu.”

Gli ci volle qualche secondo per elaborare il colpo sleale.

“Quindi devi a me la tua strabiliante carriera”, si prese il merito a mo' di scherno. Barney non gli concesse la soddisfazione di una risata.

“In un certo senso sì.”

“Wow... è una responsabilità bella... grossa”, adesso era veramente in imbarazzo. Se mai nella vita si fosse trovato ad arrossire, quello era sicuramente il momento giusto.

Si sentì invaso da qualcosa di caldo, piacevole, che non aveva niente a che fare con il caffè bollente che stava scivolando lungo il suo esofago.

Qualcosa che non era sicuro sarebbe più riuscito a provare in modo così netto. Concreto. Sincero.

Si sentiva finalmente, di nuovo, parte di qualcosa di grande. Parte di una... famiglia. Una famiglia che ci teneva a lui.

E poi dovette di nuovo soffocare il pensiero oltremodo sdolcinato, ingollando un altro corposo sorso di caffè.

“Stai tentando di soffocarti?” Barney era balzato in piedi, quando Clint era esploso in una preoccupante sequenza di colpi di tosse. Gli aveva battuto una mano sulla schiena, finché non aveva smesso. “Sei veramente un coglione.”

Clint aveva mollato la tazza con la H accanto a quella con la B, tirando su con il naso.

Non seppe nemmeno come, l'attimo dopo, si era trovato ad abbracciare Barney come non faceva da quando erano bambini. Dai tempi in cui, da ragazzino, si rifugiava dietro di lui, terrorizzato dalle minacce del padre.

“Proprio un coglione”, lo sentì ribadire, avvinghiato nella sua poderosa stretta fraterna.

 

*

 

Barney aveva passato qualche giorno nell'umile dimora Barton. Avevano capito di avere ancora troppe cose da dirsi, da raccontarsi.

Avevano scoperto, nonostante la differenza di età, di avere fin troppi punti in comune, uno fra tutti la pessima abitudine nel non prendere sul serio le relazioni umane. Nello specifico: di avere serie difficoltà ad impegnarsi con una donna.

Clint pensava che i suoi cinque anni fossero stati un successo a confronto con le disastrose relazioni dell'altro. Si scoprì divertito dalla moltitudine di aneddoti che lo vedevano tristemente protagonista.

Per non parlare poi delle scelte personali riguardo la carriera. Nessuno dei due incline a vivere una vita tranquilla, ma piuttosto sempre sul filo del rasoio. Alcuni giorni più degli altri.

Clint gli aveva presentato Coulson, che, sebbene poco interessato a stringere amicizia con qualcuno della “concorrenza”, non si era risparmiato l'invito ad assistere almeno ad una delle partite di football della contea.

Tutto sembrò aleggiare leggero sopra una spessa coltre di polvere, finché non giunse un colpo di scopa che riportò a galla gli impegni di entrambi.

 

Barney aveva un volo per il Brasile. San Paolo. La sua presenza era richiesta per una missione super segreta di cui Clint non volle nemmeno sapere mezzo dettaglio.

Almeno dopo che Barney non gli aveva ripetuto, più volte, e con una certa tenacia, che non era autorizzato a parlargliene.

“Fatti sentire, mi raccomando”, l'esortazione, che giungeva da Clint, sembrava un po' ridicola.

“Il mio numero ce l'hai”, rilanciò Barney, “viviamo in un'epoca ricca di tecnologia, se non ti farai vivo tu, penserò che sei morto... oppure solo stronzo. A te la scelta della giustificazione più allettante.”

“Okay. Allora forse sarò morto.”

Barney gli aveva rifilato una sberla alla nuca: “Io opto sempre per lo stronzo.”

“Hai sempre la scusa buona per insultarmi.”

“E' il mio modo di dirti che ti voglio bene.”

“No, è il tuo modo di dirmi che galleggio...”

“Galleggi... ?” Barney aveva improvvisamente cambiato voce: “Cosa sei, un palloncino? Galleggiano... galleggiamo tutti.”

E sulle note stonate di una citazione di IT, Barney e Clint si diedero l'ultimo saluto, prima di separarsi di nuovo.

 

Passò molto tempo, prima che venisse loro concessa la possibilità di rivedersi.

 

*

 

“Barton, mi dispiace.”

“Ti dispiace cosa? Ti dispiace cosa, Coulson!”

“Non...”

La televisione mostrava chiaramente la scia annerita di un'esplosione. Fumo, fiamme e macerie. Un giornalista stava recitando il suo concitato sermone: un palazzo di San Paolo. Si stava tenendo una conferenza internazionale di grande portata, a cui era presente una vasta gamma di esponenti scientifici di tutto il mondo e una certa rappresentanza di organizzazioni segrete. Fra cui la CIA...

Barney.

Clint non riusciva a seguire una sola parola di quello che Coulson gli stava dicendo. Si stava scusando, ma scusando di cosa? Che c'entrava lui, in quello che stava accadendo?

“Avete una stima delle vittime?”

“Non lo sappiamo ancora...”

“I responsabili? Avete una vaga idea? Un indizio? Siamo o non siamo un'organizzazione antiterroristica?! A che cazzo serviamo se non riusciamo a capire chi diavolo ha fatto una cosa del genere?!”

Clint adesso stava urlando: il panico lo aveva investito, dapprima sottile come una nebbia e, poi, innescandosi, aveva prodotto una miccia che era culminata in un'esplosione.

C'era suo fratello là in mezzo, avrebbe potuto essere rimasto coinvolto in quell'orrore. Perché Coulson non aveva nemmeno una stracazzo di risposta?

“Agente Barton...” la voce alle sue spalle, adesso, era quella del direttore Nick Fury.

Si voltò con la stessa furia con cui aveva pronunciato le sue ultime parole. L'espressione del direttore, però, riuscì a placarlo.

“Ho delle risposte per lei, ma voglio che si calmi.”

Calmarsi... parlava facile lui. Non poteva vedere che mezzo problema, con quel suo unico occhio sano.

Si sentì poi immediatamente in colpa per la considerazione del tutto fuori luogo.

Però c'era Barney che...

“Sfogarsi tra di noi non è salutare. Ma questa sua energia potrebbe tornare utile allo SHIELD, sfruttarla per aiutarci in un caso che sta diventando sempre più critico.”

Clint lo squadrò con un certo scetticismo, poi, divenne curioso.

“Di che si tratta... ?” indagò allora, sedato e determinato.

“Di catturare il figlio di puttana che ha fatto questo.”

Clint lanciò un ultimo sguardo al televisore. La voce del cronista solo un mormorio confuso.

Catturare il figlio di puttana che aveva messo in pericolo l'incolumità di suo fratello?

Si rese conto di avere i pugni chiusi in una morsa dolorosa.

Non chiedeva di meglio.

___

 

*Hawkeye: nel fumetto scritto da Matt Fraction, disegnato da David Aja, Clint possiede una tazza simile.
 
N.d.A: E da qui in poi la storia si “complica” un po', perché entreranno in gioco altri personaggi, e i collegamenti si faranno più serrati.
Che dire, se non rinnovare i ringraziamenti a chi sta leggendo, a chi mi ha fatto sapere, in via privata, le sue opinioni sulla storia, e in ultimo, ma non meno importante, i dovutissimi alla socia/beta (sì, la ringrazierò in ogni capitolo.)
E con questo... vi lascio alla prossima.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 [La Vedova Nera] ***


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CAPITOLO 9

[La Vedova Nera]

 

“Lei è... be', lei è... in un certo senso, un po'... strana. È una cosa che risalta subito. Non è una donna come tutte le altre. Sembra... chiusa, perduta in se stessa. Sola. In un mondo che si porta profondamente dentro, ma circondato da un altro mondo, di gran lusso.”
(Il Bacio della Donna Ragno)

 

*per leggere la traduzione in italiano, dal russo, passare il mouse sulla frase in questione.

 

 

*

 

Vedova Nera: un soprannome appropriato, pericoloso. Un presuntuoso fardello, fatto di sottintesi specifici.

Abilità specifiche.

Un’assassina.

Una spia russa.

Clint aveva imparato a conoscerla attraverso i files dello S.H.I.E.L.D. Le fotografie, i filmati, i rapporti che ne descrivevano gli spostamenti, le modalità d’azione.

Avrebbe dovuto fare a lei ciò che la donna riservava alle sue vittime.

Era la prima volta che l’organizzazione gli chiedeva espressamente di uccidere qualcuno: era brutalmente tornato ai suoi trascorsi di guerra.

Un cecchino.

 

Il compito non lo allettava.

All’inizio si era tenacemente aggrappato alla rabbia che aveva provato nel sapere Barney coinvolto nell’attentato a San Paolo. Spinto al limite nella pianificazione del suo disumano obiettivo, finché  non aveva scoperto che il fratello non era fra le vittime, che non risultava nemmeno fra i dispersi, che a quel convegno non aveva partecipato mai. Si era semplicemente volatilizzato.

Come lacrime… nella pioggia…*

C’era in corso un’indagine. Qualcosa di grosso.

La rabbia nei confronti del responsabile dell’attentato era conseguentemente scemata, soffocata dalla punta di sollievo nel sapere Barney fuori pericolo (ma non dai guai).

Non avrebbe comunque potuto dire a Nick Fury che se ne tirava fuori. Lavoro è lavoro. E lui era un agente dello S.H.I.E.L.D. Uno dei cecchini più abili dell’organizzazione. Forse il migliore… sicuramente il migliore.

 

Aveva fatto le valige in una notte, il jet lo aveva portato lontano.

Ed ora stava osservando una donna - una ragazzina - chiedendosi se fosse giusto, se fosse concesso consumare un delitto tanto rapido, senza pagarne conseguenze divine.

Non era armata. Una sfida impari.

La teneva sotto mira da almeno una decina di minuti. Era appena rientrata nella squallida camera d’hotel che aveva prenotato sotto falso nome, almeno un paio di giorni prima.

Il pallido profilo, i capelli rossi come il fuoco a fare a cazzotti con il colore verdognolo dell’atroce carta da parati.

Aveva studiato la stanza, e l’aveva aspettata.

Non aveva preventivato di trovarla in quelle condizioni: il ritmo discontinuo dei suoi passi gli suggeriva che stava zoppicando. Da una parte all’altra della camera da letto: dall’armadio, al letto, al borsone e ritorno. Cercava di muoversi rapidamente, di mettere insieme tutte le sue cose, come se avesse improvvisamente fretta di andarsene, ma qualcosa le impediva di muoversi in modo agevole.

Il viso nascosto dalla massa di sfacciati capelli rossi: una sfida aperta, sotto gli occhi di tutti.

Prese la mira e… aspettò. Di nuovo.

Lavoro è lavoro, Barton.

Lavoro è uccidere la gente? Era l’insegnamento che aveva ricevuto anche nell’esercito. Ma durante una guerra c’è un nemico. E quel nemico è perfettamente consapevole che dall’altra parte della barricata c’è sempre un avversario.

Le guerre non sono mai giuste, si disse, ma in quello che stava facendo c’era più ingiustizia della somma di mille guerre.

Era questo lo S.H.I.E.L.D? Un’organizzazione di criminali? Che uccidevano bambine? Non si supponeva che fossero loro, i buoni?

Una serie di considerazioni filosofiche che lo avevano portato fuori strada, per qualche fatale secondo...

La Vedova Nera era sparita dalla visuale.

Assottigliò lo sguardo, cercandola per la stanza. Il borsone ancora aperto, sul letto. Dunque lei era ancora lì, da qualche parte. Dove diavolo si era andata a nascondere?

Attese un’altra mezz’ora. E poi… decise che era arrivato il momento di andare a prenderla.

Accettò il compromesso come una benedizione. Forse non avrebbe dovuto sopportare la colpa di un confronto squilibrato.

Raggiunse l’hotel arrampicandosi su per il cornicione. Si chiese se non dovesse tornare al circo, data la frequenza con cui si trovava ad affrontare barriere architettoniche non convenzionali.

Sbirciò all’interno della stanza dalla finestra laterale, quella che dava sul cortile interno dell’hotel. Nessuno. Nemmeno sotto al letto. Nemmeno dentro l’armadio spalancato.

Armeggiò con il chiavistello: gli tornarono utili i furti di gioventù. La finestra si aprì con un rumore ovattato. Entrò cautamente, aguzzando i sensi. La camera era vuota. Non la presenza di qualcuno, nascosto dietro qualche anfratto.

Il rumore della doccia, nel bagno adiacente, gli diede un grosso suggerimento.

Si armò preventivamente, evitando di farsi trovare impreparato.

La porta socchiusa del bagno gli dava una visuale sufficiente per rendersi conto che era lì che albergavano le ultime tracce della Vedova Nera.

Si appostò su un lato della porta. L’acqua ancora scorreva nella vasca/doccia. Un telo di plastica a motivi floreali, a coprirne l’intimità.

Sul lavandino delle garze sporche di sangue. E del filo nero.

Aveva provato a ricucirsi una ferita? Clint realizzò che forse stava messa peggio di quanto immaginasse.

Questo gli avrebbe facilitato il compito.

E allora perché, mentre stava lì a pensare alle modalità d’attacco, sentiva la compressione dell’ansia a bloccargli lo stomaco?

Dovette ricordare a se stesso di essere lì per lavoro. E che quella persona era una criminale. Un’assassina. Una terrorista.

Spinto da quell’improvviso slancio, spalancò la porta del bagno senza esitazione. Scoccò la freccia, indovinando il profilo della ragazzina, oltre il telo di plastica.

Un rumore ovattato gli assicurò di aver fatto centro. Centro su che cosa, però, non seppe dirlo.

Non era certo quello il rumore che faceva un dardo nella carne viva di un essere umano.

Accorse a verificare, scostando il telo. Dietro di esso un assembramento di asciugamani su una gruccia.

Nel momento stesso in cui realizzava di essersi lasciato giocare come uno stupido principiante, l’attacco giunse dal soffitto.

Alzò appena lo sguardo, vedendosi calare addosso la furia fatta a persona. Si sentì agganciare il collo nella morsa di muscolose cosce da lottatrice.

Non provò nemmeno a divincolarsi. Fu abbattuto con una rapidità tale da non rendersi nemmeno conto che  non era la stanza a girargli attorno, semmai il contrario.

Solo quando sentì la trachea scricchiolare nello sforzo di combattere il soffocamento, ebbe la forza di reagire. A costo di rischiare, nella macabra alternativa, di spezzarsi l’osso del collo.

Agganciò la ragazza con le braccia e con un colpo di reni si rimise in piedi, in qualche comica maniera. Procedette a ritroso per qualche metro, abbattendosi con un tutta la forza che gli restava sulla parete retrostante.

Sentì il suo fisico cedere al contraccolpo, ma come funzionò però lui, anche la ragazza parve risentire della botta.

La sentì scivolare via. E l’ossigeno riprese a circolare nel suo corpo.
Tossì un paio di volte nello sforzo di incanalare aria, ma si affrettò a recuperare padronanza di sé. La Vedova Nera era ancora vigile e fiera. Incazzata come un gatto selvatico.

La vide prendere la rincorsa, pronta a un secondo attacco - per quando le sue malandate condizioni glielo concedessero - ma stavolta fu lui più rapido. Alzò una gamba e le assestò un calcio dritto nel ventre, spedendola per direttissima, in volo planare, dall’altra parte del bagno.

La vide accasciarsi al suolo. Questo, se non altro, gli diede tempo di riprendere un po’ di fiato.

Recuperò arco e frecce, miserevolmente sparpagliati per il pavimento.

Forse adesso avrebbe potuto concludere il fattaccio.

Lei alzò gli occhi nel momento esatto in cui Clint le puntava una freccia contro. Una freccia che, da quando era partito, aveva già virtualmente il suo nome scritto sopra.

La scrutò di nuovo, per un istante. Il viso tumefatto, un occhio nero e un taglio trasversale sulla fronte. Se lo era ricucito alla bell’è meglio ma aveva ripreso a sanguinare.

Era fradicia e infreddolita per il contatto con l’acqua della doccia. A coprirla solo una leggera canottiera e un paio di mutandine. Sulla coscia una spessa garza impregnata di sangue.

Non poteva avere più di quindici anni. O forse appena meno di venti. Per la prima volta in vita sua, Clint non riuscì a darle un’età, anche se approssimativa.

Respirava a fatica, il trucco – probabilmente usato per uno dei suoi travestimenti – le colava scomposto dal viso. Il mascara, una comica ombra attorno agli occhi.

L'avevano conciata per le feste. Qualcuno che si era fatto meno scrupoli di lui a massacrarla.

Provò una spinta di solidarietà non richiesta. Una dolorosa rimembranza dei suoi trascorsi infantili.

“Non una delle tue giornate migliori, temo”, pronunciò prima che potesse impedirselo.

Dal guizzo consapevole nello sguardo ostile di lei, comprese che capiva la sua lingua.

Una delle qualità che erano emerse dallo studio del suo profilo.

“Tu dovresti sbrigarti…” la sentì dire, il vago accento russo ancora presente. Forse le ci sarebbe voluto più di qualche scambio di battute per affinare la pronuncia.

“Ah sì? Non mi sembrava avessi così fretta di morire, prima.”

“Chiudi la faccenda, amerikanskiy”, mormorò lei, inspirando a fondo. Una smorfia rivelò la sua fatica nel farlo. “Prima che loro qui.”

Clint inarcò un sopracciglio, avvertendo una leggera nota di panico, nella sua voce.

“Loro? Loro chi?”

“Loro. Persone che mi cercano. Credi di essere… solo?”

No, probabilmente non era il solo.

“Ti hanno conciato loro, così?”

La ragazza piegò le labbra in un sorriso storto.

“Messi peggio loro”.

Clint non faticò a crederci. Ancora gli faceva male deglutire, dopo la morsa letale della sua presa d’aracnide.

“Chi sono queste persone?” forse avrebbe potuto trarre un quadro generale della situazione. Una ragazzina non poteva agire da sola. Chi erano i mandanti dei suoi attentati? Dei suoi omicidi? Lo S.H.I.E.L.D. non avrebbe preferito avere delle risposte per recuperare il pesce grosso, invece di avere solo il cadavere di una ragazzina sulla coscienza?

“Finisci, amerikanskiy”, lo spronò di nuovo. Non una parola di condanna uscì dalle sue labbra.

Lo sguardo ostile mitigato da un accenno di quella che sembrava una supplica? Si rese conto troppo tardi della chiazza purpurea che si stava allargando sotto di lei.

La gamba aveva ripreso a sanguinare… stava letteralmente grondando.

La Vedova Nera perdeva man mano colore, dietro gli strati di fondotinta e mascara colato.

“Non dovresti difendere le persone che stanno cercando di farti fuori”, le disse, guadagnandosi uno sguardo disgustato.

“Voi americani, sempre parlare troppo.”

Lo prese alla sprovvista, quando la vide fare un ultimo sforzo e rimettersi in piedi. Gli occhi inumiditi di lacrime di dolore… o di frustrazione. O entrambi.

“Finisci”, esalò un’ultima volta, avvicinandosi al dardo ancora puntato nella sua direzione.

Clint, che per un tremendo istante aveva dimenticato di essere lì per lavoro: non riusciva a farlo.

Chiamatelo istinto, chiamatelo sesto senso. Sentì che ucciderla, in quel momento, con quella patetica immagine negli occhi, sarebbe stato mostruoso.

Una ragazzina, continuava a ripetersi. Un pensiero fisso, martellante, nella testa. Quella sensazione lo avrebbe tormentato per tutta la vita. La sua coscienza ne avrebbe pagato il caro prezzo… per sempre.

La vide aggirarlo cautamente, le mani di lei a cercare un appiglio, aggrapparsi alla sua maglia, affondare le unghie nella sua pelle.

“Prego”, soffiò a un passo dal suo viso: supplicante, esile, fragile. Se di nuovo, da una parte il giudizio gli suggeriva di non fidarsi, dall’altra sembrò alimentare il suo desiderio di sfida. Era sincera? O si stava solo prendendo gioco di lui? Dove voleva andare a parare quella ragazzina cresciuta troppo in fretta? Vittima travestita da carnefice.

Vedova Nera.

Il soprannome a decretare abilità specifiche.

Circuire, inibire, colpire.

Lei aveva annusato la sua esitazione e ne stava traendo vantaggio.

Sentì la sue mani scivolare lungo il suo ventre a cercare l’aggancio ai suoi pantaloni.

Vedova… Nera.

Ripeté mentalmente, prima di sentirla irrigidirsi. Di avvertire, netto, il cambio di atmosfera.

Era di nuovo pronta all’attacco. Nonostante il sangue disperso, nonostante i muscoli distrutti.

Clint ricordò una lezione: mai sottovalutare la disperazione altrui.

Può diventare un’arma letale.

Contrattaccò prima di poterlo realizzare. Un colpo secco, alla nuca, con l’arco.

La Vedova Nera cadde al suolo senza un lamento.

Spakòynay nòci”, mormorò a fatica - in onore di chi, il russo, aveva provato ad insegnarglielo - da una parte soddisfatto di aver vinto la sfida sul filo di lama, dall’altra dandosi mentalmente dello scemo per averle permesso di spingersi tanto oltre.

Non fosse stata messa così male, non era affatto sicuro che avrebbe avuto la meglio. Doveva ringraziare la sua buona stella, più che il suo impulso del cazzo.

Dovette ragionare in fretta su cosa fare del suo successivo quarto d’ora.

Il lavoro era stato svolto con modalità vagamente diverse da ciò che gli era stato richiesto.

 

*

 

“Non ne caveranno un ragno dal buco.”

Maria Hill, nuovo agente di grado superiore allo S.H.I.E.L.D, uno dei più giovani (straordinariamente giovani) e novelli tirapiedi di Fury, stava tenendo d’occhio Clint da tutta la mattinata, in quello stanzino buio, a monitorare a distanza l’interrogatorio della Vedova Nera o, a scelta, della spia russa Natalia Romanova.

Lo schermo che rimandava le immagini dello stanzino in cui era rinchiusa la ragazza, doveva essere del secolo scorso, l’immagine era sgranata e continuamente disturbata.

“Con tutti i mezzi di cui dispone lo SHIELD…” Clint si trattenne dal dare un colpo alla televisione.

“E’ una stanza di fortuna”, gli spiegò la Hill, sebbene sapesse che non era proprio necessario farlo.

“E’ dentro da quasi sei ore… prima o poi parlerà”, cercò di convincersene o di convincere la donna. La soluzione non poteva essere differente, ne andava della sua credibilità.

Si era esposto in prima persona, difendendo a spada tratta la sua teoria, secondo la quale, la Vedova Nera li avrebbe aiutati più da viva… che da morta.

Anche se era convinto che Fury, lì per lì, fosse più che deciso a uccidere lui.

Lo aveva affiancato ad uno dei suoi migliori agenti però, giusto per fargli provare il brivido della detenzione temporanea.

Sbuffò infastidito, passandosi una mano fra i capelli: era da ventiquattro ore che non si concedeva il meritato riposo.

Avrebbe dovuto subire lo stesso trattamento della sua vittima, senza avere niente altro da offrire che le sue scuse.

Scuse che, fra l’altro, non era affatto propenso a sganciare, fermamente convinto com'era di aver agito nel giusto. L'aveva scorta, la sua paura. Le persone con cui aveva a che fare non erano dei gentiluomini. Era convinto che avrebbe preferito di gran lunga morire per mano di uno sconosciuto, piuttosto che sotto il torchio di quegli innominabili boia.

Natalia doveva comunque odiarlo, ma se non altro non lo avrebbe tormentato dall’aldilà.

Notò che la porta della stanza degli interrogatori si apriva. Coulson aveva fatto la sua parte, adesso toccava a un corpulento uomo dall’aria tutt’altro che amichevole.

“Che hanno intenzione di fare?”

“Costringerla a parlare. Stesso obiettivo, diverse modalità.”

“Ma se non si regge in piedi?”

“Il fatto che sia ancora sveglia dopo sei ore di torchio, ci dice il contrario, Barton.”

“Non avrai intenzione di permettere che picchino una donna?”

La Hill gli lanciò uno sguardo affilato: “Ma per chi diavolo ci hai preso?”

Clint dovette mordersi la lingua per impedirsi di dire che, solo qualche ora prima, l’ordine era quello di uccidere… quella stessa donna.

Qualcuno aveva bisogno di rivedere le sue priorità.

“Avreste almeno potuto coprirla meglio…” si ritrovò a borbottare, per mitigare la figuraccia. Dopo la rapida visita medica, la ragazza ancora indossava nient’altro che la sua biancheria e una giacca dello SHIELD sulle spalle.

Si trovò a rilasciare il fiato, esausto dalla tensione, quando vide l’omaccione oltre lo schermo sguainare un macchinario pieno di pulsanti e lucine.

“E’ una macchina della verità?”

“Grande intuito, Barton.”

“Non ne ho mai vista una così… ma non funzionerà se la ragazzina non ha intenzione di parlare.”

“L’agente Anderson sa essere piuttosto persuasivo.”

Clint, stavolta, si astenne dall’esprimere il suo disappunto.

 

*

 

Era arrivato a pensare di essere simpatico al direttore Fury. Dopo quasi otto ore chiuso in uno stanzino in un’alternanza fra agente Hill, agente Mills, agente Anderson, e ritorno, finalmente gli aveva concesso la libera uscita.

Aveva bisogno di un letto, un divano, qualcosa che desse sollievo alle sue membra distrutte.

In più era convinto di aver cominciato a puzzare.

Date le direttive che però non gli permettevano ancora un rientro casalingo, decise quantomeno di essersi guadagnato una tazza di caffè.

Raggiunse l’area break della centrale e fu lì che trovò Coulson. Un balsamo benefico.

L’uomo però lo accolse con uno sguardo severo.

“Non anche tu”, dichiarò Clint, sull’esasperato andante. Notò il proprio riflesso attraverso il vetro della porta a scorrimento. Aveva due occhiaie orribili.

“Non ho detto nulla stavolta.”

“Il tuo sguardo parla per te…”

“Allora permettimi di aggiungere che ringrazio di non essere complice dell’operazione… mi hai risparmiato un sacco di scartoffie.”

“Scartoffie che dovrò riempire io.”

“Te lo meriti.”

“Non ti sembra abbia subito abbastanza ore di punizione, per un giorno?”

“Ti ci vorrebbe almeno un mese…”

Clint si versò il caffè e cercò la panna, frugando fra le varie opzioni nella scatolina dei dolcificanti.

“Ha parlato, alla fine?” ovviamente si riferiva a Natalia.

“Pare di sì…” Clint rivolse a Coulson uno sguardo interrogativo, “Le conviene collaborare. Fury ha accennato a uno scambio. Non so cosa intendesse. So che stavolta ha circoscritto la faccenda a pochi fidati agenti. Nessuno deve sapere che abbiamo in consegna Natalia Romanova. O come diavolo si chiami veramente.”

“Ha intenzione di eliminarla? Farla evaporare per il tubo di scappamento della centrale?” non era quello il motivo per cui l'aveva risparmiata. In realtà i motivi per cui lo aveva fatto non era poi così facili da spiegare, su due piedi.

Coulson scosse la testa: “Credo che Fury abbia intenzione di arruolarla. Per aiutarci a catturare tutti quei dottor morte.”

“Scusa?” Fury era completamente andato fuori di cervello. Forse era proprio per questo che gli piaceva. Dopotutto aveva seguito il suggerimento che gli aveva dato. O no? “Quella lì è letale come una pantegana in un sacco di juta”, Clint non era molto bravo con i paragoni.

“Allora forse a Fury piacciono le… pantegane.

“Lo facevo più uno da pappagallini. Sai, gli inseparabili.”

“A proposito di inseparabili… credo che persino tu, sia coinvolto in questa malsana operazione.”

“Io?”

“Tu. Dopotutto sei stato tu a dare il via a tutto questo.”

“Ho solo completato un lavoro a modo mio.”

Coulson annuì: “Ed ora sei chiamato a rispondere delle conseguenze.”

Clint pensò che, dopotutto, non c’era ancora abbastanza panna nel suo caffè.

 

 

Era la quarta volta che passava di fronte alla stanza degli interrogatori e ben la decima volta che chiedeva alla Hill il permesso di entrare.

La risposta era sempre stata un secco: no.

Nello specifico, l’ultimo ‘NO’ era stato gridato in un attacco di esasperazione violenta.

Clint si era eclissato per mezzo minuto, e poi era tornato all’attacco, poco prima del cambio di turno.

Se la Vedova Nera era ancora una sua questione, allora tanto valeva parlarci.

Riuscì nell’impresa. La Hill si era allontanata giusto una frazione di secondo.

Clint aveva agganciato la porta ed era entrato nella stanza degli interrogatori con una rapidità tale da far rimbombare l’intera stanza.

Natalia lo stava fissando.

Dobroye utro” esordì con un gesto della mano del tutto inappropriato.

La ragazza, ovviamente, non rispose. Però lo aveva riconosciuto. L’espressione di disgusto ancora lì, presente e tangibile.

“Scusa, è un sacco che non mi esercito con il russo”, si scusò preventivamente, giusto per farle capire che non aveva intenzione di prenderla in giro, non subito, per lo meno.

“Lo so che sei incazzata. Lo sono anche io”, continuò a parlare allora. “Sono quasi due giorni che non dormo.”

Le si era seduto di fronte. Le mani di lei saldamente bloccate al tavolo da un paio di solide manette. Si sentì piuttosto al sicuro.

Era ancora conciata da schifo. Ma la ferita alla fronte era stata ricucita a dovere (non si sarebbe vista nemmeno la cicatrice) e lo zigomo pesto, che le si stava sgonfiando, aveva assunto un bel colore violaceo.

La gamba non riusciva a vederla ma... era sicuro avessero rimediato anche a quel problema.

Adesso non sembrava così letale. Incazzata, ma innocua. E probabilmente riusciva ad restringere il campo riguardo la sua età. Dai sedici ai diciotto, a seconda delle variabili.

Forse la ragazza si aspettava che anche lui le facesse qualche domanda, perché rimase in paziente attesa, con un’aria di sfida tutt’altro che concessiva.

“Tranquilla… non sono qui per un interrogatorio”, mise allora subito in chiaro, “e nemmeno per giocare ad agente buono, agente cattivo. Anche perché per farlo da solo dovrei soffrire di un qualche disturbo di personalità piuttosto preoccupante.”

La ragazza seguitava a tacere. La sua espressione ora mitigata da un accenno di perplessità.

La scrutò per qualche istante, ancora formalmente colpito da come una ragazzina così giovane avesse potuto creare danni così consistenti ad alcune delle organizzazioni più in vista dell'intero pianeta. Si scoprì curioso di conoscere i trascorsi di quell'essere dal passato oscuro, dalle origini intangibili, imperscrutabili. Poi, come a riportarsi tempestivamente alla realtà, colpì lievemente il tavolo con una mano: “Niente, volevo solo vedere con i miei occhi come stavi”, e rimettendosi in piedi aveva spinto verso di lei la tazza di cartone colma di caffè che le aveva espressamente preparato per l’occasione, per l’improbabile incontro.

Fece per andarsene quando, finalmente, lei parlò.

“Non bevo… caffè.”

Clint fece quasi fatica a ritrovare influenze russe nel suo accento, stavolta. Aveva finto per tutto il tempo? O aveva imparato a velocità record ad imitare l’impostazione americana? Non si sarebbe stupito in nessun caso.

“Come prego?” dopo tutto quello che avevano condiviso, il primo scambio di battute doveva riguardare la sua offerta di pace? La sua oltraggiata… offerta di pace.

In realtà Clint aveva compreso che quella doveva solo essere una scusa per iniziare un discorso.

A patto che fosse lei a dirigerlo.

“Non bevo… caffè americano.”

“Di male in peggio…” commentò solamente.

Di nuovo si zittì. E lo fissò con quegli occhi verdi e spaventosi. Decretò che no, quella ragazzina, quindici anni non li aveva mai avuti. Strappata all'infanzia, a un'adolescenza, a una... vita.

“Perché non mi hai ucciso?” il dialogo era diventato improvvisamente diretto e brutale, ma ora almeno acquisiva un senso. Clint si prese del tempo. Non era sicuro fosse saggio condividere i termini delle sue bislacche decisioni.

“Per impedirti di fare l’errore… di rifiutare un buon caffè”, si disse soddisfatto della sua conclusione.

“Voi americani avete un discutibile… senso dell’umorismo.”

Clint assottigliò lo sguardo: “Quanti americani conosci per poterlo dire?”

“Tanti. Troppi. Tutti stupidi.”

“Lo prenderò come un complimento.”

“Non lo era”, scorse un flebile accenno di smarrimento in quel mare di verde. Era riuscito a confonderla?

“Non che voi russi siate messi meglio, mh?”

“Noi russi non abbiamo umorismo.”

Clint fece per ribattere, ma poi capì che lo stava prendendo in giro: “Non andiamo da nessuna parte in questo modo.”

“Sei stato tu a cominciare, amerikanskiy.”

“Il mio nome è Barton. Agente Barton.”

“Quale è il nome e quale il cognome?”

“Bè… agente è solo…” poi si rese conto di essere stato giocato, di nuovo. “D’accordo. Hai vinto tu. Mi riprendo il caffè come premio di consolazione.”

“Finisce tutto così? Non mi chiedi… niente?”

“Niente che non sappiano già. Ero venuto davvero solo a vedere come stavi.”

“Io però una domanda te l’ho fatta. Tu non hai risposto.”

La ragazza era insistente.

“Perché… non ti ho uccisa?”

La ragazza annuì.

“Perché non lo meritavi.”

“Lo meritavo, lo sai.”

“Allora facciamo che non lo meritavo io”, le concesse, sebbene non fosse stato solo uno scaricare su qualcun altro le responsabilità, il motivo per cui non lo aveva fatto. “Un abominio in meno nel mondo. Se avessi la possibilità non ti toglieresti dalle spalle la consapevolezza di aver ucciso qualcuno, a prescindere dai suoi... peccati?”

La donna lo guardò a lungo, come se avesse appena detto una stronzata.

“Dovrei essere un’altra persona, per farlo.”

“Non è mai troppo tardi per diventare un’altra persona”, nel tuo caso soprattutto, pensò.

“Io sono tante persone diverse.”
“Allora sei fortunata: puoi scegliere quella che preferisci.”

“Io non preferisco. Io mi adatto.” In quella frase Clint capì che si nascondeva un mondo intero. Adattarsi. Non era forse quello che aveva fatto lui, per tutti quegli anni? La guardò con occhi diversi. Avevano più punti in comune di quanto avesse creduto. Almeno... un paio di quelli più significativi.

Forse cominciava a dare un ulteriore senso al motivo per cui l'aveva risparmiata. Non solo perché troppo giovane, non solo per la paura che le aveva letto dentro...

“Adattati dunque. Hai in mano una chance non concessa a molti.” La stessa che hanno concesso a me.

La Vedova Nera lo guardava con sospetto. Era sicuro che le ci sarebbe voluto molto tempo per scrollarsi di dosso tutta quella diffidenza.

“Immagino ci vedremo in giro, allora, Natalia”, si congedò, sicuro che i cenni che gli stava facendo l’agente Mills, oltre il vetro della porta, non fossero entusiastici saluti.

Recuperò la tazza ancora fumante e sistemò la sedia.

“Lascia pure il caffè…” la sentì dire, prima che lui potesse voltarsi.

Clint alzò lo sguardo, la scrutò per un istante e poi sorrise.

Lasciò la tazza dove era, a portata di manette.

L’offerta di pace era stata, in qualche modo, accettata.

 

____

 

 

*Citazione da Blade Runner (a quanto ne sappiamo, il film preferito da Clint Barton).

 
N.d.A: Aiuto. Ho un timore quasi rispettoso nei confronti di questo capitolo. L’ho scritto settimane fa, lasciato a riposare, riletto, riadattato e poi ancora sistemato, poco prima di pubblicarlo. Tutto questo perché, tutto avrei voluto, fuorché rendere banale questo particolare episodio nella vita di Clint.
La decisione di rendere Natasha molto più piccola di quanto si è sempre letto (qui pensavo a qualcosa sui diciassette anni), nasce un po’ per delle teorie e/o speculazioni scovate in giro che la davano giovanissima, addirittura quattordicenne, il giorno in cui l’agente Barton decise di risparmiarle la vita (nell’MCU ovviamente), un po’ perché lo scenario si adatta meglio a tutte le conseguenze future sul loro rapporto, almeno per come lo vedrei io.
Che dire, spero di non aver toppato.
Al solito ringrazio tutti quanti commentino, leggano o seguano la storia. E come sempre ringrazio Sere, sia per il suggerimento del codice per le traduzioni non invasive, sia per il fatto che asseconda e fomenta queste deliranti discussioni… e la adoro per questo.
Alla prossima, cia’ ciaaao.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 [Natasha Romanoff] ***


CAPITOLO 10 

[Natasha Romanoff]

“Cosa fai?”
“Leggo i tuoi appunti.”
“Sono cifrati...”
“Ti prego...”
(Uomini che Odiano le Donne)

 

*

 

Non passava giorno che Clint Barton non incontrasse Natasha Romanoff per i corridoi dello S.H.I.E.L.D. Center con un libro nuovo fra le mani.

Classico, saggio, romanzo d'appendice, l'ultimo thriller di John Grisham, le avventurose storie di cucina di Nonna Papera: la ragazza sembrava essere un'idrovora che assorbiva tutto ciò che di fruibile ci fosse nel raggio di pochi metri.

Apprezzabile dal punto di vista linguistico. Meno da quello sociale.

Non sembrava granché incline ad intrattenere rapporti con chicchessia. I suoi scambi verbali avvenivano con pochi e selezionati agenti e riguardavano, per lo più, questioni prettamente lavorative. Secondo le più improbabili previsioni però, pareva essere entrata in una muta, solidale, inquietante sintonia con il direttore Fury. Natasha era l'unico agente (non ancora del tutto operativo) che sembrava non metterlo mai nella posizione di essere nervoso o quella, non meno frequente, di fargli alzare la voce.

Clint ritenne che, forse, l'ultima considerazione riguardava più lui di chiunque altro. Il direttore Fury e l'agente Barton avevano un rapporto piuttosto... vocale.

Lunga ancora era la strada della disciplina.

Natasha sembrava, invece, saper gestire alla grande quel punto.

Per quello Coulson era convinto potessero funzionare insieme. L'uno avrebbe sedato o risvegliato difetti e pregi dell'altro.

Clint, da parte sua, era convinto che affiancarlo alla Romanoff fosse solo una gran bella gatta da pelare. O forse una punizione. Più una punizione. Dopotutto glielo avevano comunicato con tanto di rapportino da redigere, che sarebbe stato totalmente responsabile delle proprie decisioni. Nello specifico: risparmiare la vita a una spia internazionale che nel suo curriculum possedeva contatti e informazioni più dettagliate dell'intero database di una qualsiasi organizzazione segreta.

Era già passato quasi un anno da quando Natasha era entrata a far parte dello SHIELD Il suo ruolo veniva definito, rimodellato, riconsiderato più o meno ogni mese. Test continui, addestramenti e lezioni che non le davano tregua, non che la ragazza sembrasse risentirne. Per come la vedeva Clint gli sembrava che Natasha (la neo-nominata Natasha) quasi stesse prendendo come un'immeritata vacanza tutta quella faccenda della ricollocazione e reintegro. Avvenuto, comunque, a suo dire, già con discreto successo (questo la diceva lunga su come si fosse già compiuta la sua prematura formazione in altri ambienti, sotto altre meno pazienti e premurose mani.) Clint non voleva provare pena per lei. Ma sapeva perfettamente che dietro quella maschera di freddezza si nascondevano segreti che pochissimi avrebbero avuto il privilegio (o la triste responsabilità?) di conoscere.

Si scoprì curioso di comprenderne almeno un barlume, un giorno. Se lei gliene avesse dato la possibilità.

Della faccenda, tuttavia, era a conoscenza solo un gruppo ristretto di agenti.

In definitiva, nessuno allo SHIELD era stato messo al corrente del passato turbolento della nuova leva. Come fosse passata così rapidamente a uno dei livelli superiori, sarebbe rimasto un mistero per anni. Le sue azioni, però, avevano già cominciato a far parlare di sé, con somma ammirazione. Vaglielo a spiegare che il livello di segretezza derivava soprattutto dal fatto che la ragazza era da tenere ancora sotto sorveglianza, oltre che come fonte primaria d'informazione d'importanza internazionale.

Nemmeno diciott'anni e già così importante... Chissà dove ha studiato... chissà chi l'ha istruita... alcuni dicono che sia la figlia segreta di Fury... e bla bla bla.

Clint aveva riso per una giornata intera, all'allusione di parentela con il direttore. Natasha non aveva capito la sua ilarità.

Forse era vero che in Russia non avevano umorismo. Freddo come la steppa.

 

Anche quel giorno, Natasha sembrava immersa nella lettura di un romanzo piuttosto impegnativo. Quando si rese conto che si trattava di Asimov, ebbe per un attimo un inatteso moto d'affetto.

Chiunque lo conoscesse abbastanza, avrebbe riconosciuto in Clint un grande estimatore del genere. Poteva citare le battute di Star Wars (tutta la trilogia) e di Blade Runner a memoria.

Dopo i western, la fantascienza si trovava nella sua top five. Prima o dopo qualcuno si sarebbe deciso a scrivere qualcosa che prevedesse alieni e cowboy nella stessa trama, ne era sicuro.

“Fammi indovinare: Fondazione anno zero. Del preludio al ciclo della fondazione”, l'aveva avvicinata, cercando di prenderla alla sprovvista. Ma dal modo in cui la ragazza volse la pagina e concluse in tutta calma il paragrafo, comprese di aver fatto cilecca anche questa volta.

Passò qualche secondo prima che Natasha chiudesse il libro, tenendo il segno con le dita e decidesse di prestargli attenzione.

“L'ho... capito dalla copertina...” concluse il discorso, come a spingerla a dire qualcosa... qualsiasi cosa. Non ebbe successo nemmeno questa volta.

“Non credevo ti piacesse la fantascienza”, insistette. Non era sicuro del motivo per cui lo stava facendo, forse solo per strapparle una dichiarazione. O anche solo per instaurare una sottospecie di rapporto amichevole fra... supervisore e pupillo (?). Operazione che spesso gli costava fatica e pazienza come non gli era mai successo con nessuno. Se non altro era arrivato alla conclusione che, se ancora non riusciva a trovarlo piacevole o simpatico, riusciva a tollerarlo fino ad arrivare ad intrattenere delle sottospecie di dialoghi più o meno profondi. Che spesso lo vedevano coinvolto in una serie di domande su una quotidianità che qualsiasi essere umano avrebbe ritenuto normale, ma non Natasha.

“Nemmeno io. Sto sperimentando”, rispose infine a sorpresa, dopo un numero indefinito di secondi che quasi Clint ebbe dimenticato la domanda.

“E la conclusione sarebbe... ?”

“Te lo saprò dire a libro finito.”

Clint annuì come a prenderne atto. La ragazza sembrava non aver intenzione di lasciare grande spazio al dialogo, al momento.

“Stavo andando in palestra... mi chiedevo se ti andasse di...”

“Sì”, la vide alzarsi senza dargli il tempo di finire frase. Aveva infilato il libro nel borsone che aveva con sé, lo aveva raccolto e affiancato il collega senza aggiungere altro.

“Si direbbe che non ti stesse entusiasmando poi molto...”

Natasha gli lanciò uno sguardo obliquo.

“Solo perché non è consigliabile allenarsi e leggere nello stesso momento.”

“Sul serio? Ero convinto sapessi fare di tutto”, la prese in giro.

“Ho detto che non è consigliabile. Non che non sia... possibile.”

Clint rallentò il passo e per un breve istante fu combattuto se ridere della battuta o liquidarla con un'amichevole battutaccia di cui non avrebbe sicuramente capito il senso.

“Sei seria?”

Natasha gli rispose nell'unico modo possibile: posò a terra il borsone... e ne tirò fuori Asimov.

 

Clint era sicuro di non aver ancora mai sperimentato il vero significato della parola umiliazione.

Quella giornata sarebbe stata ricordata negli anni a venire come il pomeriggio in cui la realtà aveva superato la fantascienza di Asimov.

Natasha si era allenata con il libro sottomano. Scagliare e parare pugni mente concludeva il sesto capitolo senza incidenti.

Clint aveva subito un ko, e - per ben due volte - l'abbraccio mortale delle sue cosce. Il tutto per la somma di quello che suppergiù doveva essere stata una mezz'ora abbondante.

I fischi d'apprezzamento ai margini dalla palestra erano fin troppo reali per cercare di convincersi di esserselo solamente immaginato. Quelli e l'indolenzimento generico dei muscoli del suo collo.

“Almeno hai capito quello che hai letto?” le aveva proprio dovuto domandare, per avere almeno la conferma che fosse umana.

Natasha cominciò a citare a menadito alcune delle frasi presenti nel libro.

“Ferma, ferma, ferma... sto ancora cercando di rimettere insieme i pezzi del mio ego frantumato.”

“Sei stato tu a chiedermelo”, gli disse, sedendogli accanto sulla panca mentre usava un asciugamano per tergersi il sudore.

“Ricordami di non fare più domande idiote.”

“E' una richiesta seria... ?”

Aprì una bottiglietta e ne fece fuori almeno mezza, prima di passarne una nuova alla ragazza.

“Serissima”, confermò. “Coulson è convinto che mi fa bene lavorare con una come te. Secondo me lo ha detto solo perché ci gode a veder calpestato così il mio amor proprio.”

Natasha lo fissò a lungo.

“Non hai combattuto male”, gli disse totalmente a sorpresa.

“No? Dillo alle condizioni delle mie ossa.”

“Fossi stato meno cauto non le avresti più... le ossa.”

“Modesta.”

“Realista.”

Clint assottigliò lo sguardo.

“Era una battuta?”

Natasha aprì la bottiglietta d'acqua e bevve.

 

Furono chiamati a rapporto dall'agente Maria Hill che stavano ancora discutendo della trama del libro, appena fuori dalla palestra.

“Non posso almeno farmi una doccia, prima?”

“L'agente Hill ha detto: immediatamente”, lo aveva avvisato il suo nuovo galoppino, un tirocinante che li fissava con un'aria così seriosa da far quasi tenerezza. Doveva essere ancora alla sua prima settimana.

“Quella vecchia volpe di Maria, lo dice sempre che mi preferisce sudato”, Natasha gli rivolse uno sguardo perplesso, il tirocinante arrossì, così come Clint si era aspettato facesse.

Natasha era rimasta esclusa dal colloquio: dopotutto, sembrava che riguardasse solo lui.

Saltò fuori che le motivazioni della Hill erano molto più serie e delicate di quando Clint avesse preventivato.

Sembrava fossero giunte notizie su Barney Barton.

“Lo avete trovato?”, si era interessato immediatamente, andando a controllare le mille informazioni a riguardo su uno degli schermi della stanza.

“Abbiamo dei sospetti. Ci avevi chiesto di essere informato, qualsiasi cosa avessimo scoperto... ebbene, il nome del signor Barton è saltato fuori da uno dei casi che stavamo monitorando.”

“Voglio occuparmene...” aveva risposto tempestivamente l'uomo.

“C'è già una squadra di specialisti che lo sta facendo.”

“Ma è mio fratello!”, aveva insistito con una veemenza tale da aver palesato il motivo per cui nessuno gliene avesse ancora parlato.

“Il tuo coinvolgimento emotivo non gioverebbe alla missione, Barton.”

“Io lo conosco meglio di un milione di squadre di specialisti.”

“Ne sei sicuro?”

I fatti che erano seguiti alla sua scomparsa non giocavano proprio a suo favore.

“Posso almeno sapere di che si tratta?” domandò allora, cercando di sedare l'irruenza.

“Rapimento.” fu tutto quello che riuscì a far sganciare alla Hill.

 

Natasha aveva atteso fuori, in paziente attesa. Clint non glielo aveva chiesto.

“Avresti potuto andare a farti una doccia”, le disse allora, senza sapere se la cosa gli facesse piacere o meno.

“Non ne ho più bisogno di te...” gli rispose. “E poi dovevamo finire il discorso sul libro.”

Clint si accigliò con un moto di fastidio.

“Ora non ho più voglia di parlare del libro.”

“Per via di tuo fratello?” Clint si fermò nel bel mezzo del corridoio.

“Ci hai spiati?”

Natasha inarcò un sopracciglio: “Non è forse il mio lavoro?”

L'uomo sbuffò qualcosa, ma non rispose niente di pungente, al contrario annuì, come se avesse bisogno di sfogarsi.

“Non mi fanno partecipare al caso. A quanto pare sarei troppo coinvolto... emotivamente.”

“Ed è vero.”

“Tu cosa... ne sai?”

“Te lo si legge su tutta la faccia.”

“È mio fratello, cazzo!” Esplose. “È più di un anno che non ho sue notizie, ed ora che è finalmente saltato fuori qualcosa, non ho nemmeno la possibilità di avere informazioni dettagliate a riguardo.”

“Potresti chiedere a Coulson.”

Clint sbuffò una risata.

“Certo, Coulson, è un buon amico ma quando si tratta di lavoro è sempre d'accordo con la Hill”, soprattutto nel confermare che era troppo impulsivo.

“Non hai intenzione di fare niente a riguardo?”

“Che altro potrei fare?”

Natasha si strinse nelle spalle: “C'è sempre un modo per ottenere informazioni.”

“Non credo che torturare la Hill sia una buona idea.”

Natasha scosse la testa: “Pensavo più a qualcosa che suonasse come... prendere in prestito qualche file.”

“Oh”, rispose Clint valutativo. “Se mi beccano è la volta buona che mi cacciano a pedate dallo SHIELD.”

“Chi ha detto che lo devi fare tu?”

Clint si chiese se fosse solo un debito da saldare, il motivo per cui Natasha fosse sul punto di commettere la sua prima infrazione al sistema da quando era entrata allo SHIELD, o più un modo per ricordare a se stessa che aveva ancora del potere per agire oltre i canali ufficiali, di ricordare a se stessa che no, non era un mero burattino nelle loro mani. Oppure, nell’ipotesi più remota, che lo facesse solo perché voleva davvero fargli un favore. Impossibile da dire.

“Non posso permettere che la tua posizione venga compromessa”, non dopo tutti i progressi che lo SHIELD. le aveva attribuito. Non dopo tutti i mesi che lo stesso Clint aveva dedicato a recuperare in corner le conseguenze delle sue decisioni.

Sarebbero caduti rovinosamente entrambi? Per delle misere, legittime informazioni? Improbabile ma…

“Non accadrà.” rispose lei, con una determinazione tale che non dovette fare un grosso sforzo per crederle.

 

Natasha era stata di parola. Quello stesso pomeriggio lo aveva di nuovo avvicinato, stavolta di sua spontanea volontà.

“Stasera passo da te a prendere i libri di Asimov che mi avevi promesso.”

Clint inarcò un sopracciglio: “Quali libri di... ?” l'espressione di Natasha si era fatta improvvisamente palese: le informazioni sul caso di Barney.

Non poteva averlo fatto sul serio. Lo aveva fatto? Se per un attimo era convinto che una sfuriata non gliel'avrebbe proprio risparmiata, quello successivo si trovò solo a dover combattere con la possibilità di mettere finalmente le mani su quegli stupidissimi files.

Barney vinse a mani basse. Ancora prima di mettersi nelle condizioni di elaborare una risposta, la sua bocca parlò spontaneamente: “Oh, sì... il ciclo della fondazione, giusto?”

“Tutti quanti.”

“Quando vuoi. Sono a casa dopo le otto.”

“Sarò lì alle otto e un quarto.”

Clint realizzò che avrebbe avuto solo un quarto d'ora per sistemare casa e meno di una mezza giornata per pentirsi di quello che aveva inconsciamente fatto.

 

*

 

Aveva appena finito di nascondere i residui del suo pasto della sera precedente che il campanello suonò.

Era Natasha. Puntuale come un orologio svizzero.

Per la prima volta dopo settimane, quell'appartamento avrebbe ricevuto visite.

Se non si consideravano i vicini di casa e quella confusa nottata con una ragazza incontrata al supermercato all'angolo: Christina, Carolina, qualcosa così. Non che si fossero promessi di risentirsi, comunque.

Natasha, senza la divisa dello SHIELD, sembrava una ragazzina ancor più di quanto già in realtà non fosse.

Indossava una felpa troppo larga sulle spalle e un paio di jeans che non facevano onore alle sue forme. I capelli legati in una coda scomposta, sopra la testa.

“Ehi...” la accolse, facendole strada nell'ingresso. La ragazza entrò con circospezione, guardandosi attorno come se si aspettasse che saltasse fuori qualche animale feroce a farle la pelle. Un'abitudine che probabilmente non avrebbe perso tanto facilmente. Più rapidamente per quanto concerneva l’appartamento di Clint, però.

“Non è granché... ma è casa*” esordì, come a giustificarsi della grandezza della sua tana.

Lei non disse nulla, attese che la porta fosse chiusa alle sue spalle e mise mano alla tasca dei jeans. Ne estrasse un micro CD.

Andava subito al punto.

Clint si passò le mani sui pantaloni, prima di prendere fra le mani quell'insperato tesoro.

“Non servirebbe a niente chiederti come hai fatto, vero?” il tono vagamente accusatorio, di finto rimproverò.

Natasha si strinse nelle spalle, con noncuranza: “Ce l'hai un pc?”

“Ahm... uno scassone, sì”, dichiarò, indicandole un vecchio monumentale computer fisso con lo schermo talmente imponente da prendere almeno mezza scrivania.

“Lascia stare, ho portato il mio.”

Natasha si levò dalla schiena lo zaino che aveva con sé – si spiegò immediatamente il perché gli avesse fatto l'impressione di essere al cospetto di una studentessa del liceo – e ne estrasse un portatile di tutto rispetto.

“Wow, dono dello SHIELD?”

“Lo SHIELD non mi permette nemmeno di avvicinare i loro computer. Questo ce l'ho da prima.”

Lineare.

La vide agganciare cavi e montare il tutto con un'agilissima rapidità. Si sistemò sul tavolino da caffè, appostato di fronte al divano e accese il laptop.

Dopo qualche istante, gli fece cenno di raggiungerla.

Clint si sedette al suo fianco, osservando le schermate che si stagliavano sullo schermo, più o meno incomprensibili.

“Devo ancora decriptarli”, la sentì dire.

“Oh, fai pure...” rispose, mentre le sue piccole dita si muovevano rapidissime sulla tastiera e il monitor esplodeva di dati e colori e lucette ubriacanti.

“Ho sempre avuto un'ammirazione particolare per chi sa fare tutta questa roba.”

“Credevo che lo SHIELD avesse un programma speciale per istruire i propri agenti.”

“Oh, lo ha... certo. Lo ha. Io continuo a non averne la predisposizione, però.”

“Posso darti lezioni private.” in altri contesti, la frase sarebbe risultata ambigua. Ma la freddezza della Romanoff la rendeva praticamente inattaccabile ai doppisensi.

“Ci hanno già provato, con scarso successo...” dovette ammettere.

“Coulson?”

“No... la... mia ex”, Natasha aveva impercettibilmente rallentato il movimento delle dita sui tasti, “è una specie di genio dell'informatica.”

“Fatto”, dichiarò lei, come a stroncarlo, prima che potesse enumerare le doti di un altro genio dell’informatica. Natasha non amava granché i paragoni. Questo aveva imparato a capirlo.

Clint lasciò da parte ricordi spiacevoli per farsi attento.

“Ti consiglio di preparare una scorta di caffè.”

“Perché? Credevo non ti piacesse il caffè.”

“C'è almeno un gigabyte di roba da analizzare qui dentro. Ci vorrà tutta la notte.”

Clint si era rimesso in piedi ed era andato a preparare il primo caffè di una lunga serie.

 

Erano ormai le quattro del mattino quando decisero di mettere fine alle ricerche.

Barney era coinvolto in qualcosa di ben più complicato di quanto si potesse ipotizzare.

Un caso internazionale di terrorismo, collusione con trafficanti di armi e quant'altro. Era sparito il giorno dell'attentato a San Paolo, apparentemente grazie a una soffiata, qualcosa che aveva tristemente a che fare con i mandanti di Natasha, in quella particolare occasione.

Tutto si rifaceva a un solo nome: Jacques Duquesne.

Clint quasi non era scivolato giù dal divano alla rivelazione. Inizialmente pensò a un caso di omonimia fin troppo crudele. Poi Natasha ne aveva crudamente confermato l'identità.

Duquesne era il nome con cui aveva avuto a che fare più spesso quando si era trovata a dover collaborare con quella particolare organizzazione criminale, uno dei coordinatori più in vista. E la descrizione dell'uomo non aveva lasciato adito a dubbi. La foto nel database, poi, non aveva fatto altro che confermare i loro sospetti.

Clint si trovò a rivivere in pochi istanti tutto ciò che di negativo era successo nella sua infanzia.

“Lo conosci?” gli aveva chiesto Natasha, riconoscendo nell’arciere i tratti del risentimento.

“E' stato un mio tutore al circo dove ho lavorato da ragazzo. Mio e di mio fratello Barney.”

“Ne ha fatta di carriera”, commentò con distacco la giovane.

“L'unica che avrebbe potuto fare”, il ricordo della lama nel suo ventre bruciava ancora. “Anche se credevo sarebbe morto prima di poter arrivare a una degradazione maggiore.”

“Non è un uomo senza risorse.” Clint si ritrovò ad annuire, suo malgrado. “Hai idea di come possa essere tornato in contatto con tuo fratello?”

“Mio fratello non si sarebbe mai fatto infinocchiare da quel figlio di puttana.”

Natasha rimase in valutativo silenzio per qualche istante: “Eppure, a quanto pare, qui dicono lavori per lui.”

Clint sentì qualcosa di rancido risalirgli su per la gola. Di nuovo la sensazione di essere stato pugnalato.

“Sono sicuro che ci sia una spiegazione a tutto questo.”

Una brillante carriera nella CIA non si manda ai porci per un inspiegabile ritorno di fiamma.

Natasha non rispose.

Clint rimase in silenzio a fissare il viso invecchiato e sempre più grasso di quell'uomo a cui non aveva più pensato per anni e a ripetersi che no, Barney non poteva essere chi lo SHIELD o qualsiasi altra organizzazione lo accusava di essere. Che doveva esserci una spiegazione molto intelligente dietro a tutta quella sporca faccenda. Non poteva accettare niente di diverso.

Natasha fece cadere l'argomento, spegnendo il pc e consegnando a Clint il cd.

“Cosa intendi fare adesso?” gli aveva chiesto.

“Non lo so... insistere con la Hill affinché mi faccia partecipare al caso.”

“Non cambierà idea sul tuo coinvolgimento emotivo.”

Clint si strinse nelle spalle.

“Allora mi aiuterai a nasconderlo.”

Natasha reclinò il capo di lato e per la prima volta, sorrise, un po’ sfacciata.

“Non credo tu sia in grado di farlo.”

“Ehi, sono anche io una spia. Posso farlo eccome.”

“Costo troppo caro...” gli disse allora.

“Allora chiederò a qualcun altro.”

“Oppure aspetterai che sia io ad entrare nella missione.”

“Cosa... ?”

“Conoscevo quella gente. Lo SHIELD lo sa, potrebbe non volerci molto per convincerli a dar loro una mano...”

“Ed io... ?”

“Sei o non sei il mio supervisore?”

Clint cominciò a capire dove Natasha volesse andare a parare.

“Geniale...”

“Lo so.”

 

Qualche istante dopo Natasha era in ginocchio a sistemare diligentemente il pc nello zaino.

“Ehi, non vorrai uscire da sola a quest'ora. Ho... un letto in più, se ti interessa.” le aveva offerto del tutto innocentemente.

“Credevo abitassi a New York da più tempo di me per sapere che esistono i taxi.”

“S-sì, lo so, ma...”

Si era rimessa in piedi.

“Devo finire di leggere Asimov”, si giustificò come se fosse una spiegazione più che plausibile, “o non resto nella media di almeno un libro al giorno.”

Clint si chiese se stesse dicendo sul serio o meno.

“Oh... il ciclo della fondazione ce l'ho sul serio, se ti interessa”, le aveva fatto cenno alla sua sgangherata libreria, piena di vecchi libri, fumetti usati, soprammobili di dubbio gusto e un barattolo di vetro, pieno per metà di monete da cinque centesimi.

Natasha sembrò notarlo.

“E' un regalo”, le spiegò, senza che lei chiedesse nulla.

“Originale.”

“Sì... insomma... quando svuoto le tasche e ne trovo, ci infilo dentro delle monete da cinque centesimi.”

“Perché proprio cinque centesimi?”

“Sarebbe... troppo lunga da spiegare.”

Dopo quello che sembrò essere frutto di un lungo attimo di conflitto interiore, Natasha si levò lo zaino dalle spalle.

“Le hai cambiate le lenzuola del letto, almeno?”

“Ahm... no. Ma... posso farlo.”

“Bene.”

“B-bene. Vado a farlo immediatamente, allora...”

“No, prima... dobbiamo finire quel caffè”, in quelle parole, forse, la muta richiesta di racconti un po' più dettagliati su quel barattolo.

Clint non si fece pregare. Forse, dopo quello che aveva tristemente appreso da quell'assurda collaborazione, aveva davvero bisogno di parlare con qualcuno, di convincersi che l'innocenza di suo fratello Barney non era solo una stupida fantasia. Di riportare alla luce tutto ciò che di positivo aveva conosciuto del fratello. Che lo sfogo avvenisse con un amico, un collega di lavoro, o una spia russa... che, dei segreti, aveva fatto la sua professione.

 

___

 
*citazione di Harry Potteriana memoria.
 
N.d.A: Tadaaaaan! Surprise surprise. Tornano vecchie conoscenze. Si formano nuove alleanze.
Cosa riserverà il futuro? Chi può dirlo? Lo scoprirete… la prossima puntata.
Inutile dire che questa versione di Natasha tecnologica, è vaaaaaaagamente ispirata a Lisbeth Salander, protagonista indiscussa e spacca culi dei romanzi di Stieg Larsson, più versioni cinematografiche annesse e connesse.
Vabbè, dopo questo inutile siparietto e precisazioni: ringrazio sempre tutti coloro che leggono e commentano e ovviamente la mia socia Sere.
See you.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 [Jacques Duquesne] ***


CAPITOLO 11

 

[Jacques Duquesne]

 L'avidità, non trovo una parola migliore, è giusta.

(Wall Street)

 

*

 

L’intero reparto d’intercettazione dello SHIELD era in trepidante attesa.

La rete di collegamenti telefonici, attiva e pulsante.

Clint sedeva accanto ad un agente in giacca e cravatta. L’aria da ragazzino cresciuto troppo alla svelta, serio come se gli fosse appena morto il gatto, verde come se gli venisse da vomitare.

“Niente?” aveva chiesto Clint per l’ennesima volta, guadagnandosi uno sguardo infastidito.

“Non ancora.”

Si mise in piedi, raggiungendo in pochi, misurati passi l’altra parte dell’angusto locale.

Natasha attendeva, braccia conserte, espressione assorta: una statua di cera.

Per un attimo si chiese se fosse l’unico a non riuscire a gestire granché le attese.

 

C’erano volute ore di trattative affinché la direzione dello SHIELD valutasse e confermasse la partecipazione dell’agente Barton e dell’agente Romanoff al caso Duquesne.

Clint aveva preferito non rivelare le implicazioni emotive che lo affiliavano al sospetto, ma li aveva agganciati con la scusa di averlo conosciuto in gioventù. Era già tanto che avessero deciso di testarlo riguardo il coinvolgimento di Barney Barton.

Forse sarebbe stata la giusta occasione per dimostrare all’organizzazione che era cresciuto tanto sul piano professionale, quanto su quello personale. Incline a rispettare le regole e pensare con freddezza. Coulson gli aveva scucito due o tre consigli su come gestire la faccenda e aveva deciso, straordinariamente, di fidarsi e appoggiare la proposta della sua partecipazione alla missione.

La Romanoff aveva gestito la faccenda in modo ancora più straordinario, dando indicazioni prodigiosamente precise sulle persone coinvolte e sugli spostamenti effettuati.

L’organizzazione criminale non era nuova ai cambiamenti: secondo Natasha, tutti piuttosto prevedibili.

Le sue conoscenze pregresse ed informatiche avevano dato una mano piuttosto consistente a portare la missione ad un livello superiore.

Alla domanda: “Perché non ce ne ha parlato prima?” La criptica e lodevole risposta: “Non me lo avete chiesto”.

Clint cominciava a sviluppare per la ragazzina una stima professionale (e non solo) che nemmeno si preoccupava di nascondere.

“Cerca di non gongolare troppo”, lo aveva dovuto redarguire Coulson, con tanto di gomitata nel fianco.

 

Ed ora erano in una delle regioni francesi del Canada, appostati su un furgoncino dello SHIELD, camuffato da camion dei traslochi, in attesa di trovare un robusto aggancio per il successivo step dell’operazione.

Clint avrebbe dato di matto se fosse stato costretto a restarci per un’altra snervante ora.

Stava per chiedere una pausa per prendere aria, quando il ragazzino serioso del gatto aveva annunciato di aver intercettato una chiamata.

“Silenzio”, aveva detto, mentre si trasformava in un perfetto centralinista della ditta trasporti Le Chevalier, una società apparentemente in stretto contatto con l’organizzazione criminale. Lo SHIELD aveva accertato che la ditta di trasporti forniva (da anni ormai) all’organizzazione supporto e prestazioni “particolari” in cambio di lavori pagati, ovviamente, in nero. Insomma, Le Chevalier dava una copertura sicura alle operazioni illecite.

Una mezz’ora dopo Clint, Natasha e una serie di agenti, erano diventati efficientissimi operai di traslochi.

“Nessuna domanda, nessun sguardo, nessuna provocazione. Si aspettano di avere a che fare con gente fidata. Arriviamo con il camion, carichiamo la roba e poi… seguiamo il piano.”

Il coordinatore era un uomo sulla cinquantina. Clint lo conosceva a malapena con il nome di Charles Grady, ma non aveva obiettato. Preferiva lavorare da solo, ma si rendeva conto di quanto fosse necessaria una squadra per portare a termine quella particolare operazione.

Sventare un sequestro di persona.

Era quello il rapimento a cui aveva solo accennato la Hill.

Dottor Hopper: ingegnere, sviluppatore di tecnologie nel campo bellico e illustre scienziato dato fra i partecipanti al convegno di San Paolo. Affiliato alla CIA, ma tenuto d'occhio dallo SHIELD per motivi altrettanto validi.

Uno dei pochi ad essersi salvati dalla deflagrazione messa in atto dalla Vedova Nera, come diversivo.

Clint aveva scoperto solo successivamente che si sospettava di Barney. Doveva essere riuscito a raggiungere l’uomo e a portarlo in salvo e, con una scusa, consegnarlo dritto nelle mani dei suoi aguzzini. Svanendo poi nel nulla.

 

Affiancò Natasha quando il camion dei trasporti fu giunto a destinazione.

Il resto del gruppo, in tutto cinque individui, loro compresi, stava caricando un certo numero di casse dalla provenienza sconosciuta sotto la supervisione di un paio di individui dall’aria tutt’altro che raccomandabile.

Parlavano una lingua incomprensibile, qualcosa dell’est Europa. Natasha gli rivelò che si trattava di ungherese. Quando tutto fu concluso, lo stesso Grady, pronto al congedo, aveva dato il via alla silenziosa manovra.

Mentre uno degli uomini di Grady oscurava le telecamere con il supporto di un dispositivo di ultima generazione, Clint e un’altra agente stendevano i due ungheresi con un paio di siringhe soporifere.

Infiltrazione conclusa con successo.

“Fase due”, aveva decretato Grady. La mappa della base operativa memorizzata, si divisero in due gruppi.

Clint aveva espressamente chiesto ed ottenuto il permesso di occuparsi della zona dei laboratori e Natasha non aveva potuto far altro che seguirlo.

Si trovò a considerare che, dopotutto, quella sarebbe stata la prima vera missione sul campo insieme. Se non si consideravano le altre piccole imprese di misera portata, nei mesi appena trascorsi.

“Magari avresti preferito iniziare dai piani alti con Grady…” le aveva chiesto, mentre sbloccava la porta principale dello stabile.

“Un gruppo vale l'altro”, gli aveva risposto freddamente, sul rumore della serratura che scattava. E poi, quando Clint era ormai convinto che non avrebbe scoperto mai cosa stesse realmente pensando a riguardo, aggiunse: “Se non posso lavorare da sola… preferisco la compagnia di qualcuno di cui posso mediamente fidarmi.”

Clint aveva inarcato un sopracciglio.

Mediamente, mh?”

“Ci sono variabili che ancora non sono riuscita a valutare.”

“Sono ancora in fase di valutazione?” le chiese, prendendo a seguirla lungo il decadente corridoio del casermone. I numerosi tubi che percorrevano, in una fitta rete, il soffitto, ricordarono a Clint l’astronave di Alien.

Natasha non gli rispose, al contrario gli fece cenno di restare in silenzio.

Si appiattirono entrambi contro la parete, prima di un’improvvisa svolta. Un rumore ovattato di passi in allontanamento… e ritorno.

Una ronda.

Clint lanciò uno sguardo alla ragazza, che ricambiò con un silenzioso cenno del capo.

Raccolse la valigetta, saldamente ancorata alla sua schiena e ne estrasse un arco, tutto ripiegato su se stesso.

Natasha gli scoccò uno sguardo perplesso: “Utile.”

“Aspetta…” l’aveva anticipata, facendo scattare, con un colpo secco del braccio, il meccanismo che dispiegò l’arco in tutto il suo rifulgente splendore.

“Impressionante, lo fate anche con i bazooka?”

“Tecnologia d’ultima generazione.”

“Devono tenerti parecchio in considerazione, allo SHIELD.”

“Veramente no… ma se uno insiste un po’…” E nel dirlo lanciò una monetina da cinque centesimi che aveva in tasca dall’altra parte del corridoio.

I passi si fermarono all’istante. Ripresero dopo un breve lasso di tempo, accompagnati da un'intimazione a rivelare la propria presenza. L’uomo era solo e si stava dirigendo nella direzione in cui era finita la moneta ingannatrice.

Un’arma a ripetizione che veniva caricata.

Natasha contò mentalmente fino al tre, dopo aver valutato le variabili, prima di uscire allo scoperto, mentre Clint, con una freccia, aveva centrato e oscurato la telecamera del corridoio.

Non fece in tempo a tornare a prestare attenzione alla ragazza, che questa si stava rimettendo in piedi e osservava la sua prima vittima, stesa al suolo, ancora nell’atto di imbracciare il fucile.

Con lo stivale lo teneva ancorato schiacciato a terra.

Clint alzò le braccia in preda alla rassegnazione.

“Avresti almeno potuto lasciarmi partecipare”, sventolò l’arco come a reclamare le sue qualità stroncate sul nascere.

“Avrai di che divertirti, dopo”, gli rispose lei, sfilando alla guardia il badge di riconoscimento e passe-partout. (Se non altro avrebbe facilitato loro il compito.)

Dall’altra parte, invece, Natasha non si era accorta di aver appena fatto scattare la competizione.

Proseguirono per altri cento metri in quel dedalo di corridoi, senza eccessivi intoppi.

Finché non arrivarono a quello che, secondo le loro informazioni sulla struttura, era la porta d’accesso ai laboratori.

Era lì che avrebbero dovuto trovare il Dottor Hopper. O almeno era quello che si auguravano.

Stavolta non sarebbe stato così semplice.

Almeno una decina le persone che andavano e venivano senza fermarsi. Solo l’anticamera del formicaio che avrebbero trovato all’interno.

Non c’era modo di capirlo, però, da quella postazione.

“Dobbiamo aspettare il segnale di Grady e i suoi”, aveva suggerito Clint, ammonitore, non cieco di fronte alla smania di agire che aveva colto nella collega, purtroppo non così dissimile dalla propria. Ma avrebbe dovuto comportarsi da supervisore degno, dimostrarle maturità e contegno, insegnarle lo spirito di collaborazione necessario in un team.

“Potrebbe volerci troppo tempo”, gli aveva risposto lei.

“Hai ragione”, aveva concordato lui prontamente. I buoni propositi che andavano a finire giù per il tubo di scappamento dello SHIELD con un sonoro: frusssssh.

Senza valutare le immediate conseguenze, incoccò una freccia e la puntò sul sistema idrante dell'area, sistemato proprio lì, sopra le loro teste, come se li stesse istigando alla disobbedienza.

Attese solo un cenno d’assenso. Natasha approvò l’operazione.

L’istante successivo, l’intero corridoio fu invaso dall’acqua, scatenando l’attenzione del personale. Un gregge di guardie o partecipanti al party armato erano usciti correndo dai laboratori.

Clint aveva afferrato Natasha e, raggomitolati dietro una colonna avevano atteso che lo sciame si esaurisse in tempi decenti. I pochi sfortunati che avevano avuto l’ardire di svoltare nella loro direzione avevano dovuto scontrarsi con un paio di spie in vena di conti matematici.

“Due!” esclamò Clint, rivendicando i suoi successi.

“Tre”, replicò Natasha con aria annoiata.

Clint stronfiò qualcosa, non del tutto sicuro che il piccoletto senza capelli, steso al suolo accanto ai suoi bestioni, contasse davvero.

“Andiamo”, l’aveva trascinato fuori lei stavolta, armi alla mano e si erano fatti strada per i corridoi semideserti.

Non avrebbero avuto più molto tempo.

Arrivarono nello stanzone che le macchine erano ancora in funzione. Solo un paio di stoiche guardie a monitorare ancora la zona.

“Ehi!” avevano gridato i due, prima di imbracciare le armi e far fuoco. Clint e Natasha si separarono. Ognuno per la propria strada.

I dieci minuti successivi furono tanto rapidi quanto confusionari. Alle due guardie, presumibilmente allertate dalle stesse, se ne erano aggiunte almeno un’altra decina. Per ognuna di esse, un trattamento specifico. I più fantasiosi spettavano a Natasha che, nel corpo a corpo se la cavava con egregia agilità.

Quando tutto fu finito, e Clint contò di averne fatte fuori almeno cinque, se la ritrovò di fianco, i capelli appena fuori posto.

“Stanza numero 3. Blocco F.” Clint le scoccò uno sguardo interrogativo. “Ho chiesto per piacere.” Specificò stringendosi nelle spalle con noncuranza, anche se l’uomo avrebbe detto di aver visto sorgere un sorriso su quelle labbra. “E comunque… sette.”

“Cazzo.”

L’intera operazione doveva aver allarmato in modo compromettente il gruppo di Grady, perché Clint aveva appena ricevuto una serie di improperi ai danni dei suoi timpani.

“Che ti ha detto?” gli chiese Natasha, notando il suo sconcerto.

“Una roba che suonava tipo: gasdfie motherf- wffevh.”

“Conciso.”

“Molto.”

Proseguirono per un paio di metri quando finalmente, la stanza numero 3 si palesò di fronte a loro.

“Ci siamo.”

Natasha provò con il passe-partout che funzionò con una facilità preoccupante.

Nessuno dei due sembrò persuaso della semplicità.

La porta cigolò sui cardini prima di aprirsi e rivelare uno stanzino tutt’altro che accogliente.

Sullo sfondo un lettino. E sul lettino…

“Barney?” esalò Clint, non meno sorpreso dell’uomo che lo stava fissando dall’altra parte di quell’oscuro sgabuzzino.

“Tuo… fratello?”

L’uomo sembrava in condizioni tutt’altro che attraenti. I vestiti logori e puzzolenti, smagrito, i capelli incrostati di sangue, così come il viso, pesto e quasi irriconoscibile. Ai polsi un paio di manette.

Solo gli occhi, a rivelare in rapida sequenza: lo stupore, l’improvvisa paura e infine l’urgenza.

“Che cazzo ci fai qui? Devi andartene!” Barney si era alzato in piedi. Barcollava, ma niente sembrava frenarlo dall’avanzare nella loro direzione.

“Siamo venuti a cercare… il dottor Hopper. Piuttosto tu che cazzo ci fai qui?”

“Lo sapevo! Lo SHIELD doveva venire a rompere i coglioni anche questa volta.”

“Ohi, attento a come parli! Siamo qui in missione per…”

Un improvviso cedimento di Barney aveva frenato Clint dal proseguire la diatriba.

“Merda…” aveva tentato di abbandonare la sua postazione per raggiungere l’uomo a terra, ma Natasha lo aveva afferrato per un braccio, trattenendolo. Un gesto rapido, deciso, ma piuttosto significativo. Gli stava impedendo di fare una stronzata. Di esporsi con un sospetto. Clint dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non divincolarsi e ignorare quella stupida professionalità.

Ricordò le parole di Coulson, la fiducia dell’organizzazione. I suoi propositi di dimostrarsi degno, di essere maturato come agente e come uomo... finché non riuscì a sciogliere i muscoli, a rilassarsi. Natasha lo lasciò andare.

Entrambi gli stavano puntando contro un’arma.

“Dov’è il dottor Hopper?” gli domandò con una calma che non possedeva affatto.

“Non lo so.”

Clint caricò la pistola.

“Davvero, non lo so!” ribadì Barney con aria che tutto suggeriva fuorché un suo reale coinvolgimento.

“Che cosa ci fai qui?”

“Sono…”

“Non abbiamo tempo di parlare, Barton.” Era la voce di Natasha. A quale dei due Barton si rivolgesse, non era dato saperlo.

Clint si guardò alle spalle, i rumori dall’altra parte del blocco non era rassicuranti.

“Ci saranno addosso in meno di cinque minuti.”

Clint rinfoderò l’arma e avvicinò di nuovo il fratello. Stavolta Natasha non lo frenò.

Afferrò Barney per il bavero della giacca e lo tirò su con sconcertante facilità (quanto era dimagrito?). Scambiò con lui solo un lungo, silenzioso sguardo, prima di sospingerlo fuori da quello scomodo gabbiotto.

“Andiamocene da qui.”

Natasha aveva annuito e aperto loro la strada.

 

Stavano attraversano il dedalo di corridoi che li avrebbero ricondotti dagli altri, quando la voce di Grady emerse dall’auricolare di Clint: “Fuori in dieci minuti, Barton”.

Dieci minuti significava abbandonare la missione.

“Non abbiamo ancora trovato Hopper.”

“Non importa… è arrivata la CIA.”

“La cosa?”

“Ve l’ho detto, fuori da lì. Rapidi.” E aveva chiuso la conversazione.

Clint imprecò qualcosa, Barney procedeva affaticato al suo fianco. Ci sarebbe stato tempo e modo di avere delle risposte. La cosa problematica sarebbe stata riuscire a ricomporre un puzzle troppo complicato.

Natasha aveva intuito la sua confusione e frustrazione: non aveva esitato un solo istante a prendere in mano le redini dell’intera operazione.

Stavano raggiungendo l’area sicura, fuori dal disastro di tute gialle e militari dal grilletto facile, quando si trovarono nello stesso garage sgombro del loro esodo verso i laboratori.

Un gruppo di grossi energumeni armati fino ai denti, stava scortando due uomini: un insignificante ometto dall’aria spaurita… e Duquesne.

Clint avrebbe saputo riconoscerlo fra mille. La postura, la camminata dinoccolata, il modo in cui muoveva nervoso il collo a destra e a sinistra, quel suo naso aquilino. Aveva passato con lui troppi anni per poterlo dimenticare.

Barney sembrò notare la stessa cosa.

“Clint…” esalò. In quelle parole non seppe individuare niente che non fosse un ammonimento.

Natasha si fermò a valutare la situazione, già conscia di quello che sarebbe successo di lì a poco.

“DUQUESNE!” gridò Clint, incauto, rumoroso. Le guardie armate scattarono come una molla. Una scarica di piombo si riversò loro addosso ancora prima che avessero il tempo di fare mente locale.

Clint ne stese un paio con dei rapidi dardi, Natasha aveva spinto via Barney e aveva preso a sparare, sperando almeno di sedare in parte quella guerriglia improvvisata.

La macchina nera dai vetri antiproiettile, ingoiati Duquesne e il piccoletto, prese a correre verso l’uscita.

“Non te ne vai da nessuna parte, bastardo!” gridò Clint ora in preda a una furia cieca. Si scaraventò sulle due guardie rimaste e in un’unica scoccata le aveva uccise senza alcun riguardo. L’istante successivo si trovò a correre verso la macchina e a prendere la mira per bucare quelle gomme maledette.

Riuscì a far centro a giudicare da come la macchina sbandò un paio di volte, prima di immettersi in strada e schiantarsi, letteralmente, sul muro dell’edificio di fronte.

Clint represse un moto d’esultanza, ma proprio mentre il gruppo di Grady faceva irruzione nel locale e rincorreva il mezzo ormai fuori uso per recuperare la marmaglia, la voce di Natasha, alle sue spalle, ebbe il potere di distruggere quel momento di incauta gloria.

“Barton”, il tono urgente, grave.

Clint si volse appena, arco ancora alla mano, i fumi del trionfo ancora lì, ad aleggiare sopra le loro teste, mentre al suolo, oltre i corpi delle guardie di Duquesne… giaceva Barney… in una pozza di sangue fresco.

Il respirò gli si bloccò in gola, in un rantolo che non emerse mai del tutto.

Natasha dovette spostarsi rapidamente per impedire a Clint di investirla, mentre accorreva al fianco del fratello.

Lo raccolse da terra: si piegò, inanimato come una bambola di pezza. Il viso pallido, le labbra piegate in una smorfia rigida, grottesca. Non gli ci volle molto per capire che era stato colpito da un paio di proiettili vaganti. Troppo debole per riuscire a proteggersi o a schivarle.

Cercò di scuoterlo, mentre il mondo attorno a lui diventava inconsistente, ovattato, fumoso. “Barney… Barney…” una supplica, una preghiera.

L’eco della sua stessa voce gli sembrò vibrare per sempre, in quell’attimo sospeso nel tempo.

 

___

 

N.d.A: Niente o poco da dire sul capitolo, a parte che mi ha dato non poche grane dalla prima, iniziale stesura. Un passaggio obbligato per riuscire a proseguire con la storia.

Insomma... grazie a tutti quanti continuino a seguirla e trovano il tempo e la voglia di dirmi che ne pensano. E a Sere, as usual.

Next!

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 [Clint Barton] ***


CAPITOLO 12

[Clint Barton]

La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo.

(Blade Runner)

*

 

Coulson non aveva fatto altro che correre per tutto il giorno. Jet, macchina privata, incontri con gli agenti, videoconferenze, scartoffie da redigere. E adesso, in tarda serata, aveva scartato a priori l’idea di andarsene a dormire.

Aveva fame, sonno, mal di schiena e un principio di emicrania che, era sicuro, sarebbe esploso definitivamente di lì a poco, ma gli erano rimaste ancora un paio di cose da fare. Una delle quali non meno importanti di quelle che riguardavano più direttamente il suo disgraziato lavoro.

L’ospedale era silenzioso a quell’ora. Le infermiere si aggiravano pacate da una stanza all’altra, fra lo scalpiccio degli zoccoli e il lamento di qualche paziente.

Un paio di agenti della CIA che passeggiavano per il corridoio gli riservarono sguardi tutt’altro che amichevoli. Gli bastò mostrare il cartellino per avere accesso all’area (ma non per far cessare l’ostilità). Forse era stato il suo sorriso, più di tutti, a mandarli fuori dai gangheri. La sua arma migliore contro la stupidità.

Fu in una delle ultime camere, che Coulson lo vide. Clint era ancora lì. In piedi di fronte al vetro della sala di rianimazione.

Gli avevano detto che non si sarebbe mosso, e così era stato. Caro… vecchio Barton.

Lo raggiunse silenziosamente, timoroso di interrompere quel quadro angosciante.

L’atmosfera pastosa, palpabile.

Capì che lo aveva sentito arrivare, comunque, dal modo in cui l’uomo aveva irrigidito le spalle.

“Clint…” esordì, senza osare affiancarlo. Quello che vedeva riflesso dal vetro della stanza gli era bastato. Ciò che c’era dentro la stanza non gli interessava nemmeno, ma solo perché sapeva cosa ci avrebbe visto. Non uno spettacolo a cui gli interessava assistere. Non quella volta.

“Ehi…” lo sentì rispondere. Il tono di voce roco, esausto. “Quando sei arrivato?” gli domandò senza voltarsi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni della divisa. Non si era nemmeno cambiato.

“Nel primo pomeriggio… Fury mi ha voluto qui il prima possibile.”

Lo vide solo annuire. Poteva avvertire, nitidamente, tutta la fatica che gli costava quel breve scambio di battute.

“Dovresti andare a riposare allora. Domani non sarà un giorno migliore.” Trovò il tempo di suggerirgli.

“Non prima di sapere tu come stai.”

“Oh, io sto… bene.” Coulson sapeva che non era vero, ma non insistette.

“Che dicono i medici?”

“Le solite cose.” Il che poteva solo significare un: grave, ma stabile.

Non se la sentì di aggiungere che sarebbe andato tutto bene. Aveva smesso di farlo da quando aveva imparato che non è così che funziona, la maggior parte delle volte. Non in un lavoro come il loro.

Si domandò solo quali sarebbero state le conseguenze, questa volta, per Clint, anche se aveva già superato situazioni che lo avevano messo alla prova.

Lo aveva addirittura conosciuto in un momento critico della sua esistenza. Lo aveva visto superare quell’ostacolo, andare avanti, rafforzare la sua fragilità, forgiarla, trasformarla. Ma non poteva fare a meno, continuamente, di preoccuparsi per lui. Come se la sua formazione fosse costantemente a un punto di svolta, ma mai priva di quell’aura di autodistruzione sempre latente.

Aveva capito che Clint non era un essere umano semplice: era disposto a mandare all’aria qualsiasi cosa per proteggere le idee in cui credeva. Le persone a cui teneva. A costo di  distruggere se stesso nel tentativo… o come conseguenza del suo fallimento. Come una punizione autoinflitta, totalmente ingiusta.

Non poteva dire che cosa sarebbe successo ora, eppure sapeva, nel profondo, che qualsiasi cosa sarebbe accaduta l’avrebbe superata, rialzandosi, come sempre, in una sorta di straordinaria rinascita.

Coulson sapeva di essere lì solo per aiutarlo a recuperare tutti i pezzi, nell'eventualità di una possibile, fragorosa, inevitabile caduta.

“Hai bisogno di qualcosa?” gli chiese dunque, già conscio della probabile risposta.

Clint sembrò pensarci un po’ su.

“Avresti un po’ di moneta? Volevo prendere un caffè ma… temo di essere a secco.”

“Hai cenato?”

“Non ho fame…”

Su quella frase Coulson gli allungò tutto ciò che aveva con sé. Clint lo raccolse con un muto ringraziamento.

Si lanciarono solo un rapido sguardo. Coulson gli posò una mano sulla spalla, indugiando giusto il tempo di una stretta rassicurante. Un modo per fargli sapere che lui c’era, che ci sarebbe stato.

Gli sembrò di vedere un pallido sorriso increspargli le labbra. Un cenno che gli fece comprendere che aveva capito. Come sempre, del resto.

Quando se ne andò aveva ancora nelle orecchie il rumore delle macchine alle quali era appesa la vita di Barney Barton.

 

*

 

Natasha aveva l’aria stanca. Una notte intera a cercar di rimettere insieme le dinamiche di quanto successo. Un’operazione al limite del miracoloso. Con tanti complimenti di Fury, della Hill e del consiglio tutto che, per quanto gongolavano, non l'avrebbero stupita se si fossero messi a sbrodolare liquami tutt’altro che appassionanti.

Duquesne era sotto torchio da almeno una giornata. Il Dottor Hopper (l’ometto insignificante a bordo dell’auto con Duquesne, al momento della fuga), invece, tenuto in custodia per accertamenti, sballottato da questo a quell’altro ufficio tecnico. Un giochetto che la CIA, anch’essa coinvolta nel caso con un loro agente in copertura da almeno un anno buono (Barney… Barney…), non sembrava aver gradito.

Tutta stupida burocrazia e inganni ai quali Natasha non era affatto interessata.

Aveva bisogno di dormire, recuperare le energie. Le sarebbe bastato così poco. Tornare alla base canadese dello SHIELD, dimenticare l’azione, leccarsi le ferite e crollare sul letto, in un sonno senza sogni di particolare rilevanza.

Non si riusciva dunque a spiegare perché fosse ancora fuori. A quell’ora del mattino, in attesa dell’alba, in un stupida corsia d’ospedale.

Non le piacevano gli ospedali. Non le piacevano i luoghi asettici. Diciamo pure che le facevano schifo. Le facevano venire i brividi? Sì, anche quelli (tanto, chi mai lo sarebbe venuto a scoprire? Natasha non lo avrebbe detto né mostrato ad anima viva). Le ricordavano troppe cose e nessuna di queste particolarmente piacevoli.

E quindi, perché?

Perché quell’attesa, su quegli scomodi sgabelli arancione shocking?

Quell’attesa snervante, lunga, pesante… noiosa. Non aveva con sé nemmeno un libro, nemmeno un laptop, né un mazzo di carte. Non che non avrebbe potuto sottrarne uno dai comodini mal controllati dei pazienti, ma non le sembrò un gesto molto onorevole. Almeno non da quando aveva imparato a capire il significato e il valore della parola.

Stava cercando una caramella, che sapeva affondata nella tasca di quei jeans sgualciti, quando avvertì chiara la presenza di qualcuno che non era infermiere o medico dall’aria condiscendente. Dover raccontare per la miliardesima volta che no, non era lì sola, e che no, non era una ragazzina disadattata, le avrebbe fatto prendere la definitiva decisione di andarsene.

Si rialzò in piedi solo quando fu sicura che fosse la figura di Clint Barton, quella che veniva verso di lei. Stanco, tirato, abbattuto, quasi irriconoscibile nella postura.

Era abituata a percepirlo come una persona solida, massiccia, decisa. Aveva subito una trasformazione inquietante, in una sola giornata.

Quando si fermò nel bel mezzo del corridoio deserto, capì che si era accorto di lei.

Lui non parlò. Natasha fece lo stesso, che cosa avrebbe potuto dirgli comunque? Non si era certo preparata un discorso. Non era nemmeno sicura di essere lì per parlare.

Come interprete dei pensieri altrui avrebbe saputo per certo come esordire. Come fingere, come sedurlo con frasi di circostanza, in una recita che per necessità si era trovata a ripetere a cicli continui... in passato.

Ma come si sarebbe dovuta comportare come essere umano? Che... si preoccupa, per davvero, per un altro essere umano?

Perché era così che si sentiva. Preoccupata? Lo aveva capito solo nel momento in cui aveva formulato la parola, nella sua testa. Per la prima volta un aggettivo che non correva di pari passo con la paura, ma piuttosto con un sentimento che le rendeva difficile l'interazione con una persona che era, solitamente, abituata a gestire in maniera diversa.

Clint Barton la faceva sentire a suo agio. Quell'uomo, fermo in mezzo al corridoio... no.

Le procurava una sensazione strana, alla bocca dello stomaco. E tutto ciò che le era chiaro, in quel trambusto di coscienza, era che non sarebbe comunque riuscita a chiudere occhio, pensandoci.

Eccolo. Ecco chiaro il motivo per cui era lì. Si sentì sollevata di aver sciolto almeno uno dei nodi. Ma non per molto.

“Credevo se ne fossero andati tutti.” Clint la cavò dall'imbarazzo, o qualsiasi cosa la frenasse davvero dal parlare.

Natasha rammentò la menzione di Coulson riguardo una visita all'ospedale, fece immediato il collegamento.

“Io sono appena arrivata”, non riuscì a fare a meno di confessargli. Glissò sul fatto di essere lì da almeno una mezz'ora buona.

“Vi date il cambio? Non ce n'è bisogno... davvero.”

“Nessuno mi ha detto di venire. L'ho fatto di mia iniziativa.”

Clint non ne sembrò sorpreso. Al contrario si frugò nelle tasche, tirando fuori qualche monetina, da cinque centesimi e non. Le contò sulla mano.

“Vuoi un caffè? Io ho bisogno di un caffè...” le offrì e Natasha trovò finalmente il pretesto per avvicinarlo.

Non gli chiese niente. Non ne aveva bisogno. Non ancora almeno. Sentì il rumore delle monetine che finivano giù per la macchinetta del caffè e non si preoccupò di scrutarlo più o meno sfacciatamente. Era pallido e stanco. Ancora un paio d’ore in quelle condizioni e sarebbe crollato al suolo, privo di energie. Ne era sicura. Si immaginava anche la scena. Se non fosse stato così abbattuto, magari ne avrebbe riso, lo avrebbe reso partecipe della visione. Giusto per stuzzicarlo un po'...

“Stai bene?” le domandò lui a sorpresa, risvegliandola dalle sue malsane elucubrazioni.

Si trovò a sbattere le palpebre a più riprese. Non si supponeva fosse lei, quella che avrebbe dovuto esordire con una domanda simile?

“Che vuoi dire?” gli domandò allora, confusa, mentre l'uomo le tendeva quel caffè che continuava a trovare vagamente nauseante. L’aveva costretta a interrompere il contatto visivo.

“Voglio dire: come stai. E' stata... una lunga giornata, quella di ieri.”

Natasha continuava a non capire. Non era lui quello abbattuto? Non era suo fratello Barney che rimaneva aggrappato alla vita grazie ad un respiratore e un marchingegno meccanico pieno di tubi? Nemmeno erano sicuri si sarebbe mai ripreso e, se l'avesse fatto, se non sarebbe comunque stato costretto a vivere come un vegetale per il resto dei suoi giorni.

“Io...” si strinse nelle spalle, per una volta tanto priva di risposte pronte “Io sto bene...”

“Bene. Sei stata... brava.”

Natasha ora aveva semplicemente perso il filo del discorso.

Clint Barton non era una persona che agiva molto secondo logica, ma più d'istinto, questo lo aveva capito dal giorno in cui aveva deciso di risparmiarle la vita, ma adesso che diavolo stava facendo? Deviando l'argomento per evitare domande scomode? Eppure non le sembrava il tipo. Aveva sempre risposto a tutte le sue domande, tutti i suoi quesiti, anche quelli più fastidiosi, complicati. Un libro aperto. Almeno fino a quel momento. (Il dolore a volte ti rende irriconoscibile. Una regola che non cambiava in quel contesto.)

Forse stava solo cercando di dissimulare. O di farla sentire a suo agio, come sempre. Per proteggerla da quell’individuo cupo e teso che evidentemente nemmeno lui amava. Gli altri sempre al di sopra di se stesso. Tutto ciò che lei non era mai stata.

Clint aveva troppo… cuore. (Eccolo! Ecco l’aggettivo giusto!) Si chiese come avesse fatto a sopravvivere in quell’ambiente fino a quel momento. Non lo avrebbe forse mai capito. Ma si scoprì curiosa di volerci almeno provare.

“Ho fatto solo il mio lavoro.”

“Lo hai fatto bene. Lo SHIELD non avrà più niente da ridire. È probabile che non avrai nemmeno più bisogno... della mia supervisione.”

La ragazza non seppe come prendere quella considerazione.

“Stai cercando di liberarti di me?” Non era riuscita a frenarsi, un principio d’ingiustificata ansia nella domanda, scontrosa nell’esecuzione.

Clint per la prima volta le rivolse uno sguardo stupito.

“No... io non... no.” si affrettò a smentire “Stavo solo cercando di dire che... insomma, immagino tu ti sia guadagnata la fiducia dell'organizzazione. Non sto cercando di... liquidarti. Era solo uno stupido modo per dirti che hai fatto dei progressi. Che ne sono… felice.” la confusione di Clint le sembrò così sincera che la cosa la lanciò ancora più nel caos.

“Non voglio liberarmi di te... no... non voglio... mai liberarmi di nessuno... però succede, no? Succede spesso. Uno si prepara... all'eventualità.”

Natasha intravide un barlume di consapevolezza in tutta quella danza di parole. E per un attimo Clint Barton le sembrò improvvisamente fragile. Fragile come non se lo sarebbe mai aspettato. Fragile come qualsiasi altro essere umano.

Non provò pena per lui, solo una sorta di incomprensibile solidarietà, di inspiegabile empatia.

Odiava il modo in cui la faceva sentire a volte. Altre, invece, ne era solo… totalmente, disgustosamente… affascinata.

“Ed io ho commesso l'errore di non prepararmi all'eventualità di quanto fosse schifoso questo caffè canadese.” dichiarò, cercando di tornare a provare quella familiarità che la metteva a suo agio. Doveva provarci. Per se stessa... e per... Clint Barton.

“Fa schifo?”

“Più dei tuoi intrugli, incredibile.” gli porse di nuovo il bicchiere, per un test: “Perché non proviamo quello della caffetteria, qui sotto? È aperta. Offro io. Mi hanno dato la paghetta.”

Clint le lanciò uno sguardo teso.

“Non lo so se...”

“Quando tornerai qui non sarà cambiato niente.” brutale come risposta, ma sincera e priva di inutile sentimentalismo da quattro soldi.

Lo sentì sospirare e prendere una decisione: il bicchiere di orribile caffè finì direttamente nel cestino.

“Ce li hai i soldi anche per un muffin al cioccolato?”

“Ce li ho per un’intera torta… di cioccolato.”

“Se non ti darai una regolata diventerai una cicciona americana.”

“Oh bè, almeno non ti sentirai solo.”

Nessuno se ne sarebbe mai accorto, ma Natasha, in tutta quella confusione, una confusione in cui solo quell’uomo sembrava essere in grado di spingerla, si scoprì, per la prima volta, semplicemente orgogliosa… di averlo fatto ridere.

 

*

 

E adesso cosa cazzo si sarebbero inventati? Sporchi, pidocchiosi ingannatori dei servizi segreti. Duquesne aveva lottato una vita per tenerli alla larga ed era bastata una distrazione a mandare tutto a puttane.

Per non parlare di quel ritorno al passato affatto richiesto. I fratelli Barton, ancora una volta a finirgli fra i piedi, ancora una volta a mettergli i bastoni fra le ruote. A sconvolgere la sua… vita.

Quando si era trovato Barney di fronte non aveva voluto crederci. O meglio… all’inizio non lo aveva nemmeno riconosciuto e poi, solo poi non aveva voluto crederci.

Mai fidarsi delle persone dai capelli rossi. Lo aveva sempre sostenuto.

Era venuto da lui con una proposta tanto allettante quanto sospetta. Aveva lavorato per loro, per settimane, con costanza e serietà… con lo pseudonimo di Antonio Brullarelli, Barranelli, Bubbanelli, un nome italiano. Un nome italiano… del cazzo! E lui, in tutto quel tempo, non lo aveva riconosciuto! Aveva decisamente perso il suo savoir-faire (come se mai ne avesse avuto uno, poi).

Quando aveva scoperto (più che altro chi per lui, aveva scoperto) che si trattava di uno stracazzo di agente sotto copertura della super stracazzo di CIA, solo allora aveva fatto un collegamento. Tanto inquietante, quanto allettante. Si sarebbe preso qualche piccola rivincita. Aveva fatto pestare a sangue quel fantasma del Natale passato e poi lo aveva interrogato a morte! Bè, quasi a morte. A mezzo vivo. A mezzo morto.

Barney Barton era cresciuto. Eccome se era cresciuto. E si era probabilmente fatto anche ricco. Si era chiesto se in questo fosse riuscito anche il fratellino impiccione. E bè, si era riscoperto quasi sollevato nel saperlo vivo. Quasi.

Nel senso… non che gliene fosse mai fregato veramente qualcosa dei… fratelli Barton.

Ah, ma chi voleva darla a bere? Aveva insegnato loro tutto. Tutto! E quello che ne aveva ricevuto era stata solo ingratitudine. Ingratitudine che si era anche concretizzata con una soffiata ai suoi danni, quando il suo solo scopo era quello di levarsi dai coglioni da quel circo di ingrati e rifarsi una vita.

Cosa che poi, tecnicamente, aveva fatto. Ancora sulla coscienza però l’essersi lasciato alle spalle un ragazzino pugnalato a morte. A mezza… morte.

Quel gran figlio di puttana di Clint non solo non era schiattato in quel (stracazzo di) circo, ma era persino tornato, come aveva fatto il fratello, per metterlo di nuovo nei guai.

E stavolta ben più grossi. Perché c’erano in ballo tutte queste organizzazioni segrete che se lo stavano contendendo come non ci fosse un domani.

E forse nemmeno ci sarebbe stato, un domani, se avessero continuato a tenerlo a digiuno.

Sì, doveva ammettere di essere incazzato. E affamato. E un tantino demoralizzato. Forse, soprattutto, per la mancanza di alcool.

Aveva anche provato a chiederne, dopo aver spiegato per la milionesima volta a quell’agente tarchiato, che lui conosceva solo parte del piano messo in piedi dalla sua organizzazione criminale. Che non era che un burattino anche lui, nelle mani del… fato. (Senti l'enfasi?)

Ma non sembravano propensi a credergli. Ma proprio per niente.

E quindi… era ancora seduto lì a chiedersi quanto ci avrebbero messo le manette a lacerargli la pelle e senza una goccia d'alcool in corpo a dargli sollievo.

Rialzò la testa solo quando la porta di quello stanzino luccicante si aprì. Di nuovo.

(DUQUESNE!)

Il grido gli aleggiò di nuovo nel cervello, terrorizzandolo, quando si scoprì di avere di fronte niente popò di meno che… provate a dirlo voi? Sì, lo stracazzo di Clint Barton!

Non riuscì a spiccicar parola. La lingua sembrava essersi incollata al palato.

Forse avrebbe dovuto mettere insieme un paio di scuse. Magari ci sarebbe cascato, in nome dei bei vecchi tempi.

Clint non fece altro che allontanare la sedia, metterglisi seduto di fronte e fissarlo.

Con una faccia seria. Ma così seria... e spaventosa.

Crescere non gli aveva fatto granché bene.

O forse non gli aveva fatto bene vedere lui, nello specifico.

Decisamente quello.

“Chi non muore si rivede…” esordì, e si complimentò persino con se stesso per la sagacia, il brillante senso dell’umorismo. Accennò anche una risata, prima di rendersi conto che Clint non sembrava colpito.

La stessa identica freddezza. Gli stessi occhi di duro granito.

Un po’ come la sua faccia.

Granito puro.

“Non ho niente da dire a te, più di quanto non abbia già fatto con i tuoi colleghi.” Dichiarò. Non gli sembrò il caso di specificare che avrebbe preteso il suo avvocato.

“Nemmeno uno straccio di scuse?” la voce di Clint giunse inaspettata.

Si irrigidì tutto, Duquesne. E cercò di darsi una parvenza di sdegnosa dignità.

“Scuse? Sei venuto qui solo per sentire… delle scuse?” gli venne quasi da ridere. E pensare che era sicuro gli avrebbero mandato qualche macellaio, pronto a farlo parlare a suon di sberle.

“Che altro?” gli rispose. “Considerato il fatto che Hopper ha già dato informazioni sufficienti per incastrare te e la tua intera organizzazione, abbiamo già tutto ciò di cui abbiamo bisogno.”

“Stronzate.” Gli sputò in faccia Duquesne, cercando di mitigare il panico. Hopper? Quello stronzo non era morto nello schianto con la macchina? Lo aveva visto lui (personalmente!) il sangue, tutto spetasciato sul cruscotto.

“Stronzate che però ti spediranno dritto dritto verso il carcere… a vita.”

Tremava, Duquesne, adesso. Tremava tutto. Di rabbia, di paura… di pressione bassa.

“Ed era esattamente quello che volevi, no? Volevi vedermi in carcere dal giorno in cui mi hai visto prendere i soldi da Carson! Volevi vedermi sul lastrico, volevi vedermi morto da allora!” la vena quasi pulsava nella sua gola. Sentiva l’astinenza e la fame abbatterlo come un rinoceronte africano dai contrabbandieri.

“Semmai il contrario…” dichiarò Clint. Lo sguardo non meno tremendo di prima, ma mitigato da qualcosa di lontano, un tono mesto che, fra i fumi dell’astinenza, sarebbe stato difficile, per lui, da capire.

“Cos-?” Lo vide alzarsi in piedi. Di nuovo. Duquesne solo confuso da quel breve ed enigmatico dialogo: “Che cazzo vuol dire?!” gli gridò dietro.

Clint si fermò solo un istante. Evidentemente indeciso se rispondergli o meno.

“Che non hai mai capito un cazzo di me, Jacques.”

Non sapeva però quanto si sbagliava. Duquesne aveva capito. Aveva capito tutto così nitidamente, nel momento in cui Clint aveva aperto la porta per uscire da quella luccicante stanza degli interrogatori.

Aveva capito che Clint era venuto lì, con quella sua faccia tremenda, solo a ricordargli atrocemente cosa avrebbe potuto avere… e tutto quello che invece si era lasciato scappare.

Aveva capito che Clint era uno stronzo, pezzo di merda, vendicativo, del cazzo, perché gli aveva sbattuto in faccia - a conti fatti, e in chiusura di storia - che una volta, tanto tempo fa, sullo sfondo di una stracazzo di atmosfera circense e giorni felici… gli aveva voluto bene.

 

*

 

Il bip bip, era diventato veramente fastidioso.

Aveva freddo. Freddo e… si sentiva gelare le palle. Inspirò a fondo e aprì gli occhi.

Il soffitto bianco e il mal di gola. Due delle cose più tangibili che riuscì a focalizzare.

Si sentiva… come… dopo uno dei trattamenti specialissimi di suo padre.

Perché gli era venuto da pensare a lui? Dopo così tanto tempo. Ma quanto... tempo?

Una mano si posò sulla sua spalla. Voltò appena il capo.

E, d'improvviso, tutto gli tornò alla mente, confuso ma…

Duquesne. La copertura. Clint. Clint e la rossa nella sua cella. La fuga. La fuga e… Duquesne. E poi il buio.

Doveva essere stata una giornata memorabile. E lui se l’era persa.

Ma quello al suo fianco era Clint. E Clint lo stava guardando. E forse stava... piangendo? Non era morto, no? Perché cavolo doveva mettersi a piangere, quel cretino?

Non lo aveva ancora capito, quello scemo, che lui avrebbe dovuto metterci il doppio dello sforzo per impedire a se stesso di crollare nello stesso modo? Era o non era lui il suo… fratello maggiore? Doveva essere superiore a queste cose. Dimostrargli maturità e protezione.

Protezione che però, al momento, non si sentiva granché in grado di dare.

Forse era il caso di passare il testimone. Per un po’… solo per un po’…

Richiuse gli occhi, ancora troppo debole, troppo stanco. La presa di Clint ancora salda sul suo braccio.

Stava gridando qualcosa all’infermiera ma…

In fin dei conti, pensò, si sentiva finalmente al sicuro.

 

___

N.d.A: Potevo davvero far del male a Barney? Nope. Ormai gli sono affezionata quanto a Clint… e tutti gli altri. Che dire se non ringraziare, al solito, tutti quanti leggano e la mia cara beta.

Next!

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 [RedHeads & Lucky] ***


CAPITOLO 13

 

[RedHeads & Lucky]

 

Senta, io non me ne intendo, ma ho un'idea per una delle vostre pubblicità. Si potrebbe mostrare una falegname che fabbrica una bella sedia e poi uno dei vostri robot arriva e fa una sedia migliore in metà del tempo. E mettete una grande scritta sullo schermo: "U.S.R.: l'uomo medio fa cagar". E qui c'è una dissolvenza.

(Io, Robot)

 

*

 

La casa di Clint Barton non era mai stata così affollata (se non si prendeva in considerazione quella volta che un gruppo di poliziotti aveva fatto irruzione nel suo appartamento, perché il vicino aveva organizzato un mezzo rave notturno nell’appartamento di fianco).

Aveva dovuto spiegar loro che i party, di solito, coinvolgono più di una sola persona. E con qualcosa di più che un pacchetto di M&M’s e una birra (rigorosamente) in bottiglia. Si erano scusati ed erano andati a bussare al giovane, intraprendente vicino di casa.

Clint era tornato a Casablanca, – il film, eh – su suggerimento di Coulson. La delusione nel non trovare la celebre citazione “Suonala ancora Sam” così come l’aveva sempre saputa, era stata grande, più di quella per la visita dei poliziotti.

 

Una testa rossa al tavolo della cucina era già una graziosa novità. Due teste rosse, sedute una di fronte all’altra erano quasi uno sconvolgimento globale dei suoi ritmi di vita.

E no, non si trattava di due gemelle particolarmente sfiziose che erano finite lì per spassarsela un po’.

Barney Barton leggeva il giornale del mattino.

Natasha Romanoff, digitava furiosamente sui tasti del suo laptop.

“Hai una connessione schifosa.” Commentò quest’ultima, allungando una mano sulla sua tazza di tè. Clint aveva dovuto frugare a lungo nella credenza per trovarne una che riportasse una lettera N. Lei non sembrava aver apprezzato adeguatamente la premura.

“Non è colpa mia”, le rispose Clint defraudato della sua postazione mattutina, seduto a terra, di fronte al divano, una marea di frecce sparpagliate ai suoi piedi, “E poi c’è sempre la biblioteca.”

“La biblioteca mi deconcentra.”

Clint fu certo di aver visto Barney donarle una lunga, ambigua occhiata da sopra il giornale. E si trovò solidale con lui, nel pensare che Natasha era bella proprio perché totalmente diversa da tutto ciò che suggerivano le convenzioni.

Lo vide ripiegare il giornale in modo quasi maniacale e provare a rimettersi in piedi dallo sgabello.

Clint scattò in piedi, quasi franando sul disastro di armi improprie, per aiutarlo.

 

Barney era uscito dall’ospedale da qualche settimana. Aveva deciso di non tornare immediatamente a Washington, dove viveva abitualmente, ma piuttosto, su suggerimento di Clint, di fermarsi un po’ da lui a New York. Si erano guadagnati entrambi una lunga vacanza, forzata o meno.

Barney trovava snervante il periodo di convalescenza. Non si era ripreso del tutto: faceva ancora fatica a camminare. Ma Clint sembrava così felice di prendersi cura di lui che non si era mai lamentato troppo delle sue condizioni, per non dispiacergli.

Natasha aveva preso a frequentare il suo appartamento per ragioni più pratiche. Lo stabile in cui abitava aveva bisogno di ristrutturazioni e lei si era semplicemente rifiutata di accettare un alloggio allo SHIELD Center. Clint aveva pensato bene di darle ospitalità. In barba alla folla.

Lei, dopo mille titubanze, aveva accettato. E occupato malvolentieri il letto (se non dopo miliardi di snervanti, ostinate trattative) di Clint che si era sistemato sul divano. Con tanti ringraziamenti della sua schiena.

 

“Lascia, Clint, ce la faccio.” Lo redarguì Barney con uno sguardo frustrato.

“Sono qui a non fare niente.”

“Non è vero, stai sistemando quelle frecciute diavolerie d’assalto… io devo solo andare a pisciare… ce la faccio”, poi guardando Natasha “Pardon.”

La ragazza si strinse nelle spalle come a dire: sono abituata a cose peggiori.

Clint lo lasciò andare, ma non senza restar fermo a seguirlo con lo sguardo finché non aveva raggiunto il bagno.

“Non è un ragazzino, lo sai…” Natasha gli fece notare.

“Ha avuto un incidente.”

“Il mese scorso.” Tutto questo senza mai alzare lo sguardo dallo schermo del pc.

“Mi preoccuperei così per chiunque.”

“Spero di non dover mai affrontare una convalescenza, allora”.

“Ah ah… ti perderesti tutte le mie premurose attenzioni.”

“Dio me ne scampi.” E nel dirlo aveva di nuovo afferrato la tazza, rigirandola affinché lui vedesse la famosa lettera N.

Ah. Allora se ne era accorta.

Tornò alla sua postazione, recuperò lo straccio con cui stava meticolosamente lucidando arco e frecce. Un po’ di manutenzione, in vista di una prossima missione, in attesa del giorno in cui si sarebbero decisi a affidargliene un’altra. Allo SHIELD dovevano aver deciso che, visti i successi della scorsa operazione, fosse una grossa ricompensa per la squadra, quella di spedire tutti in vacanza.

Il problema stava nel fatto che, al contrario di Grady & co., che se ne erano andati a scontare il premio in qualche isolotto sperduto dei Caraibi, lui e Natasha erano rimasti a New York, a godersi un’insolita quotidianità.

Clint aveva, in qualche modo, riscoperto il significato della parola casa.

Si era reso conto che non si trattava esattamente di un luogo fisico. Più un concetto che aveva a che fare con una situazione o un gruppo di individui.

Casa era il posto in cui ti ritrovi a condividere qualcosa, con le persone a cui sei più legato.

E in quel momento si sentiva esattamente così.

A casa.

Sorrise appena alla constatazione, mentre Natasha commentava qualcosa di appena scovato in rete.

“Certo che quel Tony Stark ha veramente la faccia da fanatico.”

“Chi?” le domandò Clint con aria assorta, mente l’impronta di quella ditata non aveva proprio intenzione di venir via dal suo arco.

“Stark. Quello delle Stark Industries. L’uomo più ricco di New York?”

“Non era Rockefeller, quello più ricco di New York?”

Natasha si astenne dal commentare.

“Che ha fatto?”

“Niente. Parlavano di un suo party, degenerato, da qualche parte…”

“Da quando in qua ti interessi di gossip?”

“Io mi interesso di tutto.”

“Tranne che di cinema.”

“Chi ha parlato di cinema?” Barney era appena uscito dal bagno e si stava ancora allacciando la patta dei pantaloni.

Clint gli lanciò uno sguardo d’ammonimento. D’accordo che la Vedova Nera non era il tipo da sconvolgersi facilmente, ma…

“Natasha parlava di cinema” gli confermò.

“Non è vero.” Negò lei.

“Natasha vuole andare al cinema?” Barney.

“Non voglio andare al cinema.” Natasha aveva finalmente abbandonato il laptop e li osservava infastidita.

“Davvero”, ribadì Clint. “Ha chiesto a noi di scegliere, ha detto che le va bene qualsiasi cosa.”

“Non ho mai detto di voler andare al cinema.”

“Ottimo. Fantascienza?”

“Ovviamente.”

“Cerco sul giornale.”

“Ehi, voi due…”

Io, Robot. Will Smith, un classico.”

“Ci sto.”

“Io no.”

“Anche Natasha è d’accordo, perfetto!”

“Pranzo fuori e primo spettacolo del pomeriggio?”

“Vado a mettere le scarpe.”

“Ed io i pantaloni.”

Natasha, ancora seduta sullo sgabello li guardò schizzare dalle parti opposte dell’appartamento.

“Dannati fratelli Barton.”

 

*

 

“Certo che se proprio vogliamo trovare un difetto al film… non c’entra proprio niente con il libro.”

“E quando mai lo fa? Sempre meglio il libro.”

“Will Smith sotto la doccia, però…”

“Natasha?”

“Cosa?”

Clint stava tenendo aperta la porta del cinema per permettere a Barney di uscire. Natasha, a seguire, gli scoccò uno sguardo innocente.

“Non ti è piaciuto.” Constatò Clint.

“Invece sì.”

“Hai commentato solo di Will Smith sotto la doccia.”

“Ogni donna dotata di ormoni, commenterebbe Will Smith sotto la doccia.”

“Su questo ha ragione.” Confermò Barney.

“Ma che ne sai tu?”

“Ho notato anche io Will Smith sotto la doccia.”

Clint alzò le mani in segno di resa.

Barney diede una gomitata a Natasha che sorrise. Clint si limitò a scuotere la testa: non avevano fatto altro che chiacchierare per tutto il tempo, al cinema. Lui, che voleva vedere veramente il film.

Natasha non era una di quelle persone che dialogava volentieri con gli sconosciuti, ma era anche vero che Barney sarebbe stato capace di far parlare pure i sassi. Nel letto di un fiume. In piena.

Li guardò procedere fianco a fianco per qualche metro, considerando che nella visione d’insieme avrebbero potuto sembrare padre e figlia.

Non seppe perché, ma la considerazione lo tranquillizzò.

Fece giusto qualche passo per raggiungerli che qualcosa gli schizzò di fronte con una rapidità sconcertante.

“Fermate quel cane!” gridava un uomo alle sue spalle, mentre la saetta dorata di quello che sembrava un giovane Labrador si andava a imbucare in un vicolo adiacente. Un vicolo apparentemente chiuso.

Natasha fu la prima a muoversi.

“Che cavolo le ha fatto quel cane?” domandò Barney mentre l’uomo che aveva gridato, brandiva un bastone lungo almeno quanto lui.

“Quell’ammasso di pulci ha rubato della carne nel mio negozio!”

Clint lo squadrò per bene: il camice sporco di sangue, l’arma impropria fra le mani, lo facevano sembrare più un serial killer, che… un (ipotizzabile) macellaio.

“E che cosa crede di ottenere da un cane randagio?” gli aveva domandato. Se sperava gli lasciasse mettere le mani (il bastone) su un povero cane, si sbagliava di grosso.

“Non è randagio per niente, è il mio cane!”

Clint considerò che l’impressione generale era che, quel macellaio, tutto volesse fare che solamente recuperare il suo cane. Già quell’espressione di violento possesso, gli sembrava del tutto sbagliata.

“Ripeto: e che cosa spera di ottenere bastonandolo?”

“Un po’ di disciplina!” beccato.

“Disciplina? In un cane? E’ per caso un addestratore?”

“No… ma…”

“E allora forse è meglio se mette via quel bastone.”

“Figuriamoci! Il cane è mio, faccio quel cazzo che mi pare.”

“Non secondo le leggi sul maltrattamento degli animali.”

L’uomo rise, una risata grassa e discontinua.

“E chi dovreste essere voi? Avvocati delle cause perse?”

“Agente Barton dello SHIELD.”

“Agente Barton della CIA”. Entrambi misero in mostra i rispettivi, scintillanti cartellini.

Il macellaio sbiancò. E il bastone gli cadde dalle mani.

“S-sapete che vi dico? P-potete anche tenervelo quel cane.”

“In quel caso si tratterebbe di abbandono. Sono sicuro anche quello sia da considerarsi reato.”

“Ehi! Ragazzi!” Natasha, dal vicolo.

I due fratelli nemmeno fecero in tempo a voltarsi che il macellaio prese a correre nella direzione opposta con una comica furia.

“Bella mossa.”

Entrambi considerarono che, probabilmente, avevano solo fatto un favore a quel povero cane. Una denuncia per maltrattamento però, al tizio, non gliel'avrebbe risparmiata nessuno. Dopotutto, quanti macellai potevano trovarsi a Brooklyn, in quel particolare segmento di quartiere?

Il cane era acquattato accanto alla cinta che impediva di proseguire nel vicolo. Fra un cassonetto e un divano smesso.

Una scena piuttosto patetica.

“Non vuole uscire.” Li mise al corrente Natasha che lo osservava ora a debita distanza.

Clint prese l’iniziativa.

“Ehi bello…” lo richiamò accovacciandosi appena sulle punte dei piedi, sbirciandolo nella penombra. Il cane ringhiava appena, ma la fioca luce che gli illuminava gli occhi, rivelò solo paura.

Clint valutò la situazione e poi recuperò dalla tasca posteriore dei jeans quello che restava di un pacchetto di patatine. La carta scrocchiò un istante, mentre le patatine cadevano a pioggia sull’asfalto.

“Hai fame? Scommetto che il tuo padrone nemmeno ti ha fatto gustare un po’ di quella carne che hai rubato.” Gli sorrise istintivamente, sebbene sapesse perfettamente che gli animali non hanno alcuna percezione delle espressioni umane. Ricordò un insegnamento di un vecchio addestratore di scimmie, al circo. Mai mostrare i denti. La maggior parte degli animali lo interpreta come un segno di ostilità.

E non lo fece. Rimase però in paziente attesa. Si rimise in piedi arretrando di qualche passo mentre Barney e Natasha osservavano la scena sullo sfondo.

Passò un minuto buono, prima che il cane decidesse di uscire dal suo nascondiglio.

Clint fece una smorfia, quando si rese conto che zoppicava. Quello stronzo doveva essere riuscito a colpirlo, almeno una volta. Una di troppo.

Gli ricordò tristemente giorni passati di percosse infantili. Era da tanto che no pensava a suo padre. Perciò decise di scacciare altrettanto rapidamente il ricordo.

Il cane li guardò titubante, prima di chinarsi sulle patatine e lapparne via una alla volta dall’asfalto.

“Non ti sembra il cane dei nostri vicini in Iowa?” domandò Clint al fratello, intrecciando le braccia al petto, soddisfatto del discreto successo della sua impresa.

“Avevano un San Bernardo, Clint.”

“Ah. Vabbè, era comunque un cane. Com’è che si chiamava? Odino?”

“Thor.”

“Vabbè, sempre di divinità celtiche parliamo.”

“Norrene”, aveva aggiunto Natasha.

“Voi due oggi vi siete messi d’accordo?” si rivolse poi al cane che aveva finito ed ora li osservava speranzoso in qualche altro extra: “E tu com’è che ti chiami?”

Il cane si leccò i baffi, reclinò il testone di lato e abbaiò una sola volta: “Woff.”

 

*

 

Fu così che la famiglia Barton guadagnò un elemento.

Il cane non aveva medagliette. Non aveva tatuaggio. Era come se non esistesse per l’anagrafe canina. Il macellaio non doveva averlo da molto. Il veterinario, controllando la zampa malconcia (una slogatura che non necessitava di particolari cure, se non il riposo) e i denti, decretò che avrebbe potuto avere dai dieci mesi all’anno d’età.

Un cucciolo, praticamente. Non era un Labrador, come avevano pensato, bensì un meticcio.


“I meticci vivono più a lungo, Clint, lo sapevi?”

“Dei super cani.”

“Per dei super agenti speciali.”

“Voi due…”

 

Lo avevano chiamato Lucky. Un nome banale ma efficace. Se non altro un nome che Clint non avrebbe avuto difficoltà a ricordare. Nessuna divinità norrena dei suoi stivali.

Era sdraiato sul pavimento del salotto, satollo ed assonnato. Di tanto in tanto sbirciava i Barton seduti sul divano a guardare qualche rumoroso match televisivo e la ragazza dai capelli rossi, raggomitolata sulla poltrona, le labbra appena dischiuse, crollata dopo la lunga giornata d’azione.

“Mi sentirò meno in colpa a ripartire per Washington.” aveva commentato Barney, raccogliendo un'altra birra.

Clint si era voltato a guardarlo. Come se la notizia arrivasse del tutto inaspettata.

Si rilassò solo dopo averla assorbita per bene e averla annaffiata con una sorsata di birra fresca.

“Non sono nemmeno sicuro che lo terrò.” gli disse Clint.

“Perché no? Sembra così tranquillo. Magari, ecco, chiudi a chiave il frigorifero.”

“Non è per quello”, rispose. “Quasi non riesco a badare a me stesso, figuriamoci a un cane.”

Lucky dalla sua postazione alzò la testa, quasi avesse capito che stavano parlando di lui.

“A me invece pare che tu te la stia cavando alla grande.”

“Come no?”

“Smettila di sottovalutarti, vuoi?” gli tirò una gomitata.

“Ahia.” Clint si massaggiò con forzata veemenza il fianco colpito.

“E poi non parlavo solo del cane.”

Clint dovette fare un piccolo sforzo per capire a cosa si riferisse, poi comprese dove lo sguardo del fratello andasse a parare. Natasha apparentemente dormiva ancora.

“Non sono più il suo supervisore.”

“Lo sei mai stato? Ero convinto fosse il contrario.”

“Ah ah ah.”

“Non sto scherzando. Sono contento di sapere che qui c'è un sacco di gente che tiene a te.”

Clint si accigliò per un momento.

“Lo sai che non mi piace quando cominci a fare il sentimentale?”

“Lo so. Per quello lo faccio. Adoro vedere i tuoi occhioni grigi lagrimare d'amore.”

Clint gli sganciò un pugno sulla spalla.

“Ma vaffanculo.”

“Cazzo, questo faceva male!”

“Smidollato.”

“Sono ancora convalescente.”

Clint gliene mollò un altro.

Barney glielo restituì.

Il cane prese ad abbaiare.

Natasha aprì un occhio e poi un altro. Si rimise seduta e si stiracchiò.

“Meno male che dovrei essere io, la ragazzina.” commentò, mettendo momentaneamente fine alla diatriba. “Me ne vado a letto, così potete massacrarvi in santa pace.”

La videro sbadigliare e richiamare a sé il cane che la seguì senza fare mezza grinza.

 

*

 

Passò un'altra settimana prima che Barney decidesse davvero di tornare a... casa.

Persino Natasha si era offerta di accompagnarlo all'aeroporto.

Un rapido saluto, una promessa di risentirsi.

 

“Se devi partire per una missione segreta... mandami almeno un messaggio criptato.”

“Temo che non ci sarà nessuna missione segreta, per un po'.”

 

Un abbraccio frettoloso. Uno meno frettoloso a Natasha. Clint era convinto di averlo visto bisbigliare qualcosa al suo orecchio, prima di lasciarla andare.

Non si interrogò troppo a fondo. Era solo contento di veder Natasha interagire con altri esseri umani che non fossero colleghi dello SHIELD.

Avevano deciso di aspettare il decollo dell'aereo di Barney dal belvedere dell'aeroporto.

A Clint piacevano le altezze, non ne aveva mai fatto segreto.

“Che ti ha detto Barney?” non riuscì proprio a impedirsi di chiederle. In barba a tutti i propositi buonisti e accondiscendenti.

“Di farti i fatti tuoi.”

Clint scosse la testa rilasciò una mezza risata. Che altro si aspettava rispondesse?

Tornò attento solo quando l'areo di Barney cominciò a correre sulla pista, perdendosi verso l'orizzonte e poi alzarsi in volo, verso il cielo.

Lo avrebbe chiamato non appena fosse stato certo che era atterrato. Nessuna proroga. Non più.

“Cazzo...”

Natasha si volse a guardarlo, inquieta.

“Cosa?”

“Ho lasciato la spesa sul tavolo della cucina!”

“Oh.”

Lucky.

Casa era il posto in cui ti ritrovi a condividere qualcosa, anche con gli animali... affamati... a cui sei più legato.

 

___

 

N.d.A: Lucky esiste davvero. Nel senso, mi sembrava doveroso specificare che, nei fumetti di Occhio di Falco, le modalità in cui è avvenuto l'incontro sono diverse. E’ stato molto più cruento e commovente. Detto ciò, io il cane ce lo dovevo mettere. E dunque eccolo qui.

Capitolo leggero. Per prendere un po’ di respiro.

Ringrazio tutti. La Sere e… alla prossima!

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 [Bow & Arrows] ***


CAPITOLO 14

 

[Bow & Arrows]


Un colpo solo.” Io non ci credo più tanto a questa storia del colpo solo, Mike.” “Tu devi contare su un colpo solo, hai soltanto un colpo, il cervo non ha il fucile, deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale.”

(Il Cacciatore)

 

*

 

Non vorrei proprio la figura di quello che si dimentica degli amici.
Non vorrei sembrare un ingrato.

Insomma, ci sono casi in cui ti devi macchiare di puro feticismo, per arrivare a concepire un tributo chiaro e autentico ai veri protagonisti della storia della tua vita.

Coulson mi capirebbe. Dopotutto lui parla quotidianamente con (e non di...) la sua collezione vintage di... oggetti e statuine, di dubbio gusto e natura. Ma ehi, ognuno ha il diritto e il sacrosanto dovere di occuparsi di ciò che lo fa sentire meglio. Sapete, quelle cose che snebbiano la mente, che ti aiutano a staccare la spina.

O nel mio caso, aiutano a riattivare la corrente.

Non importa quanto tempo tu ci dedichi o meno, importa come ti fa sentire nel momento in cui, questi oggetti, li hai sottomano.

E quindi... facendola breve, la scorsa settimana, ho comprato un bunker.

Un garage?

Una cantinetta.

Insomma lo davano via a un prezzo stracciato nello stabile in cui vivo, per cui mi sono detto: Clint, è arrivato il momento di investire un po' dei tuoi soldi. Quasi non hai vizi! Non vorrai dire che tutto quello che hai risparmiato lo vuoi tenere per il giorno del tuo funerale?

Tanto pagherà lo SHIELD, no? (e poi insomma chi se ne frega, quando uno è morto è morto, qualcuno pagherà).

Un posto carino. Spazioso. Completamente vuoto.

L'ho agghindato, secondo gusto personale: qualche attrezzo di tortura, un palo, manette, un letto a baldacchino con le lenzuola di seta...

Ci avete creduto? Ma per chi diavolo mi avete preso? Non che non sia adeguatamente maniaco, quando la situazione lo richiede, ma non avrei mai cuore di impegnarmi in uno sbattimento simile solo per mettere in piedi un boudoir sadomaso di dubbio gusto.

Ci ho allestito un poligono di tiro. Niente di troppo impegnativo. Una rastrelliera per archi e frecce, un paio di bersagli (nuovissimi, lucidissimi), una vecchia radio per dare un po' di ritmo alle lunghe sessione di allenamenti.

Un adeguato rivestimento per insonorizzare la zona. Un piccolo frigorifero per le... esigenze. E un telefono. Perché non si sa mai. Dovesse capitare che Nick Fury abbia un'urgente incombenza da sottopormi ed io sia morto sfinito dopo una notte a scagliar dardi.

Improbabile, ma...

Vi sembra adeguato?

Sì, lo so che anche allo SHIELD Central hanno un poligono di tutto rispetto. Sicuramente più dotato e impegnativo di questo buco, ma... volevo qualcosa che fosse solo mio.

E non mi dispiace mai troppo potermi dedicare a quello che mi piace fare, senza, per una volta tanto, rendere conto a nessuno.

Sono le tre del pomeriggio. Di domenica. Ho appena finito il caffè. Magari ci scappa qualche tiro.

 

 

*

 

Una nevicata come non se ne vedeva da anni.

Una lunga scia di sangue a definire involontariamente il percorso. Notte buia senza stelle e una galleria di alberi gravidi di neve a fargli da santuario.

Quieti fruscii di ghiaccio che si scioglieva o di piccoli animali notturni e, a fargli compagnia tangibile solo arco e frecce.

Si era scavato una conca accanto a una grossa conifera dal tronco massiccio. Se fosse riuscito a sopravvivere alla notte, avrebbe avuto qualcosa di valido da raccontare il prossimo sabato sera al pub.

Aveva perso tutto. Una rocambolesca fuga, un salto che aveva fatto precipitare in una crepa tutto ciò che aveva con sé.

Il piano di recupero era stato stabilito il giorno prima, ma non era sicuro di aver seguito le coordinate dopo aver perso mappa e GPS.

I suoi inseguitori, dopotutto, non gli avevano lasciato scelta.

Il campo ormai lontano, i compagni di missione dispersi da qualche parte, come lui. Separarsi aveva avuto la priorità.

La gamba gli pulsava dolorosamente.

Lo avevano colpito. All'inizio era stata come una stilettata momentanea. Aveva però continuato a correre, finché non si era guadagnato una discreta distanza per ritenersi al sicuro. L'obbiettivo principale, adesso, era di estrarre quella dannata pallottola e assicurarsi che non avesse fatto più danni del previsto.

Si levò la giacca per avere più agilità di movimento e sollevata con cautela la gamba dei pantaloni aveva scoperto il polpaccio.

La stronza era ancora lì. Conficcata nella carne tenera. Niente di così preoccupante, constatò, ma faceva un male del diavolo.

Attirò a sé la faretra, l'unica fedele compagna rimasta.

Ne estrasse una freccia, una delle più appuntite. La punta brillò nella tiepida luce della luna, nel riflesso della candida neve.

Inspirò a fondo e cominciò le operazioni.

Ci volle pazienza e una buona dose di sopportazione. La pallottola sembrava felice di stare al suo posto, ma alla fine era saltata fuori, con una cospicua perdita di sangue. Clint non si era preoccupato di lanciare improperi più o meno gentili ai danni dei suoi carnefici.

Sfilò la cinghia della faretra e la legò saldamente appena sopra la ferita, sperando di frenare l'emorragia, prima che il danno diventasse irreversibile.

Si infilò di nuovo la giacca, si strinse nelle braccia, cercando di contenere più calore possibile.

E attese.

Sarebbe stata una lunga... notte.

 

*

 

Aveva inseguito il bastardo per tutto il giorno e questo ancora si permetteva di sfuggirgli.

Era agile, veloce, la freccia narcotizzante che gli aveva scagliato contro sembrava avergli fatto acqua.

Lo SHIELD aveva ragione nel dire che era un caso di quelli che andavano trattati con estrema cautela. Ma l'ordine era di non uccidere. Di prenderlo vivo.

Facile a dirsi.

Meno a farsi. Se avesse potuto raggiungerlo con una freccia di quelle serie, avrebbe portato a termine il suo obiettivo da ore.

Quando poi l'inseguimento aveva raggiunto un livello superiore (in tutti i sensi) fra i tetti dei palazzi, la questione aveva cominciato a diventare piuttosto personale. Si stava prendendo gioco di lui. E Clint sfortunatamente amava la competizione.

Lo vide raggiungere il parapetto. Troppa la distanza fra un palazzo e un altro. Lo avrebbe raggiunto, raggiunto e braccato, in qualsiasi modo.

L'uomo non aveva fatto una piega alla questione. Dopo un solo attimo di esitazione si era lanciato, nel vuoto.

Ma qualcosa disse a Clint che doveva aver fatto male i suoi calcoli perché gli sembrò che il salto non fosse abbastanza lungo. Lo vide precipitare dopo un patetico tentativo di agganciare il tetto con le mani ad artiglio.

“Merda!” aveva imprecato, prima di scagliarsi letteralmente verso il parapetto.

Fu tutto velocissimo. Clint vide l'uomo che precipitava: pronostico di morte imminente.

Modificò l'assetto high-tech delle sue frecce e con rapidità e precisione ne aveva scagliata una: “Tre, due, uno...”

La freccia esplose letteralmente, appena agganciato l'obiettivo, ingabbiandolo in una rete extra resistente. A pochi secondi dall'impatto si era aperto un paracadute che ne aveva addolcito l'atterraggio.

Preso.

Adesso toccava a lui scendere.

Si affidò di nuovo alla sua faretra.

 

*

 

“Devi solo...” si avvicinò a Natasha e agganciò il suo braccio. Guadagnandosi uno sguardo ostile “Chetati, non voglio amputarti, sto solo cercando di metterti nella posizione giusta.”

“Sono già nella posizione giusta.”

“Per nulla.”

“Ho imitato la tua.”

“Imitare non significa sapere cosa stai facendo.”

Lei finalmente gli permise di aiutarla.

Le si portò alla spalle, le sistemò le braccia e la mano sull'arco.

“La freccia deve stare in questo modo.” le aveva posizionato il dardo affinché il colpo divenisse preciso ed efficace.

“Allinea le braccia, come se l'arco sia un prolungamento del tuo corpo. Tira verso di te la corda, calibra i flettenti.”

La sentì irrigidirsi e allentò la presa.

“Concentrati sul bersaglio. Prenditi tutto il tempo. E' uno sport che richiede pazienza.”

Scoccò la prima freccia senza che lui avesse dato alcuna direttiva a riguardo. Aveva centrato il bersaglio ma piuttosto lontano dal centro.

“Cosa stavo dicendo riguardo la pazienza?”

“Un'arma che richiede pazienza mi rallenta e basta.”

“Perché ragioni secondo le tue regole. Un arciere agisce secondo le proprie. Un solo colpo preciso ti risparmia un sacco di fatica.”

Lei di nuovo lo guardò con sguardo obliquo.

“Non ci credi?”

“Continuo a pensare che mi rallenterebbe. Calibrare, prendere la mira. Un calcio in bocca e la storia è finita.”

Le prese l'arco dalle mani.

“Facciamo così.” Clint recuperò tre frecce in contemporanea. Lei si limitò a guardarlo perplessa.

“Corri verso il bersaglio. Prima che tu possa raggiungerlo e strapparlo letteralmente dalla parete, io avrò fatto centro tre volte.”

“Il bersaglio sta fermo, è facile così.”

Clint pigiò un tasto dalla pulsantiera accanto al pannello di comando della struttura.

Il bersaglio cominciò a muoversi a destra e a sinistra.

“Meglio?”

Natasha si strinse nelle spalle.

“Al tre?”

“Al tre.”

“Uno... due... tre!

Natasha scattò verso il bersaglio.

Clint incoccò le tre frecce in contemporanea. Inspirò, espirò, irrigidì la schiena, allineò le braccia.

Tic. Tac. Tic. Tac.

Tic.

Swish.

Toc.

Triplo centro.

Natasha afferrava il bersaglio mobile l'attimo successivo.

“Dai!”

La sentì dire.

“Centro?”

“Esibizionista. E con questo cosa volevi dimostrare?”

“Niente, che tu hai il fiatone... ed io no.”

“Non ho il fiatone.” negò riavvicinandolo con il bersaglio strappato, fra le mani. Le frecce ancora agganciate al pannello sulla parete.

“Le tue tette mi dicono il contrario.”

“Cos... ?”

Il pugno nello stomaco se lo era meritato.

 

*

 

Le esaminò tutte, una per una. Con una precisione e concentrazione tale che Coulson per un attimo ebbe l'idea di uscire a prendersi un caffè.

“Sei sicuro che il direttore Fury abbia fatto ordinare per me tutti questi prototipi?” domandò Clint, portando ad altezza di sguardo una freccia a forma di ampolla.

“Chi altri usa arco e frecce allo SHIELD?”

“Già bè... magari un fanatico.”

“Tu sei un fanatico.”

“Io sono un praticante, è diverso. Tu... sei un fanatico.”

“Scusa?”

“Oh, la freccia boomerang!”

“Barton!”

Clint ne prese un'altra, ignorando l'indignazione del collega.

“Ringrazia il direttore Fury da parte mia.”

“Già fatto.”

“E ricordami di ringraziare te più tardi. Cena e partita di baseball o serata romantica?”

“Scusa?”

“Un arsenale di frecce. Giusto il giorno del mio compleanno. Andiamo... Fury non ha nemmeno il tempo di andare al cesso, figuriamoci ricordarsi e assecondare le mie richieste.”

Coulson non rispose e sistemò una freccia andata fuori parallelo con le altre, sapientemente sistemate in fila sul tavolo del suo ufficio.

“Se mi prometti che non ci proverai subito dopo la cena... scelgo la prima opzione.”

“Sarò un cavaliere.”

“Bene. Però non sono un fanatico.”

“Eccome se lo sei!”

“Barton!”

“Dai! Una freccia sonica!”

 

*

 

 

Caro Clint,

ma si iniziano ancora così le lettere? Sono anni che non scrivo una lettera. O forse non ne ho mai scritte. Pensavo si potesse sposare bene con il fatto che il pacchetto che troverai in allegato è vintage al pari dei mezzi utilizzati per farti arrivare la missiva.

Insomma, tutto questo è solo per farmi perdonare il fatto che non potrò essere lì per il tuo compleanno. Lavoro... sai. Certo che lo sai.

Non sono nemmeno sicuro sarai a casa quando verranno a portarti il mio regalo.

Nessun salamelecco.

Buon Compleanno.

 

Barney Barton

 

 

Erano almeno cinque minuti buoni che Clint si rigirava fra le mani il suo vecchio arco. Il suo primo arco. Un arco che lo riportava indietro di anni, a vecchie, agrodolci memorie adolescenziali. Quello che usava per gli allenamenti, consunto sull’impugnatura, che aveva abbandonato per quello nuovo, scintillante, il giorno in cui aveva preso ad esibirsi. Non sapeva nemmeno che Barney se lo fosse portato dietro.

Era ancora in ottimo stato. Barney doveva essersene preso cura in modo maniacale.

Lucky osservava la scena perplesso, scodinzolando.

“Che dici, lo appendiamo in salotto? E' un cimelio storico, sai?”

Il cane abbaiò, al solito, una volta sola.

“Già. Lo penso anche io. Barney non sbaglia un colpo.”

Clint recuperò martello e chiodi.

Proprio sopra il divano.

Faceva la sua porca figura.

 

*

 

Inspiro, espiro. Irrigidisco la schiena, allineo le braccia, prendo la mira, rilasso la mano.

Swisssh.

Toc.

Centro.

 

___

 

N.d.A: Lossò. Arco e frecce non sono persone. Però non potevo non dedicare un capitolo a ciò che più di ogni altra cosa caratterizza un arciere. Nello specifico il protagonista della storia.

Al solito, ringrazio sempre tutti coloro che si fermano a leggere questa storia. E a chi, ogni tanto, dedica un po’ del suo tempo per lasciarmi una recensione. Che, insomma, fa sempre piacere, soprattutto per sapere che ne pensate di questi miei… sproloqui…

E poi sempre grazie alla beta (sì, sempre tu) che con il suo entusiasmo e i suoi consigli mi da una gran spinta a continuare a scrivere, anche quando l’ispirazione fa brutti scherzi. Perché ultimamente ne ha fatti parecchi… ma sono già al ventesimo capitolo, per cui per un po’ avrò ancora di che condividere. Quindi grazie Sere! *pugni sul cuore* I heart you.

E a tutti gli altri: alla prossima.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 [Forgotten Children] ***


CAPITOLO 15

 

[Forgotten children]

 

Non dimenticare: due cose non conoscono limiti, la femminilità e i modi di abusarne.

(Nikita)

*

New York, 14 maggio

 

Questa faccenda dei supereroi proprio non riusciva a digerirla.

O super mostri, a seconda della prospettiva.

Divorava fumetti dall'età di sette anni, aveva amato le avventure di Batman, dei superamici, letto golosamente le gesta di Green Arrow, l'arciere di smeraldo (al quale si sentiva particolarmente legato) e di Wonder Woman, ma se mai gli avessero detto, che un giorno, avrebbe dovuto affrontare esseri del genere, in carne, ossa e metallo... sarebbe scoppiato a ridere. Sonoramente e con tanto di sberleffi offensivi.

Eppure adesso erano lì. Sotto i suoi occhi. Sotto gli occhi di tutti.

Prima quel bestione verde dall'aria spaventosa che con uno starnuto rischiava di fare fuori mezza Manhattan, e adesso Tony Stark.

Il miliardario. L'uomo più ricco di New York, capace di uscirsene fuori con una di quelle dichiarazioni che fanno impazzire il pubblico mondiale.

La notizia non aveva fatto altro che correre da un media all'altro senza sosta. E lo SHIELD non si era fatto sfuggire la ghiotta occasione di studiare il caso.

La famiglia Stark non era poi affatto estranea all'organizzazione: nonostante tendesse a rimuovere le nozioni di storia, Clint lo sapeva bene. Howard Stark era stato un pezzo grosso. Il pezzo grosso dello SHIELD. Ed ora suo figlio aveva appena fatto il botto con qualcosa di potenzialmente interessante. Di prodigioso...

“Iron Man. Per un ammasso di ferraglia volante... un nome piuttosto fantasioso.” aveva dichiarato sarcasticamente Clint, un venerdì mattina, al quartier generale dello SHIELD. I telegiornali si susseguivano tutti più o meno con la stessa notizia: Esclusivo! Tony Stark, è Iron Man.

“Se uno non ti conoscesse abbastanza bene, direbbe che sei invidioso.” Coulson si stava versando un caffè.

“Di cosa? Dell'armatura? Dell'attenzione dei media?”

“Un po' di tutti e due.”

“Più che di tutt'e due potrei essere geloso dei soldi di quel tizio. O del suo pizzetto... non riesco a farmi crescere una barba decente da quella missione in Giordania.”

“Quella era una barba decente?”

“Non mi provocare, Phil. Potrei cominciare con le battute potenzialmente offensive.”

“Le tue battute sono sempre offensive. Per il comune senso del pudore.”

Clint aveva scosso la testa e sedato la voglia di ribattere, rubando un biscotto al cioccolato dalla confezione di una delle tirocinanti chiacchierine che sostavano nella sala ristoro.

“Te ne devo uno.” le aveva fatto l'occhiolino e questa era arrossita fino alla punta dei capelli. Clint era ancora in una sorta di gongolamento interiore per via della reazione che era riuscito a suscitare nella ragazza, quando qualcuno si era messo fra lui e il corridoio, facendogli quasi rovesciare il caffè per la sorpresa.

“Ma che cazz-”

“Agente Barton, sempre intento a provocare i trigliceridi?”

“Natasha?”

La ragazza gli stava di fronte. Sguardo obliquo, capelli rossi e… curve. Erano... settimane, o forse mesi che non la vedeva. La trovava in gran forma.

“In carne e ossa.”

“Credevo fossi ancora a... perdonami, non ricordo per un cazzo dove tu fossi.”

“Istanbul.”

“Precisamente.”

“Ti trovo bene...”

“Anche tu non stai male.”

Clint aveva sorriso, considerando che sì, rispetto all'ultima volta, la vedeva decisamente meglio.

Lei gli sorrise di rimando. Era così raro vederglielo fare, che per un assurdo attimo si era illuso fosse merito suo.

Realizzò, con improvvisa consapevolezza, di quanto gli fosse mancata.

Non riuscì a fare di più che rimanere a guardarla, incapace di esprimere in altro modo il suo compiacimento: Coulson lo precedette con una rapidità sconcertante.

“Bentornata fra noi Romanoff…” gli era sbucato alle spalle.

“Ehi, Coulson…” la vide sorridere di nuovo e capì che si stava facendo inutili paranoie per niente.

Li guardò sciogliere la tensione in un rapido abbraccio e per un attimo si maledì per non aver pensato immediatamente ad esordire con quello, invece di restare fermo a fissarla come un baccalà con evidenti problemi di relazione.

“Mi hanno detto che Istanbul è stato un gran successo.” Ecco, Coulson se lo ricordava dove l’avevano spedita. Bè, bella forza era il suo lavoro, quello di supervisionare i lavori, no?

“Non ci si può lamentare.”

“Che pignola…” si era intromesso Clint, guadagnandosi uno sguardo di rimprovero da Natasha e una risata da Coulson. Eccolo il suo modo di sciogliere la tensione. Magari meno diretto, ma efficace in egual modo.

“Stavamo analizzando l’ascesa di Tony Stark.” La mise al corrente. “Coulson gli è stato dietro tutto lo scorso mese.”

“Hai conosciuto Tony Stark?”

“Più o meno”, rispose Coulson, rimanendo sul vago.

“Qualche coinvolgimento con lo SHIELD?”

“Informazioni riservate.”

“Lo odio quando fa così…” stronfiò Clint, dandogli un’amichevole pacca sulla spalla.

“Prendi qualcosa, Nat?”

La ragazza scosse la testa: “Ho già fatto colazione. Volevo solo salutarvi.”

“Woah, sei venuta qui apposta per noi?”

Natasha lo guardò a lungo: “Per chi altri?”

Clint nascose l’ennesimo sorriso dietro la tazza di caffè. Ustionandosi.

“Merda!” imprecò.

 

***

Bulgaria, sei mesi prima.

 

“Natasha! Natasha mi ricevi?” aveva perso il segnale solo da una manciata di minuti e la cosa lo aveva lanciato nel panico.

Se non poteva vederla, che almeno potesse sentirla. Ora che gli erano venuti a mancare tutti i collegamenti si sentiva totalmente impotente.

Aveva caricato arco e frecce e si era lanciato all’inseguimento. Lasciarla sola ed isolata, un’opzione da non prendere nemmeno lontanamente in considerazione.

Si erano divisi meno di un’ora prima ed ora tutto quello che riceveva era il verso gracchiante e vagamente canzonatorio dell’auricolare malfunzionante.

Se lo era strappato di dosso (Coulson lo avrebbe rimproverato per questo) e si era spostato.

L’avrebbe trovata. In un modo o nell’altro.

 

*

 

Natasha aveva dovuto forzare gli archivi per recuperare manualmente tutti i documenti riservati di cui aveva bisogno. Pochi e selezionati: quelli che lo SHIELD si era ripromesso di prelevare. Il segnale che la manteneva in contatto con Clint era saltato nel momento stesso in cui aveva avuto accesso al database di quel terminale preistorico, presso il quale si era augurata di ricavare informazioni sul materiale da cercare. Un sistema di protezione piuttosto brutale, ma altrettanto efficace. Aveva perso tutto. La sua memoria fotografica, però, era riuscita a registrare quello che le serviva.

Aveva sentito la voce di Clint che la chiamava un’ultima volta e poi più niente.

Aveva deciso di proseguire comunque: sapeva che avrebbe trovato il modo di raggiungerla.

Stava cercando da qualche minuto, aveva recuperato più della metà di quelle vecchissime cartelle, piene di calcoli che tanto sembravano aver destato l'interesse di Fury e compagnia, quando lo sguardo le cadde su uno scatolone carico di fascicoli dall’aria, se possibile, ancora più consunta.

Sebbene la coscienza le dicesse di lasciar perdere, di concentrarsi sui documenti segnalati dal database, non aveva potuto fare a meno di cedere all’intuizione, all’istinto.

File riservati, microfilm, istantanee di polaroid.

Le informazioni si susseguirono rapide in quella che fu meno di una manciata di minuti.

La luce tremò un paio di volte, prima di saltare definitivamente, lasciandola completamente al buio. Come a voler celare la brutale, mostruosa realtà con la quale era appena entrata in contatto.

Il rumore di fogli sparsi al suolo.

Il buio l’avvolgeva come un sudario, soffocandola nel suo disagio interiore.

Bambini. Tutte quelle foto di… bambini.

*

 

Le sirene risuonavano per tutto l’edificio. A breve si sarebbero ritrovati addosso una montagna di merda.

Aveva raggiunto l’area degli archivi ad una velocità tale che si chiese se non avesse per caso volato davvero, come un falco. L’intero settore era completamente al buio. Aveva dovuto atterrare un paio di guardie, un piccolo inconveniente che aveva però mandato a monte la copertura di Natasha. Non che ora ne avesse più bisogno. Le telecamere di sorveglianza erano già state sapientemente messe fuori uso. E comunque, gli unici sorveglianti presenti (da quello che aveva potuto constatare) erano già al suolo con aria tutt’altro che sana, equipaggiati con armi da fuoco che sembravano essere uscite direttamente dalla seconda guerra mondiale.

Clint constatò che tutto in quell’edificio richiamava alle anticaglie, a partire dall’arredamento e dalle tecnologie tutt’altro che moderne.

“Natasha!” aveva esordito, un colpo secco ad aprire la porta bloccata dell’archivio.

Intravide la sua ombra, appena illuminata dalla luce di una torcia.

“Natasha, dobbiamo andarcene da qui!”

“Lo so.” L’aveva sentita dire, ma niente della sua postura sembrava pronta alla fuga. Al contrario stava raccogliendo fogli sparsi per tutto il pavimento.

“Sono i nostri file?” Clint le era venuto in aiuto, rapido.

“In parte.”

“Che significa in parte?”

“Significa che adesso mi aiuti e poi te lo spiego.”

Clint si rese conto, dal suo tono di voce, che per la prima volta dacché la conosceva, la donna appariva tesa durante una missione tanto ordinaria. Il suo viso, una maschera di cera.

“Natasha…”

“Muoviamoci.” Era pronta ancora prima che potesse chiederle cosa ci fosse di così importante in quei documenti malconci: era sicuro non si trattasse di quelli che avrebbero dovuto riportare all'organizzazione.

Gli furono addosso appena varcata la soglia di quel maledetto archivio. Almeno una ventina di guardie che, per quanto maldestramente armate, avevano fatto passare ad entrambi un pessimo quarto d’ora. Erano riusciti a liberarsi dell’inconveniente, ma non senza conseguenze.

Clint si era massacrato una spalla, Natasha gli stava dietro a fatica. Ma erano salvi. Se non altro… vivi.

 

*

 

La casa sicura, predisposta per l’estrazione, era piccola e acciaccata. Una topaia se rapportata a quella in cui erano stati accolti solo qualche mese prima.

“Mi occupo io del rapporto allo SHIELD.” Aveva dichiarato Natasha. Clint ebbe come l’impressione che avesse trovato la scusa perfetta per isolarsi, per non dover rispondere immediatamente alle sue domande.

Clint aveva messo al sicuro i file che servivano allo SHIELD e solo in seguito analizzato i documenti che Natasha tanto si era premurata di portare con loro.

Ben presto comprese di aver avuto una pessima idea.

Erano documenti che riportavano rapporti più o meno dettagliati di sperimentazioni umane su soggetti che non potevano raggiungere i sei anni d’età. Una serie di fotografie a documentare il processo, a catalogare i candidati, a decretarne i successi e i fallimenti, finanche la morte. Bambini rapiti, senza nome, apparentemente senza identità. Tutti orfani, da quello che aveva potuto comprendere.

“E’ mostruoso.” Aveva commentato a mezza voce, l’orrore che gli serpeggiava nello stomaco. Qualcosa in lui restio a voler proseguire, ma d'altro canto consapevole di non poterne fare a meno.

Natasha se ne era accuratamente rimasta in disparte, apparentemente estranea alle sue reazioni nauseate per il raccapricciante scempio umano.

Tutto materiale decaduto. Casi archiviati da così tanti anni che quasi si sarebbe aspettato di vedersi sfaldare fra le mani ogni singola pagina. Eppure Natasha li aveva voluti con sé. Strapparli da quegli archivi, portarli alla luce. Per cosa poteva servirsene lo SHIELD? Che Fury le avesse dato una missione parallela da portare a termine? Non gli sarebbe sembrato strano… e nemmeno la prima volta.

Tutto quello che Clint aveva capito, in quella lettura dell'orrore, era che nessuno di quei bambini era stato in grado di superare l’età anagrafica che era stata loro attribuita alla fine dei rapporti.

Bambini che avrebbero potuto avere almeno una sessantina d’anni a tutt’oggi.

Testati per cosa? Per diventare… cosa? Vita facile per i creatori di quel circo degli orrori, approfittare di chi non aveva avuto una famiglia a reclamarli. Nessuna adozione di fortuna per loro, nessuna liberazione. Una cella. Test clinici invasivi. Le foto di ragazzini sgomenti, smagriti, alienati, a raccontare una storia di dolore, paura e morte.

Clint aveva chiuso le cartelline, saturo di informazioni, disgustato dal solo pensiero di cosa fossero stati in grado di generare.

Natasha ancora scriveva al laptop, un piede fasciato, una borsa del ghiaccio sullo zigomo pesto.

Qualcosa gli disse che non c’era solo un'avversione momentanea a quell’improvviso silenzio, ma qualcosa che andava a scavare a fondo, nella sua anima, a ripescare nelle sue viscere qualcosa di sepolto. Ormai la conosceva abbastanza bene per saper dire quando qualcosa la turbava sul piano personale. Si trovò a farsi domande sul suo passato, su cose che aveva solo intuito.

Si era seduto e l’aveva guardata lavorare. L’espressione concentrata, lo sguardo rapito sullo schermo del portatile. Quando concluse la guardò richiudere con riluttanza il laptop. “Saranno qui a breve.” Disse con voce piatta. Aveva recuperato la sua freddezza, troppo impostata anche per lei. Stava simulando. Questo non fece che confermare brutalmente le sue ipotesi.

“Natasha...” cercò di attirare la sua attenzione, incassandosi in quella poltrona polverosa.

La ragazza era rimasta silenziosa, ancora una volta, si era rannicchiata sul divano, la mano a reggere il ghiaccio.

“Lo so, ti avevo promesso una spiegazione…” Erano parole così sottili che per poco Clint non si domandò se non le avesse solo immaginate.

Quando alzò lo sguardo su di lei, Natasha lo stava finalmente guardando.

 

Per come si erano messe le cose, Clint si trovò a considerare che non avrebbe mai forzato l’argomento di sua spontanea iniziativa. Natasha, però, adesso sembrava finalmente decisa a concedergli un chiarimento. Il tasso emotivo così volubile, pericoloso, fragile.

“Forse sarebbe il caso di tornare indietro di qualche… anno, prima di dirti a che mi servono quei documenti”, esordì, mettendo immediatamente in chiaro come stavano le cose: non era un ordine di Fury, ma qualcosa che nasceva direttamente da una sua scelta personale. “Non credo sia un mistero… il fatto di non aver vissuto un’infanzia… comune. Sono sicura che tu sappia già abbastanza di quanto ti dirò.” proseguì “Ero molto piccola. I miei ricordi non arrivano troppo lontano. Ricordo bene solo il viso del nostro primo supervisore”, la sua voce, di solito così incolore era diventata esitante, raccolta, “Non era… necessario conoscere il suo nome. Ci rivolgevamo a lui come il comandante. Era facile da ricordare… facile per tutti.”

Clint non si era mosso dalla sua postazione, la mera distanza fisica a separarlo da quella confessione.

“Ricordo le stanze in cui eravamo costretti a dormire, uno accanto all’altro, per riscaldarci, come fanno gli animali in branco. Ricordo gli allenamenti. I test fisici, mentali. Le sperimentazioni. Per accrescere la forza fisica, la memoria… All’età di dieci anni sapevo già parlare quattro lingue. Conoscevo le più letali tecniche di combattimento. Usare almeno una decina di armi diverse. Ci costringevano a dormire con un'arma per non averne paura, per reclamarla come migliore amica a protettrice.”

Cercò di mettersi più comoda, allungando il piede malconcio. Emise un gemito sommesso.

“Non c’erano bambini in realtà, lì dentro. Solo macchine da guerra in miniatura.” La sua voce si era fermata per un lungo attimo.

“C’erano giorni in cui eri portato a credere che la testa ti sarebbe esplosa, che i muscoli si sarebbero sfaldati. Molti non sono sopravvissuti all’addestramento. Non ricordo il nome o il viso di nessuno di loro. Mi hanno detto che la mente tende a rimuovere ricordi… negativi.”

Qualcosa gli disse che non fosse proprio quello, l'aggettivo che andava cercando. Ricordi... dolorosi. Ricordi traumatici. Sono quelli che la mente tende a cancellare.

“Sono diventata operativa all’età di undici anni. Ci sono posti che solo un ragazzino minuto può raggiungere. Molti di questi non tornavano mai più. Chi invece ce la faceva, veniva modellato per portare a termine un’altra missione. Ho avuto così tante identità da aver scordato chi fossi. Diventavo ciò in cui mi chiedevano di trasformarmi. Niente di più, niente di meno. Un numero in una macabra tabella di marcia. Lo scopo era arrivare vivi alla fine della giornata. L’organizzazione ci nutriva, si prendeva cura di noi, in cambio noi mettevamo al loro servizio la nostra esistenza… e gli cedevamo la nostra anima.”

Socchiuse gli occhi, come a scacciare immagini non richieste, o forse, solo per non lasciarsi sfuggire il momento.

“Col passare degli anni le abilità si affinavano. Le ragazze venivano istruite per ricoprire ruoli più complessi. Gli uomini… tendono a diventare stupidi in presenza di una bella donna.”

Clint non era sicuro di voler sentire altro su quel particolare argomento. Natasha non proseguì.

“Ero fermamente convinta che non sarei mai arrivata a vedere la soglia dei vent’anni. Nessuno di cui fossi a conoscenza ci era mai riuscito. E in ogni caso... a nessuno di questi era mai stato concesso un ringraziamento, un riconoscimento per il sacrificio. I morti erano solo casi archiviati. Un fallimento da nascondere. Da dimenticare.”

Aveva voltato la testa nella sua direzione.

“Lo sarei diventata anche io, poco meno di niente.”

Clint ci lesse molto più di quanto avesse mai fatto in tutti quegli anni, in quello sguardo.

Rimpianto, dolore, frustrazione, rabbia. Tutto lì. Tutto concentrato in un paio di occhi verdi.

“Quei documenti magari adesso sono inutilizzabili. Un caso storico isolato. Archiviato... poco interessanti dal punto di vista di una qualsiasi indagine... ormai. Ma sono importanti. Importanti come lo sono stati quei bambini. E’ importante che qualcuno conosca la loro storia. Che sappia che sono esistiti. Cosa hanno passato. Chi avrebbero potuto essere... è importante che non vengano dimenticati, capisci? Qualsiasi sentimento… possano suscitare… saranno, agli occhi del mondo, non dei numeri in un archivio… ma degli esseri umani.”

Clint si era trovato ad annuire, ad accogliere quella confessione come il più greve e prezioso dei fardelli che Natasha potesse regalargli. Per quanto gli potesse sembrare forte e imperscrutabile, niente avrebbe mai potuto impedirgli di pensare a quanto fosse profonda la sua coscienza, quanto immenso il suo spirito. Di quanto le fosse costato raccontarglielo, di quanto fosse importante che lui avesse capito, di quanto lo sarebbe stato non dimenticarlo mai.

“Non ci sono mica riusciti a portarsela via, la tua anima…” le disse quando fu certo che non avrebbe più aperto bocca.

Lei si limitò a lanciargli un lungo sguardo, uno di quelli che ti arrivavano dentro, che ti costringevano ad abbassare gli occhi per impedirle di averti completamente in suo potere. Stavolta però, Clint non se ne sottrasse, sicuro del fatto che lo stesse guardando solo per renderlo consapevole di una cosa: del fatto che aveva voluto cederne un po' anche a lui, di quella sua preziosa anima.

 

***

New York, 14 maggio

 

“Riparti subito?” Clint aveva aperto la porta a Natasha, gesto che lei considerò fin troppo formale. Il cielo era terso. New York scintillava tutta sotto quel sole primaverile.

“No. Ho qualche giorno. Tu?”

“Faccio i bagagli per domani.”

“Dove?”

“E’ riservato.” L'uomo imitò – malissimo – la voce di Coulson.

“Mh.”

“Dai, scherzavo. Venezia.”

“Te ne vai in Italia? Sono anni che manco da lì…”

“Puoi fuggire con me. Chiedo a Fury una valigia più grande. Son sicuro che dentro ci staresti.”

“Insieme ai tuoi calzini sporchi? Che proposta romantica.”

“Ti sembrava una proposta romantica?”

“Una fuga a Venezia mi sembra abbastanza romantica.”

“Me lo devo appuntare…”

Natasha sorrise.

“Non dovresti essere tu l’esperto?”

“Il massimo del mio romanticismo l’ho esaurito portando una ragazza a vedere V per Vendetta.”

“E’ un bel film.”

“Puoi dirlo forte.”

“Meglio del fumetto…”

Clint si era fermato. Natasha aveva parlato di fumetti?

“Chi sei tu? Dove hai sepolto Natasha Romanoff, agente dello SHIELD?”

“Piantala...”

“Okay.”

“Ti arrendi così?”

“Che altro dovrei fare? Sono triste, hai appena rifiutato la mia proposta romantica.”

“Credevo non ti sembrasse una proposta romantica.” Clint le fece il verso, imitandola malissimo. “Maturo.”

“Dunque quando sarà la prossima volta che ci rivedremo, Romanoff?”

Natasha si era fermata, guardava la gente affrettarsi sui marciapiedi, ognuno in corsa verso la propria meta.

Si strinse nelle spalle, schermandosi gli occhi con una mano per poterlo inquadrare meglio.

“Magari la prossima settimana. Magari il prossimo mese.”

“Magari il prossimo anno.”

“Dovrò procurarti un bastone per la vecchiaia?”

“No, grazie, sono piuttosto ben attrezzato da quel punto di vista.”

Lei lanciò di nuovo gli occhi al cielo e non per seguire la scia di un aereo.

“Ti lascio alle tue illusioni e me ne vado. Ho un colloquio con la direzione appena dopo pranzo.” Tagliò corto.

“Sempre operativa, sempre all'erta.”

“Fa' buon viaggio, Barton.” lo stava davvero congedando.

Alzò una mano in un saluto appena accennato. Di nuovo provò quel senso di inadeguatezza. Lo stesso che gli impediva di salutarla agilmente come aveva fatto Barney prima di lui, come faceva Coulson, più o meno sempre.

Tentò di dire altro, ma fu ancora la titubanza ad avere la meglio. La mano andò a massaggiarsi casualmente la nuca.

“Ci vediamo, Romanoff.”

Nemmeno registrò lo spostamento d'aria e la massa di capelli rossi che gli finiva in faccia.

Natasha lo stava abbracciando.

 

___

 

N.d.A: Niente di trascendentale, solo un punto sul livello di intimità che hanno raggiunto negli anni i due agenti. Diciamo che Natasha aspettava solo il momento buono per raccontare a Clint quello che già intuivano o sapevano tutti. Tutti quelli che hanno accesso ai files della Vedova nera, comunque. Non sono entrata nello specifico, anche perché quando si tratta di Natasha e dei suoi trascorsi so sempre poco come muovermi (fra comics e film il tutto è parecchio incasinato e immagino vada trovato un giusto mezzo) e poi comunque questo è solo il punto di vista di Clint. Insomma... con questa si è conclusa la seconda fase della vita di Occhio di Falco. Con la prossima, parte la terza e più “conosciuta”. Dal punto di vista dei film, almeno. Nuovi (e noti, notissimi) personaggi all'orizzonte, dunque. Concludo con i ringraziamenti di rito e di nuovo a Sere, che le nostre chiacchierate portano sempre a qualcosa di molto buono (o molto pessimo!).

Ah... siete andati a vedere l'ultimo X-Men? Sono l'unica che ha trovato delizioso Quicksilver? Una nota che non c'entrava niente con il capitolo, ma dato che siamo sempre in universo Marvel...

Alla prossima!

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 [Dott. Erik Selvig] ***


CAPITOLO 16

 

[Dott. Erik Selvig]

 

Forse è bello avere una grande intelligenza ma il dono più importante è scoprire un grande cuore.

(A Beautiful Mind)

 

 

*

 

Che succede quando il mondo che sei abituato a conoscere, prende una piega inaspettata?

Quando si curva fino a diventare una visione distorta di ciò che sei abituato a conoscere?

Ti trovi costretto a cambiare prospettiva, ad ampliare i canali della mente. A cercare di mettere da parte le leggi fisiche e chimiche che ti hanno sempre tenuto ancorato alla realtà.

Clint aveva sperimentato sulla sua pelle, che nemmeno un centinaio di litri di caffè lo avrebbero messo in condizione di rendere meno incredibile quello che stava accadendo.

Era riuscito a sorvolare sugli esperimenti ai raggi gamma del dottor Banner. Ad accettare gli eccentrici congegni di Tony Stark, ma niente lo aveva preparato ad avere a che fare con entità aliene... entità che sembravano essere uscite direttamente dai libri di storia, o meglio dai libri che raccontavano eroiche gesta di esseri mitologici.

Nello specifico: divinità norrene. Così come una volta gli aveva puntualizzato Natasha.

Niente popò di meno che Thor, il dio del tuono (che niente aveva a che vedere con il San Bernardo dei loro vicini di casa, nell'Iowa, se non per la stazza) aveva deciso di precipitare sulla terra, con il suo super martello, portandosi dietro una sequenza infinita di caos, distruzione e gatte da pelare.

Lo SHIELD ovviamente non si era lasciato sfuggire la ghiotta occasione di studiare approfonditamente il caso.

Prima si era visto operativo in quel sudario di calura e sabbia che era il deserto del New Mexico (Coulson, ti ricordo che sono in vacanza... almeno dammi il tempo di mettere insieme due vestiti! Di sistemare Lucky), ed ora si trovava nel complesso dei laboratori sperimentali dello SHIELD non in veste di scienziato, ma di supervisore, controllore, gorilla, investito dell'ingrato compito di monitorare la situazione, e il lavoro del professore Erik Selvig astrofisico o sa il demonio, incaricato di studiare il Tesseract. Quel cubo cosmico carico di raggi gamma.

Avrebbe passato i prossimi mesi della sua vita in quella struttura in cemento armato, metallo e vetro.

Lo terrorizzava di più l'idea di avere davvero troppo tempo per pensare.

Se non altro poteva dirsi in buona compagnia.

Quando gli avevano notificato l'arrivo di Coulson, pensò che forse avrebbe avuto la possibilità di sgranchirsi un po' le gambe. E di raggiungerlo direttamente all'ingresso.

“Ehi, ti credevo tornato alla base!” lo aveva accolto, il sollievo di una pausa, di un volto amico, evidente sul suo visto tirato.

“Lo ero. Un paio di aggiornamenti prima di tornare qui.”

Gli aggiornamenti, Clint lo sapeva bene, riguardavano il ritrovamento di un patriottico ghiacciolo dall'aria vintage.

“E questo gioiellino?” Clint si era avvicinato giusto il tempo di capire che quella Corvette Chevrolet rosso fuoco sembrava essere proprio sua.

“Ti piace?”

“Altroché, non voglio nemmeno sapere quanto l'hai pagata.”

“Una sciocchezza, è in dotazione allo SHIELD.”

“Stronzate”, gli era girato attorno per poterla osservare dalle diverse angolazioni consentite.

“Dico sul serio. Fury ha detto: scegli un mezzo di trasporto adeguato. Ed io ho scelto.”

“Pazzesco. E quanto fa questo splendore?”

“A terra o in volo?”

L'espressione sul viso di Clint risultò impagabile.

“Ti illustrerei tutte le qualità di Lola, ma immagino tu sia piuttosto impegnato, al momento.”

Lola?”

“E' il suo nome.”

“Te lo ha detto lei?”

“Subito dopo il terzo appuntamento.”

“Una donna difficile.”

“Non puoi nemmeno immaginare quanto.”

“Sarà gelosa la tua ragazza.”

“E' una donna dalla mentalità aperta.”

Clint di nuovo allargò le braccia in segno di rassegnazione. Coulson si era accoppiato? Perché nessuno glielo aveva detto? Perché nessuno aveva messo fuori i cartelli?

“Quante diavolo di cose mi sono perso in queste ultime settimane?!”

“Giusto un paio, sono tornato apposta per farti qualche aggiornamento, no?”

“Credevo fossi tornato solo per vedermi rosicare, in realtà.”

“Anche, ma solo un pochino.”

“Prima o poi me la farai provare Lola.”

“Nemmeno morto.”

“Troppo definitiva come affermazione.”

“Il professor Selvig?” era arrivato il momento di tornare a lavorare.

“Sempre a lavoro.”

“Portami da lui.”

 

Il professor Selvig stava ancora armeggiando con tutti quei macchinari che lo SHIELD gli aveva fornito. Clint si rendeva conto di quanto grande fosse la sua passione: l'entusiasmo con cui si affacciava alle scoperte di quella cosa riuscivano a avvincere anche lui, per riflesso. Come un bambino per cui il Natale sembrava essere arrivato prima.

“Professore.” Coulson gli si era avvicinato, sottraendolo da una serie di complicati calcoli matematici.

L'uomo aveva alzato la testa, e osservato con quell'espressione sempre un po' stranita che Clint ormai aveva imparato a conoscere.

Il professore era un tipo bizzarro, ma di natura docile. Sempre, apparentemente con la testa fra le nuvole (o fra gli astri che studiava), come se il ciclo continuo della terra non lo toccasse poi molto, come se ne avesse già sviscerato tutti i segreti e fosse sempre pronto a scovare nuovi livelli, oltre gli universi conosciuti.

Clint immaginò che, per un astrofisico, avere la conferma che esisteva la possibilità di visitare mondi sconosciuti, fosse la cosa più entusiasmante di sempre. La scoperta di una vita. La massima aspirazione... di una vita.

“Oh, buongiorno”, lo aveva riconosciuto. Coulson e Selvig avevano già avuto modo di incontrarsi in New Mexico, durante i disastri mitologici che avevano visto distrutta mezza Puente Antiguo.

Clint li guardò stringersi la mano, e ragguagliarsi sulle novità più o meno incisive sulla ricerca in corso, senza distogliere per un solo attimo l'attenzione.

Fury si era tanto raccomandato, con tanto di occhio intimidatorio (alla: io vedo tutto comunque, perciò non sgarrare), di tenerlo sotto controllo. Chi meglio di Occhio di Falco per l'operazione?

Aveva pensato che, alla lunga, un compito simile lo avrebbe solo annoiato a morte.

Le ultime settimane erano state un susseguirsi di passeggiate più o meno educative per la centrale.

Ma fu costretto a smentirsi riguardo la natura della sua permanenza: aveva imparato più in quegli ultimi giorni che in un intero semestre all'accademia, in materia di fisica e matematica.

Selvig si era detto piuttosto incline a renderlo partecipe delle operazioni. Clint prendeva appunti mentali e riportava tutto alla direzione.

Si era reso improvvisamente conto della portata della cosa. Delle infinite, possibili complicazioni il giorno in cui la NASA, lo SHIELD o chi per loro, avessero deciso di usare quelle informazioni per qualcosa di poco nobile (come se non fosse già accaduto in passato).

La natura delle sue preoccupazioni, però, non riguardavano quel caso specifico.

Clint non si sentiva al sicuro.

Una sensazione alla bocca dello stomaco che si andava intensificando, giorno dopo giorno, senza una spiegazione razionale.

Cosa aveva detto riguardo ad avere troppo tempo per pensare?

“Agente Barton...” gli si era rivolto Selvig e quasi non ci aveva prestato attenzione, preso com'era dalle sue elucubrazioni, “Quasi non la riconoscevo... ultimamente se ne sta sempre lassù in alto...” la testa ad indicare un punto specifico “... nel suo nido.”

Clint scrollò le spalle.

“Monitoro la situazione senza essere d'intralcio.”

“L'agente Barton vede meglio da una certa distanza.” Coulson si era intromesso, lanciandogli uno sguardo d'intesa.

“Me lo hanno detto”, Selvig posò una cartellina carica di appunti “Sarei curioso di vederla in azione, un giorno o l'altro.”

“Non credo sarebbe uno spettacolo edificante, professore.”

“Un agente dello SHIELD che, invece di pistole e armi a ripetizione, usa arco e frecce? Mi permetta di contraddirla.”

Clint sorrise appena.

“E' sempre così serio?” domandò a Coulson che, lì per lì, non comprese la natura della domanda.

“Ma chi... Barton?”

 

*

 

“Certo mi dovresti dire perché Selvig pensa che tu sia una persona seria.”

“Io sono una persona seria.”

La chiacchierata, in tempo per la pausa caffè: ormai un rito a cui Clint non avrebbe saputo rinunciare.

A volte pensava che anche laggiù, al di fuori del loro scenario abituale, gli sarebbe bastato un caffè, un paio di persone fidate per fare di ogni luogo la sua casa. Anche se sembrava un ammasso di locali freddi e austeri.

“No, davvero, mi preoccupa saperti sottotono.”

“Non sono sottotono, Phil... solo non è esattamente il tipo di missione che annovererei fra le più esaltanti.”

“Lo so. Devi avere pazienza. Fury aveva bisogno della supervisione di una persona fidata, da queste parti.”

“Credevo bastassi tu.”

“A volte tendi veramente a sottovalutarti, lo sai questo?” Clint si strinse nella spalle, non del tutto persuaso. Persino Barney continuava a ricordarglielo.

“Mh. Il fatto che tu non abbia nemmeno provato a contraddirmi la dice lunga sulla veridicità delle parole di Selvig.”

“Che vuoi che ti dica, Phil? Non sono in forma, evidentemente. O mi sono ammosciato per la completa mancanza di azione, in queste ultime settimane.”

“Credevo ne avessi avuta abbastanza in New Mexico.”

“Abbastanza sì, ma non nelle modalità a cui sono abituato.”

Phil gli rivolse uno sguardo valutativo: “Eppure dovresti ormai sapere che quella è quasi ordinaria amministrazione, allo SHIELD.”

“Già, ma... non lo so. Sono cresciuto in un circo, dove nani e donne barbute erano cosa da tutti i giorni, ma si trattava pur sempre di avere a che fare con degli esseri umani. Mi sembra solo che dopo l’arrivo del mostro verde ai raggi gamma… e del gigante con il martello volante, si siano messe in atto connessioni astrali che non fanno che portar… caos.”

“I guai seguono i guai. Non si dice così? Non dirmi che hai paura, Barton.”

“Non ho paura. Più che altro si tratta di una sensazione, Phil. E’ come… se da qui in poi le cose non andranno a migliorare.”

“Sei così pessimista solo perché ti hanno tirato giù dal letto troppo presto stamattina o… ?”

Clint lanciò a Coulson uno sguardo vagamente preoccupato.

Avere a che fare con forze inspiegabili, che andavano ben oltre la più subdola natura umana, lo mandava in confusione. Era già difficile avere a che fare con le persone, con il mondo così come era abituato a conoscerlo.

“Immagino sia solo perché sono troppo solo ultimamente. Parlare con scienziati tutti i giorni non aiuta il cervello a ragionare con leggerezza.”

Se Coulson era preoccupato, per lui fu solo un guizzo, tanto rapido quanto impalpabile. L'uomo era già tornato a rivolgergli quel suo sorriso bonario, a tratti rassicurante.

“Credevo che ti svagassi con i ragazzi della sicurezza.”

“Ogni tanto... ma un paio d'ore al giorno non sono granché sufficienti. Sto sempre dietro a Selvig. Ho dovuto mettergli addosso una cimice perché quello si sveglia nelle ore più impensabili della notte se gli viene un colpo di genio improvviso, lo sai?” gli confessò con una punta di esasperazione nella voce.

“Sì, mi hanno detto di averlo visto dalle telecamere di sicurezza.”

“Ecco, se guardi bene i filmati ha sempre un'ombra accozzata dietro. Che per la cronaca: sono io.”

“Fury ti darà una promozione per la perizia.”

“Che me ne faccio di una promozione? Voglio un aumento.”

“E cosa te ne fai di un aumento?”

“Mi serve per farti una proposta per Lola, no?”

Phil alzò gli occhi al cielo.

“Lola non è in vendita.”

“Oh, andiamo. Tutto è in vendita.”

“Non lei.”

“Staremo a vedere.”

“Potrei, al massimo, rivedere il cavillo del: nemmeno da morto.”

“Sono dichiarazioni pericolose, Coulson. Ricordati che me lo segno”, accantonò solo per un attimo l'argomento: “Piuttosto... voglio sapere tutto della tua... ragazza.”

“La mia chi?”

“Coulson!”

“Non so di cosa tu stia parlando.”

“Non fare lo stronzo”, puntò un dito sul tavolo della mensa a cui erano seduti, come a chiarire la questione. “Dammi un po' di gossip. Devo tenermi occupato con altro per le prossime settimane.”

“Tenerti occupato con la mia vita sentimentale... ?”

“Anche. Dato che ho quasi paura di chiederti come è Steve Rogers dal vivo. Anzi... da vivo.”

Clint fece una pausa, mentre il suo intricato cervello faceva un paio di collegamenti mentali: “Non dirmi che è Steve Rogers la tua nuova ragazza?”

“Barton...”

“Tu non mi dici niente! Faccio solo supposizioni del tutto lecite. Non sono io quello che ha una specie di santuario di roba che lo riguarda, nella sua teca, in ufficio.”

“Bè... è solo... oh, insomma. Steve Rogers è un eroe nazionale.”

“A-ah... anche Abramo Lincoln, Martin Luther King e compagnia sono eroi nazionali, ma non mi sembra che tu tenga del loro materiale nella teca.”

“Che rompicoglioni, Barton.”

Sgranò gli occhi a mo' di scherno: “Hai detto una parolaccia. Uuuh, ti ho punto sul vivo.”

“Con questa... ancora non mi spiego come Selvig faccia a pensarti una persona seria.”

Clint si mise a ridere e finì il suo caffè.

“Okay, okay, giuro che non prenderò mai più in giro il tuo amore per il Capitano.”

Coulson parve accettare le pseudo scuse: “E comunque da vivo è esattamente come nei filmati che abbiamo trovato in archivio.”

“Pazzesco. Sono curioso di conoscerlo...”

L'uomo gli sorrise.

“Quando avrai finito qui. Immagino che al momento non abbia molti posti dove andare a rifugiarsi. Lo SHIELD è più che propenso ad arruolarlo.”

“Un super soldato...” esalò Clint, mentre la sua mente andava a stuzzicare paranoie già in atto.

“Non sarebbe il primo”, alluse Coulson, facendogli capire immediatamente a chi si stesse riferendo: Natasha.

Inspirò a fondo, sentendo tangibile e greve la mancanza dei suoi affetti più prossimi. Da quando la donna fosse entrata a farne parte, non seppe dirlo.

“Lei come sta?” gli domandò allora, l'ombra di un sorriso sul viso di Coulson, che sembrava aver già intuito l'arrivo di quella domanda specifica.

“In ottima forma, al solito. Un paio di missioni da quando sei qui.” Clint intuì una sorta di ombra nel suo sguardo, qualcosa che non gli stava dicendo. Non indagò. Se le fosse successo davvero qualcosa di tremendo glielo avrebbe detto. O così almeno sperava.

“Portale i miei saluti, quando la vedrai.”

“Sicuro. Potresti anche farle una telefonata. Dubito che non ti sia permesso farlo.”

“Per dirle cosa? Annoiarla sulle proprietà dei raggi gamma?”

“A Natasha basta sentirti.”

Clint nascose, malissimo, un'espressione compiaciuta.

“Comunque, in tutto questo, non ti sei nemmeno degnato di rispondere alla mia domanda.”

“Quale domanda?”

“Quella sulla tua ragazza...”

Coulson parve ragionarci su per qualche istante.

“E' una violoncellista.”

“Wow... e dove diavolo hai conosciuto una violoncellista?”

“Lunga storia.”

“Ti sembra che io non abbia tempo?”

L'uomo sospirò qualcosa, e solo dopo una sequenza più o meno inquietante di insistenze, cominciò a raccontare.

Clint non aveva sbagliato. Ci si sarebbe alimentato per le prossime settimane, con quella storia.

La familiarità di quel momento era riuscita a placare, in parte, qualsiasi paranoia. Trovò a domandarsi che fine avrebbe fatto se Coulson non fosse mai comparso nella sua vita. Se non fosse venuto a estirparlo dalla sua pseudo dipendenza, dalle sue manie di autodistruzione. E se non si fosse improvvisato consigliere e dispensatore di sacrosante paternali. Una rassicurante costante.

 

*

 

Fu solo la settimana successiva, che il professor Selvig allertò l'intero reparto di ricerca, nello specifico alle 16 di un giovedì pomeriggio. Poco prima dell'orario di cena.

Clint aveva raggiunto la confusione solo per scoprire che il Tesseract aveva avuto dei picchi di attività piuttosto preoccupanti.

Il nodo allo stomaco non aveva fatto altro che serrarsi in modo inarrestabile.

“Avete provato a spegnere tutto?”

“Come non averlo fatto. Si riaccende spontaneamente.” Selvig sembrava, per la prima volta, vagamente turbato.

Clint era rimasto ad osservare la scena, disorientato.

“Forse è il caso di avvisare l'Agente Coulson.”

 

Il breve colloquio che ne seguì, decretò la fine dei giochi.

“Ho già avvisato il direttore Fury. Ha ordinato un'evacuazione.” dichiarò Coulson, già pronto a dare ordine sommario.

“Dell'intero edificio?”

“Già...”

“Posso fare qualcosa?”

“Tu continua ad eseguire gli ordini che ti sono stati dati.”

Clint capì la necessità di avere una visuale completa di ciò che stava succedendo e, nello specifico, sebbene fosse più che sicuro di non averlo visto armeggiare in modo sospetto in quelle ultime ore, del possibile coinvolgimento di Selvig nella faccenda. Non era certo che fosse disposto a mettere in pericolo la sua stessa vita.

Annuì solamente.

“Ci vediamo più tardi, Phil.”

Una promessa. Un lusso nella loro professione.

L'uomo gli fece un cenno col capo e si allontanò di gran carriera fuori dallo stanzone pieno di scienziati in fermento. Lo seguì con lo sguardo fino a che non uscì dal suo campo visivo.

Il mal di stomaco tornò a colpirlo, di nuovo, inspiegabilmente, come un pugno ben assestato.

La sensazione che si fosse messo in atto qualcosa di irreversibile e disastroso non lo abbandonò finché non ebbe nuovamente raggiunto il suo nido temporaneo.

Nulla lo aveva preparato all’eventualità che quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che parlava con lui.

 

___

 

N.d.A: Ci siamo. Entrati di gran carriera nell’MCU. E l'ultimo capitolo con cui avremo a che fare con il buon, vecchio Coulson (o no?). Aiuto. Vabbè, direi che da qui in poi ci si può aspettare tutto e niente. E lo so che ho omesso parte degli eventi di Thor e compagnia, ma il mio intento è quello di narrare ciò che non ci è stato detto. Ergo… a parte questa parentesi e quella del prossimo capitolo, che sarà un po’ più onirica, evanescente per motivi che capirete, ci sarà ancora roba da esplorare e su cui speculare.

Provate a indovinare chi sarà il prossimo personaggio a entrare in gioco?

Ringraziamenti dovuti a chi commenta, a chi aggiunge la storia fra le seguite, preferite, alla beta, e tutti gli altri. Alla prossima!

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 [Loki] ***


CAPITOLO 17

 

[Loki]

 

Meglio regnare all'inferno che servire in paradiso.

(L’Avvocato del Diavolo)

 

*

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

“Tu hai... cuore.”

 

Un rumore costante, nella testa. Come un battito cardiaco.

Un ritmo incessante, a scandire il tempo.

Non sentiva più caldo. O freddo. Non la stanchezza. La fame. Non la paura. O la preoccupazione.

Era essenziale.

Non solo importante.

Essenziale garantire la sua sicurezza.

Garantire la riuscita dei suoi ordini.

 

Uno spiraglio di luce dai contorni di tenebra.

 

Una messa a fuoco.

Loki.

Il Dio dell'inganno.

Oh, lo sapeva bene chi fosse. Gliene avevano parlato.

Le informazioni direttamente dalle labbra del professor Selvig, in una lezione non richiesta di mitologia norrena. In un tempo ormai lontano, indefinito.

Non solo importante.

Era essenziale.

Essenziale portarlo fuori da lì.

Lontano dai laboratori di ricerca dello SHIELD.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

“Non hai bisogno di incentivi per comprendere a chi va la tua fedeltà.”

 

Non era in dubbio a chi andasse la sua lealtà. Clint lo sapeva. Lo sapeva benissimo.

Era consapevole di chi fosse, di chi era stato, di dove andasse, di quali sarebbero state le conseguenze delle sue azioni, solo... non gliene importava.

L'obiettivo andava ben oltre tutte quelle sciocchezze morali o sentimentali.

L'obiettivo doveva essere perseguito con precisione. Perizia.

Per una volta tanto avrebbe potuto agire secondo le sue inclinazioni, senza temere un richiamo.

Loki era magnanimo, dopotutto. Gli aveva lasciato così tanta carta bianca, da quando aveva deciso di arruolarlo nel suo personalissimo esercito.

Ricordava perfettamente le modalità.

Prima c'era solo Fury e la promessa di sorvegliare il Tesseract. Ora c'era Loki. E ancora la promessa di sorvegliare il Tesseract. Cambio di programma. Ma essenzialmente niente di diverso.

I piani ben più grandiosi. Meno corredati di stupida burocrazia. O limiti etici.

Clint non doveva chiedersi se fosse giusto. Clint doveva solo eseguire gli ordini.

E il fatto che non esistesse coscienza a cui dover rendere conto, bè, facilitava il compito.

Lo facilitava di molto.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

“Ci servono uomini.”

 

Aveva messo in piedi una squadra. Gente che odiava lo SHIELD. Fin troppo facile raccoglierne dai recessi delle più sordide paludi di corruzione. Gente che avrebbe dato un braccio, una gamba, pur di avere la propria personalissima vendetta, a prescindere dalle modalità, dal leader che li avrebbe condotti al compimento dell'obiettivo.

Un formicaio animato da uno spirito comune. Che pulsava, vibrante, all'unanimità in quelle gallerie di tenebra.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

“Cosa sai dirmi di loro? Voglio conoscere tutto quello che sai...”

 

E Clint glielo aveva raccontato. Cantato come un fringuello. Senza avere la benché minima crisi di coscienza.

Scucito i più sordidi segreti (conosciuti s'intende) dell'organizzazione. Dei suoi membri.

Di Nick Fury.

Di Maria Hill.

Di Phil Coulson.

Di Natasha Romanoff.

Gli aveva raccontato di Barney, nel caso gli fosse servito saperlo.
Gli aveva raccontato i suoi trascorsi. Gli aneddoti della sua vita. Tutte le missioni a cui aveva partecipato.

Tutto quello che sapeva sul New Mexico.

Dei fallimenti e dei successi dello SHIELD.

Di Tony Stark.

Dei mostri che avevano popolato la terra.

Di tutto ciò che lo faceva stare bene e di tutto ciò che lo terrorizzava.

Loki aveva sviscerato ogni tassello della sua anima. Lo aveva costretto a portarli alla luce. Lasciandoli sgorgare direttamente dalle sue stesse labbra.

Loki vi aveva attinto.

Clint aveva lasciato che se ne servisse. Senza provare gioia. O dolore. Senza provare niente.

Riplasmato secondo necessità.

Non era forse ciò che era abituato a fare?
Sopravvivere. E lo stava facendo. Un'altra volta. In modo estremo.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

“Dimmi di cosa hai bisogno.”

 

Uccidere.

Un tempo si era ripromesso di non farlo più se non fosse stato necessario.

Se non si fosse trattato di uno scambio equo. Di una consapevolezza reciproca.

Completamente spogliato di quel velo di coscienza che in passato lo avrebbe frenato. Che in alcune circostanze lo aveva, già di fatto, bloccato.

Ostacoli. Niente altro che ostacoli.

Un freno a quegli ordini imprescindibili. Al loro compimento.

Uccidere.

Nemmeno quello a dargli l'impressione di essere egli stesso, ancora vivo.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

“Distruggili. Uno per uno. Distruggili.”

 

I corridoi dell'Helicarrier li conosceva bene. Nessun segreto. Nessuna paura.

Conosceva quelle persone. Conosceva come si muovevano. E conosceva Fury. Le sue modalità d'azione. La sua organizzazione.

Dovevano fare attenzione. Non sarebbe stato semplice.

Ma non così difficile sfruttare le loro debolezze.

Non era così che gli avevano insegnato ad agire? A sfruttare le debolezze altrui. Per trarne vantaggio.

Chi meglio di una serpe che si erano coltivati in seno... per anni?

Tutta la dedizione. Il tempo speso. La stanchezza. Gli allenamenti. Le lezioni. Le missioni sul campo.

Tutte proiettate verso quel momento.

Il momento in cui tutto il sapere che aveva accumulato, che gli avevano permesso di accumulare gli si sarebbe rivoltato contro.

Come in quel preciso istante.

Clint era pronto a distruggere tutto ciò per cui si era sempre battuto.

Le persone per cui si era sempre... battuto.

Le cause alle quali aveva votato la sua intera esistenza.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

“Sbarazzati di chi complica le cose...”

 

Natasha Romanoff. Croce e delizia della sua esistenza.

Non avrebbe dovuto mettersi sulla sua strada.

Anche se, in tutta coscienza, forse le avrebbe fatto solo un favore.

Liberarla da tutta quella serie di patetici tentativi di avvicinarlo, perché si trovava nella scomoda posizione di essere in debito con lui.

Era dunque tempo di sistemare una vecchia questione rimasta in sospeso. Portare a compimento ciò che non era stato in grado di concludere la prima, cruciale volta.

Una degna conclusione a tutta quella storia.

Una chiusura del cerchio.

Loki gli aveva chiesto se sarebbe stato in grado di farlo, se se la fosse trovata di fronte.

Clint gli aveva risposto che sì, ne avrebbe persino scelto le modalità. Sempre gliene avesse dato il tempo. Perché non era ancora così stupido da pensare che ne sarebbe uscito indenne.

Avrebbe attinto dalle sue pregresse confessioni. Tutte quelle chiacchiere a fine giornata. Tutte quelle volte che la Vedova Nera aveva sentito il bisogno di liberarsi la coscienza con lui. Di regalargli stralci delle disumane vicende della sua esistenza.

E da quelle debolezze, avrebbe cercato di costruire la propria forza.

Ma qualcosa era andato ad intaccare il perfetto meccanismo di Loki.

L’imprevedibilità.

La donna si stava battendo per sconfiggerlo, non per proteggerlo.

Il fatto che Clint non avrebbe potuto attingere alla sua debolezza, semplicemente perché era stata lei, per prima, ad attingere a quella di lui, e a sfruttarla a suo favore.

Non era, dopotutto, che una macchina senza un barlume di discernimento. Ben più facile da domare di un essere umano carico di libero arbitrio.

E così, in quella danza di rievocazioni e violenza, Clint sentì per la prima volta la stanchezza. I muscoli che non rispondevano così come avrebbero dovuto.

Il primo vero avversario.

Il primo reale, tangibile, risveglio di coscienza.

 

“Sbarazzati... di chi complica le cose.”

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

Ci aveva provato. Dio, sì, ci aveva provato. E aveva fallito. Fallito dopo tutto quel tempo.

Loki non glielo avrebbe perdonato.

Ma forse non avrebbe mai avuto il tempo di cadere sotto il suo furore.

La Vedova Nera lo avrebbe mai ucciso?

Non lo aveva già forse fatto con altri, in passato?

Magari avrebbe pensato non fosse il caso di risparmiare la vita di un traditore.

Ragionevole.

Crollò a terra prima di poter concretizzare il pensiero.

Il dolore alla testa ora così concreto.

Loki.

Uccidere.

Loki.

L'obiettivo.

Loki.

 

Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.

 

La sincronizzazione che andava a farsi benedire come quella di una stazione radio sulle frequenze disturbate.

 

Uno spiraglio di luce dai contorni di tenebra.

 

“Natasha?”

 

Il dolore.

Il sollievo.

Il buio.

 

___

 

N.d.A: Loki, finalmente. Non come presenza tangibile, ma più come richiamo alla coscienza compromessa di Clint, in quel frangente. Non avrei potuto fare niente di molto diverso, essendo Clint il protagonista della storia. Questo o una pagina intera di odio e insulti ai danni del Dio degli inganni (fatto anche la rima). Perché Clint mi pareva piuttosto alterato dall’essersi fatto manipolare in modo così invasivo.

Ringrazio al solito tutti quanti leggano e commentino la storia, e sempre alla beta che ultimamente mi sta ispirando con delle produzioni da leccarsi le orecchie.

Alla prossima, se lo vorrete.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 [Phil] ***


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CAPITOLO 18

[Phil]

 

A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale.

(Big Fish)

 

*
 

Clint aprì l’armadio.

Scrutò per qualche istante nelle sue disordinate profondità prima di dare concretezza ai suoi più atroci dubbi: non possedeva abiti neri.

Di nessun tipo. Non un paio di pantaloni, non una camicia, una maglietta. Una canottiera, un paio di calzini…

Valutò miseramente che forse avrebbe potuto battere un record.

A meno che non avesse voluto prendere in considerazione la divisa.

L'abbigliamento in dotazione allo SHIELD era nero. Così come neri erano tutti gli accessori che l’accompagnavano.

Era certo, però, che qualcuno avrebbe avuto qualcosa da ridire se si fosse presentato con una divisa. Che nemmeno poteva considerarsi un gran tributo come quella dell’alta uniforme militare.

Si passò una mano fra i capelli, ancora scompigliati dopo la lunga notte insonne.

Ignorò lo specchio e considerò che, dopotutto, forse quell’abito blu scuro che una volta aveva usato per una festa, come copertura, sarebbe andato bene. Non lo aveva mai restituito. E lo aveva lasciato marcire nello stesso sgabuzzino in cui teneva i cappotti.

Puzzava un po’ di naftalina, ma sembrava essere ancora in buono stato.

Lo tirò fuori dal cellophane e lo sistemò sul letto. Forse avrebbe tirato un po’ sulla pancia. Erano passati almeno dieci anni. La giacca avrebbe anche potuto non chiuderla.

Era primavera. Fuori faceva caldo.

Il cielo era limpido. Una giacca sarebbe stata in ogni caso un impiccio.

Decise che forse avrebbe fatto meglio a radersi. E magari farsi una doccia.

In qualsiasi ordine.

Non era poi così importante.

Doveva solo fare le cose con calma. Una per volta, senza fretta. Senza troppe elucubrazioni.

Come quando aveva dovuto riprendere a camminare una delle tante volte in cui lo avevano dimesso dall'ospedale; mettere un piede di fronte all’altro, un passo alla volta, senza sforzi, senza brusche deviazioni.

Sarebbe andato tutto bene.

Tutto… bene.

In quella gloriosa mattina dei primi di giugno, Clint Barton cominciò a prepararsi per il funerale di Phil Coulson.

 

*

 

Avrebbe dovuto tornare indietro di molti anni per ricordare l’ultimo funerale a cui aveva partecipato.

L’unico a cui era stato costretto a partecipare. Per obbligo, più che per reale affezione. Considerazione brutale, ma affatto ipocrita.

Dopo di quello, nulla più. Una decisione dovuta ad una presa di coscienza ben precisa: non amava gli addii.

 

Dell'ultimo ricordava l’odore della terra smossa. Un vago pizzicore al naso.

L’omelia del pastore. Il chiacchiericcio sommesso dei pochi presenti. Dei compagni di bevute del padre, delle loro mogli, dei loro figli, i compagni di scuola. Di qualche curioso anziano che non aveva niente di meglio da fare.

Nelle piccole comunità persino un funerale diventava un evento collettivo. Di costume.

Clint ricordava il peso del loro sguardo, nauseante nella sua marcata compassione.

Che ne sarà adesso di quei poveri ragazzi?

Chi si prenderà cura di loro, povere anime?

Come se si fossero mai presi la briga di venirli a trovare, nei mesi successivi. O di interessarsi delle loro sorti.

Barney gli stava di fianco, impettito e serio. Incrollabile. Lui, invece, non aveva mai alzato la testa. Qualcuno lo aveva interpretato come una sorta di remissivo dolore.

In realtà Clint stava solo facendo i suoi calcoli per il futuro. Pensava che, da quel punto in poi, tutto avrebbe potuto solamente migliorare.

 

Buffo come fosse cambiata la prospettiva. Dalle perdite che donano la rinascita, a quelle che navigano in un limbo di ovattato dolore.

Perché era così che si sentiva. Clint non era riuscito a versare una sola lacrima da quando aveva appreso della morte di Phil Coulson.

Aveva registrato la notizia solo quando la battaglia di New York (con i Vendicatori tutti) era giunta al suo sofferto epilogo. Prima che congedassero Loki una volta e per sempre.

Loki: il responsabile della sua deformazione mentale, il responsabile diretto della morte di Coulson. La rabbia sedata con l'ultima immagine di quel dio esile, nello specchio dei suoi occhiali da sole.

Non aveva saputo quantificare il dolore della perdita o misurare il senso di colpa con cui, prima o dopo, avrebbe dovuto fare i conti. Né dare un nome a quel grumo che gli impediva di concretizzare una dignitosa esplosione.

Impensabile realizzare che Phil se n'era andato per sempre.

Che non lo avrebbe mai più rivisto. Nemmeno per un breve saluto. Nemmeno il tempo di una pausa caffè.

Incredulo. Attonito.

Non riusciva a raggiungere la fase successiva, quella dell’accettazione.

Eppure aveva acconsentito di partecipare alle esequie. Era quindi un dato di fatto che da lì a breve Phil non sarebbe stato altro che cibo… per i vermi.

Nascosto, per sempre, alla vista di tutti.

Così assurdo come concetto che… forse per quello, Clint non riusciva ad accettarlo.

Una sensazione che non riusciva ad abbandonare. Che prima o poi lo avrebbe schiacciato. Devastandolo.

Non che lo considerasse un problema. Non riusciva ad aggrapparsi al dolore per farlo suo. Forse per colpa dei postumi del potere di Loki sulla sua mente, forse per deformazione psicologica congenita.

Dunque stava in un limbo. E viveva a rallentatore. In un mondo scandito da piccoli gesti, piccole conquiste, come quella di essersi trascinato al cospetto dell’ultimo viaggio dell’amico e collega.

 

Non una grossa sorpresa quella di trovare il cimitero assolato (uno schiaffo all'atmosfera sgradevole del lutto) ghermito di gente. Ognuno con il suo carico di esperienza. A raccontare con gli abiti scuri e l’espressione greve tutto ciò che Phil Coulson aveva rappresentato nella vita di ognuno di loro.

Un dolore condiviso. Un conforto collettivo.

Percepiva stralci di conversazioni che lo ricordavano con aneddoti più o meno distensivi.

Degli anni dell’accademia.

Di quella volta, durante una missione...

Della sua ossessione per le collezioni.

Delle sue battute scadenti.

Delle sue straordinarie doti diplomatiche.

Un quadro che lo ricostruiva più o meno fedelmente.

Una massa di voci che sommate, una per una, non facevano che costruire un mosaico in grado quasi di riportarlo in vita. Di renderlo tangibile, quasi reale, presente. Ancora una volta, anche se solo per un triste pomeriggio di fine primavera.

Clint non si sarebbe stupito di vederlo comparire proprio lì, di fronte a loro. Con quel sorriso pacato, rassicurante.

A ribadire che sarebbe andato, ancora una volta, tutto bene.

 

Si era fatto strada in quel labirinto umano, cercando un posto accanto a quella orribile buca, profonda due metri... o poco più.

Non aveva dato che un rapido sguardo alla bara dal riflesso accecante.

Indossava un paio di occhiali scuri, più che altro per nascondere le terribili occhiaie che testimoniavano che no, non era più riuscito a dormire. Non più di un paio di ore a notte... da quando...

Bè, da quando.

Aveva scorto il direttore Fury. Maria Hill, quel pelato di Sitwell e... non era la May, quella in disparte, accanto a uno dei cipressi?

Tony Stark, leggermente distante, al fianco di quella che ricordò vagamente come la sua fidanzata. Accanto a loro quello che registrò come Bruce Banner (era stato abituato a vederlo più da bestione che da essere umano, nelle ultime ore).

All'ombra di un acero persino l'imponente figura di Steve Rogers.

Coulson avrebbe dato di matto a sapere Capitan America al suo funerale. Come vederlo.

C'erano davvero tutti.

E alla fine della lista ecco Natasha. Che non lo aveva perso di vista un solo istante, da quando era entrato nel suo campo visivo.

“Ehi.” l'aveva raggiunta, a stento. Non un cenno di sorriso. Non era sicuro di avere muscoli abbastanza reattivi da produrre qualcosa di soddisfacente.

“Ehi...” la pacata risposta. Lo stava scrutando. Clint ringraziò di avere la protezione di un paio di lenti scure.

Non condivisero che un muto scambio di battute.

 

Non credevo saresti venuto.”

Nemmeno io.”

 

Una lista interminabile di parole che mai sarebbero state pronunciate.

Un sospiro.

E poi la funzione ebbe inizio.

 

*

 

Non era rimasto a guardare.

Dopo tutte quelle parole, c'era stato un susseguirsi di discorsi più o meno commoventi per celebrare la vita dell'Agente Coulson, le accalorate parole di Fury. Non aveva potuto restare a guardare.

Guardare quella buca che veniva definitivamente ricoperta di terra scura.

Era stato uno dei primi ad allontanarsi.

Aveva fatto il suo dovere.

Così come tutti si aspettavano che facesse.

Così come probabilmente Coulson si augurava che facesse.

Per quello si era presentato, nonostante la sua decisione riguardo i funerali: Coulson non se lo sarebbe atteso. Non poteva certo dargli questa ultima, definitiva soddisfazione, giusto?

Non quella di saperlo a casa ad annegare nel suo desiderio di alcool (che si riassumeva in un paio di birre ammezzate in frigorifero), non quella di stare a guardare, da lontano, come una di quelle anime tormentate dei film, ad attendere la fine delle funzioni per maledire il cielo per aver reciso la sua vita così prematuramente.

Clint voleva stupirlo, ancora una volta. Dargli la possibilità, ovunque egli fosse, di sapere che era andato a salutarlo. Contro tutte le previsioni. Per non concedergliela... quell'ultima, assurda soddisfazione.

Quando si sentì richiamare quasi non registrò la voce.

Si voltò solo per trovarsi di fronte un figurino esile dal viso pallido. I capelli color del miele.

“Bobbi... ?”

“Ciao Clint...”

Sentì qualcosa andare ad accumularsi al grumo inesploso di cui si era già abbondantemente lamentato. Non riuscì, nemmeno in quell'occasione, durante quell'attimo di inaudita sorpresa, a concedersi un sorriso.

“Ti avevo... visto arrivare, ma non ho osato avvicinarti... è iniziata la funzione...”

“Non preoccuparti.” le disse, scostandosi gli occhiali in un gesto istintivo. Ricordava ancora, quanto odiasse vederglieli indossare e non poterlo guardare negli occhi.

Si rese conto di aver fatto una cazzata quando percepì un misto di pena e compassione nello guardò che gli riservò l'istante successivo.

“Oh, Clint...” la sentì pronunciare, prima di trovarsi coinvolto in un lungo abbraccio.

Irrigidito e preso alla sprovvista, l'unica cosa che registrò immediatamente fu che aveva ancora lo stesso profumo.

Un pensiero tanto assurdo quanto annichilente. Le costanti, in un mondo che, nonostante tutto continuava a girare. E in quel moto di rotazione e rivoluzione, lui lo aveva fatto precipitare di nuovo nelle braccia di qualcuno, qualcuno che era già stato parte della sua vita.

Dannato Coulson.

“Ho pensato così tante volte di venirti a trovare. Ma... speravo di rivederti in una situazione meno...” si era finalmente scostata e gli stava sistemando il nodo della cravatta.

“Calda.” gli venne istintivo ribattere.

“Come?”

“Calda. Fa... caldo. Magari sarebbe stato meglio... in inverno.” e nel dirlo si era di nuovo allentato quel nodo fastidioso. Perché si era messo una cravatta, comunque?

Bobbi reclinò il capo di lato, e a Clint ricordò tanto Lucky, quando sembrava non comprendere quello che gli stava dicendo.

“Lascia perdere.” aveva persino fatto un cenno con la mano e nonostante i buoni propositi inforcò nuovamente i suoi occhiali. L'avrebbe infastidita, ma non era certo lì per compiacerla, giusto?

“Avevo scordato il tuo umorismo...”

“Da quattro soldi. Lo so.”

Lei gli sorrise. Vi lesse ancora un cenno di quella compassione affatto richiesta. Dopotutto Coulson non era anche amico suo?

Perché sembrava che fosse l'unico ad aver bisogno di essere consolato?

La considerazione ebbe il potere di irritarlo. Per la prima volta un sentimento concreto. Potente.

“Io sto bene, comunque.” dovette per forza sottolineare.

Bobbi annuì, una sola volta, come a prenderne atto, quello sguardo ancora lì. Pronto a giudicarlo. A compatirlo.

E fu troppo.

“Bè, è stato bello rivederti.”

“Anche per me, Clint. Senti, pensavo... non lo so. Di poter prendere un caffè insieme, se ti va.”

Clint fece una smorfia. Avrebbe dovuto concederglielo? Prolungare quella farsa? Quell'assurda agonia? D'altro canto sarebbe passato per un cafone, per uno stronzo. Come se non si fosse già sufficientemente fatta un'opinione simile su di lui, anni prima.

Cercò una scusa più o meno plausibile per declinare l'offerta quando si vide arrivare incontro Natasha.

“Andiamo?” gli aveva detto, senza che lui le avesse chiesto proprio un bel niente.

Andiamo dove? La domanda rimase muta, ancora una volta, dietro quegli occhiali scuri.

Si ritrovò ad annuire ancora prima di registrarlo.

“Scusa, Barbara... magari sarà per la prossima volta.”

Riconobbe una punta di delusione nei suoi occhi, ma non indagò oltre. Si chinò per un ultimo bacio e un congedo che si dava appuntamento a una data da destinarsi.

 

“Come hai fatto a capire che avevo bisogno di una scappatoia?” domandò a Natasha, che ora procedeva rapida al suo fianco.

“Alta, bionda, carina... hai sempre bisogno di una scappatoia per quel tipo di donna.”

“Mi conosci bene.”

“Più di quanto vorrei.”

Clint non comprese immediatamente il peso di quelle parole, ma non fece domande, mentre raggiungeva la macchina di Natasha. Un'assurda Corvette Stingray nera.

“U-un momento... quando ti sei comprata questo bolide?”

Natasha non rispose.

Perché avevano tutti macchine così potenti, tranne lui?

 

*

 

Si era finalmente liberato della cravatta. Delle scarpe. Di quell'assurda giacca (che ancora sapeva di naftalina). Aveva scalciato i pantaloni, ora mollemente distesi sulla sponda del letto.

Si era gettato a peso morto sul materasso e aveva osservato il soffitto.

Lucky dormiva sul divano, nell'altra stanza, ignaro di tutto.

Gli aveva invidiato quella sua inconsapevolezza. Forse voleva essere un cane.

Si chiese se sarebbe riuscito a dormire, almeno quella notte. Dopotutto era uscito di casa. Aveva fatto del moto. Aveva visto gente. Speso energie per non lasciarsi andare a commenti più o meno sarcastici riguardo al modo compito con cui tutti quegli individui avevano affrontato la giornata.

I funerali non avevano senso. I funerali erano una pura formalità.

Ti costringevano a riprendere contatti con persone che credevi evaporate nell'atmosfera (Bobbi), ti costringevano a fare considerazioni più o meno lugubri sulla vita, sulla morte. Sul lavoro dei becchini. Sulle parole di quel funzionario di Dio che, Clint era certo, nemmeno lo aveva mai conosciuto Coulson.

Coulson.

Coulson.

Questa volta l'aveva combinata grossa, Coulson.

Era sicuro che nemmeno ci avesse pensato allo sgarro che aveva fatto a tutti loro, lasciandoci le penne.

Un incentivo per i Vendicatori, aveva detto Nick Fury. Certo. Bè, i Vendicatori, per quanto lo riguardava, avrebbero potuto trovarsi qualcun altro da sacrificare.

Loki... avrebbe potuto trovare un altro modo per concludere a gloria quella sua dannata patetica, disgustosa ripicca divina.

Riconsiderare le sue scelte del cazzo, prima di arrivare a scombinargli il cervello e poi portarsi via un amico.

 

Il suo migliore... amico.

 

Il petto fece un sussulto non richiesto.

Phil... era il suo migliore amico.

Gli avevano sempre detto che è difficile trovare anime affini su questa terra. Quasi impossibile.

Clint le avrebbe potute contare sulle dita di una sola mano. Senza nemmeno utilizzarle tutte e cinque.

E...

Una delle cinque aveva appena deciso, empaticamente, di chiamarlo sul cellulare.

Clint venne strappato bruscamente dalle sue elucubrazioni, interrotto nel corso di un paio di considerazioni che lo avrebbero condotto da qualche parte, a sbloccare quel grumo assurdo che lo costipava da giorni, ne era sicuro.

“Barney, stronzo...” esordì.

“Ah... C-Clint? Oh... ma vaffanculo.”

Clint aveva appena sorriso. Se non altro la sicurezza di avere ancora dei muscoli facciali in grado di farlo.

“È che mi hai interrotto.”

“Ah. Non lo sapevo. Che stavi facendo?”

“Ero a letto.”

Una pausa, piuttosto significativa.

“Da... solo?”

Clint fece schioccare la lingua.

“No, in compagnia della mia mano.”

“Clint, cazzo, dai!”

Si passò una mano sul viso a soffocare una risata. Forse isterica.

“Scusa.” lasciò la mano lì dov'era, a coprirgli gli occhi. A pararlo dal bianco accecante del suo inutile soffitto.

“Volevo...”

“Sto bene.”

Il respiro di Barney dall'altra parte della cornetta. Clint era sicuro stesse elaborando una risposta.

“Sarei venuto se...”

“Non ti preoccupare.” La vita non si interrompe per il funerale di amici altrui.

“Volevo solo assicurarmi che... non avessi bisogno di qualcosa.”

Un'altra lunga pausa. Lo stomaco ancora aggrovigliato. Il dolore adesso risaliva a cerchi concentrici.

Non era vero che stava bene e non era vero che non c'era niente di cui preoccuparsi.

Clint aveva bisogno che qualcuno fosse lì.

A dirgli che sarebbe andato tutto bene.

Per assurdo, l'unica persona che gli aveva sempre dato quella rassicurazione era Coulson.

E Coulson era morto.

Morto.

Kaputt.

Finito.

Estinto.

Trapassato.

Remoto.

Il groviglio fece un movimento strano.

“Ho solo bisogno di dormire, Barney.”

Dimmi che andrà tutto bene.

“D'accordo. Sai dove trovarmi... se... avessi bisogno di parlare.”

Dimmi che andrà tutto bene, Barney.

“Certo che lo so.” una simulazione piuttosto buona, stavolta, di un po' di sana spavalderia.

Dimmi che andrà... tutto bene.

“Okay allora... buonanotte.”

Tutto...

“Notte, Barney.” aveva riattaccato.

Bene.

Nemmeno si era reso conto di aver scagliato il cellulare dall'altra parte della stanza.

Il crash contro la parete, scandito dal latrato di Lucky e dal rombo di un tuono lontano.

Avrebbe cominciato a piovere di lì a poco.

Di bene in meglio.

 

*

 

Non era sicuro di poter ricostruire la sequenza degli attimi successivi alla telefonata con Barney.

Si era rivestito. Una felpaccia, jeans e un paio di scarpe consunte. Doveva uscire da lì.

Il silenzio del suo appartamento, il rumore della pioggia. Più che calmarlo, quel ritmo aveva finito per scandire il suo tumulto interiore.

Che ora si era ingigantito, smosso. Pronto a una deflagrazione che non era certo di poter contenere. O gestire.

L'assenza.

Quella stupida assenza.

Un vuoto che per ossimoro lo aveva improvvisamente riempito. E reso pronto al confronto finale. Che aveva sperato di rimandare il più a lungo possibile.

Le scarpe sguazzavano nei rivoli di pioggia lungo i marciapiedi. L'acqua gli impregnava la felpa rendendola pesante, sgradevole.

Aveva attraversato mezzo distretto, cercando di dare sfogo a quello che aveva preso a circolargli dentro, inarrestabile.

Superato un paio di allettanti pub.

Non era nemmeno orgoglioso della scelta di non sprofondare in quella sua obnubilante perdizione.

Aveva percorso quelle vie silenziose, cercando di concentrarsi sul rumore della pioggia, di non sussultare a quello violento dei tuoni. E si era fermato solo quando si era reso conto di dove lo avessero portato i suoi passi.

Alzò lo sguardo andando a cercare quella finestra. La luce spenta, che non si sarebbe accesa finché qualcun altro non avesse affittato di nuovo i locali.

L'appartamento di Phil.

Vinse l'impulso di suonare al citofono. L'assurda speranza che gli avrebbe risposto, svelando la burla.

Quel tremendo piano ordito per fargliela pagare per tutte quelle volte che non gli aveva dato ascolto.

Represse un moto di disgusto.

Patetico. Si sentì così patetico. Mentre quel groviglio ancora lì, fermo, assurdamente ingombrante gli impediva di sfogare tutta quella... rabbia... che aveva dentro.

Dimmi che andrà tutto bene.

E poi improvvisa, la sensazione di non essere solo.

Sussultò, scorgendo una silhouette, nella penombra di quella via scarsamente illuminata dalla luce dei lampioni.

Coulson.

Il groviglio che prese a ribollire, minaccioso.

“Natasha...” pronunciarono le sue labbra mentre la figurina minuta della donna veniva verso di lui. Un ombrello rosso, grosso quanto quelli da spiaggia. Comica nella sua inconsistenza.

Muta la domanda: che cosa ci fai qui?

“Ero venuta a cercarti a casa... non c'eri.”

Clint non rispose. Non era nemmeno sicuro ce ne fosse bisogno.

“Sapevo... che ti avrei trovato qui.”

Natasha. Un'altra di quelle persone di fiducia che avrebbe potuto contare... sulle dita di quell’unica mano.

Aveva il volto tirato. L'aria stanca. Così stanca. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Come non accorgersene quello stesso pomeriggio?

Era stato così preoccupato a capire perché non riuscisse a elaborare il lutto che non si era accorto di quanto chiunque, come lui, quel giorno stesse facendo i conti con quello stesso caos.

Di come probabilmente lei stessa lo stava affrontando.

Si limitò a fissarla, ad asciugarsi il viso fradicio, a metterla a fuoco.

“Ero... ero preoccupata... per te.” quattro parole e Clint si rese conto quanto le fossero costate.

E fu solo allora, in quella stupidissima notte di metà giugno che la vera deflagrazione ebbe inizio.

“Mi dispiace...” gli uscì in un sussurro così sottile che quasi non riuscì a udirlo egli stesso.

Le si avvicinò, quasi entrando in collisione con quel suo comico ombrello rosso.

Lei se ne sbarazzò senza esitazione per poterlo abbracciare così come non aveva osato fare quello stesso pomeriggio, in mezzo a tutta quella gente assurda, così estranea al loro comune, personalissimo dolore. Mentre lui la baciava, disordinatamente, sul viso, sulle labbra, così come non aveva osato fare mai.

 

“Andrà tutto bene...”

Clint non seppe dire, nella confusione della pioggia e della deflagrazione dei tuoni, chi dei due lo avesse pronunciato per primo.

 

___

 

N.d.A: Un capitolo a cui sono particolarmente legata. Al quale ho pensato più o meno da subito quando sono entrata nell'universo MCU. Insomma, un omaggio al nostro Coulson e al modo in cui i suoi colleghi e amici hanno preso la sua scomparsa. E a come abbia soprattutto reagito Clint, ancora vittima dei postumi di Loki, incapace di elaborare immediatamente la faccenda.

E poi sì, lo ammetto, era il momento di far esplodere la shippatrice (di borselli) che è in me.

Un ringraziamento a TUTTI ma veramente tutti quanti leggano, alle gradite new entry, e al solito alla onnipresente beta.
Next!

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 [Nat] ***


CAPITOLO 19

 

[Nat]

 

“William Wallace è alto due metri!”
"Sì, l'ho sentito dire. E uccide i nemici a centinaia. E se ora fosse qui distruggerebbe gli inglesi con palle di fuoco dagli occhi e fulmini tonanti dal culo!”

(Braveheart)

 

*

 

Era cominciata tanto in sordina quanto lentamente.

 

I giorni si erano susseguiti tranquilli fino a diventare settimane. E le settimane erano diventate ormai mesi. La triste primavera che si era portata via Coulson era scivolata pigra nell’estate. E poi nell’autunno. Inverno… e di nuovo primavera.

I ritmi di vita erano tornati ad essere più o meno gli stessi di sempre. Lavoro. Casa. Natasha.

Scartoffie.  Pause caffè. Natasha. Missioni fuori casa. Passeggiate col cane. Birra. Natasha. Chiacchierate telefoniche con Barney. Allenamenti con le matricole, una fra tutti Steve Rogers (una matricola novantenne!). Serate al pub. Natasha. Partite a freccette. Tiro con l’arco. Natasha.

Letto.

Natasha.

Oh… e, l’aveva già detto: Natasha?

 

In sordina. Sì. Così era cominciata. Una naturale evoluzione del loro disperato incontro sotto casa di Coulson. La serata dell’ombrello rosso. Quella del temporale. Della deflagrazione.

Clint nemmeno si era reso conto, con i suoi gesti, di aver dato voce a un bisogno che teneva sopito da tempo. Di non averlo mai davvero realizzato fino in fondo.

Natasha non aveva fatto altro che assecondarlo. Concedendogli la certezza che non fosse sensazione univoca e priva d'uscita.

Niente di sconvolgente, niente di trascendentale. Di quello che avevano sempre condiviso non cambiava nulla. Quello che sentivano, profondamente, uno nei confronti dell’altra, non c’era mai stato bisogno di nasconderlo. Stima, fiducia, empatia. Sempre mossi dagli stessi identici sentimenti che li legavano da anni. Dal giorno in cui si erano trovati a condividere lo stesso percorso di vita.

La differenza stava, fondamentalmente, nel fatto (per nulla trascurabile, eh) che adesso andavano a letto insieme.

E no, non per dormire. No, nemmeno per contare le crepe sul soffitto o sui muri. Sebbene Clint avesse sempre aspirato a una ristrutturazione e Natasha gli avesse appoggiato la mozione in modo fin troppo risoluto.

 

“Almeno quelle più grosse…”

“E’ una ragnatela, Clint. Mi stupisco di come non ci sia ancora crollato in testa il soffitto.”

“Esagerata.”

“C’è ancora il segno della tua testata su quella parete.”

“A me sembrava il segno delle tue chiappe, quell- AHIA.”

 

La cosa straordinaria era, per Clint per lo meno, che la mattina dopo, non provava quell’inesauribile prurito che lo faceva sgattaiolare fuori dalle lenzuola per fuggire a gambe più o meno levate dalla confusa nottataccia di turno.

Confuse lo erano ancora, soprattutto per le modalità a cui non era affatto abituato (Natasha era una macchina da guerra, in tutti i sensi), ma dopotutto, piuttosto piacevoli al risveglio.

La Vedova Nera lo teneva agganciato nel suo nido di ragno. E lui provava piacere nel dimenarsi nella sua trappola, pur rendendosi conto di rimanerne sempre più avvinghiato.

 

La prima volta non era stato dolce. O indulgente. O paziente. Più una lotta di corpi che cercavano di abituarsi a quel nuovo livello di intimità. A capire se fosse necessario prevalere, a dimostrare che non avevano niente da imparare o da nascondere. Una specie di sfida. Di confronto.

Ne erano usciti un po’ sconvolti e frastornati.

 

“Credo di essermi slogato un polso.”

“Pensavo avessi avuto abbastanza tempo per tenerlo allenato, in questi anni.”

“Sei sempre così dolce la mattina?”

“Solo dopo un buon orgasmo.”

“Bè…”

“Con te, a prescindere da quello.”

“E che cazzo, Nat!”

 

Poi le cose si erano fatte meno… frenetiche.

Avevano capito di avere bisogno di tempo per conoscersi. E, lentamente, avevano scoperto cosa significasse veramente soddisfare certi tipi di esigenze.

Clint aveva capito esattamente cosa le piaceva. E non mancava mai di donarle tutte le attenzioni di cui aveva bisogno, certo che gli sarebbero state restituite, con gli interessi.

Natasha era piuttosto generosa. In barba a chi ancora la reputava un algido pezzo di ghiaccio… russo. Capace adesso di una familiarità di cui Clint, ormai, non riusciva più a fare a meno.

 

“Dove te ne vai?”

“Sono pesante, Nat.”

“Resta.”

“Okay…”

“Mi tieni al caldo.”

“Okay…”

 

Allo SHIELD nessuno sapeva dell’evoluzione fisica… del loro rapporto.

Non che avessero bisogno di conoscere i dettagli della loro relazione. Se di relazione si voleva parlare. Sapevano perfettamente quanto l’organizzazione incoraggiasse a mantenere le distanze. Distanze di quel tipo, nello specifico.

Agli occhi di tutti non c’era assolutamente niente di diverso.

Clint e Natasha, dopotutto, non si sentivano così diversi.

Meno soli, forse. Più sereni, da un certo punto di vista. Privi di quella tensione emotiva che li aveva sempre tenuti sul filo del rasoio.

Ne avevano giovato persino le missioni sul campo.

Sessioni di allenamenti gratuiti che non richiedevano l’utilizzo di una… palestra.

L’unico che forse aveva dei dubbi, in tutto quel marasma di passione, era il direttore Fury.

Clint era convinto avesse intuito qualcosa, con il supporto di quel suo unico occhio così capace di cogliere le sfumature.

Ma Natasha non gli aveva mai accennato nulla a riguardo. Dopotutto era lei che manteneva un rapporto più stretto con il direttore. E se pur qualcosa le avesse detto, lei non si era mai espressa o sbilanciata. Forse perché non le interessava, forse solo perché non lo riteneva un ostacolo.

 

*

 

“Passami il rullo, Nat.” In bilico su quella che era una scala a pioli, Clint stava mettendo in atto i suoi buoni propositi di sistemare la sua camera da letto. Proposito che alla fine, si era evoluto in una ristrutturazione globale del suo intero appartamento.

E dire che c’era gente che non aspettava altro che il fine settimana per poter riposare.

Il riposo, evidentemente, non era nelle corde degli agenti operativi dello SHIELD. O forse non  era solo in quelle dell’agente Barton e dell’agente Romanoff.

Lucky correva da una parte all’altra dello stanzone blindato, strappando questa o quella guarnizione di scotch con cui avevano sapientemente mummificato ciò che non doveva essere imbiancato.

“Il tuo cane si sta mangiando i pomelli dell’armadio, Clint.” Gli si era avvicinata Natasha, passandogli il rullo più piccolo.

“LUCKY!” il cane si era voltato con i brandelli del suo peccato di carta, ancora a penzolare fra i denti.

“Sei davvero sicuro di voler fare la stanza viola?”

“Perché no? A me sembra un bel colore…”

Natasha si strinse nelle spalle.

“E’ che poi finisco per confonderti con lo sfondo.” Gli aveva indicato la maglia che indossava, dello stesso identico colore che galleggiava nei barattoli.

“Metterò una camicia rossa.”

“Non ti ci vedo con del rosso, addosso…”

“Io mi ci vedo benissimo, con una rossa, addosso.”

Natasha aveva scosso la scala.

“Ehi! Vuoi che mi spezzi una gamba?”

“L’importante è che sia solo una… gamba.”

Clint sospirò con una sorta di teatrale disperazione.

“Non possiamo.”

“Non possiamo che?”

“Continuare così.”

“Così cosa?”

“Così! Con tutte queste… allusioni sessuali. Mi distraggono!”

“Quali allusioni sessuali?”

“Nat.”

“Guarda che hai cominciato tu.”

“Non è vero.” Scese dalla scala traballante, il rullo ancora stretto in mano.

“Sentitelo: mente, sapendo di mentire.” Natasha lo guardava dal basso verso l’altro. E non perché lui fosse ancora su un piolo. Il fatto che non fosse troppo alta gli facilitava il compito di sovrastarla, almeno di un pochino.

“Dobbiamo finire prima di stasera.” Le disse, lasciando che il colore sgocciolasse un po’ a terra, scricchiolando sul tappeto di carta protettivo.

“E allora finiamo.” Lei si era pericolosamente avvicinata e gli aveva sottratto il rullo di mano.

Il petto che sfiorava il suo, gli occhi inchiodati ai suoi.

La mano che si alzava e…

Il colore viola che gli finiva dritto in faccia.

“Cazzo!”

“No, a quello non ci siamo ancora arrivati.”

“NATASHA!” adesso vedeva persino viola. Il colore gli passava in mezzo al viso, sul mento, il naso e sul ciuffo di capelli spiaccicati sulla fronte.

“Sei più carino così.”

“Ma cosa?!” si era visto riflesso nello specchio accanto all’armadio. “Sembro la versione sfigata di Braveheart!”

“Ma non si chiamava William Wallace?”

“Certo che… ma il film è Braveheart! E poi cosa c’entra? Stai cercando di depistare la mia rabbia.”

“Non sto cercando di fare proprio niente. Sei sempre tu che inizi discorsi e…”

Clint le aveva sottratto il rullo di mano e passato direttamente sul collo, la spalla e il petto: una strisciata a zigzag di tutto rispetto.

“Zorro!”

Natasha aveva abbassato lo sguardo e espresso il suo disappunto con una abbattuta scrollata di spalle. Lucky aveva preso a correre loro attorno, eccitato dalla prospettiva di uno scontro.

“Che bambino.”

“Un bambino che si è preso una rivincita.”

“Un bambino che si accontenta di poco.”

“Ha parlato.” E nel dirlo si era indicato la faccia, ancora agghindata a novello ribelle scozzese.

Natasha fece un passo sleale sul lato e dopo averlo disarmato di nuovo, lo aveva steso con uno sgambetto mirato e lanciato direttamente sul materasso, peraltro tutt’altro che comodo, rivestito così com’era di cellophane.

Aveva ingabbiato il suo torace fra i muscoli delle sue potenti cosce e sovrastato senza possibilità di pericoloso contrattacco. Seduta sopra di lui con il rullo ancora fra le mani, come un formoso Buddha dalla chioma vermiglia.

“Potranno toglierci la vita…” esalò Clint, vinto ma non sconfitto del tutto “ma non ci toglieranno mai… la LIBERTÀ!” gridò un po’ gorgogliante dalla sua scomoda posizione, mentre Natasha gli ripuliva le labbra ancora sporche di vernice, prima di scendere a baciarlo, un po’ per zittirlo un po’ perché ne aveva voglia.

“Vengo a reclamare il mio diritto allo Ius Primae Noctis”, gli sussurrò piano, trascinando il colore sulle sue guance con le dita, rendendolo più simile a un guerriero pellerossa che scozzese.

“Volendo anche al secundis. E il terzus… e il quartus… e… fanculo, non lo so il latino.”

“Allora taci.”

Vide i suoi occhi verdi farsi torbidi e capì che si era di nuovo avviato quel processo inarrestabile al quale non poteva sottrarsi.

Il rullo cadde a terra. Così come a terra finirono i loro vestiti.

Lucky si era ritirato come se intimidito dalla temperatura che improvvisamente era esplosa, rovente, nella camera.

Lasciò fare inizialmente a lei. A prendersi il piacere così come sapeva fare, a dare il ritmo, a dirigere il gioco. Affamata, come sempre, di carne e sudore.

Gli piaceva il modo in cui lo faceva sentire. Potente. Gli piaceva guardarla, osservare le sue espressioni. Riconoscere il rossore appagato del suo viso, fremere per quelle labbra umide, dischiuse da una serie di infiammati sospiri. Quei singhiozzi che gli davano alla testa. Che lo incitavano a darle di più, a pretendere di più.

Non riusciva mai a sottrarsi a una richiesta tanto silenziosa, quanto insistente.

La prese così come lei aveva tacitamente preteso che facesse. Ribaltò le posizioni in uno scricchiolio di cellophane che strappò una risata a entrambi, prima di vederla soffocata da tutti quei gemiti, dalle spinte scomposte, dalle mani che graffiavano, i denti che mordevano, le mani che esploravano, dall’eccitazione che saliva così come un tornado a inglobarli in un vortice senza ritorno, fino a scuoterli definitivamente in un orgasmo che li stese… esausti e appagati… alla fine di quell’ennesimo viaggio.

Le sue braccia, le sue gambe lo trattennero. In quella morsa di ragno che voleva solo suggerirgli di restare. Che pretendeva la sua presenza. Forte, tangibile.

Svestita da quella caratteristica letale che aveva regalato ben altre sensazioni ad altre persone, in altri mostruosi, dolorosi contesti.

Gli piaceva restare a guardarla, dopo.

A cogliere tutte le umide sfumature del suo sguardo appagato. Soddisfatto, placido, sereno.

Natasha in quei momenti era solo Natasha.

Senza titoli, nomi in codici, appellativi.

Solo per lui, Natasha.

Una realizzazione che gli provocava sempre una stretta al torace. Una botta di adrenalina non richiesta. Senza il terrore di credere si trattasse di un infarto.

Non era cambiato niente, si diceva, eppure era cambiato tutto.

L’amore è per i bambini… non era stata lei a dirlo?

E dunque se non si trattava di questo, allora doveva essere qualcosa di molto più potente, perché, per quanto si sforzasse, era sicuro che così non ci si era sentito mai.

“A che stai pensando, Barton?” fu lei la prima a interrompere quel silenzio sospeso, pacifico.

“Agli infarti.”  Gli era sfuggito.

Natasha sollevò un sopracciglio, indecisa tra la perplessità e l’accettazione che Clint Barton non fosse una persona normale.

“Ti formicola un braccio?”

“No, però mi formicola tutto il resto.”

“Allora non è un infarto.” Gli grattò il viso, in corrispondenza della barba appena accennata.

“No… mi sa che sei tu.”

Lei lo aveva guardato un solo istante, facendo cadere quel mezzo sorriso. Serrò le labbra, prima di ribaltarlo di nuovo con uno slancio d’anca, imprigionandolo ancora sotto di sé.

Era un modo per punirlo di quel non richiesto attacco di zucchero?

“Non uccidermi.” La supplicò, mentre lei valutava la situazione dall’alto.

“Se avessi voluto farlo, sarebbe già successo anni fa.”

Clint non ebbe bisogno di dirle che lo sapeva.

Continuava a guardarlo con quell’aria valutativa, enigmatica. Natasha poteva essere limpida come il cielo dopo un temporale e l’attimo successivo torbida come acqua di palude.

“Non finirò mai di essere in debito con te, Clint.”

L’uomo aggrottò la fronte, incapace di comprendere cosa volesse dire.

“Natasha, non…” lei gli mise un dito sulle labbra, a zittirlo.

“Ma non è una questione di debito… il motivo per cui adesso sono qui… con te.”

Perché aveva sentito il bisogno di puntualizzarlo proprio ora? Per via della sua infelice uscita sull’infarto? O quella dell’omicidio? Due argomenti positivi, insomma.

Il dito era scivolato giù dal suo mento e lei lo aveva liberato. Gli si era sdraiata accanto, rannicchiata per metà su di lui.

“Mi piace quello che facciamo insieme, Clint. Mi piace anche quando non facciamo sesso. Mi piace anche solo dipingere una stanza di uno stupido colore viola.”

“Il viola non è affatto stupido…”

Gli aveva dato un pizzico per zittirlo, di nuovo.

“Mi piace quando finiamo per lavorare assieme. O quando mi offri quel disgustoso caffè a colazione. Non è una questione di debito”, una pausa. “Lo capisci?”

Clint fissava il soffitto, il formicolio era tornato a colpirlo impietosamente.

“Lo capisco…” mormorò.

“Bene.”

Clint ebbe come l’impressione che, a modo suo, Natasha gli stesse semplicemente dicendo che quel formicolio, sì insomma… lo provava anche lei.

Che se lo tenessero i bambini, l’amore… Clint adesso aveva i brividi.

 

*

 

Ancora non si erano rivestiti che il campanello della porta d’ingresso suonò.

Nemmeno il citofono, proprio il campanello, a suggerire che qualcuno era riuscito a intrufolarsi nello stabile e salire direttamente al piano.

Che cavolo lo pagavano a fare il portiere?

“Aspettavi qualcuno?” Natasha.

“Non mi viene mai a trovare nessuno. A parte te. E Capitan America… una volta.”

“Magari è uno dei vicini.”

Clint si era rimesso in piedi. Aveva recuperato biancheria, pantaloni e t-shirt e si era rivestito un po’ più rapidamente di Natasha. Il viso ancora sporco di vernice.

Sbirciò fuori dalla finestra, scompigliandosi i capelli sfatti, individuando un grosso macchinone nero che prima proprio non c’era, nella strada di sotto.

“Conosci qualcuno con un SUV nero?”

Natasha sgranò gli occhi.

“Fury.”

“Ah… merda.”

 

Faceva ben strano avere il direttore Fury seduto sul divano di casa. Il divano incartato, di casa. In quella baraonda di barattoli di vernice, rulli, pennelli, teli protettivi e impalcature più o meno improvvisate, l’uomo era una rigida e compita macchia di colore nel candido scenario.

Clint e Natasha gli sedevano di fronte, in attesa di spiegazioni.

Lucky gli stava a debita distanza. Smetteva di scodinzolare ogni volta che il suo unico occhio andava a posarsi su di lui.

“Posso offrirle qualcosa… un tè, un caffè… un… succo di frutta. Anche se non sono sicuro di avere del succo di frutta?”

Fury aveva scosso la testa e intrecciato le mani, fissandolo.

“Una birra?” azzardò ancora. “No, non una birra, è in servizio, giusto?”

“Rilassati Barton…” lo aveva redarguito dopo l’ennesimo tentativo di compiacerlo. “Non sono qui per regalare intimidazioni.”

Clint cercò di rilassarsi. Natasha sembrava non avere, al contrario, alcun problema a gestire la situazione.

Non c’era pur niente di male nel passare il proprio tempo libero, imbiancando l’appartamento di un amico. Un collega. Un collegamico (uno scopacollegamico?).

Clint serrò le labbra per non dare sfogo alla sua inutile ilarità.

“Vedo che sei in fase di rinnovo.” Si era guardato attorno, come se non fosse già abbastanza evidente.

“Sì, una rinfrescata. Abito qui dentro da un sacco di anni, non avevo mai pensato a dare una sferzata di colore.”

“Bello quell’arco.”

“Sì… è vintage.”

Il termine gli riportò improvvisamente in mente Coulson. Per un breve istante s’incupì e Fury sembrò intuirlo.

“Direttore Fury… posso… possiamo…” aveva indicato anche Natasha che non aveva smesso un solo istante di fissarlo, “Fare qualcosa per lei?”

Era lì da almeno una decina di minuti e ancora non si decideva a svelargli perché era finito proprio lì. A casa sua.

Sembrò valutare la domanda a lungo. Clint ci lesse una sorta di conflitto interiore a cui non riuscì dare un nome.

Lo sentì inspirare a fondo e poi frugarsi nelle tasche della giacca.

L’espressione si distese. E per un attimo Clint ebbe come l’impressione che avesse deciso di sostituire il messaggio che voleva dar loro con qualcos’altro. Che avesse improvvisamente trovato una scusa per rimandare una notizia ben più complicata.

“Tony Stark.” Disse solo, porgendo loro un paio di cellulari di ultima generazione.

“Come, prego?” Clint si era allungato e ne aveva afferrato uno, mentre Natasha prendeva quello rimasto.

“E’ stato da noi questa mattina. Una consulenza per dei progetti tecnici di cui non è il caso discutere.  Ne ha approfittato per darmi questi. Un regalo per Barton e Romanoff, mi ha detto. In realtà è stato più metaforico di così, ma non vedo perché dovrei assecondare la sua mania per i paragoni… faunistici.”

Clint inarcò un sopracciglio non del tutto certo di capire il commento.

“Io però ce l’ho già un cellulare.” Commentò rigirandosi fra le mani quel coso semitrasparente, dall’aria costosa e parecchio fragile (considerazioni probabilmente errate… riguardo la fragilità, non riguardo il suo costo).

“Già bè… immagino sia uno dei suoi modi per dire che quello sarà il modo in cui vi contatterà… prima o poi.”

“Perché Stark dovrebbe contattarci?” già ipotizzava catastrofi imminenti.

“Voi ultimamente non guardate molto i telegiornali, mh?”

Natasha, con quel suggerimento, era andata ad accendere la tv.

Non le ci volle molto per trovare un canale che riportasse un servizio ad hoc che mostrava immagini in volo della fu Stark Tower.

La fascia a scorrimento sotto al servizio titolava: Tony Stark: a breve l’inaugurazione della neo nominata Avengers Tower.

“La che… ?” Clint si era rimesso in piedi esterrefatto.

Fury aveva fatto lo stesso, ma con la mera intenzione di levare finalmente le tende.

“Immagino arriverà un invito formale a breve.”

Clint osservava quel colosso di cemento e vetro, perplesso, affascinato e un sacco di altre cose che forse sarebbe stato meglio evitare di aggiungere a quel malcelato entusiasmo.

Una torre, tutta dedicata a loro? Quel gruppo di scalcagnati pseudo eroi che avevano salvato New York?

Barney avrebbe rosicato… da morire.

Natasha aveva accompagnato Fury alla porta.

Gli arrivarono solo stralci di conversazione.

“Che altro dovevi dirci, Nick?”

“Una cosa per cui c’è tempo…”

Clint si era voltato per un congedo come si deve.

Aveva stretto la mano al direttore, che per la cronaca, non era mai stato lì. E soddisfatto di poter annoverare un ospite tanto illustre fra i frequentatori del suo modesto appartamento di Brooklyn, lo guardò sparire dalla porta, così come vi era entrato.

Lanciò uno sguardo a Natasha, mentre la voce di Tony Stark risuonava nel servizio registrato, enumerando le molteplici qualità della nuova torre che produceva energia pulita.

“Come faceva a sapere che eri qui?”

Natasha alzò gli occhi al soffitto, già più che consapevole di ciò che il direttore conosceva da tempo.

Fury e quel suo maledetto occhio rivelatore.

In quel momento il nuovo fragile e costoso telefono di Tony Stark squillò. Il faccione sornione dell’uomo rimbalzava sulla schermata, nefasto.

Così presto?

Clint represse una smorfia e guardò Natasha.

“Rispondi tu.” Le lasciò l’ingrato compito.

“Barton…”

“Vieni Lucky! Finiamo di dipingere.”

“Barton, non fare lo stronzo!”

Clint intuì che, fra le cose che le piacevano fare con lui, figurava anche l’insulto libero: continuò a rivolgergli improperi più o meno coloriti anche dopo la telefonata di Iron Man.

 

___

 

N.d.A: Ho dovuto farlo. Mi perdonerete la stra-abusata scenetta degli imbianchini felici (no, non si tratta di una nuova pubblicità di una nota marca di merendine che spaccia la vita per un idillio di famiglie drogate), ma ho dovuto. Soprattutto perché sentivo la necessità di dedicare un capitolo esclusivo a questi due. Senza coinvolgere sparatorie, gambe mozze, morsi (eh, i morsi) o pericolo di morte. E avere una scusa per usare un po’ Nick Fury che sfrutto sempre troppo poco (sebbene lo ami moltissimo). Per la cronaca: anche lui tornerà e avrà un ruolo piuttosto determinante. Ma non nel prossimo capitolo. Il prossimo vedrà coinvolti altri personaggi… l’indizio bello grosso c’è.

Al solito ringraziamenti di rito, ma sentitissimi a chi legge e commenta. Alla mia beta, vittima di studio matto e disperatissimo - ma non farti venire la gobba, mi raccomando, sennò poi dovrò chiamarti AIGOR.
Alla prossima, per chi vorrà!

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 [Avengers] ***


CAPITOLO 20

 

[Avengers]

 

Ci mettiamo un po’ a riscaldarci, questo te lo concedo. Ma facciamo la conta dei presenti: tuo fratello, il semidio; un supersoldato, una leggenda vivente che vive nella leggenda; un uomo con grossi problemi nel gestire la propria rabbia; un paio di assassini provetti e tu, bellimbusto, sei riuscito a far incazzare tutti quanti!

(The Avengers)

 

*

 

Clint cercò di infilare la chiave nella serratura della porta del suo appartamento.

L'operazione gli risultò più complicata del previsto.

Si rese conto, solo al terzo tentativo, che forse avrebbe fatto meglio a levarsi gli occhiali da sole. Il corridoio scarsamente illuminato e un paio di lenti scure non aiutavano certo l'impresa.

Esausto: così si sentiva.

Quando finalmente riuscì a entrare in casa, ringraziò il cielo che ci fossero già le serrande abbassate. Senza occhiali, la luce lo avrebbe ucciso. Tipo vampiro al sole.

Si liberò del borsone che cadde a terra con un tonfo ovattato, della giacca (il dolore fulminante alla spalla lo obbligò a rallentare le operazioni), si slacciò, a fatica, le stringhe degli stivali d’assalto e li lanciò letteralmente dall’altra parte del corridoio.

Si trascinò, ancora sporco e distrutto, attraverso il salotto, per poi franare, in ultimo, sul divano che cigolò in modo inquietante.

Non se ne curò affatto. Ogni muscolo sembrava urlare pietà.

Lo sapeva che avrebbe dovuto spogliarsi e magari farsi una doccia. Levarsi di dosso la polvere, il sangue (o quello incrostato che era rimasto) e mettersi a letto, sotto le lenzuola cambiate di fresco, ma nessuno sarebbe stato in grado di farlo alzare da lì, se non con una scusa piuttosto convincente.

L’ultima missione lo aveva totalmente distrutto. Nessun piano d’estrazione. Lo SHIELD avrebbe dovuto pagargli gli straordinari… almeno.

Lucky era ancora dai vicini di casa. Pensò che non sarebbe loro dispiaciuto tenerlo ancora per qualche ora. Dopotutto, forse nemmeno sapevano che era tornato.

Il tempo di una dormita.

Solo qualche minuto.

Il riposo del guerriero.

La schiena cominciò a rilassarsi. I muscoli a distendersi, gli occhi si chiusero e scivolò nel sonno… di schianto.

 

Venne svegliato che era nel bel mezzo di un sogno. La musica rullante della suoneria di un cellulare. Alzò di colpo la testa, rischiando uno strappo muscolare di tutto rispetto.

Si guardò attorno per un istante, frastornato, prima di ributtarsi giù, sbuffando sonoramente. Quanto aveva dormito? Dalle finestre ancora filtrava luce. Sicuro non più di un paio d’ore.

“Telefono…” biascicò, asciugandosi malamente quel filo di saliva che gli era scivolato giù dalle labbra.

Il telefono sembrò placarsi. Forse non era poi così importante.

Cercò di rilassarsi di nuovo, quasi sperando di riuscire a recuperare il sogno momentaneamente accantonato, quando quello stronzo di aggeggio infernale riprese a suonare.

“Ma che... ? Mh, cazzo…” ringhiò, cercando alla cieca nelle tasche: dei pantaloni, della camicia, del giubbino leggero. Quando lo trovò, ne osservò il display che non gli segnalava nessuna chiamata in arrivo.

E allora perché continuava a sentire quella stracazzo di suoneria?

Una suoneria… che era persino sicuro di non aver scelto.

La suoneria del cellulare che gli aveva regalato Tony Stark.

“Ennò, dai…” esalò esasperato, affondando la faccia nel cuscino, sperando rinunciasse.

La chiamata terminò di nuovo… per poi riprendere il secondo successivo.

“Ebbasta!” esclamò Clint, rimettendosi seduto, non prima di aver lanciato il cuscino da qualche parte. Forse vicino ai suoi stivali sparpagliati.

Si guardò attorno, cercando la fonte del suo furore. Si rimise in piedi a fatica (la spalla lo rimproverò di nuovo con una sferzata di dolore) e andò alla ricerca del maledetto aggeggio.

Cercò sotto al divano, sotto i mobili, nei cassetti, nel barattolo ormai stracolmo di cinque centesimi.

La telefonata terminò… e riprese. Di nuovo.

“Non molli, eh?” abbaiò. Cercando stavolta in bagno, in camera da letto, sotto al materasso. E poi ritorno, nella dispensa, in frigorifero!

“Dove sei, dannato?” gridò al culmine della disperazione.

Il cellulare smise di suonare. Più a lungo del previsto.
Un moto di speranza si affacciò nel cuore di Clint: forse aveva rinunciato.

E invece no! Lo stronzo riprese a suonare, sbeffeggiandolo con quella sua musichetta rock che di regola nemmeno avrebbe disprezzato, se solo non avesse dovuto associarla alle insistenze di quel fanatico.

Decise di agire in modo razionale. Si massaggiò le tempie pulsanti e chiuse gli occhi. Affinò l’udito.

A destra.

Cominciò a dirigersi in quella direzione.

In basso.

Aprì gli occhi solo per trovarsi di fronte il cestino della spazzatura.

“Oh, ma andiamo…” stronfiò, allungando un braccio, frugando, tastando sul fondo fino a trovarlo. Esattamente lì. Fra le cartacce e altra roba non meglio identificata. Non aveva portato fuori i rifiuti, l’ultima volta.

E ricordò perfino le modalità con cui il telefono era finito proprio in quel buco disgustoso.

Esattamente le stesse che gli avevano fatto lanciare improperi più o meno sgradevoli ai danni di Tony Stark, l’ultima volta che aveva provato a chiamarlo e non era riuscito a capire come diavolo si spegnesse quel coso.

 

Si trovò di nuovo di fronte a quel display tutto colorato di rosso e oro. Il faccione di Tony a ricordargli che, ehi, era proprio lui!

Dovette fare uno sforzo immenso per decidersi a rispondere. Anche se la domanda che gli attraversò la mente fu: ma quanto può durare una stracazzo di batteria di un cellulare?

Forse avrebbe risolto solo lanciandolo casualmente dalla finestra.

Gli incidenti, lo sanno tutti, capitano.

Rincarò la dose con un paio di imprecazioni, prima di premere quel maledetto tasto: rispondi.

 

*

 

La conclusione della telefonata fu un invito (l’ennesimo) alla Stark/Avengers Tower. Le cose erano andate per le lunghe dopo il celere annuncio della sua ricostruzione.

C’era stato il casino con il Mandarino (un nemico che si chiama il Mandarino avrebbe fatto vacillare anche le menti più caparbie), il ritorno sulla terra di Thor e alieni tutti (stavolta, a farne le spese, la città di Londra. Una variante sul tema, se non altro) e una serie di sciagure più o meno violente allo SHIELD, qualcosa che metteva in agitazione il direttore Fury più di quanto si sarebbe mai aspettato di vederlo.

L’appuntamento era stato fissato per la sera del giorno successivo al suo rientro.

 

Hai trovato il mio invito?”

Quale invito?”

L’invito all’inaugurazione.”

Non ho trovato nessun invito.”

Sotto la porta? Dentro la cassetta delle lettere? Nella spazzatura, come il cellulare?”

Come fai a sapere del… ?”

 

La cosa peggiore, in tutta quella faccenda, era il fatto che, per il party che aveva organizzato il signor Stark, era d’obbligo l’eleganza.

Era specificato persino sull’invito. Che sì, aveva trovato, e che no, non era nella spazzatura.

Avrebbe dovuto mettere una cravatta?

Clint constatò che gli sarebbe stata necessaria almeno un’intera giornata di riposo.

Doveva ricaricare le batterie non solo per riprendersi dalla spossatezza della missione, ma anche per prepararsi psicologicamente alla rimpatriata. E a quei completi imbellettati le cui cuciture lo strizzavano sempre al cavallo dei pantaloni.

Dannato Stark.

L’occasione, se non altro, era più piacevole del raduno dell’ultima volta. Anche se i posti così sofisticati lo mettevano sempre a disagio.

Si era presentato una decina di minuti prima all’appuntamento.

Aveva preso un taxi e ora stava sotto il sole calante a guardare dal basso verso l’alto quell’imponente struttura di vetro. Un inferno di cristallo dal design modernissimo con una gigantesca ‘A’ all’apice.

Stark sembrava essersi assicurato che nessuno mai avrebbe potuto mettere in dubbio la sua inclinazione alla megalomania. Un po' meno quella alla compensazione.

E poi arrivarono le grida.
No, il tappeto rosso proprio non lo aveva notato. O preventivato.

E tutta quella gente? I flash di quei fotografi? Che diavolo avevano da gridare tutte quelle… ragazzine?

Si spinse gli occhiali da sole sul naso e inspirò a fondo.

Non era sicuro di essere pronto.

Non a quell'attacco di popolarità. Lo SHIELD gli aveva assicurato un rifugio sicuro durante quell’anno e mezzo dai drammatici eventi di New York, mentre il suo quartiere, Brooklyn lo aveva protetto con l’anonimato (a parte qualche pigro complimento dei vicini di casa che ricordavano vagamente come facesse di cognome. E un: ehi, sai che ti ho visto alla tivvì?).

Fu lì lì per affrontare il marasma che già sembrava averlo istericamente adocchiato…

 

Quello è Occhio di Falco! Una foto!”

Un autografo!”

Mi firmi il reggiseno?”

Clint! Clint! QUI!”

 

… quando si sentì richiamare da una voce alle sue spalle, titubante e pacata: “Agente Barton.”

Clint si era voltato, poco prima di venir sparaflashato da un paparazzo. Grazie a Dio indossava ancora gli occhiali.

“Dottor Banner, buonasera.”

L'uomo gli aveva allungato la mano, stringendo la sua con vigore. Il bestione aveva una bella stretta anche senza il colore verde a fargli da mostruosa aureola.

“Stark mi aveva detto che ci sarebbe stato anche lei. Che ci sarebbero stati tutti, a dire il vero.” Dovette urlare un po’ per farsi sentire, al di sopra delle grida.

 

Hulk! Quello è Hulk!”

Divento verde per te!”

Dottore, dottore!”

Dottor… chi?”*

 

Clint annuì cercando di non cedere alla tentazione di scoppiare a ridere istericamente.

“Sì, aveva detto qualcosa anche a me.” In realtà aveva capito poco della telefonata che aveva ricevuto. Stark aveva sproloquiato, più o meno delirante, per dieci minuti prima di sganciargli una data e un’ora precisa, “Ma di certo non mi aspettavo… questo.”

Banner sorrise appena, incassando la testa fra le spalle, all’ennesima scarica di flash.

“Prima volta alla torre?” gli domandò, il sorriso gentile ma insicuro, cauto, all’erta; terrorizzato che potesse accedere qualcosa. Qualsiasi cosa.
E Clint fu certo che non fosse stata una grande idea quella di mettere il dottor raggi-gamma–mostro-verde-e-se-mi-incazzo-son-cazzi, proprio sotto una miriade di flash epilettici e grida che avrebbero innervosito un sordo.

“In assoluto.” Gli confermò, sperando di distrarlo, “Imponente.”

“Piuttosto.”

“E vagamente tamarra.”

Banner aveva riso. Una risata nervosa, ma sincera.

“Qualcosa mi dice che lei invece ne è già assiduo frequentatore.” Continuò, un po’ per prendere tempo, un po’ perché un vero colloquio con quell’uomo non lo aveva mai avuto.

“Non assiduo ma… diciamo che ho collaborato ad alcuni progetti da queste parti. Nessuna visita completa comunque.”

Clint aveva sentito qualcosa, ma mai indagato troppo sulle collaborazioni fra scienziati. Non era esattamente la sua materia. Lo era un po' di più, forse, quella che la ressa stava annunciando adesso a gran voce. Il boato che aveva accolto loro, era ben poca cosa a confronto di quello che stavano riservando alla coppia.

 

Ma quello è STEVE ROGERS!”

Che figooooo!”

Capitano, Capitano!”

Natasha! Natasha!”

La Vedova Nera!”

 

E via discorrendo. I commenti si perdevano comunque in un groviglio di parole incomprensibili.

 

Clint e Bruce si fermarono a metà strada, poco prima di inciampare in un giornalista che li aveva puntati malamente.

Natasha Romanoff e Steve Rogers procedevano nella loro direzione. Un’accoppiata vagamente sbilanciata se si considerava la stazza di uno nei confronti dell’altra.

Nel complesso però sembravano appena usciti da una rivista, di quelle patinate.

Lei era bellissima.

Lui… eh, cazzo, anche. Non che fosse il suo tipo, ma…

Clint considerò che, insieme a Banner, entrambi avrebbero potuto somigliare al massimo a Stanlio e Ollio.

“Buongiorno…” un saluto collettivo, di rito. Erano giorni che non vedeva Natasha, ma era abbastanza sicuro di sapere in cosa fosse stata impegnata. Lei e il Capitano avevano iniziato a testare una serie di collaborazioni piuttosto fruttuose.

Se Banner aveva una buona stretta di mano, Rogers non era affatto da meno.

“Alla fine hai dovuto rispondergli, mh?” Natasha lo stava deliberatamente prendendo in giro.

Ancora non gli perdonava lo sgarbo dell’ultima volta con quel maledetto cellulare Stark.

Ma quel vestito color corallo le stava così bene che avrebbe quasi potuto perdonarle l’insolenza. Quasi.

“No, ma che dici? Sono stato io a chiamarlo.” Le rispose con una certa credibilità.

Steve sembrò non comprendere lo scherzo: “Seriamente?”

Banner gli diede una comprensiva mano sulla spalla. Arrivandoci a malapena. Per l’altezza.

“Cosa stiamo aspettando?” domandò Natasha evidentemente impaziente di concludere alla svelta quell’insulso tappeto rosso.

“C’è un giornalista là in fondo che non vogliamo incontrare.” Suggerì Clint. E Banner parve essere d’accordo. Steve solo vagamente terrorizzato.

“Non siamo mica ad Hollywood.”

“Vallo a dire a Stark.”

Si trovarono il microfono sotto al naso (o meglio, sul naso) ancora prima di poter decidere un piano d’attacco.

Il vaffanculo di Clint lo filmarono tutte le televisioni nazionali.

 

*

 

Appena entrati nell’ingresso registrarono solo un gran formicaio di gente.

Festicciola di inaugurazione intima… sticazzi.

Clint era certo che così si fosse espresso Stark, al momento dell’invito. Meno lo sticazzi. Quello era opera sua. Partorita al momento.

“Comunque ne manca uno all’appello.” Biascicò mentre Banner cercava di rifiutare agilmente una tartina al formaggio (Sono intollerante ai latticini).

“Thor? Non credo che Stark sia ancora in grado di mandare inviti ad Asgard.” Gli rispose Natasha che sembrava assolutamente a suo agio. Dopotutto, non era sempre stato così? Anche durante le missioni sotto copertura. Dote o addestramento che fosse, sempre meglio di come riuscivano a lui.

“Non ne sono tanto sicuro. Sapeva che avevo lanciato il cellulare nel cestino della spazzatura…”

“Hai fatto che?”

“Incidente di percorso.”

“Con me ha capito che ero appena uscito dalla doccia…” si era intromesso ingenuamente il Capitano Rogers.

Clint non represse un brivido.

“Ci sta stalkerando?”

“Stalk... che?” domandò Steve.

Fu sulla scia di quel sospetto che cominciarono a risuonare le note di Iron Man dei Black Sabbath.

“Ma siete seri?”

Dalla sala si elevò un: oooh, d’ammirazione e infine comparve Stark in tutto il suo fulgido splendore.

“Non sono pronto a tutto questo.” Stavolta il commento arrivava da Banner. Il velo d’angoscia si percepiva anche senza un grosso sforzo d’ascolto.

“Miei amici!” li raggiunse il milionario esordendo in un modo che tanto parve scimmiottare Thor. Dovette registrare le espressioni perplesse sui loro visi perché si placò immediatamente: “No?”

“Stark.” Un coretto di scolari di fronte al professore di… meccanica.

“Piaciuta l’intro?” domandò impaziente, facendo schioccare le mani una contro l’altra. E poi dubbioso, “Un po’ calante nei bassi. Va raddrizzato il tiro.” E nel dirlo aveva dato un’occhiata d’intesa a Clint che si limitò a inarcare un sopracciglio.

“Giusto un po’ auto celebrativa”, avanzò un dubbio Rogers.

“Avevo chiesto ai Black Sabbath di scrivere un jingle per l’intera squadra, ma mi hanno risposto picche. Ho dovuto accontentarmi. Spero non vi dispiaccia.”

“Sia mai.”

“Ho programmato tutto. Pronti per il giro turistico? A proposito, carino il completo...” indicò Natasha, prima di far scivolare un dito sull’Avenger successivo, “Banner.”

“Quale giro turistico?” domandò Natasha che, come tutti, credeva di essere lì per una toccata e fuga, a far da cibo per i media.

“Il giro della vostra nuova, scintillante base operativa.”

“Credevo fosse una facciata.”

“Una facciata? No, giuro c’è anche tutto il resto dentro.”

“Un po’ grandina come base operativa per cinque persone…” contò mentalmente Steve, prima di correggersi “Sei.”

“No bravo: cinque. La stanza per Hulk Hogan surfista non era prevista nel progetto. Non telefona mai per dire se tornerà per cena.”

“Stanze? Che tipo di stanze?”

“Quanta impazienza, lasciatemi il tempo di farvi da cicerone a tempo debito.”

“Se ci porti fuori di qui a me va bene tutto.” Aveva dichiarato Banner, asciugandosi le mani sudate sui pantaloni del completo.

 

Tony Stark non scherzava affatto sulla faccenda della base operativa.

Arsenale, palestra, stanze private, docce, laboratori, sala informatica, piena di aggeggi di cui Clint non avrebbe capito l’utilizzo, nemmeno se ci si fosse impegnato per una vita intera.

“E tutto questo lo hai progettato prima o dopo aver deciso il menù per la festa?” gli chiese, avvicinando una rastrelliera piena di armi.

“No, del menù si è occupata Pepper, mio caro Robin.”

“E’ così faticoso chiamare le persone con il proprio nome?” protestò Steve Rogers in vece dell’arciere, e Clint non poté che provare una sorta di rispettosa gratitudine per l'inaspettata solidarietà.

“Non era un rimprovero, vero?” si interessò Stark, “Un genio ha bisogno di sfogare la sua creatività anche con le piccole cose. Non ti piace Robin?” si rivolse a Clint, come se fosse stato lui ad avanzare la protesta, “Le varianti sono infinite: Brave?”

“Già sentito.” Gli rispose.

“Guglielmo?”

“Antico.”

“Oliver Queen.”

“Pretenzioso.”

“Katniss?”

“Buuu.”

“Daryl Dixon.”

“Non cominciamo a offendere. Quello usa una balestra.”

“Fanatico.”

“Già lo preferisco.”

“A proposito di questo, ho una proposta da farti sull’assetto di un nuovo arco, da me personalmente progettato.”

“Non c’è niente che non vada nel mio arco attuale.”

“No, no, certo che no…” gli aveva passato un braccio attorno alle spalle, “tuttavia…”

Il resto delle sue elucubrazioni si persero nel rombo di un tuono lontano.

“Le previsioni non davano pioggia.” Sentirono commentare Banner che si era affacciato a uno dei finestroni della stanza.

“Ah, quello?” lo rassicurò Tony, “Non è un temporale, è arrivato il figliol prodigo.” E poi come se non fosse mai stato interrotto, di nuovo a Clint, “Ti piace il viola, giusto?”

“Come hai fatto ad avvisare Thor dell’inaugurazione? Non era tornato ad Asgard?” chiese Natasha che osservava esterrefatta, dalla finestra, il cerchio di gente che si era creato attorno all’arrivo della nordica divinità, almeno una ventina di piani sotto.

“Avvisare? Chi ha detto di averlo avvisato?”

In un istante, la preoccupazione serpeggiò nel gruppo.

Se Thor arrivava armato di martello, a una festa a cui non era stato invitato… poteva dire una cosa sola: guai.

“Dimmi che non ci lancerà una maledizione, minacciandoci di pungerci con un fuso.” Esalò Clint.

“Bè, la torre c’è.”

“Stark…” Natasha.

“Okay, okay, stavo scherzando. Dovevate vedere le vostre facce. Ovvio che l’ho avvisato. E’ pur sempre un Dio, perdio!”

“Questo non mi consola.” Steve.

“Anche perché ci riporta al punto di cui sopra: come hai fatto ad arrivare fino ad Asgard?” Natasha.

“Parola mia, mai stato lì.”

“Adesso stai tergiversando.”

“Lo sta facendo eccome, non vuole dirci come faceva a sapere del mio cellulare nella spazzatura.”

“O di me sotto la doccia… cioè fuori… dalla doccia.”

Stark si era allontanato dal gruppo.

“Ma non vi ho ancora fatto vedere le cucine! Qualcuno vuole un caffè?”

 

*

 

Tutto ciò che Clint aveva imparato da quella serata pazzesca, era che Tony Stark era pazzo.

Un pazzo pieno di soldi.

Un pazzo geniale.

Un pazzo che gli aveva proposto un arco pazzesco.

Già se lo sentiva fra le mani. E sebbene non lo avrebbe mai ammesso, non vedeva l'ora di essere richiamato, su quello stracavolo di cellulare immortale, per un aggiornamento o, ancora meglio, un test.

Era di nuovo rientrato a casa. Lucky gli era saltato addosso, assonnato, ma mai avaro di scondinzolii confortanti.

“Meno male che sei felice tu.” gli disse, andando a frugare nel frigorifero qualcosa che assomigliasse a una bottiglia d'acqua. Con tutto quello che aveva bevuto, fra champagne, vini e liquori di vario genere era già tanto che non avesse rigurgitato allegramente la pseudo cena nel taxi che lo aveva riaccompagnato a casa.

Una sbronza del tutto innocente. Quasi divertente.

Si scoprì a pensare che, dopotutto, la serata non era stata affatto spiacevole.

A parte i calzoni. Che gli tiravano al cavallo. Avrebbe dovuto seriamente comprare un abito elegante su misura. Forse Stark avrebbe persino saputo indicargli un sarto come si deve. I soldi ce li aveva... per un abito elegante. Che diamine.

Era indeciso se tuffarsi sull'acqua o su quel succo di frutta che avrebbe dovuto assolutamente finire entro la prossima settimana, quando sentì squillare il telefono.

Di nuovo?

Chi diavolo lo poteva chiamare all'una di notte?
Gli vennero in mente giusto un paio di nomi: Natasha. Barney.

Tirò su col naso, strofinandosi un occhio. Frugò nella tasca di quei maledetti pantaloni e guardò la chiamata sul display.

Era Phil Coulson.

 

___

 

*chi becca la pseudo citazione, vince un premio.

 

N.d.A: Tanto per cominciare: non è colpa mia. Tony si è presentato prepotentemente nella storia, senza che io potessi fare niente per fermarlo.

Secondo… stupidaggini a parte: io li amo tutti, gli Avengers. E proprio in virtù di questo amore, non riesco mai ad essere obiettiva sul modo in cui potrei renderli. Sarà che li trovo perfetti così come son stati scritti (nei film, s’intende, nei fumetti ci sono troppe versioni per poterli tenere a bada), e che quindi soffra un po’ del complesso dell’OOC. In ogni caso, boh, un’introduzione leggera, uno scorcio collettivo, per spingerci nella maratona finale di questa storia (sì, ancora tre capitoli, più epilogo e sarà finita).

In conclusione: ringraziamenti a tutte le new entry, sono colpita, dico davvero, per l’interesse che avete dimostrato per la mia storia e avermi fatto sapere cosa ne pensate. Ringraziamenti anche alla Sere, come sempre (ho detto tutti i capitoli e tutti i capitoli sia), perché si sorbisce tutti i miei deliri e il mio spam feroce di fotografie eggif, di Jeremy Renner, soprattutto stasera che c'era il soccer aid e il bambolo ha sudato tanto sul campo da calcio.

Un solo punto finale e poi la smetto di ammorbarvi. Questa settimana un solo aggiornamento, in primis perché a breve avrò casa invasa dai parenti. E dato che sbucheranno finanche dai cassetti o dai lavandini, avrò poco tempo anche per respirare (perché sarò impegnata a salvarli da cassetti e lavandini). E poi perché, nel frattempo, sarò anche presa con storyboard e scadenze da rispettare e dovrò ritagliarmi dello spazio anche per quello (sto procrastinando come se non ci fosse un domani, anche adesso, per dire).

Comunque, non è che sparisco, salvo un parente, do una mano di china alle tavole e torno.

Alla prossima.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 [Kate Bishop] ***


CAPITOLO 21

[Kate Bishop]

 

Vedrete cose che al racconto susciteranno meraviglia. Voi vedrete una mucca sul tetto di una casa del cotone. E tanti, tanti fatti portentosi. Non posso dirvi quanto sarà lunga quella strada, ma non temete gli ostacoli lungo il percorso, poiché il fato vi ha accordato una ricompensa. Anche se la strada è tortuosa e il cuore scoraggiato e afflitto, voi seguite il vostro cammino, seguitelo fino alla vostra salvezza.

(Fratello, dove sei?)

 

*

 

Clint aveva avvicinato la biglietteria: ad indicarla un cartello stampato con un improbabile carattere gotico.

Ben misero anche il banchetto, stracolmo di volantini con il programma delle serate e gadget che sembravano esser stati racimolati da un discount all’ingrosso.

Per lo più segnalibri, matite e spillette.

“Un biglietto, per favore.”

La ragazza dietro alla cassa fece scoppiare pigramente un chewing-gum e gli strappò direttamente un biglietto dall’aria misera.

“Dieci dollari.” Biascicò tornando poi a controllare il suo smartphone.

Un interesse fuori dalla norma, pensò Clint, che ricordava ben altri entusiasmi.

Pagò con una banconota e fu subito indirizzato all’ingresso. Ai cancelli dove stava già sciamando un numero imprecisato di gente.

Perlopiù famiglie. Ragazzini urlanti. Il pretesto delle vacanze natalizie, ormai alle porte, sembrava averli scatenati.

Un piede dentro e si trovò proiettato in festosi labirinti circensi.

 

Tendoni. Tendoni a non finire. Tendoni colorati, lanterne, musica, profumo di mele caramellate, di frittelle, di zucchero filato.

Socchiuse gli occhi per un solo istante, per non vedere tutta quella gente, per riportare alla memoria altre sensazioni.

Ed eccola lì, quell’atmosfera che non aveva mai dimenticato.

 

Un dollaro. Solo un dollaro per cinque tiri! Un dollaro, per cinque tentativi. Vinci il primo premio!”

Predizioni sul futuro signore e signori? Lettura della mano? Venite a scoprire il vostro destino da Madam Glory.”

Le scimmie acrobate!”

Lo spettacolo dei leoni!”

Gli equilibristi!”

Venite ad assistere allo spettacolo del più grande illusionista di tutti i tempi!”

 

Sorrise appena, prima di riprendere a camminare in mezzo a quel marasma, stringendosi nel giaccone. Passò accanto alle bancarelle dei giochi, a quelli delle cibarie. All’ingresso dei tendoni, sparsi ordinatamente tutt’intorno al perimetro.

Non aveva potuto fare a meno di assecondare il richiamo, quando aveva appreso dell’arrivo del circo.

Poco fuori il distretto di New York, uno di quei pochi circhi itineranti, sopravvissuti alla crisi. Al controllo sulla qualità. Alla protezione animali.

Un circo sgangherato. Dall’aria raffazzonata. Misero in confronto ai circhi professionali che vedevi alla tv, con artisti e atleti con una preparazione fisica al pari di un professionista olimpionico.

Simile però dopotutto, nella struttura, nell’atmosfera, al circo di Carson.

 

Non era stato un buon periodo per Clint.

Non era in forma. Non dopo essersi disperato per almeno una settimana su quella misteriosa telefonata, la famosa sera dell’inaugurazione dell’Avengers Tower.

Aveva letto bene sul display del cellulare: era Phil. Phil Coulson.

Aveva risposto solo dopo un attimo di attonito silenzio. Ma dall’altra parte non aveva parlato nessuno. Un respiro appena accennato e poi il tu-tu-tu della chiamata interrotta.

Aveva provato a richiamare, ma a rispondergli solo la voce pre-registrata della signorina della compagnia telefonica: l’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.

Aveva riprovato almeno un’altra decina di volte, ma non era accaduto niente di diverso dall’ennesimo messaggio. Finché non si era arreso. Finché, fra i fumi dell’alcool, non si era convinto di esserselo solo immaginato.

Era andato a dormire, solo per svegliarsi la mattina successiva con un gran mal di testa e la sensazione di aver lasciato qualcosa di mostruosamente in sospeso.

Aveva recuperato il cellulare. Era andato a spulciare fra le chiamate ricevute.

Quella di Phil Coulson ancora lì, indelebile. Tangibile a raccontargli che no, non aveva sognato e che qualcuno, chiunque fosse stato, se un fantasma o uno stronzo in vena di scherzi, aveva davvero provato a chiamarlo con il numero di un uomo morto.

La mattinata allo SHIELD Center era stata frenetica. Una squadra di matricole, un paio di ignobili pratiche da smaltire, quando era riuscito a incrociare Natasha, per i corridoi, aveva dovuto strapparle al volo un appuntamento perché doveva parlarle.

La donna aveva solo fatto un cenno, prima di sparire nell’ufficio della Hill.

Fury era irraggiungibile, avrebbe voluto parlare con lui più di tutti.

Gli era tornata alla mente la sensazione che l’uomo gli stesse nascondendo qualcosa. E non seppe dire per quale contorto processo avesse associato le due cose: Coulson uguale comportamento sospetto di Fury.

Natasha lo aveva aspettato alla caffetteria nella strada di fronte. Aveva ascoltato il suo racconto e visto la telefonata sul suo cellulare. Quella prova tangibile. Gli aveva detto di non parlarne con nessuno. Che si sarebbe interessata di fare qualche ricerca. Non meno inquieta. Non meno insospettita.

Poco prima che la settimana giungesse al termine Natasha era riuscita a individuare la provenienza della chiamata. Un cellulare che aveva come indirizzo il vecchio appartamento di Coulson.

Quando erano andati sul posto avevano solo scoperto che era stato affittato a un’adorabile coppia di vecchietti che non sapevano nulla del cellulare.

Natasha, notando lo sconforto dell’uomo, gli aveva assicurato che avrebbe fatto il possibile per arrivare al bandolo della matassa.

Lui le aveva creduto.

 

Il circo non era stato che un diversivo. Un modo tutto suo per stare in mezzo alla gente, non doversi rinchiudere in casa a soffocare nelle paranoie, calato nel silenzio di quelle quattro mura.

Lo riportava indietro a giorni piuttosto sereni, dopotutto. Gli bastava l’atmosfera, l’idea, più che la somiglianza con i luoghi della sua adolescenza.

Passò di fianco al banco del tiro con l'arco e sorrise ai goffi tentativi di una ragazzina di lanciare con arco e frecce di plastica con la punta di feltro, nella speranza di colpire il grosso bersaglio. A seconda del colore dei segmenti a spicchio, un premio diverso. Il premio più ricco, se colpivi il bersaglio proprio al centro, che era stato disegnato talmente minuscolo che nessuno ci sarebbe mai riuscito. Fino a quel momento, a quota due tiri, altrettanti niente di fatto.

Quando tentò la terza volta, il dardo andò ad appiccicarsi su uno dei bordi, al confine con uno dei premi a disposizione.

“L’ho preso!” gridò la ragazzina, improvvisando persino un balletto piuttosto comico.

Il tizio dietro al bancone non sembrò intenzionato a concederle la vittoria.

“La freccia non è finita nello spicchio.” Protestò pigramente, sperando di non dover stare a discutere per quello.

“Sì che ci è finita! Lo ha colpito.”

“No-oh. Non vedi? E’ sul bordo. Il bordo non va bene. Niente di fatto.”

“Ma guarda bene! L’ho preso invece, l’ho preso bene, supera la linea. E’ finita sul blu. Ho vinto.”

“Senti ragazzina, non ho voglia di discutere. Ridammi arco e frecce e vai a provare con la giostra dei pesci, per favore.”

“Ho detto che ho vinto! E non sono una ragazzina, mentre tu sei un ladro!”

“Ma sentitela. Ridammi quell’arnese e vattene, prima che mi spazientisca.”

“Non me ne vado! E poi ho ancora un tiro!”

“Non me ne frega niente, ti restituisco i soldi, ma levati dai coglioni!”

Ma la ragazzina tutto sembrava fuorché decisa a dargliela vinta.

Aveva di nuovo caricato l’arma, e quando Clint fu certo che avrebbe lanciato direttamente contro il barbagianni che contestava la sua vittoria, deviò la mira andando a colpire di nuovo il bersaglio: un centro perfetto.

“Cazzo!” esclamò l’uomo che si era già visto colpito (per quanto quell’arma giocattolo non fosse davvero in grado di fargli del male. Forse giusto nel caso gli fosse finita in un occhio.)

“E adesso sentiamo, che hai da dire? Quello è un centro pieno, bello mio.”

L’uomo imprecò qualcosa di molto poco gradevole per una ragazzina… (che poteva avere dai dodici ai quattordici anni, a seconda delle prospettive. Una massa fluida di capelli neri, fisico asciutto e sguardo impertinente), ma alla fine andò a recuperare il peluche più grosso della bancarella e quasi glielo scagliò addosso, sperando, forse, di farla rovinare a terra sotto il suo peso.

Clint non riuscì a stare a guardare, le corse incontro un attimo prima che franassero la ragazzina, il peluche e tutta la bancarella a cui sembrava essersi aggrappata.

Riuscì a tenerla in piedi. Una mano dietro la schiena, l’altra sull’orripilante peluche verde.

“Tutto a posto?” le domandò prima di rivolgere uno sguardo di rimprovero all’uomo che si era già ritirato, senza smettere un solo istante di imprecare.

“Come no? Ho vinto!”

“Ho notato. Gran bel tiro.” Dovette proprio farle i complimenti. Era sicuro di non essere mai stato così bravo alla sua età. Perché sì, la precisione con cui aveva scagliato quella freccia non poteva dirsi solo fortuna. La conosceva ancora la postura perfetta di un arciere.

La ragazzina si scostò dal suo nascondiglio di peluche per riservargli un sorriso tutto denti, prima di cambiare repentinamente espressione. Ora lo stava fissando. Gli occhi sgranati, appena congestionata sotto al peso di quel mostro di pezza.

“Ma tu sei… ?”

Clint la guardò perplesso. Lui era… cosa?

“Non ci posso credere, sei quello della tv! Quello degli alieni di New York.”

Non riuscì proprio a dirle che si stava sbagliando, solo per proteggere la sua presunta privacy.

Si limitò a sorriderle, sperando di non alimentare fanatismi di sorta.

“Ah, lo sapevo. L’arciere. Occhio di Falco, ti chiamano. O il nome te lo sei dato da solo?”

Clint la guardò obliquo. “Non me lo dire, non mi interessa. Me lo fai un autografo?”

“Un autografo?”

Non era la prima volta che gliene chiedevano uno… quindi immaginò di poterglielo concedere, dopotutto.

Si trovò di fronte un pennarello ancora prima di averle dato il proprio consenso.

Ma nessun foglio.

“Dove te lo faccio… l’autografo?”

“Sul peluche, non è ovvio?”

Certo, come poteva non essere… ovvio?

“Ci vuoi anche la dedica?”

“Perché no? Diventa più autentico.”

“Come ti chiami?”

“Kate…” rispose la ragazzina “Kate Bishop.”

“Dimmi: Kate-Kate Bishop. Lo hai fatto apposta a mancare il bersaglio le prime due volte, non è così?”

“Chi può dirlo?”

Clint non represse una mezza risata, finendo di fare la sua firma Occhio di Falco, proprio sul testone di quell’orrendo peluche.

“Dovresti continuare. Sei in gamba.”

“Lo so.” Lo liquidò lei, strizzandogli l’occhio, prima di recuperare il suo ricco premio e decidere di andarsene.

“Arrivederci Clint Barton!” si congedò prima di sparire nella folla.
Clint rimase con il dubbio che lo conoscesse meglio di quanto gli avesse fatto credere: era certo di non averle mai detto il suo nome.

 

*

 

Uscì dal tendone dell’ultimo spettacolo che era ormai scesa la sera. Si era goduto in solitaria l’esibizione di trapezisti, clown e mangiafuoco, solo per poter decidere che sì, era davvero cambiato tutto. Forse da adulto ti cambiano le prospettive. O forse non era ancora dell’umore adatto per distrarsi veramente e godersi appieno lo spettacolo.

Sentì suonare il cellulare e non ci mise molto a rispondere.

“Ehi…”

Era Natasha.

“Dove sei?”

Clint si guardò attorno.

“Fra la bancarella delle frittelle e quella dello zucchero filato.” Il silenzio dall’altra parte della cornetta palesò la perplessità della donna. “Sono al circo.”

“Quello fuori città?”

“Quello”

“Vengo da te.”

Clint si era fatto subito attento.

“Hai delle novità?”

“Vengo da te.”

Natasha era stata troppo criptica per impedirgli di preoccuparsi.

 

Decise di restare a girovagare fra le bancarelle, mentre la pigra ressa domenicale andava esaurendosi, migrando verso l’uscita. Gli ultimi, tenaci avventori, decisi a spendere gli ultimi spiccioli in dolci o in giochini alle bancarelle.

Era lì lì se decidere di cedere alla tentazione di una mela caramellata (per scoprire che persino quella aveva un sapore diverso da come lo ricordava) che un’imprecazione poco distante colse la sua attenzione.

Vide un paio di ragazzini correre in direzione di uno dei tendoni e, a terra, in quella specie di vicolo fatto di tende, sbucava il piedone verde di un orso di peluche.

Kate-Kate Bishop?

Non era sicuro fosse compito suo intromettersi, ma quando aveva sentito, chiara e forte, la voce della ragazzina che intimava a qualcuno di fermarsi, era corso in quella direzione nemmeno avesse avuto le ali ai piedi.

Un gruppo di tre ragazzi le stavano attorno. Uno di questi rosso in volto come il demonio, le lanciava contro maledizioni che nemmeno Clint fu certo di aver mai sentito.

“Sei una ladra! Una ladra e un’imbrogliona! Ridacci i nostri soldi, brutta stronza!”

“Non sono una ladra! Me li sono guadagnati! Volevate entrare, no? Ed io vi ho fatto entrare. E a metà prezzo, che cavolo volete di più?”

“Non ci hanno fatto entrare a vedere nessuno spettacolo!”

“Avevate detto di voler entrare al circo. Non di voler assistere allo spettacolo.”

Da quello che Clint aveva intuito, non poteva certo dire che la ragazzina non avesse fegato. E una buona dose di faccia tosta.

Attese qualche attimo, in disparte, prima di intervenire in qualsiasi modo.

“Non prenderci per il culo! Ci hai fatto passare sotto una rete! Non dovevi chiederci nemmeno mezzo centesimo. Invece hai persino voluto un anticipo!”

“Per tutelarmi. Non è colpa mia se, stupidi come siete, non riuscite da soli a crearvi un varco per entrare in una zona non controllata.”

Ouch.

“Come ci hai chiamati?”

“Stupidi.”

Ouch. Ouch.

“Prova a ripeterlo.”

“Stu-pi-di.”

Il ragazzetto ci mise un po’ a decidersi, ma alla fine, spronato dalle grida di incitamento degli altri, si era scagliato su Kate con tutta la sua morbidosa mole preadolescenziale.

La ragazza scartò di lato, ma inciampò in qualche sasso sul terriccio smosso. Il cicciostupido si era girato, pronto a colpirla, ormai totalmente vulnerabile.

Fu in quel momento che Clint prese l’iniziativa.

Si frugò nelle tasche dei pantaloni e ne aveva cacciato fuori delle monetine da cinque centesimi.

Fu un attimo. Il colpo fu rapido, preciso, letale. Una monetina era finita dritta nell’occhio del ciccio, un'altra sul mento. La distrazione fu sufficiente per Kate: si rimise in piedi e sganciò un calcio proprio fra le gambe del malcapitato che pesto e confuso, era crollato a terra, tenendosi genitali, mento e occhio in un’alternanza piuttosto comica, fra le grida e la perplessità dei suoi compari rimasti.

“Ne vuoi ancora?” gridava Kate combattiva, i pugni alzati. Nonostante la spavalderia, Clint si rese conto che tremava tutta.

Il ciccio si rimise in piedi, tutto dolorante, ma Clint recuperò un’altra monetina e lo colpì dritto alla gola.

Questo prese a tossire.

“Ci sono i fantasmi!” gridò uno dei due rimasti illesi. Gracilino ed evidentemente più che impressionabile. Sul suo compare gemello si dipinse un’espressione così atterrita che non ci volle molto a entrambi per prendere la decisione di levare le tende.

“D-dove andate?” il cicciostupido. Altra monetina in fronte. Come incentivo. “Aspettatemi, aspettatemi!” si trascinò fuori dal vicolo, fino a rimettersi in piedi e scappare con i pantaloni mezzi calati dallo sforzo di trascinarsi a terra.

Kate li aveva guardati allontanarsi e infine, si era decisa ad abbassare i pugni.

Tremava ancora.

“Vieni fuori.” La sentì dire, quando sembrò essersi, in parte, calmata.

Clint non capì immediatamente, poi, si rese conto di essere stato scoperto. Di certo lei non aveva creduto a quella faccenda dei fantasmi.

“Non volevo intromettermi.” Le disse, uscendo dall’ombra come a scusarsi di aver ficcato il naso dove non avrebbe dovuto.

“Mi avrebbero stesa.” Puntualizzò lei, non una punta di rimprovero, nella sua voce.

“Probabilmente sì. Magari avevano anche ragione… ma gli scontri impari non mi sono mai piaciuti.”

Lei si passò una mano sul viso, a scostarsi il ciuffo scomposto.

“Con cosa li hai colpiti?” gli domandò, alzando uno sguardo curioso su di lui.

“Monete.”

“Da cinque centesimi?”

“A-ah…”

Lei sorrise.

“Le migliori per il gioco con le bottiglie.”

“Conosci il gioco delle bottiglie?”

“E’ con quello che ho iniziato a esercitarmi con la mira.”

Clint scosse la testa, colpito da quello scambio improbabile di battute e dalla somiglianza delle loro esperienze.

“Chi te lo ha insegnato?” le domandò lei di nuovo.

“Mio fratello. A te?”

“Mio padre.”

“E poi ti ha comprato un arco?”

“Mi ha comprato un intero poligono.”

Clint sgranò gli occhi, ma non fece in tempo ad indagare ulteriormente.

“Grazie. Per… avermi salvato da quei teppisti.”

Clint scrollò le spalle.

“Mi sa che ho salvato più loro che te.” La ragazzina parve apprezzare quel commento più del fatto che avesse impedito loro di prendersi la loro vendetta. “Dovresti esercitarti un po’ di più con il corpo a corpo.”

“Preferisco prendere le cose da una… certa distanza.” La capiva. Eccome se la capiva, “… ma magari potrei comunque esercitarmi.”

“Quello o imparare l’arte della diplomazia.” Quella parola gli faceva sempre tornare in mente Barney.

“Diplo… che?” ora lo stava prendendo in giro.

“Andiamo, ti scorto all’uscita. Sia mai che tornino all’attacco.” Le disse allora, sentendosi un padre un po’ opprimente. E pure tanto vecchio.

“Chi? Quelli? Quante storie per cinque stupidi dollari.”

Clint raccolse da terra il grosso peluche verde, deciso a scortarla davvero.

“C’è qualcuno che ti sta aspettando o… ?” le chiese, aspettandosi almeno di trovare il famoso padre che le aveva comprato addirittura un poligono, ad aspettarla fuori o qualche altro parente altrettanto favoloso.

“Il mio autista.”

“Il tuo… autista. Okay.”

“Sono ricca.” Precisò lei, senza preoccuparsi di quanto potesse sembrare presuntuoso. Clint però non ci lesse niente che avesse a che fare con la presunzione, nelle sue parole. Solo un dato di fatto. Una puntualizzazione.

“Okay…” si chiese a che le fosse servito farsi pagare l’ingresso da quei bulletti da quattro soldi.

Forse, pensò, c’entrava con il fatto che non c’era nessun padre miliardario ad accompagnarla a uno stupido circo, forse lontano, forse in viaggio di lavoro o semplicemente disinteressato.

Un modo come un altro per catturare l’attenzione. O dimostrare che avrebbe potuto benissimo cavarsela da sola.

 

Fuori dai cancelli del circo, ormai semideserto, Clint trovò Natasha ad attenderlo. Appoggiata al cofano della sua luccicante Corvette, braccia intrecciate sotto il seno.

La vide inarcare un sopracciglio, quando lo scorse. Sicuro perplessa dallo spettacolo dell’uomo in compagnia di una ragazzina e un orribile peluche verde.

“Ehi, scusa l’attesa. Sei qui da molto?” aveva esordito, posando a terra quel mostro di pezza.

“Un paio di minuti.” Dichiarò la donna, prima di abbassare lo sguardo sulla ragazzina che la stava osservando con tanto d’occhi.

Kate Bishop afferrò il peluche che - Clint realizzò, finalmente - tanto gli ricordava Hulk, lo mise sotto al naso della compagna e disse: “La Vedova Nera. Me lo fai un autografo?”

 

*

 

Clint fu contento di non dover prendere un taxi per il ritorno.

Ancora non era sicuro del perché, in tutti quegli anni, non si fosse mai preoccupato di comprarsi una macchina come si deve. Forse perché, per il tempo che passava a casa, a New York, le macchine gli erano sempre risultate troppo scomode.

Il bolide di Natasha sopperiva egregiamente alla mancanza, in quel determinato momento.

“Da quando te la fai con le ragazzine?” gli chiese, fra la fine di una canzone dei Red Hot Chili Peppers alla radio e l’inizio di un pezzo di Neil Young.

“Da quando ti conosco.” Le rispose, senza aver bisogno di starci troppo a pensare.

La sentì sorridere, nemmeno la necessità di voltarsi per capire che lo stava facendo.

“Bishop ha detto di chiamarsi... non sarà la figlia di quel miliardario che...”

“Probabile.” la prevenne Clint “E' ricca.”

“Che amicizie altolocate.”

Clint sorrise appena, prima di infossarsi un po' nel sedile della macchina, le mani ancora sprofondate nel giaccone.

“Natasha... che mi devi dire?” si era deciso a chiederle. Era da almeno un quarto d'ora che si attardava su quella domanda.

La donna si fece seria e abbassò il volume della radio.

“Sono riuscita a tracciare un percorso sul cellulare di Coulson.”

Clint si voltò a guardarla e tenne il suo sguardo inchiodato a lei, ora attento.

“Dopo il suo appartamento, più nulla. Poi...”

“Poi?”

“Washington e Los Angeles... per lo più.”

“Vuoi dire che qualcuno si sta portando dietro il cellulare di Coulson... per gli Stati Uniti?”

le domandò vagamente nauseato dall'idea. Era convinto che tutti i beni dell'uomo fossero stati consegnati alla famiglia. Che la SIM fosse stata disattivata. Però lo aveva chiamato. Quel dannato cellulare, con quella dannata SIM, aveva contattato proprio lui.

“Nessuno di cui possiamo essere a conoscenza. Ho contattato i suoi parenti. Il cellulare non si trova.”

“Allora forse lo hanno rubato. Non c'era nessuno che poteva... denunciarne il furto. O nessuno che potesse bloccarlo...” Clint stava disperatamente cercando di essere razionale. Perché quella storia aveva già rischiato di mandarlo seriamente in paranoia.

“L'ho pensato anche io...” Natasha sembrò lasciare la frase in sospeso, in attesa di aggiungere qualcosa di importante. Clint si scoprì a trattenere il fiato. “... finché non ho rintracciato l'ultima tappa di quel viaggio.”

Clint rimase in silenzio a guardarla.

“Waverly... nell'Iowa. Al 508 di Brown Lane”

Clint soffocò un'imprecazione. Era l'indirizzo della casa della sua infanzia. Della casa che aveva condiviso con Barney da bambini. Della casa di Harold e Edith Barton.

*

 

Arrivarono a casa che erano ormai mezzanotte. Clint non era riuscito a pensare a nient'altro che alla posizione di quel dannato cellulare. Natasha lo aveva lasciato in pace, a rimuginare in silenzio per tutto il tragitto, senza interromperlo, per permettergli di assimilare l'informazione e lasciargliela usare nel modo in cui avrebbe creduto più consono.

“Ho deciso.” disse, poco prima di un congedo. O di chiederle se aveva intenzione di salire da lui.

Natasha spense il motore e rimase a guardarlo, senza forzare la spiegazione.

“Vado in Iowa.” la donna non sembrò impressionata dalla decisione.

“Potranno fare a meno di te, per qualche giorno, a lavoro.”

Clint si volse a guardarla. Aveva appoggiato la sua decisione senza battere ciglio. Come se davvero quell'indizio potesse permettergli di trovare chissà cosa. Fosse anche solo un ladro. La chiamata di Coulson era una questione anche andava risolta, chiusa. Clint non avrebbe retto un'altra settimana passata a torturarsi con stupidi dubbi.

“Sei sicuro di non voler più coinvolgere Fury?” l'unica cosa che non riuscì a impedirsi di domandargli.

Clint scosse la testa: “Se dovessi venire a sapere che è coinvolto in questa faccenda e non ci ha detto nulla, potrei anche decidere di cavargli l'altro occhio.”

Natasha annuì, sicura che non si trattasse di una minaccia campata per aria.

“Preferisco che resti fra noi... di qualsiasi... cosa si tratti.” e poi rivolgendole uno sguardo vagamente titubante: “Vuoi venire con me?”

La donna sembrò esitare.

“No, hai ragione... a Fury prenderebbe un colpo a saperci lontani dallo SHIELD entrambi. Alla Hill forse di più.”

“Lo sai che ci verrei...”

“Lo so.”

Clint si slacciò la cintura di sicurezza, rimettendosi dritto sul sedile.

“Allora... dato che potrei clamorosamente mancare il Natale...” disse, frugandosi nella tasca interna del giaccone pesante. Natasha lo osservava piuttosto disorientata. Ne tirò fuori una scatolina oblunga, nemmeno incartata, di un colore verde brillante.

“Scusa, non sono riuscito nemmeno a metterci un fiocco. Faccio schifo... con queste cose.”

“Che cos'è?” Natasha guardava la scatolina così come si osserva qualcosa di ripugnante o spaventoso. Oppure entrambe.

“Un regalo.”

“Non dovevi farmi un regalo.”

Volevo farti un regalo.”

“I-io non ti ho preso niente...”

“Non importa.”

“Sì che importa. Non è così che funziona? Io ti faccio un regalo, tu mi fai un regalo. Io non faccio regali, non voglio che mi si facciano regali.”

“Natasha...” le aveva preso la mano e le aveva appoggiato sopra la scatolina. “Non lo riporto indietro. Perciò prendilo. E falla finita.”

La donna la tenne così, senza nemmeno osare stringerci sopra le dita, come se così facendo lo avrebbe davvero, definitivamente reclamato come suo.

“Giuro che non morde.”

“Lo so.”

“Lo apri?”

“Sì. No. Non lo so.”

Clint sorrise e scrollò le spalle.

“Fai quello che ti senti. Quando ti senti di farlo. Io... mi sa che ho bisogno di andare a dormire.”

Fece per aprire la portiera della macchina, prima di sentirsi trattenere per la manica della giacca.

“Lo apro.”

Clint si ritirò, rimettendosi comodo.

“D'accordo.”

Natasha ci mise almeno un altro minuto buono prima di farlo davvero. E quando l'aprì, la sua espressione, per quanto interdetta, fu impagabile.

“Sei un... megalomane.” fu il suo unico commento, prima di sporgersi a baciarlo mentre le sue dita si stringevano attorno a una catenina con un ciondolo a forma di freccia.

 

___

 

N.d.A: … aaaand back! Sopravvissuta a invasioni di parenti inglesi, matrimoni, sbronze e magoni vari, sono di nuovo in pista (più o meno).
Ho introdotto nella storia un personaggio a cui sono particolarmente affezionata ultimamente (colpa dei comics di Matt Fraction, in cui i due si troveranno a collaborare). Kate Bishop non è altri che la controparte femminile di Hawkeye, negli Young Avengers. Wikipedia vi potrà dare una visione piuttosto chiara di lei. Tutto il capitolo è solo il preludio del finale. La ricerca di Coulson sarà il perno attorno a cui la storia arriverà alla sua conclusione.

È stata una settimana un po' difficile dal punto di vista “Age of Ultron”, e quindi il capitolo in questione, collana a freccia annessa è tutto dedicato a Sere, perché ne ha bisogno e la sfido a suon di tributi Clintasha fino al 15 maggio 2015 (o prima, come mi faceva notare, perché in Italia abbiamo culo ogni tanto).

A tutti gli altri, ringraziamenti sentitissimi per i commenti e le manifestazioni d'apprezzamento più svariate, veramente, di cuore.

Cheddire... alla prossima. Ci rivediamo a Waverly!

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 [Harold & Edith] ***


CAPITOLO 22

 

[Harold & Edith]

 

“Ricorda che la cosa più triste nella vita è il talento sprecato. Puoi avere tutto il talento del mondo, ma se non fai la cosa giusta, non succede niente.”

(Bronx)

 

*

 

Waverly.

Iowa.

Il tempo era cupo. Prometteva un temporale che stentava ad arrivare. Costipato come un raffreddore.

L'autoradio mandava una vecchia canzone degli Who.

Sembrava che Barney avesse previsto tutto per il viaggio: una macchina di quelle fatte apposta per correre sulle autostrade. Una Mustang rossa e nera che appena Clint l'aveva vista si era illuminato tutto alla prospettiva di poterla guidare.

“Te lo scordi” gli era stato risposto. E aveva dovuto minacciare il fratello con una matita per avere almeno la concessione di qualche chilometro su quel bolide. E una colonna sonora degna di un vecchio viaggio on the road.

Avevano cantato come due ragazzini per tutto il tragitto, prima di arrivare al cartello che annunciava il benvenuto nella ridente cittadina di Waverly.

Lì le cose si erano fatte più silenziose: l'atto sacrale di rimettere piede, per la prima volta dopo il funerale dei loro genitori, nella città che aveva dato loro i natali.

“Non mi sembra come la ricordavo.”

“Sono passati quasi trent'anni, Clint, che ti aspettavi?”

“Non lo so.”

E Clint non lo sapeva davvero.

Sapeva solo di aver cominciato ad avvertire un principio di nausea non richiesto.

 

*

 

Il ventre gli procurava stilettate di dolore ogni volta che provava a respirare. Cosa non facile, dato che, da quanto gli avevano detto a scuola, l'ossigeno poteva arrivare al corpo solo grazie all'apparato respiratorio.

Se teneva schiacciato con le mani, però, il dolore sembrava diminuire... di poco.

E allora era da almeno dieci minuti buoni che se ne stava rannicchiato nel giardino di casa,  appostato dietro al capanno degli attrezzi, le braccia sul ventre. Sperando di riuscire almeno ad attutire il dolore.

Le grida di suo padre si erano estinte da un po', ormai.

Ma mai e poi mai sarebbe rientrato a casa. Non fino a quando non si sarebbero spente le luci del salotto, a confermargli finalmente che Harold se ne era andato a dormire. O che Edith lo aveva, letteralmente, trascinato a letto.

Era tornato a casa ubriaco. Non una sconcertante verità. Harold Barton era conosciuto per la sua – come la chiamavano in giro? – predilezione per le bevande di fuoco. Un eufemismo. Diciamo pure per le sue strabilianti doti di spugna da taverna.

Un ubriacone da strapazzo.

Un cazzo di alcolista dalla mano pesante.

Clint non era nemmeno sicuro di aver fatto qualcosa di male stavolta, a parte, forse, non avere nessunissima intenzione di finire le sue verdure.

Un pretesto per alzare la voce, per fargli scattare la mosca al naso. Edith non era nemmeno riuscita a mettersi in mezzo stavolta. Harold gli aveva mollato un manrovescio che lo aveva scaraventato dalla sedia. E quando aveva provato ad azzardare una protesta, priva di qualsivoglia diplomazia filiale, gli aveva assestato un calcio dritto nello stomaco. Per un ubriacone che a malapena riusciva a star dritto, una forza tutt'altro che trascurabile.

“Non vuoi mangiare quelle cazzo di verdure? E allora non ti serve un cazzo di stomaco!” era ricaduto sulla sedia. Aveva a malapena registrato la voce di Barney che protestava, che cercava di sedarlo. Edith aveva provato a rimetterlo in piedi ma Clint aveva declinato il patetico invito, scostandosi. Si era rimesso faticosamente in piedi e infine era sgattaiolato fuori dalla porta di casa, mente sapeva il diavolo che cosa Harold gli stesse gridando dietro.

Sperò ardentemente che non sarebbe mai stato abbastanza lucido per tornare all'attacco, quella sera.

 

*

 

Non fu facile orientarsi immediatamente in città. Erano passati così tanti anni. Le case tutte uguali, i giardinetti curati, tutti alla stessa maniera, persino gli stessi modelli d'auto.

Clint considerò di essere ormai troppo abituato a New York. Alla sua diversità, la sua unicità, rispetto a tutte le cittadine fuori dal distretto.

Constatò che no, quella città non era affatto come la ricordava. Pochi anche i vecchi negozi che rammentava: il vecchio ferramenta (proprietario il buon Jeremy che dispensava consigli, che gli aveva insegnato i primi rudimenti di meccanica) era stato sostituito da un negozio di tatuaggi. Il giornalaio (dove lui e Barney compravano fumetti da una vita) si era trasformato in un nuovo, scintillante Diner. Mentre il negozio di animali, quello all'angolo con il campo da basket, era diventato un negozio di abbigliamento.

Ma qualcosa era rimasto: la colorata pompa di benzina, anche se verniciata di fresco, ancora lì, ben visibile, con la sua vecchia, consunta insegna della Coca Cola. Quella stessa insegna che i ragazzini si divertivano a prendere di mira con i pallini per la fionda.

Ed era ancora lì la vecchia chiesa, dove, ben vestiti e pettinati con la riga di lato, i loro genitori li accompagnavano alle immancabili funzioni domenicali. Si trasformavano tutti, la domenica. Sia fisicamente, che moralmente. Persino suo padre, ripulito e sobrio sembrava quasi una brava persona, timorosa di Dio. O di padre Norris che per i sermoni infuocati che pronunciava, avrebbe fatto temere l’inferno al più diabolico dei suoi fedeli.

E lì, ancora, era la loro vecchia scuola. Mutata nell’aspetto, fresca di ristrutturazioni. Sulla facciata orientale, dove una volta non c’erano che rampicanti, ora murales dalle scritte incomprensibili e disegni fantasiosi e coloratissimi. Chissà se la signorina Carmichael, l’insegnante di inglese insegnava ancora lì. E chissà quanto era invecchiata. Clint la ricordava giovane, magra e gentile.

Non mutato il fiume. Quello dove spesso andavano a pescare, da bambini. Ricordava ancora gli ammonimenti della madre. Nessun bagno, ci era morto un bambino lì, anni prima. Assurdo come si preoccupasse di evitare che si facessero male quando poi non riusciva a muovere un dito contro il marito, quando alzava su di loro il pugno di ferro.

Clint osservava tutto questo, mentre Barney lo portava sempre più vicino a quella che era stata la loro vecchia casa. Clint riconobbe un’altra delle cose che non erano mutate: il muretto all’inizio della via.

 

*

 

“Devi... è tutta una questione di polso, sai?”

“Di polso.”

“Sì, Clint, guarda… come faccio io.”

Barney aveva fra le mani un sacco di monetine.

“Devi prendere queste. Da cinque centesimi. Le altre sono troppo leggere o troppo pesanti. I cinque centesimi sono perfetti. Hanno il peso, e la consistenza… giusta.”
Lo vide selezionare solo quelle e rimettere nelle tasche le altre. Clint non si chiese dove le avesse prese.

Su un muretto, di fronte a loro, stavano una serie di bottiglie di birra vuote. Non così difficili da trovare nella spazzatura. Harold aveva fatto giusto una cosa buona nella sua esistenza da ubriacone: procurargli materiale d’allenamento.

“La forza sta nel polso, il giusto… contraccolpo.” Calibrò la forza e dopo aver preso la mira, aveva sganciato la monetina che si era schiantata sulla bottiglia. Un centro pieno e questa era traballata fino a finire a terra, sparpagliandosi tutt’attorno, in frantumi di vetro.

“Fico.” Aveva commentato Clint, “fammi provare.”

Barney gli aveva passato una monetina.

“Ricorda la forza… nel polso.”

Clint prese la mira. E lanciò.

La bottiglia barcollò appena, ma non cadde.

“Troppo poca forza.”

“E' il mio primo tentativo.”

“Giusto. L'importante è che tu l'abbia centrata.”

Clint sorrise. La mira non gli era mai mancata.

“Riprova.”

Clint riprovò. La bottiglia barcollò, si mosse... e cadde.

“Evvai!”

“Fate silenzio, bastardi!” la voce al di là delle tende della finestra di casa.

 

*

 

Parcheggiarono la macchina proprio fuori dal vialetto. Le erbacce nel giardino antistante erano così alte che quasi non si vedeva il lastricato di pietra che conduceva all'ingresso.

Clint aggrottò la fronte, un vago brivido gli aveva percorso la schiena. La casa era diroccata, antica, scrostata sui muri di legno. Una finestra era rotta e polverosa.

“Credevo... che qualcuno l'avesse comprata.” si ritrovò a commentare, sporgendosi appena dal finestrino.

“Non l'ha comprata nessuno.” Barney.

“Lo sapevi?”

“Sì. Non l'ho mai venduta.”

Clint si volse a osservarlo, perplesso.

“Non sapevo nemmeno fosse... ancora nostra.”

Barney spense il motore della macchina e si strinse nelle spalle: “L'ho riscattata.”

“Perché?”

“Non lo so. Forse perché è la prima casa in cui abbiamo vissuto. Forse perché... non lo so Clint. Non hai mai fatto qualcosa di totalmente irrazionale?”

“Come no?”

“Allora lo capisci.”

Ma Clint no. Non lo capiva. Non avrebbe mai voluto essere proprietario di una cosa che in passato gli aveva procurato... tanto dolore.

“Questo significa che possiamo entrarci senza chiedere il permesso a nessuno, no?”

Barney annuì.

“Suppongo di sì. Sempre che non ci crolli addosso.”

“Sarebbe proprio l'ultima beffa.”

Clint aveva aperto la portiera ed era sceso dalla macchina. Il tintinnio del campanellino che proprio Edith aveva messo all'ingresso, anni prima, ora smosso dal vento fu di nuovo in grado di riportarlo indietro nel tempo.

 

*

 

“Non ci sono soldi. Non ci sono più soldi!”

Harold non aveva fatto altro che urlare per tutta la sera.

“Come cazzo è possibile che tu sia una così pessima amministratrice!”

“Ho usato quei soldi per le bollette. Un p-po' di spesa al market” aveva protestato Edith, appostata contro il bancone della cucina, la voce flebile, atterrita. Il marito aveva bevuto di nuovo.

“Ti avevo detto di usarli con parsimonia!”

“L-ho, fatto per l'amor di Dio, Harold, l'ho fatto!”

Clint e Barney si erano alzati dal letto e avevano sceso le scale, sbirciando quello scambio di battute attraverso lo spiraglio della porta della cucina. Impossibile rimanere a dormire, comunque.

“Non l'hai fatto! Quella camicetta che indossi! Non te l'ho mai vista! Da dove cazzo è saltata fuori, ah?”

“E' un regalo Harold! Un regalo della nostra vicina! Non le stava più, praticamente nuova, me l'ha regalata lei!”

“Certo e quelle diavolerie tintinnanti all'ingresso? Anche quelle un regalo? Stronzate! Sono stronzate Edith! Da quando hai cominciato a frequentare quelle tue amiche non fai altro che mentirmi, e ingannarmi! E inoltre sperperi tutti i soldi che IO faticosamente porto a casa! Sei un'ingrata. Un'ingrata puttana!”

“N-no Harold, ti prego, ti prego!”

L'uomo le si era pericolosamente avvicinato e non ci volle molto ai due ragazzini, per avvertire, nitido, il rumore di uno schiaffo. Violento. Assordante nella sua eco.

“Harold no! Per favore no!” la voce della madre che si spezzava in singhiozzi e il rumore di piatti che cadevano al suolo.

Clint non era riuscito a fermarsi ed era partito alla carica.

“Clint! No!” Barney si era precipitato a un disperato inseguimento giù per quelle scale, ma il fratello aveva già raggiunto il padre e caricato come un ariete, lo aveva colpito alla schiena facendolo barcollare.

Harold era un uomo così massiccio che sarebbe stato impossibile stenderlo davvero. Non per uno della stazza di Clint. Non per un ragazzino di dieci anni.

“Bastardo pezzo di...”

Clint si era sentito colpire al viso. E poi allo stomaco. E poi di nuovo al viso. Si era sentito prendere per la collottola, trascinare lungo tutta la cucina. Aveva scalciato, graffiato, strepitato. Aveva sentito la voce di Barney che gridava, implorava Harold di smetterla, senza alcun risultato.

Harold continuava a colpire, senza tregua. Finché il suo viso non fu che un ammasso di sangue, un groviglio formicolante. Il fischio alle orecchie fu tutto ciò che sentì prima che il mondo divenisse buio, per molto... moltissimo tempo.

 

*

 

La porta d'ingresso scricchiolò sui cardini. Vecchia, mai più riaperta. La puzza di muffa e chiuso aleggiava ovunque, colpendo in stilettate.

Barney si avvicinò alla finestra rotta e l'aprì, facendo entrare la luce.

La casa, placidamente invecchiata sotto strati di polvere e ragnatele era ancora lì. Immutata. Pochi i mobili rimasti.

“Che fine ha fatto tutto quanto?” domandò Clint, immaginando un assalto di topi d'appartamento.

“Ho dato tutto in beneficenza. Tutto quello che poteva... essere utile. Ho fatto male?”

“Hai fatto... benissimo.”

Camminò lungo il corridoio, allungando il collo per sbirciare attraverso il salotto, la porta della cucina. Le scale che portavano al piano di sopra, alle camere da letto.

Alle pareti ancora erano appesi dei quadri. Un paio erano caduti a terra, vinti dalla forza di gravità o da un chiodo troppo debole.

Si chinò per raccoglierne uno. Era una fotografia di famiglia. Una delle rare fotografie di famiglia. Non era sicuro di sapere perché Edith ci tenesse così tanto a mantenere quell'immagine fasulla. Non erano mai stati una famiglia felice. O almeno non lo erano stati dacché il padre aveva preso a cancellare a colpi di bottiglia e alito fetido tutto il buono che poteva esserci stato in passato.

“Eri già brutto da bambino.” Barney alle sue spalle si era sporto per guardare cosa avesse attirato l'attenzione del fratello. La voce però non sembrava particolarmente divertita.

“Ha parlato. Guarda che razza di ciuffo avevi.”

“Erano pur sempre i meravigliosi anni settanta!”

“Meravigliosi erano gli anni, non la tua pessima imitazione di un hippie”

Barney gli batté una mano sulla spalla e sbuffò una risata.

“Ora che siamo qui... cosa dobbiamo cercare?” fece pratico, forse per non dover cedere all'attacco di malinconia che rischiava di far precipitare Clint.

“Non lo so. Natasha... mi ha solo dato un indirizzo. E un aggeggio per rintracciare il GPS del telefono.”

“Perché non è venuta lei?”

“Perché Natasha ed io siamo i migliori e lo SHIELD non poteva permettersi una licenza per entrambi.” lo prese in giro.

“La dura vita dei servizi segreti. No, davvero, perché non è venuta anche lei?”

“Barney ho capito che ci tenevi a rivederla, ma la prossima volta, se proprio non puoi farne a meno ti invito a New York e la saluti.”

“Imbecille. Non volevo minacciare la tua relazione.”

“Quale relazione?”

Barney fece roteare gli occhi e gli strappò la fotografia di mano.

“Puoi anche raccontarmi qualcosa ogni tanto... senza che debba intuirlo, sai?”

“Non c'è niente da raccontare...”

“D'accordo.” fece con aria contrita, appendendo la foto, proprio lì dove sembrava essersi sganciata. Rimase dov'era, un po' sbilenca. Il paragone alla loro vita spezzata sembrava calzante.

Clint prese a salire le scale per il piano superiore.

 

*

 

“Clint. CLINT.”

Il ragazzino, seduto alla scrivania di camera sua, intento a risolvere una complicatissima operazione matematica si era voltato solo all'ennesimo richiamo.

Edith gli aveva sorriso un po' titubante. Dopo l'incidente del padre, delle botte, aveva gradualmente recuperato l'udito. Il timpano ne era rimasto compromesso a lungo: ora lentamente stava tornando a sentire. Tanto era stato il sollievo della madre che era scoppiata in un pianto isterico. Nessuno aveva potuto raccontare come erano andate veramente le cose.

“Ho pensato che potessi avere fame.” posò sulla scrivania un vassoio con un piatto colmo di pane e marmellata e un grosso bicchiere di succo d'arancia.

Clint aveva osservato quell'inaspettato gesto di carineria con sospetto. Sua madre si sentiva in colpa. Odiava... quando lo mostrava in modo così plateale.

“Grazie.” aveva risposto. A malapena riusciva a percepire il tono della propria voce.

Lei... non era nemmeno riuscita a dirgli che le dispiaceva.

Lo stupì quando non se ne andò immediatamente. In quelle settimane di completa sordità, aveva imparato ad affinare gli altri sensi. La percepiva, tangibile la presenza di qualcun altro in una stanza. Ed Edith era rimasta a guardarlo a lungo.

“Che cosa vuoi?” le aveva domandato. Non senza sentirsi in colpa, come sempre, per quell'accusa che le rivolgeva ogni volta che parlava con lei. Sua madre era solo una persona troppo debole, fragile. Clint lo avrebbe capito solo anni dopo. Molti anni dopo.

Non sentì tutto quello che aveva da dire, ma nel borbottio sommesso, intuì o sperò di capire solo un: “Un giorno ve ne andrete da qui... e farete la vostra strada, tu e Barney. Crescerete e ve ne andrete e avrete tutto ciò che non sono stata in grado di darvi.”

 

*

 

“Woah... questa si che è bella. Ci sono ancora appesi i poster di Star Trek.”

Clint sentì davvero quella botta di mestizia e malinconia. Malinconia di giorni andati, di serate passate a leggere fumetti coprendo la lampada dell'abat-jour, per impedire che i loro genitori si accorgessero che erano ancora svegli. A raccontarsi le avventure giornaliere. Di come avevano preso in giro George McFly, che erano sicuri avesse i brufoli anche sul sedere, del bullo della scuola che aveva menato dei ragazzini del primo anno, in biblioteca. Di quella rana morta accanto al fiume, della ragazzina bionda dell'ultima fila. Delle immagini sconce in quelle riviste che avevano rubato al fratello maggiore di Michael Madden.

Di tante cose, cose futili ma così tremendamente importanti per due ragazzini.

“Sono talmente vecchi che potrebbero valere ancora qualcosa, lo sai?” disse Barney, andando a constatare lo stato effettivo di uno dei poster.

“Perché, hai bisogno di soldi?”

“Non particolarmente, ho un account e-bay praticamente morto. Era una scusa come un'altra per riattivarlo.”

“Io dico che potremmo portarceli a casa. Ci starebbero da dio sul mio letto.”

“Allora io prendo quello di 2001 Odissea nello Spazio.”

“No, quello era mio.” se lo era comprato con il compenso che Jeremy il ferramenta dava loro per la raccolta di tappi e bottiglie di birra.
“Non puoi avere tutti e due!”

“Tiriamo a sorte!”

“E sorte sia.”

 

*

 

“Un dollaro.”

“Un dollaro intero?” Clint era saltato su come se avesse appena vinto la lotteria.

“Un dollaro intero.” Jeremy il ferramenta pagava sempre i suoi debiti. Il viso largo e simpatico, il naso storto, per i trascorsi da pugile. Era basso e tarchiato, ma massiccio. Clint e Barney passavano lì molti dei pomeriggi d'estate. Accano al ferramenta c'era un bar, e succedeva spesso che Jeremy offrisse loro una granita o una fresca limonata.

“Hai lavorato bene. Un sacco di bottiglie e tappi. Quel che è giusto è giusto.”

“Grazie! Mi ci compro un miliardesimo di fumetti con questi.”

“Un miliardesimo mi sembra adeguato.”

“Eccome no?”

“Lo stampano ancora... quel... Batman?”

“Eccome no? E' fichissimo. Ha un sacco di armi. E un sacco di soldi. Io un giorno avrò tutti quei soldi e tutte quelle armi”

“Armi... per fare cosa le armi?”

“Per sconfiggere i nemici.”

“Cosa ne sai tu, dei nemici?” gli aveva domandato Jeremy, che in realtà (Clint lo aveva capito solo anni dopo) intuiva perfettamente quali erano i suoi nemici. Quelli insospettabili, quelli rinchiusi dietro le quattro mura domestiche. Quelli che nessuno osa denunciare.

Clint aveva però solo scrollato le spalle e passato un dito sul naso nascosto da un grosso cerotto: l'ultimo regalo del padre, che, casualmente, era stato giustificato con una caduta dalla bicicletta.

“Dovresti cominciare col mettere su un po' di muscoli, prima di decidere di usare le armi. Io mi ricordo che Batman era pieno di muscoli.”

“Eccome no?”

“A tuo fratello ho insegnato un paio di mosse niente male.”

“Allora sei stato tu?”

“Certo... chi altri?”

“Barney mi aveva raccontato di aver imparato tutto da solo.”

Jeremy aveva sorriso.

“Nessuno impara niente... da solo.”

Quella era stata la sua prima, vera lezione di vita.

 

*

 

“A-ah! Duemilauno è mio.”

“Bella forza hai vinto una cosa che era già tua. Star Trek me lo porto a casa io.”

Barney aveva cominciato a levare i poster dalle pareti.

Clint si era affacciato alla finestra, a guardare fra le persiane tirate.

“E' evidente che qui non c'è niente da cercare.” mormorò, levandosi di dosso lo zainetto che portava con sé e mettendosi a sedere sul letto alzando una nuvola di polvere.

Tossì un paio di volte, prima di tirar fuori il tablet che Natasha gli aveva fornito. Armeggiò qualche istante, prima di cercare il programma specifico.

“Che fai?”

“Cerco di capire quale sarà la nostra prossima tappa.”

 

*

 

“Devi essere più rapido Clint. Uno, due, colpisci!” Barney, in posizione da pugile. Clint aveva dovuto raccontargli del suo scambio di battute con Jeremy. E pretendere che gli insegnasse qualcosa.

Clint provò con un paio di pugni, in rapida sequenza.

“No, non così. Così fai solo vento.”

“Perché colpisco, il vento!”

Barney aveva scosso la testa: “Allora prova a colpire me.”

“Te? No.”

“Sì. Me. E sì, fallo, non sono così fragile, sai? Uno, due, colpisci!” gli aveva fatto vedere di nuovo, in rapida sequenza, “dritto allo stomaco.”

Clint si era scompigliato i capelli, e si era rimesso in posizione, dubbioso.

“Uno, due... colpisci.” lo aveva spronato di nuovo, a mezza voce il fratello.

Uno.

Due.

Colpisci.

“Ouch!”

Clint si era sentito immediatamente in colpa.

“Porca m-miseria, che gancio.”

“Scusami!”

“No, no... scusami tu, per averti sottovalutato.”

Se non altro sembrava divertito.

 

*

 

“Allora che dice quell'aggeggio?”

Clint fece una smorfia.

“Forse non funziona.”

“Nessun segnale?”

“Uno.” la sua espressione così seria che Barney lo divenne per riflesso.

“E... dunque?” gli aveva chiesto.

“E dunque... è il cimitero.”

Barney produsse una smorfia che era tutto un programma.

“Questo tizio, chiunque sia, si sta divertendo in modo perverso, Clint.”

 

*

 

Il campanello suonò sulle note d'inizio del loro programma televisivo preferito.

Uno scampanellio e un paio di colpi alla porta, insistenti.

Per una volta che potevano guardare la tv, la sera, senza che ci fosse il completo monopolio del padre, venivano anche interrotti.

Harold e Edith non erano ancora tornati. Erano andati fuori città per delle commissioni.

Barney si era alzato titubante, andando alla porta. Clint aveva posato la scatola di biscotti e lo aveva seguito con lo sguardo, prima di decidersi ad andargli dietro.

Erano le otto di sera, e faceva caldo. L'estate ormai alle porte.

La scuola sarebbe finita in un paio di settimane. L'atmosfera era leggera. Distesa.

Sbirciarono fuori dalla finestra solo per trovare gli abbaglianti di una macchina della polizia.

Non uno spettacolo poco noto. Diverse volte i vicini avevano chiamato per denunciare i rumori molesti in casa loro.

Ma stavolta non era successo niente. Non c'era Harold ad alimentare grida e violenza.

E allora... perché erano lì?

Barney aprì la porta, trovandosi di fronte un poliziotto. Un uomo sulla cinquantina, i capelli grigi, l'aria gentile, ma stranamente greve.

“Possiamo fare qualcosa per lei?” aveva esordito Barney, che sapeva sempre come parlare agli adulti.

Clint, al suo fianco, continuava a fissarlo, come se si aspettasse di sentire quelle parole: “Ragazzi... devo... darvi una brutta notizia.”

Non capì il perché del suo tono così contrito. Dopotutto, nemmeno li conosceva.

“I vostri genitori... c'è stato un incidente.”

Barney era rimasto serio e stoico, come sempre. Clint rigido, al suo fianco, continuava a fissare il poliziotto.

Muoviti a parlare. Muoviti maledizione.

“Non c'è stato niente da fare... mi dispiace... ragazzi.”

Barney non reagì se non con un verso strozzato. Ma la prima premura l'ebbe per lui, per il fratello minore, per Clint.

“C-Clint.” gli aveva messo una mano sulla spalla, come se si aspettasse di vederlo crollare, cedere, piangere, strepitare.

Eppure Clint non aveva emesso un verso. Continuava a fissare il poliziotto, come se si aspettasse che gli dicesse che era tutto uno scherzo.

Non si era nemmeno voltato a guardare Barney. Continuava a tenere lo sguardo fisso su quell'uomo. Quell'estraneo che sembrava tanto dispiaciuto per loro.

Uno sguardo che, improvvisamente, divenne quasi ostile, di sfida.

“Bene.” aveva detto Clint. Dopodiché non parlò più per il resto della serata.

 

*

 

Nemmeno il cimitero sembrava più lo stesso. Forse perché non era... più lo stesso. Si era ingrandito. Come se in tutti quegli anni fosse stata costruita un'altra città, fatta di fantasmi del passato.

Le tombe tutte uguali, disposte in candide file.

Clint ricordò per un macabro attimo, i cimiteri militari. Fatti di lapidi e croci.

I cimiteri... non gli erano mai piaciuti.

Si trovarono a percorrere la strada che li aveva condotti lì quando non erano altro che due mocciosi spaventati dal futuro.

Da quegli assistenti sociali che, dopo aver sbrigato un sacco di pratiche inutili, non avevano trovato altra collocazione che un orfanotrofio fuori città.

Gli avevano però permesso di stare dai vicini, il tempo di ovviare le funzioni funebri dei genitori.

Quel giorno era stato frenetico. Clint e Barney non avevano versato una sola lacrima.

Quella notte, non avevano dormito.

Il futuro, la loro nuova vita, ricominciava esattamente da lì.

Buffo come ci fossero dovuti tornare, come un circolo che giungeva alla sua chiusura.

“Che dice il GPS?”

Clint sbuffò qualcosa, calcandosi il berretto sulla testa. Aveva ricominciato a far caldo. Erano solo gli inizi di marzo, che diamine.

“E' qui. Da qualche parte.” le mani avevano preso a sudargli, nemmeno lui sapeva perché.

Chiunque fosse stato a chiamarlo doveva essere lì, da qualche parte, proprio in uno dei luoghi che risvegliavano i suoi ricordi peggiori.

O migliori? Ricordi che gli avevano permesso una rinascita, dopotutto.

Si avviarono lungo il sentiero, come trascinati da una forza sconosciuta.

In pochi minuti erano giunti proprio lì, nel luogo in cui avevano seppellito i loro genitori.

Due lapidi.

All'ombra di una conifera.

Harold Barton.

Edith Barton.

Amati genitori.

Nessuno sembrava essersi preso grande cura di loro, in tutti quegli anni.

Clint si avvicinò per spazzare via delle foglie morte che coprivano la lapide.

Erbacce in ogni dove.

Si chinò per strappare anche quelle.

Barney non ebbe nemmeno bisogno di chiedere cosa stesse facendo o perché. Lo aveva avvicinato e aveva cominciato a fare esattamente la stessa cosa.

In silenzio, stavano riportando alla luce ricordi d'infanzia sepolti, in una sorta di inconsapevole pacificazione.

 

*

 

“Ci siete?” Barney e Clint in piedi nel portico, calzoncini e maglietta, stavano osservando il padre che caricava in macchina un sacco di attrezzatura da pesca.

“Dove andiamo, pà?”

“A pesca! Non avevate detto di voler provare con la pesca?”

“Ma... adesso?”

Clint non riusciva ad articolare una frase. Suo padre, così di buonumore, non lo aveva visto mai. Forse c'entrava qualcosa con il fatto che aveva ottenuto dei finanziamenti per un progetto presentato al comune, oppure al fatto che la sera prima avevano sentito risate e chiacchiere sommesse provenire dalla stanza che condivideva con la mamma. Oppure la visita di quel suo collega baffuto che non aveva fatto altro che sganciargli pacche sulle spalle.

O ancora, il fatto che fosse da almeno un mese buono, che non toccava alcool.

“Adesso! Se no quando?”

Edith uscì in quel momento con una cesta fra le mani.

“Il vostro pranzo.”

“Grazie bambolina...” le aveva persino schioccato un bacio sulla guancia. E sistemato anche il cesto nel bagagliaio.

“Allora vogliamo andare o rimanete li a fissarmi come due baccalà tutta la mattina?”

Clint dopo un lungo istante di smarrimento era stato il primo a muoversi. Valeva quasi la pena approfittarne. Per un glorioso pomeriggio erano sembrati una famiglia felice. Solo uno spiraglio di tutto ciò che avrebbero potuto avere.

 

*

 

Terminarono i lavori che era appena passato mezzogiorno. Caricato le erbacce e gettate in una cesta rubata lì accanto, abbandonata da chissà chi. Le lapidi avevano riconquistato una certa dignità.

Brillavano sotto il sole primaverile.

“Cosa credi che penserebbero di noi... se fossero ancora vivi?” domandò Barney a bruciapelo. Una di quelle domande a cui sarebbe stato difficile dare una risposta. C'erano troppe varianti da considerare. Se non fossero mai rimasti orfani? Se non fossero mai finiti in un circo? Magari sarebbero rimasti ingabbiati nella vita di una pigra cittadina dell'Iowa. O magari sarebbero fuggiti ugualmente, un giorno o l'altro e sarebbero diventati qualcun altro. Con un lavoro diverso... una vita... diversa.

“Credo che sarebbero gelosi dei nostri stipendi.” aveva scherzato Clint, con un mezzo sorriso.

Mentre rimaneva non detta, la consapevolezza che, forse, sarebbero solo stati felici di sapere che, dopotutto, non erano riusciti a farsi odiare fino alla fine.

Da adulto tendi a vedere le cose sotto un altro punto di vista.

In quel momento Clint considerava di aver avuto due genitori, entrambi schiacciati dal peso della loro stessa vita, della loro immensa fragilità, vittime dei loro stessi fallimenti, incapaci fino alla fine di rialzare la testa, di una qualsivoglia redenzione.

Clint pensava che lui e Barney avessero fatto solo un buon lavoro.

Era importante ricordare sempre cosa li aveva condotti fino a lì, e impedire di lasciarsi sopraffare da quello stesso, incalcolabile peso.

 

“Vado a buttare via questa robaccia.” aveva dichiarato Barney dopo qualche minuto, forse stufo di tutto quel silenzio, puntando verso uno dei capanni del custode.

Clint era lì lì per seguirlo, cercando di capire cosa fare, quando il telefono che teneva nella tasca dei pantaloni prese a squillare.

I suoi sensi entrarono all'erta, uno dopo l'altro. Aveva estratto il cellulare e notato sul display la risposta che attendeva.

Phil Coulson.

Ancora lui, tornato dal mondo dei morti. Ironico accadesse proprio in un cimitero.

Non attese ulteriormente... e, ignorando il rimescolio allo stomaco, rispose, quasi aspettandosi di non sentire niente altro che il tu-tu-tu, del cellulare.

“Dove sei?” la voce gli era uscita più rabbiosa di quanto immaginasse, quando si era reso conto che la linea era attiva... e vigile.

“Voltati.” dall'altra parte della cornetta una voce che non era affatto quella del collega e amico.

Clint fece esattamente ciò che gli veniva chiesto. E non represse un sussulto di sorpresa e frustrazione quando accanto a un albero frondoso, in tutto il suo oscuro splendore, stazionava il... direttore Fury?

“Non ci posso credere...” lo stomaco adesso era un groviglio di sconcerto e rabbia, “dannato figlio di...”

“Attento a come parli Barton.”

“E' uno scherzo?”, domandò Clint, riattaccando, dirigendosi come una furia nella sua direzione, “Mi dica che è uno scherzo!”

Fury aveva alzato le mani in segno di resa. Pronto a una spiegazione se solo Clint gliene avesse dato il tempo.

“E' stato lei? Per tutto questo tempo?”

Fury si limitò ad annuire, senza nemmeno tentare di nascondere la cosa. O di fargliela prendere meno negativamente.

“Perché?” una sola, diretta, rabbiosa domanda.

“Perché avevo bisogno di incontrarti e parlare con te in un luogo insospettabile, senza avere contatti diretti con nessuno dei dispositivi di cui lo SHIELD è a conoscenza.”

“E non poteva, che ne so... dirmelo a voce?”

“Non ero in città Barton, te ne sarai accorto anche tu. Inoltre questo era l'unico modo per convincerti a fare le tue ricerche. Sapevo che non avresti tardato.”

“Un modo subdolo e totalmente... da stronzo.”

“Barton.”

“Che c'è? Ho detto da stronzo, non ho detto che lei è uno stronzo, se si sente tirato in causa sono fatti suoi.”

Fury non sembrò prendere provvedimenti solo perché, forse, si era reso conto di aver calcato un po' troppo la mano. Gli porse il cellulare di Coulson, come a erigere una tregua. Clint glielò strappò quasi di mano.

“Barton, ci sono delle questioni di cui dobbiamo discutere.”

“Oh, certo, questioni. Ha messo in piedi un macabro teatrino per parlarmi di queste... questioni e allora sentiamole, le sue questioni!”

“Ho bisogno che tu faccia una cosa per me.”

Clint cercò di reprimere la risposta sarcastica e totalmente fuori luogo che gli stava sgorgando dalle labbra.

“Per lei o per lo SHIELD?”

“Per me, Barton.”

Clint perse tutta la voglia di scherzare. Dacché conosceva Nick Fury, non si era mai sentito chiedere un favore personale.

“Se questo... è un altro scherzo, io...”

“Non ho mai voluto scherzare. Ti sembro uno che ha voglia di scherzare?”

“Devo risponderle?”

“Direi di no.”

Clint sbuffò e infine, solo infine... annuì.

“Che cosa... vuole che faccia?” gli domandò.

Fury si frugò nella tasca della giacca, tirando fuori una chiavetta USB.

“Trovi tutto qui dentro. E... mi raccomando.” gli lanciò uno sguardo che sapeva di ammonimento, “Non una parola con tuo fratello. La CIA non deve essere coinvolta.”

Clint fece una smorfia, ma annuì. C'era davvero bisogno di specificarlo? Si era preso la briga di mettere in piedi un piano tanto complicato e macchinoso per poi domandargli davvero di non farne parola con nessuno?

Il tempo di sentire il richiamo di Barney e voltarsi per un solo istante, nascondendo il cellulare, che Fury era già scomparso.

“Tutto a posto, Clint?”

Si infilò la chiave nella tasca dei pantaloni e annuì.

“Faceva troppo caldo al sole.” gli disse, come a giustificare il suo spostamento.

“Che si fa ora?” Barney alluse all'uso del GPS per la questione del cellulare.

“Ho di nuovo perso il segnale...”, mentì, “ma sai che ti dico? Questa storia mi ha fatto venire una fame...”

“Credevo non lo avresti mai detto! Si prova il Diner all'angolo? Se fanno panini schifosi lo riscattiamo e ci riapriamo la fumetteria.”

Clint sorrise.

“Ci sto.”

Si fece prendere per le spalle da Barney e trascinare fuori dal cimitero.

Le questioni di Fury potevano attendere ancora un mezzo pomeriggio.

 

___

 

N.d.A: Tadaaaaan, sorpresa? *Si appresta a schivare carote, pomodori, lattughe e patate (che bel minestrone!)* Lossò che forse qualcuno si aspettava davvero Coulson, ma sarebbe stato troppo facile. Almeno… per me. Invece, dopo un capitolo un po’ triste che ripercorre tutta l’infanzia di Clint ci confrontiamo con qualcosa che lo spedirà direttamente nell’inferno che ben conosciamo o, quantomeno, che conosciamo dal punto di vista di Captain America e di Agents of S.H.I.E.L.D, ma non da quello di Clint Barton (perché ce lo hanno fatto sparire dalle scene e, anche se è stato assicurato che tornerà e tutto sarà spiegato – e che mi auguro sarà investito di gloria e gesta so badass che verremo ripagati della sua lunga assenza - , io nel frattempo mi sono fatta mille idee a riguardo. Una delle quali verrà raccontata nel prossimo capitolo.)

Detto questo ringrazio al solito tutti ma proprio tutti, da chi legge, a chi è arrivato fino a qui, a chi commenta, e al solito a Sere (dai, che siamo alla fine). Io adesso vado a prepararmi psicologicamente e a fare un ripassone che domani sera c’ho il concerto dei Pearl Jam in quel di San Siro e sono molto eccitata a riguardo. Perché è dal millenovecentoenovantotto (sì, son vecchia) che desidero vederli live e cazzarola non mi è mai riuscito. Ed ora, il momento è arrivato. Sono tutta proiettata verso Eddie. Fine momento non richiesto di cavoli miei.

Ci sentiamo la prossima settimana!

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 [Hydra] ***


CAPITOLO 23

 

[Hydra]

 

“… se hai sentito parlare di noi saprai che il nostro lavoro non è fare prigionieri. Il nostro lavoro è uccidere nazisti e, credimi, gli affari vanno a meraviglia!”

[Inglourious Basterds]

 

*

 

Faceva freddo per essere la fine di marzo. Una pioggerella sottile, fastidiosa scendeva impertinente, andando a conficcarsi nella pelle come uno scroscio di piccoli aghi.

Faceva freddo e il rumore delle sirene ancora risuonava, potente, molesto, nauseante nei timpani, nonostante ora non fosse che un’eco lontana, quasi intangibile. Così come lo era il rumore dell’esplosione, di tutti quei proiettili. Gli riecheggiavano nella testa. In una spirale di suoni che ricordava solamente, che non percepiva più davvero.

Faceva freddo… ma il vischioso calore di quel sangue gli ricordava che non poteva e non doveva fermarsi a quelle futili considerazioni. Le mani scivolavano sulla ferita, incapaci di una pressione energica. Come se quello stesso gesto gli stesse suggerendo di non proseguire con il tentativo. Di lasciar perdere.

Faceva freddo. E il respiro era affettato, morente. Era ancora in grado di riconoscere il sibilo di una vita decisa a fuggire, per sempre.

Faceva… freddo.

Era appena iniziata la primavera.

E il suo intero universo si era appena disintegrato.

 

*

 

Il rumore delle pale dell’elicottero era assordante, spostava nuvole di polvere in mulinelli, mentre le fronde degli alberi tutt’intorno frustavano l’aria notturna come comici esseri allarmati, o cantanti rock particolarmente ispirati da un assolo.

“Ne stanno arrivando altri!”

Il commento dell’uomo che imbracciava il fucile, accanto all’ingresso, fu gridato così forte da risultare stridulo nell’esecuzione. Un po’ come quello di un ragazzino che sta uscendo dalla pubertà.

 

Clint aspettava che il suo elicottero atterrasse.

Era stato raccolto quella stessa mattina. Nemmeno lontanamente consapevole di dove lo avrebbero portato. A fargli compagnia, un numero di individui che non conosceva, che non aveva mai visto.

 

“Nuovo?”

“L’incarico è nuovo.”

“Certo, quello dicevo. Piacere: Adam Donovan.”

“Carson White, di Philadelphia.”

 

Fury gli aveva procurato un alias. Un ingaggio. Documenti che lo avevano spedito per direttissima in un paese dell’Europa dell’est.

Non avrebbe potuto fare affidamento su nessun appoggio dell’organizzazione, nessun piano d’estrazione, nessun contatto, se non quello d’emergenza (il nome di un tizio che non aveva nemmeno mai sentito nominare in tanti, onorati anni di servizio). Nessuno sapeva dove era andato o perché. Gli avevano fornito un alibi con un'operazione che aveva richiesto la sua presenza in Africa.

Difficile tener taciuto, per giorni, a chiunque, la sua preparazione all’incognita missione.

Un'operazione ricca di dettagli tutt’altro che rassicuranti. Era la prima volta, dacché lavorava per lo SHIELD che si trovava a dover indagare sulla sua organizzazione, per di più ingaggiato direttamente da uno dei padri fondatori della stessa.

Target: ritrovare oggetti allontanati più o meno lecitamente dai laboratori dello SHIELD.

Uno su tutti, lo scettro che Loki aveva brandito durante la battaglia di New York. Quello stesso scettro con cui gli aveva fritto il cervello, con cui lo aveva costretto ad azioni immonde. Lo stesso scettro che aveva trafitto e ucciso Phil Coulson.

Indicativo come Fury avesse voluto proprio lui, per quel tipo di missione. Per vederlo particolarmente motivato, forse?

Da quando lo scettro era stato sottratto dal subdolo dio dell’inganno - prima che venisse rispedito con un foglio di via per Asgard, scortato dal mastodontico fratello - era stato sottoposto a diversi accertamenti e, poi, collocato nel laboratorio sicuro dove stazionavano tutte le armi particolarmente insolite, aliene, terrestri o universalmente incomprensibili che lo SHIELD aveva accumulato negli anni.

Fury aveva registrato azioni burocratiche poco chiare, accertamenti del tutto inspiegabili (che non aveva autorizzato personalmente, ma alle quali non aveva dato un freno nella speranza di organizzare proprio l’azione in cui era stato coinvolto)… ed ora, mentre l’elicottero su cui aveva viaggiato, atterrava in uno sfarfallio di pale, Clint si trovò a considerare di avere a che fare con qualcosa che sembrava essere completamente sfuggito al controllo ufficiale dello SHIELD.

 

Un numero imprecisato di uomini attendeva la nuova squadra all’ingresso di quella che sembrava una vecchia roccaforte.

Clint ne aveva studiato i dintorni che ancora era in volo: un formicaio di persone, responsabili della sicurezza di qualcosa che era stato chiamato a scoprire.

Si passò una mano fra i capelli – ora tinti di un cupo colore castano scuro – prima di calarsi sulla testa il berretto in dotazione con la divisa. La barba posticcia prudeva sul viso (non era stato in grado di farsene crescere una decente, in quelle poche settimane di preavviso, aveva dovuto improvvisare). Una grossa cicatrice gli attraversava la guancia. Le dotazioni elettroniche di modifica dei tratti del viso avevano fatto il resto. Nessun cambiamento radicale. Il ritocco di alcune sue caratteristiche (“Quel naso va cambiato” “Che hai contro il mio naso?”) a discrezione delle tecnico del laboratorio, investito direttamente da Fury, erano stati sufficienti a ricoprirlo di una nuova, cupa identità.

 

“Ci siamo.” Di nuovo quell’Adam. Tentava di fare il simpatico con scarso successo. Forse era troppo giovane per rendersi conto dei patetici tentativi andati a vuoto: il fatto che lo fosse, in questo caso specifico, lo metteva in condizione di esaltarsi per ogni tipo di situazione, persino la più ordinaria. Come… scendere da un elicottero.

Ragazzini…

“Squadra Alfa!” esordì gridando l’energumeno con divisa d’ordinanza dall’aria scimmiesca che li aveva accolti. Aveva un mento prominente e due grandi orecchie a sventola, in mezzo alla testa un ciuffo rado di capelli che sventagliava comicamente a destra e a sinistra. Clint non lo aveva mai visto, e non lo riconobbe nemmeno facendo scansione virtuale nel database della sua mente. Sperò ardentemente che spegnessero il motore di quel maledetto elicottero. Il rumore gli impediva persino di pensare.

“Agente Donovan, Agente Young, Agente White, Agente Gomez, Agente Mitchell, con me.”

Clint dovette constatare, con suo sommo rammarico, di esser stato messo in squadra con il ragazzino eccitabile. Che non aveva mancato di accogliere la notizia, regalandogli una sonora pacca sulla spalla.
“Ci sarà da divertirsi!” gridò al di sopra del rumore assordante dei motori, prima di superarlo, al seguito del supervisore scimmiesco.

Clint pensò che tutto avrebbe potuto aspettarsi da quell’esordio, fuorché divertimento.

 

I compiti che gli avevano affidato erano d’ordinaria amministrazione: ronde, controlli dei magazzini, delle liste di tutti quei carichi di “merci” in costante entrata e uscita dalla roccaforte.

I giorni si consumavano lentamente, tanto quanto le suole degli stivali che indossava, a furia di camminarci dentro.

Non venivano fatte domande, gli agenti ricevevano gli ordini e li eseguivano.

Clint si era semplicemente adattato, cercando però di stare sempre attento alle novità e agli scambi di battute che avvenivano fra supervisori e agenti di livello superiore al suo.

Si trovò a considerare che gli sarebbe stato più semplice avere accesso alle informazioni se avesse potuto esibire, con un certo orgoglio, il suo magnifico badge di riconoscimento:

 

“È tutto sotto controllo, sono l’Agente Clint Barton.”

“Oh, agente Barton perché non ce lo ha detto subito? L’avremmo fatta accedere al livello super segreto del seminterrato.”

 

“È tutto sotto controllo, sono l’Agente Barton.”

“Mani in alto, a terra! Muori, lurido bastardo dell’Iowa!”

 

“È tutto sotto controllo, sono l’Agente Barton.”

“Chi?”

 

Ecco, gli scenari non erano nemmeno la metà di quelli che si era immaginato, ma rendeva chiaro il quadro di ciò che sarebbe potuto succedere.

Niente doveva essere lasciato al caso.

Clint Barton era un personaggio troppo in vista allo SHIELD per essere preso sottogamba. Se i responsabili di quelle iniziative nascondevano qualcosa, avrebbero fatto di tutto pur di impedirgli di portare a termine il suo compito.

Per quello ora si faceva chiamare Carson… White. Un nome, un’identità e un carattere su cui aveva dovuto lavorare in solitaria nei giorni che avevano preceduto la sua partenza.

Non poteva permettersi nessun passo falso.

Nemmeno il minimo dettaglio doveva essere trascurato. Nemmeno quella barba posticcia che continuava a prudere. Se fosse rimasto ancora qualche settimana, avrebbe anche potuto farne a meno, forse.

Dormiva poco, si svegliava sempre prima di tutti, andava a letto più tardi di tutti.

Mangiava solo, tanto che, nel giro di un paio di settimane, si era guadagnato il titolo di asociale e taciturno. Non dava fastidio a nessuno e nessuno sembrava voler dare fastidio a lui…

Non fosse stata per l’insistenza fastidiosa dell’agente Donovan. Sì, Adam, il ragazzino che non era sicuro del perché lo avesse preso tanto in simpatia.

 

“Mi siedo qui con te, mh?”

“Se proprio devi.”

“Sei qui solo. C’è spazio.”

“Sì, però taci.”

“Mh mh… mh. Mh.”

 

Lo tollerava solo perché inizialmente non si fidava di lui. Un modo come un altro per tenerlo sotto controllo. Non poteva fidarsi di nessuno. Forse gli avevano messo alle calcagna quel tipo per tenerlo costantemente monitorato.

Il fatto che fosse un’assoluta pigna in culo, probabilmente, era apposta per depistarlo?

Dopo due settimane di frequentazione, Clint si era reso conto che no, Adam non nascondeva proprio un cavolo di niente. Era solo un ragazzino che parlava troppo. E che lo aveva davvero preso troppo in simpatia. Quando gli aveva confessato che gli ricordava il padre, aveva anche capito perché. Oltre ad essersi sentito improvvisamente, molto, molto, molto vecchio, era riemersa l’improvvisa e rinnovata consapevolezza di non avere la benché minima intenzione di avere figli, a maggior ragione con il timore che sarebbero potuti crescere in quel modo.

 

Infine c’erano i rapporti giornalieri da redigere, che venivano trasmessi tramite una aggeggio impiantato direttamente sotto la cute del suo braccio destro.

Fury non aveva più dato segni di vita. Clint proseguì ugualmente con il piano.

Continuando ad aggirarsi per i corridoi della sua nuova base operativa, mantenendo un profilo così basso che presto avrebbe finito per sparire.

 

Le cose cambiarono radicalmente quando sembrò arrivare in sede un ospite sconosciuto.

Un pezzo grosso.

A Clint, al solito, non era stato detto niente. Niente di più di quello che doveva sapere, comunque.

Aveva scortato un nuovo cargo di camion ai magazzini e aveva solo intuito da uno stralcio di conversazione che si trattava di qualcuno potenzialmente connesso con il carico di armi in arrivo da tutto il mondo.

L’impressione che Clint ebbe, fu che stessero mettendo in piedi un esercito. Nemmeno più la volontà di tenerlo segreto, almeno non nel cuore della sede.

Correvano voci sulla sperimentazione di una nuova arma. Di nuove… armi.

Doveva capirci qualcosa di più e l'unico modo per avere accesso ai livelli più alti di quelle misteriose operazioni era farsi notare.

Cambiarono, improvvisamente, le priorità.

Come farlo, senza dare dei colpi di testa che avrebbero insospettivo chiunque, dato il carattere solitario ed estremamente morigerato del caro, vecchio Carson White?

 

Trovò l’ispirazione un sabato mattina. Quando Adam Donovan era rientrato dal suo turno di ronda e sembrava del tutto intenzionato a metterlo al corrente di un paio di pettegolezzi di corridoio.

Niente di così eccezionale, ma a Clint fu sufficiente per creare una situazione scomoda.

“Tu parli troppo, ragazzino.” Lo aveva ammonito, preoccupandosi di farsi sentire da chiunque fosse abbastanza vicino da cogliere stralci di conversazione.

“Mamma mia come sei fiscale, signor White.” Ed era scoppiato a ridere.

L’ora successiva il povero Donovan si era trovato in balia di un gruppo di agenti che lo trascinava via scalciando, per aver divulgato informazioni riservate.

La segnalazione dello sgarro ad opera dell’agente operativo Carson White.

 

“Credo che l’agente Donovan nutra dei dubbi sul lavoro che sta svolgendo qui.”

“Cosa glielo ha suggerito, agente White?”

“E’ stato lui stesso a suggerirlo. Teme che le operazioni svolte in sede siano poco chiare. Teme che sia il caso di avvisare la direzione centrale dello SHIELD.”

“Teme… o crede?”

“Penso sia piuttosto convinto della cosa, Signore.”

 

Clint sperò di soffocare rapidamente il senso di colpa.

Lo avrebbero messo in riga con un ammonimento. O lo avrebbero rimpatriato seduta stante. Tentò di mettersi a posto la coscienza, senza però riuscire a scacciare del tutto la sensazione che forse, non sarebbe successo proprio niente di tutto ciò che aveva preventivato. Se aveva mandato Adam Donovan in pasto agli squali, non avrebbe mai voluto saperlo.

 

Il giorno in cui fu richiamato dalla direzione, non se ne stupì poi molto. Sperò solo che non fosse per rimproverargli quell’atto di deliberato spionaggio.

L’agente speciale Stanton (lo scimmiesco) lo aveva accolto con aria severa. All’altro capo della stanza, un gruppo di altri cinque uomini, in piedi, uno accanto all’altro come comici burattini privi di volontà.

Li riconosceva tutti. Nomi e cognomi. Li aveva studiati e riportato le informazioni, assieme a tutti i rapporti giornalieri, al suo silenzioso interlocutore dello SHIELD.

Non fece mezzo cenno. Si trascinò accanto a loro, così come gli era stato comandato di fare.

“E’ sicuro, agente Stanton, dell’affidabilità di questi uomini?”

Clint non riconobbe l’uomo che aveva parlato. Alto, sulla quarantina avanzata. Capelli e occhi chiari. Aveva un accento inglese, di formazione europea… di dove fosse però non seppe dirlo con certezza. Doveva aver studiato molto per cancellare qualsiasi traccia dei suoi trascorsi linguistici.

L’agente Stanton, della sicurezza, aveva annuito.

“Signore, ho avuto modo di valutarne io stesso l’affidabilità… e la loro… dedizione alla causa.”

Clint si chiese quanta affidabilità valutativa potesse avere Stanton che nemmeno si era accorto dei suoi spostamenti sospetti. Oppure Clint era semplicemente troppo in gamba. Un picco per la sua autostima. E poi, di quale razza di causa stava parlando? Era un codice per determinare le operazioni in corso? Qualcosa di cui non si parlava ad alta voce, ma che era corsa sottile e strisciante nel sottosuolo come una miserabile larva? Qualcosa in cui le persone coinvolte non si riconoscevano che per cenni e dettagli apparentemente insignificanti. Qualcosa di subdolo e pericoloso.

“Bene.” Aveva detto l’uomo dall’accento indefinibile. “Li istruisca su ciò che dovranno fare da oggi in poi. E poi voglio un aggiornamento per il trasferimento dei gemelli.”

Se Clint mostrò perplessità a quell’uscita, fu solo un attimo. L’istante successivo alla dichiarazione aveva riassunto il cipiglio severo e imperscrutabile dell’agente White.

Aveva però registrato indelebilmente l’informazione nella sua mente.

I gemelli.

“Signori…” esordì il capo sezione Stanton, mentre l’uomo senza accento usciva dalla porta d’ingresso, “è il caso di cominciare a pianificare il vostro trasloco.”

 

*

 

Un giorno, improvvisamente, la situazione mutò, fino a degenerare in un delirio allucinato.

 

Le settimane si erano susseguite in un frenetico viavai.

Erano stati trasferiti direttamente ai laboratori. Il compito era sempre quello di mantenere alto il livello di sicurezza e segretezza delle misteriose operazioni.

La cosa positiva, in quel cambio di scenario, fu l’aver trovato ed identificato lo scettro di Loki.

Se lo era trovato lì, un giorno, senza preavviso. In posa come una diva, pronta a farsi ammirare, fotografare. Gli ricordava il suo ultimo proprietario. Il trasferimento era avvenuto alla luce del sole, come se ormai non fosse che questione di giorni, prima dell'esplosione di una bomba. La stessa bomba che Clint aveva sentito ticchettare sempre più distintamente in quelle ultime ore.

C’era qualcosa che bolliva in pentola. Qualcosa che - ne aveva subodorato la tragedia - avrebbe sconvolto lo SHIELD. Dalle fondamenta.

A nulla erano valsi i tentativi di Clint di avere una comunicazione diretta con il direttore Fury. Tutte le reti di comunicazione sembravano ormai isolate, quasi irraggiungibili. Non era più nemmeno sicuro che i suoi rapporti giornalieri venissero ricevuti senza intoppi.

Forse era arrivato il momento di abbandonare l’operazione, prima che gli fosse risultato completamente impossibile.

 

Degenerò tutto per via di un comunicato.

Che era serpeggiato di bocca in bocca, dapprima mormorato, poi detto ad alta voce, infine urlato con forza all’inno inspiegabile, tonante, annichilente di: Hydra. Hydra.

Il caos fu totale.

Gli agenti che, come lui, apparivano ignari delle operazioni in corso era rimasto allibiti, confusi, storditi dall'esplosione ingiustificata di giubilo.

Clint si vide costretto a lasciare la sua postazione in tutta fretta, quando si rese conto che l’organizzazione stava giustiziando, uno dopo l’altro, come mosche, tutti i colleghi che si dimostravano estranei alla faccenda. Che non facevano evidentemente parte di quel piano misterioso.

Si ritrovò a schivare una pallottola senza avere la minima avvisaglia di essere stato preso di mira.

Una donna dall’aria impertinente gli stava puntando contro la pistola.

“Hail… Hydra.” La sentì pronunciare, prima che tentasse un altro colpo, prendendolo di striscio ad una guancia. Stavolta, la cicatrice, gli sarebbe rimasta davvero.

“Pessima mira, agente.” Clint aveva fatto fuoco, gambizzandola. Non era sicuro fosse la soluzione migliore, quella di lasciarla in vita, ma la situazione non prevedeva comunque una cancellazione coatta del codice etico che si era sempre imposto, con medio-alto successo.

La disarmò con un calcio, prima di raccoglierla da terra per il colletto della giacca e usarla, praticamente, come scudo.

“Che cosa sta succedendo me lo spieghi?” le domandò freneticamente, trascinandola dietro una colonna, sperando di avere almeno il tempo di crearsi una via di fuga.

“Hail Hydra! Hail Hydra! Hail Hydra!”

“Che cazzo, ti si è incantato il disco?!” gridò, sentendola dimenarsi come un’anguilla, prima di sentire il dolore provocato dai suoi denti aguzzi ai danni della sua povera mano.

“La destra no!” le aveva rifilato un colpo con il calcio della pistola, dritto alla nuca, stendendola.

Lasciò che cadesse a terra, in un gorgoglio di saliva.

Forse sarebbe stato meglio fuggire.

 

L’Hydra.

 

L’Hydra la conosceva bene. Aveva imparato a conoscerla da quando era entrato allo SHIELD.

Una realtà lontana, mai dimenticata, ma buona per i manuali di storia.

Possibile si fosse insinuata così subdolamente, lentamente, con pazienza negli ingranaggi dello SHIELD per tutti quegli anni, direttamente dalla seconda guerra mondiale, fino ad esplodere… così all’improvviso?

Qualcosa doveva aver scatenato le operazioni. Ma avrebbe avuto modo e tempo di scoprirlo, sempre che fosse riuscito a uscire da quella trappola mortale.

Si incuneò in uno dei corridoi che conducevano ai piani inferiori.

Le sirene avevano preso a risuonare per l’intero edificio. Come a dichiarare a gran voce l’inizio di una guerra.

Di un’ennesima guerra.

Superò un paio di cadaveri, che suo malgrado riconobbe (Young e Mitchell) e fu di nuovo immesso nella galleria principale.

Scalpiccii di stivali in corsa ovunque. Rumori e rimbombi di spari… ovunque. In un vortice di polvere da sparo e morte.

Fury aveva avuto ragione riguardo tutto quanto: si era giusto un tantino scatenato qualcosa di anomalo (eufemismo!). Fury non aveva avuto però la lungimiranza di mandargli uno stracazzo di rinforzo.

Avrebbe potuto prevenire quel macello se fossero stati almeno una squadra? Clint ne dubitava, adesso. Ne dubitava fortemente. Mai, come in quell’occasione si era sentito completamente, assolutamente, miserabilmente impotente. Qualcosa di incomprensibile e più grande di lui, di qualsiasi stracazzo di eroe solitario dello SHIELD, si era appena mostrato al mondo.

Che in quella situazione specifica aveva lui come rappresentante straordinario. Lui e tutti gli agenti che stavano diventando carne da macello nelle mani dell'Hydra.

 

Aprì uno dei portelloni d’uscita che davano sulle scale esterne.

Un coro di HAIL HYDRA riecheggiò ruggente dal gruppo di uomini assiepati sulle scale.

Clint sgranò gli occhi e richiuse la porta, convinto di essere appena rimasto vittima di un sogno. O una visione allucinata dovuta… alla mancanza di sonno.

La riaprì di nuovo, a spiraglio, e le voci erano ancora lì. Sempre a inneggiare all'Hydra, come un  branco di fanatici di una qualche setta di dubbia provenienza.

Decise di cambiare direzione.

Un’altra porta, un altro buco nell’acqua. O salto nelle braccia dell’ennesimo sogno allucinato dalla fragranza Hydra.

Un altro gruppo di persone, tutte in circolo, a darsi pacche sulle spalle e gridacchiare quello stesso mantra.

C’era qualcosa di diabolicamente perverso in ciò a cui stava assistendo.

Avrebbe insultato Fury a più riprese e senza censure… sempre se mai fosse riuscito a uscire da lì.

L’ultima cosa che Clint desiderava, era venir immolato a vittima sacrificale di un’organizzazione che si prendeva tanto a cuore di ripetere una sola parola. Nemmeno fosse stata una formula magica in grado di produrre il caos.

Tentò con la porta di fondo.

Un uomo solo, stavolta, gli si parò di fronte.

Quello stesso uomo, divisa d'ordinanza e sguardo crudele, lo osservò per un istante di troppo, prima di decretare che avrebbe potuto essere un collega… di avventure naziste.

“Hail Hydra!” disse con tanto di gesto brusco e uno schiocco di stivali.

“Fanculo, dallo SHIELD!” Clint gli aveva assestato un pugno dritto sul naso, stendendolo.

Scosse la mano nell’aria, come a liberarsi del dolore alle nocche e lo scavalcò senza farsi troppi problemi.

Era appena riuscito a superare il primo blocco.

 

Quello che accadde dopo fu solo un susseguirsi di corridoi, corse a perdifiato e proiettili volanti.

Il tutto condito dal costante, snervante rumore delle sirene d’emergenza.

Deviò proiettili e scariche di mitra, cadaveri e chiazze di sangue.
Si trovò ad assistere con orrore - mitigato dall'istinto di sopravvivenza – al tentativo di liquidazione totale di tutto il personale che era stato arruolato dallo SHIELD, completamente all'oscuro di chi fossero le persone a cui stavano prestando i loro servizi.

Si era visto costretto ad accantonare il codice etico per ben più di un paio di eccezioni. Catapultato in una sequenza di orrore e esaltazione dalle influenze reazionarie.

Se non altro, Clint aveva la consapevolezza di aver agito secondo gli ordini di Fury, e a meno che quello non fosse un piano del tutto intricato per ucciderlo bè, c’era una congrua percentuale di dubbio che gli suggeriva il contrario. Che Fury fosse solo una delle tante vittime degli eventi.

Chissà come se la stavano passando negli Stati Uniti.

Sperò meglio di come stava messo lui.

Grida lontane gli suggerirono di sbrigarsi, di cercare l’ennesima via d’uscita.

Arrivò di fronte a quello che sembrava il portone d’ingresso alle mense, alla cucina. Da quella parte, su una porticina di lato, c’era la via di fuga sul cortile esterno e poi… e poi avrebbe dovuto improvvisare. Per arrivare almeno alla rete di recinzione, ai cancelli che lo avrebbero condotto alla libertà.

Le cucine erano completamente vuote. Ad eccezione di un gruppetto di morti, stesi sui banconi e a terra, fra i quali riconobbe il volto grottescamente deformato dell’inserviente delle colazioni.

La cosa, sebbene sospetta, non ebbe il potere di fermarlo.

Avrebbe dovuto muoversi, raggiungere almeno l’esterno e poi…

 

… niente lo aveva preparato a ciò che vide.

Una decina di agenti dello SHIELD, erano raggruppati in fila, accanto ad uno dei muri di cinta, appena dietro a un altro ammasso di corpi stesi a terra, senza vita.

A tenerli sotto tiro un gruppo di tre o quattro tiratori scelti che gli stavano puntando addosso armi a ripetizione con degli intenti che gli furono infelicemente, improvvisamente chiari.

Fra le imminenti vittime, riconobbe la magra, gobba postura dell’agente Donovan. Era convinto lo avessero congedato ma, come aveva intuito, non era affatto andata così.

Probabilmente era stato tenuto prigioniero per tutte quelle settimane.

Se il senso di colpa risorse come la fenice dalle profondità del suo stomaco, si accentuò quando vide il ragazzo puntare uno sguardo nella sua direzione.

Non fu certo che lo ebbe riconosciuto ma in quel confusionario stato di cose, riuscì comunque a leggerci una sorta di muta accusa, di consapevolezza, in quell’ultimo, terrorizzato sguardo.

Un urlo d’orrore gli rimase imprigionato in gola quando fecero fuoco.

Gli agenti cominciarono a crollare, uno dopo l’altro, accasciandosi come bambole morte, fra e sopra i corpi dei compagni che, prima di loro, avevano subito lo stesso trattamento.

Clint avrebbe voluto urlare, dichiarare guerra a quella raccapricciante realtà, ma tutto ciò che riuscì a fare fu rinchiudersi di nuovo nelle cucine, cercando di contenere il rigurgito di nausea che gli era appena risalito dalla gola.

Si passò una mano sul viso, cercando di recuperare lucidità.

Aveva bisogno di un piano e ne aveva bisogno immediatamente.

Si guardò attorno, in cerca di un’ispirazione. Cercò di deviare lo spettacolo delle scie di sangue tutt’intorno finché non individuò la bombola del gas delle cucine.

Un diversivo.

Un diversivo che avrebbe potuto divenire piuttosto pericoloso e determinante.

Fra il morire per mano dell’Hydra o a causa di un incidente kamikaze, avrebbe preferito di gran lunga la seconda soluzione.

Sperò di non dover sperimentare né l’una né l’altra, comunque.

Trascinò una bombola a gas accanto all’altra già agganciata alle cucine.

Caricò l’arma e blindò la porta che riconduceva all’interno.

Aprì il gas e uscì di nuovo dalla stessa porticina attraverso cui aveva avuto accesso all’orrore.

Attese il momento buono prima di spalancarla. Il gruppo di agenti o militari (o sa il diavolo di come amassero farsi chiamare) erano ancora in piedi a finire gli agenti in fin di vita che non erano riusciti a seccare al primo colpo. I proiettili riecheggiavano definitivi nell'eco della notte.

Clint, serrò le labbra e prima che potessero fare di nuovo fuoco gridò:

“HYDRA! Perché non venite qui a succh-”

Gli agenti ebbero appena il tempo di accorgersi di chi avesse pronunciato la fase blasfema che già avevano preso a scaricare le armi nella sua direzione.

Clint si trovò a scansare agilmente una pioggia di proiettili e rientrare nelle cucine per poi sgattaiolare fuori da una delle finestre che aveva lasciato aperta come ultima via di fuga.

Quando sentì il gruppo di agenti fare irruzione con tanto di rumorosa artiglieria, Clint fece fuoco.
Ripetutamente. Con precisione millimetrica. Scaricando la propria arma direttamente sulle bombole di gas.

Una, due, tre...

Pregò che funzionasse. Che la reazione chimica prevista facesse effetto.

… quattro proiettili.

Fece appena in tempo a lanciarsi fuori dal locale, prima di avvertire il boato dell’esplosione.

Se gli agenti dell’Hydra avessero gridato, implorato pietà o inneggiato un’ultima volta alla loro causa psicotica, prima di venir inglobati nella detonazione, non lo avrebbe saputo mai.

Tutto ciò che riusciva a percepire adesso era il sibilo sconnesso e ovattato della deflagrazione, mentre i detriti dell’edificio gli franavano addosso in una pioggia pericolosa, pesante.

Scansò una pentola volante, cercando appiglio per rimettersi in piedi, per levare le tende, il più rapidamente possibile.

Lo stordimento e la sordità non gli facilitavano il compito.

Nonostante la vista, ora appannata da polvere e stanchezza, riuscì a tenere fermo lo sguardo sull’obiettivo. Sulla rete di recinzione. Non ci sarebbe voluto molto prima che gli si riversasse addosso l’intero arsenale dell’Hydra, pronto a reclamare a gran voce una vendetta.

Si trascinò barcollando oltre i corpi morti dei soldati uccisi, quando un movimento catturò la sua attenzione. Cercò di ignorarlo, di convincersi che non avrebbe fatto in tempo a salvare proprio nessuno, se non se stesso, quando riconobbe, di nuovo, il volto del giovane Adam.

Ancora vivo, ferito, implorante, gli stava chiedendo aiuto, muovendo le labbra, in quello che Clint identificò solo come un grido muto. Un grido che non riusciva a sentire, ma al quale avrebbe saputo associare con sconcertante concretezza il grado di disperazione.

Deviò quindi di nuovo per quella massa di cadaveri. Ignorò i movimenti degli altri pochi, ancora rimasti in vita (avrebbe fatto i conti dopo con ulteriori sensi di colpa) e allungò le mani per aiutare Adam a rimettersi in piedi.

Lo vide articolare qualcosa, ma lo strattonò. Per quello che gli riusciva di fare, ancora acciaccato dal contraccolpo dell’esplosione lo trascinò, letteralmente fuori dalla massa di cadaveri e prese ad allontanarsi verso la rete di delimitazione. Le guardie presenti, presumibilmente tutte morte nell’esplosione.

Il fatto che non riuscisse a sentire niente di più che il suono ovattato delle sirene, gli tolse gran parte dell’ansia che gli avrebbe messo pepe al culo.

Adam era ferito, il sangue usciva a fiotti dallo stomaco colpito. Clint sapeva che lo avrebbe rallentato e, nonostante lo sforzo, non trovò altra soluzione se non quella di caricarselo sulle spalle.

Clint era forte, ma ben presto avrebbe sentito il peso di quel corpo inerme.

Sparò direttamente sulla rete di recinzione, scaricando colpi fino a creare una sottospecie di varco che ingrandì con le mani, scorticandosele in più punti.

 

Non si fece domande su come o perché riuscì a superare il confine, ad allontanarsi senza ulteriori conseguenze da quella che era stata una delle fughe più rocambolesche della sua vita, ma qualcuno doveva aver deciso per lui che era stato abbastanza, che aveva visto e subito abbastanza per una misera manciata di ore. Qualcuno o qualcosa, che fosse un Dio, le stelle, il karma, o un asino volante, gli aveva concesso una momentanea tregua.

Fuggì lontano, piegato dal peso del corpo di Adam del quale, per sua fortuna, ancora non riusciva a sentire i lamenti.

Si era voltato indietro solo un paio di volte, prima di sparire giù per pendii scoscesi, rischiando di cadere ad ogni passo, lasciandosi inghiottire dalla vegetazione.

 

Non seppe dire quanto fu passato da quando aveva varcato i cancelli della sede dell’Hydra, se una manciata di minuti o di ore.

Decise di assecondare il dolore diffuso e persistente delle sue gambe, del petto che gli faceva un male del diavolo, delle tempie pulsanti che minacciavano di esplodere da un momento all’altro e si fermò, scaricando Adam a terra, accanto a un grosso albero.

Nelle orecchie ancora il fastidioso ronzio dell’esplosione o di qualsiasi cosa avesse deciso di stuzzicare il suo timpano compromesso.

Guardò il ragazzo e gli si inginocchiò accanto, cedendo sotto il suo stesso peso. Adam aveva perso molto sangue, riusciva a dirlo anche senza essere in grado di individuare la chiazza vischiosa che gli impregnava la giacca. Il viso era scarno e pallido. Le labbra avevano assunto un colorito tendente al blu.

“Va tutto bene...” lo rassicurò, ringraziando il cielo di non percepire quanto alto fosse il tono della sua menzogna.

Lo vide articolare qualcosa. Intuì solo, leggendo le sue labbra, ciò che voleva dirgli. Il tremolio diffuso non aiutava questa sua capacità.

“Ho freddo…”

Clint annuì solamente.

Forse era troppo tardi ma cercò di rendersi conto della portata delle sue ferite. Ignorò qualsiasi protesta e gli slacciò il giubbino, gli sollevò la maglietta impregnata di sangue. Due i fori di proiettile che erano riusciti a raggiungerlo. Non sembravano aver colpito nessun organo: ad ucciderlo sarebbe stata solo la consistente perdita di sangue, se non fosse riuscito a fermare l’emorragia.

Pigiò le mani sui fori di proiettile, cercando inutilmente di limitare i danni. Ma le dita scivolavano, senza riuscire ad esercitare una pressione sufficiente. E forse era troppo stanco, indebolito lui stesso.

Fu in quel momento di terribile consapevolezza che cominciò a piovere.

Una pioggerellina fitta fitta che più che bagnare pungeva, impietosa. L’ultimo smacco, la conclusione geniale di quella pessima nottata.

Adam lo osservava, forse ormai consapevole della fine che lo avrebbe atteso.

Cercò la sua mano, e di nuovo provò ad articolare qualcosa.

“Tu sei… ? Io ti conosco.”

“Sono White. L’agente White.”

Lo vide fare di no con la testa, una smorfia, di dolore o forse a rifiutare sdegnosamente l’ultimo inganno.

“No… ti conosco. T-ti conoscono tutti. Tu sei… Occhio di Falco. L’eroe di New York.”

Clint si tastò istintivamente il viso. I sensori delle modifiche facciali dovevano essere andati a farsi benedire quando la donna dell’Hydra lo aveva colpito. Non se ne curò più di tanto, a che gli sarebbero serviti, ormai?

“Non sono un eroe.” Mormorò o così gli sembrò.

“Lo sei, lo siete tutti.”

“Ti sbagli ragazzino.”

E Adam di nuovo a fare di no con la testa.

“Risolverete anche questa, non è così? Il direttore Fury e tutti i Vendicatori… gliela faranno pagare… vero?”

Clint non seppe più cosa rispondere. Non conosceva ancora i dettagli, ma gli sembrò che le prospettive non fossero affatto rosee. Ancora non era nemmeno sicuro si sarebbe salvato lui stesso da quell’indegna conclusione.

Non seppe dire cosa lesse nello sguardo di Adam. Forse speranza, forse il bisogno di una rassicurazione. Chi era lui per negarla a un ragazzo morente? Non era il momento di essere spietato.

Si limitò ad annuire.

Sulle labbra di Adam, affiorò l’ombra di un sorriso.

“Ti prego… di' a mio padre che io non c’entro niente…” un’ultima supplica.

“Glielo dirai tu stesso.”

“Non dire balle… agente Barton…”

Non riuscì più a mentirgli e annuì, di nuovo, questa volta deciso a mantenere la promessa.

Il padre di Adam avrebbe saputo che era rimasto un agente dello SHIELD fino alla fine. Così come le autorità avrebbero avuto una lista di tutti quelli che non lo erano. Clint era ora determinato a riportare esattamente tutto ciò che era accaduto in quella base, a chiunque fosse stato disposto ad ascoltarlo.

Se lo appuntò mentalmente, come prossimo obiettivo. Ora che il suo universo aveva assunto una nuova, inquietante curvatura, ora che aveva preso a sfaldarsi pezzo per pezzo plagiato da una nuova brutale realtà, doveva tornare a ricomporlo e dargli un nuovo senso.

E il suo senso, adesso, era quello di portare alla luce tutto ciò a cui aveva assistito. A costo di tornare a nuoto, negli Stati Uniti.

Menzogne.

Menzogne.

Ancora menzogne.

Aveva lavorato tutti quegli anni per seppellire delle... menzogne?

 

Adam morì scivolando nell’incoscienza, lentamente, senza dolore.

Faceva freddo e la pioggia stava coprendo tutto.

Clint rimase con lui finché la fragranza di terra umida non si portò via anche l’odore acre del sangue.

 

___

 

N.d.A: Ci ho messo un po’ a decidere come affrontare il capitolo. Io non lo so se le cose si sono svolte così e non ho la più pallida idea se sia plausibile o meno. So solo che pretendo, in qualsiasi modo verrà scritta, che Clint abbia un ruolo, se non fondamentale, quantomeno importante riguardo all’Hydra. E tutto il resto. Ho preso ispirazione da un commento trovato in giro, riguardo i post credit di Captain America 2. Dove, fra le guardie che giravano attorno al Barone Von “ciuffen” (perché non ricordo mai il nome), qualcuno sperava di averci visto Clint, sotto copertura. Ho pensato: ohibò, e perché no? Vale tutto finché non veniamo smentiti. Ci ho sviluppato attorno una mia idea, e… è uscito quel che è uscito.

Cheddire di più. Ufficialmente questo è l’ultimo capitolo della mia storia su Occhio di Falco. Di fatto, però, manca l’epilogo. Che pubblicherò a breve.

Quindi rimando i saluti e chiacchiere conclusive al prossimo (e ultimo) aggiornamento.

Ringrazio tutti quanti per le vostre manifestazioni d’apprezzamento. Inutile dire che fa sempre piacere ricevere riscontri tanto positivi, soprattutto per una storia nata proprio senza pretese.

E grazie a Sere che beta e supporta (ma soprattutto sopporta) le mie incredibili stupidaggini. Tranquilla, ho finito di rompere per un po’.

Ci risentiamo per l’epilogo :)

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Capitolo 24
*** Epilogo [Hawkeye] ***


EPILOGO

 

[Hawkeye]

 

“Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci... allora sono convinto o no che il mondo continua ad esserci? ...c'è ancora? ...sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso... Allora, a che punto ero?”

(Memento)

 

*

 

A New York faceva caldo. Innaturalmente caldo per essere l’inizio di Aprile.

Clint indossava degli abiti che più che renderlo irriconoscibile lo facevano somigliare a un senzatetto particolarmente freddoloso.

L’unico tocco primaverile al look era un berretto da baseball di fattura tutt’altro che moderna con cui si faceva aria, di tanto in tanto, in attesa su quella macchina che odorava di Arbre Magique scadente.

 

Il suo ritorno a casa era stato lungo e travagliato. Non poche difficoltà per rientrare in possesso di documenti che lo avrebbero riportato in terra natia. Negli Stati Uniti.

Non di meno quella di mantenere un’identità che non gli apparteneva. Il timore che si fosse bruciato tutti gli alias che aveva tenuto segreti in anni di missioni, era piuttosto consistente.

Gli era andata bene al secondo tentativo.

Il primo… meglio dimenticarlo.

Durante le operazioni di rimpatrio aveva appreso tutto ciò che si era perso in quelle settimane.

Del crollo definitivo dello SHIELD, del Soldato d’Inverno, dell’ingratitudine degli Stati Uniti nei confronti di Steve Rogers che aveva impedito, in parte, l’ennesima catastrofe americana, della collaborazione della Vedova Nera, dell’arrivo di un tizio che gli aveva quasi rubato il nickname di battaglia… e della morte di Nick Fury.

Non ci aveva voluto credere finché non era andato a constatare di persona, per una fugace visita a Washington, che esisteva la tomba, provvista di lapide. Con una citazione così da Fury che quasi si era messo a ridere per la sagacia.

E non ultimo era venuto a conoscenza del fatto che ora tutti i dati sensibili su agenti, dipendenti o simpatizzanti dello SHIELD erano stati liberati nella rete globale.
Non che fosse particolarmente reticente a svelare i suoi trascorsi, ma il fatto che chiunque, giornalisti da strapazzo compresi, avrebbe potuto spulciare nei suoi file senza chiedergli il permesso e rigirarli come più gli sembrava comodo o conveniente fare, gli faceva – senza perifrasi - girare i coglioni.

 

Lucky ansimava accalorato al suo fianco. Era quasi certo che non lo avrebbe riconosciuto così conciato com’era (la barba gli era cresciuta davvero, i capelli ancora mantenevano, in parte, la tinta scura creata appositamente per la missione in Europa), aveva capito poi che i ricettori dei cani son ben diversi da quelli degli esseri umani. Gli era corso incontro, assaltandolo con una profusione di lappate e scondinzolii – un benvenuto così ti faceva venir voglia di piangere dalla gioia. Ma si era trattenuto. Aveva dovuto letteralmente rapirlo dalla trappola dei suoi vicini per impedir loro di braccarlo in cerca di spiegazioni sul suo rientro. Aveva lasciato loro un post-it, appeso sul frigorifero. Ci sarebbe stato tempo e modo di mettere insieme una valida scusa per la sua assenza. O per il fatto che fosse riuscito ad entrare in casa loro. Furto con scasso.

Aveva racimolato un bagaglio essenziale, arco e frecce (quanto gli erano mancati!), il barattolo di vetro colmo ormai di cinque centesimi, caricato tutto sulla macchina che aveva noleggiato ed era ripartito, abbandonando il suo appartamento senza lasciare tracce troppo evidenti.

Infine aveva cercato di contattare Barney.

 

“Clint? Clint sei tu?”

“Proprio.”

“Dio… che sollievo. Nessuno sapeva darmi notizie, ho scatenato la CIA, pur di scoprire dove diavolo ti eri andato a cacciare.”

“Adesso capisco tutti i casini che ho dovuto affrontare per superare le frontiere.”

“Dove diavolo eri?”

“Non vorresti saperlo.”

“Ma… stai bene?”

“Fisicamente alla grande.”

“Perché non vieni a Washington? Potrei darti una mano… con tutto quello che è successo.”

“Preferisco di no, Barney.”

“Clint…”

“Barney. Non ho bisogno di niente. Solo il tempo di riflettere, carburare e ripartire.”

“Come desideri.”

“Barney…”

“Dimmi.”

“Ti voglio bene, fratello.”

“Adesso… sì che sono preoccupato.”

 

La prima persona con cui avrebbe voluto parlare di persona, però, sembrava evaporata.

Natasha aveva cambiato casa.

Nessuno aveva saputo dargli indicazioni a riguardo. La donna che le aveva affittato l'appartamento, lo aveva liquidato con un ben poco criptico: “Io con gli assassini non voglio avere niente a che fare.”

Natasha si era guadagnata un gruppo fornito di nuovi nemici.

La gente tendeva a dimenticare un po’ troppo facilmente i favori fatti nel nome della giustizia, a prescindere dai trascorsi.

Non aveva però dovuto faticare troppo per rintracciarla nuovamente. Aveva preferito non  chiamarla. Era possibile che non lo avrebbe accolto granché bene: appurato il fatto che fosse sopravvissuto, si sarebbe potuto aprire un dibattito più o meno acceso sulle motivazioni che lo avevano voluto lontano dagli eventi di Washington. E Fury non era lì per confermare la sua innocenza.

Vero, c’era un certo, consistente numero di dati che smentivano un coinvolgimento con l’Hydra, ma avrebbe sempre potuto cedere al lato oscuro all’ultimo minuto. Non sarebbe stato comunque un caso isolato. Purtroppo.

Una camera d’albergo. Forse stava solo aspettando l’occasione buona per mettere insieme le idee e reinventarsi. Un po’ come sarebbe toccato fare a lui, almeno per le prime settimane, almeno finché la tempesta non si fosse placata… almeno… in parte.

 

Aprì la portiera della macchina per accogliere una folata di vento benefica, appena percepita dal finestrino aperto.

Decise di scendere a sgranchirsi le gambe. Lucky sbucava con tutta la testa dal finestrino. Aveva abbaiato due volte.

Due volte prima che Clint sentisse il rumore del caricatore di un’arma e la pressione della canna di una pistola alla nuca.

Si stava stiracchiando e rimase con le braccia a mezz’aria. Decidendo di non muovere un muscolo per evitare di scatenare reazioni azzardate.

Quel profumo. Il passo felpato. L’inclinazione dell’arma che premeva sul cranio. Una persona di bassa statura. Con una presa solida. Decisa.

“Natasha…” disse solo, senza esitazione.

La completa assenza di risposta fu solo una conferma.

“Sono… Clint.” Aveva specificato, nel caso le fosse sembrato irriconoscibile. Plausibile, visto il modo in cui se ne andava in giro ultimamente, “Clint… Barton.”

“Lo so chi sei.” Natasha aveva parlato con una tonalità così bassa che faticò a percepirne il tono.

“Bene. Dunque... anche io… sono contento di vederti.”

“Voltati. Lentamente.”

Un ordine che Clint non si sentì di trasgredire.

Fece come lei gli aveva suggerito: lentamente, con cautela, mentre la sequenza di paranoie che lo avevano accompagnato nel suo tragitto fino a lì si concretizzavano, una per una.

Natasha sospettava di lui: indecisa se catalogarlo o meno come nemico. Si domandò se avrebbe fatto lo stesso al suo posto o se si sarebbe rifiutato di credere a una realtà tanto cruda e spietata.

Quando fu completamente voltato nella sua direzione, il solo vederla deformò il mezzo sorriso che aveva tentato di regalarle. La spavalderia, la finzione, la rassicurazione, tutto svanito, nell’istante in cui si era reso conto, veramente, che Natasha era lì, viva, di fronte a lui… una sopravvissuta.

Non disse niente. Si lasciò scrutare.

La freddezza di Natasha sembrò sbiadirsi con l’ennesimo battito di ciglia. La torbida tempesta dei suoi occhi verdi, andò a ritirarsi come una marea.

Comprese immediatamente di essere stato scagionato da qualsiasi accusa o sospetto.

Quando le vide abbassare l’arma non ebbe più bisogno di dire nulla.

Però era risorto quel sorriso un po’ sghembo con cui aveva combattuto prima. Ora più spontaneo, sollevato.

“Che cosa hai fatto alla faccia?” la sentì domandare, un soffio impercettibile che gli fece tremare le ginocchia per il modo in cui aveva percepito la sua voce.

“Un cambio di look. Non ti piace?” e nel dirlo si era massaggiato le guance lì dove era cresciuta quella faticosa barba.

“Per niente.”

“Buono a sapersi…”

Natasha gli si avvicinò, gli prese il viso fra le mani, ne scrutò i lineamenti. Fece passare le dita su quella minuscola cicatrice alla guancia (quella del proiettile dell’Hydra. Sarebbe sparita, ma forse sarebbe sempre stata visibile, al sole) e poi fra i capelli, su quella ruga sulla fronte che non era sicura di aver mai visto prima, come se stesse prendendo confidenza con la sua nuova presenza.

Solo quando venne a capo di quella minuziosa ispezione si tirò su, sulle punte dei piedi e lo abbracciò stretto, aggrappandosi con le dita alla sua giacca, posando la fronte sulla sua spalla, inspirandone il suo profumo così familiare.

Clint si sentì come rigenerato da quell’abbraccio. Assurdo come fino a quel momento non si fosse reso conto di averne un disperato bisogno.

La frustrazione, la paura, il senso di colpa, il dolore… si concentrarono in un’unica sensazione, venendone assorbiti. Riplasmati.

 

Fu il caldo o forse i latrati forsennati di Lucky che li riportò nelle condizioni di separarsi. Di tornare a fronteggiare quell’assolata giornata di inizio aprile.

 

“Una Dodge Challenger, del ’70, eh? Non avevi sempre detto di volere una Mustang?” Natasha si risolse a dire, pronta a rimettere in moto gli ingranaggi che li facevano funzionare con familiarità, da sempre.

“Quello era il giovane me… ora sono uno da Dodge Challenger.”

“Carina.”

Clint era convinto non le piacesse poi tanto.

“Hai già un piano, Nat?” le domandò poi, dal nulla, non aveva la forza di mantenere la volontà di rimandare, di essere meno diretto, più prudente.

La donna che si era concessa una pausa per dare una grattatina a Lucky era tornata a guardarlo.

“Forse…” Clint annuì, senza forzarla a confessargli cosa avesse intenzione di fare. “Se mi dai un paio di minuti e un passaggio, recupero la mia roba e te lo spiego.” Gli disse.

A Clint non ci volle molto per sganciarle un cenno d’assenso.

 

*

 

“Dove andiamo?” Clint aveva messo in moto. Il motore fece i capricci un paio di volte, prima di decidersi a partire.

Natasha aveva recuperato il berretto consunto dell'uomo e se lo era infilato in testa, stringendosi nelle spalle.

“Prima di tutto, ci liberiamo di quella barba.”

“Ah sì? E se a me piacesse?”

“Non ti piace.”

Non riuscì a smentirla.

“Poi, un taglio di capelli.”

“Ah, pure? Non credevo il tuo piano riguardasse la mia tosatura.”

Natasha gli rivolse uno sguardo rapido ma significativo.

“Non devi nasconderti da nessuno, Clint.” L’uomo non nascose un cipiglio incomprensibile. “Non dobbiamo, nessuno di noi.”

“E’ pieno di gente che non vede l’ora di farcela pagare, là fuori.”

“Non è sempre stato così?”

Clint volse appena il capo nella sua direzione.

Natasha aveva trovato il suo barattolo stracolmo di monetine e ci stava giocando.

“Non dobbiamo permettere a nessuno di metterci nelle condizioni di dubitare delle persone che siamo. Che eravamo… ma soprattutto delle persone che siamo diventate.”

“È cambiato tutto, Nat. Non siamo più SHIELD, non c’è più nessun Nick Fury…”

“Non siamo mai stati solo lo SHIELD”, Clint in quell’unica, definitiva frase percepì una verità quasi assoluta. Avvertì chiaramente qualcosa incrinarsi in tutti i dubbi che aveva partorito in quelle lunghe giornate di solitudine. E forse era un ragionamento che Natasha stessa aveva elaborato a lungo, prima di convincere anche se stessa.

Non erano mai stati solo lo SHIELD. Non erano mai stati solo due agenti operativi. La loro esistenza non si esauriva certo con il fallimento dell’organizzazione che aveva salvato loro la vita. Avrebbero dovuto ricominciare, riconsiderare la conseguenza delle loro scelte, ma non certo quella delle convinzioni che li avevano spinti fino a quel punto.

Clint non avrebbe dovuto rimpiangere proprio un bel niente, ma convivere con la placida meschinità dei suoi sensi di colpa, riconsiderare se stesso come essere complesso che non doveva nascondersi, non trasformarsi in qualcosa di estraneo.

Avrebbe dovuto cominciare a pensare a se stesso non in comparti stagni: non solo come un orfano. Non la stella di punta del circo di Carson, non solo un fratello minore, un figlio maltrattato, un ladro, un cecchino, un alcolizzato, un depresso, un agente operativo, un collega, un migliore amico, un assassino, un amante, un eroe. Un arciere.
Ma la somma di tutto questo. Di ogni singola caratteristica del suo essere.

Clint Barton non aveva mai dovuto nascondersi dietro a un nome in codice.

Clint Barton viveva anche nel suo nome in codice.

Occhio di Falco era Clint Barton.

Clint Barton era Occhio di Falco.

E nessuno mai avrebbe potuto portar via ciò che era o obbligarlo a nasconderlo. A fuggirne. Men che meno un’organizzazione criminale che aveva fatto dell’inganno e della morte il suo baluardo.

Non aveva più paura. Non più amarezza. Non rimpianto.

Si sentì rinfrancato dal pensiero.

Sentì i polmoni riempirsi d’aria. Come se non avesse mai imparato a farlo, prima.

Capì di aver trattenuto il respiro troppo a lungo, per troppi anni.

Un sorriso riaffiorò sulle sue labbra, mentre la strada li stava conducendo lontano. Che fosse il prossimo taglio, una doccia, una cena, comunque ci sarebbe stata la previsione di un futuro così ricco di incognite e possibilità da risultare quasi inebriante, ubriacante.

Un po’ brillo, lo si sentiva davvero, dopotutto.

“E a proposito di Fury…” Natasha “O di Phil Coulson…”

Clint serrò la presa al volante quando sentì risalire dal suo petto una sensazione bizzarra.

Mentre la ragazza parlava si lasciò abbracciare dalla sorpresa, premendo finalmente sull’acceleratore.

Il barattolo ricolmo di cinque centesimi, sfuggito alla presa di Natasha, si rovesciò in un fracasso cristallino… il tintinnio di ogni moneta a fondersi col fragore della sua risata.

 

___

 

N.d.A: Siamo giunti davvero alla fine. E ne sono in egual modo felice e triste.

Triste perché, ovviamente, si tratta della fine di un’avventura che mi ha tenuto compagnia per settimane e mi ha spinta a stimolare la mente, la creatività, in cerca sempre di nuove trovate.

Ma felice perché mi sono sbloccata, a livello del tutto personale… dopo anni di inattività.

E la cosa mi ha dato un’immensa soddisfazione. Mi era mancato un po’ questo mondo, e oltre a me stessa ringrazio Clint (un personaggio a cui adesso devo molto più che un caffè al bar), perché non ci fosse stato lui a punzecchiarmi, forse avrei tenuto le idee nel cassetto e tanti saluti.

Ma veniamo a tutto il resto… devo davvero ringraziare tutti quanti hanno seguito la storia, ma soprattutto chi mi ha reso partecipe delle sue opinioni, perché anche se uno fa il sostenuto alla: “no, ma le recensioni non mi interessano”, in realtà mente. Perché alla fine fanno tanto piacere, anche solo per avere la certezza di poter condividere qualcosa con qualcuno che ha le tue stesse identiche passioni. E quindi GRAZIE, a tutti quanti, davvero, perché questa partecipazione mi ha dato una spinta in più per arrivare alla fine!
Poi… non mi sono dimenticata di te, mia cara Sere, che non solo hai betato tutta la storia, dandomi anche dei buoni consigli, ma hai fatto il tifo più sfrenato e mi hai sopportato e ancora adesso mi sopporti, anche quando ho i miei momenti molto no o quelli fin troppo sì. Se siamo amiche e condividiamo passioni e fandom (e Budapest), da quasi dieci anni, senza nemmeno vivere nella stessa città, un motivo ci sarà, suppongo. Perciò GRAZIE anche e soprattutto a te. E mi raccomando SCRIVI, che sennò poi io vado in astinenza.
E infine, per la serie: piccolo spazio pubblicità, segnalo due storie che sto seguendo (sempre dedicate a questo fandom, nello specifico), e che penso valga proprio la pena leggere.

La prima: Don’t Get Too Close (It’s Dark Inside).
La seconda: La Leggenda degli Straordinari Vendicatori.

Non aggiungo altro, solo la speranza che vogliate provare a cliccare sui link.

Io, per ora, sparisco. Ma giuro, non per troppo. Il fumetto, mia prima passione e lavoro a tempo (dis)perso, richiede la mia attenzione, più, ahimè, delle fanfiction (sigh). Però bolle qualcosa in pentola sia sul lato prettamente personale (non smetto di tormentare con le mie balzane idee fanficcose, Clintasha is in the air) sia su quello collettivo in società con la mia beta. Dunque, se siete curiosi di leggere qualcos’altro di nostro, tenete sott’occhio questo profilo - BlackEyedSheeps - perché c’è del delirio puro, pronto ad esplodere, su questi schermi.

In conclusione, lancio i miei saluti a tutti quanti e spero di non avervi annoiato con una nota finale ben più lunga del capitolo. Scusa Clint, non volevo rubarti la scena.

Alla prossima dunque, ci si sente in questi canali… SOON.

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