Was it all just an illusion?

di Quasar93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Drowning ***
Capitolo 2: *** Trying ***
Capitolo 3: *** Falling ***
Capitolo 4: *** Regretting ***



Capitolo 1
*** Drowning ***


Ecco il primo capitolo di una raccolta di missing moments tra cuba e l'incontro di Charles e Erik al pentagono. E' una raccolta ma in realtà sono vari capitoli della stessa storia che assumono sfumature un po' diverse.
Sappiate solo che l'ho scritta preparando un esame di psichiatria, questo dovrebbe dirvi tutto. Enjoy e se vi va lasciate un commento. Buona lettura:)

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Era trascorso quasi un anno da quando Erik se n’era andato lasciandolo agonizzante tra le braccia di Moira.
Charles aveva davvero creduto di aver trovato nel manipolatore di metalli un alleato, un amico, un fratello addirittura, con cui condividere il suo sogno di pace tra gli umani e i mutanti.
Ma poi Erik aveva rovinato tutto, aveva ucciso Shaw e non contento di aver portato a termine la sua vendetta personale aveva rivolto un attacco contro le due più grandi potenze mondiali, solo per dare un dimostrazione della forza dell’homo superior.
E la cosa peggiore era che non riusciva a capire quanto questo si distaccasse da quello che Charles stava tentando di costruire insieme a lui.
-Siamo fratelli, noi due – gli aveva detto quel giorno
–Vogliamo la stessa cosa-
-Oh, vecchio amico. Mi dispiace, ma non è così- gli aveva risposto Charles, senza indugio ma con il cuore pesante e i grandi occhi blu lucidi di lacrime. Aveva tracciato una linea, in quel momento e per sempre.
La sua strada si sarebbe separata da quella di Erik Lehnsherr, i loro ideali, i loro modi di agire, di pensare erano troppo diversi.
Charles aveva a lungo sperato di poter cambiare l’amico, di fargli capire che non c’erano solo dolore e rabbia nella sua vita, che poteva aspirare ad altro. Che poteva aspirare ad essere felice.
Ma aveva fallito. E si rese conto che forse il primo ad aver tracciato una linea era stato proprio Erik, uccidendo Shaw, incurante di quanto questo avrebbe significato per il resto del mondo.
Ed ora se ne era andato, portandosi dietro Raven, e per la prima volta fu lui ad essere solo.
 
Inizialmente aveva creduto di potercela fare.
Di riuscire ad andare avanti come se nulla fosse successo.
Aveva creduto di poter superare la perdita di Erik, di Raven, delle sue gambe.
Pensava, credeva, di essere forte abbastanza.
E in principio lo fu.
Continuò a reclutare giovani mutanti per la sua scuola e iniziò il primo semestre.
Finalmente stava realizzando il suo sogno. Era tutto perfetto. I ragazzi erano bellissimi e i professori erano fantastici. Non c’erano problemi e per un breve momento iniziò perfino a pensare che la convivenza pacifica fra umani e mutanti fosse così vicina da riuscire ad afferrarla soltanto allungando le mani.
Eppure.
Eppure Charles non riusciva ad essere felice.
Sorrideva, era vero.
Era cordiale e gentile con tutti. Sempre alla mano, sempre allegro, sempre disposto ad aiutare alunni e insegnanti.
Ma un sorriso non sempre è sinonimo di felicità.
Inizialmente non se ne rendeva nemmeno conto, si sentiva solo insoddisfatto, come se quello che faceva non fosse mai abbastanza, come se ci fosse sempre qualcosa che mancava, sempre un fattore in meno nella sua equazione di equilibrio.
Sempre una sensazione di vuoto.
Si rifiutava di pensare che la colpa di tutto fosse Erik Lehnsherr e la sua stupida ideologia e andava avanti, convincendosi che presto quella sensazione sarebbe passata e che sarebbe stato finalmente felice. Felice nonostante tutto quello che aveva perso, felice con la sua scuola, felice coi suoi mutanti.
Ma, a differenza di ciò che pensava, le cose non fecero che peggiorare.
Era una sera come tante quando iniziò a sentire delle voci nella sua testa.
Inizialmente le attribuì alla stanchezza, che non gli permetteva di controllare bene il suo potere, del resto con la scuola in attività lavorava molto e non dormiva a sufficienza.
Ma più il tempo passava più le voci aumentavano per intensità e frequenza. Più era stanco e peggio era, e anche riuscire a prendere sonno diventava sempre più difficile.
Nel giro di un mese le voci divennero insopportabili e l’insonnia lo lasciava sempre più stremato, così Charles si rivolse a Hank, che gli propose di nuovo il siero che aveva sintetizzato per permettergli di camminare di nuovo.
Quando gliel’aveva mostrato la prima volta l’aveva rifiutato, non voleva perdere i suoi poteri, gli servivano per trovare gli studenti e, ancora più importante, erano una parte di lui, l’avevano accompagnato per tutta la vita e non voleva rinunciarci.
Ma ora l’anno accademico era iniziato e quelle voci gli permettevano a malapena di condurre una vita normale, così decise di aggiungere un’altra voce all’elenco di ciò che aveva perso.
Iniziò a prendere il siero e nel giro di poco tempo riprese a camminare e a sentire la testa libera e leggera.
Per un breve periodo continuò anche a fare il professore, senza poteri ma libero da quella sedia a rotelle e soprattutto da quelle voci angoscianti nella testa.
Però ancora non era felice, ancora non era soddisfatto e ancora il perché gli sfuggiva inafferrabile, tanto che stava iniziando a domandarsi se davvero ci fosse una ragione e se non fosse solamente impazzito.
Perché non poteva essere felice nemmeno ora che il suo sogno si stava finalmente concretizzando?
Nemmeno ora che era riuscito a lasciarsi alle spalle Cuba e a riprendere la sua vita.
E più ci pensava più le voci tornavano a farsi sentire insieme con immagini di Raven e di Erik.
E ogni volta che uno tra sua sorella e il suo migliore amico faceva capolino nella sua testa Charles beveva, beveva per addormentarsi meglio, per non pensare a loro, anzi, per non pensare a niente.
Non ci volle molto perché sviluppasse una dipendenza dal siero principalmente e dallo scotch più tardi, ma era il solo a saperlo.
Visto da fuori era sempre il professor Charles Xavier, pulito e in ordine, intelligente e cordiale con tutti.
I momenti bui erano solo suoi, e li nascondeva a tutti, nel tentativo malriuscito di nasconderli anche a se stesso. Non voleva ammettere di avere qualcosa che non andava perché si sa, finchè non ammetti un problema è come se non lo avessi.
Continuava anche a tenere le lezioni come se niente fosse, mantenendo i dosaggi di siero al limite deciso da Hank era lucido e nessuno l’avrebbe scoperto.
Pensava di avere tutto sotto controllo e nonostante i ripetuti e preoccupati avvertimenti della Bestia non ne volle sapere di smettere nemmeno con lo scotch.
-Hank, vecchio mio, sto benone. Il siero è solo per le voci- ripeteva sempre, più per convincere se stesso che per convincere Hank.
-E riguardo allo scotch, ogni tanto ho bisogno anche io di staccare il cervello- ripeteva sorridendo con un sorriso così superficiale che se si fosse visto allo specchio non ci avrebbe creduto nemmeno lui.
 
Poi la guerra in Vietnam peggiorò.
Molti tra gli studenti e i professori vennero richiamati alle armi e Charles fu costretto a chiudere la scuola.
Era un pomeriggio di novembre quando insieme ad Hank uscì dal cancello della tenuta, armato di cacciavite e martello.
-Charles, cos’hai intenzione di fare con quelli?- chiese McCoy, ormai rimasto solo dopo che Charles aveva mandato a casa gli ultimi studenti rimasti.
-Concludo l’ennesimo fallimento della mia vita- disse incastrando il cacciavite dietro la placca che recitava “ Xavier school for gifted youngster” e iniziando a colpirne il manico col martello.
Hank pensò che per lo meno aveva iniziato ad ammettere di avere qualche problema, anche se aveva attaccato la questione dalla parte sbagliata. Doveva provare a farlo ragionare, di nuovo.
-Non penso che sia questo il modo. Hai un problema, Charles, e lo sai anche tu. Non è distruggendo tutto che troverai la pace che cerchi da un anno a questa parte.-
Hank era ancora giovane, ma era intelligente e ne sapeva abbastanza di psicologia da riconoscere una depressione mascherata quando ne vedeva una.
Anche se ormai anche quella maschera stava cadendo, lasciando intravedere l’oscurità che dilaniava il cuore di Charles dall’interno.
La Bestia aveva provato a parlarne delicatamente col telepate, ma questi non lo ascoltava, o gli rifilava sempre le stesse patetiche scuse.
-Finchè non ci provo non lo saprò mai- rispose dal canto suo Charles, riuscendo con un ultima e violenta martellata a staccare la placca dalla colonna, lasciandola cadere a terra.
Non abbassò lo sguardo sul suo sogno in frantumi nemmeno per un secondo mentre tornava verso la villa.
Quando entrò dal pesante portone di legno e fece per salire le scale disse solo due parole a un Hank che non sapeva più ne cosa dire ne cosa fare.
– Lasciami solo- disse, per poi rintanarsi in chissà quale stanza della villa
–da oggi qui non vive più nessun professore.-
 
Passarono giorni prima che Charles si facesse vedere di nuovo da Hank.
Indossava una canottiera bianca che probabilmente aveva indossato il giorno prima, e quello prima ancora e una vestaglia a fantasia con piccoli rombi verdi su sfondo rosso, i capelli in disordine e la barba non rasata.
-Charles…- si limitò solo a dire Hank – cos’hai fatto?-
-Siero, Hank. Me ne serve di più.-
-la scatola che ti avevo dato doveva durarti per tutto il mese. Sono passati solo10 giorni, non posso dartene altro.-
-Le voci, Hank! Le voci nella mia testa!- disse picchiettandosi freneticamente una tempia.
Era chiaramente ubriaco oltre che in principio di una crisi di astinenza.
-Charles devi calmarti, fatti dare un’occhiata- disse, allungando una mano verso il telepate che lo respinse con un gesto brusco della mano.
-Calmarmi? Hank non puoi capire!-
-Potrei, se solo tu mi spiegassi!-
-Ma vaffanculo- gli disse solo per poi andarsene di nuovo chissà dove.
Hank era molto preoccupato per la sua salute, e non tanto per le droghe o per l’alcol.
Avrebbe dovuto affrontare il nucleo della sua depressione prima che diventasse qualcosa di peggio di una sbornia di dieci giorni.
Prima che.. No, non voleva nemmeno considerare quell’eventualità.
Doveva assolutamente riuscire a parlare con Charles, con il vero Charles, prima che tentasse di affogare nello scotch anche se stesso, ma proprio non gli veniva in mente nulla. E dire che si vantava di essere molto intelligente.
Per distrarsi accese la televisione che teneva in laboratorio, mentre riprendeva a lavorare.
Forse pensare ad altro per un po’ gli avrebbe fatto bene.
L’apparecchio iniziò subito a gracchiare – notizia straordinaria! Il presidente! Hanno sparato al presidente!-
Hank si voltò di scatto verso la televisione, che aveva improvvisamente guadagnato il cento per cento della sua attenzione.
-Oggi 22 novembre 1963 il presidente Kennedy è rimasto vittima di un attentato terroristico. Sembra che il responsabile sia un mutante, già noto per aver commesso crimini minori..-
Quando la telecamera inquadrò due poliziotti che si trascinavano dietro un Erik incosciente ad Hank per poco non venne un infarto.
Il mutante aveva sempre considerato Erik poco affidabile ed estremamente impulsivo, ma arrivare a tanto? Non se lo sarebbe mai aspettato.
Subito dopo pensò a Charles, non doveva vedere quella notizia, non in quelle condizioni.
Avrebbe dovuto nascondere tutte le tv della villa fino a che non avesse trovato il modo di fargli metabolizzare la cosa o dio solo sa cosa sarebbe successo.
Corse immediatamente alla ricerca del professore, ma quella villa era enorme e Charles ci era cresciuto, sapeva bene come non farsi trovare.
Poi improvvisamente sentì il suono di un telegiornale provenire da dietro una porta di una stanza che credeva chiusa e inutilizzata da anni.
La sfondò in un attimo solo per rimanere sconvolto dalla scena che si trovò davanti. La prima cosa che lo colpì fu il forte odore di alcol che impregnava l’ambiente.
C’erano siringhe e fiale vuote sparse un po’ ovunque, mischaite a bottiglie mezze piene e a un gran disordine generale.
La tv continuava a parlare a un divano vuoto – Lehnsherr verrà portato in una prigione speciale per contenere i suoi poteri. Poteri mutanti. Si sta forse realizzando la più grande paura del popolo americano? Questi mutanti sono forse davvero una minacc…- Hank afferrò il telecomando e spense con un gesto di stizza l’apparecchio.
Ma fu quando girò l’angolo della stanza e alzò lo sguardo verso il balcone che il suo cuore perse un battito.
Charles se ne stava li, in piedi sul cornicione.
Una bottiglia ancora in mano e un sorriso rassegnato stampato in faccia.
-Charles, qualsiasi cosa tu stia pensando di fare non farla! Troveremo una soluzione, te lo prometto- urlò, cercando di mantenere la calma.
-No Hank, non sono di nessuna utilità a nessuno, non posso esserlo nemmeno per me stesso. Me l’hai detto anche tu prima no? Ho un problema. Non le senti? Queste voci?- rispose il telepate stringendosi la testa tra le mani.
-Sei solo ubriaco. E stai iniziando ad avere una crisi d’astinenza, vieni giù e… e ti prometto che ti darò un’altra dose. Non sentirai più le voci. Ma per l’amore del cielo scendi da quella balaustra-
-Anche se lo facessi? Non ho collezionato che fallimenti, Hank.
Ho riflettuto, come mi hai detto tu di fare. E ho capito. Guarda Erik, guarda cos’ha fatto. Volevo costruire un mondo di pace insieme a lui e invece ora sta distruggendo tutto. La pace non è mai stata un’opzione, mi disse, tempo fa. Avrei dovuto capirlo allora che non avremmo mai potuto condividere lo stesso sogno. E grazie a lui ora siamo una minaccia per tutto il mondo.- Rise amaramente – forse avrei dovuto lasciarlo morire quel giorno, mentre tentava di portare a termine la sua vendetta personale.- Una lacrima gli scese lungo la guancia.
-Non è colpa tua Charles, non potevi prevedere niente di tutto questo. Tu non sei così, tu non lasci le persone al loro destino, tu combatti perché è giusto così. Combatti ancora, Charles, forza, vieni via da li. Se la crisi peggiora inizierai a perdere la sensibilità alle gambe e..- mentre lo diceva successe, e quello che restava del professor Xavier perse l’equilibrio.
Hank si lanciò al volo per prenderlo e riuscì ad afferrarlo prima che precipitasse facendo un volo di diversi piani.
-Perché ti dai tanta pena per me, Hank. Non sono che un povero misero omuncolo che ha perso tutto.- disse guardando la bestia con gli occhi pieni di risentimento, senso di colpa e dolore così profondi che facevano male.
Hank non riuscì a controbattere a quest’affermazione. Anche perché era vero, di tutto ciò che aveva gli era rimasto solo lui.
Ovviamente sapeva benissimo perché valeva ancora la pena di lottare per Charles Francis Xavier, ma di fronte a quello sguardo non se la sentì di dire nulla. Nessuna parola sarebbe stata in grado di guarire le sue ferite, e non poteva dirgli che lo capiva perché non era così. Nessuno poteva capire quello attraverso cui stava passando.
Finalmente Charles cambiò espressione e si liberò di Hank che lo teneva ancora tra le braccia.
-Dammi il siero che hai con te e vai via, non voglio sentire questa gente nella mia testa un secondo di più.- disse alzandosi. Prese le siringhe che Hank gli passò e si lasciò cadere a peso morto sul divano.
Hank ancora senza parole uscì da quella camera degli orrori fermandosi solo un attimo sulla soglia.
Era vero, per Charles valeva ancora la pena lottare, ma chi era l’uomo in vestaglia che si stava stringendo una cinghia attorno al braccio, alle sue spalle?
 

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Capitolo 2
*** Trying ***


Eccomi di nuovo qui! Questo capitolo va di pari passo con quello precedente solo da un altro punto di vista. Non sarà sempre così, ma almeno per l'inizio volevo avere il punto di vista di Charles e quello di Erik divisi.
Ringrazio Silvia per l'idea dell'ospedale ( <3 ) e ne approfitto per dirvi che anche lei scrive molto bene e se volete altre belle storie su X-men qui la trovate come Magnetic_Ginger
Enjoy e se volete più angst, tranquilli, nei prossimi sarete esauditi:))))


Era passato quasi un anno da quando aveva lasciato Charles agonizzante tra le braccia di Moira.
Perché, perché non aveva voluto seguirlo e lottare per la loro razza? Sperava davvero che gli umani avrebbero accettato una convivenza pacifica fra le due specie? Come poteva essere così ingenuo?
Era stato bello giocare alla famiglia per un po’, a Villa Xavier, con i ragazzi e tutto il resto. E per un attimo si era davvero illuso di aver trovato la pace.
Ma non avevano fatto altro che ingannare loro stessi con un sogno irrealizzabile.
In fondo l’aveva sempre saputo.
La storia si sarebbe ripetuta, ne era certo ora più che mai, poteva già vedere i fantasmi del suo passato riemergere all’orizzonte.
Gli esseri umani non sarebbero mai stati pronti ad accettare qualcosa di diverso da loro, che fosse per religione, etnia o genetica.
Perché Charles non riusciva a capirlo?
La pace non era mai stata un’opzione, Erik lo sapeva bene e ne aveva avuto conferma sull’isola di Cuba, quando americani e russi non avevano esitato a puntargli contro tutti quei missili nucleari.
-Sono solo uomini che eseguono ordini- gli aveva detto Charles, quel giorno, e aveva ragione, aveva perfettamente ragione.
Ma Erik ne sapeva qualcosa di uomini che eseguono ordini, e aveva deciso che non si sarebbe rimesso a loro mai più.
E così aveva fatto la sua scelta.
Aveva deciso di lottare in prima linea per i suoi ideali, per la sua razza, per la sua Causa.
Non si sarebbe nascosto dietro quattro mura e predicato un’utopia irrealizzabile, avrebbe combattuto in prima persona e con tutte le sue forze se necessario.
Avrebbe voluto che Chalres fosse al suo fianco per lottare uniti come fratelli, proteggendosi a vicenda insieme coi ragazzi e tutti i mutanti che avressero voluto unirsi a loro.
E invece il telepate gli aveva voltato le spalle, lo aveva lasciato solo quando gli aveva detto che non lo sarebbe stato mai più, aveva infranto la promessa e tracciato un confine indelebile tra loro due.
 
Da quando se n’era andato da quella spiaggia aveva radunato quanti più mutanti possibili tra coloro che erano stanchi delle torture e delle discriminazioni inflittegli dagli umani per mettere insieme una resistenza mutante per la guerra che era certo, prima o poi, sarebbe stata combattuta per la supremazia di una razza sull’altra.
Charles aveva i suoi alunni nella sua scuola a lottare per la pace e lui aveva i ragazzi che nessuno voleva, cacciati e umiliati desiderosi solo di vendicarsi degli umani.
Il clima non era certo caloroso e accogliente come quello di villa Xavier, e probabilmente alla prima occasione qualcuno avrebbe cercato di ucciderlo per salire al comando, ma per ora Erik si accontentava ed inoltre era chiaramente il mutante di più alta classe e non aveva nulla da temere da nessuno di loro.
In quella che sarebbe diventata la Confraternita dei Mutanti Malvagi vigevano poche ma basilari regole, una delle quali era non parlare mai di Charles Xavier o della sua scuola, pena l’ira di Erik o, per come si faceva chiamare ora, di Magneto.
Nemici, ecco cos’erano diventati lui e Charles.
Erik si sforzava il più possibile di dimostrarsi, agli altri come a se stesso, completamente superiore e disinteressato a quanto accadeva al telepate. Ma, nonostante le apparenze, seguiva molto da vicino gli eventi della vita del suo vecchio amico.
Come quella sera di marzo, in cui aveva acceso la tv e aveva visto Charles annunciare l’inaugurazione ufficiale dell’istituto, mentre se ne stava seduto da solo, sul suo letto e col volume al minimo.
Si versò da bere e brindò simbolicamente a Charles, sorridendo amaramente mentre lo guardava apparire così soddisfatto e fiero di se, nonostante fosse confinato su quella sedie a rotelle.
Una fitta di senso di colpa gli fece rivoltare lo stomaco, spense immediatamente la tv e si domandò per l’ennesima volta perché ancora provasse pietà per quello sciocco telepate o per quale motivo seguisse quello che faceva.
Era per tenersi pronto, si rispondeva sempre, nel caso in cui Charles fosse divenuto un nemico troppo pericoloso, ma la verità era che in fondo in fondo, quando ogni sera dopo aver concluso le faccende della Confraternita ed essersi ritirato nella sua stanza e si guardava intorno e vedeva le pareti scure e scrostate, il letto degno di una prigione, non poteva far a meno di provare una punta di nostalgia per quei giorni felici e spensierati passati alla Maison, quando per la prima volta dopo quella che era sembrata un’eternità aveva finalmente trovato degli amici, quando Magneto era solo uno stupido nome inventato da una ragazzina e non lo pseudonimo di un criminale ricercato.
Criminale.
Non gli era mai piaciuta quella definizione.
Lui combatteva solo in nome di ciò che era giusto. Combatteva per la sua specie, per la sua famiglia.
Per la sua nuova famiglia.
Si versò di nuovo da bere e stavolta brindò a se stesso.
-Cheers- si disse e poi appoggiò il bicchiere sul comodino e spense la luce, consapevole che non sarebbe comunque riuscito a dormire nemmeno quella notte, e quei ricordi, quella nostalgia per qualcosa di così effimero, non facevano altro che farlo innervosire sempre di più.
 
Poi la guerra in Vietnam peggiorò e molti dei ragazzi della confraternita se ne andarono richiamati dall’esercito.
Erano rimasti in pochi a militare per la resistenza mutante quando una notizia giunse nella sede: la scuola di Charles aveva chiuso i battenti.
I suoi studenti e i suoi insegnati, al pari degli alleati di Erik, erano stati richiamati alle armi.
Nonostante il tempo e nonostante le ferite subite il primo pensiero del manipolatore di metalli fu per Charles.
Dopo tutto quello che aveva perso gli avevano portato via anche quello.
 
E fu come trovarsi di nuovo a Cuba, quando si era lanciato subito verso l’amico non appena aveva sentito il suo grido di dolore, nonostante la lite che avevano appena avuto, nonostante non fosse nemmeno certo che Moira avesse smesso di sparargli.
Dopo quell’episodio fu soltanto una l’occasione in cui Erik era tornato da Charles.
Era una notte non molto tempo dopo la crisi di Cuba, quando il telepate era appena uscito dalla sala operatoria per il suo quarto intervento nel tentativo di riparare ai danni del proiettile.
Erik aveva aspettato che Hank se ne andasse e, approfittando del fatto che il suo vecchio amico fosse ancora in coma farmacologico, si era avvicinato al suo letto e l’aveva guardato dormire sereno, con un espressione che contrastava con il suo viso contorto dal dolore di un senso di colpa ancora troppo fresco.
Un senso di colpa che lo rendeva così debole da farlo infuriare.
Gli mise una mano sulla spalla e chiuse un attimo gli occhi, non avrebbe mai voluto questo per lui ma non poteva fare nulla, nemmeno esprimergli il suo conforto.
Restò li giusto qualche secondo e poi uscì dall’ospedale dove Azazel lo aspettava per teleportarsi alla base.
Anche adesso come allora l’impulso di raggiungerlo era fortissimo, ma Erik lo respinse con tutto se stesso, non poteva andare da lui e soprattutto non voleva.
Ora non c’era più nessun sentimento di colpa insulso a fargli mettere da parte la sua rabbia per il telepate e sapeva che confrontarsi con lui in quel momento non avrebbe portato a nulla di buono, non dopo quello che si erano detti sulla spiaggia, non dopo che il confine era stato tracciato così nettamente. Ed inoltre era certo che nemmeno ora Charles fosse disposto a mettere da parte il suo sogno, nemmeno dopo quella che sembrava la battuta d’arresto definitiva.
Mandò a casa tutti e si rinchiuse nella sua stanza, pentendosi di aver anche solo per un istante provato compassione per Charles.
Fece levitare fino a se due sferette di metallo che iniziò a far roteare velocemente per alleviare lo stress.
Forse un giorno sarebbe stato disposto a perdonare il telepate, ma ora era troppo presto e le ferite bruciavano ancora troppo intensamente.
 
Era appena iniziato il mese di novembre quando Raven tornò alla base con una soffiata.
Il presidente JFK era un mutante e voleva annunciarlo al mondo, ma qualcuno stava pianificando di ucciderlo, probabilmente perché avevano scoperto il suo segreto.
Se il presidente avesse dichiarato di essere un mutante le cose sarebbero cambiate drasticamente, per il paese e poi anche per il mondo intero.
Forse le persone avrebbero iniziato a considerare la loro razza per quello che era davvero e non solo una minaccia alla continuità dell’esistenza dell’homo sapiens.
Per la prima volta Erik si trovò a dover pianificare come sventare un attentato invece che a prepararne uno. Rise dell’ironia della vita, quella sarebbe stata un’operazione che a Charles sarebbe piaciuta molto.
 
Mandò Raven e Azazel a cercare il maggior numero di informazioni possibili e, mentre i due svolgevano la parte di spionaggio lui elaborava il piano, cambiandolo e adattandolo mano a mano che i suoi informatori fornivano nuovi dati.
Non ci volle molto per capire che l’attentato sarebbe stato attuato il 22 novembre, in occasione della parata del presidente a Dallas.
Più difficoltoso fu scoprire il nome dei possibili attentatori e i possibili luoghi in cui l’esecuzione avrebbe potuto avere luogo.
Era il 21 novembre, l’ultimo giorno prima dell’attentato, quando Raven tornò alla base provvisoria che avevano allestito a Dallas con un nome e un luogo. Lee Harvey Oswald, vecchio deposito di libri.
Erik partì immediatamente per il deposito, avrebbe fermato quell’attentatore. Non poteva fallire. Impedì a chiunque di seguirlo, sapeva bene i rischi che correva e non voleva coinvolgere nessun’altro.
Se il presidente avesse fatto coming out le cose avrebbero davvero potuto cambiare in meglio, e forse per quella volta avrebbe dato ragione a Charles, forse per una volta la pace sarebbe davvero stata un’opzione.
Il mattino della parata era tutto perfetto, Erik si era appostato al secondo piano del deposito, come gli era stato detto da Raven e aspettava solo che Oswald si presentasse col suo fucile per sistemarlo una volta per tutte. Ucciderlo era sempre stato nei piani di Erik, un attentatore non viene scoraggiato da un omicidio fallito e il manipolatore di metalli non poteva permettersi di lasciargli la possibilità di ritentare.
Si appoggiò alla finestra e attese, calmo.
Fu solo quando vide avvicinarsi la macchina presidenziale che iniziò a preoccuparsi. Perché Oswald non era ancora li?
Poi fu questione di un attimo.
Il presidente che salutava la folla, seduto accanto alla sua first lady, uno sparo, proveniente dal piano di sopra, probabilmente le informazioni di Raven erano sbagliate.
-Dannazione!- urlò Erik con quanto fiato aveva in corpo, per poi stendere il braccio verso la finestra e tentare di deviare la pallottola il più velocemente possibile.
Il proiettile curvò, ma non abbastanza e il presidente fu colpito, molto probabilmente a morte.
Aveva fallito, di nuovo. I proiettili non erano mai stati il suo forte, appena un anno prima aveva causato la paralisi di Charles e ora la morte del presidente. Poco importava che non fosse stato lui a premere il grilleto, non era riuscito a salvarli e questo bastava a fare di lui il colpevole.
E ora? Che conseguenze avrebbe avuto il suo fallimento? Era stato un illuso a credere per un attimo che il suo sogno potesse coincidere di nuovo con quello di Charles, che la convivenza fosse anche solo lontanamente possibile. Ed erano stati gli umani a rovinare tutto, di nuovo.
Erik non fece nemmeno in tempo a sfogare la sua rabbia che qualcosa lo colpì alla testa da dietro, fece giusto in tempo a voltarsi e ad accorgersi che era stato un agente di polizia a colpirlo e poi perse i sensi.
L’ultimo pensiero coerente fu di nuovo per il telepate, chissà cosa avrebbe pensato di lui ora? L’avrebbe davvero creduto capace dell’assassino del presidente degli Stati Uniti?

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Capitolo 3
*** Falling ***


Un po' in ritardo, ma ecco il nuovo capitolo! Ringrazio Silvia (Magnetic_Ginger qui su efp) per le idee che sono emerse parlando insieme di questo capitolo mentre lo scrivevo e vi consiglio di tener d'occhio il suo profilo perchè ha in programma uno spin-off di questa missing moments, stay tuned.
Enjoy:)

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First, you think the worst
is a broken heart
2 anni dopo - Westchester
 
Per Hank non era stato affatto facile convivere con Charles in quei due anni a Westchester.
Non era riuscito a convincerlo in nessun modo ad uscire dalla villa o a vedere uno psichiatra e somministrargli psicofarmaci nelle sue condizioni non era assolutamente consigliabile.
Charles Xavier si era chiuso nel suo mondo e aveva tagliato tutto e tutti fuori, tranne la Bestia che, nonostante i ripetuti inviti dell’altro mutante, aveva rifiutato di andarsene e insisteva a volersi prendere cura di lui.
Ma le barriere che Charles aveva innalzato intorno a se stesso erano così alte e così robuste che, per quanto Hank potesse avvicinarvisi, non sarebbe mai riuscito ad attraversarle.
Era come se fosse ritornato a quando era bambino e, privo del controllo dei suoi poteri, credeva di essere solo un folle.
Hank ormai si era abituato alla nuova condizione di Charles e riusciva a distinguere bene gli alti e i bassi della sua condizione.
In quelli che la Bestia chiamava i momenti buoni il siero e lo scotch erano una costante, ma il primo era a dosaggi quasi normali e il secondo abbastanza moderato.
In quei periodi Hank riusciva anche a parlare con Charles, sempre che le conversazioni che avevano fossero definibili come “parlare”.
I dialoghi comprendevano la maggior parte delle volte Hank che cercava di convincere l’altro mutante a cercare aiuto o, quanto meno, ad ascoltarlo, dato che in tutto quel tempo la Bestia non era rimasta con le mani in mano  ma aveva studiato tutti i manuali di psicologia e di psichiatria reperibili nella biblioteca di Westchester.
E, dall’altra parte, un Charles freddo e irascibile, che puntualmente diceva di cavarsela benissimo da solo e che non aveva bisogno di niente e di nessuno.
L’unica altra attività che il telepate svolgeva consisteva nel guardare vecchie foto del breve periodo in cui Erik e Raven erano con lui insieme ai ragazzi e perdersi nel viale dei ricordi. Era in quei momenti di solito che beveva fino ad addormentarsi. E Hank, come sempre, passava a mettergli addosso una coperta e a mettere via quelle foto, sperando inutilmente che Charles le lasciasse perdere una volta per tutte. Vederle faceva male anche a lui, ma sapeva che quei tempi non sarebbero mai tornati, e farsi del male tormentandosi coi ricordi non sarebbe servito a riportarli indietro.
 
What’s gonna kill you
is the second part
 
Poi c’erano i momenti brutti.
In quei giorni ogni barlume di Charles scompariva nel vortice del dolore lasciando a sua rappresentanza nel mondo esterno nient’altro che l’equivalente di un guscio vuoto.
A volte era qualcosa di particolare a scatenare gli episodi, altre volte erano totalmente casuali.
Semplicemente avvenivano e, da un giorno all’altro, Charles scompariva andando a rintanarsi in qualche stanza dell’enorme villa. Il più delle volte tornava in quella camera dove era iniziato tutto, altre Hank non riusciva a trovarlo per giorni. Quel posto era immenso e Charles sapeva come non farsi trovare se davvero voleva restare solo.
Quei periodi erano terribili.
Le dosi tutt’altro che sotto controllo e lo scotch che scorreva a fiumi.
Una volta Hank si era rifiutato di comprarne altro, ma alla fine aveva ceduto, come sempre.
Praticamente ormai usciva solo per fare la spesa.
Non voleva lasciare Charles da solo un momento più del necessario.
Per quanto cercarlo fosse inutile e parlarci ancora meno, voleva illudersi che restando alla villa sarebbe potuto essere d’aiuto all’altro.
Più di una volta si era fermato a guardare il corpo inerte di Charles e a pensare alla sua mente, al suo vero se stesso, sepolta sotto una montagna di bottiglie di scotch e fiale vuote.
Charles era ancora li, da qualche parte, lo sapeva.
Ma se c’era una cosa che aveva capito in quei due anni era che se mai ne sarebbe uscito sarebbe dovuto partire da lui stesso e da nessun’altro.
Per questo continuava a comprare lo scotch e a sintetizzare il siero. Tanto, finchè non si sarebbe convinto da solo a smettere, se lui non gli avesse più procurato il necessario sarebbe andato a cercarselo altrove.
E per quanto le sue condizioni alla villa fossero tremende sicuramente fuori sarebbero state esponenzialmente peggiori. Almeno li poteva avere l’illusione di riuscire a tenerlo d’occhio.
Vegliare su di lui era il suo compito e, alla fine, anche se era stato un ruolo imposto dalle circostanze non lo sentiva come un obbligo, o un peso.
Perché se era vero che Charles Xavier aveva chiuso il mondo fuori anche il mondo sembrava essersi dimenticato di lui.
Non una parola da Raven, in tre anni, nemmeno quando Erik era stato arrestato per aver fatto quello che aveva fatto e nemmeno Moira o i ragazzi si facevano vivi da tempo.
Era tutto quello che aveva e non lo avrebbe abbandonato, mai.
 
 
 
 
 
 
And the third is when
your world splits down the middle
 
Uno dei giorni che Hank avrebbe ricordato per sempre fu il giorno in cui Charles trovò la lettera in cui l’esercito americano avvertiva che Alex Summers era stato richiamato per partecipare alla guerra in Vietnam.
La Bestia aveva nascosto bene quella missiva, pensando di parlarne a Charles quando sarebbe stato in grado di reggere la notizia.
L’aveva messa tra le carte che stavano vicino al telefono nell’ingresso, perché nessuno chiamava il numero della villa da più di un anno e inoltre si sarebbe mescolata benissimo al resto delle scartoffie. Quale posto migliore per nascondere un albero di una foresta?
Quello che Hank non aveva messo in conto era che un giorno di qualche mese dopo quel telefono squillò.
Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che qualcuno aveva chiamato la villa che lo squillo dell’apparecchio prese di sorpresa la Bestia, che rispose subito dal telefono che aveva in laboratorio. Mai si sarebbe immaginato che anche Charles, sentendo lo squillo, fosse uscito dalla sua stanza per ascoltare la chiamata da un altro apparecchio.
Tanto meno si sarebbe immaginato che mentre ascoltava si sarebbe messo a curiosare tra quelle vecchie carte che nessuno toccava da anni.
Non appena Hank si accorse che a parlare era Raven ne fu sollevato, pensò, sperò che avesse intenzione di parlare con Charles, non in quel momento, ovviamente, ma era certo che riprendere i rapporti con lei avrebbe fatto bene all’ex telepate. Ringraziò che in quel momento Charles non fosse in grado di usare i suoi poteri e, ignorando il fatto che stesse comunque ascoltando, lasciò parlare la ragazza con un sorriso sul viso, il primo dopo tanto tempo.
Quando la voce all’altro capo del telefono però svelò le vere intenzioni di quella chiamata il cuore di Hank diventò più pesante e il sorriso se ne andò con la velocità con cui era arrivato.
Raven si era limitata a poche parole, si era accertata di aver chiamato il numero giusto e aveva comunicato quello che doveva comunicare.
-Sean è morto-
Aveva solo detto, senza aggiungere nulla ne aspettare risposta e aveva riagganciato.
Erano due ora le brutte notizie che il mutante avrebbe dovuto dare a Charles, prima o poi, e ancora non riusciva lui stesso ad accettarle.
Si lasciò cadere un attimo a sedere, nel laboratorio e una lacrima gli scivolò lungo la guancia.
Dopotutto Sean era stato un suo compagno e un suo amico, ed era stanco di essere lui quello forte, alla villa.
In quel momento avrebbe tanto voluto che i ruoli fossero invertiti, com’era giusto che fosse, e che Charles, entrando dalla porta, lo avesse visto soffrire per la morte di un suo compagno e lo avesse consolato, condividendo il suo dolore e aiutandolo ad andare avanti. Era Charles il professore e lui lo studente, perchè doveva essere lui a portare il peso di quelle notizie per entrambi?
Ma le cose non erano così e pensarci lo avrebbe solo fatto stare peggio.
Così si alzò e decise di andare a cercare Charles e parlargli di Sean, aveva il diritto di saperlo e lo avrebbe saputo, a costo di tenerlo legato da qualche parte per impedirgli di fare cose stupide.
La decisione negli occhi di Hank si trasformò in orrore quando raggiunse il corridoio notò qualcosa che non avrebbe mai voluto notare.
La lettera che aveva nascosto era aperta e accartocciata in mezzo al corridoio e la cornetta del telefono penzolava abbandonata a se stessa.
Charles aveva letto.
E, ancora peggio, aveva sentito.
Il suo sforzo di proteggerlo si era rivelato inutile e, anzi, aveva solo peggiorato le cose.
Dio solo sapeva come avrebbe potuto reagire l’altro mutante alla combinazione di quelle due notizie.
Per un attimo il giovane fu colto dalla rabbia, ma riuscì a controllarsi, ora la sua priorità era trovare Charles e sapeva benissimo che non sarebbe stato affatto semplice.
Fece il giro della villa controllando nei posti in cui andava a rintanarsi più spesso ma trovò solo un gran disordine e vuoti in grandi quantità.
Controllò nei posti più strani e nei meandri dei sotterranei della mansion senza pensare alla risposta più ovvia.
Era ormai al terzo giro quando gli venne l’illuminazione e corse in quella che era la stanza di Sean.
Stupido Hank, stupido Hank si ripetè, mentre giungeva davanti alla pesante porta di legno.
Era già pronto ad abbatterla ma non ce ne fu bisogno, Charles non si era  nemmeno preoccupato di chiuderla a chiave.
Nessuna traccia del mutante e Hank, deluso, stava per andare a controllare anche nella vecchia stanza di Havok quando sentì un rumore provenire dal bagno della camera.
Spalancò immediatamente la porta e la scena che si trovò davanti quando vide quello che era rimasto del professor Xavier lo lasciò senza fiato, per la seconda volta in quel giorno.
Sapeva le percentuali, sapeva che sarebbe potuto accadere.
Avrebbe dovuto aspettarselo.
70%.
70% di probabilità che accadesse di nuovo, eppure Hank l’aveva considerata una possibilità così remota da stare tranquillo, una volta eliminati tutti gli oggetti che sarebbero stati utili allo scopo dalla villa.
E poi cercava, al massimo delle sue possibilità, di sapere sempre dove fosse l’ex telepate, nonostante avesse chiuso ermeticamente tutte le finestre ad eccezione di quelle del laboratorio.
Ma quella volta aveva fallito.
Corse immediatamente verso Charles, che giaceva semi-incosciente in una pozza del suo stesso sangue, in mano ancora una grossa scheggia di vetro dello specchio che aveva rotto, probabilmente colpendolo per rabbia.
I pezzi rimasti attaccati al muro riflettevano la scena in modo distorto e inquietante, rendendo i loro visi deformati nella rappresentazione diurna di un incubo.
Hank si gettò su di lui e lo prese tra le braccia, stringendogli i polsi con tutta la forza di cui era capace per fermare l’emorragia.
-Hank…-
-Taci. Non parlare. Non osare rivolgermi la parola.- disse stringendolo più forte e pensando a come risolvere quella situazione.
Sapeva cosa significavano quelle notizie per Charles.
Un altro fallimento, l’ennesimo di una lunga serie. Erano i suoi ragazzi, avrebbe dovuto proteggerli.
Non aveva bisogno di sentirselo dire e tantomeno ne aveva voglia.
Hank sapeva che non era affatto colpa del telepate quello che era successo ma per lui, apprendere quelle cose in quel modo e in quella situazione, lo aveva distrutto. A nulla sarebbe valso spiegarglielo perché non lo avrebbe ascoltato o, quanto meno, non gli avrebbe creduto.
-Lasciami solo. È meglio per tutti che io sia solo.- balbettò ancora
-Non sei solo, Charles. E so che non mi ascolterai, ma non è colpa tua quello che è successo, capito?- disse mentre prendeva degli asciugamani per fermare il sangue, aspettando una risposta che non arrivò.
Charles aveva perso definitivamente i sensi e Hank si disse che era meglio sbrigarsi, prima che quel suo patetico tentativo di suicidio andasse a buon fine.
-Charles, perché non mi chiedi aiuto invece di arrivare a questo?- chiese al corpo incosciente di quello che avrebbe dovuto essere il suo mentore. Le ferite erano trasversali, e Hank sapeva che se qualcuno vuole davvero togliersi la vita non si ferisce a quel modo. Quello era solo un grido d’aiuto, per quanto stupido e disperato.
-Troverai la luce alla fine del tunnel, te lo prometto-
Finì di medicarlo al meglio delle sue possibilità e lo portò, ancora svenuto, nella sua camera.
Lo lasciò sul letto e fece per andarsene quando, girandosi per chiudere la porta, vide una lacrima scendergli lungo la guancia mentre si raggomitolava nel panno che gli aveva appoggiato sopra come coperta, cercando di coprirsi il più possibile i polsi fasciati stretti.
Mise nuovamente da parte la rabbia che provava verso Charles e si sdraiò accanto a lui, senza dire niente.
Era solo li, per Charles, come sempre.
-Grazie-
Quell’unica parola ruppe per un istante il silenzio che regnava nella stanza ma bastò per far comparire sul viso della bestia una parvenza di sorriso. Forse i sacrifici che stava facendo per Charles Francis Xavier non erano totalmente vani.
Non rispose e nemmeno Charles disse più nulla, restarono solo li a condividere silenziosamente il dolore per il loro amico in guerra e per il loro compagno caduto.
 
Fourth, you’re gonna think
that you’ve fixed yourself
 
 
Qualche mese dopo
 
Il periodo successivo a quell’episodio fu relativamente migliore.
Charles aveva deciso, anche se molto riluttante, di accettare un po’ dell’aiuto di Hank e di rimettersi in sesto.
Gradualmente aveva ridotto le dosi di scotch a un livello accettabile e con il siero stava rispettando la tabella di diminuzione delle dosi decisa dall’altro mutante.
Avrebbe riavuto indietro i suoi poteri, dopo un tempo che gli parve essere infinito e avrebbe di nuovo detto addio alle gambe.
Ma c’era una cosa che Charles aveva in mente e che Hank non sapeva, una cosa per la quale avrebbe sopportato perfino le voci nella sua testa. Una cosa che doveva fare, se davvero avesse voluto lasciarsi tutta quella storia alle spalle.
Il primo giorno in cui Charles rimase senza siero fu molto dura sopportare le voci nella sua testa.
Hank ricorderà per sempre il momento esatto in cui le sue gambe cedettero e Charles, accasciandosi al suolo, iniziò a stringersi la testa con tutta la sua forza.
Ricorderà di come gli era corso incontro e di come il telepate l’avesse stretto forte, chiedendogli un'altra dose, rinunciando al suo progetto. E di come Hank fosse stato fermo nella sua decisione, nonostante le smorfie di sofferenza dell’altro e lo sguardo di terrore.
-Passerà, Charles. Devi solo riprendere il controllo- gli disse, e così fu.
Già il giorno dopo andava meglio. Non aveva ancora ripreso il controllo totale sui suoi poteri, ma riusciva a gestirli abbastanza dal compiere quello che si era prefissato, ignorando che sarebbe stato un grandissimo errore.
-Charles, sei completamente sobrio solo da un giorno, non puoi usare Cerebro- lo rimproverò Hank, quando lo vide andare verso i sotterranei.
-Sto bene, Hank-
-Ammettendo anche che tu riesca ad usarlo, cosa avresti intenzione di farci?-
-Una cosa che devo fare- il sospetto che Hank stava coltivando diventò realtà. No, non poteva davvero essere così stupido. Non era il momento di affrontarlo. Non ora. Non dopo che era riuscito così faticosamente a trovare un equilibrio.
-Charles no-
-Se vuoi che metta una pietra sopra a tutta questa storia devo farlo, lo sai-
-Si ma non è questo il momento e.. nulla di quello che direi può fermarti vero?-
-No-
Consapevole che non avrebbe potuto far nulla per impedirgli di fare quanto aveva in mente lo lasciò fare, conscio che avrebbe commesso un grave errore.
Lo accompagnò fino alla stanza di Cerebro che lo salutò con un metallico “buongiorno professore” che nessuno dei due sentiva da anni.
La X di luce si spense e le porte si aprirono lasciando entrare Charles, mentre Hank si sedeva appena fuori, in attesa.
 
Fifth, you see them out
with someone else
 
Charles era solo, nella grande stanza sferica di Cerebro.
Si infilò il casco e accese i comandi.
L’unica cosa che sentì fu un dolore allucinante alla testa e l’amplificarsi delle voci. Il primo istinto fu di mollare tutto e lasciar perdere, ma lo combattè, sarebbe andato fino in fondo sta volta.
I contatori schizzarono al massimo, ma Charles si concentrò e riuscì a normalizzare l’apparecchiatura.
Prima di fare quello che aveva in mente decise di controllare fino a che punto poteva spingersi.
Cercò i suoi studenti, sparsi per il mondo.
Vide Havok combattere in Vietnam e una stretta al cuore lo colse.
Era solo un ragazzo, il suo posto sarebbe stato nella sua scuola e non su un campo di battaglia.
Poi cercò Angel e la vide in compagnia di alcuni individui poco raccomandabili, probabilmente strafatta.
Aveva cercato di salvarla da quella vita, ma aveva fallito.
Un altro fallimento per il professor Xavier, evviva. Si disse, prima di passare a Raven.
Raven, sua sorella, dalla quale non sentiva una parola da più di tre anni ora dirigeva la confraternita dei mutanti malvagi insieme ad altri ragazzi mai visti. Uno sembrava una qualche specie di telepate e l’altro assomigliava vagamente a un rospo.
Non riuscì a capire bene la loro mutazione, era da troppo poco che aveva ricominciato a usare i suoi poteri.
La tentazione di parlare era grande, ma si trattenne. Non era ora il momento, no. Ora doveva pareggiare i conti con qualcun altro.
Ci mise molto a trovarlo, ma alla fine riuscì a localizzarlo, molti piani sotto il pentagono, in una prigione senza nessun oggetto di metallo per almeno due piani.
 
Sixth, is when you admit
you may have fucked up a little
 
Charles si concentrò al massimo per riuscire a spedire una sua immagine mentale in quella cella di massima sicurezza.
-Ciao, Erik.-
L’altro mutante lo guardò come se avesse visto un fantasma.
-Charles?-
-Dobbiamo parlare-

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Capitolo 4
*** Regretting ***


Eccomi con il nuovo capitolo. Finalmente Charles ha trovato il coraggio di parlare con Erik, ma gli sarà davvero d'aiuto o ha ragione Hank, e sta solo per commettere un grave sbaglio?  Buona lettura e scusate il ritardo, ma tra il gishwhes e le vacanze in posti sperduti senza wi-fi mi sono ridotta ad aggiornarla solo ora:) Alla fine ci saranno un paio di note, perchè la storia è ambientata nel movieverse ma ci sono un paio di riferimenti ad eventi narrati per ora solo nel fumetto, quindi non preoccupatevi se qualcosa non vi è subito chiaro.





Don’t know what’s going on
don’t know what went wrong
feels like an hundred years I
still can’t believe you’re gone
so I’ll stay up all night
with this bloodshot eyes
while these walls surround me
with the story of our life
 

-Di tutte le persone, Charles, tu sei l’ultimo che mi aspettavo di vedere-
-Credimi, non sei il solo che avrebbe evitato volentieri questa conversazione- rispose Charles, guardandolo con una cattiveria che non gli si addiceva per nulla, -ma ho bisogno di mettere una pietra sopra a tutto quanto e non posso farlo se prima non chiudo i conti tra di noi- le braccia lungo i fianchi, i pugni stretti.
-Più che per parlare sembra che tu sia venuto per prendermi a pugni- ghignò Erik.
-Non tentarmi. Non sono più l’uomo che ero, Erik.-
Poi d’improvviso l’ambiente cambiò un attimo, veloce come un flash, per poi tornare lo stesso.
-Cos’è successo, un altro dei tuoi trucchetti?- disse mimando un gesto con la mano.
-Ho spostato la conversazione all’interno della tua mente, così le guardie non si insospettiranno vedendoti parlare da solo, ma mi ci è voluto più tempo del previsto- rispose Charles, per poi tirare un pugno in faccia a Erik, senza nessun preavviso. – E questo è un altro dei vantaggi -
L’altro rimase un attimo senza parole, ma decise di non commentare il gesto.
-Una volta ci avresti messo un secondo a entrare nella mia mente- disse invece.
-Una volta non ero stato senza poteri per più di due anni- per la seconda volta il manipolatore di metalli rimase un momento interdetto.
-Charles, cos’hai fatto?-
-Nulla che ti possa interessare. E poi non siamo qui per parlare di me.-
disse Charles risistemandosi i capelli che gli erano finiti sugli occhi.
Erik rimase in silenzio, pensieroso. Il suo vecchio amico era diverso, cambiato, ma ancora non riusciva a capire cosa c’era di sbagliato.
Ma qualcosa c’era, ne era certo, e non era solo il suo aspetto a impensierirlo, la sua espressione, il suo sguardo, erano così diversi da quelli a cui era abituato.
-Erik, perché?- Chiese Charles, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
-Perché, cosa?-
-Non prendermi per stupido, sai benissimo cosa- disse aprendo le braccia ad indicare la stanza di massima sicurezza che si era impegnato a ricostruire anche nella mente di Erik.
-Non l’ho ucciso io- disse calmo.
Charles lo fulminò con lo sguardo.
-Dico davvero, Charles-
-La pallottola ha curvato-
-Perché ho cercato di salvarlo!- ribadì, mentre la rabbia iniziava a farsi strada nella sua voce.
-Vorrei tanto crederti- disse il telepate mentre la rabbia lasciava per un attimo spazio alla tristezza nei suoi occhi blu.
-E’ la verità, Charles-
-E perché avresti tentato di salvarlo, sentiamo-
-Perché era uno di noi- disse abbassando lo sguardo.
Charles scoppiò a ridere, di una risata che poco aveva a che fare con la felicità.
-Il presidente era un mutante?- chiese incredulo, portandosi una mano alla fronte.
-Si. L’unica cosa di cui sono colpevole è di aver lottato per quelli come noi!- sbottò Erik, lasciando uscire la rabbia che nascondeva dietro la sua fredda calma.
-Io stavo lottando per quelli come noi, Erik! Con la mia scuola i mutanti avrebbero finalmente trovato il loro posto nella società e non sarebbero stati temuti. Sarebbero cresciuti in un ambiente protetto e avrebbero imparato a controllare i loro poteri senza ferire nessuno, così da far sentire gli umani sicuri. Invece grazie ai tuoi atti terroristici gli umani hanno sempre più paura di noi. Oddio Erik, pensano addirittura che tu abbia ucciso il presidente.- applaudì lentamente, fissando negli occhi quello che una volta era come un fratello per lui, lo sguardo colmo di disperazione e rimpianti.
-Ah si? E dov’eri negli ultimi tre anni eh? Dov’eri mentre i tuoi preziosi studenti sono stati mandati a morire in Vientnam? Banshee è morto, Havok in guerra. E non sono i soli. Emma è stata uccisa e Azazel è scomparso, si sospetta sia stato rapito per condurre degli esperimenti. Esperimenti, Charles, esperimenti sui tuoi simili.- sibilò il manipolatore di metalli.
Charles sentì il vuoto formarsi nel suo stomaco. Azazel ed Emma erano nemici ma non avrebbe mai desiderato la loro morte o tanto meno che venissero usati come cavie da laboratorio. Abbassò lo sguardo non sapendo come ribattere, i pugni serrati.
-Non hai niente da dire adesso eh?-
-Lo sapevo. Di Sean e Alex.- si limitò a dire.
-Dovevano essere al sicuro, nella tua scuola. Che tu hai chiuso per darti a cosa? Guardati sembri un…- Erik si interruppe quando, mentre squadrava Charles per trovare un aggettivo adatto a descriverlo, aveva notato le cicatrici sui polsi.
-Charles, dimmi che non hai fatto quello che penso- disse con un tono misto tra rabbia e preoccupazione.
-Ti ripeto che non siamo qui per parlare di me- rispose, tirandosi il più giù possibile le maniche della camicia e stringendo i polsini tra le mani, ma Erik non lo ascoltò e gli prese un polso tirandogli su con forza la manica della camicia fin quasi alla spalla, tenendolo fermo contro il muro con l’altro braccio per impedirgli di divincolarsi.
-Che cosa cazzo ti è passato per la mente?- disse guardando le cicatrici sui polsi prima e i fori a metà dell’avambraccio poi.
-Ci hai abbandonati, ci hai abbandonati tutti per chiuderti in quella villa a farti e ad autocommiserarti! Sei rimasto li, a crogiolarti nella tua depressione mentre la nostra gente veniva uccisa!- disse spingendo il braccio con cui lo bloccava più forte per poi lasciarlo andare.
-Non hai nessun diritto di parlarmi così!- urlò scosso Charles, tirandosi di nuovo giù la manica della camicia a coprire il suo maldestro tentativo di togliersi la vita. -Non sono stato io ad andarmene, tre anni fa, su quella spiaggia a Cuba. Ti sei preso tutto quanto, tutto quello a cui tenevo, e sei andato via lasciandomi solo-
-No Charles, tu mi hai lasciato solo, quando mi avevi promesso che non lo sarei stato mai più. Ti ho chiesto di restare al mio fianco, e di aiutarmi, aiutarmi a proteggere la nostra specie, i nostri fratelli mutanti e tu mi hai voltato le spalle. Non appena hai visto com’è davvero il mondo hai preferito rintanarti di nuovo nella tua stupida utopia irrealizzabile. Si è visto a cosa ha portato- disse, indicando l’altro con disprezzo –E non azzardarti a parlarmi di perdere tutto. Cosa ne vuoi sapere tu di cosa vuol dire perdere tutto? E io non mi sono mai ridotto così, ne ho mai tentato di.. dio, non riesco nemmeno a dirlo-
-Ho avuto le mie ragioni. I ragazzi, Erik, è stato come perdere i miei figli! E..-
-Anche io ho perso una figlia, ma non mi nascondo dietro Anya per giustificare i miei errori!- urlò Erik, resistendo all’impulso di saltare adosso a Charles e ricambiare il pugno che gli aveva assestato poco prima.
-E per il resto.. – si toccò il braccio all’altezza del gomito, senza rispondere alla provocazione dell’altro, – ho dovuto farlo. Per poter camminare, per..-
-Hai rinunciato ai tuoi poteri per più di tre anni per poter camminare?- lo interruppe Erik.
-Ho rinunciato ai miei poteri per poter pensare, per poter dorm..- si interruppe guardandolo truce
–tanto cosa ti interessa, sei tu l’unico che sa cosa vuol dire soffrire qui!- gli urlò, con una voce così piena di rabbia che mai Erik aveva sentito prima.
-Non ho mai detto questo-
-Ah no? Vuoi sapere come ci si sente? Quando tutti i tuoi sogni vanno in frantumi? Vuoi sentirlo?- Charles non diede all’altro mutante il tempo di rispondere che gli si lanciò contro prendendogli la testa tra le mani e stringendogli le tempie tra le dita.
In un momento Charles gli riversò nella testa tutte le emozioni che aveva provato negli ultimi anni.
La fredda tristezza di quando, a Cuba, aveva raggiunto la consapevolezza di aver fallito nel salvarlo dai suoi demoni. L’ottimismo, che aveva cercato comunque di dimostrare dopo che lui e Raven se ne erano andati. La tristezza profonda di quelle notti in cui comunque non poteva evitare di pensare a tutto quanto.
Il dolore di aver perso le gambe, gli ospedali, gli interventi. La straziante disperazione di quando aveva dovuto chiudere la scuola, così profonda che sembrava divorarlo dall’interno.
Erik restava li, mentre Charles gli riempiva la testa di sentimenti e immagini, sensazioni, ricordi.
Poi vide il nero della depressione e i ricordi sfuocati dall’alcol e dal siero. Lo vide stare meglio e poi ricadere in basso mentre scopriva di Sean e di Alex. La voragine di dolore riaprirsi nel suo cuore e sentì i suoi polsi fargli male mentre cercava di buttare fuori da se quel dolore schiacciante.
Ogni cosa la provava sulla sua pelle, come se fosse lui a vivere quei momenti e non fossero solo ricordi proiettati nella sua mente.
Poi ci fu qualcos’altro, qualcosa che non c’entrava con il resto.
Fu come un flash e Erik si ritrovò a guardare una scena che non capiva e a provare un dolore diverso. C’era un bambino, rintanato in un angolo e un uomo adulto che cercava di farlo alzare. Quando finalmente l’uomo riuscì nel suo intento il bambino si mise a piangere e l’uomo iniziò a picchiarlo.
La scena cambiò ancora, l’uomo ora era in piedi vicino a un macchinario e il bambino era legato su una parte di questo. L’uomo stava per mettergli in testa una specie di casco pieno di elettrodi e il bambino urlava, piangeva ma l’uomo non dava segno di smettere. E la paura, la paura era così intensa da scuotere perfino un uomo adulto come lui.
Poi, così come era iniziata la connessione psionica fu bruscamente interrotta.
Erik si ritrovò a guardare un Charles sconvolto. Si sentì la faccia umida, si passò una mano sulla guancia. Aveva, pianto?
-Charles, eri tu quel bambino?- chiese Erik
-Non avresti dovuto vedere quelle cose- disse indietreggiando inconsciamente e stringendosi nelle spalle.- non ho riguadagnato abbastanza controllo sui miei poteri-
-Perché non me ne hai mai parlato?-
-E’ stato un errore venire qui. E’ stato un tutto un errore. Dimentica quello che hai visto- disse, la voce nervosa e lo sguardo basso.
-E’ il tuo passato, non puoi rinnegarlo. Così come non puoi rinnegare quello che ti è successo negli ultimi anni. Devi accettarlo o non riuscirai mai ad andare avanti.- alzò inconsciamente il braccio con tatuato il suo numero da prigioniero.
-Non posso farlo, Erik. Non sono più l’uomo che ero. Non sono abbastanza forte- disse fissandolo negli occhi con lo sguardo blu carico di sofferenza, il sorriso triste. – Forse avrei dovuto lasciarti annegare quel giorno, a quest’ora avrei risolto tutti i miei problemi.-  disse con la stessa fredda consapevolezza di quando l’aveva lasciato andare la prima volta.
-Charles, so che non lo pensi davvero- disse Erik, sforzando un sorriso, fingendo che quelle parole non l’avessero nemmeno sfiorato quando invece erano state come una pugnalata al cuore.
-Ormai quel che è stato è stato, ma per il bene di entrambi, devi dimenticare questo incontro. Addio Erik-
Si avvicinò all’altro ancora una volta e appoggiò la fronte alla sua per aumentare il contatto telepatico, immobilizzandolo con i suoi poteri prima che potesse fare qualcosa per impedirglielo.
-Charles, no-
-Addio- bisbigliò ancora mentre una luce bianca avvolgeva l’ambiente, accompagnando il telepate fuori dalla mente dell’altro mutante.
-Addio-
 
 
 
 
I feel so much better
Now that you're gone forever
I tell myself that I don't miss you at all
I'm not lying, denying that I feel so much better now
That you're gone forever

 
Note:
1) Nel fumetto è canon che il padre di Charles, quando questi era bambino, lo picchiasse e facesse esperimenti su di lui.
2) Erik, tra la fuga dal campo e il primo incontro con Charles si fa una vita con Magda da cui ha una figlia, Anya. Anya muore nell'incedio appiccato alla casa di Erik da alcuni uomini per questioni di soldi e perchè avevano scoperto che lui era un mutante. Erik tenta invano di salvarla ed in quel momento subisce la piena attivazione dei suoi poteri uccidendo tutti  i colpevoli. La moglie, sconvolta, lo definisce un mostro e fugge abbandonandolo, già incinta di Pietro e Wanda.

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