La Bambina dagli Occhi Verdi

di Sen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Notte Senza Luna ***
Capitolo 2: *** Le Onde dell'Egeo ***
Capitolo 3: *** Il Fiore e la Spada ***
Capitolo 4: *** La Luce e L'Ombra ***
Capitolo 5: *** Anche Solo per una Volta ***
Capitolo 6: *** Cosmic Love ***
Capitolo 7: *** Per Tagliare la Testa al Vento ***
Capitolo 8: *** Il Sogno e Lo Specchio ***
Capitolo 9: *** La Legge del Cuore ***
Capitolo 10: *** Il Profumo della Notte ***
Capitolo 11: *** Il Vento dal Mare ***
Capitolo 12: *** Forte, Fortissimo ***
Capitolo 13: *** Κεχαριτωμένη - Piena di Grazia ***
Capitolo 14: *** Sul tuo Viso ***



Capitolo 1
*** Notte Senza Luna ***


Notte Senza Luna

Il fumo denso della sigaretta saliva al cielo lentamente.

La notte scura, di quell’indaco marcato, rendeva le stelle iridescenti e fredde.

La luna era scomparsa, nera come un disco vuoto, una mancanza necessaria.

Lei socchiuse gli occhi bistrati, lunghi e scuri, come quelli di un gatto.

Le labbra rosse e lucide avevano lasciato un segno sul filtro bianco e sottile.

 

“Allora, io vado.”

lei non si voltò nemmeno verso quella voce senza corpo, così maledettamente identica a tutte le altre.

“Lascia i soldi e sparisci, pivello.”

concluse sbuffano sonoramente, senza distogliere lo sguardo dalle onde calme e dal cielo scuro.

Il rumore della porta che si chiudeva le concesse un sorriso stanco e la consapevole, rincuorante certezza che per la serata aveva terminato.

Leonidas, si chiamava, era un soldato semplice del Santuario, appena vent’anni: lei era probabilmente stata un mezzo per liberarsi di ciò che significava essere ancora un ragazzo, in un mondo di uomini fatti.

Nonostante il cuore indurito e gli occhi severi, Eranthe ricordava il nome di ognuno, di tutti loro.

Il nome e i loro occhi.

 

Le luci di Rodorio sembravano ancora più luminose, dopo quella giornata di vento, brillavano facendo invidia alle stelle stesse, ai suoi occhi, illuminando il cielo di quell’alone rossastro che sfumava nel nero assoluto.

Al di là del promontorio, dove c’erano i templi di quella strana società parallela fatta di dei ed eroi, invece, la luce si spegneva di colpo, inghiottita dalle tenebre fittizie create dal cosmo di Athena stessa.

Lei era una dei testimoni di questo mondo oltre il mondo, ma non vi partecipava nemmeno per sbaglio.

 

Sorrise stanca, accendendo il bollitore.

Lei non era come Agasha, del negozio di fiori all’angolo, che dal tempio andava e veniva leggera come la pioggia d’estate, recando tutte le volte una rosa come dono di uno dei cavalieri della casta più potente.

Gli occhi pieni di quella speranza già delusa che condivideva con tutte coloro che amavano un Santo d’Oro.

Non era come le donne della casa di piacere di Melina, al centro esatto del quartiere più in voga di Rodorio, belle come divinità e spregiudicate come ninfe dei boschi, visitate ogni sera da alti funzionari del Santuario o da quegli stessi guerrieri che recavano con loro la forza delle stelle, lasciando peraltro laute mance.

 

Non che la zia Melina non le avesse mai proposto di arruolarsi nelle fila del suo personale esercito:

“Noi siamo importanti, sai mia cara?” sbuffava sonora investendola con una nuvola di fumo azzurro e denso, mentre le versava una tazza di caffè che le ricordava vagamente il pentolone che la nonna usava per preparare le zuppe.

“Se non ci fossimo noi, mi dici tutti quei ragazzoni come farebbero a sfogare i loro desideri?” continuava con la precisione di un primario “Sono uomini, per Athena! Pieni zeppi di testosterone, alimentato dall’adrenalina delle battaglie.”

 

La guardava con la coda degli occhi, azzurrissimi, sfidandola apertamente a ribattere alcunché

“Dovevi vedere ieri sera la povera Francine, la ragazza nuova che viene da Parigi, era stravolta!” diede in un plateale sospiro con tanto di mano mollemente appoggiata alla fronte e occhi rivolti al cielo “Tuuutta la notte è stato da lei El Cid, quel mascalzone spagnolo.”

Lei sorseggiò cauta il caffè sorridendo, chiedendosi come mai la zia si stupisse ancora: quei due erano innamorati peggio di due ragazzini. Era pronta a scommettere qualsiasi cifra che, prima della fine dell’anno la piccola francese uscisse dalla casa dei piaceri per prendere posto definitivo tra le fila delle donne del Santuario.

 

“E tua madre” Eranthe poteva scorgere le lacrime luccicare negli occhi della donna, affondò gli occhi scuri nel caffè imponendosi di non scoppiare in una sonora risata.

Ecco ora Melina, lo sapeva, si sarebbe lanciata in una lunga, estenuante filippica sulla compianta madre.

“Tua madre sarebbe fiera di te, piccolo fiore. Sai che è stata lei a convincermi ad aprire questo luogo” fece un ampio gesto con il braccio

“Prima ero solo una battona da incrocio, invece ora, guardami” la sigaretta oscillò pericolosamente vicina al suo naso “ora noi siamo di-vi-ni-tà” scandì come una maestra.

 

“Poi è arrivato lui, dal nulla. Tuo padre” sputò come se si trattasse di una bestemmia “che le ha riempito il ventre e la testa di stronzate.” Fece una lunga tirata macchiando il filtro di altro rossetto.

“Come si fa, a lasciare indietro la propria figlia per seguire un uomo!” concluse schiacciando la sigaretta in un posacenere e stringendole il mento tra le mani. Eranthe tremò sotto i suoi occhi indagatori

“Sei tutta uguale a tuo padre” sospirò e lei credette per un attimo che si trattasse di un insulto bello e buono.

“Altro buono a nulla che ha lasciato indietro la sua armatura! Si è mai sentito?”

 

Melina si alzò di colpo scomparendo dietro la tenda di perline rosse che delimitava la piccola cucina delle sue stanze private

“Surplice, zia si chiama Surplice” bofonchiò lei da dentro la tazza di caffè.

“Come vuoi, come vuoi” asserì l’altra dalla cucina comparendo poco dopo con un piatto di baklavà.

“Ma pensaci, per favore.” le prese la mano in una morsa fredda e terribile “Stai in quella casupola al limitare del paese, da sola.” sospirò “con quella sor..sur...COSA dentro alla cantina.” scosse il capo facendo tintinnare la chincaglieria che aveva addosso “Che situazione disdicevole!”

La lasciò andare ce l’ora di cena era passata da un pezzo, salutandola con la stessa intensità di una moglie che commiata un soldato in partenza per il fronte.

“Salutami la cara nonnina, Eranthe, mi raccomando! E pensa a quello che ti ho detto. Qui avrai sempre un posto e non dovrai più sopportare qui soldati brufolosi.”

 

Ma lei non aveva mai accettato.

Lei non apparteneva a quel mondo dorato, lei non apparteneva a nessun mondo, solo a se stessa.

E poi non avrebbe fatto la puttana per tutta la vita.

Stava risparmiando del denaro per aprire un piccolo bar, così che, un domani, sua figlia potesse avere una qualche forma di impiego.

Non voleva assolutamente che la piccola Dimitra seguisse le sue orme, come avevano fatto lei e sua madre prima di lei.

Sorrise stanca mentre il caffè raffreddava e la sigaretta formava un arco perfetto lanciata oltre la balconata.

 

La bambina dagli occhi verdi e i riccioli biondi che dormiva con la bisnonna al piano superiore era il suo più grande segreto.

Uno di quelli che nemmeno la zia conosceva.

Uno di quelli che il Santuario non era riuscito a svelare.

La gravidanza celata da vesti larghe, colpa del caldo estivo.

Il parto a casa di una lontana parente che viveva vicina ad Atene.

La piccola rientrata con loro spacciata come figlia di una cugina che non se ne poteva più occupare.

Dopo qualche tempo, nessuno aveva chiesto nulla, la piccola novità era stata riposta nel dimenticatoio come spesso accade nei piccoli paesi e nessuno chiedeva più nulla a nonna Areia giù al mercato.

 

Eranthe chiuse le persiane spegnendo le candele e rassettando il letto.

Lui arrivò, che sapeva di fumo e di sangue.

Senza bussare, senza dire una sola parola le baciò le labbra fredde, sbattendola sul letto con alcuna cura o attenzione.

La prese come se fosse una sua proprietà facendola gemere al confine tra dolore e piacere.

La possedette come solo lui sapeva, poteva, fare; con il completo controllo, il buio della stanza rischiarato solo dalla luce delle stelle.

Impietoso, la portò con lui al limite del piacere per poi gettarla in quel vortice di estasi bianca che lui stesso aveva creato.

La sua voce graffiante, profonda, roca e bassa

“Alla prossima luna” la salutò riallacciandosi i pantaloni.

Lei gli sorrise annuendo

“Sta bene” sussurrò al ghigno sghembo di lui, che si addolcì solo per un secondo.

Sparì nella notte senza luna, così come era venuto, nulla più d una fantasma o di una visione.

Il più grande segreto del Santuario.

Il più grande segreto della sua vita.

Il padre di sua figlia.

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Capitolo 2
*** Le Onde dell'Egeo ***


Le Onde dell’Egeo

La sesta ora dopo il riposo pomeridiano* sorprese Sisifo ancora impegnato in un’udienza del Grande Sacerdote Sage in persona, gli occhi pericolosamente prossimi alla chiusura, la mente che ormai si sintonizzava su canali assolutamente estranei alle problematiche così minuziosamente descritte.

Lo sguardo corse a Sasha, seduta scomposta sul grande trono, a soffocare uno sbadiglio che poco si addiceva alla dea della guerra giusta.

Sisifo abbozzò un sorriso sperando nella pietà di un evento qualsiasi che distogliesse il sacerdote dalla sua, ormai unilaterale, esposizione.

Scosse il capo, impercettibilmente: lui non avrebbe dovuto comportarsi così, lui, il primo Santo d’Oro, colui che aveva personalmente riportato a casa Athena, ancora bambina.

Colui che l’aveva condannata ad una vita di sacrificio

Colui che avrebbe guidato gli altri Santi nella guerra ormai imminente contro le truppe di Hades.

Colui che avrebbe scatenato la Guerra Sacra e visto morire i suoi stessi compagni.

Sage aveva smesso di parlare, ormai, esortandolo a raggiungere la mensa comune, dove avrebbe condiviso la cena con tutti gli altri.

Lo sguardo che il giovane rivolse alla dea era di puro cordoglio.

 

“Quindi stasera possiamo andare giù a Rodorio?” prese la parola El Cid, colorando la scandita e fluente parlata greca con un pesante accento spagnolo.

Manigoldo rise sguaiato, dando di gomito ad un infastidito Rasgado “Ti manca già la picciridda?”

“Vedi di comportarti come un uomo e non come una comare di paese...” lo redarguì questi con una punta di sarcasmo, dirigendosi a lunghe falcate verso la scalinata esterna.

“Quello che faccio e con chi lo faccio sono solo affari miei” concluse lo spagnolo trovando i ciottoli del selciato un panorama particolarmente interessante.

Albafica si limitò a commentare con quella che poteva apparire ad un’attenta seconda occhiata una piccola smorfia.

“Che poi spiegami che cos’ha la francesina che ti attizza tanto. Meglio i meloni di Filothea, dico io!” continuò Manigoldo accendendosi una sigaretta. “O forse conosce qualche tecnica che noi ignoriamo, eh? Dovrei farci un giro anche io…”

Un pugno lo colse, potente e inatteso, sulla guancia sinistra, facendo volare la sigaretta lontana, in uno scompiglio di braci, un filo di sangue, stupito, gli macchiò il ghigno irriverente.

“Non osare.”

Serio, El Cid era un uomo d’onore e di poche parole. Per questo sapeva essere spaventoso quando si alterava.

“Ehi, ehi, non ti scaldare. Minchia!” concluse l’italiano massaggiandosi la guancia.

Sisifo li seguì sorridendo. Malgrado tutto, di tanto in tanto, tendevano a dimenticare di essere uomini abituati a giocare con la potenza delle stelle delle quali erano custodi, e i rari e sparuti momenti di tranquillità erano accolti e vissuti come veri e propri miracoli all’interno della loro vita sospesa.

La capacità di provare sentimenti, anche solo lontanamente umani, era un lusso che pochi avevano la possibilità di permettersi.

Poi il suo sguardo limpido si posò sulla figura d’ombra scomodamente accomodata sullo sperone di roccia che dava direttamente sul mare.

Gli occhi del colore del cielo al tramonto che si perdevano tra le onde del mar Egeo.

La maschera copriva il volto, il dolore il suo cuore.

 

Melina aveva appoggiato stanca una mano sui capelli castani della giovane Francine; le sue ciocche si accendevano di riflessi dorati alla luce del sole al tramonto.

“Vedrai che stasera si farà vivo.” concluse facendo l’occhiolino al suo riflesso nello specchio.

La ragazza sfoderò uno dei suoi rari, spontanei sorrisi.

“Sei sicura, madame?”

Melina rise, questa volta, al francese che si mischiava col greco.

“Ma certo, ma certo, bambina!”

Sfilò un fiore di Ibisco dal bouquet di fianco alla porta del salone e lo sistemò nell’acconciatura di lei.

“Sei così bella, tesoro mio” le sussurrò, materna. “Quel giovane, nella sua condanna, è fortunato.”

Je ne comprends pas” pigolò lei, sgranando gli occhi e voltandosi di scatto.

Melina sospirò sedendosi stancamente sulla poltrona vicina.

“Tu sei venuta da lontano, Francine, probabilmente il destino ti ha mandata qui, da me. Compris?

Aspettò paziente che la ragazza annuisse prima di continuare.

“Questo posto è diverso da tutti gli altri e quei ragazzi che soddisfi col tuo corpo sono eroi che potrebbero non arrivare a domani.”

Si accese una sigaretta con movimenti lenti e calcolati, scorgendo la zazzera di capelli nerissimi che correva per il piccolo sentiero al limitare delle prime case.

“Per questo, Francine, fai tesoro dell’amore che provi per lui e, in cambio, donagli tutta te stessa.” Studiò i suoi occhi riempirsi di lacrime, mentre il sole si tuffava nel mare.

 

Era a disagio, per la prima volta dopo tanti anni; probabilmente non si sentiva così da quando si era accorta, per puro caso, che la persona che si agitava sopra di lei era il marito della sua migliore amica.

Ora, invece, il ragazzo ansante sotto di lei, che spargeva capelli di grano sul cuscino, era un cavaliere di bronzo.

Aumentò il ritmo, sperando di riuscire a portarlo in fretta alla conclusione, pregando che non si accorgesse di nulla.

Era raro che un guerriero di una casta così alta arrivasse a lei.

Solitamente i suoi clienti erano civili o soldati semplici, le cui capacità e percezioni erano assolutamente innocue.

Tranne lui...

Scacciò con uno sforzo immane il ricordo di quella notte, la prima volta, nella quale lui era venuto da lei, per le medesime ragioni per le quali lei aveva sempre declinato gli inviti della zia.

Rimanere nascosti, essere ombra.

E lui, in fondo, nonostante l’aspetto, il destino e la sua forza spaventosa, era soltanto un uomo.

Una notte senza luna, il mare in tempesta, il tuono a dividere i cieli e lui, il cui cosmo sovrastava tutto il resto, soffocandola, l’aveva presa tra le braccia e l’aveva amata, come un uomo possiede una donna.

Come uno che non ha nulla da perdere.

E da allora per sempre, nelle notti senza luna.

Un cavaliere di bronzo, tuttavia...

Ricordò all’ultimo momento di gemere ed ansimare, simulando un piacere che le era capitato di provare rarissime volte.

Tranne con lui...

Il sollievo arrivò quando finalmente lo avvertì tendersi e quindi sospirare soddisfatto.

“Devo andare” sibilò asciutta dopo essersi ripulita velocemente e rivestita di fretta.

“Signora...” ma lei lo interruppe.

“Lascia i soldi sul comodino, caro” aggiunse con dolcezza. “Spero di rivederti presto” mentì schioccandogli un rapido bacio sulle labbra.

 

“Era ora!” sbottò Agathê quando la vide arrivare, accaldata nel vestito a fiori azzurri. “Siamo tutte qui da moooltissimo tempo e tu arrivi solo adesso?!” concluse con le mani sui fianchi e una rosa tra i capelli. “La festa al tredicesimo tempio in onore di Athena Promachos sarà domani sera, lo sai? Domani sera!” rincarò accentuando l’urgenza della situazione con una brusca alzata di tono.

“Perdono!” scherzò Eranthe dissimulando l’imbarazzo con un sorriso.

La ragazza scosse i capelli castani legati in una morbida coda di cavallo, come una madre davanti al figlio incorreggibile e bofonchiando parole a mezza bocca che suonavano pericolosamente come un non so che fare con te.

La nonna era china su una composizione di fiori bianchi, la piccola Dimitra correva leggera come una farfalla, una coroncina di gerbere le impreziosiva il capo.

Non ancora, pensava lei, non portatemela via, ora, vi prego.

 

“Dovresti saperlo, no Agathê?, che lei è allergica al Santuario!” udì appena la voce nota di Mena, la cameriera del piccolo ristorante accanto all’emporio, dalla stanza vicina.

“Eh, magari alla gran dama non piacciono tutti quei bei ragazzi!” scherzò maliziosa Eulalia, del negozio di frutta e verdura.

“E ricordate sua madre? Povera, povera Erato! Era una ragazza così solare! Saliva due volte a settimana dal saggio Hakurei a preparargli il decotto per la sua schiena” aggiunse dall’alto del suo trono di salsicce la moglie del macellaio. “Ci credo che è fuggita lasciandola indietro...”

“Signore! Signore!” intervenne Agathê battendo le mani con voce secca e vagamente stridula. “Adesso basta cianciare, ché i fiori non si arrangiano da soli eh!”

 

Eranthe alzò gli occhi verso la nonna in uno sguardo apologetico al quale Areia rispose con un vago cenno della mano a dissipare i dubbi della nipote.

“Lasciale parlare! Così che le loro bocche prendano aria e perdano il puzzo di lucertola.” Scherzò a bassa voce, abbastanza, però, perché la bambina seduta sul suo grembo udisse e ridesse di pancia agli insulti contro sua madre.

“Scusatemi, nonna, Dimitra” chinò il capo a lavorare sul vaso di terracotta che aveva davanti.

Scusarsi per essere diversa da tutti, scusarsi per la sua stessa esistenza, figlia di una donna che si era trovata di fronte, una notte, di ritorno dal Santuario, un vero e proprio demone con tanto di ali, inviato come spia direttamente dall’Ade.

Un demone, che le aveva risparmiato la vita, rapito, forse, dai suoi occhi scuri.

Un demone che tanto malvagio poi non era, almeno con lei, almeno per i mesi successivi.

Un demone che, dopo poco più di un anno, si era ribellato al suo spaventoso capitano, ed aveva preferito fuggire assieme alla sua amata piuttosto che mettere in pericolo la vita di sua figlia appena nata.

Un demone, che aveva abbandonato per sempre la sua corazza nera, con tanto di ali, ed aveva scelto la vita.

 

“È che non voglio perderla, non ancora” concluse la donna il tono grave dissimulato dalla tonalità allegra della voce.

La nonna la guardò seria, le mani si fermarono un attimo e d’un tratto sembrò che il tempo steso si arrestasse.

“Bambina mia, ricorda: se un dio sceglie te alla nascita, e intercede per te con le Moire, prima o poi, tornerà a reclamare ciò che è suo.”**

 

Note:

Prima di tutto GRAZIE a Francine per il suo supporto e lavoro EGREGIO!!!

*Come mi ha fatto giustamente notare Francine le sigarette sono arrivate in Europa come cilindri solo nel 1850. Dato che mi servivano per accentuare la caratterizzazione dei personaggi, mi sono presa una piccola libertà anticipandole di qualche decennio!

** Questa frase è stata detta da mia nonna come “memento” per il mio diciottesimo compleanno.

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Capitolo 3
*** Il Fiore e la Spada ***


Il Fiore e la Spada


Le fiaccole illuminavano la scalinata che conduceva alla grande arena laterale dove si stavano tenendo le festività in onore della dea Athena Promachos, la prima in battaglia.

Eranthe ammirava le composizioni che avevano preparato il giorno prima e sistemato nel tardo pomeriggio, appena la calura della prima estate era scemata tanto quanto bastava a non far avvizzire i petali all’istante.

Agathê era estasiata, fluttuava con grazia spostandosi tra le tavolate del grande banchetto. Il sorriso che si addolciva, le gote appena un po’ più rosate, quando Albafica dei Pesci l’aveva avvicinata con la scusa di complimentarsi con lei per l’ottimo lavoro delle decorazioni floreali.
Vicini senza neppure sfiorarsi, lei persa in un sentimento troppo intenso, lui nella paura del suo stesso esistere.

Un movimento accanto alla fontana, appositamente attivata per l’occasione, la fece voltare. El Cid stava conducendo la giovane Francine al di là dei giochi d’acqua, accanto agli alberi.

Gli occhi severi abbozzavano un sorriso, quelli di lei erano raggianti. Le mani unite, intrecciate, le labbra assetate di quei baci che erano solo per lui... solo per lui.

Eranthe li osservava in disparte, senza essere vista.

In fondo, nella sua condizione, lei aveva avuto fortuna.

Certo, non conosceva l’amore platonico di Agathê, né tantomeno quello romantico di Francine, ma aveva una figlia che le aveva rivelato il segreto dell’amore assoluto, trascendentale, del quale le aveva parlato sovente la nonna.

Quando era poco più di una ragazzina, la saggia Areia le aveva svelato di come, lì a Rodorio, esistessero le donne libere, quelle che avevano la possibilità di scegliere: sovente si ritrovavano invischiate all’interno di quel mondo dorato con il rischio, concreto, di rimanere con il cuore spezzato.

E poi c’erano loro.

Le donne di tutti e di nessuno, che imparavano, col tempo e l’esperienza, ad indossare un’armatura attorno al cuore, ancora più resistente e impenetrabile di quelle fulgide corazze d’oro.

Sole ma forti, a testa alta, con gli occhi scuri puntati al mare e al cielo.

Così era stato, per lei.
Anche quando il suo mondo era esploso ed il sangue aveva smesso di scorrere, consolatorio.
Anche quando lui era arrivato, una sera, con quel cosmo spaventoso e la nonna gli aveva spiegato che, no, lei non poteva più servirlo, non ora. Che sarebbero state ad Atene a trovare dei parenti. Gli aveva sbarrato la strada con la forza delle sue mani ossute e i suoi capelli scuri stretti in una rigida treccia alla base del capo. Aveva guardato nei suoi occhi di tempesta e lui, sì, lui aveva capito.

Ma lui, che, esattamente come lei, aveva sempre vissuto nell’ombra, ad Atene c’era andato, eccome. Seguendo quel piccolo universo che era arrivato dal nulla, le aveva stretto le mani, e la vista del sangue non gli aveva mai fatto male come in quel momento.

“È figlia mia”, aveva risposto ai suoi occhi stupiti, e la nonna aveva riso, di pancia e di cuore, come aveva fatto più di vent’anni prima, di fronte al padre di Eranthe.

E quando sua nipote era crollata, fiaccata dal parto, Areia aveva affidato a lui la neonata, che sembrava ancora più piccola e bianca tra le sue braccia possenti. Quando lei si era svegliata, ore dopo, alla vista del guerriero imponente che stringeva tra le braccia una neonata, sua figlia, aveva sentito qualcosa agitarsi nella sua anima, che aveva scalfito, un poco, le sue difese. Qualcosa che si era affrettata a rinchiudere e ignorare per sempre.

Forse non lo sai ma pure questo è amore...*

“Ehi, mamma, andiamo a vedere Athena?”

Eranthe annuì seguendo l’entusiasmo della figlia, si avviò verso il banchetto principale, facendosi largo a stento tra le persone assiepate attorno al tavolo della dea.

Poi la vide, con i suoi colori tenui e le gote arrossate dal vino e dagli sguardi. Il sorriso gentile, umano, così dannatamente simile a quello di ogni ragazza che lei aveva incontrato. La pelle diafana, il vestito candido e quel cosmo di luce che risuonava dentro di lei.

“Vieni Dimitra, andiamo a giocare con Kostas e gli altri bambini, vuoi?” La bambina annuì, gli occhi ancora abbagliati da quella bellezza trascendentale che seguiva la dea.

E lei provò l’irrazionale timore che, da un giorno all’altro, qualcuno la guardasse e riconoscesse in lei un possibile nemico, una minaccia.

Strinse le spalle come infreddolita nella notte calda e umida.

“Nonna, controlla Dimitra, per favore, faccio quattro passi...” Areia sorrise annuendo, mentre la nipote si allontanava dal banchetto, verso la scogliera.

L’aria salmastra della notte che spirava dal mare le diede un rapido sollievo; i pensieri ingarbugliati parevano distendersi e dipanarsi, così come il senso di vertigine che l’aveva investita, attimi prima. Bevve un sorso dal bicchiere ghiacciato che teneva in mano, godendo della luce delle stelle.

Kalisperà, Eranthe.”

Le stelle risuonarono, come un allarme.

“Nobile Aspros.”

Neppure si voltò verso quella voce e quell’uomo così maledettamente pericoloso. Rimase immobile anche quando lui si sedette, accomodandosi sulla roccia accanto a lei.

“Via, via!”, rise lui, per nulla infastidito. “È così che si saluta un vecchio amico?”, scherzò circondandole le spalle con un braccio.

Questa volta ottenne un’occhiata di fuoco.

“Sono passati così tanti anni. E poi”, concluse lei alzandosi di scatto, “devo tornare. Buon proseguimento.”

Ma lui le bloccò il passo, il suo corpo come ostacolo, le sue braccia ferme sulla roccia appena sopra le spalle di lei.

“Direi di no. Suggerisco che tu ora faccia la brava.” Si avvicinò a lei, che voltò il viso, il respiro sempre più veloce.

“Credevo lavorassi ancora, o forse mi sono sbagliato?” Rise ai suoi occhi dilatati, quegli occhi che riuscivano a leggere così chiaramente l’oscurità dentro di lui. “Ah, ho capito adesso!” Le strinse il mento in una morsa d’acciaio, costringendo i suoi occhi a tuffarsi in quelli di lei. “Io sono troppo, per te! Povera piccina!” Si fece di colpo serio. “Tu scopi solo la feccia, come quei soldati da quattro soldi o mio fratello.”

La baciò, ignorando il morso che gli aveva fatto sanguinare un labbro o le unghie che cercavano di graffiarlo. Una mano corse a strapparle la veste, quando un colpo che sapeva di fuoco lo fece barcollare. Un secondo lo fece rovinare a terra.

“Sei arrivato alla fine, dunque?”, mormorò asciugandosi il mento imbrattato di sangue.

“Vattene Aspros.” La voce roca, graffiante e profonda attutita dalla maschera, gli occhi indaco infuocati dalla rabbia.

Il gemello maggiore rise, sguaiato, rialzandosi.

“Stavo giusto tornando alla celebrazione”, sputò. “Sono stufo della spazzatura come voi!”

Eranthe si rese conto di stare trattenendo il respiro, solo quando il suo corpo protestò per la mancanza di ossigeno, costringendola ad un singhiozzo.

Entrambi, lei e il suo improvvisato salvatore, stavano osservando la schiena possente del Santo dei Gemelli sparire oltre gli alberi.

“Stai bene?”, le chiese Deuteros**, roco. Lei annuì, sorridendo, tornando a sedere sulla roccia, lo sguardo perso verso il mare.

“Grazie”, mormorò, sapendo che, tanto, lui l’avrebbe udita comunque. “Non è nulla di nuovo. In fondo sono una puttana. C’è sempre qualcuno che crede di potersi prendere quello che vuole, a prescindere dal luogo e dal momento.” Sospirò cercando di impedire alla voce di rompersi seguendo le emozioni che si agitavano dentro al suo petto. “E poi stasera non sono qui per lavorare.”

Lui la guardò, serio, le sue parole, troppo veloci, gli scivolarono addosso.

“Stai tremando”, constatò poi, sedendole accanto.

Lei alzò lo sguardo verso i suoi occhi, in subbuglio, proprio come quando entrava nella sua stanza, nelle notti senza luna.

“Anche oggi la indossi?”, mormorò, ansiosa di cambiare argomento, allungando le mani ai ganci della maschera che gli copriva il volto.

“Tanto, cosa cambia? Non posso partecipare alle celebrazioni del Tempio, lo sai.”

Un rumore secco, un respiro, e la fastidiosa costrizione cadde al suolo.

“Hai paura di Aspros, che è un Santo d’Oro”, asserì cupo. “Ma non ne hai di me.”

Lei rise, di cuore.

“Oh, no. Ne ho avuta anche di te. Eccome!” Si passò una mano tra i capelli chiari stretti nell’acconciatura. “Ma tu…” Lo guardò, dritto negli occhi. “Tu sei differente. Sei nato dal Caos, ma, luce o tenebra, non nascondi ciò che sei.” Sospirò. “Il primo a temere se stesso è proprio tuo fratello, invece.”

Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre Deuteros recuperava la maschera con lentezza.
“Ho visto Dimitra giocare, prima.” I capelli selvaggi celavano il suo viso. “Sta crescendo.” Lei sorrise, fiera. “Ha il tuo carattere incendiario”, concluse, concedendogli un mezzo sorriso al quale lui rispose con il suo solito ghigno.

Eranthe, in tutti quegli anni, non lo aveva mai visto sorridere, nemmeno una volta; Deuteros non era vulnerabile nemmeno quando, sopra di lei, perso nel bianco assoluto reclamato dal suo corpo, ringhiava, gutturale, le labbra serrate, le mani strette nelle lenzuola, le membra tese, i muscoli contratti.

Si alzò porgendole la mano.

La aiutò in piedi stupendosi, come sempre, di quanto la propria pelle fosse pallida e fredda in confronto alla sua, brunita dal sole.

La guardò ancora negli occhi, attirandola contro di sé, senza l’urgenza delle notti di ombra.

“Chi sei stasera, Eranthe?” La domanda vibrò nel suo petto, contro la guancia di lei che alzò il capo per sorridergli.

“Solo una donna, Deuteros”.

Lui annuì, serio, poi le si avvicinò sigillando con le labbra le sue parole e chiudendo il suo vero volto dietro la maschera.

Tornò a casa più tardi, quella notte; con la bambina beatamente addormentata portata sulla schiena, il suo respiro che le solleticava il collo, spostandole i capelli, chiarissimi, che le erano sfuggiti dall’acconciatura.

La nonna Areia, per una volta, aveva perso la sua aura di saggia e composta vecchina e ora, completamente ubriaca, si lanciava in stonati ritornelli antichi di almeno mezzo secolo.

Eranthe rise, sistemando meglio Dimitra e accingendosi ad aprire la porta di legno azzurro della casupola al limitare del villaggio.

Non si accorse, come sempre, dell’uomo d’ombra che seguiva il suo cammino, discosto, dai tetti delle case.

Non seppe mai che, da quando era nata loro figlia, lui non l’aveva mai lasciata sola.

 

 

Lo scompiglio che attraversava la Casa dei Piaceri di Melina si poteva udire fin dalla piazza del mercato.

“Eranthe, corri, corri!”, la esortò Agathê dal banco in legno all’esterno del suo negozio, e suo padre le sorrise bonario.

“Cosa è successo?”, cercò di farsi udire lei, mentre l’amica la strattonava per un polso, correndo ad una velocità improbabile lungo le vie laterali.

“Una cosa bellissima!”, si voltò Agathê, talmente repentina da farle perdere il già precario equilibrio. “Sapessi!”, concluse portandosi le mani al volto arrossato e facendo una piroetta su se stessa.

“Ah!”, sospirò con un’intensità da fare invidia ad un’attrice di tragedie. “Potesse capitare anche a me una cosa del genere!” I suoi occhi si fecero brillanti.

“Ma cos...” Eranthe era sempre più perplessa, ma l’altra la interruppe.

“Andiamo! Cosa stai a perdere tempo!” E via di nuovo, strattonata da quella ragazzina di rose, dall’insospettabile forza erculea.

Arrivarono da Melina senza fiato per la corsa, Agathê bussava mentre lei si massaggiava il polso segnato dalla presa fatale di quelle piccole, innocenti dita.

La formosa Filothea andò ad aprire in una nuvola di profumo.

“Ahhhh!”, fu tutto ciò che Eranthe udì prima di essere travolta da un turbine di rosa e porpora e fatta accomodare su un divano tra le due ragazze.

Fu solo parzialmente conscia del fatto che zia Melina stava fumando sulla comoda poltrona a fianco, mentre la ragazza francese sedeva di fronte alla finestra. La pelle diafana recava un gentile rossore.

Qualcuno stava parlando, Eughenìa, dalla pelle scura e i capelli corvini.

“Adesso che ci siamo tutte, puoi anche continuare!” la esortò.

In un attimo l’attenzione di tutte fu catalizzata dalla ragazza minuta.

Francine alzò gli occhi. Sì, tutte le ragazze che conosceva erano assiepate nel salone della casa dove lavorava.

Sorrise, offuscando il sole stesso con la sua gioia.

“Ieri sera, al banchetto in onore di Athena, El Cid ha chiesto la mia mano.” Abbassò gli occhi all’anulare, su cui spiccava un cerchio d’oro. Poi lo sollevò, facendo brillare il dono alla luce del sole. “È un pezzo della sua armatura. Shion ha acconsentito a farlo apposta per me.” Sorrise mentre dagli occhi scendevano la prime, timide lacrime.

“Quanta scena!”, scherzò Deidara, dai capelli fulvi. “Poteva semplicemente mozzartela!”

Si lasciarono andare in una sonora liberatoria risata ed Eranthe avvertì una strana stretta bloccarle il respiro, una gioia profonda le stirò le labbra.

“Oggi stesso chiederà ad Athena il permesso di ospitarmi nelle sue stanze private”, continuò Francine. “Se la dea acconsentirà, chiederà alla signora Melina di potermi portare via.”

Ormai la giovane francese rideva e piangeva. “Pardonnez moi...

A turno le ragazze le si avvicinarono, abbracciandola. Agathê le infilò tra i capelli una rosa del colore delle melegrane mature.

Poi Melina prese la parola in uno sbuffo di fummo azzurrognolo.

“Hai la mia benedizione, ragazza”, proclamò solenne. “Anche perché il Capricorno ha già accordato con me un buon prezzo per il tuo riscatto.” Le fece l’occhiolino, la risata le faceva sussultare il seno prosperoso.

“Ricorda, tuttavia una cosa: essere la moglie di un Santo, uno d’oro per giunta, non è affatto come scegliere una persona normale”, asserì d’un tratto seria e fu come se una coltre di neve raffreddasse gli animi delle donne presenti. “Potrai essere sua moglie sul contratto di matrimonio, nel tuo cuore, come nel suo. Potrai essere sua moglie tutta la vita o per un giorno solo. Non dimenticare, Francine, non potrai dargli un amore diviso, un amore immaturo. Sei pronta ad amarlo senza riserve o timori, bambina mia?”

Eranthe abbassò il capo. Per un attimo l’immagine di Deuteros le balenò nella mente, subito scacciata e censurata dalla sua coscienza. No, nel suo destino non c’era nulla di simile. Lo sapeva.

Andò col pensiero alle storie che la nonna le raccontava su sua madre e quell’uomo di luna che l’aveva portata con sé. Di come i loro cuori si fossero legati nel silenzio della fatidica notte, di come i loro destini si fossero per sempre incrociati. Erato, sua madre, tuttavia, aveva dovuto rinunciare a lei.

Tutte le ragazze attesero la sera, e quando le prime stelle fecero capolino proprio al confine tra il violetto ed il rosa aranciato del cielo, il ragazzo dagli occhi taglienti apparve sulla lunga scalinata che conduceva al Santuario.

Eranthe si sentì onorata di assistere a quel piccolo miracolo che prendeva vita di fronte a lei: in quel momento nel salone c’erano solo loro due, soli. Beh relativamente soli, contando che circa una decina di persone erano nascoste nella piccola cucina di Melina, ad origliare spudoratamente.

“Athena ha dato la sua benedizione”, cominciò lui, la voce che tremava, le braccia forti a stringerla. “Ci potremo sposare ai primi del prossimo mese.” Si inginocchiò di fronte a lei, prendendole la mano. “Nel frattempo vuoi farmi l’onore di condividere la tua vita con la mia?”

Francine annuì mentre lui si rialzava. “Davvero non ti importa… che sono una putain?”, gli chiese con un filo di voce

“Davvero non ti importa che sono un assassino?”***, le sussurrò lui, la fronte appoggiata a quella di lei.

Si baciarono, ancora e ancora, mentre la luce scemava dietro al mare.

NOTE:

Ancora grazie a Francine per la sua immensa, smisurata pazienza!

* citazione da "Stranamore" di Roberto Vecchioni

** la questione Deuteros o Defteros, qui ho scelto il primo perchè più frequente nel greco antico dell'Attica

*** non voglio dare un valore completamente negativo al termine "Assassino" utilizzato qui: ho giocato con i termini greci "fomneos" e "somneos" rispettivamente assassino e santo.

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Capitolo 4
*** La Luce e L'Ombra ***


La Luce e l’Ombra

Sage si alzò dal trono, silenzioso come un’ombra, dirigendosi verso la grande balconata del Tredicesimo Tempio.

“Sommo Sage”, la voce di Athena era un sussurro stanco. “Ne ho scritti più di cinquecento in tutto”, fece un rapido cenno col capo nella direzione del grande tavolo di legno intagliato, sul quale spiccava una pila disordinata di sigilli dipinti.

Le lettere del suo nome spiccavano nere contro la pergamena e verso la fine, in un moto di ribellione, avrebbe voluto scriverci “Sasha” così, tanto per vedere se avessero funzionato ugualmente.

Il Grande Sacerdote le sorrise, carezzandole la testa, benevolo.

“Vada a riposare, somma Athena”, sussurrò. “Domani terminerà il lavoro”, concluse volgendosi verso le lunghe ombre che le colonne gettavano sul pavimento di marmo levigato.

Attese che la giovane dea si allontanasse sbadigliando verso  le sue stanze, prima di parlare di nuovo.

“Così alla fine sei giunto, Hakurei, fratello mio”, sussurrò alla figura, così simile a lui che si rese palese alla luce delle lanterne.

“Il destino mi ha chiamato ancora una volta, Sage”

Entrambi sedettero a godere del tè bianco che il maggiore versò in due tazze di porcellana.

“Sento il tuo animo turbato”, riprese dopo un lungo silenzio.

“Rodorio nasconde segreti che possono rivelarsi pericolosi per noi”, concluse il minore, lo sguardo perso all’orizzonte scuro del mare.

Sage annuì, cupo. “Le stelle demoniache si stanno svegliando, non potrò contare ancora sulla benevolenza del tempo prima che i soldati di Hades ci attacchino.”

 Hakurei sospirò. “La nuova guerra ormai è alle porte”, concluse. “Spero solo che Athena sia forte abbastanza.”

Le stelle stavano cambiando, lo avvertiva chiaro nell’urgenza delle cose che accadevano  intorno a lei. Gli abitanti di Rodorio, tutti, avevano una spiccata sensibilità per certe situazioni al limite tra il mondo umano e quello degli eroi.

O almeno così le aveva detto sua nonna, una volta, durante una sera d’estate in cui la calura le aveva costrette a pernottare nel piccolo giardino sul retro della loro abitazione.

Sorrise, fiaccata dall’intensa giornata, ormai l’estate era arrivata con il suo bagaglio di stelle brillanti e caldo soffocante.

 E quella notte erano davvero luminose, quasi troppo luminose: la Via Lattea sembrava una strada nel cielo, aperta a chiunque avesse solo tentato un passo. La luna era un’unghia pigramente coricata ad occidente e lei, allungata mollemente sulla sabbia, in una caletta nascosta dagli scogli accanto a capo Sounion, voltandosi, si stupì nel constatare come lui non se ne fosse ancora andato.

Ormai la sua presenza era diventata molto più ingombrante, e non si limitava più alle notti di luna nuova.

Che si sia accorto di qualcosa?,  temeva lei, in silenzio.

Erano giorni che la Surplice nascosta nella sua cantina sembrava vibrare, in risonanza con lei e, probabilmente, qualcuno, su al Santuario, sarebbe presto sceso a controllare cosa diamine stesse succedendo.

“Deuteros”, iniziò lei a mezza voce, lui voltò un poco il capo, squadrandola con quegli occhi intensi e profondi.

Nessuno dei due parlò per lunghi secondi, occhi negli occhi, perché tanto, a lui, delle parole importava ben poco, poi la prese, abbracciandola.

“Non devi temere”, bisbigliò agli occhi stupiti di lei.

La baciò, come un fidanzato, davanti alla porta di casa sua, spingendole in mano una statuetta di legno che lui stesso aveva intagliato.

“Domani Dimitra compirà quattro anni”, sembrò volersi giustificare, torvo, strappandole una risata.

Eranthe rientrò ancora sorridente, ma quando aprì la mano per guardare il soggetto scolpito, la statuetta cadde. E fu solo per un colpo di fortuna che nessuna delle sue ali si spezzò.

Melina era agitata. Da quando Francine era uscita definitivamente dalla casa dei piaceri per raggiungere El Cid del Capricorno, le altre ragazze sembravano essere contagiate dal suo entusiasmo.

Sospirò; forse anche loro sognavano qualcosa di diverso, qualcosa di simile a quanto capitato alla giovane francese, qualcosa di concreto e tangibile che le liberasse da quella solitudine tremenda che le attendeva, inesorabile. Si appoggiò languida al battente della portafinestra che si affacciava sul Santuario, la mente persa nei ricordi di quando era stata anche lei una giovane donna, selvaggia e solitaria, che tuttavia aveva finito per accettare la guida sorridente della sorella maggiore Erato, dopo aver vissuto mesi per le strade polverose di Rodorio.

L’aveva guardata per anni con la stessa immutabile devozione che leggeva negli occhi di quegli uomini d’oro, ne aveva venerato la bellezza e la generosità come si fa con una dea. Spense la sigaretta con rabbia sotto il tallone del calzare.

E lei, alla fine, si era innamorata. Sputò a terra per scaramanzia, come se quell’uomo scuro potesse materializzarsi di fronte a lei. 

Gli eserciti di Hades si andavano formando nuovamente, dopo duecento anni di quiescenza. Spie delle Ombre vagavano per la terra a risvegliare i custodi delle Stelle Malefiche, e il Santuario era spesso bersaglio di sporadici, deboli attacchi attirati dal naturale cambio generazionale della casta più potente.

Erano davvero trascorsi così tanti anni? 

Erato era salda, nel suo ruolo, imponente come una colonna, a consolare, a curare con i decotti che loro madre, la saggia Areia, le aveva insegnato con tanta pazienza. E lei, Melina, la osservava, giovane nei suoi diciotto anni, con ammirazione e tenacia.

Voglio essere come te...

Rientrava stanca dal Tempio, Erato, nelle sere in cui doveva prestare cure a chi tornava dalle battaglie, o semplicemente preparare i decotti per Hakurei, sempre in prima linea nelle missioni di esplorazione nonostante la sua avanzata età.

Spesso Ilias del Leone la riaccompagnava a casa con il suo sguardo fermo e il sorriso aperto, se la sera era tiepida non era raro che suo fratello minore Sisifo, futuro Santo del Sagittario, si unisse a loro.

 Capitava a volte, che lei fosse accompagnata da Lugonis dei Pesci, e Melina rideva, da dietro le tende tirate, agli strenui tentativi del Cavaliere di rimanere ad almeno un paio di metri di distanza da lei che, invece, scherzando, gli si avvicinava con fare distratto e fingeva di sentirsi male ad ogni passo.

 

Poi, una notte di giugno, era tornata da sola, livida in volto, gli occhi sgranati, non si era soffermata a bere il caffè assieme a lei, come faceva di solito, conversando amabilmente delle faccende della giornata o delle persone che aveva incontrato: era sparita veloce oltre la porta della sua stanza, riemergendo solo la mattina dopo, all’alba.

Era trascorsa una settimana, o poco più, quando Melina aveva visto che l’espressione spaventata al suo rientro si stava tramutando in qualcosa di decisamente più terribile.

La situazione divenne presto talmente seria che la saggia Areia, che ad Athena doveva il suo nome, decise di recarsi a cena dalle figlie, lasciando la casupola al limitare del villaggio.

“Allora, bambine mie”, aveva proferito, austera, in mezzo agli aromi emanati dall’elegante bruciatore in argento. “Vorrei che foste voi a parlarmene, prima che arrivi notizia tramite il Santuario stesso”, agitò una mano, come a voler scacciare una mosca fastidiosa, ponderando, nel medesimo tempo, le reazioni delle due ragazze.

“E poi sapete anche voi quante scocciature! Sembra che su al Santuario si stiano preparando per la venuta di Athena in persona. Questa volta si tratta di una bambinetta dall’Italia”.

Prima ancora che Melina riuscisse a spiccicare parola in difesa di quella sorella così vicina e così irraggiungibile allo stesso tempo, Erato si alzò dalla sedia sulla quale era rimasta, rigidamente accomodata.

“Sono nei guai, madre”, asserì abbassando il capo. Le mani strette, le dita intrecciate di fronte a lei.

“Non riconosco il suo cosmo”, la incalzò lei, ed Erato seppe che ormai la saggia Areia aveva capito, aveva riconosciuto l’oscurità e la luce.

“Lui non è un Santo.

La donna si alzò di colpo e Melina capì dai suoi occhi grigi come il mare d’inverno che sarebbero arrivate tempesta e vento.

“È un guerriero di Hades”

Un tuono squarciò il cielo, lo schiaffo secco della saggia madre la colpì in pieno viso.

“Sciocca, sciocca ragazza! Non lo devi vedere, mai più”, sputò nella sua direzione “E non riempire di stronzate la testa di Melina.”

Uscì sbattendo la porta e Melina vide grosse lacrime cadere sulla tovaglia di cotone, quando anche il cielo cominciò a piangere.

 

Ma Erato non ascoltò sua madre, vestita di quel manto rosso d’orgoglio che caratterizza tutti i nati sotto il segno del Toro, aveva percorso il sentiero che aveva deciso.

Con segreta discrezione, con la cura delle piccole cose. 

Nonostante la luna piena, le sue mani e le sue parole, lui restava sempre un soldato di Hades, nonostante la sua professione e l’assenza di armatura, lei rimaneva consacrata ad Athena. Lo sapevano entrambi, anche quando lui la prendeva all’ombra delle stelle, accanto a roccia e mare, anche quando le aveva detto di amarla, di volerla accanto, più di quanto avesse voluto combattere.

E poi, a un certo punto, tutto sembrò scendere per una spirale che girava senza controllo.

 

Melina, quel giorno, si era recata in udienza dal sommo Sage al Tredicesimo Tempio, con un misto di eccitazione ed apprensione: Erato avrebbe dovuto presentargli ben due nuove ragazze che le avrebbero aiutate nel loro arduo compito ed aveva stabilito che ormai la sorella fosse abbastanza grande e responsabile da poterla avvicendare nel compito.

Erano giorni, ormai, che si sentiva debole e stanca e non voleva che Melina non fosse pronta, nel caso lei avesse dovuto lasciare il lavoro.

 Le stelle facevano capolino nella prima ora della sera, ma lei non si beò del panorama che si scorgeva oltre la grande balconata, né vide gli occhi preoccupati di Sage, solo le sue mani che corsero a sostenere Erato accasciata ai suoi piedi.

E quell’uomo di fumo che, con le sue ali nere, entrò nel cuore del Santuario, la prese e la portò via con sé.

Poi fu solo un doloroso crescendo, fatto di sangue e lacrime mai versate, fatto di Santi d’Oro che scendevano ad ogni ora del giorno e della notte, a cercare qualche ora, qualche minuto di sollievo, prima che una nuova battaglia, una nuova lotta, li reclamasse, o prima che tornassero nel ventre della madre terra. 

E un giorno d’estate, Erato tornò, assieme al suo uomo di fiamme scure. Bussarono alla porta della madre Areia, recandole in dono un fagotto di qualche mese, le guance rubizze spiccavano sui capelli chiari, gli occhi blu che sarebbero diventati scuri come quelli di suo padre.

“È troppo pericoloso portarla con noi. Al Santuario sarà protetta”, aveva proferito lei, prima che le lacrime le rigassero il volto.

“Non sappiamo cosa fare per proteggerla”, continuò lui, la voce grave. “Entrambi gli eserciti ci danno la caccia da mesi, ormai.” Strinse la ragazza, baciandole i capelli di luna.

“Parlerò con Sage, vi terremo al sicuro”, continuò Areia gli occhi bassi.

Ma sua figlia scosse il capo, scoprendosi il seno gonfio dal quale la piccola, affamata bevve avidamente.

“Noi non possiamo rimanere. La nostra presenza la metterebbe ancora più in pericolo”, concluse appoggiandosi a lui.

La madre, ormai diventata nonna, le carezzò i capelli e le guance.

“Erato. Sai che sacrificio ti stai imponendo?”

Le lacrime che le scendevano dagli occhi l’avevano resa ancora più bella agli occhi di lui, che la strinse, come ad infonderle la forza necessaria per andare avanti e mantenere fede alla sua promessa.

“La mia Surplice potrà esservi di protezione”, disse con un tono calmo, come se stesse parlando del tempo.

“Prenditi cura di lei, mamma, ti prego!”, la supplicò Erato, in ginocchio, porgendole quel fagotto che profumava di latte e di fuoco.

“Qual è il suo nome?”, fu l’unica frase che Areia riuscì a proferire senza scoppiare in lacrime a sua volta.

“Eranthe”

Sparirono nel cielo, come stelle scure, la luna piena unica testimone del loro silenzioso commiato.

“Zia Melina, mi avevi fatta chiamare?” La voce di Eranthe si sovrappose all’immagine della bambina con i boccoli e della ragazzina vivace, salde nella mente della donna.

“Sì, sì, tesoro”, si riscosse lei. Rientrando nella stanza con passi lenti e misurati.

Il vento aveva scompigliato tutti i suoi pensieri, assieme alla sua acconciatura. Si accese stancamente una nuova sigaretta, preparando un decotto al luppolo per entrambe.

Fece accomodare la nipote con un gesto pigro della mano, e lei prese posto sulla solita sedia di un chiaro verde acqua.

“I tempi sono maturi, cara”, cominciò lei sbuffando una nube di fumo azzurrognolo, Eranthe la guardò fissa come se la zia si fosse di colpo tramutata in un animale mitologico.

“Presto gli eserciti di Hades e Athena si scontreranno e questa terra sarà teatro di quelle battaglie”, concluse abbassando gli occhi sulla tazza fumante.

“Prendi le tue cose, prendi Dimitra, prendi quel tuo fidanzato belloccio e quella sar...sur...quella cosa che hai in cantina.” Fissò gli occhi azzurrissimi in quelli scuri di lei. “E sparisci.”

 Ma il destino amava giocare d’anticipo e un’esplosione di petali di rosa aveva fatto tremare i vetri delle case.

Le due donne scesero in strada, tra lo sgomento generale.

Gli abitanti del villaggio avevano invaso le vie di ciottoli e polvere, gli occhi spaventati rivolti nella generale direzione dalla quale provenivano quei tremendi suoni di devastazione.

Agathê le si fece vicina, piccola piccola, nella paura che le faceva dilatare gli occhi verdi.

“Il signor Albafica sta combattendo”, proferì con un filo di voce, le mani strette al petto, di fianco alla rosa, rossa, perfetta, che spiccava, appuntata proprio all’altezza del cuore.

“Mamma!”, la chiamò con urgenza Dimitra, lasciando la mano della nonna e correndole incontro, completamente dimentica della regola aurea impostale di non usare mai quell’appellativo.

“Dimitra. Tesoro mio”, l’accolse Eranthe tra le braccia, stringendola forte.

Petali di rose cremisi stavano piovendo sul villaggio come una danza di sangue, ora, testimoni della potenza dell’avversario.

“No!” Agathê scivolò in ginocchio come se fosse completamente svuotata da ogni energia e le sue gambe non fossero più in grado di reggerla.

Il silenzio che si abbatté di colpo sull’intero Santuario fu denso come una coltre di piombo e più intimidatorio di qualsiasi esplosione.

Eranthe non si lasciò distrarre: cominciò ad allontanarsi, dirigendosi con la bambina verso la sua casetta al limitare del villaggio, un luogo che, a sua esclusiva convinzione, non avrebbe mai attirato alcun interesse di un eventuale nemico.

La vocina nella sua testa le ricordava ad ogni passo che, in effetti, nella sua cantina riposava una Surplice. E che magari qualche collega o superiore di suo padre si era alla fine accorto di un’assenza nel novero delle corazze.

Accelerò l’andatura, accorgendosi solo allora che la sua mano era saldamente stretta sul polso di Agathê e che lei stava praticamente trascinando con sé la ragazza in lacrime.

“Vedrai, andrà tutto bene, andrà tutto bene”, ripeteva come una litania, più a se stessa che non alle sue improvvisate compagne di fuga, gli occhi pieni di lacrime, il profumo di rose talmente intenso da permeare ogni cosa ed eliminare ogni altro odore.

Una serie di esplosioni dietro di loro le fece voltare, sgomente.

La nube di polvere e fumo, che aggredì i loro occhi, diradandosi, rivelò la totale distruzione un solo isolato alle loro spalle.

Le persone, ormai cadaveri, riverse lungo la strada, gli edifici, le case, i negozi erano solo cumuli scomposti di macerie.

Agathê cominciò a gridare, riconoscendo il luogo dove c’era l’esercizio del padre, il banchetto di legno lavorato, ordinato nei colori dei fiori che lei con così tanto amore arrangiava, era stato annientato con un solo battito d’ali.

“No! Papà!”. Corse via, cadendo, verso l’uomo riverso al suolo, il sangue scuro che imbrattava mesto il selciato, gli occhi che un tempo erano stati vivi e gentili, ora erano solo un vuoto simulacro della sua anima.

La ragazza si inginocchiò piangendo, carezzandogli il capo.

“Forza, andiamo”, la spronò pragmatica Eranthe, rifiutandosi di andare col pensiero a zia Melina, alla nonna Areia e alle ragazze. “Non c’è più nulla che tu possa fare per lui!”

 

Poi Dimitra, a scapito della morte che aleggiava attorno a loro, cominciò a ridere divertita: “Guarda mamma, un uccello graaandissimo!”.

Puntò il ditino grassoccio verso il cielo, dove un guerriero protetto da una Surplice nera, planava lentamente, i lineamenti distorti da un sorriso crudele.

Atterrò con grazia di fronte a loro, proferendosi in un inchino beffardo.

Agathê cominciò a singhiozzare senza controllo, scuotendo i capelli castani raccolti in una disordinata coda di cavallo.

“Signor Albafica...Non può essere...”

Ma Eranthe aveva occhi solo per lui, non riconosceva i suoi capelli del colore della luna o la sua Surplice nera, ma il suo cosmo recava la medesima oscurità.

“Buonasera signore”, rise sguaiato. “Il mio nome è Minos del Grifone. E sarà un piacere per me spegnere la vostra vita!”

I suoi occhi andarono a lei, rimanendo impigliati un secondo di più nei suoi, scuri, spaventati.

Una scintilla e le fu accanto

“Tu”, sussurrò, un filo di voce, mentre appoggiava una mano sulla sua spalla.

“Tu sei una di noi!”, rise sguaiato allo sguardo spaventato di Eranthe. “Che Zeus mi fulmini, tu appartieni al sommo Hades!”

Tentò una carezza mentre lei scuoteva il capo. “Cosa ci fai qui, al Santuario, allora? Torna a casa con noi”.

Lei scosse il capo, il terrore rese indaco il colore del mare dei suoi occhi. 

“Eranthe”, pigolò al suo fianco Agathê, “che cosa sta dicendo?”.

“Io non sono affatto una di voi!”, gli urlò contro, meravigliandosi di vedere i suoi occhi attraversati da un lampo di timore.

“Allora perché il tuo cosmo...”,
Lei lo interruppe, la rabbia, l’ostinazione avevano preso il posto della cieca paura. “Mio padre!”, abbaiò al suo indirizzo, cercando di allontanare Dimitra che voleva giocare con una delle ali della Surplice del Grifone. “Lui era uno di voi”, concluse piantando decisa gli occhi in quelli di lui. “Ma ora non lo è più!”.

 Lo sfidò con talmente tanta convinzione che lui fece un passo indietro, prima di mettersi a ridere di nuovo.

“E da dove ti arriva questa certezza?”, la schernì, beffardo. “Una volta che diventi Specter, non c’è modo di tornare indietro.”
Le sembrò di avvertire rimpianto nella sua voce.

“Non è vero!”, cocciuta e testarda. “Mio padre ha scelto, ha lasciato indietro la sua Surplice!”, concluse, la testa alta, le mani salde sui fianchi.


 Sgranò gli occhi, quando lui fece ballare un cadavere di fronte a Dimitra come una marionetta. La bambina rideva battendo le manine.

Minos rise, rise di gusto. “Ragazza ingenua”, l’apostrofò. “Nessuno può semplicemente disfarsi della Surplice!”, rise ancora ottenendo in risposta uno sguardo di rimprovero “Lascia che ti illumini”, le pose una mano sul capo. “La Surplice è come un’Armatura. L’unico modo in cui può lasciare il suo custode, quando questi è ancora in vita, è averne un altro. O un’altra, nel tuo caso.”

Lei scosse il capo. “Non capisco”, disse e lui sbuffò.

“Che allieva indisciplinata!”, il cadavere fece una capriola, Dimitra rise battendo le manine “Ancora zio!”, e fu subito accontentata.

“La Surplice ha lasciato tuo padre, perché ha riconosciuto in te la sua nuova custode.”

 
Spostò la mano sulla sua guancia, avvertendo le lacrime bagnare le sue dita, chiuse gli occhi concentrando il proprio cosmo in quel gesto all’apparenza banale e famigliare, avvertendo la pelle formicolare di energia.

“Ecco, lo sento, sta rispondendo al mio richiamo, ora: il tuo cosmo”, appoggiò la fronte alla sua, i suoi occhi chiari in quelli di tempesta di lei.

E poi sussurrò, tombale come una sentenza.

“Eranthe di Bennu.

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Capitolo 5
*** Anche Solo per una Volta ***


Anche Solo per una Volta


“Giù le mani, bastardo!”, tuonò perentoria una voce ringhiante, mentre un pugno, ben assestato inaspettato e imprevisto, lo colpì in pieno viso allontanando il Giudice dalla ragazza.

Minos guardò con rabbia quell’intruso vestito di cenci, che lo sfidava con un cosmo che rivaleggiava il suo e quello del Santo dei Pesci.

E come mai questo non è ricoperto d'oro?

“Deuteros”, esordì lei, gli occhi spaventati, le labbra pallide, tremanti.

“Non credere a una sola parola di ciò che ti ha detto.”

Lapidario, si voltava verso di lei e con un braccio le cingeva le spalle.

“Guardami, guardami”, continuò, prendendole il viso tra le mani e cercando di infrangere quella corazza che lei aveva di nuovo eretto di fronte alle sue emozioni più intime.

“Tu sei Eranthe, chiaro? Solo Eranthe. La madre di Dimitra. La figlia di Erato. La mia...” S’interruppe, prima che gli potessero sfuggire parole che non si poteva permettere.

“Ma è vero”, protestò lei, confortata dal suo calore e sostenuta dalla sua forza.

“E lo sai anche tu”, concluse abbassando lo sguardo.

Dentro di lei qualcosa si era rotto, inesorabilmente, e lei era tornata ad abbassare gli occhi e ad avere paura.

“Perdonami”, appoggiò il capo contro il suo torace, cercando di percepire la sua presenza ed imprimerla per bene nella sua memoria.

“No, Eranthe. Non c’è nulla che ti debba perdonare”, continuò lui, parlando piano, come se ci fossero solo loro, in tutto il mondo.

“Sapevo chi fossi e cosa celassi”, concluse, le sue braccia possenti a stringerla.


“E’ un bellissimo quadretto famigliare, dico davvero”, intervenne Minos, battendo le mani divertito, in una sarcastica parodia di un applauso, “ma non sono venuto fin qui per assistere a patetici teatrini, quindi, addio.”

Scagliò su di loro il suo colpo più potente, al quale Deuteros rispose, pronto. Le ragazze fecero appena in tempo a ripararsi dietro un muro di cinta dall’aspetto solido.

Eranthe non aveva occhi che per Deuteros che combatteva nonostante fosse privo di armatura. Il torace muscoloso recava già tagli e ferite che avevano colorato di cremisi la sua pelle abbronzata.

Qualcosa di pericolosamente dorato balenò, percepito appena, per risplendere come il sole di fronte all’uomo ferito.

Shion dell’Ariete era giunto, al fine, in loro soccorso. Gli occhi pieni di quel dolore sordo per la perdita di un compagno, un amico, risoluti in quelli del colore delle perle di mare del giudice.

Lei, affidata Dimitra ad Agathê, aveva raggiunto Deuteros, costringendolo a cercare riparo assieme a loro. Strappato un lembo della veste, cercava di ripulire le ferite, tamponando quel rosso arrabbiato e lucido del sangue.

Lavorava alacremente, le dita veloci che sfioravano appena quei tagli, dimentica degli occhi di lui che seguivano con attenzione ogni suo movimento. Le prese le mani, in una stretta calda e sicura, quando avvertì il suo pianto cadere come gocce di pioggia sulla pelle ferita.

Scosse il capo. “Io non ti lascerò da sola”, cominciò, grave. “Ce ne andremo da qui”, cercò di alzarsi, con mesti risultati, scivolò nuovamente seduto, scuotendo la testa, una maledizione sulle labbra.

Poi la guardò, gli occhi spaventati, le labbra livide, tremanti, e, nella parte più nascosta della sua anima, provò quel sentimento che per tanti, troppi, anni aveva ignorato e tenuto nascosto.

Le carezzò le gote, là dove prima la mano del giudice aveva osato profanare ciò che era suo.

Appoggiò la fronte a quella di lei, avvertendo il suo cosmo scuro e caldo agitarsi, tendersi verso il suo, fatto di ombra e dolore, come accadeva sempre, nelle notti di luna nuova.


Avrebbe voluto confessarle che lo aveva sempre saputo, sin da quella prima notte di maggio in cui la mano di Persefone aveva guidato il suo cuore diviso e i suoi passi incerti, portandolo al villaggio senza sapere nemmeno cosa andava cercando, facendogliela incontrare, affacciata alla finestra che dava sul mare.

Da quella notte in cui suo fratello Aspros aveva indossato le sue vesti logore e la sua maschera, ed era sceso a Rodorio con le tenebre; lui lo aveva seguito, sgomento, appena fuori dalla sua finestra che profumava di aneto e cannella. E l’aveva sentita ridere, agli occhi furiosi di lui.

Suvvia, Aspros, basta giocare, non siamo più bambini ormai!

Da quella notte di giugno, nella quale, provata dal dolore, aveva trovato la forza di dare alla luce sua figlia.

Lo aveva sempre saputo, ma non gli importava che lei fosse figlia della luce o delle tenebre lei era semplicemente…

“Eranthe”, sospirò, prima di baciarla con calma, calcolata lentezza.


Athena stava raggiungendo il limite delle sue energie troppo in fretta. La barriera protettiva che impediva una rapida resurrezione agli spettri di Hades reggeva, tremante, sopra tutto il Santuario e il piccolo Rodorio, dal quale la sera faceva giungere nel vento l’aroma dei gelsomini.

Le onde del mare, scuro, recavano la stanca costanza del suo compito, unici appigli per la sua mente, concentrata su un compito che si stava rivelando troppo gravoso.

C’era qualcosa, nel cuore di Rodorio, un’ombra che recava con sé un richiamo potente per gli Spettri, loro malgrado. Hakurei lo sapeva, Sage lo paventava, ma nessuno dei due si era mai preso la briga di informarla o di cercare di porvi rimedio.

Lo scettro di Nike vacillò pericolosamente nelle sue mani gelide, la luce del sole al tramonto diventò una cascata di bagliori nello sguardo preoccupato di Atla.

“Somma Athena”, la voce del suo primo cavaliere le giunse come gradito riparo nella tempesta.

“Sisifo”, riuscì a malapena ad articolare.

Il Cavaliere del Sagittario le corse incontro, l’oro della sua anima rivaleggiava con quello delle Sacre Vestigia. El Cid, serio e composto, solo un passo dietro a lui.

Negli occhi severi, l’orgoglio a malapena celato, l’ammirazione muta per quell’uomo che si era fatto guida e fratello.

“Il Sommo Sage mi ha affidato il compito di scendere in aiuto di Shion”, preciso e pungente. “Uno dei tre Giudici si è infine palesato. Pensavamo fosse impossibile, ma è riuscito a sconfiggere Albafica”, aggiunse chinando il capo, la voce ferma, gli occhi pieni di cordoglio.

“Tuttavia...” La voce gli venne meno.


Il Grande Sacerdote Sage lo aveva convocato, non appena aveva avvertito il cosmo di Albafica dei Pesci spegnersi del tutto, e quello di Minos richiamarne un altro, di nebbia e di fiamme. Un cosmo noto, che non aveva avuto modo di percepire da più di vent’anni. Un cosmo che lui e suo fratello attendevano con lo stesso strano, affascinato terrore che precede un evento ineluttabile.

Hakurei era appoggiato ad una colonna, le braccia conserte, il capo chino.

Poco distante, la veste strappata e i capelli sciolti in disordinate ciocche sulle spalle, su di un’austera sedia di legno sedeva la saggia Areia.

L’espressione di assoluto disagio e confusione che attraversò gli occhi del giovane Sisifo avrebbe strappato un sorriso al volto serio di Sage, in qualsiasi altra occasione.

“Nobile Sisifo, ti ho convocato per affidare alle tue braccia capaci un nuovo, gravoso compito”, asserì il Sacerdote con pacata lentezza. La preoccupazione evidente trapelava dalle sue parole.

Il Santo d’Oro alzò lo sguardo, l’ansia rendeva i suoi lineamenti duri e severi, le labbra stirate in una linea decisa.

Ristette, ugualmente, quando udì la voce arrochita di Areia.

“Rodorio è stata attaccata”, asserì, composta come una di quelle sacerdotesse antiche raffigurati sui testi che il suo maestro insisteva tanto perché leggesse.

“Un Giudice Infernale, con la sua schiera di sottoposti, è arrivato al giardino delle rose.” Lo sguardo era perso, oltre la finestra, oltre il Santuario.

“Albafica ha dato la sua vita per fermarlo. Ha fallito”, spostò gli occhi sul ragazzo d’oro, che aveva visto bambino, tanti anni prima, seduto sulle sue ginocchia, mentre divorava kremidotiganites, sporcandosi di menta le labbra.

“Impossibile!”, replicò Sisifo, dimentico, per un istante, del luogo e delle persone attorno a lui. “Rodorio è coperta dalla barriera della somma Athena, nessuno dell’armata di Hades può mettervi piede. Nessuno. Ci deve per forza essere un errore!”

Areia sorrise, alla sua stolta convinzione, alla sua fede incrollabile.

“Ciò è stato reso possibile da un solo evento, una singola casualità, che nessuno ha potuto prevedere”, continuò Hakurei, rimasto un silenzioso testimone fino a quel momento.

Poi si avvicinò alla saggia donna, inginocchiandosi di fronte a lei, le labbra a sfiorare la mano segnata dall’età.

“Non avrei mai voluto arrivare a questo. E chiedo il tuo perdono”, sussurrò alla sua attenzione.

Ma Areia scosse il capo, un mezzo sorriso le stirò le labbra.

“Sapevo che questo momento sarebbe giunto, prima o poi...”, asserì lei, le lacrime rendevano i suoi occhi lucenti come stelle.

“Nobile Sisifo”, prese la parola Sage, tornando, con un solo respiro, a stabilire ruoli e gerarchie, riportando ordine nella sala del trono.

“C’è uno Specter quiescente a Rodorio.” Gli occhi sgranati del ragazzo tradirono il suo sconcerto. “La sua sola presenza ha reso possibile ai soldati di Hades di giungere all’interno della barriera, creando una specie di collegamento tra gli inferi e il Santuario”, continuò il Grande Sacerdote.

“A te è affidato il compito di eliminare questa minaccia. Recati immediatamente da Athena per ricevere la sua benedizione e porta con te qualcuno che sappia calmare il tuo cuore in tempesta.” Lapidario e diretto.

“Farò il mio dovere, sommo Sage”, si inginocchiò quindi il Sagittario, in attesa che gli venissero fornite ulteriori direttive.

“Ti prego solo di essere clemente e non indugiare”, aggiunse Hakurei, guardandolo negli occhi, attraversati da un lampo di incertezza.

La saggia Areia si alzò, aggrappandosi malamente ad uno dei braccioli intarsiati del trono.

“Si tratta pur sempre di Eranthe, la mia unica nipote...”


Scese le scale che portavano a Rodorio, Sisifo, con l’ordine di Sage che gli gravava sulle spalle e la benedizione di Athena a sollevargli anima e cuore.

El Cid lo seguiva in silenzio, la mente piena delle immagini della donna che avrebbero dovuto eliminare, una delle amiche di Francine. Scosse il capo. La ragazza che sarebbe diventata sua moglie nel giro di pochi giorni, avrebbe sicuramente sofferto, in silenzio, e con le sue parole sussurrate, nel cuore della notte, avrebbe condannato questa guerra insulsa.

Sperava, El Cid, che la freccia d’oro colpisse il suo bersaglio, che Sisifo non vacillasse, così che non fosse richiesto l’intervento di Excalibur.

Il Sagittario giunse, infine, nella via dove impazzava la battaglia, portato dalle ali d’oro di cui tanto andava fiero, in tempo per vedere Shion sputare sangue e il Giudice dalle enormi ali nere cadere in ginocchio.

Lei poco distante, a bendare le ferite di Deuteros. Una bambina era stretta tra le braccia di Agathê.

Nessuno si accorse di lui, nonostante il Sagittario attese che la polvere sollevata dai cosmi e dalle esplosioni si posasse e gli rendesse nitida la visuale.

Nessuno udì quando incoccò la freccia.

Nessuno vide lo sconforto nei suoi occhi di cielo o la statica meccanicità dei suoi gesti.

Nessuno prestò particolare attenzione ai bagliori che l’oro della sua corazza proiettava in ogni dove, riflettendo l’ultima luce del sole al tramonto.

Solo Deuteros alzò lo sguardo verso di lui, i lineamenti distorti dal dubbio, le braccia a cingerla, ancora, cercando di proteggerla col suo corpo.

Solo Minos, il sangue che striava i suoi capelli di luna e macchiava le sue labbra pallide, distese le ali della sua corazza nel tentativo estremo di fermare la freccia.

Ma nessuno dei due riuscì nell’intento.

Le piume nere distrutte, la pelle abbronzata lacerata.


Eranthe lo fissò stupita, non avvertiva nemmeno dolore.

Toccò la freccia d’oro, saldamente piantata nel suo petto, come se fosse sorpresa di trovarla lì.

“Deuteros”, cercò di sussurrare, agli occhi di lui, “prendila con te. Non lasciarla sola.”

Lui scosse il capo, i capelli come una cascata a celare il dolore in fondo ai suoi occhi.

“Insieme… noi lo faremo, insieme” ringhiò, stringendola e chinandosi a baciarle le labbra fredde.

“Dille chi sei, Deuteros”, continuò a fatica, il respiro veloce e leggero. “Fa’ che non mi dimentichi.”

Le lacrime cadevano dai suoi occhi bruciando come scie di fuoco sulla sua pelle.

“Resta con me!”, la sua voce profonda aveva assunto una tonalità che cozzava con la sua espressione truce. “Non… non!”.

Ma lei scosse il capo sorridendogli, un’ultima volta. “Deuteros…” s’agapo’.

Poi parlare diventò molto più che difficile, così come mettere a fuoco quel vortice di sensazioni dentro e fuori di lei.

Udiva urla e, ormai, sentiva solo freddo.

Si voltò verso Dimitra, sorridendole.

Non piangere piccola, la mamma resterà sempre con te.

La mente svuotata da ogni pensiero.

Voci parlavano attorno a lei, nello stesso momento, rendendo impossibile comprendere che cosa stessero dicendo, mani concitate la afferravano spostandola.

La notte stava calando rapida e la luna era al suo ultimo quarto.

Le sembrò di essere al di fuori del suo corpo, senza peso o dimensione, l’aria intorno a lei odorava di gelsomini e di stelle.

L’ultima cosa che vide, prima che il buio si impadronisse dei suoi sensi e le concedesse un po’ di riposo, fu il riflesso di Rodorio, che si faceva sempre più piccolo, in fondo agli occhi chiari di Minos del Grifone.


“No! NO!” Il cosmo di Deuteros esplose incontrollato, inondando gli astanti di calore bruciante e oscurità.

Sisifo cadde in ginocchio, mentre le galassie esplosero tutte intorno a lui.

El Cid si dispose in sua difesa, gli occhi duri in quelli dell’uomo che il dolore aveva trasformato in un demone d’ombra.

“Mamma! Mamma!”, gridò Dimitra, che liberatasi dall’abbraccio di Agathê, correva nella direzione verso la quale era sparito il Giudice Infernale, gli occhi rivolti verso cielo.

Deuteros la abbracciò, stringendola conto di sé, il suo cosmo placato all’istante da quello di luce tenue della figlia.

“Dimitra...”, sussurrò ai suoi capelli chiari, i sensi pieni del suo profumo di fiori e di pulito. Le lacrime gli bruciavano le ferite ancora aperte, riportandolo alla realtà.

“Mi prenderò io cura di te.”


L’aria della mattina recava ancora tracce della frescura portata dalla notte. Le pungeva le spalle, coperte solo dal tessuto leggero del suo vestito.

Francine sospirò guardandosi allo specchio per l’ennesima volta.

“Se continui così, finirai per allontanare tutta la felicità.” Melina le stava acconciando i capelli con gesti lenti e misurati e la ragazza ebbe l’impressione che la ieraticità della donna non fosse solo un’abitudine pigra.

Sputò per tre volte a terra, passandole quindi un olio dai riflessi dorati sul petto e sulle spalle.


Si allontanò di un passo per ammirare i lineamenti fini della giovane francese, quando lei le prese un polso: la sua stretta era fredda, incredibilmente decisa.

Madame”, iniziò, la voce ferma, così diversa da quando lavorava per lei, che le strappò un involontario sorriso, “è davvero giusto così?”.

Sembrò rivolgere la domanda a se stessa, ma Melina annuì ugualmente, gli occhi azzurrissimi lucidi di lacrime.

“Giovane Francine, l’unione tua e di quel tuo fidanzato tagliente è quanto di meglio il Santuario e Rodorio possano chiedere, dopo questi lutti”, iniziò quindi, con tutta la convinzione che ancora possedeva.

“Ma”, abbozzò lei, chinando un poco il capo.

Melina scosse i capelli, le mani sulle gote ad alzarle di nuovo il viso.

“E poi hanno lavorato tutti talmente tanto per ricostruire la nostra strada!”, rise, portando una mano alla vistosa cicatrice che spiccava ancora, rosea, sulla sua fronte, celata solo dai capelli acconciati in voluminosi boccoli.

“La nostra casa è stata risparmiata solo per un colpo di fortuna!”, rise ancora, tanto per allontanare gli spauracchi.

Sorrise anche Francine.

“Cosa credi?”, continuò Melina, con una serietà che cercava in tutti i modi di tenere lontana dagli occhi. “Anche io vorrei che il nobile Albafica fosse nascosto dietro qualche colonna, a due metri buoni dalla giovane Agathê, o che suo padre l’avesse potuta aiutare a sistemare i fiori, o...”, si interruppe, gli occhi verso il mare, “o che lei fosse ancora qui”.

Sorrise, spiazzandola. “Ma questo è quello che abbiamo. Quindi dobbiamo festeggiare degnamente la vostra unione!”.

Francine l’abbracciò, i suoi sensi pieni del profumo di viole e di tabacco che emanava dalla donna.

“Stai per diventare la moglie di un Santo d’Oro, piccola Francine”, le sussurrò come se le stesse confidando il più sacro dei segreti, “devi renderti forte e risoluta. Tu sarai la sua armatura, quando lui non potrà permettersi di indossarne una.”.

Concluse, quindi, prendendola per mano e accompagnandola verso la statua di Athena.


Lui la attendeva, splendente nella sua corazza d’oro, le labbra sottili stirate in un sorriso, gli occhi attraversati da quell’ammirazione che non abbandonava il suo sguardo, nemmeno quando la vedeva appena sveglia al suo fianco, ogni mattina.

Nemmeno quando lei gli aveva confidato il suo dubbio, giorni addietro, di fronte alle sue stelle e alla luna che assomigliava ad un’unghia sulle onde di quel mare scuro.

Nemmeno quando, in seguito, le parole erano diventate una tangibile realtà e lui le teneva, ogni mattina, una mano fresca sulla fronte, aiutandola di nuovo a letto, dopo, preparandole un decotto alla menta che aiutasse il suo stomaco in subbuglio.


Tese la mano verso di lei, prendendole le dita pallide e fredde nelle sue, calde, consegnategli dalla stessa Melina, gli occhi di cielo arrossati dal pianto.

Si commosse, la donna, nel constatare con quanto e quale riguardo lui la trattasse, come se fosse la migliore delle dame, il più prezioso dei gioielli.

La lasciò, infine, a lui, grata a se stessa di non aver sbagliato, quel giorno lontano, a giudicare quel giovanotto schivo.

Lo avvertiva chiaro, il suo cosmo d’oro e di acciaio, racchiudere il suo cuore e il dono, ancora silente, che gli aveva concesso.

Somma Athena, proteggeteli.

Si trovò a pregare come non accadeva da tempo, ormai, mentre tornava a prendere posto sulle panche bianchissime ornate dal verde rigoglioso delle felci e il profumo soave delle fresie.

Nessuna rosa era stata utilizzata per l’occasione.

Vagò con lo sguardo, la donna, scorgendo, come distratta, quelle scintille di gioia nei visi della folla che si era riunita.

Rodorio tutta si era stretta attorno alla flebile felicità di quella coppia: le ragazze che lavoravano per lei con i loro occhi di burrasca, Agathê con il suo personale bagaglio di dolore, sua madre Areia, fiera e dritta come una colonna, i capelli ordinati in una severa treccia alla base del capo.

La piccola Dimitra, vestita come una principessa, tenuta in braccio da Deuteros, in disparte, la maschera sul volto, le cicatrici ancora evidenti, come una ragnatela di fili bianchi sulla sua pelle abbronzata, gli occhi persi al di là di quanto stava accadendo di fronte a lui.

Melina trovò si assomigliassero al punto che sarebbe stato ulteriormente sciocco nascondere ancora la sua paternità.

Athena stava parlando, frasi lente e scandite che le entravano nel cuore, parole di augurio e di responsabilità, parole di gioia dopo quelle di cordoglio pronunciate solo un paio di settimane prima.

Melina aveva vissuto troppo e visto troppo per credere ancora in quella forma d’amore, tuttavia applaudì per loro e versò lacrime sincere quando lui pose la corona di fiori sul capo della giovane Francine.

Si concesse una risata, dando la colpa ai troppi bicchieri bevuti, durante il banchetto, danzando, ore più tardi, sotto le stelle.

Magari, questa volta, gli dei sarebbero stati clementi ed avrebbero concesso a quei due più di una manciata d’ore; magari, questa volta, il sogno non si sarebbe trasformato in un incubo, per nessuno dei due.


NOTE:

Innanzitutto, nella tradizione Greca si sputa per tre volte alle spalle di qualcuno per allontanare gli spiriti maligni e per attirare la buona sorte.


Grazie a Francine, sul serio, per ascoltare i miei deliri e per portare una pazienza infinita. Giuro, prima o poi imparerò le regole grammaticali base dell'Italiano.


Auguri di Buona Pasqua a tutti!!

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Capitolo 6
*** Cosmic Love ***


Cosmic Love


Quando riaprì gli occhi, le parve che fossero trascorsi dei secoli. Le palpebre erano pesanti e pigre, come quei dolci alla melassa che la nonna le cucinava durante gli anni spensierati della sua infanzia.

I contorni delle cose erano sfumati dalla penombra aranciata che la singola candela creava nella piccola stanza.

Era ancora viva. Forse. Almeno considerato il dolore sordo che sembrava estendersi ad ogni centimetro del suo corpo.

Con fatica spostò le mani al suo petto, avvertendo sotto le dita il lino delle bende e la totale assenza della freccia di Sisifo.

Sorrise, le labbra secche, la gola riarsa dalla sete, stirando le membra anchilosate, flettendo i piedi e le ginocchia, muovendo piano ogni articolazione, saggiando il dolore.

Era convinta di essere morta. Sapeva di essere morta. In fondo era pur sempre un Santo d’Oro ad averla trapassata con la sua arma più potente.

Aveva perfino avvertito quella nebbia sottile che ricopriva il suo mondo, mentre si vedeva seduta al tavolo di ferro battuto della taverna della vecchia Aristea, a sfogliare il libro della sua vita.

Avrebbe dovuto essere morta.

Cominciò a domandarsi come mai così non fosse.

Cominciò a temere il motivo per il quale così non fosse.

O magari era morta e questo era una sorta di limbo, no, di inferno al quale lei era stata condannata.

Magari proprio da quel Minos.

Strinse i pugni, la rabbia stava lentamente prendendo il posto della confusa rassegnazione.

Mosse un poco le braccia a fare leva per tentare, almeno, di sedersi.

E magari, in un prossimo futuro, trovare un modo per issarsi in piedi e cercare un bagno.

Sbuffò quando i primi due tentativi ottennero l’unico effetto di farla sprofondare malamente tra i cuscini, di nuovo.

Chiuse gli occhi, stringendoli forte, mentre l’intero mondo vorticava senza controllo.

Allargò le braccia, cercando di contrastare la spiacevole sensazione.

Attese paziente che il fastidioso senso di nausea scemasse, al punto di sopportare anche la tenue luce della fiammella.

Attese, anche se, ormai, aveva terminato la dose di pazienza in suo possesso e desiderava avere delle risposte in merito alla sua corrente situazione.

Chissà come sta Dimitra? Chissà se Deuteros saprà prendersi cura di lei?

La visione dell’Ombra dei Gemelli – capace di evocare esplosioni di lava e distruzioni di galassie – che pettinava i capelli riccioluti della bambina le strappò un sorriso preoccupato.

I pensieri si stavano facendo cupi e lei decise che doveva scuotersi e farsi forza per tornare a casa il prima possibile, tornare da sua figlia, dal suo uomo e fuggire insieme, in un luogo dove nessuno li avrebbe potuti trovare.


Tentò una seconda volta di aprire gli occhi, voltando un poco il viso alla sua destra. Il suo campo visivo fu invaso da una macchia biancastra e confusa.

Si strofinò le palpebre, cercando di mettere a fuoco, la mano destra nuovamente allungata per determinare la sua distanza dal bordo del letto.

Fece leva sul gomito, cercando di spostare il peso del corpo in modo che non gravasse sulla ferita, appoggiandosi pesantemente ai cuscini.

Poi, finalmente, riuscì nell’impresa di mettersi a sedere.

Spinse con non poca fatica i piedi fuori dal letto, saggiando l’effettiva stabilità delle gambe, prima di issarsi in piedi, le mani sudate e strette contro le colonne di legno intarsiato del letto a baldacchino. La grande finestra alla sua sinistra apriva direttamente su una distesa crepuscolare di perenne autunno.

Rabbrividì nella leggera tunica bianca, appoggiandosi al materasso per muovere i primi passi malfermi.

Arrivò, dopo quelle che le sembravano ore, ad una porta di legno bianca, a doppio battente, e la aprì nel vano tentativo di risultare silenziosa, rovinando malamente in un’altra stanza, gemella di quella dove si era risvegliata.

Tentò nuovamente di riprendere il tragitto verso la direzione che lei aveva, unilateralmente, attribuito ad un eventuale bagno, poi lo vide.


A pochi passi da lei, disteso su di un enorme letto bianco, il Giudice del Grifone sembrava dormire beatamente.

Non fosse stato per le bende che gli fasciavano il petto e le braccia e il sangue rappreso che gli macchiava i capelli, Minos appariva semplicemente addormentato.

Eranthe si accomodò seduta di fianco a lui, lo sguardo scuro si fece minaccioso.

Il lenzuolo leggero si alzava ed abbassava seguendo il ritmo regolare del suo respiro profondo, frusciando contro le bende.

Quello era l’uomo che aveva reso nota a tutto il Santuario la sua presenza.

Le dita delle mani rilassate, il capo leggermente piegato sul cuscino.

Quello era l’uomo che l’aveva fatta condannare a morte, precludendole la possibilità di vivere accanto a sua figlia.

Il volto sereno, i lineamenti distesi: fosse stata una qualsiasi altra donna avrebbe potuto ritenerlo attraente.

Quello era l’uomo che l’aveva portata via, lontana di suoi affetti, doveva ammetterlo, lontana anche da chi stava cercando di trasformarla in un puntaspilli, tuttavia nemmeno questa consapevolezza bastava a placare il suo animo in subbuglio.


D’un tratto la infastidì infinitamente vederlo dormire così, pacifico come un bambino dopo aver messo a ferro e fuoco il Santuario e la sua stessa vita.

Si sentì offesa, vittima degli schemi irrazionali del nemico.

Nemico che ora sembrava totalmente tra le braccia di Morfeo a godere del meritato riposo.

Sicuramente Hades avrebbe tessuto le sue lodi per aver ucciso Albafica e creato il panico tra i Santi di Athena.

E magari lei sarebbe stata rinchiusa in qualche sotterraneo polveroso e non avrebbe più potuto vedere Dimitra.

Le lacrime le pungevano gli occhi, mentre immaginava sua figlia ormai adulta, accompagnata all’altare da un Deuteros ormai canuto e lei, un mucchio d’ossa disperse nelle segrete del palazzo dei dio dei morti.

Con le misere forze racimolate, calò un debole pugno sul petto di lui, che nemmeno se ne avvide.

Frustrata dalla mancanza assoluta di una qualsivoglia reazione, tentò, invano, una seconda volta.

Sbuffò, in una versione adulta dell’espressione di sua figlia tutte le volte che la nonna Areia non le concedeva il terzo baklavà.

Infastidita, cercò di imprimere una forza maggiore ai suoi colpi, questa volta ottenne un mesto gemito.

Sorrise, vittoriosa.

Caricò meglio, con più convinzione e rapidità, ignorando il dolore che cominciava ad irraggiarsi dalla ferita lasciata dalla freccia.

Pugno, pugno, pugno.

Così impari a farti gli affari degli altri, non ti ho chiesto io di venire a urlare ai quattro venti chi ero, stupido Giudice di merd...

Si fermò, di colpo.

La mano ancora sospesa a mezz’aria, sopra al petto di lui, sulle bende, ormai quasi completamente inzuppate dal sangue fresco.

I suoi lineamenti addormentati distorti dal dolore, la fronte imperlata di sudore freddo, le labbra strette e pallide, il respiro interrotto dai gemiti.

Eranthe ristette, chiudendo gli occhi. Cosa stava facendo? In che mostro si stava trasformando? Lo sapeva, lo aveva da sempre saputo, che sarebbe giunto il momento in cui Hades avrebbe reclamato quanto gli apparteneva o il Santuario si sarebbe accorto della sua ascendenza.

Si era comportata come una bambina capricciosa, senza tenere conto del fatto che Minos la considerava di buon grado una sua alleata e il suo intervento le aveva in qualche modo salvato la vita, mentre il Santuario aveva spedito Sisifo ad eliminarla.

Perdonami...

Adesso avrebbe anche dovuto cercare l’aiuto di chiunque abitasse quella dimora.

“Ehi! Ehi!”, cercò di farsi udire, la voce gracchiante. “C’è qualcuno?”.

Prese un lungo respiro. “Ehi!”, questo le uscì come un sospiro roco, mentre scivolava lentamente nell’incoscienza una seconda volta.

Avvertì una mano serrarsi decisa attorno al suo braccio e riuscì a scorgere gli occhi grigi del Grifone, aperti, fissi nei suoi.

“Scusami”, riuscì a malapena a sussurrare.

Poi tutto si fece maledettamente scuro e, prima di scivolare nuovamente nel sonno, udì la risata sommessa del Giudice.


Minos era stato destato da un dolore pungente, acuto, proprio al centro del petto, dove solo ore prima Albafica aveva piantato la rosa intrisa del suo sangue avvelenato. Avvertì diversi colpi raggiungerlo, con convinzione sempre maggiore e per un attimo dubitò di aver effettivamente lasciato il campo di battaglia.

Poi sentì le ferite riaprirsi e il suo sangue scorrere di nuovo. Aprì gli occhi sullo sguardo spiacente di lei.

Perdonami

Gli esplose dritto nella mente, catalizzato dal cosmo agitato di lei.

“Scusami”, a mezza voce.

Rise Minos, non si aspettava nulla di diverso dallo Specter di Bennu. L’unico che, sempre, per sempre, era riuscito a mettere in scacco persino lo stesso Hades.

L’unico che non prendeva ordini da nessuno.

Non si sarebbe sorpreso, Minos, se avesse visto la Fenice tra le schiere della stessa Athena, in una delle sue future reincarnazioni.

Respirò lentamente, cercando nel suo cosmo almeno la capacità di fermare il sangue che aveva, ormai, macchiato anche le lenzuola.

Aveva agito senza pensare, senza valutare l’effettiva pericolosità delle conseguenze delle sue azioni.

Aveva recuperato la ragazza, volando lontano, almeno quanto le sue scarse forze gli avevano concesso, dopo lo scontro con quel ragazzo d’oro dalla bellezza disarmante.

Un peccato fosse perito, alla fine.

Era riuscito ad arrivare fino alla fortezza del suo signore, rovinando nell’agrumeto che delimitava la tenuta dove sorgeva la residenza di Hades.

Si era appoggiato al tronco di un albero di limoni dal giallo intenso*, coricandola all’ombra, accanto a lui.

Esplose il suo cosmo così da chiamare aiuto e riportare la Surplice di Bennu che dormiva nella cantina di Rodorio, giunta infine a lui in una nuvola di fiamme indaco.

Così, ne era certo, il suo signore sarebbe stato soddisfatto: finalmente anche la riottosa Bennu, la Fenice dalle ali di fuoco, aveva servito lo scopo ed aveva aperto un varco nelle difese del Santuario, finalmente lui aveva assolto il compito che Hades gli aveva assegnato di riportarla a casa.

Aveva vomitato sangue, esausto, ormai certo che lei fosse morta e lui stesse per intraprendere la medesima strada.

La sua Surplice, alla fine, lo aveva salutato, tornando accanto la compagna impolverata, mentre lui scivolava contro il tronco ruvido, rovinando accanto a lei.

Con le ultime forze aveva appoggiato la fronte a quella di lei, nel tentativo estremo di richiamare le fiamme sopite del suo cosmo, con urgenza, ed aveva sorriso, quando la vampata violetta aveva dissolto la freccia del Sagittario.

Li aveva trovati così, Lune, allertato dall’esplosione del cosmo del Grifone, quando arrivò sulle ali di Balrog, sgomento nel vedere il suo diretto superiore gravemente ferito e privo di sensi.

Lo stesso guerriero, ora stava sulla porta, gli occhi sgranati, la frusta pronta a colpire stretta nella mano.

“Che cosa è successo?”, sbraitò, gli occhi di un colore improbabile fissi su di lei, ormai priva di conoscenza.

“Nulla, Lune”, intervenne Minos, le labbra ancora distorte in un ghigno doloroso.

“Ho fatto un movimento imprudente”, sospirò, gli occhi fissi in quelli del suo sottoposto, sfidandolo apertamente a dire alcunché sulla mano sporca di sangue di lei.

Il Giudice si issò in piedi con non poca fatica.

“Adesso aiutami a cambiare le bende, immagino che il sommo Hades voglia vedermi.”


Athena si svegliò nel suo letto bianchissimo, nella stanza attigua quella del sommo Sage. Cercò di scorgere evidenza del rumore che l’aveva svegliata, nel cuore della notte. L’unico chiarore che illuminava i contorni delle cose era la luce della luna e delle stelle che filtrava dalla finestra aperta.

La brezza che sapeva di mare spostava appena le tende e l’organza che drappeggiava fluente il baldacchino.

Si alzò incerta, incedendo lenta verso la balconata, quando un’ombra seduta sulla balaustra attirò la sua attenzione. “Chi va là?”, indietreggiò, spaventata.

“Somma Athena, non temete”, asserì quella voce familiare, mentre l’uomo si portava di fronte a lei, palesando i suoi lineamenti alla luce della luna.

“Sisifo”, sospirò lei, sollevata, gli occhi sorridenti, la mano stretta al petto tornò a rilassarsi.

“Cosa ci fai qui?”, domandò d’un tratto, preoccupata per il suo primo cavaliere, dirigendosi lesta verso l’esterno. “Qualcosa non va?”

Sisifo sorrise.

Di un sorriso strano, diverso, che sembrava accentuare la profonda rassegnazione nei suoi occhi di cielo.

Il vento giocava con i suoi capelli per una volta liberi dalla costrizione che portava attorno alla fronte, la sua camicia sbottonata a rinfrescare la pelle abbronzata, nessuna armatura copriva il suo corpo.

Poi si gettò in ginocchio di fronte a lei.

Non la posa composta di sottomissione di un Santo di fronte alla sua dea, ma solo la disperata resa di un uomo.

“Somma Athena, chiedo il vostro perdono.” Non aveva nemmeno il coraggio di incontrare i suoi occhi, mentre avvertiva le sue mani fresche sulle spalle, cercare di convincerlo in piedi.

Questa è una bestemmia!, gli aveva intimato Asmita della Vergine, che aveva letto prima di tutti gli altri nel suo cuore.

È un sacrilegio, Sisifo: Athena è una dea. Una dea fanciulla che mai deve conoscere il sentimento di un uomo.

Presero posto sul piccolo divano di fronte al tavolino in ferro battuto, mentre la luna si rifletteva sulle onde del mare, appena increspato.

“Non volevo disturbare il vostro sonno”, cercò di giustificarsi, il suo sguardo non abbandonava le mani intrecciate appoggiate alle sue ginocchia. “So che le sembrerò solo uno stupido, ma un pensiero non mi lascia dormire.”

Lei lo esortò a continuare, restando in silenzio e posando una mano sulle sue.

“Sono colpevole, somma Athena.” La ragazza divina avvertì le lacrime cadere sul suo braccio come a nutrire la catena di fiori che portava al polso.

“Io vi ho strappata alla vostra terra”, asserì cupo, la voce poco più di un sussurro strozzato.

“Io ho riconosciuto la dea che era in voi e vi ho risvegliata portandovi qui al Santuario”, continuò, prendendosi la testa tra le mani.

“Io ho dato inizio alla Guerra Sacra”, alzò il viso, Sisifo, senza vergogna, esponendo la sua anima alla dea, alla donna, seduta accanto a lui.

La luce delle stelle brillava nelle sue lacrime.

Athena scosse il capo lentamente e Sisifo avvertì il profumo dei fiori di campo, mentre le dita fresche della ragazza asciugavano le sue guance.

“Non consolatemi.” Il tono roco e disperato. “Non fatelo, somma Athena.” La sua mano calda a stringere quella di lei.

“Io vi ho condannata.” Nuove lacrime che, questa volta, brillavano anche negli occhi di lei.

“Sisifo.” L’uomo si accorse che lei lo stava supplicando, con gli occhi e con il cuore, ma lui non poteva, non voleva capire, non ancora, non ancora.

“Somma Athena. Io ho peccato contro di voi.” Si portò la mano libera al cuore, senza lasciare gli occhi di lei.

“Come Santo e come uomo.” Le carezzò una guancia, leggero.

“Ed è come se la mia stessa freccia d’oro si fosse conficcata nel mio petto”, sospirò, sussurrando, come se parlare gli costasse uno sforzo immenso.

“I vostri occhi sono sempre nel mio cuore e vorrei, vorrei...”, scosse il capo, sconsolato. “Ma non posso, somma Athena, non posso.”

Sasha sorrise, mentre una lacrima si infrangeva contro la mano di Sisifo.

“Le scelte che facciamo vanno per mano al destino che le nostre stelle rappresentano”, sospirò lei, la voce bassa in quella notte sospesa.

“Sei davvero certo che se tu te ne fossi rimasto buono buono al Santuario, tutto sarebbe stato diverso?”, sorrise, abbozzando una risata scuotendo il capo, appena.

“Non posso dimenticare le vostre lacrime”, riprese lui, mesto.

“Tutti gli altri lo fanno. Perché per te è diverso, Sisifo?”, domandò quindi la dea, mentre lui spostava la mano sulla spalla di lei, il suo fuoco sulla pelle candida.

“Io, somma Athena...Io...” Poi il Santo rinunciò a tutto ciò che sapeva di sacro, rinunciò al suo essere Sisifo del Sagittario.

“Perdonatemi, somma Athena.” Chiuse gli occhi.

E non seppe mai dove trovò il coraggio o la forza, ma si chinò un poco e baciò le sue labbra.

Casto, all’inizio, solo un sussurro suggerito dalla brezza.

Si dissetò dei suoi occhi verdi, curiosi, felici, per reclamare le sue labbra una seconda volta, con convinta passione.

“Io vi amo, come un uomo ama la sua donna”, sospirò tremando.

Dimentico del fatto che stesse baciando la somma Athena sotto le stelle, solo un ragazzo innamorato, solo una ragazza che accettava il suo cuore.

La luna, silenziosa testimone di questo sacrilegio, le stelle lacrime luminose dei cieli.

Sisifo la guardò, un’ultima volta, imprimendo nella memoria le sue gote arrossate, le sue labbra lucide, la sua pelle diafana e fresca.


Poi qualcosa esplose, alle sue spalle.

Un rumore sordo, una risata roca, solo il tempo per spingerla con forza lontana da ogni pericolo.

Prima che i suoi occhi si chiudessero.

Prima che i suoi occhi si riaprissero, sulle strade polverose di un piccolo paese, in Italia.

“SAGE!”

Il grido di Athena esplose nella sua mente, strappandolo al sonno e riportandolo di colpo alla realtà.

Il Grande Sacerdote giunse appena in tempo per scorgere l’anima luminosa di Sisifo scomparire nel buio tra le braccia si una figura coperta da una Surplice nera.


El Cid si svegliò di colpo, gli occhi subito su Francine che dormiva tranquilla accanto a lui, ignara del cosmo del Sagittario che sembrava essersi spento all’improvviso mentre quello di Athena era stato agitato da una forza immensa.

Il richiamo di Sage arrivò direttamente nei suoi pensieri, invocando al medesimo tempo l’armatura del Capricorno.

“Devi andare?”, chiese a mezza voce sua moglie, mentre si stropicciava gli occhi assonnati.

Sapeva che sarebbe presto arrivato il giorno in cui avrebbe dovuto ubbidire e rispondere ad una chiamata inevitabile. Lo sapeva e paventava l’espressione di puro terrore che avrebbe letto nei suoi occhi, celato solo dalla sua composta determinazione.

Perché lei era la moglie di un Santo e sarebbe stata alla sua altezza.

“Tornerai?”, concluse, la mano stretta attorno al polso di lui, calda come le sue lacrime contro la pelle, come il cuore che batteva contro al suo.

Non rispose, El Cid, la voce troppo spezzata per poter essere di conforto, così la baciò, lentamente, assaporando le sue labbra, tinte del rosso del timore e dell’azzurro delle lacrime.

Non rispose, El Cid, e non si voltò, nemmeno di fronte al colonnato esterno del tempio del quale era custode, invocando le stelle che la proteggessero, assieme al figlio che, con ogni probabilità, non avrebbe nemmeno potuto vedere.

Si presentò un secondo dopo, in ginocchio di fronte ad un livido Sage e ad una piangente Athena.

“Mi addolora chiamarti in un momento del genere, El Cid”, esordì il Grande Sacerdote, grave, “tuttavia sei l’unico Santo abbastanza potente da assolvere il compito”.

Fu quindi il turno di Athena. “Gli Oneroi hanno rapito Sisifo chiudendo la sua anima nel mondo di Morphia.”

Il Capricorno chinò il capo.

Gli Oneroi.

Divinità minori, figli di Hypnos, era scontato lavorassero per Hades, ora.

La consapevolezza che stavano mandando lui, un uomo, a combattere contro gli dei gli arrivò addosso come una pugnalata.

Tuttavia annuì, gli occhi decisi.

“Ti raggiungerò, El Cid”, asserì la dea, seria, facendo un passo nella sua direzione.

Sage scosse il capo, ma non c’era nulla che potesse fare per aiutarli, se non seguire con gli occhi la schiena possente del Capricorno che si allontanava nella notte.


NOTE:

* riferimento non poco casuale ai limoni dello zio di Milo, che dici Francine?

Sempre GRAZIE a Francine che sopporta i miei deliri: sei preziosa!

E grazie a Voi che passate di qui

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Capitolo 7
*** Per Tagliare la Testa al Vento ***


Per Tagliare la Testa al Vento


Leonidas , si chiamava; aveva poco più di vent’anni, occhi del colore del mare e quel fisico scolpito da anni di addestramento presso il Santuario.

Era un soldato semplice e non vestiva alcuna armatura sacra ad Athena, tuttavia era orgoglioso del suo ruolo: come ricordava sempre loro la dea in persona, ognuno era utile al Santuario e non v’era mansione che rimanesse in ombra rispetto ad altre.

Si era voluto concedere un premio: dopo tutto il trambusto accaduto un paio di giorni prima, era dovuto stare di guardia per ventiquattro ore di fila ed aveva bisogno di un diversivo, prima di una lunga notte di sonno.

Quello che aveva trovato nella stanza bianca dalle persiane azzurrissime, però, era un uomo dal cosmo impressionante che lo aveva squadrato da capo a piedi, ringhiando, prima di assestargli un pungo in pieno viso.

“Non farti più vedere.”

Aveva sussurrato, letale come il respiro di Thanatos.

Leonidas, si chiamava il giovane, robusto soldato di Athena, mentre si arrampicava per la scalinata che conduceva al dormitorio, con il naso frantumato e un occhio livido.

La notizia che era rimbalzata per il Santuario, che uno Specter si nascondeva a Rodorio, dunque, corrispondeva al vero?

Il rapimento di Sisifo aveva messo in ombra tutto il resto, il cosmo della dea reso inspiegabilmente instabile non era riuscito a mantenere la barriera protettiva e un altro cavaliere della casta più potente era scomparso nelle prime ore dell’alba.

Leonidas rabbrividì: effettivamente quell’uomo aveva tutte le carte in regola per sembrare un demone appena sputato dall’Ade, ma, allora, la sua dolce Eranthe, che fine aveva fatto?


Alla fine Deuteros aveva ceduto e la maschera era definitivamente finita a prendere polvere in un angolo sperduto della piccola casa dalle imposte azzurre.

La saggia Areia gli aveva trovato una sistemazione provvisoria nella stanza che Eranthe utilizzava per lavorare.

Aveva, però, tralasciato di informarlo del viavai di clienti che ogni sera si presentavano alla sua porta.

Civili, semplici soldati, nessuno che avrebbe potuto riconoscerlo; tuttavia, la loro mera presenza lo infastidiva.

Molto.

Troppo.

Più di quanto fosse pronto ad ammettere.

Aveva giurato a se stesso che avrebbe detto un paio di parole ad Eranthe non appena fosse tornata.

O lui la fosse andata a prendere.

Anche strappandola a forza dalla bocca dell’Ade, o ancora peggio, dalle braccia di quel pallido gallinaceo con quella ridicola armatura alata.

Minos. Sputò, perfino nella parte più recondita della sua mente.

Che aveva osato, osato, profanare con le sue manacce la sua pelle rosea e respirare la medesima aria, a pochi centimetri dalle sue labbra.

Che aveva portato a galla qualcosa di sacro, inviolabile, urlandolo poi ai quattro venti come se fosse un suo preciso compito e dovere.

Qualcosa che lui aveva scoperto anni addietro, in una delle rare notti in cui lei si era mostrata a lui, completamente, nelle quali il suo cuore di donna aveva avuto la meglio sul ruolo che ricopriva.

Qualcosa che gli apparteneva.

Da quella sera, fatidica, nella quale era giunto da lei, ferito, spezzato dal suo stesso fratello, che ora vestiva orgoglioso un’armatura non sua.

Non sapeva il motivo per il quale era sceso a Rodorio, una manciata di minuti di piacere era l’ultima delle sue necessità.

Tuttavia...

Era caduto in ginocchio di fronte a lei, macchiando il pavimento di sangue fresco.

“Deuteros.”

Poteva ancora udire il suo tono preoccupato chiedergli: “Chi è stato? Chi ha potuto farti questo?”, baciando le sue labbra che sapevano di sangue.

Ma lui aveva scosso la testa, rassegnazione e rabbia gli avevano tolto ogni parola, ogni giudizio.

Eterna ombra, per permettere ad Aspros di brillare nella luce.

L’aveva sentita tremare, guardandola, confuso mentre veniva investito da una forza che non aveva mai avvertito prima.

La rabbia aveva catalizzato il suo cosmo scuro e caldo, fiamme indaco all’improvviso avevano avvolto le sue mani.

E lui, per un attimo, aveva visto quell’ombra alata fatta di fuoco e di tenebra, alle sue spalle.

Eranthe, terrorizzata, era crollata accanto a lui mentre Deuteros, stringendola, aveva dissolto fiamme e cosmo, pregando che nessuno si fosse accorto di nulla, su al Santuario.

“Cosa è successo?”, gli aveva quindi domandato sgranando gli occhi, confusa.

“Nulla”, l’aveva rassicurata lui, prendendola tra le braccia.

“È normale”, aveva aggiunto baciandola con delicatezza alla base del collo, accarezzandole i fianchi con urgenza, cercando, con gli unici mezzi di cui disponeva, di distrarla dall’effettiva gravità di quanto accaduto.

Normale un accidenti, aveva riflettuto lei, per nulla a suo agio nella sua stessa pelle, ma, poi, tutto ciò che aveva visto era l’azzurro intenso degli occhi di lui.


Si prese la testa tra le mani, sentendo sulla pelle il buio della notte senza luna.

Solo poche ore prima si trovava a tavola con Areia e sua figlia Melina.

“Questo, Dimitra cara, è tuo padre, Deuteros”, aveva proclamato l’anziana, solenne, al sorriso di miele della bambina e allo sguardo stupito della figlia.

“Si prenderà cura lui di te, almeno fino a che la mamma sarà via”, aveva concluso, sorseggiando l’infuso al biancospino che le calmava i nervi.

La bambina l’aveva squadrato, leccando via il miele fuso dalle dita.

“Hai la maschera perché sei brutto?”, aveva quindi domandato, alleggerendo di colpo l’atmosfera tesa e triste di quella cena improvvisata.

Lui aveva scosso la testa, incapace di trovare le parole, per dirle che no, non sapeva giudicare se fosse brutto o meno, l’unica cosa che contava era che nessuno lo vedesse, su al Santuario.

Lui era solo identico a suo fratello, anche se Eranthe una volta gli aveva detto che erano diversi come la notte dal giorno.

“Allora toglila, no?”, aveva detto lei, agguantando il secondo baklavà ed allungandosi ad armeggiare con i ganci.

Le sue mani grandi avevano aiutato le dita paffute che sapevano di miele e i suoi occhi avevano letto la gioia nell’espressione di trionfo quando la maschera, finalmente, fu sfilata.

“Vedi?”, gli aveva detto “Così puoi mangiare tutto quello che vuoi!”

E lui aveva ricordato, in un attimo, gli anni che gli erano scivolati addosso, accanto a lei.

La sua presenza silenziosa, dolorosamente necessaria nelle notti di luna nuova, consolante come un balsamo sulla pelle ferita.

E quella notte, mentre il mondo si nascondeva sotto la coltre delle tenebre, lui pensava che, forse, aveva mentito a se stesso a sufficienza.

Che non sarebbe rimasto ad attenderla tornare vestita di nero.

Magari sottobraccio a quel Giudice, Minos, dèi, quanto lo faceva fremere questo pensiero!

No!

Lui sarebbe diventato Deuteros dei Gemelli, per lei.

Avrebbe strappato l’armatura dalla pelle di suo fratello e avrebbe affrontato Hades stesso.

E l’avrebbe reclamata, come sua.

Alle ortiche se lei lo avesse deriso o avesse rifiutato.

Si sarebbe fatto consigliare da El Cid, quando fosse tornato.

Sospirò, accarezzando piano i capelli biondi di Dimitra che dormiva beatamente, ignara del manipolo di soldati che stava incedendo a passo lesto lungo la strada polverosa.

Deuteros aprì le labbra in quel ghigno di scherno che la faceva ridere, schioccando le dita delle mani e andando loro incontro.


Hades era solo un ragazzo triste, chiuso in una prigione dorata, che dipingeva su una tela perduta, un quadro invisibile.

Il rosso delle lacrime che nessuno vedeva l’aveva colpita al cuore peggio di una pugnalata.

Gli occhi chiari, di un colore impossibile da definire, tra l’azzurro ed il verde, recavano tutta quella saggezza che lei aveva potuto scorgere solo nello sguardo di Athena.

Quel potere trascendente rivaleggiava con la triste sofferenza.

Si chiese, Eranthe, se solo qualcuno dei suoi soldati, o quella donna, Pandora, che si atteggiava a comandante supremo, gli avesse mai chiesto cosa provasse, quale dolore racchiudesse in sé e quale tormento.

Cosa sostenesse la sua divinità ferita e fraintesa.

Alone, il fratello di Sasha che aveva concesso il suo corpo al dio, dov’era adesso? Quanto c’era della sua solitudine e quanto di quella del dio che con un inganno da parte del suo stesso fratello, era stato scacciato dall’Olimpo?

Le parve di scorgere una figura imponente alle sue spalle vestita di una corazza nera, le grandi ali dispiegate alle sue spalle.

Il volto evanescente, gli occhi grandi, spalancati.

L’aura di solitudine che emanava da lui la fece rabbrividire e sperò che Persefone si palesasse in fretta a lenire il suo dolore.

I fili cosmici di Minos le imprigionarono le membra, gentili, senza farle male, accompagnandola in ginocchio, i suoi occhi grigi preoccupati.

Eranthe si accorse di essere rimasta troppo a lungo nei suoi pensieri, il suo ostinato mutismo e la rigida postura potevano passare per insubordinazione, visto che i tre Giudici erano già inginocchiati, col capo chino, mentre lei era rimasta in piedi, a fissare quel ragazzo scuro con occhi pietosi.

“Quindi tu”, Hades cominciò a parlare ma lei non avrebbe saputo dire se stesse effettivamente udendo o se quella voce fosse semplicemente esplosa nella sua mente, “saresti Bennu?”.

Pareva incredulo, e, per esperienza, quando una divinità si mostra incredula, non è mai un buon segno.

La ragazza sospirò.

“No.”

Le parve di udire un gemito di sconforto provenire da Minos. Il Giudice biondo, invece, la squadrò cupo, come a voler saggiare la sua effettiva serietà.

“Che posto hai qui, dunque?”, le domandò Hades, voltandosi lentamente, gli occhi fissi nei suoi, l’attenzione completamente su di lei.

“Mi ci hanno portata, qui”, replicò lei, piccata. “Non è che ci sia venuta di mia sponte.”

Gli occhi del dio si spostarono su Minos, l’aria nell’intera sala si fece carica di una sorta di elettricità catalizzata dal pennello che restava sospeso a pochi centimetri dal dipinto.

“Il suo cosmo è evidente, anche se ancora sopito”, sembrò giustificarsi lui, la voce bassa, il tono dimesso. “Le sue fiamme hanno distrutto la freccia del Sagittario”, sembrò un maestro che cerca di spiegare con cautela ad una classe di monelli

“La Surplice l’ha riconosciuta”, sostenne quindi il Giudice. “Pur non avendola mai indossata”, concluse.

Hades sorrise, sembrando vagamente divertito.

“Ecco spiegato, infine, dove fosse finito Kagaho, e dove la Fenice d’Egitto*.”

I suoi occhi tornarono a lei.

“Non è una prassi usuale che uno Specter venga nominato quando il predecessore è ancora in vita.” Sembrò ponderare per un attimo. “Né è usuale uno Specter femmina, eccezion fatta per Violate”, spostò lo sguardo sul Giudice dai capelli corvini.

“Stando a quanto Minos ha riportato dopo l’ultima missione, il Santuario ha inviato Sisifo del Sagittario per eliminarti, confermi?”, attese paziente che lei annuisse. “Hai ricevuto una qualche forma di addestramento? Qual era la tua mansione presso il Santuario?”, chiese quindi.

Tornò a dipingere, e non si avvide che l’aria di sfida della ragazza aveva lasciato il posto ad una cupa rassegnazione.

“No”, gli giunse infine, dopo quella che sembrava un’attesa interminabile. “Io non lavoro per il Santuario.” Cercò dentro se stessa la forza di non pensare a quanto aveva lasciato indietro, ancora, a chi la stava aspettando. Doveva vivere, per Dimitra, per vedere ancora i suoi occhi. Per lui, ammise a se stessa, perché la luna sarebbe stata oscura, quella notte; aveva tenuto il conto di nascosto da quando era arrivata nel palazzo del dio dell’oltretomba, e le mancava la sua forza, il suo cosmo così avvolgente, da farle dimenticare, per un’ora, cosa ci fosse al di là della sua porta azzurra.

Poi sorrise, che cosa aveva ancora da perdere, in fondo?

“Voglio tornare a casa. Vi prego, sommo Hades, non vi sono di alcuna utilità, fatemi tornare a Rodorio, dai miei cari”, continuò, accorata come una supplice.

Hades sorrise di rimando, i suoi occhi sembrarono leggere dentro di lei.

“Ritorna alle tue stanze”, asserì deciso. “Non ho intenzione di addestrarti, non perdo tempo in queste inezie. La tua sola presenza al Santuario ha fiaccato la barriera di Athena, consentendo a Minos e al suo manipolo di guerrieri di passare e raggiungere Rodorio. Ciò mi basta, per ora”, aggiunse prestando appena attenzione alla sua espressione addolorata.

“Minos sostiene di avere prove concrete che tu sia uno Specter”, aggiunse. “Mi fido ciecamente del suo giudizio, non per nulla è uno dei miei ufficiali più vicini. Capirai che per questo motivo non posso rispedirti al Santuario; andresti incontro a morte certa. Attenderemo che il tuo cosmo o la Surplice si palesino e ci dicano cosa fare di te.”

Eranthe annuì, deglutendo appena, quelle parole risultavano come una velata minaccia.



El Cid era in piedi di fronte all’anima di Sisifo. La sua armatura dorata rispendeva alla luce di un sole fasullo, fiori carminio si intrecciavano tutti intorno a lui.

Non vacillarono la sua fede e determinazione, ma nei suoi occhi scuri domande e dubbi rendevano la sua postura ancora più rigida e severa.

Perché, somma Athena, perché mi fate questo?

Tornò con la mente alla donna che lo attendeva a casa, quella stessa abitazione così fredda nei suoi marmi chiari ed eterni, grazie a lei aveva acquisito vita e calore.

“Sono incinta, El Cid.” Gliel’aveva confessato con gli occhi bassi e le labbra tremanti, con la postura dimessa di una peccatrice davanti al giudice.

Aveva sorriso, lui, felice nel vedere la sua espressione di stupore e sollievo.

L’aveva abbracciata, quindi, con una dolcezza infinita, in quelle braccia letali.

“Grazie, Francine”, le aveva sussurrato, quindi, le labbra appoggiate al suo orecchio, ché quel tono, quella voce, dovevano essere solo per lei.

Solo per lei...

Che ora, sicuramente, stava dritta in piedi di fronte alla finestra che dava su Rodorio, le mani strette di fronte a sé.

Poteva avvertire i suoi pensieri, le sue accorate preghiere.

Le sue suppliche.

Perché lui tornasse.

Scosse il capo El Cid, non poteva lasciare spazio a timori o esitazioni.

Per lei, per Athena e per Sisifo, che considerava al pari di un fratello.

Per Sisifo, che gli aveva confidato a mezza bocca i segreti del suo cuore in subbuglio, una notte d’estate in cui il vino resinato aveva sciolto le loro lingue.

“Io l’amo, El Cid”, gli aveva detto scuotendo il capo.

“L’amiamo tutti, Sisifo. Non è forse così che deve essere?”, aveva commentato il Capricorno come se stesse sostenendo l’ovvio. “Non è forse l’amore il motore che muove la stessa Athena?”, concluse, bevendo un altro sorso dal suo bicchiere ghiacciato.(

Ma Sisifo aveva scosso il capo con una disperata convinzione che lo spagnolo non gli riconosceva.

“No, El Cid!”, lo aveva fissato dritto negli occhi, con i suoi, arrossati e sconvolti dall’atrocità di quanto stava ammettendo.

“Io la amo davvero”, aveva chiuso le mani, i pugni talmente stretti da far sbiancare le nocche.

“Come un uomo, non solo come un Santo.”

Sospirò, d’un tratto la sua intera figura parve sgonfiarsi.

“Vorrei poterla portare sulla spiaggia nei pomeriggi d’estate. Baciarla sotto le stelle sull’acropoli e fare l’amore con lei alla luce della luna”, asserì serio, la voce pacata di chi grida dal cuore.

El Cid era sbiancato, conscio della serietà delle implicazioni e della condizione di quell’uomo condannato.

“Asmita ha capito. E mi ha dato del sacrilego. O del pazzo”, aveva abbozzato una risata, amara come quelle arance d’estate che Manigoldo portava dall’Italia.

E ci credo, aveva pensato il Capricorno serio, conoscendo l’estrema quanto leale chiusura del Santo della Vergine.

Tuttavia...

“Il fatto è”, aveva continuato il Sagittario, gli occhi addolciti da quella consapevole sconfitta, “che noi siamo guerrieri. Santi che combattono una guerra terribile.”

Si era inumidito le labbra, riflettendo.

“Potremmo non arrivare fino a domani, le nostre vite sono in mano ad Athena, ora più che mai.” Aveva atteso qualche minuto, il silenzio amplificava il canto dei grilli.

“Non voglio vivere con il rimpianto di non averle confessato ciò che provo, El Cid”, aveva concluso, la determinazione rendeva i suoi occhi duri come una corazza.

“Ricordati di chi stai parlando, Sisifo”, gli aveva consigliato pacato il Santo del Capricorno.

“Credimi, ti capisco”, aveva abbozzato una risata che gli aveva fatto vibrare il petto, mentre una nuvola di fumo azzurro si alzava verso il cielo.

“Nessuno meglio di me comprende quanto sia importante avere accanto la persona che parla direttamente alla nostra anima”, gli aveva spiegato facendo un gesto con il mento nella direzione del villaggio sotto di loro.

“Ma non dimenticare mai”, e lo aveva guardato dritto negli occhi, “che lei è una dea”. Aveva parlato lentamente, scandendo le sillabe.

“Vorrei, per il tuo bene, che non abbia già dimenticato cosa vuol dire essere donna”, aveva concluso, lanciando il mozzicone lontano.


E ora il Sagittario dalle grandi ali d’oro si trovava di nuovo in quel paesino sperduto dell’Italia, a ridosso delle colline incastrato tra i campi e il fiume che in primavera, come era il detto locale, portava con sé almeno due bambini**.

Camminava deciso verso la sua meta, appena fatto uomo, con ancora l’ombra del ragazzo sul viso e il cuore pesante come un macigno.

Perché lui l’aveva vista, nelle ore buie prima dell’alba, nelle visioni evocate dal Grande Sacerdote, all’altura delle stelle.

E il cuore aveva perso un battito, nel vedere quella ragazzina, poco più che una bambina, correre per le vie del borgo alto.

Il suo cuore candido non ancora lordato dalle brutture della vita. La speranza incrollabile nello sguardo limpido.

E anche se non aveva nessuno accanto da chiamare “mamma” durante le notti di temporale, aveva abbastanza amore intorno da non farle accusare alcun dolore.

Ma lui le aveva preso la mano.

E quel gesto così assoluto e terribile le aveva sottratto tutto.

Il suo paese, i suoi amici, quella famiglia allargata di ragazzi e bambini che la strada aveva reclamato.

La giovane Athena si era fermata, la frangia a celare gli occhi chiari.

“Tu, Sisifo”, l’aveva condannato. “Hai dato inizio alla guerra Sacra.” Lo aveva colpito con un pugnale d’oro in mezzo al petto.

“Tu, mi hai risvegliata e hai richiamato Hades!”, concluse, urlando.

Le case alle loro spalle infuocate dalle fiamme eterne della dannazione.

E poi Athena aveva gridato.


El Cid aveva avvertito l’atmosfera cambiare tutto intorno a lui. Tre, no, quattro*** presenze si erano palesate al confine tra il sogno e l’oblio.

Lui non aveva vacillato nemmeno per un secondo, scagliando il suo colpo più potente verso quei cosmi potenti ed oscuri.

Non aveva emesso nemmeno un gemito, quando la sua Excalibur aveva attraversato lo spazio, distorta, per abbattersi con tutta la sua intrinseca potenza sullo stesso braccio che l’aveva scagliata, tranciandolo di netto.

Il sangue scorreva macchiando il mantello candido, mentre una risata si disperdeva nell’aria.

Chiuse gli occhi, El Cid, non doveva cedere. Francine lo stava aspettando, al Santuario. La sua fiducia in lui incrollabile, non poteva deluderla, non poteva permettersi di non tornare.

Alzò il viso, un sorriso sinistro gli distorse i lineamenti, prima che spiccasse un salto verso quel cielo dipinto e scomparisse alla ricerca dei suoi nemici. Le dimensioni saettavano accanto a lui confuse.

Ben altro ci sarebbe voluto per fermarlo, ben altra forza catalizzava il suo cuore, ora.

Aspettami, Francine, aspettami ancora un poco, amore mio...


“No?! NO?!” Gli occhi grigi di Minos rivelavano tutta l’effettiva rabbia che controllava i suoi movimenti bruschi e dolorosi.

Eranthe constatò che sul braccio che lui stringeva convulso cominciavano a formarsi lividi bluastri.

Il viso del Giudice si portò a pochissimi centimetri dal suo.

“Hai solo una vaga idea di quello che sarebbe successo se il sommo Hades non si fosse trovato in un momento di magnanima gioia?!”

Stava sussurrando a bassa voce e lei non avrebbe mai creduto possibile che quell’uomo potesse essere tanto spaventoso.

Reagì spingendolo via, con forza, avvicinandosi alla porta di legno laccata di bianco che separava la sua stanza da quella del Giudice.

“Vai al diavolo!”, sputò lei, gli occhi dello stesso indaco delle fiamme delle quali era custode.

Ma lui fu più veloce, il suo cosmo bruciava mentre si parò di colpo davanti a lei impedendole qualsiasi tentativo di fuga.

“Tu sei Bennu”, il tono della sua voce si alzava pericolosamente, “che tu lo voglia ammettere o meno, non ha alcuna importanza”, concluse riacquistando una parvenza di compostezza.

“La Surplice non è mai tornata a Kagaho. Mai!”, continuò, le mani sulle sue spalle, scuotendola impietoso.

“Il tuo cosmo ha risposto al mio, riconoscendomi come alleato!”, spiegò quindi e a lei sembrò, per un attimo, che il suo tono si facesse implorante.

“Minos, io sono solo Eranthe. Poniamo pure che io sia Bennu, cosa cambia? Non so nulla di cosmi e di guerre.” Stava parlando piano, la notte, fuori, aveva spento ogni luce. “E non ne voglio capirne nulla! Sono una puttana, non una guerriera!”, la voce le venne meno.

“Voglio tornare a Rodorio e rivedere mia figlia.” La sua strenua volontà di non mostrare alcuna debolezza aveva retto, nonostante le lacrime facessero brillare i suoi occhi, alla luce della singola candela che bruciava sul tavolo poco distante.

“Stupida!”, la ammonì lui serio.

“Il Santuario ti vuole morta”, le spiegò quindi. “E finiresti per mettere in pericolo anche tua figlia”, concluse, gli occhi incastrati in quelli scuri di lei.

“Il sommo Hades ti ha affidata a me. Non posso fare finta di nulla”, asserì, fermo.

“Cercherò di fare in modo che il tuo cosmo si manifesti in maniera evidente, così che ogni dubbio venga fugato”, concluse.

“Sia!”, gridò lei, di rimando. Le mani decise a spingerlo ancora via, premendo dolorosamente sulla pelle tesa delle ferite non ancora del tutto guarite.

“Ma non voglio essere plasmata in qualcosa che non sono!”, sostenne quindi, colpendolo ancora e ancora, riversando su di lui la frustrata rabbia che la dominava.

“Io non voglio far parte di questa stupida guerra che vede fratelli contro fratelli, madri perdere i propri figli e mogli i propri mariti!”

Ormai stava gridando e pestando i piedi, testarda come solo lei sapeva essere.

Incoerentemente pensava che se la saggia Areia avesse assistito alla scena, l’avrebbe severamente ammonita per questo.

“Io non appartengo a nessuno, Minos. Né ad Athena, né ad Hades. Lo vuoi capire?!”, lo spinse ancora.

“E tu vuoi capire che non sempre c’è la possibilità di avere una scelta?”, riprese lui, il suo cosmo agitato aveva spento la candela e i suoi fili terribili le avevano legato i polsi bloccandole, effettivamente le mani.

“Non puoi scegliere chi sei”, continuò a bassa voce.

“Posso decidere chi voglio essere, però.” Eranthe abbassò gli occhi sulle mani immobili. “Come ho fatto finora”, concluse.

Il Giudice rise, scuotendo il capo, notando il sangue scuro che le macchiava i polsi, là dove i suoi fili avevano ferito la pelle.

“Piccola ingenua!”, sospirò liberandola dalla sua costrizione. “Athena ti vuole morta. Hades ti vuole viva, se gli dimostri chi puoi essergli in qualche modo utile. E tu”, tornò a guardarla negli occhi, “fai i capricci come una bambina viziata”.

Eranthe fece un passo nella sua direzione. “Perché insisti tanto?”, domandò. “Forse hai paura che Hades ti punisca per aver portato qui la persona sbagliata?”, continuò guardandolo con aria di sfida e spingendolo ancora.

“Smettila!”, ruggì lui, imprigionandole le mani con le sue, immobilizzandola contro il muro alle sue spalle.

“Smettila di mentire a te stessa e di dare a me la colpa per ciò che sei.” Un sussurro, la penombra nella stanza rendeva sfocati i contorni delle cose.

“Smettila di ferirmi, Eranthe”, continuò avvicinandosi a lei, la voce bassa, arrochita, mentre lei constatava con sincero rammarico il sangue rubino che macchiava di nuovo le bende candide.

No, ancora...

“Sono un Giudice del sommo Hades”, riprese lui, portando le mani alle spalle di lei.

“Sono un guerriero abituato alle battaglie e a sopportare ferite ben peggiori di queste”, asserì sottovoce.

“Tu credi davvero che una donna comune, che non abbia in sé nemmeno una briciola del potere delle stelle, possa nuocermi, con semplici pugni o spinte?”

Lei lo guardò negli occhi, sgomenta. “L’hai fatto apposta?”

Ma lui scosse il capo.

“Ero addormentato la prima volta, non ricordi?”, sorrise agli occhi sgranati di lei.

Sconfitta lei abbassò la testa.

“Non voglio, Minos.”

A lui parve di avvertire una nota di pianto nella sua voce.

“Lo so. Ma non devi temere ciò che sei.” Si avvicinò piano a lei sollevandole il viso ed appoggiando la fronte alla sua, il calore che emanava era un’ulteriore prova delle fiamme sopite che custodiva.

Lei chiuse gli occhi attendendo che il cosmo del Grifone richiamasse di nuovo il suo, tremando, le mani ferme sui polsi di lui.

Ciò che non si aspettava assolutamente, furono le labbra, calde, del Giudice che si appoggiavano, leggere, sulle sue.

Lo spinse via, con forza, le mani a far leva sul suo petto, facendolo rovinare, finalmente a terra con un gemito.

“Non credere di poter fare ciò che vuoi solo perché questo è il mio lavoro, Minos”, sibilò, la voce appena udibile nel silenzio della notte.

Si rifugiò quindi nella sua stanza, sbattendo la porta con talmente tanta forza da far rovesciare il candelabro sul tavolo vicino.

Minos rimase seduto a terra, il capo chino, le labbra stirate in un sorriso beffardo.

La mano destra a strapparsi le bende dal petto: sulla sua pelle ferita stavano danzando le fiamme indaco scaturite dalle mani di Eranthe.

Dissipò il fuoco con un fluido gesto del polso.

“Non l’ho fatto per questo, stupida ragazza.” Parlò a se stesso, nella stanza buia. “Non l’ho fatto per questo!”.

Strinse i denti, rialzandosi.

Si fermò un attimo, appoggiandosi pesantemente allo specchio che campeggiava proprio a fianco della finestra.

L’immagine che colpì i suoi occhi fu quella di un uomo sconfitto. La camicia aperta sulle bende strappate, un fiore cremisi di sangue sbocciava sulla pelle arrossata dalle bruciature.

Chiuse gli occhi stringendo i pugni, un sussurro sfuggì, testardo, dalle labbra strette.

“Smettila di ferirti, Eranthe.”


NOTE:


Grazie a Francine, preziosa come sempre.

Questa storia NON tiene conto dell'Ipermito di Kurumada


*Bennu=Fenice in Egitto

**Un detto del mio paese qua in Italia: in primavera quando i fossi si riempiono, si dice che Sant’Anna voglia come tributo le vite di due bambini.

***Gli Oneroi figli di Hypnos sono solo tre, Morpheus, il modellatore, il più anziano e il più forte dei tre, Phobetor (oppure Ikelos), che porta incubi e paure, Phantasos che porta sogni e visioni. Non esiste un Oneiros come invece in Lost Canvas.

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Capitolo 8
*** Il Sogno e Lo Specchio ***


Il Sogno e lo Specchio


Aveva il corpo pieno di tagli e ferite che nemmeno la sua armatura d’oro era riuscita a contenere, la maggioranza dei quali inferti dalla sua stessa spada, ritorta contro di lui da quei nemici terribili; la determinazione cieca, tuttavia, non abbandonava i suoi occhi scuri.

Non doveva fallire.

Non poteva fallire.

Nonostante stesse combattendo in una dimensione che preludeva alla strada degli dei, lui non poteva arrendersi.

Di fronte al dolore non aveva ceduto, di fronte alla follia non aveva tentennato, di fronte alla sconfitta non aveva indietreggiato.

El Cid era deciso a non concedere nulla ai nemici che aveva di fronte, né la loro natura divina lo spaventava.

Colpì, ancora e ancora, con la spada che poteva fendere cielo e mare, cercando, tentando, sperando di concedere a Sisifo abbastanza tempo da riuscire a ridestarsi dall’abisso nel quale era caduto.

Pregando che Athena riuscisse a distruggere l’illusione malata degli stessi dei contro i quali stava combattendo.

Tossì, uno sbuffo cremisi sulle labbra.

Chiuse gli occhi, concedendosi un secondo per riordinare i pensieri ed asciugare il sangue che colava dalla fronte.

Tornerò, piccola mia, tornerò.

Ripeteva nella sua mente, e il suono di quelle parole affilava la sua spada, la sua stessa anima, il sentiero che aveva deciso, con tutte le sue forze, di percorrere.

Per favore Francine, ti prego, aspettami. Io tornerò... tornerò assolutamente!


Quando sollevò di nuovo lo sguardo, una ragazza in una Surplice nera sedeva divertita a pochi centimetri dal suo viso.

“Cosa desideri più di tutto, cavaliere?”, rise, avvicinandosi a lui, il colpo mortale come ambrosia sulle labbra.

Senza che lui si potesse muovere od opporsi a quell’energia oscura che gli stava carpendo l’anima stessa.

Rovinò in ginocchio, gli occhi chiusi.


Al di là delle sue palpebre si susseguivano immagini incoerenti di una piccola casa bianca dal tetto di tegole rosse, e lei, piccola, fragile, tra le sue braccia.

L’armatura del Capricorno ben riposta nella cantina a prendere polvere tra i salami appesi e le bottiglie di vino.

E uno, due, tre bambini che giocavano nel giardino adiacente.

Il cielo sorrideva, con nuvole bianche che sua figlia Alejandra, chiamata così in onore della dea Athena, sosteneva fossero di panna montata.

E lui sarebbe volentieri andato a prenderle una cucchiaiata di nuvola, se solo questo l’avesse fatta sorridere.

Francine, con quell’impossibile accento francese che non la voleva proprio lasciare nonostante gli anni trascorsi con lui, lo avrebbe preso in giro sbuffando e sostenendo che viziasse troppo quella piccolina con i capelli castani e gli occhi taglienti.

Ma lui, in uno dei suoi rari sorrisi, l’avrebbe abbracciata e baciata, senza vergogna o timore.

Le avrebbe promesso se stesso, ancora, sempre.

Le avrebbe regalato una notte intera di amore e passione quando i bambini si fossero addormentati, ridendo della modestia di lei, che si ostinava a lamentare i fianchi troppo larghi.

Non le avrebbe mai confessato, El Cid, che il suo corpo lo faceva impazzire, che adorava il suo viso, i suoi fianchi, il suo seno ed ogni altro centimetro che lei gli avesse concesso di osservare e toccare e assaggiare.

E lui sarebbe stato libero da guerra e dolore, libero da occhi che non fossero quelli di lei, o i suoi più inconfessabili desideri.

E lei sarebbe stata sua, soltanto sua, a compiere quel viaggio insieme, fino a che i loro fili non si fossero spezzati per natura e per destino.


“Che desideri stupidi, per un Santo d’Oro!”, lamentò quella ragazza oscura, la voce stranamente distorta.

Ma El Cid vide al di là della sua maschera, sorridendo e il mondo esplose nella luce fulgida della sua Excalibur, soddisfatto nell’udire il suono sinistro della corazza che andava in frantumi e l’urlo disumano che si librava nello spazio.

Meno uno, pensò.

Perché non c’era bisogno che gli chiedessero cosa desiderasse.

La sua risposta sarebbe sempre stata la stessa.




Deuteros sedeva in evidente disagio al tavolo di Melina. La saggia Areia aveva affidato a lui l’ingrato compito di riportare alle ragazze lenzuola e vestiti puliti. Dato che non potevano contare sul lavoro di Eranthe, ma solo su un misero vitalizio che il Santuario gli passava – cifra assolutamente insufficiente a sostenere una persona sola, figuriamoci tre – il ragazzo aveva cercato una qualsiasi mansione al villaggio che potesse garantire loro un qualche tipo di introito.

Aveva accettato, quindi, di buon grado di sostituire Gheorghe, ferito durante l’attacco di Minos, nella consegna di lenzuola e vestiti che le ragazze di Melina mandavano a pulire.

Questo, naturalmente, non comprendeva la sosta per il caffè da Melina; tuttavia la zia di Eranthe si era mostrata adamantina nel coinvolgerlo con le faccende della famiglia.

“Sei uno di noi, adesso”, aveva asserito sbuffandogli in faccia una nuvola di fumo dolciastro. “Abituatici.”

E ora, con una tazza di caffè delle dimensioni dell’elmo di Rasgado davanti, ascoltava quella donna che nascondeva la sua forza dietro belletti e ciprie.

“Ormai manca da troppo tempo!”, parlò serio, la voce arrochita dal dolore.

Che lui lo volesse ammettere o meno.

“Non puoi nemmeno pensare di andarla a riprendere.” Deuteros per un attimo ritenne che Melina avesse sviluppato la capacità di leggere nella sua mente.

“Non hai nemmeno un’armatura”, continuò, “e Dimitra non può crescere con me, in questo bordello. Di classe, bada bene, ma pur sempre un bordello. Tantomeno con Areia”, continuò, il suo viso in una comica espressione di disappunto, “che Athena la preservi, ma è anziana e assolutamente non adatta a crescere una bambina così vivace.”

Lui sorseggiò il caffè, in silenzio. Il capo chino.

La mano di lei gli carezzò comprensiva il braccio, e lui si chiese, in uno scampolo della sua mente, quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che qualcuno lo avesse toccato senza provocargli dolore.

Solo Eranthe.

“Non preoccuparti, Deuteros, vedrai che tornerà”, concluse.

Ma il ragazzo d’ombra e di fuoco scosse il capo.

“Devo farlo, Melina, per lei”, sentenziò, con una serietà tale da impedirle una qualsiasi replica. Era raro sentirlo esprimere qualcosa di quanto aveva chiuso dentro di sé.

Rimase in silenzio. Nella sua mente si susseguivano immagini di lei, torturata dai soldati di Hades, tenuta segregata nelle prigioni.

Oppure, ancora peggio, nuda e bianca tra le braccia di Minos, nell’oscurità della notte eterna.

Serrò i pugni con talmente tanta forza che le nocche sbiancarono e il suo cosmo scalpitò incontrollato, facendo fremere le stelle dei Gemelli.

“Ho atteso anche troppo”, sospirò vuotando la tazza ed alzandosi, la schiena possente, i muscoli delle braccia gonfi, gli occhi resi luminosi dalle stelle che racchiudeva dentro di sé.

Melina sorrise, dietro una nube di fumo denso.

“E sia, Deuteros.” Assomigliò per un attimo ad una qualche divinità che gli concedeva una benedizione. “Ma resta saldo. Aspros non concederà nulla e tu lo sai bene.”


Agathe stava osservando con evidente soddisfazione un manipolo di cinque soldati inviati dal Santuario lavorare in maniera decisa ed con indefesso impegno alle rovine di quello che, solo un mese prima, era stato il negozio di suo padre.

Shion dell’Ariete controllava che ognuno portasse a termine le proprie mansioni in completa sicurezza e sovrintendeva il lavoro effettuato, così come l’aveva incaricato di fare il nobile Hakurei.

A dir la verità il suo mentore e maestro avrebbe dovuto rimanere con lui, ma, non appena aveva messo piede a Rodorio, si era dileguato con un vago sorriso verso una non meglio precisata destinazione, abbandonandolo senza tante cerimonie alla mercé di quella ragazzina che lui rammentava timida e fragile, ma che ora gli sembrava in maniera convincente un soldato in trincea.

Dopo un primo momento di triste sconforto, Agathe aveva deciso che avrebbe utilizzato i propri risparmi per integrare ciò che il Santuario aveva stanziato per la ricostruzione ed aprire nuovamente l’attività.

L’avrebbe fatto per se stessa, per suo padre e, soprattutto, per Albafica dei Pesci, il primo uomo che lei avesse mai amato, e poco importava che non si fossero mai nemmeno stretti la mano.

Sorrise stretta nella sua corta tunica del colore dell’avorio, i capelli sciolti sulle spalle erano trattenuti da una singola rosa rossa.

L’insegna, un pesce con il suddetto fiore tra le pinne, stava per essere issata, quando avvertì un movimento con la coda dell’occhio.

Francine, un peplo del colore della luna che faceva risaltare in maniera dolorosa la sua gravidanza, le mani strette e preoccupate, si stava dirigendo verso la casa di Melina.

“Francine!”, la chiamò, constatando, con piacere, che i lineamenti della ragazza si distesero in un solare sorriso.

“Il negozio!”, chiosò la francese, gli occhi le si riempirono di lacrime. “Non ti ho mai ringraziato abbastanza per gli addobbi del matrimonio”, continuò, portandosi una mano alla fronte. “E per le nostre corone.”

Agathe fece un gesto con la mano come a voler scacciare una mosca fastidiosa.

“Non dirlo nemmeno, è stato un piacere! Sono felice che tutto sia stato di tuo gradimento.”

I suoi occhi verdi si spostarono gentili sul ventre gonfio.

“Tu piuttosto, come sta procedendo?”, osò domandare, un leggero rossore sulle guance.

“Va bene, grazie”, sorrise la francese. “La levatrice mi ha consigliato un po’ di riposo e una vitta tranquilla, tuttavia...”
I suoi occhi si fecero lontani e Agathe cercò disperatamente una scusa qualsiasi per cambiare discorso. La ragazza si trovò suo malgrado a domandarsi quale fosse la condizione peggiore, se la sua, che nemmeno aveva avuto una remota possibilità di amare, o quella di Francine, che correva ogni minuto il rischio di perdere il suo El Cid ed il futuro che avevano sperato, insieme.

“Stavi andando da Melina, vero? Posso accompagnarti?”, le propose, prendendole una mano.

Si avviarono insieme, per mano, sotto lo sguardo azzurro del pesce dell’insegna del negozio di fiori e gli occhi sconsolati di Shion dell’Ariete.


“Manca ormai da molti giorni.”
Francine, preoccupata, aveva rotto il silenzio. L’accento francese marcato tradiva la sua effettiva ansia.

Scosse i capelli castani, mentre le lacrime le pungevano gli occhi.

Madame, e se non torna, io cosa posso fare?” Una lacrima dispettosa tracciò una scia d’argento sulla sua guancia.

Melina sorrise, accavallando le gambe snelle e sbuffando il fumo lontano dalla ragazza.

Rivolse gli occhi bistrati verso Agathe, in uno sguardo di intesa. La notizia che gli avversari del Capricorno fosse divinità minori figli di Hypnos era rimbalzata nelle strade di Rodorio come il vento vespertino.

E se un Giudice era stato in grado di distruggere un cavaliere d’Oro e la loro Rodorio, figuriamoci quattro divinità messe insieme.

Per quanto El Cid fosse forte...

Poi Melina sospirò, la mente rivolta ad un uomo che aveva vestito un corazza, tanti anni addietro, il loro amore incastrato nelle zone d’ombra del Saltuario.

Di nascosto da Erato e dalla sua unione maledetta, di nascosto da Areia e dalla sua saggezza ed esperienza, di nascosto dal fratello di lui, così perfetto e splendente da essere esempio e guida.

Rivolse un sorriso stanco alle sue notti insonni, stretta ad un ricordo, ad una risata, ad un calore che, temeva, non sarebbe più tornato.

Era tutto nato da un gioco di Tyche, poco più di uno sguardo, mentre accompagnava Erato nelle sue mansioni, il suo braccio, comprensivo, attorno alle sue spalle, quando la verità era diventata tremenda.

Un bacio del quale solo le stelle erano testimoni.

“Questo è il destino di cui ti parlavo, mia cara. Noi che siamo legate ad un Santo non abbiamo né scelta né scampo.” I suoi occhi si incastrarono in quelli della ragazza.

“Ma ora devi stare tranquilla. Devi pensare che c’è qualcosa di più grande di noi”, rivolse lo sguardo verso quel figlio che Francine portava in grembo, “che ci tiene ancorati a questa vita, nonostante tutto.”

Agathe prese la parola, con una decisione che non si riconosceva.

“Rimani da me, stanotte, Francine”, suggerì decisa. “Non è prudente che una donna nelle tue condizioni resti da sola e la via per il Capricorno è troppo lunga e faticosa.”


L’anima di Athena seguiva quella di Sisifo per le strade polverose del villaggio in cui era cresciuta.

Aveva visto Sisifo piangere lacrime di sangue mentre la se stessa bambina gli puntava contro parole di accusa.

Non crederle Sisifo!

Non ascoltarla!

Non sono io! Non sono io!

Ma il suo primo cavaliere era troppo perso, troppo chiuso dentro se stesso per udirla.

L’Armatura d’Oro del Sagittario lo vestì di nuovo, e Athena vide con sgomento la freccia incoccata. E puntata verso di lei.

“Sisifo”, il suo tono rasentava la supplica, “davvero ti sei fatto carico per tutto questo tempo di tale dolore?”.

Le lacrime di sangue del ragazzo non cessavano di cadere.

L’oro della corazza si stava trasformando nel nero violaceo di una Surplice.

“Somma Athena. Non posso vivere nuovamente tutto questo, non posso condannarvi di nuovo ad una vita di dolore.”

Tese l’arco, le braccia possenti tremavano vistosamente.

“Avrei dovuto fuggire lontano e rinnegare questo mio dovere”, aggiunse, grave.

“Avrei dovuto attendervi, come un vero uomo, e portarvi via con me.” La corda d’oro gli stava mordendo le dita.

“Perdonatemi, somma Athena. Perdonami, Sasha.” Soppresse un singhiozzo. “Vi ho deluso come Santo e come uomo.”

La lotta contro se stesso era arrivata ad un parossismo di colpa e disperazione, l’ultimo frammento d’oro inghiottito interamente dalla tenebra.

Scoccò la freccia.

Athena sorrise, mentre il sangue sgorgava dalla ferita macchiandole la veste candida.

“È dunque questo il fardello che sopporti, Sisifo?”, domandò quindi, gli occhi attraversati da una profonda compassione.

“È dunque questa la colpa che vuoi espiare?”, concluse, le dita diafane a stringere quell’oro colpevole.

“Somma Athena”, poco più di un sussurro, nella luce creata dalle fiamme, “imploro il vostro perdono. Io vi amo e non posso fare altro che arrecarvi dolore.”

La freccia scomparve, mentre lei si lanciava tra le sue braccia.

“Sisifo”, continuò la dea ragazza guardandolo negli occhi e accarezzandogli le gote, “non è questo il sangue che voglio versare per te”, concluse, prendendogli una mano e portandola al suo cuore.

La Surplice del Sagittario esplose, rivelando, ancora una volta, i bagliori dell’oro, per poi scomparire, lasciandolo scevro di protezione.

Le sue braccia strette intorno alla ragazza che amava.

Le sue labbra a reclamare quelle di lei, mentre i loro cosmi risuonavano, vicini, in armonia come una melodia sopita.

Le fiamme scemarono fino a scomparire del tutto, mentre si rifugiavano in una casupola al limitare del bosco.

Lui la prese, piangendo di fronte alla sua pelle candida, al sangue che macchiava le lenzuola, al sorriso di lei.

Lei lasciò che il sentimento che provava per lui guidasse le sue azioni ed il suo cuore, per una volta non era sola di fronte al cammino che avrebbe dovuto percorrere.

“Ti amo, Sisifo”

Anche se, sapeva, questa era la sua unica possibilità, l’unico appiglio per la loro vita di lotta e sacrificio, e loro non avrebbero mai potuto vivere in pace, vicini, come quelle ragazze di Rodorio che passeggiavano al braccio dei loro compagni, tuttavia per lei andava bene anche così.

Per lei, era più di quanto avrebbe potuto sperare.

Per lui, era la sua fine e redenzione.

Morì e rinacque tra le sue braccia, per tutta la notte.

Fino a quando i suoi occhi si aprirono nuovamente sul volto preoccupato di Sage.

Athena era in piedi di fianco a lui.

“Dobbiamo aiutarlo, Sisifo!”, ordinò la dea della guerra, ed il giovane seppe che la dolce Sasha era perduta per sempre. “Sta combattendo da solo!”

Il Sagittario sorrise, seguendola. La freccia d’oro intrisa del loro potere e dei loro cosmi uniti scoccò, letale, verso il suo bersaglio.


El Cid chiuse gli occhi, osservando il nemico con il cosmo per coglierne la presenza, a cavallo delle dimensioni.

Al di là del sangue che scorreva a fiotti dal braccio ferito, al di là del pensiero rivolto alla missione e a ciò che attendeva dopo di essa, al di là del dolore che, ormai, si irradiava in tutto il suo corpo.

Il cerchio di sangue perfetto che era riuscito a creare con le poche forze rimaste aveva finalmente distrutto Icelos e la sua atroce visione.

Era stato lui ad aver strappato a Sisifo la sua anima, era stato lui ad averlo condannato a quel sacrificio.

Morpheus era perito poc’anzi, per mano di quel giovane cavaliere di bronzo, Tenma di Pegasus, che con il Sagittario condivideva la protezione di Athena e la forza immane di un cosmo che andava al di là delle stelle.

A lui rimaneva ancora il solo Oneiros.

Piombò a terra, le membra stanche, gli occhi taglienti scrutavano l’orizzonte in attesa di un segno qualsiasi che palesasse la presenza del suo avversario.

L’aria innaturale di quella terra brulla muoveva il suo mantello ormai completamente intriso di sangue, mentre El Cid si piegava in ginocchio, lentamente.

Nessun gemito lasciò le sue labbra pallide, nessun lamento, ma ormai i suoi occhi faticavano a mettere a fuoco le macchie di colore e l’aria stessa sembrava fuoco nei suoi polmoni.

Francine...perdonami...

Ormai sapeva, El Cid, che no, non sarebbe tornato.

Se solo gli Oneroi fossero stati solamente tre o se il Santuario avesse inviato qualcun altro assieme a lui, forse, forse.

Ma lui era un Santo d’Oro, non sarebbe perito con l’amaro gusto del dubbio sulle labbra, ma con onore e con quella gloria che lo aveva innalzato, tempo addietro, alla casta più alta dei guerrieri sacri alla dea.

La casa bianca con il tetto rosso fece vacillare la sua determinazione per un attimo e gli fece ricordare che, in fondo, era solamente un uomo.

Poi una risata appena sopra di lui cancellò ogni pensiero.

“Non credere di averci sconfitti, El Cid del Capricorno!”, esclamò Oneiros richiamando a sé le anime dei suoi fratelli periti.

Il guerriero d’oro raccolse le forze che fluivano lentamente da lui, assieme al sangue delle sue ferite.

Non posso arrendermi, non posso cedere.

Incoerentemente il pensiero andò di nuovo a quello scampolo di donna che lo attendeva, al proprio tempio.

Ed il ricordo dei suoi occhi sorridenti e delle sue labbra imbronciate quando parlava la sua lingua natale, del suo corpo caldo sotto al suo, conferì alla sua anima stanca la forza di compiere un altro, ulteriore passo.

Senza arrendersi, senza dubitare.

Sollevò lo sguardo, tagliente, pulito, verso quel nemico sostenuto da quattro cosmi, da quattro anime divine.

Sorrise El Cid, lui, un uomo, solo un uomo, li avrebbe sconfitti.

Per Athena.

Per Sisifo.

Per lei.

Magari, sicuramente, non sarebbe tornato.

Lo sapeva, ma aveva voluto illudere se stesso per avere la forza sufficiente per continuare ed andare avanti a combattere.

No, non sarebbe tornato e non avrebbe visto gli occhi taglienti di suo figlio o i suoi capelli castani, ma avrebbe combattuto per dare a Francine un mondo libero nel quale poterlo crescere.

Le avrebbe dato la forza del sangue per essere madre e padre.

Le avrebbe lasciato la speranza.

Le sue mani forti non ci sarebbero state a sorreggerla, né le sue braccia a cingerla nelle notti di temporale.

Non avrebbero più potuto abbracciarsi di fronte al fuoco d’inverno o ammirare le stelle limpide d’estate.

Non avrebbe più ricevuto i suoi baci né li avrebbe potuti ricambiare.

Non avrebbe più visto il suo sorriso né fatto l’amore con lei.

Ma le avrebbe donato la libertà di un luogo sicuro dove poter vivere senza più l’incubo incombente della guerra.

Sorrise, El Cid, quando vide la freccia d’oro di Sisifo giungere in suo aiuto e diventò egli stesso Excalibur, seguendola e trapassando con la sua vita gli Oneroi, intrappolando la loro anima con la sua.

Il suo cosmo brillò catalizzato dalla potenza di quell’amore disperato che lui e Francine, come due folli, avevano avuto il coraggio o l’incoscienza di vivere; un solo, umanissimo, sentimento gli aveva conferito, alla fine, la forza necessaria per compiere un miracolo.

Solo un uomo, sono solo un uomo.

Ma ti amo, Francine.

E quando il suo corpo esplose in una miriade di frammenti di stelle la sua anima volò, ancora da lei.


Francine si svegliò di colpo, la notte ancora alta, la luna nel cielo splendente e gonfia come il seno di una madre.

Guardò verso Agathe che dormiva ancora beatamente accanto a lei, il suo calore consolatorio e famigliare.

I suoi occhi che avevano pianto fino a poche ore prima, erano ora sereni, il respiro lento e regolare, i capelli legati in una morbida treccia.

Francine si voltò verso la finestra, nessun suono poteva averla svegliata nel silenzio calmo di Rodorio.

Una scia d’oro attraversò il cielo, chiamandola alla sua dimora.

Fece appena in tempo, la giovane, a stringersi uno scialle attorno alle spalle, prima di incamminarsi nella notte verso la casa del Capricorno.

Incurante della fatica e degli scalini, incurante di ogni altro sentimento che non fosse per lui.

El Cid la attendeva, seduto al tavolo della loro cucina, le spalle alla porta.

Si voltò appena, quando la avvertì entrare.

“Francine! Amore mio!”, le sorrise, con gli occhi e con il cuore.

La giovani gli corse incontro.

Sei tornato! Finalmente!

Ma le parole le morirono sulle labbra quando vide, quando capì, che lui non era veramente lì.

“El Cid...”, riuscì ad articolare, il cuore stretto in una morsa di acciaio gelido e rovente.

Lui si alzò, stringendola tra le braccia.

“Mi dispiace, amore mio”, le sussurrò, nell’aria immobile della notte, mentre la luna illuminava la sua anima e il suo cosmo di stelle iridescenti.

“Ti amo così tanto, ma non ho saputo tener fede alla mia promessa”, continuò scostandola appena per guardarla negli occhi, lucidi di lacrime.

“Non sono riuscito a tornare da te, amore mio”, concluse grave. “Sono morto, ma li ho portati con me, tutti e quattro.”

Francine cominciò a singhiozzare scuotendo il capo.

“Non piangere, amore mio.” Portò una mano al suo ventre. “Devi resistere, per lui”, concluse stringendola di nuovo.

“El Cid”, sussurrò lei, piano, persa nel suo abbraccio, “io non ce la posso fare, senza di te”.

Ma lui la baciò, dolcemente.

“Sono felice”, continuò prendendole la mano, l’oro del suo anello caldo e pulsante di vita, “questo mi ha riportato da te, assieme alla mia armatura”, asserì accarezzandola.

“Come posso andare avanti, senza di te?”, domandò lei le lacrime silenziose bruciavano più del fuoco.

“Tu hai la forza delle stelle dentro di te”, volse lo sguardo alla costellazione che rappresentava accogliendone il calore, ancora per qualche minuto. “Ti starò vicino, Francine”, continuò, “ti proteggerò e tu non sarai sola”, concluse accarezzandole le gote umide.

“Non mi lasciare, ti prego, El Cid.”

Ormai le lacrime cadevano libere e lei era sconvolta dai singhiozzi.

Lui la baciò ancora.

“Perché, perché non posso venire con te?”, concluse guardandolo dritto negli occhi.

Lui la baciò di nuovo.

“Devi rimanere, amore mio, devi crescere nostro figlio e vivere, anche per me.” Le lisciò i capelli dolcemente.

“Devi correre nella sabbia d’estate, guardare la luna d’autunno, preparare quel tuo vino alle spezie d’inverno e fare ghirlande in primavera. Devi guardare le stelle e perderti nel suono delle risate.” La baciò mentre la notte si faceva sottile.

“Devi lasciare che qualcun altro scaldi il tuo cuore”, concluse posandole un dito sulle labbra a frenare le sue proteste.

“Fallo per me, piccolo amore mio”, sorrise ancora, lui.

“Promettilo, Francine”.

“Ti amo, El Cid”, riuscì a sospirare lei, baciandolo ancora mentre lui scompariva e l’alba esplodeva i suoi colori nel cielo.


Era l’alba, quando Manigoldo del Cancro si svegliò di colpo, una bestemmia sulle labbra.

“Sei tornato, caprone?!”, bofonchiò al Capricorno, in piedi a fianco del suo letto.

“Mh, quindi alla fine l’hai lasciata sola, eh”, si corresse, notando come la sua figura fosse evanescente ed il suo cosmo flebile.

“Aiutala, Manigoldo. Non lasciarla sola”, e l’italiano si chiese se non avesse semplicemente immaginato quelle parole.

Annuì, tuttavia, chinando il capo, sogghignando.

“Per quanto resisterò ancora in questa guerra, compare, per quanto potrò”, concluse il Cancro concedendo solo un’occhiata alle bende che fasciavano, strette la sua gamba sinistra quasi tranciata di netto dal dio della Morte.

Ma al Capricorno andava bene anche così, lo salutò con un gesto di commiato prima di tornare alle stelle.


NOTE

Grazie mille come sempre a Francine per i suoi consigli preziosi!

Grazie anche a _Haushinka e Stellareika per le loro recensioni.

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Capitolo 9
*** La Legge del Cuore ***


La Legge del Cuore



Hades sedeva annoiato nella stanza del dipinto. Il suo occhio critico stava registrando il fatto che l’ala di un angelo fosse riuscita vagamente storta.

Minos del Grifone era inginocchiato alle sue spalle da un tempo a suo giudizio interminabile, mentre attendeva disposizioni; ormai era dolorosamente evidente che il suo signore volesse riprendere il comando effettivo delle sue armate, ma che, ahimè, non aveva la minima idea di dove cominciare.

Un’occhiata in tralice con gli altri due Giudici, Rhadamanthys ed Aiacos, confermò i suoi sospetti e il giudice dai capelli corvini non perse occasione per lasciarsi andare in uno sbuffo sonoro.

“Dunque”, iniziò il dio dell’oltretomba, un tono dimesso e distratto, “come si sta comportando la Fenice? La sua permanenza sta risultando proficua?”, domandò senza spostare lo sguardo dal suo lavoro. L’interesse effettivo che il dio provava per la questione era il medesimo che avrebbe avvertito trovandosi di fronte alla scelta tra un biscotto o un pasticcino da abbinare al tè delle cinque.

I tre generali alzarono gli occhi verso il soffitto nel malcelato tentativo di apparire interessati.

Minos prese un lungo respiro.

“Il suo cosmo si è palesato”, cominciò, portandosi una mano al petto, “assieme alla sua capacità offensiva”.

Aprì la camicia liberandosi delle bende permettendo ad Hades di controllare personalmente le bruciature ancora evidenti sulla sua pelle.

Un tremito lo scosse, quando gli occhi chiarissimi del dio passarono su quei segni e le sue mani fredde seguirono le linee frastagliate.

“Bene”, asserì Hades. “Se è stata in grado di nuocerti, dimostra comunque una certa forza, ed è sopravvissuta alla freccia del Sagittario cosa non da tutti...” Il dio sembrava soprappensiero.

“Tuttavia”, riprese quindi dopo una breve pausa, “è stato portato alla mia attenzione come il suo passato a Rodorio sia lungi dall’essere quello di un guerriero. È corretto?”.

Minos non poté fare a meno di annuire: rivelare i dettagli della sua occupazione a Rodorio sarebbe equivalso a mettere in pericolo la sua incolumità, quindi ritenne saggio tacere ed attendere che il sommo Hades continuasse.

“Dobbiamo pianificare una nuova incursione al Santuario, magari attraverso l’apertura di Rodorio. Pensavo potesse essere una buona idea coinvolgere anche lei nella strategia delle truppe, dato che conosce a menadito il villaggio e i sistemi difensivi dei quali è dotato.”

Minos trattenne il respiro, concentrando tutte le sue energie a contenere il suo cosmo improvvisamente impazzito.

Rhadamanthys lo guardò senza nascondere una punta di stupore alla quale lui rispose con una lieve alzata di spalle. Aiacos soffocò una risata

“Ho deciso, quindi, che te ne occuperai tu, Minos”, concluse con lo stesso tono neutro che utilizzava quando Pandora lo tediava con i suoi dubbi riguardo il colore delle scarpe.

“Dato che non mi aggrada l’idea di mandarti nuovamente laggiù, così indebolito e ferito per giunta, sarà Aiacos ad occuparsi dell’attacco vero e proprio”, concluse con un tono che non ammetteva repliche.

Minos si avvide che non riusciva ad articolare una risposta sensata, così annuì.

Il Giudice tornò alle proprie stanze lasciando a lunghe falcate la sala del trono, gli occhi del colore del cielo in tempesta.

“Cosa ti sta succedendo, Minos?”, domandò Rhadamanthys, bloccandolo.

La mano già sulla maniglia della porta che dava nelle sue stanze private. Il giudice maggiore scosse il capo, una cupa rassegnazione evidente sul volto.

“Non chiedere, Rhadamanthys”, concluse grave.

L’alto guerriero biondo gli si avvicinò, posandogli una mano, grande, terribile, sulla spalla. “Spero, Minos, che quello che provi per lei non offuschi il tuo giudizio e che tu sappia da quale parte stare, quando il momento verrà”, concluse, allontanandosi, poi, con passi pesanti lungo il corridoio buio.



Deuteros aveva chiesto a Shion di poter attraversare la Prima Casa, della quale il giovane era custode.

Passò senza tentennare, ignorando gli occhi preoccupati del Santo dell’Ariete.

La Casa dei Gemelli era deserta.

Il labirinto di luce ed ombra non aveva segreti per lui, che ne era in parte custode, in parte artefice, così si gettò ghignando nel vortice dimensionale che lo portò al cospetto di suo fratello Aspros, fulgido nella sua corazza d’oro nella sala del trono del tredicesimo tempio.

“Benvenuto, fratellino”, lo schernì abbozzando un applauso. “Ti sei finalmente deciso, allora”, continuò, mentre un sorriso beffardo gli stirava le labbra.

Deuteros non proferì parola, le membra tese pronte per lo scontro imminente, il cosmo in subbuglio.

“Perché qui? Perché Aspros?”, esordì, secco, la voce un ringhio roco che rendeva evidente la sua rabbia.

Il Santo dei Gemelli eruppe in una risata sinistra, gli occhi iniettati di sangue riflettevano una follia che sperava non si palesasse mai.

Una mano, veloce come il pensiero, lo agguantò alla gola, mozzandogli il respiro.

“Tu sarai solo uno stupido burattino tra le mie mani, sciocco fratello”, sussurrò a meri centimetri dal suo viso. “Ti macchierai del sangue di Sage, al posto mio. Non dovrebbe essere un problema: quel vecchiaccio è appena tornato da uno scontro con Thanatos, stanco e ferito. Potresti riuscirci perfino tu”, bisbigliò nel suo orecchio, per poi lanciarlo con forza contro una colonna.

L’impatto fu talmente forte da spezzare il marmo secolare, ma Deuteros non emise nemmeno un gemito.

“Tu sarai condannato e perirai tra i flutti di Capo Sounion mentre io mi siederò sul trono come nuovo Grande Sacerdote!”.

La risata che esplose sulle labbra strette di Aspros era un agghiacciante spiraglio di crudele follia, ma Deuteros si rialzò lentamente asciugandosi il sangue che colava dalle labbra col dorso della mano.

“Tu sei pazzo, fratello mio, completamente pazzo”, asserì a mezza voce, come se stesse parlando a se stesso. “Ed io non ho tempo per i tuoi giochi, adesso”, concluse.

Il suo cosmo immenso si concentrò al centro esatto della sua mano, in un turbine di fuoco e calore.

Le stelle dei Gemelli risuonarono urlando di dolore, mentre lui lanciava il suo colpo verso il fratello.

Aspros fu investito da un’ondata di caldo dolore, l’armatura aveva attutito gran parte della pressione, il colpo, tuttavia, l’aveva ferito.

Rise, mentre il sangue gli offuscava la vista.

“Bravo, fratellino”, concentrò il suo cosmo tra le mani incrociate di fronte a sé.

“Ma non è abbastanza, non sarà mai abbastanza, contro di me”, continuò impietoso. “Tu sei solo spazzatura, Deuteros! Una copia, per giunta venuta male!”, distrusse nella sua mente i ricordi della loro vita insieme, uno per uno.

“Sei un errore!”, mentre mi tenevi la mano per scacciare gl’incubi.

“Una nullità!”, mentre mi rinfrescavi la fronte quando avevo la febbre alta.

“Un’ombra”, mentre ti allenavi duramente per non essere un peso per me.

“Non sei degno di essere il mio gemello!”, sei tu il migliore tra noi due.

“Galaxian Explosion!” addio, fratello mio.

Deuteros avvertì le stelle esplodere fuori e dentro di sé, la potenza di Aspros amplificata dalla sua lucida follia aveva raggiunto estremi che lui non poteva prevedere.

La sua pelle, scevra di protezione, si squarciò e solo il suo cosmo immenso riuscì a contrastare quello del gemello.

Quando polvere e macerie si depositarono, Aspros fu genuinamente stupito di trovare Deuteros ancora vivo. Sanguinante e ferito, ma vivo.

Il respiro corto e leggero, le spalle scosse, il viso rigato dal sangue che sembrava aver sostituito le lacrime.

Le braccia possenti attraversate da squarci e ustioni, esattamente come il torso abbronzato.

Aspros ristette quando Deuteros, ghignando, si mosse, con lenta, misurata risoluzione, nemmeno un sospiro lasciò le sue labbra mentre la sua mente eliminava ogni dolore per fare spazio alla sua cupa potenza, fatta di ombra e di stelle sopite.

Le mani incrociate nella medesima posizione, le labbra macchiate di sangue fresco aperte in un sorriso di fuoco.

“Sai, Aspros, qual è la differenza, tra noi?”, gli domandò concentrando il suo cosmo.

Luce, ombra, fuoco e sangue presero a vorticare risuonando con le stelle, chiamando ed invocando il potere che si celava nei cieli e dentro di lui.

“Io ho una ragione più importante per cui combattere”, disse quindi, lo sguardo fermo e luminoso.

“Non posso più permettermi di fuggire e rinnegare ciò che mi spetta, Aspros”, continuò, “non posso più essere parte delle tue assurde macchinazioni, fratello”, asserì guardandolo dritto negli occhi, quegli stessi occhi che aveva seguito come accecato dalla loro luce per tutta la sua giovinezza.

Il gemello scoppiò in una fragorosa risata profonda, come i suoi occhi iniettati di sangue.

“Hai davvero intenzione di sacrificare tutto questo, sacrificare te stesso, per quella puttana?”, sputò per terra, a ripulire la bocca dal sangue e dalle sue stesse parole.

“Non ne vale la pena, sciocco fratello”, aggiunse a mezza bocca. “Lei non è nessuno!”

Ma, a sua volta, Deuteros sfoggiava un ghigno sinistro e spaventoso, degno del demone che era convinto di essere.

“Non puoi nemmeno capire quello che mi muove, Aspros”, aggiunse, secco, gli occhi balenavano sinistri. “E non puoi nemmeno lontanamente comprendere chi è lei, per me.”

Aspros si fece serio, gli occhi decisi. “Sei tu che non capisci, fratello”, riprese, roco e sinistro. “Non riuscirai a superarmi, Deuteros”, esclamò, quindi, richiamando a sé il medesimo colpo.

“Galaxian Explosion!”, risuonò nella sala, dalle labbra di entrambi. Le galassie si piegarono ed esplosero per loro.

Questa sarà la mia fine, pensò mesto Deuteros mentre la potenza del fratello lo investiva. Perdonami, Eranthe, Io...io volevo solo...

Poi, all’improvviso, il calore dorato della corazza dei Gemelli lo avvolse, consolatorio come un abbraccio, e lo riconobbe come legittimo proprietario.

Finalmente, sospirò Aspros prima di rovinare al suolo, mentre sotto di lui il sangue si allargava rapidamente.

Deuteros si avvicinò lentamente, provato dall’enormità di quanto aveva appena fatto.

“Aspros…”, cominciò grave.

“Lasciami morire, Deuteros, non dire nulla”, tossì l’altro con un filo di voce.

“L’ho sempre saputo”, riprese dopo quella che al gemello minore era sembrata un’eternità.

“Ho sempre saputo che l’armatura dei Gemelli spettava a te.”

Rise, cupo, mentre un accesso di tosse aggiunse nuovo sangue alle sue labbra.

“Ero io l’ombra meschina, Deuteros.” Ormai i suoi occhi erano spenti e vacui. “Restituisci a quest’oro l’onore che merita.”

Poi scivolò nel buio, consolatorio, alla fine libero.


Sage sospirò seduto nell’ampio letto alla fine del lungo corridoio. La finestra a doppio battente apriva direttamente su Rodorio e vi si poteva ammirare il mare, il riflesso della luna come scaglie d’argento.

Sospirò il Grande Sacerdote, passando una mano ad accarezzare le lenzuola pulite.

“Vi ho portato il tè, sommo Sage”, a bassa voce, i capelli lasciati liberi dalla solita treccia, la saggia Areia posò tazze e teiera sul comodino, accomodandosi accanto a lui.

“Come state?”, osò domandare, lentamente, mentre, al di là delle porte chiuse, i cosmi gemelli esplodevano nel medesimo istante.

L’uomo sorrise, amaro, gli occhi corsero alla scatola posata sul tavolo al centro della stanza, la pergamena col nome di Athena ne sigillava il contenuto, almeno per altri duecento anni, sperava.

“Siamo al di là di queste formalità, Areia”, sussurrò lui, sorridendole, prima che il suo viso fosse distorto da un gemito di dolore.

“Comunque, sì, sto bene”, scherzò facendole l’occhiolino. “Considerato che abbiamo appena sospeso Thanatos, direi che sto bene.”

Lei abbozzò una risata, porgendogli la tazza colma e prendendo posto accanto a lui.

“Credo abbiano finito, di là”, asserì facendo con il mento un cenno in direzione della sala del trono. “Quei cari, poveri ragazzi...” andò con la memoria agli anni in cui li ricordava ancora bambini correre tra la polvere di Rodorio.

Lui annuì, sorseggiando la bevanda curativa e storcendo il naso al retrogusto amaro che lasciava, come un bambino viziato.

“Finalmente l’armatura dei Gemelli è tornata al legittimo proprietario”, constatò lui, rendendole la tazza vuota.

“Come è potuto accadere che Aspros l’abbia vestita per così tanto tempo?”, domandò Areia curiosa, la sua mente alla nipote lontana ed alla Surplice che aveva finalmente abbandonato la cantina polverosa.

Sage sorrise, appoggiandosi a lei, il suo cosmo a spegnere la candela sul comodino a fianco del letto. La stanza si colorò dei toni argentei delle stelle.

“È stato Deuteros, quel benedetto ragazzo”, cominciò, con lo stesso tono di voce che avrebbe usato se avesse dovuto parlare di un figlio particolarmente difficile.

“L’armatura era giunta in suo soccorso durante un combattimento, lontano dal Santuario”, spiegò quindi.

“Ma lui, atterrito dal suo stesso potere e accecato dalla luce del suo gemello”, abbassò il tono così che solo lei potesse udire ,“ordinò alla sua stessa armatura di andare ad Aspros, rinnegandone l’appartenenza”, concluse grave.

“A volte mi domando quali siano le mie responsabilità”, continuò Sage, la voce bassa attraversata da un dolore sordo.

“Il Santuario l’ha condannato ad una vita fatta di dolore e solitudine, nascosto dietro ad una maschera”, sostenne, fermo, “mentre abbiamo messo Aspros su un piedistallo terribile che l’ha costretto al sacrificio estremo.”

Areia scosse il capo

“Sage, tu hai fatto solo quanto ti era richiesto, come Sacerdote della dea, e lo sai”, asserì pensosa.

“Peccato che per le Surplici non possa essere così.”

Lui sorrise, passandole comprensivo un braccio attorno alle spalle, nonostante il gesto gli causasse un dolore pungente alla spalla ferita.

“Eranthe è una donna forte, vedrai che saprà cavarsela”, sostenne sottovoce. “Hai sempre saputo che il giorno in cui avrebbe dovuto fronteggiare se stessa sarebbe giunto, Areia”, continuò paziente. “L’hai allevata lontano da questo mondo per consentirle di non essere influenzata. O influenzabile”, concluse la testa appoggiata a quella di lei.

“Ma non poteva rimanere per sempre lontana da tutto questo.” Abbozzò un gesto con il braccio ferito.

“Vedrai che Deuteros saprà prendersi cura di lei”, sospirò a bassa voce, le palpebre rese pesanti dalla battaglia e dal calore della donna con la quale aveva condiviso gli ultimi anni.

“Riposa adesso, Sage”, concluse lei, con la stessa voce che usava quando Dimitra faticava a prendere sonno.

Poi fu solo la brezza dal mare a muovere appena le lunghe tende d’organza bianca.


Francine doveva restare salda. Il Santuario aveva organizzato un mesto funerale per El Cid del Capricorno, gemello di quelli per Rasgado del Toro ed Albafica dei Pesci. La dea Athena, più stanca e provata, aveva speso parole di lode ed ammirazione per lui, e Sisifo era salito alla Decima Casa a portarle di persona le sue condoglianze. L’aveva abbracciata tra le lacrime, ricordandole che avrebbe potuto contare su di lui per qualsiasi necessità.

Avevano bevuto un tè, e il Sagittario aveva avuto modo di confidarle quanto avvertisse bruciare la colpa per quanto successo al Capricorno, accorso per salvare lui da quel lungo estenuante incubo.

Francine aveva già versato la sua buona dose di lacrime, stretta al cuscino di notte, sola in quella casa di eterni marmi bianchi, dove ogni pietra ed ogni angolo le parlava di lui.

Era convinta che gli dei avessero già voluto mettere alla prova a sufficienza la sua umile umanità e sperava, in cuor suo, che il sentiero che ora doveva percorrere sola, fosse, se non proprio in discesa, perlomeno sgombro da altri eventi catastrofici.

Tuttavia, la piccola francese cominciava a dubitare della famosa saggezza e lungimiranza delle suddette divinità, quando si accorse che, lentamente ma inesorabilmente, con cadenza ormai quotidiana, la Decima Casa era infestata da Manigoldo del Cancro.

Una presenza dapprima appena registrata, persa com’era nel suo dolore scuro, concreto, che le strappava il cuore dal petto e la faceva singhiozzare, poi sempre più evidente, sempre più pressante, ai lati del suo pensiero e della sua quotidianità.

E la giovane aveva cominciato a dubitare di poter sopportare ancora, almeno fino a quel pomeriggio.

Due mesi erano trascorsi, e Francine era stanca, stufa e ormai disillusa da qualsiasi persona avesse a che fare con il Santuario. Aveva speso la mattinata con la levatrice che le aveva ricordato seria come riposo e tranquillità fossero vitali per una donna nelle sue condizioni e certo vivere da sola in una casa così vasta e dolorosa non era consigliabile.

“Hai capito eh, Manigoldo, non è consigliabile!”, sbraitò all’indirizzo del suo nuovo e a malapena gradito ospite.

Mentre lui annuiva, assecondandola, stravaccato in maniera scomposta sul divano del soggiorno, lei gli portò un caffè, il vassoio sbattuto con forza sul tavolino di legno che El Cid aveva portato dal suo paese di origine, con tanta veemenza da far tintinnare le tazzine.

“E poi basta, Manigoldo”, sbraitò accomodandosi a fianco a lui. “Sono stufa di averti qui tutti i giorni!”, concluse sorseggiando appena la bevanda.

“Sai cosa?”, gli domandò sarcastica. “Non voglio la pietà di nessuno!”.

Sbatté la tazzina sul piattino, alzandosi decisa, ignorando una fastidiosa fitta alla schiena.

“E poi non sai che fatica, sopportarti ogni giorno!”, gli indicò eloquente la porta.

Lui sospirò, alzandosi. Erano giorni che aspettava questa reazione, El Cid lo aveva messo in guardia, ed era inutile perdersi in discussioni inutili.

“Buonasera, picciridda”, concluse, a bassa voce, prendendo la stampella che ormai lo avrebbe accompagnato ancora per anni, e si incamminò claudicante verso l’uscita.

La gamba destra gli doleva ancora, nonostante la ferita fosse in via di guarigione ci sarebbe voluto ancora molto tempo per recuperare appieno la sua funzionalità, se mai ci fosse riuscito.

Francine lo seguì con lo sguardo, sgomenta.

Aveva sputato parole di fuoco nei suoi confronti, aveva sostenuto di sopportarlo a malapena, ma a quale fatica e sforzo si sottoponeva Manigoldo, tutti i giorni, per arrivare fino a lei, con la gamba in quelle condizioni?

All’improvviso un sentimento di assoluta colpa e pentimento le gelò lo stomaco, facendolo contrarre dolorosamente.

“Aspetta, Manigoldo”, lo chiamò, avvicinandosi lentamente a lui.

Il ragazzo si era voltato, gli occhi seri, bassi.

“Mi dispiace, scusami”, tentò una carezza sul suo braccio muscoloso.

“Non volevo essere così acida e scostante”, asserì quindi, avvicinandosi un poco.

La mano grande e scura del Cancro le accarezzò leggera i capelli, le sue labbra si aprirono in un sorriso tirato.

“Non c’è problema, picciridda. Se vuoi non vengo più”, concluse lui.

Francine scosse il capo.

“No, Manigoldo”, continuò seria “Mi fa piacere averti accanto, dico davvero. Solo che...che...”

“Che non sono lui”, concluse il cavaliere prendendole una mano.

Lei annuì, mesta.

“Perdonami, Manigoldo”, continuò lei. “Non volevo mancarti di rispetto. Tuttavia…”, Alzò di nuovo gli occhi, piantandoli in quelli oltremare di lui. “È stato lui a chiedertelo, vero? Di starmi vicino, dico”, concluse a mo’ di spiegazione la sua voce, bassa, come un urlo tra quelle colonne secolari.

E Manigoldo non resse più il suo sguardo sincero, mille menzogne si rincorrevano sulle sue labbra, tacitate dal rispetto e dall’affetto che nutriva per lei.

Annuì.

E mentre attendeva una sua reazione di rabbia o triste rammarico, lei lo spiazzò con un sorriso radioso.

“Lo sapevo!” Lo scosse leggermente, le mani sulle sue spalle, stava saltellando e ridendo al suo sguardo di pura sorpresa.

“Tu sei pazza come un cavallo, picciridda!”, riprese lui, una risata sulle labbra sottili.

“Resta qui stanotte, Manigoldo”, propose lei, armeggiando con le pentole.

“La camera degli ospiti è già pronta”, concluse abbassando lo sguardo, modesta come una ragazza.

Il Cancro si trovò ad annuire suo malgrado.

In che minchia di situazione mi hai lasciato, caprone?!


Hakurei giunse a lunghe, silenziose falcate nella sala del trono. Aspros riverso, malamente scomposto, in un letto di sangue, rosso, cupo, terribile.

Deuteros seduto poco distante, appoggiato ad una colonna, l’armatura dei Gemelli lucente nelle sue sfumature dorate, il volto rigato da sangue e lacrime.

“Sei venuto a punirmi per la mia arroganza, Hakurei?”, ebbe la forza di domandare, la voce poco più di un ringhio roco.

“Ho ucciso Aspros, il mio stesso gemello, per questa”, continuò aprendo le braccia in un gesto plateale.

“Sei in errore, Deuteros dei Gemelli”, proferì il guerriero dell’Altare, aiutandolo in piedi.

“Seguimi. In una settimana saprò rimetterti in piedi”, concluse solenne.

E Deuteros avrebbe voluto andarsene, subito, raggiungerla, sulle ali della sua stessa forza, quella che gli rimaneva.

Anche solo per morire di fronte alla sua porta, distrutto da Hades in persona o da Minos.

Prima che lei potesse avere paura, prima che lei potesse pensare che lui l’avesse semplicemente abbandonata al suo destino, o che non gliene importasse nulla.

“No”, il guerriero ferito si allontanò, finendo per rovinare a terra con un gemito.

“Devo andare. Devo raggiungerla, prima che…” che qualcuno le faccia del male.

“Smettila, Deuteros!” Hakurei si era fatto serio, la pazienza non era mai stata una delle sue virtù ed il suo cosmo che pulsava impetuoso ne era prova sufficientemente concreta.

“Non potrai aiutarla così ferito e malmesso”, concluse con più gentilezza, riprendendo il cammino.

E il Santo dei Gemelli non poté che obbedire, la vista offuscata dal dolore e dall’atrocità di quanto appena accaduto.

“Sarebbe dovuto succedere molti anni fa. E tu lo sai”, sembrò leggere nel suo pensiero Hakurei, saggio, cupo, lento nell’incedere.

Deuteros riusciva solo a guardare i suoi piedi, racchiusi nell’oro, che camminavano, lenti, guidati dal guerriero che lo sosteneva.

Un passo dopo l’altro.

Fino a quando il sangue di suo fratello, gemello, scomparve e lui smise di voltarsi, con gli occhi e con il cosmo, verso di lui.

Ormai solo il suo sangue bagnava quei marmi candidi, e il gusto amaro delle sue lacrime, che gli scuotevano in silenzio le spalle.

“Va bene così, figliolo, lascia che tutto scorra, e che tutto prenda forma di nuovo”, sospirò complice Hakurei, ormai giunto a destinazione.

Quando il suo cosmo di luce si allungò verso di lui, i suoi occhi erano già chiusi.


Lune sbraitò, uscendo dalla stanza di Eranthe, sbattendo sonoramente la porta. Solo per scontrarsi con Minos, appena un paio di passi dopo.

Il Giudice del Grifone si limitò ad alzare un sopracciglio all’agitata ansia del suo diretto sottoposto.

“Non la sopporto, giuro!”, attaccò questi, gesticolando in maniera esagerata.

“Capisco, capisco, che il Sommo Hades abbia voluto attendere, ma, vi prego, Nobile Minos, non affidatela più a me!”

Quasi a voler suggellare quella chiassosa richiesta di aiuto, la porta bianca della stanza di Eranthe si spalancò, ed un libro fu scagliato con forza contro lo Specter di Balrog, centrandolo, peraltro, ad una spalla.

“Vede, vede, sommo Minos!”, il tono piagnucoloso fece aggrottare le sopracciglia al Giudice. “Mi tratta come se fossi un suo parigrado. Se non un semplice skeleton!”, gli occhi di Lune cominciavano ad essere seriamente sconsolati.

“Non la potete mandare con Aiacos?”, concluse, una stilla di speranza nel suo tono improvvisamente dimesso.

Minos dovette proferirsi in uno sforzo erculeo per non scoppiare a ridere, sonoramente, ruppe quindi il silenzio dopo quella che gli era sembrata un’eternità.

“Gli ordini del sommo Hades sono stati precisi: lei deve rimanere qui, sotto la nostra protezione. Portarla di nuovo a Rodorio vorrebbe dire condannarla a morte certa”, continuò spiegando per l’ennesima volta a Lune che no, questa volta nemmeno lui aveva voce in capitolo.

“Dipartita di cui nessuno vi accuserebbe, Nobile Minos!”, sorrise l’altro, di colpo illuminato.

Minos gli posò comprensivo una mano sulla spalla offesa

“Gli ordini sono ordini”, concluse, lapidario. “E poi hai sempre lamentato che ti mancasse un aiuto in Tribunale, o sbaglio?”

Gli occhi di Lune si sgranarono quando lo videro entrare per quella stessa porta bianca, all’interno del più terribile girone infernale.

Bofonchiò una benedizione nella sua direzione dileguandosi nel corridoio buio.


“Hai terrorizzato il mio sottoposto”, asserì pensoso, mentre lei, appoggiata alla finestra, sembrava completamente assorbita dalle macchie di colore dell’agrumeto.

“Ha ragione. Mandami a Rodorio.” La sua voce aveva perso ogni colore e sfumatura. La permanenza in quella condizione aveva attutito il fuoco della sua anima.

“Per cosa, Eranthe?”, le domandò avvicinandosi. “Pensi davvero di poter tornare alla tua casa, alla tua vita di prima?”

Rise, chiudendo gli occhi per non vedere quelli di lei.

“Vuoi davvero tornare là a fare la puttana e attendere che Sisifo torni a finire il lavoro?”, concluse poi, poco più che un sussurro, guardandola serio.

“Voglio vedere mia figlia”, concluse lei, stringendo i pugni.

Minos chiuse le labbra di scatto, stette in una linea dura. L’espressione cupa, quella di chi sta riflettendo intensamente su qualcosa, gli procurava una ruga sulla fronte.

“Non ha senso stare qui, Minos. Non sono capace di combattere e non credo nella lungimiranza di questa guerra. Non sono una stratega che possa dare una mano, né una semidivinità che possa rovesciare le sorti dell’uno o dell’altro esercito”, riprese lei, calma come il mare di notte.

Si voltò a guardarlo negli occhi.

“Sono qui, perché tu hai voluto salvarmi. E ti ringrazio, ma”, si passò una mano tra i capelli, ravvivandoli, “tutti stanno impegnandosi per qualche obiettivo e scopo. I Santi e gli Specter combattono per i loro dei, i loro Sacerdoti si impegnano affinché gli interventi siano esigui e decisivi, le donne del Tempio si occupano di tenere attiva la vita dei villaggi che costellano il Santuario, immagino si la medesima cosa qui”, continuò, abbassando il tono e il viso.

“Io, invece, sono sospesa, non posso fare nulla se non restare a guardare. Non posso nemmeno pensare di fuggire, sarei cadavere ancora prima di lasciare la stanza, non posso stare vicino a mia figlia, non posso vedere…”, si interruppe, un singhiozzo capriccioso aveva lasciato le sue labbra, ora nascoste dietro la sua mano.

Minos fece per replicare, quando un boato di una potenza impressionante, scosse gli stessi muri della fortezza.

Il Giudice fece appena in tempo ad afferrarla, abbracciandola, proteggendola, mentre le finestre esplodevano in una miriade di schegge.

I suoi occhi scuri, terrorizzati nei suoi grigi.

“Minos...”, poi qualcosa risuonò, dentro di lei.

E il suo cosmo esplose.


NOTE:


Come sempre un grazie a Francine che è preziosa, sempre!

Grazie a tutti voi che passate!


Dato il momento non proprio felice della mia vita, volevo condividere queste righe con una persona per me molto importante, a Dimitra, la mia gemella.

So che leggi, e tu sai che, anche se solo per pochi passi, ti accompagnerò.

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Capitolo 10
*** Il Profumo della Notte ***


Il Profumo della Notte


Deuteros non aveva atteso la settimana che Hakurei gli aveva tanto raccomandato. Il vecchio saggio era riuscito a trattenerlo solo per un paio di giorni presso il Tredicesimo Tempio, prima che lui fuggisse, una sera, al tramonto, lasciandosi dietro una scia di bende macchiate di sangue e una traccia infuocata di cosmo, nel cielo ad occidente.

“Che incredibile idiota!”, sbottò il cavaliere dell’Altare senza troppe cerimonie. “Che grosso, sommo, enorme IDIOTA!”, alzò la voce, suscitando una risata cristallina da un punto imprecisato del lenzuolo di seta.

Scosse il capo. I capelli, per una volta liberi dalla pratica coda di cavallo che solitamente portava, frusciavano contro le sue spalle.

Sai che così assomigli un sacco a Sage?, gli aveva confidato una volta lei, ormai più di vent’anni prima.

E ancora dopo così tanto tempo, che per lui era, oh, così poco, era lei la persona che andava a cercare, dopo giornate come queste. Una semplice chiamata diretta nei suoi pensieri per farla giungere al Tredicesimo Tempio, nella sua stanza, a fianco di quella del fratello minore.

“Sei mai stato innamorato, Hakurei?”, gli chiese, appoggiando il capo sulle braccia incrociate sul cuscino.

“Sì. No. Non so”, replicò scherzoso e Melina rise di nuovo guardandolo con i suoi occhi azzurrissimi, illuminati da una luce che conservava solo per lui.

“Allora dovresti capire”, concluse, allungando una mano ad accarezzargli il petto.

Lui la prese, e con una dolcezza che cozzava con il suo sguardo truce, iniziò a baciarle le dita.

Scivolò accanto a lei, pelle contro pelle, a seguire le sue gote con le labbra.

“Il Santuario sta collassando su se stesso, Melina”, le confidò, poco più di un sospiro, “dobbiamo affrontare la morte ma cerchiamo ogni giorno la vita. Aneliamo di vivere anche solo quel secondo, quella breve scintilla, prima che tutto sia spazzato via”.

Melina annuì, occhi negli occhi, ed Hakurei si trovò a pensare che così, senza trucco e belletti, con i capelli lasciati liberi, sembrava ancora più giovane.

“È così per tutti”, constatò lei, lentamente. “È così anche per i comuni mortali e sarà così anche per i soldati di Hades.”

Lui sospirò stringendola un poco.

“È molto probabile che queste saranno le nostre ultime occasioni di poterci amare, in questa vita”, le spiegò, la voce incolore, “Presto sarò chiamato al medesimo compito che ha gravato sulle mie spalle per più di duecento anni.”

Melina annuì.

“Lo so, Hakurei, per questo sono qui, stanotte.” Lo baciò casta sulle labbra piene di rimpianto.

Andò con la mente alle notti che avevano trascorso insieme, celati dal buio della notte, al limitare del Santuario, quando Erato aveva seguito il suo uomo di tenebra, lasciandola sola e con il cuore spezzato.

Lui si sporse a baciarla e lei, sorridendo, capì che doveva considerare la conversazione conclusa perché, no, la pazienza non era affatto una delle sue doti.


Giunse, infine, dopo quelle che gli erano parse ore, nell’agrumeto che delimitava la fortezza di Hades. Ormai la sera stava sfociando nella notte e le guardie, soldati semplici, distratti dal profumo dei fiori, non avevano nemmeno avvertito la morte, mentre lui esplodeva il suo colpo di lava e calore.

Il boato aveva fatto tremare le fondamenta stesse dell’edificio che si stagliava, scuro e terribile, di fronte a lui.

Deuteros rise, avrebbe dovuto fare in fretta, prima che gli inviassero contro un guerriero degno di questo nome, e lui non aveva tempo da perdere, né onore da difendere.

Lui voleva solo trovarla, e portarla via da lì.

Si proiettò veloce verso il palazzo, il mondo una macchia di colore indistinto, come i pensieri nella sua testa.

Immagini in sequenza del corpo di lei, ferito, profanato, la sua Eranthe violata ed uccisa.

Troppo tardi...

Non doveva cedere o perdersi in quella menzogna. Doveva lottare ancora.

Poi lo sentì, sulla pelle, nel suo potere, dritto nei suoi pensieri. Il cosmo di lei, caldo, sopito, che scorreva come un fiume sotterraneo e celato, esplodere di colpo, chiamarlo.

Aumentò la velocità, le labbra serrate si aprirono in un ghigno sinistro, quando, infine, lo vide, proprio dinnanzi il portone di entrata.

Dal cosmo oscuro che emanava, Deuteros capì che si trattava di uno dei Giudici Maggiori.

La sua corsa si interruppe, di colpo.

Oro e tenebra si studiarono a lungo, prima che il fuoco della Viverna avvolgesse le Galassie.


Minos aveva fatto appena in tempo ad eseguire un balzo all’indietro, prima che le fiamme indaco richiamate dal cosmo neonato di Eranthe scaturissero dal corpo della donna, come impazzite.

“Devo andare!”, aveva esclamato lei, incurante, gli occhi luminosi di speranza.

Gli afferrò le spalle, mentre le labbra sorridevano.

“Levati dalla porta! Devo andare Minos!”

Entusiasta, come un’adolescente che scorge il fidanzato sotto casa con un mazzo di fiori, raggiante, anche se, come lui paventava, sarebbe andata incontro a morte certa se solo avesse varcato l’entrata della fortezza.

Le sue mani le cinsero i fianchi.

“Ragiona, Eranthe”, cominciò calmo. “Non puoi andare da lui. Sta combattendo contro Rhadamanhys, che non si farebbe alcun problema a colpire uno dei suoi, figuriamoci una nella tua posizione!”

Lei lo osservò a lungo, i suoi occhi scuri saettavano al di là di lui, come a voler ponderare il maggior numero di soluzioni possibili.

Poi abbassò il capo, sconfitta.

“Non importa, Minos.” Una lacrima eluse la sorveglianza ferrea dei suoi occhi. “Devo almeno provare. Almeno tentare di ritornare da Dimitra. Glielo devo.”

Lui la scosse, tremando a sua volta. “Ma non capisci! Non...”, ma lei gli aveva chiuso le labbra e la mente con un bacio di fuoco.

“Addio, Minos, e grazie”, sussurrò, fuggendo verso il corridoio.

La Surplice di Bennu, sorridendo, scomparve in una scia di fiamme indaco al di là della finestra in frantumi.

Solo quando l’enormità di quanto appena accaduto fu registrata nei suoi pensieri distratti, il Giudice si lanciò verso la medesima destinazione.

“Merda!”, sfuggì alle sue labbra serrate.


Eranthe era arrivata indisturbata di fronte al pesante portone di ebano intarsiato; il concitato trambusto di Specter, guardie, e semplici inservienti che si erano riversati affollando i corridoi principali, le aveva consentito di giungere inosservata alla sua destinazione.

Spinse con forza, con entrambe le mani, ad aprire appena uno spiraglio, poi lo spazio necessario per poter passare.

Un’esplosione di inaudita potenza, all’esterno, polverizzò l’intera struttura, bruciandole le mani e investendola di polvere e detriti.

Fu solo grazie all’ala protettrice della Surplice del Grifone, che lei non venne gravemente ferita.

“Minos, cosa ci fai, qui, anche tu?”, domandò stupita, indaco nel grigio, mentre lui scuoteva il capo sospirando.

Varcarono quell’apertura distrutta, di fronte a loro Rhadamanthys imponente nella sua Surplice, l’elmo scaraventato distante, sangue fresco gli macchiava le labbra.

Il guerriero dei Gemelli, era poco più in là, inginocchiato a terra, un braccio completamente coperto di ustioni, il viso distorto dal dolore.

“Deuteros!”, gridò lei, liberandosi dall’abbraccio del Grifone e raggiungendolo di corsa.

Si accucciò accanto a lui, accarezzandogli il viso.

“Er...Eranthe?”, sussurrò lui, quasi il suo nome fosse qualcosa di sacro ed ineffabile.

“Eranthe?!”, riprese quindi con maggiore sicurezza.

Una mano salì, lentamente, ad accarezzarle il volto, lasciando meste scie di sangue sulla sua guancia.

“Sei viva? Stai bene? Ti hanno fatto del male?”, domandò, veloce, mentre i suoi occhi di mare cercavano eventuali ferite, le mani strette attorno alle sue braccia.

Ma lei scosse il capo, avvicinando la fronte alla sua.

“Sto bene, Deuteros”, confermò, comunicando col cosmo di lui, calmando la sua ansia, dissipando i suoi timori. “Come sta Dimitra?”

Lui chiuse gli occhi. “Sta bene”, sospirò, riprendendo poi, un’increspatura nelle sue stelle. “Dimmi solo che non ti ha nemmeno sfiorata”, chiese, un filo di voce, gli occhi imploranti.

Lei sorrise scuotendo il capo.

E lui, finalmente, si sciolse in un bacio che sapeva di sangue, sudore e di lacrime.


Rhadamanthys era un guerriero del sommo Hades, per l’esattezza, era uno dei tre Giudici Maggiori.

Sopra ogni altra caratteristica, Rhadamanthys della Viverna era un uomo d’onore.

Aveva, quindi, lasciato che i due amanti si concedessero un ultimo, patetico, saluto, approfittando del diversivo per recuperare l’elmo della sua Surplice e riprendersi dal colpo, di una potenza inattesa, dell’uomo dei Gemelli.

Ora, tuttavia, era giunto il momento di mettere fine a tutto questo.

Possibilmente, spazzando via anche lo Specter di Bennu, che gli appariva di dubbia utilità e troppo, troppo vicina al mondo di Athena.

“Puoi tornartene dentro, Minos”, intimò, marziale, al Giudice del Grifone, fermo di fianco a lui, come una statua e stranamente pallido e teso in volto. “Qui basto io.”

L’assenza di una risposta lo costrinse a voltarsi verso il compagno.

“Minos?”, tentò una seconda volta, dandogli una leggera pacca con il gomito.

“Qualche giorno fa mi hai chiesto se avessi riconosciuto da che parte stare, qualora ce ne fosse stata la necessità, non è vero, Rhadamanthys?”, iniziò Minos, il tono della voce incolore, gli occhi puntati sulla coppia poco lontana.

“Bene”, asserì serio, incrociando lo sguardo della Viverna. “Adesso lo so”, concluse, grave.

Rhadamanthys non comprese il senso di quell’affermazione, accogliendola con una semplice espressione di stupita ovvietà.

Poi si rivolse di nuovo al nemico, ora in piedi, accanto a quella donna di fiamme scure.

“È ora di porre fine a questa farsa, Santo dei Gemelli!”, esclamò la voce roca, graffiante.

“Non avrò pietà di voi!”, concluse richiamando a sé il suo colpo più potente, il cosmo viola pulsava di potenza pura.

Greatest Caution!”

Deuteros la costrinse dietro di sé, offrendole quanto riparo poteva, gonfiando il suo cosmo in una barriera, le sue energie tese a proteggerla piuttosto che tentare un contrattacco.


Chiuse gli occhi, una mano sull’oro che copriva la schiena di Deuteros, pronta all’impatto, solo per riaprirli, stupita, quando non avvertì alcun calore, alcun dolore.

Minos, le ali del Grifone completamente spiegate, era a pochi centimetri da loro, proteggendoli da quel calore terribile.

“Minos!”, l’urlo esplose dalle sue labbra, mentre il cosmo dei Gemelli rispose contrastando la Viverna.

Mauros Eruption Clust!”

Sorridendo quando avvertì il colpo centrare il bersaglio e sentì, sopra il fragore, il Giudice gemere di dolore, rovinando malamente a terra, le ali della Surplice orribilmente mutilate.

L’esplosione che ne conseguì divise il suolo sollevando una nube di polvere che rese indistinta la visuale.

Minos crollò in ginocchio, mentre Eranthe e Deuteros cercavano di sostenerlo.

”Perché, Grifone?”, domandò questi, grave, notando che lei stava tentando di tamponare il sangue che aveva macchiato il sorriso amaro del Giudice.

Questi abbozzò una risata di puro dolore, grandi frammenti scuri si staccavano dalla sua Surplice.

“Per i medesimi motivi che ti hanno fatto rischiare tutto, qui”, ammise, sottovoce.

Alzò una mano ad afferrare la spalla del Santo d’Oro. I suoi occhi grigi resi cupi e spaventosi dall’urgenza e dal dolore.

“Portala via”, riprese, la voce un sibilo terribile. “Prendila, ora e portala via di qui. Portala al sicuro, lontano da tutto questo. Lontana anche da Athena. Le nostre truppe stanno per attaccare passando per quel vostro villaggio.” Un rivolo di sangue prese ad uscire dalle sue labbra.

“Prendete vostra figlia, e fatene altri sette, otto, quanti ne volete. Lontano da qui.”

Deuteros annuì grave, mentre Eranthe gli teneva una mano tra le sue.

“Vieni con noi”, un sospiro appena percepibile.

Il Grifone sorrise accarezzandole i capelli.

“Sai che non posso”, concluse voltandosi verso il compagno. “Addio, Eranthe”, sospirò.

L’esplosione del cosmo dietro di lui rese evidente la loro partenza, come una scia di luce e fuoco tra le stelle della notte senza luna.

“Cosa stai facendo Minos?!”
Il grido preoccupato di Rhadamanthys lo fece ridere di gusto. Si rialzò, con estrema fatica, mentre il sangue invadeva la sua bocca e la vista, lentamente, si chiazzava di nero.

“Sembra che tu sia davvero in gamba, Viverna. Non credevo...”, poi il buio lo accolse, facendolo rovinare all’indietro.

Sarebbe caduto a terra, se un varco dimensionale non si fosse aperto, facendolo scomparire all’istante.


Atterrarono istanti dopo, emergendo da una dimensione parallela su una spiaggia di sabbia, accanto a loro una modesta casupola, le finestre chiuse, la porta sprangata.

“Seguimi”, le disse, ruvido, a bassa voce, le onde del mare l’unico suono in quella notte irreale.

Aprì il pesante chiavistello, entrando, il suo cosmo, stanco, ad accendere l’unica candela, al centro del tavolo di legno consunto.

Eranthe fu accanto a lui, guardandosi attorno, curiosa. La cucina con un piccolo forno, il tavolo ed una libreria. Un arco nella parete dava sulla camera da letto.

Nonostante l’arredo spartano e la totale assenza di abbellimenti di alcun tipo, lei, per un attimo si sentì a casa, al sicuro, accanto a lui.

Deuteros si liberò dell’Armatura dei Gemelli con un guizzo del suo cosmo immenso, la Surplice di Bennu, invece, semplicemente, si materializzò in un angolo della stanza.


“Eranthe”, le si avvicinò abbracciandola, stringendola con quanta forza poteva, senza farle male.

Il viso premuto contro i suoi capelli in disordine, che profumavano di vento e di sale.

Il suo corpo caldo, nonostante il viaggio, stretto a quello di lui, come se fossero una cosa sola.

“Lei sta bene. È al Santuario, domani la rivedrai”, le spiegò, sussurrando. “Questo è il mio rifugio. Sull’isola di Kanon”, continuò cercando disperatamente di controllare il tremito nella sua voce.

Lei alzò appena il viso, a perdersi e ritrovarsi in quegli occhi luminosi.

“L’Armatura”, disse, lo sguardo deciso in quello di lui.

“Non potevo venirti a prendere senza protezione alcuna”, sospirò, mesto.

Eranthe comprese, dalla grave inflessione del suo tono che quelle poche sillabe celavano una realtà ben più profonda e crudele.

Quindi evitò di domandare oltre, solo “Grazie, Deuteros”, sussurrò ai suoi occhi, seri.

“Non lasciarmi andare”, di rimando, lui, il tono roco e grave.

Lei scosse il capo, schiudendo un poco le labbra, ricevendo il suo bacio. Intenso. Totale . Come a voler suggellare la loro unione ritrovata. Dopo così tanto tempo.

Dopo che lui aveva scoperto il sottile timore di perderla, tra le trame di una guerra che, in fondo, non era nemmeno la loro.

Un ruolo al quale lei aveva voltato le spalle ed al quale lui si era ribellato.

Le stelle risero, mentre lui la baciava di nuovo, macchiandole la veste di sangue e ignorando il dolore pungente al braccio ferito.

Tutto avrebbe dovuto attendere. Alzò gli occhi oltre la piccola apertura accanto alla porta ad ammirare il mare d’inchiostro e il cielo senza luna.

Le stelle rilucevano selvagge, la loro luce sembrava chiamarlo, assieme alle maree che confluivano, tutte, nel corpo di lei.

La intrappolò contro di sé, baciandola con maggiore convinzione, le mani ad accarezzare la sua pelle nuda, liberandola della veste, dimenticata, afflosciata a terra.

La tensione dentro e fuori di lui, che si trasformava in doloroso fastidio, tra le sue mani.

Lei che gli mordeva le labbra, le dita tra i suoi capelli, accarezzandogli il collo e le spalle, seguendo il sentiero tracciato dai muscoli gonfi.

Avvertì il tempo e lo spazio venire meno, mentre riacquistava un minimo di padronanza di sé, quel tanto che bastava da permettergli di guardarla dritto negli occhi, implorante, in attesa di in un muto cenno di assenso.

Lei allacciò lo sguardo con il suo, sorpresa, prima di comprendere ed annuire, imbarazzata, le gote tinte di un pallido rosa, avvertendo il mondo, lentamente, cambiare attorno a lei e l’aria stessa farsi differente, più leggera.

E lei non fu più Eranthe, la puttana dei soldati.

Poi lui la baciò, ancora, adagiandola lentamente sul letto freddo, il lino delle lenzuola frusciava contro la sua pelle, e lui avrebbe voluto, per il suo bene, che fossero le lenzuola di seta del Tredicesimo Tempio, con le vasche termali pieni di profumi e di petali di fiori.

“Deuteros.” Respirando forte, la sua voce lo riportò a quel letto umile e consunto, nella catapecchia in riva al mare.

Lui la baciò ancora, a scacciare dalla mente ogni dubbio.

La prese con sensuale lentezza, con cura ed attenzione, come se lei fosse ancora una ragazza, accarezzandole i capelli e perdendosi nelle iridi del colore del cielo di notte.

E mentre entrambi cadevano in balia di quel ritmo divino ed antico, fatto di fuoco e sangue, lei avvicinò le labbra ai suoi capelli e lo sussurrò, timida, quello che non era stata mai, mai, in grado di esprimere, nemmeno di fronte alla freccia del Sagittario.

S’agapò, Deuteros.”

Lui la guardò, dritto negli occhi, senza fermarsi e poi, gemendo, le sorrise.

Un sorriso vero, questa volta, così diverso dal ghigno beffardo che talvolta gli stirava le labbra, che le fece lacrimare gli occhi ed aggrapparsi forte alle sue spalle, mentre veniva investita dalla passione che avevano creato assieme.

Lo vide, appoggiare la fronte alla sua, i cosmi che risuonavano, intrecciati, le sue labbra schiudersi in un grido muto.

Poi, lentamente, scivolare accanto a lei, prendendola tra le braccia, cullandola e accarezzandole leggero i capelli.

Mentre recuperavano il respiro, ancora veloce, scosso, ingarbugliato, Deuteros la strinse. “Solo con me, Eranthe.”

Lei alzò un poco il capo, confusa e decisamente ancora poco lucida, gli occhi in un’espressione di dubbiosa curiosità.

“Tu sei la mia donna, Eranthe”, spiegò lui, un lampo di seria determinazione gli attraversò gli occhi.

E lei capì.

E lei vide, lo stesso uomo disperato che chiedeva i suoi servigi le notti senza luna, il guerriero ferito che cercava consolazione e riparo, l’eroe sconfitto che implorava riposo, senza nemmeno comprendere che avevano tessuto la trama di quell’amore nascosto ed invisibile da tempo, ormai.

Quell’amore a cui lui non sapeva nemmeno dare un nome, quel sentimento di assoluta vicinanza che nessuno, mai, gli aveva mostrato né insegnato.

Anni nascosto dietro una maschera, anni all’ombra del gemello perfetto, e quell’affetto che avevano condiviso da bambini si era tramutato in un veleno sottile e letale.

Quell’amore che l’aveva, alla fine condannato.

Gli occhi chiari, sgranati ed increduli quando l’aveva vista la prima volta, la sigaretta stretta tra le labbra rosse e lucide, gli occhi bistrati che recavano la sua stessa disillusa rassegnazione.

Ma a lui, avvezzo solo a insulti e percosse, sembrava quanto di più vicino alla stessa dea gli fosse concesso di vedere.

“Cerchi me, ragazzo?”, gli aveva rivolto la parola, la voce ancora limpida di una ragazzina cozzava contro la sua espressione dura e tagliente.

Lui aveva scosso il capo.

“Non so cosa sto cercando, signora”, aveva risposto, quindi, chiamandola come aveva sentito, di nascosto, i soldati parlare delle donne di Rodorio, nonostante sembrasse essere di qualche anno più giovane di lui.

Lei aveva sorriso, quindi, e le stelle avevano sorriso con lei.

Gli aveva fatto un semplice gesto con la mano, invitandolo ad entrare.

Deuteros aveva scosso il capo di nuovo, facendo un cenno alle sue vesti logore.

“Non importa se non puoi pagare, ragazzo”, lo aveva convinto lei, aprendogli la porta.

E lui avrebbe ricordato per sempre quella notte, e tutte quelle a venire.


“Non voglio che tu...che tu riceva altre persone. Mai più”, concluse, lapidario. “Sei mia. Soltanto mia.”

Lo baciò, lei, con gioia, mentre le lacrime bagnavano le loro labbra riarse, mentre scivolava con grazia sopra di lui, che la lasciava fare, per una volta, libero di perdere il controllo.

Libero di lasciarle la sua vita ed accogliere tra le sue mani quella di lei.

Libero di poterla amare, anche se in silenzio, anche senza parole.

Libero, anche solo per una notte, quando nemmeno la luna avrebbe fatto da testimone.

Alzò lentamente una mano ad accarezzarle le gote arrossate, con una dolcezza un po’ ruvida che non aveva mai dimostrato in tutti quegli anni.

Chiuse gli occhi chiari in un cenno di assenso, quando lei puntò nel suo sguardo i suoi, scuri, resi profondi come il cielo di quella notte, sorpresi.

Poi li chiuse, preda di quel piacere che provava solo con lui, mentre il mondo, lentamente, scivolava lontano, al di là delle onde del mare.

La strinse, forte, quando la avvertì tendersi e gemere.

“Ah...”, gli sfuggì dalle labbra, quando la seguì.


Partirono alle prime luci dell’alba e raggiunsero Rodorio tramite il portale dimensionale che lui aveva aperto, diretti nel Tempio dei Gemelli. Melina li attendeva, sorridente, sulla soglia del Tredicesimo Tempio, abbracciandola come una figlia ritrovata, mentre Hakurei, un po’ in disparte, aveva sbuffato all’attenzione del santo d’oro, apostrofandolo con l’affettuoso nominativo di “idiota”.

La piccola Dimitra era corsa tra le braccia della madre, ridendo, finalmente, felice.


Minos aprì lentamente gli occhi, stupito di essere ancora intero, anche se in un luogo ignoto.

Il sole, con i suoi raggi fastidiosamente luminosi, gli solleticava le palpebre abbassate, richiamandolo ad una veglia che lui avrebbe, volentieri, evitato.

Voltò un poco la testa di lato, cercando di sfuggire a quel richiamo insistente, con la coscienza che anche il dolore aveva ripreso ad ardere nelle sue membra stanche e lui avrebbe solo voluto che una divinità qualsiasi si decidesse a mostrargli infine pietà, concedendogli una morte repentina.

Il Grifone, tuttavia, si scontrò presto con la consapevolezza che nessun dio era in ascolto delle sue preci, in quel preciso istante, così dovette cedere e aprire lentamente le palpebre, pesanti come il piombo.

Il chiarore verde e confuso che investì i suoi sensi servì solo ad aumentare dolore e malessere. Si concesse di gemere. Nessuno l’avrebbe udito.

Cercò di sollevare una mano, accorgendosi, però, che il braccio sinistro era irrimediabilmente spezzato e non rispondeva più ad alcun comando. La mano destra, ustionata e ferita, invece, giunse tremante ai suoi occhi, strofinandoli leggermente.

Dovette sbattere le palpebre un paio di volte ancora, prima che almeno i contorni delle cose diventassero riconoscibili.

Il Giudice si rese conto che il varco creato dal cosmo del Santo dei Gemelli per cercare di salvarlo da Rhadamanthys, aveva effettivamente funzionato, spedendolo verso una non meglio definita destinazione e, per la precisione, accanto ad una radura, al limitare di un bosco verdeggiante.

“Sei tu?”

Inconsciamente Minos si voltò verso quel suono, quella voce nota, sottile come un pigolio, che ora sembrava così maledettamente vicina.

In piedi di fianco a lui, investita dei colori dell’alba, in mano un mazzo di fiori di campo appena raccolti, c’era quella ragazza di rose, così cara al santo dei Pesci.

Richiuse gli occhi, il respiro incastrato in gola, un sorriso di scherno sulle labbra macchiate di sangue.

Forse, alla fine, qualche divinità aveva effettivamente voluto esaudire il suo desiderio.

Alzò il capo, indicandole il collo privo di protezione.

“Ti prego solo di fare in fretta.” La sua voce roca e graffiante, la raggiunse appena, mentre la sua mano indicava il coltello che lei teneva legato alla cintola.


Agathê ristette, sgranando gli occhi, istintivamente fece un passo indietro. Si era recata nel bosco presto, l’alba solo accennata, per raccogliere i fiori appena sbocciati, da vendere quella mattina.

Era rimasta basita, tuttavia, quando, a metà della sua spedizione, era letteralmente inciampata in quel giudice scuro dai capelli di luna che aveva ucciso Albafica, il suo Albafica, distrutto mezzo Rodorio, compreso il suo negozio, ucciso suo padre e rapito Eranthe, nel giro della stessa giornata, solo qualche mese prima.

Pensava fosse un cadavere, non fosse stato per i movimenti del capo e i suoi occhi grigi che si erano, lentamente, aperti.

“Sei tu?”
Le sfuggì dalle labbra incredule, ancora più stupite quando lo vide vulnerabile, porgerle il collo, come una belva ferita che chiede la pietà della morte.
La sua mano, in un moto di egoistica soddisfatta vendetta, era corsa al coltello che portava alla cintola, in fretta, prima che qualcosa potesse interferire.

Avrebbe vendicato il suo amore disperato, avrebbe reso onore a suo padre, avrebbe reso giustizia a Rodorio stesso.

Poi i suoi occhi verdi, sgranati si posarono sul Giudice del Grifone, malamente appoggiato al tronco di un albero, le ferite evidenti, il dolore che lo faceva tremare mentre lui tentava, disperatamente, di contenerlo, la Surplice distrutta, le sue ali maestose spezzate.

E, dentro di sé, Agathê ammise che, no, non sarebbe riuscita ad ucciderlo.

Le mani ricaddero mollemente lungo i fianchi, i fiori come una cascata si posarono accanto ai suoi piedi.

“Non posso”, ammise a mezza voce, più a se stessa che non all’uomo che la stava fissando con sorpresa.

“Sono troppo debole per farlo da solo”, ringhiò lui, stremato. “Non voglio la tua pietà”, sputò prima che un’idea prendesse forma nella sua mente annebbiata dal dolore.

“Conservala per la tomba del tuo caro Santo dei Pesci. Non sai quanto ho adorato sentire le sue ossa spezzarsi e la sua vita abbandonarlo.”

Chiuse di nuovo gli occhi, consapevole che, ormai, lei avrebbe colpito. E sorrise.

Solo per gemere quando avvertì le sue braccia all’apparenza così sottili ed esili strattonarlo ed ancorarsi salde al suo torso.

“Togliti tutto questo metallo da addosso”, ordinò lei, brusca. “Sforzati almeno di trascinare i piedi fino al carretto. Ti porto a casa”, concluse.

E lui, malamente gettato in un letto di fiori odorosi, veniva sospinto lungo la medesima strada polverosa che aveva distrutto, mesi prima, verso Rodorio.



Gli occhi saldamente serrati, cercando di combattere di nuovo quel chiarore inopportuno che cercava a tutti i costi di farlo tornare cosciente.

Avvertì le bende coprirgli le ferite, il braccio sinistro immobilizzato da stecche rigide, il corpo adagiato nella morbida accoglienza di un letto vero.

Maledisse il Santo dei Gemelli per non averlo semplicemente lasciato alla mercé del Giudice della Viverna.

“Sei sveglio?” Ancora la ragazza dei fiori. Gli porgeva un bicchiere d’acqua, dal quale lui bevve avidamente, troppo velocemente, più di quanto il suo stomaco riuscisse a trattenere.

Senza dire una parola, Agathe lo ripulì, cambiando il lenzuolo umido, il viso dall’espressione severa, conservava la dolcezza dei suoi lineamenti.

“Per...Perché?”, annaspò cercando disperatamente di parlare.

Lei sorrise, fermandosi a guardarlo negli occhi. “Se ti lasciassi morire”, iniziò, la voce bassa, “sarei esattamente come te”.
Prese un lungo sospiro prima di continuare. “Sarei come tutti voi, soldati che gli dei trattano come giocattoli, mandandoli a combattere le loro battaglie.”

Sorrise, mesta, i pensieri a quell’uomo bellissimo quanto letale.

“Io sono solo Agathe, una ragazza”, asserì, portando una mano sul petto, all’altezza del cuore. “Nonostante tutto, non potevo semplicemente voltare le spalle e fare come se nulla fosse”, concluse.

I suoi occhi si posarono di nuovo sul Giudice e lui vi lesse una saggezza profonda, una forza sopita che in rare occasioni aveva avuto modo di scorgere.

“Su, al Santuario, sta per scoppiare una guerra di proporzioni immani, qualcosa che noi, che abbiamo abitato qui tutta la vita, sentiamo nell’aria e nel cielo”, continuò. “Noi non avremo mai le vostre corazze, né la protezione delle stelle.” Scosse il capo. “Non avremo mai il nostro nome scritto negli annali degli eroi e nemmeno riconoscimenti e templi. Tuttavia”, spiegò posando una mano sulla sua spalla. “A noi spetta il gravoso compito, di continuare a vivere.”

Fece per andarsene, voltandosi, per impedire che lui, il suo formale nemico, scorgesse i suoi occhi lucidi, ma Minos le afferrò il polso.

“Lui...”, si schiarì la voce, cercando di alzare il tono e rendere chiare le parole. “Lui sarebbe stato fiero di te.”


NOTE:

Grazie, ancora e sempre, a Francine, al suo aiuto, sostegno, supporto e sopportazione.

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Capitolo 11
*** Il Vento dal Mare ***


Il Vento dal Mare



Sage aveva gli occhi del colore della laguna ridotti a due fessure, mentre ascoltava, attento, il resoconto di Minos del Grifone.

L’arrivo a Rodorio di un cosmo di quella portata, una manciata di ore prima, aveva mobilitato i Santi d’Oro rimasti. Erano accorsi al Tempio agitati e pronti alla battaglia.

Persino Manigoldo, zoppicante, il ghigno fiero, la sigaretta stretta fra le labbra, per una volta lontano da Francine, che, ai suoi occhi, cominciava ad assomigliare ad una di quelle anfore panciute nelle quali le ancelle conservavano olii ed unguenti.

Ostentando la calma che l’età ed il suo ruolo gli avevano conferito, il saggio era quindi sceso presso la dimora di Agathê per constatare di persona quale ulteriore emergenza avrebbero dovuto affrontare, più per tranquillizzare i suoi paladini che per un effettivo, concreto rischio.

Aveva, infatti, trovato ad attenderlo la ragazza, le mani sui fianchi, lo sguardo fiero.

“Venga, Santo Padre. Da questa parte”, aveva sussurrato, con una deferenza che non si rispecchiava affatto nel suo atteggiamento. “Stia attento a non inciampare nei vasi e a non sbattere la testa contro le porte”, aveva quindi aggiunto, inerpicandosi per una stretta scala interna e facendo cenno al suo voluminoso copricapo.


Quello che vide, al piano superiore, avvalorò la sensazione iniziale.

Il Giudice del Grifone giaceva, riposando, nel letto al centro della stanza luminosa. Il bianco puro delle lenzuola, dei suoi capelli e perfino del colorito della sua stessa pelle, davano l’idea di una fragilità che il Grande Sacerdote, sapeva, non gli era affatto propria.

“Eccolo, Santo Padre”, iniziò Agathê. Il tono perentorio e sbrigativo fece aprire gli occhi al guerriero, che, una volta riconosciuti i suoi interlocutori, fece un mesto cenno col capo.

“Non sono qui per nuocerti, Minos del Grifone”, cominciò Sage, prendendo posto su una sedia avvicinata appositamente dalla ragazza.

Il Giudice annuì lentamente, i suoi occhi fieri del colore della tempesta sembrarono rilassarsi leggermente.

Nulla nella sua condizione suggeriva a Sage che potesse, nell’immediato futuro, rappresentare una minaccia per il Santuario.

“La tua presenza qui, tuttavia, ha creato non pochi problemi ai miei Santi”, continuò, paziente. “Abbiamo conservato un potenziale Specter per troppo tempo per potercene permettere un altro”, concluse accavallando le gambe. Il ghigno che gli attraversò le labbra assomigliava in maniera impressionante a quello del suo allievo.

“Quindi?”, lo incalzò Agathê, le braccia conserte in una posa talmente perentoria che avrebbe reso fiero Rasgado del Toro. Sage sorrise, suo malgrado; tutto era mutato a Rodorio, tutti avrebbero preso parte, a modo loro, a questa guerra, e la dolce ragazzina innamorata che portava fiori per Athena aveva lasciato il posto ad una giovane donna decisa e determinata.

“Quindi”, riprese col tono paziente che più di una volta era stato costretto ad utilizzare con i suoi sottoposti, “se vuoi restare qui, dovrai dimostrare la tua effettiva utilità.”
I suoi occhi diventarono di ghiaccio.

“Altrimenti ti riconsegnerò ad Hades io stesso”, concluse cupo, il cosmo sopito e appena percettibile, di colpo trasformato in una spirale soffocante.

Minos sorrise, scuotendo il capo.

“Non temo la mia sorte, vecchio, né l’agonia di una morte lenta”, asserì con la voce bassa e stentorea. “Sono un Giudice, non un semplice soldato e con me”, continuò cercando, senza successo, di alzarsi su un gomito ,“questi trucchi non funzionano”.

Ignorò la risata sommessa della ragazza e l’espressione di bonario divertimento del Grande Sacerdote

“Tuttavia”, continuò non appena riuscì a racimolare abbastanza forze, “vi fornirò le informazioni in mio possesso, riguardo l’attacco che stanno preparando.”. Riprese fiato, mestamente, mentre la stanza attorno a lui cominciava a vorticare senza controllo. “Se sarò in grado di reggermi in piedi, combatterò al fianco dei vostri Santi”, concluse, chiudendo gli occhi e soffocando un gemito.


Sage si sporse verso di lui, una mano sulla sua spalla, quasi a volerlo trattenere.

“Perché, Minos?”, domandò, senza preoccuparsi di nascondere una nota di genuino stupore nella voce.

“Anche se tornassi da Hades, ora, mi rinchiuderebbero nel Cocito senza nemmeno ascoltare ciò che avrei da dire sul vostro conto.” Parlava lentamente, scandendo con dolorosa precisione i concetti. La sua voce sembrava l’unico suono in tutto il villaggio.

“Se vi aiutassi, tuttavia”, continuò dopo una pausa che sembrò sfiorare l’eternità, “lei potrebbe avere un luogo a cui tornare”, aggiunse mentre la voce veniva meno. Il respiro si faceva sempre più veloce e poco profondo, mentre combatteva per rimanere cosciente.

Sage si affrettò ad alzarsi e a posare una mano sulla fronte del Grifone; il suo cosmo di stelle e nebulose lo accompagnò nel sonno, garantendo che, almeno le ferite del corpo, fossero sanate.

Eranthe, avresti mai immaginato che il tuo risveglio avrebbe causato tutto questo?, si trovò a pensare, rammentando Areia e la notte nella quale era giunta da lui, con quel fagotto tra le braccia.

«Cosa faccio adesso, Sage?»
E lui l’aveva consigliata, aprendole le porte del Tredicesimo Tempio, mentre la stella oscura di quella neonata brillava feroce nel cielo nero.

Aveva costruito un rifugio sicuro alla Surplice nella cantina della loro dimora, ché nessuno potesse avvertire la sua oscura presenza e l’aveva inchiodata a Rodorio, l’unico luogo al mondo nel quale nessuno l’avrebbe cercata.

Poi era arrivato quel ragazzo di ombra e di fuoco, ed aveva catalizzato un vortice di eventi che era sfuggito al controllo dei suoi occhi attenti.

Ed era nata quella bambina dagli occhi verdi, come il mare, che condivideva quel destino terribile.

Quella bambina, che era già stata reclamata...

Sospirò, Sage, avviandosi verso l’uscita.

“Sei stata coraggiosa, figlia di Arsenios”, appellò la ragazza che lo seguiva in silenzio. “Forse questo tuo gesto ci porterà qualche vantaggio.”
Si stupì di sentire, chiara, la sua risata.

“Lo porti ad Athena, Santo Padre”, gli si rivolse con un sorriso, porgendogli un mazzo di fiori di campo. Sage notò che alcune delle corolle recavano piccoli schizzi di sangue. “Le ricordi che anche noi di Rodorio combatteremo”, concluse, lo sguardo deciso.

Sage annuì, una mano sul suo capo in un gesto di benedizione.



Dimitra sorrideva, del tutto ignara della guerra ormai alle porte, mentre passeggiava sulla riva del mare, sulle spalle di suo padre.

Intenta a guardare le onde rincorrersi mentre il vento le scompigliava i capelli chiari e riccioluti, quelli di Deuteros, invece, erano irrimediabilmente appiccicati dal miele che colava, copioso, dal baklavà che la piccola stava sbocconcellando.

I suoi occhi chiari, che di tanto in tanto assumevano espressioni di trattenuto fastidio, strappavano una risata ad Eranthe, che camminava accanto a loro.

Sedettero all’ombra di uno sperone di roccia, i piedi affondati nella sabbia tiepida, mentre la piccola ne approfittava per costruire castelli sbilenchi che la marea avrebbe distrutto, presto.

“Domani vi porto alla casa di Kanon”, asserì lui, serio, passandole un braccio attorno alle spalle ed avvicinandola a sé. “So che non è comoda, o accogliente, ma è tutto ciò che ti posso offrire.”

Lei rise, prima di scuotere il capo. “Porta Dimitra ed Areia. Il mio posto è qui, Deuteros”, gli appoggiò il capo ad una spalla.

“Voglio rimanere ed aiutare. In fondo è anche casa mia.”

La bambina, ridendo, si tolse i calzari per lasciare che le onde calme e dispettose le bagnassero i piedi.

“Non permetterò che tu combatta, Eranthe. Non potrei sopportare di vederti ferita, o di perderti, ancora.” La sua voce era un ringhio cupo, se lei fosse stata una qualsiasi altra donna, avrebbe avuto paura.

Ma Eranthe alzò il viso a cercare le labbra di lui, in un bacio al quale Deuteros rispose con quanta dolcezza conosceva.

“Il mio posto è accanto a te”, affermò col tono di chi non ammette repliche. Lui sospirò, sapeva che discutere, adesso, sarebbe stato inutile. Così si limitò ad osservare sua figlia che giocava coi granchi, a riva, ed avvertire la presenza fisica e concreta, della sua donna, accanto a lui.

“Ognuno ha la sua guerra, Deuteros”, continuò quindi lei, la voce leggera. “Tu hai dovuto combattere la tua, per arrivare a me, per potermi portare a casa.” Gli carezzò il petto, con fare distratto. “Per poter riconoscere te stesso”, riprese, dopo un sospiro.

“Questa è la mia battaglia. Per proteggere ciò che è mio. Per accettare me stessa. Per poter sperare di costruire un futuro libero anche per Dimitra.”
Lo abbracciò.
“Non posso voltare le spalle e fare finta che non sia nulla, non ora, non dopo tutto questo, non dopo quello che hai messo in gioco, per me. Voglio farlo, insieme a te, so che andrà tutto bene”, concluse, mentre avvertiva i loro cosmi intrecciarsi, creando spirali d’oro e indaco.

La bambina rise, mentre la marea saliva, voltandosi verso i genitori che la richiamavano per rientrare a consumare la cena che, quella sera, si sarebbe tenuta in pompa magna al Tredicesimo Tempio.

Nessuno dei due, però, volle soffermarsi a notare le stelle dei Gemelli che stavano brillando, nella luce del tramonto, proprio di fronte a lei.



La cena, in realtà, era un vero e proprio ricevimento, aperto ai Santi d’Oro, alle loro eventuali compagne e alle ragazze della casa dei piaceri, che avrebbero concesso se stesse a quegli eroi, quella sera, senza pretendere alcun pagamento.


Hakurei sospirò, passando in rassegna tutti i commensali riuniti attorno allo stesso tavolo, il suo pensiero, veloce, a chi, invece, non sarebbe stato assieme a loro.

Il suo sguardo severo andò a Melina, seduta accanto a lui, tesa, gli occhi lucidi di lacrime e le occhiaie segnate nonostante la cipria e i pigmenti che le sottolineavano lo sguardo.

La sua mano ruvida si strinse alla sua, di nascosto, come un’adolescente, strappandole un sorriso e un singhiozzo.

Il suo sguardo si soffermò sul Santo dei Gemelli, sovrapponendo al ragazzo di fuoco e di ombra l’immagine sfuggente ed oscura di Aspros. Per quanto terribile poteva apparire questo pensiero, le stelle dei Gemelli erano in pace, ora, come non le aveva avvertite da anni, ormai.

Nè ricordava, peraltro, di aver visto Deuteros così disteso e rilassato, nonostante la scontata preoccupazione che precede ogni battaglia.

Il suo sguardo di mare, di tanto in tanto, si posava su quello scuro di Eranthe condividendo con lei un dialogo muto, fatto di comprensione, di amore e di quelle interminabili notti di tenebra, nelle quali lei era stata il suo unico rifugio.

Agathê aveva provveduto agli addobbi floreali della tavola e dell’intero salone, lavorando alacremente per tutto il giorno, ma non aveva preso parte alle libagioni, preferendo assistere quell’ospite pallido, ormai in via di guarigione.

Notò che Sage stava osservando di sottecchi Francine, seduta accanto a Manigoldo. Abbassò il capo per nascondere il sorriso all’espressione preoccupata del fratello.

Avesse campato altri duecento anni, mai avrebbe compreso le motivazioni che avevano spinto El Cid a cercare la protezione del Cancro per la sua adorata moglie.

Avrebbe scommesso su Sisifo, che il Capricorno considerava di buon grado un fratello, o, al massimo, Degèl, che con la giovane, condivideva l’origine francese.

Poi notò la cura con la quale il ruvido italiano si sforzava di trattarla, nel versarle da bere o nel tenerle la mano, abbozzando un ghigno, quando i suoi occhi diventavano tristi e distanti.

L’avrebbe accompagnata a Thyra, il giorno successivo, al centro esatto della caldera spenta, e, a costo di tranciargli di netto la gamba ferita, Hakurei si sarebbe sincerato che non tornasse a combattere, lasciandola sola.

Quel ragazzo aveva già pagato il suo debito alla dea, per quella vita e tutte le altre a venire.

Poi i suoi occhi cercarono Sasha, la dea Athena, seduta a capotavola, Sisifo alla sua destra, Sage alla sinistra.

Il suo sguardo azzurro perso in quello di cielo del Sagittario, come a volerlo imprimere nella memoria, per sempre.

Le loro mani, nascoste, intrecciate, al di sotto della tavola, le loro stelle così maledettamente vicine da risuonare, nel silenzio del cosmo eterno della via degli dei.

Ed il saggio Hakurei dell’Altare bisbigliò una silenziosa, antica, preghiera.

Per tutti loro.



Rhadamanthys era ancora inginocchiato di fronte al suo signore; accanto a lui Aiacos, la cui espressione recava chiari i segni della gravità di quanto accaduto.

Per una volta, Hades non stava dipingendo, sintomo evidente di come, giunti a poche ore dall’assedio al Santuario, quel ragazzino efebico avesse lasciato campo libero al dio dell’oltretomba.

“È decisamente insolito vederti ridotto in queste condizioni, Rhadamanthys”, esordì, gli occhi chiari, glaciali, puntati in quelli di fuoco del Giudice.

“Il Santo dei Gemelli è riuscito a giungere fino a noi, ha ripreso la Fenice, ed è scomparso. Pensiamo sia tornato al Santuario, in fondo è da lì che Bennu proviene”, concluse a mo’ di spiegazione. Nonostante le cure immediate delle guaritrici ed il suo cosmo di stelle oscure, le ferite lo disturbavano ancora, tirandogli la pelle e sfregando contro le crepe della sua Surplice.

Hades annuì lentamente, come a spronarlo a continuare.
“Minos del Grifone li ha aiutati”, riprese, grave e pacato. “È scomparso prima che potessi intervenire.” Chinò il capo. “Vi chiedo perdono, sommo Hades.”

Il dio ragazzo scosse una mano come a voler scacciare una mosca fastidiosa. “Non è importante, Rhadamanthys”, asserì, la voce leggera.

“Sapevo che cominciava a sentirsi legato alla Fenice. Dopo tutto, in fondo è stato il suo cosmo ad averla riconosciuta e, come dire, risvegliata. Tuttavia, non credevo che il Santo dei Gemelli si prodigasse per aiutarlo, arrivando a plasmare le stesse dimensioni”, continuò, guardando le spalle possenti dei Giudici rivestite dal nero lucido delle Surplici.


“Qualora ne fosse in grado, combatterà al fianco di Bennu, con i soldati di Athena. Siate pronti”, concluse spostando l’attenzione su Aiacos, che, fino a quel momento, era rimasto in silenzio.

“Ho provveduto a variare la strategia dell’incursione, sommo Hades.” La voce decisa del giudice dai capelli corvini riempì la sala, catalizzando immediatamente l’attenzione dei presenti, perfino quella di Hypnos, che sedeva, bonariamente annoiato, al tavolino dell’ampia balconata attigua e pareva completamente assorbito dalla sua partita a scacchi con Pandora.

“Porteremo le truppe al Santuario, attaccando contemporaneamente sia Athena stessa, su al Tredicesimo Tempio, sia i cittadini di Rodorio, come li avrà sicuramente informati Minos.”
Il dio annuì, interessato.

“Questo li porterà inevitabilmente a diminuire le difese sul villaggio e a potenziare quelle su al Santuario, lasciando parzialmente sguarniti gli accessi secondari del paese. Potremmo sfruttarli a nostro vantaggio. I civili non hanno mai preso parte alla lotta e non saranno sicuramente preparati ad una controffensiva.”

Hypnos li raggiunse, l’incedere lento e stanco, prendendo posto accanto ad Hades.

“Manigoldo del Cancro”, sputò a mezza bocca. “L’uomo che ha osato rinchiudere mio fratello Thanatos, assieme a quel vecchio”, continuò, acido. “Voglio occuparmi di loro personalmente”, concluse, lo sguardo intenso puntato negli occhi di Aiacos.

Il gelo che seguì paralizzò i Giudici che non osarono nemmeno annuire.

“Ma certo”, intervenne Hades, appoggiando bonario una mano sulla spalla di quel consigliere cupo e terribile. “Hai la mia approvazione, Hypnos”, continuò, sorridendo appena. “Athena e Tenma di Pegasus, invece, voglio siano miei”, concluse, alzandosi e tornando al dipinto dietro di lui, notando, con occhio critico, di come all’Italia ivi raffigurata, mancasse un’isola.



“L’hai combinata grossa, Rhadamanthys”, lo redarguì il collega di Garuda, una volta giunti alla sala ristoro adiacente ai loro alloggi privati.

La Viverna lo guardò come se la sua Surplice fosse improvvisamente diventata d’oro.

“Cosa vai blaterando?”, lo apostrofò, la voce profonda e roca.

“Dico”, riprese questi serio, “che hai commesso una leggerezza da novellino contro i Gemelli”.

“E sarebbe?”, riprese l’altro, piccato e vagamente infastidito dal tono saccente che Aiacos si ostinava a mantenere.

Ad aumentare la sua irritazione, il cameriere li aveva appena serviti del loro caffè bollente ed il giudice dai capelli neri aveva iniziato a sorseggiare la bevanda con gesti lenti e misurati.

“Non hai tenuto conto dei sentimenti.”

Dal tavolo accanto giunsero, sguaiate, le risa di un gruppo di Specter.

“Non hai prestato attenzione ai segnali..”, continuò, sibillino come una pizia di Apollo, gli occhi accesi di un interesse che rare volte aveva dimostrato.

“Ma se sono stato l’unico a mettere in guardia quell’idiota albino!”, replicò la Viverna. Un pugno sul tavolo fece rovesciare alcune gocce scure sulla tovaglia immacolata.

Si appoggiò allo schienale della poltrona facendola scricchiolare sotto al suo peso.

“Era tardi, troppo tardi”, sorrise Garuda, gli occhi luccicanti come una comare di paese al mercato che incontra un’amica.

“Senti, non è che perché Behemoth ha scoperto quanto è divertente essere femmina, tutti dobbiamo, di contratto, correre dietro ad una gonnella”, sibilò a denti stretti Rhadamanthys cercando di ignorare il fatto che gli occhi violetti della signora Pandora, di tanto in tanto, si prendevano il disturbo di visitare i suoi pensieri.

“Noi non abbiamo tempo da perdere in queste stupidaggini”, concluse, a bassa voce.

“Stupidaggini, dici?”, commentò Aiacos, genuinamente sorpreso, accavallando le gambe inguainate di nero.

“Può darsi, ma”, lo guardò dritto negli occhi improvvisamente serio, maledettamente serio, “fai attenzione. Queste stupidaggini di cui parli possono trasformarsi in un’arma terribile e letale. Sei stato testimone anche tu della potenza del Santo dei Gemelli. E non credere che Athena abbia ordinato di venirla a recuperare...”
Tornarono a bere il caffé, il silenzio tra di loro pesante come il piombo.



Non c’erano più le rose di Albafica a proteggere Rodorio, né i suoi occhi chiari e il suo portamento fiero.

Non c’era più la spada di El Cid a proteggere i loro sogni, né la grande stella di Rasgado a brillare tra le colonne.

Non c’era Asmita, sacrificato dal suo stesso cosmo per creare un rosario sacro, in grado di intrappolare le anime degli Specter, e nemmeno Kardia, bruciato dal suo stesso fuoco.

Presto, troppo presto, molti li avrebbero seguiti, uniti per l’eternità in quell’Elisio che ospitava gli eroi.

Sage le schioccò un bacio sulla fronte, rompendo, quindi, il silenzio dopo quella che gli era sembrata un’eternità.

“Addio, Areia”, sussurrò, sorridendole, accompagnandola verso la scalinata di marmo che conduceva alle case sottostanti.

La bambina le stringeva seria la mano, dietro di loro Eranthe e Deuteros a chiudere quella fila improvvisata che si dipanava tra le generazioni.

Poco distanti Manigoldo e Francine, una borsa capiente ai loro piedi, lo scrigno con l’Armatura accanto a lui, il viso teso. Il ragazzo la sosteneva, un braccio attorno alla vita, come se anche il solo incedere le costasse un’enorme fatica.

Shion dell’Ariete giunse poco dopo, scuro in volto, a garantire che il trasporto delle astanti fosse rapido e sicuro.

Eranthe abbracciò Dimitra, le lacrime agli occhi. “Quando tutto sarà finito verremo a prenderti, tesoro, e ti cucinerò tutti i baklavà che vuoi, capito?”, le sussurrò, baciandole le guance. “Ora, però devi comportarti bene e stare vicina alla bisnonna. Ci vedremo prestissimo, te lo prometto.”
E la bambina dai ricci di grano e gli occhi verdi le sorrise. “Tranquilla, mamma.” Poi puntò lo sguardo su suo padre, specchiandosi nel medesimo colore, fermo e dritto accanto a loro. “Io ho le stelle che mi proteggono!”

Hakurei dell’Altare era giunto attimi dopo il suo allievo, nel grande spiazzo di fronte al Tredicesimo Tempio, ad accompagnare Manigoldo e Francine alla loro dimora provvisoria, una casupola in un piccolo villaggio al centro di un’isola di case bianche e tetti azzurri.

Lì avrebbero dovuto essere al sicuro, a suo parere, nessuno Specter si sarebbe sognato di cercarli in un luogo talmente anonimo e distante.

“Se bruci il Cosmo o anche solo starnutisci, vengo qui e ti trancio le p...” Si fermò appena in tempo, guardando sottecchi la ragazza comodamente seduta accanto alla finestra che dava sul mare. “La gamba! Ti taglio di netto la gamba, chiaro?”

Il ragazzo annuì, serio, accendendosi una sigaretta. Aprì la bocca per ribattere soffiando una nuvola di fumo, ma il vecchio, saggio guerriero, fratello del suo Maestro, e altrettanto tremendo, era già scomparso, lasciando dietro di sé una cascata di scintille azzurre.

Scosse il capo, passandosi una mano tra i capelli scuri, mentre, guardandosi attorno, osservava la piccola casa.

Le pareti bianchissime, i mobili di legno chiaro erano stati dipinti e, anche se un poco consunti, davano un’impressione di famigliare conforto, di vita vissuta, di quotidiano, tutte sensazioni delle quali si perdeva consapevolezza, quando si era Santi d’Oro.

La cucina, i cui armadietti erano ben forniti di cibo e bevande, era una stanza abbastanza grande da ospitare anche un divano fungendo da salotto. La grande finestra dalle persiane azzurrissime, dava direttamente sul mare, era provvista anche di un balcone di medie dimensioni, con gerani rossi ad abbellire la ringhiera.

C’era solo una camera da letto, con un armadio modesto, ma lui non vi badò. Avrebbero dovuto soggiornare per pochi giorni, almeno così sperava, ed il divano sul quale avrebbe dormito sarebbe stato comunque una valida alternativa.

“Vuoi un caffè, picciridda?”, domandò sottovoce, quasi a non volerla distogliere dai suoi pensieri.

“Grazie, Manigoldo”, ribatté lei, voltandosi a sorridergli, e lui, per un attimo, si accorse di come anche gli occhi le brillassero, nel riflesso del sole sull’acqua.

Forse era questo ciò che aveva visto, in lei, El Cid? Forse era quel sorriso che lui poteva assaporare, sempre, e quella voce delicata e vagamente roca?

Sorrise gettando il mozzicone, e porgendole la tazza, mentre sedeva di fronte a lei, dalla parte opposta del tavolo.

Tutto era talmente surreale da sembrare perfino convincente, e loro, di fronte all’intera Thyra sarebbero stati solamente Milos ed Ekatherina, una coppia di giovani sposi in attesa del loro primo figlio.

Tuttavia, Manigoldo si avvide di come, finalmente lontana dal Santuario, lontana da Rodorio, la giovane francese sembrasse più rilassata e serena, come se un peso le fosse stato sollevato dall’anima.

L’aveva avvertita canticchiare, minuti prima, mentre sistemava i vestiti nell’armadio, laboriosa, ricavando uno spazio anche per i suoi pochi stracci, ed ordinando le loro cose.

L’aveva vista ridere di cuore, a cena, ad una delle sue battute scontate, e rilassarsi sul divano, accanto a lui, appena dopo, a conversare sui progetti di esplorazione di quella città nuova e sconosciuta, come una normalissima coppia.

Aveva assistito ad una piccola, leggera trasformazione, evidente, per i suoi occhi attenti, ma così sottile da risultare invisibile a chiunque.

Qualcosa che poteva fargli sperare che, presto, lei sarebbe stata in grado di camminare da sola, senza necessitare più il suo aiuto.

Sorrise, scuotendo il capo. Nei mesi trascorsi alla Decima Casa, aveva imparato ad apprezzare quella ragazza e a godere della sua compagnia, finendo con l’addolcire alcuni suoi spigoli, solo per lei.

Forse era lui, ora, a non essere pronto a lasciarla andare...

Si alzò dal divano, trattenendo a stento un gemito: il tempo stava rapidamente mutando. Già a cena aveva osservato dalla finestra cupi nuvoloni scuri che si accalcavano sul mare e lampi sinistri squarciare il buio. Si erano affrettati, dunque, a chiudere imposte e finestre per impedire che il vento impetuoso potesse farle sbattere.

Un tuono ruppe il silenzio, improvviso, mentre lui zoppicava verso la porta aprendone uno spiraglio per sbirciare all’esterno. L’odore umido della pioggia ormai imminente lo investì, portando con sé gli aromi della città addormentata.

“Ti duole molto?” La sua voce preoccupata giunse appena dietro di lui.

Manigoldo avrebbe voluto mentirle, ma, tanto, lei avrebbe comunque letto al di là dei suoi occhi.

“Fa un male bastardo”, spiegò, affrettandosi a richiudere la pesante porta d’ingesso per evitare che lei potesse prendere freddo.

“Togliti i pantaloni”, continuò lei, congelandolo sul posto, una mano ancora saldamente stretta alla maniglia.

“Forza! Cosa stai aspettando?”, continuò rovistando in borsa di cuoio di notevoli dimensioni che campeggiava su un ripiano della cucina.

“Trovato!”, esclamò alla fine brandendo una boccetta d’unguento come se fosse un’arma.

“Questo è miracoloso!”, gli aveva spiegato, mentre lui prendeva nuovamente posto sul divano, la gamba ferita allungata sui cuscini.

Francine spalmò quell’olio denso che sapeva di fiori sul rosso arrabbiato della cicatrice che spiccava ancora sulla sua pelle.

Le mani piacevolmente fresche sul calore malsano che ancora lo infastidiva, sulla cicatrice larga e frastagliata che avrebbe reso testimonianza eterna di quanto lui e il suo maestro erano riusciti a compiere.

“Grazie”, la voce roca, mentre con una mano le prendeva delicato un polso, fermando i suoi movimenti, prima che risvegliassero una differente necessità.

“Ora è meglio se andiamo a riposare”, concluse, con la voce strozzata, alzandosi lentamente ed accompagnandola verso la camera da letto.

Sprofondò nel sonno appoggiato ai cuscini del divano, i pantaloni dimenticati a terra, la camicia malamente gettata sulla sedia, una mano a coprirgli gli occhi.

Era ormai notte fonda, quando i tuoni fecero tremare i vetri delle finestre e la pioggia, battente, rinfrescava i tetti riarsi dal sole del giorno.

Manigoldo sospirò cercando di voltarsi sul fianco per cambiare posizione, impresa non semplice dato l’esiguo spazio a sua disposizione ed il fastidio alla gamba. Aprì di scatto gli occhi, adattandoli all’oscurità circostante, quando avvertì una mano fresca sul suo braccio.

Dovette impiegare tutto il suo controllo per non bruciare, d’istinto, il cosmo, riconoscendo, con i suoi sensi ben allenati, che non v’era in effetti, alcuna minaccia.

“Mani...Manigoldo.” La voce un sussurro, mentre lui si alzava a sedere.

Picciridda...” Lei abbassò il capo, imbarazzata, chiedendosi come la sua voce, solitamente roca e sprezzante, potesse diventare così dolce.

“Stai bene? E’ successo qualcosa?”, continuò, preoccupato dalla sua presenza accanto a lui, a quell’ora inusuale.

Nelle sparute notti durante le quali si era fermato a dormire nella stanza degli ospiti della Decima Casa, lei, in caso di necessità, semplicemente lo chiamava dalla camera da letto attigua.

“Ho paura”, ammise Francine, la voce sommessa, la mano fresca, inosservata, era scivolata in quella calda di lui.

“Potresti, ecco, restare di là con me, per stanotte?”, concluse, l’accento marcato era tornato prepotente nella sua parlata fluida, e lui aveva sorriso, annuendo.

Disteso con lei, nel letto comodo e tiepido, mentre fuori i tuoni, il vento e la pioggia avevano spazzato via le stelle e i suoni della città.

“Ti chiedo perdono, Manigoldo.” Lui vestì un’espressione di stupita sorpresa, prima di accorgersi che, effettivamente, lei non la poteva vedere.

“Per cosa?”, domandò, quindi, la voce bassa e roca.

“Ho approfittato della tua disponibilità, del tuo impegno preso con El CId”, il ragazzo notò come la sua voce non si incrinasse più nel pronunciare il nome del marito, “e in tutti questi mesi tu mi sei sempre stato vicino, ugualmente”, continuò, mesta.

“Io, ora, ti considero sul serio una persona cara. E ti chiedo scusa per come ti ho trattato all’inizio, e per tutto il disturbo che la mia condizione ti ha arrecato.”

Manigoldo sorrise, una mano ad arruffarle fraterno i capelli.

”Naturale, picciridda. È dura per tutti perdere qualcuno che si ama, credimi. Ma sono fiero di te: hai saputo rialzarti e farti forza. Questo ti fa onore. Io sono felice di essere riuscito a darti una mano.”

Francine si avvicinò a lui, posandogli un leggero bacio sulla guancia.

“Grazie, Manigoldo.” I suoi occhi luccicavano nella penombra della stanza e a lui tornarono alla mente i ricordi di quando, bambino, sedeva al limitare dei cimiteri, a sera inoltrata, ad attendere qualche ignaro gentiluomo da derubare.

Le mille anime dei defunti si rincorrevano attorno a lui, evanescenti e luminose come lucciole.

Quel lucore che per lui aveva significato morte, ora preludeva alla vita.

Così, come uno che non ha più nulla da perdere, Manigoldo fece scivolare una mano sulla nuca di lei, attirandola verso il suo viso, per posare su quelle sue labbra lucide un bacio casto e ruvido.

“Adesso siamo pari, picciridda. Buonanotte.”

Sorrise, quando l’avvertì ridere, sommessamente, accanto a lui.



Eranthe gemeva, sotto di lui, mentre le stelle brillavano, su quello scampolo di spiaggia, dove si erano rifugiati, a spendere assieme quella notte disperata.

Appena una manciata di minuti prima, Minos del Grifone stava sorseggiando un caffè a casa loro, ancora un po’ livido ma praticamente guarito, accompagnato da Agathê, stranamente quieta e scura in volto.

Aveva avvisato il Santuario del fatto che il suo cosmo avesse cominciato a fremere; probabilmente l’armata di Hades stava preparando l’attacco.

Athena in persona, col suo viso da bambina e gli occhi chiari, gli aveva conferito la propria benedizione per la sua coraggiosa scelta di combattere al suo fianco.

“Non lo faccio per voi, somma Athena”, le aveva ricordato con un mezzo sorriso, al quale lei aveva risposto, comprensiva.

Era quindi sceso a Rodorio, conferendo con i responsabili civili delle vie di accesso principali, mentre Degél ghiacciava le strade rendendo impervio e pericoloso l’avanzare, e le fiamme indaco di Eranthe, guidate dal cosmo dei Gemelli, sostituivano le rose di Albafica.

Poi si era fermato a casa sua, invitato dalla ragazza e da quel suo uomo cupo, per un caffè, un momento insieme, come un addio sopito.

I suoi occhi grigi erano rimasti a lungo in quelli scuri di lei, mentre la accompagnava sulla grande balconata che dava sul mare, la sigaretta stretta tra le sue labbra rosse, il fumo azzurrognolo che saliva al cielo, lento, assieme ai pensieri ingarbugliati di lui. Il cosmo di Deuteros, terribile e soffocante, che, dall’interno, lo ammoniva di tenere mani, labbra, voce e persino pensieri, lontani da lei.

“Abbiamo combinato un bel casino eh, Minos?”, cominciò lei, sorridendo. Gli occhi leggermente a mandorla ricordavano quelli di una gatta.

Lui annuì sorridendo.

“Ti confesso che non pensavo che l’averti risvegliata, salvata e poi difesa avrebbe scatenato questa trasformazione, in te, in Rodorio.” Fece una pausa. “In me.”

Lei si voltò, appoggiandosi alla ringhiera azzurra, guardandolo come se lo vedesse per la prima volta.

“Minos, io non so cosa dire”, sospirò lanciando il mozzicone alle sue spalle. “Sono sempre stata solo una puttana, e nemmeno una di quelle di classe, come le ragazze di mia zia Melina”, aggiunse ridendo. “La nonna mi ha tenuta sempre lontana dal Santuario, a causa della mia ascendenza, temendo che qualcuno potesse insospettirsi o riconoscere il cosmo.” Si portò una mano al cuore.

“Ma non si può nascondersi in eterno”, concluse sorridendo.

Lui si avvicinò appoggiando i gomiti alla ringhiera a pochi centimetri da lei.

“Vi aiuterò, come posso, Eranthe”, sostenne lui, serio, lo sguardo deciso verso il mare scuro, prima di voltarsi di nuovo ad ammirare il suo profilo.

“So che non avrà alcun senso, per te, ma ti prego di ascoltare”, continuò, prendendole una mano ed ignorando una vampata di calore che gli scottò le nocche provenire dal cosmo dei Gemelli.

“Domani arriveranno i nostri soldati, i nostri Generali, ed io non credo di riuscire a cavarmela, ancora”, riprese, respirando a fondo. “Non voglio partire con rimpianti a gravarmi sull’anima. Quel cretino di Lune me la farebbe pagare!”, scherzò, mentre le sue dita si intrecciavano a quelle di lei.

“Io ti amo, Eranthe. So che non potrò mai averti. Ma ti amo ugualmente. È come...” Si interruppe cercando le parole. “Come se tu ed io fossimo due facce della medesima medaglia, come se ci completassimo.”*

La guardò in quei suoi occhi di stelle, sorridendo alla sua dolente sorpresa.

“Ti prego, ora non dire nulla”, abbozzò una risata, lasciandola andare. “Ti proteggerò, domani. Sempre”, concluse, spingendola gentile verso la portafinestra e seguendo con lo sguardo i suoi passi. Sorridendo.

Quando i loro ospiti lasciarono la casa, Deuteros la cinse, protettivo, baciandola dolce e dominante, come se fosse la prima, l’ultima volta. Sollevandola alla sua altezza, mentre le sue gambe gli cingevano la vita.

“Non qui, Deuteros”, gli sussurrò, leccandogli le labbra. “In riva al mare, sotto le stelle.”



Agathê era inquieta, mentre, a notte inoltrata, camminava freneticamente nel lungo corridoio che separava le camere da letto.

Minos emerse dalla stanza a lui assegnata, assonnato ed arruffato, guardandola sottecchi tra uno sbadiglio e l’altro.

“Cosa ti prende? Non riesci a dormire?”, le domandò appoggiandosi allo stipite della porta, le braccia conserte, gli occhi stanchi.

La ragazza si fermò di colpo, voltandosi verso di lui, inchiodata sui suoi passi, lo sguardo improvvisamente terrorizzato.

“Agathê, tutto bene?”, lui mosse un passo verso di lei, che, contro ogni aspettativa, si lanciò tra le sue braccia, cercando le sue labbra.

E lui, rispondendo, per puro istinto, d’un tratto, comprese, tutto ciò che non avrebbe potuto vivere, tutto ciò che avrebbe lasciato indietro, incompiuto.

Tutto ciò che sarebbe stato, se il domani non fosse mai giunto.

“Puoi chiudere gli occhi e fingere che sia lei.”

E lui, di rimando, guardandola a lungo in quel verde liquido di lacrime, a cercare un segnale, uno qualsiasi, che gli indicasse di desistere.

“Puoi chiudere gli occhi e fingere che sia lui.”

E nel suo letto, le mani di lei cercavano, perse nei suoi capelli, lunghi e lisci, un azzurro che non possedeva, mentre le labbra di lui volevano un sapore di menta, che, invece, lo assaliva come ciliegie mature.

Poi, però, entrambi aprirono gli occhi, studiandosi per lunghi momenti, uno dentro l’altra, per distruggere quell’illusione di cuore e di sensi ed accogliere la realtà di quanto avevano da offrire.

“Minos”, sospirò lei, mentre lui sorrideva, all’ironia della sorte che l’aveva costretta a scegliere proprio quel nemico terribile che le aveva portato via l’uomo che amava.

Il Santo che, se solo avesse corrisposto quel sentimento disperato, l’avrebbe condotta alla tomba, solo con un bacio.

“Vieni con me, Agathê”, le sussurrò, il verde del bosco contro l’indaco del mare profondo.

E alla fine, mentre la stringeva fra le braccia, a calmare i suoi singhiozzi, lui aveva notato di come il rosso e il bianco, su quel lenzuolo umido, avessero creato i petali di una rosa perfetta.

Poi la notte si fece cupa, piena di presagi di guerra, oscura, come le ali maestose della sua Surplice.



NOTE:

Grazie a Francine, ad _Haushinka e a tutti quanti passano.

*La Fenice (Bennu in Egitto), è un simbolo controverso. Nella mitologia greca arcaica, prima ancora del Pantheon conosciuto, era associata al Grifone, spesso si indicava per entrambi la medesima costellazione, come una sorta di compagna, per questo la scelta di Minos. Per la mitologia induista è Garuda, ma ho preferito evitare di chiamare in causa Aiacos!

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Capitolo 12
*** Forte, Fortissimo ***


Forte, Fortissimo

Arrivarono alle prime luci dell’alba, come ogni attacco degno di nota conosciuto nella storia.

Come una fiumana scura e inarrestabile.

Come sangue che sgorga da una ferita profonda.

L’allarme era risuonato, chiaro e potente, non appena avevano varcato il limitare del bosco sacro, entrando in contatto con la barriera, sopita ed invisibile, di Athena.

Quella chiamata fatidica, che aveva, tuttavia, trovato i Santi già pronti e tesi nell’attesa della lotta e i civili già schierati, giù in quel piccolo paese.

Agathe era dietro a Minos, una corta spada a doppio taglio stretta tra le mani fredde, il respiro lento e calcolato, gli occhi puntati sulle ali nere della Surplice che aveva di fronte.

Dietro di lei, poteva avvertire gli altri cittadini stringere tra le mani forconi e badili e quant’altro poteva diventare un’arma.

Riusciva ad avvertire una cupa determinazione e una sorta di orgoglioso timore, ma non paura, mai, perché, loro, erano cittadini di Rodorio ed avrebbero combattuto per la libertà.

Albafica, ti prego, guardaci! Vedi in cosa ci ha trasformati la tua dedizione e cosa ci ha insegnato il tuo valore! Ci hai protetti a costo della vita, ed ora, noi sapremo camminare da soli!

Invocò, quasi fosse una preghiera, mentre i primi raggi del sole si allungavano per le vie di ghiaccio.

Deuteros era in piedi, dritto, di fianco a Minos, di fronte alla via principale. L’oro della corazza lucente e letale, i capelli appena mossi dalla brezza che spirava dal mare, gonfiando il mantello.

Le labbra stirate in un mezzo, beffardo sorriso, negli occhi una scintilla divertita, catalizzata dall’adrenalina del combattimento imminente.

Avvertiva i cosmi dei soldati di Hades ardere, cruenti e terribili, mentre incedevano verso la loro meta, ma ne avvertiva altri scivolare sul ghiaccio invisibile di Dégel e perdersi nei campi di fuoco di Eranthe.

Il Santo dell’Acquario fu accanto a lui, il volto serio, le mani strette a pugno.

Eranthe era pronta, appena dietro al santo dei Gemelli, la spada che stringeva tra le mani, lo sapeva, era assolutamente inutile, ma contribuiva, tuttavia, a farla sentire protetta.

Come se i muscoli tesi e possenti del suo uomo e l’oro della sua corazza non fossero sufficienti, pensò stizzita, menando un fendente in aria, come a voler sciogliere le braccia.

Sospirò voltandosi un poco verso la sua Surplice, che se ne stava appollaiata accanto a lei, in una posa conciliante.

“Per una volta che mi servivi...”, le sussurrò a mezza bocca, corrugando la fronte come si fa con i bambini capricciosi.

Non ancora…, parve rispondere la Fenice, sorridendo, a suo modo.

Deuteros si voltò, allora, verso di lei, mentre il clangore delle corazze e le grida degli aggressori si facevano sempre più vicine.

Le mani della donna cominciarono a tremare, mentre i suoi occhi erano inchiodati a quelli di lui.

Ti amo, Eranthe. Tanto da far male.

Poi si lanciò nella battaglia, e lei, guardandolo, splendido e terribile, si chiese se non avesse semplicemente immaginato le parole esplose nella sua mente.



Polvere, sudore, sangue e morte si rincorrevano per le strade di Rodorio, quella mattina. Il cielo, roseo nei colori dell’alba, era tinto di sangue scuro e l'aria permeata di urla di dolore e lamenti di agonia.

Eranthe fece appena in tempo a registrare il fatto che la spada che stringeva tra le mani fosse coperta di fiamme oscure e che la sua Surplice la seguiva in ogni movimento come un cane fedele. Un soldato di Hades la caricò, sfuggendo per miracolo alla strenua difesa di Deuteros, costringendola ad attaccare; lei tremò quando avvertì la lama affondare nel collo dell’uomo, scevro di protezione, e lacrime calde scesero sulle guance, quando percepì la vita lasciare i suoi occhi chiari.

Fiamme incontrollate presero ad ardere impietose, chiudendo, di fatto, l’apertura alla sua sinistra.

“Stai bene, Eranthe?” La voce del Santo dei Gemelli le giunse chiara, sovrastando il clangore della battaglia, con una sfumatura di accesa preoccupazione.

“Certo! Non ti preoccupare per me”, dissimulò lei, stringendo nuovamente la spada, gli occhi decisi.

Lo avvertì ridere, al suo maldestro tentativo, e poi il suo cosmo esplose in un torrente di lava.



Agathe si accorse che, di fatto, Dégel, Deuteros e Minos, stavano gestendo la maggior parte dei nemici.

I loro cosmi, che esplodevano e creavano universi, le ricordavano stelle infuocate al limite del cielo. Ai cittadini erano lasciati solo i semplici soldati, un numero esiguo, fatti passare più per testimoniare il valore dei civili, piuttosto che per effettiva utilità.

I suoi occhi verdi si posavano sul Giudice del Grifone, impegnato a trasformare un manipolo di cinque soldati in un macabro teatro di marionette.

Nonostante il pallore accentuato e le cicatrici che costellavano la sua pelle, arrossì lei stessa pensando a quanto erano state evidenti la sera precedente; i suoi occhi erano seri e concentrati e non lasciavano spazio a dolore o sofferenza.

Completamente assorbito nel combattimento, contro quelli che, fino a pochi giorni prima, erano stati suoi alleati.

A lei sarebbe piaciuto poter guardare attraverso la sua anima e capire che cosa provasse e sentisse davvero lui, al di là del suo sorriso sprezzante ed i suoi occhi grigi.

Una spinta la fece spostare di colpo, mentre Eranthe assestava un fendente di fiamme dritto nel costato di un soldato.

“Fai attenzione, Agathe”, l’ammonì con un mezzo sorriso. “Ormai sono quasi terminati.”

Poi qualcosa esplose, appena sopra alle loro teste, un’arca scura, di enormi dimensioni li sovrastava, volando su, fino al Tredicesimo Tempio.



Sage sapeva che qualcosa sarebbe successo, e che il nemico avrebbe dovuto, volente o nolente, apportare modifiche sostanziali al piano iniziale, una volta appurata la sopravvivenza e sospettato il tradimento di Minos.

Non credeva, in tutta onestà, che fossero così ben organizzati, in un assetto quasi speculare al loro.

Ce la faremo.

Si disse, sperando negli occhi azzurri del Sagittario, nei muscoli possenti di Dohko e nella saggezza di Shion.

Guardò, quindi, verso Athena, vestita della sua armatura; di fianco a lei, Tenma di Pegasus, pronto alla battaglia, fino all’ultima goccia del suo cosmo e della sua vita. La loro imbarcazione, come Arca della Speranza, si librava nel cielo, a fronteggiare quella del nemico.

Ce la faremo.

Si disse, avvertendo suo fratello Hakurei teso appena dietro a lui, pronto nel suo compito, qualora si fosse palesato il Dio del Sonno.

Ce la faremo.

Si convinse, con tutto se stesso, quando avvertì il gelo dell’Acquario raggiungerli, fulmineo, salendo da Rodorio.

Stirò le labbra in un sorriso crudele, che avrebbe fatto invidia a Manigoldo, mentre concentrava il suo cosmo in una sfera di anime, nel palmo della mano.



Il Giudice di Garuda rideva come un pazzo, con gli occhi scuri intenti ad osservare la battaglia senza quartiere che aveva investito come una piaga lo spiazzo antistante la statua di Athena.

Il suo braccio attorno alla vita di una donna terribile quanto bella, dai lunghi capelli neri e dalla pelle segnata da cicatrici e bruciature.

Gli Specter del suo esercito, combattevano fino allo stremo, per poi tornare, da cadaveri, sotto il suo controllo, e lottare di nuovo.

Sage abbassò gli occhi ai colpi di Regulus di Leo, poco più di un bambino, che si lanciava contro il nemico con la grazia felina della costellazione che rappresentava, sotto l’egida dello zio Sisifo.

E il Sagittario, le sue ali d’oro spiegate a riflettere il sole nascente e lo sguardo deciso, senza rimpianti, senza tentennamenti, che di tanto in tanto andava ad Athena.

“Sai che il tuo volto da eroe mi da il voltastomaco?”, lo schernì Aiacos, le ali nere riflettevano i raggi del sole, creando una luce oscura di disperazione.

Violate, accanto a lui, si sporse a baciargli le labbra, prima di lanciarsi sul piazzale a dare man forte agli altri soldati.

Fu solo allora, che Sisifo si accorse della mano, fredda, di Athena stretta nella sua. Il suo sguardo limpido e sorridente, prima dell’inevitabile scontro.

“Non dovresti essere qui”, l’ammonì lui, preoccupato.

Ma lei rise.

“Questa è la mia guerra, Sisifo. Tu sei il mio primo cavaliere”, gli spiegò, “E qui è dove voglio combattere. Affianco a te.”

Poi il suo viso divenne cupo.

“Hades è vicino. Avverto il suo cosmo scalpitare. Presto dovrò combattere, sola, contro di lui, nella via che è preclusa a voi umani.” Gli sorrise di nuovo. “Non voglio lasciarti solo, ora.”

Poi gli accarezzò una guancia, attirandolo a sé e cercando le sue labbra.



Il combattimento che seguì fu devastante. Il Giudice di Garuda si scagliò con tutte le sue energie contro il santo del Sagittario, fedele al suo preciso dovere di annichilire la sua stessa esistenza.

Sisifo arrivò ad accecarsi pur di non cedere alle illusioni del cosmo nemico e riuscire a sostenere gli attacchi per proteggere Athena.

Anche solo per non farla preoccupare, anche solo per salvarla da qualsiasi dolore.

Poi accadde, come un fulmine che preannuncia una tempesta.

Regulus di Leo impegnato nel gravoso compito di combattere contro Violate di Behemoth, era riuscito, al termine di ore estenuanti, a sopraffarla.

E Sisifo vide il Giudice, l’uomo, che aveva di fronte, spezzarsi.

La spavalda decisione lasciare il posto ad un cupo, profondo dolore.

La furia accecò il suo cosmo, il dolore lo rese ancora più oscuro.

No, Violate...

E dai suoi occhi che avevano sempre mostrato quella scintilla di puro, orgoglioso divertimento, cominciarono a fluire, inattese, lacrime di fuoco.



Manigoldo zoppicava ancora pesantemente quando, la mattina successiva, i cosmi dei suoi colleghi lo destarono da un sonno profondo e ristoratore, costringendolo ad alzarsi e preparare un caffè.

La sigaretta pendeva dalle sue labbra, pericolosamente angolata verso il suo petto nudo, mentre il sole, lentamente, rischiarava il cielo esplodendo nei colori dell’aurora.

Soppresse una risata, mentre stringeva i denti sul filtro, forte, fortissimo, per impedire al suo cosmo di rispondere agli altri, di brillare di quella luce terribile e perdersi nella nebulosa di Praesepe.

Avrebbe dovuto combattere, pensava mentre i muscoli possenti delle braccia si tendevano e le mani si chiudevano a pugno.

Avrebbe dovuto esplodere, come loro.

Con loro.


Tuttavia.

Il suo corpo si rilassò di colpo.

Tuttavia non poteva. Perché sulla sua testa gravava un compito ancora maggiore, ancora più impegnativo, ancora più importante.

E lui che era avvezzo a recidere esistenze e reclamare anime, aveva dovuto farsi carico di proteggere una vita.

Rise scuotendo il capo e bruciandosi il petto col mozzicone.

Rise, per scacciare dal suo cuore e dalla sua mente quello scampolo di donna, che ancora riposava nel letto di quella casa modesta.

Quasi come se fosse una situazione normale.

Quel tepore che lo aveva accompagnato nel sonno, accanto a lei.

Quel profumo di frutta e d’estate che sembrava accompagnarla sempre.

Quella vita che si muoveva, dentro di lei, che cresceva, trasformandola, ai suoi occhi, in una dea di fertile gioia.

Quelle labbra, che avrebbe voluto baciare ancora, e ancora, e non con fraterno affetto, come era accaduto la sera precedente.

Che avrebbe voluto dischiudere per assaggiare il sapore della sua bocca, della sua lingua.

Scosse il capo, versandosi il caffè. Nero e scuro, come la fuliggine di quel vulcano che l’aveva visto diventare uomo e tornare Santo.

Gli aveva scottato la gola, amaro come l’inferno, mischiandosi con il tabacco.

Togliendogli dalla testa quel sentimento di miele, per qualcuna che non poteva nemmeno guardare da lontano. Per lei, che aveva ancora il cuore occupato da altri occhi e da altre mani.

“Buongiorno...”, gli disse assonnata, dalla porta della camera da letto. La vestaglia sulle spalle, i capelli ancora in disordine, il sorriso abbozzato. E lui aprì le labbra per replicare, quando una folata di vento, freddo, gelido, spalancò la porta.

Con quell’istinto dettato dall’esperienza, Manigoldo la nascose, dietro di sé, nel vano tentativo di proteggerla.

“Ora è giunto il momento di pagare, Cancer, per quella tua maledetta insolenza. Per aver sigillato il mio gemello Thanatos!”, tuonò Hypnos, e sembrava ancora più maestoso e terribile, di fronte alla porta della loro casa.


“Vattene Francine, scappa.”, sussurrò, letale. “È me che vuole”, concluse allontanandola con un braccio e richiamando la sua Armatura.

La risata che esplose sulle labbra del dio del Sonno li fece raggelare.

“Sbagli, Santo!”, lo apostrofò. “Lei porta in grembo il figlio di quel bastardo che ha avuto la sfrontatezza di sigillare i miei, di figli!”

Manigoldo impallidì, la verità dietro quelle parole di tenebra lo colpì come un frustata in pieno volto.

“Merda”, lasciò le sue labbra, prima che lo potesse controllare.

Il braccio teso ad allontanarla, si richiuse, a stringerla, accanto al calore confortante dell’oro delle sue stelle.

“Manigoldo...” La voce di lei, simile ad un soffio di brezza d’estate. E a lui tornarono alla memoria le sere, giù a Rodorio, con El Cid, Albafica e Sisifo, quando l’aveva vista la prima volta da Melina.

La piccola francese un po’ scostante, per nascondere la timidezza, un po’ ruvida, per nascondere l’imbarazzo.

E Sisifo che l’aveva avuta per primo, tra tutti loro; poi Dégel, che portava il suo paese nel cuore; quindi Kardia, che doveva provare tutto quello che faceva Dégel; perfino Shion, solitamente così pacato e poco incline a quel tipo di diversivi.

Poi El Cid, e lui aveva visto i suoi occhi cambiare espressione, cambiare luce.

Ed aveva scelto un’altra compagnia.

Non perdendo occasione di schernirla, così da dissimulare i suoi autentici sentimenti.

Possibile che il caprone avesse capito? Possibile che mi conoscesse così bene?

Evitando perfino di guardare nella sua direzione, di incrociare il suo sguardo o di sfiorarla.

“Non preoccuparti, Francine. Ci sono io.” Morirò io al posto tuo. “Sei talmente meschino, Hypnos, da combattere contro una ragazza incinta?”, lo schernì, il viso distorto in un ghigno.

La lasciò andare, la mano stretta nella sua solo per un secondo, gli occhi oltremare a comunicarle di scomparire.

Il dio attaccò, il suo cosmo esplose e lei fece appena in tempo ad uscire dalla finestra della cucina e correre lungo la via, fino al mare.

Le lacrime le offuscavano la vista, il dolore le mozzava il respiro.

Non di nuovo, non di nuovo! Athena, ti prego, non prenderti anche lui!

Ma continuava a correre, attenta a non inciampare, a non mettere in pericolo la vita dentro di lei che, catalizzata dal timore, faceva capriole nel suo ventre.

Arrivò al mare, un urlo di frustrazione le esplose dalle labbra, mentre si inginocchiava sulla sabbia.

Avvertì il cosmo di Manigoldo esplodere, come un vento caldo sulla pelle.

“Athena, aiutaci”, pregò, come le aveva insegnato Melina, tempo prima, in quel greco strascicato, sporcato da quel francese ormai lontano.

E come a voler rispondere a quelle preci, una mano calda le sfiorò il capo, protettiva.

Francine alzò lo sguardo, specchiandosi negli occhi sorridenti di Hakurei.

“Rimani qui, bambina”, l’apostrofò. “Vado a vedere cosa combina quel Manigoldo!”


Le fece l’occhiolino, e a lei sembrò per un attimo di avere di fronte non un saggio guerriero ma solo un ragazzo.



Qualcosa non quadrava, sul serio. Minos era un traditore, un rinnegato, era stato ferito dai nemici, dagli alleati e dalla donna che amava. Ma non era uno stupido. E l’attacco dei soldati di Hades ed alcuni Specter minori giù a Rodorio, non l’aveva convinto. Affatto.

”Ehi, Gemelli”, aveva quindi apostrofato il Santo che aveva appena atterrato il Licaone, poco distante. “Non sembra anche a te che manchi qualcosa?”.

Annuì al sorriso di scherno che aveva stirato le labbra di Deuteros.

“Ci puoi giurare”, ammise l’altro. “Ma credo che questa sia solo la quiete prima della tempesta”, concluse, mentre andava con lo sguardo ad Eranthe, a fianco di Agathe, che combatteva decisa, le sue fiamme indaco brillanti nella sera.

L’ultimo soldato fu atterrato da un gruppo di cittadini, che si guardarono attorno stupiti, nel silenzio irreale che si era venuto a creare dopo il clangore di Surplici e Armature.

I forconi, badili e spade alzati al cielo in segno di vittoria, urla ed esclamazioni di gioia, stornelli appena accennati, mentre si curavano i feriti, si contavano i morti e si parlava di andare alla taverna di Giorgòs a festeggiare, domani.

Solo loro rimasero all’erta. Eranthe si avvicinò cauta a Deuteros, la Fenice fluttuava accanto a lei.

“Grazie! Mi sei stata davvero utile...”, la schernì lei, mentre avvertiva qualcosa colare dal braccio.

“Sei ferita”, asserì il santo dei Gemelli, cupo. “Fa’ vedere”, le intimò prendendole la mano dolcemente, in contrasto con il suo tono ruvido, e tamponando il sangue col suo mantello.

Minos si era avvicinato, assieme ad Agathe.

“State bene?”
Ma prima che potesse udire una risposta, con un sobbalzo dalle stelle, l’Armatura dei Gemelli abbandonò uno stupito Deuteros per sparire ad occidente, in una scia di luce, richiamata da un cosmo sconosciuto.

“Che diamine sta succedendo?”, esclamò lei preoccupata, guardandolo negli occhi.

Una risata sguaiata che proveniva cupa dal limitare del bosco attirò la loro attenzione.

“Anche la corazza ha deciso di abbandonarti, Santo dei Gemelli?”

Il viso di Minos, se possibile, impallidì ancora di più.

“Rhadamanthys”, soffiò a mo’ di saluto, gli occhi grigi attenti, dentro di lui, una morsa di gelo gli serrava la gola.



Lune di Balrog era uno Specter attento e paziente. Il suo compito di catalogatore e storico gli forniva elementi di vantaggio su potenziali avversari e lo aveva istruito all’arte di gestire strategie ed attendere il momento opportuno.

Lune di Balrog, tuttavia, era anche un uomo decisamente permaloso e raramente perdonava un torto. Non avrebbe mai coscientemente compreso la decisione del suo Generale di abbandonare le armate per difendere una mera femmina che, con ogni probabilità, aveva utilizzato le sue arti per distoglierlo scientemente dal suo obiettivo, magari proprio per fornire un vantaggio ai Santi di Athena; ma era più che deciso ad impartire a suddetta donna una lezione che difficilmente avrebbe scordato.

Così aveva messo in atto un piano perfetto, osservando, scrivendo, attendendo il momento in cui colpire.

Era planato a sera, dolcemente, sulla spiaggia di un’isola minuscola, trovandovi una catapecchia nella quale risiedevano un’anziana signora ed una bambina dagli occhi verdi.

“Buonasera”, l’aveva salutata lui, lo sguardo cordiale, la tunica nera a celare la Surplice. “Sono un amico della mamma, puoi dirmi dove la trovo?”, aggiunse sfoderando un sorriso di miele.

La bambina lo guardò piegando la testa di lato, i capelli di un biondo cenere ondeggiavano sospinti dalla brezza che spirava dal mare.

“La mamma non c’è”, disse, seria come solo una bambina di quattro anni può essere. “E tu sei troppo brutto per essere suo amico.” Si voltò e fece per rientrare quando lui la fermò di nuovo.

“Aspetta, piccina.” Dimitra si voltò lentamente, per nulla convinta. Lune sospirò, doveva farsi venire in mente qualcosa, e in fretta. Quella monella aveva letto al di là della sua facciata e doveva rimediare, prima che arrivassero i rinforzi.

“Ti faccio vedere un gioco, che ne dici?”, concluse mentre la frusta prendeva forma nella sua mano.

“No. Mi piacciono solo le marionette dello zio con le ali.” Incrociò le braccia, spingendo il labbro inferiore in un broncio deciso. Lune sbuffò sonoramente; Minos era molto più brutto e inquietante di lui, con quella sua improbabile capigliatura...

Rabbrividì, involontariamente, al solo pensiero del Grifone che faceva ballare marionette per la bambina, srotolando la frusta.

“Poco male”, sfuggì alle sua labbra tese.

Poi sollevò il braccio.

Areia giunse correndo, urlando alla piccola di scappare.

Concentrò il cosmo in volute di oscurità.

Dimitra sorrise.

Calò la frusta verso di lei, con precisione.

Colpendo senza successo l’armatura dei Gemelli che le si era materializzata davanti, proteggendola.

Areia cadde in ginocchio, il cuore le martellava nel petto, mentre prendeva in braccio la bambina, come se potesse proteggerla.

“Maledizione!”, imprecò Lune, distruggendo, in un attimo, la maschera di calma e pazienza che si era imposto per tutto quel tempo.

Concentrò il suo cosmo.

Reincarnation!”

Ma nel cielo, appena sopra le loro teste, si materializzò la nebulosa di Praesepe.

Il sommo Sage scaricò su di lui il suo colpo più potente, distruggendo la Surplice, e recidendo il filo della sua esistenza.

“Areia, Dimitra, state bene?”, domandò, preoccupato, correndo ad abbracciare entrambe. L’anziana donna annuì, le lacrime che le scendevano dagli occhi rendevano impossibile parlare.

“Ciao nonnino. Hai visto che bel regalo mi ha mandato papà?”, asserì la piccola, per nulla spaventata da quanto appena accaduto.

E Sage non poté fare a meno di sorridere, di rimando, ben consapevole delle implicazioni di quell’Oro, meraviglioso e tremendo, che brillava dinnanzi a lei.

“E così hai scelto, eh, Gemini?”, si sorprese a sussurrare a quell’Armatura che aveva preteso, nei secoli, il sangue dei fratelli.

“Questa volta sei stata saggia, a scegliere una figlia unica...”, rise, baciando il capo riccioluto di Dimitra, che profumava di fiori e di salsedine.



Sisifo si rialzò lentamente, i suoi occhi feriti non riuscivano a scorgere altro che i contorni sfocati di macerie e distruzione.

L’ultima cosa di cui era cosciente era lo sguardo stupito di Aiacos, mentre la sua freccia d’oro gli trapassava il petto, talmente intrisa di cosmo da sbalzarlo letteralmente dalla sua nave e scaraventarlo giù, verso Rodorio.

I corpi degli Specter disseminati come costellazioni oscure sul marmo bianco del Santuario.

Le stelle dei Santi spente, sopite, a silenziosa testimonianza della dipartita dei loro protetti.

Shion e Dohko erano feriti, ma ancora vivi, mentre incedevano verso di lui, lentamente sostenendosi a vicenda.

Dégel era riverso poco distante, l’esplosione del suo cosmo aveva creato statue di ghiaccio perfette, tuttavia lui, quel ragazzo studioso e rispettoso, non ce l’aveva fatta.

Il sangue sotto di lui formava un cristallo di neve cremisi.


Regulus, e lì le lacrime gli bruciarono le guance, sembrava sonoramente addormentato, non fosse stato per l’angolazione sbagliata della testa ed i lividi scuri sotto gli occhi serrati.

Poco distante, l’arca oscura di Aiacos e quella di Athena erano distrutte, crollando in pezzi scomposti sulle colline antistanti il Santuario.

Sasha.

Irrazionalmente la cercò con lo sguardo e con il cosmo.

Ma lei non c’era.

Athena non era più con loro, con i suoi occhi impossibilmente saggi sul viso di ragazza, con la risata spontanea che spesso risuonava nelle stanze del Santuario.

Con la decisa determinazione nel condurre questa, ultima, battaglia.

Con le mani bianche che, talvolta, stringevano le sue.

Rammentò, il Sagittario, le labbra che aveva baciato, quella fatidica sera, ed il corpo che aveva amato, anche se solo nell’illusione creata dagli Oneroi, anche solo nella sua anima.

L’aveva protetta, mentre Hades si era palesato, terribile nella sua corazza nera e gli occhi dolenti, difendendola dal colpo diretto contro di lei.

E non aveva quasi avvertito dolore mentre la spada si era conficcata nel suo petto, sentendo solo il suo nome, urlato dalle labbra di Athena.

Poi lei, assieme a Tenma di Pegasus aveva seguito il dio dell’Oltretomba, combattendo nella via degli dei, alla quale lui non poteva accedere.

Nemmeno con tutto il suo amore.

Crollò seduto, malamente appoggiato ad una colonna rovesciata.

Chiuse gli occhi, stanco.

Sembrava che, assieme al sangue, anche le energie ed il suo stesso cosmo stessero lentamente fluendo da lui.

Sto morendo, pensò, mesto, mentre il capo ciondolava di lato.

Una mano corse mollemente allo squarcio sul suo petto, dove la spada di Hades l’aveva trapassato.

Sì, avrebbe riposato solo per qualche minuto, magari, se gli dei decidevano di essere clementi, gli avrebbero almeno concesso di sognare la sua amata.

Magari gli avrebbero concesso di non avvertire quel dolore così pungente ed eterno. Dentro e fuori di lui.

E mentre il suo spirito si innalzava nel cosmo, finalmente libero dalle costrizioni del suo corpo, l’unica cosa che la sua anima vedeva, erano gli occhi, verdi, di lei.

Rhadamanthys avanzò verso le quattro persone che gli si paravano davanti.

Il sommo Hades aveva impartito ordini precisi, lasciare che i semplici soldati e gli Specter minori combattessero, fiaccando Santi e civili.

Poi lui, personalmente, gli avrebbe recato la testa di Minos, possibilmente separata dal resto del corpo.

E la Viverna aveva abbassato il capo, gli occhi attraversati da un lampo di puro piacere, vermiglio, come il suo cosmo. Perché, sì, avrebbe dimostrato anche a quell’irriverente di Aiacos, quanto fosse inutile l’amore, sul campo di battaglia, quanto fosse flebile la sua fiamma, di fronte alla morte, al rogo che lui avrebbe presto scatenato in tutta Rodorio.

Era partito pronto, sacrificando volentieri Valentine e Sylphid, suoi fedeli sottoposti, per fiaccare quell’improvvisato, mal assortito esercito.

Certo, non poteva sperare in avversari più patetici: un traditore, una ragazzina, un santo senza armatura ed una rinnegata.

Sarebbe stato un gioco da ragazzi liberarsi del Grifone e degli altri, fin troppo semplice.

Rise di nuovo, mentre concentrava il suo cosmo nella mani.

Greatest Caution!”

Il suo grido cupo e gutturale sembrò rimbalzare per le vie dell’intero villaggio, azzittendo ogni rumore per una frazione di secondo, quell’attimo così caro agli dei.

Eranthe vide solo una sfera purpurea di pura energia avanzare verso di loro, come se fosse al rallentatore.

“NO!”, udì la voce di Minos, dietro di loro, mentre il Giudice si lanciava verso di lei.

Non può fare in tempo.

Si trovò a pensare con la lucidità di un soldato.

Devo difenderli.

Così, d’istinto, abbracciò quell’uomo di ombra e di fuoco, sorridendo al suo sguardo terrorizzato e stupendosi di come, per una volta, le emozioni fossero così chiare sul suo volto.

Va tutto bene. Questa volta ti proteggerò io.

Avvertì calore, fiamme e disperazione, poi solo il suo nome graffiato dalle labbra di Deuteros.



Un secondo, due, poi riaprì gli occhi che aveva chiuso ermeticamente.

“Sono morta?”, domandò, non avvertendo il minimo dolore, la minima ferita.

Si specchiò negli occhi del Santo dei Gemelli, stupita, rialzandosi lentamente.

“Deuteros...”, iniziò, la voce arrochita dalla polvere. Poi si guardò le mani e le braccia, coperte di metallo nero e lucido.

Si voltò a scorgere le ali che le spuntavano dalla schiena.

Si portò una mano alla fronte a toccare il diadema della Surplice di Bennu che, calda e confortante come un abbraccio, la rivestiva.

Come catalizzato dalla Fenice, il suo cosmo esplose, in una colonna di fiamme, richiamando la corazza dei Gemelli.

Deuteros si rialzò, in pieno assetto di battaglia, accanto a lei.

Eh”, gli sfuggì dalle labbra, distorte in un ghigno da far invidia ad un demone.

“Ora sei davvero nella merda, dannata lucertola!”

NOTE:

Come sempre grazie a Francine e ai suoi consigli e correzioni, grazie di cuore.

Questo capitolo ha fatto da sfondo ad un momento particolare della mia vita, una fermata che sapevo ci sarebbe stata, tuttavia non per questo, è stata meno dolorosa.

Quindi, solo, arrivederci, Dimitra.

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Capitolo 13
*** Κεχαριτωμένη - Piena di Grazia ***


Κεχαριτωμένη

(Piena di Grazia)



Agathê fu conscia solo delle grida di Minos e Deuteros. I loro cosmi esplodevano della potenza eterna delle stelle e dei colpi che richiamavano.

Eranthe era un passo indietro, e per fortuna non sembrava essere stata contagiata da quella frenesia di urla; tuttavia la giovane fioraia poteva avvertire, chiaro, il suo cosmo fatto di fuoco del colore della notte.

La sfera violacea, che il Giudice della Viverna aveva generato, aveva raggiunto Deuteros, ferendolo, e, dalle mani inesperte della ragazza, erano scaturite fiamme che, per pochi attimi, avevano imbrigliato l’avversario.

“Adesso, Deuteros!”, aveva, quindi, esortato il Santo del Gemelli che, con un ghigno distorto, le aveva solo risposto: “Come vuoi, mia signora!”.

Poi era stata un’esplosione di lava e cosmo, un torrente di stelle e galassie che si rincorrevano, come le biglie dei giochi dei bambini, d’estate, per le strade polverose di Rodorio.

La risata cupa di Rhadamanthys era agghiacciante, mentre avanzava ancora, nonostante la Surplice danneggiata, il corpo ferito e il sangue che gli colava dalla fronte.

“Ah, mi fate solamente ridere! Credete davvero di riuscire anche solo a combattere, contro di me? Ho elargito fin troppe concessioni e voi siete solo una vergogna. Per entrambi gli eserciti!” Il tono della sua voce, profondo, quasi testimone sulla terra delle profondità dell’Ade stesso, la fece tremare, impercettibilmente.

Puntò il dito contro Eranthe, nella macabra imitazione di un maestro che redarguisce gli scolari indisciplinati, “Tu morirai per prima, Fenice”, sostenne con disprezzo, le labbra contratte. “E tu”, spostò l’indice verso Deuteros, “la seguirai, appena dopo. Giusto perché mi sento particolarmente magnanimo.”.

Poi si voltò verso Minos, il suo viso perse di colpo ogni traccia di crudele facezia.

“Tu, traditore”, dal tono della sua voce grondava veleno, “morirai per ultimo. Prima farò in modo che tu paghi, col sangue, col dolore, con la tua completa distruzione, l’onta che hai gettato sul nostro maestoso esercito e su Hades stesso.”.

Gli occhi del Grifone diventarono freddi e cupi come le nuvole che si addensavano sul mare, prima delle tempeste.

“Sempre se ci riesci”, sostenne quindi, stringendo i pungi a contenere la rabbia, improvvisa, che lo aveva attraversato.

La Viverna si avvicinò, minacciosa, maestosa nel suo incedere.

“Non meriti nemmeno una morte onorevole, Minos!”, lo aggredì, perdendo per un attimo la calma determinazione che lo caratterizzava, digrignando i denti, i muscoli delle braccia gonfi e tesi.

“Hai tradito noi, hai tradito il sommo Hades, hai tradito te stesso, per una puttana!” Il tono della voce era salito in un grido cupo e sembrava l’unico suono presente in quella strada di terra e sassi in tutta Rodorio e nello stesso Santuario.

Una scarica di cosmo lo colpì, inattesa, seguita dal pugno di Deuteros.

“Bada lucertola! Non sei degno nemmeno di pronunciare il suo nome”, sussurrò il Santo dei Gemelli, mentre il Giudice lo respingeva con un calcio in pieno petto.

“Rhadamanthys”, riprese quindi Minos. “Non a caso sei il favorito tra noi. Tuttavia”, inchiodò gli occhi in quelli di lui, “dimostri di non essere certamente il più saggio. Non ho scelto per Eranthe, né perché fuorviato da chissà quale sua arte di seduzione”, mosse un passo verso di lui, concentrando il suo cosmo oscuro.

“Ma solo per il mio cuore”, concluse.

Senza alcuna possibilità di appello.

Gigantic Feathers Flap!”

E la radura esplose in un turbine di energia.



Agathê si portò le mani al volto, coprendosi la bocca per impedirsi di urlare. Non aveva mai assistito a niente del genere in tutta la sua vita, e non riusciva a comprendere come, le mani di quell’uomo, che erano state così gentili su di lei, stringendola ed accarezzandola la notte precedente, fossero così spietate, ora.

E la sua voce, bassa, roca, a tratti addirittura dolce, adesso era un urlo graffiato di potere supremo.

La ragazza non riusciva a spiegare la preoccupata tensione che provava per lui, che sembrava non dare alcuna importanza alla condanna a morte del suo vecchio, spaventoso, commilitone.

Si voltò quindi verso i cittadini che, attoniti, assistevano quel combattimento terribile, a distanza di sicurezza.

Avrebbe voluto esortarli ad aiutare, ma si accorse che non c’era assolutamente nulla che potessero fare contro un nemico così potente.

L’energia che scaturì da Rhadamanthys la riportò allo scontro.

Greatest Caution!!”

Minos, colpito, crollò in ginocchio, la Surplice danneggiata, il volto dolorante e un filo di sangue scendeva, continuo, dalle labbra contratte.

Lei gli fu accanto, almeno a portargli soccorso, dato che non poteva sperare di fare di più.

“...Minos”, sussurrò, la sua voce preoccupata, l’orlo della tunica strappato a tamponargli le labbra.

Il Grifone si rialzò a fatica, appoggiandosi a lei, gli occhi decisi fermi sulla nuvola di polvere che il combattimento aveva creato.

Fece un passo, trovando impossibile muoversi oltre, una stretta decisa gli serrava il polso.

“Ti prego, non andare”, diede voce lei al suo preoccupato timore. “Sei ferito”, aggiunse come a voler giustificare con qualcosa di concretamente tangibile la sua affermazione.

Minos si fermò un secondo a guardarla, nel verde intenso di quegli occhi sgranati, bagnati dalle lacrime, chiedendosi quando era stata l’ultima volta che a qualcuno fosse importato di lui, del fatto che tornasse vivo da una missione o da uno scontro.

A prescindere dal risultato.

Le strinse la mano, cercando di tranquillizzarla con un rapido bacio sulla fronte.

“Non temere per me, Agathê”, le sussurrò, “Sapevo saremmo arrivati a questo scontro”, sorrise. “E ora, devo proprio pagare i miei debiti...”
Ma lei lo strinse di più.

“Non voglio portare fiori anche sulla tua tomba, Minos.” Una lacrima le rigò la guancia, sfuggendo al suo sguardo del colore dei prati che era fermo e deciso negli occhi di lui.

E Minos si trovò ad ammettere che, in quel preciso momento, Agathê fosse bellissima.



Rhadamanthys esplose un colpo di fuoco e dolore contro Deuteros, ghignando. Il conto in sospeso con il Santo dei Gemelli, che aveva avuto l’ardire di distruggere le ali della sua Surplice, di metterlo in ginocchio di fronte alla fortezza del sommo Hades, di aiutare Minos, arrivando a plasmare le dimensioni, sarebbe stato saldato, ora.

Il guerriero di Athena, dal canto suo, sembrava non voler concedere nulla all’avversario, incalzandolo, colpendolo, senza badare al sangue che gli macchiava il mento o l’elmo dell’Armatura che era stato sbalzato via, lontano, dall’attacco precedente.

“Basta giocare, Santo!”, esplose il Guidice della Viverna, concentrando il suo cosmo in volute di oscurità.

L’attacco che esplose, più potente degli altri, riuscì a ferire anche Eranthe, la sua Eranthe, e l’unica cosa che Deuteros volle vedere, da quel momento in poi, fu il cremisi del sangue del nemico.

Lo incalzò, senza attendere l’intervento di Minos, senza attendere null’altro.

Negli occhi ancora l’immagine di lei, scaraventata a terra, il sangue che colava dal suo braccio.

Incrociò le mani di fronte a sé, invocando stelle e galassie, che si formarono al suo comando, in quel terribile gesto che aveva segnato la fine del suo stesso gemello.

...Aspros...

Il volto del fratello attraversò la sua mente in un bagliore di luce.

Galaxian Explosion!”

Il suo cosmo pura energia, come un vulcano in piena eruzione, talmente vasto, talmente potente da comprendere l’intera volta celeste, brillò per un attimo del sole di tutti e dodici i segni dello zodiaco e lui pensò di essere esploso insieme alle sue stelle, nella luce, diventando polvere e tornando ai Gemelli.

Poi tutto divenne silenzio, dopo quell’esplosione tremenda e l’aria stessa si quietò muta testimone degli occhi spenti del giudice della Viverna, il suo potere ridotto ad un sussurro di stelle quiescenti.

Esausto, si trascinò crollando in ginocchio accanto ad Eranthe, e alla sua Surplice, ricomposta accanto a lei. Il combattimento le aveva lasciato un taglio profondo che le correva lungo tutto il braccio sinistro, sangue che le macchiava le labbra ed escoriazioni minori che sarebbero guarite in pochi giorni.

Le sorrise, sollevato, quando la vide riaprire gli occhi scuri, la domanda muta sulle labbra.

“È finita”, le sussurrò, comunicandole senza parlare tutto il suo timore e tutto il suo sollievo.

Poi la baciò, ancora ed un’altra volta, assaporando il sangue dalla sua bocca e lasciando che le emozioni, quelle che proprio non riusciva ad esprimere in altro modo, le arrivassero dalle sue labbra esigenti e dalle sue mani possessive.



Manigoldo era crollato a terra, la gamba già segnata dalla cicatrice, irrimediabilmente spezzata, gli aveva strappato un gemito dalle labbra contratte.

“E che minchia...”, aveva lamentato, quindi.

Rialzandosi, comunque, ché lui era un guerriero, non una femminuccia.

Doveva solo prendere tempo e studiare una strategia per evitare che Hypnos arrivasse a Francine.

Per fare in modo che fosse soddisfatto di prendere solo la sua, di vita...

Poi qualcosa investì il dio del Sonno, Un colpo di spirito e potenza.

“Ci rivediamo, eh, dopo duecento anni...”

“Hakurei”, constatò Hypnos, disgustato, come se lo stesso nome gli lasciasse un cattivo sapore nella bocca.

“Vattene, granchio”, si rivolse, quindi, il saggio dell’Altare, a Manigoldo, bloccando nel medesimo tempo l’avversario con una spirale di anime.

“Hai già pagato il tuo debito nei confronti della dea, ora ti spetta un compito ancora più gravoso.” Hakurei sorrise, “E poi”, asserì, cupo, “questa è una questione tra me e lui”, concluse, ed il suo cosmo bruciò come una supernova, illuminando la sera di un sole azzurro.

“Io sono un guerriero, vecchio. Non una balia”, sputò il Santo del Cancro. “Ti aiuterò come posso”, e fece un passo maldestro nella direzione del nemico. “Non credere che questo bastardo possa riuscire ad ammazzarmi!”

Il suo cosmo richiamò le anime in un vortice.

E Hypnos, facendo un passo indietro, per un attimo, uno soltanto, ebbe paura.



Francine si accoccolò contro uno sperone di roccia, accarezzandosi distratta il ventre gonfio, come a voler calmare le capriole di suo figlio.

“Andrà tutto bene, tutto bene...”, ripeteva come a volersi convincere, cercando di fermare le lacrime e di non agitarsi maggiormente, onde evitare di nuocere al piccolo.

La brezza della sera cominciava a diventare fredda e lei si strinse nella vestaglia leggera con la quale era scappata, solo quella mattina.

Sorrise, trattenendo un singhiozzo, le sembrava di essere stata fuori secoli, non solo una manciata d’ore. Aveva avvertito il cosmo di Manigoldo esplodere, poi farsi quieto, poi limpido come le sue stelle, poi offuscato da striature di dolore.

Ed aveva temuto per lui.

El Cid, proteggilo.

Si era ritrovata a pregare, a sperare che lui tornasse, non come spirito ed essenza, ma con le sue sigarette bianche e il suo sorriso sghembo.

Le palpebre le si fecero pesanti, rannicchiandosi un poco.

Lui sarebbe tornato, ne era certa.

Scivolò nel sonno, senza accorgersene, cullata dalle onde del mare.

...idda...picciridda!”, qualcuno la stava scuotendo, risvegliandola.

Lei sbatté le palpebre, assonnata, stropicciandosi gli occhi per mettere a fuoco il volto accanto al suo.

Il cielo era nero, riflesso nelle onde del mare e le stelle le sembravano diamanti tanta era la purezza del loro luccichio.

Si specchiò nei suoi occhi di un blu intenso.

“Manigoldo?”, sembrò stupita di vederlo, lì, con lei.

L’Armatura era a pezzi, un taglio sulla fronte stava ancora sanguinando copiosamente, l’espressione tradiva stanchezza e dolore, ma era ancora più o meno tutto intero.

Era ancora vivo.

“Già, picciridda”, sospirò, “Il vecchio c’è rimasto secco, ma è riuscito a sigillarlo per bene”, non fece in tempo a dire nulla di più, che lei lo abbracciò, bagnandogli il collo con lacrime di gioia.

“Ehi, ehi. Picciridda, che ti prende?!”, la strinse lui di rimando, soffocando un gemito e mettendosi seduto a fianco a lei.

Je suis...”, s’interruppe. “Sono contenta, sei vivo”, spiegò alzando il viso a guardarlo negli occhi.

Una mano ad accarezzargli una guancia.

“Avevo paura.”

Ma lui sorrise, ignorando la stanchezza, il dolore, il cordoglio.

“Sono qui.”

Poi, a bassa voce: “Non ti lascio.”

E Francine sorrise, tra le lacrime, passandogli una mano nei capelli.

“Andiamo a casa?”, propose rabbrividendo nella brezza notturna.

Lui annuì, issandosi faticosamente in piedi, appoggiandosi pesantemente al bastone.

“Così il vecchio è riuscito ad aggiustarmi almeno l’osso, prima di fare una frittella del dio del Sonno”, concluse il racconto Manigoldo, l’espressione di scherno tradiva la sua effettiva, preoccupata tensione.

Francine rise. “Mi spiace per la tua gamba: stava guarendo...”, constatò tornando seria.

Lui sbuffò una nuvola di fumo.

“Ormai rimarrò uno storpio a vita”, concluse, gli occhi incupiti.

“Non è importante”, asserì lei, timidamente. “Rimani comunque uno dei Santi più potenti”, continuò, versando il caffè, mentre la notte volgeva nelle sue ore più buie.

“È un miracolo che la casa sia rimasta intatta, piuttosto”, concluse, guardandosi attorno.

Manigoldo rise, spiegandole che il combattimento era avvenuto in una dimensione parallela invocata dallo stesso Hypnos per avere un qualche tipo di vantaggio.

Continuò riportandole che il vecchio Hakurei aveva previsto questa mossa, riuscendo ad evitare che entrambi fossero bloccati là, una volta sigillato il dio.

Così era rimasto solo lui, la sua anima intrappolata per sempre, come guardiano del Sonno.

Non diede enfasi al fatto che il medesimo destino fosse toccato ad El Cid, ma lei sembrò non farci caso.

Poi Francine si diresse verso la camera da letto, prendendogli la mano e portandolo con sé.

E nel buio della notte, in quella stanza illuminata solo dalla luce delle stelle, lui osò, per un attimo, vestire i panni di chi non era.

“Ehi, picciridda”, sussurrò, a bassa voce, quasi che fosse un sacrilegio, “perché non restiamo qui?” La sentì prendere un respiro, veloce.

“Magari cerchiamo una casa più grande, con una stanza per il caruso”, concluse, “Lontano da tutta quella merda.”

La piccola francese non rispose, e Manigoldo, mordendosi le labbra, pensò che, forse, aveva esagerato.

Ma per un attimo, uno soltanto, mentre combatteva contro Hypnos, aveva avuto paura, sul serio. Aveva lottato al limite delle sue forze, pronto a sacrificare la vita per la dea, ma accanto al volto di Athena, c’era quello di Francine.

E non gli importava che fosse un’eresia.

Lui voleva vivere.

Accanto a lei.

Anche se questo avesse significato rinunciare ad essere un Santo.

L’avvertì muoversi, di fianco a lui, in un fruscio di lenzuola, e sollevarsi su un gomito, per vedere il suo viso.

“Lo faresti davvero, pour moi, avec moi?” Lui allacciò lo sguardo a lei, muto testimone dei suoi occhi luminosi, aperti in uno sguardo stupito, intenso anche nella penombra siderale.

Sollevò una mano ad accarezzarle i capelli.

Gli occhi nei suoi, annuendo, lentamente, come a suggellare un giuramento solenne, anche senza fiori e cerimonie.

Anche senza amore. Ne avrebbe provato lui, a sufficienza per entrambi.

E forse, un domani, chissà...

Lei sorrise, in quel buio azzurro di stelle, avvicinandosi a lui e chiudendo gli occhi.

Manigoldo rimase immobile, il respiro leggero, quasi avesse timore di spaventarla, mentre lei posava le labbra su quelle di lui.

Come a voler testare, provare, le sue sensazioni i suoi sentimenti, come a voler sentire ancora un battito nel suo cuore che sanguinava.

Lentamente, dopo lunghi istanti durante i quali nessuno dei due si mosse, lei si allontanò, le lacrime lucenti sulle sue guance.

“Non...”, ma lei lo interruppe, un dito sulla sua bocca, scivolato in mezzo alle labbra.

“Shh...”, lo ammonì, gli occhi chiusi, mentre si avvicinava di nuovo a lui.

Lo baciò di nuovo, questa volta, a labbra dischiuse, prendendo l’iniziativa e giocando con lui, assaggiando il suo sapore e raccogliendo, finalmente, ciò che lui le offriva.

Lontano dai baci infuocati d’amore di El Cid, lontano dai baci di possesso di tutti gli altri che raggiungevano la sua camera da Melina.

Si allontanarono di nuovo, guardandosi negli occhi, un’emozione fugace che li attraversava. E lui la baciò ancora, quando la vide sorridere.

E in quel gioco, fatto di amore, di respiro corto e di desideri sopiti, non c’erano cosmi e guerre, Santi e puttane, ma solo Milos ed Ekatherina.



Raccogliere i cocci ed andare avanti era la sfida maggiore, alla fine di ogni guerra. Le strade di Rodorio furono attrezzate come ospedali da campo, feriti da curare, defunti da onorare. Sui volti dei sopravvissuti, tuttavia, spiccava un sorriso sereno, un’espressione di deciso compimento, come quella che solitamente veniva ricordata sui volti degli eroi.

E gli abitanti, che avevano vissuto per sempre, da generazioni, all’ombra di un Santuario fin troppo ingombrante, erano diventati loro stessi gli eroi ed artefici del proprio destino, salvatori, anche se con un piccolo aiuto, del loro villaggio.

Ora che Armature e Surplici erano tornate a riposare, nella luce o nelle tenebre, la portanza di quanto conseguito era ancora più evidente.

“Torniamo a casa, Agathê”, asserì Minos, provato, vedendo come la ragazza avesse cominciato a vacillare ed i suoi passi farsi stentati.

Le offrì il braccio, al quale lei si aggrappò grata, mentre la guidava verso il negozio di fiori dalla curiosa insegna.

“Ci vediamo domani, Eranthe, Deuteros”, bisbigliò lei, lo sguardo stanco, combattendo per sorridere, lasciandosi, per una volta, guidare dal suo improbabile accompagnatore.

Deuteros si voltò verso di lei.

“Dimitra...”, sussurrò Eranthe, le bruciature pulsavano arrabbiate e il cielo, ormai scuro, la esortava al riposo.

“Non preoccuparti per lei, Sage è con loro”, le disse lui, pacato, stringendole un braccio attorno alle spalle, attento a non urtare le ferite. “L’Armatura me l’ha comunicato, attraverso il suo cosmo.”

Eranthe non avrebbe più dovuto stupirsi, ma le sue parole la colpirono.

“Tuttavia”, continuò, mentre si incamminavano verso la casa con le persiane azzurre, “Il vecchio mi ha riportato che è stata l’Armatura dei Gemelli ad accorrere per salvarla. E a richiamare lui.”.

Le baciò il capo, quando vide i suoi occhi riempirsi di lacrime.

“Non temere, Eranthe. Vedrai che saprà cavarsela”, le scompigliò i capelli, mentre entravano in casa e lei, finalmente, si lasciava andare in un pianto liberatorio.

Non riusciva a parlare, mentre le labbra di lui le asciugavano le guance, non riusciva a pensare, mentre lui le curava le ferite, ignorando le sue, non riusciva a dormire, mentre lui la cullava, col ritmo del suo respiro, in quel letto fresco, che li aveva visti amanti.

“Domani voglio andare dalla zia”, bofonchiò lei a mezza voce, gli occhi socchiusi fissi nei suoi, “a vedere cosa ne è stato di lei e delle ragazze. E di tutti gli altri.”.

Lui si limitò ad annuire.

“Athena non c’è più”, sostenne quindi Deuteros, dopo un profondo respiro. “Su al Santuario sono rimasti solo Shion e Dohko”, continuò, poi parve concentrarsi, gli occhi chiusi e stretti.

“Manigoldo è un po’ pesto”, asserì, le labbra vagamente stirate in un ghigno, “ma tutto sommato, sta benone.”.

“Hakurei non ce l’ha fatta”, concluse, cupo.

Eranthe andò con il pensiero a Melina, ai suoi occhi azzurrissimi che si addolcivano quando incrociava il suo sguardo, alle loro mani strette sotto il tavolo, ai loro baci, nascosti dalle tenebre e dalle colonne di quel piccolo tempio a strapiombo sul mare, che tutti sembravano aver dimenticato e dei quali lei era stata involontaria testimone.

Spostò un braccio a cingergli il petto, il sentore di miele e di menta dell’unguento spalmato sulle ferite gli riempì il respiro.

La sua mano grande e calda l’accarezzò, leggera.

“Domani dovrai andare su, al Santuario”, disse lei, a mezza voce, mentre la luna, piena, gettava ombre grigie sui muri. “Ormai sei un Santo d’Oro...”

“Domani...”, continuò lui, mestamente, la voce addolcita.

“Sembra la cosa più spaventosa, vero?”, gli domandò lei, sorridendo alla sua alzata di sopracciglia.

“Sono passata da puttana a Specter nel giro di una manciata di mesi, tu sei ritornato ad essere il Santo dei Gemelli, Francine diventerà madre, Agathê è l’amante dell’uomo che ha ucciso il suo quasi fidanzato, Dimitra è stata difesa dalla tua Armatura: cosa può succedere, ancora?”, cercò di scherzare, ma qualcosa si fermò nella gola, spegnendo la voce, obbligandola a combattere contro quel fastidio pungente dietro ai suoi occhi.

“Cosa faremo, da domani in poi...”, la voce poco più di un sussurrò, udita solo dalla luna, materna e bianca come il latte.

“Non importa, Eranthe”, sostenne lui, spostandosi sul fianco e guardandola dritto negli occhi resi lucenti dalle lacrime.

“Vivremo”, disse, il tono deciso, “e questo è già abbastanza, è già sufficiente, per chi ha sempre camminato, come noi, al limite del mondo, al limite della vita.”.

“Deuteros...”, una lacrima solitaria sfuggì, scavalcandole il naso, atterrando silenziosa sulla mano di lui, “È che fa paura.”.

Lui annuì, aspettando che lei continuasse.

“Come la prima volta.” La sua mente andò, mesta, ad Hakurei, quella notte fatidica, nella casa dalle persiane azzurre di Rodorio, in quella stanza che sarebbe diventata meta dei soldati, con quell’uomo fatto di stelle che l’aveva presa, facendola sanguinare, scusandosi, poi, la fronte appoggiata alla sua. Ma non aveva invocato il nome di Athena, lui, solo una formula antica, a sigillare il suo sangue impuro.

“Come il primo cliente, come la prima volta che perdi qualcuno di caro, come la prima volta che prendi tra le braccia tua figlia”, lo vide sorridere.

“Era così fragile, così bianca, che avevo paura di sporcarla solo sfiorandola con la mia pelle”, ammise lui, con una punta di rammarico.

“È che prima sembrava tutto così chiaro”, riprese lei. “Sembrava che il mio posto in questo mondo fosse stabilito, sembrava che tutto fosse esattamente come doveva essere.”

“Forse è così, come siamo ora, il modo in cui il destino ci ha disposto, e siamo esattamente dove dovremmo essere”, intervenne lui, sereno.

“In fondo”, parlò come se si dovesse togliere un macigno dall’anima, “anche per me è stato un duro colpo. L’Armatura dei Gemelli aveva scelto me”, confidò come se quelle parole fossero un sacrilegio.

“Ero sull’isola di Kanon, stavo ultimando la catapecchia che hai visto, quando dei guerrieri in pieno assetto di battaglia mi hanno attaccato.” Sbuffò, come se parlare gli costasse uno sforzo enorme.

“Avevano armature cremisi e dicevano di essere guerrieri di Ares. Così feci la sola cosa che sapevo fare: combattere. Riuscii ad atterrarne tre, senza subire gravi ferite, tuttavia ero privo di corazza e i loro attacchi cominciavano a farsi pericolosamente precisi.”

Prese un respiro profondo.

“E poi apparve, sopra di me. Splendida e lucente. Mi ha vestito, consolante come l’abbraccio di una madre. E il mio cosmo è come esploso, distruggendo i nemici, in un colpo solo.” I suoi occhi si erano di nuovo fatti lontani e tristi.

Rimase in silenzio per lunghi minuti, durante i quali l’unico suono in quella stanza era il frusciare ritmico del loro respiro.

“E poi? Cosa è successo, Deuteros?”, tentò lei, la voce sottile nel buio ancora più profondo.

“Non lo so”, ammise lui, abbassando lo sguardo. “Ho avuto paura, credo. Ho rivisto gli anni di duri allenamenti ai quali si è sottoposto Aspros per giungere al medesimo risultato. Ho rivisto i suoi occhi chiari pieni di dolore”, ammise.

“Io sono forte”, scherzò. “Ero abituato ad una vita nascosta all’ombra del Santuario. Ero da sempre bersaglio dei soldati, i loro insulti o percosse non mi ferivano nemmeno più. Pochi conoscevano la mia esistenza, ancora meno la mia identità. Quindi, pensavo, non avrebbe fatto differenza per nessuno, se non per mio fratello Aspros.”

Le posò una mano sulla guancia, a lenire la sua espressione addolorata.

“Così,” proseguì mostrandole la cicatrice sul braccio, “ho ordinato alla mia armatura di proteggere Aspros, sigillandola col mio sangue.”

Abbozzò una carezza.

“Poi ho trovato te”, disse sorridendo, sporgendosi a baciarla.

“Poi è arrivata Dimitra”, ammise, ricordando quei giorni di lacrime e sangue.

“E la mia vita non è più stata solo mia...”, concluse.

Notò il suo sguardo farsi improvvisamente triste, così decise di porre fine a quel discorso illuminato solo dalla luna, ché lui con le parole non era mai stato bravo, e di baciarla di nuovo.

E lei si perse, come sempre, in quei baci che sapevano di fuoco e di mare.

In quel sentimento che l’aveva investita, potente ed assoluto come quel cosmo di cui aveva tanto sentito parlare e l’aveva trascinata via con sé.

Da quella sera lontana e per il resto della sua vita.

Si lasciò prendere da quell’uomo fatto di ombra e fuoco, di vento e di maree come se fosse solo una ragazza.

Come se non ci fossero né passato né futuro,



Aiacos aprì gli occhi lentamente.

Per un attimo si convinse di essere nell’Elisio, dato il numero di ragazze che sembravano vegliare su di lui.

“Signora Melina! Signora Melina! Si è svegliato!”, sentì una ragazza dai capelli rossi chiamare a gran voce e non ricordava di alcuna Melina nel giardino degli dei gemelli.

Sbatté le palpebre un paio di volte. “Dove mi trovo?”, tentò. “Potrei avere un po’ d’acqua?”.

Ma nessuna di quelle ragazze, indaffarate come formiche operaie, sembrava accorgersi minimamente delle sue richieste.

Stava per richiamare la loro attenzione, quando il suo campo visivo fu invaso da una donna dagli occhi azzurri come il cielo di primavera, che lo guardavano con un misto di preoccupazione e fredda determinazione.

Dovevano essere bellissimi, pensava, anche senza quell’alone arrossato causato, con ogni probabilità, dalle lacrime.

“Qual è il tuo nome?”, gracchiò al suo indirizzo, la voce riarsa dalle labbra secche.

“Aiacos di Garuda, signora.” Quella doveva essere Melina, dedusse, dai modi imperativi e dalla sua sola presenza che richiedeva rispetto.

La mano, fredda, terribile, della donna si serrò attorno alla sua gola. Ed anche se il Giudice avrebbe potuto facilmente distruggere quella vita con uno schiocco delle dita, solo per un secondo, ebbe la certezza che lei lo avrebbe ucciso senza sforzo.

I suoi occhi mandavano bagliori sinistri, quando parlò: “Sei un guerriero di Hypnos?”.

Aiacos ebbe la certezza che era sopravvissuto alla freccia di Sisifo solo per morire tra le mani di quella Melina.

Non osò nemmeno mentire.

“Hypnos e Thanatos sono i consiglieri di Hades, del quale io sono uno dei tre Generali”, sospirò cercando di escludere il dolore al petto.

“Quindi sono un guerriero di Hades, esattamente come gli altri Giudici. Non prendo ordini diretti dagli dei gemelli...”.

Riprese fiato, quando vide gli occhi di lei rilassarsi.

“Bene”, concluse asciutta, “Allora non morirai, adesso.”.

Si voltò allontanandosi a lunghe falcate, e lui chiuse gli occhi. La sua mente era andata a Violate, la più possente delle sue ali, perita sul campo.

Stava per scivolare di nuovo nel sonno quando avvertì qualcosa di freddo e duro premuto contro le labbra.

Riaprì gli occhi, di colpo, sul sorriso bianco di Minos.

“Ehi”, lo salutò questi, sostenendogli il capo per aiutarlo a bere.

“Sei ancora vivo?!”, riuscì a rispondergli Aiacos, la sorpresa evidente nel suo sguardo scuro.

Minos sorrise. “Non ci avrei scommesso nemmeno io.”

“Rhadamanthys?”, gli domandò di nuovo, ma il Giudice del Grifone scosse il capo. “Già, mi era parso di aver avvertito la sua stella spegnersi...”

“Cosa faremo, ora?”, concluse Garuda, gli occhi addolorati. La perdita di Violate aveva intaccato il suo spirito e chiuso il suo cuore.

Minos scosse il capo, il suo sguardo andò per un attimo ad Agathê, impegnata in una conversazione con Melina.

“Se gli déi saranno clementi, staremo qui...”.


NOTE:

Grazie sempre e comunque a Francine che mi ha dato più di una mano, grazie, grazie mille.

E grazie ad _Haushinka, che è stata gentilissima!

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Capitolo 14
*** Sul tuo Viso ***


Sul Tuo Viso

Sage sbuffava frustrato. Quattro mesi erano trascorsi da quel fatidico settembre, nel quale le sorti del Santuario e dell’esercito di Hades, erano state perentoriamente riscritte.

Avevano pianto i loro compagni periti, che ora riposavano al cimitero monumentale, proprio dietro ai giardini.

Avevano atteso, pazienti, che le ferite del corpo o dello spirito, venissero sanate.

Avevano costruito, avevano deciso, avevano visto Rodorio rifiorire a nuova vitale speranza.

Ed ora, lo sapeva, era giunto il momento di tirare le fila di quel destino che sfuggiva alla loro comprensione.

La sala del consiglio ospitava, per la prima volta, i Santi, gli Specter e i rappresentanti di Rodorio.

L’anziano saggio guardò Areia, seduta accanto a lui, un sorriso gli stirò le labbra e allungò la mano verso di lei, mentre i suoi occhi comprensivi erano posati su Eranthe, accomodata tra Minos e Aiacos.

Bambina mia...

Eranthe teneva il capo chino, le mani appoggiate ai braccioli di legno intagliato della poltrona, gli occhi preoccupati di Minos non la lasciavano un secondo, mentre lei cercava di fare il possibile per non incrociare lo sguardo infuocato di Deuteros, seduto tra Shion e Manigoldo.

Il Santo dei Gemelli era tornato solo la sera prima: era stato sull’isola di Kanon per due mesi, a guarire le sue ferite e a fortificare ancora di più il suo cosmo, per potersi dedicare poi, a lei, a loro, senza più impedimenti o riserve.

A cercare, con tutto se stesso, di trasformare tre persone in una sorta di famiglia. Quella che lui non aveva mai avuto, quella che ai Santi il destino sembrava voler precludere, troppe volte.

Anche se non aveva idea di come o dove, lui le sarebbe stato accanto, fino a quando le sue, le loro stelle avessero brillato.

E dopo, ancora, in quel giardino fatto di eroi.

Così, aveva utilizzato quel tempo di dolore anche per sistemare ed allargare la vecchia catapecchia che lo aveva ospitato per tanti anni, e che ora si poteva definire casa, a tutti gli effetti, con una stanza anche per Dimitra, che avrebbe compiuto cinque anni in una manciata di mesi.

“Potremmo decidere di andare anche là. Qualora ti stufassi di Rodorio.” Glielo aveva proposto così, quanto di più vicino a una dichiarazione d’intenti lui potesse sperare di mettere insieme.

E Deuteros era tornato soddisfatto, con il cuore che batteva forte, come nelle sere di luna nuova, a bussare alla sua porta, ancora una volta. Per sempre.

E lei l’aveva accolto in casa, come sempre, con un bacio di fuoco; tuttavia i suoi occhi erano pieni di un dolore che non le riconosceva mentre lei si affrettava a congedarsi per la notte dando la colpa alla stanchezza ed alla convocazione del giorno successivo.



Areia scosse il capo, impercettibilmente, stringendo le dita di Sage, concedendogli un mesto sorriso, esortandolo a cominciare.
“Miei cari”, aveva quindi esordito il Grande Sacerdote ottenendo immediatamente il silenzio generale.

“Vi ho convocati qui, oggi perché è giunto, finalmente il tempo di ricominciare a vivere. Ed è alla vita che vi esorto...”



Ma Deuteros non lo ascoltava più. Il suo sguardo cupo fissato su di lei.

Su di lui. Minos.

Quella gallina pallida che era arrivato ad aiutare. E che ora, seduto accanto a lei, mostrava di soffrire le sue medesime ansie.

Preoccupato un cazzo.

Le mani strette a pugno, le nocche sbiancate, doveva solo pregare di non essere lui la causa del comportamento strano di Eranthe, altrimenti...

Altrimenti!

Sospirò, no, obiettivamente, non poteva essere. Minos e Agathe erano diventati di fatto una coppia e lui le dava perfino una mano nel negozio di fiori.

Non poteva trattarsi di Minos, di Aiacos o di nessun altro.

Solo di lui.

Merda. Ma cosa poteva aver combinato?

Scandagliò nella sua memoria a cercare qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse essere anche solo lontanamente imputata a causa, ma non trovò nulla.

Quando era partito lei lo aveva baciato col solito trasporto, sorridendogli ed augurandogli buona fortuna. Lui le aveva sorriso, dicendole, a mezza bocca, che gli sarebbe mancata, ogni giorno, ogni ora.

E lei aveva sorriso a sua volta mentre una lacrima era sfuggita ad accarezzare la sua guancia.

Cosa poteva essere successo, dopo?

Forse si erano trovate in difficoltà e lei era stata costretta a tornare a lavorare?

Scosse il capo.

Impossibile.

Anche se il vitalizio dal Santuario non fosse bastato, nessuno avrebbe più messo piede a casa sua, non dopo il trattamento che lui aveva riservato ai clienti, la scorsa estate.

Forse la sua proposta di abitare con lui sull’isola di Kanon l’aveva offesa?

Tuttavia quella casa di sudore e lacrime era tutto ciò che possedeva.



Una gomitata di Manigoldo lo riportò alla riunione; forse Sage avrebbe detto finalmente qualcosa di anche solo lontanamente interessante.

“Ormai la pace è tornata a splendere su queste terre, esigendo il suo obolo di sacrifici”, tuonò il Sacerdote. “Nuovi guerrieri saranno investiti e chiamati a prendere il posto di chi ci ha lasciato. E una nuova guida vedrà la luce del Santuario”, continuò, la mano alzata come a voler impartire una benedizione.

“Shion. Allievo del mio compianto fratello, tu sarai il nuovo Grande Sacerdote di Athena. Preparerai tu i guerrieri alla nuova Guerra Sacra!”.

L’Ariete impallidì vistosamente, annuendo impercettibilmente e cercando con gli occhi Dohko che gli mostrò il pollice alzato.

“Come ultimo atto dell’autorità che mi è stata conferita, e come da loro esplicita richiesta, sollevo Deuteros dei Gemelli e Manigoldo di Cancer dall’obbligo di risiedere presso i loro Templi qui al Santuario.” La voce gli si spezzò, mentre gli occhi sorridevano. “Dopo il servizio che avete reso, a noi, a tutti, siete liberi.”

“Il Consiglio è qui concluso”, affermò, togliendosi il copricapo e posandolo, con lenta ieratica guisa, sul capo di Shion.

“Aspetti sommo Sage!” L’Ariete sembrava aver ricordato di possedere ancora una voce. “Ma lei, cosa farà...”, domandò irrequieto.

Il vecchio saggio sorrise, posando un braccio attorno alle spalle di Areia.

“Tornerò nel Jamir, a concludere i miei giorni in pace.” La guardò negli occhi. “Con le persone che amo.”

Deuteros sbiancò, forse era quello il motivo per il quale Eranthe si comportava in maniera così strana?

Non v’era dubbio che la partenza della sua amata nonna le avrebbe causato dolore, ma, in fondo, lui cosa c’entrava?

Anzi, averlo vicino avrebbe potuto recarle aiuto e conforto.

Si spostarono nella sala attigua, una sorta di solarium chiuso da un’ampia vetrata, nella quale inservienti solerti avevano preparato un vero e proprio banchetto in onore di quegli improbabili eroi.

Al gruppo nutrito dei presenti alla riunione, si erano aggiunte anche Melina, Dimitra e Francine, che ormai sembrava nascondere un’anguria matura sotto la veste. Manigoldo l’aveva accompagnata a sedere al tavolo con cura e attenzione, e Deuteros si lasciò scappare un sorriso di fronte a quei gesti ed allo sguardo raggiante di lei.

Nonostante la fatica ed il dolore che le indolenziva la schiena.

Eranthe aveva ricevuto clienti fino a quando la gravidanza non era diventata fin troppo evidente. Anche lui, che non si poteva certo definire delicato.

Eranthe non aveva avuto vicino nessuno che le massaggiasse la schiena o alleviasse i suoi timori. Nemmeno lui, che della bambina che portava in grembo era il padre.

Eranthe era quasi morta per dare la vita a Dimitra.

Scosse il capo come a voler cancellare il ricordo.

Ed ora, accomodata tra Agathe e Melina, non sembrava altro che una ragazza.

Un ragazza estremamente pallida, ma forse era solo il contrasto con la tunica nera e la preoccupazione che gli appesantiva il cuore.

Carpì i suoi occhi del colore della notte, e si rassicurò cogliendone il sorriso.

Prima che abbassasse nuovamente il capo.

E tutti sembravano vorticargli attorno, in una danza di marionette degna del Grifone, a parlargli o stringergli le mani in un gesto di ringraziamento, impedendogli, tuttavia, di raggiungerla, di parlarle, anche solo per un attimo.



Eranthe sbuffò, guardando insistentemente nel piatto: aveva avvertito il suo sguardo indagatore addosso per tutta la durata del consiglio ed ora quel senso di leggerezza ed emozione che avvertiva quando lui era presente, cominciava addirittura a darle fastidi alla bocca dello stomaco.

Merda...

Areia l’aveva sorpresa, un paio di giorni prima, mentre fumava una delle sue lunghe sigarette bianche, appoggiata alla ringhiera della balconata del piano superiore, che apriva direttamente sul mare.

Gli occhi bistrati, da gatta, del colore della notte, suggerivano un dolore adulto, che l’anziana, saggia nonna non le aveva mai visto addosso.

La avvicinò, comprensiva come avrebbe dovuto fare quella madre che Eranthe non aveva mai conosciuto.

Senza dire una parola.

Eranthe sospirò, un filo sottile di fumo si innalzò nel cielo della sera.

“Mi sento fragile, nonna, e forte nel medesimo momento”, cominciò dopo un lungo silenzio, occhieggiando la piccola Dimitra che, sorridente, giocava con una bambola di pezza che le aveva costruito Deuteros.

“Non ho mai avuto vicino nessuno”, aspirò una lunga boccata di fumo. “Non ho mai amato nessuno”, aggiunse a bassa voce, mentre le stelle facevano capolino sul mare.

“E mi sentivo... mi sentivo libera. Fa nulla se dovevo lavorare il doppio per poter permettere a Dimitra una ciambella in più o quel vestito rosa che aveva visto addosso alla figlia di Eulalia.”

Lanciò con rabbia il mozzicone, come se, scagliandolo lontano, avesse potuto mettere a tacere tutti i suoi cupi pensieri.

“Non mi è mai importato di essere guardata dall’alto in basso dalle altre donne, o dalle ragazze della zia perché non ricevevo esponenti della casta dorata del Santuario, ma solo soldati o civili”, continuò. “Mi hai sempre detto di fare attenzione e non farmi avvicinare dai Santi d’Oro o d’Argento, e ti ho dato ascolto.”

“Non ho mai preteso regali o sconti dal destino, lo sai. Ma poi…”Abbassò gli occhi sulle mani saldamente strette alla ringhiera di ferro dipinta di un azzurro intenso. “Poi è arrivato lui.”

Le ombre della sera avevano sconfitto il chiarore residuo del sole che tingeva del suo arancione acceso i contorni delle nuvole leggere.

“All’inizio vedevo solo il dolore nel suo sguardo, e una vita all’ombra così simile alla mia. Sapevo che veniva dal Santuario e pensavo fosse solo un soldato semplice, nemmeno uno dei graduati. Non aveva un alloggio o un riparo, e gli unici momenti nei quali aveva un tetto sopra la testa erano quelli che trascorreva con me. Poi ne ho avuto timore. Il suo cosmo era così vasto, così potente, che non poteva appartenere che ad un Santo d’Oro. E nemmeno uno di quelli più giovani.” Sospirò, i suoi occhi divennero distanti, le labbra stirate in un sorriso.

“Vedevo galassie intere nei suoi occhi, quando mi prendeva, nonna!”, esclamò, estasiata. “Si formavano ed andavano in frantumi solo con la forza dei suoi pensieri, delle sue emozioni.”

Areia sorrise nel constatare come gli occhi indaco di Eranthe brillassero alla luce delle stelle. Si voltò di scatto, per non farle intuire quell’arco che le stirava le labbra, ancora, dopo tutto quel tempo, nel ricordo di quella notte, così tanti anni prima, nella quale le stelle si erano fatte luminose, pure, nel cosmo di Sage che l’aveva reclamata come sua.

“Sono sempre stata sola, nonna. E andava bene così. Avevo accettato la mia condizione. Come ho accettato il suo amore, dopo, e ho compreso di amarlo, a modo mio. Ma quando l’ho visto ferito, sanguinante, quando è partito per Kanon e ho visto la sua schiena allontanarsi e i suoi occhi salutarmi…” Un singhiozzo rischiò di fuggire dalle sue labbra. “È stato come se mi mancasse l’aria, è stato orribile. E ho avuto paura di quello che sentivo”, ammise, come se parlasse a se stessa.

“Mi fa paura, nonna, dico davvero. Mi fa più paura lui, adesso, di quanta me ne facesse quando mi sbatteva sul letto e tanti saluti.”

Areia si lasciò andare ad una risata talmente inattesa che finì con l’irritarla.

“E io che volevo un consiglio, non sapevo fossi passata alla taverna a farti un ouzo!”, commentò a mezza voce accendendosi un’altra sigaretta.

“Bambina mia”, l’ammonì l’anziana donna, ancora ridacchiando, “quando fai un lavoro come il nostro, e cominci molto giovane, come è stato per me, te o Erato, tendi a non conoscere mai, sul serio, l’amore. Almeno fino a quando non ce l’hai sotto la pelle come quel vento d’inverno che raffredda le ossa.”.

“E per solito, non è una bella esperienza. Perché spesso vuol dire soffrire, vuol dire vederlo andare via con un’altra, e poi tornare da te solo quando vuole soddisfare i suoi bisogni. E il fantomatico amore finisce lì, nelle lenzuola umide”, continuò seria.

“Poi arriva lui. Sage, Deuteros, non è importante il nome, il fatto è che risuona con noi, con la nostra stessa vita. E fa paura. Deve fare paura. Altrimenti non è amore.”

Le passò un braccio attorno alle spalle.

“Piccina, sono stati mesi duri e difficili, per te, per lui, per tutti. Ma non lasciare che le tue decisioni siano guidate dal timore. Parlane con lui, se ritieni, fagli capire quali sono i tuoi dubbi, ma ricorda…” La guardò negli occhi, esigendo la sua massima attenzione. “Quello che ti è stato concesso è un dono tanto grande e dolce, quanto gravoso. Non lasciare mai che lui ti ferisca, ma, ti prego, non ferirlo nemmeno tu. Non Deuteros: ne ha già passate troppe.” Areia si interruppe, gli occhi lontani nel ricordo di quel ragazzo pestato a sangue e lasciato ai margini del Santuario, solo e vestito di stracci, nelle strade di polvere ed ombra, i vestiti strappati e logori, il viso nascosto. Quante volte Areia aveva chiesto a Sage di dargli almeno un riparo, nelle notti d’inverno, quante volte lo aveva trovato addormentato a ridosso di qualche colonna, alla fine dei suoi allenamenti estenuanti.

“Impara a fidarti di lui, in fondo ha ucciso il suo gemello per venire a riprenderti. Direttamente a casa di Hades.”

Sospirò sorridendole con gli occhi

“E non dimenticare che a tenere la tua mano, mentre partorivi, c’era lui.”



Era dalla sera precedente che Manigoldo la guardava come se fosse stata una bomba pronta ad esplodere.

Non era tanto per le dimensioni, nonostante nelle ultime tre settimane fosse lievitata come quelle pagnotte che Fòtula infornava all’alba nella panetteria della piazza centrale; erano più che altro tutti quei dolorosi fastidi che la assillavano a farlo preoccupare.

Avevano appena concluso il banchetto, in un tripudio di cibo, che lei aveva a mala pena assaggiato, conversazioni che sfociavano nel pettegolezzo, alle quali lei aveva appena partecipato, e calorosi abbracci, che lei aveva appena elargito giusto a Melina, Agathe ed Eranthe.

Lui aveva trascorso ben tre ore a massaggiarle la schiena e ad osservare quel lampo di dolore che le attraversava i lineamenti.

Le aveva quindi preso una mano, mentre lei beveva a piccoli sorsi un infuso ghiacciato di scorze di limone.


Picciridda, stai bene? Il vecchio ci ha fatto preparare una stanza per la notte, ce ne possiamo andare quando vuoi”, tentò a bassa voce, con quel tono un po’ ruvido ma pieno di attenzione che, lentamente, in tutti quei mesi, l'avevano fatta capitolare.

“Non ti preoccupare, Manigoldo, è che oggi questo mal di schiena proprio non mi da tregua.” Si spostò repentina sulla sedia, appoggiandosi allo schienale.

“Forse è meglio che faccia due passi o che provi a stendermi. Ma tu non devi assentarti a causa mia!”, aggiunse sorridendogli.

Ma lui rise alzandosi e porgendole il braccio. “Non ti lascio sola, picciridda”, affermò con un sorriso sghembo che rifletteva la luce maliziosa dei suoi occhi oltremare.

L’aiutò ad alzarsi in piedi, contando mentalmente quanto tempo intercorresse tra una fitta e l’altra. Mancava ancora qualche settimana, tuttavia...

Mossero appena una manciata di passi, quando dalle labbra di lei sfuggì un gemito ed un liquido trasparente e caldo le bagnò la tunica bianca.

“Manigoldo!”, chiamò, ma lui l’aveva già sollevata tra le braccia.

“Chiamate la levatrice, svelti!”, aveva tuonato Sage e Shion, come una molla, era scattato verso il corridoio, evitando per un soffio di travolgere due inservienti che stavano giungendo con vassoi ricolmi di bevande.

“Forza, forza, aria! Lasciatela respirare, ora”, aveva sbraitato la levatrice, le guance rosee e i capelli, nerissimi, legati in una treccia stretta, all’attenzione di quegli improbabili ospiti che si erano accalcati attorno alla coppia.

Tastava il ventre della giovane francese come se ne stesse vagliandone il grado di maturazione, quindi le sorrise, soddisfatta.

“Direi che ci siamo. Ora vai a coricarti, che hai perso l’acqua, e non ci resta che attendere.”

“Non qui!”, esclamò lei, aggrappandosi con forza al Santo del Cancro. “Vi prego, portatemi alla Decima Casa!”.

Manigoldo soffrì come se un pugnale lo avesse colpito in pieno petto, ma decise che, sì, era giusto così, in fondo.

Così cominciò a scendere quelle scale bianche, stringendola tra le braccia, mentre la gamba pulsava e doleva ad ogni passo, mentre lei gemeva, ad ogni contrazione.

La distese in quel letto, che lei aveva condiviso con il Capricorno per quella manciata di giorni nei quali era stata sua moglie, tuttavia Manigoldo la vide sorridere.

“Ti prego, stammi vicino”, gli disse, serena. “Ho paura di non riuscirci.”

Poi una contrazione, ed un’altra, fino a sera.

Il sole era ormai tramontato da un pezzo, quando lui si accese una sigaretta sedendo scomposto ai piedi di una colonna.

Ormai, a detta della levatrice, ci sarebbe voluto davvero poco prima di accogliere, finalmente, il figlio di El Cid in questo mondo.

Manigoldo scosse il capo, il pensiero a quella piccola donna e alla sua personale battaglia.

Si sistemò meglio, la gamba gli doleva come se qualcuno ci avesse infilato un ferro incandescente.

“Ci siamo, Manigoldo!”, gli giunse perentoria la voce di Melina che gli aveva dato il cambio, concedendogli qualche minuto per sgranchirsi le gambe e racimolare le forze.

E lui, dimenticando le guerre, il dolore, se stesso, balzò dentro. Le stelle del Capricorno brillavano violente nel cielo notturno.

E’ l’ultimo atto, Caprone. Sii fiero di lei.



Calcolò che ormai, doveva essere quasi mezzanotte, mentre la levatrice lo faceva sedere appoggiato contro la testata del letto per sostenere con il suo corpo la giovane Francine.

Non bastavano più le sue mani e le sue parole di conforto, e nella stanza regnava un silenzio innaturale, spezzato solo dal respiro veloce di lei.

Nemmeno la levatrice trovava più la forza o le parole giuste per incoraggiarla.

“La prossima contrazione sarà quella decisiva, Santo. Premile la pancia, appena sotto lo sterno”, gli disse con il tono piatto di chi aveva visto la morte troppe volte.

“Saremo pronti”, rispose lui, con il tono deciso di chi aveva causato la morte troppe volte.

C’era sangue, tanto, troppo, sul lenzuolo, sulle mani della levatrice, addosso a lui.

“Manigoldo”, lo chiamò, alla fine, lei, con un filo di voce, ma qualsiasi cosa volesse dirgli fu cancellata da quel dolore lancinante che sembrò artigliarla dall’interno.

Cominciò a spingere, avvertendo un peso bruciante uscire lentamente da lei, era esausta, ma non si fermava.

Nel silenzio della notte, solo la sua voce - “Forza, picciridda” - alla quale lei si aggrappava come un naufrago segue la stella polare, e le sue mani strette attorno a lei, a premere, aiutando quella piccola vita ad entrare nel mondo.

Poi sentì il pianto di un neonato e avvertì, vide, El Cid, chino su di lei, sorridente, sussurrarle qualcosa, tenderle la mano, nel calore del cosmo di quella di lui.


“Ruy, il bambino si chiama Ruy.”, ripeté Francine con un filo di voce.

Si lasciò andare, completamente, addosso a Manigoldo che la cingeva, baciandole la tempia.

“Sei stata grande, picciridda”, sostenne, cercando di non farle intuire la preoccupata tensione nella sua voce.

Ma lei era svenuta, nemmeno il tempo di vedere i piccolo o stringerlo a sé, ma un sorriso le stirava le labbra esangui, l’espressione fiera di un guerriero che vince una battaglia.



Era mattina quando, con suo enorme stupore, Francine aprì nuovamente gli occhi. La Decima Casa era immobile, illuminata dai tenui colori dell’alba. La culla accanto al letto era vuota. Francine si sollevò a sedere. Il dolore ancora bruciante e intenso, ma certamente nulla in confronto a quello che aveva sopportato solo la notte precedente. Si accorse, quindi, che le lenzuola erano state sostituite e lei era stata pulita e cambiata.

Voleva vedere suo figlio.

E anche Manigoldo.

Tentò, senza successo di alzarsi in piedi: era troppo debole e le pezze di cotone ripiegate a tamponare il sangue erano legate alle gambe rendendo estremamente scomodo riuscire a muoversi.

“Manigoldo?”, chiamò, la voce bassa ed arrochita dalle urla della notte precedente. Prese fiato per tentare di nuovo, quando avvertì una mano sul suo braccio. Si voltò, benché sapesse benissimo di chi si trattasse.

“Siamo qui, picciridda, ti senti bene?”, rispose lui, porgendole il neonato dai capelli nerissimi.

Lei lo prese, guardandolo attentamente, offrendogli il seno.

“Sono ancora viva”, constatò come stupita. “Ho visto El Cid. Mi ha detto il nome del piccolo. Pensavo sarei morta.”
Il Santo del Cancro rise, sguaiato. “Ci ho messo una vita a costringere la tua anima di nuovo nel tuo corpo!”, la guardò cercando di non cedere alla commozione dei suoi occhi stupiti, “ma ho fatto un buon lavoro, alla fine, che dici?”.

Lei sorrise appoggiandosi a lui. “Sei stato tu, allora, Manigoldo. Mi hai salvata ancora una volta.” Gli baciò le labbra. “Grazie.”

“Così lo cresceremo, insieme, picciridda”, riprese lui, e lei, annuendo gli credette, davvero.

Lasciò che le sue braccia cingessero entrambi, proteggendoli e cullandoli.

“Appena sarai in forze torneremo a Thyra. In primavera andremo nella casa nuova.” Francine annuì, come ipnotizzata.

“Resterai con me, Manigoldo?”, replicò quindi, mesta, seguendo la sua mano che accarezzava la testa del bambino.

“Sempre”, giurò lui, davanti agli stessi dei.

“Ti amo, picciridda.”



Eranthe si allontanò dalla Decima Casa. Aveva approfittato del trambusto generale per defilarsi, senza essere notata. C’era Melina con loro; Areia, con Dimitra e Sage, era rimasta al Tredicesimo Tempio e lei, una volta sinceratasi che Francine fosse in buone mani, aveva preferito allontanarsi.

Magari lui non se ne sarebbe accorto, pensò prima di darsi dell’idiota da sola.

Deuteros la vide scendere quelle scale, la tunica nera contro i gradini bianchissimi che separavano le Case.

La seguì, lesto e silenzioso, come un cacciatore con la preda, raggiungendola di fronte alla Nona Casa, stringendole un braccio nella sua mano calda.

Un solo guizzo del suo cosmo immenso li portò al Tempio dei Gemelli, che lui avrebbe dovuto presidiare.

La luce della luna illuminava i loro volti, rendendoli simili a spiriti, a sogni evanescenti nelle notti d’inverno.

“Deuteros…” Non riusciva a sostenere i suoi occhi chiari, così abbassò il capo. Avvertì le dita di lui carezzarle lentamente una guancia, affondando, poi, nei suoi capelli.

Alzò il viso ad incontrare i suoi occhi di mare, gli carezzò una guancia, avvicinandosi ed abbracciandolo forte, come a voler imprimere nella memoria ogni luce, ogni ombra del suo corpo.

“Mi...”, e qui la voce gli venne meno, “mi stai dicendo addio?”. Le sue spalle furono percorse da un tremito che il suo orgoglio mise subito a tacere.

“No”, bisbigliò, contro la pelle abbronzata del suo collo.

Deuteros la scostò dolcemente, solo per specchiarsi nelle lacrime che le avevano invaso gli occhi e rigato le guance.

Lei prese un lungo respiro, puntando lo sguardo dritto nel suo ed appoggiando le mani al suo petto, quelle di lui salde sulle sue braccia.

Perse per un attimo la sua risoluzione, quando si vide riflessa nel mare, nel cielo, che racchiudevano gli occhi di lui.

Tuttavia, approfittando del silenzio d’ombra del Santuario, parlò.

“Ero abituata a vederti andare via. Venivi nelle notti senza luna, e poi te ne andavi, senza parole, solo un rapido commiato.”

Si appoggiò ad una colonna, tenendogli una mano, come se la sua calda potenza, catalizzasse la sua risoluzione.

“Poi sei arrivato ad Atene. E non mi hai voltato le spalle, anche quando ho scoperto di essere uno Specter. Mi sei venuto perfino a prendere, rischiando la vita alla fortezza di Hades”, sospirò.

“E sei sempre stato accanto a me, senza chiedere nulla in cambio. Ti sei occupato di Dimitra quando Minos mi ha portata via. Mi hai dato la speranza di attendere il domani”, sorrise. “E adesso parli addirittura di condividere la tua casa di Kanon!” Dagli occhi cominciarono di nuovo a scendere lacrime.

Si strinse a lui, affondando il viso nel suo petto.

“Non voglio vederti andare via, non voglio perderti, anche se non ho idea di come si faccia ad essere una ragazza come si deve. Non ho idea di come si faccia ad amare, come fa Francine, o come ha fatto mia madre.”

I suoi occhi riacquistarono quella luce che lui adorava, “Ma ti amo, Deuteros. Giuro che ti amo.”.

Ma lui, sorridendo, fermò le sue labbra tremanti con un bacio di fuoco.

“Ascoltami bene, ti dico una cosa”, riprese, dopo. “Siamo solo noi a tracciare la strada che vogliamo intraprendere, ed il tipo di amore che condivideremo, sarà solo il nostro, senza ricalcare quello di nessun altro. Io amo te”, si morsicò le labbra, forte, come se avesse appena proferito parole proibite. “Ed è il tuo amore, quello che voglio.”

La guardò a lungo, come sempre i suoi occhi scuri gli rimandavano solo la parte migliore di sé e Deuteros giurò che avrebbe fatto di tutto, per lei.

In silenzio, che se solo fosse caduta una piuma probabilmente ne avrebbero avvertito il rumore, lui si avvicinò a lei, posando le labbra sulle sue con una dolcezza che non ricordava di possedere.

Non dubitare di me, Eranthe. Mai. Non dubitare del mio amore. E non avere paura. Io sarò sempre accanto a te.

“Portami via da qui, Deuteros”, gli sussurrò.

E lui sorrise. “Come vuole, mia signora!”, scherzò un inchino, ghignando, gli occhi malandrini.

Intrappolandola contro il marmo freddo con il suo corpo caldo, mentre le dimensioni si piegavano per lui.



Kanon la salutò con il cielo infuocato e l’aria salmastra che spirava dal mare. La sabbia sotto i suoi piedi, mentre lei scalciava via i sandali e rideva come una bambina. E poi il suo corpo caldo, ancora più rovente del vulcano, contro di lei, dentro di lei, affacciandosi a quel luogo nel quale nessuno aveva mai messo piede.

“Deuteros...” I sospiri avevano preso la sua voce, e lei vi si abbandonava volentieri, ché tra di loro le parole non servivano.

E lui gemette, al limite del piacere, al punto che provava dolore, pensando a come, sempre, lei fosse la sua personalissima bussola, il suo Santuario, il luogo, finalmente a cui tornare.

E prima che lei vedesse le galassie esplodere, nei suoi occhi, lui le confidò con il suo cosmo, quelle parole che, da ora e per sempre, avrebbero acquisito un senso nuovo, per entrambi.

“La casa, è bellissima”, sospirò lei, mentre si ritiravano per la notte, e ammirava, estasiata la nuova, ampia cucina, il soggiorno con la veranda che apriva sul mare, la camera da letto padronale con un piccolo bagno attiguo e la stanza per Dimitra, grande quanto il soggiorno ed interamente decorata con i toni del rosa.

“Sai che la stai viziando, non è vero?”, sostenne lei, sorridendo, stringendolo.



Si chiamava Leonidas ed era uno dei soldati scelti del Santuario. Sfoggiava orgoglioso le su protezioni lucenti, nuove, acquisite dopo aver combattuto assieme a Rodorio contro i soldati di Hades.

Ma ora, Leonidas non era in servizio, e sedeva rilassato ad un tavolino sotto un pergolato di edera, di fronte a quella casa di ragazze destinate ai piaceri dei Santi d’Oro, luogo che lui aveva avuto l’occasione di ammirare solo da lontano qualche tempo prima.

La ragazza che, invece, gli aveva concesso il suo corpo, nella casa dalle persiane azzurrissime, dall’altra parte di Rodorio, gli serviva, ora, una tazza di caffè fumante mentre il cielo di primavera si colorava dei toni del tramonto.

Appoggiato allo stipite del portone d’entrata, il Santo dei Gemelli, che gli aveva fracassato il naso, mesi prima, lo fulminò con lo sguardo, quando si accorse della direzione non proprio pudica dei suoi occhi, inchiodati alle terga di lei.

Leonidas abbassò il capo, trovando nella tazza un diversivo altamente interessante.

Era rimasto letteralmente di sale, quando l’aveva vista partecipare al consiglio, l’ultimo, indetto dal Sommo Sage, in qualità di Specter. Era ammutolito ancora di più quando l’aveva sorpresa quella stessa sera, nella Terza Casa, avvinghiata al Santo dei Gemelli, mordendosi la lingua per defilarsi in silenzio ed evitare di incorrere, ancora una volta, nelle ire, fin troppo esplosive, del guardiano del suddetto Tempio.



Nel tavolino accanto al suo prese posto una coppia altrettanto bizzarra: lei una donna minuta, dai lineamenti sottili ed aggraziati, lui, un uomo di tenebra, i capelli scuri, lo sguardo torvo, una sigaretta storta schiacciata tra i denti, teneva in braccio un bambino di tre o quattro mesi. Leonidas era sicuro di averlo già visto, come Santo della Quarta Casa, tuttavia il contrasto con quella scena famigliare era talmente stridente che accantonò subito quel paragone.



“Fra...Ekatherina, Milos!”, li abbracciò Eranthe, il sorriso aperto. Ora quella Fenice nera alle sue spalle era diventata ancora più grande.

“Quanto tempo, vi trovo bene. E il piccolo è cresciuto così tanto!”, concluse, mentre Deuteros la raggiungeva, un gesto di saluto ad entrambi.

“Non potevamo mancare all’inaugurazione della nuova Casa di Melina”, confidò lei voltandosi verso l’edificio completamente ristrutturato ed ampliato.

“In fondo se sono dove sono è stato grazie a lei!”, esclamò Francine, l’accento francese ancora evidente nel suo eloquio, la mano saldamente stretta a quella di lui.

Eranthe non poté fare a meno di sorridere, notando che sulla sua mano sinistra non brillava più l’oro di El Cid, ma un piccolo anello del medesimo materiale con incastonata un’acquamarina.

“Quando partirete?”, azzardò lui, rivolto a Deuteros.

“Domani”, rispose, gli occhi decisi si addolcirono impercettibilmente.

“Minos! L’edera deve stare più in alto!”, lo esortò Agathe, le mani sui fianchi, lo sguardo deciso di un Generale di un qualsivoglia esercito, mentre il Grifone utilizzava i suoi fili di cosmo per sistemare il rampicante ribelle, in modo che non coprisse l’insegna che campeggiava sull’ingresso.

“Così va bene!”, esclamò la ragazza, prima che quegli stessi fili, la catturassero, accompagnandola tra le braccia del Giudice. Un sorriso, un bacio leggero sulle labbra.

“E tu mi avresti trascinato fin qui dal Jamir, per prendere il caffè?”, bofonchiò Sage, il viso affaticato. “Non ho più l’età per queste cose, Areia!”, concluse accasciandosi su una sedia e godendo dell’aria che spirava dal mare.

“Smettila, vecchio granchio! Mia figlia ha sputato sangue per arrivare a questo”, e fece un plateale gesto con il braccio verso la parte nuova dell’edificio.

“E fai un bel sorriso che stanno arrivando. Ti devo forse ricordare che è stata anche la compagna di tuo fratello, gemello, da quando aveva diciotto anni?”, lo ammonì seria la donna che gli stava, con affetto, stritolando una mano.

“Nonna!” Eranthe era corsa ad abbracciarla, stringendola forte. “Melina sta arrivando, lo sai che a lei piace fare un po’ la diva!”, le strizzò l’occhio mentre Dimitra si arrampicava sul grembo del precedente Grande Sacerdote.

“Ciao nonnino!”

Deuteros si limitò ad un mezzo inchino nella loro generale direzione, servendo ad entrambi una bibita fresca che profumava di rose.

“E poi, non ricordavo che Eranthe fosse così grassa”, aggiunse Sage parlando praticamente all’orecchio della sua compagna non appena la ragazza si fu allontanata.

“Non è grassa”, lo fulminò Areia, sibilando.

“Robusta, se ti piace di più”, continuò accarezzando i capelli della piccola Dimitra.

“Nemmeno”, rincarò la dose l’anziana nonna, gli occhi ridotti a due fessure, per nulla sorridenti.

“Non ti sto dicendo che è brutta, anzi, è sempre stata formosa. Dicevo solo che ha un po’ di pan...” L’occhiata che lei gli rivolse gli fece chiudere la bocca di colpo, con uno schiocco secco di denti, mentre realizzava, la portanza di quanto appena affermato.

E il Sommo Sage, per la prima volta in un centinaio di anni, si sentì uno stupido.

Melina scese dalla scala.

Un semplice peplo bianchissimo, i capelli raccolti da una corona di foglie d’alloro dorate.

Eranthe si fermò un minuto ad ammirare sua zia, gli occhi azzurrissimi evidenziati dalle sfumature di nero che li ornavano.

“Mie care figlie, miei cari figli, benvenuti a questa sera di gioia!”, cominciò, la voce limpida e salda.

“Ed è a voi che brindo”, continuò alzando un calice colmo che le aveva offerto il Giudice di Garuda.

“Eroi della nuova Rodorio!”

L’applauso che risuonò nel Santuario intero le riempì gli occhi di lacrime di gioia.

La serata era sfociata nella notte, le stelle luminose, le lanterne accese, gli invitati, l’espressione sorridente dei loro volti, per una volta senza differenze di corazze, eserciti o professione, cominciavano a tornare alle loro dimore fermandosi a salutarli.

Lei e Deuteros avevano preso posto ad un tavolo accanto all’entrata lasciando alle ragazze di Melina la gestione degli ultimi clienti e restava solo un gruppetto di soldati che volevano fare tardi, probabilmente nella prima serata di congedo da tanto, troppo tempo.

Melina si era ritirata qualche minuto prima, completamente ubriaca, trascinando con sé un attonito Aiacos. Francine l’aveva salutata da lontano, dileguandosi con il suo Manigoldo, prima che il piccolo si svegliasse e reclamasse di nuovo il suo seno.

Agathe l’aveva abbracciata, augurandole buona fortuna, mentre Areia le aveva baciato la fronte, ammonendola a fare attenzione.

Dimitra dormiva beata in braccio a suo padre, quando giunsero alla loro casa dalle persiane azzurrissime.

Un fagotto scomposto giaceva abbandonato proprio di fronte alla porta.

Deuteros portò dentro la bambina, accomodandola nel suo letto, prima di uscire di nuovo, rientrando con un’espressione che rasentava il comico.

“Qualcuno ti ha lasciato una pianta di limoni, con una lettera.” Gliela prose, riluttante, prima di ricordare dove avesse già avvertito quel profumo.

“Eranthe!”, la chiamò come a metterla in guardia, poi ristette, quando vide i suoi occhi pieni di lacrime, la pergamena tra le mani.

E lui, senza domandarle nulla, riconoscendo quel cosmo di fuoco scuro che permeava quelle foglie verdissime, le cinse, protettivo, le spalle tremanti.

Bambina mia.

Ti ho vista stasera, per la prima volta, adesso che la guerra è finita e avrei voluto dirti tante cose, abbracciarti e stringerti al mio seno come quando eri appena nata, poco più di un fagotto di fuoco e latte.

Avrei voluto dirti: ehi sono io, tua madre!

Ma non ne ho avuto il coraggio, non dopo tutti questi anni.

Pianta i limoni vicino alla tua casa: vengono dall’agrumeto del Sommo Hades, così che anche lui possa recarti la sua benedizione, a te e al bambino che porti in grembo, che con te dividerà il cosmo.

Ti porto nel cuore

Erato



Eranthe chiuse la porta alle sue spalle. Una singola borsa di cuoio, graffiato e macchiato, giaceva ai suoi piedi. Le stelle dell’alba erano ancora visibili, mentre Deuteros le stringeva la mano.

Non era necessario partire così presto, ché il viaggio sarebbe durato solo una manciata d’istanti. Ma, da che mondo è mondo, ogni partenza che si rispetti deve avvenire all’alba. Quale momento migliore per cominciare una vita diversa? Quale istante, se non quello che separa mondi ed eventi, sonno e veglia, notte e giorno, tenebra e luce?

Si voltò solo un attimo verso quella casa di bianco e d’azzurro, dove aveva trascorso tutta la sua esistenza, avvertendo un’emozione nuova farle tremare il respiro.

Il sole nascente colorava i muri di quell’arancione che possiede solo il sole della Grecia, così puro ed assoluto da far male.

Un raggio dispettoso si posò sul suo viso, abbagliandola per un attimo.

Poi Eranthe sorrise, la mente verso Kanon, la mano stretta in quella dell’uomo che avrebbe condiviso con lei un pezzo di strada, aprendole il suo cuore, donandole la sua dimora.

Andiamo.

Sussurrò il suo cosmo di stelle roventi.

E lui sorrise, annuendo.

Andiamo.





NOTE:

...e anche questo giro di giostra si è concluso, nella maniera più difficile, poiché tutti sono chiamati a fare un passo, ad andare avanti, che in fondo, è la scelta più coraggiosa da attuare.

Sono stata contenta di riuscire a scrivere una storia che mi ha dato modo di fare i conti con un po' di questioni personali ancora aperte e mi mancano già Eranthe, Agathe e quel microcosmo che ho immaginato e ho voluto condividere.

Innanzitutto grazie a chi ha letto, recensito, inserito la storia nei preferiti/seguiti/ricordati e anche a chi è semplicemente passato di qua.

Grazie a Francine di tutto, di essere stata una editrice con i contro...fiocchi!
Un'Amica come ce ne sono poche, nella vita reale, un faro nella tempesta e un rifugio, in tanti frangenti. Incontrare persone come lei è un privilegio che capita raramente.

Grazie ad _Haushinka e alle sue parole che mi hanno aiutata e commossa.

Grazie ad Athena, che ha subito le mie telefonate ateniesi anche alle due del mattino!

Alla prossima, presto, prestissimo!

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