Odi et amo

di h o r o
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Frollo ***
Capitolo 2: *** Ade ***
Capitolo 3: *** Regina di Cuori ***
Capitolo 4: *** Uncino ***
Capitolo 5: *** Malefica ***
Capitolo 6: *** Scar ***
Capitolo 7: *** Crudelia ***
Capitolo 8: *** Jafar ***
Capitolo 9: *** Shere Khan ***
Capitolo 10: *** Grimilde ***



Capitolo 1
*** Frollo ***


Odi et amo.
 
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

-                                
Odio e amo. Per quale motivo lo faccia, forse ti chiederai.
Lo ignoro, ma sento che accade, e mi tormento.

[Catullo, carme 85]

 



[Chapter one. Frollo]
...e ti maledirò finché avrò vita e fiato1.


“Come, presumete, io potrei credervi?”
   Belle arretra, appoggiandosi alla colonna più vicina. Il cuore le martella in gola, le toglie il respiro, le fa salire i conati di vomito.
   “Come posso credere di non avere davanti una strega?”, la incalza l'uomo freddamente, torreggiando sopra di lei. La luce delle candele illumina la navata di una luce fioca, che gioca sul volto di lui deformandolo con ombre spaventose, disumane, come quelle che sono dimora del diavolo di cui si parla ogni domenica in quella stessa chiesa. “Che la Bestia non le abbia mangiato il cuore?”.
   “Non... Non... c'è nessuna Bestia!”.
   Le lacrime scendono leggere sulle guance della ragazza, sfiorandole piano. È in un singhiozzo che una voce quasi estranea a lei stessa esce dalle sue labbra. “Non è pericoloso!”
   Claude le rivolge uno sguardo disgustato, sollevando entrambe le sopracciglia, finalmente di fronte alla più completa realizzazione: “Voi lo amate, non è così?”
   Sembra combattuto, l'arcidiacono: scappare e mettere il più lontano possibile tra sé e quella donna, o restare e ascoltare quell'inevitabile conferma. Non sa spiegarsi il perché, ma sente montare la rabbia. “La Bestia vi ha strappato il cuore, siete una strega!”
   “No!”, la voce della ragazza riecheggia nella navata vuota. Afferra il braccio di Claude – il sinistro, come tentando di trattenerlo, ma lui si divincola con uno strattone. Belle crolla a terra, sul pavimento di pietra fredda.
   Un'ultima occhiata di sufficienza. “Non toccatemi. Andatevene e non tornate più. Andatevene subito!”
   Belle si trascina lentamente in piedi, ingoia le lacrime, si asciuga gli occhi e obbedisce. Corre verso la porta senza guardarsi indietro e se ne va, diretta non sa nemmeno lei dove. Se persino la Chiesa le ha voltato le spalle, chi potrà mettere al sicuro lei e l'uomo che – possibile? – ama?
   Il portone sbatte, mentre una folata di vento freddo spegne tutte le candele.
   Claude, solo, appoggia la schiena a quella stessa colonna cui era appoggiata lei e si lascia sfuggire un sospiro, artigliandosi la toga all'altezza del cuore.
   Il braccio sinistro sembra bruciare.



/chapter one - end.
Hello everybody! Come vi è parso questo capitolo?

Ammetto, non è tra le mie migliori creazioni, ma spero fosse un minimo godibile. Forse ci sarà un seguito.
Fatemi sapere cosa ne pensate. Anche le critiche, senza problemi. Bye bye,
h o r o


1. Il titolo è preso da una canzone del musical Notre-dame de Paris, di Cocciante, "Mi distruggerai". Se avete tempo ascoltatela, perché è bella: https://www.youtube.com/watch?v=DBU9rOsl7R8.

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Capitolo 2
*** Ade ***


Odi et amo.



 
[Chapter two. Ade]
D'amore, di morte e...

“Meg, cara, dovrai convincere il Guardiano del Fiume ad unirsi alla mia causa.”, annuncia una voce alle tue spalle.
   Sei seduta sul bordo della fontana, osservi da un po' l'acqua incresparsi sotto di te, in tanti centri concentrici, e ti fai cullare dal suono rassicurante degli zampilli. Ma ecco che a restituirti lo sguardo compare l'immagine di Ade che, con un sorriso sornione, ti sfiora la spalla nuda.
   “Il centauro? Stai scherzano, vero?”, sbotti, allontanandogli la mano con uno schiaffo. “Perché non la finiamo con questi giochetti?”
   Non ce la fai più. Lo odi. Odi gli sguardi di desiderio che ti lancia così spesso, odi il tuo nome pronunciato dalle sue labbra come il più lascivo dei peccati. Odi il suo tocco, ti fa sentire sempre così sporca.
   “Giochetti?”, domanda lui, portandosi una mano all'orecchio, fingendo di non averti sentito, eppure in realtà sfidandoti a ripetere, perché sente sempre benissimo. “Hai detto giochetti, mia cara? No, perché credo di non...”
   “Mi hai sentita”, sbuffi.
   L'immagine riflessa di Ade si acciglia e abbandona per un attimo il caratteristico ghigno.
   “Meg, Meg, Meg... Che cosa devo fare con te? Sai, pensavo che fossi quel tipo di bambolina che sa quando le conviene fare la brava...”
   Le dita di Ade si serrano sulle tue guance in una morsa fredda, e ti costringono a voltarti e a guardarlo negli occhi. “Insomma, devo sempre ricordarti che hai una condanna da scontare?”
   Sostieni il suo sguardo con aria indifferente e lo detesti con ogni fibra del tuo corpo. Odi il fatto di esserti venduta a un essere del genere, per di più per un uomo che alla prima occasione se n'è andato.
   “Farai quello che ti chiedo, no?”, ti cinge le spalle con un braccio, sporgendosi a sussurrarti all'orecchio. “Perché tu sei mia. Anzi, che ne pensi di uno sconto di qualche anno sulla tua condanna?”
   La sua bocca scende lungo il tuo collo a posarvi una serie di baci crudelmente consapevoli. Dio, come bruciano sulla carne, come sembrano scavare nella pelle fino a ucciderti! Magari lo facessero, ma neanche la morte è una garanzia con lui.
   Vorresti spingerlo via, vorresti urlargli di non toccarti, ma ti costringi a restare immobile, anche se senti le sue mani esplorare il tuo corpo. Una sola lacrima sfugge ai tuoi occhi.
   E quando le sue labbra premono con insistenza contro le tue, mentre tenta di infilarti a forza la lingua probabilmente fino in gola, cominci a odiare anche te stessa. Sei una debole, una che si è sacrificata per amore pur non sapendo neanche più cos'è.
   Perché è questo che sei diventata, vero, Meg?
   La puttana del Dio dei Morti.

 
 
/Chapter two - end.
Hello everybody! Questo capitolo mi piace più del precedente, lo ammetto.
Grazie a tutti quelli che sono arrivati a leggere fino a qui. Se volete, lasciate una recensione e fatemi sapere cosa ne pensate.
Critiche ben accette, sempre. A presto, spero.
h o r o
 

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Capitolo 3
*** Regina di Cuori ***


Odi et amo.



[Chapter three. Regina di Cuori]
Sei matto – E chi non lo è?


C’è stato un tempo in cui la regina non aveva ancora quest’aspetto, né sentiva il bisogno di uccidere per gioco.
   Aveva conosciuto presto il dolore, quando aveva visto sua madre sul letto di morte, e quando suo padre si era chiuso nella sua stanza per non farle vedere che piangeva.
   All
epoca non c'era nessun regno, per le strade non si respirava follia e le rose non erano per forza rosse. Wonderland era un posto come tanti altri e di certo non si trovava nella tana di un coniglio. Forse, non si chiamava neanche Wonderland.
 
La Regina di Cuori sorride compiaciuta davanti alle sue rose. Sono splendide. Di uno splendido rosso. Il primo che pianterà una rosa bianca perderà la testa.
 
Si è arrampicata sul muretto del giardino, osserva la gente passare. Non lo sa quando ha cominciato a piangere. Bussa da giorni a una porta chiusa, dietro alla quale sta l’ultimo brandello di famiglia che le resta. È la serratura che non vuole farla passare, ha deciso. Non è colpa di suo padre.
   “È una bella giornata, perché passarla a piangere?”, chiede una voce.
   La bambina sobbalza appena, asciugandosi il viso con la manica del vestito. Si guarda attorno, ma non vede nessuno. C’è solo un vecchio gatto, accoccolato proprio al suo fianco sul muretto, e di certo non è stato lui a parlare.
   In quel momento le sembra quasi che sorrida.

 
La Regina di Cuori si guarda allo specchio e vede un viso che non le appartiene. Qualcuno è stato nel suo giardino, proprio quella mattina. Era un ragazzino, lo ha sentito ridere.
   “Tagliategli la testa”
   Nessuno merita di ridere. Non più.

Si può disimparare a ridere? Guardando gli altri sembra una cosa così facile... cosa c'è che non va in lei?
   La bambina è seduta anche oggi sul muretto. Non piange più, ormai. Forse ha finito anche le lacrime. La porta è chiusa, è chiusa, è chiusa, urla una vocina nelle sue orecchie, devi trovare unaltra strada.
  
Quale strada?, urla, arrabbiata.
   “Be, dipende da dove vuoi andare, le risponde una voce.
La bambina si sporge oltre il muro e vede un ragazzo con un buffo cappello in testa.
   “Che cosa vuoi?
   Lui sorride. Sto inseguendo un coniglio bianco”
   “Tu sei matto!
   “E chi non lo è? Ah, questa è per te"
   Il ragazzo le lancia una rosa. È rossa, bellissima.
   Guarda allontanarsi il ragazzo continuando a sfiorare i petali con le dita, come rapita.

 
“Da dove vieni e dove sei diretta?”
   “Cercavo di ritrovare la mia strada.”, risponde Alice.
   La Regina di Cuori aveva perso la sua tanti anni prima. Aveva cercato tanto a lungo da perdere se stessa. Ora era un’ombra sospesa nella polvere, una maschera senza più un volto da nascondere, una carta da gioco come tante altre.
   “La tua strada? Tutte le strade sono mie!”

La Regina di Cuori apre il cassetto del suo comodino. Ne tira fuori una rosa rossa, tutta sgualcita ma ancora bella. Ha fatto in modo che si conservasse in tutti quegli anni.
   Il Cappellaio? Non l’ha più rivisto.

/chapter three - end.
 Ok, non so bene da dove mi sia uscito questo capitolo... è folle, lo so, e il pairing è accennato e basta, ma vebbè
Nel capitolo in realtà Wonderland è nato dalla pazzia della regina, o forse è tutto un suo vaneggio... (vaneggio nel vaneggio, woo, sono da manicomio).
Grazie per aver letto e se recensirete/aggiungerete a qualcosa. Baci,
h o r o

 

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Capitolo 4
*** Uncino ***


Odi et amo.



[Chapter four. Uncino]
Il mare negli occhi


Un tempo James era stato un uomo come molti altri. Certo, non era capitano di una grande nave, ma era giovane e aveva ancora entrambe le mani.

   All’epoca non era che un semplice mozzo tirato su da un vecchio lupo di mare, che per portare il pane a casa si dedicava a piccole opere di pirateria. Aveva messo insieme una ciurma di pezzenti, che armati di qualche brutto coltellaccio arrugginito risultava l’esatto gruppo di individui di cui aveva bisogno.
   Ma non era rubare quello che facevano, no: era sottostare alla legge del mare. Oggi a me, domani a te, tutto qui. James stava al gioco, l’aveva imparato presto, perché in un modo o nell’altro si deve sopravvivere.
   Toccavano terra ogni tre o quattro giorni, per le provviste.
   Quella sera James era seduto sul molo con i piedi nudi che sfioravano l’acqua. Dal bordello dietro l’angolo provenivano schiamazzi e risate. Era quel tipo di fracasso che James odiava. Era cresciuto in mare, lui, aveva quasi vent’anni: più tempo passava a terra, più si sentiva abbandonato e fuori posto.
   Una vecchia una volta gli aveva detto che a furia di fissare tra le onde i suoi occhi si erano tinti del loro stesso colore. Gli piaceva pensare di avere in sé un po' di quell'acqua.
   Avrebbe voluto navigare da solo. Conoscere quel mare intimamente, in ogni suo aspetto, in ogni suo angolo. Lo avrebbe fatto, se solo…
   James strinse le palpebre scrutando l’orizzonte. Per poco non cadde in acqua.
   Su uno degli scogli vicini al molo stava una ragazza bellissima, dai lunghi capelli rossi, che alla luce della luna lanciavano riflessi ramati sul mare nero, e la coda di pesce. Una sirena, possibile?
   E poi udì il canto. La musica sembrava entrargli dentro, scaldargli il cuore e riempirlo fino a farlo scoppiare. Si avvicinò alla giovane quasi inconsapevole, le gambe che si muovevano quasi di volontà propria. Aveva paura di spaventarla, ma doveva vederla, doveva parlarle.
   Arrischiò forse un passo di troppo, perché lei sussultò e subito si gettò in acqua.
   “Aspetta!”, urlò, pronto a tuffarsi per raggiungerla. “Ti prego, non ti farò del male”
   La giovane sbirciò oltre i flutti. “Chi sei?”, domandò ancora un po’ diffidente.
   “Mi chiamo James”, rispose lui in un soffio. “Hai una voce bellissima”
   “Grazie. Il mio nome è Ariel”, esclamò la sirena, con un sorriso, arrampicandosi di nuovo sullo scoglio.

Avevano passato quasi tutta la notte a parlare. Il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli era l’unica costante sotto alle loro voci. Le urla provenienti dal bordello si erano spente da un po’.
   Ariel si attorcigliò una ciocca rossa attorno a un dito, poi sospirò. “È quasi l’alba. Devo andare, mi dispiace.”
   “Potrò mai rivederti?”, chiese subito James, speranzoso, guardandola negli occhi.
   Lesse in quello sguardo la risposta che le labbra di lei non avrebbero voluto pronunciare e le sue orecchie non avrebbero voluto sentire.
   James fece una smorfia, mordendosi l’interno della guancia. Era un addio. “Prometto che ti cercherò e ti troverò, dovessi perlustrare anche il cielo”
   Lei rise. “Ah sì? E come farai?”
   “Nel modo che mi riesce meglio. Da pirata.”
 
+++
Ti svegli di soprassalto. Era tanto che non facevi quel sogno, vero?
   È doloroso rivangare il passato, Uncino, ti dici. Perché è questo il tuo nome, ora. Una mano in meno, molti anni di più, una ciurma, e un ragazzino per nemico. Sei proprio caduto in basso. Ti ricordi quel ragazzino che sognava di girare il mondo, pronto a tutto per farlo, anche noleggiare una barca a remi?
   Quand'è che hai cominciato a fingere di non conoscerlo? Vedi lui quando guardi Pan?
   I flutti si infrangono contro la chiglia della tua nave. Passeggi sul ponte per schiarirti le idee. I primi raggi dell’alba sfiorano i contorni della baia delle sirene. Hai perso il conto delle volte in cui hai creduto di vedere anche lei, lì, in mezzo a loro.
   Sei più vecchio di quanto vorresti, Uncino, se non l’hai trovata finora non la troverai più.
   Prendi il timone e viri tutto a tribordo, solcando quel mare traditore, che vi ha divisi, il mare che hai negli occhi. La nave obbedisce ai tuoi ordini, come una vecchia e fedele compagna.
   Dalle tue parti si usava dare un nome alle proprie navi, una volta. Tu il suo l’hai scelto molto tempo fa, anche se non l’hai mai rivelato a nessuno.
   Quanto tempo è che non pronunci quel nome?

Il Capitano schiude le labbra e in un sussurro, più a sé stesso che ad altri, dice: “Ariel”

 

/chapter four - end.
Ciao! Non ho molti commenti da fare su questo capitolo.
James è il vero nome di Uncino (scoperto da poco, su wikipedia).
Volevo, in un certo senso, motivare il suo arrivo nell'Isola che non c'è, anche se ne è uscita questa cosa fuori da ogni logica... non so come abbia fatto ad arrivare in cielo, avrà corrotto qualche fatina a caso...
Vabbè, fatemi sapere che ne pensate. Accetto anche gli insutli. A presto!
h o r o

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Capitolo 5
*** Malefica ***


Odi et amo.


[Chapter five. Malefica]
Io fei gibetto a me de le mie case


C'era un qualcosa di perverso nel modo in cui Jafar arricciava le labbra, compiaciuto, alle buone notizie. Era un lieve sogghigno malcelato, un po' troppo vanaglorioso, forse, ma così esplicito, dichiarato, informale; che poco aveva a che fare con la sua immagine posata e controllata e così tanto con il vero se stesso.
   Sembrava che la sua parte più oscura prendesse il sopravvento sull'autocontrollo che ostentava ogni giorno. E lo adoravi, perché ti ricordava te stessa.
   La magia è insieme libertà e catene. È un dono pericoloso, lo sapete entrambi, perché si teme quello che non si conosce. La gente ha troppa paura di quello che potresti farle, per preoccuparsi di quello che fa a te. Per comodità odia.
   Jafar è l’unico che ti capisce, ma a lui non importa di essere capito. Non vuole salvarsi, non vuole essere accettato: vuole dominare, perché quell’odio l’ha colmato completamente, gli è entrato nei polmoni fino a soffocarlo e l’ha cambiato. Tu sei immersa nell'oscurità da tanto tempo, ormai, e prima o poi toccherà anche a te.
   Ti sporgi verso di lui, che sta raccontando degli aneddoti su una caverna piena di tesori e una lampada dei desideri, e posi le labbra sulle sue in un bacio languido e prolungato. Non si sottrae a quel contatto, risponde con trasporto ma, quando vi staccate, si finge offeso.
   “Mi stavi almeno ascoltando, Malefica?”, sibila.
   Rispondi con un sorrisetto. “Voi che dite, Gran Visir?”
   I suoi occhi di ossidiana brillano. Riduce le distanze tra voi, sussurrandoti all’orecchio solo poche parole. Senti il suo fiato caldo. “Penso proprio di no, Vostra Altezza.”
   Jafar è diverso dagli altri. È come te, ti capisce appieno. Non è una relazione basata sull’amore, la vostra, non è un amore che vi consuma, che vi brucia nell’anima. È solo che siete troppo simili per stare separati.
   Te lo ripeti anche quando fate l’amore, che non è amore, non è amore, è solo sesso, è solo un vetro troppo appannato perché qualcuno possa distinguere quello che c’è dietro. Ma Jafar ti capisce e con lui non sei sola.
   “Cosa dicevi a proposito della lampada?”, chiedi dopo un po’.
   “Si dice che possa realizzare qualunque desiderio. Potere, ricchezza...”
   “E l'amore?”
   Jafar si lascia sfuggire una mezza risata. “Di quello non ho bisogno.”
   Ti assomiglia anche in questo. Sai bene che non c’è lieto fine per i cattivi. È tutto implicito, è tutto superfluo. Non c’è felicità né amore. È un gioco di priorità.
 
Alla fine hai hai fatto dell’oscurità la tua casa.
   E della tua casa la tua forca.

/Chapter five - end.
Ciao a tutti :) ecco un nuovo capitolo, fresco fresco!
 Il titolo è preso da Dante (Inferno, canto XIII) e nel caso qualcuno non lo conoscesse fa parte del girone dei suicidi e tradotto dice "io feci della mia casa la mia forca", che è anche la fine del capitolo, pur adattata. Con questo non voglio dire che Malefica si è suicidata, ma che alla fine ha abbracciato anche lei quell'odio fino in fondo, rinunciando a tutto quello che avrebbe potuto avere in caso contrario. E' quasi una metafora della morte, ecco.
In questo capitolo c'è stata la partecipazione straordinaria di Jafar, ma non è detto che prima o poi non arriverà anche un capitolo su di lui.
Bòn, mi sto dilungando fin troppo... Recensite, se vi va, mi fa piacere sentire i vostri pareri :)
Grazie per essere arrivati fin qui.
h o r o

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Capitolo 6
*** Scar ***


Odi et amo.

[Chapter six. Scar / human version]
Dei pranzi del mondo siamo noi gli avanzi


“Ho sentito che c’è un party domani sera, a casa di tuo fratello”, fece Shenzi, buttando giù il quinto shot di vodka liscia della serata.
   “Non posso contenere la gioia.”, sibilò Scar, alzando gli occhi al cielo, e osservando con aria annoiata le luci in technicolor che danzavano sul soffitto.
   “Dai, Scar, che in realtà ti fa piacere”, sghignazzò Banzai, ormai quasi completamente andato. Reggeva l’alcol come un ragazzino.
   “Sì, ha ragione”, disse la ragazza, ordinando un altro giro. “Sai, ti ho sempre visto più tipo da grandi ricevimenti che da una pulciosa discoteca di quartiere, coi tuoi completi eleganti”.
   Il deejay cambiò canzone. Dalla pista da ballo si levarono parecchi urletti eccitati. Scar strinse le labbra in un’unica linea sottile e spostò lo sguardo altrove, piantandolo nel proprio bicchiere di gin tonic.
   “Mhh, devo continuare a lungo a fare da babysitter a voialtri?”, soffiò dopo un po’, ma le sue parole si persero nel frastuono.
   “COSA?”, gli urlò Banzai, tracannando il suo drink e quasi strozzandosi tra le risate. Ed era sull’urlo delle lacrime e muoveva la testa avanti e indietro a ritmo di musica.
   Scar sbuffò. Quel posto lo irritava, non era adatto a lui. Non sapeva neanche perché c’era andato. Si rimise la giacca che si era rifiutato di consegnare al tizio del guardaroba e se ne andò.
   “Che cazzo ha?”, sbraitò Shenzi, irritata. Scordò quasi subito l’accaduto, annegandolo nell’alcol.
 
La famiglia di Scar era una di quelle famiglie rispettabili e piene di quattrini, dove nessuno potrebbe mai immaginare si annidi una faida generazionale. Shenzi stessa l’avrebbe definita una perfetta famiglia benpensante da quartieri alti, se non avesse saputo di tutta la merda che c’era sotto la superficie dorata. Conosceva Scar da parecchio tempo e sapeva bene che i suoi genitori non ci stavano con la testa, specie suo padre, che viveva ancora nel Medioevo.
   Era quel genere di vecchio bastardo pieno di pregiudizi, che stravedeva per il primogenito e contava di lasciare l’azienda di famiglia in mano sua, infischiandosene del figlio minore.
   Mufasa era sempre stato migliore di lui: aspetto, carattere, forse, persino in fatto di donne. Be', non che la prestanza fisica costituisse un problema per Scar, per il quale il cervello era sempre valso più dei muscoli, ma il fatto di essere stato messo in secondo piano solo per un fattore di nascita non lo aveva mai digerito, perché suo padre non aveva davvero niente a cui aggrapparsi se non quello. Aspetto, carattere e donne non erano influenti nella direzione di un’azienda e, in quanto a materia grigia, forse Scar sarebbe stato un direttore migliore di Mufasa, il figlio, il fratello, l’uomo perfetto, forse non così perfetto.
   Non aveva mai capito perché suo padre lo odiasse così tanto. Shenzi gli diceva che era solo uno stronzo, e di fregarsene e basta della sua stupida azienda. “Dai, in fondo non vuoi neanche tu finire a fare un lavoro d’ufficio di merda. Lascia che lo faccia tuo fratello, così fai tutti contenti.”
   Shenzi c’era sempre, certo, ma diceva sempre le stesse cose. E raramente riuscivano a farlo stare meglio.
   Era proprio il tipo di persona che suo padre avrebbe disapprovato, forse era per quello che andavano d’accordo. Veniva dai bassifondi, lei, insieme ai suoi fratelli. Per quanto ne sapeva, per un periodo, aveva addirittura dovuto battere la strada per procurarsi da mangiare. E quando non lo faceva, rubava.
   Non che gli importasse, ma a volte, guardando con che compagnia girava, Scar si chiedeva davvero che diavolo poteva avere avuto in testa quando li aveva conosciuti.
   Ma loro non giudicavano. Non si aspettavano niente da lui, non gli chiedevano di raccontare i suoi problemi, né di rispettare determinati standard. Passavano semplicemente la canna o la bottiglia, e a lui andava bene così.
   Scar tornò nel suo appartamento e ascoltò i messaggi della segreteria telefonica.
   “Scar? Domani sera c’è una festa a casa mia. Sei invitato. Ci farebbe piacere se venissi, sai, anche a Sarabi. Magari fai un salto, comincia sulle 8”, disse la voce di Mufasa dall’apparecchio. Sbuffò.
   Era sempre così.
Scar era l’avanzo. Suo fratello prendeva tutto il meglio, e a lui non rimaneva che una vecchia cicatrice a deturpargli il volto, indelebile segno di quanto Mufasa fosse migliore di lui. Scivolato sugli scogli giocando con il fratello, raccontavano le persone. Tentativo fallito di fratricidio a quindici anni, sussurrava una voce nelle sue orecchie.

Nonostante tutto, si presentò puntuale l’indomani. Era impeccabile nel suo completo elegante, rigorosamente nero, e si era persino forzato di stamparsi in viso un’espressione cortese. Salutò i suoi genitori, salutò Mufasa, che ricambiò con un’amichevole pacca sulla spalla, salutò Sarabi, bellissima nel suo abito blu notte.
   “Mufasa. Sarabi.”, fece, scoprendo la chiostra di denti bianchissimi in un’imitazione di sorriso.
   “Scar, fratello! Sei venuto alla fine. Bravo!”, esclamò Mufasa, con la sua voce possente da baritono.
   E poi lo sguardo di lui sfiorò quello di lei. Un istante solo, perché lei ruppe subito il contatto, come scottata, e si allontanò con la scusa di salutare qualche altro ospite.
   Scar passò la serata a cercarla con gli occhi, appostato in un angolo, tentando di evitare gran parte della gente. Stringeva in mano un calice di vino e ogni tanto ne beveva un sorso.
   Dov’era? Perché lo evitava?
   Finalmente la individuò, lasciare la stanza e dirigersi in direzione del giardino. La seguì.
   Gli dava le spalle, osservava l’edera che si stava arrampicando sulle colonne del piccolo gazebo.
   “Perché mi eviti?”, le domandò, avvicinandosi.
   Sarabi non rispose subito.
   “Sai, con lui posso essere davvero felice.”, disse dopo un po’, senza voltarsi a guardarlo.
   “Lo posso immaginare.”
   “Mi dispiace, Scar. Deve finire, è stato tutto uno sbaglio.”
   Lui scoppiò in una risata amara. “Certo, come tutto quello che mi riguarda. Mi hai detto che mi amavi e non dirmi che mi stavi mentendo, perché so che non è così.”
   “D’accordo, ma non può continuare comunque. Sono incinta e lui è mio marito”
   Scar sentì la gola straordinariamente secca. “È lui il padre?”
   Sarabi si voltò di scatto, con un’espressione incredula e quasi offesa. “Certo che è lui!”
   Un figlio. Be’, con il padre di suo figlio non poteva competere.
   Si riscoprì a boccheggiare, ma tentò di nasconderlo e forse ci riuscì. “Capisco.”
   “Senti, mi dispiace. Davvero. Tra poco farà l’annuncio”
   “D’accordo.”
   Sapevano entrambi che lui non sarebbe rimasto oltre in quella casa. Entro un paio d’ore Mufasa si sarebbe accorto della sua assenza, ma non avrebbe trovato nessuno in grado di dirgli dove fosse andato.
   Sapevano entrambi che quella era la fine, e tra loro c’era solo quella parola, sospesa nell’aria, non detta ma tralasciata fin troppe volte, quando giuravano che non si sarebbero più visti.
   “Addio”
   Guardò Sarabi per un’ultima volta e, in quell’istante, seppe di averla sempre desiderata e, con la stessa certezza, di averla persa per sempre.
 
Tornato a casa chiamò Shenzi e fecero l’amore.
   Lei, che lo amava, e lui, che lo sapeva.
   Lei, che lo amava, e lui, che amava un’altra.
/chapter six - end.
Ok, mi rendo conto che questi capitoli sono di una depressione infinita.

E questo è venuto anche abbastanza lungo, pensandoci.
Questo capitolo non prevedeva la partecipazione di Shenzi, ma volevo usare il titolo al plurale quindi è stata aggiunta. No, sul serio, non doveva esserci, non doveva essere così, era una cosa molto più vaga. Infatti, se questo capitolo vi farà schifo potrei davvero prendere in considerazione di scriverne un altro, sempre su Scar. Fatemi sapere, non mi offendo, tanto non piace nemmeno a me.
(Il titolo del capitolo è un pezzo di "La corte dei Miracoli", sempre del musical di Notre Dame de Paris. Mi spiace, ma non posso fare a meno di andare in giro per casa canticchiando le canzoni, e i titoli non sono il mio forte, quindi in qualche modo devo arrangiarmi ahah)
Fatemi sapere. Un bacio,
h o r o


 

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Capitolo 7
*** Crudelia ***


Odi et amo.


[Chapter seven. Crudelia]
Divampante fulgore nelle foreste della notte


“E così lei è il tanto decantato mr. Clayton?”, esordì la donna, aspirando un’ampia boccata dalla propria sigaretta. “Paul mi ha detto che anche lei è inglese. Spero che sia anche competente.” Ridacchiò tra sé, dicendolo. Le sembrava una battuta divertente.
   Sedeva sul proprio divano a "elle", in pelle nera, Crudelia De Mon, le gambe accavallate, il braccio destro abbandonato mollemente sullo schienale, in mano l'immancabile bocchino per sigarette, il sinistro dietro la nuca, quasi a sorreggerle la testa.
   Osservando il nuovo venuto, non si alzò – non lo avrebbe mai fatto, ma si lisciò lentamente l'elegante abito da cocktail nero, come a liberarsi della cenere eventualmente cadutavi sopra e scoprì i denti in una mezza smorfia.
   “Sì, ma’am. Cecil Clayton, al suo servizio. Sono il migliore.”, si presentò lui, con un sorriso smagliante. Lei gli porse la mano e lui la sfiorò con le labbra.
   “Mi fa piacere. So che Paul a volte ha la tendenza ad esagerare decantando le doti dei suoi… contatti, ma vedo che lei stesso è piuttosto sicuro di sé.”
   “Ah, ma’am, le assicuro che non c’è uomo al mondo che conosca l’Africa meglio di me.”
   Crudelia lo guardò a lungo. Indugiò sul suo ghigno arrogante, di chi uccide bestie per sport e per mestiere, sui baffetti da perfetto inglese gentiluomo, sui capelli pettinati all’indietro dalle prime ciocche grigie sulle tempie, sulla giacca tirata al massimo sui pettorali scolpiti. Non se ne vedevano più,di uomini così, specie a Londra, dove l'uomo tipo era uno smilzo spilungone come il marito di Anita. Oh, non doveva pensarci, le faceva venire l'orticaria.
   “Be’, se ne è convinto lei…”, sibilò invece, alitandogli una zaffata di fumo in faccia.
   Clayton non abbassò lo sguardo, ma anzi sorrise. “Lo sono. Parliamo di affari? Mr. Sandler mi ha detto che potrebbe essere interessata a una pelle di leopardo.”
   “Giaguaro, tesoro. Giaguaro”, soffiò Crudelia, quasi punta nell'orgoglio. E così Paul Sandler, che tanto si atteggiava a esperto, voleva rifilarle la pelliccia di un'altra bestia? Ma con chi credeva di avere a che fare, scherzava?!
   “Il giaguaro è tipico dell'America meridionale, il leopardo è la specie africana. Le assicuro comunque che sono molto simili, è facile sbagliarsi”, spiegò l'uomo, pieno di sussiego, arricciando un poco le labbra. Ah, quanto adorava far scoppiare le donne presuntuose nella loro stessa boria. Era come domare un animale selvaggio e, be', non per vantarsi ma sapeva il fatto suo in materia.
   Crudelia aveva sempre odiato venire contraddetta, ma trovava che Clayton avesse un non so che di accattivante nel suo modo di fare. In cuor suo lo perdonò per l'affronto, quindi, e gli concesse anche un mezzo ghigno, più una smorfia, esclamando: “Ah bene, almeno vedo che se ne intende. Felice di constatarlo. Parliamo di affari, allora?”
   Il cacciatore scoppiò a ridere. Sì, quella donna era un animale selvaggio, addirittura una tigre, forse. La più feroce che avesse mai avuto l'onore di scovare.

Cecil insistette per essere presente al momento della consegna. Guardò la donna afferrare la pelliccia di leopardo come se fosse stata una reliquia, e avvolgersela addosso in un unico movimento aggraziato.
   "Bellissima", mormorava, ammirandosi nello specchio vicino.
   Vesti le spoglie dei nemici, tigre?, pensò lui, con un ghigno. L'ho ucciso per te, con queste mani.
   Ma Crudelia non aveva occhi che per il suo trofeo, e presto Clayton dovette suo malgrado scivolare fuori dalla stanza, fuori dalla sua vita, fuori dalla foresta della notte di cui lei era la regina.

 

/chapter seven - end.
Waa, eccomi! In ritardo, ma ci sono. Questo capitolo mi ha dato dei problemi, perché non sapevo su chi scriverlo ed ero presa da un'altra storia di mia creazione, un crossover tra serie televisive (a tutti i fan di Hannibal e Sherlock, fate una capatina tra le mie storie, magari)... quando avevo ormai perso le speranze invece eccola, l'illuminazione!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Un grazie speciale a Nox, che mi offre sempre preziosi consigli.
Ah, il titolo deriva da una poesia di William Blake, The Tyger, una genialata di un grande genio.
A risentirci, presto (spero)...
Vostra,
h o r o

 

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Capitolo 8
*** Jafar ***


Odi et amo.


[Chapter eight. Jafar]
Io sono nel buio, tu nella luce


La voce della ragazza – della principessa – era carezzevole, bassa e misurata, poco più che un sussurro. Nell’attimo che ci metteva a uscire dalle sue labbra, per poi danzare nei pochi centimetri d’aria che la separavano da lui, sembrava sempre indugiare un istante di troppo. Restava sospesa, come la più delicata delle farfalle, quasi volendo farsi ammirare, timida e discreta… e poi acquistava coraggio e forza e lo colpiva in volto, gli faceva scoprire i denti in un sorriso, involontario, forse. Irrazionale, probabilmente.
   Cos’aveva di speciale quella ragazzina arrogante e viziata? Cos’aveva di speciale una come lei, che arrivava dopo tante donne che in quanto a bellezza potevano benissimo surclassarla? Nulla, si diceva Jafar, nulla se non un’anima bianca e pura. Non aveva mai assaggiato il sapore di una donna così, era solo curioso.
   Malefica era succo di ribes nero sulla punta delle dita, aspro e dolce-amaro insieme, un concentrato puro di rabbia, odio, rancore. Era ombra, sapeva di oscurità, era come lui.
   Jasmine – e da quando pensava a lei chiamandola per nome? – era luce. Era orgoglio, potenza e tenacia. Era ribellione. Gliela leggeva negli occhi, un incendio impossibile da domare radicato nel suo cuore e nel suo animo. Ma ora era domato, era incatenato, era suo schiavo.
   Ora Jasmine era sua. Non era più curiosità, quella che provava: era desiderio, voleva vedere fin dove si sarebbe spinta, fin dove la magia l’avrebbe spinta, umiliandola.
   “Continua”, le ordinò, ammaliato dal suono di quella voce che lo chiamava per nome e lo copriva di lodi. Era sempre stata un suo punto debole, la vanità. Decisamente il suo peccato preferito.
   Le mani di lei gli si poggiarono leggere sulle spalle. Luce e ombra potevano davvero fondersi insieme? Poteva coprire le distanze che li separavano, poteva piegare l’animo forte e burrascoso da giovane puledra recalcitrante, poteva fare di lei la sua regina?
   Un rumore. Un istante. Un passo falso. Jafar si voltò di scatto, sentendo propositi e progetti scivolargli via dalla mente, rendendolo di colpo lucido e vigile. Prudente, anche.
   L’istante.
   Jasmine lo baciò. Buffo come una cosa senza importanza come un bacio abbia il potere di sconvolgere e cancellare tutto, togliere certezze e verità, lasciare al loro posto una fastidiosa patina grigia.
   Aveva il gusto del sole che accarezza le dune del deserto di Agrabah, Jasmine, e del più dolce dei frutti esotici. Era come bagnarsi i polsi e la nuca con l’acqua cristallina di una fonte, come mettere piede in una caverna di tesori e non sapere quale prendere per primo.
   La sua stessa anima sembrava aver assorbito quel calore. Sembrava essersi tinta di rosso e d’oro, sembrava di colpo renderlo l’uomo più ricco del mondo.
   Sorrise, Jafar, perché aveva appena provato il frutto proibito dell’albero avvelenato, ma era sopravvissuto al suo veleno.
   “Questo bacio…”
   Suggellerà i nostri patti.
   Ma era attento, Jafar, e quando vide il riflesso dello straccione sulla corona d’oro che sarebbe stata della sua regina, sentì tutto tornare grigio e freddo com’era sempre stato. E urlò.
   “TU!”
 
Io sono nel buio, tu nella luce. Non percorriamo lo stesso sentiero.

/chapter eight - end.
Ehilà, gente! Eccomi col capitolo otto. Non ho molti commenti da fare. La frase "vanità, decisamente il mio peccato preferito"
è dell'Avvocato del Diavolo, film del '97 con un fantastico Al Pacino. Guardatelo, che merita.
L'ultima frase (e spero anche titolo d'effetto), "io sono nel buio, tu nella luce. Non percorriamo lo stesso sentiero, Abberline", con l'omissione del nome, viene da un anime-manga che adoravo una volta. Kuroshitsuji, si chiamava. E... niente, mi scuso per il ritardo. Recensite in molti!
h o r o
 

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Capitolo 9
*** Shere Khan ***


Odi et amo.


[Chapter nine. Shere Khan / human version]
The White Duchess


Mr. Khan passeggia lentamente per il locale, osserva qualche viso, distribuisce sorrisi cordiali a tutti e, talvolta, anche qualche cenno del capo. È così elegante nel suo completo bianco, nei suoi movimenti leggeri e silenziosi, nel modo in cui la sua voce profonda intona un inglese perfetto e le sue dita affusolate stringono lo stelo della flûte. Dom Pérignon nel suo bicchiere, come chi non si fa mancare il meglio.
   È nato in Inghilterra, mr. Khan, da un ricco magnate bangladese e una madre britannica fino al midollo, dalla pelle diafana e i capelli rossicci dello Staffordshire. Khan è un bizzarro nesso di stili di nobiltà differenti, in effetti, con la sua carnagione bronzea su cui risalta uno sguardo incredibilmente magnetico; capelli e barba sono ingrigiti dall’età, ma nessuno lo direbbe vecchio. È un tipo di eleganza arcana, la sua, che sfida le correnti del tempo e persiste immutata e immutabile, forse qualcosa che si eredita nel corredo genetico e che non si può imparare ad avere, se non si ha.
   Qualcuno direbbe che è sempre stato vecchio e qualcun altro che invecchiando migliora sempre di più. Fascino d’altri tempi, si limitano a dire i più.
   “Bonsoir, chérie”, mormora alla bella donna davanti al bancone, che sta ordinando il terzo cocktail della serata. Lancia spesso occhiate nervose in giro, come se cercasse qualcuno. “Sei incantevole stasera.”
   “Grazie, signore”, risponde lei, abbozzando un sorriso, ma avendo quasi fretta di riprendere a scrutare tra la folla.
   “Sei sempre meravigliosa, ma oserei dire che stasera lo sei quasi di più”, continua mr. Khan, scoprendo i denti candidi e squadrandola dall’alto in basso con una lenta occhiata. Forse indugia un po’ troppo sulla profonda scollatura dell’abito bianco, ma lei non pare averlo notato quando ripete un “grazie tante” e il suo sorriso si schiude un po’ di più.
   “Stai aspettando qualcuno, vedo.”
   La donna avvampa, e splendide rose rosse sembrano sbocciare sulle sue guance. Mr. Khan la fissa incoraggiante da sotto le ciglia. Sembra quasi ammiccare.
   “Veramente sì. Un amico.”, ammette allora lei.
   “Fa parte della banda?”, indaga l’uomo, sollevando un sopracciglio.
   La giovane spalanca la bocca. “E lei come lo sa?”
   Mr. Khan ride nella sua voce profonda. “Non fai che fissare il palco, chérie. Queste cose si notano quando si cerca lo sguardo di una persona per tutta la sera.”
   Arrossisce ancora, forse dovrebbe persino sentirsi un po’ in colpa. La cercava, e lei era presa da altro. “Mi dispiace, signore.”
   “Immagino che sia il giovane O’Malley, che oggi non si è ancora fatto vedere. Cosa può un vecchio corpo come il mio contro la prestanza della gioventù?”, sospira l’uomo in modo teatrale, “Oh be’, sembra che quando arriverà non avrò più speranze e verrò definitivamente messo da parte come un soprammobile vecchio e impolverato…”
   La donna è a disagio, ora. Non vede in Shere Khan, capo e gestore del locale, un confidente, né un amico o un alleato. Certo, è un uomo molto attraente, in un certo senso – un vero gentiluomo e un filantropo, che le ha offerto un’opportunità unica con quel posto – ma c’è qualcosa di feroce nel suo sguardo. Le sembra quasi quello di un predatore, la spaventa, la mette in soggezione.
   “Tuttavia non è ancora arrivato, o sbaglio?”, insiste l’uomo, con un sogghigno malcelato. “Perché non mi concedi un po’ di attenzione mentre lo aspetti? Avanti, un ballo soltanto. E un drink, se mi permetti di offrirtelo.”, schiocca le dita e il barman sostituisce il White Lady sul bancone con un calice di Dom Pérignon. Khan lo solleva con la mano sinistra e lo porge alla bella entraineuse che lui stesso ha assunto all’apertura del locale. Lei lo prende.
   “Alla giovinezza, mia cara.”, propone lui, sollevando la propria flûte con fare eloquente. Le coppe tintinnano una contro l’altra.
   La donna sa di non poter rifiutare. Deve davvero molto a quell’uomo e il minimo che può fare è assecondarlo nelle piccole cose. Sa che fare l’accompagnatrice da sala nel locale più chic nel centro di Parigi è un privilegio, visto a quanto si stava abbassando per mantenere i suoi figli.
   E così sorride, accetta sempre da bere, balla con lui ogni sera come se fosse un cliente e non il suo capo.
   Quella sera però c’è qualcosa di diverso nei suoi occhi, e forse Khan lo ha percepito. Non dà segno di esserne turbato, ma è come se sapesse davvero quello che lei sta per fare.
   Vuole fuggire all’estero con un membro della banda, Thomas O’Malley. Sta solo aspettando che arrivi con i documenti d’espatrio, poi andrà a prendere i bambini e lascerà la Francia per sempre.
   Mr. Khan le ha dato molto, ma lei deve farlo comunque, anche se lui ha fatto di lei la sua musa e non perde occasione di ricordarle che è tutto merito suo se il suo sogno di aprire il locale si è realizzato. Crede davvero che non se lo meriti, quel povero vecchio, e che in fondo sia una brava persona e non il bastardo senza cuore che tutti dicono essere. Ma Thomas lo odia e sarà lì a momenti…
   Finito il drink, mr. Khan la accompagna al centro della pista e la conduce in un passo di valzer viennese. È un ottimo ballerino e i suoi movimenti aggraziati sembrano quelli di una tigre.
 
Thomas parcheggia la motocicletta sul retro e fa per entrare nel locale con le mani nelle tasche strette attorno ai permessi d’imbarco per sé e quella che diventerà a breve la sua famiglia.
   Si guarda circospetto alle spalle. Per un attimo gli è sembrato di sentire un rumore. Si volta di nuovo: deve esserselo immaginato.
   Non ha il tempo di realizzare che quello che gli è calato sulla nuca è il calcio di una pistola, probabilmente una colt. Sente in bocca il sapore ferroso del sangue, ma la vista gli si annebbia con qualche istante di ritardo: giusto il tempo per concedergli di scorgere scarpe di pelle e un completo bianco elegante.
   Shere Khan fa trascinare via dai suoi scagnozzi il corpo svenuto di Thomas O’Malley. Si lecca lentamente le labbra e fissa l’insegna del proprio locale. Deve prima di tutto proteggere i suoi interessi.
   Il Duchessa Bianca non può andare avanti senza la sua stella di punta.

/chapter nine - end.
Salve! Ho aggiornato prima del previsto stavolta. Volevo dire che l'idea è ispirata a un film che ho visto tempo fa, si chiama "La Contessa Bianca" e parla di un ex diplomatico cieco che decide di aprire un locale dedicato a una donna, una contessa decaduta costretta a fare da "accompagnatrice" per portare a casa da mangiare, a cui lui offre un posto come semplice accompagnatrice da sala. Io ho scelto di usare Duchessa :)
L'idea è riproposta in chiave più drammatica. Shere Khan non è poi un bravo ragazzo come Ralph Fiennes e di certo la vede lunga.
La banda a cui si fa riferimento è ovviamente quella di Scat Cat, che però non ho citato per fare più suspance... allo stesso modo ho scelto di usare il Thomas O'Malley della versione inglese al posto di Romeo, prima di tutto perché altrimenti non avrei avuto un cognome, secondo perché mi suonava meglio in quanto più "anonimo".
Niente, ci tenevo a dirlo. Non ho mai usato il nome di Duchessa perché non volevo lasciar intendere il nome del locale, ma forse si era già capito... boh, fatemi sapere.
Stavo anche pensando di usare "quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia", ma in ultima battuta ho rinunciato.
Grazie a tutti, se recensirete/aggiungerete a qualcosa. A questo punto un grazie speciale a tutti quelli che stanno continuando a seguire questa modesta raccolta di idiozie. Un bacio,
h o r o

 
P.S.
Se a qualcuno interessasse il mio Dreamcast Disney, cioè come vedrei i personaggi interpretati da degli attori, specie quando faccio riferimento a animali umanizzati...
Sto ancora lavorando sugli altri, mi ci vuole concentrazione, ahah. Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Grimilde ***


Odi et amo.


[Chapter ten. Grimilde]
Sogno cremisi


Aveva conosciuto presto il sapore amaro della perdita, alla morte del suo primo marito. Aveva poco più di sedici anni quando Sigurd era stato ucciso a sangue freddo, colpito alle spalle, a tradimento, mentre era a caccia.
   Grimilde ricordava bene il colore del suo sangue sulla neve – rosso, mentre scendeva di corsa la scala ghiacciata dell'ingresso, rosso, mentre cavalcava verso la foresta, rosso mentre vedeva la lancia abbandonata a terra – ma ancora meglio ricordava il gusto di quel sangue, caldo sulle sue labbra, quando aveva fatto voto di vendicarlo. Era un colore destinato a tormentarla per sempre.
   Aveva visto il corpo morto di un marito che amava, privato persino delle vesti più nobili, privato delle armi e del mantello dalle mani della gente che pure lo adorava e lo venerava, perché giusto e saggio, ma che credeva anche che di quei vestiti usati non se ne sarebbe fatto niente. Era diventato un semplice involucro ormai vuoto, svuotato della vita e della forza, un vaso pregiato finito in mille pezzi, una voce meravigliosa zittita per sempre. E Grimilde aveva baciato quelle labbra fredde, sporche di sangue, aveva assaggiato il sapore della morte e, in quel preciso istante, aveva giurato che avrebbe fatto qualsiasi cosa fosse in suo potere per vendicarsi. Come arma aveva solo se stessa, regina di un regno in rovina, senza nessun re al suo fianco, e una bellezza destinata prima o poi ad abbandonarla.
   Poteva vedere ancora il sangue, rosso, non suo, scorrerle tra le dita. Poteva sentirne il sapore ferroso sulla punta della lingua, l'odore pungente e dolciastro nelle narici. Giurò di usare ogni brandello di carne, ogni centimetro di corpo, di anima e di mente, solo per sapere che quel sangue non era stato versato invano.

E così, come una dolce e devota giovane vedova, aveva sposato un gentiluomo tedesco la cui moglie era da poco morta di parto, aveva da quel giorno recitato una parte, finto di provare quello che un cuore ormai spezzato provare non può più. Fingeva di amare un uomo che non voleva, di amare una figlia che non era sua, mentre di Sigurd non restava che un’immagine nella neve, un corpo immobile e una pozza di sangue. Invidiò ogni barlume di felicità di quella famiglia fantoccio, di quell'ombra di pace e quiete, di pienezza interiore e spirituale, senza il peso di nessuna promessa sussurrata in una fredda mattina di novembre, a un corpo freddo che giaceva nella neve. Odiò come una bambina dolce e timida che avrebbe dovuto chiamare figlia stesse diventando sempre più simile a come sarebbe dovuta essere lei. Odiò ogni mattina silenziosa, che sapeva di rosa, spettro di un'infanzia finita troppo in fretta.
   Grimilde studiò le arti proibite della stregoneria, imparò come fare ad assicurarsi tutto ciò di cui aveva bisogno. Sopravvisse e basta, perché la morte l’aveva toccata già una volta, le aveva strappato l’anima dal petto e se n’era andata senza dire niente. Vivere era solo una parola vuota, ormai, una parola che era nata forte e vivida, quasi rosso fuoco, e si era sbiadita per strada come corallo. 
   “Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?”, chiedeva ogni sera allo specchio silenzioso della camera coniugale, quando suo marito si era ormai addormentato. Quanto tempo poteva avere prima di vedere quella pelle raggrinzirsi, quei capelli ingrigirsi, quel corpo perdere la sua bellezza? Quanto tempo le restava prima che quel riflesso mostrasse chi era davvero dentro, sotto la bellezza che le aveva permesso di resistere finora? Quand'è che non sarebbe stata più degna del ricordo di un uomo morto?
   Le sembrava sempre che a parlare fosse Sigurd, quando lo specchio che lei stessa aveva incantato le rispondeva: “Sei tu, mia regina”.

Una sera, dei messi le portarono una lettera. Avevano trovato il traditore, si nascondeva in una bettola a pochi giorni di cammino.
   Grimilde mandò uno dei suoi cavalieri scelti ad assassinarlo, si fece portare testa e cuore. Brindò alla vendetta, la sua unica compagna di vita, perché quel fantoccio nel letto coniugale non valeva niente. Non era che un mezzo: se ne stava tranquillo, ignaro del buio che le cresceva dentro, inconsapevole in un letto maledetto, zittito da baci senza amore. Felice e inconsapevole, con quel sorriso fiducioso e bonario sul viso ogni giorno più vecchio, con quel calore e con quell'affetto che lei non riusciva ad assorbire, ma rifletteva e basta. Respingeva, addirittura. Non come la figlioletta perfetta, che portava in bella mostra i sentimenti come una corona.
   Ma, per la prima volta da tanto tempo, Grimilde era soddisfatta. Non felice, no. Si sentiva solo piena, come se uno strano calore le fosse nato in fondo allo stomaco, come se avesse ritrovato qualcosa di prezioso e caro che aveva da tempo perduto. Bevve un altro sorso di vino. Era buono, le annebbiava la mente al punto da concederle di sorridere alla propria immagine riflessa. Le faceva rivedere Sigurd ancora vivo, senza quel colore traditore a incorniciargli il volto, come la criniera di un leone. Senza il rosso devastante che vedeva ogni notte in sogno.
   “Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?”
   In quello stesso istante le labbra di Grimilde toccarono la superficie dello specchio e l’entità oscura dall’altra parte del vetro reagì al tocco, rispose per quanto poté. Erano uguali, loro due, entrambi prigionieri di mondi diversi e divisi. Destinati a non toccarsi mai, nascosti dietro il velo scuro del lutto in una notte nera come la morte.
   “Sei tu, mia regina”.
   Sigurd.
   La regina fece un passo indietro e si concesse un altro sorriso.
   “Grimilde, con chi parli?”, chiese la voce impastata del vecchio re, dal letto. Lei gli prese una mano tra le sue, e sussurrò, con voce estremamente carezzevole: “Con nessuno. Torna a dormire.”
   La vendetta aveva lo stesso sapore del sangue di Sigurd. Stranamente, era un gusto cui non credeva di volere rinunciare.
   E forse fu per quello che non si sentì neanche così colpevole, quando stappò la boccetta del veleno e ne versò due gocce nel bicchiere d’acqua del marito, a lato del letto, e gli diede un ultimo bacio, che sapeva essere d'addio.

In un’eternità momentanea, mi consumo, semplicemente, per un sogno cremisi.
 
/chapter ten - end.
Sono di ritorno, in ritardo, ma meglio tardi che mai, anche se è un luogo comune.
Un capitolo un po' fuori dall'ordinario, che vi rifila un mezzo Grimilde-specchio e un mezzo personaggio inventato. Sigurd, o Sigfrido, è originariamente un eroe epico della mitologia norrena, un po' alla Beowulf, dalla cui storia si dice venga il nome di Grimilde. Sua moglie, Crimilde, effettivamente giurò di vendicarlo e ce la fece. Brava donna. (Wikipedia mi sia testimone.)
Il mio è un adattamento libero e di pura fantasia, perché non ho letto di persona le sue avventure grandiose e - diciamocelo - non mi veniva in mente nient'altro per andare avanti con questa raccolta. Spero che come capitolo sia almeno passabile.
Non so quando aggiornerò ancora, benché non abbia ufficialmente concluso la raccolta. Purtroppo si avvicina la fine dell'estate e la fine delle idee. Sui villain rimanenti non mi viene granché da dire e non vi proporrei mai qualcosa come un Gaston-Vanessa, perché lo considererei una soluzione facile e, per i miei canoni, troppo mainstream. Sì, voglio fare l'alternativa e non proporre coppie troppo convenzionali e usare la parte figa di Ursula non vale. E no, non voglio offendere i fan della coppia Gaston-Vanessa, ma visto quello che vi ho rifilato finora dovreste aver capito che il soggetto della raccolta è sempre una coppia particolare e che, se dovessi scrivere di Ursula, parlerei dell'Ursula grassa e coi tentacoli, che personalmente adoro. Chiedo scusa in caso qualcuno si sia sentito punto nell'orgoglio. Non odiatemi, non sono cattiva, è che mi disegnano così.
Ah, la frase finale viene dalla traduzione della Character song di Grell Sutcliff di Kuroshitsuji. Lo so, è la seconda volta che uso questo espediente, ma fioi, non avete idea di quanto sia difficile trovare titoli e conclusioni per i capitoli. E poi Kuroshitsuji ha fatto la mia infanzia, recuperare frasi e citazioni mi gasa tantissimo. La canzone si chiama Shinkou, comunque. Ve la linko perché non si sa mai: https://www.youtube.com/watch?v=grUQinm-ElY
Come sempre: grazie mille a tutti!

Tornerò non appena mi verrà in mente qualcosa di buono, perché per voi solo il meglio.
Baci,

h o r o
 

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