Ti cerco nel mare

di DameOfWax
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Gli alberi d’autunno portano appese le speranze della gente. Foglie fragili su rami secchi. Colori caldi per una fine triste. Eppure gli alberi d’autunno le ospitano lo stesso.
Osservavo l’’autunno farsi strada nel paesaggio della mia terra, fuori dal finestrino. Stringevo tra le mani la lettera di mia madre, la lettera di una donna con gli occhi di una ragazzina. Accarezzai la carta liscia con la punta delle dita; la strinsi forte, in un moto di determinazione.
Ero scappata da mio padre, dalle catene del suo alcolismo e quelle della sua follia: da quando mia madre se n’era andata, aveva perso la testa. Passava la maggior parte del tempo a guardare la corrida de toros davanti al vecchio televisore, con la sua immancabile bottiglia in mano: indubbiamente il modo migliore per prendersi cura di sua figlia.
C’erano delle rare volte in cui, il pomeriggio, il bar del vecchio Juan, a tre isolati dal nostro misero appartamento, non gli andava troppo a genio; pomeriggi in cui il suo caffé corretto era pessimo, troppo poco whisky e decisamente troppo caffé, o Dolores la cameriera sembrava troppo brutta e stanca anche per portarsela a letto, come aveva preso l’abitudine di fare.
Uno di quei pomeriggi mi capitò di osservarlo. Seduto sulla sua poltrona consunta, le bottiglie di liquore a terra e gli occhi fissi al di fuori della finestra che si affacciava sul quartiere più povero di Madrid. I suoi occhi, davanti ad uno dei sanguinosi tramonti della Spagna, erano diversi: forse malinconici, terribilmente tristi; se non fosse stato per l’alcol, avrei giurato che stesse sul punto di piangere. Ero sicura che in quei momenti pensava a mia madre.
Presi ad osservarlo sempre, di nascosto, in quelle occasioni: è soltanto così che vorrei ricordare mio padre e respingere invece tutto il resto; come quando scoprì che lo spiavo, quando ormai s’era fatta sera e c’era una bellissima luna piena, e mi scagliò una delle suo bottiglie contro; quando, mancato il suo bersaglio, correndo nella mia cameretta sentivo lui che infuriato diceva: «Tù eres una cabrona como tu madre».
Mia madre se ne andò quando avevo dieci anni. Mio padre fu licenziato presto e fummo costretti a chiedere aiuto allo zio Carlos, il fratellastro di mio padre; ma anche il suo aiuto non tardò a mancare e all’età di quindici anni fui costretta a trovare un lavoro. Una ragazzina nella grande Madrid, piena di opportunità: mi ritrovai ben presto a fare la commessa in una panetteria, un lavoro entusiasmante esattamente quando la mia misera paga, fin troppo lontano da casa.
Circa un anno dopo maturai l’idea di andarmene da quel posto. L’unica volta che provai ad accennarlo a mio padre, in una delle nostre banalissime conversazioni, mi ritrovai chiusa a chiave in camera per un’intera giornata, finchè lui non ebbe per la maggior parte smaltito la sua sbornia giornaliera e mi aprì la porta; con uno sguardo assente, senza dire una parola.
A diciotto anni trovai il coraggio di partire. Nei tre anni precedenti avevo racimolato abbastanza soldi che mi permettessero di cercare una nuova vita lontano da lì, ma soprattutto di cercare mia madre, nel posto in cui era scappata da una vita che stava opprimendo anche lei: le coste del Sud Italia, quelle di una regione chiamata Puglia. Sapevo di avere una nonna, là: la madre di mia madre; non l’avevo mai conosciuta, perché aveva vissuto da sempre in Italia.
Il tramonto già feriva il cielo, macchiandolo di rosso. Nemmeno una nuvola a guarirlo. Nemmeno una nuvola a distrarre i miei pensieri. Distolsi gli occhi. Faceva male. Non avrei assistito a un altro di quei tramonti. Andavo in Italia, e chissà com’erano i tramonti là? Mai di sicuro come questi, mai così violenti e meravigliosi. Mi stavo allontanando da tutto. L’idea di spostarmi mi spaventava, in un’insicurezza mai provata prima; e mi spaventava l’idea di ciò che avrei potuto trovare, di ritrovare mia madre e scoprire che era una donna diversa, che aveva dimenticato sua figlia.
Mi addormentai mentre l'ultimo raggio di sole lasciava l'orizzonte.

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Il pomeriggio da Juan era stato pessimo, più del solito. Non mi aveva offerto nemmeno una schifosissima birra. «Estos son tiempos difíciles». Al diavolo.
Tornai a casa prima del solito. La porta era socchiusa. Quella stupida ragazzina non faceva mai quello che le si chiedeva. Presi una bottiglia, imprecai perché era l’ultima. Mi gettai sulla poltrona e ci restai finché non ebbi finito di bere. La casa era insolitamente silenziosa.
«Silvia», gridai. Silenzio. «Silvia. Ven aquì». Sì, vieni qui. Ancora non avevo visto la cena.
Ancora silenzio. Mi infuriai. Sapeva fare solo quello, quella stupida ragazza. Sapeva solo farmi infuriare. Mi diressi verso la sua squallida stanzetta. Vuota. Controllai nelle altre stanze. Lei non c’era. Imprecai. Ritornai in cucina e mi gettai sulla prima sedia che vidi, vicino al tavolo. La mia testa girava più del solito. Lasciai che la mia rabbia sbollisse. Sul tavolo c’era una busta di carta. Se erano faccende della ragazzina, poco importava. Ero suo padre. Potevo benissimo impicciarmi. La aprii. Era piena di soldi. Non erano una fortuna, ma pensai che con quelli avrei potuto passarci un paio di mesi con discrete quantità di alcol. Dentro alla busta c’era un biglietto. Lo afferrai. C’era una scritta.
Este dinero es para ti. No espere. Silvia”. Questi soldi sono per te. Non mi aspettare. Che diavolo significava?
Andai nella sua stanza. Aprii l’armadio. Le sue cose erano sparite. Un flashback nella mia mente. Un dolore lontano e maledetto. Quella bastarda se n’era andata. Era in grado di farmi infuriare anche quando non c’era. Presi a calci ogni cosa avessi davanti in quella stanza. Strappai le sue foto che erano rimaste incollate sul muro. Gettai quell’insulso biglietto.
Afferrai il telefono. Mezz’ora più tardi Dolores era nella mia camera da letto.

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