Rivelazioni

di Elly J
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


Disclaimer: tutti i personaggi e le ambientazioni di Resident Evil presenti in questa fan fiction non appartengono all’autrice, ma appartengono alla Capcom e a chi detiene i diritti sul videogioco. Questo racconto è stato scritto per puro divertimento personale e quindi non a scopo di lucro. Di conseguenza nessun copyright è stato violato.
Gli intrecci del racconto e i personaggi nuovi non appartenenti all'universo di Resident Evil sono stati invece ideati dall’autrice (Elly J) che quindi ne detiene il copyright, vietandone così la riproduzione altrove.
La riproduzione altrove e qualsiasi citazione è ammessa solo se l’autrice ne ha dato il consenso.





 
1.
 
Mi svegliai di soprassalto, il cuore in gola.
I miei occhi sbarrati fissavano il soffitto, immobili. Non avevo il coraggio di guardarmi attorno. Li richiusi per alcuni secondi, respirando profondamente.
- Shane? - chiamai.
Nessuna risposta.
Riaprii gli occhi, fissando ancora una volta il soffitto rossiccio decorato con degli orribili motivi floreali. Mossi leggermente le dita delle mani, sfiorando qualcosa di leggero e particolarmente ruvido. Sembrava un lenzuolo.
- Shane? - chiamai ancora una volta, come per cercare di convincermi che non ero sola. Ma nulla, nessuno mi rispose.
Girai leggermente la testa verso destra e subito notai una porta chiusa e un mobile in legno. Alzai lievemente il viso per avere una visuale più completa e molti altri oggetti si materializzarono ai miei occhi: un comodino, una lampada, un quadro ritraente una qualche guerra..
Facendo leva sui gomiti alzai il busto e con notevole difficoltà riuscii a mettermi seduta. Mi trovavo sopra un letto matrimoniale in una stanza abbastanza ampia che, con ogni probabilità, si trattava di una camera da letto. Spostai lo sguardo da destra verso sinistra più volte, cercando di cogliere qualche cosa di familiare in quel luogo. In fondo alla stanza sulla sinistra c’era un grande guardaroba di un blu slavato; sembrava di legno visti i motivi intarsiati sulle ante, ma non ne ero completamente sicura. Di fronte ad esso, distante di qualche metro, era stato posizionato un piccolo tavolino tondo con attorno alcune sedie. Sopra il tavolo qualcuno aveva rovesciato un vaso e tutti i fiori si erano sparpagliati in giro; erano molto secchi, il che indicava che erano lì da molto tempo. Tornai con lo sguardo alla mia sinistra, osservando la porta che avevo già notato pochi minuti prima. Pensai che fosse l’entrata del bagno, poiché con tutta probabilità l’ingresso di quella stanza stava alla mia sinistra, dove il muro faceva angolo. La cosa che però aveva attirato più di tutto la mia attenzione era la grande tv nera a schermo piatto che si trovava di fronte a me, poggiata su un mobile in legno. Era accesa, ma sembrava che non ci fosse segnale; l’audio gracchiava leggermente e la luce dello schermo produceva una luce sinistra, riflettendo lunghe ombre sulle pareti della stanza. Perché diavolo avevano lasciato quello stupido televisore acceso?
Feci per alzarmi dal letto, ma subito mi fermai con un gemito. Provai un forte dolore all’altezza della scapola sinistra e istintivamente mi sfiorai il punto dolente con una mano. Sentii subito il tessuto della maglia strappato e non appena toccai la pelle dovetti ritrarre il braccio per il forte dolore. Qualcosa di umido e viscoso mi era rimasto sulle dita e, non appena mi portai queste ultime davanti agli occhi, mi resi conto che erano sporche di sangue.
- Merda.. - gemetti leggermente, sentendo il cuore che accelerava i battiti. Dovevo andarmene da lì e soprattutto dovevo trovare Shane e gli altri.
Cercando di non pensare al dolore mi alzai dal letto e una volta in piedi mi accorsi che non avevo più il mio cellulare. Non ricordavo dove lo avevo messo prima di ritrovarmi in quella stanza, ma ero certa di averlo avuto con me. Feci per frugarmi nelle tasche, ma mi resi conto che avevo addosso un paio di leggins, ovviamente senza tasche. Mi guardai in giro, spostandomi poi verso il comodino. Aprii tutti i cassetti che trovai, rovesciai il cuscino e le coperte del letto, guardai sotto di esso.. nulla. Del mio cellulare non c’era traccia.
Alzai lo sguardo verso la porta che stava di fronte all’armadio blu slavato. Ora che mi ero alzata dal letto potevo vederla bene, poiché non avevo più la vista ostruita dall’angolo del muro. Senza pensarci due volte mi catapultai verso di essa, afferrandone il pomolo e girando con forza. Ripetei il movimento per due volte, ma la porta non si mosse si un centimetro.
- No, cazzo, no!
La mia voce carica di panico proruppe quasi con violenza. Mi portai le mani nei capelli, facendo scorrere velocemente gli occhi qua e la nella stanza alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa per aprire quella dannata porta. I miei occhi si fermarono sull’altro uscio che avevo notato quando mi ero svegliata, il quale molto probabilmente portava al bagno. Tanto valeva tentare.
Mi diressi con passo svelto verso la porta e una volta davanti a essa pregai con tutta me stessa che almeno quella fosse aperta. Afferrai il pomolo e lo girai, spingendo leggermente in avanti. La porta si aprì con un cigolio. Subito una puzza di chiuso e muffa si insinuò nelle mie narici, facendo contrarre i miei muscoli facciali in una smorfia disgustata. Mi portai il dorso della mano destra verso il naso, cercando di coprire quell’orrendo odore più che potevo. Era veramente insopportabile.
Dapprima con gli occhi socchiusi, poi aprendoli sempre di più, osservai il piccolo bagno che avevo scoperto dietro la porta. Era in condizioni veramente pessime: le mattonelle, che un tempo erano state sicuramente di un rosa chiaro, erano tutte macchiate di uno strano liquido marrone. In alcune parti sembrava fresco mentre in altre si era seccato, formando delle particolari geometrie senza alcun senso. Mi avvicinai al lavandino che stava proprio di fronte alla porta e con grande sgomento vidi che era tutto sporco di un liquido che con ogni probabilità si trattava di sangue.
- Oh mio dio.. - mormorai sbarrando gli occhi.
Alzai lo sguardo e vidi la mia immagine riflessa nello specchio sgangherato che stava sopra al lavandino. Ero davvero io? Avvicinai una mano al vetro, sfiorandone leggermente la superficie, come per accertarmi che quella ragazza riflessa fossi davvero io. Ero in condizioni pietose, come tutto ciò all’interno di quella maledetta stanza. Avevo i capelli tutti arruffati e il viso era una machera di tagli e piccole ferite. Del sangue mi si era seccato sulla fronte sopra l’occhio destro e sotto di esso, più precisamente sullo zigomo, un’altra ferita posta orizzontalmente completava il quadretto. Spostai leggermente il viso verso destra e mi alzai sulle punte dei piedi per permettere allo specchio di riflettere la mia immagine oltre il collo e fu proprio così che finalmente vidi la bruttissima ferita all’altezza della scapola sinistra. Me la sfiorai per la seconda volta con gli occhi spalancati, terrorizzata. Come mi ero procurata un taglio del genere? La ferita partiva dalla spalla e la maglia strappata ne segnava il lungo percorso obliquo, passando sopra la scapola fino ad arrivare quasi a metà petto. Non era un taglio eccessivamente profondo, ma di certo nemmeno una bazzecola oltre che essere veramente orrendo da vedere.
Distolsi lo sguardo dalla ferita per poi abbassarlo verso i miei indumenti. La lunga maglia bianca che indossavo sopra i leggins neri era strappata in diversi punti e macchiata di sangue qua e là, mentre gli stivaletti color crema erano praticamente diventati di un marroncino chiaro. Sembrava che fossi stata investita da un camion. Alzai lo sguardo vedendo nuovamente la mia immagine riflessa, sulla quale mi fermai veramente molto poco. Dovevo assolutamente trovare qualcosa per aprire la porta della camera ed andarmene da lì.
Diedi una rapida occhiata al bagno: il wc sulla destra, la vasca da bagno poco più avanti, la quale presentava diverse macchie ambigue al suo interno, un portasciugamani, un contenitore di shampoo vuoto a terra.. niente che potesse aiutarmi ad aprire una porta chiusa a chiave. Per l’ennesima volta tornai con lo sguardo sulla mia immagine riflessa e solo in quel momento mi resi conto che dietro allo specchio sgangherato si nascondeva uno di quei piccoli mobiletti dove solitamente si lascia lo spazzolino e le varie creme per il viso. Con mano tremante aprii la piccola porticina cigolante del mobiletto e non appena misi bene a fuoco il contenuto non credetti ai miei occhi. Tra diversi vasetti di creme e altre cose a cui non prestai la minima attenzione era stato appoggiato un cacciavite dal manico verde sgargiante. Lo fissai incredula per alcuni secondi, incapace di pensare a come quell’oggetto fosse finito nel mobiletto di un bagno, solitamente adibito per contenere oggetti come spazzolini e creme varie. Quel oggetto non era finito lì per caso, ne ero certa. C’era qualcosa di perverso in quella situazione, in quella stanza, in quelle macchie marroni sulle mattonelle del bagno.. per non parlare del sangue nel lavandino e di quello che mi sembrava di aver intravisto nella vasca da bagno. Cosa diavolo stava succedendo? Di chi era tutto quel sangue?
I miei occhi fissavano ancora il cacciavite con incredulità. Il mio istinto mi diceva che qualcuno lo aveva messo lì affinché io lo trovassi e lo usassi. Certo, perché avevo tutta l’intenzione di forzare la serratura con quel affare e sarei rimasta lì anche ore a provare pur di uscire da quella stanza che aveva tutta l’aria di essere una camera delle torture.
Afferrai il cacciavite, questa volta con mano più ferma, dopodiché richiusi il mobiletto con un tonfo. Non notai subito che ora c’era qualcosa che non andava nella mia immagine riflessa, o meglio non notai che si era aggiunto qualcosa oltre al mio viso. Rimasi immobile per alcuni secondi fissando la massa umanoide che si era portata dietro di me, riflettendosi a sua volta nello specchio.
Urlai.
Urlai con tutto il fiato che avevo in gola.
L’orrendo essere alzò uno dei suoi arti innaturalmente lunghi per colpirmi e io, mossa da un istinto che non conoscevo, mi lanciai di lato verso destra per sfuggire all’attacco. L’arto del mostro colpì il mobiletto che finì a terra con un tonfo, rompendosi in mille pezzi. Schegge di vetro saltarono dappertutto, accompagnate da un orrendo verso che mi perforò i timpani. Alzai lo sguardo verso quello che sembrava una clonazione umana andata male e indietreggiai puntando i talloni sul pavimento per spingermi più lontano. Quell’essere umanoide aveva un qualcosa di femminile, quasi familiare. Era ricoperta di sangue da capo a piedi, il volto sfregiato, i capelli biondi che si univano alla carne viva del collo, gli arti aperti in due con diversi artigli che spuntavano qua e la. Un conato di vomito mi scosse da capo a piedi, ma fui in grado di controllarlo.
L’essere fece un passo incerto verso di me, mugugnando qualcosa di incomprensibile. Il mio cuore batteva all’impazzata, la mia mente era completamente smarrita e confusa. L’unica consapevolezza che avevo era il fatto che mi trovavo nei guai, guai molto grossi. L’essere continuava ad avanzare verso di me ed io continuavo ad indietreggiare, fino a che la mia schiena non si scontrò contro la vasca da bagno.
Ero in trappola.
Il mio cuore prese a battere all’impazzata minacciando di sfondarmi il petto. Il respiro si faceva sempre più corto, la mente sempre meno lucida.
Dovevo difendermi e scappare.
Stringendo la mano destra mi accorsi di avere ancora con me il cacciavite che avevo trovato nel mobiletto. Lo fissai per alcuni secondi, dopodiché mi feci forza e mi alzai aggrappandomi al bordo della vasca da bagno. L’essere umanoide era ormai a pochi passi da me, pronto a colpire di nuovo per uccidermi.
Non ragionai, non pensai.. agii e basta.
Con uno scatto mi lanciai verso il mostro afferrandolo per una spalla. Urlai e poi colpii con tutta la forza che riuscii a trovare nel mio braccio. Il cacciavite andò a conficcarsi in profondità nell’occhio dell’umanoide e una volta raggiunta quella posizione lo estrassi con violenza. Un urlo sconnesso e orrendo fuoriuscì dalle fauci dell’essere, il quale barcollò all’indietro fino a cadere contro la porta aperta del bagno.
Non persi un solo secondo. Scattai velocissima e con un salto superai il mostro a terra, che già si stava muovendo per rialzarsi. Con il cacciavite grondante di sangue mi avvicinai alla porta chiusa della stanza, inserendo poi la punta dell’oggetto all’interno della serratura. Avevo notato che l’armadio blu slavato, che in quel momento si trovava dietro di me, aveva le ante aperte. Molto probabilmente il mostro era uscito da lì e il solo pensiero di aver dormito in quella stanza con quel coso nascosto all’interno dell’armadio mi fece provare un senso di vertigine terribile. Mi meravigliavo di essere ancora viva.
Mossi il cacciavite all’interno della serratura con dei movimenti rotatori, sperando di beccare il punto giusto.
- Ti prego, ti prego..
Quella maledetta serratura faceva resistenza. La mia mano tremava quasi in modo innaturale e i miei occhi continuavano a guizzare verso la porta del bagno per controllare l’essere.
- Cazzo, cazzo!
La serratura non scattava. Non scattava!
Il mostro ormai era in piedi e si stava dirigendo verso di me con quel passo incerto e traballante; il mio respiro affannoso copriva i versi sconnessi che emetteva l’essere. Mi sentivo in trappola, senza speranza. L’umanoide era ormai a pochi metri da me e io non ero ancora riuscita ad aprire quella maledetta porta.
No, non sarei morta in quella dannata stanza.
Conficcai il cacciavite più in profondità nella serratura, dopodiché mi alzai in piedi allontanandomi leggermente dalla porta. L’umanoide era ormai a pochi passi da me, pronto per un nuovo attacco. Respirai a fondo nonostante il panico che mi opprimeva il petto, poi colpii. Il forte calcio che assestai al cacciavite emise un rumore secco e deciso. Diverse schegge di legno si sparpagliarono sul pavimento e il cacciavite si piegò fino quasi a spezzarsi, rimanendo incastrato all’interno della serratura. Afferrai la maniglia della porta e la tirai verso di me, sperando con tutto il cuore che quel rumore secco che avevo udito fosse stata la serratura che era finalmente scattata.
L’essere umanoide stava quasi per colpirmi quando uscii dalla stanza, lanciandomi in una folle corsa lungo il corridoio semioscuro.
Ero salva.. per ora.

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Capitolo 2
*** II ***


2.
 
Non ricordo per quanto tempo corsi. Il corridoio era talmente lungo, pieno di svolte e porte che non mi resi nemmeno conto di quanta distanza percorsi. Mi mossi fino a quando rimasi senza fiato, ansimante, con il braccio sinistro appoggiato ad una credenza per sorreggermi e la mano destra che sfiorava la ferita alla scapola, la quale aveva iniziato a pulsare quasi con violenza.
Mi sembrava di morire, non riuscivo quasi a prendere fiato. Sentivo il petto chiudersi in se stesso, come se qualcosa lo stesse stritolando impedendomi di muoverlo per respirare. Mi pulsavano le tempie e i timpani, udivo i rumori ovattati, percepivo delle gocce scavarmi la pelle del viso e delle braccia, non riuscendo a capire se si trattava di sudore o di sangue. Ad un certo punto le mie gambe cedettero e senza rendermene conto mi ritrovai in ginocchio, aggrappata con una mano al bordo della credenza.
Non riuscivo a capacitarmi di ciò che avevo visto, non sapevo se avevo sognato, se mi ero immaginata tutto, se mi avevano drogata.. non lo sapevo. Quell’essere che avevo visto, quell’essere che mi aveva aggredita non poteva essere reale, non poteva. E se lo era non apparteneva a questo mondo.
Mi sedetti a terra, la schiena appoggiata al legno della credenza, occhi chiusi. Dovevo fare ordine nella mia mente, dovevo calmarmi e cercare di ragionare con lucidità.
La prima cosa da fare era trovare gli altri. Non avevo idea di dove fossero, né se si trovassero tutti insieme.. ma soprattutto non sapevo se erano ancora vivi. Con quei orrendi mostri in giro per la nave non ne potevo essere certa.
Un singhiozzo mi scosse da capo a piedi. Singhiozzai ancora, ancora e ancora, mentre delle grosse lacrime iniziarono a rigarmi il viso.  Il solo pensiero di rimanere sola mi distruggeva, mi corrodeva l’anima. Non volevo credere che gli altri erano morti, ma in quel momento non riuscivo a togliermi quel tremendo pensiero dalla testa. Io ero riuscita a salvarmi, ma ancora mi chiedevo come avessi fatto. Ero ancora viva, avevo ancora una possibilità di cavarmela.. ma rimaneva comunque il fatto che ero sola e gravemente ferita. Il tremendo taglio che mi ero procurata non so come alla scapola sinistra, il quale aveva tutto l’aspetto di una pugnalata inferta malamente di striscio, continuava a pulsare e se non lo avessi medicato al più presto avrebbe di certo fatto infezione, complicando ulteriormente la mia situazione.
Riaprii gli occhi pieni di lacrime guardando il muro di fronte a me, poi spostai lo sguardo alla mia sinistra lungo il corridoio.
Dovevo reagire. Dovevo, altrimenti non sarei mai sopravvissuta. Non potevo essere l’unica superstite su quella maledetta nave, era impossibile. Doveva esserci qualcun altro.
Aggrappandomi nuovamente al bordo della credenza mi rialzai in piedi traballando leggermente. La ferita alla scapola sembrò scoppiare per lo sforzo, procurandomi un dolore acuto e pungente che mi costrinse a rimanere per alcuni secondi con il busto piegato dal male. Respirai a fondo, dopodiché premetti la mano destra sulla ferita, cercando di alleviare un po’ quel tremendo fastidio che essa mi procurava.
Alzai lo sguardo verso il fondo del corridoio, puntando la porta che si trovava appunto al termine di esso. Con tutta la forza che riuscii a trovare mi staccai dalla credenza e iniziai a camminare. Non badai al dolore, non badai alla paura, non badai all’angoscia. Dovevo assolutamente trovare qualcuno. Dovevo sopravvivere.
 
 
 
***
 
 
 
I corridoi che percorsi sembravano tutti uguali, ma più che sembrare pensai che lo fossero veramente. La solita carta da parati marroncina a motivi floreali sembrava ripetersi all’infinito, interrotta alla volte da qualche strappo e da qualche macchia ambigua. Ero quasi certa che quelle macchie fossero sangue; non sapevo spiegarmi il perché, ma dopo quello che mi era accaduto mi sembrava di vedere sangue ovunque.
I corridoi avevano diverse porte sia a destra che a sinistra, la maggior parte chiuse. Provai ad aprirle tutte, con la mano tremante che si appoggiava su ogni pomolo girandolo con timore, chiedendomi ogni volta se qualche altro mostro mi sarebbe saltato addosso. Le poche porte aperte che trovai rivelarono perlopiù sgabuzzini pieni di cianfrusaglie e qualche altra stanza simile a quella dove mi ero ritrovata rinchiusa io. Sbirciai dentro ad ogni porta, chiamando il nome dei miei compagni a bassa voce. Nessuno rispose, tutte le stanze erano vuote. Di certo non mi ero presa la briga di esplorarle per bene, ma era evidente che non c’era anima viva. Continuai così, ad esplorare infiniti corridoi per non so quanto tempo. Quel luogo faceva perdere la cognizione del tempo, l’orientamento, la percezione dei rumori.. tutto. Più volte mi era sembrato di udire porte che si chiudevano, sussurri ovattati, e rumore di passi al piano superiore. Non riuscivo a capire se quello che sentivo fosse solamente frutto della mia immaginazione o meno, ma dopotutto quei rumori mi riaccesero una piccola speranza di non essere sola su quella nave. Certo, avrebbero potuto benissimo essere quelle orrende bestie che scorrazzavano in giro, ma volevo credere che qualcuno di umano ci fosse ancora.
Dopo aver perso il conto dei corridoi che avevo percorso e delle porte che avevo aperto, mi ritrovai di fronte ad una grata, o meglio, ad un uscio formato da pesanti sbarre di legno che permettevano di vedere l’interno della stanza. Non appena notai la stana porta in fondo al corridoio mi bloccai sbarrando leggermente gli occhi. Non si udiva alcun rumore e all’apparenza sembrava non esserci nessuno.
Mi avvicinai di qualche passo, sfiorando la parete destra con la mano e cercando di respirare il più silenziosamente possibile. Ora che mi ero avvicinata potevo scorgere alcune porzioni della stanza: un tavolo rovesciato, alcune sedie sgangherate e degli scatoloni riposti sul fondo. Mi bloccai per alcuni secondi, allungando leggermente il collo per vedere meglio. La porta infatti era sì in fondo al corridoio, ma quest’ultimo girava poi bruscamente verso sinistra, formando un angolo cieco oltre al quale non riuscivo a vedere.
Nonostante avessi il cuore in gola, mi feci forza. Di certo non sarei potuta rimanere lì ferma a vita. Con passi lenti ed incerti raggiunsi finalmente le grate della porta e, dopo aver controllato che non ci fosse nessuno oltre il muro dove il corridoio faceva angolo, mi dedicai completamente ad esplorare con lo sguardo la stanza dietro le sbarre. La stanza era molto piccola e notai nuovamente gli oggetti che avevo visto poco prima da lontano. Sembrava una piccola prigione ma al suo interno non c’era alcun indizio rilevante che provasse questa mia teoria.
Fu proprio quando stavo per passare oltre che notai un piccolo luccichio in fondo alla stanza, sopra uno degli scatoloni che erano stati ammassati contro il muro. Afferrando una sbarra con la mano sinistra avvicinai il viso alle fessure formate dalle grate di ferro per vedere meglio.
Una pistola.
Appoggiata sopra ad uno degli scatoloni in fondo alla stanza c’era una pistola.
Estremamente sorpresa, rimasi alcuni secondi a fissare l’arma. Sarebbe potuta appartenere a chiunque, ma di sicuro non ad uno di quei orrendi mostri che avevo incontrato. Quegli esseri non mi sembravano in grado di impugnare un’arma, soprattutto per il fatto che non avevano mani.. o meglio, le avevano ma non erano esattamente come un paio di mani umane.
Staccai gli occhi dalla pistola per alcuni secondi, guardandomi attorno. Dopodiché tornai a fissare l’arma. Non avevo mai sparato in vita mia e non avevo benché la più pallida idea di come funzionasse una pistola. L’avevo vista impugnare solamente nei film d’azione oltre che non averne mai vista una dal vivo.
Riflettei veloce. Le armi non mi piacevano, erano pericolose e potevano uccidere. Però era anche vero che in quella circostanza rischiavo io di venire uccisa se non mi fossi difesa adeguatamente. Avrei potuto usarla solamente per intimidire, non ero per forza obbligata a premere il grilletto. Anche se, riflettendoci bene, non ero certa che quelle bestie orrende si sarebbero fermate vedendo una pistola che le teneva sotto tiro..
Scossi leggermente la testa e non pensai più. Afferrai la maniglia della porta e la abbassai con vigore, dopodiché spinsi. Con mio grande stupore la porta si aprì con un cigolio fastidioso; non mi sembrava vero che fosse aperta.
Entrai nella stanza e, una volta che mi fui avvicinata allo scatolone posizionato sul fondo, afferrai la pistola con delicatezza. Era pesantissima oltre che particolarmente scomoda da impugnare e con titubanza iniziai a rigirarmela tra le mani con estrema cautela per paura di far partire un colpo. Non sapevo se fosse carica e nemmeno se avesse la sicura o meno, ma poco importava. Ora avevo un’arma e questo migliorava lievemente la mia situazione.
Senza pensarci troppo uscii dalla piccola stanza con la pistola in pugno, percorrendo il pezzo di corridoio che non avevo ancora esplorato. Oltrepassai  diversi ingressi e altri corridoi interminabili finché non mi ritrovai davanti ad una porta alquanto particolare. Era molto grande, formata praticamente da due ante di un marroncino chiaro ma splendente al tempo stesso. Sembrava l’entrata di una qualche sala particolare, come per esempio una sala da ballo o una sala da pranzo molto ampia. Mi ricordava terribilmente l’entrata della sala da pranzo del film “Titanic”, anche se quella, a dire la verità, aveva delle vetrate sulla superficie, mentre questa no. Non rimasi troppo tempo a fissarla e decisi di oltrepassarla. D’altra parte non avevo nessuna intenzione di tornare indietro, quindi non avevo altra scelta.
Con la pistola nella mano destra e la mano sinistra tremante appoggiata sulla maniglia di una delle due ante della porta aprii lentamente l’uscio, sbirciando poi all’interno della piccola fessura che si era formata. Uno spettacolo che mai mi sarei immaginata di vedere si parò davanti ai miei occhi quasi con una delicatezza innaturale. I miei occhi scuri si posarono su decine, centinaia di libri riposti con cura sopra degli scaffali nemmeno troppo alti e corrosi dal tempo. Un profumo a me famigliare e assolutamente gradito di carta e di libri giunse alle mie narici, facendomi dimenticare per alcuni secondi l’orrenda situazione in cui mi trovavo.
Una biblioteca.
Entrai nella stanza richiudendomi la porta alle spalle e abbassando la pistola. Quasi non mi sembrava vero: quel posto era così bello e misterioso tanto da sembrare irreale. La stanza era particolarmente scura, eccezione fatta per una piccola abat-jour accesa, riposta su uno scrittoio in fondo al corridoio centrale della biblioteca. Non riuscivo a scorgere bene i particolari di quel posto: mi sembrava di essere in una delle tante biblioteche perdute che avevo letto nei racconti di fantasia quando ero piccola. Feci alcuni passi avanti, avvicinandomi ad uno dei primi scaffali. Sollevando la mano sinistra sfiorai con delicatezza il dorso dei volumi riposti negli scaffali, percependo all’istante un lieve strato di polvere sopra di essi. Nessuno li leggeva da molto, troppo tempo. Sempre con  il dito indice posato sul dorso del primo libro iniziai a camminare, sfiorando così ogni singolo volume. Mi sembrava quasi un sacrilegio abbandonare dei manoscritti in una scura biblioteca di una nave.
Camminai fino alla fine dello scaffale sfiorando ogni singolo libro finché non raggiunsi lo scrittoio che avevo visto poco prima. Posai i miei occhi scuri sulla abat-jour accesa e con una mano ne toccai leggermente la lampadina. Mi bastò qualche secondo per sentirne la temperatura, dopodiché ritrassi la mano. Non era calda e questo significava che era stata accesa da veramente poco tempo. Spostai lo sguardo su di un foglio bianco che era stato lasciato al di fuori del fascio di luce della abat-jour e solo dopo averlo preso in mano mi accorsi che sopra qualcuno aveva scritto delle parole.
 
 
Jaiden,
la squadra di ricognizione è salita a bordo della nave la scorsa notte. Sono stati più veloci del previsto e proprio per questo dobbiamo accelerare i tempi. Ne ho contati otto per ora: tre uomini e tre donne credo siano militari o qualcosa di simile, mentre gli altri due, un uomo e una donna, appartengono a qualche altra organizzazione. Il problema sono proprio questi ultimi due: l’uomo non l’ho mai visto, ma la donna sono quasi certa che sia una delle due donne sopravvissute di Raccoon City, la sorella di quell’agente. Jaiden, sono certa che sia lei! E sai anche tu che questo è un bel problema.. Quella donna sa troppo e sarebbe capace di mandare all’aria tutto il nostro progetto.
Incontriamoci sul ponte di passeggiata insieme agli altri. Le chiavi della porta sono al solito posto.
Dimenticavo, quel gruppetto di inutili civili lo ha sistemato Tanner. Se non sono già morti lo saranno fra poco, quindi non ci daranno più problemi.
Ti aspetto alle 10. Occhio alle B.O.W., ne abbiamo sguinzagliate un po’ tra gli alloggi dei passeggeri.
 
Sami
 
Lessi il messaggio scritto a mano con il cuore in gola. Non sapevo se essere felice o no per il fatto di aver scoperto che sulla nave c’erano altre persone umane. Quel messaggio non mi sembrava particolarmente di buon auspicio, oltre che essere abbastanza angosciante. Ero quasi certa che fosse stato scritto da una donna vista la calligrafia e soprattutto per il fatto che continuava a ripetere “sono certa”. Sì, quel messaggio era certamente stato scritto da una donna. Oltretutto il nome Sami non mi sembrava molto adatto ad un uomo..
Rilessi velocemente il messaggio, questa volta soffermandomi su alcune parole che mi erano saltate subito all’occhio durante la prima lettura. Non sapevo esattamente il perché, ma questi tre tizi, Jaiden, Tanner e Sami, non mi sembravano del tutto apposto. A quanto pareva avevano un progetto da portare a termine e la preoccupazione di questa Sami per l’arrivo dei militari mi suggeriva che molto probabilmente quello che stavano facendo non era del tutto legale.
La mia attenzione venne anche attirata dalla citazione della città di Raccoon City. Più volte, quando ancora andavo a scuola, avevo studiato la storia di quella sfortunata città che era stata distrutta il primo ottobre di parecchi anni prima. Non ricordavo mai l’anno esatto, ma ero sicura che fosse attorno alla fine degli anni Novanta. A dir la verità non ricordavo nemmeno il perché fosse stata distrutta, ma poco importava. La cosa che importava era il fatto che qualcuno sopravvissuto alla distruzione di quella città ora si trovava sulla nave e poteva intralciare il progetto di questa Sami e dei suoi amichetti.
La cosa che però mi aveva turbato realmente era stata la menzione del “inutile gruppetto di civili”. Io, Shane e gli altri non eravamo né militari, né gente che doveva portare a termine un progetto.. chi potevano essere i civili se non noi?
Stavo ancora ragionando su quell’assurdo messaggio quando un urlo quasi disumano squarciò il silenzio della biblioteca. Feci un balzo dall’enorme spavento e poi mi girai verso l’entrata della stanza puntando la pistola davanti a me con mano tremante. L’urlo spezzò ancora una volta il silenzio della stanza, seguito poi da una richiesta d’aiuto fatta con voce disperata.
Con il respiro corto e la pistola spianata feci guizzare velocemente gli occhi da una parte all’altra della stanza, ma solo dopo aver udito l’urlo per la terza volta realizzai che esso proveniva da un’altra stanza.
Ero completamente terrorizzata e confusa. La voce maschile che urlava e chiedeva aiuto mi faceva accapponare la pelle e non accennava a fermarsi. Il cuore minacciava di esplodermi nel petto e sentivo già le lacrime pizzicarmi gli occhi.
Cosa dovevo fare? Qualcuno stava disperatamente implorando aiuto da qualche parte poco distante da me. Urlava, continuava ad urlare, come se lo stessero sbranando. Cosa stava succedendo?
Il mio pensiero si rivolse ancora una volta all’orrenda creatura che aveva tentato di uccidermi poco prima.. no, non potevo rischiare di farmi uccidere, non potevo..
Abbassai la testa chiudendo gli occhi e stringendoli con forza. Delle grosse lacrime iniziarono a rigarmi le guance. Cosa avevo fatto di male per meritarmi tutto questo? L’urlo disumano continuava a squarciare ritmicamente il silenzio di quel maledetto posto, rimbombandomi nella testa con violenza. Chiunque fosse l’uomo che stava urlando aveva bisogno di aiuto. Mi era sempre stato insegnato ad aiutare il prossimo, ma non fino a questi limiti. Avrei dovuto uccidere qualcuno se fossi andata a soccorrere l’uomo che urlava e chiedeva aiuto? Poteva essere. Sarei stata capace di uccidere qualcuno? No, non sarei stata capace. Ne ero certa. Non sarei mai riuscita ad uccidere nessuno.
Alzai il viso, tornando nuovamente con lo sguardo verso la porta d’entrata della biblioteca. Sarei riuscita a convivere con l’idea che avrei potuto salvare la vita di qualcuno ma non l’avevo fatto? Mi bloccai, con la bocca leggermente aperta e gli occhi colmi di lacrime. Conoscevo benissimo la risposta, la conoscevo fin troppo bene.
Singhiozzai per l’ultima volta, dopodiché mi asciugai le lacrime con mano tremante. Piegai alla bell’e meglio il messaggio che avevo trovato sullo scrittoio e me lo misi nella tasca destra dei leggins. La mia mano destra strinse con violenza l’impugnatura della pistola tanto da sentire male alle dita della mano.
No, non avrei mai potuto convivere con la consapevolezza di aver lasciato morire un uomo.
Feci un bel respiro e, con ancora gli occhi umidi di lacrime, iniziai a correre nella direzione della voce che urlava e chiedeva disperatamente aiuto.

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Capitolo 3
*** III ***


3.
 
Più mi avvicinavo, più le urla disperate dell’uomo si facevano acute. Non avevo idea di dove mi trovassi, ne se avessi percorso corridoi che avevo già esplorato in precedenza. Una volta che mi ero precipitata fuori dalla biblioteca avevo cercato di orientarmi, ma man mano che le urla dell’uomo diventavano più forti io continuavo a correre senza prestare troppa attenzione a quello che stava attorno a me.
La ferita alla scapola sinistra continuava a pulsare violentemente, provocandomi dei dolori lancinanti, aggravati oltretutto da tutti i miei muscoli tesi nel tentativo di impugnare saldamente la pistola. Quella maledetta arma pesava come un macigno e ogni volta che abbassavo leggermente lo sguardo per intravederla mi chiedevo se fossi stata veramente in grado di usarla.
Sbucai in un lungo corridoio malamente illuminato e senza alcun ingresso sui lati. Circa a metà di esso si trovava una massiccia cassapanca in legno logora, mentre sul fondo c’era una porta socchiusa. Ora le urla si sentivano distintamente: terrificanti, si facevano largo nel corridoio smorto con orrenda insistenza. Ora che ero vicina, oltre alle urla riuscii a sentire dei versi strani, sommessi, gorgoglianti..
La pistola alzata e puntata verso la porta socchiusa tremava vistosamente. Il mio respiro era corto, ma allo stesso tempo rumoroso e opprimente. Le lacrime si erano ormai seccate all’interno dei miei occhi, lasciando spazio ad una paura folle, che mai mi ricordavo di aver mai provato.
Le urla mi spinsero a camminare verso l’uscio, come se le mie gambe non fossero collegate al cervello, ma si muovessero per contro proprio. Una parte di me voleva scappare lontano da quel posto, lontano da tutto quell’orrore. Volevo nascondermi e non vedere più nessuno, volevo nascondermi per sempre, fino alla fine.. Però i miei muscoli carichi di adrenalina volevano il contrario: volevano muoversi verso quella maledetta porta per permettermi di guardare oltre, per vedere cosa stava succedendo. Senza rendermene conto mi ritrovai a pochissimi passi dall’uscio socchiuso e fu proprio nel momento in cui mi decisi ad aprire del tutto la porta che il rumore violento di uno sparo mi fece bloccare all’istante. Poi, all’improvviso, calò il silenzio. Un silenzio grave, assordante, carico di tensione e di morte. Me ne stavo con la pistola tremante puntata verso la porta e la mano sinistra ferma a mezz’aria, indecisa sul da farsi.
- Sono fottuto.. merda, sono fottuto.. - una voce maschile roca e flebile giunse alle mie orecchie. Poi, un alto urlo, questa volta meno acuto. - Oddio, oddio! - l’uomo ansimava rumorosamente, la sua voce era carica di dolore e disperazione. Molto probabilmente era ferito.
Avevo gli occhi chiusi quando spinsi la porta della stanza, la quale si aprii con un fastidioso cigolio. Subito un odore fortissimo di sangue mi pervase le narici rischiando di farmi perdere i sensi. Quando i miei occhi si aprirono uno spettacolo rivoltante si presentò davanti a me. Una di quelle orrende creature, uguale a quella che aveva attaccato me, era riversa a terra a pancia in giù circondata da un lago di sangue. Per una frazione di secondo sentii il cuore fermarsi, gli occhi sbarrati in uno sguardo di terrore.
- Ferma!
Mi girai di scatto in direzione della voce puntando la pistola. Poco distante dall’orrenda creatura apparentemente morta c’era un uomo. Stava seduto a terra, con la schiena appoggiata ad uno scaffale pieno di libri. Era alquanto messo male: i suoi vestiti strappati lasciavano intravedere profonde ferite nella carne viva, dalla quale uscivano copiosi rivoli di sangue. Lo guardai meglio in viso, anch’esso tumefatto e pieno di tagli,  e constatai di non averlo mai visto prima in vita mia.
- Non avvicinarti! - disse nuovamente l’uomo con un tono di terrore nella voce.
Solo in quel momento, osservandolo meglio, mi resi conto che anche lui impugnava una pistola ma non la stava puntando contro di me. La teneva solamente stretta nella mano destra, appoggiata sul pavimento.
- Chi sei? - chiesi con il respiro corto. La mia pistola continuava a tenere l’uomo sotto tiro, ma lui non sembrava nemmeno essersene accorto.
- Devi andartene, subito! - l’uomo aveva uno sguardo terrorizzato, gli occhi sbarrati iniettati di sangue.
- Lei ha bisogno di aiuto! - dissi alzando leggermente la voce per l’agitazione.
L’uomo mi fissò per alcuni secondi in silenzio, con la bocca lievemente aperta. - Ti hanno morsa? - chiese poi.
Lo guardai senza capire. - Cosa?
- Quelle creature! Ti hanno morsa? - notai che l’uomo stava fissando la mia ferita alla scapola sinistra.
Abbassai a mia volta lo sguardo verso il tremendo taglio che avevo sulla scapola, dopodiché tornai con lo sguardo sul tizio. - Non è un morso, non credo. - risposi confusa.
- Allora come te lo sei procurato quel taglio?
- Io.. - le parole mi si fermarono in gola per alcuni secondi - ..io non lo so.
- Come puoi non saperlo? -  l’uomo urlò, come in preda ad un attacco d’ira improvviso.
Feci un passo all’indietro, continuando a tenere l’uomo sotto tiro. - Lei ha bisogno di aiuto. - dissi scandendo le parole con tono grave - Posso andare a cercare qualcuno che possa aiutarla.
- Non c’è più nulla da fare ormai, sono spacciato. - l’uomo scosse leggermente la testa, dopodiché lasciò la presa sulla pistola che teneva nella mano destra. Vedendo l’azione dell’uomo provai un impulso di abbassare l’arma a mia volta e così feci.
- No, non è spacciato. Può ancora farcela. - dissi facendo un passo avanti e protendendo la mano sinistra verso di lui. Però, non appena mi mossi, l’uomo sembrò nuovamente preso da un attacco d’ira.
- Non avvicinarti! Stai indietro! - urlò con gli occhi sbarrati. Non fece nemmeno in tempo a finire la frase che qualcosa lo scosse da capo a piedi. L’uomo ricominciò ad urlare in preda al panico e qualcosa in lui iniziò a mutare. Il suo braccio destro prese a tremare, prima lentamente, poi sempre più velocemente. Del sangue iniziò a colare dalle maniche strappate della maglia che portava, mentre qualcosa di appuntito iniziò a spuntare dalla carne viva del braccio. Le urla di dolore dell’uomo coprivano l’orrendo rumore della carne che si lacerava con una lentezza quasi diabolica.
Un conato di vomito improvviso mi riscosse da quella terribile visione e istintivamente tornai a puntare la mia pistola verso l’uomo.
- Cosa le succede? - esclamai in preda al panico.
L’arto dell’uomo continuava a mutare: la carne si lacerava, il sangue scendeva copioso, le ossa si deformavano, mentre le urla del malcapitato continuavano a pulsarmi in testa.
Ad un certo punto quella specie di mutazione orribile sembrò arrestarsi. L’uomo lasciò cadere la testa in avanti, ansimante ed esausto. Il respiro del poveretto, rauco ed affaticato, rimbombava nella stanza con insistenza.
- Devi uccidermi. - la voce dell’uomo uscì gracchiante, quasi inumana.
Sbarrai leggermente gli occhi, incapace di elaborare ciò che avevo appena visto e sentito. Vedevo la canna della mia pistola tremare furiosamente e più cercavo di tenere la mano ferma, questa sembrava traballare ancora di più.
- Non ho scelta, non hai scelta. Devi uccidermi. - l’uomo alzò la testa con lentezza, fissandomi negli occhi. Gocce di sudore e sangue li imperlavano il viso, gli occhi chiari circondati da spesse occhiaie viola.
- Io.. io non posso. - un violento singhiozzo mi scosse da capo a piedi e ancora una volta le lacrime tornarono ad inondarmi il viso.
- Come ti chiami? - chiese all’improvviso l’uomo con le labbra piegate in un sorriso paterno.
Lo guardai confusa e terrorizzata al tempo stesso. - Élise. - risposi con voce flebile.
- Élise.. - ripeté l’uomo - un bel nome.
Il cuore minacciava di esplodermi nel petto, mentre le lacrime mi offuscavano la vista. Non sapevo cosa dire, ma soprattutto non sapevo cosa fare. Perché quell’uomo voleva che mettessi fine alla sua esistenza?
Il poveretto si mosse leggermente, alzando leggermente il busto. - Sei una ragazza giovane, Élise, ma anche matura. Quanti anni hai?
Sgranai leggermente gli occhi, incredula. Dove voleva arrivare quell’uomo con quella sottospecie di interrogatorio?
- Mi ascolti, - iniziai tra i singhiozzi - adesso lei rimane qui tranquillo e io vado a cercare aiuto, d’accordo? Vedrà che si rimetterà.
L’uomo sembrò non sentirmi nemmeno. - Quanti anni hai, Élise?
Lo guardai, completamente confusa. Qualcosa nello sguardo di quell’uomo mi diceva che lui sapeva esattamente cosa stava facendo, sapeva a che cosa era destinato. Lui sapeva e ne era perfettamente consapevole.. e forse era proprio questo che mi spaventava di più di lui, di quello sguardo spento e rassegnato.
- Ventisei. - risposi con voce fredda senza quasi rendermene conto.
- Ventisei… - ripeté l’uomo ancora una volta. La sua voce stava mutando, prendendo una piega quasi metallica - Dimenticherai in fretta, sei ancora giovane.
Scossi la testa, sbattendo più volte gli occhi per liberarli dalle lacrime. - Non posso ucciderla. - dissi con la voce spezzata dal pianto.
- Devi, non hai.. - l’uomo si interruppe bruscamente, riprendendo ad urlare. La mutazione ricominciò, con orrore e diabolica lentezza.
Feci un altro passo indietro, posizionando il dito indice sul grilletto della pistola. Quello a cui stavo assistendo era qualcosa di orribile, inumano, ingiusto. Le grida di dolore dell’uomo sembravano provenire dall’inferno. La carne continuava a lacerarsi, il sangue a scorrere, il corpo a mutare.
Ad un certo punto la mutazione si bloccò nuovamente, lasciando ancora una volta l’uomo ansimante e senza forze.
- Élise, ascoltami bene.. - la voce metallica del malcapitato sembrava provenire da un altro pianeta - Devi scappare da questa nave. Devi fuggire da qui se vuoi avere salva la vita.
- Come..? -la mia voce uscì flebile, senza che me ne rendessi conto. Non avevo più il controllo del mio corpo e men che meno della mia mente. Mi sentivo quasi estranea, non riuscivo quasi a riconoscermi.
- Scappa, Élise. Tieniti lontana dalle bestie, non farti mordere né graffiare. Se questi esseri ti feriranno diventerai anche tu una di loro. - l’uomo venne interrotto da un rauco colpo di tosse, poi riprese con estrema fatica. - Se vuoi sopravvivere dovrai uccidere, prima o poi. Ricordati, mira sempre alla testa e non esitare mai. Loro non esitano.
All’improvviso il corpo dell’uomo venne come preso da una scossa improvvisa. La mutazione riprese il suo corso, accompagnata dalle tremende urla dell’uomo la cui voce aveva ormai perso ogni traccia umana.
Iniziai ad indietreggiare, terrorizzata, incredula, di fronte all’orrore a cui stavo assistendo.
- Scappa, Élise! Scappa! - l’ultimo barlume di umanità dell’uomo finì con quella frase, implorandomi di scappare, implorandomi di salvare la mia giovane vita.
Iniziai a correre, accompagnata dalle urla metalliche dell’uomo, uomo che ormai di umano non aveva più nulla. Corsi, corsi fino a sentirmi morire, corsi fino a che le mie gambe non cedettero dal dolore, corsi fino a che il respiro non mi si bloccò nel petto, corsi fino a quando non vidi più nulla attraverso le mie iridi appannate dal pianto. Corsi fino a quando non udii più le urla della bestia che quell’uomo era diventato.
Poi vomitai. Il mio corpo si svuotò, si liberò completamente. La paura, il panico, l’angoscia, l’orrore.. buttai fuori tutto con violenza, piangendo come una bambina piccola.
Sentivo il freddo dell’impugnatura della pistola sul palmo della mia mano, i capelli lunghi riversi sul viso, i muscoli delle gambe indolenziti, il respiro bloccato nel petto, il cuore in gola.
Poi, più nulla. Niente più sensazioni, suoni, colori, rumori.
- Scappa, Élise! Scappa!
Élise, scappa…

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