Falive

di marani
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Falive - Weinnachtentee ***
Capitolo 2: *** Gli Ostiglia - Gli Anelli ***
Capitolo 3: *** Corrado Fornaser - Guido Mali ***
Capitolo 4: *** Analgesico - Ricordi taglienti ***
Capitolo 5: *** Il commercialista - Lo spavento ***
Capitolo 6: *** Efrem/papà - Alberissiu ***
Capitolo 7: *** Pensieri - Primi arrivi - Colpi di fulmine ***
Capitolo 8: *** Tè di Natale/Cioccolata - Prima cena ***
Capitolo 9: *** Il sonetto - Prima di dormire ***
Capitolo 10: *** Risvegli - Telecomandi - Sacrifici ***
Capitolo 11: *** Sveglia - Baci mattutini - Sotto la pioggia ***
Capitolo 12: *** Spettinato - Balbettìo - Telecamere ***
Capitolo 13: *** DJ Peppe - Legnaia - Corn flakes ***
Capitolo 14: *** Treni - Automobili - Tronchi ***
Capitolo 15: *** Chiacchiere - Risate - Frutta secca ***
Capitolo 16: *** Animali - Farfalle - nonna vecchia ***
Capitolo 17: *** Brazil - Perquisizione - Calo di peso ***
Capitolo 18: *** Sonnolenze - Sveglie - Sparizioni ***
Capitolo 19: *** SMS - Foglietti - Passo di Carhadas ***
Capitolo 20: *** Diario - Cioccolato ***
Capitolo 21: *** Gelo - Poirot - Orecchie ***
Capitolo 22: *** L'Impresa - Qualcosa va storto - L'inganno ***
Capitolo 23: *** Consulto - Lorigo - Mao ***
Capitolo 24: *** Scossa - Bacio ***
Capitolo 25: *** Analge-gesico ***
Capitolo 26: *** Chiacchiere notturne ***
Capitolo 27: *** Gero il cammamellone ***



Capitolo 1
*** 1. Falive - Weinnachtentee ***


Scinti
Falìve

Vedo amici tenersi per mano,
e dirsi “Come stai ?”
ma in realtà loro dicono “Ti amo”
Sento bambini piangere, io li vedo crescere
Loro impareranno molto più di quello che io so
E penso tra me, che mondo meraviglioso
Sì, penso tra me, che mondo meraviglioso
       
Louis Armstrong, What a wonderful world

Here  weare as in olden days,
happy golden days of yore,
Faithful friends who are dear to us
Gather near to us once more
       
Babyface, Have yourself a merry little Christmas

Un fiocco di neve.
E’ bastato solo un minuscolo, volteggiante fiocco di neve (quelli che da piccola mi ostinavo a chiamare piotto, nonostante i bonari tentativi di correzione di mia madre e delle signorine del­l’asilo). Scendeva giù pigro e lento e ostinato da un cielo livido come una lastra di piombo, nell’attimo esatto in cui mi chiudevo la zip del cappotto per contrastare il gelido toc­co di gennaio… mi sarebbe venuto da dire “gennarino”, come si usa dicembrino o settembrino, ma un secondo prima di approvarne l’uso mi ha dato l’impressione di non suonare poi co­sì bene. Da rivendita di pizza al taglio, per capirci…non vi pare? Comunque, stavo dicendo?
Già. E' il solito, inguaribile vizio (uno dei) di infiorare all’estremo i miei pensieri, prima di for­mulare concetti definitivi, quasi come se traessi sommo piacere, da questo mio personale i­­ke­bana mentale. Solo che poi rischio di perdere il filo. Dunque, vediamo se mi riesce, per qualche istante almeno, di focalizzare il punto. Magari ricorrendo ad una concisione mi­ni­ma­­li­sta. Allora… fiocco di neve
(o piotto, come ero solit… Alt, FERMA LI’!)
uguale Natale.
Quello strano Natale.
Mi bloccai impalata sul marciapiede, sfiorata da fugaci passanti intabarrati in sciarpe e cap­pelli e pesanti paltò, con la testa e le speranze già al tepore delle loro destinazioni. Dietro di me una targa lucida confermava autoritaria la presenza dello studio medico da cui ero appena uscita. “Dottoressa Zuleika Carnarollo - gi­­necologa”, ammonivano seriose le parole incise nell’ottone. Originale, come nome di battesimo, soprattutto per una seria specialista, non trovate? O perlomeno a me ha sempre dato una strana impressione, fin dal primo momento in cui una cara amica me l’ha consigliata. Cer­ta che mi sarei trovata bene e a mio agio (e ci aveva visto giusto, per quanto “a proprio agio” ci si possa sentire al cospetto di un estraneo il cui compito preveda, a volte, di infilarti dita in po­sti non troppo - o non sempre, dipende dai gusti - graditi). Col tempo e la fiducia e la serenità che la mia “gine” ha saputo trasmettermi sono riuscita a sorvolare sul suo poco ortodosso nome proprio, anche se mi rimane sempre la bizzarra convinzione che si adatterebbe di più a maneggi con sfere di cristallo e tarocchi e pietre divinatorie. “Dalla magica Zuleika, pre­visioni astrologiche e pap-test e lettura del futuro nei fondi di caffè”.
Ad ogni modo ero appena uscita dal suo confortevole studio, cullata dalla rasserenante con­fer­ma che “tutto procedeva per il meglio” (e se qualcuno sostiene che esiste qualche frase più ras­sicurante del “va tutto bene” del proprio medico curante… beh, egli parla con lingua bi­forcuta) E l’allettante obiettivo di scaldarmi piedi e stomaco davanti ad un buon cappuccino schiumoso, e relativa brioche alla crema... quand’ecco che quell’insignificante piotto di ne­ve arriva a incrociare il mio sguardo e la mia strada. Spalancando un’ipotetico portone dietro cui scalpitavano, a mia insaputa, qualcosa come un cen­tinaio di ricordi, che non si fecero certo pregare per invadere al galoppo le praterie della mia testa.
E’ strano, pensai (ma su questo ci riflettei un po’ più tardi, mentre mescolavo con voluttà la spruzzata di candida panna lascivamente adagiata sul mio cappuccino, spaparanzata come una principessa sulle confortevoli panche di una pasticceria… panna, sì, embè? Di qualcosa bisogna pure morire, no?). E’ strano, dicevo, e buffo e pure un po’ in­quietante l’anarchico meccanismo con cui le cose passate ci tornano alla mente. Soprattutto in questa nostra epoca sempre più frenetica e senza pause, bombardati da un miliardo e mezzo di informazioni, la maggior parte delle quali inutili, dalle baruffe dei politici a quale de­­tersivo “lava sì ma anche pulisce e deterge e sbianca e fa di conto”. Succede, ad esempio, e non ci si può fare niente, che quello che non sia in potere ad innumerevoli Natali passati, non ul­­timo quello trascorso da non più di una decina di giorni, col suo ridondante bagaglio di luci e alberi e musichette e carta da regalo, riesca altresì ad un minuscolo ed effimero cristallo di acqua congelata. Eppure è così. O forse è proprio così che deve andare. Ai ricordi, perlomeno a quelli così importanti da essere dimenticati (afferrata la finezza filosofica da tavolino di bar?), come ai raffreddori, bisogna essere predisposti, magari anche un po’ debilitati, e zac che te lo becchi tra capo e collo. Il ricordo è lo starnuto dell’anima…, bello, no? Potrebbe essere un’efficace frasetta su uno di quei bigliettini da cioccolatino, tipo quello che mi hanno elegantemente servito sul piattino (certo che mi pappo anche questo, e che credete? E poi, come dicono quelli che parlano forbito, ne ho ben donde…). In ogni ca­so mi ritornò tutto alla mente...venne a galla, per così dire...  riguardo quei giorni trascorsi a ca­vallo del 25 dicembre. E relativi accadimenti.
Ci sarebbero altri due particolari da pre­mettere. Uno sul motivo della mia visita ginecologica, e il secondo su una scoperta fatta questa mattina, subito dopo essermi alzata per portare da mangiare a Bigolo, il nostro cucciolo. Mmh, sì, lo so, non è un gran nome, e non fa­rebbe certo gran effetto ad una rassegna canina, ma a me e mio marito è venuto di getto, fa­cendoci rotolare sul tappeto per le risate, e a parziale discolpa va tenuto presente che è di raz­za beagle… Ma comunque, tornando a bomba, vi dirò di più: la cosa che ho trovato nel­l’an­golo del giardino, mentre il gelo del mattino invernale mi mordeva un pezzo scoperto di ca­viglia (ero uscita in giardino in ciabatte...), avrebbe dovuto far suonare fantastiliardi di campanelli nella mia testaccia. E invece l’ho visto e l’ho fissato e non mi ha detto niente, mo­strandosi per quello che… sembrava essere (un po’ di pazienza, ha un senso, anche se non pa­re, questa mia delirante reticenza). Ha dovuto intervenire sorella neve, affinchè i circuiti del ricordo scattassero nella giusta sequenza. Alla luce di tutto quello che …non ho detto, pen­so quindi che delibererò di mettervene a parte alla fine. Perché un conto è valutare al termine di un racconto se la narratrice è matta come un cavallo, con tutti gli elementi in mano, per così dire, e un altro è starsene ad ascoltarla con orecchio imparziale dopo che ha sparato le cartucce migliori (e più ostiche da bersi tutte d’un fiato, a differenza del delizioso cappuc­ci­no che ho davanti).
Decisamente nebuloso, come esordio? Sono d’accordo, ma spero nel contempo che possiate tro­­varlo anche un po’ intrigante. E’ una storia, tutto qui, e mi piacerebbe che la ascoltaste, che vi faceste un’opinione su quello che è successo. Anche se da un certo punto di vista si po­treb­be affermare che non è successo niente di speciale. Ad ogni buon conto, il racconto po­trebbe in­cominciare da una sequenza d’apertura, come nei film. L’immagine di una casetta di cam­pagna, in campo lungo, non troppo grande da poter essere chiamata fattoria, ma carina. Bas­­sa e lunga, a due piani, con porte e finestre dipinte in un suggestivo colore blu, di sapore provenzale. Un breve tratto di cortile ghiaioso va a sfumare, senza soluzione di continuità, nel ver­de stinto e asfittico, dato il periodo invernale, di un prato che curva lieve verso un orizzonte di campi brulli, una specie di burrascoso mare congelato di terra scura e spezzettata. Sul li­mi­tare del cortile, un imponente ciliegio innalza i suoi rami massicci a rigare il cielo plumbeo. Ai suoi piedi, un grosso ceppo posizionato a mò di rustico sedile. Una pioggia fina e gelida rimbalza sulle pietre, sull’auto parcheggiata nei pressi del cancello, sulle tegole lucide del tetto. Avvicinandoci ad una delle finestre, il cui vetro diviso in quattro dall’intelaiatura a cro­ce è impreziosito da una cornice di neve spray, possiamo scorgere all’interno una giovane donna accovacciata sul pavimento di legno…

CAP. 1 - 22 dicembre

Teresa Angeli allungò una mano ad afferrare la tazza posata sul bordo del basso tavolino, soffiandovi dentro distrattamente, anche se la temperatura del liquido contenuto non aveva ormai alcun bisogno di es­sere attenuata. L’aroma del tè si ravvivò, salendo ad accarezzarle le narici con un piacevole e suggestivo profumo di cannella e buccia d’arancio. Ne mandò giù un sorso, trovando conferma al sospetto che quel tipo di miscela sapesse dare il meglio di sé bella calda, perdendo ra­pi­damente gusto e vigore man mano che s’intepidiva. “Weinnachtentee”, le aveva sussurrato com­plice la signora del negozietto di tè, come se la stesse mettendo a parte di un segreto fondamentale per lei e l’umanità tutta, “me lo faccio arrivare ogni anno dal Teeladeen di Monaco di Ba­viera, e qualcuno dei miei clienti sostiene, a ragione, dico io - si esibì in una sussultante risata che le fece vibrare il notevole doppio mento - che non è Natale finchè non se ne gusta una taz­za…”. In effetti il profumo che sprigionava pareva connotare al meglio l’avvicinarsi delle im­mi­nenti Festività, e lei pensò che sarebbe stato bello offrirlo agli altri, come benvenuto, quando sarebbero arrivati lì… magari con qualche tipo di biscotto o di dolce che aveva intenzione di cimentarsi a preparare. Rimirò con sguardo ipercritico il maestoso pino torreggiante su di lei, nell’angolo accanto al caminetto, che stava tentando di addobbare cercando di avvicinarsi più possibile (con risultati non troppo entusiasmanti) a quegli esempi eleganti e raffinati che si vedono sulle pagine di ogni rivista, femminile o maschile o specializzata o chi più ne ha più ne metta, in quel particolare periodo dell’anno. Certo per raggiungere tali risultati coreografici sarebbe occorsa una quantità spropositata di luci e addobbi e decorazioni (che non ve­­nivano certo gratis), considerando per di più l’imponenza di quell’esemplare arboreo pro­cu­­ratole da Efrem, il contadino della fattoria dirimpetto, che fungeva un po’ da factotum…
E quel che è peggio è vivo e vero, niente plastica made in Taiwan, ma rami e foglie e linfa…”, ri­mu­ginò Teresa annusando il piacevole profumo di resina sulle dita, “e già mi sento le filippiche ecologiste di Lucia una volta che l’avrà scoperto…
Quando aveva preso ad “organizzarsi”, le era venuta la tentazione di non formulare alcuna ri­chiesta al ruvido ed efficiente vicino (temendo - a ragione - la spropositata premurosità del fattore, che aveva preso alla lettera un’antica raccomandazione di sua madre, con la quale si conoscevano da secoli, di soddisfare al meglio ogni sua minima necessità), anzi a dirla tutta si era quasi convinta che sarebbe stato il caso, per lei e la sua inesistente voglia di sorbirsi una predica naturalistica coi controfiocchi, di optare per un più pratico modello sintetico (col doppio vantaggio di essere realistico quanto eterno) da procurarsi nel più vicino cen­tro commerciale.
Ma poi
Ma poi, aveva anche provato ad ammettere con sé stessa che era stata la convinzione di quanto poco suggestiva e palesemente anti-natalizia sarebbe stata l’eventualità di un albero di Natale pla­sticoso E, per un paio di minuti, la giustificazione aveva anche retto. In realtà, ci aveva pen­sato la sua volonterosa e ammirevole coscienza a farle balenare nella mente, per l’ennesima volta, il Proponimento
(Sono passati ormai quattordici mesi, e quest’anno ci proviamo sul serio a festeggiare il Natale, co­sti quello che costi)
L’imposizione forzata di quel pensiero sortì l’effetto desiderato, contro ogni previsione, an­che in quel momento preciso. Facendole accantonare l’insano impulso di mollar lì l’albero mez­zo decorato e lo scatolone spalancato come una bocca affamata, con su scritto a grosse lettere in pennarello blu “ADDOBBI NATALISSSSI !!!”
(vergato nella squadrata calligrafia di Carlo, col Volonteroso Programma di Ritorno alla Nor­­malità che aveva impedito la sostituzione della scatola, anche se il cuore le si la­ce­rava ogni qualvolta gli occhi vi si posavano)
abbandonando la tazza di tè ormai freddo al proprio destino, per ritirarsi di sopra, come una vecchia e stanca lumaca che rientri nel guscio. Con l'unico, costruttivo obiettivo di raggomitolarsi sul letto per i prossimi due o tre secoli a venire. Non era stato facile deciderlo, non era stato fa­cile nemmeno ipotizzarlo. Le era parso improponibile, o assurdo, o addirittura blasfemo, a se­conda del momento e dello stato d’animo, ma ce l’aveva messa proprio tutta. Tornare alla normalità. O perlomeno provarci, ma da convinta, con impegno. Si era trattata di una specie di furibonda lotta con sé stessa, una violenta e rabbiosa rissa con la propria sfuggente e apatica anima, al termine della quale nessuno aveva avuto la meglio. Con l’unico, doloroso risultato che le ferite erano state doppiamente brucianti. Questo prima di sviscerare a fatica il titubante compromesso che il punto NON era, da un giorno all’altro, di mettersi a ballare la samba per strada o iscriversi a corsi di cucito e windsurf e ippica o ancora, nel caso specifico, di abbigliarsi da Santa Claus per essere lo spirito stesso del Natale. Quella non sarebbe stata af­fatto normalità, bensì follia, pazzia, totale e ingannevole dabbenaggine. Che comunque, chissà come mai, a volte le era sembrata ben più affascinante e meno ostica da attuare che non quello che stava ripromettendo a sé stessa.
Suo marito era morto in uno stupido e inspiegabile incidente stradale, in una fredda sera di ot­­tobre di poco più di un anno prima (volato fuori in un tratto di strada dritta come un fuso, che conosceva come le proprie tasche, e l’ipotetica giustificazione del “malore o colpo di son­no” che le era stata fornita da un impacciato poliziotto non aveva contribuito certo a lenire gli strazi dell’improvviso vuoto), lasciandola sola e indifesa e vulnerabile al centro del mon­do. Pensava di conoscere il significato della parola “sola”, prima di quel terribile momento, e an­cora una vol­ta era stata costretta suo malgrado a sperimentare di persona che troppo spesso, in quel consueto tran tran quotidiano che chiamiamo vita, quello che si crede non sempre corrisponde al reale significato. Sola, fino a quell’orrenda notte di autunno inoltrato, per lei voleva dire do­versi organizzare al meglio un pomeriggio o una serata in cui l’uomo che aveva spo­sato a­ve­va qualche impegno che lo portava lontano da lei. Sola significava, al massimo, do­ver decidere cosa prepararsi per cena, se sforzarsi per cucinare qualcosa di sano piuttosto che cedere al­la tentazione di sgranocchiare nefandezze nocive e obesizzanti sul divano. Se guardare la ti­vù finchè gli occhi non le facevano… giacomo-giacomo, appisolandosi in sala do­ve l’avrebbe trovata Carlo al rientro, o utilizzare altrimenti il tempo a disposizione, per un ba­gno rilassante, due bigodini, magari un po’ di ceretta alle gambe. Cose di donne, insomma, di donne mo­mentaneamente sole con un po’ di tempo da riempire…
(Sai che c’è di nuovo? Che sta per arrivarti, assolutamente non richiesto, un buono per un’in­­finita vita intera da occupare…)
Quelle comunque erano le occasioni che Teresa riteneva costituissero l’esser sola, il sentirsi so­la, non sospettando nemmeno lontanamente (forse non volendolo sospettare, ma d’altra par­te, chi ha così tanta dabbenaggine e tempo da perdere nella vita per prepararsi al peggio?) quali al­tri maligni e orrendi significati  poteva rivestire la questione.
E, oltretutto, solitudine non era nemmeno la sensazione più appropriata. Almeno non tanto co­­me quella di “vuoto”. Un vuoto gelido e soffocante che magari non iniziava subito, negli at­­timi successivi il ricevimento di una notizia tanto drammatica. Né nei minuti, nelle ore se­guenti, quando una mesta processione di facce e sguardi e voci ti tengono su ripetendo cose i­nu­­tili e prive di energia, perlomeno alle tue orecchie, cercando di confortarti con certezze inappellabili sul fatto “che non se ne è neanche accorto” o “che, nella tragedia, è meglio così che dopo una lunga e dolorosa agonia”. No, in quei flash immediatamente successivi non riesci ad avvertirlo, il vuoto, maldestramente celato dal tepore di una tazza di camomilla che ti in­­filano tra le mani e gli abbracci e l’umido luccicore di lacrime altrui che si mischiano alle tue. Anche se Lui è già lì intorno, paziente, sicuro di sé, forte del fatto che non hai la più mi­croscopica possibilità di evitarlo, di scapolare via. Volente o nolente, presto o tardi te lo saresti trovato accanto, indesiderato compagno di strada, non appena gli ultimi sfiniti parenti a­ves­sero riassettato il tavolo della sala ingombro di tazzine sporche e portaceneri colmi di moz­ziconi, al di là di un notte che sarebbe stata nera e inerte e priva di sensazioni solo per l’ef­­ficace lavoro dei tranquillanti. Ma al mattino, quando la nebbia e l’oblìo dell’ultimo Tavor fos­­sero evaporati, Lui, il Grande Vuoto, sarebbe stato lì pronto a mettersi all’opera
(smettila)
La sensazione di quei giorni, ora che con cautela poteva ritornarci su con la mente, era gelida e ORRENDA, e mai Teresa avrebbe osato augurarla nemmeno al peggior nemico, co­­me si usa dire. E ancora di più supplicava il cielo affinchè non le ricapitasse MAI più di pro­varla, anche se si rendeva conto che era una pia speranza destinata a rimanere tale, a me­no di non isolarsi per il resto dei propri giorni sulla classica isola deserta.
Per sfuggire alla solita, opprimente sensazione che l’aria le si stesse rarefacendo intorno, co­me le succedeva ogni qualvolta in cui si azzardava ad avventurarsi nei gelidi sentieri mentali del ricordo, Teresa si tirò su dal parquet del pavimento, lanciando un’occhiata sconsolata al di là dei vetri della finestra. Altro che suggestiva atmosfera natalizia, la fitta cortina di pioggia che ca­deva incessante e monotona nella grigia luce del pomeriggio ormai avanzato era perfetta per uno sconsolante promo pubblicitario dell’autunno. Ma che diavolo di fine han fatto le sta­gioni?, ri­muginò tra sè, quelle che da piccoli sembravano avere delle date di inizio rigorosamente precise e rispettate, come se tenessero d’occhio scrupolose il calendario? Quelle che erano illustrate con dovizia di particolari nelle prime pagine dei sillabari delle elementari? Chissà cosa ci sarà in quelli degli scolari di adesso… forse le magiche avventure di Harry Potter...
Sarà stata colpa dell’effetto-serra piuttosto che degli esperimenti nucleari sotterranei, come in­veiva sempre la sua amica Lucia, fatto sta che nemmeno l’inverno era più quello di una vol­ta, con temperature troppo elevate per riuscire a trasformare le gocce di pioggia in candidi e delicati fiocchi di neve. E non c’è proprio niente di più deprimente di un inverno tiepido, borbottò ancora la donna, accostandosi al minuscolo ma efficiente rack stereo posato sulla mensola della libreria.
- Io comunque la buona volontà ce la sto mettendo tutta… - borbottò, rivolta alla propria guar­dinga coscienza, mentre scorreva i titoli di un cd (un doppio cd, troppa grazia) di canzoni spe­cificatamente natalizie - quando e se smetterà di piovere vedremo pure di fissare una fila di lucine intorno al telaio delle finestre… di certo non riuscirò a trasformare la casa in quei tri­pudi sfolgoranti che si vedono nei film americani… - pigiò il pulsantino che fece sputar fuo­ri l’alloggiamento del cd - oh, ma d’altra parte quelli sono americani… e, si sa, gli a­me­ri­ca­ni sò fforti! -
Una risatina le sfuggì, a sottolineare il suo maldestro tentativo di imitare Albertone Sordi, poi lo sguardo le cadde sulla sfilza di cd che la osservavano dalla mensola sopra l’impianto ste­reo. E ancora una volta, come se la reazione fosse collegata ad un interruttore interno solerte e automatico, quella vista trasferì l’insistente pioggia esterna nel profondo del suo cuore
(non posso farci niente!, annaspò mentalmente come una scolaretta ottusa che non riesca a darne fuori di una rognosa operazione aritmetica)
(Non pensarci, e basta, le rispose una voce pacata e fredda che conosceva ormai fin troppo be­ne, da qualche parte nella sua testa)
Non pensarci, già. Facile a dirsi. Tenendo presente oltretutto, a sua labile discolpa, che la si­tua­zione si era attenuata di molto, rispetto a qualche tempo prima, quando ogni cosa, praticamente tutto quello che le capitava sotto gli occhi (esclusi, forse, prodotti e aggeggi tipicamente femminili, tipo assorbenti o trucchi) le ricordava suo marito. O perché erano stati acquistati insieme, il 95% di essi, o perché comunque facevano parte delle loro abitudini, dei loro “usi e costumi”, della loro quotidianità
(Non pensarci, allontana il pensiero)
Della nostra vita, cazzo di budda!”, sibilò nella mente per cercare di farlo comprendere an­che a quella stronzissima vocina che tentava di applicare geometrici metodi psicanalitici da ri­vista femminile, “quasi nessuno si rende conto di QUANTE cose facciano parte di questo, in un banale matrimonio… cavoli, praticamente TUTTO!!!
Parole sante, naturalmente. All’inizio ogni cosa era mutata all’istante, come in un indesiderato film horror, rivelando di possedere invisibili e acuminati artigli che scattavano nell’attimo esatto in cui entrava nel suo campo visivo. Tutto. Dagli oggetti più personali e ovvi, i vestiti, i libri, i documenti, via via a tutti gli altri, fino ai più assurdi e insospettabili. Quante volte il suo corpo si era liquefatto in lacrime improvvise, sussultanti e inarrestabili, di fronte alla vi­deo­cassetta di un film di Totò, “registrato per vederselo ogni tanto e ti­rarsi su di morale”, o al­l’accendigas della cucina, o ancora al bracciolo sformato dell’estre­mit­à destra del divano
(Siediti meglio, che si rovina!)
Senza contare poi quelli che potevano essere definiti come “i ricordi”
(allontana il pensiero, lascialo cadere… o sarà solo peggio per te…)
le cose acquistate insieme, i souvenir dei viaggi, le stupidaggini apparentemente inutili che ri­ve­stivano un qualche particolare significato per la “famiglia Angeli”. Come il tappo di sughero fatto saltare da un euforico Carlo il giorno in cui avevano terminato, con molta volontà e pochi soldi, di rimettere in sesto quella piccola casetta di campagna, in cui era nata e vissuta Teresa fino all’adolescenza. Il tappo era ancora lì, sulla stretta mensolina del caminetto alle sue spalle, le sarebbe bastato girare un po’ la testa per vederlo. Minuscolo e muto e tozzo, co­me tutti i tap­pi che si rispettino, con la scritta “il nido per la vecchiaia” che gli correva intorno in­certa e tre­molante
(avete mai provato a scrivere su un tappo di sughero con una biro?)
Sarebbe bastato gi­rare lo sguardo di pochi gradi, per vederlo, ma lei tenne gli occhi fissi da­van­ti a sé, cercando di attenuarne a tutti i costi l’improvviso solletico sul bordo delle palpebre
(Hai voluto andare avanti? Hai voluto fare di testa tua, certa di poterlo sopportare?)
an­che perché le era sufficiente l’insistente sguardo che il tappo le stava rilanciando a sua vol­ta, picchiettandole la nuca con maligna insistenza.
Accese distrattamente il cd, e la canzone le augura di avere un piccolo, personale Buon Na­ta­le
(…have yourself a merry little Christmas… let your heart be light…)
(lascia che il tuo cuore diventi luminoso… grazie, ma come può illuminarsi un pezzo di ghiaccio?)
Ma cosa deve fare una persona colpita da un dolore così grande, per non impazzire?, le venne in mente di aver chiesto, con la voce incrinata e un incolpevole fazzolettino fradicio stritolato nel pugno, e l’uomo seduto di fronte a lei per alcuni secondi non era riuscito a trovare, o in­ventare, una risposta, limitandosi ad osservarla con occhi quieti e affettuosi, cosa bisognerebbe fare, bru­ciare tutto, ogni cosa, anche la più minuscola, come fanno gli indù con i loro morti, e andare a vi­vere in una casa nuova, vuota, anonima?!?
La disperata (e inesistente) risposta a questa domanda aveva supplicato dall’amico Renato, in­ci­dentalmente anche valente psicoterapeuta, per cercare di trovare un sentiero che la conducesse fuori dall’incubo. E un piccolo passo avanti lo aveva anche fatto, decidendo di lasciare l’appartamento di città per trasferirsi nella casetta di campagna, utilizzata solo nei week-end e in alcune festività, in cui per forza di cose i momenti vissuti e i conseguenti ricordi avrebbero dovuto essere un po’ meno pressanti
(Oh sì, le balle di budda!)
E poi, chi aveva parlato di un’incubo solo? Lo volesse il cielo…
Incubo numero due, o dell’inesorabilità degli eventi, come l’aveva etichettato, con un perspicace e non richiesto virtuosismo psicanalitico. Vale a dire l’insopportabile presa di coscienza che le co­se del mondo (tutte le cose del mondo, a maggior ragione quelle più banali e frivole) proce­de­vano. Il mondo, la vita, gli eventi andavano avanti
(bella scoperta, no? Da candidare al Nobel per l’Ovvietà)
e chi si fermava, perché decideva magari di spiaccicarsi con l’auto in una notte d’autunno, era perduto. Quando aveva preso atto di questo si era sentita annaspare, soffocare di angoscia, come se un’acqua limacciosa e turbolenta l’avesse ormai raggiunta alla gola. E l’improvvisa, orrenda consapevolezza l’aveva colta nella ben poco decorosa situazione di sé stessa se­du­ta sul water, le mutande desolatamente adagiate sulle caviglie, in balìa dei “morsi” pungenti di una diarrea nervosa. Non volendo e non potendo reggere lo sguardo vagante su conosciuti e incandescenti oggetti di uso quotidiano (il bicchiere con la coppia di spazzolini, che non aveva avuto il coraggio di far “divorziare”, l’adesivetto - mezzo staccato - di Vicenza Pe­da­la ’94 che le mani di lui avevano appiccicato nell’angolo in basso a destra del grande specchio sopra il lavandino), aveva cercato un neutro diversivo sfogliando indolente una copia di Te­lepiù posata sul minuscolo termosifone accanto al “Bianco Trono degli Sforza”
(spiritosa fa­rina del sacco di lui, occorre dirlo?)
Ma sì, va, anneghiamo il pericolo Oggetti Conosciuti nelle facce beote e colorate di Fabrizio Frizzi, Siusy Bladi e Patrizio Roversi, Elisabetta Gardini
(ah ah ah, sghignazzarono crudeli i beffardi artefici del destino degli sciocchi umani…)
e vediamo quali alti momenti di cultura hanno in serbo per noi…
Per alcuni secondi scartabellò le pagine variopinte senza nemmeno vederle. Pagine patinate e senza neanche la più minuscola piega. Non più, ormai
(possibile, Carlo, che tu debba fare l’”orecchio” persino alle pagine della guida tv?!?, si sentì chiedere al marito con un mezzo sorrisino finto-burbero, mentre il suo amore perduto si stringeva nelle spalle come uno scolaretto colto in flagrante)
Fissò per un pò il giornaletto con occhi appannati da lacrime di disperazione e sofferenza in­testinale, in egual percentuale, prima che la consape­vo­lezza la colpisse come una bastonata sulla fronte. Mise a fuoco le fitte parole stampate in cor­po minuscolo, per farci stare tutta la marea di programmi che la tivù moderna sapeva e doveva offrire, cercando di inghiottire un nodo irreale dall’asprigno gusto di sale e dolore.
Le avventure del giovane Indiana Jones, Tele Montecarlo… tredicesimo episodio. Jarod, il ca­ma­leonte, rete Due… quindicesima puntata
(a me non entusiasmavano i telefilm di Jarod, ma lui non se ne perdeva uno, rilassato sul di­va­no con la cravatta allentata in attesa della cena, uno dei tanti banali e impagabili riti di una cop­pia normale)
90° Minuto, Rai Uno, commenti e servizi filmati sulla diciassettesima giornata del campionato di Se­rie A.
La diciassettesima, e poi la diciottesima e la ventesima e la centomillesima, e te le stai perdendo tutte, caro mio.
Era rimasta immobile, impietrita tra i miasmi delle sue viscere infuocate. Le cose andavano a­vanti. Gli eroi dei telefilm preferiti continuavano imperterriti a sgominare malfattori e criminali. Gli assi del pallone a gonfiare le reti, a scorazzare sui prati degli stadi, a rilasciare scontate e deprimenti interviste.
- Ehi, ehi, un momento, c’è qualcosa che non va!!! - aveva assurdamente esclamato ad alta vo­ce nella minuscola stanza da bagno silenziosa e deserta - non eravamo d’accordo così! A Carlo piacevano tanto le partite di calcio, e non parliamo poi delle imprese di Ja­rod… -
(le MIRABOLANTI imprese di Jarod, era così che puntualmente le chiamava, convinto forse che quell’aggettivo ci fosse realmente, nel titolo...)
La voce, stridula e sgraziata come quella di una gallina, le si era affievolita spegnendosi in un la­mento acquoso, e lei stessa si era affievolita ripiegandosi sul “trono” come una pianta inaridita dall’arsura.
Le cose andavano avanti. Comunque. Come aveva potuto essere così stolta da non rendersene conto?
Ritornò al presente, scuotendo la testa come per liberarla da una una nebbia invisibile e ipnotica.
Lascia cadere il pensiero.
Sì, va bè, ci provo.
Dedicò un’ultima, generale occhiata di controllo all’albero di Natale sopra di lei. Il puntale do­rato sulla cima (decisamente in alto) pendeva tutto storto, come il cappello di uno che ab­bia alzato un po’ il gomito. Decise che andava bene così, anche perché sporgendosi al massimo dalla malferma scaletta, salendo oltretutto sul penultimo scalino, meglio non era proprio riu­scita a fare. Perlomeno senza rischiare seriamente di precipitare sul pino decorato, abbattendolo sul tavolino e il divano sottostante, nella miglior tradizione di una comica degli anni rug­­genti o uno di quei film demenziali con Steve Martin e Chevy Chase.
E adesso, prova luci, si disse recuperando la spina lungo il cavo elettrico che si dipanava tra i ri­masugli di festoni dorati e palline mezze rotte o prive di gancetto. Gattonò fino alla presa, e­si­tando per un breve secondo prima di collegare il tutto.
In genere è a questo punto che Steve Martin riesce a far fulminare tutte le luminarie dell’albero e le lu­ci di casa, facendo nel contempo saltare la corrente a tutto lo Stato della California.
Oltre naturalmente a mandare a fuoco l’intero quartiere.
Vediamo se ho lo stesso culo…
Senza volerlo, trattenne il fiato nell’istante in cui i due cilindretti metallici della spina si inserirono nei fori della presa.
Non successe niente.
Le decine di minuscole lampadine che avvolgevano il possente albero (minilucciole, c’era scritto sulla confezione, ed erano proprio “mini”, tanto che Teresa si era chiesta quando ave­va­no smesso di produrre quelle tradizionali, con la punta aguzza e il grosso supporto verde) re­starono desolatamente spente.
Perlomeno non è esploso niente, si consolò la donna tormentandosi con l’indice il labbro in­fe­riore, certo che se è un “difetto” elettrico siamo a posto, non saprei nemmeno da che parte com…
Facendola quasi trasalire, le lucine (le minilucciole, please) la colsero in contropiede, prendendo ad accendersi e spegnersi allegre e scanzonate in una sequenza fantasiosa che le “antiche” luminarie dei vecchi tempi neanche si sognavano.
- E Buon Natale sia! - esclamò di getto, battendo le mani come una bambina di fronte ad un re­ga­lo inaspettato e, per un rapido attimo, quell’augurio le intiepidì il muscolo ghiacciato che le bat­teva in petto. Fu questione di un secondo, come il rapido lampeggìo di una minilucciola, ma successe davvero.
E prima che potesse rifletterci su, prima ancora di poter valutare se era accaduto davvero o no, saggiandone le conseguenze in termini di stupore, o peggio, di rimprovero, il telefono nell’ingresso prese a trillare sguaiato…

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Capitolo 2
*** Gli Ostiglia - Gli Anelli ***


1_

- …Porcccc… -
L’uomo seduto al volante fu preso in contropiede dalla cascata di braci che pioveva inesorabile sulla stoffa dei pantaloni. Le spazzolò via frenetico, maledicendo l’estremità della sigaretta che aveva avuto la bella pensata di “incollarsi” al dischetto incandescente dell’accendisigari del cruscotto. Pestolando indiavolato le braci superstiti che attentavano al tappetino sotto i suoi piedi, strinse gli occhi per contrastare una rabbiosa fitta di emicrania gli azzannava il cer­­vello, curiosamente cammuffata dalla voce petulante di sua moglie che gli ricordava (una vol­­ta di troppo) dove il viziaccio del fumo lo avrebbe portato.
- In culo a cazzo di culo - ghignò irato, contemplando in un misto di rabbia e sconforto due mi­nuscoli ma evidentissimi forellini bruciacchiati nella stoffa dei suoi costosi pantaloni in la­na di Ermenegildo Zegna.
Rivolse la sua sbuffante attenzione in direzione delle vetrine illuminate a giorno al di là del fi­­nestrino rigato di pioggia, cercando inutilmente di scorgere le figure della moglie e della fi­glia tra la folla strabocchevole che si agitava nel grande magazzino.
- Dove stracazzo siete finite… - mormorò, lanciando un’occhiata alle cifre verdastre dell’oro­lo­gino a fianco dell’accendisigari devasta-calzoni
(Solo due minuti, caro, il tempo di ritirare il regalo per Terry…)
Due minuti dei miei coglioni”, rimuginò tirando una violenta boccata dalla sigaretta la cui e­­stremità sembrava essere stata vittima di una minuscola esplosione, “e intanto fuori soldi su soldi per regali inutili e costosi… e chi porta i dindini a casa? Io, naturalmente, tutto il giorno a farmi il culo… tricche tricche tracche… per cosa? Perché le donne di casa li buttino dalla fi­ne­stra in un batter d’occhio…”
Il trillo del telefonino posato sul portaoggetti tra i sedili anteriori della Ford Focus s’insinuò nei pensieri ribollenti dell’uomo, dissipandoli. Contribuendo nel contempo a conficcargli in go­la un’acuminata spina d’ansia. Si concesse una vigorosa boccata di Marlboro, a fomentare un’ulteriore mini-cascata di braci dall’estremità surriscaldata, senza peraltro curarsi della lo­ro destinazione.
Questi non son proprio auguri di Natale…”, commentò tra sé afferrando il cellulare con di­ta che sentiva ghiacciate e defunte. Tentennò un secondo prima di pigiare il pulsantino di ri­sposta, palleggiando nella mente la dissennata ipotesi di abbassare il finestrino e tumulare il te­lefonino nel canale di scolo del marciapied. Poi il pollice agì, a metà tra l’azione vo­lontaria e uno spasmo nervoso.
PubbliOsma - collegato”, ebbe il tempo di leggere sul display luminoso, un attimo prima di accostarlo all’orecchio. Strinse le palpebre con foga, come se si stesse preparando ad una violenta deflagrazione. E grosso modo ci stava andando vicino.
- Sì? - disse, cercando di mantenere un tono di voce accettabile.
- Gianni, ciao… sono io, Paolo - l’erre moscia del suo socio in affari, Paolo Macherio - l’altra me­tà dell’Osma… Ostiglia Gianni e Macherio Paolo, cinquanta per cento in nome collettivo (al­meno per il momento) non lo colse affatto impreparato - senti, scusa se ti disturbo, so che sei in giro con la famiglia
(Sì, la famiglia è in giro, a cercare di azzerarmi il conto corrente… io sono solo un umile chaffeur del cazzo…)
solo che… ho parlato con Piacentini… dice che… dice che… - l’uomo all’altro capo del te­le­fo­no parve frugare in invisibili appunti mentali alla ricerca di spunti - …ci sono problemi… non tornano un po’ di conti… un bel po’ di conti, a quel che dice - Gianni Ostiglia si osservò la mano sinistra torcere spasmodica il volante dell’auto, le nocche sbiancare in un pallore mortale - so­no sicuro che deve trattarsi di un disguido… con tutti i casini di tipo fiscale che si inventano ogni giorno… solo che… non capisco, parla di assegni girati a sé stessi, e che non si trova con i giustificativi… direi che è il caso che ci vediamo… cavoli, so che siamo ormai sotto Natale, ma magari due minuti, al volo
(magavi due minuti manco pev il cazzo, pensò l’altro, gli occhi incollati alle nocche cadaveriche)
tanto per mettersi il cuore in pace… sai come sono i commercialisti, fanno di un granello un montagna per deformazione professionale, penso che sia previsto dal loro albo… ingigantire, al­larmare, tenere sotto pressione… ma sai com’è, voglia Dio che si tratti solo di un’esagerazione… non ci vorrebbe proprio, in ‘sto momento… -
Gianni Ostiglia si deterse meccanicamente una robusta goccia di sudore che aveva preso a ser­peggiargli dalla fronte, alla faccia della temperatura per niente confortevole nell’abitacolo. Le dita assiderate dei suoi piedi si contrassero nelle eleganti ma leggere scarpe di pelle.
- Sì, certo, capisco… - rispose con una voce che sentiva sorprendentemente calma e saggia - so­lo che… pronto? Paolo? Ci sei? -
- Sì, pronto… Gianni, mi senti? -
L’uomo al volante si raggomitolò su sé stesso, mentre una bolla acida e dolorosa gli saliva dallo stomaco alla gola:
- Paolo? Paolo?!? Mi senti? Sto passando sotto le gallerie… e no… mi pa… no ti se… no rie -
Balbettò quelle ultime sillabe come in un tartagliante rap, stupendosi lui stesso di quello che sta­va mettendo in atto. Del fondo a cui stava arrivando.
- Gianni? Pronto, Gianni, mi senti? - la vocina del suo socio (per poco, ancora per poco) fio­ca ma perfettamente nitida, gracchiava dal telefonino abbandonato in grembo - rie­sci a sentirm ? Provo a richiama
L’uomo abbandonato sul sedile di guida osservò con occhi inespressivi il display del cellulare che aveva appena spento.
- Grossi dubbi che mi richiami - biascicò assaporando un pessimo gusto che gli aveva invaso la bocca - groooosssi dubbi… -
Si frugò nelle tasche della giacca, alla ricerca di una sigaretta, prima di rendersi conto di averne già una accesa, mezza stri­tolata tra le dita che si aggrappavano al volante. L’emicrania che lo a­ve­va assalito stava sfo­ciando in una specie di nebbia ovattata che gli bloccava il cervello.
Sbir­ciò al di là del vetro abbassato del finestrino: vetrine tirate a lucido, commesse sorridenti, clienti carichi di pacchi.
Sicuramente sdolcinate musichette natalizie a volume quasi subliminale diffuse da altoparlanti nascosti.
Ma di sua moglie e sua figlia nemmeno l’ombra.
(Non ci vovvebbe in questo momento… sai com’è, disse l’erre moscia del socio da qualche parte della sua testa)
Sai com’è? Lo sapeva, oh, se lo sapeva! Più che bene, soprattutto perché ne era concausa attiva.
Anzi, a dirsela tutta lui, Ostiglia Gianni, consulente pubblicitario quarantatreenne
(cala le arie, amico, e non riempirti la bocca di paroloni, sei solo un rappresentante fallito di una sconosciuta dittarella che, nonostante il roboante “agenzia pubblicitaria” inciso sulla targa di ottone del campanello, sopravvive - e Dio sa per quanto poco ancora - facendo stampare marchi di aziende su penne biro e improbabili cappellini promozionali)
affascinato da film e articoli su yuppie prestigiosi e senza scrupoli, sul loro mondo dorato zep­­po di segretarie mozzafiato, consigli d’amministrazione e party esclusivi, era il minuscolo gra­­nello di sabbia che aveva preso a rotolare a valle, dando inizio alla più catastrofica e devastante valanga di tutti i tempi. Almeno per quello che avrebbe riguardato la sua vita e quella del suo anonimo socio, unitamente a quelle delle loro famiglie. E quel che era peggio (anche se la sensazione che ne traeva era di estremo sollievo) era il fatto che non provava il minimo senso di colpa, o di rimorso. La barca stava affondando, perché lui in persona stava per to­glierne il tappo dal fondo, ma era una barca così noiosa, e invischiante, che non gli dava, da tempo ormai, il più minuscolo brivido di emozione.
Per cui, a strapicco tutto quanto”, rimuginò picchiettando nervoso con la punta delle dita sull’alloggiamento dell’airbag, “anche perché il sottoscritto, signori e signore, ha tutta l’intenzione, e la possibilità, e la concreta speranza, di uscirne asciutto e col culo al caldo… molto al caldo…”
Infilò le mani gelide nelle tasche del cappotto. La punta delle sue dita incontrò la sagoma di un oggettino e, appena sotto, un secondo oggettino plasticoso e cedevole al tatto
(un sacchettino, per amor di precisione, và)
A quel fugace contatto la lingua saettò su labbra aride e nervose e, per un brevissimo i­stan­te, nella mente gli sfrecciò una tentazione assolutamente folle e dissennata
(non sarai così da pazzo da pensare di…)
poi gli sportelli della Focus si spalancarono, facendo turbinare nell’abitacolo surriscaldato le chiacchiere di sua moglie e sua figlia, e quella strana, umida aria dicembrina.

2_


- Giacca e pantaloni blu, li portiamo ? -
La frase pronunciata da Lucia Anelli sembrò addirittura rimbombare un pò, mentre metà di lei era immersa nell’antro scuro e incasinato dell’armadio di suo figlio A­me­deo. Spostò con delicatezza alcune camicie appena stirate, in attesa di una risposta che tardava ad arrivare. Si raddrizzò, massaggiandosi vigorosamente la parte bassa della schiena, lanciando un’occhiata severa in direzione del ragazzino steso sul letto a pancia in giù.
- Ame, dammi retta un secondo o quel giochino fa il volo dalla finestra, maledetta quella volta che hai convinto tuo padre a comprartelo - sbottò, passandosi una mano nervosa sulla fronte che sentiva sgradevolmente umidiccia, a causa del maglione in pile e il riscaldamento dell’appartamento
(e un po’ di sano nervosismo, no?)
- dai che papà sarà qui sotto con la macchina da un momento all’altro, e devo ancora finire di preparare la tua borsa e quella di tua sorella… -
Il ragazzino, ipnotizzato dal minuscolo schermo elettronico del Game Boy, agitò fulmineo le dita, in un gesto sfrontato che le fece prudere le mani. Sei fortunato che non mi sei a tiro di scapaccione
- Sì, un attimo, mamma, che sono in punto CRUCIALE… - ribattè suo figlio, non smettendo un secondo di far mulinare i polpastrelli sui lillipuziani tasti di quella diavoleria elettronica, simile ad un minuscolo dattilografo allucinato - …sto cercando di superare il Boss del quarto livel… -
- Ame, ascoltami che siamo in RITARDO! - lo investì lei, con un tono di voce appena un po’ più alto del normale
(Non sto gridando. Non voglio gridare e non sto gridando… diede una rapida occhiata all’orologio della cucina che intravedeva attraverso il corridoio, cazzarola, che tardi…)
sufficiente però a suggerire al ragazzino steso sul letto che, forse, era il caso di rimandare a più tardi la cruciale sfida col Boss. Amedeo pigiò un po’ a malincuore il tasto di spegnimento del giochino, dedicando a sua madre un’espressione esageratamente attenta.
- Il completo blu, quello elegante - riprese Lucia estraendolo dall’armadio, per meglio avvalorare la sua richiesta - pensi di metterlo, almeno il giorno di Natale
(o insisterai per indossare una di quelle tue felpe assurde piene di ORRENDI supereroi giapponesi?)
- Io il vestito blu lo porto - esclamò una vocina comicamente seriosa alle sue spalle. Sua figlia Emma, quasi-sei-anni, come si premurava di precisare impettita a chiunque le chiedesse l’età, transitò nella stanza del fratello, per lei assolutamente off-limits a meno che, come in quel caso, non vi stazionasse anche uno dei genitori. Con una mano trascinava un peluche di un gatto bianco
(un ex-peluche di un gatto grigiastro, visto le condizioni in cui era ridotto da una lunga e affezionata simbiosi con la piccola)
mentre nell’altra agitava un disegno a matite colorate dal vago stile impressionista. L’occhio allenato di sua madre fece in tempo a riconoscere il soggetto dell’opera d’arte. LA MIA FAMILIA, era la scritta sulla parte inferiore del foglio, a sottolineare le figure stilizzate di loro quattro, papà Renato, mamma Lucia
(perché mi disegni sempre con le braccia e i capelli alti, come se stessi dando in escandescenze, Emma?)
(forse perché tendi spesso a dare in escandescenze, cara la mia Lucia…)
Amedeo, Io.
- Tu non hai un vestito blu, grazie al Cielo - ribattè la donna - anche perché sarebbe tale solo per alcuni brevi istanti, prima di impiastricciarsi di pastelli a cera, o lasagne o chissà che altro… -
La bimbetta si accovacciò sul tappeto ai piedi del letto, aggiustandosi distratta il cerchietto che le teneva a bada (a fatica) una cascata di boccoli biondi, mostrando nel contempo all’impassibile Giggio
(discutibile nome, per un gatto grigiastro di peluche, ma così era stato battezzato)
il disegno spiegazzato:
- Oh bè, sono così buone, le lasagne… - commentò lieve - sì, sì, ne mangerei proprio volentieri... -
Un’ombra di sorriso attraversò il viso surriscaldato di Lucia, che prese a sventolare il vestito blu reggendolo per la gruccia:
- Allora, Amedeo? - lo sollecitò impaziente.
- Uh, beh buh, direi di sì… - tergiversò suo figlio occhieggiando impaziente lo schermo scuro del Game Boy
(viene anche Vanessa, la figlia di Cristina e Gianni… te la ricordi, vero? Abbiamo fatto quel we­ek-end ad Asiago, due anni fa…)
- anzi no, direi proprio di no… assolutamente no -
Quegli assurdi (ed infantili) voltafaccia di suo figlio le facevano saltare la mosca al naso. Pa­re­va che praticamente su tutto il ragazzino non fosse in grado di prendere una decisione definitiva, come se cercasse in qualche modo di lasciare aperta ogni alternativa
(lo sai, è un momento delicato, disse nella sua testa la pacata voce, quasi professionale, di suo marito Renato, ha dodici anni, è giusto sul limite, e dentro di lui c’è l’inevitabile conflitto tra il bambino e l’adolescente… bisogna dargli tempo…)
Sarà, ma a me per il momento sembra proprio che la parte infantile stia vincendo alla grande…”
- E’ Natale, siamo in casa d’altri, e saranno tutti vestiti a modo… - allargò le braccia a mostrare il variopinto maglione in pile che indossava su un paio di pantaloni dai toni orientaleggianti - anche a me non va a genio l’idea di mettermi in ghingheri, ma papà ci tiene, e per una volta… -
Il ragazzino si immaginò impettito e fasciato da quello scomodo vestito da festa
(anzi, anche se non ne era del tutto cosciente, si vide attraverso gli occhi verdi di una ragazzina di un anno più vecchia di lui, con cui aveva piacevolmente giocato e chiaccherato, un paio di inverni pri­ma, e di cui ancora ricordava l’inspiegabile senso di… dispiacere provato alla fi­ne di quei due giorni in mezzo alla neve)
e scosse il capo vigorosamente:
- No, mamma, per favore
(Non piagnucolare come un… bambino, Amedeo, per carità!)
mi tira tutto sotto le ascelle… - si agitò gesticolando per avvalorare la sua tesi - e poi quando lo metto ti ostini a pettinarmi come un babbeo… -
- Che babbeo e babbeo… - ribattè la donna, riponendo sconfitta il vestito nell’armadio - ti fac­cio la riga, e cerco per una volta di domare quella… tua zazzera di spinaci che hai in te­sta…non ci sono dubbi che sei proprio figlio di tuo padre… -
- La zanzera degli spinaci sulla testa… che schifo! - commentò la piccola Emma a beneficio del suo interlocutore muto e peloso.
In quell’istante il campanello dell’ingresso trillò un paio di volte in rapida successione.
- Papà!!! - esclamò la bimba tirandosi su di scatto, dimenticando all’istante il foglio da disegno che finì miseramente calpestato sotto una minuscola scarpina con la faccetta sorridente di Titti.
- Già - commentò suo fratello Amedeo, riaccendendo quasi casualmente l’ambito Game Boy, non prima di aver lanciato una prudente occhiata di sottecchi in direzione della madre. Scam­pato pericolo. Lucia Anelli stava uscendo dalla stanza per affrettarsi ad afferrare la cornetta del citofono:
- Sì? - chiese.
- A che punto stiamo? - s’informò la voce di suo marito da giù in strada.
- Stiamo come al solito, Renato - replicò la donna, cercando di scampare ai salti euforici che Em­ma stava eseguendo tutt’intorno a lei, come una minuscola danzatrice vodoo - in ritardo spol­po… Sarà il caso che tu faccia un salto su, o non ne usciamo vivi… -

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Capitolo 3
*** Corrado Fornaser - Guido Mali ***


3_

Teresa Angeli allungò una mano per sollevare la cornetta del telefono, mentre con l’altra si af­frettava ad attenuare il volume dello stereo. Il cd in funzione era una nutrita ed esauriente scelta di canzoni natalizie, dalle più tradizionali e conosciute ad altre che lei non aveva mai sentito, tutte interpretate da big del panorama musicale internazionale. In quel momento Ri­chi Martin, supportato da una chiassosa band sudamericana, stava allegramente gorgheggiando su ay, ay, ay, feliz Navidad e cose del genere. Teresa, con tutto il rispetto, trovava che non tutti i generi musicali fossero adatti alle atmosfere natalizie, e quella spensierata versione mariachi o simil-chicano, più indicata per una fiesta caliente a piedi nudi e margaritas, le confermava la propria opinione.
- Sì, pronto? - rispose, mentre dentro di lei qualcosa temeva (o auspicava, e non sarebbe riu­sci­ta a scindere le due contrastanti sensazioni) che qualcuno dei suoi imminenti ospiti stesse per dare forfait.
- Ah… sì, ciao, Tere… sono io - una voce bassa, un po’ fioca. C’era solo una persona al mondo che la chiamava in quel modo, tutti gli altri, amici o colleghi che fossero, usavano il più scontato Terry
(che a dirsela in confidenza non la entusiasmava, ma ormai…)
Quasi tutti gli altri, azzardò un insensibile pensiero cogliendola a tradimento
(Questa, e lo sai, non è affatto una puntualizzazione fondamentale, anzi...)
(Perché no?)
Suo marito Carlo la chiamava anche in un altro modo. Solo qualche volta, beninteso, e in ogni caso NON quando tra di loro era in corso un’accesa discussione, ad esempio, nè tantomeno quando lui voleva farsi perdonare qualche scontata troiata tipicamente maschile, paludata da innocente marachella. Lui la chiamava Terrina.
(Lo sai che sei la mia Terrina preferita, vero?
Sì, di fagioli con la cipolla
E giù risate)
(Da spanciarsi, no? Soprattutto adesso...)
Mi chiamava così. Non sempre. L’ho già detto. Diciamo quando le cose tra noi andavano alla grande. Ed era buona parte del tempo, grazie al Cielo.
O nei momenti di tenerezza
(ora comincia a fare male)
(che ti avevo detto, io ?)
La donna strinse con forza le labbra, per attenuare un’improvviso e incontrollabile formicolìo sul bordo delle palpebre. Tornando a noi, aveva la discutibile fortuna di essere “nomata” in ben tre modi diversi, tutti ugualmente creativi. Terrina per lui, Terry per il resto del mon­do. E Tere dalla persona che l’aveva chiamata in quel momento:
- Papà… cavoli… dove diavolo sei finito? - sbottò, confortata da una lieve sensazione di sollievo che stemperava l’iniziale impulso aggressivo - è da prima di pranzo che cerco di met­ter­mi in contatto con te… ma perché non hai attaccato il telefonino? -
L’uomo all’altro capo del telefono borbottò qualcosa di intelleggibile:
- No, è che… non capisco… si dev’essere guastato, non mi resta acceso… - spiegò poi.
- Guastato?!? Un’altra volta? - sbottò Teresa - ma se l’hai appena ritirato dal… non è che per ca­so ti è caduto? -
- No, no, assolutamente… non sono poi così maldestro - le parole dell’uomo sembravano ar­rampicarsi su una giustificazione poco convinta. Quel tono affettato e sommesso fece im­magi­nare alla donna in piedi accanto alla libreria lo sguardo dell’interlocutore lontano, i suoi oc­chi tristi e titubanti. Gli stessi occhi che da tempo osservavano il mondo a quel modo, da quando, nella primavera di quell’anno in corso, Corrado Fornaser era rimasto vedovo
(e io orfana, tanto per non farci mancare nulla)
del­la moglie, portata via da un’improvviso attacco cardiaco. Teresa attorcigliò nervosa il cavo lucido tra le dita. Già, le cose erano andate proprio così. Nel breve arco di cinque mesi, la si­gnora Teresa Fornaser coniugata Angeli, impaginatrice di riviste e libri on-line di anni 39, si era guadagnata suo malgrado il poco ambito riconoscimento di vedova e orfana dell’anno.
Era stata una gran brutta mazzata, senza dubbio. Ma quello che l’aveva resa più devastante era stato il suo assurdo (e illuso) convincimento che dopo la perdita del marito, dopo la tra­ge­­dia e il dolore e lo schianto e l’orrido gelo, dopo che era andata a dormire ogni sera con la cer­­tezza di non farcela, e svegliata al mattino con il desiderio che ciò si avverasse, dopo che si era inerpicata senza forze e senza voglie su per l’impervia via del ritorno ad una qualche parvenza di normalità… beh, come dire… era convinta a quel punto di aver ottenuto un mi­ni­mo di… im­munità. Magari temporanea, labile, a termine, ma quale autorità, terrena o celeste, avrebbe a­vu­to il cuore o la crudeltà di infierire?
E invece… badabam! Come volevasi dimostrare. A cavallo delle due perdite, inoltre, le era giunta notizia della morte di un’anziana prozia e questo, nonostante il tempo e la distanza chi­lometrica l’a­ve­ssero in ogni caso resa un’emerita sconosciuta, le aveva alimentato per un bre­­ve, delirante momento la certezza che la Morte, con tanto di falce regolamentare, avesse de­­ciso di iniziare a sfoltire l’al­bero genealogico Fornaser, ed erano stati lunghi e oscuri i mesi in cui quella macabra visita le sarebbe apparsa perlomeno gradita.
- …non sono mica così rimbambito… - ripetè suo padre a propria discolpa. Le pa­ro­le dell’uomo ripescarono Teresa da quel limbo di pensieri e foschi ricordi - …ieri sera l’ho u­sato per fa­re gli auguri ai Ferri, e poi l’ho posato come al solito sul… sul… sopra il… -
- Mobile in entrata - terminò meccanicamente la donna, mentre un ulteriore amaro germoglio iniziava ad insinuarsi in lei
(ancora quel problema delle frasi lasciate per aria, papà?)
- Appunto. Poi stamattina prima di uscire provo ad accenderlo, come al solito… e niente - dalla cornetta provenì un sommesso tramestìo, come se Corrado si stesse frugando alla ricerca di qualcosa - per sicurezza ho anche dato una controllata al codice… ce l’ho qui da qualche parte nel… nel… dentro il… -
(portafoglio, papà)
(ohhmmmerda…)
(portafoglio, portafoglio… è così difficile da ricordare ?!?)
Teresa, ancora una volta, avvertì gelide e sgradite dita invisibili ghermirle le viscere. Era preoccupata per suo padre. Estremamente preoccupata. L’uomo, dopo esser rimasto ve­­do­vo, aveva continuato ad abitare da solo (era stato irremovibile, su questo) nell’appartamento nel centro storico dove aveva vissuto con la moglie, occupandosi delle solite, piccole co­se di tutti i giorni. Il giro di amici, le passeggiate mattutine
(le parole crociate, vogliamo dimenticarle?)
il pisolino e la televisione dopopranzo. Apparentemente tutto come prima
(apparentemente, cara? Può metterci la mano sul fuoco, o forse sarebbe stato il caso che tu fossi passata un po’ più spesso, da lui?)
(L’ho fatto più spesso che ho potuto, vaffanculo! E poi per un po’ mi sembra di aver avuto qual­che altro cazzo a cui pensare , no?)
Solo che da un po’… gli pareva stanco, deperito. Anzi no, aspetta, questo non è il termine giusto… era come se… un po’ alla volta… suo padre svanisse. Non in maniera tale da suscitare al­larmi e corse ai ripari, ma così… nell’animo… E poi c’era questa faccenda di non ricordarsi le parole. Anche lì, niente di così eclatante da far diagnosticare chissà che
(ah, sei pure medico specializzato, adesso? Vaffanculo vaffanculo VAFFANCULO)
solo brevi e sporadici intoppi, come lievi pause in un discorso. Sulle prime ci avevano pure ri­so su, con suo padre che sghignazzava dandosi del rincoglionito, e lei che rincarava la dose ag­giungendovi un “vecchio”.
Solo che sta succedendo un po’ troppo spesso…”, rimuginò tra sé la donna.
Si ripromise di accennarne a Renato, anche se un po’ le ripugnava importunarlo durante le Fe­ste, come se lo avesse attirato lì apposta con la scusa dell’ospitalità, per poi asfissiarlo co­me nelle classiche vignette umoristiche
(Ah, lei è medico… bene, e senta, posso rubarle un parere?)
D’altra parte quel coglione di medico di base, pur avendo come assistiti sia lei che il padre, non era stato in grado di confortarla o consigliarla. Agli ansiosi accenni di Teresa su questo o quel sintomo (lieve sintomo) si era limitato a fissarla con sguardo sgranato e un bel po’ sup­po­nente, come per altro faceva in ogni occasione. Probabilmente avrebbe dedicato la consueta occhiata schifiltosa anche a chi si fosse trascinato nel suo studio con sette o otto coltelli con­­fic­cati nella schiena. Il luminare della medicina l’aveva ascoltata (occhi a palla puntati co­me canne di fucile), poi aveva sfarfallato la mano in un gesto insofferente che voleva signifi­ca­re “baggianate”.
- Signora - le aveva sussurrato, come se stesse elargendo inarrivabili grani di saggezza - cosa vuole, è un uomo di una certa età
(una certa età di ben 73 anni, caro il mio sgranatore d’occhi, mica stiamo parlando di Ma­tu­sa­lemme, avrebbe voluto sbottare lei, invece se ne restò immobile, in punta di sedia davanti alla scrivania dell’uomo in camice, come una scolaretta troppo cresciuta)
vo­glio dire, non è più un giovanotto e il fisico, come sa, può cominciare a perdere qualche colpo - roteò per un breve istante le dita all’altezza delle palle da tennis che aveva al posto degli oc­chi, in un gesto vago che, anche non volendolo, si sarebbe potuto interpretare come “attenzione, rotelle in li­­bera uscita” - ma non per questo vuole a tutti i costi significare che c’è sotto qualcosa di gra­ve… -
Teresa aveva fatto vagare lo sguardo per l’anonimo ambulatorio, soffermandolo con ostentazione sul quadro appeso sopra una vetrinetta stipata di medicinali.
Già, già”, aveva pensato, con un punta di irritata perfidia, “come dire che, nonostante quella bel­la laurea sotto vetro, non per questo vuole a tutti i costi significare che c’è un medico, qui…”
Il medico le aveva prescritto il solito contro le consuete, dolorose mestruazioni, e le aveva detto di non preoccuparsi. Le aveva aperto premurosamente la porta, ripetendole di non preoccuparsi. Così lei era scivolata fuori, attraversando la saletta di attesa gremita di pazienti silenziosi e anonimi, e non si era preoccupata. Fino alla volta successiva in cui suo padre non le era apparso così con­sumato, con le sue frasi prive di finale, come ostici rebus della sua a­ma­ta Settimana Enig­mi­sti­ca.
- Beh, allora, ti aspettiamo - riprese lei, rituffandosi nei problemi pratici alla ricerca di un pò di forza - anzi, vedi, se fossi riuscita a contattarti prima sarei passata a prenderti io... - sbirciò l’arcigna pendola appesa sopra la parete - ...solo che adesso si è fatto un pò tardi, non ho dato orari agli altri, ma penso che prima o dopo cominceranno ad arrivare e... -
- Tere, non fraintendere, sono lusingato del tuo invito - ribattè l’uomo - ma... stavo pensando... co­sa vuoi che venga a rompervi... mi sento così fuori luogo, in mezzo a voi giovani... ma non ti de­vi preoccupare per me, al limite posso fare un salto fin da mia sorella, non mi ha detto niente di ufficiale ma penso che... -
Teresa roteò gli occhi in segno d’insofferenza:
- Papà, come se non lo sapessi che poi non ti passa neanche per la testa di andare dalla zia... - a­gitò l’indice nell’aria per sottolineare quel concetto - con lo zio Giorgio che ti asfissia con le sue menate sul Paese in mano alle destre totalitarie... e l’idea che tu possa passare la Vigilia e Natale so­lo come un cane in quella casa vuota... non se ne parla proprio! E poi quali giovani e giovani, or­mai viaggiamo tutti oltre i quaranta, e sai bene che Amedeo e Vanessa, e soprattutto Emma, non vedono l’ora di fare gli auguri a nonno Corrado... - sorrise per la palese “ruf­fianata” di quell’ultima precisazione. Oh, ognuno tira l’acqua al proprio mulino...
- Beh, se è per far contenti i bambini... - rispose l’uomo, non riuscendo a nascondere un tono sommesso di contentezza nella voce - ...va bè, ma solo fino a Natale, non voglio fare l’in­co­mo­­do di turno... d’accordo, metto qualche cosa in borsa e ti raggiungo... -
La donna fece scivolare un’occhiata ansiosa al di là dei vetri della finestra. Non pioveva più, ad occhio e croce, ma le strade non dovevano essere al meglio. E poi non si sentiva affatto si­cu­ra che le “amnesie” verbali non avessero una loro pericolosa ripercussione su altre attività, tipo la guida.
- Oh bè... voglio dire... sicuro che te la senti di muovere la macchina? - suo padre era proprietario di una fiammante Alfa 164 nera, venerata e coccolata come una reliquia di incom­men­surabile valore - ho idea che ci sarà un casino di traffico in giro, per via delle compere del­l’ultimo minuto, e poi qui a che ti serve? Puoi prendere un taxi, perché no
(fiato più che sprecato, e lo sai, apprensiva ragazza)
o al limite posso chiedere ad Efrem se ha voglia di... -
- Per carità, Tere! - ridacchiò suo padre scuotendo il capo - ho paura che costringere il buon Efrem a lasciare il suo eden bucolico per avventurarsi nel caotico mondo esterno possa essergli fatale... potremmo addirittura rischiare di accorciargli la vita di ANNI! No, no, meglio ar­ran­giarsi, và, e poi, come si dice, ad appoggiarsi agli altri si corre sempre il pericolo che... di... di... -
Di cosa, papà?, gemette mentalmente Teresa, che stavolta non aveva assolutamente idea di co­sa volesse dire l’uomo. Tirò un silenzioso, scaramantico sospiro per autoconvincersi che sarebbe an­dato tutto bene:
- Okay, d’accordo - si arrese alla fine - ma, mi raccomando, testa sulle spalle... -
(guarda te se dev’essere la figlia a raccomandare queste cose ad un padre ultrasettantenne... vi­viamo proprio in un mondo sottosopra...)
L’uomo la rassicurò ancora una volta, congedandosi da lei. Teresa restò immobile per alcuni i­stanti, la testa in subbuglio tra mille pensieri ben poco lusinghieri, prima di rendersi conto del pesante silenzio che avvolgeva l’ampia sala, quasi insopportabile. Ruotò di qualche tacca il po­­ten­ziometro sul rack stereo. Il cd stava suonando la versione inglese del “Valzer delle can­­dele”. Ri­badisco, gli americani sò proprio ffforti, rimuginò inaspettatamente divertita, l’e­se­cuzione i­ta­liana al mas­simo potrebbe permettersi Nico Fidenco, con l’accompagnamento di una fisar­mo­nica, mentre in questa incisione... vediamo un pò come la chiamano loro... Christmas Auld Lang Syne... Marc An­thony ci dà dentro alla grande, con tanto di orchestra d’ar­chi e coro a cappella... tutta un’altra cosa, direi, molto più solenne, quasi epica...
Fece vagare lo sguardo sulla nutrita rassegna di fotografie incorniciate sulla parete davanti a sè. Quella era la “galleria fotografica Fornaser”, come l’avevano definita, in quanto raffigu­ran­­te scene di vita di Teresa avanti Carlo. L’esposizione post-matrimonio faceva invece bella mo­stra sulle pareti del­la saletta tv. Si ricordava bene del pomeriggio passato a incorniciare vecchie foto, tra ri­sate, taglierini, cartoncini per passepartout e tè caldo
(non discuto che te ne ricordi più che bene, ma temo sia proprio questo il problema)
(lasciami farmi male quanto voglio, grazie)
Accarezzò con sguardo affettuoso le foto appese davanti al naso. Le più “antiche” erano in ri­goroso bianco e nero (stiamo parlando di metà degli anni ‘60, comunque), coi classici bordi dentellati come minuscoli denti di squalo. In una c’erano le quattro donne Fornaser, come usava sempre descrivere suo padre, fotografate sull’uscio di quella stessa casa. Lei, grosso mo­­do intorno ai cinque anni, con i capelli corti come un maschietto, era tenuta per mano da sua ma­dre Ti­­na e nonna Luciana, tutte e tre con gli occhi fissi e sorridenti verso l’obiettivo. Se­duta ac­can­to a loro, su un minuscolo sgabello, la figura minuta e secca di Sara Secco, ma­dre di Lu­cia­na e nonna di Tina. E di conseguenza, se la parentela non è un’opinione, bisnonna di Te­resa. A quel tempo doveva andare per i set­tantacinque, e la giovane donna ne aveva un ri­cordo più o meno vago, e sempre ve­stita co­me nella foto. Vale a dire rigorosamente in nero, con un fazzoletto dello stesso colore sui ca­pelli candidi.
Già, già, la nonna vecchia, come la chiamavano tutti”, rimuginò Teresa frugandosi nella me­moria alla ricerca di qualche indizio un pò meno nebuloso, “il poco che ricordo è che m’incuteva qualche timore, con la sua aria così forte e vigorosa, nonostante fosse proprio un scricciolo di donna...”
Poi, improvviso e lucente, un ricordo le si accese nella mente, come se le avessero azionato un re­calcitrante proiettore all’interno della scatola cranica. Lei, immobile davanti alla nonna vec­­chia, seduta sotto l’ombra di un albero, forse sullo stesso sgabellino della foto. Anzi no, qualcosa di più... rudimentale, di rustico. L’anziana donna aveva avvicinato il viso affilato a quello della bimbetta intimorita, tanto che questa aveva potuto specchiarsi in occhi quieti ed incredibilmente limpidi, incastonati in una ragnatela di rughe nitide come leggeri colpi di la­ma. Un vago sentore di spezie, forse cannella, aveva solleticato le minuscole narici della piccola Teresa. Poi un dito ossuto e curvo si era alzato lento nell’aria tiepida del tardo pomeriggio primaverile
(dubito di riuscire a ricordare tutto così chiaramente...)
bloccandosi all’altezza della sua fronte, a pochi millimetri dal contatto. La bimba avrebbe voluto ritrarsi, o forse addirittura togliersi dallo sguardo indagatore di quella inquietante vecchia, ma i suoi piedini non si erano spostati di un passo.
- Povera, cara Teresa - aveva detto poi la bisnonna, socchiudendo le palpebre con placida lentezza - la tua vita sarà lunga, ma ci saranno purtroppo giorni non troppo luminosi... -
Una Teresa di una trentina d’anni dopo, immobile davanti al cassettone del telefono, si riscosse, infastidita da quella specie di ricordo, in particolare dal suo presunto contenuto.
- E’ facile fare profezie retroattive postdatate - borbottò irritata - soprattutto alla luce di quel che è successo, cara la mia maga Otelma dei miei stivali... -
Le sembrò per un infinitesimale, assurdo istante che persino il ricordo del sentore di cannella le fosse rimasto intrappolato nelle narici, e tornò a fissare la sua attenzione sulla parete. Nelle fo­to successive, a colori degli anni settanta, con quella loro tipica dominante caramellosa, lei era a piedi nudi nella sala da pranzo, accovacciata sotto un dignitoso albero di Natale, e mo­stra­va all’obiettivo con fiero cipiglio una bambola nuova di zecca
(Melania!)
Un fugace sorriso attraversò il volto della donna pensierosa. Melania. E chi se la dimentica? Gli era stata regalata un Natale da zio Giorgio, ancora ignaro del destino del Paese e della re­­­lativa composizione del Governo e, anche se la piccola Teresa non poteva saperlo (nè gliene sa­rebbe importato un gran che), era un modello di bambola hippie. I lunghi capelli corvini erano trattenuti da una bandana variopinta, e sulla camiciola di taglio orientaleggiante sfoggiava addirittura un medaglione d’alluminio col tipico simbolo della pace. Un paio di jeans rigorosamente a zampa d’elefante lasciavano scoperti i piedini plasticosi in sandali fricchettoni. Il sorriso tornò sul volto della donna, con tutta la ferma intenzione di resistervi. Me­lania era stata un’inseparabile e longeva compagna di giochi, e difatti compariva immancabile in tutta una serie di altre foto appese, via via un pò più logora e spelacchiata in virtù del tempo che passava. Teresa si spostò di lato, per osservare meglio una fo­tografia scattata quello stesso giorno di festa di tanti anni prima. No, non era possibile... Si lasciò scappare una risatina divertita: alle spalle della piccola Teresa seduta a tavola, alle prese con una monumentale fet­ta di panettone, appena un pò confusa tra altri pacchi dono sventrati e cumuli di lucida carta da regalo, era possibile scorgere (o, meglio, intuire) la parte superiore di una scatola su cui si riusciva a leggere, un pò sfuocata, l’iniziale della parola MEL e, più in piccolo, PEG PEREGO. La donna rise di nuovo, scuotendo la testa. Pazzesco, quella è nientemeno che l’imballo di Melania, è quasi come se ne potessi vedere... la nascita! La piccola hip­pie era stata una fe­de­le amica per anni, e non appena la sua padroncina era cresciuta un pò troppo per giocarci, aveva guadagnato di diritto un posto d’onore sulla mensola rossa nella cameretta. E là era ri­masta, ad osservare il mondo con i suoi occhi spalancati e immobili, per altro tempo ancora.
Ac­­canto a lei mutavano i libri lì custoditi, ordinatamente impilati, da Piccole Donne a Le av­ven­ture di Polyanna, e poi l’edizione “cult “ di Gianburrasca (quella con la copertina verde), pas­sando per Barbapapà cerca moglie sino ai gialli di Nancy Drew. E ancora, più in là negli an­ni, i discussi Porci con le ali e Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Ber­lino
(beh, questi ul­timi due magari non proprio in bella mostra)
I titoli e le preferenze di Teresa mutavano, come i grandi poster colorati appesi un pò più in al­­to (gli Abba, e i Bee Gees, e poi Miguel Bosè, e il manifesto del film Bilitis, fino a quelli di Fla­sh­dance e Nove settimane e mezzo), ma Melania restava, imperscrutabile e silenziosa.
Alla fine, come succede spesso nella vita, le pareti ebbero bisogno di una bella rinfrescata, la men­sola fu smontata, e i libri e l’ultimo poster in voga sparirono. Stessa sorte per l'obsoleta Me­­lania, riposta chissà dove. Pro­ba­bilmente, a rigor di logica e di economia familiare, in qualche “forziere” di cartone im­polverato che ancora giace nelle dimenticate profondità della sof­fit­ta o delle cantina
(hai idea di dove sia finita Melania, papà?)
questo nella migliore delle ipotesi, quando non destinata come regalo riciclato per la cuginetta di turno, o chissà che altro.
Ad averla adesso ci si potrebbe ricavare un piccolo gruzzolo, in qualche mercatino di mo­der­nariato....”
Teresa tornò in sè, avvertendo con una punta di malinconia che il bel sorriso stava inesorabilmente appassendo, come un fiore delicato e effimero, e tirò su col naso.
Ci manca pure che finisca per deprimermi anche per un bambolotto di duecento secoli fa”, si rimproverò severa, indecisa su quale delle mille cose che restavano ancora da fare avesse la priorità. Salì al piano superiore a dare un’ultima controllata alle camere, mentre quella lieve ombra scura dentro di lei non pareva per niente intenzionata a svanire.

4_

- E sai che c’è di nuovo? Che non ho nessuna voglia di andarci… -
Guido Mali pronunciò quelle parole ad alta voce, a beneficio della stanza deserta e silenziosa, gettando un’occhiata sconsolata al borsone da viaggio aperto sul letto. Pieno per metà, una inquietante, enorme bocca affamata in attesa di altro cibo-vestiario. Già, no, proprio nessunissima voglia, e questo si ripercuoteva visibilmente sulle scelte e i tempi di organizzazione.
Ma perché mi son lasciato tirar dentro a ‘sta storia?”, rimuginò osservandosi impalato nel lun­go specchio applicato all’anta dell’armadio. Quarant’anni, magro come un chiodo, infagottato in un ruvido maglione nero su un paio di pantaloni di velluto a coste sottili. I capelli co­lor pepe-sale
(ormai più sale, decisamente più sale)
tagliati corti, sopra una faccia dall’espressione perplessa e abbacchiata. Più del solito, in quel momento, che già era tutto dire.
Frugò nel cassetto dei calzettoni senza prestarvi troppa attenzione, prendendo il primo paio capitatogli sottomano.
- Perché diavolo sono andato a dire di sì, quella volta? - si torturò ancora, non contento.
Perché forse glielo devi, a Terry, dopo la batosta che ha passato”, gli venne finalmente in soccorso una vocina dentro la sua testa, che lui stentò un po’ a riconoscere, considerato che da tempo non aveva un buon rapporto con la propria coscienza, ”con tutte le innumerevoli spalle che ti ha offerto per frignarci su dei tuoi casini sentimentali… o no?
O sì, neanche una parola al mondo. Però, anche così, voglio dire, non sarebbe stato sufficiente trovarsi da qual­che parte per due auguri, un cappuccino e via andare?
Passò nel minuscolo bagno, a recuperare shampoo e dentifricio, sprecando qualche secondo per rimirarsi nello specchio sopra il lavandino. “Spero sia l’orrendo neon che non mi decido mai a sostituire con qualcosa di meglio”, considerò sfiorandosi con la punta delle dita sotto le palpebre, “e che queste occhiaie scure in realtà non esistano, o son messo proprio bene…
E poi perché sono i tuoi amici”, riprese la vocina con insistente testardaggine. L’uomo corru­gò la fronte in una smorfia d’insofferenza. Oh bè, questa poi…
- Amici… sì, d’accordo, diciamo che sono le persone che più potrei definire tali, se proprio de­­­vo… - sbottò a mezza voce, come se dovesse convincere, oltre a sé stesso, un’inesistente quanto severa giuria - ma sono due vite che non ci vediamo, e ‘ste cose danno sempre l’idea di… nostalgico, da reduci dei bei tempi andati… Che poi, amici amici… con Terry senz’altro, e con Cristina, e Lucia. Pure Renato, ci mancherebbe, anche se ogni volta che ci scambio due chiacchere mi fa sentire così… sotto esame, come se fossi sul vetrino di un microscopio… -
Fece ritorno nell’ampia sala del monolocale in cui viveva, e che fungeva da cucinotto-salottino-camera da letto-di tutto un pò, facendo mente locale se aveva preso tutto per la pulizia per­sonale.
- Bah, forse è una MIA impressione, influenzata dal fatto che di mestiere è psicologo… solo che in ogni caso quando gli parlo mi sembra sempre che mi scruti dentro… -
E il classico peggio deve ancora venire, considerò mentre l’inesistente en­tusiasmo, già ai mi­ni­mi storici, prendeva a scivolargli sotto le scarpe. Peggio che non sarebbe tardato molto, nel­le fasti­dio­se sembianze di Gianni Ostiglia. Si lasciò sfuggire un mezzo lamento di esaspe­razio­ne, al ri­cordo di tutto quello che quell'idiota gli aveva fatto passare. Pareva essere proprio il suo passatempo preferito, tormentarlo e pungolarlo e STRESSARLO con un fuo­co di fila i­nar­­restabile di battute, cattiverie e allusioni e chi più ne ha più metta… E Ostiglia ne aveva, da mettere, o se ne aveva! E lui non aveva mai avuto il carattere o la for­za
(le palle?)
per cantargliene quattro e dirgli di piantarla. Anzi, ogni timida e supplichevole richiesta non dico di darci un taglio, ma almeno di ottenere un minimo di tregua, fungeva da benzina per le caustiche provocazioni dell’altro. Del presunto amicone...
E io dovrei passare una settimana, quella di Natale per di più, sotto lo stesso tetto con questo emerito imbecille cosmico?!?
Su, su, vedrai che troveremo il modo di starne il più possibile alla larga… e poi che ne sai, magari è cambiato…”
Sì, come no, e magari lo hanno arrestato, o forse Cristina ha divorziato, o meglio ancora trovato la forza di farlo fuori nel sonno…
Appoggiò con cura alcune camicie stirate di fresco sul letto, per sceglierne un paio. Quello che non era mai riuscito a capire, pur cercando di sforzarsi con fraterno spirito di tolleranza, era cosa c’entrasse quel rozzo essere con il resto della compagnia. Possibile che nessuno si fosse accorto che era come un corpo estraneo (e fastidioso) in un gruppo di persone sensibili e pia­­cevoli? Prima cosa. E seconda, mai che qualcuno si fosse realmente accorto della si­ste­ma­ti­ca persecuzione a cui lui era sottoposto, prendendo le sue difese, se non in qualche rara o­c­­­ca­sione quando la mano dello stronzo ci era andata giù troppo pesante...
Frugò sotto il lavello della cucina alla ricerca di una borsona di cartone per un paio di scarpe di scorta, e i pacchettini con i regali per gli altri. Sì, anche per lo stronzone...
E un’altra cosa strana, anzi in quel caso decisamente incomprensibile, era come quell’essere arido potesse essere riuscito a far innamorare una persona così dolce e assennata come Cri­stina che, a quanto ne sapeva lui dalle chiaccherate telefoniche con Teresa, lo adorava ancora e sem­pre come il più eccezionale degli uomini.
Già, già, perché una figlia assolutamente adorabile come Vanessa, trova spiegazione logica di come possa essere stata generata dai lombi di un coglione del genere?
No, decisamente no, convenne con sè stesso, magari è un “corno”, e vista l’assoluta discrepanza caratteriale non ci sarebbe nulla di strano. Anzi, se così fosse gli starebbe anche bene... So­lo che la moglie stra­vede così tanto per lui, per l’appunto, che temo resti un’ipotesi alquanto cam­pata per aria...
Lo squillo del telefono lacerò il silenzio pesante della stanza e il ribollire dei suoi pensieri. Si tirò su da sotto il lavandino, dove stava approfittando per mettere un pò d’ordine tra le confezioni mezze vuote di vari prodotti per la pulizia
(già che abbiamo tempo da sprecare)
chiedendosi incuriosito e un pò ansioso chi poteva essere. Forse Terry che avverte che non se ne fa più niente, azzardò vergognandosi un pelo di quella totale mancanza di coinvolgimento, o ma­le che vada che lo stronzone non viene proprio. Si scusa, si rammarica ma non può venire... Sì, bè, non illudiamoci troppo, amico...
Scavalcò con un lungo passo il bordo del letto, avvicinandosi al minuscolo tavolinetto accanto al divano.
- Sì, pronto? -
- Ciao, sono io - disse una voce che lui non si aspettava affatto di sentire - brutto momento? -
Guido si lasciò cadere di traverso sulla poltrona, con le gambe a cavallo del bracciolo, mentre il cuore aumentava lievissimamente il battito, e una tiepida sensazione di calore gli arrossava le gote
(come un adolescente imberbe. A quaranta e passa anni...)
- C-come? N-o, no, al contrario, ma... - rispose d’un fiato, maledicendo quella reazione goffa e ben poco matura - solo che... non pensavo di sentirti, avevo capito che... ma dove... non do­vevi... -
Una risatina divertita e soddisfatta dall’altro capo del telefono commentò la sua titubante ri­sposta:
- Già, me ne accorgo... Solo che l’altro ieri ti avevo detto che era l’ultima volta che ci vedevamo, almeno fino all’anno nuovo... NON che ci sentivamo... e difatti eccomi qui... oh, sempre che non ti dispiaccia... -
L’uomo si tirò su dal morbido abbraccio dei cuscini, sedendosi un pò più composto. L’inattesa piacevolezza di quella chiamata lo faceva sentire euforico, e buona parte dei pensieri negativi di poco prima sembravano già essere un lontano ricordo:
- No, no, ci mancherebbe, e spero che tu lo sappia - si mordicchiò lieve un labbro, per cercare di “suturare” un minimo lo sfrontato sorriso che gli stava attraversando la faccia accaldata - ero qui, ti stavo pensand... no, no, in tutta sincerità ero alle prese con la borsa per i prossimi giorni, e con la precisa consapevolezza di non aver la minima voglia di andarci... ma dimmi di te, dove sei? Io pensavo che... -
- Fossi già fuori Italia? No, no... beh, quasi... siamo in una stazione di servizio subito dopo Bressanone... sosta tecnica, sai com’è, sigarette, pipì... gli altri sono spariti nelle corsie del mi­nimarket, da dove torneranno carichi di cianfrusaglie inutili, e io ho trovato nelle tasche questa tessera telefonica... che avevo comprato apposta, tanto per esser chiari... -
Guido decise di lasciar andare il sorriso per i fatti suoi. Si accorse di avere ancora in mano il pa­io di calzettoni a quadri scozzesi debitamente avvoltolati, e li lanciò con un “gancio” disinvolto in direzione del borsone aperto dietro di sè. L’improvvisata palla “calzettoniana” sparì alla perfezione nei meandri della borsa. Alla grandissima. Come se quella inaspettata te­le­fo­nata avesse avuto il potere di “rovesciargli” la giornata, rimettendola sui giusti binari.
- Gli altri... chi sono? - si sentì chiedere, non riuscendo a bloccare quella domanda indelicata e interessata prima che evadesse dalle labbra. Che razza di coglione!
La risatina al suo orecchio, ora volutamente ironica, giustificò quel suo severo auto-insulto.
- C’è forse una puntina di gelosia, che traspare da questa civile chiaccherata? - Guido s’inflisse alcuni dolorosi pizzicotti su una coscia, scuotendo la testa - te l’ho detto, amici e amiche, una bella compagnia. Che forse un giorno o l’altro conoscerai anche tu... gente simpatica... In­formazioni sufficienti ed esaurienti? -
- Oh bè, sì, ci mancherebbe altro... -
- Sicuro? Sicuro sicuro sicuro? -
- Eddài, piantala - “colpa tua, coglionazzo, te la sei andata a cercare” - non infierire... -
- UN ATTIMO E ARRIVO! NO, NON PRENDO NIENTE, A POSTO COSI’... sì, scusami, ma stanno uscendo dal grill... no, hanno preso anche un’enorme peluche a forma di Gatto Sil­vestro! Comunque, cosa stavamo dicendo... ah già, niente di speciale, ragazzi a posto... anche se... - l’uomo seduto sul bordo della poltrona sentì un sommesso ma deciso tuffo nel centro del petto, detestandosi per questo - c’è questo Claudio, un interessante assistente universitario di Pa­dova, con due bei baffetti da sparviero, beh, credo che mi faccia gli occhi dol­ci... -
- E su, piantala... ammetto di essermi comportato da... -
- Fanciullo, stattene buono e tranquillo - il tono di voce nel telefono si fece serio, e così intimo da far venire i brividi al vecchio cuore titubante del suo interlocutore - soprattutto molto tranquillo... te lo ripeto, gente in gamba, ma per me conta solo che passino via in fretta queste Fe­ste e poi... appena al di là di Capodanno... ho sette, otto conti in sospeso con un affascinante signore che hai i capelli come George Clooney e, ipotizzo, non solo quelli... ricordati, appena al di là di Capodanno... ora temo proprio che ci dobbiamo salutare... passa il miglior Na­ta­le che puoi... -
- Oh ciao, grazie... anche tu - rispose Guido, cercando di non badare ai due eserciti contrapposti di Euforia e Malinconia che si stavano scontrando sul terreno neutro del suo cuore - di­ver­titi, e ricordati di fare un giro per Schwabing... ciao! -
Il clic impietoso della linea che si chiudeva. Restò immobile, la cornetta del telefono ab­ban­donata in grembo, riassaporando nella mente i brani di quella conversazione, come golosi dol­cetti di cioccolato
(ho trovato nelle tasche questa tessera telefonica... che avevo comprato apposta, tanto per esser chiari...)
(C’è forse una puntina di gelosia, che traspare da questa civile chiaccherata?)
(per me conta solo che passino via in fretta queste Feste e poi... appena al di là di Capo­dan­no...)
Il sorriso tornò a fargli visita, come un vecchio, gradito compagno di strada, mentre gli occhi gli si velavano sfuocando il conosciuto panorama del suo monolocale di scapolo.
(passa il miglior Natale che puoi...)
Oh, l’avrebbe fatto, ce l’avrebbe messa tutta, alla facciazza degli ultimi tempi non proprio me­­morabili, e della convinzione (del cazzo, adesso poteva affermarlo quasi con certezza) che non avrebbe più provato certe devastanti deliziose sensazioni nel corso della sua placida vita.
E se lo stronzone galattico mi rompe troppo le balle, va a finire che lo prendo e lo butto nel le­tamaio del contadino di Terry”
(fosse vero)
Il trillo sguaiato del campanello lo strappò con un sussulto a quel delizioso attimo di quiete e raccoglimento:
- Questa dev’essere Diamante, e io sono ancora in alto mare... - borbottò alzandosi per rag­giungere il citofono - come il mio solito, d’altra parte... -

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Capitolo 4
*** Analgesico - Ricordi taglienti ***


5_

La sterminata fila di auto sembrava non avere nè inizio nè fine, in un’alternanza sconfortante di fa­nalini rossi come braci e tubi di scappamento sputacchianti. Fo­­late lattiginose di perniciosi gas di scarico si alzavano nell’aria umida del tardo pomeriggio. In fondo al viale, dove convergevano  tre colonne di veicoli strombazzanti, un complicato impianto semaforico accendeva e spe­­gneva le sue luci segnaletiche come fredde lampadine al rallentatore di un improbabile e biz­zarro albero di Natale. Al di sopra dell’autocolonna di tram, furgoni e vetture le lu­minarie of­fer­te dal­le associazioni di commercianti continuavano imperterrite a sfarfallare co­me se il caos sot­tostante non le riguardassero.
- Chissà come mai da questa parte quello stramaledetto verde dura metà degli altri - si la­mentò spazientito Gianni Ostiglia, assestando un mezzo colpo sul volante che strappò al clacson un gemito sordo - e dove cazzo andranno questi dementi tutti assieme, a quest’ora poi... -
Sul sedile posteriore Vanessa, tredici anni, capelli castano-biondi tenuti fermi da un cerchietto metallico, due occhi verdi e svegli, una spruzzata di tenui efelidi nei dintorni di un nasino deliziosamente all’insù, finì di tracciare le proprie iniziali sulla superficie appannata del finestrino:
- Dementi tali e quali a noi - sentenziò con tono divertito - dato che sono in giro per gli stessi no­­stri motivi... è Natale, e rimanda, rimanda di comprare i regali, ecco che ci troviamo a questo punto... -
Il padre fece balenare nella sua direzione un’occhiataccia sdegnata, attraverso lo specchietto re­trovisore:
- Ehi, ragazzina, bassa con le orecchie, senza fare tanto la spiritosa, o ti metto giù qua in mezzo alla strada - sibilò punto sul vivo - e tricche tricche tracche… poi vediamo se ti diverti a ve­nire da Teresa a piedi... -
Sua moglie Cristina, seduta a fianco, gli posò una mano sull’avambraccio in un gesto che voleva essere tranquillizzante, ottenendo solo di riuscire ad avvertire i nervi tesi del marito guizzare sotto le sue dita.
- E dai, caro, che già è pesante stare qui in fila ad aspettare - disse serafica - non è il caso che ce la prendiamo tra di noi... anche se Vanessa non ha tutti i torti, in fin dei conti... Era ovvio che andava a finire così, altrimenti bisognava uscire subito dopo pranzo... e se tu non avessi do­vu­to vedere quel tuo cliente... -
Gianni Ostiglia si voltò di scatto in direzione della donna, irritato da quell’accusa, nemmeno troppo velata, che rilanciava a lui la colpa di essere imbottigliati in quel casino, poi preferì la­sciar cadere la cosa. Anche perché in fondo era andata così. Grosso modo. Con l’unica, determinante differenza, della quale certo non era proprio il caso di mettere al corrente la cara fa­migliola, che non si trattava esattamente di un cliente, il personaggio con cui aveva avuto un’urgenza dannata d’incontrarsi, in quel primo pomeriggio. Anzi, a dirsela proprio tutta, la parte del cliente questa volta l’aveva fatta lui, con somma soddisfazione visto che la cosa che aspettava... il desiderato regalo di Natale a sè stesso... finalmente era arrivata. Ancora una vol­ta la m­ano corse quasi involontariamente a palparsi la tasca interna del pregiato cappotto Tom­my Hilfilger che in­dossava. “Mi sono sputtanato un pò della personale gratifica natalizia, auto-elargitami ad insaputa del mio buon socio”, rimuginò mentre la fila di auto scalava esasperatamente di non più di un paio di posti, “ma di­rei che era fondamentale per tener botta ai ben poco affascinanti giorni che ci aspettano...”. Quella riflessione gli fece sbottar fuori una domanda che era un pò che gli ronzava in testa, e che non aveva ancora avuto le palle di fa­re profetizzandone la scontata e deprimente risposta:
- Ah, a proposito, a questa bella rimpatriata, che ci impegnerà così a fondo, quando potevamo es­sere ospiti nella casa di Monguelfo degli Stefani... chi ci dovrebbe essere? - chiese con la so­lita supponenza nel tono.
- B-l-e-a-a-a-h, gli Stefani! - si lamentò sua figlia dal sedile posteriore, ad un volume di voce quasi impercettibile.
- Oh bè, ci saranno tutti - si animò sua moglie, desiderosa di infondere anche allo scontroso compagno un minimo di entusiasmo - tutti i nostri amici, come una volta... Renato e Lucia, coi bimbi, e il buon Guido
- Naaaaaaa - sbottò l’uomo al volante, rannicchiandosi tutto contro la portiera per manifestare platealmente il suo stupore - anche gli occhioni dolci di Guida Mali!?! Dio mio, quale o­no­re! E viene squallidamente da solo, come al solito, lui e la sua aria da primo classificato al Con­corso Mondiale degli Sfigati, o porta qualche compagnuccio di giochi? -
- Dai, Gianni, non essere sciocco - ribattè Cristina sventolando il pollice all’altezza della spalla si­nistra, per indicare la figlia senza farsi notare - quando ti deciderai a smetterla di tormentarlo, che ormai è un ritornello che ha stancato? E poi, se proprio lo vuoi sapere, a quanto dice Terry quest’anno non verrà da solo... -
- Sì? - s’informò Vanessa sporgendo curiosa la testa attraverso i sedili anteriori - e chi porta, mamma, lo zio Guido? -
- Già, chi ci porta, la zietta? - rincarò la dose suo padre, agitando lezioso una manina nell’aria - un marinaio? Un corazziere? No, no, aspetta, fammi indovinare... magari un bel donnino con la vociona roca e un velo di barba sotto il fondotinta... -
Sghignazzò sgangheratamente a quell'irresistibile battuta di spirito, fingendo di non co­gliere l’occhiataccia di fuoco che Cristina gli stava indirizzando.
- Gianni, smettila di fare questi discorsi di fronte alla bambina! - sibilò lei - Teresa dice che porterà una sua amica… -
- Me la posso immaginare - borbottò tra i denti l’uomo al volante, fissando ostentatamente il guidatore della macchina a fianco che pareva avere tutte le insane intenzioni di infilarsi nella sua corsia.
- … non sappiamo chi sia, ma già questo secondo me è un buon segnale per Guido… che è un ottimo ragazzo… e una persona del tutto NORMALE… - la donna sottolineò con il tono di voce quella precisazione, a beneficio della figlia che ascoltava con interesse, e soprattutto del marito, a smorzare sul nascere eventuali caustici commenti - …solo che è sempre sta­to un po’ timido e riservato… -
Uno spericolato ciclista, intabarrato in sciarpa e capellaccio, sbucò dalla foschia alle loro spalle, sfi­lando accanto al finestrino di Gianni, per poi appoggiarsi per un brevissimo attimo sul cofano lucido della Focus station wagon.
- Tesoro, giù le mani! - esclamò irritato il guidatore, assestando un velenoso colpo di clacson all’indirizzo dell’incauto ciclista. Questi trasalì colto di sorpresa poi, prima di svicolare via scomparendo nel mare metallico davanti a sè, agitò un braccio in segno di protesta.
- Sì, sì, vai, testa da peri… - ribattè Gianni sventolando le mani sopra il cruscotto illuminato, come per sospingerlo idealmente via - ma guarda te che razza di ebeti che circolano… - si frugò nelle tasche alla ricerca delle sigarette, anticipato dallo sguardo della moglie in agguato:
- Gianni, no… per cortesia… - gli chiese con tono gentile ma fermo - già siamo bloccati in mezzo a tutto ‘sto smog… e poi chiusi qui dentro… sai che poi va a finire che mi esplode il mal di testa… -
L’uomo si lasciò cadere la mano in grembo con fare esagerato, deciso a ribattere con qualche frecciatina, ma in quel momento la fila di auto che li cingeva d’assedio si mosse tutta assieme, e lui si affrettò ad innestare la marcia per non perdere centimetri preziosi. Sul sedile posteriore, Vanessa frugò nello zaino che teneva al fianco, a cui erano appesi un paio di minuscoli orsetti di peluche, come bizzarri feticci pagani, ed estrasse un’agenda dalla vistosa co­per­tina rosa, rigonfia di fogli e un po’ squinternata. La aprì sulle ginocchia, prendendo da una ta­schina laterale una penna biro.
- Vanessa, non farebbe proprio benissimo scrivere in auto - le disse la madre, girandosi leggermente verso di lei - con questa poca luce, poi… -
La ragazzina scartabellò veloce le pagine:
- Solo un secondo, mamma - rispose - oggi non ho ancora scritto niente, e poi va a finire che mi dimentico… -
Cristina ci pensò su un attimo, poi tornò a dedicare la sua attenzione al traffico che si stava muovendo con lentezza esasperante.
Vanessa lisciò con la mano aperta la pagina relativa al giorno in corso, poi si appoggiò l’estremità della penna sotto il labbro inferiore, riflettendo per alcuni secondi:
“IPOTESI NATALE DAGLI STEFANI: SALTATA!!!”, scrisse poi, con calligrafia minuta e tondeggiante, “Bene così, troppo noiosi e sempre a parlare di soldi, lavoro, case e macchine con papà”. Rilesse velocemente quanto scritto, pensandoci su, poi aggiunse: “Natale in campagna da zia Terry, con tutti gli amici di mamma e papà: DIVERTIMENTO ASSICURATO!!!”
La loro auto scivolò via oltre il caotico incrocio, approfittando della titubanza alla guida di un’anziana al volante di una vecchia 127, debitamente sottolineata da un impietoso commento di Gianni, e prese a dirigersi un po’ più velocemente verso la periferia della città.
- Bene, dicevo prima… - riprese Cristina, come se non ci fosse stata nessun intervallo nel suo discorso - ci saremo tutti, e Terry dice che ha organizzato una bella tavolata per il giorno di Na­­tale... sai, Vane, ci sarà anche nonno Corrado… -
- Eccolo lì… lo sapevo io! - s’intromise il marito, scuotendo la testa in segno di disapprovazione - adesso sì che siamo a posto… Venghino, venghino, siorri e siorre, suggestivo soggiorno natalizio, col vedovo… anzi, i vedovi… - sembrò non registrare l’ennesima occhiata di disapprovazione della moglie - …per un bel tour-de-force di rimembranze e lacrimoni, il tutto condito dallo scorrazzare frastornante di un branco di ragazzini in libertà! Ah, si preparino barili di analgesici per il mal di testa! -
(io ce l’ho qui in tasca, quello mio personale)
- Ufff, Gianni, quando ti ci metti, però! -
- Ma… scusa… adesso che ci penso… cos’ha, una caserma, Teresa, per farci stare tutta questa gente anche a dormire?!? -
- Beh… a quanto mi diceva Terry la casa è bella grande… e comunque in ogni caso suo padre e tutti i bambini, che sono in ogni caso TRE… mica seimila… li ospitano gli Iotti che stanno giusto al di là del cortile… -
- Sul serio noi ragazzi avremo un posto tutto nostro, mamma?!? - saltò su Vanessa entusiasta di quell’ipotesi.
- Buona lì, tu - la calmò il padre, agitando una mano. Poi, rivolgendosi alla moglie con un’espressione esageratamente sbigottita - com’è la faccenda, cara la mia mamma mo­der­na? Tu pensi che sia veramente un’idea assennata quella di far dormire nostra figlia, da so­la, in casa di quegli emeriti sconos… -
- Guarda che me lo so cavare benissimo, papà! - cercò di intromettersi, inutilmente, la ragazzina.
- …voglio dire, con TUTTO il rispetto, ci mancherebbe - proseguì imperterrito l’uomo - ma però, anche Teresa, venite, venite, vi ospito… e poi mi fa dormire la bambina da dei… -
- Non lo dire… -
- E bè… che male c’è? Voglio dire, è il mestiere che fanno, mica si devono offendere… solo che… passare da una stanza tutta sua, in uno dei più bei chalet di Monguelfo e dintorni, a… a… una camerata COMUNE da dei contadini… beh, insomma, PER ME è una cosa che non sta né in cielo né… -
- Ma insomma! - sbottò stizzita sua moglie, battendo un minuscolo pugno sul cruscotto da­vanti a sé - sono delle bravissime persone, che conoscono Terri… no, anzi, la famiglia di Te­re­sa… da tempo immemorabile, e si fanno in quattro per farci stare a nostro agio, e tu… tu… an­cora con ‘sta storia degli Stefani e del loro noiosissimo chalet!!! -
Brava, mamma!”, esultò mentalmente la figlia, nascondendo un sorrisetto sfrontato nella se­mioscurità del sedile posteriore.
Un silenzio pesante e teso avvolse gli occupanti dell’auto, come se la foschia che premeva sui fi­nestrini fosse riuscita a penetrare. L’uomo alla guida accese l’autoradio, tenendola ad un vo­lu­me quasi impercettibile. Dopo un attimo prese a canticchiare a mezza voce il melenso brano natalizio che stavano trasmettendo, apparentemente tranquillo, mentre in realtà dentro di sé era tutto un ribollire di pensieri e sensazioni. Chissà poi perché se l’era presa così tan­to, per quella faccenda di... quella specie di dependance per i bambini… E pure per tutto quan­to il re­sto… Non che la prospettiva dei giorni seguenti avesse per lui una qualche sorta di attrattiva… manco pù caz­zo… e senza il minimo dubbio sarebbe stato mooolto meglio spa­paranzato su una poltrona di fronte alla vetrata panoramica del salotto degli Stefani, con un bicchiere di Gewürztraminer passito, fresco al punto giusto… Se mi avessero invitato…e invece, invece, invece no!, come dice la canzone. E allora perché diavolo ti stai riempiendo la bocca da giorni con “e andiamo su dagli Stefani”, “e si sono tanto raccomandati”…, gli chiese una vocina impertinente da qualche parte nella testa, confusa in una melassa o­vat­tata preannunciante un bel mal di testa
(DEVO assolutamente prendere un po’ del mio anal-ge-ge-ge-sico)
Valutò se inventarsi un’urgente sosta tecnica per pipì, ma il traffico aveva ripreso ad essere rallentato e singhiozzante, e temeva di mangiarsi fuori ulteriore tempo. Beh, l’ho detto perché sono un venditore, e regola prima di ogni BUON venditore è pensare in grande, riprese a spiegare a sé stesso, puntare in alto, mai titubare! Bravo, amico, sospirarono in coro ora tre o quattro vocine che si sovrapponevano come frasi musicali, e se per caso la famigliola avesse da­to il suo assenso alla puntata dagli Stefani, cosa facevi? Una bella improvvisata a sorpresa?
Aggrottò la fronte in un’espressione infastidita, mentre sua moglie spiegava alla fi­glia qualcosa di cui non afferrò il senso. Oh bè, questo è proprio l’ultimo dei miei problems… tricche tricche tracche… anzi, non lo è per niente, un problems, visto che fino a quando IO porto a ca­­sa i dindini, sta a ME decidere quello che si fa o non si fa…. Fino a che sono IO. Non lo sa­rà per molto, ma per il momento va così. Azionò il tergicristallo del lunotto posteriore, ren­den­dosi conto con disappunto che era nebbia e non l’appannamento del vetro a ridurre la vi­si­bilità esterna. Che razza di culo di tempo!, rimuginò stizzito, ora piove, e poi vien su un neb­bione, e poi ancora ghiaccia… e tutto nel giro di mezz’ora… Si immaginò immerso fino al col­lo nella penosa atmosfera, mezza commemorazione funebre e mezza squallida rimpatriata, che lo attendeva alla fine di quella stressante giornata. Che due immensi maroni. Solo che non lo po­teva evitare. Anzi, capitava proprio a fagiolo, guai se fosse stato così stolto da non prenderci dentro. In fondo si trattava solo di modificare la visione della cosa, e vederla sotto una lu­ce vantaggiosa e indispensabile. E a pensarci bene, non era poi così difficile, con le sue brillanti capacità. Non una pallosa festicciola in famiglia, ma la concreta possibilità, per alcuni de­terminanti giorni, di starsene alla larga da attenzioni indesiderate. Che erano poi quelle del suo petulante socio, probabilmente già isterico (se il buon dottor commercialista Pia­centini gliel’ha messa giù bene, e non ho dubbi in merito) e in caccia. Per cui in fin dei con­ti lui DO­VE­VA starsene buono buono, rintanato nella piangente fattoria ai Vedovi, reca­pi­to sconosciuto, ovviamente con il cellulare bello spento come se avesse tirato le cuoia in un mondo i­deale dove le batterie, e relativi caricabatterie, si erano estinti da secoli.
- Quanto manca, mamma? - chiese impaziente la ragazzina dalla penombra del sedile posteriore, rotta a tratti dalle pennellate dei neon dei centri commerciali e le sfumature aranciate dei lampioni stradali.
- Come “quanto manca”?!? - sbottò l’uomo alla guida, affiorando dal suo personale mare di e­lucubrazioni - e che sarà mai, mica stiamo andando in ferie sul Gargano… Vò di Brendola di­sta quindici chilometri da casa nostra, e fra meno di dieci minuti ci siamo… dai, un minimo di pazienza… -
Tornò a riimmergersi nei propri vorticanti pensieri. Profilo basso. Profilo basso. Giù buono e tranquillo. E’ solo questione di tempo. Tempo del cazzo che passa in un attimo.
(come siamo arrivati a questo punto…)
Che razza di domanda del cazzo. Lo sapeva benissimo, come c’era arrivato, e non gli dava il mi­nimo fastidio, alla facciazza di quella vocina rompicoglioni, rivangare la faccenda. Sono an­da­­to a Milano per il Chibicar, per trovare qualche novità promozionale che stimolasse di un pe­­­lo l’inesistente entusiasmo imprenditoriale locale (leggi scucire qualche dindino alla pre­mia­ta Osma)… alt, un attimo, passo indietro, dati insufficienti, specificare habitat esterno e in­­­terno... Sono andato a Milano scoglionato, stressato, demotivato, scontento (non sapevo di che cosa ma sapevo bene di esserlo), insoddisfatto, inappagato, vessato da clientucoli del caz­zo, fornitori incompetenti, un socio molle come uno stracchino mollo, e le bocche spalancate di una moglie e una figlia. Metaforicamente, ma sempre spalancate. Ci sono andato col morale e i coglioni sotto le suole delle scarpe, convinto di fare un giro a vuoto, di buttare un bel pò di soldi dalla finestra (hai idea di quanto costano gli alberghi a Milano, sotto Fiera?!?) e vedere le solite facce da cazzo impegolate in discorsi da cazzo senza capo nè coda. E al novanta­no­ve virgola nove per cento la menata era stata proprio così. Solo che l’infimo, infinitesimale, de­terminante 0,1 aveva la faccia e le orecchie a sventola di Tazio Fabiani.
CHI E’ TAZIO FABIANI?!?, sentì chiedere dentro la sua testa ronzante da una pessima i­mi­tazione di quel coglione di comico (vestito da donna, per di più) che si esibiva in quella tra­s­mis­sione di cabaret su Italia Uno. Il capoarea Nord Est di una grossa industria serigrafica di Ro­­lo, per cominciare, che aveva diviso con lui l’oneroso affitto di una doppia al motel Biri di Bru­gherio. Ma questo era ininfluente, ai fini della storia. In seconda battuta, e di PRIMISSIMA importanza, si trattava dell’uomo che al termine della prima, estenuante, devastante giornata di Fie­ra, steso sul lettino singolo con un asciugamano “griffato” Biri intorno ai fianchi, lo aveva scru­tato negli occhi, in silenzio, per alcuni, lunghissimi minuti (Sarà mica cula, el Fabiani?, si era chiesto con una leggera spina di disagio l’altro). Alla fine di quella inquietante “radiografia” il rappresentante emiliano aveva puntato un dito verso di lui:
- Ti vedo uno straccio, Ostiglia - aveva diagnosticato tutto compunto - già, già, ti vedo molto, molto giù... - e, al suo sconfitto cenno di assenso, aveva proseguito - ma adesso c’è zio Tazio qui, per tirarti su, mooolto su... -
Ed era stato lì che si era alzato dal letto, reggendosi pudico l’asciugamano umido (e facendo ti­rare un bel sospiro di sollievo a Gianni che già pensava di dovergli scagliare l’abat-jour sul­la testa, per smorzare eventuali bollori finocchieschi), estraendo dalla valigia un sacchettino di pla­stica pieno per metà di una bianca sostanza polverosa. Non che Gianni Ostiglia venisse giù dalla montagna con la piena, intendiamoci, e qualche bel cannone se l’era fatto con som­mo gu­sto, in gioventù... solo che quella robetta... l’analge-ge-ge-si-co, come lo aveva definito il suo compagno di stanza, lo travolse come una valanga inarrestabile. Come se avesse (fi­nal­mente) trovato la sua personale Ambrosia, il suo Graal, la sua ambita Pietra Filosofale...
In quella tristanzuola stanza di motel di terza, dopo ot­­to ore a scarpinare come dannati danteschi nei surriscaldati gironi della Fiera di Milano, par­larono senza fermarsi un secondo per buona parte della serata. Di lavoro, di progetti, di com­messe, di provvigioni, di strategie di vendita. Gianni Ostiglia si sentiva lucido e teso e perfetto, cavalcando le parole come impetuose onde marine di cui aveva pieno controllo, ra­gionando e riuscendo a vedere il nocciolo del problema... del suo problema... di tutti i problemi, come mai nella vita era riuscito neanche lontanamente ad immaginare. Verso mezzanotte, do­po un’altra, generosa assunzione di analge-ge-sico, fecero tappa in un vicino fast-food, divorando qualcosa come tre doppi cheeseburger a testa, due porzioni medie di gol­den nug­gets, una maxi di patatine fritte. Senza smettere un secondo di dare fiato alla boc­ca. La stan­chezza fisica, celata ma per nulla eliminata dalla scoperta di quella insospettabile, nuovissima frontiera, si alleò con le tre birre me­die che si era scolato senza batter ciglio, trasformando il resto della nottata in un oblìo confuso e rallentato di cui, il giorno seguente, sarebbe riuscito a ricostruirne solo una misera parte.
Ri­cordava a fa­tica una corsa in taxi lungo i viali deserti e scuri di una Milano da film giallo, ad una velocità che gli parve essere vicina a quella della luce, e poi il cavernoso ambiente sa­tu­ro di fumo e di odori grevi del Teatrino dove, sciolto dentro una poltrona di seconda fila, a­ve­va infilato dita golose in anfratti cedevoli e umidicci di una spogliarellista sovrappeso. In­fi­ne avevano fatto ritorno alla camera 312 del loro motel, come e in che condizioni non sarebbe mai stato in grado di spiegare, e le ultime due cose che ricordava, prima di sprofondare in un abisso nero come il fondo dell’inferno, erano state il cuscino di un bianco abbagliante che gli veniva incontro, come in un rallenty cinematografico, e la sensazione tangibile e fisica del grande sorriso soddisfatto che non pareva avere la minima intenzione di abbandonare la sua faccia.

6_

Teresa Angeli restò immobile sul ciglio del letto, dove si era seduta per recuperare anelli e o­ro­logio dal comodino, con lo sguardo fisso davanti a sé. Tutt’intorno la casa si stiracchiava pi­gra, con i misteriosi e consueti rumori di tutte le case del mondo, mentre una nebbia leggera pigiava insistente contro i vetri delle finestre.
Tirò un muto, leggero sospiro, che le uscì lieve e appena un po’ tremante.
Dal piano di sotto le arrivavano ovattate, come in un sogno, le note tintinnanti del solito cd natalizio, che aveva impostato sull’opzione repeat per non dover continuamente far la spola tra la cu­ci­na ed il rack stereo
(e soprattutto esser costretta a sopportare un silenzio che le evocava nella mente mille pensieri indesiderati)
Timidi cigolìi del parquet in legno. Tintinnìi di note da sotto i piedi. Il www-bufff deciso della caldaia che scattava.
Lascia perdere, non è necessario… e poi saranno qui a minuti
Si lasciò sfuggire un ulteriore, rumoroso sospiro che le partì dal cuore:
- Stanno arrivando tutti - mormorò a mezza voce, rivolta alla stanza silenziosa e scura, mentre lottava per smorzare un pizzicorino all'angolo degli occhi - tutti i nostri amici… tutti i tuoi amici… -
Le mani, fredde e insensibili come pezzi di ghiaccio, le si contrassero in grembo in una stretta priva di forza.
Ragazza, sei su una strada pericolosa, molto pericolosa, e non te lo puoi permettere…
Si morse il labbro inferiore, per tener fuori dalla sua testa quella voce indesiderata, senza rendersi conto di quant’era inscindibile da sé stessa.
- …e sarebbe così bello - una lieve puntura le fece contrarre l’occhio destro - … sarebbe così bello… se - il pizzicore sui bordi delle palpebre aumentò
(eh no, cavoli, che mi sono appena truccata!)
assieme ad una specie di onda montante che le stava salendo su dal petto, e poi nel col­lo, dentro la testa, in cerca di uno sfogo per uscire
- …e sarebbe così bello se tu fossi qui con noi… - pronunciò tutto d’un fiato, testarda e dispe­ra­ta.
Le lacrime presero a rotolarle giù per le gote arrossate, senza che lei potesse in alcun modo ar­restarle. Ben sapendo, anche se non c’era nessuno specchio nelle vicinanze, che il rimmel le avrebbe deformato il contorno degli occhi, rendendola simile ad un bizzarro e singhiozzante panda.
Te la sei voluta, questa, spero che tu te ne rend
- ME LA SONO VOLUTA SI’!!! - esplose calciando via una delle scarpe in placida attesa davanti ai suoi piedi - ma è quasi Natale, e a momenti saranno qui degli amici, delle persone carissime… ma quella che più desidero al mondo, l’unica per la quale darei la vita, se questo potesse in qualche modo farla arrivare qui, mi è stata strappata via… -
Spalancò la bocca, alla ricerca di un profondo respiro che contrastasse la sensazione soffocante di annegamento.
(Okay, ti sei sfogata… adesso alzati, va in bagno e datti una bella restaurata)
Non ne ho voglia.
(Eddài)
Non ne ho nessuna voglia.
Silenzio. Lontano, da qualche parte nei campi lì attorno, il sommesso borbottare di un trattore.
(Lo devi fare… saranno qui a momenti)
Già. Lo devo fare. Anche se dentro mi sento vuota e arida come se avessi uno sterminato de­ser­to, al posto dell’anima. Piccoli passi. Piccoli passi, ti ricordi, vero? E come no, era stata una con­vinta strategia (una delle) messa a punto assieme a Renato, in uno dei momenti più bui e an­goscianti di tutta la faccenda. Un po’ alla volta, senza voler strafare, ma neanche lasciandosi affondare senza reagire. Un piede avanti all’altro, consueti gesti quotidiani, aprire gli occhi, spostare le coperte, mettere i piedi a terra, infilarli nelle pantofole. Piccole azioni le une in fi­la alle altre, come simbolici grani di un rosario infinito e dolente. Il trucco stava tutto nel non chie­dersi assolutissimamente MAI: “e a che scop ?”. Non che poi avesse funzionato più di tanto, considerando che il pur disponibilissimo Renato non lo era tale, per ovvi motivi, per ventiquattr’ore al giorno
(ne avevi già uno, con tale esclusiva mansione, ma in quel caso il problema non avrebbe a­vu­to ragione di sussistere)
come diceva quel tizio? “I periodi neri sono come i foruncoli. Qualsiasi cosa tu faccia, se ne vanno quando pare a loro”. Parole sante. Era passato, il periodo nero (uno dei), come aveva professionalmente diagnosticato Renato. Anche se l’aveva messa in guardia. “Non sarà una cosa semplice”, aveva detto
(beh, questo, detto da chiunque, foss’egli amico o psicoterapeuta o tutte due le cose assieme, era decisamente banalotto, ma vogliamo concedergli un minimo di fallace umanità pure al doc?)
“ci saranno più fasi, oltre a quella iniziale in cui non provi assolutamente nessuno stimolo ad andare avanti. Magari con la comprensibilissima aspirazione ad “andare indietro”
(o “andare” e basta)
Ti sembrerà di non farcela, ma se terrai duro presto o tardi la cosa diverrà, se non accettabile, quantomeno sopportabile…”
Era andata così, anche se a quel tempo il viso di Teresa si era corrugato in una smorfia rab­biosa, seguita subito dopo da una specie di ghigno sardonico. La cosa divertente e tragica nel­lo stesso momento era l’assurdità, da parte di uno che aveva a casa una bella moglie e due a­do­­rabili bimbi
(vivi, se il particolare vi sembra secondario)
che lo aspettavano a braccia aperte, di poter azzardare la benchè minima parola sull’argomento.
Impossibile. Inconcepibile. Del tutto non aderente con la realtà
(la realtà di una che se ne doveva tornare in una casa VUOTA e FREDDA, specchio fedele del suo cuore)
Ma dai, non scherziamo!, aveva pensato sconfitta Teresa quel giorno ormai lontano, già è ostico essere di reale conforto ad uno che ha il mal di denti o l’emicrania, se noi stiamo in salute. Figurati nel momento in cui
(Piccoli passi, ragazza, comincia a muoverti…)
Voltò la testa verso la porta della minuscola stanza da bagno, a fatica, come se i tendini del collo le si fossero arrugginiti. Dallo stipite, immobile nell’aria ferma della camera
(e chi lo muove, a quello?)
pendeva una specie di sonaglino fatto di conchiglie e legnetti
(lascialo perdere)
scovato e voluto a tutti i costi da suo marito, su una bancarella in riva al mare
(Estate ’98, Scalea, Calabria… c’è un bell’album fotografico giù nella saletta tv, se credi, belli e felici e soprattutto ignari del futuro)
(Teresa, PER FAVORE, solo piccoli passi, guardando fisso avanti a te, senza concederti sconfinamenti)
“Lo voglio appendere da qualche parte, in casa”, aveva detto, “e ascoltarlo tintinnare nei giorni d’estate, mosso da un filo di deliziosa corrente…”
In realtà, scoprirono ben presto che il “peso specifico” di quel manufatto etnico era tale da ri­chiedere come minimo un tifone tropicale, al fine di cavargli qualche minimo soddisfacente tin­­tinnìo (e difatti fece udire il suo prezioso suono solo in occasione di un paio di robusti tem­poraloni estivi, mentre il resto delle brezze casalinghe gli facevano una pippa)
Car­lo non se l’era presa più di tanto, accettando di buon grado il crudele responso della fisica dei solidi, provvedendo lui stesso, quand’era di buon umore, a far lavorare lo svogliato oggetto, “prendendoci dentro” con la sommità della testa.
(di solito accompagnando quel gesto con qualche spassosa “dichiarazione” del tipo: nascondete le femmine, che è in arrivo Mister Trapanator !!!)
Nuove luccicanti lacrime, “virate” in nero Mascara Shiseido The Makeup, si lanciarono a rotta di collo giù per le guance della donna.
Ero convinta fosse ormai innocuo…”, ansimò Teresa dentro di sé, “se no non mi sarei azzardata a riappenderlo là
(Già, e se mio nonno avesse avuto le ruote…)
Era stato un’altro degli illuminanti suggerimenti renateschi - e su, non essere così impietosa con lui, in fondo cercava solo di esserti d’aiuto - dispensato con occhi tristi e paterni da dietro la severa scrivania in legno scuro:
- E’ una decisione che spetta a te, Terry, non è di nessuna utilità farlo decidere a qualcun altro - aveva detto, porgendole una scatola di kleenex per ovviare alla manifesta inferiorità del suo ormai inutile fazzolettino - se ritieni che la vista di oggetti, che in qualche modo ti riportano alla mente momenti e situazioni, ti sia difficilmente sopportabile… beh, toglili… riponili da qualche parte… e tieni presente… - aggiunse in soccorso dello sguardo di lei dubbioso e quasi scandalizzato - che niente è definitivo, né si tratta di buttar via nulla… solo un periodo di “occultamento”, in attesa che quegli oggetti perdano la valenza dolorosa che adesso li riveste… -
Inutile dire, per la serie “meglio affidarsi in toto alle convinzioni degli altri, piuttosto che sforzarsi per partorirne una parvenza propria”, che Teresa abbracciò ciecamente quel suggerimento. Tornata a casa, aveva iniziato una sistematica quanto scientifica “rappresaglia” su o­gnu­no degli innumerevoli oggetti che una famiglia (per quanto giovane) e una casa potevano ac­cumulare. Cominciando, guarda la combinazione, proprio dalla loro stanza da bagno.
Pronti… un bel respiro… via! Coppia di spazzolini? Mmmh… non determinanti, dolore fio­co. Accappatoio maschile a righe bianche e azzurre? Flashback di abbracci, e profumo di ba­gno­schiuma e tepore di doccia… via, via, occultare. Stupido sonaglino calabro-orientale?
(attenzione, nascondete le femmine, che arriva il miglior sosia vivente di Russel Crowe!!!)
ahi ahi ahi fa male, un dolore lancinante… VIA VIA VIA, eliminare, nascondere, estirpare dal delicato tessuto connettivo della realtà…
Quel mercoledì, una volta tornata dall’incontro con Renato (dalla seduta psicanalitica col dot­­tor Anelli), era andata avanti così per ore, mentre il giorno attorno a lei scorreva e mutava e un sole pallido faceva il giro del palazzo, variando via via la luce fino ad attenuarla in un gri­­giore uniforme, per poi smorzarla malinconicamente
(avete idea di quanto tempo cosiddetto libero si ha, dal momento in cui la propria vita viene “falciata” via senza scampo?)
Aveva fatto la spola come un’invasata lungo le stanze del loro vecchio appartamento cittadino, svuotando mobili e mensole e librerie, aprendo e richiudendo ante e sportelli, frugando, auscultando, assediata da vecchi scatoloni da riempire, con le lacrime (unità di misura infallibili del suo empirico metodo di valutazione) a scavarle solchi acquosi nelle guance impolverate. Ad un certo punto si era ricordata, quasi casualmente, di uno dei più distintivi (e da lei bonariamente detestati, razza di povera cretina) “segni” di ri­­conoscimento di suo marito, vale a dire - udite udite, mio fedele pubblico - le “orecchie” pie­gate delle pagine, a mò di segnalibro. Il dolore scatenato da quell’apparentemente banale a­bitudine, improvviso e devastante, la sguinzagliò in una forsennata caccia alle streghe che le fece de­finitivamente ottenebrare le sfinite capacità mentali.
A notte inoltrata si ritrovò (o si risvegliò o tornò in sé) carponi sul pavimento della sala, circondata da una ma­rea di libri spalancati, come stormi di uccelli bianchicci e cartacei, le dita quasi in­dolenzite da quel forsennato fruga-e-alliscia, assolutamente convinta che quella as­surda e bizzarra occupazione fosse una specie di condanna infernale ed e­ter­na per qualche col­pa che aveva certamente commesso.
A questo punto va sottolineato, a postuma discolpa del defunto, che non è che egli avesse “in­fettato” ogni stampato cartaceo di casa con quel riprovevole surrogato di segnalibro. Solo qualche copia, magari iniziata e subito abbandonata per scarse attrattive romanzesche, o che forse stava leggendo nel tragico momento in cui la vita gli aveva presentato il saldo
(a questa ipotesi qualcosa, da qualche parte dentro Teresa, si schiantò con un rumore sordo, si­mile al cedimento di un tetto malandato sotto il peso della neve)
ma l’isterica “caccia” messa in atto dalla donna scarmigliata e dolente, come si sarà capito più che bene, nascondeva ben altre valenze e significati. La cosa certa, su cui si potrebbe scommettere una discreta sommetta, era che da quel giorno in avanti, in casa Angeli, la tanto fami­ge­rata “orecchia” alle pagine sarebbe divenuta un’usanza bandita per sempre.
(Teresa, esci fuori e preparati… ormai non c’è più tempo)
Scuotendosi come se si risvegliasse da un’anestesia post-operatoria, si tirò su dal letto, vin­cen­do a fatica una forza di gravità che le parve decuplicata, per avviarsi stanca verso il ba­gnet­­to. Prestando esagerata attenzione a non risvegliare accidentalmente l’inerte sonaglino di conchiglie.

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Capitolo 5
*** Il commercialista - Lo spavento ***


7_

- …e lei è sicuro che non c’è stata nessuna comunicazione da parte della vostra banca, che so, una telefonata, una segnalazione… -
Flavio Piacentini, stimato dottor commercialista, congiunse la punta delle dita, creando una specie di ideale triangolo tra le sue mani lunghe ed esangui e il piano della scrivania ingombro di carte. L’uomo di fronte a lui, appollaiato sul bordo di una sedia, si frugò per un attimo nella mente confusa prima di rispondere:
- N-no… n-non mi pare… - biascicò poi, lanciando occhiate inquiete alla cartellina spalancata davanti al professionista - comunicazioni scritte non credo… e telefoniche… boh, non che mi risulti - alzò un dito a mò di uncino ad allentare il nodo della cravatta che lo stringeva peggio di un cappio - …voglio dire, che abbia ricevuto io di persona… Ma sa, cosa vuole, è il mio socio Ostiglia il più infarinato in questioni amministrative… - abbassò il tono di voce ad un far­fuglio velato d’imbarazzo - sì, so che lei potrà obiettare che bisognerebbe conoscere ogni a­spetto del proprio lavoro, specie se si è liberi professionisti, ma cosa vuole, è sempre sta­to il mio tallone d’achille… estroso e creativo quanto vuole, da sempre, ma con conti e fatture co­me cane e gatto, come si dice… forse dipende dal fatto che di matematica, sin dai tempi delle me­die, non ci capivo un classico fico secco… -
Il suo interlocutore insisteva a fissarlo in silenzio, i capelli impomatati pettinati all’indietro, per niente impressionato da quello sciorinare di frasi fatte. Un lieve movimento del suo polso strappò un fioco bagliore al braccialetto d’oro che s’intravedeva sotto il polsino della giacca - …d’altra parte la nostra è una società talmente piccola, e sono sicuro che il mio socio me lo a­vrebbe riferito, se avesse ricevuto un qualche tipo di segnalazione da parte della banca… i no­­­stri compiti sono ben definiti, una specie di squadra affiatata, e se non ci si fida uno dell’altro… - la sua voce ebbe un’involontario, improvviso tremito - perché… voglio dire… che ti­po di problemi ci sarebbero? -
Piacentini separò le palme delle mani congiunte, prendendo a frugare nella marea di fogli sparsi:
- Signor Macherio, i miei compiti e le mie spettanze nei confronti della vostra società si riferiscono, ahinoi, solo all’amministrazione straordinaria - spiegò come se cercasse in qualche modo di giustificarsi, o tirarsene fuori - ma… voglio dire… guardi qua - estrasse dal mucchio un libretto di assegni azzurrino, con un gesto da abile prestigiatore, prendendo a sfogliarne le matrici in faccia all’altro
(fffffrrrrrrr, fecero i “monconi” di ex-assegni staccati e dispersi per il mondo)
e non devo certo ricordarle io che oggigiorno le intestazioni a sé stessi non sarebbero neanche permesse… e in ogni caso andrebbero corredate da ampi ed esaurienti giustificativi… -
Un sempre più pallido Macherio lo osservava con l’occhio vitreo di un bovino in prossimità del macello comunale.
- …e qui, su questi libretti… - proseguì l’altro senza il minimo cedimento di compassione - su troppi di questi libretti… voi… lei, o il suo socio, per il quale peraltro sarebbe stato di estrema importanza essere qui con lei, non so… ma gli assegni girati a sé stessi proliferano… guardi qui… e qui… fffffrrrrrrrr… cinquecentomila lire… e poi trecento… il giorno dopo… e via così… PER MESI, signor Macherio… ma… - ora fu la volta sua di non resistere alla tentazione di allargarsi il colletto della camicia - …non capisco… come diavolo gestivate le cose? Cosa avevate intenzione di fare… suicidarvi?!? -
L’altro allungò la faccia in direzione del libretto di assegni sfarfallante sotto il suo naso, socchiudendo gli occhi per metterlo a fuoco:
- I-io… i-io non s-so… - balbettò, col viso cereo e sudaticcio come se stesse per prendergli un colpo apoplettico - …non capisco… non è la m-mia scrittura
(e se non è la tua, non potrà che essere quella del tuo fedele ed affidabile socio, non trovi?)
…ma comunque… io penso… che so, ad un equivoco, ad una spiegazione plausibile… voglio dire… è una cosa grave? A quanto… di quanto… - deglutì vistosamente, terrorizzato dalla consapevolezza di non riuscire nemmeno a terminare quella domanda.
Il commercialista lo scrutò per un attimo da sopra le lenti bifocali, freddo e insensibile come un rettile letale che pregusti l’imminente assaggio di un tremante topolino, poi fece alcuni ra­pi­di conti sulla grossa calcolatrice che aveva a fianco:
- Grave credo sia solo un blando modo di dire, signor Macherio - mormorò facendo venire i sudori freddi all’uomo in pena al di là della scrivania. Strappò via un lunga strisciolina di carta, controllandola con attenzione - a quanto risulta qui, se i numeri non fanno inganni, so­no stati prelevati dai vostri conti, in un periodo che va da giugno ad adesso, più o meno tredi­ci­mila euro… -
La mente surriscaldata di Macherio annaspò, nel tentativo di commutare immediatamente quella somma nelle vecchie, care lire
(forse dipende dal fatto che di matematica, sin dai tempi delle medie…)
inorridendo subito dopo nel rendersi conto dell’entità della cifra corrispondente. Ebbe l’impulso di affondare la faccia tra le mani (e magari mettersi a singhiozzare e strapparsi le vesti e i ben poco folti capelli), ma lo sguardo distaccato del suo interlocutore lo faceva sentire a di­sagio. Nonostante la gravità della situazione. Nella sua testa transitarono, come rapidi flashback cinematografici, immagini di sua moglie che insisteva per un salotto nuovo, della figlia e i suoi costosi corsi di danza o di piano o di chissà che altro, delle rate della Megane, di Sky, dell’assicurazione previdenziale, e l’impulso di strepitare e urlare e disperarsi montò più irresistibile che mai. Il dottor Piacentini attese un paio di professionali minuti, come un medico in attesa che il paziente digerisse bene l’infausto responso di una serie di delicate analisi:
- D’altra parte - commentò poi - fin che non sentiamo la campana del signor Ostiglia
(dell’infarinato in questioni amministrative, anche troppo...)
ogni nostra ipotesi resterà tale, e cioè campata in aria... lei è proprio sicuro di non riuscire a contattarlo? -
Uno sconfortato Paolo Macherio afferrò il cellulare dal minuscolo angolo di scrivania sgombro di documenti, componendo un numero con dita malferme:
- Non sono più riuscito a sentirlo, dopo una mezza telefonata disturbata di oggi dopopranzo - rispose avvicinando l’apparecchio ad un orecchio color melanzana - non so, forse è in qualche zona in cui... -
Rimase immobile, a fissare il volto smunto e inespressivo dell’altro, mentre una vocina registrata lo informava che l’utente da lui disperatamente desiderato poteva avere il terminale spento.
Serrò forte le palpebre.

8_

Se il ricercato in questione avesse avuto modo di assistere al colloquio tra un sempre più smarrito Paolo Macherio e il commercialista (non che ci tenesse particolarmente, per ca­ri­tà), sarebbe stato in grado di illuminare il proprio socio sul fatto che, alle volte, il diavolo è molto più brutto di quello che si dipinge... Nel senso che, alla già rilevante cifra di tredicimila eu­ro (circa venticinque milioni di lire, per i meno dotati nell’ora di matematica), andavano ag­­giunti due assegni (rispettivamente di 2600 e 1500 euro) che portavano il totale ad una bella e succulenta torta di oltre DICIASSETTEMILA EURO !
(venghino venghino siorri e siorre, che il montepremi stasera è veramente wow-wow-wow ve­ry su­per!!!)
trentatre milioni centoundicimila duecentodiciassette lirette, per amor di stra-precisione, buo­ne ancora per una manciata di giorni, ma sufficienti a firmare una bella condanna a mor­te per una dittucola con le potenzialità e il fatturato e il parco-clienti come la loro agenzia di stra­­­caz­zopubblicità. Anche perché il buon Ostiglia non aveva nessuna intenzione di depositare i due sunnominati assegni, che in quel momento dormivano sonni tranquilli in una delle ta­­sche la­terali della sua valigia, nell’ex-conto corrente della sua altrettanto ex-società. E quali e­­ra­no, si chiederanno certo i lettori più curiosi e intraprendenti, gli obiettivi del losco individuo in rea­ltà ? Precisi e confusi, per la verità, e venga concessa questa apparente contraddizione in ter­mini (perché precise e confuse erano le facoltà mentali dell’uomo, si potrebbe ag­giungere). Beh, ta­gliare la corda, certo. Segare il palo. Darsela a gambe. Salutare (in maniera non troppo evi­den­te, in ogni caso) baracca e relativi burattini, tra i quali andavano anno­ve­rati an­che la don­na e la ragazzina che in quel momento viaggiavano ignare al suo fianco, e svo­lazzare via. Il suo unico e lucido punto fermo, risplendente nel marasma caotico della sua mente in ra­pida de­generazione, prendeva linfa e alimento da un allettante racconto fattogli da Tazio Fa­biani (ricordate, il premuroso pseudo-medico che lo aveva iniziato alle delizie del­l’a­nalge-ge-ge-sico?) durante l’illuminante scorribanda notturna nella Milano da bere.
Bra­si­le!!!, aveva esclamato accompagnando con un gesto sognante quel nome. Poi aveva preso a raccontare di spiagge bianche come neve (oh oh oh, ma che deliziosa analogia!), di giorni cal­di e lunghi e luminosi, di corpi flessuosi e ambrati, con sederini morbidi che stanno dentro in una ma­no
(e lui di sederini che stessero in una mano non aveva neanche sentore che potessero esistere)
Aveva decantato le irresistibili attrattive di un Paese, di una popolazione che sapeva godersi la vita, che era riuscita ad afferrarne il senso reale, arrivando fino a quantificargli il ragionevole prezzo per staccare il biglietto di quel paradiso per niente irraggiungibile.
Un centinaio di milioni, aveva sussurrato furtivo e complice
(si era a metà del 2001, quando tutto si misurava ancora in vecchie care lire, e l’euro sembrava una menata astratta di là da venire)
ti prendi una baracchina su qualche spiaggetta, dove servire bibite e frutta fresca... tanto per non rompersi troppo le balle a non far proprio niente... e vivi tranquillo e felice e giusto per se­coli..., aveva versato un generoso sorso di whisky nel bicchiere vuoto dell’altro, ammiccando co­me un consumato agente turistico, anche perché senza stress, smog, traffico, nebbia... megarotture di coglioni... ma chi ci ammazza?!?
"Già già già, e chi m’ammazza?", si ripetè Gianni Ostiglia alla guida della Ford Focus nell’esasperante traffico del tardo pomeriggio dicembrino, facendo andare inutilmente i tergicristalli.
Ora, il lettore più attento (e, a differenza di un disperato Paolo Macherio, più ferrato nel far di conto) obietterà giustamente che trentatre milioni e rotti non sono affatto un centinaio, con­siderando per di più che buona parte degli assegni incassati a proprio nome
(che avevano fatto inorridire il compunto dottor Piacentini, neanche fossero cacche di piccione sulla sua esclusiva collezione di francobolli)
erano già passati a miglior vita, o più precisamente nelle tasche di un poco raccomandabile fi­guro, fornitore ufficiale di analge-ge-sico per venditori stressati dal logorìo della vita mo­derna
(una volta bastava un sorso di Cynar!, ridacchiò euforico Ostiglia dentro di sè).
Naturalmente esisteva un asso nella manica. Bello grande, per di più, di circa 120 metri qua­dra­ti, sotto forma di un appartamento, appartenuto ai defunti genitori di Gianni, e messo recentemente sul mercato al fine di (versione ufficiale) realizzare il meritato gruzzoletto che avrebbe permesso alla Ostiglia’s Family di porre serie e concrete basi per un mutuo. Mutuo che li avrebbe vi­sti felici e raggianti in una futura casettina di proprietà, magari con un pezzetto di giardino in cui invitare gli amici per il barbecue, o tirar su un bel pupazzo di neve alla prima nevicata. Purtroppo per Cristina e Vanessa, tale versione differiva dalla realtà delle cose per alcuni, determinanti par­ticolari, di cui erano ovviamente all’oscuro. In primis, pareva che la vendita dell’appartamento stesse incontrando inaspettate ma prevedibili difficoltà (sai co­m’è, cara, l’agenzia dice che un sacco di gente s’informa, fa domande, vuole vedere, ma poi si ri­velano solo puntuali perditempo... cosa vuoi, è proprio un momentaccio per il mercato im­m­o­bi­liare), mentre al contrario i giochi erano fatti da tempo, e l’Immobiliare San Marco a­ve­va fis­sato un appuntamento con Gianni subito dopo il primo dell’anno. In secondo luogo, ma questo si sarà ormai ampiamente capito, che l’utilizzo dei proventi di questa transazione commerciale servivano sì per un acquisto, ma non di un sospirato nido per la vecchiaia, bensì di un biglietto aereo di prima classe e, soprattutto, di una baracchetta-bar sulle rive del­l’O­­cea­no Atlantico.
(e, in tutto questo dissennato e criminale progetto, non c’è posto neanche per un minuscolo scrupolo di coscienza?)
(aspetta che guardo... no, no, direi di no... e poi cosa dovrei fare,a ‘sto punto? Far marcia indietro, spifferare tutto, fare una figura da culo e una fine di merda? No, grazie, io passo...)
Gianni Ostiglia arrestò l’auto allo stop che immetteva sulla statale, ancora qualche centinaio di metri e avrebbero svoltato nel viottolo che portava alla casa di Teresa, dove se ne sarebbe sta­to buono e tranquillo e nascosto fino al nuovo anno. E alla sua nuova vita. Gettò uno sguardo verso destra, in attesa di un varco nel fiume metallico del traffico, mentre un’auto si ac­costava dal suo lato. Una minuscola Smart blu scuro, con le scritte bianche sugli sportelli che URLAVANO “PubbliOsma - creatività al servizio dell’imprenditoria”. Si sentì avvampare, mentre il cuore prendeva a scuotersi impazzito nel suo petto
(Oh porca merdissima, come cazzo ha fatto a beccarmi Dio Dio Dio...)
Si voltò di scatto verso la moglie seduta a fianco, cercando di occultare il tentativo di nascondersi con un banale strofinarsi la mano sulla faccia. Un sudore freddo e improvviso prese a im­pregnargli copioso il retro della camicia.
- Ehr... ehm... ab-biamo p-preso tutto, spero - biascicò mentre Cristina lo osservava un pò perplessa
(cosa faccio? Dove cazzo vado?!?, pensò isterico, riuscendo ad avvertire gli occhi dell’occupante dell’auto a fianco trapanargli la nuca, in attesa di udire un colpo di clacson, un bussare rabbioso sul finestrino... che ne so, un colpo d’arma da fuoco)
- ... n-non é che mi fate tornare indietro perché abbiamo dimenticato qualche indispensabile stupidaggine... -
- No. Perché dovremmo... - replicò la moglie spiazzata - ma... stai bene? Sei bianco come un straccio... -
L’uomo continuò a strofinarsi nervoso la tempia sinistra col taglio della mano aperta, in­de­ciso sul da farsi, se arrendersi all’evidenza o accelerare per schiantarsi contro le auto che sfrecciavano veloci al di là della riga bianca sull’asfalto.
- N-no, è che... una specie di...
(possibile che non mi abbia visto? Che non riconosca la macchina?)
... un capogiro... forse quel toast di fretta, oggi... -
- O quella birra gelata, più facilmente - gli ricordò la moglie insolente, ma lui era talmente fuori di sè da non registrarlo nemmeno.
- Papà, hai visto, una macchinina come quella di Paolo... - s’intromise Vanessa da dietro, battendogli delicata su una spalla.
- E-eh... cosa? Ah, sì... sì... - mormorò ancora lui, non potendo impedire un riflesso condizionato che lo portò a far balenare un fugace sguardo nella direzione indicata dalla figlia. La lillipuziana utilitaria era ancora lì, con le scritte bianche che spiccavano nell’oscurità serale co­me fatte di luce
(Hotel Castelli - Alte di Montecchio Magg... C-cosa..?)
Aprì uno dei due occhi che aveva tenuto spasmodicamente serrato, come se questo potesse per assurdo far scomparire la visione dell’auto del suo socio
(ma questa non è per lo stracazzo di niente l’auto di Paolo!!!)
mentre avvertiva la tensione e l’agitazione e il terrore abbandonare il suo corpo, come acqua in una vasca a cui avessero tolto un’enorme tappo, lasciandolo spossato e vuoto e tremante.
- Paolo, a proposito!!! - esclamò sua moglie dandosi un colpetto sulla fronte, pur continuando a scrutarlo con sospetto - e Monica, e la bambina... non gli abbiamo fatto nemmeno gli auguri... tesoro, puoi provare a vedere se li becchiamo? -
Gianni Ostiglia infilò la mano nella tasca del cappotto, mentre avvertiva nitidamente la situazione tornare saldamente sotto il suo controllo
(tranquilli e buoni che non è successo niente... e tutto va alla perfezione)
estraendone il cellulare:
- Sì, certo, come no - rispose con tono che trovò straordinariamente naturale e convincente - pronti qua... ah, no... merda! -
- Che succede? -
- Ma niente... la batteria... andata - agitò il telefonino in direzione della moglie, scuotendo ef­fi­cacemente la testa in un contrito gesto di disappunto
(perfetto, perfetto... un attore nato!)
mai che mi ricordi una volta di metterlo a caricare... beh, ormai ci siamo, casomai chiediamo una cortesia a Teresa... -

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Capitolo 6
*** Efrem/papà - Alberissiu ***


9_

Teresa indugiò alcuni secondi al piano superiore, nella luce calda del corridoio, agganciandosi distratta un minuscolo orecchino dorato. Fece un rapido resoconto mentale della situazione, osservando le porte accostate delle camere: tutto pareva essere a posto, pulito, ordinato. Le stanze per gli amici, da cui proveniva un piacevole e malinconico aroma dei poutporri - cannella e arancio e ambra - che aveva disposto in piccole, graziose ciotoline. Il bagno comune, giusto in fondo al corridoio, risplendente come uno specchio. Dunque, elencò indicando col dito, Renato e Lucia, Gianni e Cristina…e Guido e quella ragazza... che si chiam... ah, già, Diamante... qui nella stanzetta di fronte alla mia. Ancora una volta le parve alquanto anomalo (ma nello stesso tempo, perché no, di buon auspicio) che il solitario e discreto Guido non a­vesse battuto ciglio alla soluzione... pressochè forzata... di dover dividere i lettini gemelli con la sua nuova e misteriosa amica. Mah, rimuginò, i tempi cambiano
(le cose vanno avanti...)
Imboccò le scale in legno, sbucando nell’ampio salone che abbracciò con lo sguardo. Il maestoso albero di Natale nell’angolo, ai suoi piedi un discreto numero di scintillanti pacchettini
(niente a confronto con quando ci saranno tutti quelli degli altri... che bello, però...)
accanto, ma non troppo, all’ampio caminetto che non vedeva l’ora di accendere e veder scoppiettare allegro. Contò per l’ennesima volta i posti a sedere attorno alla smisurata tavola che troneggiava al centro del locale: uno... due... dieci giusti, neanche a farlo apposta... più che sufficienti per accoglierli tutti, considerando che per i bimbi Efrem e la moglie avrebbero messo a disposizione la tavola della loro cucina. Dal rack stereo l’inconfondibile vociona di Frank Sinatra la mise al corrente, più o meno per la trecentesima volta, che Santa Claus era ar­rivato in città. Teresa si affacciò alla salettina tv, prendendo atto con soddisfazione che anche lì tutto era a posto e pulito e profumato di buono. “Di sicuro gli uomini vorranno ve­de­re qualche servizio sportivo celebrativo di fine anno, mentre noi donne non ci faremo sfug­gi­re il classico film strappalacrime
(almeno si piangerà come vitelli per qualcosa che non ci tocca, e ci strazia, da vicino)
senza dimenticare, ci mancherebbe, dosi massicce ed industriali di cartoni animati per tenere qualche secondo a bada i bimbi...”
Passò una mano leggera lungo le mensole affollate della scura libreria in legno che ricopriva due intere pareti della stanzetta
(nessun “orecchio” in nessuna pagina, potete starne certi)
sperando che i suoi amici non riesumasseero gli album di vecchie foto, insistendo magari per darci un’irrinunciabile quanto nostalgica sfogliata. Niente da fare, ci sono letali testimonianze di tempi felici, qui dentro...
Fece dietrofront, riattraversando la sala luminosa, mentre le tornava in mente il progetto di decorare con qualche fila di luci il telaio esterno delle finestre (un altro favore che dovrò chiedere al gentilissimo Efrem…), per passare nella cucina. Cucina… le faceva an­co­ra un certo effetto quell’enorme ed accogliente stanzone, un vero e proprio regno della cuo­ca come nelle case di una volta, (lei restava comunque sempre una “cittadina”, abituata a stri­minziti angoli cottura o, nella migliore delle ipotesi, a cucinotti claustrofobici e tristi), ad­di­rittura con un secchiaio in pietra vasto come la tolda di una nave. Un focolare scurito dal tempo e dall’uso sonnecchiava sornione in attesa di ridestarsi in un balletto di fiamme guizzanti e “falìve” che scomparivano verso l’alto con allegri schiocchi. Al centro della stanza, un am­pio mobile dal lucido piano in marmo fungeva sia da tavolo che da portapentole, impilate lu­cide e ordinate sul ripiano sottostante. Tutt’intorno, a fare da silenziosa corona, una selva di credenze, stipetti e madie che sembravano uscite direttamente da un’illustrazione di un libro di favole
(La cucina di Nonna Papera, l’aveva etichettata Carlo appena l’aveva vista, qui è un sacrilegio non tirare la sfoglia della pasta e spennare un tacchino almeno una volta al giorno…)
Teresa restò immobile e un po’ intimidita sulla soglia, considerando che il prezioso aiuto (e la consumata esperienza) di Ina Iotti, la moglie di Efrem, si erano rivelati determinanti per tirare a lucido tutta la casa. Lasciò vagare lo sguardo in giro, sulle lunghe travi a vista del soffitto, dall’aria decisamente antica e rustica, sulla fila impettita di polverose scatole di biscotti dalle deliziose grafiche anni ‘50 sopra la credenza, sul grande paiolo per la polenta appeso al muro co­me un trofeo cavalleresco, sulla massiccia griglia in legno al di sopra della tavola, da cui pen­devano vecchi utensili, un paio di pentole in rame talmente lucide da sembrare nuove di zec­ca, e poi mazzi d’erbe aromatiche ormai secche, ma che riuscivano ancora a spargere in gi­ro un flebile “fantasma” del loro antico profumo.
Toc toc.
Un bussare discreto dietro le sue spalle la riscosse.
- Sì? - chiese. La porta d’ingresso si aprì, facendo apparire la figura massiccia e tozza di E­frem Iotti, il fattore che abitava al di là del cortile, intento a strofinare con esagerata attenzione le grosse scarpe sullo zerbino esterno. L’uomo aveva circa una sessantina d’anni ben portati e, nonostante l’aspetto decisamente “ruspante” e scontroso
(non so mai se si appresta a sfoderare un sorriso o a darmi una roncolata in gola, era solito affermare scherzando Carlo)
era il classico pezzo di pane. Affezionatissimo alla madre di Teresa prima, essendo cresciuti insieme liberi e spensierati e “selvaggi” nei campi lì attorno, ed ora alla figlia, che coccolava e accudiva e proteggeva con una dedizione d’altri tempi. Non c’era esigenza o emergenza, e soprattutto sfizio, espresso dalla giovane, che non venisse prontamente esaudito dalla premurosità dell’uomo e di sua moglie.
- Ciao, Efrem… su, entra pure - lo esortò Teresa vedendolo assorto e titubante ad osservarsi lo stato delle scarpe da lavoro, decisamente inzaccherate dal fango nonostante il sollecito stro­finìo - se stiamo a preoccuparci del pavimento qui in campagna… e poi a momenti arri­ve­rà un branco di ragazzini che faranno la spola tra dentro e fuori fino all’anno nuovo… -
Il contadino si fece avanti, cercando comunque di muoversi come se camminasse su una di­ste­sa di uova, e chiuse dietro di sé la porta e l’aria fredda della sera:
- Ciao, Terri - esordì
(Tere per mio padre, Terrina per Carlo… e Terry per tutti gli altri, pensò ancora una volta lei, con la buffa sensazione, in questo caso, che il modo di pronunciare il suo diminutivo da parte dell’uomo non prevedesse la ipsilon, in linea con le sue origini semplici)
Ina mi ha mandato a vedere se è tutto a posto, e se hai bisogno di qualcosa… lei sta finendo di preparare qualcosina per la cena… -
La donna sentì che un sorriso le scappava fuori
(quanti sorrisi, negli ultimi tempi… mmh, troppa grazia, va a finire che poi li pago)
nell’immaginarsi l’esagerata entità del “qualcosina” preparato dalla generosa don­na, considerando per di più che era ai fornelli anche per lei e gli altri, e di sicuro non intendeva sfigurare:
- Sì, beh - disse poi divertita -forse è il caso di far presente alla volonterosa Ina che, in previsione degli “stravizi” che ci aspettano nei prossimi giorni, una buona minestra o poco più sa­rebbe già sufficiente… anzi, no, lascia stare, se no poi pensa che non ci fidiamo delle sue virtù cu­linarie, per altro indiscutibili… -
- Oh, beh, guarda che comunque… - si giustificò l’uomo torcendosi le grosse mani - penso che stia facendo un brodo… - ci pensò un attimo - tagliatelle, in brodo… - aggiunse candidamente, concludendo poi - con i fegatini… -
Per l’appunto, pensò la donna divertita da quel candido crescendo alimentare.
- …beh, e poi naturalmente qualcosina per secondo… -
- E già, ci mancherebbe, vogliamo restare senza un qualcosina di secondo?
(Cosa avrà in serbo? Un cotechino a testa? Uno spiedo di beccacce?)
… vabbè, ho capito, lasciamo fare alle generose mani di tua moglie… - commentò ridacchiando - comunque direi che è tutto più che a posto, grazie... ah, a dire il vero, pensavo
(approfittatrice fino in fondo, eh ?... eddai, piantala!)
che sarebbe carino attaccare un pò di luci qua fuori, attorno alle finestre... che dici, pensi di poter trovare un minuto? -
L’uomo parve illuminarsi all’ipotesi di poter essere ancora una volta utile alla giovane:
- Oh, beh, sì... e che ci vuole? Ci penso domattina, però, se può andar bene... -
- Ovvio, ci mancherebbe altro, mica vorrai metterti al lavoro adesso, spero... -
- Bene, allora... - continuò l’uomo corrugando la fronte per far mente locale - ah, hai visto che ho rifornito di legna il caminetto, e anche il focolare in cucina... - indicò il locale alle spalle di Te­resa - ho pensato che se per caso si mette a piovere un pò più intensamente, diventa un ca­sino farla accendere... -
Fece un passo timido in direzione della porta:
- D’accordo, se non ci sono altre cose urgenti, io vado a dare una mano a Ina... - disse cacciando fuori dalla tasca del giaccone un cappellaccio informe. Teresa gli si portò a fianco:
- Okay, Efrem - rispose - e grazie ancora... dì a tua moglie che non appena avrò sistemato tutti, farò un salto ad aiutarla per le ultime cose, e per cominciare a portar di qua le pentole... -
Il rubizzo contadino si strofinò una mano grande come una zampa d’orso sul mento ispido di barba corta e grigiastra:
- Il signor Corrado... - s’informò poi - farà un salto? Gli abbiamo preparato la stanza sul re­tro... -
Il signor Corrado... Efrem Iotti aveva dato per tutta una vita del tu alla madre di Teresa (ov­via­­mente), e regolarmente lo dava alla ragazza (ancora più ovviamente), ma non aveva mai ac­­­cettato di farlo con il padre, nonostante le ripetute e convinte insistenze di quest’ultimo. Te­­­­resa a volte ipotizzava, anche se questo le sembrava molto una contorta fantasia da acida ve­do­va, che in qualche modo il contadino fosse (e fosse stato) segretamente invaghito di Tina For­­­na­ser, la bella ragazza di paese divenuta una cittadina raffinata e rispettabile, e quindi di con­seguenza invidioso e geloso (bonariamente invidioso e geloso) del fortunato che era riu­scito a diventarne il marito.
Scosse la testa a quell’ennesima, trita interpretazione della probabile riservatezza del vicino:
- Sì, sì, dovrebbe essere qui tra poco anche lui
(almeno lo spero)
almeno così mi ha assicurato non più di un’oretta fa... - diede una rapida occhiata all’orologio - anzi, mi sa che a minuti la pace agreste sarà un lontano ricordo, per un bel pò di giorni... -
Efrem Iotti fece un’altro passo verso la porta:
- Sta bene? - chiese all’improvviso - ...il signor Corrado, intendo... -
Teresa strinse le labbra, prima di rispondere:
- Sì, credo di sì
(non ne sono affatto sicura, in realtà)
qualche magagna di stagione e dell’età, ma d’altra parte non è più un giovanotto... -
L’altro le battè una mano affettuosa sulla spalla:
- Già, già, non lo siamo più no... però teniamo botta, e questo è l’importante... -
(Stagli vicino, Efrem, supplicò mentalmente lei, senza afferrare il senso di quel pensiero)
L’uomo spalancò la porta, permettendo alla fredda umidità esterna di far loro visita non in­vi­ta­ta, mentre Teresa si soffermava ad osservare ancora una volta le vecchie foto appese sopra il mobiletto del telefono:
- Efrem... che tipo era, la “nonna vecchia”? - sentì le sue labbra chiedere, mentre dentro di sè s’interrogava sul significato di quell’improvvisa e bizzarra curiosità. Da sotto il vetro lucido di una foto sul muro, l'anziana sembrava scrutarla con occhi antichi e pungenti. Efrem si bloccò sulla soglia, voltandosi lentamente:
- La “nonna vecchia”? - ripetè mentre sul suo largo viso passava una fugace espressione che poteva essere di sorpresa, o di disagio - una donna forte, di quelle di una volta... non ho molti ri­cordi di lei negli anni della mia adolescenza... - si mordicchiò le labbra, come se cercasse le pa­role giuste dentro di sè, o perlomeno quelle più adatte a quanto voleva dire - ...sai, come tutti i giovani avevo ben altro a cui pensare... me la ricordo di più negli ultimi anni della sua vi­­ta... era benvoluta da tutti, e per ognuno aveva una parola buona, un consiglio assennato... per la maggior parte del tempo se ne stava seduta lì in cortile, sotto l’ombra del ciliegio... e in molti passavano a farle visita, a scambiare due chiacchiere con lei... -
Si ammutolì, e Teresa ebbe la bizzarra sensazione che fosse sollevato di aver concluso l’argomento.
- Mmh, ho capito... - commentò pensierosa - d’accordo, allora ci vediamo più tardi... -
L’uomo la salutò ancora una volta, e fece per uscire di scena:
- Ah, Efrem, scusami... un’ultima sciocchezza... - lo bloccò nuovamente la ragazza, ancora con gli occhi fissi sulle foto - Melania... la mia vecchia bambola... ha idea di dove possa essere fi­ni­ta? -
- Quella che non mollavi un secondo neanche a strappartela via? - ribattè scherzoso l’uomo - no... direi di no... - si strinse nelle spalle - macchè, mi sa che nemmeno in questo caso posso es­serti d’aiuto... -
Scomparve nella fioca luce esterna della lampadina appesa sopra la porta, lasciando in Teresa la convinzione che neanche su questo argomento, come sulla domanda riguardo alla “nonna vecchia”, il buon Efrem gliel’aveva raccontata tutta. Non ebbe però il tempo di rimuginarci su, attratta dal rumore di un’auto che si arrestava nel cortile. Si affrettò ad affacciarsi sulla porta di casa, notando (con una sensazione di sollievo nel petto) che dall’elegante Alfa 164 stava scendendo la sagoma familiare di suo padre. L’uomo sollevò una mano in segno di saluto, prendendo ad estrarre una borsa da viaggio dal sedile posteriore, che affidò subito do­po ad un premuroso Efrem che gli si era avvicinato salutandolo caldamente. Teresa attese che i due uomini si stringessero la mano, scambiandosi qualche parola, e non riuscì ad evitare di scrutare la figura notoriamente longilinea di suo padre, trovandola decisamente più secca, qua­­si diafana. Sembra che quel loden verde sia appeso ad un attaccapanni semovente, fu l’impietosa considerazione che le transitò nella mente, strizzandole il cuore. Efrem salutò ancora Corrado Fornaser, dirigendosi verso le finestre illuminate di casa sua, mentre il nuo­vo arrivato si chinava all’interno dell’abitacolo per raccogliere alcuni effetti personali.
- Ciao papà... ben arrivato! - lo accolse Teresa, schioccandogli un sonoro bacio sulla guancia, as­saporando nel contempo il conosciuto aroma del dopobarba, che le riportava regolarmente nella mente teneri ricordi d’infanzia. L’uomo ricambiò il bacio con affetto.
- Ciao, Tere... eccomi qua - disse - beata te che te ne stai qui in quest’angolo di pace... non sai il casino folle che c’è fuori di qui... -
- Oh, bè, lo posso immaginare, e non lo rimpiango certo - ribattè lei, facendosi da parte per permettergli di entrare - la “pantera”, tutto bene? - chiese riferendosi all’auto lucida parcheggiata nel cortile, poi l’occhio le cadde sullo spigolo anteriore del muso - ehi... papà, e quella strisciata? -
L’uomo parve deglutire a vuoto, quasi imbarazzato:
- Ma taci, va - rispose, un pò troppo precipitosamente, come se fosse una battuta preparata da tempo - lasci la macchina in parcheggio, e purtroppo sei in balìa di qualunque negato al vo­lan­te... -
Corrado Fornaser fece il suo ingresso nel salone:
- Mmh, che bello qui - tagliò corto osservandosi intorno - ha un’aria proprio... così...
(natalizia, papà?)
... beh, questa la metto qui - posò una rivista sul tavolino nell’ingresso - e chi la tocca farà i conti col sottoscritto... -
Teresa diede un’occhiata, anche se avrebbe potuto scommetterci tranquillamente un braccio sul fatto che si trattava della prediletta Settimana Enigmistica:
- Cos’è? Appena comprata? - chiese cercando di mettere un tono scherzoso e disinvolto nella voce, riuscendovi con molta fatica.
- Nuova DI PALLA - sentenziò l’uomo - la mia personale garanzia di pace in questi giorni che saranno senz’altro piacevoli, ma presumo anche molto... decisamente...
(saranno cosa, papà? Impegnativi? Caotici?, Teresa annaspò nel tentativo di ricacciar giù un’irresistibile voglia di scoppiare in lacrime, dove diavolo vanno a finire le tue parole?!?)
Si fece forza per disperdere quei pensieri minacciosi e negativi, focalizzando la sua attenzione sul risaputo valore che quella pubblicazione rivestiva per suo padre. Corrado Fornaser era un patito, un appassionato, no, ancora di più, un adoratore della Settimana Enigmistica, “la ri­vista che vantava più tentativi d’imitazione”, come recitava un’abusata didascalia in copertina. Teresa poteva affermare con certezza di averli sempre visti insieme, l’uomo e la sua fedele compagna “cartacea”, fin da quando i suoi ricordi di bambina lo permettevano. Spa­pa­ranzato nella sua poltrona preferita, dopo un succulento pranzetto domenicale. Steso sul let­to sotto la lu­ce diffusa dell’abat-jour, un dito di whisky nel bicchiere sul comodino
(Tu bevi il latte bianco, prima di dormire, io quello “speciale inglese”, spiegava ad una piccola e attenta Teresa con le codine e l’apparecchio ai denti, e tutti e due ci fanno fare sonni sereni e so­gni colorati... Un giorno lei aveva trovato il bicchiere dimenticato sul comodino, e a­ve­va az­zardato una rapida “lappata” in punta di lingua, decidendo subito dopo, con il faccino ac­car­toc­ciato dal disgusto, che preferiva cento milioni di volte il vecchio, caro latte di muc­ca...)
a petto nudo, magro come un chiodo, nel cerchio fresco di un’ombrellone, sulla spiaggia di Sot­tomarina. Nei frequenti e prolungati momenti in cui s’immergeva nelle delizie dell’enigmistica, suo padre era assolutamente refrattario a qualsiasi disturbo esterno, schiamazzo di giochi, bufera casalinga, chiacchere di parenti in visita, nulla poteva strapparlo a quel personale “viaggio” in una dimensione parallela. Un’altra cosa che non mancava di stupire Teresa era il fatto che l’uomo, pur prediligendo alcuni tipi di cruciverba piuttosto impegnativi, im­mancabilmente risolveva ogni gioco proposto dalla rivista, partendo dallo schema decisamente dilettantesco in copertina sino ai veloci rebus che chiudevano il retro. “Dopo cento an­ni che fai le parole crociate”, aveva chiesto una volta la figlia, “come fai a trarre lo stesso di­vertimento da quelle per i bambini a quelle impossibili da risolver ?!?”, ma, prima che l’in­terrogato potesse abbozzare qualche spiritosa replica, era intervenuta sua madre:
"Quella, per tuo padre, non è una banale rivista di parole crociate", aveva spiegato divertita, sotto lo sguardo buffamente torvo del marito, "è il suo settimanale, personalissimo test di integrità psico-intellettuale... e guarda che non sto scherzando... non hai idea di che vita d’inferno sia, se per caso resta impantanato su qualche complicato rebus, o quando non trova ALL’ISTANTE la giusta definizione al 15 orizzontale"...
Madre e figlia avevano riso di gusto assieme, mentre l’uomo, gambe accavallate sul divano, Settimana aperta su un ginocchio, penna a biro in mano, scuoteva la testa accigliato:
"Impertinente fraülein, aveva ribattuto, non tirare troppo korda o mia vendetta zarà terribile"...
Sua moglie si era “tamponata” una lacrima di divertimento dal bordo della palpebra, replicando che qvando marito era tokkato sul vivo, reagiva con velenoza rizpozta. Un’altra, ricorrente tradizione dei genitori di Teresa, anche questa in vigore da tempo immemorabile, era quella di inscenare spassosissimi e prolungati dialoghi in pura pronuncia tetezka, che non mancavano di far spanciare dalle risate la loro figlia.
- Su, dammi il cappotto - disse Teresa al padre appoggiando le mani sulle sue spalle ossute - che andiamo in cucina a metter su una tazza di tè... e stai tranquillo, che se qualcuno osa toccare la tua amata Settimana, dovrà pazzare su nostro kadafere! -
Corrado Fornaser si lasciò sfilare il paltò:
- Sì, una buona di tazza di té la prendo proprio volentieri - rispose strofinandosi le mani per ri­scaldarsele, poi si voltò a fissarla - ma perché parli in quello strano modo? - chiese, mentre la donna si girava di scatto verso l’attaccapanni accanto alla porta, per nascondere il velo lu­ci­do che le aveva improvvisamente appannato gli occhi.

10_

- Ame, spegni quell’affare - Lucia Anelli si voltò verso i sedili posteriori dell’accogliente Seat Alhambra versione monovolume - quel bip bip mi sta facendo uscire matta! -
Il ragazzino, chino sullo schermo fiocamente illuminato del Game Boy, corrucciò la faccia in un’espressione infastidita, che venne prontamente imitata dalla sorellina che gli sedeva ac­canto.
- Beh, se vuoi, posso escludere l’audio… - si affrettò a ribattere, sferrando una gomitatina ir­ri­tata alla piccola Emma, che reagì in maniera esagerata, rotolando contro lo sportello alla sua de­­stra.
- Mamma! - protestò con una vocina pigolante e indignata. Sua madre la ignorò, rivolgendosi ancora al “videogame-dipendente” che aveva generato:
- Ehi, non facciamo furbate - replicò severa - quando dico “spegni” è “spegni”, e non “abbassa” o “sì mamma d’accordo ancora un attimo”…, ci siamo capiti? -
Amedeo osservò sconsolato il cubitale “game over” (per quanto cubitale possa apparire una scrit­tina elettronica su uno schermo di cinque centimetri di lato) che il suo pollice sul tasto ON/OFF, e soprattutto il tono di voce di sua madre che assomigliava molto ad una miccia a ful­minea combustione, avevano evocato. Fece scivolare la salma dell’apparecchietto elettronico nella tasca interna del giubbotto, incrociando poi le braccia, trincerato dietro una con­vin­­ta maschera di sdegno:
- Uffa - non riuscì ad impedirsi di sbuffare - però io qui dietro con… questa… mi rompo! -
- Se si rompe poi bisogna giustarlo col svocc… - comunicò seria la sorellina al gatto finto che cul­lava tra le braccia come un neonato peloso e inerte.
- Intanto tua sorella ha un nome - continuò Lucia massaggiandosi le tempie con la punta del­le dita, per cercare di tenere a bada l’ipotesi di un mal di testa.
- Mi chiamo Emma Teletubbi Anelli - puntualizzò la bimbetta. Renato, intento nella guida, di­stolse per un istante l’attenzione dal traffico, scambiando una rapida occhiata interrogativa con la moglie:
- T-e-l-e…t-u-b-b-i?!? - articolò con le labbra, a volume di voce quasi inudibile. La donna al suo fianco si strinse nelle spalle, proseguendo nella sua mezza ramanzina al figlio maggiore:
- Che poi te l’ho detto mille volte, perdere le ore su quell’affarino microscopico ti consumerà gli occhi… vuoi forse che quel giochetto ti faccia diventare cieco? -
- Io avevo sempre creduto che fosse un altro, il tipo di giochino che fa diventare ciechi… - in­ter­venne Renato, ridacchiando tra sé.
- Che giochino, papà? - saltò su la piccola Emma, incuriosita - come si chiama? Ci posso giocare anch’io? -
- Uh… penso che ci giocherai, sì... tra un po’ di anni, magari - insistette l’uomo divertito, sotto lo sguardo buffamente torvo della moglie. La bimbetta si arrampicò su per lo schienale del sedile anteriore, insoddisfatta da quella criptica risposta:
- Tra un po’ di anni?!? - protestò - perché così tardi? Non me lo puoi insegnare adesso? -
- Chiedilo alla mamma - scherzò ancora l’uomo al volante, schivando uno schiaffetto che la donna gli aveva sferrato scandalizzata - a quanto so era bravissima… prima di conoscere il papà… -
- Uffa - s’intromise ancora Amedeo - voi state lì a… chiaccherare, e io non posso neanche… -
- No, non puoi - lo anticipò la madre - e poi quello non è l’unico modo di passare il tempo… sta lì con tua sorella, giocate a qualcosa… -
- A cosa giochiamo? - esclamò pronta Emma, mentre il fratello mimava un plateale conato di vomito a quella infantilistica ipotesi.
- A quel bel giochino di cui si diceva - ridacchiò ancora Renato.
- Fate a chi vede più alberi di Natale - suggerì Lucia - l’anno scorso vi piaceva così tanto… -
- SIIIII’!!! - Emma dimostrò il suo consenso, prendendo a scrutare frenetica in ogni direzione.
- Sì, tappo, tanto lo sai che ti straccio - sibilò suo fratello accettando la sfida.
- Ah, così tu mi avresti strappata a quella riprovevole abitudine solitaria… - sussurrò Lucia fa­cendo scivolare una carezza sexy lungo la coscia del marito, per trasformandola poi in un scherzoso tentativo di artigliargli i “gioielli di famiglia”. L’uomo si ritrasse su per lo schienale, in un gesto istintivo ampiamente giustificato dalla totalità del genere maschile mondiale:
- Ehi, buona, che finiamo fuori strada! - protestò allegro - e poi di questo argomento possiamo parlare con tutta calma nei prossimi giorni… -
La donna sorrise, stringendogli il ginocchio in un gesto affettuoso:
- Che bello, però - disse cambiando discorso - ritrovarci tutti insieme… non mi sembra neanche vero… -
- Albero - esclamò Amedeo indicando da qualche parte fuori dal finestrino.
- Già - commentò asciutto l’uomo alla guida, osservando contrariato un pazzo che li stava su­pe­rando a tutta velocità, nonostante la linea continua e un discreto flusso di auto in direzione contraria.
- Mi sembrano due secoli che non vediamo i ragazzi tutti assieme… - continuò Lucia - quand’è stata l’ultima volta? -
- Alberissiu - pigolò Emma, col naso schiacciato contro il vetro gelido.
- Emma... - la rimproverò distrattamente la donna.
- Se non sbaglio da quella slittata su a Tresche… - azzardò il marito, frugandosi nella memoria - già, perché poi Guido è partito per quello stage in Inghilterra… -
- Là… alberissiu! - esclamò rapida la bimbetta sul sedile posteriore.
- Da quella volta?!? - ribattè Lucia incredula - ma… Emma non camminava ancora… o forse mi sbaglio… ma in ogni caso sono passati sul serio due secoli! -
- Alberissiu! -
- Emma! - sbottò la madre voltandosi - piantala di parlare in quel modo assurdo, lo sai che non mi piace… -
La bimba battè una minuscola manina sulla manica imbottita del giubbotto del fratello, indicando una specie di grosso cespuglio “infestato” di lampadine sfavillanti:
- A-l-b-e-r-i-s-s-i-u… - sussurrò a volume inudibile, esibendo un “tre” con ditine minuscole, rivestite da un guanto color rosa. Il fratello grugnì irritato dal palese
(e momentaneissiu)
vantaggio guadagnato dalla sorella.
- Non avrei mai immaginato che Terry se la sentisse di organizzare una cosa del genere - pro­se­guì Lucia - certo ci vuole un’ammirevole forza di volontà, anche se sono sicura che le farà be­ne… che le faremo bene… -
- Questo senz’altro - rispose il marito, cercando di decifrare dentro di sé se quella ipotesi lo convincesse fino in fondo - e poi, sai, prima o dopo… -
- Albero!!! - sibilò rabbioso il ragazzino, picchiettando con la punta del dito sul finestrino - tre a due! Vai con la rimonta!!! -
- Amedeo, non è la finale mondiale del campionato di avvistamento alberi - gli fece presente la madre - né tantomeno uno di quei tuoi cruenti scontri con quegli orribili mostri elettronici… ricordati che stai giocando con una bambina di cinque anni… -
- Quasi-sei-annissiu - precisò l’interessata.
- L’importante… - continuò l’uomo al volante, sottolineando quel suggerimento col tono di vo­­ce - l’importante è che nessuno
(inteso come essere di sesso femminile facile alla lacrima)
si faccia prender dentro ad una spirale di ricordi e depressioni e discorsi demoralizzanti… - la moglie lo fissò con sospetto - non dico di far finta che sia tutto okay, questo no, perché sarebbe un modo sbagliato di affrontare la cosa, ma neanche buttarla a tutti i costi su una versione ca­sereccia, e molto ma molto pericolosa… e lo dico per Terry, mica per noi che poi ce ne torniamo a casa assieme, e con quei due hobbit là dietro… del “Grande freddo”… -
- Io non sono un hobbit qualunque… - protestò… il maggiore dei due hobbit là dietro - casomai sono Frodo Baggins… -
GUAI a toccare il “Signore degli Anelli” al giovane Amedeo, per carità, un film che aveva ar­dentemente atteso, prima, e poi “bevuto” tutto d’un fiato, seduto a fianco del padre con gli occhi incollati al megaschermo del Warner Village, senza quasi toccare il secchiello colmo di popcorn dimenticato nel foro del bracciolo. Inutile dire che nei giorni seguenti, in casa, a scuo­la, in ogni luogo frequentato da un normale ragazzino di dodici anni, l’argomento principe ed esclusivo erano state le avvincenti avventure di Frodo, di Gandarlf, del prode Aragorn e del resto di quella coraggiosissima Compagnia dell’Anello
(la coincidenza, poi, fortuita per qualsiasi imparziale osservatore esterno - ma assolutamente significativa e predestinata per il ragazzino - che il suo cognome potesse così straordinariamente riecheggiare nel titolo del film, lo riempiva di un segreto quanto emozionante senso di or­goglio)
- Gnanch’io sono un obbi - si affrettò a precisare Emma, dimenticando per un attimo il suo speciale gergo in issiu, anche se non aveva la più pallida idea di che cosa stesse parlando, dato che la sua tenera età l’a­veva tagliata fuori dalla visione di un film così zeppo di sequenze cruente e sp­aventevoli.
No­nostante, questo va detto, le sue indignate e accorate proteste.
Lucia esibì un broncio convinto per un paio di secondi, piccata più dal riferimento del marito ad uno dei suoi film preferiti, che dall’accusa neanche tanto velata di appartenere ad un ge­ne­re, quello femminile, dalla lacrimuccia facile. In quello, ad essere sinceri, non ci vedeva as­so­lutamente niente di male:
- Beh, sentiamo allora - sbottò poi con un voluto tono supponente - visto che non ti sei ancora sfi­lato il tuo professionale camice bianco, nonostante dovremmo essere già in ferie… come sta, Teresa, secondo te? -
- ALBERO!!! EVVAI!!! - esultò Amedeo balzando su dal comodo sedile posteriore.
- Non lo vedissiu - tentò di opporsi sua sorella.
- Dèi, dèi, non fare la furba - replicò l’altro, ruotando su sé stesso per indicare il bersaglio che si stavano rapidamente lasciando alle spalle - là, vicino a quel distributore di benz… -
- Non capissiu - ci provò la piccola furbacchiona. Amedeo le afferrò più o meno delicatamente la testa con una mano, indirizzandola verso l’oscurità della periferia circostante:
- Là in fondissiu… vicinissiu a quel distributorissiu di benzin… -
- AME, NON COMINCIARE ANCHE TU CON QUESTO ORRENDO MODO DI PARLARE! - esplose sua madre alzando un dito minaccioso.
- Io non ho vissiu un bel nientissiu - dichiarò testarda la detentrice della testa della classifica.
- Emma! -
- Tu VUOI bararissiu!!! - l’accusò il perdente, scandendo quella frase come se la bimbetta a­vesse commesso la più riprovevole delle azioni. E a dire il vero, nella decoubertiana ottica di gio­co di un ragazzino di dodici anni, pur nel caso di un infantile passatempo, le si era avvicinata molto.
- Ragazzi, un’altra sola parola in questa antipaticissima maniera, e volano schiaffoni! - minacciò esasperata la donna - Renato, per favore, digli qualcosa tu… -
- Eddai, bambini, fate i bravi - esclamò l’uomo con un tono volutamente burbero, in realtà sogghignando sotto i baffi - e per cortesia, date retta alla vostra… - guardò di sottecchi la moglie che fissava la strada davanti a sé - ...cara mammissiu ! -
I due fratelli sul sedile posteriore ESPLOSERO in una risata fragorosa, mentre Lucia roteava furiosa gli occhi sul marito, assolutamente incredula di quell’inaspettato voltafaccia coniu­ga­le:
- Renato, per l’amor del Cielo!!! - sbraitò mentre i suoi due figli sussultavano, con le lacrime agli occhi per quello spassoso divertimento, trattenuti dal tenace abbraccio delle cinture di si­cu­rezza - ti ci metti anche tu, adesso?!? Posso capire Emma, che è piccola e che prima o poi… spero… perderà l’abitudine di questa… questo sciocco modo di esprimersi… ma tu, A­me­deo - il ragazzino si bloccò un secondo, incuriosito e allarmato, poi non resistette riprendendo a sghignazzare sgangheratamente - che hai ormai dodici anni, e dovresti comportarti in ma­niera MOLTO più matura di così… e adesso il loro padre qui, che invece di darmi man forte e aiutarmi, si mette a livello di questi… questi… -
- A livellissiu - precisò l’uomo ormai deciso a buttare bonariamente in vacca quella discus­sio­ne. La precisazione agì da esilarante combustibile sui due bimbi, aizzando le loro risate in­controllate.
In realtà, quel movimentato diversivo aveva permesso a Renato di prender un po’ di tempo, e valutare seriamente dentro di sé la domanda che gli aveva rivolto la moglie. Come stava Te­re­sa… Già. Come sta? Spero bene, fu la sua replica preliminare, anche se la sentiva alquanto ale­atoria e inefficace, da tutti i punti di vista. Da quello di stimato ed esperto psicoterapeuta, per cominciare, e di profondo amico della donna, in secondo luogo. I dati in suo possesso… quelli re­centi, perlomeno… erano decisamente insufficienti. La giovane si era ovviamente ri­volta a lui (vogliamo azzardare un’aggrappata, realizzando subito dopo che non è affatto un termine spropositato?), nei tragici momenti susseguenti la perdita, e lui aveva dato fondo ad ogni capacità professionale e non, per tentare di darle una mano. Scoprendo molto pre­sto, e con una reazione violenta e improvvisa e agghiacciante
(molto simile a quella avuta da Amedeo, rannicchiato al suo fianco nel moderno an­tro scuro del cinema, quando un gigantesco e orrendo mostro sotterraneo era sbucato dal­le viscere della terra per attaccare la Compagnia dell’Anello)
(quella reazione, dottore, se può esserle d’aiuto, può tranquillamente chiamarla TERRORE)
che le sue parole, quei preziosi e validi e indiscutibili strumenti di lavoro - almeno fino a quel gelido inizio d’anno di dodici mesi prima - la sua distaccata professionalità, il suo tono di vo­ce pacato e rassicurante, il suo studiolo tranquillo, arredato non come uno squallido ambulatorio medico, intendiamoci, ma con poltrone accoglienti
(niente picchiatelli sdraiati sul classico lettino, come nei film americani)
e raffinate stampe d’autore alle pareti, non valeva assolutamente niente al fine di sollevare di un microgrammo, per un brevissimo, inconsistente nanosecondo, l’animo straziato di una persona prostrata da un dolore così grande. E la consapevolezza più angosciante, che cercava di tenere a bada mentre prendeva a strisciargli in gola con un gusto acido, rischiando seriamente di mandare in frantumi le sue secolari certezze rispetto a sè stesso e al proprio mondo professionale, era il sospetto che non funzionasse così solo nei confronti di una sfortunata amica. Per la quale, era inutile nasconderlo, aveva provato e provava un affetto particolare, ma il ti­m­ore si stava estendendo, coma una chiazza di benzina in fiamme, anche alla reale efficacia ri­guardo a tutti gli altri suoi assistiti
(ti sei già macerato al bisogno, su questo, e inutile riaffondarci dentro un’altra volta, a pochi me­tri da casa di Terry, lo rimproverò un pensiero che lui immaginò molto accigliato)
La straziante vista di Teresa che si alzava a fatica dalla poltrona di fronte alla sua scrivania, co­me un’ottuagenaria nascosta in un corpo apparentemente giovane e in buona salute, al ri­gi­do termine dei cinquanta mi­nuti di terapia - scusami, Terry, ma mi arriva una paziente
(ed era stato così delicato da non lasciarsi sfuggire un'altra, prima del termine paziente)
e si avviava, le spalle curve, verso un mondo che per lei doveva rappresentare solo dolore e gelo e vuoto
(ma questo, doc, l’hai dedotto solo dai suoi singhiozzanti discorsi, mica perché l’hai provato davvero, nè tantomeno te l’hanno trasmesso tutti quei complicati libroni che hai letto per poterti permettere di appendere quel bell’attestato in cornice dorata)
quella vista, dicevamo, e l’altrettanto straziante significato che celava, aveva seriamente mi­nacciato di riuscire a far breccia nella sua professionale barriera. Arrecando danni devastanti.
Quante volte, paralizzato nella costosa poltrona del suo studio, dopo aver pregato all’interfono la segretaria di attendere un attimo prima di introdurre la paziente successiva
(la rubiconda signora Sandra Tabacchi, in terapia per evidenti disturbi della sfera alimentare)
si era smarrito in perniciosi labirinti mentali in cui riusciva a comprendere, pur non desiderandolo af­fatto, che Teresa, uscita di lì con quell’enorme macigno di dolore, per nulla scalfito da­gli scalpelli spuntati rappresentati dalle sue parole, esisteva ancora al di là della porta del suo studio, oltre il nome fissato sul planning degli appuntamenti. E come lei
(e questo era l’aspetto più destabilizzante, nel quale non poteva assolutamente permettere di farsi coinvolgere)
tutte le altre problematiche persone che si rivolgevano a lui nel dissennato miraggio di stare meglio.
(ma che troiata!, aveva pensato aggrappandosi come un naufrago all’evidenza dei risultati, ai dati di fat­to, persino all’indiscutibile opera di più celeberrimi predecessori, è ovvio che alla fi­ne si sentono meglio, o al limite non così peggio di come sono arrivati qui... e poi io sono un me­­dico, mica un santone che dispensa miracoli!!!)
Pazienti che con immensa fatica gli permettevano di dare un’occhiata nei loro cuori, barattando sulla superficie lucida della scrivania esperienze, e spesso segreti, a volte inconfessabili, in cambio di una cieca speranza e fruscianti banconote.
(alla discreta segretaria nella reception, s’intende, mica a lui... lui era il Dottore, il valente te­ra­peuta, poteva forse sporcarsi con del vile denaro?)
(sto sbiellando, rimuginò infastidito l’uomo al volante, un’altra volta...)
(forse hai bisogno di andare in analisi... ah ah)
E, in ogni caso, le vite dei suoi pazienti, là fuori da qualche parte nel mondo, con le loro ansie, i loro attacchi di panico, gli abissi di depressione velenosi come nere ali di fantastiche creature della Terra di Mezzo... tutti quei complicati problemi personali che impedivano di vivere una vita nor­male, di potersi alzare la mattina senza essere terrorizzati da un nuovo giorno da riempire... continuavano a proiettarglisi nella mente indesiderate e vivide, come un film in un’avveniristico megaschermo.
Stronzate”, aveva tagliato corto alla fine. “Le cose non stanno affatto in questo modo”, a­ve­va aggiunto poi, “il problema è che Terry è un’amica, e il bene che le voglio non mi permette di valutare la cosa nella giusta ottica”. Forse l’etica professionale, o addirittura una ben pre­ci­sa disposizione di categoria, dovrebbe sconsigliare di accettare quel tipo di situazione, un pò co­me il chirurgo costretto a decidere quale paziente operare d’urgenza, in un in­cidente stradale che annoveri tra i feriti anche il proprio figlio. Perché se le cose vanno bene, resti un va­lente e professionale medico, stimato e benvoluto da tutti... ma se per caso vanno ma­le... son cazzi (signori miei oh se lo sono)... Personalmente, per uscir fuori da quell’impasse, aveva de­ciso (po­co convinto e con molta vergogna) di applicare l’auspicata regola di cui sopra, in­ter­rompendo le sedute con Teresa anche se, a voler guardare il pelo nell’uovo, non è che pro­prio fossero giunti al termine clinico della terapia... Col fiato sospeso, nei tempi successivi, a­ve­va sperato vivamente che la fibra psichica della donna, e il naturale evolversi delle cose
(in grado d’impedire al paziente, nel novantanove virgola nove per cento di quel ge­nere di ca­si, di auto-prescriversi una terapia personalizzata che preveda l’uso di taglienti rasoi, o la massiccia as­sunzione di barbiturici, o ancora l’allegra rotazione di tutte le manopole dei fornelli di casa)
fornissero l’aiuto che lui non era stato in grado di darle.
- Teresa dovrebbe stare bene... - si decise a comunicare alla moglie in ascolto - compatibilmente... - la sensazione, non piacevole, era comunque quella di camminare su un tappeto di fragilissime uova verbali.
- L’hai sentita recentemente? - s’informò la donna premurosa. A Renato venne l’improvviso e irresistibile impulso di ribattere “No, recentissiu non l’ho affatto sentitissiu”, per creare un auspicato diversivo che tagliasse l’aria, preferendo sorbirsi i rimbrotti della moglie sulla sua incapacità di mantenere un comportamento serio, piuttosto di dover fornire interpretazioni che sentiva decisamente e colpevolmente incomplete.
- Non proprio - rispose invece, decidendo di rifugiarsi ancora una volta nel rassicurante territorio delle valutazioni professionali - ma, cosa vuoi, è del tutto comprensibile... nel normale rapporto medico - paziente
(ehi stronzone, non è una paziente, è la tua cara amica Teresa, per la quale ti eri preso una bella scuffia, prima di conoscere Lucia!!!)
nel vivo della terapia la tua presenza diventa indispensabile... e irrinunciabile... ma poi, quando le cose cominciano ad appianarsi, e si inizia ad intuire che ce la si può fare con le proprie forze, subentra una specie di rigetto nei confronti del terapeuta... una repulsione quasi naturale, che è importante non contrastare, proprio perché la figura del medico può riportarti a sensazioni e ricordi contro le quali ti stai sforzando di uscirne fuori... per cui io non ho più sen­tito lei, e lei non si è più fatta viva... fino all’e-mail dell’invito... -
Il silenzio tornò a riempire il caldo abitacolo della vettura, rotto solo dalle concitate esclamazioni di “avvistamento” dai sedili posteriori - il punteggio era undici a nove in favore di Emma, per la cronaca, e il valoroso emulo di Frodo Baggins non aveva la minima intenzione di gettare la spugna - con Lucia che annuiva soddisfatta dell’interpretazione fornitale dal marito.
Come stai, sfortunata Teresa?, s’interrogò ancora lui, come stai sul serio?, ben conscio che la ri­sposta a quell’accorato appello mentale non si sarebbe fatta attendere a lungo, e avendone nello stesso tempo un’esigenza quasi fisica di conoscerla. Avevi proprio voglia di questa simpatica rimpatriata, o magari c’è qualcos’altro sotto, e quell’affettuoso invito elettronico na­sconde in realtà un disperata e assordante richiesta d’aiuto?
- Anche con gli altri, però... - riprese Lucia, scuotendo la massa di riccioli castani - è una vita e mezza che non ci facciamo vivi, nemmeno con una telefonata... è un pò una vergogna, non tro­vi? -
Renato si strinse nelle spalle, rifugiandosi ancora una volta in un’interpretazione che attingeva molto dalla propria esperienza professionale:
- Bah... va così... - borbottò - sai come la penso... cose che succedono... e poi se non ti viene l’impulso di prender su il telefono e fare un pronto... questo non significa necessariamente che non hai voglia di sentire una determinata persona... ma solo che non ti scatta lo stimolo. Suc­cede, per una serie quasi infinita di fattori... Perché pensi di disturbare, di intrometterti in momenti e tempi sbagliati, e poi perché c’é sempre qualcos’altro da fare, devi correre da qualche parte, o sbrigare qualche faccenda irrimandabile... o che ti pare tale, e il risultato è lo stesso... - fece un sorriso amaro - come diceva sempre il buon Gianni, che per inciso vedremo tra meno di cinque minuti... “è il logorio della vita moderna”, no? -
- Che triste, però - commentò la donna, con il taglio delle labbra all’ingiù, in una sua tipica e­spressione a metà tra l’assorto e il deluso - poi va a finire che si scompare per anni, e quando ti ritrovi rischi di sentirti come perfetti estranei... dopo tutto quello che abbiamo passato in­sieme... -
- Non è triste... è la vita - sentenziò Renato, mettendo fuori la freccia per svoltare - e poi non funziona affatto così... Se i legami hanno radici solide e profonde, ti accorgerai che bastano pochi attimi per riannodare fili che credevi irreparabilmente slegati... -
Sua moglie lo fissò affettuosa, comprendendo una volta ancora, come un qualcosa di nascosto sotto la superficie immota della quotidianità ma ben rilucente, uno dei motivi per cui era innamorata di quell’uomo barbuto e compassato:
- Mmh... - convenne piacevolmente impressionata - e questo lo dice il dottor Anelli, o il mio Re­nato? -
Prima che lui potesse rispondere (magari chiedendole divertito che differenza facesse), la piccola Emma avvistò una serie di pini decorati in bella mostra nel piazzale di un garden center, sfoderando un’ammirevole bordata di “Alberissiu... e alberissiu...e alberissiu !!!” che affossò definitivamente le velleità di rimonta del fratello.

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Capitolo 7
*** Pensieri - Primi arrivi - Colpi di fulmine ***


11_

A momenti saranno qui, lo sai vero?
Che razza di domanda... li ho voluti qua io!
E sei sempre convinta che sia stata una cosa assennata...
Beh... sì... direi di sì... sono i miei amici, e mio padre... le persone a cui voglio bene...
...e che ti ricorderanno un sacco di cose... i bei tempi... i tempi felici... e ovviamente lui...
(ma chi diavolo sei ? E perché non mi lasci in pace?)
E’... E’ un rischio che voglio provare a correre... e poi da qualche parte dovrò pur ricominciare, o no?
Avrai gente per casa... anche nei momenti in cui ti prenderà la voglia di startene da sola... e vedrai gente felice, coppie affiatate, probabilmente ascolterai discorsi positivi, di progetti, di futuro, di vite insieme... e poi i bambini... che tu hai così ardentemente desiderato... correranno a­vanti e indietro, rideranno, grideranno di gioia... e tu vedrai tutto questo...
Mmh... immagino che vedrò la vita...
Già, già... contenta tu...
Se sarò contenta o meno lo posso scoprire solo provandoci... sì, è vero, non so se mi farà bene o farà male, ma qualcosa di sicuro farà, e credo che sia sempre meglio che il niente... e poi chi sei tu, che pensi di decidere per me 
Ma come, non dirmi che non mi hai riconosciuto? Sono un tuo vecchio e fedele compagno, che vive dentro di te, e che non ha nessuna intenzione di lasciarti...
Io sono il tuo DOLORE.

12_

Rumore di auto in arrivo. Di pneumatici che fanno stridere la ghiaia sottile. Una sventagliata di luce attraverso le finestre, come quella di un faro in miniatura perso nella tempestosa oscurità dell’oceano. Sportelli che si chiudono con uno sciufff ovattato. Voci allegre, saluti, risate...
Ben arrivati!

13_

Teresa uscì sulla porta di casa, osservando la Ford Focus color argento arrestarsi nel cortile. Un fremito leggero, per niente spiacevole, le vibrò nel petto come un uccellino appena uscito dal­l’uovo. Attese che i suoi amici scendessero, con una strana sensazione… di tensione sulla faccia
(credo sia una cosa chiamata sorriso)
mentre la giovane Vanessa si affannava a salutarla da dietro il finestrino, agitando frenetica una mano.
Gianni Ostiglia, diverso dall’ultima volta che l’aveva visto solo per il taglio di capelli decisamente alla moda e qualche vistoso chilo in più, avanzò verso di lei abbottonandosi un cappotto dall’aria piuttosto costosa. Al­cuni passi prima di arrivarle vicino, si sollevò con una ma­no guantata l’orlo dei pantaloni scuri, a mostrare un paio di scarpe lucide leggerissimamente schizzate dal fango che, per forza di cose (in campagna, dopo due giorni di pioggia incessante), ricopriva ampie zone del cortile.
- Il conto per la pulitura delle mie Nero Giardini infangate dal tuo cortile te lo faccio avere con calma, dopo la Befana… - esordì con un largo sorriso, stampandole due sonori baci sulle guance - ciao, vecchia Terry… -
La donna rise di gusto, scuotendo la testa:
- Oh… felice Natale anche a te, Gianni! - rispose divertita, facendogli segno di accomodarsi. L’uomo fece il suo ingresso in casa, osservandosi intorno con interesse, per poi approvare con un flebile fischio di ammirazione.
- Sempre pregno di buon spirito natalizio tuo marito, proprio come lo ricordavo… - disse Te­re­sa rivolta a Cristina, abbracciandola con affetto. L’amica ricambiò la stretta, accarezzandole il viso tra le mani fredde:
- Chi, Gianni? Oh, ne puoi star certa… - rispose - in ogni caso sappi che siamo STRAFELICI di essere qui… -
- Beh, confesso che la cosa è del tutto reciproca… ma?!? Ehi, non ditemi che vi siete finalmente decisi a permutare quella bambina frignante e capricciosa che avevate con questa SPLENDIDA fanciulla in fiore… -
Vanessa, palesemente raggiante per quello sperticato complimento, le gettò le braccia al col­lo, in uno sbuffo delicato di profumo fruttato:
- Buon Natale, zia Terry - le augurò allegra - io, la mamma e il papà speriamo che questi giorni qui con te siano piacevoli, e che non ti saremo di troppo disturbo… -
La padrona di casa strinse forte a sé la ragazzina, indirizzando nel contempo un’occhiata stupita in direzione della madre.
- Eh bè, cosa vuoi - sogghignò Cristina, a commento di quella frase augurale così cortese - la retta delle medie dalle Dame Inglesi è impegnativa, ma come puoi vedere dà i suoi buoni risultati! -
Le due amiche risero di gusto, mentre Teresa le faceva entrare in casa, chiudendo fuori l’o­scu­rità e il freddo. Cristina fece un lento giro su sé stessa, riempiendosi gli occhi della grande sa­la arredata con cura e gusto:
- Beh… Terry… mio Dio… - balbettò quasi incredula - non ero riuscita a immaginarmi questo posto, dal tuo conciso resoconto telefonico, ma in ogni caso va al di là di ogni mia immaginazione… questa casa è un amore!!! -
- Già - intervenne suo marito, intento a valutare con occhio critico tutta una serie di particolari - interessante… decisamente interessante… un posto di enormi potenzialità, a saperlo ge­stire be­ne… cavoli, Terry, ci potresti tirare fuori un bel gruzzolo! -
- Oh bè… immagino di sì - ribattè distratta la proprietaria - volendolo… solo che a me non passa nemmeno per la testa… -
L’uomo la guardò storto, come se lei avesse appena rifiutato... che so... di ritirare il primo premio della lotteria di Capodanno, poi scosse la testa, proseguendo nel suo scrupoloso sopral­luo­go.
- Ehi, quell’albero di Natale… è… è… - esclamò Vanessa, alzando lo sguardo per riuscire ad ab­bracciarlo tutto.
- E’ vivo e vegeto - ammise Teresa a testa bassa - sono già pronta a soccombere sotto gli strali velenosi della nostra cara Lucia… -
Madre e figlia ridacchiarono divertite:
- No, volevo dire che è stupendo! - precisò la ragazzina.
- Ah, ecco, a proposito… - s’intromise Gianni tornando sui suoi passi - patti chiari, amicizia lun­ga… lo dico una volta per tutte, e se non basta ve lo metto per iscritto… io NON giocherò a tombola, NON rischierò la vita con quel pazzo di Renato in cortile a tirare botti, e… so­prat­tutto… - roteò gli indici a indicare la musica che le casse dello stereo diffondevano im­per­territe - … NON CANTERO’ in coro melense canzoncine natalizie… -
- Mmh… come volevasi dimostrare… - commentò sua moglie, rivolta a Teresa.
- Ok, ok, tolleranza e rispetto - rispose questa - razza di orso senza cuore come al solito… va bè, intanto direi di sistemarvi per bene, così quando arrivano gli altri almeno un equipaggio sa­rà già a posto… immagino abbiate le vostre cose in macchina… adesso chiamo Efrem e portiamo su tutto… e poi casomai ci facciamo un bel tè di Natale… -
- Un tè di Natale, che bello - commentò Vanessa - non credo di averne mai fatto uno… -
- Un tè?!? - le fece eco il padre, con un’espressione volutamente sgomenta - perché, sta ma­le qualcuno? -
- Ok…. Chi NE AVRA’ voglia degusterà una deliziosa miscela di tè creata apposta per questo pe­riodo da… un qualche negozio di Monaco di Baviera - puntualizzò divertita Teresa - no­to, caro Gianni, che siamo entrati subito in sintonia, almeno per quanto riguarda i battibecchi, e questo mi fa ben sperare per il proseguo… - l’uomo le dedicò una scherzosa boccaccia, am­miccando - ok… sedetevi giù, o fatevi un giro… o come preferite… come si dice, questa ca­sa è la vostra casa… beh, mica per sempre, ovvio… faccio un salto di là a chiamare E­frem… -
- Mh, non so, Terry, dici che sia il caso di disturbarlo? - intervenne cortese Cristina - io credo che possiamo tranquillamente cavarcela da soli… sono solo un paio di borse… Gianni, su, dat­ti una mossa… -
La padrona di casa li bloccò alzando le mani:
- Nessun disturbo, Cri, te lo garantisco… - replicò - anzi, non vorrei che se la prendesse perché non abbiamo chiesto il suo aiuto… ne sarà felice… - si diresse verso la porta, afferrando un pesante scialle dall’attaccapanni - e poi, mica vorrai che il nostro amico si rovini del tutto le sue… Nero Wolfe lì… - aprì la porta sul cortile.
- Nero GIARDINI - puntualizzò serioso Gianni, accomodandosi su una poltrona e allungando le scarpe in questione (leggermente inzaccherate, lo ricordiamo, ma pur sempre inzaccherate) su un basso tavolinetto - Bellinzona Milano Parigi New York… -
- Sti catz - commentò Teresa nell’ilarità generale.
- … 93 euro AL PAIO! - le urlò dietro divertito l’uomo, mentre lei spariva nell’oscurità e­ster­na.
Attraversò rapida il cortile, cercando di evitare il più possibile di mettere il piede in qualche in­fida pozzanghera
(non ho su le Nero Giardini da un milione di euro all’una, pensò divertita, ma in ogni caso…)
avvicinandosi al riquadro illuminato della porta di casa Iotti.
Che bello che siano qui, pensò quasi con cautela, come se temesse che un pensiero troppo positivo, così tutto d’un fiato, le potesse causare una qualche congestione nell’anima. Come quando si beve dell’acqua fredda di frigo senza “scaldarla in bocca”, come si premurava sempre sua madre. Sono bastate un paio di battute, ed è come se il tempo non fosse passato
(non è esattamente così, e lo sai)
(può darsi… ma vuoi sapere qual è la novità? Lo so, e forse non m’importa…)
anzi, si potrebbe quasi dire che tutto è tornato come doveva essere… al posto giusto… Si trattenne un secondo a sbirciare dentro la finestra illuminata della cucina, osservando con un sor­riso la frenetica attività di Ina, che sembrava quasi volare passando dai fornelli al secchiaio, dal tavolo ingombro di utensili ad una sapiente occhiata nel forno, dove senz’altro si sta­va rosolando qualche manicaretto delizioso. Efrem, infagottato in una pesante e ruvida ca­micia a scacchi, le stava raccontando qualcosa, rintanato su una sedia in un angolo, un robusto “goto” di vino rosso nella mano.
Tornò col pensiero agli amici che aveva lasciato di là. Cristina era sempre la solare, sorridente donna che ricordava, con la quale aveva passato nottate intere a chiaccherare, sedute ai ca­pi opposti di un letto, parlando di tutto e di niente (e, in questa ampia ed esauriente gamma di argomenti, un buon 90% era dedicato ai ragazzi). Vanessa, poi, stava veramente sbocciando nella splendida donnina che sarebbe diventata, e Teresa era sicura che i suoi profondi oc­chi verdi, di lì a qualche anno, avrebbero creato non pochi problemi a qualche compagno di classe. Si strinse nel morbido abbraccio dello scialle, indugiando ancora un attimo nella pe­nom­bra della sera. E Gianni… beh, Gianni era Gianni. Il solito, l’inimitabile, capace di spazientire anche il più bonario dei santi con le sue fanfaronate e le frecciatine ciniche. Nulla di nuovo sotto il sole, valutò la donna. Forse aveva solo mutato la sua filosofia personale, indirizzando i suoi commenti caustici e lapidari in una ben precisa direzione, alquanto praticata ai giorni nostri, pare, visto che su quattro frasi pronunciate, almeno tre avevano un riferimento ai soldi. Si decise a entrare. Bisognava prenderlo così, o lo accetti o lo accetti
(Ti accetto con un’accetta!, gli aveva urlato contro un giovane Renato, i pomelli delle guance rossi come peperoni, durante un acceso battibecco a sfondo politico accaduto più o meno un se­­colo prima)
Fece il suo ingresso nella cucina che, anche se le sembrava ogni volta quasi impossibile, era più vasta e fornita di quella di casa sua. Un profumo delizioso le accarezzò le narici, mentre con un rumoroso brontolìo il suo stomaco dava un entusiastico assenso.
- Con quale succulenta e ingrassante bontà hai intenzione di ammazzarci stasera, Ina? - e­sor­dì in direzione della rubiconda donna che stava assaggiando con professionale concentrazione una cucchiaiata di brodo. La moglie di Efrem la salutò allegramente:
- Niente di speciale - si schernì con la consueta modestia contadina - un piatto di tagliatelle in brodo, che fanno così bene con ‘sta umidità -
- Mmh… coi fegatini - puntualizzò scherzosamente burbera la ragazza, mentre l’uomo all’angolo del tavolo abbassava colpevolmente la testa, come se avesse spifferato un segreto di im­por­tanza nazionale.
- Eh bè, se no che tagliatelle sono? Roba da ospedale... - esclamò convinta la cuoca. Si abbassò a socchiudere lo sportello del forno - e un’arrostino, con le patate… roba genuina, leggera… -
Il marito si tirò su sbuffando per disincastrarsi dall’angusta posizione:
- Tuo padre è di sopra a sistemarsi le cose in camera - disse rivolto a Teresa - se vuoi faccio un salto a chiamarlo… -
- No, no, grazie, Efrem - rispose lei con un sorriso - lasciamolo fare le cose in tutta calma, non c’è fretta… sono venuta a chiederti di dare una mano a Gianni e Cristina a portar su la lo­ro ro­ba in stanza… se non hai altro da fare, s’intende… -
L’uomo scolò l’ultimo sorso di vino, affrettandosi a dirigersi verso il corridoio per prendere il giub­botto:
- No, no, ci mancherebbe… - disse premuroso - arrivo subito… -
Teresa si mise d'accordo con la donna indaffarata in cucina, promettendole che sarebbe tornata per aiutarla nelle ultime cose, quindi uscì nel cortile in compagnia del fattore.
- Mmh, a quanto pare le visite proseguono - disse l’uomo indicando un paio di fari che si stavano avvicinando dal viottolo d’ingresso, sobbalzando leggermente per via del fondo sconnesso. Teresa si schermò gli occhi col taglio della mano, osservando l’inconfondibile sagoma di una monovolume che faceva il suo ingresso nel cortile:
- Anche se non si può mai dire, dubito che il buon Guido sia passato dalla mitica R4 ad un macchinone del genere - azzardò la donna - per cui questa dev’essere la tribù Anelli… -
Il tempo di fermare l’autovettura a fianco di quella di Gianni, e i due in attesa nello spiazzo fu­ro­no travolti dall’allegra furia di Emma, Amedeo e Lucia, che si catapultarono fuori dall’abi­ta­colo ingaggiando un furibondo girotondo di abbracci e baci schioccanti.
- Ciao a tutti!!! - esclamò Lucia - Terry, che felicità!!! - si abbracciarono raggianti - oh, E­fre­m, quanto tempo! Come sta? -
La piccola Emma si aggrappò con un balzo al collo di Teresa:
- Buon Natalissiu!!! - urlacchiò entusiasta, mentre sua madre era talmente intenta a distribuire baci e abbracci anche a Cristina che li aveva raggiunti, da non badare affatto allo stram­palato modo di parlare - lo sai che ho vintissiu la gara di alberissiu? -
- Sono felice per te, qualunque cosa voglia dire - le rispose Teresa, cercando di mantenere un precario equilibrio sotto i colpi di quella furia in miniatura. Passò una mano affettuosa tra i fol­ti capelli di un Amedeo appena un po’ meno esagitato - ehi ragasso, che capelloni che sia­mo… -
- Cià la zanzera… - la informò premurosa la sorellina.
- Ho la zazzerissiu! - confermò ridendo il ragazzino.
- Che piacere vedervi qui! - li salutò ancora Teresa, cercando di abbracciarli tutti, in un buffo e ondeggiante gruppo “lacoontico” - fatto buon viaggio? -
- Sì, sì, tutto okay - rispose Lucia afferrando i lembi svolazzanti dello scialle di Cri­sti­na - oh, ma ti trovo in splendida forma! -
- Oh sì, un buon viaggissiu! - ribadì Emma, cercando di sfuggire (senza troppo successo) alle e­normi mani di Efrem che intendevano stamparle una raffica di baci sulle guanciottine. Si di­vin­colò senza esito come un malcapitato salmone tra le grinfie di un possente orso - bleah, che puzza di vinissiu! - protestò tra le risate generali.
- Ehi, che bella casa! - urlacchiò Amedeo saltellando come un giocattolo a molla caricato ec­ces­sivamente - hai anche la Playstation, magari? -
- No, temo di no - lo deluse la padrona di casa - in ogni caso vi divertirete lo stesso, presumo… su, vai a fare un sopralluogo…. -
- Frodo Baggins parte per l’esplorazione del maniero misterioso!!! - annunciò lanciandosi in una corsa a rotta di collo in direzione dell’abitazione.
- E’ avanzato qualche bacio anche per me? - chiese una voce pacata alle spalle di Teresa. Si voltò: sorridente, con le mani affondate nelle tasche del piumino, Renato osservava la scena con occhi divertiti.
- Dottore!!! - esclamò lei lanciandosi verso l’amico, che la avvolse in un abbraccio mozzafiato.
(Dimmi che non ce l’hai con me, Teresa, fu il pensiero assurdo e insolente che gli sbocciò in testa, mentre ne assaporava il profumo, che gli causò una strana e struggente sensazione)
Lei strofinò il naso freddo sulla folta barba dell’uomo, che sapeva di buon tabacco da pipa:
- Non ci posso credere, non ci posso credere! - esclamò felice Teresa, sciogliendosi quasi di ma­lavoglia da quella stretta - dove diavolo eravamo finiti, tutti quanti? - fece un ampio ge­sto di invito con le braccia aperte - su, accomodatevi, che qui ci ghiacciamo le braciole… -
- Ragazza, che reggia ti sei fatta qui - le disse Lucia prendendola sotto braccio e dirigendosi con lei verso la porta - Emma… hai visto che bell… - si guardò in giro - Renato, hai visto Em­ma, per caso? -
Suo marito si voltò verso il cortile, dove non c’era ormai più anima viva:
- Boh… era qui un attimo fa - la rassicurò - immagino si sia fiondata dentro a prender pos­ses­so della situazione… -

14_

Il prode Amedeo “Frodo” Anelli tagliò per primo il traguardo della sua forsennata corsa ver­so la casa (soprattutto in virtù del non poco trascurabile fatto di essere l’unico iscritto al­la ten­zone), catapultandosi come un ossesso nell’ampia sala illuminata. Il suo consumato sguar­do di dodicenne, sempre alla ricerca di avventure emozionanti e stimolanti, radiografò al­l’i­stante la scarsa attrattiva del piano terra di casa Angeli. Mmh, sì, forse quel grande cami­net­to po­­teva riservare qualche ipotesi interessante, visto che comunque il campo d’azione e­ra­no fuo­­­co e fiamme, ed anche il poderoso albero di Natale che guardava tutto e tutti dall’alto… in special modo per il nutrito numero di pacchetti infiocchettati (e il bello è che sarebbero au­­mentati, di lì a poco) che custodiva ai suoi piedi. Ma per il resto… il solito, desolante panorama di suppellettili e soprammobili - sicuramente fragilissimi e in equilibrio del tutto precario - spar­si qua e là in modo solo apparentemente casuale, o divani sopra i quali sarebbe stato scon­sigliabile salire con le scarpe.
E a proposito di scarpe, spaparanzato su una poltrona, con queste ultime e relativi piedi che li contenevano allungati su un basso tavolinetto, c’era uno dei vecchi amici di suo padre, intento a sfogliare una rivista:
- Ohi… ehilà campione! - lo salutò l’uomo, alzando stancamente una mano - questo significa che sono arrivati anche gli altri… -
Amedeo ricambiò distratto il saluto, facendo tesoro ancora una volta del fatto che l’adultaggine doveva essere una con­dizione alquanto privilegiata, visto che se solo lui si fosse azzardato ad avvicinare un paio di estremità così fangose ai tavolini di casa…
Tornò al suo bilancio ambientale: locale numero uno, vasto ma alquanto noioso e tirato a lu­ci­do, quindi… Alzò gli occhi oltre l’albero di Natale gigante…
- Ehi, ma lassù c’è un altro misterioso e inesplorato piano! - annunciò solenne - e quella sca­la in legno… wow wow WOW e’ una cosa molto molto INTERESSANTISSIUUU!!! -
Fece volar via il pesante giubbotto, pronto a schizzare in direzione del piano superiore (mi­sterioso e inesplorato, non va dimenticato), quando qualcosa dalla sua destra lo bloccò:
- Ciao Amedeo - lo salutò un tono di voce non particolarmente forte (oh no tutt’altro!) né tan­tomeno severo (macchè per niente). Si voltò incuriosito, impiegando alcuni secondi prima di riconoscere la persona che aveva attirato la sua attenzione. Nonostante non più tardi di un pa­­io di anni prima (anche se va concesso che per un ragazzino di dodici anni un periodo del ge­­nere è più o meno simile ad un eone) l’avesse bersagliata di palle di neve fino allo sfinimento. Capperolina, é lei ma è come se fosse lei... in bella copia, considerò il ragazzino, al­quanto stupito da quel pensiero che non riusciva a collocare in alcun modo
(sarà mica una sdolcineria?!?)
In una piccola stanzetta tapezzata di libri, di cui lui non si era accorto, con un televisore di accettabili di­­mensioni in un angolo
(oh oh, salvato in corner, così almeno qualche puntata di Lupin o Holly e Benji me la posso sparacchiare, se la situazione adulta diventa troppo muffosa, esultò un suo pensiero che pe­rò lui, in quel momento, trovò alquanto sfiatato)
seduta sul bracciolo di una poltrona, una sorridente Vanessa lo fissava, tenendo una specie di qua­derno aperto su un ginocchio.
Una ridda di fulminei pensieri prese a vorticargli nella testa
(perché una ridda, che non so neanche quasi cosa vuol dire? Cosa c’è di così anomalo?)
il primo dei quali gli stava facendo incomprensibilmente rimpiangere (oh, non sapete quanto!) un serioso completo blu relegato nel buio del suo armadio in città. Si rese conto, riuscendo a non abbassare colpevolmente lo sguardo, di indossare una chiassosa felpona su cui Vegeta SS4 lanciava il suo famoso e abbagliante raggio d’energia a doppio pugno, con la criniera leonina al vento
(beh, è ovvio che te ne renda conto… l’hai scelta personalmente, meno di due ore fa, essendo una delle tue felpe preferite)
e trovò la cosa, in un modo che non riusciva comunque a spiegarsi, molto ma molto fuori luo­go
(Che cosa diavolaccio mi succede? Perché queste orrende vampate di calore? Forse un im­prov­viso e inopportuno attacco febbrile?!?)
- Benvenuto - disse ancora la ragazzina: Soggiungendo, come se in qualche magico modo po­tes­se leggergli nella testa - mmh, bella felpa... -
Con la netta sensazione di essere stato inserito a tradimento in uno smisurato for­no a mi­cro­on­de - e pregando il Signore che la cosa si notasse il meno possibile da occhi esterni - A­me­deo si strap­­pò di dosso l’indumento incriminato, bofonchiando qualcosa sul fatto che lì in ca­sa fa­ce­va un caldo pazzesco:
- Ehm…ah, sì… V-V-Vao, C-C-ianessa ! - replicò con una padronanza di linguaggio che aveva all’incirca all’età di tre anni. Lei non se la prese più di tanto, continuando a fissarlo con la te­sta leggermente piegata e l’estremità della penna a tormentarsi il labbro inferiore.
E’... è... strana, rimuginò ancora, assolutamente certo di avere, al posto delle guance, due po­melli talmente infuocati... neanche avessero usato la sua testa per accendere l’enorme ca­mi­no nella sala alle sue spalle, è... diversa...
Se quella era la stessa mocciosa che lui aveva cercato di seppellire nella neve, che ricordava di­spersa in una giacca a vento più grande di lei, la bocca irta di ferretti metallici e un moccio pe­renne che le colava dal naso... beh... qualcosa le era successo... e non di brutto, ad occhio e cro­ce... Incapace di smettere di fissarla, solo vagamente conscio che la sua mandibola pareva es­sersi svitata dai supporti del viso, pendendo inerte verso il basso, la trovò... la trovò... il termine (assolutamente assurdo) che più si avvicinava a quello che intendeva dire era... morbida
(perché diavolaccio dovrebbe sembrarmi morbida... mica stiamo parlando di un nuovo tipo di bubble-gum!)
Forse, a quel punto gli sarebbe stato di enorme aiuto - anche se va detto che nello sconosciuto territorio in cui si era incamminato il non più troppo bambinetto Amedeo gli aiuti sarebbero stati sempre me­no frequenti e disponibili - poter utilizzare una di quelle parole che per un essere di sesso ma­schile della sua età pa­revano essere alquanto tabù. E cioè che la trovava
(no, non posso dirlo)
Si osservò assurdamente in giro, per sincerarsi che non saltassero fuori all’improvviso, come in un riuscito sketch di “Scherzi a parte”, Ettore Dalla Pozza e Tiziano Spiller, due minuscoli a­vanzi di galera travestiti da suoi compagni di banco, con i quali aveva stilato l’esclusivo sta­tu­to nel quale si stabiliva che le femmine (e già questo termine andava pronunciato col giusto to­no di disgusto nella voce), bene che andasse loro potevano ambire alla qualifica di “smor­fio­se puzzolenti” (nel senso di impregnate di qualche rivoltante profumo), ma molto più fa­cil­mente “capellute chiaccherone” e “sacchi di moine ambulanti” (copyright del creativo Spil­ler, questa). Beh, sapete che c’è, miei pirateschi compagni in razzie di merendine sotto i banchi? C’è che la tizia qui davanti a me in pantaloni di velluto neri e maglioncino color salmone... beh... non sembra per niente una “smorfiosa puzzolente”... e anzi, azzarderei che è molto ma molto
(pazzo, non lo dire neanche per scherzo!!!)
carina!
- Tutto bene? - s’informò lei premurosa, tenendolo sempre sotto il mirino puntato di quegli occhi verdi e ipnotici.
La probabile, sincopata risposta del ragazzino fu evitata dall’irruzione ciarliera e chiassosa de­gli adulti, che si sparsero per la sala in un tripudio di saluti e “oh, ma che meraviglia di po­sto!”
- Ah, Ame, sei qua… - lo beccò subito sua madre - Hai visto tua sorell… ehi, dico, cosa ci fai in maniche di camicia?!? -
L’imputato di quel gravissimo reato (secondo il ferreo codice comportamentale di una madre ap­prensiva) si giustificò borbottando qualcosa riguardo a temperature infernali e approfittò del balletto di baci e abbracci in cui la sua severa genitrice fu fagocitata per togliersi d’im­pac­cio, con quella rara capacità tutta fanciullesca di riuscire a diventare invisibile. Non gli dispiaceva nemmeno uscire temporaneamente dalla Zona Vanessa... il cuore gli rullava an­­cora un po’ troppo nel petto (misteriosamente) e sentiva l’esigenza di riordinare le idee.
In­di per cui… arbitro, time out!
- Oh… guarda chi si vede… - salutò Gianni Ostiglia senza dar cenno di tirar su le chiappe dal­la poltrona in cui era sprofondato - c’è anche il nostro illustre strizzacervelli! -
- Già… mi hanno detto che ce n’era bisogno di uno, qui - ribattè allegro Renato - E a consi­de­rare quel tuo taglio di capelli... -
L’altro si passò una mano leggera sulla testa, con un’espressione piccata sul volto, come a di­re “beh, cos’ho di strano?”
Per i successivi dieci minuti la scena si trasformò in un tumulto infernale, in cui tutti cercavano di parlare contemporaneamente, facendo a gara su chi riusciva a sovrastare l’altro, sciorinando tutta una serie di complimenti, oooh di sorpresa e richieste d’informazioni dettagliate su al­meno tre-quattro anni di vita precedenti.
- Renato… scusa… - disse poi Lucia al marito, strappandolo alla conversazione - non riesco a vedere dove può essere finita Emma… -
L’uomo si guardò intorno, sbirciando sotto la lunga tavola e dietro l’albero di Natale
(convinto fautore del detto “conoscere bene i propri polli”)
- Bah… conosci la capacità che ha di infilarsi in qualche buco inaccessibile… - rispose, non allarmato più di tanto - dal quale probabilmente ci sta osservando ridendo sotto i baffi… Emma! - chiamò a mezza voce.
- Avete perso la bambina? - s’informò Teresa, dando un’occhiata all’interno della cucina, che pe­rò appariva deserta - ci stava ronzando attorno un secondo fa, mentre entravamo… in ogni caso questa casa non è così grande da… -
- Ame, c’è tua sorella, su? - chiese Lucia in direzione di Amedeo che stava scendendo le scale, dopo un rapido e deludente sopralluogo
(letti e armadi e un paio di bagni, niente mostri nascosti negli angoli o precipizi su abissi in­fernali)
- No, no - si affrettò a rispondere nel timore di essere nuovamente processato per vestiario inadeguato abusivo, aggiungendo come  informazione supplementare - ho dovuto accendere io le luci, qui sopra, e sai che se c’è una cosa che non piace a Emma è proprio il buio… -
La temporanea assenza della bambina (ancora per alcuni istanti era prematuro azzardare l’in­­fausto termine di sparizione) rischiava comunque di far appassire il clima festoso della rim­­patriata. Occhiate nervose cominciavano a serpeggiare qua e là, ed espressioni serie pren­de­­vano il posto di sorrisi e schiocchi di baci.
- Beh, gente, ne abbiamo così tanti, di ragazzini, che uno più uno meno… - cercò di tagliar l’aria il solito Gianni, senza peraltro ottenere un grande successo nè di pubblico nè di critica.
Il gruppo si sparse per la casa, come una pattuglia di incursori in missione. Nessuno, fino a quel momento, aveva preso in considerazione l’ipotesi che la fuggiasca potesse trovarsi al di fuori delle mura domestiche. Chiamarono, frugarono, guardarono sopra e guardarono sotto, e an­che un po’ di sbiego, aprirono armadi e stipetti e qualsiasi altro luogo che avrebbe potuto ce­­lare una vivace quasi-seienne (e, tanto per starsene proprio tranquilli, anche pertugi in cui, per intrufolarvisi, Em­ma avrebbe dovuto essere un topolino), salirono e scesero scale, si diedero voce l’un l’altro. Fino a ritrovarsi sotto lo sguardo muto e severo dell’albero di Natale, che se sapeva qualcosa di sicuro non fece la spia (l’ecologica Lucia non aveva ancora a­vu­to mo­do di avvedersi che era una povera creatura vivente di linfa e radici, ma per ovvie ra­gio­ni in quel frangente aveva ben altro per la testa).
In quel preciso istante, proprio sul confine in cui la situazione sarebbe passata da diversivo quasi piacevole a leggera preoccupazione, per sfociare infine inevitabilmente nell’angoscia più nera, Efrem fece il suo ingresso carico di borse e valige dei presenti. Con un sapiente col­po d’occhio, inquadrò subito la situazione:
- La bambina… - esordì, facendo drizzare all’unisono almeno quattro paia di orecchie in an­sia (potendo tranquillamente escludere, per motivi diversi ma complementari, quelle di A­me­deo e di Gianni Ostiglia) - … io credo… l’ho vista lì fuori… in fondo al cortile… -
Una valanga umana si catapultò in direzione dell’esterno, travolgendo pacchi dono e malcapitate sedie.
- Fuori dove? - chiese Teresa all’uomo fermo sulla soglia, carico come un fattorino d’albergo. Il contadino lasciò cadere con delicatezza un borsone blu, indicando verso destra:
- Là in fondo… - spiegò con una strana reticenza nella voce - al confine col campo… dove c’è il ciliegio… -
Nel frattempo il gruppetto aveva guadagnato l’esterno della casa. Guardando nella direzione in­dicata, confusa con l’oscurità brumosa della sera, s’intravedeva una figuretta minuscola in­fagottata in un piumino rosa pallido, come una tenue pennellata su una tela nera. Renato par­­tì in quarta, raggiungendo in breve la piccola fuggiasca. Se ne stava seduta sotto il possente e spoglio ciliegio, come aveva indicato Efrem, accomodata sopra un grosso ceppo posizio­na­to a mò di sedile, quieta e beata come se fosse stata al calduccio della sua cameretta. Fis­sa­va un punto non ben definito davanti a lei, e non si avvide minimamente dell’irruente arrivo del padre:
- Emma! Per l’amor di Dio! - la investì l’uomo decisamente più sollevato - Cosa diavolo vo­gliamo fare?!? Vuoi diventare un ghiacciolo color rosa?!? -
- Che bello! - esclamò la bambina ridendo, incantata da un qualcosa che sembrava vedere so­­­lo lei, poi si rivolse all’inopportuna entrata in scena del genitore - oh, no… hai fatto scappar via le pucciole! -
Il padre l’abbrancò senza tanti complimenti, strappandola via a quel suo estemporaneo trono no­nostante le vibrate, pigolanti proteste:
- Ma che pucciole e pucciole! - esclamò sistemandosela su una spalla, come un minuscolo sac­co di patate di iuta rosa - intanto le lucciole non ci sono, il 22 di dicembre, e se ci fossero sa­rebbero tutte morte di freddo… la fine che facevi tu, se stavi fuori altri cinque minuti … ma cosa diavolo ti è saltato in mente? -
L’effimera evasa dai vezzosi codini trattenuti da due fermaglietti con la faccia di Cip (codina de­­stra) e Ciop (codina sinistra), ormai saldamente nelle grinfie del suo aguzzino, borbottò an­cora qualcosa riguardo alle pucciole che le avrebbero cantato una bella canzone, poi decise, con sag­gezza tutta infantile, di rassegnarsi al proprio imminente destino fatto di rimproveri e pre­di­che e bavosi baci consolatori.

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Capitolo 8
*** Tè di Natale/Cioccolata - Prima cena ***


15_

Come facilmente previsto dalla precoce fuggitiva, il ritorno in casa vide la messa in scena di un vero e proprio processo sommario, in cui non vennero per niente prese in considerazione le giustificazioni dell’imputata
(le pucciole mi hanno chiamato)
e molto poco qualche attenuante fornita da improvvisati quanti illustri avvocati
(in fondo non ha fatto niente di male, motivò la padrona di casa)
(di solito non fa mai di queste improvvisate, arringò a sua difesa persino la sua apprensiva ge­­nitrice)
Il pubblico ministero, nelle vesti del burbero dottor Anelli (anche se un sorrisetto faceva ca­polino in mezzo alla sua folta barba, come un raggio di sole tra nuvole temporalesche), decise in ogni caso di non calcare la mano, infliggendole solo una severa ramanzina e contribuendo co­­sì al ri­stabilirsi della giusta atmosfera natalizia.
Il pubblico si disperse per la sala, occupando divani e sedie, riprendendo a ciarlare allegramente del bel tempo che fu.
Teresa sbirciò l’ora sulla pendola: non ancora le sei del pomeriggio, quindi ancora in tempo per proporre il famoso tè di Natale come benvenuto, da lei caldamente desiderato, quasi co­me se potesse fungere da simbolica sigla a quei loro giorni assieme. Magari con l’accompa­gna­mento di un vassoio di biscottini - nonostante l’incombente minaccia “gastronomica” del­la cena di Ina - a coronamento della sudata faticaccia che si era sorbita per prepararli (con un moz­­zi­cone di lingua fuori come una scolaretta alle prese col dettato e sbaffi di farina su tut­to il vi­so) seguendo scrupolosa la ricetta passo per passo proposta dal numero di dicembre di Sale & Pepe. E se qualcuno faceva l’ironico, leggi Ostiglia Gianni, peste lo cogliesse, o al­me­no un bel “corri-corri”. Non causato dai miei biscotti, per carità...
- Metto su un buon tè, che ne dite? - propose rivolta alla platea chiaccherante, col fiato so­spe­so quasi temesse che tutti prendessero a mimare conati di vomito in risposta, come scolaretti irrispettosi - magari con due buoni
(speriamo)
biscotti di pastafrolla? -
- Mmmh il tè, bella idea, sì perché no? - fu l’entusiastica replica con suo sommo sollievo di gran parte degli astanti.
- Mmmh, biscotti, che meravigliosa parola! - esclamò Gianni, tirandosi su a sedere - era ora che si passasse alle cose serie… -
- Aspetta a parlare alla fine della cena di stasera - replicò Teresa soddisfatta dal successo del­la sua proposta - preparata dalle abili mani di Ina… anche se lei la considera “leggera”… -
L’altro si sfregolò le mani:
- Accetto la sfida… d’altra parte sono onnivoro - rispose - il che significa che mangio ONNI cosa mi si ponga davanti… -
- Già, già… ripeto, ne riparliamo stasera - concluse la donna volteggiando su sé stessa per di­ri­gersi in cucina - quando implorerai un barile di alcalosio… -
Sulla porta della cucina fu bloccata da una voce:
- Mmh… c’è solo il tè, zia Terry? - s’informò Amedeo, seduto su una cassapanca, la felpa sulle spalle (col disegno nascosto contro la schiena) come onorevole compromesso - no, è che al pomeriggio a scuola ci riempiono… -
Mentre sua madre lo fulminava con un’occhiata per quella sfrontata richiesta extra menù, Te­­­re­­sa va­lutò se era il caso di prendere le difese del caro (in tutti i sensi) Weichnachtentee mo­nacense
(Ma questo, tesoro, è molto diverso, come qualità)
convincendosi poi che le papille gustative di un adolescente, rispetto a quelle degli adulti, forse non sapevano, o non volevano, apprezzarne la differenza. Ancora troppe dosi massicce di ketchup o gomme da masticare ai gusti frizzo-mega-lemon-ice, pensò divertita.
- Beh, no... per i ragazzi possiamo inventarci una bella cioccolata - propose - che ne dite? -
- YES CHOCOLAT!!! - esultò il ragazzino levando i pugni al soffitto, pentendosi all’istante di quella (infantile) reazione, mentre lo sguardo di una placida e divertita Vanessa gli ricordava l’ondata di calore di una stufetta posta troppo vicina alle sue guance.
- Iess scioccolààà!!! - approvò la piccola Emma, diligentemente seduta (per alcuni secondi, al­meno) su una poltrona, con i piedi dondolanti a venti centimetri dal pavimento, senza per­altro porre eccessiva enfasi nella voce, in quanto si sentiva ancora troppo super sorvegliata speciale.
- Immagino sia un sì - decise allegra Teresa - e allora cioccolata sia... qualche altro goloso sen­za pudore che la preferisca a del buonissimo tè di Natale? -
Renato, chino in avanti a rimirare interessato alcuni deliziosi soprammobili, come uno scrupoloso ricercatore archeologico, alzò un dito:
- Anche per me cioccolata - disse guardando di sottecchi la padrona di casa - ma solo se c’è con panna... -
- Sì, pure la panna, adess... oh, sciocco essere! - replicò Teresa, fiondandosi definitivamente nella grande cucina, mentre l’allusione dell’uomo scatenava dietro di lei una tempesta di “an­ch’io la panna, anch’io la panna” da parte dei giovanissimi della combriccola .
La cioccolata con panna!, pensò con una sensazione equamente divisa tra piacere e vergogna mentre tirava fuori gli ingredienti necessari, come diavolo ho potuto dimenticarmene?
D’in­canto, come spesso succede a banali manifestazioni del vivere quotidiano, quella parola ri­­­ferita ad una bevanda nota fin dai tempi dei Maya la rapì, come una misteriosa macchina nel tempo, trascinandola all’indietro nei ricordi
(grazie a Dio sorvolando in un sol balzo quelli meno piacevoli)
sino al momento in cui, giovanissima e timida da far paura e clamorosamente in ritardo, si era catapultata lungo le scale del liceo scientifico Paolo Lioy, con la piena consapevolezza di mettere in scena di lì a qualche secondo la sua prima figura da culo delle superiori, dopo una vasta e poco invidiabile collezione alle medie, strisciando in aula a lezione ampiamente ini­zia­ta
(la sveglia... sa com’è... cioè... ha suonato, ma... si erano, non so come, spostate le lancette..., sa­rebbe stata la sua inevitabile, tentennante giustificazione)
sotto lo sguardo impietoso di decine di sconosciuti e divertiti compagni di classe, che l’avrebbero in breve bollata per il resto dell’anno scolastico come Tartaglia la ritardataria (se le diceva be­ne)
Dietro il primo angolo della prima rampa di scale, sfrecciando come Pietro Mennea in lizza per il record olimpico, si era scontrata con un giovane smilzo e occhialuto. Scontrata nel sen­so letterale del te­rmine, nel senso che il botto era stato come quelli delle comiche - se qualcosa ci fosse stato di divertente nel suo sederone che sbatteva per terra e il diario e le penne vol­teggianti nell’aria come frammenti di un’esplosione - e i due erano finiti a gambe all’aria. Così aveva conosciuto Renato, il primo delle persone che in quel momento stavano beatamente chiacchierando nella sala. Il quale, dal pavimento lavato di fresco del liceo
(ripercorrendo quell’episodio la donna riuscì addirittura ad “annusare” mentalmente l’inconfondibile profumo del detergente usato da Bepi, il burbero bidello - un mix di agrumi e so­stanze industriali che le sue cellule olfattive non avrebbero mai più incontrato - quasi come se avesse potuto premere il “tester” giusto nella sua testa, tra quello con l’etichetta “Pane e Nu­tella” e quello “asfalto bagnato di pioggia estiva” )
si era (nel­l’or­dine) A: tirato su, re­­cuperando gli occhiali miracolosamente intatti, B: prodigato nell’aiutarla a rimettersi in piedi, C: scusato e­saurientemente per almeno sei-sette volte, D: (il particolare più determinante, che le aveva fatto dimenticare all’istante il livido pulsante sulla natica de­stra, e vedere con oc­­chio benevolo il ciarliero giovane così bizzarramente conosciuto) af­frettato a metterla al cor­rente che la prof Zanon, incaricata di tenere la prima ora della classe 1a B, era bloccata ad una manciata di chilometri dall’Istituto con una gomma a terra.
Estremamente grata a Renato Anelli, piacere, e tu? di quell’informazione che rimandava al fu­­turo (sconosciuto, anche se in ogni caso inevitabile) la prima, inevitabile goffaggine di Te­re­sa An­ge­li, felice di conoscerti, aveva avuto di lì a poco la piacevole sorpresa di scoprire che e­ra­no i­scrit­ti entrambi alla 1a B
(una classe niente male, aveva spiegato Renato, io mi sono trovato così bene che ho deciso di trattenermi anche quest’anno)
Il premuroso giovane studente (e anche un pò paraculo, ma a quindici-sedici anni, nei confronti di una sconosciuta carina e pure simpatica, alzi la mano chi non lo è stato) aveva pro­po­sto, per sdebitarsi - e di che? Di essersi fatto travolgere lungo un corridoio? - di fare un sal­to giù al­le macchinette per offrirle qualcosa da bere. Detto fatto. Il suggello della loro fu­tura amicizia era stato uf­fi­cializzato da un cin cin di cioccolata tiepida in bicchieri di plastica
(tlùp tlùp, era stato il poco suggestivo rumore)
be­vanda alquanto poco indicata per il periodo (a quel tempo le scuole iniziavano alla fine di un settembre ancora con chiari connotati estivi), ma l’esauriente spiegazione del ve­­te­rano Renato aveva ristretto di molto la scelta
(il caffè sa da cartone bruciato, il tè va bene per le analisi urine - bleah, aveva esclamato una di­vertita Teresa - per quanto riguarda il cappuccino non si è a conoscenza di essere umano che l’abbia bevuto e sia sopravvissuto per raccontarlo... a parte quello di educazione civica, e stenterei a definirlo “umano”... quindi direi che la ciocco è una scelta quasi obbligata... ecco a lei, mia travolgente madama...)
- Terry, se hai bisogno di una mano fai un fischio! - aveva esclamato Cristina dalla sala, ma lei se la cavava benissimo, per far scaldare l’acqua e disporre i biscotti su un vassoio non serviva certo uno chef a cinque stelle, e poi era in compagnia di ricordi piacevoli e teneri.
Per cinque anni Renato e Teresa erano stati inseparabili. Sì, vostra grazia, per un periodo ci e­ra­vamo anche messi assieme, d’altra parte era quasi una logica conseguenza, non è che a sedici an­ni si disponga di un portfolio di scelta ampio e disponibile, e poi lui era così carino, e simpatico e saggio, quasi come se stesse facendo le prove generali dell’uomo che sarebbe diventato. Si e­ra­no scambiati furtivi baci nel freddo e nel buio di portoni, col cuore che strepitava nel petto, a­vevano percorso il tragitto casa-scuola e ritorno per innumerevoli volte, mano nella mano, avevano eseguito ro­venti perquisizioni personali reciproche nella complice penombra di un cinema di parrocchia, sepolti sotto strati di strategici cappotti, si erano promessi l’un l’altro alla fine di un’assolata gi­ta sulle sponde di un lago, a diciotto anni, mentre dal juke-box di un chiosco-bar nei pressi An­tonello Venditti ricordava, molto profeticamente, che “diciott’anni sono pochi, per pro­met­tersi un futuro”.
(ah, parole sante)
Naturalmente era finita. Così, perché le storie adolescenziali devono finire, e perché altrimenti sarebbe durata. Niente di speciale, o di particolarmente tragico. Incompatibilità di carattere, direbbero quelli che parlano bene (o Renato con indosso il suo bel camice bianco), o più precisamente mancanza di caratteri ben definiti, com’è naturale nel 99% della popolazione intorno a quella che viene definita “età critica”. Prima della maggiore età uno non ha le idee chiare neanche su che facoltà universitaria intraprendere, figuriamoci sul futuro partner (si spe­ra) per la vita. Così la loro vecchia amicizia, per nulla of­fesa dall’essere stata messa da parte per un pò, potè tornare a prendersi la meritata rivincita sul­le scalpitanti pulsioni giovanili. E in ogni caso, per i cinque divertenti an­ni della scuola, non mancarono al loro tradizionale rito del “Primo giorno di Scuola”, consistente in un brindisi di cioccolata in bicchieri di plastica
(Renato aveva anche proposto un remake al rallentatore del loro burrascoso scontro-incontro, ma a quel tempo era matto come un cavallo)
nella suggestiva atmosfera dello stanzino macchinette
(tlùp tlup, alla nostra!)
Quando il liceo scientifico Lioy aveva consegnato loro un attestato che intimava, oltre ad ap­provare senza riserve la valutazione di fine corso, di non metter più piede nei vetusti e gloriosi cor­ridoi dell’istituto, in quanto non più aventi diritto, i due si ripromisero quanto se­gue.
An­­­­che se molto probabilmente continueremo a frequentarci, dato che è finita la scuola del­l’ob­bligo, mi­ca la nostra datata amicizia, aveva sentenziato un Renato più maturo e con due baf­fetti al­la D’Alema
(e chissà, se glielo ricordo, se ha la faccia tosta di non vergognarsene)
posa qui la mano sopra la mia e prometti solennemente che, ogni ventisette di settembre, in qualunque posto saremo o in altra faccenda affaccendati, noi molleremo tutto per trovarci in un ba­retto che decideremo tra poco, per rinverdire l’irrinunciabile Tradizione della Cioc­colata. Di­ca lo giuro. Teresa naturalmente aveva giurato, prima che le loro strade si dividessero per condurre il ragazzo alla facoltà di Psicologia e lei a peregrinare alla ricerca di un im­piego che la soddisfasse, e per un bel pò di anni, nonostante si vedessero più o meno frequentemente, l’impegno era stato rigorosamente mantenuto. Verso la fi­­ne di settembre, quando ormai era ora di riporre bermuda e prendisole, ma an­cora con un velo am­brato di so­le sulla pelle, i due ragazzi mollavano per un’ora ogni attivi­tà u­ma­na, studi, im­pegni va­ri, mo­rosi, appuntamenti dal dentista e via dicendo, per riincon­trar­si sul­la porta di una minuscola pa­sticceria, quasi nascosta in una viuzza del centro storico. Fe­lici di quella rim­pa­triata che, co­­me ogni cosa semplice e bella della vita, infondeva nei loro cuo­ri un fle­bile ma confortante sen­so di eternità.
Dopodichè, come ogni cosa semplice e bella e non obbligatoria della vita, finì per soccombere contro le corrazzate travolgenti degli impegni irrimandabili, dei legami seri, delle scadenze improrogabili, del “mio Dio, sembra impossibile ma non ho più un attimo di tempo”. E la sim­patica signora della pasticceria, che li accoglieva puntuale con un sorriso complice, ad un cer­­to punto non vi­­de più arrivare (sempre che se ne sia accorta, ma al nostro animo nobile pia­ce pen­sa­re di sì) quel ra­­gazzo barbuto e serio e quella ragazza carina e riccioluta, a rifu­giar­si nel ta­vo­­linetto all’angolo chiaccherando e tenendosi le mani.
E fu così che la cioccolata (con panna, uno sfizio che la macchinetta ammaccata del liceo di cer­to non contemplava certo, ma la premiata Pasticceria Miola sì, e da qui l’allusione di Re­nato che ha catapultato Teresa nel mare dei ricordi) finì in quel capiente e perduto cassetto del­la me­moria, in compagnia del bacio della buonanotte della mamma, della compagna di banco delle elementari con cui si resterà amiche per sempre, del sapore del pane col burro e lo zucchero, insomma con mille altre cose della nostra vita. Cassetto di cui ad un certo punto gli stolti umani smar­riscono la chiave. Quando proprio non la buttano di proposito.
Che stronzoni galattici e privi di cuore, rimuginò Teresa fissando il bollore dell’acqua per il tè senza minimamente vederlo, ci siamo persi per strada la cioccolata con panna...
Una raffica di sonore risate, innescate da qualche gustoso aneddoto di Renato o Gianni, la ri­portò con i piedi (e i pensieri) sul pavimento a scacchi marroni e beige della sua grande cucina. Teresa, ancora con una confortante sensazione pulsante di tepore nel petto, come le fusa di un animaletto rannicchiato e sonnecchiante, finì di espletare le operazioni di preparazione. Poi, afferrando con salda attenzione l’ampio vassoio carico di tazze e tazzine, fece ritorno nel­la sala principale. Come un radar involontario, i suoi occhi si affrettarono a cercare lo sguardo di Renato, ma l’amico era intento a raccontare qualcosa a Vanessa, Amedeo e Em­ma, raccolti a semicerchio davanti a lui, come un piccolo pubblico attento. Racconto esilarante, si sarebbe detto, a giudicare dalle ghignate ululanti dei ragazzini, piegati in due dal divertimento. L’ex-studente travolto dietro l’angolo di un corridoio inondato di sole sembrava an­ch’esso un ragazzino, e Teresa dovette reprimere un insano (e del tutto ingiustificato) im­pul­so di passargli accanto per scompigliargli i capelli.
- Ecco qui la merenda! - annunciò chinandosi in avanti per posare il tutto sulla tavola, mentre le altre ragazze si prodigavano a renderle sgombra la zona di atterraggio - il limone è a parte, anche se pare che non ci vada... al limite una goccia di latte, ecco lì il bricchetto... -
La mano rapace di Gianni Ostiglia, come un rettile sbucato dalla manica del suo com­pleto di Daks, serpeggiò veloce attraverso gli schienali delle sedie, ad agguantare rapido al­cuni biscottini dall’aspetto appetitoso:
- Prima che la folla ne faccia scempio - esclamò goloso cacciandosene in bocca un paio - ‘spetta qua... mmh... Teresa, se davvero li hai fatti tu - la ragazza gli indirizzò una linguaccia im­­­pertinente - onore al merito! -
Gli invitati, raccolti attorno alla lunga tavola, presero a versarsi tazze fumanti di tè, passandosi l’un l’altro la zuccheriera e il bricco del latte. Senza dimenticare il vassoio di biscottini a forma di stella e albero di natale e mezzaluna che, una volta decollato per il suo lungo viaggio da un capo all’altro della tavolata, sembrò non fermarsi più (perlomeno fino ad esauri­men­to di carburante pastafrolloso). Emma bevve una lunga sorsata dalla tazzona tenuta a due mani, quasi senza neanche soffiarci dentro a livello preventivo, poi prese ad osservarsi in­­torno soddisfatta, con una parodia di baffoni alla messicana di cioccolata attorno al labbro su­periore.
- Niente male questa miscela di tè, niente male davvero - disse Lucia agitando sapiente la taz­za sotto le narici dilatate - avevi ragione Terry... riesco a percepire la cannella... mmh... chiodi di garofano... e poi qualcosa di agrumato... -
- Scorza di arancio - le confermò l’amica. In quell’istante, Gianni Ostiglia, con la bocca comi­ca­mente rigonfia di biscotti, si tirò su dalla sua poltrona, indicando con occhi spiritati un pun­to alle spalle della combriccola:
- Là... fuofi dalla fineftfa... - farfugliò vaporizzando tutt’intorno una fitta nuvola di briciole di pa­stafrolla - c’è qualcfuno... -
Tutti si voltarono nella direzione indicata. All’esterno, inquadrato dal telaio appannato di una finestra, si scorgeva una specie di inquietante occhio rotondo e lucido, come quello di un ro­bot di un film di fantascienza, sormontato da un puntino più piccolo, di un riverberante co­lor rosso.
- Nooo... non ditemi che quello scemo ha ancora la fissa delle telecamere! - esplose Gianni che, avendo deglutito di forza il bolo “biscottato”, era tornato ad avere una chiarezza di linguaggio più intelleggibile.
- Beh, è ovvio - gli rispose Teresa, affrettandosi ad andare ad accogliere i nuovi arrivati - per uno che di mestiere fa il cameramen a Milano, cosa pretendi? Che per hobby suoni l’arpa bir­mana? -
La porta si spalancò in uno sbuffo gelido, facendo apparire un trio di persone fermo sull’uscio: un uomo magro, pur se infagottato in un piumino color bronzo, che teneva lo sguardo fis­so sul minuscolo monitor di una telecamerina puntata sui presenti. Accanto a lui una ragazza carina vestita con un sacco di colori e di strani indumenti, e un vistoso pearcing sul soprac­ci­glio sinistro. Portava i capelli corti come un ragazzo, in un’improbabile sfumatura tra l’arancio e il rosso
(sono arrivati dal festival di Woodstock?, bisbigliò impertinente Gianni alle spalle del gruppo)
I due erano idealmente sospinti dalla figura allampanata del padre di Teresa, con le braccia al­largate dietro di loro in un gesto d’invito:
- Ho zorprezo qvueste due zpie nemike ke cercavano di rupare preziosi zegreti militari! - an­nun­ciò in tono scherzosamente marziale (e soprattutto con autentica pronuncia teteskza, e que­­sto strappò un sorriso a sua figlia in attesa accanto alla porta, che si chiese, augurandoselo, se il black out del pomeriggio su quella buffa usanza non fosse altro che un innocuo attimo di distrazione) prima che la piccola folla di amici li travolgesse in un’ulteriore ammuc­chia­ta di saluti e abbracci. La cosa buffa era che il “fedele cronista” Guido Mali tentava, con scar­­si risultati professionali, di documentare anche quei concitati attimi, sballottato tra una stretta e un serie di baci, sempre con la telecamerina sopra il braccio teso. La giovane che era ar­­­rivata con lui, nel frattempo, attendeva quieta in disparte che quella tempesta emozionale si acquietasse.
- Oh… scusami… - le disse poi Teresa, uscendo a fatica dalla mischia - ti abbiamo dimenticato per un attimo… benvenuta, mi chiamo Teresa… -
- Oh, piacere… Diamante… - rispose sorridendo l’altra, stringendole vigorosamente la mano - e non preoccupatevi, capisco che non vediate il vostro amico da un sacco di tempo… - fece una piroetta su sé stessa - bella casa… proprio bella… si sente che è viva, c’è calore, c’è una vi­brazione positiva… ecco -
Lo voglia il cielo, pensò la padrona di casa iniziando a presentare la nuova venuta agli altri della compagnia. Le ragazze la presero subito in gran simpatia, con la tipica solidarietà femminile, e anche Renato la salutò con un gran sorriso. Gianni bofonchiò una battutaccia co­m’era nel suo stile, beccandosi una gomitata della moglie tra le costole. Emma si staccò dal grup­petto di ragazzini entusiasti che cercavano di arrampicarsi sulle lunghe gambe ossute di non­no Cor­rado, venendo a presentarsi ufficialmente a Diamante:
- Ciao, io mi chiamo Emma Teletubbi Anelli - esordì compunta, tendendo una minuscola ma­no rosa - quasi-sei-anni… piacere… -
La ragazza rise, accovacciandosi sui talloni per portarsi a livello di quella personalità così im­portante:
- Ciao Emma, io sono Diamante Carlin… rispose afferrando la manina e scuotendola con so­len­nità - e di anni credo di averne almeno 27… -
- Sei una fata del bosco della Melevisione? - chiese ancora la bimbetta, che non si perdeva una puntata dei programmi più cult del dopopranzo, almeno per la popolazione pre-scolare, fis­sando gli sgargianti colori che la giovane donna esibiva tra testa e vestiario.
- Su, su, Emma, non far domande indiscrete - intervenne sua madre, carezzandole la testina bionda - e poi non continuare a dire che di secondo cognome fai Teletubbi… - si rivolse di­ver­­tita alla ragazza - in realtà sarebbe Emma Xausa Anelli, non so come gli sia saltata fuori la menata dei Teletubbies… o meglio, lo so, mannaggia alla televisione… -
Si tirò su osservandosi intorno, il gruppetto si stava rapidamente ambientando, riguadagnando posizioni attorno alla tavola e alle teiere (e al glorioso vassoio di biscotti ormai ridotti ai minimi termini)
- Guido… No, Guido, per favore… lo sai che non amo essere ripresa con quei cosi!!! - sentì pro­testare Cristina, mentre cercava di coprirsi con le mani sotto il mirino impietoso della te­le­camerina - riprendi gli altri, o te stesso, o il panorama campestre… ma non io, che vengo fuo­­ri da schifo! -
Il giovane scosse il capo sorridendo, sempre con lo sguardo concentrato sul monitorino:
- Niente da fare, dolce Crì - ribadì convinto - questa è una rimpatriata storica, e come tale va do­cumentata in ogni particolare… in ogni suo minimo particolare, per cui suggerisco alle fanciulle di chiudere bene la porta della doccia… e poi non preoccuparti, queste telecamere di­gitali dell’ultima generazione sono abbastanza fedeli a quello che riprendono… - fece bale­na­re un sorrisino perfido - al limite ingrassano solo un po’! -
- Ecco, appunto - ribattè la donna impegnata in un’assurda danza slalomante tra gli altri in­tenti a chiaccherare, per sfuggire all’impietoso
(e ingrassante? Dio ce ne scampi!)
occhio elettronico.
- Lasciamela stare, Guido, va là - intervenne Gianni distratto, piacevolmente impegnato a ca­var fuori da Diamante spiritose informazioni personali
(mmh, e ne hai altri, di questi pearcing, da qualche parte?)
che lei non sembrava in gran vena di fornire - che poi mi stressa con l'ennesimo trattamento e­ste­ti­co… -
- GIAAANNI!!! - protestò indignata sua moglie.
- …sì, Giaaaanni… - la imitò il marito a bassa voce, scimiottandone l’indignazione, mentre trat­teneva una mano di Diamante tra le sue “per ammirare questi bizzarri anelli su queste di­ta co­sì affusolate… orientali, forse?”
Teresa si accorse che la zuccheriera aveva bisogno di un “rabbocco”, e passò nella cucina si­lenziosa, al confronto del festoso girotondo della sala
(Guido, per favore, te la butto dalla finestra, quella telecamera!, ringhiò un’esasperata Cri­stina, cu­­riosamente con la stessa minaccia intentata nel primo pomeriggio dalla sua amica Lu­cia nei confronti del detestato giochino elettronico del figlio)
Al ritorno si bloccò sulla porta, ad abbracciare con lo sguardo la chiassosa compagnia che la sua sofferta decisione aveva radunato lì. Suo padre, seduto su una poltroncina accanto al ca­minetto, stava raccontando qualcosa ad Amedeo e Vanessa che lo ascoltavano rapiti, ai suoi lati come minuscoli angeli custodi. Il ragazzino, stranamente meno esagitato del solito (o di quanto lo debbano essere dei dodicenni adrenalici e pieni di vita, visto che è un pezzo che non lo vedo, ma dai resoconti esasperati di sua madre...) sembrava sbirciare in continuazione la fanciulla al di sopra del dito alzato e vorticante di "nonno" Corrado. Ai piedi dell’uomo, ac­ciambellata come un gattino, la piccola Emma teneva puntato al cielo un ditino piccolo co­me la coda di un gamberetto, tentando inutilmente di dire la sua ad ogni frase del narratore.
Più in là, attorno al­la tavola, le donne (compresa l’ultima arrivata) sembravano perfettamente a loro agio, im­pe­gnate in un chiacchiericcio sommesso, sicuramente a tema figliesco, o sullo shopping, e co­munque su uno degli innumerevoli argomenti “rompighiaccio” che le femmine riescono a met­tere sul tavolo, senza il minimo tentennamento imbarazzato, quando si ritrovano tra loro. A ca­potavola, seduti su due sedie, Guido e Renato parlavano fitto fitto, mentre il giovane ca­me­ramen (che ancora non aveva avuto l’occasione di togliersi il lucido piumino, e non sembrava affatto risentirne)
(che sia troppo freddo in casa?, s’interrogò un’apprensiva Teresa)
illustrava qualcosa del nuovo gioiellino tecnologico, inclinandolo verso un interessato Re­na­to. Sulla poltrona accanto a loro, che pareva essere stata eletta a suo preferito ed e­sclu­­si­vo domicilio, Gianni li ascoltava distratto
(più di una volta la sua mano era corsa alla tasca interna della giacca, facendo immaginare a Teresa, dalle occhiate nervose lanciate in giro, di essere dibattuto tra il desiderio di fumarsi una sigaretta e la scarsa voglia di scontrarsi contro agguerrite mamme - alcune delle quali ad­di­rittura fermamente ecologiche - dovendo di conseguenza abbandonare il comodo nido in cam­bio della po­co affascinante temperatura esterna)
Ce l’ho fatta, pensò Teresa indugiando con lo sguardo sui volti felici e sereni dei suoi amici, con­­tro tutto e contro tutti, che poi il tutto si riduce unicamente a me stessa, li ho portati qui con me. Spesso ho pensato che non sarebbe stato il caso, qualche volta che non era affatto una cosa GIUSTA, e altre che... - avvertì una sensazione amara celarsi minacciosa dietro quel pensiero ti­tubante, subito scacciata dalla risata profonda e contagiosa di Renato - ...che a­vreb­bero ti­ra­to fuori mille scuse... anche plausibili, per carità, viviamo vite diverse e separate da al­meno una man­ciata di anni... per potersi togliere da questo indesiderato impaccio... promesse già fat­te ad al­tri, che ne so, progetti di settimane bianche, di viaggi esotici, o solo poca voglia di passare il pe­­rio­do più bello dell’anno con la vedova solitaria e depressa
(sciocchezze, Terri, borbottò una voce nella sua testa, facendole saltare il cuore in gola, perché per un breve, assurdo attimo le era parso di sentir pronunciare Terrina)
e invece sono qui tutti... si sono stretti a me, a quella vecchia cosa chiamata amicizia che esisteva una volta, quando eravamo tutti più giovani e felici e soprattutto illusi, e che non è stata mi­ni­mamente calpestata dall’insensibile frenesia della vita...
Le lacrime le esplosero a tradimento, come una valanga interna (e trattenuta per troppo tem­po) che aveva finalmente trovato campo libero, travolgendo tutto e tutti, i buoni propositi, il pudore di singhiozzare di fronte agli altri, gli sguardi allarmati e preoccupati che avevano pre­so a inquadrarla impietosamente.
- S-scusate... io non... non era mia... - tentò di giustificarsi agitando le mani davanti a lei, ma il di­luvio universale la travolse, costringendola ad asciugarsi via le lacrime dagli occhi col dorso del­le mani, come inefficaci tergicristalli, mentre si frugava nelle tasche alla ricerca di un indispensabile fazzoletto. Le sue amiche si alzarono all’unisono, accorrendo intorno a lei come o­pe­rose e consolanti api operaie. Diamante voltò la testa color carota in direzione di Guido, che la rassicurò col gesto della mano, pur non riuscendo ad evitare di scambiare un’istintiva oc­chiata im­ba­razzata con Renato
(e questo la fece sentire ancora più imbecille...)
- Cos’ha la zia Terry... ha male ? - sussurrarono gli occhioni sgranati di Emma, aggrappandosi al bracciolo della poltrona di Corrado Fornaser, che le carezzò distratto la testolina.
- No, ragazzi... tutto bene... davvero... - ansimò ancora Teresa coccolata dalle carezze delle donne intorno a lei - ...adesso mi passa... è che avervi tutti qui... tutti assieme come... mi ha fatto... mi ha fatto... - e giù cateratte del cielo.
- Scusate, ma io le scene commoventi non sono mai riuscito a reggerle - farfugliò Gianni, balzando su dalla poltrona che aveva ormai assunto la forma del suo posteriore - ne approfitto per un salto in bagno... è di sopra, vero, Terry? -
- In fondo al corridoio... accenditi le luci... - si premurò di informare la padrona di casa, tra un singhiozzo e una tirata su col naso.
- E NON FUMARCI DENTRO! - soggiunse decisa sua moglie Cristina, puntandogli un dito contro a mò di “uomo avvisato...” - non è tuo personale... -
L’uomo indietreggiò verso la rampa di scale, battendosi con aria innocente sulle tasche di giac­ca e pantaloni:
- Non ho neanche idea di dove siano, le mie cicche - assicurò convinto - forse da qualche par­te nel cappotto, boh... - alzò una mano con indice e medio uniti, come uno scolaretto diligente - only pipì, lo giuro, vostro onore... -
Sparì su verso il piano superiore.

16_

E poi arrivò ora di cena.
Gli ospiti scesero in sala rinfrescati ed eleganti e famelici, sciamando allegri intorno alla grande tavola imbandita a festa, coperta da una lunga tovaglia rossa e impreziosita da un velo di lamè dorato e leggero come un’ala degli angeli, come aveva esclamato raggiante una pettinatissima Emma. Le donne si affrettarono a raggiungere Teresa e Ina sul ponte di co­­mando della cucina, territorio assolutamente off-limits per qualsiasi essere di sesso maschile (non dovettero certo essere costrette a cacciare qualche trasgressore a mattarellate, ad es­ser sin­ceri, a parte il solito Gianni che voleva ficcare il naso in quello che bolliva in pentola), men­­­tre gli uomini brindavano solennemente con un prosecchino fresco al punto giusto, ster­mi­nando voraci ogni crostino, grissino e boccone di pane a portata di... bocca. Pro­sec­co of­­ferto, insieme al resto della Carta dei Vini per quella sera e per i giorni seguenti, da Re­na­­to, ritenuto a ragione il riconosciuto esperto enologico della compagnia. Il giovane A­me­deo, so­spettosamente tranquillo, ciondolava immusonito in un angolo. Durante le operazioni di vestizione aveva insistito a tutti i co­­sti, quasi in­­comprensibilmente, a voler indossare un a­no­nimo gilè blu del padre, rinunciando ad una delle sue adorate fel­pe con l’effigie di qualche sanguinario supereroe (data la dif­fe­ren­za di ta­­glia era stato costretto a ficcarselo abbondantemente nei pantaloni, con un risultato e­stetico alquanto discutibile, come di uno che avesse d’improvviso perso una cinquantina di chi­li con una dieta drastica ed efficacissima). Lucia si era chiesta se per caso il figlio non si stesse bu­­­scando qualche indesiderata malattia (e, a dir la verità, non è che sbagliasse più di tanto), in­­­seguendolo per la stanza da letto nel tentativo di “sentirgli” la febbre sulla fronte con quell’infallibile strumento diagnostico che sono le labbra di una madre. Un’operazione che il giovane A­­medeo tro­­va­va umiliantissima, per le connotazioni infantilistiche che rivestiva. Lo stesso ra­gaz­­zino te­me­va seriamente di es­sersi beccato qualche tipo di sconosciuto e pericoloso virus, dal mo­mento che non riusciva nem­meno ad alzare lo sguardo su Vanessa (che per inciso era sfol­gorante nel suo vestitino di vel­luto verde) senza che vampate orrende di calore gli ar­ro­ven­tas­se­ro il viso.
“Ai vostri posti!”, ordinò perentoria dalla porta della cucina la padrona di casa, e mai imperativo ordine fu eseguito tanto di buon grado. Attesa e auspicata dai brontolìi sommessi di sva­riati stomaci, co­minciò la processione delle donne per servire in tavola fumanti piatti di ta­gliatelle in brodo, mentre Ina seguiva col pentolino dei fegatini per un’aggiunta dell’ultimo mi­nuto, co­­me una compunta sacerdotessa di qualche blasfemo rito gastronomico. Dopo una fe­stosa sel­­va di “buon ap­petito” i commensali si avventarono sui piatti, e il silenzio (religioso an­­ch’esso, benchè effimero) che ne seguì fu il giusto tributo alla maestrìa culinaria della mo­glie di Efrem, più di qual­siasi pioggia di applausi scroscianti.
Non appena fatto fuori i primi, soddisfatti e sudaticci, decisero di dare una calmata al loro ir­­ruente approccio alla tavola, per evitare che questo, unito al Pinot Nero Brut Oltrepò Pa­ve­se che Renato insisteva a mescere non appena scorgeva un bicchiere quasi vuoto, li facesse ro­­­­­tolare boccheggianti sul pavimento. Nel frattempo ridevano e chiacchieravano come se non fosse passato un solo giorno dall’ultima volta che si erano visti. Tirarono fuori alcuni a­ned­doti quasi inediti, o perlomeno più sbiaditi nella mente, e altri triti e ritriti, che comunque ven­nero riascoltati volentieri, per il puro piacere dello stare a sentire, aiutandosi l’un l’altro con sug­gerimenti e agganci, come in una bizzarra partitura musicale a più voci. Ricordi pia­cevoli e divertenti furono rovesciati sul tavolo, simili a manciate di pietre preziose, evitando con cura qualsiasi accenno al marito di Teresa, come dita premurose che accarezzino la pel­le de­licata della me­moria facendo bene attenzione a non sfiorare una ferita ancora bruciante.
A intervalli regolari Amedeo, facendosi scudo del viso barbuto del padre che gli sedeva a fian­co, si ritrovava a spiare col fiato sospeso il profilo di Vanessa, fissando incantato le leggerissime efelidi che le tempestavano il naso
(altro che il “muso da macchie” con cui lui e i suoi due degni compagni di banco etichettavano impietosi la Maria Berica del primo banco)
(oh, cari i miei intransigenti Spiller e Dalla Pozza, che diavolo ci posso fare se la Mari Beri ha delle specie di piaghe, sulla faccia, a differenza di quelle cose... così delicate... di questa tizia a due posti da me?)
E, altrettanto regolarmente, come avvertita da qualche misterioso e infallibile radar
(che ha, il senso di ragno come l’Uomo Ragno?)
la ragazzina lo beccava in flagrante, costringendolo ad un precipitoso e ben poco dignitoso tuf­fo con la testa nel piatto, a rimpinzarsi di patate al forno - deliziose, per carità - come un nau­­fra­go che non toccava cibo da mesi.
La serata, intanto, procedeva imperturbabile come una barchetta illuminata a festa sulle placide onde di un lago, di quelle con l’orchestrina a bordo che suona vecchi ballabili strappalacrime. Sulla tavola ormai ridotta ad un desolato campo di battaglia dopo scontri cruentissimi (punteggiato da macchie di Soave Classico come innocui schizzi di sangue) si intrecciavano ri­sate, e scherzose prese in giro, e qualche battutaccia stemperata dal tempo e dall’amicizia.
Ci fu qualche scaramuccia tra Renato e Gianni (a sfondo prettamente politico), e tra Gianni e Guido (a causa delle indelicate allusioni del pubblicitario riguardo le presunte scelte sessuali del mite amico), prontamente sedate dall’opera più o meno perentoria di questa o quella con­sorte. Corrado Fornaser, col colletto della camicia slacciato e le guance color vinaccia, sve­lò tra l’ilarità generale che aveva sempre considerato gli amici di sua figlia, negli anni della loro adolescenza, una combriccola di cappelloni scansafatiche, facendo fare loro mente lo­­cale su alcune situazioni che solo alla luce di quella bonaria rivelazione poterono essere comprese appieno. Più di una volta il suo racconto restò sospeso in aria, come impigliato da qualche parte, suscitando risate ancora più divertite nei suoi ascoltatori, che ritenevano quelle pause alla Celentano abili “trucchi narrativi” per ottenere più attenzione. Questo non di­ver­tì affatto Teresa, che dovette reprimere a più riprese l’impulso di sradicare Renato dal pro­prio comodo posto, per trascinarlo da qualche parte, magari anche nel gabinetto, con l’urgenza di un consulto immediato e irrimandabile. Al bagno fece ricorso invece un paio di vol­te un sempre più agitato Gianni
(chiedo scusa, ma tra brodo e ottimo carburante offerto dal sommelier Anelli…)
e, in entrambe le occasioni, si fiondò furtivo in camera, per prelevare dalla tasca interna del cappotto una preziosa bustina di plastica trasparente. Chiuso nel quieto rifugio della stanza da bagno, si preparò una robusta dose di analge-ge-sico, osservando concentrato nel grande specchio il pallore del suo volto madido di sudore. Mentre attendeva con gli occhi serrati che la coca gli desse il sospirato lampo di benessere
(oh, finalmente chiamiamo le cose col loro nome… Beh, se voglio sì, mica ho problemi, ma volete mettere quanto più musicale è analge-ge-ge-si-co?)
s’interrogò sul livello del proprio grado di sopportazione nei confronti della melensa riunione che si stava svolgendo sotto i suoi piedi, e la risposta che recuperò da dentro di sè lo sorprese non poco. Non era malaccio, in fondo in fondo, il cibo era ottimo e le cazzate sparate da Re­nato lo avevano fatto ululare di divertimento spesso e volentieri. I bambini non avevano rot­to i coglioni più di tanto, e meno ancora sua moglie. “E questo direi che è determinante, no?”, chiese all’enigmatica figura che lo scrutava un po’ lugubre dallo specchio. Forse lo in­quietava un po’ quella grossa specie di contadino taciturno rintanato in un angolo, con un bic­chiere sempre mezzo pieno in mano e quella ruvida camicia a scacchi, come se fosse appena uscito da una commedia dialettale. Però proprio di fronte a sé poteva godersi quella gio­va­ne fanciulla, come si chiamava… Brillante? No, non esattamente… ma sotto quello sformato maxi-maglione, che le scivolava in continuazione su una stimolante spalla nuda, sembrava proprio interessante… popputamente interessante…
(come diavolo ha fatto quel mezzo cetriolone di Guido, per non dire di peggio, a portarsela dietro? Possibile che dormano e, soprattutto, scopino assieme ?!?)
Mentre si sciacquava il viso con un’acqua così gelida che pareva provenire direttamente da un ghiacciaio, cercando di riprendere un aspetto non troppo speedato, sotto i suoi piedi (e il pa­­vimento a quadri bianchi e neri) la cena proseguiva imperterrita. Teresa portò in tavola un vas­­soio di fumanti tazzine di caffè, che vennero accolte come se contenessero nettare degli dei. Fu fatto a fette un pandoro, e tutti si affrettarono a giurare che non ne sarebbe potuta en­­trare una briciola nei loro stomaci provati, e fu spazzato via. Fu portata una quantità industriale di frutta secca, e in breve un tappeto di gusci di noci, arachidi e pistacchi prese a formarsi sulla to­vaglia. La solerte Ina sparse manciate di mandarini qua e là, che mani non ancora sa­zie presero a sbucciare, spandendo nell’aria un suggestivo profumo che toccava i cuori.
Per innumerevoli volte la testarda Emma cercò di guadagnare la porta di uscita, vestita in ma­niera decisamente leggera per la proibitiva temperatura esterna, prontamente riagguantata da un attento e tempestivo Renato. A nulla valsero le sue supplicanti ragioni
(devo uscire un attimo solo a vedere una cosa!)
contro l’inoppugnabile replica del padre (a dire di tutti, ma non certo per una risoluta bimbetta di quasi-sei-anni) che ne aveva così tante, di cose da vedere lì dentro, che per quella fuori poteva tranquillamente aspettare il giorno seguente.
Guido si preoccupò di immortalare su nastro elettronico ogni momento clou della serata, se­condo il suo elastico metro di misura, del tutto refrattario alle continue intimazioni di una sgu­sciante Cristina di non inquadrarla ASSOLUTAMENTE. Gianni Ostiglia non riuscì mai a spuntarla contro un agguerrito comitato salutista, che lo costrinse ad uscire nel cortile in ma­niche di camicia (per la scriteriata pigrizia di non fare un salto a prendere il cappotto) per gustarsi qualche meritata sigaretta. Confuso nell’oscurità incombente, faceva capolino da questa e quella finestra sbirciando all’interno, esibendosi in tutta una buffa serie di boccacce che fecero venire le convulsioni dal ridere alla piccola Emma. Ad un tratto Lucia, avvedendosi solo in quel momento che l’enorme albero di Natale che incombeva su di loro non era affatto made in Japan, puntò un dito indignato e accusatorio, preparandosi ad un accorato ap­pello in difesa della malcapitata creatura arborea. I suoi amici capirono tutto al volo, subissandola di ululati e fischi che smorzarono sul nascere il tentativo di filippica ecologista.
Verso le undici iniziarono le prime defezioni dei più provati. Corrado Fornaser, dopo un’ultimo saluto bagnato da un ulteriore brindisi, si avviò un po’ barcollante verso la casa al di là del cortile, tenendo a braccetto
(in un’esibizione assolutamente inedita, pensò una strabiliata Teresa, che forse occhi umani non avrebbero mai più avuto modo di rivedere, tutto merito alla cantina del dottor Anelli)
un’altrettanto malfermo Efrem, come due amici di vecchissima data. Di lì a poco, dopo che Lu­cia e Cristina ebbero imposto alla padrona di casa di accettare un aiuto nel liberare fuori un po’ la tavola, i ragazzini vennero più che abbondantemente infagottati
(“Frodo” Amedeo protestò a lungo, e inutilmente, per quella evidente sfiducia nella sua tempra di combattente in grado di sfidare gli abissi ghiacciati della Terra di Mezzo, altro che i venti metri di cortile)
e accompagnati, sotto la ferrea scorta di Ina e di Lucia, all’accogliente stanzetta preparata per loro nella fattoria prospiciente.
I duri della compagnia, infine, vale a dire Renato, Gianni, Guido, Diamante e Teresa, resistettero fino al proibitivo traguardo delle 24 e 20, seduti a semicerchio con i piedi sul bordo del caminetto ormai agonizzante, un bicchierino di grappa in mano, prima di trascinarsi sfiniti e felici su per le scale che portavano alle camere e che, testuali parole dell’esimio professor Anelli, “ballavano sotto i piedi peggio della tolda di una nave in una burrasca”.

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Capitolo 9
*** Il sonetto - Prima di dormire ***


17_

- O Gesù d’amore acceso, non ti avessi mai offeso, o mio caro buon Gesù, con la tua Santa Gra­zia, non ti voglio offender più… -
Emma, infagottata in un delizioso pigiamino giallino costellato di buffi orsetti danzanti, restò per un attimo immobile, inginocchiata sul tappetino ai piedi del letto matrimoniale, le minuscole mani giunte (il materasso preparato da Ina era così imponente da costringerla a tenere le braccine tese verso l’alto, come se si stesse accingendo ad un tuffo in piscina). Dall’altro la­to dello stesso letto, già sotto le coperte, Vanessa si stava sistemando con cura il cuscino dietro la schiena, prima di prendere il suo prezioso diario-agenda dal comodino. Ai piedi del mo­­numentale lettone, appartenuto probabilmente a qualche avo degli Iotti, addossata ad una pa­rete bianca una brandina molto più spartana era il giaciglio di Amedeo, che aveva accolto di buon grado quella sistemazione così provvisoria e militaresca. Il ragazzino, appoggiato su un gomito, stava sfogliando una copia di Famiglia Cristiana, sfilata di soppiatto dal portariviste nell’ingresso della casa che li ospitava. Se sua madre fosse stata presente, avrebbe pensato (per la seconda volta nel giro di poche ore) che il figlio si stesse comportando in maniera de­ci­samente bizzarra. Quella lettura era oltremodo anomala, per i gusti del ragazzino, che mai e poi mai avrebbe immaginato, neanche nel più agitato e surreale dei sogni, di ritrovarsi a scar­ta­bellare quella (noiosa) rivista al posto di uno dei fumetti cruentissimi e zeppi di me­garobot che si era premurato di selezionare prima di partire da casa. Ma, d’altro canto, non aveva pre­vi­sto nemmeno - e chissà se questo poteva passare come sogno o incubo o mi­rag­gio - di trascorrere la notte, anzi svariate notti, nella stessa stanza con una ragazzina capace di pro­vo­ca­re in lui sconvolgimenti inspiegabili e inquietanti. Di conseguenza, proprio per questo si era fat­to scru­polo, come avrebbe sentenziato suo padre, di non farsi vedere intento in quel tipo di let­ture, che lo avevano sempre appassionato da matti, ma delle quali non sapeva stabilire se fossero, o quanto, mature…
(e perché mai dovresti farti passare da maturo?!? Maturo significa pantaloni stirati con la ri­ga… e capelli pettinati con la riga… mio Dio, un’intera vita prigionieri di qualche RIGA!)
optando per quella barbosa Famiglia Cristiana che però, proprio in quanto tale, doveva essere senza dubbio una lettura da adulti. In realtà la rivista patinata, da mezz’ora spalancata su un’inchiesta riguardante la crisi delle vocazioni, gli serviva da efficace paravento per un piccolo segreto che custodiva nel pugno serrato della mano, che peraltro non si era ancora az­zardato a sbirciare in quanto aveva la precisa sensazione di essere sotto tiro. Vanessa, infatti, per lunghi tratti im­pegnata nell’affidare qualcosa di misterioso alle pagine della sua agenda, o­gni tanto alzava gli occhi su di lui, fissandolo per alcuni attimi
(così interminabili da far mancare l'aria, se Amedeo avesse dovuto trovarne a tutti i co­sti una definizione)
con un lieve sorrisetto sulle labbra che poteva voler dire qualsiasi cosa.
- Mmh... bene - aveva esclamato Emma, lisciando con cura il bordo ripiegato delle lenzuola, dando il suo personale assenso a quella sistemazione che era assolutamente di suo gradimento. Su­bito dopo, però, aveva scrollato la testa con un’espressione corrucciata, come di chi si è scordato una cosa importante, ri-gattonando fuori in direzione del comodino, su cui era posizionato un piccolo astuccetto imbottito, di un tenue azzurro pastello. La manina vi sparì al­l’in­terno, frugandovi per alcuni secondi, per estrarre poi un oggettino colorato che assomi­glia­va mol­to ad una testina di uccellino con due spinotti applicati sull’ipotetica nuca. E difatti quel­la era, senza trucco e senza inganno, la sua preziosissima lucetta di sicurezza a forma di Tit­ti, senza la quale, probabilmente, la cocciuta bimbetta avrebbe fatto il diavolo a quattro, rendendo i­nu­tile ogni altro tipo di palliativo, dalla luce del corridoio ad una lampada “schermata” con qual­che tessuto, sino ad una suggestiva ipotesi di candela che avrebbe certo incontrato i favori di una romantica Va­nessa. A prescindere da tutte le eventuali e prevedibili obiezioni (sa­cro­sante) sollevate da un apposito comitato mammesco sulle principali regole di sicurezza. In ogni caso, l’ago della bi­lancia era e restava un carismatico personaggio in pigiama orsettato e co­dine bionde, che avrebbe impietosamente deliberato, parafrasando il vecchio George Clooney, no Titti no nan­ne
(e onore al merito, quindi, anche a quella impagabile dote di ogni genitrice di prevedere e ri­cordarsi di portare con sé ogni più minuscolo tassello di quel complicato universo chiamato fi­gli)
Ignara di tutto questo, come una piccola imperatrice che non deve affatto curarsi dell’operato oscuro dei propri dignitari, Emma infilò con estremissima attenzione, frutto della battente pro­­paganda antiscossa a casa e all’asilo, la spina-Titti nella presa accanto al comodino. E voi­là, madames et monsieurs, la luce (piccola, tenuissima quanto si vuole, ma presente) fu.
- Ecco fatto - mormorò tra sé e sé la bambina, a coronamento di quell’indispensabile “missione compiuta”, riadagiandosi sotto le coltri. Tirò a sé con tenerezza il fido Giggio, stringendolo tra le braccia:
- Oh, ho la pancia superpiena di pandoro! - esclamò a unico beneficio del suo interlocutore di pe­luche, che non era stato per niente “invitato” alla cena (in realtà il termine più esatto era “di­­menticato” da un’agitatissima Emma che voleva a tutti i costi fiondarsi ad aiutare Teresa e Ina negli ultimi preparativi e, una volta traghettata oltre il cortile sino alla casa, non era più riu­­scita ad ottenere un lasciapassare, anche solo temporaneo, per tornare a recuperare il compagno peloso) e di conseguenza la sua padroncina riteneva che gli spettasse quantomeno un re­­soconto sui fatti più salienti - io sentivo che non ce ne stava più, però non riuscivo a smettere… - si annusò le dita che conservavano ancora, nonostante la lavata di mani pre-nanna a cui era stata più o me­no co­stretta, un lieve “profumo-fantasma” di burro e zucchero a velo - a di­­re il vero ne avevo tenuto un pezzetto anche per te, ma me lo sono mangiato nel cortile tor­nando qui… -
Accostò la punta delle ditine al bottone plasticoso che il pupazzo aveva al posto del naso, a parzialissimo (e del tutto insufficiente) risarcimento di quanto non ottenuto.
Vanessa non riuscì a non ridacchiare benevola, assistendo a quella scenetta, e le dedicò un’affettuosa carezza sulla testa.
- Se fai fatica ad addormentarti te lo posso prestare un po’ - la informò premurosa la bimbetta. allungando verso di lei il peluche di Giggio - non fa proprio le fusa come un… anzi, le fa, un po’ speciali che non le senti, ma le fa… basta che te lo tieni vicino vicino, infilato sotto sotto una siella e… -
- Si dice “ascella”, Emma… - la corresse distratto suo fratello, temporaneamente rapito dalle due pagine piene di accadimenti sconcertanti e inspiegabili
(qui dice che a Bogotà a uno è piovuto in testa addirittura un blocco di… popò ghiacciata!)
nella secolare rubrica de “I fatti del giorno”.
- Mmh, forse nei grandi… - obiettò polemica Emma - la signorina dell’asilo dice sempre vieni qua con la siella che ti misuro la febbre col fermometro… comunque, se per caso nel sonno dovesse venire dalla tua parte a disturbarti, tu basta che… -
- E poi lascia in pace Vanessa che sta scrivendo… - s’intromise ancora Amedeo, sperando di a­­­vere il giusto tono di voce, non troppo servile ma capace di far apprezzare alla ragazzina la pre­sa di posizione in sua difesa.
La giovine pulzella alzò gli occhi sorridenti sul ragazzino steso su un fianco, il gomito ripiegato a sostenere la testa, e il petto premuto contro un lembo del cuscino, col cuore che si agitava co­me un animaletto intrappolato:
- Oh, non mi disturba affatto - rispose lieve - non sto scrivendo nulla di così importante… ma in ogni caso... grazie, Amedeo… -
Il ragazzino si ammutolì, mentre valutava preoccupato lo strano “stlang” che aveva fatto il suo pomo d’Adamo andando su e giù a vuoto nell’udire quelle gentili parole indirizzate proprio a lui
(in ogni caso... grazie Amedeo… e suonava come una melodia modulata da uno strumento ma­­­gico)
(non sto scrivendo nulla di così importante)
Il ragazzino si rendeva perfettamente conto, con un’ansiosa punta di vergogna, che non era af­­­fatto bagaglio da prode cavaliere la curiosità che lui stava provando, ma avrebbe dato qualsiasi cosa (nei limiti del ragionevole, perché sì bon, ma no cojon, come diceva ogni tanto suo pa­­dre, anche se non è che la madre ne fosse particolarmente entusiasta, specie in zona orecchie minori) per dare un’occhiata fugace nelle pagine della misteriosa agenda che Vanessa te­ne­va aperta sulle ginocchia. Solo una sbirciatina, così, per vedere di cosa parlano le ragazzine quando so­no sole con sé stesse…
In realtà, il suo pur vigoroso e giovane cuore sarebbe stato messo a dura prova, se davvero fos­se stato a conoscenza delle frasi che la giovane aveva tracciato con scrittura ordinata e un po’ obliqua in corrispondenza della pagina del 22 dicembre. Se solo avesse potuto dare una sbirciatina, come si stava audacemente augurando, il suo sano muscolo cardiaco sa­rebbe sta­to shakerato e bombardato e scosso da eventi tellurici di inaudita intensità, e molto pro­ba­bil­mente, alla fine di quel simpatico trattamento, strizzato e gettato via come un limone rin­sec­chi­­to. Tanto per gradire.
E, come se avesse in qualche modo potuto intuire quei pensieri così tormentati, la ragazzina tornò indietro con lo sguardo a quello che aveva scritto fino a quel punto.
Cena da zia Terry del 22 dicembre, era la solenne intestazione al resoconto, io, papà, mamma, Re­nato e Lucia e Emma e Amedeo (questo nome, sempre a beneficio e a insaputa dell’ignaro di­rimpettaio di letto, era contornato da un leggero tratto di penna - niente cuoricini, per ca­ri­tà, o me­lense cornici fiorite, solo un riquadro di biro blu, come per conservarlo e valorizzarlo), Guido con amica - nome Diamante - nonno Corrado e Ina e Efrem - mangiato TANTO e BE­NE!!! Fat­to GRA­NDI risate con racconti di zio Renato e nonno Corrado
A questo punto la scrittura si era interrotta, una sorta di momento di riflessione testimoniato dallo scarabocchio di una specie di fiore, poi stella, infine girandola vergata a forza con la bi­ro, come se la giovane cronista avesse indugiato lì per riannodare i concetti.
Papà sempre troppo nervoso, e troppe battute cattive contro Guido, forse pensa che siamo troppo ragazzini per capirle. La mamma qualche volta ha quasi litigato con lui, perché ho idea che ha ten­tato di fare un po’ lo scemo con la nuova amica di zio Guido - ancora una volta una riga decisa attraversa la superficie della pagina, quasi a voler dividere i fatti, quelli banali, e anche un po’ negativi, dalle cose importanti - Amedeo è più carino di come me lo ricordavo, ma anche MOLTO più timido! Continua a guar­­darmi in continuazione, e crede che io non me ne accorga, ma invece sì. E quando lo guardo io diventa rosso come un peperone e abbassa la testa e incomincia a balbettare. Però è sim­pa­tico, e spero nei prossimi giorni di poter chiacchierare un pochino assieme.
Finito di rileggere, vi aggiunse in calce uno svolazzante Vanessa Ostiglia, in cui la gambetta della a fi­nale si trasformava in un ghirigoro che abbracciava tutta la firma, poi alzò gli occhi sulla bran­dina a pochi metri da lei. Amedeo, sempre con la Famiglia Cristiana a­perta, probabilmente nello stesso identico punto di sempre, ricambiava timido il suo sguardo da dietro il bor­do patinato della rivista.
Lei continuò a fissarlo con ostentazione
(malvagi maneggi di femmine malvagie)
lui s’incaponì deciso a tenerle testa
(eh no, capperolina, stavolta non li abbasso per primo io…)
poi, inutile dirlo, li abbassò anche troppo, dopo meno di due secondi, mancando così di notare il sor­risetto di lei, lieve e per niente canzonatorio.
- Ma voi due, dopo, vi findansate e vi sponsate? - s’impicciò la vocina assonnata di Emma, che sembrava dormire da almeno dieci minuti, mugugnando da sotto un mucchietto di coperte.
- Non dire scemenzaggini, Emma - la rimproverò tutto d’un fiato suo fratello che aveva av­ver­tito, al formulare di quella domandaccia uscita da bocca innocente, i propri capelli rizzarsi co­­me dotati di vita propria - e adesso credo sia il caso di spegnere, che ormai è tardissimo… -
- Mi sa che tuo fratello ha ragione - convenne Vanessa, riponendo l’agenda sul comodino, e al­­lungando una mano verso l’antiquata peretta della luce che pendeva dal muro al centro del let­­to - Buonanotte a tutti… -
- Nottissiu - augurò la bimba deformando quella parola già abbastanza anomala in un pro­fon­do sbadiglio.
- Nottissiu, Emma - sussurrò Amedeo, dibattuto tra la vergogna di quella parlata indecorosa (per uno maturo) e la polemica che sarebbe sorta d’incanto con la cocciuta sorellina, improvvisamente sveglia e combattiva, in caso di risposta inadeguata. Restò in silenzio per un lungo, tormentato secondo poi, con la bocca del tutto arida, soffiò fuori un - buonanotte, Vanessa -
Un secondo prima che il buio prendesse possesso della stanza, lui aprì la mano, facendo in tempo a leggere la frase stampata su un bigliettino un po’ spiegazzato che custodiva tra le dita:
Conservo con cura
L’arsura che ho di te
Dolce creatura
Fece scivolare la rivista sul pavimento, con un fruscìo nell’oscurità che ricordava il battito d’a­­­­­li di un uccello, rimanendo immobile a riflettere su quelle affascinanti righe
(Conservo con cura)
Era una cosa che veniva da Vanessa
(L’arsura che ho di te)
anche se del tutto indirettamente
(Dolce creatura)
e proprio questa casualità alimentava in lui un magico senso di predestinazione. Era successo du­rante il tè di Natale (o cioccolata di Na­tale, a seconda) nel tardo pomeriggio. Ad un certo pun­to la ragazzina si era alzata, a­ve­va chiesto pos­so, mamma?, e sua madre aveva risposto oh bè, sì, credo di sì, anche se immagino che non è che ne abbiamo proprio bisogno. Così lei a­ve­va frugato nelle borsette di carta par­cheggiate sotto l’albero di Natale, recuperando una va­­riopinta scatola di cioccolatini. L’a­ve­va a­perta, i­niziando a fare la spola presso tutti i presenti seduti intorno alla grande tavola. Gra­zie dell’ospitalità, a no­me di tutti, aveva detto do­nando una pralina a Teresa. Ben arrivato, zio Re­­na­to, e poi ec­cone uno anche a te, nonno Cor­rado, e via così di seguito. Era scivolata dietro la schie­na di A­medeo, sfiorandogli lievemente una spalla con le dita, benvenuto an­­che a te, A­me­deo, gli a­veva sussurato chinandosi, tanto che lui potè avvertirne il delizioso pro­fu­mo del bal­samo dei suoi capelli. Abbassò lo sguardo: un cioccolatino avvolto in car­ta rosso-dorata era ap­parso nella sua mano aperta. Sulle prime il ragazzino aveva pensato di conservare quel­l’o­maggio in un ipotetico museo dei futuri (e au­spicati) re­gali ricevuti da Vanessa, poi lei lo a­ve­va guardato, oh, non ti piace la cioccolata, A­medeo?, a­veva chiesto, costringendolo così a stracciar via la stagnola della confezione e cacciarsi in bocca quel dolcetto in una frazione di se­con­do, per non deluderla. Un fogliettino di carta strana, più leggera del normale e... come di­re... un pò traslucida, era rimasto imprigionato tra le sue dita. Lo aveva scorso con gli occhi, leggendovi quella fra­se che lo aveva affascinato subito. A dire il vero, non aveva ben presente il significato preciso del termine arsura (si era augurato speranzoso che non fosse una cosa troppo negativa, magari un qualche tipo di ma­lattia), così aveva tampinato il padre per elemosinare una spiegazione. Arsura? E’ co­me di­re sete, aveva sbottato Renato, sbocconcellando uno degli ul­timi biscottini di Teresa.
Ma, al­lora, perché non dire sete?, era stata la sua logica obiezione. Suo padre ci aveva pensato su un secondo, lisciandosi la folta barba con la mano in un gesto conosciuto che suscitava in Amedeo una rassicurante sensazione di familiarità. Sono due cose diverse..., spiegò, per ca­pirci, quando torni a casa dopo una furiosa partita a calcio, e ti attacchi al rubinetto... beh, quella è sete... se invece attraversi strisciando tutto il deserto del Sahara... avrai certo una gran bella ar­sura... Lui fece di sì con la testa, chiedendosi un pò confuso come mai, per la seconda volta, era saltato fuori un riferimento a Vanessa che trovava un corrispettivo anche in campo mangereccio
(appena l’ho vista mi è sembrata morbida, neanche fosse una pastina di riso... e adesso ‘sta faccenda del bere... bah!)
E poi diciamo che arsura è più arcaico, come termine, aveva proseguito suo padre.
Arcanico?!?
Sì, ar cane..., Renato aveva riso di gusto, arcaico, che vuol dire usato nel passato, non più tanto frequente...
Amedeo si era grattato la sommità della testa, mentre una riflessione iniziava a formarsi dentro di lui. Potrebbe essere anche più... poetico?, aveva chiesto con un attimo di titubanza nella voce. L’uomo ci aveva pensato su ancora un secondo, approfittandone per far segno con la taz­za a Teresa che non avrebbe disdegnato un altro goccio di tè.
Sì, penso che si possa definire anche così, aveva concluso poi, riprendendo a chiacchierare col resto della compagnia.
Per Amedeo era stato sufficiente. La cosa pareva intrigante (come per altro aveva già intuito prima di quella lunga disquisizione col padre) e quella frasetta
(poetica, frasetta assolutamente poetica, e sarei pronto a difenderla a spada tratta anche contro le frecciate scandalizzate di Spiller e Dalla Pozza...)
gli dava una strana e piacevole sensazione di tepore, mentre la sussurrava a bassa voce con la fac­cia contro il cuscino. Tepore che si trasformava all’istante in un incendio bruciante se solo pro­vava a prendere in considerazione l’ipotesi di... portarla a conoscenza della ragazzina.
Dall’ampio lettone, Emma borbottò qualcosa nel sonno, che aveva come argomento le pucciole che danzavano in tondo. Amedeo tirò su la testa, voltandosi in direzione di Vanessa. Dal suo basso punto di osservazione poteva scorgerne la sagoma (morbida) del corpo sotto le co­per­te, e uno spicchio di capelli castani posati sul cuscino che la soffusa luce irradiata dalla te­stina di Titti rendeva simili a fili d’oro
(fai sogni meravigliosi, o dolce creatura)
Tornò a stendersi, mentre un’amara sensazione di malinconia s’impadroniva di lui. Sapeva benissimo da cosa dipendeva. Non sarebbe mai riuscito, neanche raccogliendo il coraggio a piene mani, a mettere a parte la ragazza di quelle parole così delicate e appassionate. Il cuore prese a galoppare nel suo petto. E chi ci riesce? Provò... così, tanto per farsi due risate... ad im­maginare la scena di sè stesso che le si avvicinava, e poi... la voce di certo non gli sarebbe u­­­scita... le parole gli si sarebbero impigliate nel respiro, ridicolizzandolo definitivamente
(il prode Frodo non avrebbe certo problemi...)
Sì, probabile, ma lui era lui. E poi c’era un’altra cosa che stava germogliando dentro il ragazzino, una consapevolezza assolutamente devastante, che mai e poi mai avrebbe creduto possibile. Oh, beh, certo, stava dicendo Amedeo ad un desolato sè stesso, Frodo forse ci riuscirebbe... ma nel film... in una storia inventata e non reale... perché Frodo non esiste
(quei pensieri così pratici e così maturi gli causavano una sofferenza quasi fisica, come graffi brucianti nell’anima)
è solo un attore... so anche come si chiama, Eliah Wood... a cui dicono cosa fare, mettendolo in condizione che gli riesca ogni cosa, ogni memorabile impresa... ma è fantasia, non è la vi­ta... La vita, e la cruda realtà, era l’impietosa immagine di un goffo dodicenne che andava in tilt di fronte ad un paio di occhi verdi, non riuscendo a proferire niente di meglio di un patetico C-c-onserva (sì di po­modoro) con c-cruna... ehm... cura... l’ar... l’ars... l’ar cane...
Una lacrima vergognosa e del tutto inattesa scivolò giù per la china incandescente della sua guancia, allargandosi per poi morire sulla stoffa ruvida del cuscino. Era assolutamente choccato dalla piega che aveva preso quell’innocente divagazione, del modo in cui la consapevolezza era entrata nei suoi pensieri semplici di adolescente. Svariate consapevolezze, a quanto pareva. Che esistevano altri mondi al di là dei livelli del Game-Boy e delle pagine dei fumetti, ad esempio. O che i suoi amati idoli del grande schermo altro non erano che persone pagate per impersonarli
(questo era un concetto che lo sconvolgeva, non riuscendo quasi ad accettarlo... come se la pic­cola Emma, per fare un paragone calzante, saltasse fuori dicendo: per me niente pacchi-do­no sotto l’albero, domani sera, tanto lo so che Babbo Natale è solo un vecchiaccio obeso con troppa barba...)
e soprattutto che non tutto nella vita era così semplice da dire. Non bastava la volontà, anche se si era più che convinti, nè tantomeno aprire la bocca per darle aria. Sì, forse per sparare le stupidate che erano il pane suo e dei suoi compagni di scuola fino a qualche giorno prima... Ma per recitare tre semplici frasi ad un’innocua ragazzina, pareva occorrere un coraggio pari a quello necessario per sterminare draghi e demoni.
E io di questo coraggio non ne possiedo neanche un granello, rimuginò depresso. Poi, per evitare che quella cosa gli potesse guastare i giorni a venire
(oh, ma da domani ritorniamo a sconfiggere mostri sul videogame e a immergerci nelle cruente pagine dei supereroi...)
accartocciò il malcapitato fogliettino, infilandoselo poi in bocca e masticandolo fino a ridurlo ad una pallina così piccola e cedevole da poterla inghiottire. Insieme ad un sapore salato che lo accompagnò, compagno fedele ed indesiderato, fin nei territori di sogno in cui tutte le cose riescono perfettamente, anche ad un goffo dodicenne.

18_

Teresa sbirciò l’ora sulla radiosveglia sul comodino, mentre allungava una mano per afferrare il libro (povera illusa) che stava leggendo. L’una meno cinque. Neanche troppo tardi, per gli orari consueti, ma al termine di quella soddisfacente cena, in tutti i sensi, e con tutto quel buon ci­bo a pesare sullo stomaco...
Perché, i tre tipi diversi di vini stappati da Renato, pensi che non contribuiscano a questo tuo stato di... estasi?

Non riuscirai mai a leggere neanche una riga... beh, voglio provarci, oggi è stata una giornata deliziosa e perfetta e indimenticabile, senza quasi nemmeno una nube nera all’orizzonte, e mi piace l’idea di tirarla per le lunghe ancora un pò... Tenne il libro chiuso, perpendicolare al suo pet­to, fissando la copertina: un’elegante dama anni ‘40, in abito da sera com­pletamente bianco, stava fumando una sigaretta inserita in un lungo bocchino. Sul ta­vo­lo davanti a lei, una serie di carte da gioco disposte a mò di solitario. Una delle carte, un as­so di picche, era trapassato da un’affilata spada. “Carte in tavola”, di Agatha Christie, si leggeva a lettere scarlatte appena un pò più sopra.
Aprì le pagine in corrispondenza di un buffo segnalibro a forma di giraffa
(no, niente “orecchie” piegate qui, non se ne parla...)
accingendosi a immergersi nella lettura. Tutt’intorno a lei, al suo letto comodo e ampio
(Troppo ampio... è storia vecchia, ormai)
delimitato dalla bolla calda e rassicurante dell’abat-jour, la casa si stiracchiava pigra, tendendo le lunghe assi in legno di pavimenti e soffitti con deboli cigolìi conosciuti, come legnose fu­sa di gatti, mentre voci lontane e confuse, forse quelle dei suoi amici nelle loro stanzette
(saranno a loro agio?)
o forse, chissà, solo immaginate nella sua testa piacevolmente anestetizzata dal Pinot e dal Soa­ve, le giungevano come in sordina.
«Quando il gruppo degli invitati tornò in salotto,era già stato preparato un tavolino per il bridge. Venne servito il caffè», lessero i suoi occhi a mezz’asta
(ecco, non abbiamo neanche giocato a bridge, stasera..., pensò la sua mente ovattata)
Buio.
Riaprì gli occhi. Come spesso succede, non avrebbe saputo dire nemmeno sotto tortura se a­ve­va dormito (oh, certo, sì) e, nel caso, quanto. Se due secondi o una robusta mezz’ora.
Voltò la testa in direzione della radiosveglia. 1 e 07, dicevano silenziose le grosse cifre verdi.
Poca robba, ma credo sia giunto il momento di prendere una decisione assennata. Allungò una mano a riporre il libro sul comodino, bonne nuit, madame Christie, e spense la luce. Restò im­mobile, in silenzio, gli occhi semiaperti sul buio fitto della sua camera. All'orecchio le giunsero dei passi felpati e guardinghi, come di qualcuno che non voglia disturbare, che si arrestarono all’altezza della sua camera. Il rumore della porta della stanza di fronte che si apriva e richiudeva. Guido, o forse Diamante...
Che strana ragazza, pensò, carina, molto carina... anche se un pò bizzarra, con tutti quei suoi di­scorsi campati in aria, a metà tra l’esoterico e la new age. Beh, d’altra parte ha proprio l’aria di una mezza intrippata con le meditazioni e lo zen... Però in fondo in fondo una persona po­sitiva, direi... Solo che assieme a Guido... assieme come, poi? Non sono affaracci tuoi. Oh, beh, lo so benissimo, ma sono i miei cari amici, ed è così intrigante spettegolarci su tra me e me... Però con Guido... Tu come la vedi? La vedo. E poi l’importante è che la vedano loro. So­­­lo che... Solo che cosa? No, così... eddai, spara... Mmh, non era il tipo che immaginavo per uno come lui... No? Beh, no... e non chiedermi che tipo ci vedrei... Perché no? Dai, che tipo ve­dresti? Uff, non ho idea, avevo in mente una ragazza diversa
(o un ragazzo?, latrò la voce sfrontata di Gianni Ostiglia... Gianni, va a dormire, queste sono i miei spetteguless personali...)
meno... chiassosa... visivamente, parlo... e di sicuro più concreta
(se in una coppia c’è una piuma leggera, ci dev’essere un sasso che la tenga per terra)
Buio.
(sdlen)
Si svegliò di soprassalto, sbarrando gli occhi per cercare di perforare il buio attorno a lei, im­pe­netrabile co­me inchiostro.
Cos’era stato? E, soprattutto, ho sentito qualcosa?
Forse sì, o più facilmente solo un tintinnìo da qualche parte nella mia testa, nel mio dormiveglia, che so, magari una campanella mentale che mi avverte dell’imminente inizio di un bel so­gno in te­chni­­color, come si usa a teatro per richiamare gli spettatori in pausa al buffet...
E poi non ricordo già più che rumore era. Nè tantomeno a cosa assomigliava...
Anche se il cuore nel suo petto... batteva in modo perlomeno strano. Non accelerato, anzi, ma... quasi solenne... battiti pe­santi e quieti, come colpi di tamburi lontani.
Io l’ho sentito, quel rumore... Beh, niente di anormale... se tendi l’orecchio e presti attenzione, ne puoi sentire di rumori... le molle del letto sotto il peso di qualcuno dei tuoi ospiti, il chiacchericcio dell’acqua nei tubi del bagno, il secco scoppiettìo dell’ultima brace che muore nel caminetto, giù in sala... prova, più ti concentri nella notte che avanza, più ti pare che il tuo udito si affini, si in­gigantisca, come quello di uno dei supereroi tanto amati da Amedeo... senti? Riesci a sentire l’agitarsi delle galline nel sonno dietro la fattoria di Efrem ? E questo, il ronzìo sfuggente di un’auto sul­la strada?
Mmh... sarà, ma a me sembrava che venisse da molto più...
Buio.
Il petto della donna si alza e si abbassa nel ritmo placido del respiro.
(SDLEN)
La mano di Teresa saettò a schiacciare l’interruttore della lampada. La luce impietosa esplose nella stanza, ferendole gli occhi assonnati. Si tirò su a sedere, col cuore in tumulto nel petto, occhieggiando la camera deserta e immobile, i suoi vestiti ripiegati con cura sulla spalliera della sedia, lo schermo spento e lucido del computer sulla scrivania accanto alla finestra.
Io l’ho sentito, non l’ho immaginato...
Incollò uno sguardo febbrile sul sonaglino appeso allo stipite della porta del bagno
(nascondete le femmine, che è in arrivo Trapanator!!!)
(Stai scherzando, spero... ssh, taci un attimo, fammi pensare!)
L’oggettino sonoro pendeva muto e soprattutto perfettamente immobile
(assomigliava a...)
Non è possibile, lo sai... per smuovere quelle conchiglie occorre un tifone, l’hai detto tu (lo so) e in questa stanza non c’è un alito di corrente.
Già.
E poi è fisicamente impossibile che... mettiamo pure l’ipotesi del tutto assurda... possa lanciare un tintinnìo e resti poi assolutamente immobile nell’attimo successivo. Giusto? Giusto?
Sì, direi di sì...
Convinta?
Che sciocchezza, certo... l’ho visto coi miei occhi, non si muoveva di un millimetro, indi per cui...
Indi per cui?
Ha tintinnato la mia testa. L’ultimo brindisi col Pinot di Renato da qualche parte in fondo a questa mia testaccia...
Molto bene... buonanotte, allora...
Mmh... sì, notte.
Buio.

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Capitolo 10
*** Risvegli - Telecomandi - Sacrifici ***


CAP. 2 - 23 dicembre


Mattino presto, poco prima delle otto.
Una nebbiolina leggera, irreale, quasi anomala in questa parte dell’anno, grava nel cortile tra le due case affacciate l’una di fronte all’altra, sfumando e ammorbidendo ogni oggetto, ogni particolare, sino a rendere le sagome delle auto addormentate simili a evanescenti spettri di sè stesse. Al di sopra della nebbia, come una cap­pa du­ra e lattiginosa, incombe un cielo ingrugnito, neanche avesse subìto il più irre­pa­rabile dei tor­ti. I campi brulli e scuri tutt’intorno stringono d’assedio le costruzioni erette dal­l’uomo e, vi­sti dall’alto in un ipotetico planare d’uccello, danno l’idea di una sconfinata co­perta in stile patch­work, adagiata sugli ondulamenti del terreno, dai toni bruciati e arsi.
Uno sparuto stormo di minuscoli passeri, spaventati da qualche rumore che la nebbia ci ha im­­pedito di udire, sfreccia via tra i filari, fulminei graffi nel grigiore del cielo, lanciando un u­ni­co, acutissimo strido che si smorza subito.
Un gatto grigio e ben pasciuto ha approfittato di una porta lasciata in sbacio (Ina Iotti ha già fat­to la spola come ogni mattina a riempire di becchime le ciotole nel pollaio) e scivola furtivo nel­­l’aia senza far rumore. Si guarda intorno guardingo, quella strana cosa biancastra che av­­volge ogni angolo dell’aia ha il detestabile potere di deformare suoni e odori, e lui non è troppo entusiasta all’idea che il ringhiante ca­ne dei vicini possa piombargli alle spalle senza preavviso. E’ an­cora in­ton­tito dal sonnecchiare ac­canto alle braci del camino, e per sgranchirsi solleva a tur­no le zam­pine tremanti, in una cu­rio­sa pa­ro­dia di un animale meccanico. I co­nigli che lo osservano pas­sare, ammassati nelle stie co­me an­tichi deportati in va­goni piombati, tengono d’occhio i suoi movimenti fremendo impercettibilmente, i na­sini rosa vi­branti a suggere ogni più minima idea di pe­ricolo. Il felino prosegue la sua passeggiata scattosa fino al centro del cortile, dove si accomoda sulle zampe posteriori, prendendo a far toeletta con la lingua rasposa lungo il pe­lo umido di fo­­schia. Un movimento al li­mite e­stremo del suo campo visivo lo blocca all’istante, le orecchie tese co­me triangoli aguzzi: sulla porta della cu­­cina appare Efrem, intento ad accendersi la prima si­garetta della giornata, mischiando così lo sbuffo di fumo con la ca­ligine che avvolge ogni cosa. Il gatto lo riconosce e, considerando passato l’ipotetico pe­ricolo, ri­prende placido la sua scrupolosa opera di pu­lizia mattutina. Il contadino s’inoltra nel porticato accanto alla ca­sa, un vecchio fienile da tempo inutilizzato, e il suo ingresso nella fredda penombra della co­struzione fa volar via, come ogni mattina, un pa­io di lugubri piccioni che sonnecchiavano sulle sporgenze interne, in un’esplosione di ali scu­re e vecchia polvere.
L’uo­mo ne segue il vo­lo scombinato con lo sguardo, per posarlo poi con occhio critico sulla lun­ga trave portante che at­traversa tutta la lunghezza del fienile, simile ad una navata, colle­gan­do due lontani soppalchi utilizzati co­me depositi di fieno. La trave è ancora ro­bu­sta e sa­na, vecchi e du­ra­turi lavori di campagna, fatti a regola d’arte, ciò che lo preoccupa maggiormente so­no le due striminzite e squinternate scale a pioli che si trovano ai due estremi. Quel­le sì che ad occhio sembrano messe bene, ma lui sa, perché già una volta uno scalino traditore e fradicio gli è ceduto sotto il piede, che sarebbe il caso di tirarle via del tutto, so­prattutto in questi giorni in cui bimbetti vivaci e in­controllabili scorrazzeranno per tutto il cor­­tile
(se il buon Efrem possedesse l’ambito dono di vedere nel futuro, anche solo per una sbirciata in quello più prossimo, si prodigherebbe per tener fede seduta stante a quel suo meritorio im­pegno, impedendo così ad un ragazzetto, alla costante ri­cerca di prove valorose e cavalleresche, di mettere in atto un’idea alquanto poco assennata)
ma ora sua moglie lo chiama dalla finestra della cucina e lui, con la segreta speranza di una buo­na tazza di caffè appena tolto dal fuoco, volta le spalle al polveroso locale, alla trave solida ed af­fidabile e a quelle scale infide e traditrici, sospinto fuori insieme a qualche pagliuzza dorata che svolazza tutt’intorno, strappata al suo letargo immoto dal frullìo delle ali dei co­lombi che riconquistano le loro posizioni. Un attimo prima di uscire, lascia cadere a terra il mozzicone di sigaretta poi, con e­strema cura (è in disuso ma resta pur sempre un fienile) la schiaccia di­li­gente sotto la punta della gros­sa scarpa da lavoro.
Nell’attraversare la distanza che lo separa dalla sagoma illuminata della porta di casa, alza la te­sta ad annusare l’odore pesante della nebbia, che gli ricorda un pò vecchie cose fradicie e am­muffite. L’aria è fredda, per quell’ora del mattino, ma nient’affatto gelida, e difatti lui non rimpiange il suo vecchio berretto di lana lasciato sull’attaccapanni in entrata. Teresa ci teneva tanto che potesse venir giù qualche fiocco di neve, ricorda pensoso, su questo suo Natale co­sì de­­siderato, e chissà come volteggerebbe felice la piccola Emma, a seguirne il volo turbinante nell’aria... Ma il suo vecchio, esperto na­so di contadino non può sbagliare. Niente candidi fiocchi, da quelle parti, e scusate la de­lusione... Posa gli occhi di malavoglia ai piedi del grosso ciliegio scheletrico che sor­ge al limite del campo, quasi a volerne evitare un contatto visivo di­retto, e mugugna tra sè. La se­ra prima, quando aveva scorto la bimba che correva a rifugiarvisi sotto, avrebbe dovuto muo­versi lui per pri­mo a re­cu­perarla, e non fare il finto tonto con le valige in mano, come se fos­se ap­pena ar­­rivato giù dal­la montagna con la piena... Tira su col naso, mentre l’invitante pro­fumo del caf­fè lo sorprenda alle spalle, solleticandogli le narici come il canto delle sirene... Si av­­vi­ci­na malvolentieri, là in fondo, anche se non serba particolari e­spe­rienze negative, in merito, e in ogni caso è un omone grande e grosso coi capelli bianchi, che dovrebbero essere sintomo di saggezza, mica una donnetta superstiziosa...
La bambina è corsa a sedersi sul sedile della nonna vecchia, aveva detto a sua moglie intenta ai fornelli, soffiando fuori quella frase come un boccone velenoso che non gli andasse nè su nè giù. La donna lo aveva guardato con un’espressione seria, quasi dolente, a­prendo la boc­ca per dire qualcosa. Poi ci aveva ripensato, non pronunciando alcuna parola.
Il rumore stridente di un balcone che si socchiudeva strappa l’uomo a quelle sue elucubrazioni. Leva lo sguardo sulla casa di fronte, osservando Teresa chiudere di gran carriera i vetri della finestra della propria camera. La donna gli dedica un gran sorriso, e un buffo sfregolìo con le mani lungo gli a­­vambracci, a comunicare inequivocabilmente “brrr, che freddo stamattina!
Il contadino alza una grande mano callosa in risposta al saluto, quindi mima con le dita il con­­­torno delle finestre al piano terra... le lucine intorno... rotea l’indice in senso circolare, len­to... più tardi... infine unisce le mani giunte, come in preghiera, accostandole ad una guancia ru­bizza... quando si saranno svegliati tutti... Teresa ride silenziosamente dietro il vetro, facendo ok col pollice, e inviandogli un leggero bacio con la punta delle dita, che agisce da segnale per far­lo decidere a rientrare nel confortevole te­pore di casa.
Al centro del cortile il gatto agita fulmineo la testa in un paio di direzioni, in uno di quei tipici gesti gatteschi che ricordano, a noi poveri osservatori, la magica capacità di questi enigmatici animali di poter vedere cose (di certo meravigliose) del tutto precluse ai nostri occhi umani.

19_

Teresa osservò la figura massiccia di Efrem infilare la porta di casa, mentre si stiracchiava con uno spasmo finale di piacere. Si sentiva bene, riposata, e in pace col mondo (ed è tutto di­re) e nemmeno l’inattesa vista del cortile invaso da una nebbiolina desolante era riuscita ad ab­­­bassare di un grado il livello del suo buonumore.
Quando si era svegliata, una manciata di minuti prima, era rimasta piacevolmente sorpresa dalla consapevolezza di aver fatto un sonno dritto e filato fino al mattino, senza lugubri incubi conosciuti nè tantomeno agitate sveglie notturne in preda al panico e ad una folle tachicardia. Me­­rito degli stravizi eno-gastronomici di ieri sera,convenne rimanendo immobile a godersi il te­pore del corpo sotto il pesante piumone. Beh, ovvio, ma non era tutto. Se così fos­se stato, ne avrebbe fatto tesoro già da tempo, per combattere le sue spezzettate e convulse not­ti... una ce­na ipercalorica, annaffiata da un bottiglione de ch’el bon, e la cantina del buon E­frem avrebbe potuto fornirle qualche efficace esemplare, e via che la vada...
E invece no. La faccenda era decisamente e totalmente diversa. E la cosa straordinaria stava nel fatto che era così sottile, quel mutamento, così impercettibile, che erano dovuti passare alcuni lunghi minuti prima che lei se ne rendesse conto. La casa... intorno a lei, sotto di lei... era diversa... Era VIVA.
Non era (non più)
(non per il momento)
quel guscio vuoto e freddo e silenzioso che l’aveva accolta al risveglio per lunghi, infiniti giorni, da più di un anno a quella parte. Al punto da contagiarla come una malattia virulenta, rendendole il cuore talmente gelido dentro che nessun riscaldamento al massimo o camino fiammeggiante erano sufficienti per scalfirne il doloroso nucleo di ghiaccio. Non era più così, adesso, e bastava stare in ascolto, aprire il cuore e la mente per assaporare il flebile ma costante calore pulsante irradiato dalla presenza delle altre persone intorno a lei. Non era questione di suoni, di rumori, anzi, nel dormiveglia del primo mattino nessun indizio in questo senso giungeva alle sue orecchie. Era una consapevolezza più profonda, più reale, straordinariamente presente.
In questa casa c’è ancora qualcuno che è in grado di amarmi, che può darmi affetto, e speranza e voglia di vivere.
Non resteranno in eterno. Quel pensiero le saettò nella mente freddo e tagliente come una la­ma imbevuta di veleno, tanto che il suo volto sereno si accartocciò in una smorfia contorta.
Prima o poi se ne andranno
Non è il momento di pensarci, ma di godere di tutto questo
Tornerà tutto come prima
No
Anzi, PEGGIO di prima
NO!
Incapace di starsene sdraiata e immobile un secondo di più, a farsi trafiggere da quelle ipotesi (quelle certezze) così impietose e crudeli, era balzata su dal letto come un giocattolo a molla, affrettandosi ad aprire i balconi e incontrando così lo sguardo di Efrem fermo giù nel cortile.
Decise che era il momento di prepararsi, e di correre giù in cucina ad imbastire una colazione coi fiocchi per i suoi amici dormiglioni. Passò accanto al pc sulla scrivania, accendendolo per un riflesso condizionato di tutti i giorni, anche se era improbabile che gli editori le inviassero qualche elaborato da impaginare in prossimità delle Feste. Non esserne poi così certa, sono e­di­tori, mica esseri u­ma­ni, ridacchiò recuperando un cambio di biancheria dal cassettone. Fece per entrare nella mi­nuscola stanza da bagno, quando sentì gli occhi paralizzarsi, nel fissare sgranati il sonaglino di conchiglie e legnetti
(sdlen?)
appeso sopra la porta.
Aveva sognato qualcosa in proposito?
Aveva forse sentito qualcosa in proposito?
Transitò sotto al manufatto, col fiato sospeso, ruotando lo sguardo per tenerlo sotto controllo, nell’assurdo timore che l’oggetto si animasse, lanciandosi contro il suo viso in un’orrenda parodia di un mostriciattolo da film di fantascienza. Il sonaglino non si mosse di un millimetro
(per smuovere quelle conchiglie occorre un tifone... l’ho detta io, una cosa del genere?)
pesante e immoto e muto.
Dopo alcuni imbambolati secondi Teresa si scosse, lavandosi via con vigore dal viso gli appiccicosi residui del sonno notturno.
Era già ormai del tutto vestita quando, dal piano inferiore, un infernale fracasso esplose ad un volume spaventoso, facendola trasalire di sorpresa e spavento...
- Che diavolo sta succedendo?!? - si chiese allarmata e choccata nello stesso tempo. Pareva che al piano di sotto avessero organizzato una festa, uno show, un qualche tipo di spettacolo iniziato alla grande proprio in quel momento. E se lo stava udendo così distintamente lei, fi­gu­rarsi i suoi ospiti beatamente sonnecchianti sotto le coperte...
- Ma porca vacca... - imprecò tra i denti ondeggiando per infilarsi una scarpa che si era cocciutamente adagiata su un lato. Non riusciva a raccappezzarsi su quale fosse la causa di quel fra­stuono (an­che se una mezza idea, una volta scartate rapidamente le scarse alternative, le si stava for­man­­do nella mente. Ma chi poteva essere così indelicato da...), la cosa certa era che doveva ridurlo all’impotenza ALL’ISTANTE.
- Anche se ormai... - si disse desolata - bella ospitalità che sono in grado di offrire... -
Aprì la porta della camera, infilando il corridoio deserto ma nient’affatto silenzioso. Il fra­stuo­no, se possibile, era ancora più distinto, in una cacofonia di suoni assordanti, formati da una mu­­sichetta allegra e scoppiettante a fare da robusta colonna sonora ad una voce roca e sguaiata che magnificava con enfasi le eccezionali qualità di questa batteria da cucina, completa di TUTTI gli accessori, che vi manderemo se coglierete l’occasione di avere a casa vo­stra... per soli QUATTROCENTOVENTI euro, e un piccolo contributo per le spese postali... que­sta cop­pia di materassi in pura lana M-E-R-I-N-O-S !!!
- Straporca vacca! - imprecò Teresa, che aveva capito tutto già da alcuni attimi, infilando le scale in discesa a rotta di collo - ma chi è questo incosciente che... -
Attraversò come un fulmine la sala, ciabattando comicamente a causa della solita scarpa che le si era sfilata dal tallone sull’ultimo gradino, irrompendo nella stanzina tv e preparandosi a da­re una bella lavata di capo, nei limiti concessi dalla sua qualifica di ospitante ma non di ge­ni­trice specifica, a uno dei bambini ipnotizzati dallo schermo televisivo
(Ma perché guardano quell’idiota di Roberto da Crema e non Candy Candy o i Pokemon o qual­che altra schifezza creata apposta per loro?!?)
Il volume proveniente dal televisore era assordante. Seduto sulla poltrona di fronte ad esso, suo pa­dre fissava il telecomando che teneva nella mano con l’espressione stranita di uno che cerchi di raccapezzarsi e­sa­minando un’incomprensibile apparecchiatura aliena.
- Papà?!? - sbottò lei allibita, mentre il fastidioso rantolo dell’imbonitore sullo schermo riempiva l’aria come il ruggito di una creatura fantastica - papà, mio Dio... vuoi abbassare quell’affare?!? -
L’uomo la guardò con occhi indifesi e dilatati - occhi che fecero venire i brividi all’allibita donna - ten­dendo verso di lei il telecomando stretto nella mano. Teresa lo afferrò, anzi glielo strappò via, affrettandosi a pigiare il tasto di esclusione audio. Il silenzio che invase la stanza, dopo quel bailamme infernale, sembrava quasi assordante.
- Papà, ma... ti è dato di volta il cervello? - lo aggredì lei, con le mani sui fianchi. Suo padre si strofinò confuso la testa con la mano aperta:
- Scusa... - farfugliò imbarazzato - ‘sti diavoli di affari... - indicò il telecomando che pendeva i­nerte sul fianco della figlia - ...sono pieni di bottoni... non ci si capisce niente... -
Teresa lanciò un’occhiata distratta al venditore baffuto che si agitava sullo schermo, ormai ri­dotto all’impotenza. Era ancora scossa dall’episodio, col cuore tambureggiante che faticava ad acquietarsi nel petto. Ma soprattutto era furente per il casino che senz’altro aveva fatto schizzare fuori dai letti i suoi amici. Osservò il telecomando, cercando di capire cos’è che non le tornava nella vergognosa giustificazione dell’uomo. Poi le balzò in mente:
- Papà... papà, cavoli - esplose agitando nella sua direzione l’apparecchietto come una maestra severa - questo coso... è uguale e identico a quello che hai a casa tu... da almeno trecento se­­coli! -
E in quel momento, dal senso delle parole che aveva appena pronunciato, ma soprattutto dallo sguardo perso e disperato scorto nel volto invecchiato di suo padre, si rese conto, mentre un gelo paralizzante le invadeva tutto il corpo, che il problema, a quel punto, non era solo l’aver costretto i suoi graditi ospiti ad una sveglia decisamente brusca...

20_

- Che stracazzo sta succedendo?!? - Gianni Ostiglia, già sveglio da alcuni minuti, ma ancora so­speso in un beato dormiveglia (che quell’improvviso frastuono infernale aveva spazzato via), sbucò con la testa arruffata dal confortevole piumone, cercando di stabilirne motivo e pro­venienza.
- Mmh... cosa c’è, tesoro? - borbottò la moglie rannicchiata al suo fianco, affiorando da un son­no leggero. L’uomo si voltò di lato, dandole la schiena, per sbirciare l’orologio po­sato sul comodino:
- Le otto e venti! - si lamentò incredulo, mentre il casino dal piano di sotto cessava di colpo, come se non fosse mai esistito - o è un nuovo modo di dare la sveglia a degli ospiti, o ‘sta settimana comincia proprio col pie­de sbagliato... -
- Dai, amore - cercò di rabbonirlo Cristina, sistemandosi meglio il cuscino sotto la testa - probabilmente sono stati i bambini... speriamo non nostra figlia... ma sai come son fatti... -
Lui si rimise comodo, tentando di recuperare la piacevole sensazione di galleggiamento in cui era immerso al momento del brusco risveglio, ma ormai era andata... Lasciando il posto, per di più, ad un sommesso mal di testa, risultato dell’azione congiunta ed efficace di alcuni elementi determinanti. La rassegna vinicola sciorinata da Renato, in primo luogo, alla cui degu­sta­­zione lui non si era tirato indietro. Beh, ad esser sinceri, non si era risparmiato nemmeno nel farsi riempire il piatto di ripetuti assaggi di patate al forno (oh, erano proprio del tipo una ti­­ra l’altra!) e di fette di pandoro. E, soprattutto, dalle capatine su in bagno per una bella a­spi­rata di analgesico
(beh, ragassi, sono in ferie, no? Sacrosante e meritate, e allora?)
In ogni caso, a voler essere proprio democratici - e chi lo era più di lui? - quel piccolo incidente acustico di qualche minuto prima era del tutto ininfluente, rispetto alla piacevolezza di tutto il resto. Considerando che il periodo che mi attende non sarà dei più tranquilli, riflettè osservando la grigia luce esterna filtrare dalle generose fessure dei balconi accostati, è risaputo che i cambiamenti, anche se positivi e voluti, sono causa di stress, direi quindi che sarà il ca­so di go­dersi al meglio gli ozi e il riposo di questi giorni... Difatti, per quel che lo riguardava, il programma per la giornata in corso avrebbe previsto ben poco movimento, con passaggi dal letto al divano giù in sala quasi senza soluzione di continuità, a parte frequenti capatine con le gambe sotto la tavola per qualche goloso manicaretto... Si massaggiò con indolenza il ventre abbondante e molliccio, chiedendosi distratto se alle ragazzine brasiliane piaceva l’uomo maturo e un pò in carne... A quelle piace l’uomo con quattro lire in tasca, avrebbe precisato il caro compagno di stanze di motel Tazio Fabiani, e per quello, come si dice, “nun ce stava probblema!”. E poi, che ne sappiamo, forse il clima caldo e secco, un’alimentazione un pò più semplice - meno pandori e più pesce alla griglia! - qualche partita a calcetto sulla sabbia di Ipanema e, soprattutto, un bel pò di fic-fic con quei culetti perfetti... potevano compiere il miracolo.
L’ipotesi di fic-ficcare con qualche giovinetta dalla pelle ambrata, come quelle che si era an­dato a vedere in una delle sue capatine su Internet dai computer dell’ufficio, gli stava su­sci­tan­do un certo sommovimento sotto coperta. Statti buono lì, tu, non è ancora giunto il tuo mo­mento... Sua moglie si girò verso di lui, passandogli un braccio sottile sul petto:
- Dormi? - chiese senza aprire gli occhi.
- Sì, dormo... dopo quell’esplosione da sotto - rispose. La donna socchiuse un occhio, stiracchiandosi:
- Ciao... - lo salutò.
- Ciao -
- Dormito bene? - si premurò di chiedergli.
- Sì... direi di sì... a parte quel casino da... -
- Sì, sì, a parte il casino di poco fa... abbiamo capito... - ridacchiò Cristina infilandogli una mano sotto la casacca del pigiama - basta che non di­venti l’argomento principale per le prossime otto ore... -
Lui esibì una smorfia di irritazione, piccato.
- Chissà come avrà dormito Vane... - disse ancora sua moglie, soffocando un mezzo sbadiglio.
- Già... bene, spero - ribattè lui, con un’intonazione che stava a significare sola, in quella casa di primitivi...
- Bella, questa casa, vero? - continuò lei, accarezzandogli lo stomaco con dita lievi.
- Già - borbottò l’uomo in risposta - non capisco come possa Teresa, che non ha particolari e­si­genze (che è sola come un cane) non prenderci dentro, sfruttando ‘sto posto in maniera vantaggiosa... -
Il rumore soffocato della porta del bagno nel corridoio s’insinuò nei loro discorsi.
- Si dà il caso che è la sua, di casa - obiettò la donna, agitando piano i piedi in fondo al letto - sen­za contare che ci ha abitato con Carlo, e che era la casa dove è vissuta sua madre... perché dia­volo dovrebbe dar via tutto? -
(per i soldi, precisò lui dentro di sè, per i picci, i contanti, for the money... per dare un calcio a tutte ‘ste stronzate e comprarsi un baracchino in capo al mondo... c’è qualcosa di meglio nella vi­ta, forse?)
Cristina gli si accostò, posandogli la testa sulla spalla, in un gesto che a lui fece balenare nella mente un flash di quando erano fidanzati, e ingenui e entusiasti e contenti di quel poco che a­ve­vano. Scacciò via quel ricordo dalla mente come una mosca fastidiosa.
- Sarà così anche la nostra? - sussurrò lei. Gianni si irrigidì, serrando forte le palpebre, mentre le dita dei piedi si contraevano come artigli. Era da mettere in conto, no? Ne era conscio. Prima o poi... Su, un bel fiato e passarci sopra. Calpestare gli ostacoli che impediscono la realizzazione del­l’o­biet­tivo finale, non aveva detto così Tazio Fabiani, seduto sul lettino della stanza d’albergo, ri­fe­rendosi alle strategie di marketing ma anche e soprattutto, lui ne era straconvinto, alla vita in ge­nerale?
- Uh... dieci volte meglio - soffiò fuori in tono incolore. Lei strofinò la guancia morbida sulla spalla di lui:
- E poi venderai fuori tutto? - lo provocò sorridendo.
- Bah, se l’offerta dovesse essere proprio vantaggiosa... - ribattè l’uomo. Cristina gli diede scherzosamente dello scemo, voltandogli le spalle con ostentazione, facendo così sobbalzare comicamente il mate­ras­so.
- Ci alziamo? - chiese dopo un pò.
- Un attimo... mi sa che il bagno è occupato... - rispose lui.
Restarono in silenzio. Una sensazione fastidiosa, intrisa di sensi di colpa, volteggiava nella mente di Gianni con l’intento di catturarne l’attenzione, ma lui riusciva a scansarla con facilità, come si farebbe per evitare un lento e innocuo insetto. Lasciami perdere, rimuginò, tanto non ci sono alternative... la strada è stata tracciata, ed è una e una sola, l’unica cosa da fare è andare avanti, anche perché dietro non c’è più niente, se non un abisso senza fondo, nel quale non ho nessuna intenzione di finire...
L’abisso, il buco rovinoso che aveva scavato con le sue stesse mani, se lo immaginava in realtà come una bocca mo­struosa e famelica, con affilate lame al posto dei denti, che esigeva un doloroso tributo di sangue e lacrime, e da quelle fauci lui non voleva farsi beccare, an­che se per evitarlo a­vrebbe dovuto scaraventarci dentro, senza pensarci troppo, le persone che gli erano accanto. Con le quali a­­ve­va diviso buona parte dell’esistenza, alle quali aveva dato ad­dirittura la vita
(il visetto frignante e rosso di sua figlia all’età di sei mesi, calda e viva ed emozionante tra le sue braccia, gli si proiettò nella testa, e ancora una volta lui fu costretto a squarciare quello schermo mentale, e farlo gli provocò una fitta di dolore del tutto nuova e inaspettata)
(che cazzo succede?!?)
Sono solo persone, si ripeté... com’è che cantavano tempo fa in quel film musicale? E’ solo un’altro mat­tone nel muro... Gli apparve l’espressione da cane bastonato di Paolo, il suo so­cio, che lo fissava per­dente da quel suo cazzo di postazione di computer, pendendo dalle sue lab­bra con scon­fortanti frasi del tipo speriamo che quel cliente accetti il preventivo, oppure co­sa dici, Gianni, che in fiera riusciamo a tirar su qualcosa di buono?
(beh, come no, per tirare su abbiamo tirato, sì)
e ancora ho parlato con Piacentini, dice che ci sono problemi, non tornano un po’ di conti… un bel po’ di conti...
A proposito di Paolo Macherio..., trasalì avvertendo un sobbalzo di tensione percorrergli le membra come una bassa scarica elettrica. Nel festoso bailamme del giorno precedente, tra ba­ci, abbracci, chiacchiere e risate, a sua moglie era completamente passata di mente la perniciosa idea di fare una telefonata di auguri al simpatico socio e alla sua stracazzuta famiglia... ma oggi, con tanto tempo a disposizione, e mille riferimenti al Natale e ai pacchi-dono e ai A chi è che non abbiamo ancora fatto gli auguri?, la faccenda tornava di scottante attualità. E bisogna correre ai ripari, molto ma mooolto velocemente, rimuginò, avvertendo una fastidiosa patina di sudore imperlargli la fronte. Dunque, ragioniamoci su... l’idiota non ha il nu­mero di questo posto, non ha neanche idea di dove sia questo posto, può solo tentare di con­tattarmi al cellulare, ma in questo caso, come si dice, ritenta sarai più fortunato... L’al­ter­na­tiva è che sia Cristina, come ha fatto ieri in macchina, a chiedermi di chiamare... a meno che, per non disturbarmi troppo perché sono intento a sonnecchiare su una poltrona o a man­giare frutta secca o a sparare quattro cazzate con gli altri... non decida di chiamare lei di­ret­tamente.., a quel pensiero il sudore freddo gli si propagò su tutto il corpo, sgradito e invadente... Porca puttanazza, non sia mai... auguri, caro Paolo, a te e famiglia... Auguri ‘sto par de co­joni, ditemi dove siete che arrivo con la finanza e i carabinieri...
Non riuscì più a starsene sotto le coperte, scalciandole via con foga.
- Ti alzi? - borbottò sua moglie che sembrava essersi riappisolata.
Lui non si prese la briga di risponderle. Si alzava sì, era lampante, il tempo di poltrire era scaduto, ora era il momento di agire, e agire in fretta, con determinazione, costasse quel che costasse
(e ho idea che il mio amato Motorola V60 GPRS sarà un prezzo salato, da pagare...)
Tenendo sotto controllo di sottecchi la situazione-moglie, si infilò i pantaloni di una comoda tu­­ta Puma ed un caldo pile Napapijri. Prese a frugare in un borsone per recuperare l’astuccio-beauty con i prodotti della toeletta mattutina e, cosa decisamente più importante, il te­le­fo­nino da una delle ta­scone laterali. Nell’afferrare il cellulare, le sue dita sfiorarono una co­no­sciuta sagoma che al tat­to aveva la forma di un piccolo sacchetto, e una sorta di acquolina… in naso lo colse im­pro­vvisa e quasi irrestistibile. Stiamo buonini, per carità!, si rimproverò blandamente, se ci met­­tiamo a pipare di prima mattina… Non che fosse un problema di e­saurimento scorte, anzi, era stato alquanto generoso con sé stesso nell’approvvigionamento, tanto da poter reggere tom­bole e chiacchiere di femmine e bambini urlanti per l’intera settimana e oltre... solo che lo ri­­teneva quasi un simbolico confine tra il piacere e il vizio che non gli andava affatto di varcare, per non fare la fine di quelli che trovava al bar al mattino quando andava a farsi un cappuccino, da­van­ti al primo caffè già ge­ne­rosamente corretto con qualcosa di alcolico. E poi mica sono un tos­sico, io… sono in grado di gestirla come meglio credo, ri­muginò ancora raccontandosi la so­lita bugia di chi è credendo di non essere.
Fece scivolare il cellulare nella tasca della tuta, e uscì nel corridoio deserto. Dal piano di sot­to ora provenivano solo sommessi rumori di cucina, tintinnìo di stoviglie e sportelli che si a­pri­vano, e il suo stomaco senza ritegno mandò un fioco brontolìo, all’idea della colazione che lo attendeva di lì a poco. Si diresse verso il fondo del corridoio e, un attimo prima di afferrare la maniglia della porta del bagno, quest’ultima si spalancò, facendo apparire la zazzera aran­cio­ne di Diamante:
- Oh… che salto! - esclamò la giovane colta di sorpresa, facendo un piccolo balzo all’indietro. Teneva un asciugamano su una spalla, e indossava una corta camicia da notte felpata che le scopriva generosamente le gambe, coperte solo da due morbidi calzerotti multicolori. Gianni potè apprezzarne il buon odore di sapone alla vaniglia e di dentifricio alla menta della donna:
- Buongiorno… - flautò galante, restando piantato in mezzo al corridoio così da lasciarle solo una stretta fetta obbligata per passare - che incontri interessanti si fanno di buon mattino… dor­mito bene? -
- Buongiorno - ricambiò cortese lei, sfiorandolo per forza di cose nel sfilargli davanti. Mentre gli passava giusto sotto il naso, l’uomo chiuse per un attimo gli occhi cercando di catturare an­cora una fugace traccia del piacevole mix di profumi che la ragazza emanava - mmh, come un sasso, grazie… -
Gianni la fissò con ostentazione, sfoderando quello che considerava un sorriso da gran seduttore. Gli occhi di Diamante tendevano sul castano, con alcune pagliuzze più chiare
(mmh, che begli occhioni… e che belle borsettine ci sono sotto… dormito come un sasso sì, ma dopo un bel po’ di salti sul materasso, o sbaglio?)
L’idea che Guido lo stracchino avesse festeggiato quella prima sera di soggiorno con un bel fic-fic con la profumata Diamante andava un po’ fuori dalla sua comprensione, e gli ribadiva an­cora una volta, qualora fosse necessario, quale disparità e ingiustizia esistesse al mondo. Lui, un rampante sempre a cazzo dritto in quella merdosa società che c’era fuori di lì, aveva do­vuto sorbirsi ANNI di rotture di palle e umiliazioni e cene dai suoceri e rischi di ulcera pri­ma di essere in condizione di poter tentare il colpo d’ala vincente. Tentare e riuscire, a­mico, met­tiamo i puntini sulle i… Ed ogni tanto saltava fuori, tomo tomo cacchio cacchio, un Gui­do Mali qualsiasi, con le sue camicine dai colori tenui che, disquisendo di qualità diverse di tè, di mostre di pittori francesi e sicuramente culattacchioni, e di punto croce o chissà che al­tro… intanto ficcava il suo affare (facciamo affarino, và…) in mezzo a queste belle cosciotte che spuntano da qui sotto…
- Beh, ci si vede - si congedò la ragazza, allontanandosi verso la stanza da letto. Lui ne seguì il tragitto con la testa inclinata, cercando di infilarsi con lo sguardo sotto l’orlo dell’appetitosa camicina, fino a che lei non fu fuori vista.
- Ci si vede sì - mormorò poi con un sorrisetto da schiaffi, decidendosi ad entrare nel piccolo bagno. Il locale era caldo, e vi aleggiava ancora il ricordo del profumo di lei. La superficie del grande specchio sopra il lavandino era appannato dal vapore della recente doccia fatta da Dia­­mante. Gianni ne pulì una zona circolare col palmo della mano, facendo apparire la propria immagine scarmigliata e sgualcita da una notte di sonno pesante
(senza neanche un secondo di fic-fic, vedi un po’…)
sottolineata da occhiaie marcate sotto i propri, di occhi.
Tirò fuori un generoso palmo di lingua, che avvertiva come fatta di ruvida moquette, constatandone le pessime condizioni estetiche. Anche l’alitino non dev’essere proprio alla menta, va­lutò pensoso, forse per questo la bella fanciulla non si è trattenuta a conversare
Carina, però, pensò ancora, forse non avrà proprio un culetto da starci tutto in una mano, ma è comunque una misurazione che non mi dispiacerebbe fare… ma veniamo alle cose serie
Si abbassò i pantaloni e gli slip, accomodandosi sulla ciambella del water che non gli sembrò per niente fredda… mmh, appetitose chiappette si sono posate qui… e lasciò fare alla natura il proprio purificante compito. Lo attendeva un’impegnativa giornata campale a combattere con­tro succulenti manicaretti e vini prestigiosi, quindi era più che saggio far spazio a nuovi so­­lidi e liquidi. Si abbassò per sfilare il cellulare dalle tasche della tuta acciambellata attorno al­­le caviglie, indugiando alcuni istanti a fissarlo con la bizzarra sensazione che, una volta ac­ceso, al primo squillo (perché ci sarebbe stato un primo squillo, quello era palese) l’apparecchio gli sarebbe e­sploso tra le mani. Che cazzata, borbottò accendendolo. Lo schermo si illuminò, mo­strando i soliti simboletti di livello batteria, tacche di campo e, soprattutto, il disegno lampeggiante di una bustina che sembrava enorme e visibile come l’Empire State Building illuminato a giorno nel buio della notte.
Ah già, ho letto su Repubblica che questo Natale van più di tutto gli auguri via sms, commentò i­ronico, mentre accedeva ai sottomenù per poter leggere i messaggi registrati.
13 messaggi registrati, comunicava solerte il minuscolo schermo illuminato. Wow wow wow, tre­dici messaggi tredici, il top, il massimo, siamo in testa alla classifica!!! E chi sarà il fortunato de­tentore di questo invidiabile record?, si chiese premendo i minuscoli tastini sul telefonino.
TIM ti informa che alle ore 17.15 del 22/12 ha ricevuto per te le seguenti telefonate: 335/7012444, dicevano in più riprese le lillipuziane scrittine sul display. Mmh, indovina indovinello, a quale no­minativo corrisponderà questo misterioso settecentounoventiquattroquarantaquattro?, si chiese con un sorriso crudele l’uomo se­duto sulla tazza, in pieno bombardamento a tappeto, forse a quel simpaticone del mio socio Pao­lone Macherio?
Fece scorrere in avanti la sequenza dei messaggi registrati:
TIM ti informa che alle ore 17.42 del 22/12 ha ricevuto per te le seguenti telefonate: 335/7012444...
TIM ti informa che alle ore 18.01 del 22/12 ha ricevuto per te le seguenti telefonate: 335/7012444...
Cocciutello, l’amico...
TIM ti informa che alle ore 18.27 del 22/12 ha ricevuto per te le seguenti telefonate: 0444/915712...
Ah, pure da casa ci ha provato, l’impazientone... Si beò nell’immaginare la prevedibile espressione disperata dell’uomo e, in aggiunta, quella della moglie, una squallida e indisponente sen­zatette e, perché no, della loro figlioletta, una specie di scorfano con le orecchie così a sventola che nelle giornate ventose probabilmente erano costretti a fasciargliele, per non andare a recuperarla a Pa­dova...
TIM ti informa che alle ore 19.23 del 22/12 ha ricevuto per te le seguenti telefonate: 0444/915712...
TIM ti informa che alle ore 20.38 del 22/12 ha ricevuto per te le seguenti telefonate: 0444/915712...
TIM ti informa che alle ore 21.50 del 22/12 ha ricevuto per te le seguenti telefonate: 0444/915712...
Questo non ha per niente intenzione di mollare l’osso, maledetto lui...
TIM ti informa che alle ore 23.49 del 22/12 ha ricevuto per te le seguenti telefonate: 0444/915712...
- Ma è COGLIONE a disturbare la gente per bene quasi a mezzanotte?!? - esclamò avvertendo un bruciante moto d’ira salirgli dalle viscere infuocate - oh, ma bisogna prendere provvedimenti... seri provvedimenti... è fondamentale per poter trascorrere delle feste natalizie senza rotture di balle... -
Palleggiò nella mano il fidato telefonino, che offriva un sacco di funzioni, menù, suonerie e persino l’accesso ad Internet, concedendosi un attimo ulteriore di sentimentalismo, e prolungandone così di poco la vita terrena. Le minuscole lancettine dell’orologio elettronico sul di­splay (beh, ovvio che possieda anche questa funzione, il minimo direi....) gli notificarono im­pietose che e­rano ormai quasi le nove, e se il suo socio, com’era facile prevedere, aveva passato un’agitata notte in bianco... non avrebbe tardato molto ad attaccarsi ad ogni telefono di­sponibile nel raggio di un chilometro...
- ‘Fanculo - sibilò irritato, impugnando il Motorola come una piccola clava e assestandogli un colpo violento contro il bordo del bidè. Scrasch, fu il doloroso lamento che provenì da dentro il cellulare, mentre alcuni pezzettini di plastica cadevano sul tappetino sotto i piedi dell’uomo
(593 euro più Iva buttati nel cesso... Caro Paolone, consentimi, metto in conto anche questi...)
Provò a pigiare il tasto ON sulla tastiera incrinata. Il display si accese, con un ammirevole esibizione di attaccamento alla vita, ma al posto dei simbolini e delle scrittine consuete apparve qualcosa che sembrava un insetto (seppur elettronico) schiacciato sotto il tacco di una scarpa. Digitò un numero a caso, forse quello di casa, ma il glorioso strumento di comunicazione restò inerte e muto e completamente fuori uso
(oh, cara, non sai cosa mi è successo in bagno... mi sono abbassato i pantaloni per... sì, beh, insomma... e avevo il cellulare nella tasca, che mi è scivolato fuori e... CRAC... ma di che merda li fanno, i telefonini, al giorno d’oggi?!?)
- Era una cosa da fare e andava fatta... - si ripetè ricomponendosi - speriamo che a furia di cal­pestare ostacoli si arrivi alla sospirata ricompensa finale... -
Dopo essersi rapidamente lavato faccia e denti, socchiuse la finestra per dare un’occhiata fuo­ri. La nebbiolina della notte, che lui non aveva avuto l’onore di vedere, era scomparsa, dis­solta da una pioggerellina fine ma insistente. Il freddo di quel giorno livido scivolò all’interno, accarezzandogli le caviglie nude con dita ghiacciate e sgradevoli. Respirò comunque a fondo quell’aria pulita e gelida, osservando le auto parcheggiate nel cortile sottostante: la sua Ford Focus, e poi la sagoma goffa della Seat Alhambra di Renato, e la linea un pò datata ma sempre scattante dell’Alfa 164 del padre di Teresa:
- E Guido e la tipa come sono arrivati qui? - si chiese contando i tetti delle vetture lucidi di goccioline, mentre nella sua mente si rincorrevano confuse immagini di tramonti tropicali, sab­bia che scottava tra le dita dei piedi, palme da cocco cariche di frutti - in autostop? -
Si sporse verso sinistra, alla ricerca dell’auto mancante (che non c’era proprio) e, al limite e­stremo del cortile, immobile sotto un grande albero spoglio e scuro, notò una figuretta minuscola vestita con qualcosa di tenue e giallino:
- Che cazzo ci fa la piccola di Renato sotto l’acqua? - borbottò perplesso, anche se la cosa non rivestiva per lui un’importanza particolare - bah, è proprio vero che vengon su strani fin da piccoli...-

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Capitolo 11
*** Sveglia - Baci mattutini - Sotto la pioggia ***


21_

Renato aprì mezzo balcone cercando di fare meno rumore possibile, per non disturbare la moglie
ancora rannicchiata sotto le coperte. Diede un’occhiata fuori: bah… tanto per cambiare, pioveva.
Peggio, piovigginava, che era ancora più sconfortante… Lucia a volte era un po’ pesantuccia con le
sue veeementi accuse contro effetto serra e mutazioni climatiche, però a dare un’occhiata all’esterno
(e al calendario) non si poteva poi darle tutti i torti. O hanno spostato Natale indietro di un buon
mese e mezzo, rimuginò appannando il vetro della finestra col fiato, oppure da bambino le cose
erano un po’ diverse…,disegnò uno “smilino” sbilenco con la punta del dito, ma forse la verità è
che sono i ricordi, ad essere diversi…
- Che tempo fa ? - chiese con voce assonnata Lucia, facendo spuntare il naso dal confortevole nido
del letto.
- “Scende la pioggia, ma che fa…” - canticchiò lui, stiracchiandosi pigramente - un’acquerugiola
squallida ma bella cocciuta… sarà una rogna con i bambini che vorranno uscire a giocare comunque,
e per la sanità mentale collettiva credo sia meglio assecondarli, solo che bisognerà esser pronti
con coperte e acqua calda e strizzabudella… - disse imitando la vocetta sgraziata del vecchietto dei
film western - te la raccomando tua figlia con le fisime per qualche fastidiosa malattia da raffreddamento! -
- ah, io ho una figlia… - commentò la donna divertita, sistemandosi dietro la schiena anche il cuscino
marito - buono a sapersi, nell’eventualità di una causa di divorzio… che ora avete fatto, 
ieri sera ? -
- Più o meno mezzanotte… una mezz’oretta dopo che te ne sei venuta su… - accanto alla finestra
c’era un’accogliente poltroncina imbottita, e l’uomo vi si accomodò allungando le gambe su una
valigia - ed è tutto quello che ricordo… non ho assolutamente idea di come ci sia arrivato qui… pura
casualità, suppongo, per come ero messo potevo tranquillamente infilarmi in una qualsiasi delle
stanze degli altri… -
Sua moglie gli lanciò una scherzosa occhiata torva:
- Seeee… te piacerebbe ! -
- Beh, in una o due devo dire che… - ribattè lui, grattandosi con ostentazione la barba folta. La
risposta, e il gesto che la sottolineava, li fece scoppiare a ridere di gusto, come due ragazzini. La
donna gli fece segno con l’indice di avvicinarsi:
- Un bacio, per amor di Dio… - supplicò comicamente - spero il primo di una lunga serie… - Renato
si tirò dalla comoda sistemazione, protendendosi verso di lei, che lo bloccò con la mano aperta -
altolà, sei già andato a lavarti ? -
- Primo di tutti, credo - ammise alzando due dita unite come uno scolaretto diligente - quando fuori
non era ancora chiaro - si abbassò su di lei - senta qua che delizioso sapore di malva e camomilla… -
Si scambiarono un lungo bacio appassionato.
- Lei che dentifricio usa, dolce signora, gusto patè de top mort ? - la provocò. La moglie gli assestò
uno schiaffetto stizzito sul braccio mentre lui si rialzava:
- Razza di screanzato… - esclamò con un’espressione a metà tra l’offeso e il divertito. L’uomo tornò
a riaccomodarsi sulla morbida poltroncina, osservando Ina sulla porta di casa buttare alcuni avanzi
ad un gatto di considerevoli dimensioni che le ronzava intorno, infilandosi a vanti e indietro tra le
caviglie della donna come uno sgusciante squaletto peloso.
- Mmh, sei perdonata - continuò lui - è tutta colpa dell’alimentazione… prevedo guai grossi per stomaco,
fegato e adipe, in questi giorni… la massacrata di ieri sera era catalogata dalla buona Ina
come “livello giallo - cena leggera”… -
- Beh, neanche tu ti sei risparmiato, ci saranno stati quaranta tappi di bottiglia sulla tavola, a fine
serata… più che addormentata credo di aver perso i sensi, quando ho poggiato la testa sul cuscino...-
Già, mi sono superato - ammise Renato orgoglioso - non ti ha smosso nemmeno il casino di poco
fa… -
- Casino ? - chiese lei incuriosita. Suo marito fece segno col dito verso il lucido parquet in legno:
- Una ventina di minuti fa… pareva fosse esplosa la televisione, ma probabilmente era solo il pulsante
del volume generosamente pigiato da una mano incauta - alzò le sopracciglia in un arco carico
di sottintesi - una mano piccola piccola, azzarderei… -
- Tua figlia ? - sogghignò sua moglie.
- Mmh, la sorella gemella della tua… - si portò le mani attorno alla bocca, con un’espressione at territa
da malcapitato protagonista di un film dell’orrore - mio Dio, pensi che la sua inquietante presenza

si aggiri già qui sotto ? -
- Se la conosco bene… e la conosco bene… a quest’ora avrà già tramortito di chiacchiere Ina, Efrem…
probabilmente Teresa, se è già in giro… e qualunque altro organismo vivente che abbia 
avuto la
sfortuna di incrociare la sua strada… hai visto qualcuno di sveglio, quando sei andato in 
bagno ? -
L’uomo scosse la testa:
- Non un’anima… - commentò - probabilmente sono ancora sotto i benefici influssi dell’ultimo giro
di Soave Classico… - alzò le dita arcuate a mò di artigli - o forse sono tutti morti assassinati nei loro
letti dal fantasma della fattoria !!! -
- Daì, scemo, piantala… - Lucia si tirò su a sedere, incrociando le gambe in una specie di posizione
yoga - siamo stati così bene, ieri sera, non pensi ? Come li hai trovati ? -
L’ombra professionale del dottor Anelli, anche non volendolo, subentrò in lui mentre rifletteva sulla
replica. Si tirò su a sedere dritto, accavallando le gambe in un gesto istintivo. Pareva quasi che
tenesse appoggiato sul ginocchio un ipotetico blocco di appunti, come quando riceveva i pazienti:
- a grandi linee direi bene, chi più chi meno… - rispose mettendo in atto un’analisi spicciola in soldoni,
mentre passava in rassegna i volti dei suoi amici così com’erano disposti intorno alla tavola -
han tenuto botta, come si dice… Gianni è sempre il solito rompiballe di sempre, solo che una volta
la smenava con bandiera rossa e potere operaio, e adesso delira dicendo che la Lega, in fondo, non ha
neanche tutti i torti… è già questo la dice lunga… e poi dovrebbe darsi una regolata, non ha più
vent’anni, e hai visto che razza di buricchia ha messo su ? -
- Mmh sì, Cristina se l’ sempre cavata, ai fornelli… e comunque ci va giù troppo pesante con Guido…
rischia di diventare offensivo, e ben poco divertente… -

il marito fece un gesto con la mano, come dire “lo conosciamo, no ?”. Restarono in silenzio per un
attimo, mentre una curiosità da gossip dei più spudorati aleggiava inespressa nell’aria:
- Cosa dici ? - disse poi la donna.
- Di che ? -
- Daì, non fare lo gnorri - fece un cenno con la testa in direzione della parete che li divideva dalla
stanza accanto - Guido e Diamante… -
Lui alzò le spalle, tormentandosi il mento barbuto:
- Mmh, carina è carina, non dico di no…
(nella mente gli si accese il ricordo di un grigio pomeriggio di alcuni mesi prima, verso la fine dell’orario
di visite nel suo studio. L’amico Guido che scivolava dentro come un ladro nella notte, sprofondando nella
poltrona di pella nera. Le mani pallide che si torcevano nervosamente. Grazie di 
avermi ricevuto così da
un momento all’altro, aveva detto d’un fiato, è un periodo un po’ così… un 
periodaccio, se vogliamo.
Immagino succeda un po’ a tutti, solo che… problemi con Isabella, 
Isabella Parini era una segretaria di
produzione degli studi in cui lavorava l’uomo, con la quale 
aveva una sofferta e travagliata relazione,
magari facciamo due chiacchiere, tanto per provare a 
vederci chiaro… e alla fine, stringendogli la mano
visibilmente più sollevato, immagino che posso 
stare tranquillo che questa cosa…, al che lui aveva ribattuto
premuroso, di solito quello che viene 
raccontato qui resta dentro questo studio, e sto parlando di semplici
pazienti… e fra noi il rapporto 
è decisamente diverso, non credi ?)
- ...ma, non lo so, non mi pare il tipo adatto a lui… poi, cosa vuoi, mai dire mai… -
Osservò con occhi fissi e ancora mezzi assonnati il vasto cortile sotto il suo punto di osservazione,
in quel momento nuovamente deserto (il pescecane-gatto probabilmente era andato a rintanarsi in
qualche buco asciutto a papparsi i succulenti bocconi ricevuti, e Ina stava di sicuro progettando il
modo per assassinarli con cinghiali arrosto e spiedi di pavoni ripieni), contando distratto le auto (la
mia, quella di Gianni e quella del padre di Teresa… e Guido ?) parcheggiate sotto la pioggia
(ora decisamente battente) accanto al cancello d’ingresso. Una finestra al piano superiore della casa
dirimpetto si aprì, e la zazzera decisamente spettinata, tipica da sveglia più che recente, di suo figlio
Amedeo che spalancava i balconi, sporgendosi sotto l’acqua per assicurarli al blocco infisso nel muro
scrostato
(Amedeo che fa qualcosa di utile, che non preveda danni irreparabili e permanenti ?)
- Piccola vedetta veneta avvista tracce di vita cosciente nella stanza dei nostri figli - annunciò alla
moglie impegnata ad osservarsi con scrupolo la situazione peluria sulle gambe.
- Quale degli otto ? -
- Ame, ha aperto adesso la finestra. Di Emma nessuna traccia, anche perché è troppo piccola per
arrivarci con la testa… -
- Mh mh… mi pare che Teresa sia entusiasta di averci qui a rompere… - continuò lei ricollegandosi
al discorso di poco prima. Lui si agitò nella poltrona
(…e togliti ‘sto supponente camice bianco mentale !)
- E’ il minimo, direi, considerato il salto da… a… Tutto secondo diagnosi (e ridaje !), anche la crisi
di pianto quando siamo arrivati… cavoli, tutte quelle cose compresse e trattenute, sempre col dubbio
se si è fatta la cosa giusta… - fece un gesto roteante con la mano - …sai, tutta quella faccenda del
dissidio tra il ritorno alla normalità e il rispetto verso chi… in ogni caso, il problema… il vero problema,
non è questo… -
Lucia sollevò lo sguardo verso il marito, allarmata dal tono serioso che la voce di lui aveva assunto
in quell’ultima frase, lasciando perdere per un attimo di torturare un malcapitato pelo incarnato:
- Cioè ? -
Lui strinse le labbra in un’espressione tormentata:
- Quando riprenderemo armi e bagagli per tornarcene alla vita di sempre - spiegò alla moglie che lo
fissava attenta e leggermente preoccupata - sarà dura, immagino… voglio dire, prova a pensarci,
passare da un sacco di gente che ti sta attorno, bambini sorridenti, risate, chiacchiere… ricordi… -
ripetè quella parola calcando il tono della voce, quasi per farla comprendere in tutto il suo ingombrante
significato - ricordi… e poi, da un momento all’altro, di nuovo sola, in questa casa vuota…
stanze vuote, e comunque piene di riferimenti - indicò una locandina di Cats che Teresa e Carlo avevano
magnificato sino alla nausea, al ritorno da una loro vacanza in inghilterra - e soprattutto il non
poter più comunicare a nessuno, di punto in bianco, quello che si sta vivendo… è uno dei fattori più
gravi che assillano chi di colpo perde uno o più riferimenti relazionali… ti sembra di non riuscire a
reggere proprio fisicamente… -
La donna restò immobile a riflettere su quella cosa, cercando di figurarsela adattata al proprio vissuto,
e fu squassata da un brivido improvviso e violento:
- M-mio Dio… - mormorò allibita - rischiamo di mandarla in pezzi... col nostro stesso affetto… è
assurdo… -
Renato si massaggiò le guance con mani che sentiva fredde e insensibili:
- Devo confessarti che è un’eventualità che spaventa anche a me… - ammise con voce spenta - ma
d’altra parte cosa potevamo fare ? Declinare cortesemente questo suo invito ?! Non so, sinceramente
non so cosa sarebbe stato peggio… anche passare Natale da soli perché i tuoi a mici ti hanno tirato
un cortese pacco… ma non a caso ho parlato di eventualità… sai, non è detto... quant’è ?
Quattordici mesi... possono essere pochi oppure no
(ho paura che per Teresa siano stati un granello di polvere…)
dipende da persona a persona… può essere che il lavoro svolto, e il tempo passato, siano stati sufficienti
per limitare i danni… -
Lucia si lasciò cadere di lato tra le coperte, in gesto istintivo di sconforto.
- L’importante sarebbe che non subisse altri scossoni… - continuò il marito, pentendosi subito dopo
aver pronunciato quell’ultima, enigmatica frase. La donna lo osservò storta dalla scomoda posizione
in cui si trovava. Ormai quindici anni di matrimonio con quell’uomo schietto e trasparente le avevano
insegnato a leggere ben oltre le parole pronunciate dalla voce:
- Che altro c’è ? - chiese in un sussurro preoccupato. Renato si tormentò il viso tra le mani aperte:
- Corrado, suo padre… -
- Cos’ha ? -
- Non l’ho visto bene… deperito, molto, troppo giù di corda… - appoggiò il palmo di una mano
sulla superficie gelida della finestra, passandosela poi sulla fronte che sentiva bollente - ho paura
che non sia solo un discorso di età… e della botta che ha preso pure lui… non incidentalmente,
almeno… il tremito delle mani… - sua moglie strinse forte le palpebre, con le labbra ridotte ad una
sottile linea incisa nel volto preoccupato - e poi tutti quei discorsi interrotti, quelle frasi campate in
aria, mentre annaspa nel tentativo di recuperarle dalla memoria… -
- A cosa stai pensando ? -
- Non lo so… è difficile da dire così… da un’osservazione sommaria per di più sotto l’influsso dell’alcool
- cercò di ravvivare l’atmosfera con quella battuta, non riuscendovi affatto - bisognerà vedere più avanti,
consigliargli di

Si bloccò paralizzato dallo stupore e dall’incredulità
(Non è possibile…)
incapace di dare un senso a quello che i suoi occhi gli stavano inequivocabilmente mostrando
(Come ho fatto a non…)
- Renato ? Tutto bene ? - gli chiese inutilmente la moglie, non riuscendo a fargli arrivare quella
preoccupata domanda.
Lui continuò a tenere gli occhi fissi, mentre sudori freddi lo assalivano nell’istante in cui la sua
mente confusa collegava alcuni dati determinanti, la temperatura esterna, ad esempio, le condizioni
del clima
(Merda, sta piovendo a dirotto !)
e, soprattutto, la precarietà dell’abbigliamento che gli sembrava di scorgere nella figuretta immobile
sotto il grande albero spoglio
(Da quanto tempo è là sotto ? Mio Dio, non ha su neanche un paio di calzetti !)
- Renato ? - ripetè ancora Lucia, ora decisamente allarmata - cosa succede ? -
Lui balzò dalla poltroncina, come se il cuscino sotto le chiappe avesse improvvisamente preso
fuoco, inciampando nella valigia che stava usando come poggiapiedi:
- Niente… niente d’importante - blaterò agitato, mulinando le braccia nell’aria per mantenere l’equilibrio
nel transitare come un razzo davanti al letto
(Se glielo dico si catapulta giù in cortile vestita così com’è…)
…una cosa… - vagolò nella mente alla ricerca di una giustificazione qualsiasi - i fari… i fari della
macchina… -
Si lanciò fuori dalla stanza come un buffo personaggio dei cartoni animati a cui avessero infilato un
candelotto di dinamite nel posteriore, lasciando la moglie a fissarlo dal letto con la bocca spalancata
dalla sorpresa.

 

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Capitolo 12
*** Spettinato - Balbettìo - Telecamere ***


22_

Amedeo si tirò dentro dalla finestra, dopo essersi affrettato ad aprire i balconi prima che lo facesse Vanessa, risparmiandole così una fastidiosa spruzzata di pioggia, chiudendola con cura, osservando il suo riflesso nel vetro. Osservando con sgomento, per amor di precisione, i propri capelli reduci dai sogni agitati della notte appena trascorsa (non li ricordava nitidamente ma, avrebbe potuto giurarlo, dovevano aver visto quale protagonista principale, in qualche inquietante modo, la sua leggiadra
compagna di stanza). Il risultato era come se gli fosse esploso un petardo in testa, e temeva (un pò a ragione) di avere un’aria da gonzo a spasso, come lo etichettava spesso sua madre quando andava a svegliarlo per spedirlo a scuola. Non gli interessava particolarmente il parere della madre sulle sue acconciature mattutine, arrivando addirittura a “devastarsele” ulteriormente per far rotolare dal ridere la piccola Emma. Solo che adesso Vanessa, seduta sul bordo del letto intenta a spazzolarsi con cura la sua, di capigliatura fluente e lunga, non sembrava affatto scompisciarsi dalle risate
(grazie al Cielo, aveva aggiunto l’imbarazzato ragazzino)
Maledì di non essersi dato un’occhiata di controllo nello specchio, quand’era andato in bagno poco prima, ma in verità, in quel frangente, era preso da tutta una serie di altre considerazioni e problemi. Il primo dei quali, che solo apparentemente potrebbe apparire futile e, tutto sommato, anche un pò sgradevole, era la consapevolezza che il prezioso fogliettino di carta con quella frase bellissima stava transitando proprio in quel momento (non che lui si fosse messo d’impegno per “identificarlo”, s’intende), abbandonando così per sempre il ragazzino. Non sussisteva il pericolo di scordare quelle parole tanto emozionanti
(Conservo con cura, l’arsura che ho di te, dolce creatura... come avrebbe epicamente descritto uno scrittore di storie cavalleresche, quelle frasi erano scolpite dentro di lui come eterne incisioni su una roccia, e il coraggio che sarebbe servito per recitarle a lei era poco meno di un granello di sabbia all’arrivo di una tempesta) però gli dispiaceva comunque aver dato loro una “morte” così scriteriata e indecorosa. Conseguenza forzata, anche se del tutto naturale, di quella “sepoltura” ben poco solenne, era l’atmosfera pesante che gravava nel piccolo locale (ormai il racconto ha preso questa piega “escatologica”, e tocca arrivare fino in fondo), e lui era terrorizzato che la dolce Vanessa, che profumava così di buono, subentrasse subito dopo di lui. Magari incrociandomi mentre sto uscendo... aaaaghhhh ! Il panico lo costrinse a passare un buon quarto d’ora a rabbrividire di freddo, con i piedi nudi che ballavano la samba sul tappetino spelacchiato, mentre sventolava con foga irruente la minuscola finestra del bagno avanti e indietro, avanti e indietro, come un bizzarro collaudatore di cerniere per infissi. Dura la vita alla spensierata età di dodici anni, altro che storie!
Il terzo problema della sua personale quadrilogia emozionale (il quarto, che abbiamo già conosciuto, erano i capelli sparati da tutte le parti come lo scienziato pazzo dei cartoni animati di Dexter’s laboratory) lo assalì a tradimento una volta rientrato in camera da letto
(Prode Amedeo, devi stare molto più in guardia, o rischi grosso !)
nel rendersi conto che quella traditrice in miniatura di sua sorella aveva segato il palo, lasciandolo solo...  - la bocca gli si trasformò all’improvviso in una versione ridotta ma efficace del deserto del Sahara...
(ci tenevi tanto a sapere cos’era l’arsura ? Beh, questa è l’arsura, ragazzo mio)
a tu per tu con quella inquietante e affascinante creatura...
Che cosa le dico ? Di cosa capperolina le parlo ?, annaspò strofinandosi le mani come quando in classe faceva l’imitazione di Fracchia per la gioia dei suoi degni seguaci, che si rotolavano entusiasti dalle risate... prova a ridere un pò adesso, ‘a Gigi Sabani... ah, com’è umano, lei... cos’avrebbe detto
un adulto qualsiasi, suo padre, il suo amico Gianni Ostiglia
(ehi, Vanessa, ti vedo molto ma molto in salute sotto quel maglioncino o qualcosa del genere... bah, no, forse non era proprio il caso...)
come avrebbero esordito ?
Un’idea gli si accese nella testa, e lui la salutò con sollievo estremo, mentre si accingeva a formulare una domanda inedita, che mai e poi mai aveva posto ad un essere umano nella sua breve vita fino a quel momento:
- D-dormito bene ? - soffiò fuori, con un megaimpianto stereo che gli suonava la Cavalcata delle Valchirie nel petto magro.
La ragazzina gli dedicò un sorriso che sembrò esplodere come un sole nella stanza:
- Sì, molto bene, grazie... e tu ? -
Da gonzo a spasso qual era, senza la minima possibilità di appello, si era talmente concentrato sul formulare la sua, di domanda, che non aveva assolutamente messo in conto (in guardia, dannato pivello... su con le orecchie !!!) che lei potesse rifilargliene una di ritorno:
- Ob... io... a-ab... - desiderò ardentemente di correre a tuffarsi ad inseguire il fogliettino con la poesia, mentre le parole gli scappavano fuori da tutte le parti, come quella volta che per fare lo scemo(era un rigorosissimo esperimento scientifico !) si era vuotato in bocca un intero tubo di Smarties - cred beh sì... b-bastaz -
Vanessa si chinò ad allacciarsi le scarpe, mentre Amedeo restava paralizzato ad attendere la condanna a morte definitiva... bleah, ma... ragazzino... non sai neanche parlare ?!... Lei si tirò su, scrollando i capelli in un gesto che lui trovò di una perfezione assoluta, come il gol di Schevchenko a San Siro contro la Lazio, poi afferrò il fedele zaino posato su una sedia:
- Bene, allora... cosa dici, andiamo a far colazione insieme ? -
- Certo, come no! - si affrettò a rispondere cordiale il ragazzino, e lei fece pietosamente finta di non sentire che la bocca di lui lo aveva tradito, bofonchiando qualcosa tipo “Citr cocco menò”
- Daì, allora! - tagliò corto lei (con un’altra sparacchiata di quel suo sorriso laser), dirigendosi verso la porta. Amedeo si affrettò a seguirla,  chiedendosi incuriosito da dove poteva provenire quell’allegro scampanìo che sentiva, visto che il paese (e conseguente campanile della chiesa) era ben distante da lì.

23_

Diamante si stiracchiò pigra, con gli occhi chiusi, strofinando la faccia contro la stoffa profumata del cuscino. Lo sapeva che non avrebbe dovuto cedere alla tentazione di riinfilarsi sotto l’invitante abbraccio del piumone, ma quand’era tornata dal bagno Guido ronfava della grossa, e lei non si sentiva ancora così in confidenza, nonostante la compagnia più che cordiale, per avventurarsi al piano inferiore. E così si era sdraiata un attimo, ripiombando in un sonno leggero e piacevole. avevano dormito con i balconi aperti durante la notte (più che altro eravamo troppo k.o. per verificare se erano chiusi), ma la luce grigiastra del mattino piovoso non aveva disturbato affatto l’inatteso pisolino, quasi conciliandolo. Un fioco cigolìo del pavimento in legno dal suo lato del letto la incuriosì, facendole aprire un unico occhio assonnato. Trasalì di sorpresa: a pochi passi, in maglietta e boxer, Guido torreggiava su di lei con un grande sorriso e, quel che era peggio, con l’impietoso obiettivo della telecamerina puntato:
- Eh no, Guido, daì... - protestò girando la faccia contro il cuscino - di mattina presto, poi ! -
Lui la inquadrò ancora per un secondo, poi tese il braccio ruotando l’apparecchio verso di sè:
- Le donne... - sentenziò immortalandosi con una buffa espressione sul viso - qui lo dico e qui lo affermo... sempre le solite smorfiose... - rabbrividì - ‘mazza che razza di freddo in mutande ! -
Montò sul letto, scavalcando il corpo della ragazza, e fingendo nel contempo un goffo “inciampo” contro il fianco di lei:
- Permesso... - borbottò comicamente.
- Daì, sciocco ! - rise lei, mentre l’uomo si rintanava sotto le coperte. Sollevò leggermente la testa per osservarlo - buongiorno, intanto... ma che non ti venga mai più in mente di fare una cosa del genere... -
Lui riguardò la sequenza appena registrata nel minuscolo monitor:
- Eri bellissima... - disse convinto, poi girò la telecamera verso il viso di lei - sei bellissima... guardare per credere... -
Diamante nascose l’immaginina col palmo della mano:
- Sì, la bella addormentata nel letto... ma figurati... e non ti firmo la liberatoria per mostrarla agli altri, sia ben chiaro... -
- Mostrarla agli altri ?! - ribattè lui posando l’apparecchio con cura sul comodino - la mia intenzione era di mandarla in prima serata a reti unificate, al posto del discorso di fine anno del Presidente... -
- Che scemo... - esclamò allegra la ragazza - come ti senti ? -
Lui si passò una mano sul petto magro:
- Un pò saccagnato dall’overdose di pandoro - rispose - ma tutto sommato in forma... -
La ragazza fece un gesto con la testa, per invitarlo a proseguire:
- Mmh... bene, direi bene... - continuò lui un pò più serio - te l’ho detto ieri, venendo qui... non ero per niente convinto che fosse una buona idea... con tutti ‘sti casini per la testa... ma poi, una volta arrivati... mmh, sì, va decisamente meglio delle mie fosche previsioni... certi legami si possono trascurare, ma non certo dimenticare... se solo quell’idiota di Gianni fosse un pò meno rompiballe... -
- Già... pare si diverta a fare il gradasso... anche prima, l’ho incrociato nel corridoio... e mi guardava come se volesse mangiarmi viva... -
Lui le spostò una ciocca arancione dalla fronte:
- Forse perché sei da mangiare... - disse - in ogni caso sto bene, e quel pubblicitario sovrappeso è un particolare troppo ininfluente per rovinarmi la permanenza... -
Diamante si tirò su, appoggiando la testa al braccio ripiegato, un’espressione furbetta nello sguardo:
- Ma senti... e da dove ti sbuca tutto questo ottimismo, questa rosea visione della vita ? -
L’uomo si lasciò sfuggire un sorriso smagliante, torcendosi per afferrare il cellulare dal comodino. Vi armeggiò per alcuni secondi, voltandolo poi in direzione della ragazza:
- Da qui - spiegò raggiante. Sul minuscolo display illuminato si poteva leggere la frase “BUON DUE-GIORNI PRIMA DI NATALE”. La ragazza ricambiò il sorriso.
- Vado avanti ? - chiese lui, agitando lieve il telefonino.
- Certo -
Guido azionò una rotellina sulla tastiera.
“TI PORTO UNA PRETZEL CON UN NASTRO ROSSO”, diceva ancora il messaggio.
- E vai ! - commentò allegra lei, dandogli una pacca sulla spalla - qui c’è profumo di un minuscolo seme d’amore che sta faticosamente cercando di sbocciare, o sbaglio? -
Lui si premurò di infilare una mano nelle profondità delle coperte:
- Scusa il gesto tipicamente maschile - scherzò assestandosi una scaramantica “scrollatina” - ma credo che sia il caso... -
La giovane gli si avvicinò, posandogli con delicatezza la testa sul petto:
- Posso ? -
- Direi di sì -
- Non ti da fastidio ? -
- No, no, tranquilla -
Rimase per alcuni secondi ad ascoltare il cuore che batteva calmo.
- Sono così contenta - disse poi - te lo meriti... -
Lui le passò una mano affettuosa tra i capelli:
- Grazie - rispose - te lo meriteresti anche tu... per cui voglio augurartelo con tutto il cuore... dico sul serio... ma adesso, visto che mi è impedito per ovvi motivi morali di mangiare te, ve diamo se giù in cucina hanno qualcosa in sostituzione di altrettanto dolce e appetitoso - la fece rotolar via a tradimento, con buffa veemenza - su, poltrona, andiamo a far colazione!!! -

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Capitolo 13
*** DJ Peppe - Legnaia - Corn flakes ***


24_

- …otto… nove… e dieci… - Teresa contò per l’ennesima volta i posti a sedere intorno alla grande tavola della sala, mentre quel semplice dato rischiava di sfuggirle di continuo dalla mente in ebollizione (non è difficile, si tratta solo di calcolare quante tovagliette per la colazione, e relativi piatti e posate, son da metter giù) sostituito da funeste immagini di telecomandi posseduti e demoniache televisioni col volume al massimo
(e sguardi smarriti e persi e disperati)
Suo padre, dopo l’episodio di poco prima, le aveva chiesto di spegnere la tivu e ora lei poteva scorgerne le ginocchia ossute spuntare dal bordo della poltrona, e la biro agitarsi impettita mentre si dedicava alla meno rumorosa Settimana Enigmistica. Passò nella cucina, decidendo di mettere sul fuoco la capiente caffettiera da diciotto, un 'tafanario' che aveva avuto occasione di usare ben poco begli ultimi tempi. Dal piano superiore provenivano inequivocabili rumori di risveglio, di lì a poco i suoi ospiti sarebbero scesi assonnati ma famelici, e lei si augurò con tutto il cuore che uno dei primi ad apparire fosse Renato (nelle sospirate vesti del dottor Anelli), per un consulto quanto mai privato e straurgente. il silenzio che invadeva l’accogliente locale della cucina pareva stimolare e fomentare le continue, infauste rimuginazioni con cui si stava torturando la mente, anzichè placarle, così si decise ad accendere la radio sopra la credenza:
- …ciao CIAO CIAO dal vostro DJ Peppe… e ancora auguri di Buon Natale a tutti i radioascoltatori…- latrò dall’apparecchio la solita voce impostata tipica dei conduttori di tendenza (un termine assai in voga che probabilmente è sinonimo di idiota, pensò Teresa tirando fuori due maxi-confezioni di yogurt dallo sportello di un frigo di ragguardevoli dimensioni) - …e adesso ci SPARIAMO una tipicissima canzoncina natalizia… attenti allora… eseguita dai Piccoli Cantori dell’accademia di Santa Cecilia… per tutti i nostri affezionati ascoltatori, ECCO A VOI… “Tu scendi dalle stelle”… WOW WOW WOW !!! -
Certo che questo è scemo forte, rimuginò la donna tra sè, annuncia “Tu scendi dalle stelle” come se stesse per trasmettere il più indiavolato dei pezzi rap… bah, e magari lo pagano pure…
Mise a bollire un capiente pentolino per le uova alla coque, mentre le note soavi del brano musicale si spargevano per la sala.
“Tu sceeendi daaalle ste-lle…”
- O Ree del cie-e-lo… - distrattamente, Teresa si unì al coro che proveniva dalla radio, facendo la spola dalla cucina alla sala con l’occorrente per preparare la tavola.
“E vie-ni-i-una gro-tta-a-l freddo e al geeelo…”
- E vie-ni-i-una gro-tta-a-l freddo e al geeelo… - infilò nel forno una forma di pane toscano per dargli una scaldata, recuperando dal cassetto il lungo coltello per affettarlo.
- O-oh Bambi-no - si divertì ad anticipare le strofe cantate con voci angeliche dai Piccoli Cantori
(non dimentichiamoci il wow wow wow !)
“Oh-oh Bambi-no…”
- Mio Di-i-vino… - canticchiò controllando le date di scadenza su alcuni vasetti di marmellata, nei quali sia il contenuto (ribes nero, more, albicocche) che le etichettine scritte a mano, ricavate da una pagina di quaderno a quadretti, erano opera delle valenti mani di Ina. Giugno 2003… tutto molto perfetto, tutto molto genuino…
“Mio Di-i-vino…”
- io ti ve-e-do… qui a tre-mar ! -
“Nella legna-ia… qui a tre-mar !”
- C-cosa ?!? - si bloccò allibita, incapace di credere a quello che le sembrava di aver appena sentito - h-hanno davvero cantato “nella legnaia” ?!? E che diavolo vorrebbe voler dire ? -
“Oh Di-io be-a-a-a-to… ah, quan-to ti cos-tò l’a-a-vermi ama-a-a-to !” - i Piccoli Cantori proseguirono imperterriti rispettando le parole standard della canzone (o almeno quelle che fino a quel piovoso mattino di fine dicembre Teresa riteneva fossero tali). Scosse la testa, più che perplessa. D’accordo che spesso i brani tradizionali avevano più di una versione di testo, ma quella variante le sembrava alquanto assurda
(nella legnaia ?!?)
Cosa diavolo mi sta a significare? Capisco se avessero detto “nella grotta”, o “nella capanna”, avrebbe un senso … ma perché nella “legnaia” ? Chi sono, il coro dei Piccoli Boscaioli ?!?
La caffettiera cominciò a lanciare nell’aria il suo caratteristico gargarismo, accompagnato da un invitante profumo di caffè, e Teresa si affrettò a spegnere il fuoco.
- Probabilmente è tutta farina di quel genio del microfono di DJ Peppe… - concluse cancellando dalla mente l’episodio. in quell’istante le scale che portavano al piano superiore presero a cigolare e a rimbombare come se un’ippopotamo col pepe al culo le stesse scendendo a rotta di collo. Oggi è proprio la mattina delle bizzarrìe…, pensò stupita la donna, affacciandosi sulla soglia della porta:
- Oh, ragazzi, capisco che abbiate voglia di far colazione - commentò divertita - ma questo mi pare un tantino… -
Si ammutolì, osservando il solitamente calmo Renato planare nella sala, saltando a piè pari gli ultimi cinque, sei scalini, con un’espressione trafelata e allarmata allo stesso tempo. Teresa per un assurdo istante pensò che avesse preso fuoco la casa e che l’amico se la stesse dando a gambe abbandonando moglie e amici al loro destino. immediatamente, però, quella contorta supposizione fu spazzata via dal ricordo della pressante esigenza di parlare con l’uomo, incendio o inondazione o cataclisma che fosse.
- Renato.. scusa… avrei assolutamente bisogno di… - esordì, facendo alcuni passi verso di lui. L’altro le fece segno di scostarsi con veemenza… è diventato matto del tutto, a furia di frequentare matti… rischiando seriamente di travolgerla nel suo dissennato cammino.
- Scusami, Teresa… non adesso - bofonchiò tutto d’un fiato, agitando le mani come un frullatore umano - devo correre fuori… subito… c’è un problema… -
Transitò come una furia davanti a lei, obbligandola a scostarsi in tutta fretta, al punto da cozzare col posteriore contro il mobile alle sue spalle, infilando la porta vestito solo del maglione
(ma sta piovendo a dirotto, là fuori…)
e abbandonando una stralunata Teresa sola con i suoi mille quesiti irrisolti.
Sbucò all’esterno, e subito le gocce fredde lo assalirono, inzuppandogli vestiti e capelli e barba, mentre pattinava come Gatto Silvestro in uno spassoso cartone animato per mantenere la forsennata traiettoria sul fondo infido dell’aia. Puntò deciso verso l’albero che intravedeva sfumato e lontano milioni di chilometri attraverso la cortina di pioggia: sua figlia Emma, tenera e indifesa nel suo pigiamino giallo a orsetti sparsi, se ne stava beatamente appollaiata sul solito pezzo di tronco, i piedini
(nudi, Mio Dio !)
a cinque centimetri buoni dal terreno, tranquilla come se fosse seduta nella buffa sediolina arancione che teneva in un angolo della sua cameretta a casa. Scostandosi il ciuffo intriso d’acqua che gli scivolava in continuazione sulla fronte, Renato arrivò presso di lei tra schizzi di fango e ghiaia:
- Papissiu !!! - lo salutò la bimba tutta allegra, in una candida nuvoletta di fiato - che bello che sei qui ! -
L’uomo, senza neanche più il fiato per dirle qualcosa a caso (ad esempio che stracazzo ci fai qui sotto l’acqua, porca di quella troia ?!?) l’abbrancò al volo, girando intorno al grande ciliegio come un giocatore di rugby che cambi direzione con una finta improvvisa, e prese a dirigersi nuovamente verso la casa (e il calore e asciugamani asciutti e morbidi) con la fi glia ballonzolante nel suo abbraccio. Per la seconda volta nel giro di poco più di dodici ore, la bimbetta non sembrò particolarmente
impressionata da quel furibondo e improvviso “ratto delle Sabine”:
- Oh, che peccato - si limitò a commentare pacata, mentre lui cercava di ripararla alla meno peggio col palmo della mano aperta - sarei stata seduta lì ancora un po’… -
Coprirono la distanza che li separava dal loro traguardo in un tempo ragguardevole (battendo molto probabilmente un ipotetico record di corsa nel cortile) infilando come un proiettile la porta che una preoccupata Teresa stava tenendo spalancata:
- Vi siete bagnati ?!? - chiese apprensiva. Renato scodellò la piccola sulla prima poltrona che gli si parò davanti, girandosi verso Teresa per mostrarle, allargandolo con le mani, il maglione zuppo d’acqua. L’uomo ansimava come un bufalo a corto di fiato, i folti capelli neri incollati al volto lucido.
- Prendo qualcosa per asciugarvi - lo rassicurò lei schizzando via come un fulmine. Renato si dedicò alla figlioletta, che lo fissava divertita dal morbido abbraccio della poltrona
(non credo ci sia proprio niente di divertente in una broncopolmonite, tesoro)
prendendo a frizionarle alternativamente manine e piedini.
- Iiiihh, mi fai un super solletico !!! - ridacchiò la bimba, scuotendosi tutta. Il padre non le badò, proseguendo la sua vigorosa opera di riscaldamento… c’è qualcosa di strano… si bloccò, col minuscolo piedino in pugno, poi lo lascio cadere, afferrandole una manina. aggrottò le sopracciglia. i piedini e le manine di lei non sembravano affatto quei pezzi di ghiaccio che avrebbero dovuto essere, anzi. Avvicinò la punta del piedino alle labbra, rovesciando la bimba all’indietro come una bambola di
pezza, nel timore di averle, lui, le mani talmente fredde da non riuscire a percepirne la differenza:
- Uuuuh… i baci sui piedini no !!! - protestò Emma rossa dal divertimento, colpendo più di una volta il suo torturatore al volto col piede libero e scalciante. La temperatura corporea della piccola era assolutamente normale. Per niente gelida, e già questo era assurdo, ma per di più addirittura calda. Non bollente da febbrone, pensò uno spiazzato Renato, che comunque sarebbe piuttosto prematura, ma normale, come se l’avessi appena tirata su dal confortevole abbraccio del suo lettino.
Mentre il rimbombo assordante delle scale annunciava il ritorno di Teresa, Renato, sempre più allibito, rimise in piedi la bimba, constatando con assoluta incredulità che il pigiamino giallo era del tutto asciutto. Si afferrò il maglione sul petto, stringendo il pugno, e un rivoletto d’acqua gli scorse tra le nocche serrate. Sconcertato, infilò una mano nei capelli biondi della figlia, trovandoli come appena usciti da una passata di phon… i tuoi ti pendono sul viso come spaghetti scotti, e sei stato là
fuori un decimo del temp
o, annaspò nella sua mente un pensiero che non riusciva a darsi pace, come un insetto irritato prigioniero sotto un bicchiere rovesciato
(che cazzo significa tutto ciò ?!?)
In quell’istante la pesante coperta portata da Teresa si aprì su di loro, come un anomalo paracadute a scacchi scozzesi, avvolgendo padre e figlia in un unico, confortante abbraccio.
- Uh uh, è strabuio sotto qui ! - squittì la piccola da dentro quell’involto. Renato prese comunque a frizionarla, nonostante le proteste di Emma che evidentemente non aveva bisogno di quella premurosità, mentre a sua volta Teresa massaggiava con vigore le spalle dell’uomo.
- Renato… Emma ?!? Cos’è successo ?!? - il mezzo grido di Lucia, immobile in cima alla rampa di scale, li raggiunse ovattato sotto il plaid che emanava un piacevole profumo di lavanda. La donna si catapultò giù, imitando la dissenata discesa del marito di poco prima, lanciando si sul gruppo “frizionante” come un calciatore che festeggi un gol in un’ammucchiata con i suoi compagni.
- La bambina… che cos’ha ? - chiese ancora, facendo saettare occhiate frenetiche tra suo marito, la figlia e Teresa. Renato le fece segno che tutto era posto, mentre prendeva fiato e, soprattutto, tentava di riordinare i pensieri che cozzavano confusi come pipistrelli impazziti:
- Niente, niente… tutto sotto controllo - si affrettò a tranquillizzarla - era corsa fuori… di casa… - ci pensò su un istante, analizzando pro e contro ed eventuali obiezioni al suo zoppicante resoconto - …dall’altra… casa… l’ho vista in tempo, dalla finestra… -
La protagonista dell’episodio, chiamata in causa, sbucò fuori dall’intrico di coperta col visetto, i capelli, gli orsi del pigiama maledettamente asciutti:
- Adesso potrei avere una tazza di caffelatte ? - chiese con un sorriso sbarazzino.
- …Sono volato giù… - continuò il valoroso genitore - …l’ho tirata dentro in tempo… non si è neanche tanto bagnata
(non si è bagnata per niente, porchissima di quella puttanissima !!!)
- … tutto sotto controllo… - ripetè, molto poco convinto. - Ehi, buongiorno… problemi ? - la voce di Guido, che stava scendendo dal piano superiore in compagnia di Diamante, s’inserì nella sua tentennante spiegazione. Teresa fece segno di no con la mano, mentre registrava la presenza immobile di suo padre che osservava la scena preoccupato dalla porta della stanzetta tv. Lucia tirò un rumoroso sospiro di sollievo, accarezzando la testa della piccola sparanzata nella poltrona, al centro dell’attenzione come una imperatrice formato tascabile:
- Un giorno o l’altro penso che tirerò le cuoia per infarto… - esclamò - sulla mia lapide scrivete pure: qui finalmente giace una madre… sta bene, comunque, no ? -
Suo marito si strofinò i capelli bagnati con un angolo della coperta:
- Sì… sì, direi proprio di sì… -
- E tu… sicuro di star bene ? Hai una faccia… - chiese ancora premurosa sua moglie.
- Ok, ok… tutto ok… - si alzò in piedi con una mano aperta al centro del petto, ansimando - un po’ di affanno
(Tutto ok se qualcuno mi sa spiegare com’è possibile attraversare un intero cortile invaso dal fango senza sporcarsi neanche il mignolino, avrebbe voluto urlare, sbirciando sgomento le piante dei piedi della figlia perfettamente pulite)
non ho più l’età per questi sforzi appena alzato… e a dirla tutta neanche prima di andare a dormire… -
in quell’istante sulla porta d’ingresso apparvero Amedeo e Vanessa (col giovine che la riparava cavallerescamente sotto un enorme ombrello), gli occhi sbarrati di curiosità, seguiti dalla figura massiccia di Ina. La donna teneva tra le mani qualcosa d’ingombrante celato sotto un canovaccio da cucina.
- Buongiorno a tutti - li salutò avvicinandosi alla tavola - spero abbiate dormito bene… - tolse via il canovaccio con un gesto aggraziato, da abile prestigiatore - non sapevo se avevate abbastanza roba per la colazione, così ho fatto una piccola focaccia… -
Teresa osservò divertita la piccola focaccia, che aveva più o meno le dimensione di una ruota di bicicletta (magari di bicicletta per ragazzi, va, a voler essere obiettivi…):
- Ina, abbiamo roba per la colazione per due mesi abbondanti - la rassicurò ridacchiando - in ogni caso immagino che le briochine da riscaldare possano aspettare, fin che i miei amici non fanno fuori la tua creazione… non credo sopravviverà più di dieci minuti, d’altra parte… -
- Ehilà… che è, un barboso gioco di società di prima mattina ? - la voce stentorea di Gianni, pettinato e sbarbato con Cristina appena dietro, li salutò dalla sommità delle scale - mmh, senti che profuuumo di caffè… oh mio Dio, ma quella è una focaccia appena sfornata, all’attacco !!! -
L’assembramento nei pressi della piccola Emma si sciolse d’incanto, mentre tutti si affrettavano a conquistare posizioni attorno alla tavola. Lucia intimò alla figlia di non muoversi fin che lei non fosse tornata con scarpe e vestiti
(ma così mi bevono tutto il caffellatte !!!, protestò in dignata la piccola agli arresti poltronali)
dopodichè agguantò cappotto e ombrello per dirigersi dall’altra parte del cortile.
- Ok, se volete la colazione, che colazione sia ! - annunciò sollevata Teresa, accantonando temporaneamente pensieri e preoccupazioni. La compagnia si scatenò iniziando ad afferrare ogni cosa commestibile presente sulla tovaglia candida - chi gradisce un uovo alla coque ? -
Una selva di mani alzate salutò con entusiasmo quella proposta. Mentre Ina e le altre prendevano a rifornire la tavola di altro ben di Dio (fette biscottate, e miele, e marmellatine e burro, e ancora fette di pane tostato e triangolini di pan carrè, e porzioncine di Nutella in blister, e vari gusti di yogurt e succo d’arancia e tè caldo e almeno tre tipi diversi di biscotti e qualche frutto tanto per gradire) si scatenò un turbinare di mascelle e mani e chiacchiere a ruota libera.
- Mi passi una Nutella, per cortesia ? - chiese Vanessa ad Amedeo, ed il ragazzino premuroso gliene fece arrivare davanti al piatto una quantità industriale. Gianni si posizionò accanto alla deliziosa focaccia, che emanava un profumo irresistibile, impugnando il lungo coltello seghettato come se dovesse difenderla sino alla morte.
Di lì a poco Lucia fece ritorno nella sala, prendendo a vestire Emma che smaniava per raggiungere il campo di battaglia, e rifarsi abbondantemente del tempo sprecato.
- Ci sono i “corflei” ? - chiese educatamente a Teresa che stava transitando con un nuovo carico di latte bollente.
- Ci sono i che ? - ribattè la donna, che non aveva afferrato il concetto.
- ah già, sì… - s’inserì Amedeo sollevando la testa da un’enorme tazza di latte, con un segno candido attorno al labbro superiore, come un paio di baffoni albini - avresti dei corn flakes, zia Terry ? -
- Oh… ma ragazzi… non vi pare che ci sia già abbastanza da mangiare, senza che facciate i ma leducati a tutti i costi ? - li redarguì prontamente la loro madre. Fratello e sorella la guardarono con due occhi sgranati, come se non si capacitassero di come la loro genitrice non riuscisse ad afferrare l’importanza capitale dei fiocchi d’avena nella colazione occidentale contemporanea. Teresa tranquillizzò la platea con un rassicurante gesto della mano:
- E come no… - rispose posando al centro della tavola il bricco che teneva in mano. Varie mani vi si avventarono per farne scempio - mi ero solo dimenticata di tirarli fuori… chiedo venia… -
Emma circumnavigò la tavola, sbirciandovi sopra come un famelico squaletto biondo, arrampicandosi poi su una sedia accanto ai suoi genitori. La colazione proseguì cordiale. ad intervalli regolari, sia Renato che Lucia si ritrovavano a sbirciare di nascosto le condizioni della fi glioletta, prendendo atto con grande sollievo (e una punta insistente di inquietudine, almeno per quanto riguardava l’uomo) che la piccola miracolata pareva essere ciarliera e sorridente ed affamata come sempre. almeno
a giudicare dalla quantità di biscotti che era intenta a far sparire nella sua minuscola ma capiente bocca.
- Programmi per la giornata ? - s’informò allora un sollevato Renato, mentre Teresa tornava in cucina, rivolgendosi provocatoriamente a Gianni che stava giustiziando un’ennesima fetta di focaccia cercando di affogarla nel caffelatte. L’altro gli fece segno di attendere un secondo, mentre deglutiva rumorosamente un ragguardevole boccone, poi rispose:
- ah, per quanto mi riguarda... un interessante esperimento di mimetismo arredamentale... -
- Di mimetismo che ? - sbottò incuriosito lo psicologo. il suo interlocutore puntò un dito alle spalle di Guido seduto a capotavola:
- Mimetismo arredamentale... - ripetè tutto serio e compunto - lo vedi quel bel pezzo d’arredamento ? - indicò il comodo divano addossato alla parete - beh, ecco... io tenterò di trasformare il più possibile il mio corpo in quel divano... mi ci stenderò sopra, cercherò di assorbirne la personalità... - gli altri presero a ridacchiare, guardandosi l’un l’altro e scuotendo la testa - ...anzi, dirò di più... io sarò l’essenza stessa del divano... ad un certo punto voi penserete che non ci sia nessuno, là sopra, e
invece io sarò diventato tutt’uno con esso... ecco, a questo proposito sconsiglierei vivamente ai presenti di sedervici sopra... - strizzò l’occhio piratescamente rivolto a Diamante che lo ascoltava divertita - ...ai presenti maschi, s’intende... è ovvio che le signore saranno le benvenute... -
- Che scemo ! - lo apostrofò la moglie, scherzosamente esasperata - e daì, non vorrai dirmi che intendi poltrire per tutto il giorno, continuando ad abbuffarti... -
Lui cercò man forte negli altri allargando platealmente le mani, la bocca all’ingiù in una discreta imitazione di Robert De Niro:
- Dice a me ?! - ringhiò roteando gli occhi - quella donna, sta dicendo a me ?! Che altro dovrei fare, a meno di due giorni da Natale... dopo un pranzetto che auspicherei... ricevuto, Teresa ? ...degno di nota ? -
- Qualcosa da fare lo si trova sempre - insistette Cristina cocciuta, tra le risate divertite dei loro amici - magari a metà pomeriggio, se smette di piovere, ci facciamo due passi qui intorno, che ne so... -
Gli occhi di Gianni parvero dilatarsi fino alla dimensione di due palle da tennis:
- Due passi ? Passeggiare ?!? - esclamò fingendo uno stupore assoluto - qui in campagna ? Ma la campagna pullula di terra, e di fango, e di erba... mio Dio, la campagna é sporca ! - tirò su una gamba fino ad appoggiarla sull’angolo del tavolo, a pochi centimetri dal piatto di Guido, nel divertimento generale - e io dovrei sderenarmi questo paio di Clarks nuove di zecca solo per fare due passi ? io oggi interpreto il divano, deciso, chiuso, fine della discussione... -
Teresa fece ritorno nella sala, allungando una scatola di fiocchi d’avena nuova di zecca tra le mani imploranti dei ragazzini:
- Sbaglio o si parlava dell’incontenibile iperattività del nostro caro Ostiglia ? - chiese accomodandosi al suo posto. Renato finì di scavare col cucchiaino in un vasetto di yogurt che aveva ormai dato tutto:
- Già, come se non lo conoscessimo - commentò - vi ricordate a scuola ? ancora un pò e il preside lo insigniva del premio per le giustificazioni più fantasiose mirate a saltare l’ora di educazione fisica... -
- Mmh, è vero ! - intervenne Guido puntando il dito sull’imputato che sbocconcellava fiero un biscotto - come quella volta che ha convinto il professor Trenti che gli si stava accorciando una gamba... -
- Come, gli si stava accorciando una gamba ?!? - chiese Lucia divertita e incuriosita. Gianni si tirò su dalla sedia, mimando uno sforzo immane nel farlo, con le mani alte a placare un ipotetico pubblico osannante:
- E va bene, ve lo faccio vedere... - annunciò andando a posizionarsi in un punto della sala in cui potesse essere visibile a tutti - ...pronti, allora ? -
Si mise sull’attenti, poi prese a ruotare un’invisibile manovella all’altezza del fianco, contraendo nello stesso tempo la gamba destra verso l’alto. L’effetto ottico era tale che sembrava che il suo arto gli si stesse effettivamente accorciando:
- Ecco qui - disse, col piede destro sollevato di un paio di centimetri dal pavimento - ora bastava andare da Trenti e dirgli: professore, mica vuole farmi correre in queste condizioni... - prese a gironzolare su sè stesso, zoppicando vistosamente, come una sedia a cui avessero accorciato una gamba, tra gli applausi e le risate degli altri.
- Oh che figata ! - esclamò Amedeo, che già pregustava di offrire una sua personale interpretazione della cosa a Spiller e Dalla Pozza, al ritorno a scuola dopo le Feste -ci voglio provare assolutamente anch’io ! -
Schizzò al fianco dell’uomo, prendendo a imitarlo fedelmente, tanto che i due sembravano una coppia di buffi pupazzi meccanici caricati a molla,di diverse dimensioni, ballonzolanti per la sala. Finita l’esibizione tornarono a prendere posto accanto agli altri, nel tripudio generale. Amedeo si premurò di sbirciare la reazione di Vanessa a quella sua recente interpretazione. Una volta conclusa gli era balenata per la testa l’ipotesi che fosse una cosa piuttosto stupidotta... ma, ragazzi, volete mettere
che SPASSOSITA' ! Il sorriso divertito e benevolo della ragazzina tacitò in lui ogni possibile dubbio in proposito.
- Pà, mi allunghi una banana che l’aggiungo ai corn flakes ? - chiese il ragazzino. Renato ne afferrò una dal portafrutta, fingendo di tenderla alle due estremità:
- Certo, caro, quanto lunga la vuoi ? Mezzo metro ? Un metro è troppo ? -
- Ma no, daì, intendevo dire se me la passi - ribattè il figlio scuotendo la testa esattamente come faceva il suo genitore quando lui sparava qualche esimia stupidata, mentre sua sorella si soffocava dalle risate - la taglio a pezzetti e me li metto qui nella legnaia... -
- P-prego ?! - sbottò Teresa di scatto, rovesciando sul tavolo la tazza di caffè che aveva tra le mani.
- Oooocchio... i biscotti... mi si inzuppano ! - si disperò Gianni, prendendo a sgombrare il terreno al minuscolo fiume di liquido marrone che serpeggiava sulla tovaglia.
- C-cosa... hai detto, scusa ? - chiese ancora Teresa alzando gli occhi sul ragazzino all’altro capo della tavola, incurante della vistosa macchia che deturpava la sua preziosa tovaglia di Fiandra.
L’interrogato inghiottì una “palata” di fiocchi d’avena intrisi di latte, facendosi colare alcuni poco eleganti rivoletti sul mento:
- Fcufa ? - ripetè a sua volta, un pò inquietato dallo sguardo spiritato della donna. Si frugò nella mente cercando di stabilire quale grave mancanza poteva aver commesso, ma più che una cucchiaiata decisamente troppo abbondante di corn flakes non gli veniva in mente. Era una cosa così disdicevole?
- Cosa volevi dire parlando di “legnaia” ? - lo incalzò Teresa, fissandolo torva. Il ragazzino si guardò intorno, cercando conforto negli altri riguardo a quella situazione di cui non riusciva a trovare il nesso:
- Le... le... legnaia ?! - chiese circospetto, assolutamente certo di non aver capito bene. La sua accusatrice si animò:
- Sì, sì, un secondo fa - insistette caparbia - hai detto che volevi una banana da mettere nella legnaia... cosa intendevi, scusa ? -
Amedeo tornò a cercare man forte negli altri, che adesso scrutavano tutti zia Teresa con espressioni incuriosite (forse, non so, ma CREDO che anche loro pensino, grazie al Cielo, che è lei... quella strana, azzardò con un certo sollievo il ragazzo), poi scrollò le spalle:
- Io ? Mai parlato di legnaia... che capperolina c’entra la legnaia ?!? io ho solo detto che volevo aggiungere un pò di banana nella mia tazza ! - spiegò, certo che quella precisazione avrebbe messo la parola fine al surreale battibecco. Teresa si lasciò sfuggire una risatina nervosa e leggermente inquietante. Scrollò la testa insoddisfatta, facendo girare lo sguardo su tutti i presenti, i quali avevano momentaneamente sospeso le loro attività mangerecce per vedere dove portava quella situazione:
- Eddaì, su ragazzi... cos’è, una specie di scherzo ? - s’infervorò la donna, cercando di strappar loro una confessione che non sembravano tanto disposti a dare. Anzi, la sensazione che ne traeva era che nessuno avesse la più pallida idea di quello a cui si stava riferendo, e questo la faceva sentire terribilmente a disagio - su, spiegatemi... cos’è, un qualche tipo di tormentone tv ? Sul tipo di “asfidanken !”, il Drive in, ricordate ? O forse come quello che usa Greggio a Striscia... come fa ? ah sì, “Ciapèt” ! -
i suoi amici continuarono a fissarla con sguardi vitrei e appannati, che ricordavano quelli delle galline quando Efrem le svegliava di soprassalto nel pollaio. Uh uh, alla vedova solitaria è andato in pappa il cervello !, dicevano inequivocabilmente quegli sguardi, dovevamo prevederlo, che un anno di isolamento e stress l’avrebbero ridotta così, era MOLTO meglio una settimana bianca a Folgaria…
Questo comunicavano gli occhi dei presenti, o perlomeno quella era l’idea che davano a Teresa, neanche si fosse infilata la teiera in testa all’improvviso, prendendo a ballare tutta nuda sul tavolo (eppure io l’ho sentito due volte, non sono mica matta… una volta dalla radio, e poco fa pronunciato dalla bocca foderata di corn flakes di quel moccioso !)
- Scusa, Teresa, ma… - dall’angolo del tavolo Gianni si intromise in quell’empasse, scandendo piano le parole come temendo che il suo intervento potesse far esplodere qualcuno a caso - …io ero qui vicino… e mi pare di aver sentito che amedeo si riferisse alla sua tazza… non ha mai parlato di… di quello che dici tu… -
Teresa gli piantò gli occhi in faccia. Chiudi il becco tu che hai le orecchie foderate di focaccia !, ebbe l’impulso di sbottare, rendendosi conto all’istante dell’assurdità di tutta la faccenda. Sostenne ancora per un attimo gli sguardi simili a fucili puntati degli altri, prima di passarsi una mano sulla faccia, scrollando la testa non troppo convinta:
- Okay, okay - dichiarò tentando di imbastire uno straccio convincente di sorriso, che le uscì stiracchiato e sbiadito - cancello tutto… ho capito male io
(Ho capito male un par de piroli !, imprecò dentro di sé)
- tranquilli… fate conto che non sia successo niente… un equivoco… - i suoi amici rimasero in silenzio, probabilmente cercando di capire di quale spassosa burla erano vittime a loro volta - …sul serio… scusa, Amedeo, non volevo aggredirti… -
il ragazzino scambiò uno sguardo perplesso con i genitori, alla ricerca di rassicurazione, poi decise che quelle scuse formali potevano essere sufficienti, e si riimmerse nel pastone “blobboso” che ristagnava nella sua tazza
(anzi… nella legnaia… ah ah ah, che spasso !)
L’imbarazzo fece loro compagnia ancora per alcuni secondi, fluttuando pigro sopra la tavola mischiato ai profumi del caffè e della focaccia ormai ridotta ai minimi termini. Teresa, pur cercando in tutti i modi di impedirselo, ogni tanto scrutava con apparente indifferenza i volti degli altri, alla ricerca di un mezzo sorriso, uno scambio di sguardi complici, una strizzata d’occhio rivelatrice.
- Okay, molto bene… allora, che si fa stamattina ? - riprese vita Renato, ponendo una vivacità eccessiva in quel quesito. Suo figlio terminò di “suggere” gli ultimi rimasugli di corn flakes con le labbra incollate direttamente al bordo della tazza:
- Ieri sera Efrem ci ha promesso che ci portava in una fattoria qui vicino, dove è pieno di animali… - ricordò.
- Oh gli animali… ma è STRABELLISSIMISSIU !!! - saltò su Emma agitando i pugnetti nell’aria. Suo padre le picchiettò comicamente sulla testa con un cucchiaino:
- A cuccia tu che non sei ancora fuori pericolo “castigo”, dopo la bravata di stamattina… - la minacciò burbero. La bimba accartocciò il faccino in un’espressione assolutamente indignata, che suscitò l’ilarità nel gruppo.
- Va bene, va bene - acconsentì Renato, mentre gli occhi di sua figlia si illuminavano come se le avessero acceso dietro uno sfolgorante sole - se il buon Efrem è ancora di questo avviso, vada per la visita naturalistico-zoologica… chi fa parte del gruppo ? -
- io non voglio la visita “naturalissocolozogica”…, io voglio vedere gli anatroccoli ! - protestò Emma, incrociando le braccine e chiudendosi in uno sdegnato silenzio di protesta.
- Io ci sto… oh, gente, sarà bellissimo !!! - Amedeo si affrettò a dare la sua adesione, cercando nello stesso tempo con quel commento entusiastico di suscitare un efficace grado di interesse nella sua vicina di sedia.
- Animali ? Che bello… - commentò Vanessa, contribuendo alla ripresa del meccanismo della respirazione in Amedeo, che temeva di doversi sorbire due ore di pallosa passeggiata tra "schitti" di galline e cacche di conigli da solo, nell’eventualità che l’oggetto del suo desiderio decidesse di trattenersi a casa a far qualcosa “da donne” con le altre - vengo anch’io ! -
Guido e Diamante parlottarono tra loro, consultandosi:
- A dire il vero io avevo in mente di fare una cosa… - spiegò l’uomo.
- Non sdraiarti sul divano con me, spero ! - lo interruppe Gianni con un smorfia di finto terrore sul viso.
- Sì, ti piacerebbe - ribattè l’altro - no… è che… nella fretta, da scemo, ho portato via solo un paio di cassettine per la telecamera, e sono già agli sgoccioli… visto che di là c’è un videoregistratore, pensavo… Teresa, se non hai nulla in contrario… di riversare il materiale girato in una vhs… così almeno recupero spazio… posso, Terry ? -
- Digli di no, Teresa, così almeno la pianta di riprendermi con quell’affare cinese… - si affrettò a sbottare Cristina, mentre Guido la prendeva di mira con la telecamerina spenta e inoffensiva.
- Ti chiedo scusa, Cri - rispose sorridendo la padrona di casa - ma sotto questo tetto vige la tolleranza e la democrazia, per cui… fai quello che credi, Guido, ma non chiedermi nulla di tecnico, a parte infilare la spina nella presa… Voi, ragazze, che programmi avete ? -
- Ma… non so… - disse Lucia a nome di tutte - volevamo sentire anche te… non abbiamo intenzione di pesarti sulle spalle per tutto il tempo… -
Teresa si alzò in piedi, iniziando a raccogliere i piatti:
- Effettivamente non mi dispiacerebbe una mano per imbastire qualcosa per pranzo… - rispose - e magari due per chiacchierare esaurientemente su tutto quello che ci riguarda, vita, lavoro, amori ufficiali e non… cosa ne dite ? -
- Ah, beh, allora con mia moglie ci parli due secondi… - commentò borioso Gianni, giocherellando col pacchetto di sigarette senza osare di tirarne fuori una, “marcato a uomo” dagli sguardi severi delle “protettrici dell’aria sana”.
- Oh, bene… allora rimaniamo con te - aderì Cristina impassibile, ormai vaccinata alle battutacce del consorte. Diamante si consultò ancora con Guido:
- Se non sono di troppo, quasi quasi resto anch’io - disse poi - così ci conosciamo meglio… -
- Perfetto - concluse Teresa raccogliendo i piatti che gli altri le stavano porgendo tramite un efficace passamano - avviso per i gitanti, allora... alla mezza puntuali qui, o altrimenti pranzate col becchime delle galline... -
- La mezza va bene anche per me - ridacchiò Gianni - gradirei una sveglia soft, magari con un delicato bacino... -
- Ma vaffanbagno ! - gli rispose sua moglie, bersagliandolo col tovagliolo.
Tutti si alzarono da tavola. Sazi e soprattutto spensierati e desiderosi di passare una piacevole mattinata di vacanza. Tutti tranne, forse, una pensierosa Teresa
(assolutamente certa di aver udito una bizzarra parola fuori posto nel testo di una canzoncina natalizia e nella frase di un dodicenne divora-corn flakes)
e un perplesso Renato
(intento ad accarezzarsi distratto, mentre organizzava quella mezza gita, il maglione ancora un pò umido per la corsa sotto la pioggia)
ma in quel momento nessuno dei due aveva il tempo necessario per riflettere su quelle bizzarrìe. E tanto meno, cosa ancora più determinante, gli strumenti adatti per cavarne il classico ragno dal buco.
 

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Capitolo 14
*** Treni - Automobili - Tronchi ***


25_

Gianni Ostiglia aspirò una voluttuosa tirata di sigaretta, sbuffando poi fuori il fumo a bocca spalancata, simile ad un dragone della mitologia cinese. Era appoggiato al davanzale di una finestra, sul davanti della casa, dove correva un’accogliente e provvidenziale tettoia. Accanto a lui, seduti su una panca in legno levigata dal tempo, dal solleone estivo e dalle gelate, sua figlia Vanessa e Amedeo sedevano vicini, attendendo con pazienza che la piccola comitiva si mettesse in moto. Il buon Efrem, a quanto pareva, stava finendo qualche incombenza nella vecchia stalla, ma aveva mandato a dire che si sarebbe sbrigato prima possibile. Guido si affacciò sulla porta di casa, controllando qualche parametro tecnico sulla sua inseparabile telecamerina, mentre da dietro le sue spalle sbucava Renato, reduce da un veloce cambio di scarpe su in camera.
- Avevo una mezza idea di portare Diamante a visitare la Rocca Pisana, dopo pranzo - disse il cameramen soffiando via un invisibile granello di polvere dalla lente dell’obiettivo - sempre che qualcuno si fidi a prestarmi una macchina... -
- Già, a proposito... - gli chiese curioso lo psicologo, facendo un gesto con la mano in direzione delle auto parcheggiate - come siete arrivati qui ? -
- Taxi, e come se no ? - rispose l’uomo - un comodo, preciso, neanche tanto costoso taxi... -
- Hai l’auto in carrozzeria ? - s’informò Gianni, facendo volar via il mozzicone giusto dentro una pozzanghera.
- Non ho l’auto, più che altro - ribattè Guido.
Il pubblicitario sgranò gli occhi in un’espressione di totale incredulità, come se l’altro gli avesse confidato che amava girare con un calesse trainato da cavalli:
- Fammi capire... - esclamò corrugando la fronte - stai a Milano, guadagnerai... - lo squadrò con lo sguardo, la testa inclinata di lato... - otto, nove milioni al mese... e vai a fette ?!? -
L’altro alzò le spalle:
- A parte la tua generosa e alquanto sopravvalutata ipotesi sull’entità della mia busta paga, proprio perché sto a Milano non mi passa neanche per la testa di tenere una macchina - si giustificò convinto - hai idea di quanto costa un posto auto a Milàn ? Per cosa, poi ? Per metterci sei ore andare e sei ore a tornare dal lavoro, imbottigliati nel traffico ? - il suo interlocutore fece un gesto come a dire “Eh, esagerato...” - ...in centro non si trova un parcheggio a pagarlo oro... e poi non siamo messi male, tra bus e linee del metro arrivi praticamente ovunque... e quando devo tornare giù dai miei o, come in queste occasioni, il treno ti solleva dallo stress di traffico, nebbia, incidenti... l’unico inconveniente è quando devi elemosinare un prestito dagli amici... -
Gianni scosse la testa poco convinto, come se l’altro avesse cercato di propinargli che si viveva bene al tempo delle caverne:
- Sarà... comunque, ti presterei volentieri la mia... - borbottò, intendendo in realtà “non mi passa nemmeno per l’anticamera del buco del culo del cervello” - ...ma, sai, ha qualcosa che non mi convince... non so, forse la frizione, che non stacca bene... ci vuole il piede, bisogna conoscerla... e non mi sentirei tranquillo a sapervi in giro con una macchina non perfettamente... -
- Puoi prendere su la mia - si offrì Renato, risparmiando a Gianni quella sua palese arrampicata sugli specchi - a parte l’autoradio che non va, per colpa di Emma che ci ha infilato una Fiesta Snack direttamente nell’alloggiamento della cassetta, non ha particolari controindicazioni... -
- A proposito di macchine - saltò su infervorato il proprietario della presunta auto difettosa - oh, ragazzi, ho visto la prova della nuova Mercedes S1 55 Kompressor... beh, gente, un mostro, e quando dico mostro intendo proprio MOSTRO... 476 cavalli, mi spiego, non noccioline... in un mo to re V8 sovra-a-l-i-m-e-nt-a-t-o !!! E scusate se è poco !!! -
Guido lo guardò con sguardo smarrito, neanche avesse appena ascoltato lodi sperticate su un nuovo modello di navetta spaziale interstellare:
- Sì ?! - azzardò - e... ed è una cosa buona ? -
L’altro lo fissò come se avesse estratto l’uccello per fargliela sulle sue preziose Clarks:
- Se è una cosa buona ?!? - ripetè cercando solidarietà in Renato che non pareva nemmeno lui troppo impressionato - ragazzi, è un giocattolino che canta 132.000 euro... no, dico, vi ricordate quanto fa nelle vecchie, care lire ? - osservò i due che lo ascoltavano più per cortesia che altro, ma optò per sorvolare su questo particolare - oh, ma se potessi scegliere, la mia prefe renza cadrebbe sulla Bmw M3 SMG II... avete presente ? - si girò verso Amedeo che fissava come ipnotizzato le unghie di Vanessa dipinte di un tenue e delicato rosa - Ragazzo, ce l’hai presente ? Sì, okay, sono solo 340 cavalli... solo per modo di dire, siamo sempre nell’ambito del top del top... e ce la si può cavare con qualcosa meno di 65.000 euro... - si rese conto che la sua accorata filippica non stava riscontrando il meritato entusiasmo, e non si capacitava di ciò (ne sto parlando con altri uomini... o presunti tali... esseri dotati di testicoli che dovrebbero essere geneticamente affascinati da qualcosa che ha 340 cavalli sotto il cofano !!!) - ...prendi la tua macchina, ad esempio, Renato... sì, buona, non dico di no, meccanica decente, prestazioni senz’altro accettabili... ma perché non prendere direttamente un Espace, dico io... -
Renato ci pensò su un secondo, dando un’occhiata critica al monovolume parcheggiato:
- Perché se mi danno una Seat Alhambra come quella su cui, per inciso, quel vandalo lì - indicò il figlio seduto sulla panca - mi sale con le scarpe da calcio sporche di fango, e l’altra fanciullina insiste per ascoltare merendine al cioccolato nella mia autoradio... a tre milioni in meno rispetto all’Espace... beh... al diavolo i cavalli e il motore sovra-l-i-m-e-n-t-a-t-o !!! - concluse divertito rifacendo il verso all’amico.
- Di cosa state parlando ? - s’informò Diamante, apparendo sulla porta in compagnia di Lucia.
- Di cazzate - mormorò irritato Gianni a mezza voce. -
Di auto - spiegò Guido.
- Ah, le auto... non è che mi vadano troppo a genio... - esclamò la ragazza dai capelli arancioni - non so... hanno un ka non troppo positivo... -
- ah, hai una Ka... - fraintese Gianni, riinfervorandosi convinto di aver trovato terreno fertile (an che se di sesso sbagliato) per i suoi discorsi - beh, non è male, tra le compatte di ultima generazione è una delle meno... -
- No, hai capito male - rise Guido, alzando una mano a bloccare l’amico - lei intende un ka negativo, cioè ha un rapporto conflittuale con questo tipo di cosa... -
- Brava - intervenne Lucia, dando man forte a Diamante - ben detto... e poi se ci fossero meno macchine in giro si risolverebbero molti problemi... l’inquinamento, tanto per cominciare, avete visto che casino in giro con la faccenda delle polveri sottili che... -
- No no no, ragazze, non cominciano con ‘ste menate da no-global o prendo la macchina e vi tiro sotto - minacciò esasperato Gianni, mettendosi le mani nei capelli - e poi, eravamo qui tranquilli a fare due chiacchiere e a fumare una cicca in santa pace, occorreva che arrivaste voi a fare un comizio ? Senza offesa, ma avete niente di meglio da fare dentro, che so, riassettare, depilarvi, fare la calzetta ? - Le due donne girarono le spalle, rientrando indignate in casa, mentre l’uomo avvalorava con gesti esagerati la sua tesi: - vabbè, noto che non ci sono troppi appassionati di motori, qui... - convenne, accendendosi nervosamente una sigaretta. Guardò fisso davanti a sè: non pioveva quasi più, solo qualche goccia ritardataria strappava piccoli cerchi concentrici alle numerose pozzanghere occhieggianti tra la ghiaia del piazzale. Sotto il grande ciliegio sulla destra, stavolta imbaccuccata più che a sufficienza nel suo giubotto impermeabile imbottito, Emma se ne stava seduta placida in quello che pareva essere il suo posto di meditazione preferito (aveva stressato sua madre fino alla nausea per poter aspettare l’inizio della gita seduta laggiù, elargendo false promesse di fare la buona fin dopo Natale e altre baggianate del genere, alle quali nessuna delle due credeva). Nonostante la pioggia fosse ormai cessata, reggeva salda, con dignità tutta infantile, il suo coloratissimo ombrello dei Teletubbies.
- Potresti portartelo a casa... - suggerì Gianni a Renato, indicando il tronco così prediletto dal la figlioletta - glielo piazzi in camera, in un angolo, e credo che la renderesti felice come una Pasqua... almeno per i dieci minuti precedenti il dato di fatto reale in cui perderà interesse per la cosa... -
- Mmh... - meditò l’altro, con le braccia conserte - potrebbe non essere un’idea del tutto malvagia... -
- Non credo sia così semplice - la voce profonda di Efrem, sbucato dall’angolo della casa, li raggiunse alle spalle - intanto bisognerebbe sradicarlo... -
Gianni si voltò a fissare il contadino:
- Sradicarlo ? Vuol dire che quel coso... ha le radici ?! -
L’uomo tirò fuori dal taschino della pesante camicia di lana un pacchetto sgualcito di sigarette, infilandosene una in bocca:
- No, non esattamente - precisò, abbassandosi verso la fiamma dell’accendino che Gianni gli stava tendendo - solo che... quando è stato messo giù han fatto le cose fatte bene... deve avere una specie di basamento fatto a croce... sapete, vecchie cose di campagna fatte come si deve, destinate a durare... -
- Ma va... - borbottò ancora il pubblicitario, scuotendo la testa - non bastava posizionare là quel mezzo tronco, batterci un pò in cima e lasciare che la gravità e il tempo facessero da soli... no, hanno voluto ancorarlo... a che scopo, poi ? -
- Forse per essere sicuri che non scappasse... - scherzò Guido, mentre il contadino corrugava la fronte pensoso: - E chi lo sa ? Eppure è così, da piccoli ne abbiamo fatte di tutti i colori attorno a quell’affare... addirittura fissandovi una corda tirata da un trattore... niente da fare, fatica sprecata... -
- Che menata - commentò ancora Gianni, interessato - ma daì, non ci credo... andiamo a darci un’occhiata... -
Si allontanò dalla tettoia, facendo estrema attenzione a dove posava le scarpe minacciate da viscide zone fangose, seguito dagli altri che si erano affrettati a mettersi sulle sue tracce.
- Oh, buongiorno signori - li salutò cortese Emma quando arrivarono presso di lei - siete ve nuti a trovarmi ?
- Senza nemmeno badarla, Gianni si chinò ad ispezionare l’oggetto della loro discussione, facendo spostare la piccola appollaiata sopra.
- Oh, ma che modi ! - protestò lei con Giggio in una mano e il Teleombrello nell’altra. Gli uomini presero ad osservare il ceppo, mentre Guido documentava fedelmente con la sua telecamera. il pezzo di legno doveva effettivamente essere lì da un bel pò di anni, a giudicare dalla corteccia scura e così indurita da sembrare pietrificata dal tempo e dalle intemperie. Sulla sommità le venature del tronco si distinguevano perfettamente, intersecate da altri segni di chiara origine artificiale, così consunti da non permettere di capire se erano semplici colpi di qualche oggetto tagliente o se, al contrario, avessero un senso compiuto, magari qualche nome e data inciso dai giovanetti del luogo. Renato, ancora scosso dall’episodio del mattino, ne approfittò per alzare lo sguardo a sincerarsi se, per caso, i rami dell’albero che li sovrastava avvessero potuto in qualche modo riparare Emma dalla pioggia battente. Si grattò la testa perplesso, non trovando le ramificazioni scheletriche del ciliegio particolarmente fitte o spesse da assicurare un riparo adeguato.
- E così lei dice che non lo si smuove, eh ? - chiese ancora Gianni, appoggiando un piede sul bordo del ceppo e prendendo a spingere ritmicamente.
- Ehi, cattivo, non fare così ! - protestò la bambina guardando torvo l’uomo. il pezzo di tronco, che effettivamente sembrava conficcato nel terreno umido, sotto la pressione di Gianni dava l’idea di essere solido come uno spuntone di roccia.
- Io fossi in lei non lo maltratterei in quel modo, comunque - consigliò Efrem tirando una nervosa boccata alla sigaretta che stringeva tra le labbra.
L’altro smise di spingere, alzando lo sguardo sul contadino: - Prego ? - chiese perplesso, aggiungendo subito dopo - sta dicendo per scherzo, vero ? -
- Ovvio che sto scherzando - ribattè Efrem, tranquillizzando Gianni che comunque tolse via il piede. Emma ne approfittò per riguadagnare la posizione perduta.
In quel frangente, in ogni caso, nè Guido nè Renato, intenti a seguire quel bizzarro dialogo, ebbero l’impressione che il contadino avesse un’aria particolarmente divertita.

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Capitolo 15
*** Chiacchiere - Risate - Frutta secca ***


26_

Una volta partita la piccola comitiva di gitanti, con Renato al volante della Seat alhambra ed Efrem al suo fianco nelle inedite vesti di navigatore, e sui sedili posteriori amedeo e Vanessa, appiccicati come gemelli siamesi, accanto ad una raggiante Emma a sbracciarsi dal lunotto posteriore per salutare tutto e tutti, nella casa tornò a regnare una calma e un silenzio quasi irreali, in contrasto con l’orgia di chiacchiere e risate della prima colazione (come preannunciato, Guido era chino nei pressi
nel mobile tv intento a collegare cavi e spinotti, scambiando a tratti qualche cordiale parola col padre di Teresa, assorto in un impegnativo crittoincastro. Gianni, invece, in quel momento non aveva ancora preso posizione sul divano, ed era salito in camera con la motivazione ufficiale di recuperare un paio di riviste in cui immergersi. in realtà si poteva affermare che in buona parte dei due piani della casa regnava una suggestiva tranquillità, ma non in tutta: nel vasto ed accogliente locale della cucina le donne avevano avvicinato sgabelli e sedie al grande mobile-tavolo al centro della stanza, dan do libero sfogo a pensieri e parole, come nella ben nota canzone di Battisti. Teresa
mise in funzione la caffettiera elettrica, che faceva un caffè ben più slavato dell’insuperabile collega tradizionale, ma almeno aveva l’indubbio vantaggio di tenere sempre il liquido caldo al punto giusto.
- immagino già la risposta - s’informò la padrona di casa riponendo nella credenza le ultime cose servite per la colazione - ma qualcuno ha ancora voglia, che ne so, di un biscotto, una merendina ? -
Le tre donne declinarono fermamente l’invito:
- Per carità, Terry, non dirlo neanche per scherzo… - esclamò Cristina infilando con aria sconfortata i pollici nell’orlo dei pantaloni - non sono per niente riuscita a trattenermi a colazione, mi sono sparata tre fette di quella maledetta focaccia, oltre a tutto il resto, e guarda qua… credo di essere cresciuta di due taglie, e ancora non sono iniziati i pranzi delle Feste! -
- Ma va là, sciocca, che sei sempre in gran forma - la consolò Lucia - scommetto che riesci a portare cose di quando ancora andavi all’università… -
- Sì, come no, probabilmente un poncho per la pioggia - ribattè l’altra per niente convinta - lei invece ha una linea invidiabile… - indicò Diamante che ascoltava appollaiata su un alto sgabello - fai qualcosa di particolare, per restare così ? -
La ragazza alzò le spalle:
- Boh… no - rispose pensandoci su - beh, forse un po’ di yoga… e poi evito di mangiare schifezze… quando posso sto molto sul biologico, meglio se vegetariano… -
- Ah, vegetariano… che bel miraggio - commentò divertita Teresa tirando fuori alcune tazze in vetro - solo che dopo mi piomba in casa Ina con qualche quadrupede… o anche bipede, non è razzista ai fornelli…farcito e lardellato e cotto al forno… e solo una santa riuscirebbe a non capitolare! -
Guido si affacciò timido sulla soglia della cucina, alzando un dito come uno scolaretto diligente:
- Scusate…. - disse cortese - scusa, Terry, non è che avresti una videocassetta vuota, o che posso utilizzare? Mi basterebbe anche solo una da 180… -
La donna si grattò la punta del mento, facendo mente locale:
- Mmh, fammi pensare… - borbottò - dunque, quelle di fianco alla tv sono registrate… e non si toccano PER NESSUNA RAGiONE AL MONDO… se scopro che mi hai cancellato una puntata di E.R. ti frantumo la telecamera… -
- Magari - sibilò a mezza voce Cristina.
- Tu conservi le puntate di E.R. per l’indubbio valore scientifico del tema trattato, immagino… - le chiese Lucia con un sorrisetto ammiccante che si propagò alle altre.
- Per il valore scientifico e per quel pezzo di bono di George Clooney - ribattè l’altra scatenando l’ilarità e il consenso delle amiche. Guido pestolò i piedi impaziente:
- Sì, okay, Clooney non è da buttare via, lo ammetto anch’io - disse - ma adesso, se non vi spiace, vorrei andare avanti col mio lavoro… -
- Ah sì, scusami - rispose Teresa - allora, se apri i due sportelli che ci sono sulla destra della televisione, quelli giusto sotto all’enciclopedia dei Quindici, troverai… in mezzo al casino generale… un sacco di videocassette
(robaccia accumulata da mio marito, cercò di scacciare quel pensiero pungente e doloroso, senza riuscirvi, in cui non ci ha registrato George Clooney, e lui per me era meglio, di George Clooney… e adesso non ci sarebbe George Clooney che tenga a sostituirlo…)
…scegline una che ti possa andare bene - concluse quella frase un decimo di secondo prima che la voce le si incrinasse, tradita dal sapore salato di lacrime che le era salito in gola. L’uomo girò sui tacchi, ritornando alle sue incombenze digitali, mentre lei si voltava verso il lavello, stringendo forte le palpebre per asciugare prima possibile gli occhi lucidi.
- Okay, huuuuf - soffiò fuori un rumoroso sospiro per darsi forza, voltandosi poi verso le altre che la stavano osservando con sguardi comprensivi e carichi d’affetto - allora, chi comincia ? -
- Comincia a far che ? - chiese Cristina esibendo un’ingenua faccia da schiaffi.
- Daì, che lo sai - la riportò all’ordine Lucia seduta al suo fianco, dandole una lieve gomitata sul fianco - a vuotare il sacco... su tutto... novità, progetti, rogne... scoop... soprattutto scoop, inediti e succosi... -
Le tre donne, sotto lo sguardo divertito di Diamante, ridacchiarono sentendosi d’incanto trasportate al tempo in cui erano solo fidanzate con i tre uomini che avevano sposato, e spendevano lunghe notti insonni a fantasticare sulla vita e sul futuro (anche se nella quasi totalità dei casi questi due argomenti coincidevano col parlare di ragazzi).
- Okay... parto io - si offrì Cristina. Poi fece una cosa strana, agli occhi delle altre: si protese sullo sgabello, tirando il collo al di là della porta della cucina, a sincerarsi che il marito non udisse le sue parole. il divano era desolatamente vuoto, quindi, ancora meglio...
- Vi devo confessare una cosa... - esordì in un sussurro furtivo, sporgendosi sul tavolo - ho una relazione con uno... -
Lucia e Teresa si guardarono, del tutto incredule di aver udito quell’affermazione dalla loro insospettabile amica:
- S... s-scusa, hai d-detto ? - biascicò timidamente la padrona di casa.
- C-come una r-relazione con... con uno ? - le fece eco una strabiliata Lucia, fissandola con due occhi vitrei - uno chi ? -
La loro amica si osservò furtivamente in giro, come una spia che stesse per spifferare importanti segreti governativi:
- Uno. Un uomo... - confermò, mentre ricambiava lo sguardo assolutamente spiazzato delle altre - uno più grande di me... ha sessantadue anni... - gli occhi di Teresa e Lucia si dilatarono alle dimensioni di due piattini da caffè - ...sposato con due figli... - le mandibole delle due amiche si sganciarono dai lati del viso, ciondolando inerti verso il basso. Teresa, che si stava sporgendo per prendere la caffettiera in pirex, annaspò con la mano nell’aria senza afferrare alcunchè - ...negro bisessuale... -
Dopo quell’ultima, sconcertante informazione Cristina non riuscì ad evitare che un sorriso impertinente le guizzasse per una frazione di secondo sul viso, sufficiente comunque a svelare la sua burla perfettamente riuscita:
- Oh... ma... ma che razza di stronza senza ritegno... - esplosero all’unisono le due gabbate, le bocche indignate in due archi discendenti, mentre Diamante sullo sgabello sussultava per il divertimento - ti sembra il modo di prenderci così per i fondelli ?! -
La bugiarda si asciugò una lacrima di divertimento dall’angolo dell’occhio:
- Scusate... avete ragione... - rispose - ma era tanto che volevo provarci... - rovesciò la testa all’indietro in un’ulteriore risata divertita - oh, avreste dovuto vedervi... avevate la bocca così spalancata che quasi toccava il tavolo... adesso sì, che avrebbe dovuto esserci Guido con la sua telecamera ! -
- Mmph... sì, però io l’avevo capito, che era una menata... - ci provò Lucia alzando le spalle in un gesto di sufficienza.
- Con tutto il rispetto, Lucia, ma... non ci provare - sentenziò Diamante dal suo sgabello, mentre Cristina annuiva approvando quell’intervento - ma l’espressione che avevi credo sia ben difficile da simulare, a meno di non essere un’attrice da Oscar... -
L’accusata si allungò sul ripiano ad afferrare la zuccheriera, per prepararsi una tazza di caffè:
- Okay, okay, ci hai fregato - si arrese di malavoglia - ma stai all’occhio... potremmo andarlo a riferirlo al tuo caro maritino, e allora sono affari tuoi convincerlo che era tutto un scherzo... e in ogni caso sappi che questo tipo di fantasie spesso nascondono sotto sotto un desiderio reale, sintomo che le cose... - fece ondeggiare la mano, a significare “insomma”...
- Ha parlato la moglie dello strizzacervelli... - ribattè Cristina per nulla impressionata da quelle bonarie accuse. in quel momento suo marito fece capolino dalla sala, con un paio di riviste sottobraccio:
- Ahi ahi ahi - si lamentò osservando quella cordiale chiacchierata - e io che speravo che aveste già tirato la sfoglia per i tortellini, o anche le lasagne vanno bene, ed ora foste intente a spennare qualche grasso volatile da fare arrosto... e invece, a quanto vedo, solo una tipica partita a chiacchiere... -
- Lupus in fabula - mormorò tra sè Lucia.
L’uomo la scrutò con un’occhiata carica di diffidenza:
- Lupo che ? -
- Visto che domani è la Vigilia, oggi te le può scordare le lasagne e i tacchini al forno - tagliò corto Teresa - noi tutte in generale e le braghe di tua moglie, in particolare, ci dissociamo da questo tentativo di trascinarci in un suicidio gastronomico collettivo... per cui ti dovrai accontentare di qualcosa di più leggero... altrettanto buono, magari, ad esempio una bella pasta, ma niente di elaborato... ricevuto? E adesso smammare... come noi non ti disturbiamo nel tuo esperimento scientifico di là, così
tu rispetta la privacy di noi signore... -
- Mmh... quattro contro uno... è sleale e antisportivo - borbottò sconsolato - vada per la pasta... e adesso mi tuffo sul divano... - fece per allontanarsi, tornando poi sui propri passi - ... una cortesia... volumi bassi... non c’è niente di più deconcentrante dello starnazzare di quattro fanciulle in libertà... grazie... -
Teresa attese che l’uomo si allontanasse, indirizzandogli una smorfiaccia impertinente:
- A parte gli scherzi, Cri - disse poi, indicando con la testa la sala al di là della porta - come vanno le cose ? -
La donna ci pensò su, cercando le parole adatte:
- Mmh... in linea di massima direi bene... - si mordicchiò le labbra concentrata - ...alti e bassi, come credo succeda un po’ a tutti... forse è un po’ troppo preso dal lavoro, ma cosa volete, quando si è in proprio non si può mollare un attimo... in ogni caso, anche sentendo cosa succede in giro, direi che non posso lamentarmi... - si zittì un attimo, per verificare se quel primo resoconto, piuttosto generico, potesse soddisfare la curiosità delle amiche. Col concreto sospetto, in ogni caso, che non sarebbe
stato sufficiente.
- Oh, se è per questo in giro si sentono anche cose buone, mica vuol dire - commentò Lucia confermando  il timore di Cristina - secondo me... non so come spiegarmi... non vorrei che fraintendessi ma... - fece un giro di sguardi prima di continuare, a sottolineare che stava per dire una cosa importante - ...a me sinceramente sembra peggiorato... -
- Eccola di nuovo - sbottò Teresa notando un lieve disappunto dipingersi sul volto di Cristina - hai detto bene, Cri, a stare con lo strizzacervelli un po’ di strizzacervellite cronica la prendi, è automatico... Luci, come può affermare una cosa del genere dopo solo una cena e una colazione passati insieme? - le chiese, anche se qualcosa, da qualche parte nella sua mente, bussava con insistenza per farle notare che, grosso modo, la tesi della moglie di Renato poteva anche essere condivisibile.
- Eh no, scusa Terry, non è questione di voler fare a tutti i costi l’analisi alle persone - ribattè convinta la donna - un conto è se siamo qui tutte moine e carinerie, e allora tanto vale, o se invece l’obiettivo era parlarci chiaro... dirci tutto, come abbiamo sempre fatto... o no ? -
- Beh, ovvio, ci mancherebbe - ammise Teresa - solo che parlar chiaro non credo significhi sindacare nelle questioni personali delle altre, soprattutto quando mancano gli elementi per poter... -
- No, no, scusa Terry, va bene così - la bloccò Cristina, posandole una mano sull’avambraccio. Le dita a contatto con la pelle della donna erano fredde e secche - ha ragione Lucia, è più... costruttivo così... anzi, mi piacerebbe capire meglio cosa intendeva dire... -
Lucia soffiò nella tazza del caffè, assaggiandone un sorso:
- Uff, ancora amaro - valutò indicando a Teresa di riavvicinarle la zuccheriera - voglio dire... non era mia intenzione fare l’invadente, ma... pur in questo poco tempo, mi ha dato l’impressione, come dire, di essere un po’ troppo cinico, acidetto... diciamo poco gentile, ecco... - contrasse le labbra in un gesto di tensione - ripeto, Gianni lo conosciamo tutti, è sempre stato un po’ sopra le righe... ma appena l’ho rivisto ho avuto l’impressione che certe sue caratteristiche.... non proprio positive, sulle
quali una volta ci si è fatti due belle risate... beh, si siano accentuate. Oh, potrei sbagliarmi, ci mancherebbe... Ma, a parte la tortura continua nei confronti di Guido, storia vecchia ma proprio per questo ormai ben poco divertente... tra ieri sera e prima... scusa Cri, ma ha avuto un paio di frecciate nei tuoi confronti che se, per assurdo, Renato le facesse a me... beh, dorme nella stalla di Efrem fino al momento di tornare a casa... -
L’altra corrugò la fronte, mentre la cordiale atmosfera da sit-com americana lasciava il posto ad una tensione palpabile e molto più reale:
- Sì, beh... no, cioè... ormai so com’è fatto... - ribattè tutibante - gli vengono così, non credo che ci metta nemmeno un pizzico di cattiveria, in quello che dice... l’hai detto tu, lo conosciamo, gli è sempre piaciuto fare un po’ il gradasso, atteggiarsi... ma a casa non è così... pesante... è quando si trova in compagnia che tende a voler provocare a tutti i costi... hai visto ieri sera, come insisteva a contraddire tuo marito solo per il gusto di seminare zizzania... - strofinò il pollice sul ripiano lucido del
tavolo a cancellare l’alone lasciato dalla tazza - ...e poi, come vi ripeto, ultimamente sul lavoro deve aver avuto qualche grattacapo in più del normale, ci sono state alcune telefonate piuttosto burrascose col suo socio... - si battè il palmo della mano sulla fronte - ...mannaggia, gli auguri ai Macherio, mi è passato di mente... vabbè... comunque sì, lo ammetto, negli ultimi tempi è un po’ più irritabile e intrattabile del solito, altre volte è svagato, immerso in pensieri tutti suoi... ripeto, immagino siano
rogne collegate alla ditta... ma confido che questi giorni in relax e in piacevole compagnia ci diano una mano... -
- Oh oh oh... - fece Lucia, contrattaccando - attenzione alle svagatezze... estrema attenzione, signore mie ! L’uomo per costituzione non ha mai le testa sulle nuvole, non riesce ad essere così poetico e astratto... di solito non ci sta con la testa perché ce l’ha impegnata da qualche altra parte, magari... oh, non voglio mica dire nulla, eh... su un paio di cosce con molta meno cellulite rispetto alle nostre... -
Teresa s’infiammò, indirizzando all’altra un’espressione carica di scandalizzata indignazione:
- Lucia !!! Oh ma... oggi sei proprio priva di ritegno - e sclamò - prima l’accusi di farsi mettere i piedi in testa, e adesso... addirittura... che Gianni le metta queste !!! - agitò nell’aria l’indice e il mignolo tesi. La presunta mazziata e cornuta fece segno con le mani di abbassare i volumi:
- Oh, ragazze, piano che di là si sente tutto... - supplicò.
- E comunque tu pensa al tuo, di pollaio - continuò Teresa, abbassando la voce ad un sussurro - a tuo marito, chiuso per ore in quel suo accogliente studio con qualche avvenente cliente bisognosa di consolazione... - quella provocazione suscitò l’ilarità attorno al tavolo.
- Le pazienti di Renato sono in maggioranza delle vecchie babbione - rispose Lucia - e poi di solito sono matte patocche... e in ogni caso sto su con le orecchie... e proprio per questo dico che i mariti bisogna tenerli sempre sul chi vive... starci sotto... lo sapete, sono dei bambinoni, non è neanche quasi colpa loro... fanno un sacco di stupidaggini, solo per il gusto di soddisfare il loro immaturo bisogno di sentirsi accettati... fortuna che sono così prevedibili, grazie al cielo... -
Cristina si accomodò meglio sullo sgabello:
- Sì, sì, chiaro... solo che da quel punto di vista non esiste problema, almeno fino ad adesso... -
- O a tua insaputa - puntualizzò Lucia, bersagliata all’istante da un’ulteriore occhiataccia di Teresa.
- ...Mmh, no, credo di poter dire di essere abbastanza sicura, da quel punto di vista... tra le altre cose abbiamo finalmente deciso di vendere l’appartamento dei suoi, e vedere di trovare una casetta da qualche parte... è ancora un po’ prematuro, ma ci stiamo pensando su... seriamente... -
- Oh, ma è una cosa bellissima ! - esclamò Teresa battendo le mani - finalmente una buona notizia ! E quand’è che pensate di... -
- Mah, te l’ho detto... siamo ancora all’inizio... per di più pare che in questo momento il mercato immobiliare sia un po’ così, Gianni dice che non conviene svendere... nel frattempo ci pensiamo con calma, per chiarirci le idee... certo non un posto così, ovvio, ma qualcosa di altrettanto carino, nel suo piccolo... - rovesciò la testa all’indietro per bere l’ultimo goccio di caffè - ma adesso basta parlare di me, se no facciamo notte... ditemi un po’ di voi... -
- Giusto, Cri - convenne Teresa, che in veste di padrona di casa poteva rivestire la funzione di moderatrice - sta a lei, dottoressa Lucia... -
- Okay, okay... allora, io ho una relazione con due negri nani e, in quanto tali, superdotati... - esordì facendo scoppiare a ridere le amiche - no, scherzo... - alzò le sopracciglia in un’espressione furbetta - magari... sto ri-scherzando... Mah, cosa volete, tutto procede più che bene, e vi confesso che a volte mi ritrovo più preoccupata di questa cosa che soddisfatta, per il solito discorso di fasciarsi la testa prima del tempo... ma ogni tanto mi viene da chiedermi perché a me... come ha detto giustamente
Cri prima, con tutto quello che si sente in giro... -
- A volte quello che riceviamo nella vita è perché ce lo meritiamo - intervenne per la prima volta Diamante - nel bene e nel male... -
- Mmh, può essere - ammise Lucia - solo che forse per scaramanzia evitiamo di dirlo troppo forte a noi stessi... in ogni caso se mi lamentassi sarei una gran bella ingrata... con Renato è tutto okay, a volte credo che si organizzi per spendere più tempo con noi che non in studio... e nonostante questo il conto corrente non ne risente, anzi, e direi che la cosa non guasta... e per quanto mi riguarda il grosso nei confronti dei bambini... di Emma, più che altro, Amedeo tra un po’ credo pretenderà le
chiavi di casa... beh, l’ho fatto, e le giornate con lei sono un vero spasso. Col tempo pieno a scuola riesco addirittura ad avere un po’ di tempo per me... le piante, i miei acquerelli... un po’ di shopping...-
Tutto bello, tutto roseo, la considerazione balenò nella mente di Teresa accecante come il flash di una macchina fotografica sparato a tradimento, sai che spasso quando il confidenze-express si fermerà alla tua, di stazione ?
- Ah, a proposito - sbottò fuori tutto d’un fiato, quasi cercando di tener vivo (e ben lontano da me) quelle cordiali confessioni - scusa, Lucia, ma a parte il fatto che non ci stavi raccontando nulla di morbosamente stimolante... - ridacchiò - niente amanti nascosti negli armadi, nè storiacce di violenza e alcolismo e perversioni varie, per cui... - si protese in avanti con fare complice - non vi pare che tra l’esuberante Amedeo e l’affascinante Vanessa... beh, come dire... - picchiettò tra loro i due indici tesi, con un sorrisetto malizioso sulle labbra.
Cristina allargò le braccia in un gesto dubbioso:
- Mah... non so... non credo, sai ? Vane è ancora una bambina, e non hai mai dimostrato, fino ad ora, il benchè minimo interesse nei confronti dei... -
- Mmh, mi sa che Teresa ci ha preso - intervenne Diamante - almeno per come il ragazzino se la mangia con gli occhi… beh, è una cosa assolutamente normale, non trovate ? E soprattutto molto tenera, no ? -
- Mah, non so… onestamente non ci ho fatto caso - disse ancora la madre della ragazzina.
Lucia si allungò verso una credenza alle sue spalle da cui prelevò, nonostante l’ora e l’abbondante colazione e i buoni propositi, una ciotola di frutta secca:
- Mi spiace contraddirvi - disse pescando fuori un paio di arachidi - ma credo che mio figlio sia convinto dell’esistenza di guerrieri spaziali, robot, dinosauri… di cui per inciso sa tutti i nomi scientifici, anche se credo che alcuni se li inventi… e mostri gelatinosi venuti dallo spazio, ma di quelle cose rosa e profumate che vanno sotto il nome di ragazze non ne abbia sentore - alzò lo sguardo sui volti perplessi e ammiccanti delle amiche, riflettendoci su - voi dite che…? Ma guardate che… - si
bloccò, con mezza arachide infilata tra le labbra, mentre sul vi so le balenava un lampo di comica consapevolezza - nooo… adesso mi tornano i conti su un sacco di… di paturnie che Ame ha avuto da quando siamo arrivati… e la felpa no, e il Game-boy lo lascio in camera, e mi puoi pettinare i capelli… i capelli !, non so se mi spiego… io pensavo ad un virus intestinale, e invece voi mi dite… - si lasciò sfuggire una risata divertita - …e proprio vero che le madri sono le ultime a sapere le cose… -
- Passa qua un po’ di quelle maledette noci, consuocera… - la invitò scherzando Cristina - vorrà dire che metterò su un paio di pantaloni della tuta con l’elastico… -
- Okay, prendo un piatto per i gusci - disse Teresa scivolando giù dallo sgabello - ma teniamo d’occhio l’orologio… tra un’oretta sarà bene mettersi all’opera, altrimenti chi le sente le belve affamate al ritorno dalla scampagnata ? -
Si chinò a frugare in un mobiletto, chiedendosi inquieta come sarebbe proseguita quella partita di chiacchiere, come l’aveva definita il colorito gergo di Gianni. Se le sue amiche avrebbero evitato di chiedere anche lei conto degli ultimi tempi, in cui si erano un po’ perse di vista
(Scusate, ma più che la vista io ho perso l’amore della mia vita, pensò con una punta di rabbia e cinismo)
per pudore e sensibilità femminile, o se invece sarebbe stata costretta a trascinarle assieme a lei in un gorgo per niente affascinante di dolore e disperazione.
Non trovando risposta a quel lacerante dissidio, impiegò un po’ più tempo del normale a tirarsi su dalla scomoda posizione in cui era piegata.

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Capitolo 16
*** Animali - Farfalle - nonna vecchia ***


27_

- Iiihhhh, che schifo ! Mi fa un solletico tutto bagnato !!! - Emma si dimenò tutta, senza però osare ritrarre il palmo della manina cosparso di sale che una capretta più alta di lei  stava leccando con estrema voluttà. il recinto delle capre era solo l’ultima, provvisoria tappa di un vorticoso tour de force (uuhhh, che pelo duro, aveva commentato accarezzandone una, con molta circospezione, al centro delle piccole corna puntute, non è morbidino come quello di Giggio...) che l’aveva portata dalla stalla con le mucche alle stie dei conigli e delle faraone, con doverosa sosta presso lo stagno delle oche sino all’angusto porcile, dove una scrofa di ragguardevoli dimensioni grufolava pacifica. Suo padre ed Efrem, fuori gioco in quel massacrante andirivieni naturalistico per evidenti limiti di entusiasmo e anagrafe, sorseggiavano di buon grado un ottimo brulè offerto loro dal cordiale proprietario della fattoria che li ospitava. Renato da un lato era decisamente soddisfatto di come la piccola si stesse divertendo, ma allo stesso tempo temeva il momento, ormai quasi imminente, in cui avrebbe dovuto convincerla che quel bel gioco prevedeva anche una fine.
Poco più in là, fuori dalla portata di indiscrete orecchie adulte, Amedeo e Vanessa era appollaiati su una staccionata delimitante un piccolo spazio dove pascolavano alcuni cavalli. Il loro dialogo al momento stava languendo, dopo un poco esaltante scambio di battute generiche. E’ bello qui, aveva commentato Amedeo appena arrivati. Già, era stata la stringata risposta di Vanessa. Carini gli animali, aveva rilanciato lei, e lui ci aveva pensato su un attimo prima di re plicare con un convinto Mmh mmh. E adesso erano almeno quattro minuti che il silenzio gravava palpabile tra loro. Amedeo era conscio del fatto, decisamente distorto, che toccasse a lui trovare un  argomento su cui disquisire, ma proprio per quello la sua mente in quel mo mento era vuota e pulita come la lavagna all’inizio di un’ora di lezione. Era strano, perché lui non si era mai considerato un tipo taciturno (anche secondo l’autorevole parere di sua madre) tant’è vero che le volte in cui con gli amici si era trovato a non spiccicare parola si potevano contare sulle dita di una mano. E di solito succedeva perché erano troppo concentrati a sterminare mostri sulla playstation o a guardare qualche scena vomitevole in tv. Per il resto con i suoi degni compari il meccanismo chiacchierativo era il non plus ultra dell’efficienza, non c’era argomento o situazione che non scatenasse una tempesta di commenti, battute e disquisizioni, dalla camminata incerta e esilarante di un vecchietto alla catalogazione scientifica di quante categorie di puzze rivoltanti esistessero in natura o qual’era il cibo più buono del mondo in assoluto (la sua candidatura andava assegnata senza il minimo dubbio al purè). Osservò con interesse esagerato l’erba asfittica e giallastra sotto i suoi piedi, ringraziando il cielo che erano nel pieno della stagione invernale e perciò non c’erano fiori che forse lei si sarebbe a spettata di ricevere in omaggio, in quella che tecnicamente veniva considerata dal suo amico Spiller come una merdolinata (piuttosto che tirar su un fiore per una smorfiosa puzzolente, avrebbe sentenziato convinto il temerario Spiller, mi mangio un panino con muco di cane)
D’altro canto, però, quello o qualsiasi altro diversivo lo avrebbe tolto d’impaccio, temporanemente almeno, da quel black out che gli stava contagiando cervello e lingua. D’improvviso, proprio quando il timore che lei tornasse verso gli altri per evidente annoiamento si faceva strada dentro di lui, una folgorazione lo colse all’improvviso. Certo, ma era ovvio... come diavolo aveva fatto a non pensarci prima ?!? E dimenticarsi l’argomento cult del momento, nel quale peraltro lui era un luminare riconosciuto e indiscusso? Si voltò verso la ragazzina che stava tormentando una scheggia mezza staccata dal palo del recinto:
- Hai visto “il Signore degli anelli” ? - chiese (la sua sicurezza era tale che pareva che quella domanda terminasse con un punto esclamativo, anzichè con una più adeguata intonazione interrogativa... nel senso che la frase non era affatto formulata come Scusa, non è che per caso hai visto il Signore degli anelli, vero?, bensì come una vera e propria constatazione, un dato di fatto incontestabile... del tipo Beh, direi che è ovvio che tu abbia visto il Signore degli Anelli!)
La risposta che la ragazza gli diede, inaspettata e imprevedibile, lo sconvolse più che non se lei gli avesse intimato: chiudi il becco e baciami con la lingua...
- A dire il vero, no - replicò cortese Vanessa, mentre Amedeo udiva un bizzarro fragore di qualcosa che andava in frantumi da qualche parte dentro di sè. Si aggrappò forte al palo orizzontale del loro precario trespolo, incapace di accettare quel crudele verdetto (incapace di mandar giù l’ipotesi, a dirla tutta, che potesse esistere in tutto il globo terracqueo, a parte forse qualche depressa regione dell’Africa Nera, un essere senziente di età compresa tra gli otto e i sedici anni che non avesse visto quel capolavoro fondamentale della cinematografia mondiale!)
- Avevamo una mezza idea di andare a vederlo - continuò la ragazzina, assolutamente ignara delle pugnalate, simboliche, ma non per questo meno dolorose, che stava vibrando nell’anima del giovane seduto accanto a lei - ma poi la Silvia e la Francesca hanno detto che una loro cugina ha detto che era un pò troppo violento, e abbiamo deciso di andare a vedere il “Diario di Bridget Jones”...
(ah, ecco, pensò Amedeo quasi sollevato, è stata tutta opera di queste due smorfiose strapuzzolenti, che hanno sicuramente fatto leva sull’animo gentile di Vanessa... ah, ma se potessi averle per le mani...)
...che poi fra l’altro è stato molto ma molto carino
(non me lo chiedere...)
si fanno un sacco di risate, ma è anche molto romantico
(ti prego, Dio, fa che non me lo chieda !!!)
l’hai visto, per caso ? -
Amedeo si voltò in direzione della sorellina, impegnata a chiacchierare amabilmente con una mucca che spuntava curiosa con la testa da un recinto, così da poter celare la smorfia di sofferenza che aveva dipinta sul volto.
- Ah... io... dici ? - annaspò alla ricerca di una risposta diplomatica e inoffensiva - no, no... non ho avuto occasione... ma ho presente, ho visto il trailer in tv
(sì, parole sante, hai visto il trailer un pomeriggio a casa di Dalla Pozza, ed eri assolutamente d’accordo con lui quando ha dichiarato che era una merdolinata bella e  buona, e che piuttosto di vederlo avrebbe degustato un panino farcito con qualche sostanza di cui adesso ti sfugge la composizione, ma che di sicuro non era marmellata di albicocche...)
- poi, sai com’è, l’han tolto quasi subito dalle sale... -
- Ho capito - commentò lei, e il ragazzino non riuscì a capire se ci fosse stato un qualche tipo di sottinteso particolare in quella risposta.
Lei continuò: - E com’è ? E’ bello ? -
- C-cosa ? - borbottò lui colto alla sprovvista. A cosa capperolina si stava riferendo ?!?
- Questo film - precisò - il “Signore degli anelli”... -
Il ragazzino ancora una volta avvertì un indesiderato dissidio interno lacerargli lo spirito. Che le dico? Come si può rispondere ad una domanda del genere? Era come se qualcuno ti avesse chiesto com’era la Gioconda di Leonardo, o un tramonto sul Grand Canyon (su quello aveva visto un documentario sul canale del National Geographic), o ancora la tua squadra del cuore che vince un derby all’ultimo minuto... Esistevano parole adeguate alla descrizione? Qual osa di più iluminante ed
esauriente di un “bello”, che poteva andar bene anche ad un episodio di Pippi Calzelunghe ? L’azzardato accostamento tra le valorose imprese della Compagnia dell’anello e le disavventure di una ragazzina con le trecce (probabilmente matta da legare) che viveva con una scimmia e un cavallo bianco, suscitarono in lui un brivido violento.
- E’... è... - balbettò - beh, è da vedere... -
Silenzio. il brontolìo labbroso di uno dei cavalli nel recinto. Emma in lontananza che strepitava come un ossesso perché pretendeva di prendere in braccio una mucca.
- E di solito, cos’altro fai ? - riprese curiosa Vanessa. Lui avrebbe voluto rispondere che sterminava draghi e esplorava misteriose giungle equatoriali e progettava razzi per andare e tornare da Marte in due giorni:
- Beh... studio... - fu il desolante compromesso che gli uscì - e dopo mi trovo coi miei amici (mi trovo a sparare fantastiliardi di stupidaggini, per l’esattezza, ma questo era un dato che preferì omettere), gioco a calcio da attaccante... qualche domenica pomeriggio al cinema... -
Si ammutolì, rendendosi conto con sgomento che i suoi argomenti sembravano essere al quanto limitati. Non esauriti, intendiamoci, era ben diverso... se per caso al posto di quella ragazzina, col nasino deliziosamente all’insù tempestato di lentiggini color caffelatte, ci fosse stato un moccioso degno compare di Amedeo, questi non avrebbe avuto nessuna difficoltà a sciorinare una lista di cose che sarebbe durata fino al tramonto. Decise di ricorrere all’unica arma efficace a sua disposizione, e cioé al classico "rivoltamento della frittata":
- E tu ? - ribattè con tutta la disinvoltura di cui era capace, come se fosse stata una domanda che capitava a fagiolo. Lei si animò:
- Oh bè, un sacco di cose - cinguettò - a parte lo studio... che non è che sia esattamente al primo posto delle preferenze... mi vedo con le amiche... Franci e Silvy, come ti ho detto (sì, che ti costringono ad andare a vedere merdolinate romantiche) chiacchieriamo, andiamo in centro, un salto da Mac Donald... -
(Beate voi, riflettè sconsolato il ragazzino, mia madre non vuole neanche che mi ci avvicini, al Mac... dice che se mangio un cheeseburger distruggo un pezzo di foresta amazzonica... e Dio sa se ho mai capito come capperolina può succedere...) e poi ho le mie lezioni... il piano, anche se è un pò palloso per via di tutto quel solfeggio... e soprattutto danza (danza... smorfiose in calzamaglia col velo delle bomboniere attorno alla pancia, un’ennesima megamerdolinata secondo il personale ed intransigente Corano di Spiller e Dalla Pozza, ma a lui, stranamente, non sarebbe per niente dispiaciuto poter assistere a qualche graziosa evoluzione della ragazzina che gli stava a fianco...) la nostra insegnante dice che sono una delle più brave, nel mio corso... -
Silenzio, nuovamente. Amedeo con la coda dell’occhio notò che suo padre dava un’occhiata pensierosa all’orologio. Ahia. Tempo scaduto, probabilmente. Peccato, perché se ne sarebbe stato seduto lì per un altro pò, magari tre o quattrocento anni o giù di lì. Con lei accanto, si capisce.
- Magari, se ti va, qualche volta ci si potrebbe vedere - propose Vanessa con una naturalezza e una semplicità che fecero avvampare all’istante il viso del ragazzo. Ragazzi, questa è una tipa con le palle!, fu il suo cortese ma sentito commento mentale. Cercò di replicare, ma al momento sulle sue labbra sembrava essersi dato una passata di Pritt attaccatutto come rossetto, per cui si limitò a deglutire rumorosamente e a far cenno di sì con la testa - ...e, perché no, andare a vedere questo film di cui dici - continuò lei - sempre che non ti rompa rivederlo... -
Per la seconda volta nel giro di dieci minuti, Amedeo fu costretto ad aggrapparsi al palo della staccionata come un naufrago che s’imbatta in un provvidenziale pezzo di legno galleggiante. La combinazione letale formata dall’ipotesi del suo film preferito unito alla ragazza... preferita (beh, sì, tecnicamente poteva affermarlo con tranquillità, e senza passare da sdolcinato.... era un dato di fatto, tra tutte le ragazze che conosceva, e ne conosceva abbastanza, anche se con alcune era alquanto dura
conceder loro l’appartenenza alla categoria, Vanessa era quella che lo intrigava di più, di conseguenza...) risvegliò nel suo stomaco un migliaio di farfalline addormentate, di cui lui peraltro ignorava l’esistenza, che presero a svolazzare isteriche tutte assieme, mentre la sua testa si riempiva di qualcosa che poteva assomigliare al gas usato al luna park per gonfiare i palloncini, ma dieci volte più potente... al cinema con lei, si ripetè incredulo... fianco a fianco, nel buio della sala, magari con i gomiti che ogni tanto si sfiorano ca sualmente... magari pescando i pop corn dallo stesso secchiello (ehi, gonzo a spasso, è OVVIO che devi insistere per offrire tu e per prendere un unico secchiello...  isto che abbiamo parlato di danza, ti immagini il balletto di dita che s’intrecciano ad ogni tuffo nei pop corn ?). Quell’ipotesi gli suscitò un fremito che era la sensazione più vicina ad una reazione sessuale che avesse mai avuto fino a quel momento. Non sapendo neanche bene lui da dove, trovò il coraggio di voltarsi a guardare la ragazza. Lei lo stava fissando con la testa appoggiata alle braccia conserte, in attesa della sua riposta, e l’impressione che dava era che stesse sorridendo con tutto il volto, non solo con le labbra. Amedeo capì in fondo al suo cuore tambureggiante che se mai ci fosse stato al mondo un momento ideale per recitarle la frasetta poetica
(Conservo con cura, l’arsura che ho di te, dolce creatura)
era quello che stavano vivendo in quell’istante. Intorno a loro non esisteva più nulla, nè l’aria gelida della mattinata dicembrina, nè le grida entusiaste di Emma che aveva rinvenuto un uovo sotto una balla di fieno, nè un cavallo impertinente che aveva affondato il muso in una parte del corpo alquanto intima della sua compagna equina (Amedeo, che un buon gra do di infarinatura in certe cose lo aveva ricevuto dai discorsi assolutamente privi di peli sul la lingua dei suoi due compagni di banco, pregò
con tutto il cuore che Vanessa non voltasse la testa), esistevano solo loro, e il recitare quelle splendide parole avrebbe potuto avere un effetto magico di cui lui non capiva ancora bene le conseguenze, ma che lo attiravano irresistibilmente.
All’improvviso, una goccia traditrice lo centrò giusto in un occhio, strappandogli un gemito di bruciante fastidio, seguita da altre sue sorelle sempre più numerose ed insistenti:
- Oh cavoli, no, diluvia un’altra volta ! - esclamò Vanessa liberando le lunghe gambe dall’intrico di pali del recinto
(Oh no, non proprio adesso !)
afferrandolo per un secondo ad un braccio - su, vieni, mettiamoci al riparo... -
Una volta arrivati di gran carriera sotto il riparo fornito dall’ampio porticato della fattoria, Renato li dirottò nella stalla adiacente, con la consegna tassativa di impedire a Emma qualsiasi iniziativa che potesse in qualche modo attentare alla tranquillità ed all’incolumità dei placidi animali (oltre naturalmente a quella di sua figlia, che peraltro riusciva a cavarsela senza grossi problemi). L’uomo rifiutò con cortesia una sigaretta offertagli da Efrem, che commentò positivamente quel diniego, e un ulteriore generoso giro di brulè, in modo da essere certo di riuscire a ricondurre la comitiva a casa e non, ad esempio, dentro uno dei fossi che costeggiavano le stradine di campagna. Il dottore aveva avuto una piacevole sorpresa nella compagnia del contadino (a priori si era immaginato una scena muta forzata e alquanto imbarazzante), scoprendo qualità dialettiche e colloquiali, venate da un humour sottile e pratico, del tutto insospettate. Quell’uomo gli piaceva, col suo modo saggio e tranquillo di affrontare la vita, forgiato dai ritmi millenari e immutabili della terra. Dava la concreta impressione di potersi fidare di lui, e la paterna protezione nei confronti di Teresa che traspariva in ogni suo riferimento, accrescevano quella positiva sensazione.
- Certo che è strana questa mania di Emma di andare a tutti i costi a rifugiarsi sotto quella pianta in cortile... - commentò Renato tirandosi su la lampo del pesante giubbotto - devo dire che non ha mai manifestato, in passato, attaccamenti così testardi a qualche oggetto... sì, d’accordo, sembra inseparabile da quel suo gatto di peluche, ma in realtà spesso e volentieri lo dimentica da qualche parte, e non ne fa certo una malattia... invece con quell’albero... piazzarsi là sotto addirittura rischiando
un’infradiciata... -
(in pigiama e piedi nudi, e com’è che l’ha sfangata ?)
Il suo interlocutore parve pensarci su alcuni lunghi istanti:
- Mmh, forse non tanto strana come sembrerebbe, a pensarci bene... - rispose - i bambini fanno di queste cose... arrivano in un posto in cui la preponderanza di adulti ha già... preso possesso, diciamo, degli spazi... le camere sono state assegnate, la cucina è esclusiva delle cuoche, la sala territorio comune... così si ritagliano uno spazio che sentono tutto loro... e quel ceppo ai piedi del ciliegio sembra suscitare un’attrazione irresistibile nei bambini... a prescindere dalla temperatura stagionale che consiglierebbe molto di più una bella poltrona davanti al focolare... -
- Ha letto un trattato di relazioni psico-comportamentali infantili, recentemente? - sbottò divertito Renato, ancora una volta piacevolmente spiazzato dalla padronanza di linguaggio dell’altro (a dirla nel cinico modo Ostigliano, pensavo che non fosse nemmeno a conoscenza di un termine come “preponderanza”...), oltre che dalla pertinente analisi di quell’episodio.
Il sanguigno contadino si lasciò scappare una convinta risata cavernosa:
- No, mio Dio... proprio no - rispose - è che ho più esperienza che anni, ormai, e di ragazzini ne sono girati sempre un sacco, nel nostro cortile... -
Renato notò qualcosa di piccolo e rosa sfrecciare per un attimo nella penombra della stalla al di là dell’aia, e immaginò fosse sua figlia che aveva appena scoperto qualche altra imperdibile “chicca” agreste:
- Anche lei quand’era bambino ci andava a giocare ? - chiese ancora all’uomo che stava al suo fianco, anche se la domanda reale che gli danzava sulla punta della lingua era grosso modo: lei ce lo farebbe giocare, un bambino, là sotto ?
- Oh no, noi no - esclamò Efrem forse con una punta di precipitazione, come se volesse togliersi di torno quel quesito così diretto - ai nostri tempi era diverso... - si torse le dita delle mani grosse come salsicce - ...e poi di solito quello era un posto riservato agli anziani, specie nelle afose giornate estive... sa, non esistevano ancora diavolerie tipo condizionatori d’aria e, se esistevano, non erano certo alla portata della gente del luogo... e all’interno delle case, per quanto costruite con muri massicci e
spessi, nelle giornate più calde si boccheggiava... in certi momenti l’aria sembrava addirittura “ferma”, e si aveva la sgradevole impressione di respirare con il naso e la bocca tappati da uno straccio bagnato d’acqua tiepida... - Renato trovò che quella descrizione rendeva perfettamente l’idea al punto che, a scapito del fiato che gli si trasformava in vapore candido ad ogni respiro, si sentì quasi soffocare - ...e in quei periodi, a meno di non relegare i nostri vecchi nelle cantine, tra salumi appesi
e casse di bottiglie polverose... che non ci sembrava per niente dignitoso... restavano quegli angoli di pace e di frescura come l’albero in fondo al cortile... - si grattò i capelli crespi e candidi - non so se fosse l’ampia chioma ombrosa, o perché la pianta era posizionata in un punto geografico particolare, ma si era sicuri che un refolo di brezza, lieve ma efficace, ti veniva a trovare ai piedi del massiccio tronco... -
- Mmh, interessante - commentò il medico convinto - questo significa che prima o poi... tra un bel pò di anni, glielo auguro, non che volessi dire che lei... ma insomma, il diritto a prendere il fresco seduto là sotto sarà un’opportunità per niente sgradevole... giusto ? -
Una strana espressione rabbuiata transitò sul viso sereno del contadino, come una rapida nuvola di passaggio che oscuri per un attimo la luce solare:
- I-io, dice ? - chiese con un imbarazzo che Renato faticò a decifrare 
(ho detto qualcosa di male ?)
- ...no, no... non credo di aver voglia di impigrirmi là sotto... non dopo aver investito una discreta sommetta in un ventilatore a due velocità, l’estate scorsa... - si esibì in un risatina a quella battuta di spirito che gli uscì simile ad un sogghigno - ...e poi forse non sono stato preciso, non le ho detto che il posto sotto quell’albero era riservato tradizionalmente alle donne... sì, capisco che lei possa pensare a sciocche abitudini campagnole... - Renato scosse la testa bonario, per dimostrare che non gli era
nemmeno passato per la testa - ...ma, cosa vuole, dalle nostre parti anche le cose apparentemente bizzarre hanno ancora un loro significato, e dei valori che non ci piace perdere... per cui forse mia moglie Ina si godrà un giorno il fresco sotto quelle foglie... o la nostra amata Terri, glielo auguro con tutto il cuore... per intanto mi pa
re che la piccola Emma abbia deciso di monopolizzare il ceppo per il tempo restante qui presso di noi... -
Renato, affascinato da quei racconti, sbirciò l’ora distrattamente: le undici e trentacinque. Avvicinò le mani a coppa attorno alla bocca, rivolgendosi ad Amedeo e Vanessa che chiaccheravano seduti su alcune balle di paglia appena dentro la grande stalla:
- Ame, tra un quarto d’ora al massimo si torna a casa ! - comunicò - dov’è tua sorella ? -
Emma sbucò immediatamente da una piccola costruzione adiacente la stalla, sotto la scorta benevola del vicino di Efrem che li ospitava, e che era caduto anche lui inesorabilmente preda del fascino candido e travolgente di quell’esserino di quasi-sei-anni
(buongiorno signore, io mi chiamo Emma e ho quasi-sei-anni, aveva esordito la piccola al loro arrivo, tralasciando misteriosamente per una volta il suo doppio cognome, uuh, che barba lunga che ha, dev’essere molto vecchio... le posso chiedere quanti anni ha ?)
Tra le manine stringeva con una delicatezza assoluta un minuscolo anatroccolo che, non si sa se vi si trovava bene o se era solo paralizzato dalla paura, ma pareva del tutto a proprio agio.
- Dici che lo posso tenere in camera sulla mensola ? - supplicò la bimba alzando leggermente le mani unite in direzione del padre. Renato fece segno di no con la testa, ridacchiando:
- Quel paperotto ha bisogno di stare in campagna, e dalla sua mamma - le spiegò paziente - sulla mensola diventerebbe triste e infelice - la piccola appoggiò  delicatamente una guancia sulla testina pelosa dell’animaletto, quasi a confortarlo - ...e tua madre farebbe diventare molto infelice me... - concluse l’uomo, strappando una risata sussultante ad Efrem che osservava quella scenetta.
- Ieri stavo dando un’occhiata a tutte quelle vecchie foto che Terry ha attaccato sulle pareti della sala - riprese Renato, desideroso di ascoltare ancora qualche interessante aneddoto dal suo compagno - in molte appare una vecchina minuta, vestita di nero... una sua parente ? -
Ancora una volta qualcosa, sotto la superficie di cordialità del volto dell’uomo, parve oscurare la sua espressione. Si tormentò nervosamente il massiccio collo strizzandone la pelle tra le dita:
- Oh no - esclamò - era
(la “nonna vecchia”)
Sara, la nonna di Tina... la bisnonna di Teresa, per capirci... Terri l’ha anche conosciuta, negli ultimi tempi della sua vita... essendo la persona più anziana della casa, per un lungo periodo il posto sotto il ciliegio le spettava di diritto... - non disse altro, pestolando i piedi sul terreno ghiacciato.
- E là sotto, cosa faceva ? - insistette Renato, mentre in testa gli passavano immagini di vecchi filmati di vita rurale, in cui le donne erano sempre intente a sgusciare piselli piuttosto che a spennare qualche grasso volatile.
- Parlava con la gente - rispose l’uomo spiazzando l’altro - gliel’ho detto prima, qui in campagna i valori che si assegnano a cose e persone sono diversi da quelli della società industriale... - si tamponò la fronte con un grosso fazzoletto, anche se la temperatura sotto il portico si confaceva poco ad una sudata - e l’esperienza delle persone anziane era una risorsa preziosa, che aumentava man mano che si andava in là con gli anni... si diventava una sorta di memoria storica... non ha idea di quante
volte gli amministratori locali sono venuti a chiedere informazioni a nonna Sara su questioni riguardanti la genealogia dei paesani, e anche situazioni patrimoniali, accordi di mezzadria... un tempo i volonterosi lavoratori dei campi avevano un pessimo rapporto con documenti e carte varie, e anche adesso non è che ne andiamo matti... ma la parola e una stretta di mano valevano ancora come il più affidabile dei contratti... e gli anziani del luogo erano depositari nel vero senso della parola di tutto quello che accadeva nei dintorni, sia privato che pubblico... -
- Non l’avevo mai vista sotto questa prospettiva... - commentò Renato rapito da quei racconti.
L’altro continuò: - ah, poi c’era un altro aspetto, che forse le farà storcere il naso, vista la sua importante professione - notò l’espressione dell’uomo farsi ancora più interessata - ma anche questa era prassi quotidiana... il medico del paese... medico condotto, si diceva, giusto?... era una figura al quanto rispettata,e pure un pò temuta... nel senso buono del termine... ma la tendenza era quella di non rivolgersi a lui... a non disturbare il “dottore”, come lo si chiamava con assoluta deferenza, per le stupidaggini di tutti i giorni... era considerato una figura a cui appellarsi solo nel caso in cui la situazione si fosse rivelata decisamente seria... difatti il più delle volte il malcapitato rischiava di lasciarci le penne, se i familiari prolungavano troppo la decisione di consultarlo... ma per i piccoli malanni quotidiani, qualche ferita o una brutta tosse, ognuno si arrangiava da solo, con rimedi forse empirici ma il più delle volte efficaci, che adesso sono stati persino rivalutati al punto di potersi acquistare in quelle... come si chiamano...erberie ? -
- Erboristerie - lo corresse Renato.
- Mmh... sì, giusto. Dove ti fanno pagare fior di quattrini metodi e ingredienti che si trovano fuori dalla porta di casa, nell’orto o nei campi... - ridacchiarono insieme di quell’assurdità - e naturalmente quale miglior depositario anche di queste secolari ricette naturali, se non i nostri anziani che ne avevano visto, e sperimentato, di tutti i colori ? Così la gente del luogo veniva a trovare Sara Secco per esporle i propri problemi, piccoli o grandi che fossero, e lei aveva una parola gentile per tutti, di conforto e speranza, anche nel malaugurato caso non fosse in grado di consigliare una soluzione specifica... -
“Una specie di fattucchiera in positivo”, pensò Renato, senza avere il coraggio di dirlo ad alta voce.
- In effetti è da questo che nei secoli passati si è formata la credenza delle strìe, o delle anguane, a seconda della zona geografica - spiegò ancora Efrem, come se fosse riuscito assurdamente a leggergli nel pensiero - alla luce di quello che le ho detto è abbastanza facile svelare il meccanismo... delle donne molto anziane... un tempo la vita sana e tranquilla dava ancora i suoi generosi frutti in fatto di longevità... che di solito vivevano in catapecchie fuori mano, per essere più possibile a contatto con i
boschi in cui reperivano tutti quegli straordinari prodotti della “farmacia naturale” che Madre natura ci offre senza tanto andare a manipolare geni e schifezze del genere... e con quelli preparavano i loro infusi, le loro... -
- Pozioni magiche ? - azzardò l’altro.
- Già, ma magiche solo perché i cont adini ignoranti che si rivolgevano a loro non conoscevano la funzione e l’uso di comunissime piante officinali, o ne avevano perso il ricordo... e quindi il rivolgersi a queste vecchie donne, solitamente vestite di nero perché vedove, non sempre cordialissime per via della vita comunque dura che  facevano, che ricavano i loro preparati in capaci calderoni scuriti dall’uso e dal tempo... in cui peraltro facevano anche deliziose polente, ma sempre calderoni da
streghe erano... beh, ha aiutato la credulità popolare a creare miti e leggende... -
- Io starei ad ascoltarla per ore, sa ? - gli confidò Renato sinceramente ammirato. Efrem si esibì in un sorriso imbarazzato seppur carico di soddisfazione:
- E io racconterei vecchi aneddotti per tutto il giorno - ribadì, indicando poi il suo orologio - ma mi spiacerebbe rinunciare ai manicaretti che avranno sicuramente preparato le ragazze in cambio di un secchio di becchime per uccelli... -
Sulle prime Renato non decifrò quella battuta, poi scoppiò a ridere divertito:
- Oh mio Dio, ha ragione - esclamò rendendosi conto dell’orario - Ame, Vanessa, in carrozza che si torna a casa !!! - tornò a rivolgersi al contadino al suo fianco - pensa che il suo ospitale vicino possa prestarci una rete, o delle cavezze da cavalli, per catturare quella che tra un secondo si trasformerà nella più imprendibile delle creature presenti in questo posto... - si mosse verso la stalla - ...altro che i conigli ! -

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Capitolo 17
*** Brazil - Perquisizione - Calo di peso ***


28_

- … un grande negozio di prodotti naturali, quasi una specie di piccolo supermarket… - stava spiegando Diamante - cibi macrobiotici, verdura biologica… un po’ di erbosteria… dalle parti dei Navigli… -
- Ah, ho capito - rispose Lucia - ma… è tuo ? Sei la proprietaria ? -
La ragazza scosse la testa color arancio, ridendo:
- Oh no, magari - ribattè - diciamo che tecnicamente potrebbe essere considerata una specie di cooperativa, di associazione… in realtà la cosa è leggermente diversa, nel senso che facciamo parte… come potrei spiegarvi… di un gruppo, composto da numerose persone, che sta portando avanti un’esperienza comune… di ricerca personale, di meditazione… abbiamo anche una fattoria giù in Maremma, vicino a Capalbio… un posto bellissimo, dove andiamo regolarmente, a rotazione… diamo una mano, ci sono vigne, e orti… e poi si organizzano vari corsi, biodanza, hata yoga, reiki, espressione gestuale, corporea… insomma, ci si diverte… -
- Detta così sa molto da Carlo Verdone in “Un sacco bello”… - commentò la linguaccia impertinente di Lucia - ops, scusa… senza offesa, anzi… in realtà anch’io sono molto interessata a queste cose, specialmente alle tematiche ecologiste… -
Diamante agitò le mani, in segno di diniego:
- Oh no, non preoccuparti, sono abituata a suscitare questo tipo di reazione - la rassicurò con un sorriso cordiale - siamo noi i primi a renderci conto che ad occhi esterni potremmo passare per una setta di qualche tipo, ma te lo assicuro, non siamo fanatici stile Hare Krishna o simili… te l’ho detto, è gente normale, che ha una certa visione comune della vita, tutto qua… -
- Mmh, dev’esser bello, però - intervenne Teresa - ma ora, secondo le regole di questo nostro privatissimo tribunale dell’inquisizione, oltre a quello che fai, devi dirci in particolare cosa ci fai, qui… -
- In che senso ? - ribattè l’interrogata.
- Nel senso che… - precisò l’altra con un mezzo sorrisetto malizioso - voglio dire… anzi, vogliamo dire… tra te e Guido… non so se rendo l’idea… -
Diamante scoppiò a ridere:
- Ah, ho capito ! - esclamò sollevata - chissà che mi credevo… comunque la risposta è no - un’ulteriore risatina divertita le scappò fuori - mio Dio, assolutamente no… anche perché lui ha già una mezza storia iniziata da poco… mmh, la boccaccia che ho, non sono per niente affari miei ! Comunque, ci siamo conosciuti ai concerti del venerdì sera in un locale sull’alzaia del Naviglio Grande… e poco prima di Natale mi ha chiesto se mi andava di accompagnarlo qui da voi… visto che giù in Toscana non ci si trovava perché stanno facendo dei lavori di ristrutturazione, eccomi qua… e a conti fatti devo ammettere che è stata una scelta per niente malvagia… -
- Grazie - rispose cortese Teresa. L’altra continuò:
- No, no, non lo dico per formalità… si sta veramente bene qui con voi… e poi questa casa… la sento così piena di… vibrazioni positive, di energia… - alzò la testa come in ascolto di un qualcosa che poteva udire solo lei - …non so, non vorrei sbagliarmi, ma ho come l’impressione che ci sia stato un grande dolore, qui, che però può essere attenuato dai pensieri positivi di tutte le persone che si vogliono bene… l’amore è una delle forze più straordinarie dell’universo, sapete ? Non avete idea
di quali portenti può realizzare… cose che addirittura potrebbero sembrare impossibili razionalmente… -
La casa piena di dolore…, pensò irritata Cristina, fissando torva la tipa, e grazie tante!
- Ma… voglio dire… - esclamò invece Teresa, decisamente più colpita, per ovvie ragioni, dalla frase della ragazza - …Guido… non ti ha detto niente ? -
Diamante osservò il volto improvvisamente pallido e sgomento della padrona di casa, realizzando di aver detto qualcosa che non andava:
- D-detto niente su c-cosa ? - indagò scandendo le parole con estrema prudenza - mi ha solo chiesto se volevo accompagnarlo da una sua amica che era un pezzo che non vedeva, per tutta una serie di motivi… ma perché, ho detto qualcosa di sbagliato ? -
Nello stesso istante, mentre l’atmosfera nella cucina tornava a precipitare nuovamente, come una folle vettura su delle montagne russe emozionali, Gianni Ostiglia uscì fuori da un sonno leggero con un lieve sobbalzo. Restò immobile per alcuni istanti, cercando di realizzare dove si trovasse, se nel suo letto di casa o da qualche altra parte, poi riconobbe la sala di casa di Terry. Qualcosa lo pungeva insistente al fianco sinistro: infilò la mano tra l’addome e la spalliera del divano, recuperando una
copia un po’ sgualcita di Capital. Sul suo petto, spalancato come un uccello piatto e freddo spiaccicato al suolo, era posato il numero di Gente Viaggi (speciale Brazil) che stava sfogliando al momento di appisolarsi. Sbirciò l’ora: quasi le undici e mezzo. Dalla cucina proveniva ancora, grazie al cielo in modo discretamente soffocato, il brusìo di sua moglie e le altre impegnate a spettegolare su tutto e tutti, in prevalenza mariti e figli. Ancora troppo presto per mettere qualcosa sotto i denti, valutò pensieroso, e ormai troppo tardi per sonnecchiare un altro pelo in maniera soddisfacente. Di lì a poco sarebbero rientrati gli allegri gitanti, e le urla dei bambini avrebbero dato la palata definitiva sulla tomba della quiete casalinga. Che fare, allora ? Sul tavolino accanto a lui c’era un qualcosa che poteva assomigliare ad un portacenere (dato che in quella casa non fumava nessuno, né in vita né tantomeno passato a miglior vita, doveva trattarsi in realtà di un prezioso soprammobile, ma se non ce lo scrivevano sopra…) e a lui venne l’impulso di godersi una buona sigaretta. Lo frenò il concreto sospetto che il naso di Lucia Anelli fosse molto più efficiente di un sofisticato rilevatore di fumo, e la prospettiva di un battibecco natural-salutistico appena sveglio non lo attirava troppo. Ma d’altro canto era così piacevolmente intorpidito dal morbido abbraccio del divano, che l’idea di mettere il naso fuori dal nido caldo della casa lo entusiasmava ancora meno. E quindi, che fare ? Tirò su la rivista patinata che gli dormiva sul petto, osservando per la centesima volta la grande foto di una spiaggia di sabbia bianca, con rigogliose palme che si specchiavano nell’acqua trasparente, e una più piccola in cui una fanciullina in tanga, con due tettine grandi come susine, e senza dubbio altrettanto dolci, gli sorrideva mettendo in mostra una fila di denti candidi, da pubblicità del dentifricio. Ci vediamo tra molto poco, piccola !, la salutò richiudendo il giornale che peraltro aveva letto da cima a fondo almeno due volte. incrociò le braccia dietro la nuca, contando distrattamente le lunghe travi scure del soffitto: certo che erano ben sprecate le potenzialità di quel posto, considerando l’attuale boom di agriturismi e locande di campagna, per un’unica vedova in gramaglie… Mah, era proprio vero che chi aveva pane scarseggiava a denti… Lasciò cadere quel pensiero, trovandolo effettivamente inutile, visto che per quanto lo riguardava di lì a pochi giorni lui avrebbe avuto pane, denti, sole, mare, fighe (e analgesico puro, stando ai racconti dell’esimio Tazio) e di tutto di più. E che i poveri umani intrappolati nelle nebbie e nel gelo della pianura padana… beh, che si fottessero…
Già, ma intanto come riempire quei momenti così pallosi e insignificanti ?
Fai un saltino su…
Mmh, non malvagia come idea, ma non è ancora mezzogiorno…
Eh, allora ? E’ un piacere, mica un farmaco che devi prendere ai pasti, no ?
Sì, ma… così, come concetto…
Il concetto è che ti stai rompendo i coglioni mentre tutti gli altri fanno le cose che più aggradono loro…quindi lo scrupolo morale è una cosa da senzapalle, direi
Mmh, già già, si rispose drizzandosi a sedere, e poi è o non è Natale per tutti ? Forse che il diritto di divertirsi ce l’hanno solo gli altri ?
Parole sante, vecchio mio…
Si tirò su dal divano, diretto verso le scale, gettando un’occhio nella stanzetta tv. Guido stava dando aria alla bocca seduto di fronte all’anzianoide svagato, impegnati in qualche cazzo di discussione su libri o stronzate del genere. Salì furtivo i gradini fino al piano superiore: il corridoio era piacevolmente deserto, e dava una rilassante sensazione di quiete e intimità. Transitò davanti alla porta semiaperta della camera di Teresa, bloccandosi a buttar dentro uno sguardo: tutto in perfetto ordine, il grande letto matrimoniale rifatto (si sentirà persa, tutta sola dentro lì…), su una scrivania in legno un computer spento, accanto a pile di documenti e fogli vari. Aguzzò le orecchie per captare eventuali rumori dal piano terra. La casa era silenziosa e tranquilla. Entrò nella stanza dell’amica, osservandosi in giro, esaminando il libro posato sul  comodino. Carte in tavola… Agatha Christie, rimuginò, maggiordomi assassini e detective ciccioni… uguale perdita di tempo… Dalla sommità del libro una stupida testa di giraffa con due occhi a palla lo fissava insistente. Cazzo guardi, tu ?
Sempre col radar uditivo aperto alla massima ricezione (Tranquillo, è praticamente impossibile salire quelle scale senza un concerto sinfonico di cigolìi e strepiti…)
si avvicinò alla scrivania ingombra di fogli, scartabellandone alcuni distrattamente: testi da impaginare, testi da correggere, bozze da rileggere, il lavoro di impaginatrice di Teresa doveva essere di una vivacità da strapparsi i capelli… Passò davanti a una finestra, osservando fuori: la stanza era situata sul lato opposto a quella occupata da lui e la moglie, rispetto al corridoio, e da lì si poteva godere della vista del cortile e della casa dei contadini dirimpetto. Con la coda dell’occhio scorse un movimento alla sua sinistra, in corrispondenza del grande albero dove la piccola di Renato aveva la mania di andarsi a rintanare. Girò la testa in quella direzione: per un attimo ebbe come l’impressione di vedere una figura, piccola e nera, accoccolata ai piedi del ciliegio, ma un istante dopo, osservando meglio, si rese conto che era un gioco d’ombre contro il tronco scuro.
Continuò la sua perlustrazione, dirigendosi verso il piccolo bagno privato. appeso sopra lo stipite della porta c’era un inutile coso fatto di conchiglie e pezzetti di legno. Lo sfiorò con le dita
(sdlen, fece il sonaglino)
affrettandosi a bloccarlo subito dopo, nell’assurdo timore che il fioco scampanìo emesso potesse attirare l’attenzione degli altri occupanti la casa. Anche la stanzetta da bagno era di una pulizia e ordine ammirevoli, e ben poco stimolanti. Sulla mensolina sotto il grande specchio file di bottigliette e boccette con tutte quegli impiastri che le donne si buttano su a palate, e poco altro. Tornò sui propri passi, attraversando la camera e risbucando nel corridoio. Di fronte a lui, la porta (chiusa) della stanza di Guido e miss Pel-di-carota
(chissà se ha arancio anche la patata…)
potenzialmente molto più stimolante. Ci pensò su un attimo, sempre con le orecchie tese verso il basso. Poteva andare tranquillo, la tipa era impegolata nel gineceo, e Guido al reparto geriatrico. Allungò la mano verso la maniglia, abbassandola con cautela
(ops…ma ?!… che razza di sbadato, ero convinto che fosse la… scusa… scusa scusa scusa)
e socchiudendo la porta. Come previsto, la stanza era deserta e silenziosa. Vi scivolò dentro, lasciandosi uno spiraglio alle spalle. Il letto, matrimoniale, era stato rifatto alla perfezione, cancellando così eventuali tracce di forsennato fic-fic notturno. Sul comodino di destra c’era una spazzola da donna, e un piccolo fazzoletto a tenui fiorellini blu, ripiegato con cura. Su quello opposto, il cellulare di Guido, una confezione di caramelle alla menta consumata per metà e un libro. Tutti gran lettori prima di dormire, commentò, e poi dicono che in Italia l’editoria è in crisi… Si avvicinò ad esaminare anche quel volume. La copertina, di un giallo solare, raffigurava una bambina bionda nell’atto di gridare di gioia, a braccia spalancate, e il titolo, stampato a grandi lettere rosse, recitava “Voci di Pace”.
Da John Lennon al Dalai Lama, da Madre Teresa a Fabrizio De Andrè, da Bertolt Brecht a Giovanni Paolo II,
(non di meno…)
c’era scritto dove di solito era riportato il nome dell’autore e, più sotto, Suggestioni, parole, preghiere e canti da tutto il mondo e di tutte le religioni.
Che razza di megastronzata sarà mai questa…, si chiese sfogliando a caso le pagine. Aveva tutta l’aria di un’accozzaglia inutile e strapallosa di brani di libri, testi di canzoni e frasette e poesiole stile bigliettini dei baci Perugina, e scorrendole con gli occhi lui ebbe netta la sensazione che i suoi gloriosi testicoli gli scivolassero lungo l’interno dei pantaloni, rotolando sul lucido parquet in legno. Questo qui sarà anche capace di declamarle qualche finocchiesca poesia in ginocchio sul letto, ma di sicuro non se la trivella di certo, la tipa…
Decise di lasciar perdere e dirigersi verso occupazioni decisamente più costruttive e soddisfacenti, quando occhieggiò il borsone semiaperto sulla poltroncina dal lato del letto occupato da Diamante.
Mmh, solo un’occhiatina, why not ?, canticchiò mentalmente avvicinandosi quatto quatto. Allargò la cerniera del borsone, sbirciandovi all’interno con occhio critico: maglioni coloratissimi, pantaloni di velluto, sciarpine orientali… mmh, a prima vista nulla di particolarmente stimolante, niente reggicalze in pizzo, per capirci, o vibratori doppi, né confezioni giganti di vaselina… che delusione… Vi cacciò dentro una mano, frugando come un bimbo addetto all’estrazione dei numeri della lotteria, con un’espressione furbetta sul viso. Tirò su due paia di mutandine da donna, perfettamente linde e bianche, senza il minimo fronzolo peccaminoso… Bah, sembrano quelle che porta mia figlia…, commentò sconsolato (intendiamoci, non che lui fosse così depravato da rovistare nel cassetto della biancheria di sua figlia, ci mancherebbe… è che stando in casa gli erano capitate sott’occhio più di una volta, sull’asse da stirare o impilate sul letto in attesa di essere messe a posto)
Non resistette alla tentazione di strofinarsele contro il naso. Il tessuto candido emanava un lieve profumo di bucato e sapone (probabilmente la stessa idiotissima marca di quello della figlia), per niente eccitante.
Le ricacciò nelle profondità della borsa, girando i tacchi e uscendo dalla stanza. Proseguendo lungo il corridoio, si arrestò un secondo di fronte alla porta chiusa della stanza di Renato e Lucia, poi proseguì scuotendo la testa: se quelle erano le premesse, meglio risparmiarsi un ulteriore, sconfortante sopralluogo di assorbenti e schiuma da barba… Entrò in camera, dirigendosi verso la sua borsa abbandonata in un angolo. Mentre rovistava nella tasca laterale, col naso effettuava dei brevi, nervosi sospiri,
in un gesto istintivo, assolutamente non cosciente. Estrasse il sacchettino tenendolo tra due dita, osservandolo distrattamente mentre si rialzava. Ma ?!? Guardò meglio, strabuzzando gli occhi, alzandolo in controluce contro la finestra. Possibile che ? Gli diede una leggera scossa, picchiettandovi sopra con le dita della mano libera. Poteva anche sbagliarsi (più che altro se lo augurava), la luce grigiastra nella stanza era un pò ingannevole, ma il livello della polverina bianca gli sembrava decisamente
inferiore rispetto alla quantità che aveva in mente (e che pensava di ricordare bene).
L’alone gessoso che indicava il confine tra usabile e usato era sospettosamente spesso, come se qualcuno vi avesse attinto con generosità. Ma... questa mi pare una stronzata, rimuginò. Più facile che le sue assunzioni fossero state un pò più abbondanti del solito, nell’euforico clima generale di fe sta. Di certo era così
(Non posso neanche pensare che qualcuno l’abbia trovata, primo, e per di più ci abbia ficcato la proboscide dentro...)
quindi, anche se non era ancora a rischio di trovarsi a secco, forse era era il caso di starci un pò più attento... Però però, borbottò afferrando la custodia di un cd che aveva casualmente portato su dall’auto e che era più che perfetto come superficie d’appoggio, ormai che siamo qui...
S’infilò il tutto nella tasca posteriore dei pantaloni, uscendo nel corridoio e dirigendosi verso il bagno. La discrepanza tra la dose di analgesico che pensava di avere e quella effettiva lo disturbava lievemente, come il pensiero di una bolletta da pagare o di una multa beccata per divieto di sosta, e mentre si chiudeva la porta alle spalle
(occupè, madames e monsieurs...)
decise che sarebbe stato il caso di riporlo in luogo più discreto e inaccessibile.
Ben detto, ci penserò su.
Tra un pochino...

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Capitolo 18
*** Sonnolenze - Sveglie - Sparizioni ***


29_

Teresa finì di risciacquare la grande insalatiera, che aveva tenuto per ultima nel secchiaio per via delle dimensioni, osservando la distesa di stoviglie e pentole posizionate a testa in giù su vari canovacci, a ricoprire l’intera superficie del pur vasto tavolo della cucina. Il pranzo era terminato da poco e, come annunciato, era stato semplice nella composizione seppur molto gradito dai suoi ospiti. Come primo aveva optato per un ottimo risotto con i funghi raccolti da Efrem, in sostituzione della pastasciutta ventilata a Gianni in mattinata, e come secondo si era limitata a riversare sulla tavola un sacco di cose buone e spicce, da una deliziosa sopressa che mandava un profumo da acquolina in bocca istantanea a vari formaggetti, a tutta una parata di sottoli e sottaceti, peperoni, pomodorini,carciofi e mille altri ancora, che Ina produceva in gran quantità. Il tutto supportato da ceste di pan biscotto.
Oh, una specie di picnic indoor, aveva sbottato il solito Ostiglia appena giunto attorno alla tavola imbandita, però ad occhio il suo stomaco non era sembrato deluso dalla faccenda. Buona parte del pranzo era sta to monopolizzato dagli entusiastici racconti della piccola Emma che, tra anatroccoli da accarezzare (oh, sai mamma, che il papà stava quasi per lasciarmene portare a casa uno!, aveva precisato, mentre da dietro le sue piccole spalle un premuroso Renato si affrettava a tranquilizzare l’allarmata consorte, facendo segnacci che significavano grosso modo: tua figlia parla con lingua biforcuta...), mucche che hanno dei buchi del naso ENORMI e un maiale grosso grosso che sapeva una puzza terribile, lasciavano poco spazio ad altri argomenti. Ogni tanto un euforico Amedeo sparava qualche baggianata, un paio delle quali a onor del vero abbastanza carine, e poi lui e Vanessa ridacchiavano complici
(allora c’è qualcosa, sotto, pensavano divertite le quattro donne osservandoli)
come se fossero a conoscenza di qualche segreto tutto loro. a metà pranzo Guido fece il solito giro a tradimento con la telecamera, tra le inascoltate proteste di Cristina ed una dichiarazione semiseria di Gianni, che minacciò di adire le vie legali denunciandoli per manifesto attentato alla linea e alla salvaguardia del fegato. Tutto questo lo farfugliò con la bocca piena di soppressa e pan biscotto, che sputacchiava fuori in una nuvola di briciole, scatenando l’ilarità dei presenti e la schifata reazione di Lucia che si era involontariamente trovata sulla traiettoria degli sputacchi. Corrado Fornaser piluccava tranquillo dal proprio piatto, decisamente taciturno, ma a Teresa, che lo teneva sott’occhio a tratti, il comportamento del padre non sembrava particolarmente anomalo (naturalmente dentro la testa della donna era in corso una furibonda  battaglia per schiacciar giù tutta una sgradita parata di preoccupanti pensieri, nel corrispettivo mentale di un bambino crudele che stermini sotto i piedi una brulicante colonia di formiche) e il pranzo scivolò via nella consueta cordialità.
- Metti via adesso tutta questa roba ? - chiese Cristina affacciandosi sulla soglia della cucina, indicando la distesa di stoviglie messe ad asciugare. Le amiche  naturalmente si erano fatte in quattro per darle una mano a riassettare, mentre gli uomini sorseggiavano un buon caffè e un bicchierino di grappa nella sala. Teresa fece segno di no con la testa:
- Più tardi, c’è tempo - rispose - Guido e Diamante sono andati ? -
- Sì, hanno appena preso su le chiavi della macchina di Renato... han detto che ci vedremo verso fine pomeriggio, e che non faranno tardi... -
La padrona di casa si stiracchiò, strofinandosi la faccia accaldata:
- Non so dove abbiamo trovato la voglia di muoversi subito dopo quella mangiata... - commentò - ...e quella bevuta... ogni volta mi riprometto di darmi una calmata, ma poi quel diavolo di Renato è sempre lì pronto a riempirti il bicchiere, e con pane e sopressa mica puoi bere acqua del rubinetto... -
Non me ne parlare - ribattè l’altra divertita, soffocando un mezzo sbadiglio - Lucia ha già dato forfait, è salita dicendo che se non la vediamo per le sei di avvertire la polizia... - ridacchiò - ...io direi  che prima di essere così drastici sarà il caso di provare a farla rinvenire noi... E io credo che la seguirò a ruota, anche se non era mia intenzione incartarmi nel letto, poi lo so che mi alzo come un relitto umano, ma proprio non ce la faccio... han fatto bene gli altri a muoversi subito, così almeno si
svegliano fuori... - si appoggiò pigramente allo stipite - tu che intenzioni hai ? -
Teresa si asciugò le mani umide:
- Ah bè, un saltino su lo faccio anch’io. Do un’occhio alla posta, e poi magari leggo un pò - fece una smorfia buffa - lo so, sono conscia che ciò comporterà che dopo mezza pagina starò ronfando a bocca spalancata... che vuoi farci, spero solo di non disturbarvi russando troppo forte... - la sua amica rise di gusto - i ragazzi ? -
Cristina fece un gesto con la testa ad indicare verso l’esterno della casa:
- Beh, Emma... indovina... -
- No... ancora là sotto ?! -
- E dove se no ? -
Teresa sbirciò fuori dalla piccola finestra sopra l’ampio secchiaio:
- Gli piace proprio, quel posto - commentò - il tempo com’è ? -
- Imbronciato, ma non sta piovendo... e non fa neanche tanto freddo. Un inverno così, insulsetto... -
- Già, ed Emma appena arrivati ha voluto che le giurassi che avevo carote in casa... sai, come naso per un pupazzo di neve... - mimò il gesto ruotando le dita all’altezza del viso.
- Sì, di fango, se va bene - ribattè la sua interlocutrice scuotendo la testa - che ci sia da fidarsi, a lasciarla là fuori ? -
L’altra le fece segno di non preoccuparsi:
- Ina è una specie di efficientissimo cane da guardia, e dalla finestra della sua cucina non le sfugge nulla - spiegò - ed Efrem non sta fermo un attimo, è sempre avanti e indietro tra stalla e cortile... penso che possiamo stare tranquille... -
- Bene - concluse Cristina rassicurata - per cui l’unica preoccupazione restano i due piccioncini... si sono imboscati da qualche parte, e anche se anagraficamente si possono considerare ancora dei ragazzini... beh, sai com’è... cuore di mamma... speriamo bene, anche se il piccolo Anelli è decisamente un buon partito, a sentire il resoconto economico della madre... Non riesco più a tenere gli occhi aperti, striscio fin su in camera... a più tardi... -
Teresa salutò l’amica, ultimando alcune piccole incombenze nella cucina. Dopodichè passò in sala. Renato e Gianni stavano discutendo animatamente di qualcosa, probabilmente profonde divergenze sull’operato del governo, e di suo padre scorgeva la sommità della testa da dietro una poltrona in saletta tv. Lo raggiunse, posandogli una mano sulla spalla:
- Papà, vado un pò su in camera - gli disse - tu resti qui ? -
L’uomo sollevò la copia della Settimana Enigmistica che aveva posata sulle ginocchia:
- Finisco un pò qui - rispose - ma è facile che vada anch’io a fare un pisolino... ci vediamo dopo, allora... -
Teresa si chinò a baciargli i capelli pepe e sale, aspirando di proposito l’odore dell’uomo, che le diede una stretta al cuore di nostalgia e commozione, poi si tirò su:
- Okay
(se accendi la tv tieni basso, le venne l’impulso di raccomandargli, ma lasciò perdere)
buon pomeriggio, intanto... -
Ritransitò accanto ai due uomini a capotavola, facendo segno a Gianni, che stava sbraitando sul fatto che le sinistre non erano in grado di garantire stabilità al Paese, di moderare il volume. L’altro non le rispose, però perlomeno seguì il suggerimento. La donna salì di sopra, chiudendosi la porta della camera alle spalle. Si avvicinò al pc che troneggiava sulla scrivania, premendo il tasto di accensione, e mentre il computer svolgeva le rituali ticchettanti operazioni di avvio ne approfittò per infilarsi una comoda tuta da ginnastica. Verificò se c’era qualche nuova e-mail, trovando solo una cartolina elettronica speditale da un fornitore (un buffo babbo natale saltellante ripeteva con voce un pò metallica Merr-rry Krrrist-maz, Merrr-rry Krrristmaz) e la solita inutile comunicazione pubblicitaria del server a cui era collegata. Vabbuò, nessuna
nuova buona nuova
, si disse spegnendo il monitor. Si sdraiò sul letto stiracchiandosi pigra, prima di afferrare il giallo dal comodino. La sveglia accanto all’abat-jour la informò che erano le due e quattordici. Ponderò un attimo se era il caso di puntarla a qualche ora, ma lasciò perdere, confidando che gli strepiti di Gianni, sopratutto se ri-affamato, o le risate di Emma e dei ragazzi prima o poi l’avrebbero svegliata. Nell’eventualità (ah ah, che bella stupidaggine) che si fosse appisolata. Sfilò via la lunga giraffa segnalibro, afferrandola per le minuscole cornine per appoggiarla accanto a sè, nella parte libera del letto (dalla parte di Carlo, no ? O hai problemi a dirlo ? Fuori dalla mia testa !). Si immerse nelle peripezie di Hercule Poirot che cercava di scovare l’assassino di una tipa appassionata di oggetti antichi e preziosi, tentando così di chiudere fuori dalla porta malinconie e depressioni.
Riaprì le palpebre, che le erano calate sugli occhi come un pesante sipario teatrale, restando per alcuni secondi inebetita, con la tipica sensazione di chi non ha la minima idea di quanto è rimasto nel mondo dei sogni. Beh, poco male, per quello bastava ruotare la testa e chiederlo all’efficiente sveglia. La osservò, sbattendo più volte gli occhi, per dissipare la sonnolenza, vischiosa come nebbia, che le attanagliava la mente. E soprattutto, una volta inquadrata la posizione delle lancette dorate,
per dare una mano al cervello ad ACCETTARE il responso che queste le stavano rimandando.
Era pazzesco, di più, era assolutamente impossibile (ma molto ma molto reale, sempre che la vista non le stesse tirando un bello scherzetto) ma quella cianfrusaglia ticchettante, acquistata per poche sterline in una bancarella di Portobello Road, sosteneva sfrontata che fossero le otto e venti. Balzò su a sedere, come se una molla dentro di lei si fosse improvvisamente rilasciata, annaspando per cercare di trovare un nesso a quella bizzarrìa temporale. Che diavolo significa che sono le otto e venti ? Le otto e venti Di CHE ?! Dalle finestre la luce che filtrava, appena un po’ più grigiastra di quando era salita in camera, dimostrava in maniera inequivocabile che era ancora pieno giorno. Per cui era decisamente escluso, a parte ogni tipo di assurdità irrazionale, che fossero le venti e venti. E d’altro canto, per lo stesso motivo (anzi, sarebbe stato ancora più inaccettabile ipotizzare che avesse dormito sino al giorno seguente, senza che nessuno dei suoi ospiti si fosse premurato di salire a vedere se era viva o morta) era estremamente improbabile che fossero le otto del mattino. O no ? Per cui… per cui afferrò quell’insensato strumento di misurazione del tempo, scrutandolo come fosse un incomprensibile manufatto alieno, e scuotendolo con delicatezza. La sveglia ticchettava caparbia e imperscrutabile, insistendo ad aver ragione. Si alzò in piedi, socchiudendo la porta per sporgere la testa nel corridoio, in ascolto. La casa era immersa nel silenzio, ma quello non era affatto un dato  rilevante, visto che buona parte degli ospiti era già mezza in coma ancora prima di aver preso il caffè.
Scese alcuni gradini della scala: la tavola era desolatamente deserta, dei novelli Camillo e Don Peppone, che aveva lasciato a capotavola a sorseggiare grappa bianca e a inscenare roventi comizi politici, rimanevano solo due bicchierini vuoti. Scese nella sala, prendendo atto che anche suo padre doveva essersi diretto verso lidi più confortevoli, abbandonando la Settimana Enigmistica sulla poltrona di fronte al la tv. Dunque, cercò di riflettere, i miei ospiti hanno ceduto alle tentazioni di materassi morbidi e caldi plaid, ma questo non spiega affatto il fatto che la mia sveglia segnava… Si bloccò, senza osare voltare la testa in direzione della pendola sulla parete, per l’assurdo timore che il quadrante le confermasse l’anomala incongruenza cronologica. Facendosi forza, e ripetendosi nel contempo di essere meno assurda, si costrinse a darci un’occhiata: l’orologio a muro NON diceva affatto che erano ormai le venti (o le otto) e trenta, ma la cosa non la riconciliò affatto con i suoi confusi pensieri. Le lancette della pendola infatti stavolta sostenevano che erano le due meno un quarto. Già più accettabile, ad essere onesti, visto che fuori era chiaro e c’è solo una possibilità, nell’arco delle ventiquattr’ore, che ciò coincida con le due o giù di lì. Per cui era pomeriggio, fuori da ogni dubbio, solo che a quanto pareva circa mezz’ora PRIMA di quando si era coricata. Dopo un rapido controllo alla cucina, deserta come una scuola la domenica mattina, afferrò il giubbotto dall’attaccapanni in entrata, sbucando nel cortile. Sotto il ciliegio sul limite del campo, della piccola Emma nemmeno l’ombra (e questo particolare le infilzò una pungente spina d’ansia in gola, come
un acuminato amo nelle fauci di un malcapitato pesce). Attraversò l’aia, bussando con discrezione alla porta della cucina di casa Iotti. Attese pazientemente, ma  dall’interno nessuno la invitò ad entrare, così si decise a farlo da sola. La cucina, la sala e le altre stanze del piano terra erano desolatamente vuote
(bah, questa è proprio bella)
e una disagevole sensazione la sollecitò a farsi sentire:
- Ina ! - chiamò, pur conscia di disturbare il riposo di suo padre e, probabilmente, degli altri - Efrem !!! -
 Le pareti e i mobili della casa la osservarono in silenzio, senza che nulla o nessuno replicasse al suoaccorato appello. Sentendosi alquanto importuna (e anche leggermente inquietata) salì con circospezione le scale che portavano al piano superiore, affacciandosi alle stanze dei ra gazzi (niente ragazzi qui, né la piccola Emma né tantomeno - grazie a Dio - amedeo e Vanessa allacciati in un rovente bocca a bocca), a quella di suo padre (idem con patate, e la cosa non aiutò certo il battito del suo
cuore che sembrava essersi posizionato appena sotto il mento) ed infine, dopo aver bussato a lungo, nella camera da letto dei padroni di casa. Di tutti loro, nessuna traccia. Tornò da basso, uscendo nuovamente nel cortile. Accanto alla parete esterna di casa sua erano parcheggiate le auto di suo padre e di Gianni, quindi era escluso che fossero partiti tutti per un’estemporanea gita fuori porta. Si strinse nel pesante giubbotto, rendendosi conto all’improvviso che il freddo si era fatto pungente, come se
la temperatura fosse precipitata di colpo. Un po’ più consona al calendario, d’altra parte. Fece ritorno in casa, prendendo la sofferta decisione di andare a disturbare Lucia o Cristina, che sapeva per certo essere beate nei loro letti, per farsi dare man forte nel risolvere quella inesplicabile sparizione.
Considerato che il sagace Poirot non è al momento disponibile, celiò cercando di infondersi un po’ di sano ottimismo. Sfilò accanto al mobile su cui era posizionato lo stereo, sfiorandolo col palmo della mano, avendo notato con disappunto che lo ricopriva qualche inde siderato granello di polvere. Più si spolvera, più se ne formano, si disse, riflettendo su uno dei più grandi misteri irrisolti dell’umanità, almeno di quella parte che si occupava delle pulizie di casa. Arrivò davanti alla porta della
camera di Renato e Lucia, realizzando solo in quel momento che l’uomo poteva aver raggiunto la moglie dopo l’animata chiacchierata con Gianni e temporeggiò nel decidere se era il caso di disturbarli. Optò per il sì, pur conscia del ri schio di passare per paranoica, bussando con delicatezza e augurandosi nel contempo che i due non si fossero fatti prendere dalla romanticità del luogo (detto in soldoni, di non beccarli im pegnati in una sana attività fisica). Dall’interno, in quella che sembrava essere diventata una poco affascinante consuetudine, nessuno rispose. Che faccio ? Apro non apro apro non apro… aprì, inscenando un rumoroso e diplomatico accesso di tosse, sentendosi un po’ idiota nell’istante in cui realizzava che il letto matrimoniale non ospitava un bel niente (nemmeno, ringraziò il cielo, un rovente numero tratto dal kamasutra degli psicologi)
(dove diavolo sono finiti tutti ? Cos’è, uno scherzo di carnevale con largo anticipo ?!)
Lasciando da parte ogni scrupolo, sfrecciò nel corridoio piombando nella camera da letto di Cristina e Gianni con la stessa delicatezza di un’irruzione della polizia. il fatto di trovare il letto della coppia vuoto e ordinato, neanche fosse in esposizione nella vetrina di un negozio d’arredamento, non la sconvolse più di quanto lo fosse già. Avanzò nella stanza deserta, con la gola stretta da qualcosa che assomigliava molto ad una mano ghiacciata, sedendosi sconsolata sul bordo del letto. Ora la cosa
sembrava diventare decisamente preoccupante, dove dia vo lo si erano andati a nascondere tutti ? E soprattutto, perché ?
L’agitazione che fino a quell’istante l’aveva sorretta l’abbandonò di colpo, lasciandole un senso di spossatezza che le fece venir voglia di abbandonarsi sul copriletto. All’improvviso si rese conto che il suo respiro ansimante si stava trasformando in candide nuvolette di fiato. Si tirò su il colletto del pesante giubbotto: e adesso cosa stava succedendo ? La temperatura nella stanza stava rapidamente precipitando, come se il riscaldamento si fosse spento all’improvviso (e una perturbazione di origine
siberiana fosse capitata alla chetichella sopra la regione). Sconcertata, si avvicinò ad uno dei caloriferi sotto le finestre, verificando con sgomento che emanava calore. anzi, scottava addirittura, solo che se lei si allontanava di un passo, perdeva tutto il suo riscaldante potere. Avvertì le lacrime, avanguardia di una crisi isterica che riteneva vestigia di un orrendo passato finito da tempo, cercare di avere la meglio sul la sua fragile forza di volontà. Un leggero capogiro la fece barcollare, costringendola
ad appoggiarsi al telaio della finestra. Si raddrizzò, osservandosi la punta delle dita velate di polvere
(polvere ?! Da dove spunta tutta questa polvere ?)
Girò lo sguardo per la stanza, notando lo stesso sottile strato grigiastro ricoprire la superficie di comodini e mobili. E, quel che era peggio, anche le valigie e il borsone dei suoi due amici
(oh porca merda)
come se fossero state abbandonate lì da tempo immemorabile. Nell’angolo tra lo spigolo dell’armadio e la parete, un pesante festone di ragnatele, di cui lei era  estremamente sicura che non ci fosse traccia, quando aveva pulito a fondo la stanza col prezioso aiuto di Ina, si dipanava come una macabra decorazione di capodanno.
- Mio Dio, cosa diavolo sta succedendo ? - mormorò con labbra gelate e insensibili, e la voglia irresistibile di urlare a squarciagola quella domanda. Gettò un’occhiata fuori dalla finestra: sul ceppo posizionato ai piedi del ciliegio era seduta una figura, minuta (ma non così minuta da essere una bambina di quasi-sei-anni, le fece notare un pensiero lucido e angosciante) e vestita completamente di nero (e di regola la piccola Emma non sfoggiava un abbigliamento così poco vivace, precisò ancora il petulante pensiero di poco prima, o perlomeno un suo fratello gemello), di spalle, intenta a fissare il brullo orizzonte di campi arati. Prima che potesse guardare meglio, prima ancora di riuscire a formulare una spiegazione, sentì che le sue gambe tremanti si ribellavano all’ordine cerebrale di non muoversi, prendendo a dirigersi verso le scale che portavano al piano terra e, di conseguenza, all’esterno della casa.

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Capitolo 19
*** SMS - Foglietti - Passo di Carhadas ***


30_ Vanessa si accomodò sul bordo del letto matrimoniale, nella stanza che divideva con Amedeo ed Emma, tirandosi accanto il fedele zaino. Il ragazzino era stato molto carino a concederle quegli attimi di privacy, anche se lei si stava chiedendo un po’ imbarazzata cosa poteva aver pensato al suo ambiguo "Scusami, ma devo assentarmi un po’…" Estrasse dalla tasca interna del giaccone il cellulare di Renato, maneggiandolo con estrema delicatezza, come fosse un reperto raro e fragilissimo. Effettivamente l’uomo era stato proprio gentile nell’offrirsi di prestarglielo, una volta venuto a conoscenza che quello del padre di lei era guasto, messo fuori uso da un non ben specificato incidente nel bagno. Gianni Ostiglia aveva fatto un po’ di storie sostenendo che, anche se non mandava un sms di auguri alle sue amiche Francesca e Sil via (come da promessa solennemente fatta durante la ricreazione poco prima delle vacanze natalizie), non moriva mica nessuno. Il broncio ostentato come un capo d’accusa non aveva particolarmente impressionato il suo intransigente genitore, e fortuna che alla fine era arrivato in soccorso zio Renato. Mentre si dirigeva verso la camera, inseguita dalle sgraziate raccomandazioni di suo padre, che sbraitava come se il telefonino fosse il suo… Due messaggi, ragazzina, due e non di più… e brevi, se possibile… e nessuna telefonata, chiaro ? Se mi accorgo che ci hai parlato dentro, a quel coso, scattano le sanzioni… considerò tra sè che il buon Amedeo, oltre ad essere molto simpatico (e anche un bel po’ carino), aveva anche l’invidiabile fortuna di possedere un genitore che non dava in escandescenze ad ogni piè sospinto, facendo fare a lei e sua madre delle figure da nascondere la testa dentro un vaso. Accese il telefonino, secondo le istruzioni ricevute, fissandolo per alcuni istanti. In effetti la tentazione di telefonare alle due amiche era molto forte, quasi irresistibile. Soprattutto l’ipotesi di poter raccontare, per filo e per segno, tutti i particolari sulla propria recente, nuova conoscenza. Con un messaggino era un po’ dura descrivere certe sensazioni in maniera esauriente, e poi le pareva di aver capito da vari discorsi di suo padre che gli sms bisognasse cancellarli, dalla memoria dei cellulari, una volta inviati o ricevuti. E l’ultima cosa che desiderava era lasciare una dichiarazione scritta che le piaceva un certo ragazzo, proprio sul telefonino del genitore del soggetto in questione. D’altro canto, era al corrente inoltre che gli adulti erano in grado di “verificare” le telefonate in partenza, come aveva minacciato suo padre, e quindi a malincuore optò per il progetto originario, uno stringato messaggio di auguri alle due destinatarie. Magari corredato da un “ci sentiamo presto, ci sono novità” che non presupponeva nulla di compromettente, ma almeno un minimo le avrebbe incuriosite. Si sfilò i pesanti scarponcini, così da poter tirar su i piedi sul letto, appoggiandosi con la schiena contro la massiccia spalliera del letto. Digitò il tasto MENU più volte, fino a far comparire l’opzione PREPARa MESSAGGi. La sottile astina sul minuscolo schermo lampeggiava, in attesa delle prime lettere del testo. Depose il telefono con cura sul copriletto, accanto a sé, prendendo in grembo lo zaino per tirar fuori la preziosa agenda con i numeri di cellulare dei genitori del le amiche. Dopo l’invio avrebbe scritto qualche riga riguardo gli ultimi accadimenti di quella giornata, in particolare sulla chiacchierata avuta con Amedeo seduti sulla staccionata dei cavalli, che lei aveva trovato romanticissima. afferrò l’agenda-diario con una mano, mentre si sporgeva per depositare lo zaino sul pavimento accanto al letto. Dopodichè aprì le pagine in corrispondenza del giorno in corso: dal centro dell’agenda spalancata qualcosa le svolazzò in grembo. 31_ Mentre la ragazzina osservava incuriosita la cosa che era scivolata fuori dalle pagine del suo diario segreto, il prode Amedeo si stava aggirando in casa di Teresa alla ricerca di qualcosa che stimolasse la sua creatività, nell’attesa di potersi ricongiungere (lui auspicava il più presto possibile) con Vanessa. In effetti in quel preciso momento, bizzarramente (ma neanche tanto), i pensieri dei due ragazzi erano sintonizzati l’uno nei confronti dell’altra, e poco ci mancava che le orecchie di entrambi fischiassero come pentole a pressione a cottura ultimata. Amedeo aveva accolto di buongrado la cortese richiesta della fanciulla di poter usufruire di un po’ d’intimità, guardandosi bene, innanzitutto, dal far trasparire il proprio disappunto e, in secondo luogo, dall’indagare sui motivi di quell’improvvisa separazione. La frase Scusami, ma devo assentarmi un po’… si poteva prestare a una qualche ambigua interpretazione, ma lui preferiva pensare che Vanessa si fosse ritirata per espletare qualche tipica operazione da femmine. Probabilmente a scrivere qualcosa su quel suo misterioso diario, e magari poteva anche essere chi lo sa forse perché no (a quell’ipotesi il suo cuore fu vittima di una specie di leggero singhiozzo). Naturalmente avrebbe dato via senza batter ciglio metà della sua preziosa collezione di Dylan Dog, in cambio di una sbirciata nelle pagine dell’agenda di Vanessa. Ma avrebbe dovuto essere una cosa non cercata, quasi magica, tipo quando nei film scrutano il futuro in palle di vetro o catini pieni d’acqua, perché mai e poi mai il suo irreprensibile animo cavalleresco si sarebbe abbassato ad una “spiocciata” approfittando dell’assenza della ragazzina dalla stanza. Quando subito dopo la colazione era salito in camera per cambiarsi le scarpe in previsione della gita nella fattoria degli animali (a proposito, che delizia il dialogo con lei sulla staccionata dei cavalli, anche se lui sospettava di a ver avuto due o tre momenti da gonzo a spasso, e il muso di un cavallo che frugava nella venessia della sua compagnia non era il massimo dell’accompagnamento romantico) l’occhio gli era caduto sullo zainetto rosa e pieno di minuscoli peluche di Vanessa, abbandonato su una sedia, e una specie di corrispettivo mentale dell’acquolina in bocca lo aveva per un attimo tentato Irresistibilmente. “Vieni qui, ragazzo”, aveva detto lo zaino, come una moderna sirena di Ulisse, “frugami dentro e sono certo che potrai trovare conferma a quello che al momento è solo una tua pia speranza…”. Lui si era allacciato le lunghe stringhe di uno scarponcino, imponendosi di pensare ad altro. “Su, amico, solo un’occhiatina, non se ne accorgerà nessuno”, aveva insistito quel diavolo tentatore griffato Invicta. Amedeo aveva legato alla bell’e meglio i lacci della seconda scarpa, tirandosi su dal letto con l’assurdo impulso di premersi le palme delle mani contro le orecchie. Ben sapendo che sarebbe stata una mossa inutile, perché il vocione ipnotico che lo irretiva cianciava direttamente dentro la sua scatola cranica. Tenne duro, sfoderando una forza di volontà insospettabile (che lo cullò per il resto della giornata con una frizzante sensazione di autostima, portandolo ad intraprendere, di lì a breve, azioni stolte e avventate), e l’unica deroga che si concesse fu di chinarsi sullo zaino, aspirando voluttuosamente con gli occhi chiusi: il buon odore di Vanessa, mischiato a sentori di gomme da cancellare e matite colorate, gli accarezzò le narici e il cuore come un balsamo incantato. Subito dopo aveva lasciato la stanza con la netta sensazione di fluttuare a qualche centimetro dal pavimento. Ed ora, appena un pò annoiato, stava ciondolando tra i due piani della casa che li ospitava, cercandodi immaginare quanto pallosa si sarebbe rivelata quella vacanza se per caso la famiglia Ostiglia avesse declinato l’invito di zia Teresa. Il che avrebbe significato ardui tentativi di sopravvivenza ai barbosi discorsi dei grandi ed al babysitteraggio forzato a quell’impiastro atomico di sua sorella, e sarebbe stata molto ma molto dura. In effetti in quel frangente, alla luce delle delizie che potevano riservare le parole e gli occhi verdi di una sua coetanea (e che lui nella sua gonza vita avanti Vanessa non aveva nemmeno lontanamente sospettato, gonzamente soggiogato dalle scriteriate teorie misogine di Spiller e Dalla Pozza), il bamboccio aveva del tutto ripudiato, come San Pietro pursenza galli canterini, il succoso e stimolante programma che si era premurato di stilare in vista di quei giorni in campagna. Ma, ahilui, il Game-Boy giaceva ora desolatamente spento sul fondo del borsone in camera, e il Sonic advance che vi era caricato su (e che era costato una cinquantina di euro a suo padre e al figlio un fantastiliardo di pietose suppliche) non avrebbe visto per lungo tempo come sarebbe proseguita la cruenta lotta tra Sonic e il malvagissimo Robotnik. Per non parlare del libro con il backstage del Signore degli anelli e le copie “intonse” dei Simpson e di DragonBall Z, pietosamente occultate sotto il cambio di biancheria intima. Il fatto che Vanessa la sera prima a letto avesse sfogliato con evidente soddisfazione una copia di Top Girl (sulla cui copertina campeggiava, oltre alla foto di un belloccio palestrato, l’inquietante titolo dell’inchiesta “Baciare: occhi chiusi o aperti?”) non l’aveva sbloccato a tirare fuori i giornaletti dal loro poco decoroso esilio. Provò una rapida rassegna dei canali televisivi, col volume azzerato per non disturbare gli adulti che si erano rintanati nei loro letti (a parte Gianni Ostiglia che ronfava a bocca spalancata sul divano in sala), ma l’offerta tv in quel primo pomeriggio sembrava prevedere solo stupidi cartoni animati per bambini o seriosi personaggi in giacca a cravatta che blateravano senza sosta di qualche argomento di cui lui era all’oscuro, per via dell’assenza di audio. Lasciò vagare lo sguardo sulle mensole della libreria che ricopriva buona parte delle pareti, ma anche in quel caso i titoli dei libri impilati con ordine non erano in grado di stimolare la cu riosità di un adolescente, e la Settimana Enigmistica di nonno Corrado abbandonata su una poltrona non lo invogliava, pur se qualche barzelletta solitamente lo faceva spanciare di gusto. Spense il televisore, decidendo di approfittare di quella situazione di limbo per un sopralluogo esterno, che aveva snobbato fino a quel momento perché in altre faccende affaccendato. S’infilò il giubbotto, aprendo con delicatezza la porta esterna,sbucando nel cortile. in giro non si vedeva nessuno, a parte Emma appollaiata su quel ceppo sotto l’albero, che prese a fargli ampi segni cordiali per attirare la sua attenzione. Lui non le badò, dedicandole un gesto che nel suo personale gergo amedeiano significava più o meno “non rompere, nanerottola” e si diresse verso l’ampio porticato che portava alle stalle e al fienile. Sua madre si era raccomandata fino alla nausea, durante il viaggio per arrivare lì, di fare molta attenzione (a che cosa?, aveva pensato lui, a qualche attacco di galline inferocite?) perché in campagna le occasioni di farsi male erano molte. Probabilmente, considerò Amedeo osservando un minaccioso forcone appoggiato sotto il portico, a oggetti tipo quello, falci, zappe, cesoie, o forse a qualche inquietante macchinario per tirar su il fieno irto di spuntoni come un’antica macchina da guerra medievale, ma lui non era così gonzo da ficcarsi in guai del genere. Entrò nel vasto e silenzioso edificio che una volta serviva da fienile, respirando l’aria polverosa che gli solleticava un po’ il naso, prendendo atto che il luogo era bello grande, ma vuoto e privo di attrattive. Stava già per tornare sui propri passi, rassegnato ad ascoltare qualche stupidaggine cinguettante di Emma, quando sollevò lo sguardo. E trasecolò. La parte superiore della struttura aveva un’aria decisamente molto più interessante, formata com’era da due ampi soppalchi ancorati ciascuno ad un pilone verticale di legno massiccio. E, a congiungere le due parti, distanti tra loro una quindicina di metri, una trave portante dall’aria altrettanto robusta. Solo che quella trave, nella vulcanica materia cerebrale del ragazzino che aveva già cominciato a macinare fantasie, non era affatto un mero pezzo di legno squadrato, bensì il corrispettivo reale e tangibile del leggendario Passo di Caradhas, l’unica via per superare un orrido abisso nel cuore delle miniere di Moria, come aveva avuto modo di apprendere seguendo col fiato sospeso le vicende del suo film preferito. E, come se fossero state messe lì apposta da un luminoso destino, alle due estremità della trave (del Passo di Caradhas! Del Passo di Caradhas!) si ergevano due scale a pioli (due altissime scale a pioli, tentò di fargli notare una microscopica porzione del suo cervello in cui era conservata una rarissima e infinitesimale scorta di buon senso) che sembravanosolo in attesa di qualche valoroso temerario. Ora, se detto buon senso fosse stato un po’ più diffuso, o se il ragazzino avesse esteso la materna raccomandazione di non ficcarsi nei guai anche a quella situazione (e che c’è di pericoloso? Non è mica una trave sospesa su un mare di forconi appuntiti…, rimuginò lo stolto, non valutando affatto l’altezza di quel legnoso oggetto del desiderio), o se ancora la dolce Vanessa non avesse ceduto ad un pizzico di giustificata civetteria, indugiando davanti allo specchio a spazzolarsi i fluenti capelli, e fosse scesa nel cortile declamando il nome del ragazzino, ora non saremmo qui col fiato sospeso ad osservarlo impotenti mentre si avvicina con piglio deciso ad una delle due scale appoggiate ai piloni. Con un luce di convinzione nello sguardo, Amedeo afferrò il piolo all’altezza del suo naso, issandosi nel contempo su un altro sotto i piedi, e saggiandone la resistenza con alcuni decisi strattoni. Il tutto sembrava reggere, così prese ad arrampicarsi con un po’ più di lena, come uno scoiattolo guardingo che non sappia bene cosa può nascondersi sulla sommità di un albero. La scala sotto il suo peso si torceva e gemeva, ma secondo la valutazione dello scalatore sta va torcendosi e gemendo in maniera lieve, per cui accettabile. D’altra parte, si disse per in fondersi un po’ di sicurezza, lui non era affatto un tipo avventato (dopo una furibonda partita a calcio, ad esempio, non restava mai a petto nudo tutto sudato, come invece facevano i suoi compagni rischiando la morte) e se appena si fosse reso conto che la situazione stava diventando più rischiosa che divertente, avrebbe lasciato perdere. A metà salita arrischiò un’occhiata sotto di sé, pentendosi all’istante e decidendo di far subito suo il saggio suggerimento che aveva sentito in tv, in un servizio sugli operai pellerossa che in America venivano utilizzati per costruire i grattacieli, e cioè “Mai guardare in basso”. Gli otto o nove gangli ce rebrali ancora imbevuti di buon senso provarono ad inviargli un pensiero che prevedeva l’eventualità di essere soddisfatto di quanto raggiunto, e di abortire la missione, ma ormai lui si trovava giusto sul confine in cui la rinuncia sarebbe potuta passare, agli occhi di sé stesso, come codardia, e proseguì nella cigolante salita, con i palmi delle mani che iniziavano a scivolare sul legno liscio dei pioli.

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Capitolo 20
*** Diario - Cioccolato ***


Amedeo era giunto ormai a due terzi della sua sventata ascensione quando, più o meno nello stesso momento, Vanessa posò la spazzola sul letto matrimoniale della stanza che li ospitava, prendendo delicatamente tra le dita, per la centesima volta o giù di lì, la piccola sorpresa che le pagine del suo diario-agenda le avevano recapitato in grembo. Rilesse le minuscole, aggraziate frasi stampate su quel fogliettino translucido, sussurrandole a fior di labbra (Conservo con cura, l’arsura che ho di te, dolce creatura) e una volta ancora un lieve tepore prese ad arrossarle le guance color pesca. Si sentiva lo stomaco sottosopra, per la contrastante, variegata ridda di sensazioni che si erano susseguite in lei dall’attimo di quell’inatteso ritrovamento. Scartata in partenza l’ipotesi che quel foglietto rettangolare lo avesse archiviato lei stessa, l’identificazione del sospettato numero uno non fu per niente un problema. Le venne immediatamente in soccorso il ricordo di Amedeo che, seduto al suo fianco al termine della cena la sera del loro arrivo, afferrava goloso un cioccolatino di ragguardevoli dimensioni dalla ciotola al centro della tavola. Il senso del pudore di entrambi si sarebbe senz’altro evoluto e modificato, nel corso degli anni, sostituendo alcuni valori fondamentali della fanciullezza (tra cui appunto il fatto che divorare un dolcetto era un’occupazione del tutto privata e intima) con altri più ipocriti e costruiti, così la ragazzina potè solo sbirciare con la coda dell’occhio il bigliettino (quel bigliettino) rinvenuto dal suo compagno di posto nel freddo abbraccio della carta dorata. Era riuscita persino a notare il particolare (e questo la dice lunga sull’ involontarietà della sbirciata) delle dita macchiate di cioccolato del ragazzo che avevano lievemente sporcato la carta, ed ora quell’ombra bruna risaltava come la più classica ed incriminante delle impronte digitali. Il senso della frasetta, la sua provenienza e in definitiva il valore del gesto le fece acquietare l’iniziale impulso di disappunto una volta preso atto che qualcuno, una mano estranea, aveva dovuto frugare nelle sue cose (nel “cuore” del suo oggetto più privato e segreto) per lasciarvi quel poetico omaggio. E in ogni caso sentiva di poter mettere la mano sul fuoco sul fatto che il mittente non aveva per nessuna ragione indugiato a leggere le confidenze affidate alle pagine righettate, e meno che meno certi deliranti e cubitali proclami “congegnati” in combutta con le sue amiche del cuore, tipo “CESARE DEI LUNAPOP SUPERFIGO” e “FLAViO - DEL GRANDE FRATELLO - SEI IL +BBB… BELLO!”. Si osservò nel grande specchio dell’armadio, accostando il prezioso bigliettino alla punta del naso, e lasciandosi accarezzare le narici dal fioco aroma di cioccolato che ancora sprigionava. L’ipotesi, di lì a breve, di incontrare l’autore di quella iniziativa e incrociarne lo sguardo, le fece aumentare i battiti del piccolo cuore, che prese ad scalpitare come un puledro libero e felice. Era in assoluto la prima, primitiva forma di lettera d’amore che riceveva, non essendo per niente da prendere in considerazione il contenuto di alcuni bigliettini “catapultati” sul suo banco da crudeli compagni di classe (non a livello delle invettive misogine della coppia creativa Spiller-Dalla Pozza, ma abbastanza in linea), che si divertivano a prenderla di mira con scientifica insistenza. Nel corso della sua lunga e corteggiata vita (sarebbe diventata, e lo specchio del vecchio armadio già era in grado di confermarlo, una gran bella ragazza, sbocciando poi in una splendida donna) avrebbe ricevuto decine di regali e omaggi, Imbarazzanti mazzi di fiori, preziosi e impegnativi gioielli, persino un discutibile ENORME peluche raffig rante un polipo color fucsia (credo non sia affatto difficile immaginare che il goffo autore di un simile cadeau non ebbe grandi chanches nel tentativo di seduzione), ma avrebbe conservato per sempre, sepolto nel suo cuore, il brivido di quel primo bigliettino, senza provarne mai più di altrettanto elettrizzanti e mozzafiato. E il profumo di ogni briciola di cioccolato gustata da lì in avanti avrebbe provveduto a riaprire ogni volta il piccolo cassetto segreto che custodiva quel ricordo. La minuscola sagoma squadrata del cellulare di Renato occhieggiò riflesso nella superficie liscia dello specchio. Ehi, fanciulla, la blandì come un tecnologico serpente tentatore, non è questa forse una notiziona con cui sconvolgere IN DIRETTA le tue due amiche, così da far trascorrere loro un Natale di sana e salutare invidia?, e Vanessa dovette ricorrere a tutta la sua buona volontà per non cascarci (come aveva fatto il suo prode cavaliere per resistere ai richiami ammalianti dello zaino, al quale lui non si era assolutamente avvicinato, tantomeno per infilarci dentro un bigliettino di qualsivoglia natura). Molto le fu di aiuto, nella sua stoica resistenza, il ricordo dello sgarbato veto del padre riguardo telefonate clandestine, e ancor di più l’ipotetica rappresaglia che la sua eventuale inosservanza avrebbe potuto prevedere (Dio non lo volesse!). Magari una detenzione in castigo di durata indefinita, che avrebbe avuto il doppio disastroso risultato di farla apparire come vittima di una pena alquanto indecorosa, in primo luogo, ed impedirle di conseguenza la frequentazione del suo galante cavaliere. Si avvicinò al telefonino, afferrandolo con due dita, come se potesse realmente trasformarsi in un viscido rettile e attaccarla, facendolo scivolare nella tasca del giaccone e mettendo così a tacere le insistenti e irresistibili profferte urlate dal piccolo apparecchio. Si assicurò di avere, dalla parte opposta, l’emozionante fogliettino (Dolce creatura) pungendosi di proposito il polpastrello su uno dei suoi acuti spigoli, per sincerarsi che esistesse realmente, e imboccò la porta in direzione delle scale. Naturalmente senza aver potuto sperimentare, in aggiunta alle ribollenti sensazioni di cui era stata preda, quella che sarebbe risultata come la più sconvolgente di tutte (anche troppo, non trovate?) vale a dire la consapevolezza di quale misterioso tragitto avesse compiuto quel bigliettino (passato attraverso i denti di uno sfiduciato Amedeo, e lì ci fermiamo) prima di ricomparire nel luogo segreto in cui l’aveva rinvenuto. E in quale inspiegabile modo questo fosse stato possibile, sia a lei che a noi, non è dato sapere.

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Capitolo 21
*** Gelo - Poirot - Orecchie ***


33_

Teresa sbucò per la seconda volta nel cortile, o per meglio dire le sue gambe ribelli la costrinsero ad arrivare sino a lì, nonostante il suo razionale (e terrorizzato) cervello avesse cercato con tutte le forze di riprenderne il controllo, lanciando imperiosi quanto inascoltati ordini mentali ancora nella stanza al primo piano, e poi via via nel corridoio, scendendo le scale, lungo il legnoso tragitto nell’ampio salone di casa. Con lo stesso identico risultato. Zero più zero. Non lo sto vivendo realmente, riuscì a spiccicare nella mente confusa, ma quel pensiero striminzito non le impedì di sentire anche troppo efficacemente il gelo pungente abbracciarle le membra intorpidite (a parte quelle dannate gambe fin troppo zelanti), creando candidi merletti sui vetri delle finestre e “glassando” in un’unica scintillante trama gli arbusti scheletrici intorno alla casa. E non può fare così freddo, da un momento all’altro…
Ma la temperatura non troppo confortevole, o l’iperattività dei suoi arti inferiori, non costituivano al momento il suo problema principale, che stava invece rapidamente prendendo le fattezze dell’inquietante figura ingobbita, intenta a fissare i campi dal ceppo sotto il grande ciliegio. Una volta ancora si augurò che non fosse altro che la dolce Emma, incomprensibilmente abbigliata come una vedova siciliana in formato ridotto, ma i capelli crespi che spuntavano dal foulard sulla testa erano candidi, non biondo sole, e la sagoma misteriosa mostrava la rigidità tipica di chi i quasi-sei-anni li ha superati da parecchio tempo. A ormai pochi metri da quell’indesiderato traguardo Teresa fece il suo ultimo tentativo di cambiare percorso, o di bloccarsi lì, e ancora una volta le sue gambe ammutinate la strattonarono via, costringendola a proseguire in malo modo come due gendarmi inflessibili. Solo a pochi passi dall’albero il suo disubbidiente apparato motorio si arrestò, paralizzandola di fronte alla sconosciuta:
- Povera, cara Teresa - gracchiò questa voltandosi lentamente, e ripetendo le parole che lei ricordava di aver ascoltato una trentina d’anni prima - te l’ho già detto una volta, ricordi ? La tua vita sarà lunga, ma ci saranno purtroppo giorni non troppo luminosi... -
La giovane donna impietrita sotto l’incombente abbraccio dell’albero deglutì a fatica, la gola riarsa e dolorante, facendosi forza per non crollare al suolo come un sacco improvvisamente svuotato:
- N-n-n-onna… S-S-ara?!? - riuscì a sibilare, con voce inerte e malferma
(Nonna vecchia?, le sarebbe venuto d’impulso da chiedere, ma qualcosa dentro di lei ebbe come il timore di pronunciare quel nomignolo)
piantando gli occhi increduli in quelli limpidi e fermi della sua parente (volata a precedere la figlia e la nipote, e ad attendere di conoscere il marito della terrorizzata donna che le stava davanti, da almeno tre decenni buoni), incastonati nel viso grinzoso come diamanti neri e lucenti su una stoffa grezza e sgualcita.
- ...e questi che stai vivendo - proseguì l’anziana posando le mani fragili e incartapecorite sulla lunga gonna nera, dove spiccavano come strani crostacei fossili - sono forse i meno luminosi di tutti… -
- Nonna Sara - riuscì a ripetere lei con tono supplichevole, annusando il vago aroma di spezie che la riportava indietro all’infanzia come un’enorme elastico temporale, e che le sue cellule olfattive registravano nitido e spiacevolmente reale - cosa sta succedendo ? Per-r-c-c-h-è f-fa c-c-o-s-ì t-t-tanttof-f-f-rr… -
Si strinse nell’inefficace giaccone imbottito, mentre le parole le tintinnavano sui denti tremanti, anelando una spiegazione - razionale, irrazionale, una spiegazione qualsiasi - pur rendendosi conto di esser costretta a rivolgersi, per questo, ad un fantasma, o ad un’apparizione onirica, o chissà che altro.
- Freddo dici, cara ? - chiese la donna seduta, inclinando la testa come per valutare l’attendibilità di quell’affermazione - a me non pare che faccia poi tutto questo freddo… Qui intorno a noi, perlomeno - la sua espressione antica si velò di una sincera ombra di dispiacere - oh, ma forse tu intendi il gelo che proviene da dentro di te… - le puntò un dito ossuto e ricurvo in corrispondenza del cuore - e per quello, ho il timore di non poterti essere d’aiuto… De vi capire, cos’è che ha il malvagio potere di togliere calore alle cose? -
Teresa si frugò nella testa, come una scolaretta impreparata alle domande dell’insegnante, ma le sue cellule cerebrali, come il resto del corpo tremante, erano prigioniere di quel gelo irreale. Si limitò a restarsene lì, scossa da violenti brividi.
- E’ l’amore che dà calore - le sussurrò la nonna vecchia, facendo balenare un sorriso che la riscaldò per un breve attimo, come un fugace raggio di sole - e la sua mancanza inaridisce e congela… - le dedicò uno sguardo carico di tutta la compassione del mondo - e tu sei sola, piccola mia, irrimediabilmente sola… Le persone che sono qui con te - fece un ampio gesto con la mano, ad abbracciare le casa dietro le spalle di Teresa - si fermeranno qui solo per qualche giorno, un tempo del tutto insufficiente a sciogliere il ghiaccio che incrosta il tuo cuore… E quando se ne saranno andati, sarai costretta a fare i conti con la tua solitudine ed il suo raggelante abbraccio… - qualcosa, da qualche parte dentro Teresa, prese ad urlare e a di battersi istericamente - …non ci puoi fare niente, e meno che meno questa vecchia donna che hai davanti, il dolore che porti dentro è troppo grande, e anche se hai pensato ad un certo punto di poterlo ammansire, riducendolo ad un microscopico grumo nelle profondità del tuo cuore, lui riesce sempre a trovare una via per sgusciar fuori, e ingigantirsi, ed invadere ogni più minuscolo recesso del tuo spirito vitale… -
Gli scienziati non l’hanno ancora scoperto, o forse non se la sentono di ammetterlo, pensò straziata Teresa, ma il dolore è il cancro dell’anima
- il mio cuore è ferito, mia piccola Teresa - proseguì la sua anziana parente, estraendo dalle profondità dell’abito scuro un lungo rosario di minuscoli grani rossastri, come stille congelate di sangue - soprattutto perché non posso far niente per impedire, o alleviare, tutto questo… Stavolta la cosa è ben più grave di un’irritazione da ortica, o un morso di cavallo, e anche la mia antica esperienza, che molti scambiavano per saggezza, quando non le hanno attribuito addirittura poteri ancor più improbabili, è inutile di fronte a questo… Non esiste nessun potere, per contrastare il gelo, quando la luce si attenuerà fino a spegnersi del tutto… - la nonna vecchia chinò il capo sul petto, come se su di lei pesasse l’angoscia dell’umanità intera, ma Teresa quasi non notò quel gesto, annichilita dall’aumentare del freddo che dava l’impressione di trasformarla in una statua di fragilissimo vetro, e soprattutto dalla diminuzione vertiginosa della luminosità intorno a lei, come se la notte si fosse messa improvvisamente fretta, decidendo di avvolgere il mondo nel suo oscuro abbraccio prima del tempo.
- N-nonna…. No… io non posso… - riuscì a biascicare, prima che le tenebre precipitassero su di lei, rendendola definitivamente cieca.
Riaprì gli occhi, sbarrandoli dritti davanti a sé. Osservò, quasi senza neanche vederle, le due finestre della camera che lasciavano filtrare la luce sonnolenta del pomeriggio. Era uno stupido sogno… il cuore le strepitava agitato nel petto, tambureggiando come un detenuto innocente che faccia il diavolo a quattro per imporre le proprie ragioni. Girò lentamente la testa in direzione della sveglia sopra il comodino, che segnava le quattro meno venti. Le accettabili, normalissime quattro meno venti. Si era appisolata poco più di un’oretta e i peperoni sott’olio, o forse il dannatissimo vino di Renato, le avevano scodellato un bell’incubo in technicolor. L’inquietante incontro con la nonna vecchia si era svolto solo nella sua mente, e tutto era sotto controllo, perfettamente normale, e i suoi amici ronfavano beati nelle stanze fuori dalla porta
(forse…)
(Le persone che sono qui con te si fermeranno qui solo per qualche giorno…)
Si tirò su di scatto dal letto, avvicinandosi alla finestra per dare un’occhiata nel cortile. Quello che vide le fece traboccare il cuore di commozione: sotto il grande ciliegio, nello stesso punto in cui nel suo sogno (credo che incubo renda meglio l’idea) la nonna vecchia le aveva profetizzato un futuro di dolore e di gelo, i capelli d’oro di Emma e il suo impermeabilino rosa spiccavano vividi come il più meraviglioso degli arcobaleni. Resistette all’impulso di inoltrarsi furtiva nel corridoio, ad origliare i sospiri addormentati dei suoi ospiti attraverso le porte chiuse, la presenza della piccola bastava e avanzava. Tutto era normale, e non c’era freddo o buio davanti a lei, ma solo l’affettuosa compagnia dei suoi amici
(un tempo del tutto insufficiente a sciogliere il ghiaccio che incrosta il tuo cuore…)
e ancora un po’ di pomeriggio da riempire prima che si svegliassero allegri e chiassosi.
(E quando se ne saranno andati, sarai costretta a fare i conti con la tua solitudine ed il suo raggelante abbraccio…)
il ricordo di quella frase (pronunciata in sogno, con tutta l’insignificante valenza delle cose dette in quei territori irreali) increspò la sua pelle in un brivido che assomigliava troppo a quelli che l’avevano squassata in piedi davanti alla bisnonna. Una vasta parte del la sua mente, razionale e dominante sul mondo della realtà, in cui le gambe non si mettevano a macinare chilometri da sole, e vecchie volate in cielo quando ancora era vivo e molto vegeto El vis Presley non si facevano un giretto nel cortile, si affrettò a riempirle la testa di cubitali messaggi pubblicitari, del tenore di “NON VORRAI SUL SERIO CREDERE A PROFETICHE BAGGIANATE ASCOLTATE DURANTE UN PISOLINO POMERIDIANO!”, ottenendo un largo e plebiscitario consenso. Ma lasciandosi sfuggire, nello stesso tempo, un microscopico pensiero anarcoide che, da qualche parte nelle profondità delle grigie involuzioni di materia cerebrale della donna, prese a trasmettere un fioco tam-tam subliminale
(non-puoi-permetterti-di-rimanere-sola-non-puoi-permetterti-di-rimanere-sola)
iniziando così a erodere la labile diga che teneva separata la razionalità dal panico più cieco.
Non badarci, torna ad occuparti di cose normali e razionali, del futuro ne parleremo quando sarà il momento…
Decise che quello era un consiglio più che assennato, e che sarebbe stato meglio aderirvi all’istante, senza tanti vagabondaggi mentali che l’avrebbero solo condotta su sentieri popolati di vecchi fantasmi.
Fece il punto della situazione giù al piano di sotto, per vedere se restava qualcosa da fare per occupare un po’ il tempo e non pensare troppo, ma la cucina era linda e splendente, con tutte le stoviglie a pancia in su sui ripiani, come preziosi reperti in mostra, e Gianni presidiava la sala spaparanzato sul divano (probabilmente facendo tremare i vetri dal russare). Che altro restava da fare? Di guardare la televisione non ne aveva nessuna voglia, in particolare di prenderne in mano il telecomando, per cui si rassegnò a ristendersi sul letto, allungando una mano ad afferrare il giallo posato accanto a lei. Forse un altro po’ di Poirot mi farà compagnia..., si augurò, notando che la testina della sua fida giraffa-segnalibro non spuntava dalla sommità delle pagine. Beh, ovvio, nel momento in cui era scivolata nel sonno (e nel sogno) non aveva certo avuto la prontezza di riinfilarla al punto giusto. La cercò con lo sguardo sul copriletto accanto a lei, ma della sottile giraffina, nemmeno l’ombra. Bah, sarà scivolata giù dall’altra parte mentre ti agitavi in preda all’incubo, convinta di dirigerti inesorabilmente verso l’albero in cortile... Non vorrai farne una malattia anche per questa, di sparizione... Più tardi, quando ti alzerai, farai il giro del letto per vedere di recuperarla, okay?
Take ‘n easy, ragazza mia...
Giusto, convenne tra sè, tanto sono così tante sere che sono ferma al punto in cui Scotland Yard convoca Poirot per la seconda volta che non dovrebbe essere difficile ritrovarlo... aprì il volume (e questi le si aprì tra le mani, con sospetta facilità) e, nell’attimo immediatamente successivo, l’aveva LANCIATO via con un urlo strozzato, come se avesse scorto un orrendo ragno velenoso celato tra le pagine. arrancò all’indietro verso la spalliera del letto, pedalando con i piedi ed ammucchiando così tutto il copriletto sotto di sé come in un buffo cartone animato, per allontanarsi il più possibile dalla copertina giallo limone del libro, che il suo lancio aveva proiettato proprio sul ciglio del letto, in fondo ai piedi. Dove giaceva a faccia in giù in e quilibrio precario, come uno che si stesse aggrappando disperatamente sull’orlo di un burrone. Il cuore riprese il suo galoppo forsennato nel petto, mentre la faccia le avvampava di calore
(mio Dio, non è possibile!)
Si strinse le braccia attorno al corpo, senza riuscire a distogliere lo sguardo, ipnotizzata da quel banale ammasso di fogli stampati in edizione economica
(Io non l’ho visto REALMENTE!)
Ebbe per un attimo l’impulso di chiamare qualcuno, Renato forse, perché le fosse di conforto, poi si rese conto che avrebbe dovuto fornire una spiegazione che sarebbe apparsa quantomeno bizzarra, per non usare altri termini molto più forti anche se decisamente più appropriati
(Aò, mischiate le carte che è uscita la matta!, avrebbe magari esclamato divertito Gianni, attirato dal trambusto al piano superiore)
Lasciò trascorrere alcuni palpitanti attimi, in attesa che il tumulto nel petto si acquietasse un pò, rannicchiando i piedi sotto il sedere, per porre più distanza possibile tra lei e il libro che attendeva inerte di essere ispezionato meglio.
Perché tu DEVI darci un’occhiata, per sincerarti che non sia stato un colpo di coda residuo dei peperoni sott’olio...
Mordendosi l’interno della guancia senza neanche rendersene conto (anche se nei giorni seguenti una “piaga” dolorosa le avrebbe ricordato a lungo quell’inquietante episodio), tirò un violento sospiro, per darsi una forza che non sentiva affatto, poi prese a strisciare verso il fondo del letto. Allungò una mano malferma in direzione del giallo, inforcandone la copertina con l’indice e il medio a mò di forbice (sempre con la spasmodica certezza che qualcosa, un scossa elettrica, un morso straziante, l’avrebbe aggredita) e si decise a rovesciarlo sul copriletto blu scuro. Si tirò indietro inconsciamente, mentre un gelo molto simile a quello profetizzato dalla sua ava iniziava a serpeggiare dentro di lei, fissando sgomenta il piccolo triangolino di pagina ripiegato
(volgarmente detta “orecchia”, e non eri tu ad avere questa discutibile abitudine...)
che le teneva premuroso il segno sul proseguo dell’appassionante vicenda letteraria.
Non è possibile..., riuscì a spiccicare la sua mente paralizzata e, subito dopo, come se quel primo stitico pensiero l’avesse in qualche modo sbloccata, l’ho fatto io senza rendermene conto
(versione alquanto discutibile, per tutto quello che sappiamo, ragazza mia...)
e poi ancora, aggrappandosi a quell’ipotesi come se fosse un miracoloso relitto in mezzo ad una tempesta, è stato lo stupido scherzo di qualcuno...
Si rovistò nella mente cercando di ricordare se aveva accennato a Renato in modo specifico delle “orecchie” nei libri, ma non riuscì a stabilirlo con certezza, anzi era molto più probabile che il suo racconto si fosse riferito più in generale agli oggetti che suscitavano in lei ricordi e sofferenza
(E’ una decisione che spetta a te, Terry, di botto udì la voce calma e professionale dell’amico risuonare in quello che sembrava uno sterminato stanzone vuoto e polveroso, e che probabilmente era solo la sua mente sgomenta, se ritieni che la vista di oggetti, che in qualche modo ti riportano alla mente momenti e situazioni, ti sia difficilmente sopportabile… beh, toglili)
Non gli ho parlato specificatamente di questo particolare, cercò di convincersi senza distogliere lo sguardo da quel triangolino di pagina ripiegata, la cui "aguzzità" le graffiava l’anima, è una cosa che ho scoperto una volta tornata a casa...
(Non puoi metterci la mano sul fuoco... forse sarebbe il caso di chiederglielo)
Giusto. Giusto giusto giusto, si ripetè, resistendo all’insano impulso di catapultarsi contro la porta della coppia nel tentativo di sfondarla a spallate, ma... anche fosse... davvero potresti pensare che Renato...
Assurdo.
Meglio di ogni altra ipotesi, meglio che dover pensare a qualche altra possibilità...
L’hai fatto tu inconsciamente.
E’ UNA COSA DI CUI NON SAREI MAI STATA CAPACE, NEANCHE SOTTO IPNOSI!
Sì, ma da qui a pensare che il tuo amico Renato, proprio lui, si sia infilato qui e ti abbia piegato l’angolo della pagina a quel modo... per farsi quattro risate sulla tua inevitabile reazione isterica... beh,anche questa è fortina...
Si prese la testa tra le mani, dondolandosi avanti e indietro sul letto in una spiacevole imitazione di una malata di mente.
Non so, non so, non so!”, urlò ancora dentro la propria testa, cercando di sopraffare quella voce petulante e insistente che cercava di smontare ogni sua tentennante giustificazione, pur rendendosi conto che non c’era nessuna voce nel suo cervello surriscaldato, ma solo i suoi pensieri caotici, “Che ne so ? Forse Renato ne ha accennato a Gianni, magari con la lingua sciolta da quelle loro dannate bottiglie di vino, e Gianni sì che sarebbe il tipo che per farsi due ghignate passerebbe sopra a qualunque cosa, anche al dolore di una presunta amica...”
Molto bene, allora possiamo dedurre, come direbbe il rubicondo Poirot al termine delle sue minuziose indagini, che o sei stata tu, o è stato qualcun’altro. Oppure...
Oppure che?
(sdlen, risuonò in qualche recesso sperduto della sua mente)
alzò gli occhi sul sonaglino appeso sullo stipite del bagno, distogliendoli per la prima volta dal caratteristico modo di “segnare” la pagina di suo marito Carlo
(ora che l’ho detto posso tranquillamente affermare che sto impazzendo definitivamente...)
ma l’affarino di conchiglie e legnetti era immobile, come pietrificato. Ovvio, no? E sarebbe stato molto meglio se l’avesse rinchiuso in qualche scatolone da molto tempo, invece di sfidare le conseguenze dei ricordi così apertamente. All’improvviso una luce le si accese nella mente, spazzando via intorpidimento e confusione, e tutto sembrò diventare nitido, comprensibile. Vennero a galla alcuni pensieri, guizzanti e luccicanti come splendidi pesci esotici, e un paio di frasi le si affacciarono nella mente. Frasi pronunciate da due persone ben distinte, una reale e una immaginaria.
Ricordò le parole di Diamante, a cui non aveva dato più di tanta importanza.
Ricordò la parole della nonna vecchia, mentre la luce del suo sogno le si offuscava intorno.
Le ricordò perfettamente, ma non le collegò. Rimasero a fluttuare nella sua testa, come foglie secche fatte turbinare da un vento giocherellone. Non le unì in un nesso comune, inquietante artefice delle sue azioni future, non in quell’istante almeno. Sarebbe stata una rivelazione che avrebbe avuto in seguito, sulla scorta di ulteriori particolari che conosceremo solo a tempo debito.
Per il momento la voce assonnata e sgraziata di Gianni che chiedeva se erano morti tutti e se qualcuno, magari, si offriva per metter su una “cisterna” di caffè, la strappò via dal suo letto e dai suoi tormentati pensieri. Si costrinse persino a “lisciare” quella pieghetta all'angolo della pagina, cancellandola
(L’ho fatta io)
richiudendo il libro e riponendolo, dopo averci pensato su un attimo, in uno dei cassetti della scrivania del computer. Non solo perché non aveva più tanta voglia di sapere come il buon Hercule sarebbe riuscito ad inchiodare l’assassino dell’affascinante Shaitana, ma soprattutto perché il cassetto era fornito di chiave e serratura.

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Capitolo 22
*** L'Impresa - Qualcosa va storto - L'inganno ***


34_

Amedeo, immobile con la schiena prudentemente incollata al pilone di legno, alla sommità della scala a pioli, era vittima suo malgrado di una bizzarra incongruenza fisica: la trave su cui stava per avventurarsi, e che dal basso sembrava ampia come un’autostrada a quattro corsie, da quel nuovo punto di osservazione privilegiato pareva essersi ridotta alla striminzita larghezza di un grissino. Forse Piero Angela in una puntata speciale di Quark avrebbe potuto fornirgli un’accettabile spiegazione, ma in quel momento il ragazzino era solo soletto, e doveva decidere con le proprie forze. Naturalmente qualunque essere senziente fornito di un briciolo di senno avrebbe optato per una retromarcia immediata, senz’altro disonorevole ma de cisamente molto più salutare, ripercorrendo la cigolante via del ritorno fino a terra. E spendendo, nel contempo, qualche sentita preghierina al proprio santo preferito affinchè la tra ballante scala a pioli restasse in vita ancora per qualche manciata di minuti. Ma il giovane, appollaiato come un pollastro (fisicamente ma soprattutto metaforicamente) a qualcosa come sette metri da un suolo che aveva tutta l’aria di essere  spiacevolmente solido, in quella circostanza non stava ragionando con tutto sé stesso. Bensì, ahilui, con la mente plagiata dalle imprese del suo eroe preferito (del suo eroe preferito del momento, convinto di esser stato, quando ancora il Signore degli anelli non era stato distribuito nelle sale cinematografiche, la personificazione del magico Harry Potter, e prima ancora del guerriero stellare Anakin Skywalker), tant’è vero che l’interrogativo che gli frullava in testa non verteva sulla modalità di ridiscesa da quel posto, e cioè se velocemente o velocissimamente, ma al contrario come si sarebbe comportato il prode Frodo Baggins in quell’evidente situazione di sommo periglio. Avrebbe, con rispetto parlando, girato le chiappe, se fosse stato magari inseguito dai Nazgûl, i Cavalieri Neri inviati da Sauron per strappargli l’anello (e già che c’erano anche tre o quattro arti a scelta), o si sarebbe lanciato in avanti senza pensarci su un attimo? Era ovvio che, ci ematograficamente parlando, con a disposizione fior di stuntman e mirabolanti effetti speciali e via dicendo, la risposta a quel quesito era la seconda. Coincidendo, malauguratamente, con la scelta che stava per effettuare Amedeo. Per più,  come se non bastasse, la sua nuova condizione di “cotto marcio” (che, come insegnava Paperino in un fumetto di una vita fa, “fa parlare alla luna e fare cose sceme”) gli fece immaginare la dolce Vanessa varcare in quell’istante la soglia dell’ampio fienile, scorgendolo stagliarsi lassù come il più temerario degli acrobati del circo Togni. Di certo il respiro della fanciulla si sarebbe mozzato, e la sua bocca a vrebbe disegnato una perfetta O di meraviglia e di ammirazione, magari accompagnato da un lieve battimani di incoraggiamento. E così, più che la gloria potè la dabbenaggine travestita da temerarietà per amore, se il piede del ragazzino si mosse quasi dotato di vita propria. Non appena compiuto il primo, guardingo passo, Amedeo rimpianse la rassicurante sicurezza trasmessagli fino ad un secondo prima dal legno del pilone contro la sua schiena, e ancora una volta un gracile embrione di pensiero cercò di convincerlo a far dietro-front, morendo un secondo dopo la sua infelice nascita. La distanza tra il punto di partenza e il traballante aspirante equilibrista aumentò progressivamente, venti centimetri, mezzo metro, un metro e mezzo, ma il traguardo finale, agli occhi del ragazzino, sembrava allontanarsi di pari passo, in una beffarda deformazione della realtà materiale.
Amedeo procedeva a testa alta, le braccia allargate (anche se avrebbe preferito di gran lunga stringere tra le mani un’asta di bilanciamento, magari lunga due chilometri, come aveva visto in qualche filmato televisivo… di solito passato a Real Tv, nel quale era compresa la poco confortante garanzia dell’inevitabile brutta fine del lo spericolato di turno), resistendo stoicamente ad un dannato prurito sulla punta del naso. Ten tò di agitarlo freneticamente come aveva visto fare ai conigli rinchiusi nelle gabbie lì accanto, senza ottenere risultati apprezzabili. il silenzio sotto le travi dell’ampia volta del tetto era totale, quasi religioso, rotto solo dai brevi, concitati respiri del ragazzo e dal tambureggiare del suo cuore giusto dentro le orecchie. Un’impertinente goccia di sudore, a dispetto della temperatura per niente afosa, scivolò giù dalla fronte, alleandosi col pizzicore al naso nel tentativo di farlo impazzire dal prurito. Amedeo cercò di non farci caso, lo sconnesso pavimento che intravedeva sfocato molto sotto di sé gli rammentava che quello non era certo il principale dei suoi attuali problemi, e che di prurito non era mai morto nessuno, almeno a sua insaputa, per cui si concentrò nel porre un passo dopo l’altro con una lentezza che ricordava un suggestivo replay televisivo. Arrivato a circa metà del suo tragitto, quando dal punto di vista squisitamente statistico proseguire o tornare indietro sarebbe risultato del tutto ininfluente (ma in ogni caso di ipotizzare un’inversione a U su un grissino di legno, dal punto di vista emotivo, squisito o non squisito che fosse, non se parlava proprio), cercò di stimolarsi con l’illusione che il suo hobbit preferito fosse lì con lui a spronarlo e incitarlo. E soprattutto ipotizzando che, se la leggiadra damigella dei suoi sogni fosse stata realmente giù in basso ad ammirarlo, di certo non avrebbe gradito un  bell’hamburger di ragazzino spiaccicato. Servito al volo e molto al sangue, per di più. Per sua fortuna, al contrario di quando aveva abbandonato il porto sicuro del pilone di legno per iniziare la traversata sul nulla, la distanza davanti a lui iniziò ad accorciarsi, due metri, uno, cinquanta centimetri, e tutto d’un tratto lui si rese conto che,  allungando un braccio davanti a sè, avrebbe potuto apprezzare sotto i polpastrelli il celestiale ruvidume del legno. La consapevolezza di avercela (quasi) fatta agì come una boccata di gas euforizzante, che gli riempì la testa rischiando di causargli un inopportuno capogiro. Agguantò il pilone con le mani, stupendosi di quanto sensuale e desiderabile fosse quel contatto, poi lasciò da parte ogni pudore gettandogli le braccia al collo. L’odore di resina ormai fossile deliziò le sue narici, e dovette trattenersi per non baciare la ruvida superficie del legno, neanche fosse la più agognata delle terre promesse.
- Sì - sussurrò estasiato, ripromettendosi che per quell’anno in corso (e forse buona parte di quello a venire) per quanto riguardava le imprese mirabolanti aveva già dato a sufficienza, poi il suo sussurro aumentò di volume, trasformandosi in un isterico urlo di gioia - sì si Si’ Siiiii !!!! -
Come sarebbe accaduto spesso nel proseguo della sua lunga vita, proprio quando aveva la gonza illusione che il peggio fosse passato, qualcosa lo smentì, esplodendo appena sopra la sua testa in un improvviso frullìo di piume nere e polvere e pagliuzze, spaventandolo a morte
(BARLOG, IL GIGANTESCO DEMONE DEL TEMPIO ANTICO!!!, urlò una squilibrata porzione della sua mente, ancora spaparanzata su una poltrona di prima fila del cinema)
Si lasciò cadere di sotto, pregando di beccare il primo piolo della scala giusto sotto i suoi piedi. L’ambito bersaglio fu centrato, e affondato, visto che la malconcia astina di legno cedette con uno schiocco secco che rimbombò come un colpo di fucile nel vasto locale. Scatenando un ulteriore e misteriosissimo strepito sopra di lui, dove qualcosa di frenetico e indistinto agitava l’aria tutt’intorno come un ventilatore al massimo della potenza. Amedeo si sentì precipitare per un breve secondo, che a lui sembrò durare un’eternità, prima che la suola dei suoi scarponcini incontrasse il piolo successivo. Questi, come un rude soldato d’altri tempi, si piegò ma non si spezzò, e il ragazzo, spasmodicamente aggrappato ai montanti della vecchia scala, potè indirizzare con tutta comodità una caterva di maledizioni ai piccioni che gli svolazzavano intorno, spaventati dalle sue urla di esultanza.
Quando il suo cuore abbandonò l’idea di battere il record mondiale di pulsazioni, si decise a muoversi, riprendendo a scendere con molta accortezza. A quel punto trovò alquanto di conforto il fatto che non fossero presenti occhi estranei ad ammirare quella sua perfomance circense, visto l’esito del gran finale, e convenne con sé stesso che forse era il caso di escogitare sistemi alternativi per impressionare le fanciulle. A pochi metri dal suolo, quando ormai avrebbe anche potuto azzardare uno “zompo” fino a terra, il “nuovo” Amedeo che era nato in lui in seguito a quell’infelice esperienza si trattenne, valutando saggiamente che se fosse caduto male avrebbe potuto slogarsi una caviglia. Così si trovò relativamente pronto quando, un attimo dopo, un secondo piolo tra ditore passò a miglior vita all’improvviso: mentre lo schiocco secco del legno spezzato esplod va sotto i suoi piedi, si afferrò con decisione al gradino all’altezza del suo naso. il suo corpo dondolò all’infuori, come il batocchio di una  campana, per ricadere poi pesantemente contro il massiccio pilone di legno. Qualcosa lo morse appena sotto il ginocchio destro, e una fitta lancinante percorse la sua gamba come una bruciante scossa elettrica. Per lo spavento e il dolore lasciò la presa, atterrando con le chiappe sul polveroso pavimento del fienile. il contraccolpo gli si ripercosse su tutta la colonna vertebrale, scaricandosi in un violento sbattere di denti che graziò la lingua dalla decapitazione solo per un puro caso fortuito.
Restò immobile a gambe larghe, seduto per terra, senza osare indagare su quello che poteva esserci al di sotto del buco frastagliato che si apriva nei suoi pantaloni di lana grigia (e già questo poteva bastare come problema, viste le deliranti raccomandazioni materne sul fatto di non sporcare e/o rovinare i vestiti buoni, anche se ben sapeva che le disgrazie, solitamente, non si presentavano mai da sole). Aveva netta l’impressione che qualcosa gli colasse lungo il polpaccio, e si augurò fosse parte del sudore che gli impregnava il corpo in seguito alla tensione di quei momenti. Alzò lo sguardo, e i suoi occhi ebbero la spiacevole sorpresa di incontrare la causa di quella pungente aggressione. Dalla parete del pilone, ora non più amichevole e sensuale, sporgeva un lungo chiodo che sembrava stringere tra i denti (non li aveva, ovvio, ma in ogni caso quella era l’impressione che dava) un brandello di stoffa grigia dei pantaloni del ragazzo, come fosse un valoroso trofeo di guerra. Deglutendo a fatica, Amedeo aguzzò la vista per osservarlo meglio, ma la luce grigiastra del fienile non lo aiutò a capire se quel grosso chiodo sembrasse rossastro perché bagnato del suo sangue o se fosse solo ricoperto di pericolose scagliette di ruggine.
Considerando che al quel punto la sorte era ampiamente creditrice nei confronti del ragazzo, molto probabilmente in realtà erano attendibili tutt’e due le ipotesi.

35_

Emma osservò la figura del fratello sbucare da sotto l’ombra del grande portico, a fianco della casa di Efrem e Ina. Amedeo sembrava zoppicare vistosamente, sempre che non fosse una delle sue innumerevoli trovate per prenderla in giro, mentre con la mano si stringeva il ginocchio. Quando le fu un pò più vicino notò con un certo disagio che il viso del ragazzo era biancoco me avesse tuffato la testa nel secchio pieno di latte delle mucche. Arrivò presso di lei, sotto il grande abbraccio dell’albero, esibendo uno sguardo sofferente e spaventato che ben poche volte aveva avuto modo di vedere sul volto del fratello, dal quale solitamente riceveva sporadiche attenzioni a base di smorfie schifate e occhiate spazientite:
- Mi... mi sono fatto male - biascicò con un filo di voce indicando il pantalone lacerato, in cui non aveva ancora avuto il coraggio di sbirciare, alla faccia di valori cavallereschi e guerrieri senza macchia.
Nella sua testa, dall’attimo dell’incidente, continuava a lampeggiare il ricordo di una sbirciata clandestina ad uno dei dizionari medici di suo padre (un tipo di pubblicazione che non scarseggiava certo in casa del dottor Anelli), e più in particolare la pagina con le definizioni da TET a TUB, in cui si poteva apprezzare una stringata quanto esauriente descrizione delle pericolose conseguenze di una ferita causata da un oggetto arrugginito. Emma sulle prime non afferrò il senso della frase, convinta che il fratello l’avesse minacciata con un ingiustificato “ti faccio male”. Amedeo il prode non aveva MAI manifestato in sua presenza un qualche tipo di sofferenza fisica (sarebbe stato come ammettere un’imperdonabile debolezza ad un nano rompiscatole come lei), nemmeno quando questa era palese, escludendo che il ragazzino fosse invulnerabile come uno dei supereroi di cui andava matto. Ad esempio come quando, per fare lo scemo e imitare un furibondo assolo di chitarra, era volato giù dal letto a castello del villaggio-vacanze in Calabria, l’agosto precedente, oppure come la volta in cui, dondolandosi dallo stipite della porta della loro camera, aveva calcolato male l’oscillazione, piombando a terra in una “schienata” memorabile. in entrambi gli episodi, e in altri ancora, si era alzato un pò malconcio, ma un traballante “f-fatto n-iente...” aveva sancito la sua apparente resistenza ai danni fisici.
Ma adesso, nel cortile deserto
(strano, molto strano, aveva pensato la mente semplice della bimba, non ancora così smaliziata da mettersi sulla difensiva, ma comunque guardinga)
aveva pensato di rivolgersi a lei come primo soccorso, invece di tener duro e raggiungere uno dei genitori che, per età anagrafica ed esperienza, avevano molte più chanches di conforto e assistenza.
Certo, valutò Emma osservando la stoffa lacerata come se un colpo di pistola fosse stato esploso dall’interno del pantalone, andare dalla mamma a dirle “mi sono fatto male” (probabilmente stavo facendo una delle mie solite stupidate e mi sono fatto male) e in più “ho rovinato i pantaloni nuovi” non era una scelta che possedesse grandi attrattive di fascino.
- Come hai fatto? - s’informò sistemandosi meglio sul ceppo su cui era appollaiata, ben sapendo che il fratello, come un volpone di avvocato di mestiere, le avrebbe fornito una versione del tutto inattendibile e che avrebbe certo escluso ogni forma di goffa responsabilità personale. Il ragazzino non la deluse affatto, spiegando che mentre non stava facendo niente di speciale era inciampato in qualcosa di indefinito che nella penombra del fienile non aveva visto in tempo e che nonostante lui avesse reagito con sorprendente prontezza di riflessi, l’aveva fatto cadere su un chiodo che spuntava da un’asse. Un chiodo arrugginito, aveva precisato, mentre l’artificiosa disinvoltura del suo racconto si smarriva in uno sguardo improvvisamente preoccupato. Uhi uhi, rimuginò la bimba aggrottando la piccola fronte, cose serie... lo sapeva anche una nanerottola di quasi-sei-anni che quella era una faccenda su cui non c’era da scherzare... all’asilo le avevano anche fatto qualcosa di misterioso, che prevedeva una specie di innocuo pizzico al braccio (innocuo per le sorridenti signorine, non del tutto secondo il suo interessato parere) e subito dopo un delizioso dolcetto che aveva tutta l’aria di un imbarazzato tentativo di far passare il tutto sotto silenzio.
- Forse devi andare in casa a farti mettere un “ceretto” - gli suggerì la bimba, con una faccia compunta da scrupoloso medico, di cui suo padre sarebbe stato senz’altro orgoglioso. Si chinò in avanti, in una posa instabile che rischiò seriamente di farla volar giù da quel suo trono, prendendo a scrutare da vicino la gamba del fratello, tenuta prudentemente sollevata dal suolo - naturalmente dopo che ti sarai “disinfestato” per bene… speriamo che Terry in casa abbia il Noalco (il “Noalcool” era un toccasana indispensabile in una famiglia con due figli scatenati, per poter intervenire su tagli e sbucciature senza svegliare tutto il condominio dalle urla, in seguito ad incaute  medicazioni con prodotti che “bruciavano da morire”) così non ti farà neanche un po’ di mal… -
Si bloccò, tirandosi su per piantare nel viso del presunto ferito uno sguardo carico di indignazione e sospetto. Uno sguardo che diceva più che chiaramente “l’avevo detto io che mi prendevi in giro”, aggiungendo inoltre “dovevo immaginarlo che lo scemo non cambia mai”. Amedeo restò impalato come un baccalà, del tutto incapace di leggere il messaggio che i meravigliosi occhi azzurri della sorellina gli stavano lanciando.
- Beh?!? - borbottò, scervellandosi per trovare un nesso logico a quell’improvviso voltafaccia. Emma corrugò la fronte in un’espressione di severo rimprovero, incrociando le braccine sul petto:
- Ah ah ! - esclamò - guarda che non sono mica venuta giù dalla montagna con i piedi - sentenziò, rifacendo il verso ad una frase tipica di suo padre, che aveva sentito in casa talmente tante volte da riuscire a memorizzarla (in realtà Renato Anelli, quando la moglie cercava di menarlo per il naso in qualche diatriba casalinga, tuonava  “guarda che non sono mica venuto giù dalla montagna con la piena”, che era peraltro la versione esatta del modo di dire, ma ad una una vispa quasi-sei-enne si poteva concedere qualche licenza poetica) - io con te non ci parlo più perché continui a prendermi in giro! -
- Di cosa capperolina stai parlando? - piagnucolò lui, non avendo per niente idea di quanto tempo occorresse alla “malattia della ruggine” (della quale non osava  nemmeno pronunciare il nome esatto, che in ogni caso gli volteggiava nella testa impaurita come un nero avvoltoio minaccioso) per svolgere il suo letale lavoro. La sorella sbarrò gli occhioni, stupita dal tono lamentoso del fratello ancor più che dalla sua fresca ammissione di vulnerabilità:
- Lì… lì - rispose indicando col ditino la piccola lacerazione nei pantaloni, col tono guardingo di chi non sapeva bene quale canzonante gioco stesse giocando l’altro, ma con tutte le buone intenzioni di NON abboccarci - alla gamba… non ti sei fatto NiENTE! -
A quel punto fu il turno di Amedeo, come in un bizzarro incontro di tennis psicologico, di cercare di intuire le intenzioni della bimbetta, non del tutto sicuro di comprendere dove volesse andare a parare:
- Mi sono piantato un chiodo nella gamba, altro che fatto niente - replicò piccato, sventolando la parte finale del calzone incriminato - e ho paura che sia una cosa parecchio grave… -
L’espressione di sospettoso sdegno nel visetto angelico si moltiplicò per mille:
- NON HAI NIENTE ALLA GAMBA! - insistette, col tono di una che voleva dire “smettila con questa manfrina, ormai il gioco è stato scoperto” - hai solo rotto i pantaloni, e questi sono affari tuoi, ma sotto non c’è niente che… -
il ragazzino smise di ascoltarla, prendendo ad arrotolandosi frenetico il calzone per verificare l’attendibilità della diagnosi della sorella (certo, in ogni caso, di star per posare gli occhi su un’orrenda ferita infetta e purulenta). Si osservò lo stinco: in corrispondenza del foro nella stoffa, confuso tra tracce pallide di cicatrici di varie epoche, gloriosi trofei di furibonde partite di calcio, si “intuiva” un leggero e circoscritto arrossamento (della pelle, non di sangue) che stava rapidamente scomparendo.
- AH AH! - ribadì la piccola seduta sul ceppo, trionfante in volto.
Amedeo non le badò, fissando la zona sotto il ginocchio con la fronte corrugata
(io ho sentito qualcosa colare, e soprattutto un dolore lancinante che non può essere stato causato da una bottina leggera, a meno di non voler ammettere di essere diventato una mammoletta…)
ma era evidente che non vi era traccia di lacerazione, Anzi, se non si guardava con attenzione si poteva anche pensare che non fosse mai incorso in nessun tipo di incidente. L’unico indizio tangibile erano alcune microscopiche scagliette di ruggine che il ragazzino si affrettò a soffiar via, cancellando così ogni testimonianza di quanto andava affermando.
- Ma… io…- balbettò ancora, rimettendosi a posto calzettone e pantaloni, mentre dentro di sé (e sotto lo sguardo ostentatamente sdegnato di Emma) decideva di accettare la realtà dei fatti. Unarealtà che poi non era così malvagia, visto che il succo era che lui l’aveva “sfangata” più di una volta quel pomeriggio, prima ad una  rischiosissima passeggiata a cento milioni di metri da terra, e poi dalle nebulose ma tragiche conseguenze della temibile “malattia della ruggine”. Con un gesto che sorprese entrambi, allungò una mano ad arruffare affettuosamente i capelli biondi di Emma, e girò sui tacchi per andare in caccia di Vanessa, da cui era stato separato anche troppo, per i suoi gusti.

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Capitolo 23
*** Consulto - Lorigo - Mao ***


36_

Teresa, nell’attimo esatto in cui uscì da camera sua (ancora totalmente scombussolata dagli sconcertanti eventi appena vissuti, ai quali non riusciva a dare un benchè minimo straccio di spiegazione) s’imbattè in Renato, faccia da sonno e capelli arruffati, che veniva verso di lei sbadigliando:
- Oh, Terry - la salutò stiracchiandosi - fortuna che Mister Delicatezza, da sotto, si è messo a sbraitare, o credo che avrei potuto dormire fino a domani… Lucia è ancora in coma profondo, e la mia diagnosi in merito non è per niente lusinghiera, avremo uno zombie in giro per laca sa fino a sera, temo - la osservò meglio sotto la luce del corridoio - ma tu… tutto bene ? Mi sembri un pò pallidina... -
La donna ci rimuginò su per vedere come impostare un discorso che le premeva molto intavolare, ma che rischiava di risultare quantomeno bizzarro: - Mmh… anch’io, un pisolino agitato - si giustificò - ...e un brutto sogno, merito di un’overdose da peperoni sott’olio… o del tuo vinaccio… - gli battè un dito accusatorio sul petto, tentando una battuta di spirito che non le uscì troppo brillante - comunque adesso sto meglio. Ma, cambiando discorso,ho bisogno di sapere una cosa… le volte  che sono venuta da te, subito dopo che… beh, hai capito, no ? -
Ahia”, pensò l’altro, improvvisamente a disagio, “ci siamo…”
- Sì, sì, certo - rispose frettoloso, come se l’argomento gli avesse acceso dei roventi carboni sotto i piedi - dimmi… -
Teresa si stropicciò le mani improvvisamente fredde
(oh, ma forse tu intendi il gelo che proviene da dentro di te, gracchiò la voce della nonna vecchia nella sua testa, ma lei la scacciò chiudendo la mente come un riccio impaurito) impostando il suo quesito nel modo più neutro possibile:
- Quando abbiamo parlato degli oggetti… sì, dei ricordi di Carlo che mi causavano sofferenza nel vederli… - l’uomo fece un segno di assenso con la testa, per farle capire che ricordava l’argomento - …ecco, come dire… ti ho mai parlato delle “orecchie” ? -
Renato corrugò la fronte, nel tentativo di decifrare la bizzarra domanda dell’amica, invitandola nel contempo a imboccare le scale verso il piano inferiore:
- Orecchie?!? - borbottò perplesso, lambiccandosi il cervello per trovarvi un nesso e, cosa ancora più importante, non dare un’ennesima delusione professionale all’amica con quella sua amnesia. Teresa volutamente non fornì ulteriori spiegazioni, mentre il medico ci pensava su, proprio perché voleva essere certa di non influenzare un risposta che sarebbe potuta anche essere determinante, per far luce sullo choccante episodio del libro
(L’ho fatto io, inconsciamente, si ripetè una volta ancora per cercare di tranquilizzarsi)
- Oh, finalmente dei miei simili, più o meno - sbraitò dal divano Gianni, non appena vide le gambe dei due sbucare dal piano superiore - temevo di essere rimasto l’ultimo essere vivente sul pianeta… -
Quella spiritosa frase acuì in Teresa il ricordo del sogno-incubo in cui tutti erano scomparsi, mentre un’espressione di disappunto le si dipingeva in volto (figurati se posso parlare dei miei problemi in presenza di Gianni, si disse maledicendo Renato che non si era trattenuto nella quiete del corridoio a finire il discorso, svicolando giù come se avesse qualcosa da nascondere)
(forse di essere l’autore di qualche discutibile scherzo?, la pungolò una pulce di ragguardevoli dimensioni che si era accasata nel suo orecchio)
- Scusami, Terry, ma… non ho proprio idea a cosa tu ti stia riferendo… - sbottò lui, scrutandola con sguardo indagatore - se puoi spiegarti meglio… -
(Sì, col piffero qui davanti a Mister Riservatezza…)
- Mmh, adesso ti spiego - rispose lei con tono disinvolto - fammi compagnia in cucina finchè metto su il caffè… -
in quell’istante la porta d’ingresso si aprì, e Guido e Diamante fecero il loro ingresso in casa, scortati da Amedeo e Vanessa, non agevolando per niente l’esigenza di privacy della padrona di casa, che vedeva l’aumento del via vai nella casa come un’evidente ostacolo alla sua discussione con Renato.
- Ciao ragazzi, tutto bene? - li salutò comunque in tono cordiale, imponendosi di comportarsi da perfetta padrona di casa.
- Oh sì - rispose sorridendo Diamante, prendendo a svolgersi dal collo la lunga sciarpa multicolore - e che spettacolo quella villa! -
- Già - le fece eco Guido, sfilandosi dal collo l’inseparabile videocamera - ommerda culo! - sbottò poi, facendo rotolar via dalle risate i due ragazzini entrati con loro - No! Lo sapevo, me la sono dimenticata accesa per l’ennesima volta… cavoli, avrò filmato almeno mezz’ora di interessantissimo sedile posteriore della macchina… -
- Scusa, dimmi una cosa - lo pungolò provocatorio Gianni - ma sei così professionale anche nell’ambiente di lavoro? No, no, non dirmelo, aspetta… adesso ho capito chi ha inventato i “fuori onda” a Striscia… -
il cameramen lo fulminò bonariamente con lo sguardo, mentre si assicurava di aver spento l’apparecchio. Nel frattempo Teresa e Renato avevano raggiunto il porto un po’ più tranquillo rappresentato dall’ampia cucina, dove le voci degli altri (alle quali si era aggiunta quella di Emma, che chiedeva qualcosa di non meglio definito a “zio Guido”) giungevano più smorzate.
- Allora… - riprese Renato, appoggiato ad una credenza - cos’è che stavi dicendo prima? -
Teresa tirò fuori da un pensile il barattolo del caffè, prendendosi un po’ di tempo nel rispondere:
- No, niente d’importante - ribattè, facendo una smorfia nel cercare di svitare la caffettiera, e poi passandola all’uomo che si stava offrendo di aiutarla - era sempre riferito a quel sogno di cui ti dicevo… riguardo ad una stupida usanza di Carlo nel… coi… -
Improvvisamente la vita che si era ridestata nella casa, le risate dei ragazzini a qualche battutaccia di Gianni, nell’altra stanza, il calore, le luci, il ritorno alla realtà, in definitiva, avevano in qualche modo fatto sbiadire la spiacevole consapevolezza di quanto le era successo su in camera. E anche se un latente senso di angoscia le rimaneva impigliato in gola, provò ad immaginarsi con che tipo di parole avrebbe potuto spiegare il tutto a Renato, e il risultato le era parso alquanto zoppicante e discutibile
(vedi, il problema è che mi si è formata un’ “orecchia”… così la chiamavano io e Carlo, era una sua mania che io non vedevo di buon grado… in un libro che sto leggendo… sì, capisco che il termine mi si è formata” è un po’ ambiguo, ma vedi, io mai e poi mai, di mia spontanea iniziativa, sarei riuscita a…)
Si figurò lo sguardo dell’amico a quelle sue tentennanti spiegazioni (il suo comprensibile sguardo) e l’impulso a vuotare il sacco perse un altro po’ del suo già debole fascino. Poi, a seppellire definitivamente lo slancio di Teresa, arrivò un proiettile dalle codine bionde, che si catapultò nella cucina piombando contro il basso ventre del padre come una palla da baseball in un guantone di ricezione (e ad occhio, dalla smorfia sofferente di Renato, anche con la stessa potenza di impatto):
- Papà, papà - esclamò la bimba agitatissima - ha detto lo zio Guido che a Rovigo hanno visto che c’è un super mercatino di Natale, ma proprio bello con tutte le lucine e le bancarelle e un sacchissimo di cose belle, e ha detto che domani ci porta senz’altro e sarebbe bello andarci tutti assieme se magari c’è ancora qualcosina da  comprare… dico per fare i regalini a tutti, non perché io debba comprarmi qualcosa… -
- Immagino volessero dire che a LONIGO hanno visto il mercatino - le rispose l’uomo, a metà tra il dolorante e il divertito - almeno, voglio sperare che non siano andati e tornati da Rovigo con la mia auto, in meno di due ore… - la tirò su tra le braccia, mentre lei si divincolava per sfuggire a qualche probabile tortura affettuosa a base di baci e morsi - un mercatino di Natale la Vigilia di Natale, lei mi dice, signora? Oh, ma tutto ciò significherà caos di gente, spintoni, traffico… mmmh - le ficcò il barbone nell’incavo del collo, facendola esplodere di solletico - …ne sono deliziato. anzi, credo che domani mi verrà la febbre… -
- Oh, ma papà… sei sempre così… barbogianni!!! - sbuffò indignata la piccola, sibilando fuori quel bizzarro neologismo (che presumibilmente per lei stava a indicare il non plus ultra della noiosità paterna) mentre portava al successo il tentativo di evasione dall’abbraccio di Renato - vabbè, vedrai che qualcuno lo troveremo, che ci accompagna a Lorigo! - concluse risgattaiolando fuori dalla cucina.
Teresa ridacchiò sinceramente divertita, nell’assistere a quell’esilarante e tenero battibecco familiare, e il pensiero anarcoide latitante nel suo cervello si affrettò ad approfittarne, intensificando gli sforzi del suo tam-tam destabilizzante
(non-puoi-permetterti-di-rimanere-sola-non-puoi-permetterti-di-rimanere-sola)
La caffettiera prese a brontolare, e la donna iniziò a preparare un numero di tazzine sufficienti per tutti, mentre Gianni faceva capolino nella cucina:
- Dottore - chiamò, agitando in direzione di Renato un mazzo di carte da briscola - guarda cosa ti ha trovato qui il tuo maestro di cerimonie! - notò che Teresa lo stava osservando e sfoderò un sorriso mellifluo - scusa, Teresa… voi non venivate mai giù e io mi rompevo… ho dato solo una sbirciata in un paio di cassetti, di qua in sala, niente di compromettente, ad una prima analisi… - la donna gli restituì il sorriso, facendogli cenno che non era un problema. L’uomo continuò a confabulare con Renato - vabbè, in ogni caso… quale magica parola ti viene in mente, vedendo queste? -
il medico si strinse nelle spalle:
- Che parola dovrebbe venirmi in mente? - chiese perplesso - Briscola? -
L’amico gli dedicò uno sguardo a metà tra l’indignato e lo schifato, come se l’altro gli avesse risposto con una volgarità inaudita:
- Ma che briscola e briscola! - insorse - ma vi siete bevuti il cervello, in tutti questi anni? La parola magica è… tienti forte… Mao! -
il viso dell’altro s’illuminò:
- Mao?!? - ripetè con un largo sorriso - Oh mio Dio… hai ragione, come ho potuto dimenticarmene? Saranno due secoli che non ci gioco! -
- L’hai detto, fratello… E adesso è giunto il momento di riparare a questa blasfema astinenza… su, muovi il culo che ci aspetta una notte lunga e perdente… per voi, intendo… -
- Ragazzi, vi ricordo che il Mao scatena in voi istinti belluini e violenti - precisò, scherzosamente ma non troppo, Teresa versando il caffè nelle tazzine - solo che adesso non siete più rintanati in fondo all’aula di scienze, ma ci sono caste orecchie di signore e di minori a portata di bestemmie… -
Renato, ringalluzzito dalla prospettiva di quel gioco di antica data, non le badò più di tanto:
- Ma… Guido ci sta? - chiese ansioso, ben sapendo che in meno di quattro giocatori la tenzone avrebbe perso buona parte delle sue litigiose attrattive. Gianni fece segno di stare tranquillo, annuendo solennemente con la testa:
- A Guido gliel’ho chiesto io personalmente - disse imitando la roca pronuncia di Brando nel “Padrino” - ed è una richiesta alla quale non si può rifiutare… - tornò alla sua voce normale, riagitando le carte come un magico amuleto - Teresa? -
Lei roteò gli occhi:
- Ah, no, no, per carità ! - esclamò ridendo - peccati di gioventù in cui spererei di non ricadere… poi va a finire che mi ritrovo col mal di testa, incazzata nera e magari con qualche soldino di meno… - fece un vistoso segno di rifiuto col dito - scannatevi pure, se volete… possibilmente sottovoce… ma non contate su di me… -
Gianni sfoderò un’infantile smorfia di disappunto, poi ci pensò su un istante, ritrovando il buonumore:
- Vane - disse rivolto alla figlia nella sala - fai un salto su a svegliare mamma… dille che è importante… -
Mentre la ragazzina eseguiva, Renato lo fissò con le sopracciglia arcuate:
- Svegli Cristina per una partita a carte?!? - chiese incredulo, pur conscio che trovare il quarto al tavolo, una volta diffuso il morbo “maoesco”, era una faccenda assolutamente determinante.
- Tu non preoccuparti - ribattè l’altro, evitando di proposito l’occhiata decisamente più indignata di Teresa - no habe problema… anzi, credo che mi abbia sposato soprattutto per la mia maestrìa nel giocare a Mao… -
L’altro gli assestò un innocuo pugno sulla spalla:
- Sì… adesso lo verifichiamo subito… se sei ancora la solita schiappa dei vecchi tempi… -
il pubblicitario lo prese sottobraccio:
- Sarà mio preciso impegno deluderti, caro - rispose, pilotandolo verso la sala - quanto vogliamo fare… un paio di euro a mano? -
Si allontarono, lasciando Teresa alle prese col vassoio carico di tazzine. La donna ridacchiò, scuotendo la testa. La Mao-mania era scoppiata improvvisamente all’inizio del loro terzo anno di superiori, propagandosi in un baleno come un rigagnolo di benzina infuocata. Durante la ricreazione, e in ogni pausa dell’attività scolastica (e verso la fine dell’anno anche in svariati momenti di non-pausa, in silenzio e sottobanco, mentre il prof Ursato era intento a scrivere formule sulla lavagna), era uno spettacolo consueto vedere capannelli di studenti impegnati in furibonde partite a carte, in ogni angolo del vetusto edificio che ospitava il liceo. Il gioco in sé era tutto sommato  alquanto banalotto: si trattava di rispondere con lo stesso tipo di seme o di valore di carta a quella presente di volta in volta sul piatto, ori con ori, o un sette con un altro sette, e via così. Il pepe alla partita era dato da alcune semplici regole, ad esempio che i cavalli cambiavano il gioco, per cui si poteva mutare il seme sul tavolo a  seconda del proprio tornaconto, che gli assi facevano saltare il turno al compagno alla propria destra, e ancora che i fanti regalavano due belle carte pescate dal mazzo, ancora allo sfortunato che ci seguiva nella mano di gioco. Questo scatenava esilaranti reazioni isteriche, basti solo pensare al poveretto che si trovava al termine di una tripla “scaricata” di fanti (che potevano essere cumulativi), costretto a caricarsi sul groppone ben sei carte extra. Considerando che lo scopo del gioco era finire le carte in proprio possesso prima degli altri, viene facile capire che non erano visti di buon occhio questi improvvisi e casuali “regali” a cui non ci si poteva sottrarre. L’ultima regola, la più deflagrante, era che chi rimaneva con una sola carta in mano doveva avvertire sportivamente gli avversari (esclamando il “Mao” che dava il nome al gioco), per dar loro modo di approntare eventuali strategie difensive, solo che questo annuncio non sempre veniva dato con adeguato volume di voce. Era ovvio che il fortunato  possessore della carta superstite, in vista dell’ambita vittoria finale, si affrettava a difendersi accusando a sua volta gli altri di “non aver sentito” il suo regolamentare Mao, di solito perché troppo impegnati a battibeccare tra di loro, ma l’unico risultato tangibile di questa accorata e indignata giustificazione era di scatenare infuocate risse verbali.
E adesso il solito Gianni vuol distruggere la pace che regna in questa casa con una celebrativa replica delle velenose “bische” in cui trasformavano le nostre classi, rimuginò Teresa impugnando con attenzione il vassoio e dirigendosi verso la sala illuminata, e io non sono riuscita a cavare un bel niente da Renato, visto che non ci hanno lasciato neanche due minuti per parlare in tranquillità
Fece il suo ingresso nella sala, salutata dai commenti entusiastici dei suoi ospiti nell’annusare l’accattivante profumo del caffè. I “giocatori” si erano già posizionati ad uno dei capi della lunga tavola, intenti a scrivere nomi e tabelle punteggi su un bloc-notes, mentre dalla sommità delle scale faceva la sua apparizione un’assonnata e rassegnata Cristina.
Devo trovare un altro momento per parlarci con calma, si ripromise appoggiando il vassoio in prossimità degli altri, mentre si sforzava per allontanare dalla sua mente l’inquietante immagine del cassetto della scrivania che la attendeva in camera, lasciando che le battute e le risate dei suoi amici, che avevano già preso a questionare ancora prima che le carte fossero distribuite, la coinvolgessero.
Nel frattempo, dentro di lei il pensiero petulante lavorava instancabile, senza fare il minimo rumore, ma insistendo a conficcarle nell’anima acuminati uncini di ansia, via via sempre più numerosi e laceranti.

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Capitolo 24
*** Scossa - Bacio ***


37_

Amedeo si osservò la brutta faccia pallida che lo specchio del bagno gli stava mostrando, accentuata in peggio dall’impietosa luce al neon. Era seduto sulla tazza del water, con i pantaloni arrotolati intorno alle caviglie, anche se non era intento in nessuna operazione fisiologica (nessuna spedizione di biglietti amorosi con destinazione pagine di agenda femminile, per capirci). La sua scrupolosa (e un po’ ansiosa) attenzione era rivolta, per la centesima volta, al tratto di gamba compreso tra il suo ginocchio destro e lo stinco, dove NON campeggiavano af fatto eventuali tracce del suo recente incidente acrobatico. Ora che era trascorso un po’ di tempo, sempre comunque nell’ordine di mezz’oretta o poco più, era completamente scomparso anche il lieve arrossamento presente al momento in cui il conforto di Emma gli aveva fatto trovare il coraggio di darci una sbirciata
(io ho sentito un male cane, in ogni caso)
Si passò un dito leggero appena sotto la rotula, seguendo la rugosa irregolarità di una cicatrice frutto di un errato calcolo delle distanze (il banco su cui aveva tentato di balzare, per fare il gradasso davanti al resto della classe, era leggermente più distante della sua valutazione, e se ne era reso ben conto quand’era in volo), mentre il suo cervello limitato, fantasioso fin che si voleva solo quando si trattava di inventarsi mostri o storie mozzafiato, annaspava nel tentativo di darsi qualche straccio di spiegazione accettabile. Anche se un po’ di malavoglia, ri percorse nella mente le fasi finali e concitate del suo numero da baraccone, per vedere di esaltarne  Particolari che potevano risultare illuminanti: uno stupidissimo stormo di piccioni, altro che demoni degli abissi profondi, spaventati dal suo entusiasmo per avere concluso la traversata aerea, gli avevano reso pan per focaccia facendogli fare un balzo terrorizzato in direzione della scala. Questa, dopo alcuni attimi di suspence, aveva retto bene all’urto, tenendo botta al suo peso fino a qualche metro dal suolo. a quel punto, un piolo più cagionevole di salute dei suoi fratelli si era spezzato, e buon per i riflessi di Amedeo se non era piombato giù come un sacco di patate. Buon e mal per lui, in realtà, visto che il suo tentativo di contrastare l’imprevisto l’aveva mandato a sbattere con violenza contro il montante della scala. E in quell’istante, qualcosa lo aveva (punto? morso? pugnalato?!?) alla gamba, strappandogli una lancinante (e alquanto realistica) fitta di dolore. Una sensazione calda e bagnata gli era colata lungo il polpaccio, e un aguzzo chiodo nel punto d’impatto tra lui e la scala (un chiodo con un buffo cappellino fatto con la stessa stoffa dei suoi pantaloni) non lasciava molto spazio alla fantasia. Bastava un semplice due + due. Solo che poi le rassicurazioni di sua sorella (e gli occhi di lui) avevano dimostrato che non sempre quello che si crede (e si prova) coincide poi con la realtà. La sua mente frugò in vari archivi mnemonici alla ricerca di un termine che aveva sentito un paio di volte utilizzare da suo padre, lo trovò e lo snocciolò fuori titubante: suggestione?
Possibile? il concetto formulato dal suo genitore, riferendosi ad un paziente che aveva in cura, era che, a volte, ‘sta benedetta suggestione riusciva in maniera sorprendente dove la medicina, o addirittura la logica stessa, si fermava. Discutendo con la moglie, aveva portato l’esempio di finti medicinali, composti da un po’ d’acqua e zucchero, che riuscivano ad attenuare (e a volte a far sparire) sintomi e conseguenze di malattie anche di una certa gravità. Anche a questo aveva dato un nome
specifico, ma a quel punto l’irrequieta attenzione di un dodicenne si era già indirizzata su sentieri più stimolanti, e l’effetto gazebo che risuonava in quel momento nei suoi ricordi non lo convinceva più di tanto. E in ogni caso il punto non era quello, ma l’ipotesi che il dolore patito
(E io l’ho patito, oh se l’ho patito)
in quel frangente fosse, allo stesso tempo, reale e inventato. Ci pensò su, giocherellando con lembo di carta igienica strappato al rotolo appeso accanto a sé, e proprio quando si ripeteva che era una spiegazione troppo rabberciata per essere convincente, gli venne in soccorso un fulmineo ricordo. Come con la storia della prolunga!, si disse dandosi un sonoro colpo di palmo al centro della fronte. Era successo un paio d’anni prima: una sera d’inverno, camminando per la camera da letto immersa nell’oscurità, il suo piede nudo aveva calpestato la parte terminale di una prolunga elettrica, dimenticata lì da sua madre che l’aveva utilizzata per una massiccia passata di aspirapolvere “in quel porcile che chiami camera tua”. il capo opposto del filo era ancora infilato nella presa nella parete, e l’improvviso, dolorosissimo “morso elettrico” lo aveva fatto balzare fin sul letto, con i capelli dritti sulla testa per lo spavento e la scarica ricevuta. Quella sì, ora che gli era tornata in mente, era stata un’esperienza della quale avrebbe fatto senz’altro a meno, altro che una ferita immaginaria di un chiodo solitario. Ma era la seconda parte dell’episodio-prolunga che avrebbe potuto chiarire definitivamente i suoi dubbi: un anno dopo, mentre si stava dedicando al collegamento di una Playstation nuova di zecca, preso atto che la poco pratica disposizione dei punti elettrici di camera sua non ne permetteva un sistemazione adeguata alle sue esigenze (giocare stravaccati sul letto), aveva fatto una capatina in sgabuzzino, per recuperare la provvidenziale prolunga. E qui, nell’attimo in cui ne afferrava un capo, gli sfrecciò nella mente l’eventualità che il filo elettrico fosse nuovamente collegato ad una presa, ripescando dalla sua mente il lancinante ricordo del “morso” al piede. Sorpreso da quel pensiero, aveva lanciato via la spina che stringeva nel palmo sudaticcio, ma per un breve, intenso secondo la replica, immaginaria ma al tempo stesso spiacevolmente reale, della scossa presa gli serpeggiò lungo il braccio come un saettante fulmine.
Poteva essere? Certo che poteva! Senza dubbio durante l'ascesa lungo la prima scala, aveva avuto modo di registrare la presenza (in maniera inconscia, valutò, e la cosa gli piacque assai, perché sapeva di cose da adulti) di vari altri chiodi che avevano ben donde di esistere infissi qua e là. Cribbio, siamo in un fienile, un ambiente infido e pericoloso, pieno di taglienti insidie, chiodi, vetri rotti, “sgresende” del legno, mica in un’asettica e noiosa aula scolastica! Di conseguenza la sua mente (il mio subconscio, tiè) aveva memorizzato quella pericolosa eventualità a cui stare all’occhio, e quando l’attenzione logica aveva abbassato le sue difese, spazzata via dalla scarica di adrenalina in risposta all’imprevisto, gli si era formulata nella mente la più probabile delle eventualità. Così vivida da fargli sentire terrore e dolore e sangue che scorreva. Buttò un’occhiata timorosa sul ginocchio, temendo forse di vedervi apparire come d’incanto una ferita sanguinante e orrenda (e “infarcita” di scaglie di ruggine) ma, a parte qualche pelo solitario, la sua pelle era intatta come quella di un neonato. Restava il problema dei pantaloni in tuìd (o almeno così li chiamava sempre sua madre, e “domenica potresti metterti i tuoi bei pantaloni in tuìd” oppure “tirati su da terra che rovini i calzoni che sono in tuìd”… bah!), l’unica digressione al suo consueto
stile nel vestire (composto in toto da jeans sdruciti e felponi chiassosi ) che lui aveva magnanimamente approvato, tanto perché a Natale un pizzico di bontà non  guastava. Di conseguenza, veto assoluto al completo blu così normale e deprimente, che un pò aveva comunque rimpianto al loro arrivo lì, ma che adesso, col classico senno di poi, stava molto meglio al sicuro nell’armadio di casa. Non osava nemmeno pensarci, alle devastanti ripercussioni materne, se fossero stati i pantaloni blu a fare quella misera fine… Sderenati da quello che sembrava un preciso colpo di fucile…sai, mamma, c’era un cecchino appollaiato sul tetto del fienile che ha iniziato a far fuoco… io mi sono salvato per un pe lo, ma il povero tuìd… Provò a recitarlo a mezza voce, ma non reggeva. Fece due rapidi calcoli mentali: il giorno seguente sarebbe stata la Vigilia, il che avrebbe significato, se tutto filava liscio, una lunga, esaltante cavalcata verso l’obiettivo finale, i luccicanti pacchi custoditi sotto le fronde del grande albero di Natale. E, come antipasto, sempre che l’irresistibile capacità di convinzione di Emma nei confronti degli adulti avesse funzionato come al solito, una romantica passeggiata tra i banchetti del mercatino fianco a fianco alla deliziosa Vanessa. Poteva forse correre il rischio di una punizione, magari con conseguenti arresti domiciliari, solo per un misero buchetto in una stoffa dal nome di un mostriciattolo alieno?
Certo e ricerto che no, ovvio. Ci penso su, neanche troppo in fondo, poi prese una sofferta decisione, che un po’ lo ripugnava perché non è che fosse granchè  cavalleresca (ma ad esser sinceri, dopo la ben poco decorosa conclusione della sua ultima impresa fienilistica, le azioni della purezza di cuore erano un bel po’ in ribasso), optando per un silenzio stampa che avrebbe previsto, nell’ordine, un occultamento galeotto dei pantaloni incriminati sul fondo del borsone, un successivo, convincente rigurgito d’insofferenza ai capi eleganti, in favore del vecchio e caro jeans (confortato pure dal fatto che anche la leggiadra Vanessa li indossava con evidente soddisfazione), e infine qualche preghierina sentita affinchè, una volta trascorso il Natale, come succede al classico miracolo una volta passato il relativo santo, la  rappresaglia di sua madre fosse in linea con gli accordi internazionali sul trattamento dei prigionieri di guerra.
Si tastò le guance ancora in ebollizione, nonostante fosse ormai trascorsa una ventina di minuti buoni da quando si era assentato dalla sala (tempo sufficiente affinchè gli altri iniziassero a sospettare che gli fosse incorsa una qualche sorta di squaraùs intestinale, e non è che l’ipotesi lo lusingasse più di tanto), ben conscio che quel suo stato di agitazione non era imputabile in toto al pericolo corso sulla trave. In tutta sincerità, tra il momento di quel dissennato numero circense nel fienile e l’edificante meditazione sulla tazza del water era successo qualcos’altro, che stava contribuendo in maniera determinante (più dello spavento preso, ormai assodato, digerito, metabolizzato e archiviato, sotto l’etichetta “primo episodio di subconscio - di cembre 2001”) al pallore e alle vampate di calore che imperversavano sul suo viso. E questo misterioso fatto era, se possibile, ancora più irrisolvibile.
Subito dopo il colloquio con la sorellina, Amedeo si era allontanato da lei (sempre zoppicando), andando a sedersi sulla panca in legno posizionata sotto la tettoia, all’esterno della casa di Teresa. Qui l’aveva intercettato Vanessa, uscendo raggiante e ben pettinata dall’abitazione dirimpetto. Il ragazzo si era illuminato, nello scorgerla, e immediatamente dopo si era chiesto (sempre massaggiandosi inconsciamente il presunto ginocchio offeso) il motivo del raggiante sorriso sfoderato dalla fanciulla, come se la sua squadra del cuore avesse conquistato lo scudetto. La luce di contentezza che s’irradiava dagli occhi verdi di Vanessa lo mise addirittura un pò a disagio, e in ogni caso molto meno delle parole che lei gli rivolse non appena giunta presso di lui:
- Ciao - aveva esordito - cercavo proprio te -
(sorriso sfolgorante)
- Ah - Aveva risposto amedeo, sulla difensiva - bene -
(impercettibile gloom del suo pomo d’adamo che andava su e giù)
- Penso proprio di doverti un ringraziamento -
(occhi che riluccicano)
- S-Sì? -
(a proposito di che?)
- Un pò inusuale, come metodo, ma è stata un cosa carinissima, sai? -
- S-Sì?!? -
(gloom molto più udibile, come se avesse dovuto inghiottire un pompelmo intero)
Dopodichè, prima che le confuse facoltà mentali del ragazzo potessero abbozzare uno straccio di ragionamento, prima ancora che fosse in grado di realizzare cosa capperolina stesse succedendo, il viso della ragazzina si era ingigantito, i suoi occhi si erano fatti enormi, le tenui lentiggini più marcate e visibili, e Amedeo realizzò con sgomento che Vanessa si stava chinando verso di lui. Molto probabilmente con intenzioni affettuose. Sentì la propria faccia andare in fiamme, mentre si rendeva conto con invidiabile perspicacia che stava per avere un imminente contatto molto ravvicinato con una rappresentante dell’altro sesso, quello al quale i suoi due compari Dalla Pozza e Spiller (in quel momento, ad onor del vero, molto nebulosi ed evanescenti nel suo ricordo) affibbiavano i peggiori epiteti. Per un brevissimo, interminabile attimo lui ebbe netta la certezza, supportata da una dose di panico tale da far impallidire il timore di sfracellarsi al suolo dalla trave nel fienile, che Vanessa intendesse appiccicare le morbide labbra rosa alle sue. Qualcosa si agitò nella mente fuorigiri del giovane, urlando a squarciagola “Ehi ehi ehi io non sono affatto pronto per BACIARE una smorfiosa puzzolente!!!”, poi all’ultimissimo istante lei effettuò un cambiamento di rotta, deviando di lato per ammollargli un sonoro schiocco sulla guancia. I fluenti capelli castani gli solleticarono la fronte, strappandogli un brivido che lo percorse tutto, come se avesse calpestato un’altra volta la prolunga, e il delizioso profumo della pelle di lei lo inebriò più di qualsiasi balsamo orientale.
- Sei stato un tesoro - aveva sussurrato Vanessa nel suo orecchio rosso come se fosse stato appena passato alla brace - è stato un bel regalo di Natale... -
Subito dopo, non si sa se a tirar fuori dai casini il giovane o a complicargli ulteriormente le idee confuse, erano arrivati Guido e Diamante, di ritorno dalla loro gita:
- Ehi, piccioncini, vi divertite? - li aveva salutati l’uomo cordialmente. A quell’innocua battuta Vanessa aveva replicato con un sorrisino malizioso, mentre Amedeo riavvampava tutto di vergogna. “Speriamo che non abbia ripreso anche questo, con quella sua telecamera...”, si era augurato, prima di alzarsi per trotterellare dietro agli altri che stavano entrando in casa. Da lì si era appartato nel bagno al piano superiore, per dare una calmata al suo cuore in subbuglio e ai suoi pensieri in ebollizione, che però non parevano avere nessuna intenzione di darsi una regolata
(è stata un cosa carinissima, sai?)
A cosa diavolo si stava riferendo? Cos’è che ho combinato di cui non mi sono accorto? Anche perché ho sempre avuto seri dubbi di avere la capacità (e la voglia, fin che stavo gomito a gomito con i due farabutti compagni di banco) di poter fare qualcosa che potesse definirsi carinissimo...
(Sei stato un tesoro - Oh mio Dio... - è stato un bel regalo di Natale)
Quale regalo di Natale?!? A quanto gli risultava il pacchettino, col biglietto dorato con su scritto Vanessa, era ancora regolarmente in compagnia degli altri, ai piedi dell’albero, e poi il contenuto non doveva essere affatto entusiasmante, visto che se n’era occupata sua madre cercando all’ultimo minuto un presente per una fanciulla che lui non vedeva da almeno due anni (e l’ultimo ricordo che ne aveva, rossa come un peperone e lacrimante muco sotto una pioggia di palle di neve, non l’avrebbe comunque ispirato). Gli venne in mente con un certo orrore che non aveva neanche idea di quello che il pacchetto potesse contenere, non era un’informazione che all’epoca del Game Boy e dei fumetti manga (ah, i bei tempi andati!) gli fosse in qualche modo indispensabile. Aveva distrattamente captato dal resoconto che la madre stava illustrando al marito, durante la colazione di alcuni giorni prima, che per i regaletti era tutto a posto, aveva trovato anche una cosa carina (e daje, doveva essere una deformazione femminile quella di carinizzare tutto) per la giovane Vanessa. Mio Dio, speriamo che non si tratti di qualcosa di troppo imbarazzante, pregò vivamente assiso su quel sedile marmoreo, e che soprattutto, qualunque cosa sia, mia madre non la spacci come farina del mio sacco...
Bah, ma di cosa di preoccupi?, gli chiese un pensiero impertinente, a quanto pare tu il tuo azzeccatissimo regalo di Natale gliel’hai fatto... e molto gradito, direi, visto la calorosità del ringraziamento... o no ? Già, come no
(glo-gloom, fece il suo pomo d’adamo)
di cosa mi preoccupo? Che non ho la più pallida idea di cosa si tratti, ecco cosa mi preoccupa...
Ripercorse freneticamente ogni momento riferito ai due giorni precedenti, come riavvolgendo col tasto veloce un nastro magnetico, cercando di identificare qualche sua iniziativa che potesse essere così straordinaria da venir definita “regalo”, ma a parte qualche inusuale gentilezza (le ho avvicinato la zuccheriera, e passato un paio di confezioni di Nutelline) non gli venne in mente niente di illuminante.
L’unico slancio per il quale avrebbe voluto possedere il coraggio sarebbe stato il recitarle tre frasette contenute in un bigliettino dei cioccolatini.
Quello sì, si disse con una punta di malinconia, che sarebbe stato un gran bel regalo.
Ma purtroppo, si rammaricò, quel romantico fogliettino non apparteneva più al mondo dei vivi.
Ma, come sappiamo, questo è quello che credeva lui, ovviamente.

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Capitolo 25
*** Analge-gesico ***


38_

La tavola per la cena di quella sera fu preparata dopo un lungo ed estenuante braccio di ferro con i giocatori posseduti dal demone del Mao, che fecero il diavolo a quattro pur di non abbandonare quella loro comoda posizione. ala fine sgombrarono il campo, non senza una raffica di invettive velenose del più esagitato, colui che aveva rinvenuto il mazzo di carte che aveva dato il via a quella estemporanea passione per il gioco, riparando su un tavolinetto di fortuna nella stanzetta della tv, tra le proteste inascoltate di Emma che si stava godendo in san ta pace i cartoni animati. E che da quel momento fu costretta a intravederli sbirciando tra le teste dei giocatori che non stavano mai ferme, e ascoltarne i dialoghi a spezzoni, quando le furibonde discussioni su chi aveva sbagliato (o, peggio ancora, cercato di fare il furbo) si acquietavano per alcuni, labili istanti.
Quando fu tutto pronto per cenare, Teresa e Lucia dovettero sudare le proverbiali quattro camicie (e forse anche qualcuna in più) per convincere i “maoisti” (un termine che aveva un suo significativo doppio senso ai tempi della loro frequentazione del liceo, in anni dove tutto era politicizzato, ma che in quel momento stava solo ad indicare quattro apparenti adulti che avrebbero dato qualsiasi cosa per un cavallo di bastoni o un’asso di spade) a sospendere le ostilità per il tempo sufficiente a mettere
qualcosa sotto i denti. Tutti intorno ad un tavolo, come in una civile e democratica società. Di gran malavoglia, i giocatori ottennero di terminare la mano in corso, che si concluse tra strepiti e muggiti d’indignazione perché la vincitrice, Cristina, non aveva dichiarato il suo Mao in maniera sufficientemente intelleggibile
(Vatti a dare una sturata alle orecchie, bimbo, era stata la sua garbata e pronta replica alle illazioni di irregolarità sbandierate da Gianni)
Il piatto forte del menù prevedeva uno sterminato vassoio di vari tipi di carne ai ferri, costine, salsicce, galletti e braciole, di cui si era occupato personalmente Efrem, preparandole con cura sulla griglia dell’immenso focolare di casa sua, e quando il contadino fece il suo ingresso nella sala con quel ben di Dio in bella vista Gianni prese a sbraitare che quel tipo di pietanza si prestava benissimo ad essere sbocconcellata senza che fosse necessario interrompere il gioco. Anzi, che sarebbe stata “la morte sua” gustata in quel modo.
- Una cosa meno formale, più pratica, no? - aveva cercato di giustificarla - ti porti vicino il tuo piattino con qualche bocconcino, un bicchier di vino e una salvietta... senza tanto star lì a preparare tavole e sporcare milioni di cose che poi debbono essere lavate... -
- Non mi pare che tu sia stato mai in lista per il lavaggio piatti - gli ribattè polemica Lucia, agitando un dito verso di lui - e poi siamo venuti qui per stare assieme, per passare qualche giorno come Dio comanda, e non per trasformare la casa in un accampamento dove ognuno fa quello che crede... -
- Agli ordini, capo - replicò l’altro, esibendo un rigido saluto militare con la mano alla fronte, poi si decise a sedere al suo posto, ammorbidito dal profumo irresistibile che si sprigionava dalla carne ai ferri - vediamo di fare in fretta... -
Teresa e Ina fornirono, di supporto, alcuni capienti terrine colme di fagioli con la cipolla, peperonata, verdura cotta (che non riscosse troppo entusiasmo da parte dei più giovani, i quali preferirono un bel piatto di patate fritte a quell’inquietante ammasso di roba verdastra e viscida). E poi pane a volontà, e naturalmente dell’ottimo vino messo a disposizione dal loro sommelier privato, anche se Efrem contribuì di suo, prelevando dalla fornitissima cantina un paio di bottiglie degne di nota. Per un pò, come sempre succede quando la gola ha il sopravvento sulla na tura umana, non parlò più nessuno, e la colonna sonora fu composta solo dal tintinnìo delle posate e dal furibondo masticare di una ventina di mascelle soddisfatte. La piccola Em ma rosicchiava una costicina come un buffo roditore biondo, strappando sorrisi divertiti agli altri che si godevano la sua imperscrutabile concentrazione. Guido e Diamante, dopo una ri tuale panoramica dell’uomo con la telecamera, ormai divenuta così immancabile che Cristina non protestava neanche più, subendo rassegnata quel minuto di lapidazione mediatica, raccontarono del la loro gita pomeridiana, e posero le basi per una capatina al mercatino di Natale, il giorno seguente, nel vicino centro abitato di Lonigo. La proposta suscitò reazioni varie e diversificate nel gruppo di amici, con  l’entusiastica adesione dei ragazzi (Non è che si può andare anche adesso?, aveva azzardato un’impazientissima Emma, lucida di unto sul novanta per cento del visetto raggiante) e dell’ala femminile della tavolata. Contrari e risoluti a non farsi convincere, nonostante le accuse di noiosità e ostruzionismo, il dottor Anelli, che non amava per niente andarsi a ficcare di sua spontanea iniziativa in situazioni certe di caos e affollamento, e naturalmente l’antisociale per eccellenza, Gianni Ostiglia, che intravedeva in quella proposta solo un subdolo e si curo metodo per un repentino dimagrimento del suo portafoglio. Senza contare che ogni minuto dedicato a stupide perdite di tempo natalizie era un minuto in meno attorno al mazzo di carte. Non era molto fiducioso che restassero a casa un numero di giocatori sufficienti ad una partita come Dio comandava, ma male che andasse avrebbe assoldato l’anzianoide svagato e il servo della gleba, coinvolgendoli in una rapido corso accelerato. Se avessero imparato bene, se no tanto meglio, tutti soldini che finivano legalmente nelle sue capienti e insaziabili tasche
(Chissà se in Brasile conoscono il Mao, si chiese addentando soddisfatto l’ennesima salsiccetta, e se non lo conoscono, ghe pensi mì... state pronti che arriva il novello Cristoforo Colombo a colonizzare il Nuovo Mondo...)
La cena proseguì tra battute e risate, con Ostiglia assolutamente monotematico, entusiasta nel rinverdire fasti e miserie delle recenti sfide a carte, ricollegandosi spesso, in un ammirevole virtuosismo di memoria e loquacità, a ricordi legati alle competizioni maostiche dei loro anni scolastici. I suoi amici, divertiti e lunsigati dal poter tornare indietro con la memoria ad un periodo spensierato e piacevole, gli perdonarono la mancanza di fantasia, aiutandosi l’un l’altro a far mente locale su questo o quell’episodio, circa i vari aneddoti legati ai prof intransigenti ed agli esasperati bidelli. Un trequarti d’ora dopo si ritrovarono come al solito sazi e boccheggianti, attorno al desolato campo di battaglia in cui avevano ridotto la tavola imbandita. Un impaziente Gianni si offrì addirittura di dare una mano nello spreparare, iniziativa che fece sbarrare tanto d’occhi a sua moglie che mai e poi mai aveva avuto la fortuna, in svariati anni di convivenza matrimoniale assolutamente priva del benchè minimo aiuto casalingo, di una simile, inusuale proposta.
- Buono lì - lo redarguì Lucia, che si stava divertendo a rivestire la parte della rompi per il bene collettivo - grazie ma la tavola sta bene così, per il momento... almeno fino a quando non avremo gustato un buon caffè, che so, una fettina di pandoro chi ne ha voglia, tutti assieme, e fatto due chiacchiere in assoluta armonia... -
- Mmh, vada per il caffè... - acconsentì l’esagitato, storcendo il naso - ...per le chiacchiere non è che si potrebbero fare a gruppetti separati? No, eh? -
Alla fine, dopo un tempo che all’uomo parve interminabile, la compagnia si sciolse, con le donne che si preoccuparono di sgombrar fuori tutto anche per lui, e potè così fiondarsi a recuperare le carte con la stessa raggiante rapidità di un bambino a cui avessero final mente spalancato i cancelli di Gardaland. I suoi compagni di bisca lo fecero soffrire un’altro pò, chiedendo un indispensabile time out per “una sosta ai box per cambiare l’olio”, come disse Renato dirigendosi verso il bagno al piano superiore. Gianni acconsentì, più o meno di buon grado, decidendo poi di approfittarne lui stesso. E non solo per il cambio d’olio. Salì le scale, sentendosi bene e in forma e motivato. Grazie al cielo aveva trovato quel provvidenziale mazzo di carte, prima che qualcuno tirasse fuori una soporifera tombola, se non peggio. Il gioco aveva dato una nuova linfa a quei giorni lì in campagna (anche se, in tutta onestà, li stava apprezzando molto più di quanto si era immaginato, e non era in grado di stabilire se fosse una cosa positiva o meno) e lui si sentiva pronto e disponibile a dedicarvisi per tutta la notte, tanto per cominciare.
With a little help from my friend, canticchiò dirigendosi verso camera sua, parafrasando un grande pezzo di Joe Cocker dei bei tempi andati. L’unica cosa che lo turbava (per il momento, di lì a qualche secondo se ne sarebbe aggiunta una di molto più inquietante) era il fondato pericolo che gli altri non fossero in grado di reggere a lungo, soprattutto dopo la solita mazzata a base di cibo e vino. E soprattutto senza il magico apporto dell’analge-gesico.
Forse dovrei organizzare un’assunzione collettiva per il bene della serata, pensò divertito
(Sì, occhio!)
provando ad immaginarsi quale sarebbe stata l’eventuale reazione degli amici. Guido e Renato, e anche Terry, qualche cannoncino non l’avevano disdegnato, al tempo della scuola, ma da lì a riuscire ad apprezzare una bella nevicata... E poi c’erano le contrarie, le pasdaran del non-si-fa, con in testa sua moglie Cristina, che l’aveva costretto a piantarla anche col fumo, una vita prima, seguita a ruota dalle farneticazioni su traffici illegali ed economie basate sugli stupefacenti di Paesi in cui ogni minimo diritto umano viene calpestato di quella esagitata no-glo bal di Lucia. S’infilò nella stanza deserta e silenziosa. E la bella Diamante?, si chiese incuriosito, l’aria ce l’ha, da figlia dei fiori post-moderna e viaggi in India dove hanno molti simpatici prodotti della natura... Forse un pò troppo da macrobiotica, schifezze di soia dai prezzi inaffrontabili, ma magari presa nel modo giusto,  dopo una bella pipatina potrebbe anche perdere qualche freno inibitorio, prestandosi a qualche stimolante giochetto senza troppi vestiti... Si concesse una plateale “ravanata” al basso ventre, che si stava dando una stiracchiatina sulla scorta di quelle ipotetiche fantasie, chinandosi sul borsone da viaggio prima di ricordare che l’analgesico l’aveva nascosto da qualche altra parte (un posto sicuro), il giorno precedente.
in realtà, gli era parso alquanto improbabile, prima, e del tutto assurdo a pensarci bene poi, che qualcuno di non ben definito potesse aver attinto dalla sua preziosa riserva. Probabilmente aveva un pò esagerato lui, con i prelievi, e poi un sacchettino pieno per metà di impalpabile polvere bianca non ha certo un metodo infallibile, per determinarne la quantità custodita. Si avvicinò al lato dell’armadio vicino alla porta, scostandolo dalla parete di quel tanto che gli permise di infilarci una mano, per recuperare il tutto. E poi occultarlo lì dietro risolveva tutti i problemi, compresa la poco affascinante capacità di sua moglie di riuscire a ficcare il naso dove non doveva. Non aveva nessuna voglia di intavolare una furibonda discussione sull’argomento, che non avrebbe certo mutato i suoi progetti futuri (anzi, forse li avrebbe addirittura accelerati, visto che lui non avrebbe fatto altro che alzare i tacchi e stabilirsi da qualche parte in attesa che trascorressero quei pochi giorni che lo separavano dall’ambita riscossione di quanto aveva realizzato con la vendita dell’appartamento), e quindi quella soluzione retro-armadiesca era l’ideale. Occhio non vede, cuore non duole, e coglioni non vengono frantumati, no?
- Ecco qua - mormorò afferrando tra le dita la lucida plastica - adesso diamo un’occhiata per verificare che qualcuno non si sia stabilito nel bagno e
(Opporca merda)
Strabuzzò gli occhi, non riuscendo assolutamente a credere a quello che gli stavano mostrando. Sentì la bocca che gli si seccava d’incanto, come avesse inghiottito una manata di sabbia, mentre una vampata di calore gli si accendeva sotto il mento
(Opporchissima di quella porca merdazza!)
alzò il sacchettino che aveva tra le dita, al quale aveva dedicato una rapida sbirciata, per vedere se in controluce forniva un’informazione diversa da quella a cui non riusciva a credere. Deglutì a fatica:
- Come stracazzo è possibile? - biascicò con labbra insensibili, come se avesse già attinto ai poteri della polverina in questione. La osservò meglio, con gli occhi ridotti a due fessure, simili a quelli di un rettile molto ma molto di cattivo umore, dandogli una scrollatina nel tentativo di mutare la realtà oggettiva. Senza risultato. Il giorno precedente aveva avuto una generica impressione che la quantità già utilizzata fosse un pò più del previsto, ma in quel momento non occorreva certo un dosatore graduato per stabilire che il livello del suo prezioso analgesico era sceso ulteriormente, e in maniera spiacevolmente massiccia.
- Sto impazzendo - cercò di convincersi, assolutamente incapace di accettare una spiegazione diversa. Io non ho tirato su tutta questa coca, annaspò nel suo cervello paralizzato, lasciando per un momento perdere spiritosi e creativi eufemismi. Le gambe gli cedettero all’improvviso, costringendolo a sedersi sul morbido materasso del letto, sempre col sacchettino a pochi centimetri dal suo naso. Il livello contenuto rimaneva desolatamente a circa un terzo (un buon terzo) di quello che ricordava l’ultima volta che lo aveva avuto tra le mani.
(Probabilmente hai un pò esagerato, con i prelievi, e nell’euforia generale non ti ricordi con esattezza quanta ne hai realmente utilizzata, era stata la sommaria giustificazione del giorno prima)
- COL CAZZO STRACAZZO !!! - esplose rivolto alla stanza vuota e silenziosa, che assisteva impassibile a quel suo personale dramma. Si osservò furtivo intorno, come un cospiratore che senta il fiato della polizia sul collo - qui qualcuno ci si è bagnato il naso, a spese del sottoscritto!!! -
Era l’unica spiegazione accettabile, volendo lasciar perdere improbabili evaporazioni di materia o altre fantasiose ipotesi. Ma chi? Ma come? Ma chi cazzo? Mentre la rabbia e l’agitazione gli montavano dentro come un’onda prorompente, passò in rassegna i volti dei probabili indiziati, molto meno divertito di alcuni minuti prima quando aveva messo in atto lo stesso sondaggio mentale. Escludendo i bambini, e sua moglie, proprio per sgombrare il campo da soluzioni fantascientifiche, si sentiva di poter mettere la mano sul fuoco anche per quanto riguardava Teresa, che gli pareva più tipo da psicofarmaci, e naturalmente il suo rincoglionito padre e i villici. Ma allora chi? Renato?!?
Bah... Guido lo stracchino? Ma non scherziamo, non avrebbe certo quell’andazzo molliccio e mellifluo...
Ci ritornò su con la mente, ai nomi che aveva appena formulato, prima di decidersi a spostare la sua attenzione sull’ultima possibilità... Pel di Carota... eh già, l’aria da fricchettona che non disdegna ce l’ha, l’ho appena detto io, e forse, chissà, sai com’è... a Milano... magari è molto più smaliziata e concreta di quello che vuol farci credere... E poi chi la conosce? Chi l’ha mai vista? Viene qui bella bella e infila la sua proboscide negli affari degli altri...
Come se quell’ultima velenosa considerazione gliel’avesse fatto venire in mente, aprì i lembi del sacchettino, afferrando il minuscolo cucchiaino d’argento e, in barba a tutte le precauzioni del mondo
(la porta non è chiusa a chiave... e chi se ne fotte, che magari capitasse adesso, miss scrocco!)
se ne infilò una robusta dose nella narice. Chiuse gli occhi, attendendo la consueta scossa che però si fece desiderare, e quando arrivò gli sembrò quasi sottotono. La coca aveva una consistenza strana, all’esame delle sue navigate cellule olfattive, come se fosse in qualche bizzarro modo più secca, quasi vecchia...
(Cazzate, sto entrando in paranoia...)
Però dovette convenire con sè stesso che l’effetto non era quello solito, e lo attribuì all’adrenalina che gli si era scatenata dentro in seguito alla quella spiacevolissima rivelazione. Come posso fare per... Si lambiccò il cervello in subbuglio, osservandosi intorno con attenzione: innanzitutto il prezioso analgesico (quel che rimaneva del... porchissima di quella troia!) andava messo al sicuro in un posto assolutamente inviolabile. Sul comodino accanto a lui troneggiava una panciuta sveglia che doveva avere almeno vent’anni, giusto dietro l’avveniristica sveglietta Braun a controllo vocale che si erano portati. Lo sveglione non funzionava, era paralizzato sulle 4 e 16 dal primo momento in cui erano entrati in quella stanza, così lui la afferrò spasmodico, armeggiando per rimuoverne il dorso. Ne osservò l’interno: pareva ci fosse uno spazio fatto apposta per occultarvi un sacchettino pieno di qualche cosa, soprattutto se detto qualche cosa era calato in maniera sconfortante negli ultimi tempi, e lui si affrettò a in filarvelo con cura:
- Adesso ti annusi l’intonaco dalle pareti, troia arancione - sibilò rabbioso - e comunque non finisce qui... -
Non aveva idea in che modo riuscire ad incastrare la scroccona (sempre che sia stata lei, gli fece notare un pensiero incauto che fu spazzato via senza pietà)
ma ci avrebbe pensato su. Forse girandoci intorno, tenendola d’occhio, e magari provando ad accennare qualche discorsetto più o meno diretto. Tirò su col naso, nervosamente, mentre si chiedeva perché la recente pipata non lo avesse per niente soddisfatto, poi i richiami impazienti dei suoi compagni di gioco dissiparono il ribollire dei suoi pensieri. Uscì dalla stanza, indossando un’impassibile espressione di normalità, e prendendo a scrutare i presenti mentre li raggiungeva nella sala. Guido aveva appena acceso il fuoco nel camino, e la sua degna compagna era impalata a fissare rapita il gioioso danzare delle fiamme.
(Sì, sì, guarda il fuoco, stronza scroccona, ma stai all’occhio che col sottoscritto ti puoi anche scottare di più)
Si accomodò a capotavola, iniziando a mescolare le carte, mentre l’imminente inizio di una nuova, appassionante partita mitigò un pelo i suoi tumultuosi pensieri:
- Lo zucchero a velo del pandoro non ti dona troppo... - gli disse Renato indicandogli il viso. Lui, che non ne aveva assaggiata neanche una briciola, si pulì nervosamente col dorso della mano la narice sinistra, iniziando a distribuire le carte.

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Capitolo 26
*** Chiacchiere notturne ***


39_

Teresa si chiuse la porta alle spalle, restandovi appoggiata per qualche interminabile secondo, lo sguardo fisso e pensieroso sulla scrivania del computer. Il momento era giunto, inesorabile e irrimandabile. Infinite volte, nel corso della piacevole serata, l’immagine di sé stessa che giungeva al confronto col libro prigioniero nel cassetto le si era ripresentata nella testa, inquietante spot pubblicitario trasmesso e ritrasmesso fino alla nausea, e ogni volta lei si era augurata che il sonno e la stanchezza non arrivassero mai, sia per lei che per i suoi indispensabili ospiti. Auspicò che le forsennate mani di Mao e i conseguenti battibecchi, che a intervalli più o meno regolari avevano disturbato lei e le amiche durante la trepidante visione del classico filmone natalizio strappalacrime, si protraessero per tutta la notte. E probabilmente solo quel tossico Mao -dipendente di Gianni Ostiglia avrebbe sottoscritto in pieno quel suo bizzarro desiderio. Con sempre maggior preoccupazione, la donna aveva seguito con la coda dell’occhio il proliferare di sbadigli di Lucia, Diamante e Cristina (la moglie di Gianni aveva dato forfait alla maratona post-cena della partita, tra l’indignazione e lo sgomento del consorte, che per sua fortuna aveva trovato in Efrem il volontario candidato al posto lasciato vacante dalla fedifraga, rivelandosi per di più un insospettabile osso duro) che facevano a turno nel dichiarare il loro imminente abbandono della scena mondana per sopraggiunti limiti di resistenza. La padrona di casa aveva dato sfoggio a tutte le risorse in suo possesso, per posticipare il più possibile quel temuto momento, commentando spesso e volentieri (il più delle volte a sproposito)  l’evolversi della trama sullo schermo, al fine di tener viva e desta la platea, e fornendo ai giocatori di quantità industriali di caffè fresco. Alla fine, però, ogni sforzo si rivelò vano. E proprio dal suo fido vicino di casa partì il traditore impulso: Efrem si alzò dal tavolo stiracchiandosi, dichiarando saggiamente che alle galline, i conigli e le vacche, il mattino dopo, non importava molto se il bipede incaricato di accudirli aveva fatto le ore piccole giocando a carte.
- Non definirei mezzanotte e venti esattamente le ore piccole - gli fece notare un allarmato Gianni Ostiglia, che vedeva naufragare tristemente il suo progetto di una non-stop di Mao fino all’alba, tentando in quel modo di fargli cambiare idea. La replica del contadino strappò una divertita risata ai due giocatori meno posseduti del demone del gioco:
- Punti di vista - rispose pacato, infilandosi il maglione che si era tolto nella foga della partita - se crede domani mattina alle cinque, quando esco per dar da mangiare agli animali, passo a svegliarla così ne parliamo… -
Efrem augurò la buonanotte alla combriccola, dirigendosi verso casa, mentre Gianni iniziava un serrato e martellante forcing per reclutare qualche malcapitato che riempisse la recente e disastrosa defezione, non riscuotendo particolare successo tra gli assonati superstiti. Teresa d’impulso avrebbe voluto balzar su ad organizzare qualcosa, qualsiasi cosa, una tombolata, due spaghetti aglio e olio, andare a cantare la Stella presso le fattorie dei dintorni, una straordinaria apertura anticipata dei regali di Natale (a quest’ultima, dissennata proposta l’impaziente Emma, se non fosse stata sotto le coperte già da una buona mezz’oretta, avrebbe aderito  entusiasticamente) poi le si accese la lampadina della rivelazione: era ovvio, avrebbe dovuto pensarci subito, la soluzione era di offrirsi come quarta a Mao!!! Ma purtroppo, ahilei, proprio in quell’istante le defezioni diventarono un’emorragia, con l’irremovibile decisione di Guido e Renato di voler cedere le armi “considerato che erano ore che si stavano scannando, e che avrebbero avuto tutto il tempo del mondo nei giorni a venire”.Mentre Teresa avvertiva netta e sgradevole la sensazione del terreno che le si sgretolava sotto i piedi, le sue amiche colsero l’occasione al volo, quasi incredule di potersi ritirare nello stesso momento dei rispettivi consorti, che già avevano considerato dispersi e incatenati al tavolo da gioco fino al mattino seguente. Diedero la solita, volonterosa mano a Teresa per sistemare un po’ la sala e la cucina, e poi presero tutti insieme la strada verso il piano superiore, con Gianni che ancora si ostinava a rivangare vecchi contrasti di gioco risalenti a circa venti-trenta mani di gioco precedenti (e quindi, in termini di Mao, due vite prima) finchè si separarono nel corridoio inseguiti dai reciproci auguri di una buonanotte.
Teresa si decise a staccarsi dalla superficie lucida della porta, dirigendosi verso il piccolo bagno. Mentre si sfilava il maglione, teneva d’occhio la scrivania troneggiante nell’angolo alla sua destra, come se questa potesse in qualche modo tirarle un brutto scherzo. La presenza del libro rinchiuso nel primo cassetto in alto era orrendamente tangibile, una sorta di pulsazione maligna che s’irradiava tutt’intorno, chiamandola, esortandola, sfidandola a liberarlo e a sbirciare tra le sue pagine.
Su, tesoro, fammi uscire di qui…, le mute provocazioni del libro la inseguirono mentre s’infilava la camicia da notte e si accingeva a lavarsi i denti, …magari non c’è niente (lei aveva ossessivamente “lisciato” la misteriosa piega fino a farla scomparire, prima di occultare il giallo lì dentro) o magari invece OGNI pagina ha la sua bella “ orecchia”. Indovina indovinello chi è che lo saprà mai? Dai, dacci un’occhiata, se hai fegato
Teresa cercò di non badarci, scrutandosi gli occhi spalancati e cerchiati di scuro nello specchio, mentre si strofinava vigorosamente lo spazzolino sugli incisivi, in  un’overdose di schiuma che dava l’idea che fosse affetta da idrofobia. Scacciò quegli immaginari richiami, cercando con forto nel ricordo della serata appena trascorsa, una gran bella serata ancora
(non resteranno in eterno)
Ripensò sorridendo all’irresistibile lotta di Emma con una costicina più grande di lei, al vocione di Renato che lodava la maestrìa culinaria di Efrem, proclamandolo come proprio personale “Gran Maestro Della Carne ai Ferri”, alla mano premurosa di Lucia che era corsa a stringerle la sua durante una sequenza del film che poteva avere qualche spiacevole attinenza con tragici fatti successi. Il conforto e l’affetto rivelato da quelle immagini mentali si riversarono in lei come un abbraccio tiepido, annacquando le vibrazioni negative emanate dall’innocente giallo rinchiuso nel buio del cassetto. Finì di prepararsi per la notte, facendo un’indispensabile pipì, che le parve infinita a causa di tutto quello che aveva tracannato fino a quel momento, alla faccia dei proclami di darsi una regolata. Nel frattempo sfilò dalla mensola sopra il termosifone la copia di Telepiù, rileggendo la trama del film che avevano visto poco prima, un vezzo che aveva sempre avuto, e poi andando a scoprire quale altra proposta cinematografica era in programma per il giorno seguente. Come di consueto l’offerta televisiva per la Vigilia di Natale era perfettamente in linea con la tradizione, a cominciare da una sventagliata di cartoni animati sin dal mattino, sino a qualche titolo imperdibile tra il pomeriggio e la sera.
Prepariamo uno scatolone di fazzolettini, rimuginò divertita, prendendo nota che era prevista la consueta programmazione de “La vita è meravigliosa” di Frank Capra. Si diede una sciacquata alle mani, annusando il buonissimo profumo di mughetto del sapone come fosse un magico balsamo antiincubo, poi spense il neon sopra il lavandino. Rientrò in camera, sempre confortata dalla piacevole consapevolezza di come i suoi amici si affannassero, senza darlo troppo a vedere, per farla stare bene
(Ehi, sono qui... non puoi resistere alla curiosità..., squittì il libro dall’oscurità in cui era stato condannato)
transitando accanto alla scrivania, senza neanche voltare la testa:
- Sì che posso - mormorò tra sè, rasserenata e piacevolmente assonnata - e penso proprio che lo farò... non ho voglia di brutte sorprese, reali o immaginarie che siano, nè di orrendi incubi o cose del genere... - s’infilò sotto il confortevole piumino - ho solo voglia di ripensare ai bei momenti passati, di immaginarne altri e, ovviamente, di dormire fino a domani... -
Allungò una mano per spegnere la lampada sul comodino, posando la testa sul cuscino. Dall’oscurità davanti a sè parve provenire un sommesso ringhio di frustazione, ma lei sapeva benissimo che era solo sciocca suggestione, e non gli badò affatto.
Chiuse gli occhi.
Nella stanza di fronte alla sua, Guido stava ripiegando con cura i pantaloni sullo schienale di una poltroncina, mentre Diamante, che aveva sentito un fioco tramestìo provenire dal corridoio, attendeva il momento buono in cui il bagno comune sarebbe stato disponibile. Se duta impettita sul bordo del letto, con la borsettina dei prodotti per la pulizia in grembo, sem brava una paziente viaggiatrice in attesa nella sala d’aspetto di una stazione ferroviaria.
- Ragazzi, che battaglie! - commentò l’uomo riferendosi alle furibonde partite a carte - mi ero dimenticato l’irresistibile potere del Mao di trasformare miti esseri umani in creature sragionanti e irascibili... se poi in mezzo a loro c’è già uno sragionante di per sè, è tutto un programma... - sorrise in direzione della ragazza che lo ascoltava divertita - e tu, invece, come ti sei trovata? -
- Bene, bene... molto bene. Le ragazze sono così adorabili... e disponibili - rispose - si stanno facendo in quattro per farmi sentire parte del gruppo... E poi a volte siete così folli che ho la netta sensazione di schiattare dalle risate... quando avete raccontato di quella volta che avete fatto impazzire la prof di francese con la menata dell’anello “double-face”... -
- Già - ribattè Guido, intento a collegare il telefonino al caricabatterie - una volta ancora devo ricredermi... col mio innato pessimismo mai avrei immaginato che si potesse stare così bene, assieme, dopo tutti questi anni... e coi casini che son successi... -
- E invece vedi che qualche volta, nella vita... basta poco, non credi? - il commento della ragazza si velò improvvisamente di un tono serio - siete proprio una bella compagnia... peccato solo per quella... come dire... triste nota di fondo... - l’altro si bloccò, fissandola con sguardo allarmato e inquieto - ...come se ci fosse qualcosa sotto di... doloroso, di non risolto... dal sapore di vecchie lacrime non ancora asciugate del tutto - notò l’espressione nel volto dell’uomo - intendo dire, a prescindere da quello che è accaduto a Teresa... le ragazze... mi hanno detto tutto... d’altra parte non è che fosse proprio un particolare trascurabile, non credi? -
Guido si lasciò cadere sul letto, visibilmente sulle spine:
- Lo so, scusa, avrei dovuto dirtelo - mormorò allungando una mano in una leggera carezza sul braccio di lei - solo che... non so... non ho trovato il momento giusto... -
- Ci siamo fatti due ore di treno e venti minuti di taxi e tu non hai trovato il momento giusto? - replicò senza la minima intenzione polemica nella voce. L’altro si strofinò nervoso una guancia:
- Mmh... sì, hai ragione... - ammise imbarazzato - forse non ho trovato il modo giusto... cavoli, non volevo, come spiegarti, che tu in qualche maniera fossi condizionata dalla cosa... - allargò le braccia - ammetterai anche tu che avresti visto Teresa, e tutta la faccenda, in modo forzato, non trovi? E ho pensato, magari a torto, che ti avrebbe dato fastidio, impedendoti di poterti comportare naturalmente... -
Diamante gli dedicò un sorriso affettuoso e del tutto privo di risentimento, nel vederlo così evidentemente abbacchiato:
- Okay, vista così la posso anche condividere - disse - solo che... è stato un pò un azzardo... le uniche informazioni in mio possesso erano che andavamo a trovare questa tua amica che era un sacco che non vedevi, e che era stata sposata ma che non stava più col marito... -
- Sì, hai ragione - ammise lui, con una buffa espressione da scolaretto colto in flagrante in qualche marachella - però tecnicamente... grosso modo... la situazione era questa... -
- Tecnicamente è un pò diverso da come stanno le cose in realtà - puntualizzò ancora lei - che figura avrei fatto se fossi sbottata all’improvviso “Cara signora, e suo marito che fine ha fatto? in viaggio per lavoro oppure, come dire, gli abbiamo dato il benservito”? -
Guido si tirò su dal letto, prendendo a passeggiare nervosamente su e giù per la stanza:
- Okay okay, ti chiedo scusa... sono stato superficiale - si arrese agitando le mani - anche se ero tranquillo sul fatto che sei una tipa che non dà aria alla bocca solo per il gusto di farlo, e non saresti mai incappata in un gaffe del genere... e in ogni caso adesso puoi comprendere benissimo perché l’atmosfera non è del tutto serena e spensierata... con quello che sappiamo... -
Diamante si bloccò un secondo ad ascoltare i rumori provenienti dal corridoio:
- Sì, ma non è solo quello... a parte quello, intendo dire, c’è qualcosa sotto, una sensazione di... non so come spiegare bene, devo pensarci su... ma in ogni caso è una specie di vibrazione di fondo, fa conto una pausa carica di attesa... come se stessero succedendo delle cose, ma un pò alla volta... - scattò su dal materasso, afferrando la borsettina-beauty - bagno libero! - e scl a mò fiondandosi verso la porta - bisogna prenderci dentro... a dopo! -
Scivolò fuori, lasciando Guido impalato in mezzo alla stanza, a lambiccarsi il cervello per capire a cosa si potessero riferire i misteriosi accenni della ragazza. Diamante transitò nel corridoio, e i suoi passi attenuati dalla moquette arrivarono comunque alle orecchie di Gianni, sdraiato nel letto accanto alla moglie. L’uomo girò la testa in direzione della porta, dedicando nel contempo un’occhiata nervosa alla grossa sveglia defunta, che custodiva muta il loro piccolo segreto. Chissà se questa è la piccola ladra che va a pisciare..., si chiese reprimendo il folle impulso di correre a verificare e, nel caso, farle un bel discorsetto. L’idea di un ficcante quarto grado nel minuscolo locale da bagno, magari con la tipa seduta sul water (con le mutandine abbassate... e supplicante di non essere troppo severo con me, ora che l’aveva scoperta... mmmh...) gli inturgidì il pene dentro i boxer.
- Cavoli, che tardi - commentò sua moglie equivocando il suo sguardo in direzione delle sveglie - dai, spegniamo... -
L’uomo ubbidì, facendo piombare la stanza in un’avvolgente oscurità. Dal bagnetto provenivano soffocati ma inequivocabili indizi sonori, il rumore rotolante del porta-carta igienica, l’a cqua che scrosciava nel water, i rubinetti del lavandino (o del bidè, meglio ancora) che venivano aperti, e il suo amichetto al di sotto della cintola si inalberò un altro pò.
- Vieni qui, dammi un bacio... - sussurrò piano Cristina, cingendogli il petto col braccio sottile. Le loro labbra si unirono. La donna gli aderì al fianco, passandogli una gamba sopra il corpo:
- Ehi... ma... - esclamò con tono stupito e malizioso - cos’è che ti fa così effetto? La carne ai ferri o le partite a carte? Perché, se questi sono i risultati, quando torniamo a casa organizzo un torneo di Mao... -
Gianni non rispose, piacevolmente intorpidito dal tepore del piumone e dal vino, restando immobile mentre la moglie faceva scivolare una mano birichina dentro l’orlo delle mutande. Nell’attimo in cui gli afferrò delicatamente il pene eretto gli venne l’impulso di scostarsi, di tirar fuori qualche scusa per far finir lì la cosa. Non faceva l’amore con Cristina da tempo, non riusciva nemmeno a ricordarsi quand’era stata l’ultima volta. Le donne avevano il classico mal di testa con cui negarsi, ma anche iproblemi di lavoro e la stanchezza di una “massacrante giornata in studio”  funzionavano bene, come dissuasori di programmini indesiderati. La moglie gli si strusciò contro, gemendo lievemente, mentre aumentava il ritmo e l’impegno di quel suo estemporaneo massaggio.
- Su, vieni qui - lo invitò con voce stuzzicante, attirandolo dolcemente verso di lei. Lui rimuginò ancora se e come riuscire a svicolare via da quell’inattesa intimità, ma le sue sensazioni e soprattutto la reazione (l’inaspettata reazione, a voler proprio metter i puntini sulle i) del suo affare, che pensava si sarebbe rimesso in azione solo di fronte ad uno stimolante culetto carioca, lo sorpresero. Si avvicinò alla moglie, scivolando in lei con un sospiro:
Sto infilzando la ladra di analgesico, per punirla della sua incauta appropriazione, fantasticò cercando un ulteriore stimolo a quella situazione, ma quel pensiero perverso gli sembrò fiacco, artificioso, quasi sgradevole. Si perse nel caldo abbraccio della donna, che lo incitava a bassa voce sussurrando paroline sconnesse nel suo orecchio arroventato, e vennero insieme, stringendosi forte.
Mentre Cristina si appisolava ansante al suo fianco, dopo poco, facendogli delle carezzine sempre più rallentate sul petto villoso, lui restò a lungo con gli occhi sbarrati nel buio, ad assaporare le piacevoli sensazioni di quell’improvvisata. Era certo che non sarebbe riuscito nell’intento, per niente, era da un pò che la moglie non gli risvegliava particolari voglie. Come si dice, minestra riscaldata, e stronzate del genere. Oltre al fatto che scantonare quelle situazioni di intimità gli dava la rassicurante sensazione che tutto sarebbe stato più facile nel momento, ormai sempre più imminente, in cui avrebbe dovuto segare il palo lasciando dietro di sè dolore e sgomento. Cullato dai quei contrastanti pensieri, inaspettatamente piacevoli, scivolò in un sonno tranquillo e privo di sogni.
Più o meno nello stesso istante, Renato fece ritorno in camera asciugandosi la folta barba con l’orlo dell’asciugamano, reduce dal bagno. Sua moglie Lucia era immersa nella lettura di una copia de il Salvagente, che aveva acquistato il giorno prima ma a cui non aveva ancora avuto tempo di darci una sbirciata.
- Avrei scommesso qualsiasi cosa di trovarti ronfante con la bocca aperta - commentò l’uomo riponendo i prodotti da toeletta in un borsone da viaggio. La donna lo osservò da sopra il bordo del giornale spalancato:
- Già, anch’io, se è per quello - rispose mordicchiandosi il labbro inferiore - credo di essermi persa ampi pezzi del finale del film, entrando e uscendo da un imbarazzante dormiveglia, ma poi una volta che mi sono lavata e struccata… sai come succede, ti scappa il momento giusto e addio… meglio così, potevo forse perdermi la stuzzicante visione del dottor Anelli in mutande e maglione di pile? -
- Come no… e anche in mutande senza pile - ribattè divertito lui, sfilandosi il maglione - qui in casa il riscaldamento è più che efficace, ma mi faceva un po’ specie andare in bagno in canottiera… - indossò la casacca della tuta da ginnastica che usava a mò di pigiama, infilandosi nel letto accanto alla moglie, che lo osservava con un’espressione semiseria:
- Certo che è una cosa ben strana - commentò - mutande sì, canottiera no… ti sei mai fatto vedere da uno psicanalista, per questa bizzarra fisima? -
- Spiritosona - borbottò l’uomo, riponendo gli occhiali sul comodino. La moglie tornò a dedicarsi alla lettura:
- Ormai Emma si è ficcata in testa la faccenda del mercatino - riprese dopo un po’ - e immagino che ci tenga a non essere delusa… -
- Diciamo le cose come stanno - la interruppe lui, stuzzicandole una gamba col piede, sotto le coperte - diciamo che tutte le creature di sesso femminile di questa casa ci tengono, ad andare a ficcarsi nel casino di un mercatino straboccante di gente, e a spendere e spandere, con in testa la mia gentile consorte qui a fianco… -
- Iiiihhhh, che piedi freddi!!! - urlacchiò lei, scostandosi di colpo - stai in là con le fette… e poi, anche ammettendo che quello che hai detto possa nascondere un minimo di verità, l’idea non mi pare malvagia, magari è una cosa carina, suggestiva, e poi tanto per fare qualcosa… - disse, sottintendendo neanche troppo velatamente  "piuttosto che stare tutto il giorno con un mazzo di carte in mano”.
- Intanto i miei piedi non sono freddi… è scientificamente impossibile che un uomo abbia i piedi più freddi di quelli di una donna… - insistette a cercare il contatto sotto il piumone, scatenando una cruenta battaglia di colpi proibiti - è facile che siano i tuoi ad essere talmente gelidi che, a contatto con il tiepido dei miei, creano una specie di reazione che… -
- Tiepidi un corno… E PIANATALA! - sbottò Lucia gettandogli addosso il giornale, che mise termine agli scherzi del marito - ufff, quando ti ci metti sei peggio dei tuoi figli… insomma, senza tanto star lì a smenarla, pensi di accompagnarci o no? -
- Mmh… - borbottò lui stiracchiandosi, e sistemandosi meglio il cuscino dietro la testa - vediamo… potrei dirti che non mi va perché odio profondamente tutto ciò che comporta caos e folla e spintonamenti per sbirciare tra spalle e teste qualche orrendo soprammobile fatto con le conchiglie o gli stecchetti del gelato… e difatti te lo dico… - finse di non badare all’occhiata spazientita della moglie - no, non mi va, e lo sai… farò anche la figura del pigro, e dell’orso, ma si sta così deliziosamente bene qui, al calduccio, anche a far niente, a grattarsi la panza… che voglio proprio godermeli tutti, ‘sti giorni, perché sai benissimo che poi riprenderà il casino e gli appuntamenti con i clienti e le corse e tutto quanto il resto… -
Era sicuro di averla convinta, con quella sua appassionata arringa, ma la donna si coricò sul fianco, voltandogli platealmente la schiena:
- Bbbuff, sei sempre il solito - borbottò un po’ risentita - spero proprio che non rimanga nessuno con cui rincitrullirsi a carte! -
- Ehi ehi ehi… no, eh… augurare cose così tragiche… - ridacchiò lui, colpito nel vivo - e poi comunque secondo i miei calcoli dovrebbero restare… Gianni, che non vedo molto bene tra le bancarelle, dietro a marmocchi e femmine… - contò con le dita - …Efrem… e poi Teresa, che deve dare una mano a Ina a preparare il cenone della sera
(Mi auguro che Gianni non sia così folle da costringere il povero Corrado a sedersi al tavolo da gioco, rimuginò improvvisamente serio, ricordando la preoccupazione per le condizioni del padre di Teresa)
- Casomai è Ina che dà una mano a Terry, per la cena di domani sera - puntualizzò Lucia senza voltarsi - e poi forse dimentichi che anche Efrem non è che sia qua in vacanza… -
- Beh, magari nei ritagli di tempo, tra una mungitura e l’altra - scherzò Renato tentando di massaggiarle la schiena. La donna si scostò con un scatto - e comunque non è per il gioco… è che ho voglia di starmene in panciolle, tutto qui… dovresti perlomeno ammirare la mia sincerità… -
- Sì, sì, ho capito - borbottò lei, ancora un po’ scherzosamente arrabbiata - la vita di Michelasso, insomma… -
- Già, quasi… mangiare, bere e NON andare a spasso - rispose lui - spegno? - chiese imitando il modo di parlare di sua figlia Emma.
- Spegni -
L’oscurità avvolse la coppia nell’ampio letto.
- E poi, a parte gli scherzi, volevo trovare un attimo di tranquillità con Teresa - disse ancora l’uomo con tono serio, tornando ad accarezzare la spalla della moglie, che stavolta non si sottrasse - credo che ci sia qualcosa che la tormenta, e che abbia bisogno di parlarne… -
- Mmh, sì, forse è il caso - commentò Lucia, poi il volume della sua voce si alzò leggermente, segno che lei aveva voltato la testa in direzione del marito - all’occhio, però… non è che poi vi rimettete assieme? - lo provocò scherzosa, essendo al corrente del flirt adolescenziale dei due.
- Non so, dipende - ribattè l’uomo - se la consorte titolare alza troppo la crestina, prenderò in seria considerazione questa opportunità… -
La battaglia di gambe sotto le coperte riprese furibonda.
Nel frattempo, nella casa di fronte, come aveva ampiamente profetizzato sua madre, la piccola Emma aveva pensieri solo per la gita al mercatino del giorno seguente:
- Dunque, si potrebbe fare così - esclamò persa nell’ampia porzione di letto matrimoniale a sua disposizione - i maschietti, Guido, tuo papà - indicò Vanessa che la ascoltava sorridendo al suo fianco - Amedeo… vanno con una macchina… così possono parlare di calcio o di guerra, insomma di tutte le cose noiose di cui parlano sempre… e noi bambine… io, te, le nostre mamme, e Teresa… con un’altra… mmh, sì, secondo me è una buona idea… -
- Bah, io non starei lì a preoccuparmi di chi va con chi - commentò con finta disinvoltura suo fratello dalla brandina, allarmato dalla possibilità che quella dissenata spartizione degli equipaggi venisse accettata dagli altri - l’importante è che si vada, no? - sbirciò la ragazzina che intravedeva sopra il bordo del letto matrimoniale, cercando man forte a quella sua logicissima obiezione.
- Mah, ho paura che mio papà non abbia molta voglia di venire… - spiegò Vanessa alla piccola - sai, non si diverte molto in quei posti lì… e poi credo proprio che Teresa dovrà restare a casa a preparare la cena della vigilia… per cui sono sicura che una macchina basti e avanzi, per andare tutti assieme… magari si starà un po’ stretti, ma dovremmo farcela… - lanciò un’occhiatina divertita al ragazzino che la stava osservando, scatenando in lui una vampata di rossore.
- Oh bè, se è tutto deciso, io penso che potrò dormire tranquilla - commentò seria Emma, infilandosi sotto le coperte abbracciata al suo inseparabile Giggio - buonanotte a tutti, e speriamo che venga presto domani ma di pomeriggio… -
- ‘Notte, piccola - le augurò la sua compagna di letto.
- ‘Notte, tappo - le fece eco Amedeo, intento a fissare le macchie scrostate sul soffitto, e immaginandole come disegni di terre misteriose su uno sterminata ed antichissima mappa.
- Ti disturba se tengo ancora un attimo l’abat-jour accesa? - chiese cortesemente Vanessa.
- Oh no, fai pure - rispose pronto lui, che avrebbe dato il suo entusiastico assenso anche nel caso la ragazzina gli avesse chiesto di suonare la grancassa fino al mattino seguente.
- A noi non ci disturbi - borbottò con voce assonnata Emma da sotto il bordo delle coperte, parlando anche a nome del suo compagno di peluche. Tranquillizzata, Vanessa allungò una mano dentro la zaino ad estrarne l’agenda, per scrivere qualche commento ai fatti della giornata appena trascorsa. La aprì in grembo, tenendola appoggiata alle ginocchia piegate, e il bigliettino le scivolò tra le pieghe della camicia da notte. Con un lieve sorriso, lo afferrò tra le dita e se lo accostò al naso, odorando il vago sentore di cioccolata. Non prima, però, di aver dato una sbirciata in direzione di Amedeo, per non farsi sorprendere in quel gesto che trovava alquanto spregiudicato e audace. Il ragazzino, che dava l’impressione di essersi appisolato con la faccia nell’incavo del gomito, in realtà la stava spiando attraverso la fessura delle palpebre accostate, chiedendosi un po’ ansioso che cosa fosse quel pezzetto di carta che la ragazza sta va coccolando (e augurandosi che non si trattasse un bigliettino d’amore di qualche stronzissimo spasimante di cui lui era all’oscuro). Mentre si arrovellava convincendo sé stesso che era il caso di dichiararsi in  qualche modo, pur non avendo la più pallida idea in quale modo e soprattutto cosa comportasse farlo, scivolò nel sonno senza quasi accorgersene.
 
 
 

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Capitolo 27
*** Gero il cammamellone ***


CaP. 3 - 24 dicembre, vigilia di Natale


Teresa aprì gli occhi, facendo scivolare le braccia fuori dalle coperte, per concedersi una pigra stiracchiata. Non c’era un gran contrasto di temperatura, tra il tepore del pesante piumino e la stanza circostante, il timer di accensione del riscaldamento si era attivato puntuale (il wwwufff della caldaia che iniziava il suo prezioso lavoro le era giunto soffocato, in un dormiveglia leggero) e uscir fuori da quel confortevole nido notturno non era affatto uno shock. Non quanto il paio di alzate notturne che aveva dovuto effettuare a causa dell’eccessiva ingestione di liquidi (liquidi alcolici) della sera precedente, una intorno alle due e trenta, e la successiva ad un’ora non ben definita, visto che i suoi occhi assonnati non avevano avuto la forza di decifrare le cifre rossastre che ballavano nell’oscurità. In contrasto, e a sollievo, di queste indesiderate levatacce c’era ovviamente il delizioso piacere di potersi riinfilare sotto le coperte calde, una sensazione che a lei piaceva moltissimo, e che in non
tutti i periodi dell’anno era possibile apprezzare (nelle afose notti estive, ad esempio, era molto più affascinante farsi due passi a piedi nudi sulle piastrelle fresche che non rituffarsi in un letto appiccicaticcio di sudore). Restò immobile, con gli occhi fissi sul fioco chiarore che la minuscola finestrella del bagno irradiava nella stanza scura, filtrando dalla porta accostata. I mobili e le cose di camera sua le apparivano come sagome grigiastre, conosciute, e l’ingombrante profilo del pc sopra la scrivania le
riportò alla mente spiacevoli consapevolezze. Tese l’orecchio per verificare se il libro prigioniero aveva intenzione di riprendere a lanciare i suoi subdoli richiami, ma non udì (né le parve di udire) nulla, evidentemente i richiami di un oggetto inanimato funzionavano solo durante la notte, soprattutto se stimolati dal massiccio uso di Bonarda Oltrepò rosso (le risuonò assurdamente nella testa uno sketch-tormentone di uno sconosciuto duo comico di un’altrettanto oscura tv locale, in cui un paio di avventori redarguivano un invisibile barista al grido di “dacci due dosi, qui… ma no bì-anco, no bì-anco… ròsso, ròsso… o nero, ma no bì-anco!”) Perplessa su quali misteriosi meccanismi cerebrali regolassero il fiorire di pensieri e riferimenti assolutamente illogici e privi di senso, cercò in quel modo di evitare il più possibile l’incontro con
un quesito che aveva preso a ronzarle nella testa.
Dovrei darci un’occhiata?, si chiese titubante, sperando che qualcosa o qualcuno l’aiutasse nel risolvere quel dubbio amletico. E se poi ne trovo un’altra?, continuò rimuginando dentro sé stessa.
E’ impossibile che ne trovi un’altra, le rispose una voce assennata che altri non era che la sua componente più razionale, e lo sai, senza tanto farsi prendere da timori e superstizioni da donnicciole
Al massimo, ma proprio al limite al limite, potresti trovare un’invisibile segnetto in un angolo della pagina, dato che nonostante la tua buona volontà è ben difficile cancellare completamente la piega della carta…
- Oppure potrei lasciare perdere… - mormorò Teresa mettendosi a sedere - sottoscrivere in pieno questa ipotesi, darmi una bella lavata, vestirmi e scendere giù per un tazza di caffè, che è la cosa che più desidero in questo momento… -
Soddisfatta di quella labile presa di posizione, fece ciondolare le gambe dal bordo del letto, dando una controllata alla radiosveglia: le otto e un quarto. Mmh, un orario perfetto, per affrontare nel modo giusto una giornata che, al di là del piacere di organizzarla, si sarebbe rivelata campale. Il pranzo non rappresentava un grosso problema, la tradizione voleva che fosse composto dai classici (e deliziosi) “bìgoi co à sardèa” come primo, e poi qualche piatto a base di pesce, “sarde in saòr”,
capitone, pescetti marinati, tutti rigorosamente acquistati nella rosticceria del paese più vicino. L’unico sforzo organizzativo sarebbe stato quello di mettere a bollire l’acqua per la pasta, lavare e condire una capiente insalatiera di germoglietti freschi, e poi un buon caffè come chiusura. Le cose serie arrivavano col cenone della sera, che avrebbe dovuto essere solenne e articolato quanto bastava, al fine di arrivare all’ambito traguardo dell’apertura dei regali nel modo più festoso possibile.
Considerando l’ampia pubblicità che era stata fatta la sera precedente riguardo al mercatino di Lonigo, era prevedibile ipotizzare che avrebbe dovuto pensare a quasi tutto lei (ringraziando il cielo per l’indispensabile supporto di Ina), visto che le ragazze sarebbero rientrate solo a giochi ormai fatti. Oltre ad una raffica di antipasti, Teresa aveva ben chiara la visione di una deliziosa pentola in coccio ricolma di minestrone, come primo piatto, mentre per il proseguo stava ancora svolgendo elaborate selezioni mentali. Transitò accanto al computer, diretta verso il bagno, chiedendosi se era il caso di accenderlo e dare un’occhiata alla posta in arrivo, ma poi decise di tirar dritto, valutando troppo rischiosa l’area d’influenza del cassetto chiuso a chiave, a portata di mano della sua fragile forza di volontà. Accese la luce sopra il lavandino, sbirciandosi con un’occhio e mezzo nel grande specchio e non trovandosi, con sommo stupore, per niente malaccio, nonostante il primo esame estetico del mattino sia sempre il più impietoso. La cosa contribuì ad aumentare il suo buonumore, e a seppellire ulteriormente l’idea di andare a ficcare il naso nelle pagine di un libro, alla morbosa ricerca di una pieghetta fatta da lei in un momento di distrazione
Ma se avevi giurato che
FATTA DA ME in un momento di distrazione!!!
Ma
BASTA!!!
Si lavò e si pettinò, non facendo un grosso sforzo per attribuire il suo stato d’animo a quella straordinaria medicina dell’anima che era rappresentata dall’affetto e l’allegria dei suoi amici. Non aveva idea di quanto si fossero trattenuti, per via di quella specie di bizzarro pudore che non fa svelare i propri progetti all’inizio di un periodo da passare assieme, quasisi temesse di offendere o ferire chi ci offre ospitalità. Tutti erano rimasti un po’ sul vago, ma le pareva di aver capito che Renato e Lucia erano in parola con qualcuno per il Capodanno, e anche Guido e Diamante dovevano rientrare a Milano. Nel dubbio, fa conto che le cose bel le finiscono subito e le rogne mai, le venne in soccorso la filosofia pessimista di una sua ex-collega di lavoro la quale, calpestando il “think positive” tanto in voga, sosteneva in quel modo di esser sempre pronta a pararsi il culo contro le imprevedibilità del destino. Beh, intanto a Natale e Santo Stefano si sarebbero trattenuti di sicuro, e forse per qualche giorno in più…. Magari non tutti, e in ogni caso, come si dice… chi s’accontenta…
(Non resteranno in eterno)
Quel pensiero vigliacco la colse all’improvviso, raggelandole la pelle in maniera così realistica che lei si voltò a verificare se, per caso, la finestrella del bagno si fosse in qualche misterioso modo socchiusa. Il vetro era perfettamente sigillato, naturalmente, e lo spiffero freddo che sentiva proveniva solo dalle crepe del suo cuore. Ritornò in camera, spalancando i balconi delle finestre: il cielo fuori era monotonamente grigiastro, una specie di scodella rovesciata, e la temperatura umida e quasi tiepida le confermò che neanche per quel giorno dovevano a spettarsi un suggestivo White Christmas.
Si vestì in fretta, scivolando fuori dalla camera dopo una sommaria sistemata alle coperte del letto. Il corridoio era deserto, e nessun rumore di attività umana proveniva dalle porte chiuse dei suoi amici. Non appena imboccate le scale, udì una specie di parlottìo provenire dal piano inferiore, e ci impiegò un secondo a decifrare che si trattava della televisione. Beh, per fortuna stamattina niente volumi da concerto rock, meditò con un leggero brivido, mentre girava l’angolo della scala diretta alla saletta tv, certa di trovarvi suo padre. Invece, comodamente spaparanzata sulla poltrona che sembrava enorme, la piccola Emma, vestita di tutto punto (ma aveva avuto l’insospettabile accortezza di lasciare gli scarponcini infangati fuori dalla sala, e i calzettoni chiassosamente colorati di verde a cido puntavano dritti verso lo schermo), assorta nella visione di quello che sembrava un telefilm poliziesco.
- Buongiorno Emmina, già qui? - la salutò Teresa con un sorriso.
- Mmh mmh - confermò la bimba, senza distogliere gli occhi dalla tivu - mi sono svegliata presto, e ho lasciato là Amedeo e Vanessa… sai com’è… - fece un gesto circolare con la mano, come a dire che lei la sapeva lunga.
La vicenda narrata sullo schermo prevedeva in quel momento una furiosa (e realistica) sparatoria tra i cattivi e un temerario tutore dell’ordine, nascosto nell’ombra di un capannone in dustriale:
- Una volta mi pareva che a quest’ora trasmettessero dei cartoni animati - commentò la donna, perplessa sul tipo di spettacolo a cui stava assistendo la piccola, che non le sembrava per niente adatto - oggi niente? -
- Sì, sì, li stanno facendo, su un altro canale - spiegò Emma seriosa - solo che per il momento sono cartoni per i più piccoli… -
Teresa si chiese divertita quali potevano essere, questi fantomatici cartoni animati per i più piccoli, dato che Emma non aveva ancora sei anni e stravedeva per i Teletubbies, che non le sembravano certo creati per i maggiorenni. Uno dei banditi nel telefilm, colpito a morte, precipitò urlando in un canale di scolo.
- Non ti sembra che sia uno spettacolo poco adatto alla tua età? - le chiese apprensiva la donna, che non sapeva bene quali fossero le eventuali limitazioni messe in atto dalla madre della piccola in fatto di televisione. Emma scrollò le minuscole spalle:
- Per qualche pistolata? Dovresti vedere le cose che si guarda Amedeo… - ribattè sicura, come a dire che il fratello sì, che era un efferato malato di mente, altro che lei.
- Oggi niente meditazione sotto l’albero? - insistette Teresa cercando un modo per farle cambiare programma senza dar troppo l’impressione di volersi imporre.
- Uh uh… non è ancora il momento giusto… - sentenziò appoggiando il mento sulle manine unite - e poi la trama è molto emozionante… c’è un signore che fa finta di essere un altro signore, uno che vende i panini e anche un dottore o uno che fa le corse sopra il cavallo, se vuole, e i cattivi non sanno che è lui…, peccato che tra un po’ la puntata finisce… -
Teresa, riassalita all’improvviso dall’irresistibile voglia di una tazza di caffè, decise che la bimba sarebbe probabilmente sopravvissuta a quell’iniezione di violenza catodica, che purtroppo non sarebbe stata nè la prima né l’ultima della sua giovane vita, e fece per dirigersi in cucina:
- Caffelatte? - chiese prima di congedarsi.
- Mmh… sì sì! - rispose pronta la bimba.
- Magari con una fetta di qualche cosa? -
- Magari con una fetta di qualche cosa… Teresa? -
- Sì? -
- Quanto manca che partiamo per il mercatino? -
La donna nascose un sorriso divertito:
- Oddìo - rispose rimuginandoci su - bisogna aspettare che venga pomeriggio… adesso è ancora mattina
(mattina presto, tesoro)
fa conto che prima dobbiamo mangiare la pastasciutta tutti assieme… -
La piccola parve pensarci su un secondo, le minuscole sopracciglia bionde aggrottate, poi il faccino le si illuminò:
- E se mangiassimo la pastasciutta adesso, quando scendono tutti? - propose con un candore irresistibile.
- Mmh, buona idea - sbottò Teresa, ridendo di gusto mentre si allontanava - metteremo la cosa ai voti… -
Passò accanto all’albero di Natale, assediato da decine di pacchi scintillanti, azionando l’interruttore computerizzato delle minilucciole. Dopo un attimo di “riscaldamento” le lucine tra i rami e gli addobbi presero ad eseguire tutte le loro imprevedibili sequenze luminose. Era possibile anche inserire l’accompagnamento di ben otto melodie natalizie, che sembravano eseguite dalla suoneria di un cellulare, e che avevano tutte il medesimo potere di istigare istinti omicidi e sanguinari dopo un quarto d’ora di ascolto. Teresa passò nella cucina, tirando fuori dagli armadietti tutto l’occorrente per la colazione, ancora divertita dalle buffe e imprevedibili risposte della bimba. Allungò un braccio per afferrare la zuccheriera su una mensolina quando dalla tivu, dopo una sparatoria più furibonda delle altre, arrivò la classica risata collettiva che indicava che il telefilm era agli sgoccioli
(chissa perché nei telefilm americani alla fine devono ridere tutti come idioti…, si chiese divertita la donna)
E poi partì la sigla finale.
La zuccheriera, in delicata porcellana adornata da tenui fiorellini azzurri dipinti a mano, le sfuggì dalle dita improvvisamente gelide ed insensibili, precipitando verso il ripiano della cucina. Teresa si riparò istintivamente gli occhi, mentre il minuscolo contenitore piombava con violenza sulla tazzina in attesa sul bancone, scheggiandola e proseguendo la sua corsa in mille frantumi sul pavimento. Il cucchiaino d’argento ruotò più volte nell’aria, mandando fiochi bagliori metallici, poi cadde sotto il secchiaio, continuando a tintinnare per un tempo che a Teresa parve infinito. Immobile al centro del locale, col cuore che le si arrampicava furibondo nel petto, non udì per niente la vocina preoccupata di Emma che le chiedeva se andava tutto bene. Le sue orecchie, tese come quelle di un predatore notturno, cercavano di carpire le note della sigla che aveva udito (come capita spesso nel forsennato palinsesto delle reti televisive, impazienti di propinare al fedele telespettatore una bella mitragliata di consigli per gli acquisti, i titoli di coda del telefilm, e relativa colonna sonora, vennero impietosamente tagliati) per sincerarsi, con uno strano gusto metallico in gola, se corrispondevano a quelle che temeva di ricordare. Il televisore, insensibile al suo lacerante dissidio in terno, prese a latrare qualcosa riguardo ad un’anatra wc che faceva fuori i
nemici dell’igiene
, mentre grosse gocce di sudore rotolavano sulla fronte della donna.
Hai sentito cos’era, vero?
- I-io… i-o… f-forse era una c-cosa che le ass-somigliava s-s-olo… - quelle parole, sussurrate alla ricerca di una rassicurante certezza di realtà, le inciamparono nei denti tremanti. Sapeva bene a cosa si riferiva quell’allegra marcetta in perfetto stile film d’azione americano. L’aveva ascoltata per mesi
(se veramente era quella…)
sera dopo sera, canticchiandola dalla cucina del loro appartamento di città, mentre era impegnata a preparare una buona cenetta per suo marito, il quale spaparanzato sul divano, ancora con la cravatta al collo, si godeva il suo telefilm preferito… le avventure di…
(le mirabolanti avventure di … mica avrai dimenticato quel buffo aggettivo, creato in esclusiva da Carlo, vero?)
E come potrei dimenticarmene? Credo di aver assistito… anzi, meglio, ascoltato… decine di puntate di Jarod il Camaleonte, sei giorni su sette, comprese le repliche estive di episodi già trasmessi, che lui aveva già visto ma che si rigodeva con immutata soddisfazione.
La programmazione di quel telefilm è stata sospesa da almeno sei mesi, si disse chinata sul pavimento mentre tamponava l’inondazione di zucchero con una spugnetta bagnata, e poi andava in onda prima di cena, mica alle otto del mattino
(conosci qualcosa di più imprevedibile e anarchico di un palinsesto tv?, le chiese una vocina nella testa per rassicurarla un po’)
Con la coda dell’occhio scorse un lieve movimento alla sua destra, sulla soglia, voltando la testa in quella direzione: la piccola Emma, una compunta espressione preoccupata sul viso, la osservava dondolandosi sui calzini verdi.
- Emma… scusa… - biascicò Teresa alla ricerca delle parole adatte - quel film che stavi guardando alla tv, poco fa… -
(c’è un signore che fa finta di essere un altro si gno re, uno che vende i panini e anche un dottore o uno che fa le corse sopra il cavallo, se vuole, e i cattivi non sanno che è lui…)
- Sì? - chiese lei, con un filo di voce.
- Ti ricordi… se si chiamava… -
(Non glielo suggerire… non imbeccarla, i bambini sono capaci di ripetere qualsiasi cosa, convinti che sia farina del loro sacco, soprattutto di fronte a richieste incomprensibili e inquietanti come questa…)
- Aveva un nome un po’ difficile… - si giustificò la piccola, un po’ sulla difensiva. Teresa soffocò un malsano impulso di aggredirla, per affrettare quello stillicidio psicologico:
- Dillo come ti viene - la rassicurò con un sorriso stiracchiato - fa conto che sia una specie di gioco, ti do una doppia fetta di panettone, se indovini… -
Emma pestolò sul pavimento, un po’ imbarazzata:
- Sì… i suoi colleghi e la sua fidanzata mi pare che lo chiamassero… un nome mai sentito… Gero… - 
Teresa deglutì a vuoto, rumorosamente:
- J-Jarod, forse? -
- Sì, sì, Gero… Gero il cammamellone, mi pare… -
I cocci della zuccheriera (un altro ricordo comune del suo ex-matrimonio che se ne andava, come se una maledizione le facesse andare in pezzi a poco a poco tutta la sua esistenza) le sfuggirono dalle dita tremanti, riprendendo a tintinnare sull pavimento a scacchi marroni e beige. La donna dovette mordersi l’interno del labbro per non esplodere in urla esasperate e folli:
- Lascia stare, tesoro, che ti tagli - disse con voce incolore alla bimba che si era prodigata per aiutarla in quel compito di ripulitura che evidentemente a lei non riusciva affatto bene - a desso prendiamo una scopa che si va meglio… -
Si tirò su dal pavimento, ciabattando alcuni passi incerti (che fecero “scrocchiare” sgradevolmente lo zucchero sparso tutto intorno) fino a raggiungere e superare Emma immobile appena dentro la cucina, diretta verso la sala tivu.
Su, lascia perdere, è stato solo una sgradevole coincidenza, cercò di confortarla la solita parte razionale, non riuscendo troppo bene in quel suo lodevole intento, lo sai bene, in televisione oggigiorno non sanno più cosa fare, e in attesa di sparare i grossi titoli natalizi, hanno riempito un buco con una vecchia puntata di Jarod
Ah ah, che casualità, si rispose acida e infastidita mentre recuperava il telecomando dal bracciolo della poltrona, di tutte le cose che potevano mandare in onda, un film di Lino Banfi, un documentario sui delfini, che diavolo ne so, un vecchia comica di Stanlio e Ollio… ti vanno a scegliere il telefilm preferito dal mio Carlo…
Oh bè, ma che significa, magari da qualche parte nel mondo c’è qualcuno che prova le tue stesse sensazioni con un film di Lino Banfi, ma questa è solo una casualit
OH PIANTALA!
Armeggiò col telecomando, che rischiava di schizzarle via dalle mani sudaticcie e malferme, accendendo l’apparecchio. Si collegò con le pagine di Televideo, sui programmi tv della giornata, sbuffando impaziente nell’attendere che la pagina selezionata saltasse fuori, con tutta l’esasperante macchinosità di quel primitivo sistema informativo. alle sue spalle intuiva la silenziosa presenza di Emma, impalata sulla soglia, ma tenne lo sguardo fisso davanti a sé, per non dover fornire spiegazioni
razionali ad un’azione illogica, che avrebbero certo demolito la sua malata testardaggine.
“Ah ha!!!”, avrebbe voluto esclamare mentre prendeva atto che, secondo quello che le rozze letterine elettroniche sullo schermo le stavano dicendo, nell’arco di tempo che andava dalle 6 al le 10 (per tenersi larghi, dato che non erano suonate le nove) le principali reti tv prevedevano di tutto e di più, per parafrasare uno slogan pertinente, tranne che un’avventura di Jarod il camaleonte.
Mirabolante o no che fosse.
Toc toc, pronto? C’è nessuno in casa?, continuò la vocina saggia che non aveva nessuna intenzione, per quant’era in suo potere, di lasciarla affondare in un abisso di paranoia e insensatezza, ricordi quando poco fa ti ho chiesto se conoscevi qualcosa di meno affidabile di un palinsesto tv? Beh, dimentica tutto, l’abbiamo trovato: un inaffidabilissimo Televideo
“Giusto, giusto”, convenne, spegnendo la tivu e sfilando accanto ad un’immobile Emma. Le scompigliò i capelli con un gesto distratto, e la piccola rimase in silenzio, ritenendo quello che stava succedendo a zia Terry troppo importante per ricordarle la promessa di una tazza di latte e relativa fetta di panettone. La donna riprese la scala in direzione del piano superiore, catapultandosi nella propria stanza con un’idea ben precisa nella testa confusa.
“Televideo potrà anche essere inaffidabile, e allora verifichiamo…”
Non capisco cosa tu voglia dimostrare…, le chiese la sua coscienza, ben sapendo in realtà dove lei volesse andare a parare, e scoprendosi molto preoccupata per questo.
Teresa entrò nel bagno, sedendosi senza tante cerimonie sul coperchio del water, e sfilando il Telepiù dal suo confortevole nido, tra il termosifone e la mensola in marmo.
- Un’omissione è casualità, due cominciano ad essere indizio di qualcosa… - borbottò come avrebbe fatto Poirot in qualche sua indagine. Sfogliò il giornalino agitata, aprendolo alla data del giorno in corso… e lanciandolo lontano subito dopo, come se fosse affetta da un’assurda allergia alla carta stampata. Con occhi sbarrati e il sangue che le si ghiacciava nelle vene, mentre il battito del cuore ritornava a scuoterla con violenza, osservò le pagine multicolori del librettino volare via, con un
frullìo cartaceo, per poi giacere sul tappetino del bagno.
ANCHE questa l’hai fatta tu, soprappensiero?, sibilò una voce nella sua testa, molto più crudele e spaventosa di quella della sua assennata coscienza, che pareva in quel momento essere andata a farsi un giro. Tremando così violentemente da rischiare di cader giù da quel suo improvvisato sedile, aveva la netta sensazione che il suo cervello stesse annaspando nel tentativo, in quell’istante assolutamente vano, di dare un senso a quello che le sue terminazione visive gli stavano comunicando. Che poi non era altro che una minuscola “orecchia” in corrispondenza della pagina relativa al 24 dicembre.
Distolse per un attimo lo sguardo febbricitante dal giornalino tv, precipitandosi a sciaquarsi il viso arroventato sotto il getto gelido dell’acqua.
A parte tutto, riprese la solita, conosciuta vocina, ora di nuovo con la sua inflessione pacifica, se in corrispondenza della giornata di oggi qualcuno ha fatt
SI E’ FORMATA, SI E’ FORMATA!!!
SCUSA… SCUSA!, esclamò la sua coscienza per tentare di fermare il ringhìo inquietante che la gola di Teresa stava emettendo, scusami… se si è formata quella piega, for se vorrà dire qualcosa di importante
- io quella cosa NON LA TOCCO! -
Ma non volevamo verificare se Televideo diceva il falso o meno, riguardo a
Boccheggiando per cercare di fare entrare preziosa aria nei polmoni rinsecchiti dalla paura, Teresa si piegò verso il basso, recuperando il giornalino. Se lo pose in grembo con cautela, evitando di fissare le abnormi bolle di pelle d’oca che le ricoprivano gli avambracci, e prese a scartabellare con irruenza le due pagine dedicate alle reti più importanti (sperava di poter escludere che il telefilm fosse stato trasmesso da qualche remota televisioncina locale). Dopo alcuni frenetici minuti, in cui scorse
infinite volte, con maniacale minuziosità, la fitta lista di proposte tv, dovette arrendersi all’evidenza che il collega elettronico di Telepiù non parlava con lingua biforcuta. Per quella giornata in corso, dall’inizio delle trasmissioni fino alla messa di mezzanotte officiata dal Pontefice in persona, non c’era traccia di un telefilm di un detective che aveva la soprannaturale capacità di saper eseguire qualsiasi mestiere o professione… Ovvio, no? Se no, che razza di camaleonte
(o camamellone, se preferite)
sarebbe?
Che diavolo significava?
Né più né meno che hanno mandato in onda una puntata così, all’improvviso, perché magari il nastro del programma previsto si è inceppato
Che qualcosa ha organizzato un’esclusiva proiezione privata per me e la piccola Emma…
Che cosa?!?
Che qualcosa, o qualcuno, si diverte a far suonare sonaglini di conchiglie
(era un sogno)
a piegare gli angoli delle pagine dei libri
(l’hai fatta tu, soprappensiero, ne eri così convinta)
qualcuno che vuole dirmi qualcosa… entrare in contatto con me…
Teresa, fiondati a svegliare Renato e fatti prescrivere qualcosa. Qualcosa di FORTE
Ancora scossa da qualche brivido gelido, si tirò su a fatica dal suo estemporaneo sedile, dirigendosi con passo malfermo verso la camera. Si sentiva impacciata e malferma, con tutte le articolazioni paralizzate, come se fosse reduce da una grave malattia debilitante, o come se fosse di colpo invecchiata di cinquant’anni. Appoggiandosi alle pareti e allo stipite della por ta, riuscì ad arrivare ondeggiando nei pressi della scrivania
Lascia perdere… dimentica tutto… sei esaurita, e i tuoi amici ti stanno aspettando di sotto… sono stati solo brutti scherzi della tua mente esausta… diciamocelo chiaro, tra te e me, non ne sei ancora venuta fuori del tutto, ed è stato troppo traumatico passare dalla solitudine a… tutta quest’esplosione di calore e amicizia
(e molto probabilmente il danno più devastante deve ancora arrivare, considerò il suo subcosciente ad un livello ancora più profondo, così che la donna non ne restasse influenzata più di tanto)
Teresa non badò a nessuno di quegli assennati consigli mentali, inginocchiandosi con titubante cautela accanto alla scrivania. Con gli occhi incollati sul cassetto che conteneva il giallo, cercò sul ripiano di legno la chiavetta, a tentoni come una non-vedente, recuperandola tra il mouse e la tastiera del pc. Il tremore alle mani cercò di impedirle la sua risoluta decisione di liberare il libro prigioniero. La donna, con un mozzicone di lingua che spuntava dal ghigno dipinto sul volto, fu costretta a infilare
la chiave con entrambe le mani, per evitare che le schizzasse via.

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