Black moon di Aurore (/viewuser.php?uid=144679)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Porcelain ***
Capitolo 2: *** Paradise ***
Capitolo 3: *** You and me ***
Capitolo 4: *** Get to you ***
Capitolo 5: *** Collide ***
Capitolo 6: *** Open arms ***
Capitolo 7: *** Chasing cars ***
Capitolo 8: *** Madness ***
Capitolo 9: *** Into the fire ***
Capitolo 10: *** Trouble ***
Capitolo 11: *** Stay ***
Capitolo 12: *** Echo ***
Capitolo 13: *** Love illumination ***
Capitolo 14: *** Glitter in the air ***
Capitolo 15: *** Hurricane ***
Capitolo 1 *** Porcelain ***
Capitolo 1
Porcelain
In my dreams I'm dying all the
time
as I wake its
kaleidoscopic mind
I never meant to hurt
you
I never meant to lie
so this is goodbye
this is goodbye.
Porcelain, Moby¹
Quando
in sogni opprimenti e orribili l'angoscia tocca il grado estremo,
è proprio essa che ci porta al risveglio,
con il quale
scompaiono tutti quei mostri notturni.
La stessa cosa accade nel sogno della vita, quando l'estremo grado di angoscia
ci costringe a spezzarlo.
Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena
È
tarda mattinata. Il sole picchia forte, ma si sta bene vicino
all'acqua, talmente trasparente che riesco a vedere benissimo
i
minuscoli pesciolini che nuotano sul fondale di sabbia, intorno alle
mie caviglie. Un'acqua così esiste solo su quest'isola. Il
vento
soffia leggero, scompigliandomi i capelli e increspando appena la
superficie dell'oceano animata da piccole onde simili ad ali di
gabbiano.
Dei passi si avvicinano.
Sorrido.
Posso sentirlo perfettamente, ma faccio finta di nulla.
Vorrà
senz'altro cogliermi di sorpresa. Un attimo di silenzio, poi le sue
braccia mi circondano veloci. China la testa per baciarmi la spalla
lasciata scoperta dal prendisole, mi sorride, mi stringe con forza e
mi solleva, facendomi girare insieme a lui, una, due, tre, quattro
volte... Strillo, sorpresa, divertita e un po' spaventata, un
brivido di eccitazione che mi corre lungo la schiena. I miei piedi
sfiorano il pelo dell'acqua, tracciando intorno a noi un cerchio di
perfezione e di felicità. Scoppio a ridere e lui ride con
me,
mentre serro le sue braccia con le mie, quasi intrappolandolo a mia
volta, e lascio andare la testa all'indietro, contro la sua spalla,
godendomi la sensazione divina del vento tra i capelli.
Poi perde l'equilibrio e
cadiamo
entrambi sul bagnasciuga, rotoliamo sulla sabbia che si attacca alla
pelle, ai vestiti, ai capelli, ridendo come pazzi. Quando ci fermiamo
sono sopra di lui. Ha smesso di sorridere e mi fissa con aria
seria: sembra in attesa di qualcosa di importante. Le sue labbra
sensuali sono leggermente dischiuse ed io non resisto alla tentazione
di toccarle con le mie. Mi cinge la vita con un braccio, spingendomi
verso di lui, mentre con l'altra mano mi accarezza piano la coscia.
Scossa dai brividi, premo con più forza la bocca contro la
sua,
come se volessi entrargli dentro. La lingua si fa strada verso la sua,
audace come mai prima d'ora.
A malincuore sono
costretta a
staccarmi per prendere fiato e all'improvviso mi sento
spossata: mi sembra che in quel romantico corpo a corpo abbia consumato
tutte le mie energie. Mi lascio ricadere sulla sabbia, ansimante, e per
un po' resto così, ferma, fissando il cielo azzurro chiaro e
perfettamente terso. Amo questo posto. Io vengo da qui, lo sento. Il
tempo scorre in modo strano, sembra dilatarsi all'infinito. Potrei
essere sdraiata qui da un'eternità. Fa caldo, ma fa
più
caldo dentro di me. Giro la testa per guardare lui, disteso al mio
fianco, e
il sorriso si congela all'istante sulle mie labbra: il suo corpo
è stranamente immobile e pallido, gli occhi spalancati sono
fissi e vitrei, privi di espressione, come le finestre di una casa
abbandonata.
No. Non è
possibile.
Il mio respiro accelera,
agitato e
spezzato. Vorrei gridare, ma non ho il fiato necessario. Vorrei
muovermi, toccarlo, ma sono paralizzata.
«Alex»,
sussurro.
Aprii gli occhi di scatto e mi ritrovai a fissare qualcosa di bianco.
Un cuscino. Lentamente realizzai di essere a letto, un letto enorme
e molto comodo che non era il mio, in una stanza che non era la mia.
Tutt'intorno era in penombra e faceva un gran caldo, ma qualcosa di
gelido scorreva piano su e giù lungo il mio braccio, per poi
poggiarsi sulla mia fronte, togliendo qualche gocciolina di sudore.
«Va tutto bene. Sei sveglia, adesso»,
mormorò una voce delicata.
Papà. Mi girai lentamente sulla schiena e lo vidi seduto sul
letto, accanto a me. Lo guardai in silenzio per qualche secondo.
«Era solo un sogno?», farfugliai, ancora
disorientata. La mia voce era roca. Avevo bisogno di bere dell'acqua.
Mi sorrise e con un dito mi toccò di nuovo la fronte,
spostando
una ciocca di capelli in disordine. «Ma certo, piccola. Tu
sei
sull'Isola Esme, Alex è a Martha's Vineyard² con la
sua
famiglia e senz'altro sta bene. Non preoccuparti».
A mano a mano che riacquistavo la lucidità, mi rendevo conto
che
aveva ragione. Feci un bel respiro profondo e mi misi a sedere tra le
lenzuola aggrovigliate, sistemandomi i capelli con le dita. L'incubo mi
aveva lasciato una strana sensazione, un peso sullo stomaco. Lanciai
un'occhiata intorno a me.
«Perchè sono in camera vostra?».
«Be', stanotte sono venuto a controllarti ed eri molto
accaldata... come al solito», rispose lui, sorridendo.
«Ti
abbiamo messo in mezzo a noi per rinfrescarti un po'».
Annuii, imbarazzata. Ormai ero decisamente troppo grande per dormire
nel letto dei miei, ma quando eravamo sull'Isola Esme si ripeteva ogni
notte la stessa routine. Ero troppo abituata alle fredde notti di Forks
per riuscire a dormire bene con quel clima così afoso e
puntualmente mi svegliavo fradicia di sudore.
«Hai fame? La mamma ti sta preparando la colazione».
Papà si alzò e andò ad aprire le
imposte della
porta finestra che dava sulla spiaggia. Il sole inondò la
camera, ma per la prima volta la vista di quel panorama mozzafiato,
sfondo del mio orribile sogno, suscitava solo sensazioni sgradevoli.
«Che strano incubo, eh?», dissi.
Edward, che si stava dirigendo alla porta, si fermò e mi
guardò con aria divertita. «Non direi, visto che
ieri sera
hai mangiato pesante: devi suggerire alla mamma di mettere meno
peperoncino nella coxinha³
la prossima volta».
«Ehi, ho
sentito!», gridò Bella dalla cucina.
«Cos'ha la mia coxinha
che non va?».
Papà si sforzò di trattenere le risate, un
sorriso sghembo sul volto. «Niente, amore!»,
rispose uscendo dalla stanza.
Mi sfuggì un sorrisetto. Che matti, i miei genitori. Mi
alzai e
raggiunsi la finestra, stiracchiandomi. Il sole splendeva alto
nel cielo, l'oceano luccicava come argento, le palme della spiaggia
oscillavano pigramente. Quello strano senso di oppressione era svanito.
All'improvviso mi parve di guardare tutto con occhi diversi. Non vedevo
l'ora di fare un tuffo. Feci una doccia lampo, indossai bikini e
copricostume e andai in cucina. Trovai papà intento a
raccontare
alla mamma del sogno, e per quanto fossi infastidita dal fatto di non
riuscire a tenere mai niente per me, quando anche lei mi
rassicurò, consigliandomi di non pensarci più, mi
sentii
molto più tranquilla.
«Stasera pensavo di cucinare le empanadas
⁴»,
annunciò Bella mentre riempiva un bicchiere di succo di
frutta e me lo porgeva.
«Ehm... non so se è una buona idea»,
sospirai, storcendo il naso.
Il suo entusiasmo si sgonfiò come un palloncino.
«Perchè no?».
Papà aveva un sorriso che andava da orecchio a orecchio e
taceva con aria furba.
«Mamma, tu non assaggi mai nulla mentre cucini e da quando
siamo qui
hai sviluppato un'insana passione per la cucina locale, che prevede un
abbondante uso di spezie...
Qual è il risultato, secondo te?».
«Non è possibile», sbottò.
Sembrava scioccata.
«La coxinha
di ieri sera
conteneva più peperoncino che carne di pollo»,
aggiunsi,
imperterrita. «La mia gola ha quasi preso fuoco».
Lei non sapeva come ribattere. Guardò papà, che
tratteneva a stento una risata, poi di nuovo me, che avevo
un'espressione eloquente, poi di nuovo lui. Infine si
rassegnò
con un sospiro. «E va bene. Basta spezie ed esperimenti
culinari»,
grugnì. Prese una pila di piatti e stoviglie sporche
e infilò tutto nella lavastoviglie con gesti
bruschi.
Incrociai per un istante lo sguardo di papà e subito
distolsi
il mio; sapevo che se ci fossimo fissati per un secondo di troppo,
sarei scoppiata a ridere.
«Allora, ehm... che facciamo di bello stasera?»,
chiesi, rompendo il silenzio.
«Io propongo una maratona di vecchi film per tutta la notte,
fino all'alba», disse la mamma, tornando al tavolo.
«O meglio, fino a quando riuscirò a tenere gli
occhi aperti», la corressi.
«Oppure potremmo fare un giro in città»,
propose
Edward. Mi guardò. «Che ne dici, Raggio di sole?
Non hai mai visto Rio di
notte».
L'idea stuzzicò immediatamente la mia immaginazione. Durante
il
viaggio di andata eravamo atterrati in città di sera, ma io
mi
ero addormentata sul taxi che ci conduceva al porto e mi ero
risvegliata a casa, nel mio letto: non avevo visto un bel niente. E
sebbene fossimo in Brasile da più di una settimana, non
avevamo
ancora mai lasciato l'isola. Rio di notte... doveva essere fantastica.
Sorrisi.
«Ci sto».
****
Quella
sera, dopo cena, passai un bel po' di tempo nella mia stanza a
prepararmi. Indossai un vestito corto di tulle color blu pervinca che
mi aveva comprato Alice prima di partire e che io giudicavo fin troppo
appariscente, ma quale occasione migliore per indossarlo di una sera a
Rio de Janeiro? Lo abbinai a sandali argentati argentati e
sistemai i capelli in una alta e vaporosa coda di cavallo. Poi mi
toccò convincere la mamma a nom uscire di casa in jeans e
t-shirt e a mettere un vestito e scarpe col tacco. Non fu semplice,
ma a un certo punto, finalmente, fummo pronti ad andare.
Mentre
viaggiavamo in barca verso la terraferma, l'eccitazione che mi
aveva fatto compagnia fino ad allora crebbe fino a toccare il culmine.
Troppo impaziente per chiacchierare con i miei, rimasi in
silenzio per tutto il tempo, seduta sul bordo del motoscafo ad
osservare l'oceano, un'immensa distesa liscia e scura come velluto
nero, e la luna piena, una sfera perfetta color argento che si
specchiava sulle onde. Era una vista talmente romantica da stringermi
il cuore. Nel frattempo Edward
e Bella chiacchieravano tranquillamente tra loro, le voci sovrastate
dal rombo del motore e dallo scroscio delle onde contro i fianchi della
barca.
Arrivammo
a destinazione dopo poco più di mezz'ora e, lasciata la
barca al
molo del porto, ci immergemmo nelle strade affollate, caotiche e
rumorose della città. Scattammo qualche foto vicino
all'oceano
dopo aver vinto le resistenze della mamma, patologicamente incapace di
stare davanti all'obiettivo; Alice mi aveva ordinato chiaro e tondo di
immortalare ogni momento della vacanza e non potevo tornare a Forks
senza un centinaio di fotografie, non se ci tenevo a sopravvivere. Poi
ci dirigemmo verso Lapa⁵, uno dei quartieri
alla moda della città, pieno di locali, bar, negozi e
bancarelle di souvenir
e gruppi di musicisti di strada ad ogni angolo. Parecchie persone
ballavano sui marciapiedi, così affollati che non era
possibile
fare tre passi senza rischiare di finire addosso a qualcuno.
Mentre
camminavamo notai che parecchi ragazzi mi lanciavano occhiate
interessate, ma poi incrociavano lo sguardo di papà e ci
ripensavano.
«Quella
gonna è troppo corta, Renesmee», disse a denti
stretti, un'espressione profondamente infastidita sul viso, mentre
passavamo accanto a un gruppetto di ragazzini chiassosi e ciarlieri.
Chissà quali pensieri aveva ascoltato.
«Oh,
andiamo!», esclamò la mamma, diveritita.
«Lasciala
stare, c'è già Emmett a darle il tormento con
questa
storia».
«Se
è per questo, anche la tua gonna è
troppo corta», aggiunse Edward con tono stizzito, lanciando
un'occhiata verso destra.
Io e Bella
seguimmo la direzione del suo sguardo e scorgemmo un ragazzo
sui sedici anni che fissava la mamma con occhi e bocca spalancati, come
se fosse stata una dea scesa direttamente dalle nuvole. Scoppiai a
ridere di gusto mentre lei abbassava lo sguardo, lusingata e
imbarazzata allo stesso tempo.
Dopo un po'
ci fermammo in un piccolo locale e sedemmo ad uno dei
tavolini all'aperto. Volevo bere qualcosa di fresco, ma non riuscivo a
smettere di guardarmi intorno, stregata dal vortice di suoni, profumi e
colori che danzava per le strade. I turisti e gli abitanti del luogo
camminavano in gruppi o a coppie, sorseggiando cocktail dai
colori brillanti, la musica che usciva dai locali si mescolava al suono
dei tamburi dei musicisti di strada e a frammenti di chiacchiere e
risate, e ovunque aleggiava un delizioso odore di spezie. In un angolo
una banda di ragazze dalla pelle di varie tonalità di scuro
e con abiti vivaci indosso ballavano tra loro, ridendo, sussurrandosi a
vicenda chissà quali segreti e lanciando occhiate ai ragazzi
di passaggio. Improvvisamente pensai a quanto sarebbe stato divertente
essere lì con le mie amiche al gran completo. Immaginai
Holly che ballava con tre ragazzi abbronzati contemporaneamente e
Maggie che cercava di tirarla via, Jas che comprava souvenir ad ogni
bancarella, Danielle che si fermavano ad ascoltare i musicisti agli
angoli delle strade...
E se con me ci fosse stato Alex, invece? Istintivamente sorrisi,
pensando alle cose fantastiche che avremmo fatto io e lui insieme, da
soli, in un posto del genere: nuotate al chiaro di luna, lunghissime
sedute di baci all'ombra delle palme sulla spiaggia, serate tra un
locale e l'altro... Alex.
Il ricordo dell'incubo mi invase all'improvviso, come una macchia di
petrolio che si espande nella
neve: la spiaggia, il sole, l'oceano, le sue braccia intorno a me, i
suoi baci, e poi... Provai una sgradevole morsa alla stomaco. Temevo
che quella notte l'incubo sarebbe tornato,
come quando ero piccola e per settimane e settimane, dopo la venuta dei
Volturi, avevo sognato una fila di mantelli neri che veniva verso di me
in un paesaggio innevato. Provare di nuovo quella sensazione, la
sensazione di qualcosa di orribile che ti aspetta nel buio quando
chiudi gli occhi per addormentarti, mi faceva sentire di nuovo una
bambina fragile e in pericolo. E non sopportavo di sentirmi
così.
Papà
mi disse qualcosa, interrompendo la sua discussione con la mamma, ma mi
ci volle un po' per accorgermene.
«Uhm...
? Come?», borbottai, ancora distratta dalle mie cupe
riflessioni.
Lui mi
fissava con aria leggermente esasperata. «Non posso credere
che tu ci stia ancora pensando».
Ovviamente
parlava del sogno. Arrossii un poco. «Be', non è
stata proprio una cosa da nulla», risposi con
tono sostenuto.
«Ma
era un sogno, Renesmee. Un sogno, tutto qui».
Sospirai.
Ero decisa a lasciar cadere l'argomento e invece nemmeno due secondi
dopo...
«Era
molto... realistico. Mi sembrava di essere davvero lì. I
sogni che faccio di solito non sono così e tu
lo sai»,
proruppi.
«Questo
non cambia il fatto che era un sogno. Tutta quest'attenzione
è ingiustificata».
«Sai,
vorrei che ogni tanto le mi riflessioni private
rimanessero tali», risposi, infastidita dalle sue parole e
dal suo
atteggiamento. Si ostinava a minimizzare i miei timori. Perfetto.
Lui scossela
testa. «No, tesoro, non è
così...».
«Papà!
Cosa ho appena detto?».
Si
interruppe all'istante con aria colpevole. A volte rispondeva ai miei
pensieri, anzichè alle mie parole, senza nemmeno
accorgersene.
«Mi spiace», si scusò a bassa voce.
Scese il
silenzio mentre mi sentivo sempre più
arrabbiata. Ero certa di sapere perchè la mia opinione fosse
considerata così poco.
«Se
vuoi posso...», cominciò la mamma.
«No,
grazie, niente scudo», borbottai. «Non è
necessario».
Tanto per
fare qualcosa, afferrai il menù e scorsi velocemente la
lista delle bevande. Tra i tanti nomi di cocktail stravaganti mi
colpì uno in particolare; lo avevo
già sentito da qualche parte, ma dove? Riflettei per un
istante, e ricordai: me ne aveva parlato Jas quando le avevo raccontato
delle vacanze in Brasile, poco prima che finisse la scuola.
«Credo
che assaggerò la Caipirinha6»,
annunciai. Sapevo che Jas avrebbe voluto assaggiarlo, per
curiosità, e immaginare la sua espressione quando le avrei
raccontato del cocktail mi faceva sorridere.
«Tesoro,
non mi sembra il caso», disse papà.
Il suo tono
indulgente mi fece scattare subito sulla difensiva.
«Perchè? Ne assaggio un sorso, non voglio berlo
tutto».
Lui
serrò appena le labbra. «Meglio di no.
È un po' presto per gli alcolici, non trovi?».
«Lo
sai che ho già bevuto alcolici», mi lasciai
sfuggire, piccata, e un istante dopo avrei voluto rimangiarmi tutto.
La mamma
sussultò. «Davvero? Quando?»,
esclamò.
Edward emise
un leggero sospiro. Io esitavo, ma ormai il danno era
fatto. «Ehm... Ecco... Alla festa di compleanno di Holly, la
scorsa
primavera... c'era del vino. Ma ne ho assaggiato
solo un po' e non mi è
piaciuto per niente», aggiunsi, sperando che non scoppiasse
una bomba. «Tornando
al
nostro discorso, visto che ho già bevuto un sorso di vino
posso
avere anche un sorso di Caipirinha?».
«No»,
rispose la mamma con decisione. Alzai gli occhi al cielo,
scocciata. Lei afferrò il menù e vi
gettò
un'occhiata. «Che ne diresti di un bel succo di
frutta?».
«Tu
sai che non ho davvero cinque anni,
giusto?», ribattei, provocatoria.
Lei fece un
sorriso furbo. «Certo che lo so. A settembre ne festeggi
sedici, e a me non risulta che le sedicenni possano bere cocktail
alcolici».
Rimasi zitta
a fissarla con aria truce per un secondo, mentre la mamma
reggeva il mio sguardo, e alla fine mi arresi. Dannati vampiri
dispotici. «E
va bene.
Prenderò un tè ghiacciato». Incrociai
le braccia, puntai gli occhi su un punto imprecisato della strada e non
aggiunsi un'altra parola.
«Ottima
scelta, tesoro», commentò Bella. Chiamò
al volo un cameriere di
passaggio e ordinò. Il ragazzo, sui venticinque anni e
con un sacco di capelli ricci e scuri raccolti in una coda, le rivolse
uno sguardo di deciso apprezzamento prima di allontanarsi. Edward si
agitò sulla sedia, borbottando qualcosa sottovoce, ma lei
fece
finta di nulla. Era impegnata a studiare la mia espressione e mi parve
di scorgere un po' di senso di colpa nel suo sguardo. «Non
essere arrabbiata», aggiunse a bassa voce dopo qualche attimo
di silenzio.
Sbuffai.
«Non sono arrabbiata, io... non sopporto di essere trattata
così».
«Così
come?».
«Come
una bambina!», sbottai, alzando la voce. «Non posso neanche
scegliere che cosa bere!».
«Renesmee,
non capisco»,
esclamò
Bella, sconcertata. Mi fissava con gli occhi spalancati. «Tu non hai mai
bevuto alcolici».
«Non
è questo il punto! Io volevo assaggiarlo, ma voi non mi
ritenete abbastanza grande da poterlo fare!».
«Ma
è vero che non lo sei», intervenne
papà,
la voce dolce e pacata. Stava cercando di calmarmi, ma in quel momento
la cosa mi irritava ancora di più. «Anche se
avessi
davvero sedici anni, comunque non lo saresti».
«Ecco.
Vedete che ho ragione?», sibilai, incrociando le braccia con
gesto stizzito.
«Si
può sapere che ti prende?», esclamò la
mamma, sempre più incredula.
«Niente! Se non sono
d'accordo con voi devo avere per forza qualcosa che non va?».
Bella fece
un sospiro pesante. «Renesmee, calmati, per
favore»,
disse, e dal tono capii che si stava sforzando di essere paziente.
«Capisco che il sogno di stanotte ti abbia sconvolta,
ma...».
Sembrò
pentirsi all'istante di ciò che aveva detto.
Papà le lanciò un'occhiata di avvertimento, ma
ormai era
tardi.
«Certo»,
mormorai, piccata. «Sono una bambina che ha paura dei brutti
sogni, giusto».
«Non
ho detto questo!».
«Basta,
vado a fare un giro per conto mio». Mi alzai di scatto,
improvvisamente stufa ed esasperata. Il cambiamento di umore era stato
così repentino da stupire anche me, ma non riuscivo
più a starmene seduta lì. «E non
mi seguite,
per favore».
Edward e
Bella mi fissavano con due identiche espressioni sgomente.
«E
il tuo tè ghiacciato?», esclamò la
mamma.
«Sicura
che io sia abbastanza grande da poterlo bere?», chiesi per
tutta risposta, sarcastica.
Mentre mi
allontanavo dal tavolo la sentii rivolgersi a papà.
«Tu hai capito cos'è successo?».
****
Per
dieci minuti buoni camminai a passo di marcia, senza fermarmi un attimo
e
rimuginando sulla conversazione con i miei. Che nervi! Non li
sopportavo quando facevano così. Ero talmente infuriata che
non riuscivo
più neanche a far caso all'atmosfera festosa e vivace che
fino a poco prima mi aveva letteralmente catturata. Poi, lentamente,
quella
rabbia improvvisa e irragionevole iniziò a scemare, a
dissolversi, rapida così com'era arrivata. E a mano a mano
che
tornavo lucida, ricominciavo a ragionare. Mi rendevo conto di non
essermi
comportata in modo molto maturo: avevo fatto una scenata
senza nessun motivo reale. Mi dispiaceva di aver piantato i miei in
quel modo,
ma sembrava che si fossero messi d'impegno per irritarmi,
prima ridendo del mio
incubo, poi facendo tutte quelle storie per uno stupido cocktail che
non avevo neanche voglia di assaggiare davvero...
Rallentai
il passo per evitare di travolgere qualcuno tra la folla e mi lasciai
sfuggire un sospiro. Camminavo quasi senza fare caso a ciò
che
mi circondava, persa nei miei pensieri, quando all'improvviso, in quel
mare di persone in movimento, qualcosa catturò la mia
attenzione. O meglio qualcuno: un ragazzo che
camminava nella direzione opposta alla mia,
insieme a due ragazze che lo tenevano abbracciato. Non poteva avere
più di vent'anni, carnagione olivastra, lineamenti regolari,
occhi color tek, labbra carnose, capelli scuri corti e un po' ricci. Lo
conoscevo. Mi ci volle un secondo per recuperare quel volto dalla
mia memoria e abbinarlo a un nome ben preciso, e di colpo mi bloccai in
mezzo alla strada.
Anche lui mi
aveva notata. I suoi occhi incrociarono i miei e, come me,
subito si bloccò. Sembrava altrettanto stupito, e anche un
po'
incerto.
«Nahuel...
?», bisbigliai, incerta, temendo di sbagliarmi.
Sollevò
le sopracciglia quando capì che lo avevo
riconosciuto, sempre più sorpreso. «Renesmee
Cullen?», chiese di rimando. E la sua voce calda, avvolgente,
sembrò
affiorare direttamente dai miei ricordi. Non mi ero sbagliata.
Note.
1. Link.
2. Isola degli Stati Uniti. Si trova nel Massachusetts ed è
una famosa località di vacanza.
3. Piatto tipico della cucina brasiliana a base di pollo e spezie.
4. Altro piatto tipico del Brasile, è una sorta di fagottino
ripieno di carne, spezie e altri ingredienti.
5. Quartiere di Rio, uno dei cuori della vita notturna della
città. Forse qualcuna di voi ha riconosciuto il nome,
perchè le scene della luna di miele di Edward e
Bella prima di raggiungere
l'Isola Esme, in Breaking dawn parte I,
sono state girate proprio lì. Mi sembrava carina l'idea che
Edward e Bella tornassero in quei luoghi insieme a Renesmee.
6. Bevanda alcolica tipica del Brasile.
Spazio autrice.
Come avevo promesso, eccomi di ritorno con il tanto atteso
(sì, come no...) sequel di Midnight star ^^.
Siete strafelici, vero? Vero... ?
Prima di tutto, Buon Anno!
A chi avesse aperto questa storia per caso o per
curiosità senza aver letto la prima parte, suggerirei di
partire dal principio e leggere Midnight
star. Non è strettamente indispensabile aver letto
la prima parte per leggere questa, ma insomma... diciamo che sarebbe
meglio averla letta, ecco, a scanso di equivoci (sono ruffiana, eh?
Va be', dai, solo un pochino xd).
Ringrazio in anticipo tutte le lettrici che hanno seguito MS con
affetto e che mi accompagneranno anche in questa seconda parte ^^. Mi
scuso per l'attesa che è stata un po' più lunga
del previsto, colpa dell'università e di altri problemi.
Meglio tardi che mai, comunque, e spero che varrà
la pena di aver aspettato un pochino. Come sempre resto in attesa delle
vostre opinioni, positive o negative che siano; in particolare, vi
sarei grata per la segnalazione di eventuali errori e sviste,
perchè purtroppo qualcosa mi sfugge sempre per quanto io
controlli e ricontrolli :-).
Ultima nota (ultimissima, giuro xd).
Aggiornerò sempre di mercoledì, come era
per MS, ma una volta ogni due settimane, un
mercoledì sì e uno no, per intenderci, salvo inconvenienti. Quindi
l'appuntamento per il secondo capitolo è a
mercoledì 15 gennaio. Grazie a tutte!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Paradise ***
Capitolo
2
Paradise
When she
was just a girl
She
expected the world
But
it flew away from her reach
So
she run away in her sleep
And
dreamed of para-para-paradise
Para-para-paradise
Para-para-paradise
Every
time she closed her eyes.
Paradise,
Coldplay¹
L'imprevisto,
la sorpresa, lo stupore sono una parte essenziale e la caratteristica
della bellezza.
C. Baudelaire
Non so per quanto tempo restammo lì, fermi, a fissarci a
bocca aperta. Poi sparai la prima cosa che mi passò per la
testa. «Che ci fai qui?».
La sua
espressione passò dallo stupore al divertimento.
«Io ci vivo», spiegò, un ampio sorriso
sulle labbra.
«Ah»,
mormorai. Giusto. L'avevo dimenticato.
«Tu
che ci fai qui, invece?», chiese a sua volta. Sembrava molto
curioso.
Cercai di
riordinare le idee. Mi sentivo vagamente confusa. «Io... sono
in vacanza. Con i miei genitori».
Nahuel
annuì. Trascorse ancora qualche secondo e noi continuavamo a
fissarci con un'aria, ne ero sicura, non troppo intelligente. Poi lui
parlò di nuovo.
«Sei...
cambiata», disse, con un tono e un'espressione
così sbalorditi che sembrava sul punto di ridere di se
stesso.
«Sì,
be'... non ci vediamo da cinque anni», commentai. Se Nahuel
mi trovava cambiata, io non potevo dire altrettanto di lui: l'unico
cambiamento dalla prima ed ultima volta che l'avevo visto consisteva
nel taglio di capelli. Li ricordavo più lunghi e legati in
una coda.
«Sei
cresciuta», aggiunse.
«Tu
invece sei identico a come ti ricordavo. A parte i capelli».
Ridacchiò,
mentre d'istinto si sfiorava la testa con una mano. «Ah,
già. Che ne pensi?».
Colta di
sorpresa, esitai un po' prima di rispondere. «Stai... ehm...
bene», mormorai, abbassando lo sguardo, e lo sentii ridere
ancora, chissà come mai. Rideva di me? Fantastico.
In quel
momento una delle due ragazze che erano con lui, alta, sottile e con
una gran massa di capelli riccie biondi, lo tirò leggermente
per un braccio. «Ehi, Nahuel... andiamo?»,
esclamò, annoiata.
«Andate
voi», rispose Nahuel, girandosi a guardarle. «Io
resto con lei».
Come?
«Ehm...
No, non è necessario. Davvero», balbettai, un po'
confusa. «Vai pure, non voglio interrompere la tua
serata».
Lui mi
lanciò un'occhiata eloquente. «Non ti lascio da
sola per le strade di Rio».
Voleva farmi
da cavaliere? Ero lusingata, ma anche piuttosto imbarazzata. In fondo
non ci conoscevamo affatto. Cercai di replicare, ma l'altra ragazza
parlò.
«Allora
noi andiamo», disse, scuotendo la lunga coda in cui erano
raccolti i suoi capelli scuri. Era leggermente più bassa e
più in carne dell'altra.
Nahuel
salutò le sue amiche con un bacio sulla guancia e qualche
parole bisbigliata sottovoce, poi le ragazze scomparvero in fretta tra
la folla.
«Mi
spiace», dissi subito, lanciandogli un'occhiata ansiosa.
«In realtà non sono da sola, ci sonoi miei, ma...
ci siamo separati un attimo».
«Spero
di incontrarli, allora».
«Certo.
Ne sarebbero felici».
Seguì
una breve pausa. «Nel frattempo potremmo fare un giro. Ti
va?», propose, rivolgendomi un bellissimo sorriso, ampio e
caldo.
Lo
ricambiai, un po' timidamente. «Okay».
Ci avviammo
lungo il marciapiedi. Camminavamo piuttosto lentamente, mantenendo una
certa distanza tra noi. Sebbene fossimo circondati da persone, avevo la
strana sensazione di trovarmi da sola con lui, come se ci muovessimo in
una bolla di sapone. Ero un po' tesa e mi chiedevo se anche lui
provasse la stessa cosa.
«Sai,
mi ha sorpreso che tu ti ricordassi di me», disse
all'improvviso.
Lo guardai:
appariva tranquillo e sereno. A quanto pare, la timidezza toccava tutta
a me. «Certo che mi ricordavo di te. Tu mi hai salvato la
vita, cinque anni fa».
«Be',
non è andata esattamente così»,
mormorò, tenendo gli occhi bassi.
«Sì,
invece. Io non sarei qui, adesso, e forse neanche la mia famiglia, se
tu non fossi venuto a Forks», ribattei.
Lui
tentò ancora di schermirsi. «Ma con tutti quei
testimoni a proteggerti...».
Scossi il
capo. «Sarebbe stata solo una strage». Ripensare
alla situazione in cui ci eravamo trovati, per causa mia, era ancora
molto spiacevole. Repressi a stento un brivido che mi correva lungo la
schiena.
Nahuel
sembrò non trovare più nessun modo per
contraddirmi e si limitò ad annuire con aria grave, lo
sguardo ancora basso e pensieroso. «Non vi hanno
più cercati, da allora? I Volturi, intendo».
«No,
ma lo faranno, prima o poi. Stiamo solo aspettando».
Annuì
di nuovo, poi tacque per alcuni istanti. «Strano modo di
conoscersi, il nostro, eh?», aggiunse.
Il suo tono
mi spinse a sollevare lo sguardo e vidi che aveva un vago sorriso sulle
labbra. «Strano modo di incontrarsi di nuovo, dopo tutto
questo tempo», dissi.
«Davvero.
Anche se probabilmente sarei tornato a trovarvi, un giorno. Era solo
questione di tempo».
«Ah,
sì?», domandai, sorpresa.
In fondo,
era normale che dopo quell'episodio tra le nostre famiglie fosse nato
un legame, ma non mi sarei aspettata tanta ansia di rinnovare la nostra
conoscenza, da parte sua: nel mondo dei vampiri si era diffusa la voce
che stare troppo vicini ai Cullen portasse solo guai.
«Sì.
Fin dall'inizio sono stato molto curioso di vedere... una famiglia come
la vostra», spiegò, un po' precipitosamente, come
se all'ultimo secondo avesse modificato la frase che stava per
pronunciare. «Capace di resistere al sangue umano.
È per questo che sono venuto a Forks, cinque anni fa. E
poi...». Esitò un poco. «Un'altra mezza
vampira non si incontra certo tutti i giorni».
«Senza
dubbio», mormorai. Ancora una piccola pausa. Cercai qualcosa
da dire, per evitare silenzi troppo lunghi. «E
così, che ne pensi del nostro stile di vita? Anche tu credi,
come tutti, che dovremmo essere rinchiusi in qualche manicomio per
vampiri?».
Nahuel
ridacchiò. «No, non lo credo. Certo, all'inizio
ero piuttosto sopreso, ma a me piacciono le stranezze, le
novità, le cose bizzarre...».
«Be',
di stranezze e cose bizzarre puoi trovarne quante ne vuoi, a casa
nostra, te l'assicuro».
«Me
ne sono accorto. E per certi versi parlare con tuo nonno, Carlisle,
capire il suo punto di vista, è stato...
illuminante».
Era
diventato molto serio e ne fui stupita. «Illuminante? In che
senso?». Mi sforzai di recuperare qualche parola o qualche
immagine di quel giorno, ma con scarsi risultati. La mia memoria non
era infallibile come quella dei vampiri e i miei ricordi di bambina
erano alquanto nebulosi.
Nahuel
attese un po' prima di rispondere, riflettendo. Raggiunse una panchina
dipinta di bianco, ma completamente ricoperta da graffiti, scritte e
disegni, e sedette, invitandomi con un cenno ad accomodarmi al suo
fianco. «Nel senso che il significato, le motivazioni, le
conseguenze della sua scelta mi hanno colpito. Ho passato tutto il
viaggio di ritorno verso il Brasile a pensarci e poi ho deciso di
provare».
«Di
provare che cosa?».
Mi
guardò come se fosse ovvio. «A vivere senza sangue
umano. Come voi».
Sgranai gli
occhi, Quello proprio non me l'aspettavo. Rimasi zitta a fissarlo per
un pezzo, assimilando l'informazione. «Sei
vegetariano?».
Questa volta
fu lui a guardarmi confuso. «Vegetariano?».
La sua
espressione mi fece venire voglia di ridere. «È
così che ci definiamo, perchè la nostra dieta
è simile a quella degli umani vegetariani»,
spiegai, un po' imbarazzata.
Nahuel
sorrise, divertito. «Ah. Allora sì, sono
vegetariano».
«Da
quando hai conosciuto la mia famiglia?».
«Diciamo
che ci provo da allora. Ma non è facile abituarsi dopo
più di un secolo di alimentazione tradizionale».
Non concluse
la frase, ma non era necessario. Avevo capito perfettamente.
«Non è facile per nessuno, Nahuel»,
mormorai a mezza voce. «Tra i vegetariani è un
problema diffuso, credimi».
«Anche
nella tua famiglia?», domandò, lanciandomi
un'occhiata penetrante.
«Lo
era soprattutto in passato. Con il tempo si diventa più
bravi».
«Quanto
tempo, esattamente?».
«Un
po'».
Lui non
rispose. Sospirò appena e annuì, come se avessi
confermato qualcosa di spiacevole di cui probabilmente era
già a conoscenza.
«Come
mai hai deciso di cambiare?», aggiunsi. Nello stesso istante
in cui formulavo la domanda, mi resi conto che forse stavo andando
troppo sul personale, ma ero molto curiosa.
«Non
sono sicuro di riuscire a spiegartelo», rispose a mezza voce.
Era pensieroso, teso, e giocherellava nervosamente con un anello che
portava all'anulare sinistro. «Ogni volta che uccidevo un
essere umano per nutrirmi... era come se uccidessi anche una parte di
me stesso. Quella parte che li rendeva così simili a me. E
dopo centocinquant'anni... ne ero stanco».
Parlò
con tanta intensità e una tale strana dolcezza da lasciarmi
senza fiato. Aveva detto una cosa bellissima. «Posso
immaginarlo», mormorai. «Non è una
scelta facile, in nessun caso».
«No,
non lo è».
Per un po'
tacemmo entrambi. Ero sempre più ansiosa di saperne di
più, su di lui, la sua vita, la sua storia. Il nostro
incontro aveva spalancato di botto una porta rimasta chiusa per cinque
anni ed ora la curiosità era divampata. Continuavo a
sbirciare verso il suo viso cercando di non farmi notare, affascinata
dall'idea che lui fosse come me. Eravamo identici, in tutto e per
tutto. Finalmente qualcuno che non mi facesse sentire sempre diversa.
Era una sensazione strana, ma piacevole. Chissà se anche
Nahuel era curioso nei miei confronti. Mi schiarii la voce per porre
un'altra domanda.
«E
tua zia? Condivide questa scelta?».
Non
afferrò subito la domanda. Sembrava ancora distratto, perso
tra i suoi pensieri. «Quale scelta?».
«Quella
di non bere sangue umano».
Fece un
sorriso amaro. «Ah, quella. No, affatto. Lei crede che
uccidere sia la nostra natura e che respingerla non abbia
senso».
«Non
è vero», protestai sottovoce. «Non
è così. La natura conta fino a un certo punto,
ciò che è davvero importante sono le nostre
scelte. Anche un essere umano può uccidere, ma non tutti lo
fanno».
«Lo
so, ma Huilen non riesce a capirlo. O non vuole, credo». La
sua voce suonava profondamente amara. «Ogni tanto ci prova...
a seguirmi nella mia follia. Ma non ci crede davvero, non ci mette il
cuore: lo fa solo per accontentare me. Dubito che possa riuscire a
cambiare, ma io non smetterò di cercare di convincerla. E
lei non smetterà di provarci. Almeno spero».
«Siete
molto legati», aggiunsi, sorridendo. Non era una domanda, ma
un'affermazione.
«Huilen
è tutta la mia famiglia. È l'unico legame che ho
con mia madre. Mi ha cresciuto e mi è stata sempre vicina.
Siamo molto diversi e a volte non riusciamo proprio a capirci, ma non
potrei mai lasciarla. Neanche se dovesse continuare ad uccidere
innocenti per il resto dell'eternità».
L'ultima
frase mi fece rabbrividire. «Non è una scelta
facile», ripetei.
Nahuel
alzò le spalle, come ad ammettere che era d'accordo con me.
«Devo comprenderla. Per me è più
semplice», confermò, ancora meditabondo.
«Ho solo lasciato emergere quella parte di me che mettevo a
tacere da centocinquant'anni. Io e te siamo avvantaggiati,
sai».
Mi
guardò e mi rivolse un sorrisetto che non seppi bene come
interpretare. Ero troppo presa dalle sue parole.
«Avvantaggiati? Rispetto ai vampiri?».
«Direi
di sì. Per loro il sangue umano è vita. Quello e
nient'altro. Ne sono talmente ossessionati che decidere di rinunciarvi
per proteggere quelle che dovrebbero essere soltanto prede deve essere
difficilissimo. Io e te potrebbero rinunciare completamente al sangue,
anche quello animale, e vivere di cibo umano: non sarebbe un grosso
sacrificio, anche se dopo un po' tempo inzieremmo ad indebolirci. E
sappiamo controllarci. Ci viene spontaneo, perchè gli esseri
umani sono parte di noi. Insomma, quello che intendo dire è
che abbiamo un'alternativa: abbiamo la possibilità di
scegliere da che parte stare, molto più di tutti loro.
Così come possiamo scegliere in quale dei due mondi vivere e
passare dall'uno all'altro senza troppe
difficoltà».
Avevo
ascoltato quel discorso incantata, a bocca aperta. Già
sapevo quelle cose, ma era come se Nahuel le stesse mettendo in una
nuova prospettiva. Il pensiero che io potessi avere dei vantaggi sui
vampiri... be', era abbastanza sconvolgente.
«Immagino
che tu abbia ragione», sussurrai, tanto per dire qualcosa.
Lui
proseguì. «Credo che prima o poi ci sarei arrivato
da solo. Anche se non avessi mai conosciuto i tuoi, forse un giorno
avrei trovato una soluzione. Non ne potevo più di passare
notti su notti insonne, tormentato dal ricordo delle persone che avevo
ucciso, persone che non erano poi tanto diverse da me. Ho tante cose in
comune con gli esseri umani quante ne ho con i vampiri, e forse anche
di più. Come potevo considerarli soltanto prede? Avevo
pensato di rinunciare per sempre al sangue, ma quello umano crea una
dipendenza difficilissima da troncare. È più
semplice liberarsene passando gradualmente al sangue
animale». Tacque un istante. «Anche se a volte il
desiderio si fa sentire ed è così potente che
quasi mi sembra di perdere la ragione. E commetto qualche
errore», aggiunse, le labbra serrate e lo sguardo fisso.
Rabbrividii.
Le sue parole mi spaventavano, ma potevo capirlo. Mi sforzai di
rimanere impassibile. «Non importa, Nahuel. Cioè,
importa, ma... stai combattendo contro te stesso e stai facendo del tuo
meglio. Anche questo ha importanza». D'istinto poggiai una
mano sul suo braccio, sentendo il bisogno di avvicinarmi fisicamente a
lui.
Sorpreso da
quel contatto improvviso, Nahuel mi guardò con un sorriso
grato sul volto. Sembrava sinceramente felice di avermi ritrovata,
quanto io ero felice di aver ritrovato lui.
Un attimo
dopo scattò in piedi. «Andiamo a
ballare». Mi prese per mano e mi fece alzare.
«Cosa?»
esclamai, stupefatta. «Ballare?».
«Certo»,
rispose, sicuro di sè, mentre mi trascinava attraverso la
folla. «Ah, questa è perfetta».
Si
fermò davanti ad un locale, sul marciapiedi invaso da
tavolini per due. Accanto al muro dell'edificio c'erano quattro
musicisti, come quasi ad ogni angolo di Rio, che producevano con i loro
strumenti un ritmo veloce e coinvolgente. Lo riconobbi, ma questo non
mi causò alcun sollievo, anzi.
«Nahuel,
io non so ballare la samba», protestai, allarmata.
Lui mi aveva
già circondato la vita con un braccio, continuando a tenermi
la mano, premette l'altra alla base della mia schiena e mi
tirò verso di sè con un delicato strattone che mi
fece sussultare. In un attimo mi ritrovai spinta contro il suo corpo.
La t-shirt grigia a maniche corte che indossava era così
sottile che potevo sentire perfettamente i suoi muscoli guizzanti.
«Segui
me», disse per tutta risposta, guardandomi dritto negli occhi.
Iniziò
a ballare ed io mi lasciai trascinare senza opporre resistenza. Forse
avrei dovuto ribellarmi, ma ero talmente in imbarazzo da non riuscire
neanche a sollevare lo sguardo su di lui, figurarsi a dire qualcosa.
Ero come paralizzata e probabilmente gli costò non poca
fatica, all'inizio, costringermi a muovermi insieme a lui. A poco a
poco, però, quasi senza accorgermene, cominciai a rilassarmi
un po'. Il ritmo della musica era incredibilmente coinvolgente e
sembrava sciogliere i miei muscoli contratti e tesi. Ed era divertente.
Ben presto mi ritrovai a seguire i passi di Nahuel e a ballare davvero
con lui, non a lasciarmi trascinare. Qualcosa si era sciolto dentro di
me. Gli sorrisi, raggiante, e vidi il mio entusiasmo riflettersi sul
suo bel volto: era felice di vedermi felice. La musica
terminò troppo presto, o almeno così mi parve, e
proprio sull'ultima nota Nahuel mi fece fare un'improvvisa e veloce
giravolta, cogliendomi di sorpresa; quasi persi l'equilibrio e poco
mancò che gli cadessi addosso, ma lui mi strinse saldamente
tra le braccia ed entrambi scoppiammo a ridere di gusto. Mi sentivo
serena e rilassata e non ricordavo di essermi divertita così
tanto, di recente.
«È
stato fantastico!», esclamai, un po' ansante. «Sei
bravissimo, davvero!»
Lui aveva un
gran sorriso sulle labbra. «Ah, sì? Spero che sia
piaciuto anche al nostro pubblico».
Mi accorsi
che fissava un punto alle mie spalle. Mi girai: in piedi sul ciglio
della strada, a pochi metri da noi, c'erano Edward e Bella.
«Questa
sì che è una sorpresa», disse
papà a mo' di saluto.
Si
scambiarono un'occhiata e ci vennero incontro.
«Edward,
Bella... è un piacere rivedervi», disse Nahuel,
stringendo la mano ad entrambi.
«È
un piacere anche per noi. Come stai?», chiese papà.
«Me
la cavo, grazie».
«E
tua zia?».
«Anche
lei».
«Vi
siete incontrati adesso?», indagò la mamma. Era
sinceramente stupita e potevo capirla.
«Poco
fa. Stavamo camminando e ci siamo incrociati per caso»,
spiegai. Avevo ancora un po' di fiatone. «Com'era il
tè freddo?», aggiunsi, ironica. Sapevo benissimo
che la mamma non avrebbe mai assaggiato il mio tè.
Bella
sospirò, esasperata. «Delizioso»,
borbottò.
«Abiti
da queste parti?», intervenne Edward, deciso. Chiaramente
voleva impedirci di ricominciare a litigare.
«Sì,
più o meno: vivo a Sao Lucas».
Papà
annuì. «Ah, sì, è un piccolo
centro a sud della città». Mentre lo guardavo, mi
accorsi che i suoi occhi erano puntati su qualcosa, in basso. Seguii la
direzione del suo sguardo e scoprii con un sussulto interiore che
oggetto del suo attento esame erano la mia mano e quella di Nahuel,
ancora intrecciate l'una all'altra. Subito ritrassi la mia, piano, ma
con decisione.
«Forse
dovremmo andare, si è fatto tardi», disse la mamma.
«Sì»,
risposi, esitante. Non volevo lasciare Nahuel senza sapere quando ci
saremmo rivisti. Ero stata davvero bene in sua compagnia ed ero certa
che saremmo potuti diventare buoni amici. «Senti»,
aggiunsi un attimo dopo, «ti andrebbe di... cenare con noi,
domani? A casa nostra?».
Capii
immediatamente di averli colti di sorpresa tutti e tre. Perfino
papà, dal momento che quell'idea mi era venuta in mente
lì per lì.
Nahuel mi
guardò. «Sul serio?». Si rivolse ai miei
genitori, interrogandoli con gli occhi.
«Certo,
perchè no?», disse papà. Gli sorrideva,
ma io sapevo che era fin troppo bravo nell'occultare i propri
sentimenti.
«Ne
saremmo felici», aggiunse la mamma.
Nahuel
sorrise a sua volta. «Okay, allora verrò. Grazie
mille. E sei sei d'accordo, Renesmee, cucinerò io e ti
preparerò una cena portoghese da fare girare la
testa».
«Sai
cucinare? Certo, va bene. Sono proprio curiosa di assaggiare la cucina
locale», risposi con un sorrisetto, lanciando un'occhiata
eloquente a Bella. Lei assunse un'espressione sostenuta e non disse
nulla.
Papà
diede a Nahuel le informazioni necessarie per raggiungere l'Isola Esme
- avrebbe affittato una barca al porto - e al momento di separarci lui
mi prese di nuovo per mano e ne baciò appena il dorso con
scherzosa galanteria.
«A
domani, signorina Cullen», esclamò, allegro.
«Si prepari ad una serata indimenticabile».
Note.
1. Qui
la canzone. Mi sono accorta che anche il capitolo due di Midnight star
era accompagnato da una canzone dei miei preziosissimi Coldplay (Talk),
che coincidenza. Evidentemente se non piazzo una canzone dei Coldplay
all'inizio di una storia, mi si blocca la (scarsa) ispirazione, ah ah
ah!
Spazio
autrice.
Eccomi di
ritorno con il secondo capitolo ^^. Spero che rispetto al primo sia
già un po' più movimentato, ma prima che la
storia entri nel vivo ci vorrà ancora... Uhm, un capitolo,
credo. In fondo siamo agli inizi :-).
Non ho molto
da dire, tranne forse qualche parola su Nahuel. Praticamente
è quasi un personaggio originale, perchè in
Breaking dawn appare pochissimo e di lui sappiamo solo lo stretto
indispensabile, però alcuni aspetti della sua
personalità mi sono sempre sembrati trasparenti... Ad
esempio, il legame con Huilen o la curiosità nei confronti
di Renesmee. Altri, invece, sono venuti da sè a mano a mano
che riflettevo su di lui. I suoi problemi nel bere sangue umano e la
scelta di rinunciarvi stimolato da ciò che ha visto nella
famiglia Cullen mi sembrano conseguenze quasi "naturali" del suo essere
un mezzo vampiro. Lui stesso dice che condividere in parte la natura
degli umani gli fa sentire di essere vicino a loro, ed è
difficile pensare che rimanga insensibile a questa situazione, a meno
che non abbia un carattere particolarmente freddo ed egoista. Ma io lo
immagino molto diverso, solare, gentile, affettuoso, e spero di essere
riuscita a mostrarlo almeno un po' in questo capitolo.
Un'altra cosa, nel film Breaking dawn parte II Nahuel e Huilen sono stati resi in modo alquanto... "selvaggio" xd, vestiti di pelli, eccetera. Naturalmente, per collocare Nahuel nel mezzo di Rio l'ho immaginato molto più "civilizzato", o meglio, adeguato alle abitudini degli umani contemporanei anche in fatto di abbigliamento. D'altra parte, per lui e Huilen sarebbe difficile passare inosservati se andassero in giro ricoperti soltanto di pelli, e per Nahuel, che è mezzo umano, anche poco pratico, non essendo in grado di resistere agli agenti atmosferici come i vampiri. Infatti non ho apprezzato molto il modo in cui sono stati resi i due personaggi nel film. Per il resto...
leggete e saprete!
Ecco, avevo
detto che avrei scritto "qualche parola" e invece ho scritto il solito
poema! Scusate! xd Scappo, alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** You and me ***
C 3
Capitolo 3
You and me
Cause
it's you and me and all of the people
With nothing to do
Nothing to prove
And it's you and me and all of the people
And I don't know why
I can't keep my eyes off of you.
You and me,
Lifehouse¹
Accadono
cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita
risponde.
Alessandro Baricco
Ero
davvero felice di aver ritrovato Nahuel. In quei cinque anni avevo
pensato
spesso a lui provando soprattutto una forte curiosità. Avevo
sempre
desiderato conoscerlo davvero, scoprire com'era, come viveva, qual era
il suo
passato... L'unico altro mezzo vampiro che avessi mai incontrato. Ed
ora che mi si era presentata quella inaspettata occasione, non volevo
lasciarmela sfuggire.
Edward continuava a sembrarmi un po' teso ogni volta che
parlavo di lui e del nostro incontro, e non ne comprendevo la ragione.
Per un attimo il
suo viso si oscurava, come se qualcosa lo preoccupasse, e subito dopo
tornava ad essere tranquillo e allegro come al solito. Era un
cambiamento così repentino che poteva essere
benissimo soltanto frutto della mia immaginazione. Sebbene avesse la possibilità di conoscere ogni mio pensiero, come sempre, papà non commentava in alcun modo, forse perchè non prestava attenzione a queste riflessioni, forse per lasciarmi un po' di privacy. Dopo la discussione della sera precedente avevo il sospetto che non si sarebbe azzardato tanto presto a commentare di nuovo a voce alta quello che mi passava per la testa.
La sera della cena tornai dalla spiaggia prima del solito per
prepararmi. Non intendevo essere elegante, ma mi vestii con cura
particolare e mi truccai un poco. Non ci misi molto e appena
pronta scesi in cucina, dove i miei stavano tirando fuori gran parte
delle nostre provviste e alcune stoviglie, probabilmente per facilitare
Nahuel, che si era assunto il compito di pensare al menù.
«Prepari qualcosa?», domandai alla mamma per
stuzzicarla un po'
mentre emergeva dal frigorifero con alcune confezioni di formaggio tra
le mani.
Mi lanciò un'occhiataccia, ma capii che non era arrabbiata.
«No, tranquilla. Stasera lascerò questo privilegio
a
Nahuel».
Papà sistemò sul tavolo una pila di pentole e
tegami e mi
fissò. «Sta arrivando», disse.
«Allora, ehm... Io e la
mamma... andiamo».
«Andate? Dove?», domandai, confusa.
Fu Bella a rispondere. «Be', abbiamo pensato che forse
preferireste
stare da soli, per conoscervi meglio». Alzò le
spalle. «La
nostra presenza potrebbe mettervi in imbarazzo».
Ero totalmente spiazzata e per un secondo la fissai senza capire.
«Ma... perchè? Non è necessario,
davvero», protestai.
«Certo che non è necessario,
però... insomma, sappiamo che hai sempre desiderato
conoscerlo meglio e ora che ne avete la possibilità vogliamo
lasciarvi spazio», aggiunse la
mamma accennando un sorriso. «Avremo sicuramente altri
occasioni
per stare tutti insieme, la vacanza è ancora
lunga».
Annuii, pensierosa. «Di chi è stata
l'idea?», chiesi dopo qualche secondo di silenzio.
«Mia», rispose Bella. Istintivamente guardai
papà.
Sembrava
impassibile, eppure ero certa che ci fosse qualcosa che non andava.
Ma cosa? Prima che potessi domandarlo a voce alta, la mamma
parlò di nuovo. «Muoviamoci, Edward». Lo
prese per
mano. «Saremo alla baia dall'altra parte dell'isola. Potreste
anche raggiungerci, dopo cena, se vi va. Divertitevi,
ma non
fate troppo tardi. Oh, e salutalo da parte nostra».
Mentre parlava, avevano già raggiunto la porta.
Papà mi
fissava con aria esitante, ma lasciava che la mamma lo tirasse via.
«Sì, va bene», mormorai, sconcertata da
quel
comportamento. «Ciao».
Un attimo dopo erano spariti. Rimasta sola nella cucina, incrociai le
braccia, osservando il mucchio di stoviglie sul
tavolo e mordicchiandomi un labbro. Appena me ne
accorsi, smisi immediatamente. Lo facevo solo quando ero nervosa, ma
sapevo benissimo di non avere motivi per esserlo. Avrei solo cenato con
un nuovo amico, tutto qui.
«Ehi!».
Feci un salto di un metro per lo spavento. Mi guardai intorno, il
cuore che batteva a mille, e scorsi Nahuel in piedi sulla porta della
cucina, intento a fissarmi con un sopracciglio inarcato.
«Nahuel», boccheggiai. «Sei
qui!».
«Sono troppo in anticipo?».
«No, assolutamente».
Ci guardammo in silenzio per qualche secondo.
«Scusa, non volevo spaventarti», mormorò
all'improvviso.
Scossi la testa, cercando di
darmi un contegno. «Nessun problema. Tranquillo».
Gli sorrisi.
Lui fece qualche passo avanti, avvicinandosi con calma, quasi
circospetto, come per farsi perdonare di essere piombato in casa in
quel modo. «Ho pensato di venire presto. Abbiamo un bel po'
da
fare».
«Abbiamo?»,
ripetei,
scettica. «Ti avverto che le mie capacità
culinarie sono
alquanto limitate: so fare solo toast, tè e
caffè. E detesto
lavare i piatti. Quindi non so che genere di collaborazione potrei
offrire».
Lui ridacchiò mentre andava ad aprire il frigorifero.
«Troverò qualcosa da farti fare».
«Mangiare, magari?».
«Ah, sicuro. Stasera assaggerai le migliori empanadas della
tua vita».
«Be', difficilmente potranno essere peggiori di quelle della
mamma».
«A proposito, dove sono i tuoi? Vorrei almeno salutarli prima
di
mettermi ai fornelli in casa loro», disse con espressione
leggermente divertita.
«Ah, già, i miei. Ehm...». Esitai. E
adesso cosa gli avrei
raccontato? La verità, magari. «Sono andati ad una
piccola
baia dall'altra parte dell'isola per un... bagno notturno, immagino.
È un posto bellissimo,
ci andiamo spesso»,
spiegai.
Ero parecchio a disagio, sebbene mi sforzassi di apparire tranquilla;
non volevo che a Nahuel la loro assenza sembrasse strana. Ma lui se ne
accorse e lo capii subito, da come mi guardava, con aria seria e
meditabonda. Per un istante temetti che fosse offeso o che volesse
approfondire la questione, ma poi sorrise.
«Avremo le empanadas
tutte
per noi, allora», esclamò ed io intuii che voleva
solo rompere
quel silenzio e passare oltre.
«Credo che le avremmo avute comunque tutte per
noi».
«Secondo me avrebbero trovato una scusa per assaggiarle. Non
capisco come possano i vampiri rinunciare al cibo... Certi piatti sono
meglio del sangue. Mi passi quella pentola, per favore?».
Nel giro di mezz'ora
chiacchieravamo tranquilli e disinvolti come buoni amici, impegnati ai
fornelli. Mentre
preparava il coxinha
ed io gli passavo qualche ingrediente, mi raccontò che
cucinare
era uno dei suoi passatempi preferiti: lo aiutava a rilassarsi quando
era nervoso e a tenersi occupato quando si annoiava. E da un punto di
vista strettamente pratico il fatto che sua zia non mettesse mai piede
in cucina era stato determinante perchè imparasse a fare da
sè. Attualmente vivevano in una casetta fuori mano, quasi
immersa nella foresta, dove si erano trasferiti un anno prima. Proprio
come la mia famiglia, erano costretti a spostamenti periodici da un
luogo all'altro e di solito non si fermavano mai da qualche parte per
più di quattro o cinque anni. Sebbene non fossero nomadi
veri e propri,
quindi, in centocinquant'anni di spostamenti avevano visitato tutta
l'America Latina e anche qualche altra parte del mondo. Prima di
trasferirsi a Sao Lucas, presso Rio, avevano vissuto in Argentina, a
Bahia Blanca (dove li avevano trovati da Alice, Jasper e Kachiri cinque
anni prima), prima ancora in Cile, nella Terra del
Fuoco, e prima ancora di nuovo in Argentina, nei dintorni di Santa Fe.
Per un po' di tempo avevano anche vissuto in Sud Africa, in un piccolo
villaggio sul mare.
Ovunque andassero, disse Nahuel, Huilen non socializzava con nessuno,
nè vampiri nè umani. Per carattere non era
incline alla
compagnia ed era sempre preoccupata che nuove conoscenze potessero
mettere in pericolo lei e suo nipote. Nahuel, invece, riusciva sempre a
fare amicizia con facilità, ma ad ogni trasferimento era
costretto a troncare ogni rapporto e a ricominciare dal principio con
altre
persone. Non gli pesava: entrare in contatto con gli altri gli veniva
spontaneo, a differenza di Huilen, ma ammise che a volte avrebbe voluto
poter continuare a frequentare qualche vecchio amico.
Erano molto diversi, lui ed Huilen, come il giorno e la notte. Lei non
amava viaggiare e accettava quei continui spostamenti solo
perchè necessari. Nahuel, invece, adorava vedere posti nuovi
e
avrebbe desiderato visitare tutto il mondo. Durante la cena descrisse
appassionatamente e con ricchezza di particolari i posti più
belli dove era
stato e mentre lo ascoltavo, curiosa e affascinata, mi sentivo sempre
più una bambina che aveva visto solo una minuscola parte di
mondo. Non conoscevo altro che Forks, Denali e l'Isola Esme. Anche le
mie amiche avevano visto molte più cose di me.
Sarei rimasta zitta ad ascoltarlo per ore, ma ogni tanto si
interrompeva e lasciava parlare me. Avevo ben cose da raccontare sulla
mia vita, che ruotava semplicemente intorno alla mia famiglia, alla
scuola, al mio gruppetto di amiche, ma Nahuel ascoltava con grande
attenzione, curioso quanto lo ero io nei suoi confronti. Mi riempiva di
domande, fin quasi a mettermi in imbarazzo e costringendomi a far
emergere dettagli di cui forse non avrei parlato spontaneamente. Mi
fissava con espressione rapita e affascinata, come se non ci fosse
niente di più interessante che sentirmi descrivere le mie
giornate tranquille e ripetitive.
Dopo cena lavammo i piatti insieme e poi ci sistemammo sulla terrazza
sul retro della casa, da cui si ammirava una splendida vista
sull'oceano, con una provvista di guaranà,
una bibita alla frutta analcolica che aveva portato Nahuel. Continuammo
a chiacchiere ininterrottamente, allungati sulle comode sdraio della
terrazza, ed io cercai di indovinare tutti i posti in cui aveva
vissuto, senza grandi risultati. Ridendo e scherzando, facevamo tanto
chiasso che forse Edward e Bella riuscivano a sentirci anche dall'altra
parte dell'isola.
«Ehi, sicuro che non sia alcolica, questa roba?»,
domandai
all'improvviso, tra le risate. Forse mi stavo ubriacando senza neanche
accorgermene. O ero un po' brilla, oppure ero semplicemente di ottimo
umore.
Nahuel rise ancora più forte. «Certo. Cosa ti fa
pensare che lo sia?».
«Be', forse non te ne sei accorto, ma ci stiamo un po'
scatenando», risposi con tono serio. Poi gli lanciai
un'occhiata e
scoppiai di nuovo a ridere senza nessun motivo preciso. Era strano che
fossi riuscita ad aprirmi e ad entrare in confidenza con qualcuno tanto
in fretta e me ne chiesi distrattamente il motivo.
«E allora? Tutti hanno bisogno di scatenarsi, ogni tanto.
Soprattutto tu».
«Ehm... Davvero?».
Lui alzò le spalle. «Sai, quando ci siamo
incontrati,
ieri... sembravi un po' preoccupata, ecco» spiegò.
«Be', avevo avuto una discussione con i miei. E
poi... stavo pensando a un brutto sogno». Aggrottai la
fronte,
ripensando al mio incubo. Quella notte, per fortuna, non era tornato a
visitarmi e potevo sperare che non sarebbe tornato mai più.
«Ah, sì», mormorò Nahuel, con
voce appena udibile.
Fissava intensamente il cielo stellato, le braccia incrociate sotto la
nuca, perso nei suoi pensieri. «I brutti sogni possono essere
un
problema, a volte».
«Sto passando una bellissima serata, però. Ti
ringrazio», aggiunsi, sorridendo.
Anche Nahuel sorrise. «Sono io che ringrazio te».
Tacemmo per un paio di minuti. Cominciavo ad essere stanca, ma non
volevo che la serata finisse. Repressi a stento uno sbadiglio,
stiracchiandomi sulla sdraio.
«Continuiamo a giocare?», proposi.
«È inutile. Non indovinerai mai tutti i posti che
ho visto, fidati».
«Sono davvero così tanti?».
«Un bel po'».
«Eppure tu vorresti vederne altri, giusto?»,
esclamai. Mi girai su
un fianco, sentendo la schiena indolenzita, appoggiata al
gomito
per guardarlo bene in viso Eravamo piuttosto vicini, entrambi allungati
sulla stessa ampia sdraio a due posti dove Edward e Bella passavano
intere giornate a sbaciucchiarsi. «Viaggiare
ancora».
Fece un piccolo sorriso. «Sì, mi piacerebbe.
È stato
bello venire nella tua città. Ero molto curioso».
Mentre
parlava, mi lanciò una strana occhiata, così
rapida che
non riuscii a decifrarla.
«Certo», commentai. «Perchè
non avevi mai visto il Nord America, dico bene?».
Il suo sorriso si allargò. «No, non c'ero mai
stato. Ma ero
soprattutto curioso di vedere te».
Aggrottai la fronte, un po' sorpresa, ma non commentai. Che voleva
dire?
«Devi scusarmi
se ti ho bersagliata di domande, stasera, ma non ho resistito. Credo
che non sarei mai sazio di ascoltarti».
Come? Rimasi interdetta, a guardarlo in silenzio, senza avere idea di
cosa rispondere. All'improvviso ero imbarazzata e mi sembrava che
fossimo troppo vicini. Desiderai mettere un po' di spazio in
più
tra noi, ma mi trattenni: non volevo sembrare paranoica.
«Be', la
mia vita è così banale rispetto alla
tua», bofonchiai,
tanto per dire qualcosa. «A parte andare a scuola e stare con
i miei
amici non faccio un granchè».
«Non è questo il punto», rispose,
tranquillo. Fece una
breve pausa. «Non ho mai conosciuto nessun altro come me, a
parte le
mie sorelle, ovviamente. Ma non ci vediamo spesso e con loro le cose
sono... complicate. Jennifer, la più piccola, è
l'unica
con cui riesca ad avere un rapporto normale. Erano centocinquant'anni
che desideravo incontrare un altro mezzo vampiro, qualcuno che non mi
fosse legato dal sangue, e credevo di non avere nessuna speranza. Poi
è arrivata quell'incredibile notizia, la notizia che
esistevi tu, e l'opportunità di
vederti, e non me la sarei persa per niente al mondo, neanche a prezzo
di farmi staccare la testa da quei vampiri italiani».
Abbassai timidamente lo sguardo, accennando un sorriso lieve. Le sue
parole mi lusingavano senza che avessi alcun merito particolare.
«Be', non è stato un grande incontro, per la
verità. Non ci siamo scambiati neanche una parola, se
ricordo
bene».
«Ricordi bene. Eri molto impegnata a dormire profondamente in
braccio a tua madre».
«Però adesso stiamo recuperando».
«Stiamo recuperando alla grande, direi»,
commentò, il tono
leggermente divertito. «Eppure... nonostante l'interrogatorio
a cui
ti ho sottoposta stasera... vorrei saperne ancora di più.
Non ne
ho abbastanza».
«Ma c'è ben poco da raccontare. Ti ho
già detto
tutto», ripetei, mentre mi sfuggiva una risata. Non capivo
dove
volesse arrivare.
Nahuel scosse il capo, l'aria seria. Teneva gli occhi bassi e
tamburellava con le dita sul soffice cuscino bianco della sdraio.
«Non ha importanza. Tu
sei
come me. Non ti rendi conto...», esitò, stringendo
le labbra,
come se non sapesse bene quali parole usare. Io aspettai in silenzio,
osservandolo attentamente. Capivo che stava cercando di dirmi qualcosa
di importante. «Credo che tu sia la persona alla quale mi
sento
più vicino, adesso. Ti sembrerà assurdo
perchè ci
conosciamo appena. Avverto la stessa cosa anche con Jennifer²,
la più piccola delle mie sorelle, ma la
conosco da quando è nata. Ho la sensazione che tu
possa capirmi, come lei. Che tu possa comprendere cosa provo quando
uccido un
essere umano, anche se non l'hai mai fatto». Il suo sguardo
si indurì mentre pronunciava
quella frase ed io cambiai posizione, a disagio. «Quando
penso a mia
madre. Quando mi chiedo quale diavolo sia il mio posto in questo folle
mondo». Sospirò. «So che abbiamo avuto
esperienze diverse
e che conduciamo vite diverse, ma... mi illudo, forse, che tu possa
capire ugualmente. Ho ragione?».
Riflettei per un po' prima di rispondere. Mi sembrava una faccenda
complicata e cercai di scegliere le parole con cura. Lui mi osservava
con espressione calma, pacata, ma allo stesso tempo
sembrava che volesse
mettermi alla prova.
«Penso di sì» mormorai. «Dopo
tutto, siamo nella stessa barca, io e te. Guardiamo il mondo dalla
stessa prospettiva. E solo altre tre persone a parte noi,
nell'universo, hanno questa stessa prospettiva».
«La stessa prospettiva», ripetè Nahuel
in un sussurro appena percettibile.
«È strano», aggiunsi, mentre mi
sistemavo più
comodamente sul cuscino, e la mia voce suonò assonnata.
«Ed
è un po' triste. Fa sentire soli».
Chiusi gli occhi. Sentivo che uno strano torpore si impadroniva di me a
poco a poco. Ero davvero stanca, adesso. O forse ero solo troppo
rilassata, talmente rilassata che avrei potuto addormentarmi da un
momento all'altro. Il mio respiro divenne lento e regolare. Tutto era
così silenzioso e pacifico. Lo sciabordio delle onde mi
cullava
simile ad una ninna nanna, come ogni notte sull'Isola Esme. Ero
già scivolata nel dormiveglia, quando sentii qualcosa di
morbido posarsi sulle mie labbra. Spalancai gli occhi, tornando
bruscamente alla realtà, e saltai
giù dalla sdraio così in fretta che quasi persi
l'equilibrio.
«Nahuel!», esclamai, incredula, portandomi le mani
alle bocca. «Che cosa... cChe
cavolo hai fatto?».
Lui non rispose subito. Sembrava sorpreso dalla mia reazione e mi
fissava con le sopracciglia inarcate. «Mi sembra evidente. Ti
ho
baciato».
Sussultai con violenza. «Cosa? Ma... Ma... Ma se non
è durato neanche tre
secondi! Non è un bacio, questo!», sbraitai,
inviperita. La
sorpresa stava lentamente scemando, sostituita da una certa dose di
rabbia bruciante.
Lo aveva fatto davvero? Non potevo crederci!
«Tre secondi possono essere più che
sufficienti», proseguì, un vago sorrisino sulle
labbra.
«No! No, no, no!».
«Perchè ti dà così
fastidio?». esclamò
Nahuel. Era talmente sconcertato che sembrava sul punto di ridermi in
faccia da un momento all'altro.
«Perchè l'hai fatto?», rilanciai.
Il suo sorriso vacillò. «Io... non saprei. Non
c'è un
motivo preciso», ammise. «Eri così
bella, sdraiata
lì, con gli occhi chiusi... Desideravo baciarti e l'ho
fatto». Tacque per un attimo. «È da
quando ti ho incontrata,
ieri, che mi chiedo quale sia il sapore delle tue labbra. Adesso lo
so», aggiunse dolcemente.
Mi sentii arrossire e sbuffai, infastidita. «Questo non
è un motivo valido per baciare qualcuno»,
protestai a denti
stretti. «È ridicolo».
Nahuel rimase zitto per un lungo minuto, continuando a fissarmi.
«La pensiamo diversamente, allora», disse infine.
«Sì, me ne sono accorta».
Cadde di nuovo il silenzio. Dio, che imbarazzo. Ero così a
disagio. Perchè, perchè
lo aveva fatto? Era tutto rovinato, adesso. Strinsi le braccia al
petto, evitando di guardare nella sua direzione, ma lui sembrava
distratto. Chissà a cosa pensava. All'improvviso
parlò
ancora.
«E comunque, per la cronaca, secondo me i baci più
brevi sono i
migliori. Li trovo più intensi», aggiunse con fare
tranquillo e rilassato, come se stesse
discutendo del tempo che avrebbe fatto il giorno successivo.
Chiusi gli occhi per un attimo. «Nahuel, ti prego. Sto
cercando di rimuoverlo».
«Dai... Bacio così male?».
«Ti ho detto che quello non era un bacio!».
«Ma perchè ti dà così
fastidio?»
ripetè, lentamente e scandendo bene le parole. Quasi
involontariamente, gli gettai un'occhiata nervosa e capii che era
davvero confuso. «Era il primo?», aggiunse un
attimo dopo.
Altra ondata di imbarazzo. Che sfacciato!
«No, non è stato il
primo», risposi a denti stretti, infastidita. «Il
fatto è
che io non sono libera. Ho una specie di ragazzo, a Forks».
Fantastico! Sentito, Alex? Una
specie di ragazzo! Avrei voluto prendermi a schiaffi da
sola. Sentivo un gran caldo al viso ed ero certa di essere arrossita
come un pomodoro.
«In che senso una
specie di ragazzo?».
Alzai gli occhi al cielo. «Un ragazzo, Nahuel. Lo sai in che
senso».
«È una cosa seria?».
«Che intendi per seria?
Stiamo insieme da cinque mesi. E siamo molto felici».
Non mi staccava gli occhi di dosso, la testa un po' inclinata, un'aria
divertita e indagratice che non mi piaceva affatto.
«Non è una cosa seria», disse,
sorridendo.
Trasalii. «Invece sì. Scusa, ma tu che ne sai?
Come ti
permetti di giudicare? Certo che è una cosa seria. Io tengo
molto a lui e non sono interessata a nessun altro», sbottai,
inviperita. Sentii un leggero dolore al braccio sinistro e mi accorsi
che stavo serrando le dita sulla pelle con tanta forza da lasciare dei
segni rossi. Allentai subito la stretta, sorpresa.
La sua espressione divertita si addolcì appena.
Annuì.
«Okay, hai ragione. Non ne so niente e non posso
giudicare»,
ammise,
anche se dal tono che usò parve che volesse assecondarmi.
«Dimmi qualcosa in più. Come si chiama?».
«Alexander. Alexander Hayden» mormorai.
«Ma tutti lo chiamano Alex. È un mio compagno di
scuola».
«Eravate amici prima di mettervi insieme?».
«No, lui... si è
trasferito la scorsa primavera da New York. Praticamente ci siamo
conosciuti per
caso. Ha un anno più di me».
«E quel licantropo che ne pensa?».
Quel licantropo? Quale licantropo? Jacob? La domanda mi
spiazzò completamente. Per un secondo lo
fissai in silenzio, come imbambolata. «Vuoi dire Jacob? Be',
è felice per me. È il mio migliore
amico». Tacqui,
esitante e incerta su come continuare. «Tu... sai
dell'imprinting?», borbottai, cauta.
Nahuel sgranò gli occhi scuri, stupito. «Tu
sì?», domandò a sua volta.
Annuii. «L'ho saputo di recente», risposi, per
farla breve. Non mi
andava di ripercorrere quella spiacevole vicenda. «E
tu come
lo sai?».
«Me ne ha parlato tuo nonno, Carlisle. Ero curioso riguardo
al
coinvolgimento dei licantropi nel vostro problema con i vampiri
italiani e lui mi ha spiegato come stavano le cose». Fece una
breve
pausa. «Quindi Jacob è felice che tu stia con
questo
ragazzo?».
«Certo».
«Ah, Be', sai, io avevo avuto l'impressione che... ma forse
mi sbaglio».
Non lo lasciai finire. «Sì, ti sbagli»,
sbottai,
stizzita. «Non sempre si finisce all'altare. Non è
detto».
Pronunciare quelle parole mi costò un certo
sforzo. Era dannatamente difficile e imbarazzante parlare di quello. Lui se ne
accorse e accennò un sorrisetto.
«Capisco. Dunque voi due siete... Che cosa,
esattamente?».
«Amici. È il mio migliore amico»,
ripetei, sicura. In
verità la definizione amico mi sembrava riduttiva per
esprimere
il mio legame con Jake, ma era quella che più si avvicinava
ad
esprimere il senso del nostro rapporto.
«Capisco», rispose a bassa voce. Sembrava che
rimuginasse su ogni parola che pronunciavo, valutandola attentamente.
«Immagino che a lui tu possa raccontare tutto, di
te», aggiunse, piano. «Anche cose che non potresti
raccontare alle tue compagne di scuola».
«Questioni "sovrannaturali", intendi?», domandai
con un lieve sorriso sulle labbra. La mia stessa definizione suonava un
po' buffa. «Certo, ma non parliamo soltanto di queste cose.
Non ho segreti per Jacob».
«Neanche per il tuo ragazzo?».
«Che cosa intendi?», mormorai, a disagio. Lui aveva
gli occhi bassi e non riuscivo a scorgere la sua espressione. Non
rispondeva alla mia domanda e mi toccò intuire dove volesse
arrivare. «Sono sempre sincera con Alex... quando ne ho la
possibilità». Tacqui per un attimo. «Ci
sono cose che non posso raccontargli, naturalmente».
«Naturalmente», ripetè Nahuel con voce
lieve. «E pensi che non gliele racconterai mai?».
Riflettei silenziosamente per un po', stupita dalla piega che aveva
preso la nostra conversazione. Avevamo iniziato parlando del
più e del meno, tra battute e risate, poi ci eravamo baciati
e adesso parlavamo di Jacob ed Alex e del mio rapporto con loro. Come
eravamo arrivati fino a lì?
«Be', dubito di poter dire tranquillamente al mio ragazzo che
sono una mezza vampira, bevo sangue e vivrò per
sempre senza causargli un attacco cardiaco», risposi in tono
ironico, cercando di alleggerire un po' l'atmosfera. «E in
fondo perchè dovrei dirgli tutto questo? Le cose vanno bene
così, adesso».
Nahuel annuì, ancora con a testa china, senza guardarmi
negli occhi. «Già, adesso. Ma prima o poi
arriverà il giorno in cui non potrai più
mentirgli, in cui dovrai scegliere. È difficile dire addio a
una persona, lo so. Ho detto addio tante volte nella mia esistenza...
Forse troppe. Ma non diventa mai un po' più facile. No,
è sempre peggio».
Feci un sospiro lieve, con la sensazione di avere un peso opprimente
sul petto. Non potevo non riconoscere l'incontestabile
verità delle sue parole; davano voce a pensieri e
preoccupazioni che mi accompagnavano spesso e che non riguardavano
soltanto Alex, ma ogni essere umano che faceva parte della mia vita:
Charlie, Jas, Danielle, Tom... Improvvisamente
realizzai che quegli stessi pensieri dovevano abitare la mente di
Nahuel da molto più tempo. Potevo capire che iniziassero a
pesare sul suo cuore e che avvertisse il bisogno di parlarne con
qualcuno, qualcuno che lo comprendesse, come aveva detto lui stesso
poco prima. Ma erano pensieri
troppo pesanti da mandare giù in una serata come quella,
calda, dolce, dal sapore di mare e spezie, fino a poco prima piena di
chiacchiere spensierate e risate.
«Io... non lo so. Non ci ho ancora pensato,
veramente», risposi, un po' irritata.
Nahuel non aggiunse altro. Mi lanciò un'occhiata rapida e
cambiò posizione sulla sdraio, l'aria concentrata, come se
si
stesse riordinando le idee. Dopo un attimo di silenzio,
abbozzò un sorriso ed io lo fissai, meravigliata.
«Okay, senti», disse infine. «Non
volevo metterti in difficoltà, nè con il bacio
nè con... questi discorsi. Scusa». Mi
guardò di nuovo con espressione intensa e un po'
preoccupata. «Ho rovinato tutto?».
«In che senso?».
«Tra te e me. Per via del bacio. Tu mi piaci e voglio che
restiamo amici».
«Oh», esclamai. «No, Nahuel, non hai
rovinato
niente. Nè con il bacio nè con... il resto.
Fingeremo che non sia mai successo. Anche tu mi piaci e vorrei
essere tua amica. E comunque quello non era un bacio,
quindi non c'è nulla di cui preoccuparsi, in
effetti».
«Sei ostinata, vedo», commentò,
divertito.
«Anche tu».
«Il tuo Alex non lo saprà mai, che differenza
fa?».
«Lo saprei io».
«Non si può mentire a se stessi,
Renesmee», disse,
scuotendo appena la testa. «Puoi mentire a lui, ma non a te
stessa».
Strinsi i denti, seccata. Temevo che quella frase potesse riportarci al
discorso appena concluso e non mi andava. Meglio tentare di salvare la
serata.
«Non ho bisogno di mentire nè a me stessa
nè a lui perchè non è successo niente».
Questa volta non rispose subito. Mi fissò in silenzio per un
poco, le sopracciglia aggrottate, come se non riuscisse a credere a
tanta ostinazione. Poi alzò le spalle. «D'accordo.
Se lo dici
tu».
Mi assecondava, adesso? Gli lanciai un'occhiataccia, ma non dissi
nulla, cercando di lasciar cadere il discorso. Perchè
attribuiva
tanta importanza a una tale sciocchezza? Sfiorarsi le labbra per pochi
secondi, senza nessun coinvolgimento emotivo, non
significava niente. Ne ero convinta, ma sospettavo che insistere fosse
inutile e che Nahuel credesse ciò che preferiva.
«Tornerai mai a sederti qui?», domandò
all'improvviso, e il suo umore parve molto più allegro
rispetto a prima. Si allungò più comodamente
all'indietro, incrociando le braccia
dietro la testa con ostentazione.
«Sto benissimo dove sto, grazie».
«Non pensi di esagerare un poco?».
«Nahuel», sbottai, esasperata, come se il suo nome
fosse
un'imprecazione. Sospirai. «Ti
prego, basta. Dobbiamo fingere che non sia successo, dimenticare,
giusto? Mi sembra difficile riuscirci se tu continui a
parlarne».
«Forse è meglio che vada»,
esclamò, alzandosi in piedi alla velocità della
luce.
Sorpresa, cercai di trattenerlo. Una parte di me temeva di aver
esagerato, di averlo offeso in qualche modo.
«Aspetta»,
mormorai, senza troppa convinzione. «Non è
necessario. È stata una serata fantastica, non
roviniamola».
Lui si avvicinò ed io dovetti reprimere l'impulso di
indietreggiare. Nei suoi occhi scuri c'era un velo di malizia che non
prometteva nulla di buono. «Non è per questo,
davvero. Si
è fatto tardi e tu sembri stanca. Tanto ci
rivediamo».
Sorrise, in modo aperto e tranquillo.
Se era così deciso, forse avrei fatto meglio ad
assecondarlo. Decisi di cedere. «Certo»,
concordai, alzando le spalle. «Torni a trovarci
domani?».
«Con piacere. Se sta bene ai tuoi».
Mamma e papà. Accidenti, li avevo del tutto dimenticati.
Chissà dov'erano finiti. Quando quei due si lasciavano
prendere
dalla passione tendevano a dimenticare il resto del mondo.
«Certo
che gli sta bene, saranno felici di conoscerti meglio. Credo che domani
li troverai a casa». Li avrebbe trovati eccome. A costo di
costringerli, sarebbero stati lì a farci compagnia e a
bloccare
sul nascere altre follie come quella specie di bacio.
Nahuel sembrò intuire cosa stavo pensando perchè
inspiegabilmente rise. «D'accordo, allora vado. Grazie per la
cena, sono stato davvero bene. Buonanotte».
Si avvicinò con un movimento lento, quasi cauto, e mi
baciò la guancia accanto
all'orecchio. Sentii il suo fiato caldo sulla pelle e poi le sue labbra
si mossero. «E comunque, per la cronaca... hai un buonissimo
sapore.
Anche meglio di quel che pensavo», bisbigliò, con
voce
bassissima.
Rimasi di stucco, ma un istante dopo si era voltato e camminava nel
buio, allontanandosi. Poi sparì.
Quando Edward e Bella rientrarono, circa un quarto d'ora più
tardi, ero ancora sulla terrazza ad aspettarli. A dispetto dell'orario
e
della stanchezza, ero ancora sveglia. Guardavo il cielo punteggiato di
stelle e riflettevo. L'espressione di papà era piatta e
incolore
come un foglio di carta immacolato; ovviamente sapeva già
tutto. La mamma sorrideva spensierata, il che mi fece capire che non
sapeva un
bel niente.
«Ehi, piccola! Com'è andata la serata?»,
domandò con tono allegro.
Invece di risponderle, guardai papà. «Tu sapevi
che sarebbe
successo, vero? Ecco perchè non volevi andartene,
prima».
Lui esitò e si passò una mano tra i capelli
scompigliati, forse un po' sorpreso da un attacco così
diretto. «Avevo percepito nei suoi pensieri un
certo... interesse... nei tuoi confronti. Sospettavo che prendesse
un'iniziativa», rispose lentamente.
Lo sguardo di Bella si spostava da me a Edward, rapido e confuso.
«Un'inziativa?», ripetè. «Chi
ha preso
un'iniziativa?».
«Avresti potuto avvertirmi», sbottai all'indirizzo
di papà, irritata dalla sua calma.
«Mi dispiace, amore»,
mormorò dolcemente, accennando un sorriso.
«Ma a volte le cose
devono seguire il loro corso. Temevo che tu annullassi la serata e
rinunciassi a creare un rapporto con lui e non voglio interferire nella
tua vita e nelle tue scelte». Non lo disse a voce alta, ma
intuii cosa avrebbe voluto aggiungere: non più.
Serrò le labbra per un istante. «Non è
giusto. Spetta
a te decidere quello che vuoi. Sei un'adulta, ormai, ed è
così che noi ti consideriamo, anche se a volte...».
Esitò ancora per un attimo. Ero certa che stesse pensando
alla
nostra discussione della sera precedente. Fece un sospiro lieve e
proseguì. «Anche se
a volte, forse, non siamo capaci di dimostrartelo. E Nahuel avrebbe
potuto non fare niente.
Davanti a noi c'è sempre un milione di
possibilità, Alice dovrebbe avertelo insegnato,
ormai».
«Qualcuno mi spiega che succede?»,
protestò la
mamma, rivolgendo uno sguardo esasperato a mio padre.
Edward la guardò, trattenendo a stento una risata.
«Ehm... Aspetta dieci minuti e te lo raccontiamo».
Lei aggrottò la fronte. «Dieci minuti?
Perchè?».
«Già, perché?», le feci eco,
curiosa.
«Diamo a Nahuel un po' di vantaggio. Non credo che sia in
grado di vedersela con una vampira giovane e infuriata».
Note.
1. You
and me. Stupenda!
2. Il nome della sorella di Nahuel è preso dalla Guida ufficiale
della saga (un'autentica miniera d'oro di informazioni xd). Sappiamo
che ha tre sorelle, Serena e Maysun, più grandi di lui, e
Jennifer, appunto, nata solo nel 1991. Ricorderete senz'altro che
Nahuel non è in buoni rapporti con suo padre, Joham, mentre
incontra spesso le sue sorelle, e tra loro quella che incontra
più spesso e più volentieri, e con la quale ha un
legame più stretto, è proprio Jennifer,
perchè è più simile a lui e il fatto
di essere suo fratello maggiore lo fa sentire in dovere di vegliare su
di lei e proteggerla. Serena e Maysun, invece, (soprattutto Serena)
sono più simili al padre e condividono il suo modo di
pensare. Ho trovato molto interessanti tutte queste notizie sulla
famiglia di Nahuel
e cercherò di inserire le sue sorelle e suo padre nella
storia... Più avanti, però. Molto più
avanti. Che nota lunghissima! xd
Spazio autrice.
Salve! Innanzitutto scusate per questo ritardo nella pubblicazione! Di
solito pubblico in mattinata o al più tardi nel primo
pomeriggio, ma questa mattina ero impegnata fuori casa e poi ho avuto
qualche problema con la pubblicazione del capitolo.
Allora, veniamo subito a quello che penso sia il punto più
"caldo" del capitolo, il bacio tra Nahuel e Renesmee. Forse qualcuna di
voi se lo aspettava, o magari lo
temeva xd, dal momento che tifate tutte per Alex o per
Jacob, ah ah ah! Come al solito preferisco lasciarvi con qualche
piccolo dubbio ora piuttosto che svelare troppo e rovinarvi la
sorpresa, ma una cosa vorrei dirvela: questo episodio avrà
un suo ruolo nella storia, e anche piuttosto rilevante, ma non
attribuitegli più importanza di quante gliene abbiano
attribuita gli stessi personaggi coinvolti. O meglio, attribuitegli la
"giusta" importanza. Tutto è partito da Nahuel, che si
è lasciato coinvolgere dall'atmosfera intima, di tenera
complicità, creatasi con Renesmee, e ha assecondato il
desiderio di un istante, quello di baciarla, appunto. E la stessa
Renesmee dopo un primo momento di sconcerto e confusione capisce che si
è trattato di una svista. Forse il discorso vi appare poco
chiaro, ma più avanti lo diventerà. Non posso
dire di più, scusate xd. Comunque, non preoccupatevi e per
qualunque dubbio o domanda chiedete, come al solito ^^. Grazie, alla
prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Get to you ***
C 4
Capitolo 4
Get to you
Coz I'm on my way
I'll chase the day
Yeah, I'll keep running all night
I just won't rest to catch my breath
I will run every red light
To get to you
No, I will get to you
No, I will get to you
I will
I'll get to you
Just hold on a little longer
I'll get to you.
Get to you, James Morrison¹
Gelosia. L'altra faccia dell'amore.
Ambrose Bierce, Dizionario
del diavolo
Nahuel
mantenne la sua promessa. Il giorno seguente tornò a
trovarci, e
poi il giorno successivo e quello ancora dopo, e continuò a
farlo
per tutta la durata della vacanza. Per la maggior parte del tempo
stavamo da soli, io e lui, in casa o al mare, ma a volte Edward e Bella
si univano a noi. Impararono presto ad apprezzarlo. Nahuel possedeva
una cultura piuttosto vasta, un'intelligenza pronta e uno spirito
acuto. Parlare con lui era divertente e appassionante. Aveva visto
molte più cose di me e aveva molta più
esperienza, ma per
quanto io fossi curiosa, lui lo era altrettanto nei miei confronti e,
come durante la nostra prima serata insieme, mi bersagliava di domande
sulla mia vita quotidiana, la scuola, le amiche... Alex.
Tenevamo fede alla decisione di non parlare del nostro bacio e anche i
miei genitori ignoravano la cosa, su mia esplicita richiesta. Questa
volta sembravano decisi a darmi tutta la libertà di azione
che
desideravo e mi dissi che forse il nostro rapporto si avviava davvero
ad una svolta; forse avrebbero finalmente smesso di trattarmi sempre
come una bambina che incapace di decidere per se stessa.
Una volta Huilen accompagnò il nipote a casa nostra su
invito di
Edward e Bella. Io parlai poco con lei, ma scoprii che il suo carattere
era davvero schivo e cauto come era stato descritto da Nahuel.
Al termine della vacanza, mi accorsi che il dispiacere che provavo
sempre nel lasciare l'Isola Esme era raddoppiato. C'era anche una
persona, adesso, che non avrei voluto lasciare. In pochi giorni Nahuel
ed io eravamo diventati buoni amici e per me, che con le nuove
conoscenze ero sempre timida e imbranata, era una specie di miracolo.
Ci avevo messo un po' perfino a socializzare con Jas, sebbene lei fosse
tutt'altro che timida. Mentre il giorno della mia partenza si
avvicinava, parlammo qualche volta di scambiarci gli indirizzi e
tenerci in contatto con delle lettere dal momento che Nahuel e sua zia
non possedevano un telefono; entrambi erano piuttosto allergici alla
tecnologia. Ma nessuno dei due era molto convinto, e a poco a poco
lasciammo cadere l'argomento. Forse lui sentiva, come me, che tenerci
in contatto assiduamente avrebbe potuto complicare le cose tra noi. La
scintilla che Nahuel aveva acceso durante la nostra cena con quel bacio
appena accennato sembrava destinata a morire senza lasciare tracce, ma
temevo che se incoraggiata avrebbe potuto divampare facilmente,
alimentata dall'intesa che c'era tra noi, dal misterioso e intenso
legame che ci univa. E sentivo che sarebbe stato sbagliato, che la
nostra strada non era quella e che se l'avessimo imboccata ce ne
saremmo pentiti. E poi io avevo Alex ed ero assolutamente sicura di non
desiderare nient'altro che lui. Di conseguenza, trascorrere un anno
intero a scriverci lettere e a scambiarci pensieri, racconti e
confidenze sarebbe stato troppo. Almeno per ora, almeno in quel
momento, preferivo che mantenessimo un confine tra noi. Non sapevo fino
a che punto Nahuel condividesse le mie riflessioni, ma forse le
intuì e decise di rispettarle.
Disse che avrebbe convinto Huilen a tornare a
Forks, ma non ci sperava molto. Sua zia lo riteneva un viaggio troppo
lungo e se lei restava lì, Nahuel non l'avrebbe lasciata. Ci
salutammo con un lungo abbraccio e per tutto il viaggio di ritorno
il pensiero che quasi certamente non ci saremmo rivisti prima della
prossima estate mi rese triste e apatica. Soltanto durante l'ultimo
volo, mentre ci avvicinavamo a casa, il mio umore iniziò a
lievitare: casa
significava Alex, Jas e Jacob.
Non vedevo l'ora di riabbracciarli, tutti e tre. Jacob lo avrei trovato
lì ad aspettarmi, come al solito, mentre gli altri due
sarebbero
rientrati qualche giorno dopo di me: Alex era a Martha's Vineyard,
nella casa al mare di famiglia, Jas in California a trovare dei
parenti. E poi
avrei rivisto Holly, Maggie, Danielle, Tom, Paul e Scott... mi erano
mancati da morire tutti quanti.
All'aeroporto trovammo ad aspettarci Esme e Carlisle, che avevano
trascorso un paio di settimane a Denali insieme ad Alice e Jasper,
mentre
Emmett e Rosalie erano partiti da soli per un viaggio nel Sud della
Francia e sarebbero tornati a settembre. Quando atterrammo era notte.
Appena salita in macchina, mi addormentai, esausta, e mi svegliai a
casa, nel mio letto, la mattina dopo, come era accaduto durante il
viaggio di andata verso Rio.
Feci una doccia e subito aprii le valigie e iniziai a sistemarne il
contenuto. Mi muovevo più in fretta possibile
perchè avevo promesso a Jacob che lo
avrei raggiunto a La Push in mattinata e avrei pranzato a casa sua. Ci
sarebbe stata anche Rebecca con suo marito, Solomon², venuti
in visita
per l'imminente matrimonio di Rachel e Paul, programmato a fine agosto.
Rebecca ed io eravamo state scelte come damigelle
della sposa ed era nostro compito dare una mano a Rachel con i
preparativi.
Stavo tirando fuori dalla valigia un mucchio di magliette da lavare,
quando la mamma si affacciò sulla porta.
«Ehi, tesoro. Serve aiuto?».
Le sorrisi, senza fermarmi. «No, grazie. Ho quasi
finito».
Annuì. «Okay». Esitò un
istante, poi entrò
nella stanza camminando lentamente. Si guardava intorno con espressione
concentrata, come se stesse cercando qualcosa, le braccia incrociate,
le spalle contratte e rigide. «Questa camera è
troppo
ordinata», disse all'improvviso.
«Be', sono stata via più di un mese, è
normale. Ma il
caos tornerà a regnare molto presto, sta'
tranquilla»,
esclamai, ridacchiando. Sapeva benissimo che io e l'ordine eravamo
incompatibili come l'acqua e il fuoco. Buona parte delle nostre
discussioni si incentrava proprio sulla mia incapacità di
tenere i vestiti nell'armadio, i libri sugli scaffali della libreria e
i trucchi sul tavolino da toeletta.
Lei accennò un mezzo sorriso, continuando a guardarsi
intorno.
Le lanciai un'occhiata curiosa, mentre estraevo dal trolley due paia di
sandali e li lasciavo cadere sul pavimento. Poi parlò di
nuovo.
«Era
così anche quando... quando stavi da Charlie»,
mormorò.
Sollevai lo sguardo e la fissai. Sembrava tranquilla, ma i suoi occhi e
la sua voce erano colmi di tristezza. Era come se il ricordo di quel
periodo di lontananza le causasse ancora dolore, sebbene fosse
trascorso un bel po' di tempo. Il senso di colpa mi artigliò
le
viscere, rapido e implacabile, una morsa d'acciaio. A
mia volta percorsi la stanza con lo sguardo, esaminando i mobili
spogli, il letto intatto, le tende chiuse, i pochi oggetti che non
avevo portato con me ricoperti da un sottile strato di polvere. Meditai
in silenzio per qualche secondo, poi presi dalla valigia una camicia da
notte, una manciata di top, due jeans e una minigonna, li mescolai
rapidamente tra loro creando un'unica massa informe, poi li lanciai in
aria alla rinfusa, sparpagliandoli sul letto e sul pavimento.
«Va meglio, così?», domandai, guardando
la mamma con un sorriso d'intesa.
Lei aveva seguito i miei gesti con aria sbalordita, ma in quel momento
scoppiò a ridere. Aveva capito. «Sì,
molto meglio.
Vieni qui, tesoro».
Mi raggiunse e mi abbracciò, stringendomi forte, ed io
ricambiai
la stretta, sentendo un piccolo nodo in gola. Deglutii per scacciarlo.
«Piccola, il tuo cellulare sta squillando», disse
la mamma. Il suo
respiro freddo accanto all'orecchio mi fece rabbrividire.
«Ah, sì?». Sciolsi l'abbraccio,
recuperai la borsa dal
pavimento ed estrassi il cellulare da una tasca esterna. Stava
vibrando. Guardai il display. «È Alex!»,
esclamai, felice.
Premetti il tasto per accettare la chiamata.
«Pronto?».
«Ehilà, Scheggia! Come andiamo? Sei a casa? Ti
manco, vero? Stai morendo di nostalgia, eh?».
Che bello sentire la sua voce! La mamma mi fece un gesto da lontano ed
io risposi al saluto mentre usciva dalla stanza, lasciandomi sola.
«Possibile che appena apri bocca mi viene voglia di chiudere
il
telefono?», dissi, alzando gli occhi al cielo. «Sei
insopportabile».
«Insopportabile io?
Ma
come, dopo più di un mese di separazione non dovresti
sentire
tremendamente la mancanza di tutti i miei numerosi pregi, che
senz'altro non
notavi quando ci vedevamo ogni giorno?».
«Li notavo eccome, credimi. A cominciare dal pregio di
parlare sempre a vanvera».
«Lo so, bellezza, è il mio vanto più
grande».
«Basta chiacchiere, dove sei?», intervenni,
curiosa. In sottofondo sentivo il motore di un'auto.
«Sto facendo un giro. Senti, non cambiare discorso. Non
c'è
proprio niente che ti manchi, di me? Neanche i miei baci?».
Serrai le labbra, cercando di non fargli capire che stavo sorridendo.
«No, per niente».
«Davvero?». La sua voce suonò del tutto
indifferente. «Okay, vuol dire che quando ci rivedremo non te
ne
darò
neanche uno».
Finsi di pensarci un po' su. «Mmm... E va bene, forse un
pochino mi mancano».
«Ah, sì? Be', mi dispiace, Scheggia, ma non
è così semplice. Adesso dovrai
guadagnarteli».
«Ne riparleremo al tuo ritorno», risposi, ridendo
sotto i baffi.
Accidenti, quanto mi mancava. Sarei passata sopra perfino alle sue
battute stupide pur di riabbracciarlo.
Lo sentii ghignare. «Già, al mio ritorno.
Di' un po', che stai facendo?».
«Disfo le valigie».
«Ottimo. Non interromperò niente di importante,
allora».
Eh? Aggrottai la fronte, perplessa. «In che senso?».
«Sto arrivando,
Scheggia».
«Arrivando dove?».
«Lì da te».
Per poco non mollai il cellulare a terra dalla sorpresa.
«Cosa? Ma... Alex, non fare scherzi idioti, dove
sei?».
«In questo preciso momento? Fuori casa tua»,
rispose, gongolando.
«Non è possibile!», esclamai, ma in
sottofondo non sentivo
più il rombo del motore; si era fermato davvero. Poi sentii
una
portiera che si apriva. Incredula e felice, corsi nell'ingresso,
spalancai la porta e lo vidi. Stava uscendo dalla sua Audi nera
luccicante,
in jeans dalla testa ai piedi, un giubbotto nuovo fiammante, un paio di
Ray-Ban calati sugli occhi e i capelli un po' scompigliati. Fece un
gran sorriso,
sfilandosi gli occhiali da sole.
«Ta-dan!».
«Alex!».
Chiusi il telefono e mi precipitai ad abbracciarlo, traboccante di
entusiasmo. Avevo preso un tale slancio che indietreggiò di
qualche passo e quasi finimmo contro la macchina. Sentire la sua
risata, il suo profumo, le sue braccia intorno a me, le sue labbra
sulla guancia, mi provocò una scarica di autentica
adrenalina.
«Che entusiasmo! Non avevi detto che non ti mancavo
affatto?», scherzò.
«Non posso crederci! Che ci fai qui? Dovevi tornare tra due
giorni!».
«Mi sono anticipato un po'. Sono arrivato ieri sera. Ho dato
il
tormento a Julie per due settimane e alla fine si è convinta
a
lasciarmi tornare da solo. Lei e Phoebe sono ancora a Martha's
Vineyard».
Mentre parlava, mi fissava intensamente, i suoi occhi brillavano e
andavano da un punto all'altro del mio viso, avidi, curiosi, come se
non mi vedesse da un secolo. Era bello, proprio come l'avevo visto in
sogno l'ultima volta, solo la notte precedente... Un altro incubo,
quell'incubo che non era affatto sparito dopo la prima volta e tornava
a farmi visita quasi ogni notte. Era sempre diverso, ma allo stesso
tempo spaventosamente uguale: Alex moriva sotto i miei occhi senza che
potessi fare niente per aiutarlo. E ogni volta mi risvegliavo in preda
all'atroce certezza che fosse tutto vero.
La sua mano mi accarezzò il mento, dolce, delicata,
preoccupata. «Cosa c'è, Scheggia?».
Mi sforzai di sorridergli di nuovo. «Niente, Alex. Sono
così
felice di rivederti», sussurrai. La sua espressione si
rasserenò, come il cielo estivo che torna sereno quando un
vento
caldo spazza via le nuvole. Mi prese il volto tra le mani e fece per
avvicinarsi, un'espressione all'improvviso famelica negli occhi, ma io
opposi resistenza. «No, aspetta... I miei zii sono in
casa»,
dissi, a disagio.
«Andiamo a fare un giro, allora», propose,
prendendomi la mano.
Sembrava euforico. «Ti va una passeggiata sulla
spiaggia?».
«A La Push?».
«Sì. Non piove e bisogna approfittare di questo
miracolo».
Ci pensai un secondo. «Be'... sì, mi va. In
effetti, dopo
devo andarci comunque, ho appuntamento con Jacob, il mio
amico».
In quel momento Edward e Bella fecero capolino sulla soglia di casa,
tenendosi abbracciati.
«Ciao, Alex!», esclamò la mamma.
Lui agitò la mano in risposta. «Salve!».
Mi girai verso di loro. «Andiamo a fare una
passeggiata», annunciai.
Papà annuì. «Certo, andate pure.
Divertitevi».
Alex aveva già aperto la portiera per farmi salire
al posto
del passeggero. «Okay, ci vediamo dopo». Li salutai
da lontano
con la mano mentre entravo nell'auto.
«Buona giornata!», esclamò Alex,
sorridendo verso di loro, poi salì in macchina.
Era davvero fortunato ad avere a che fare con i miei genitori, pensai
mentre guidava verso la riserva. Nonostante la loro consueta, eccessiva
iperprotettività, dopo averlo conosciuto si erano
tranquillizzati a sufficienza da lasciarci la massima libertà. E
il
fatto che papà non fosse mai riuscito a leggere neanche
l'ombra
dei pensieri del mio ragazzo non costituiva un grosso problema. Lui
diceva sempre che a volte bastava guardare una persona negli occhi per
riuscire a comprenderla e qualunque cosa avesse visto nello sguardo di
Alex doveva essergli piaciuta.
Ma Alex non faceva eccezione soltanto alle capacità extra di
mio
padre: ogni membro della famiglia Cullen dotato di poteri
soprannaturali aveva fallito, con lui. Alice non vedeva un bel niente
del suo futuro, Jasper non aveva la minima influenza sulle sue emozioni
e la mamma non riusciva ad estendere il suo scudo fino a lui... era
come se qualcosa la bloccasse, diceva. Incredibile, ma vero. Io ero
l'unica a non aver ancora sperimentato l'efficacia delle mie
capacità su di lui, ma di certo non potevo proiettare i miei
pensieri nella sua testa come niente fosse. Io probabilmente
non avrei sperimentato mai.
La mia famiglia aveva fatto svariate ipotesi e la più
accreditata era che Alex fosse dotato di uno scudo simile a quello di
Bella, ma forse ancora più potente, poichè non
proteggeva
solo la sua mente, ma anche il suo corpo. Sarebbe stato interessante
vederlo alle prese con i poteri di altri vampiri per testare
questa immunità, ma a me importava poco speculare
ed ero
sollevata
dal fatto che la sua anomalia lo preservasse da alcuni pericoli.
Ovviamente un vampiro non avrebbe avuto bisogno di poteri extra per
fargli del male, ma quando pensavo a Jane, a Kate e ad altri vampiri
con capacità analoghe, non potevo che essere felice di
quella
scoperta.
Tuttavia, la faccenda aveva anche i suoi lati negativi. Sospettavo che
prima o poi avrebbe potuto farmi comodo sfruttare papà per
conoscere i pensieri di Alex e scoprire, ad esempio, se mi raccontava
qualche bugia. Quella mattina, in particolar modo, ne avrei avuto
davvero bisogno. Mentre camminavamo sulla spiaggia tenendoci per mano,
come una coppietta da telefilm, mi raccontava delle due settimane che
aveva trascorso a New York, nella villa dei suoi genitori agli
Hamptons, prima di partire per Martha's Vineyard. Lì aveva
rivisto Madison. Lui sosteneva che rivedersi
era stato semplice e piacevole, nonostante fosse trascorso un bel po'
di tempo dal loro ultimo incontro: in fondo erano due vecchi amici,
oltre
che due ex fidanzati. Peccato che io riuscissi ad immaginarmeli solo
come ex fidanzati.
«Quindi avete passato parecchio tempo insieme?»,
indagai, ostantando un atteggiamento sereno.
Lui mi guardò con aria furba. Come sempre, intuiva fin
troppo
bene quale fosse il mio stato d'animo. «Be', la sua casa agli
Hamptons è praticamente attaccata alla mia, non possiamo
neanche
uscire in giardino senza vederci».
Annuii, seria, lo sguardo fisso sulla punta delle mie scarpe. Per un
minuto scese il silenzio.
«Gelosa, eh?», mormorò all'improvviso,
con tono carico di soddisfazione.
Lo fulminai con gli occhi. «Niente affatto. Mi sto informando
sulle tue vacanze, tutto qui».
«Sai che le ho parlato di te?».
«Davvero?», mormorai, un po' stupita. «E
cosa le hai detto?».
«Non ha importanza. Conta quello che mi ha detto
lei».
«E lei cosa ti ha detto?».
Alex si girò a guardarmi mentre rispondeva. «Che
mi trova
così cambiato da essere a stento riconoscibile».
«A me non sembri tanto cambiato».
«Tu non mi hai visto lo scorso inverno».
A quelle parole sentii un brivido spiacevole. Sapevo che era stato male
nei due anni precedenti, dopo la morte dei suoi genitori, eppure,
quando provavo a pensarci, mi rendevo conto di avere solo una pallida
idea di quello che doveva essere successo. Per lui non era semplice
parlarne e in genere entrambi evitavamo l'argomento.
«Ti conosce davvero bene», ammisi a bassa voce.
«Siamo cresciuti insieme, Renesmee.
Però...». Di colpo si
fermò ed io, con una mano stretta nella sua, dovetti
imitarlo.
Mi fissò con aria seria. «Non hai nessun motivo di
essere
gelosa. Non provo più niente per Madison. Cioè,
non
provo più quello che provavo prima. Adesso è
soltanto la
mia più vecchia e cara amica. Te lo giuro».
Per un secondo rimasi in silenzio a fissarlo. «E una tua
ex», aggiunsi, quasi senza volerlo. Era più forte
di me.
Lui alzò gli occhi al cielo. «Testarda. Vieni
qui».
Mi
tirò più vicino a sè, talmente vicino
che
riuscì ad appoggiare la fronte contro la mia. Mi
immobilizzai
all'istante, come una preda che viene catturata e sa di non avere
scampo.
«Io voglio soltanto te», sussurrò con
voce
morbida.
Sentii il suo fiato sul viso e tremai. Mi prese per le spalle e mi
baciò con forza, spingendo le labbra contro le mie come se
avesse voluto entrarmi dentro. Non mi aveva mai baciata in quel modo,
prima, con tanta passione e desiderio che a un certo punto dovetti
tirarmi indietro. Mi sentivo sopraffatta, in procinto di esplodere,
completamente senza fiato, le guance bollenti e le idee confuse. Anche
lui ansimava, ma non si spostò di un millimetro, limitandosi
a
lasciarmi un po' di spazio per respirare. Nei suoi occhi brillava una
luce così intensa che mi parve di non riuscire a fissarla
troppo
a lungo. Spostai lo sguardo alle sue spalle, cercando di recuperare il
controllo, e la vidi: una sagoma alta e robusta in lontananza che
veniva verso di noi. Capii di chi si trattava in meno di un secondo.
«Jake», sussurrai, ancora senza fiato.
«Jake... Jake!».
Superai Alex, lasciandogli le mani, e gli corsi incontro. Con pochi
passi lo raggiunsi e mi lanciai tra le sue braccia. Jacob mi
afferrò, mi sollevò e mi fece volteggiare
nell'aria come
se fossi stata una bambina piccola. Strillai per la gioia
mentre lui affondava il viso tra i miei capelli per aspirarne il
profumo e lo sentivo sussurrare il mio nome all'infinito.
«Mi sei mancato da morire», bofonchiai, le labbra
premute contro il suo collo.
Jacob mi lasciò andare lentamente, guardandomi negli occhi
con
quella sua solita espressione, l'espressione di chi vede sorgere il
sole dopo una lunga notte di buio. Mi lusingava e mi imbarazzava allo
stesso tempo. Si chinò per baciarmi sulla fronte.
«Anche tu. Sei cresciuta. E sei ancora più bella
di un mese fa», disse, sorridendo.
Arrossii un po' e abbassai lo sguardo. Quella era la
giornata degli incontri. Incontri... Alex! L'avevo completamente
dimenticato! Mi girai di scatto, il cuore in gola. Era ancora
lì, fermo dove l'avevo lasciato, e mi fissava con una
strana
espressione. Non riuscii a decifrarla.
«Voi... voi non vi conoscete, giusto?», esclamai,
esitante, come
se stessi chiedendo una conferma quando sapevo benissimo che non si
erano mai incontrati. Mi allontanai da Jacob di qualche passo,
trovandomi esattamente in mezzo a loro. «Jake, ti presento
Alex Hayden. Alex, lui è Jacob Black».
Per un lungo istante nessuno disse una parola e i due si limitarono a
squadrarsi a vicenda. Jacob era impassibile, mentre Alex aveva ancora
quella strana espressione; teneva gli occhi ben aperti, come se volesse osservare la situazione fin nei minimi dettagli. Poi
avanzò per avvicinarci a Jake e gli tese la mano.
«Ah,
sì. Jacob Black», disse, con un tono freddo che mi
stupì. «Sei il suo vecchio amico».
Jacob ricambiò la stretta di mano. «Sì,
sono il suo
vecchio amico», rispose e anche la sua voce suonò
in qualche
modo strana. O forse ero io a vedere e a sentire tutto in modo
distorto.
Scese un silenzio di tomba. Alex e Jacob non si toglievano
gli occhi di dosso, mentre io guardavo fisso a terra con un crescente
senso di panico. Accidenti, che succedeva? Cos'era tutto
quell'imbarazzo? Mi scervellai per trovare qualcosa da dire e rompere
quell'orrendo silenzio.
«Ehm... Noi... Io ed Alex... stavamo... facendo una
passeggiata»,
balbettai. Okay, non era un granchè come argomento di
conversazione, ma sempre meglio del nulla assoluto.
«Anch'io facevo un giro. Ti stavo aspettando»,
rispose Jacob.
«Ah, giusto», esclamai. Lanciai un'occhiata verso
Alex.
«Più tardi avevo appuntamento con lui per...
parlare del
matrimonio di sua sorella. Sono una delle damigelle».
«Davvero?», mormorò Alex, senza smettere
di fissare
Jake. «Congratulazioni», disse, ma la sua voce
sembrò
del tutto
priva di benevolenza. O forse era solo la mia immaginazione.
Mi rivolsi a Jacob, sperando che fosse più collaborativo.
«Rachel è a casa?».
Annuì. «Sì, l'ho lasciata che discuteva
del menù con Rebecca».
«Allora c'è anche lei!».
«È arrivata ieri con Solomon».
«Fantastico!», esclamai, felice. «Non
vedo l'ora di incontrarla».
Rebecca tornava sporadicamente a La Push e l'ultima volta che aveva
fatto visita a Jacob e a suo padre, tre anni prima, non ci eravamo
incontrate perchè la mia crescita era ancora troppo rapida
per
permettermi di mostrarmi tranquillamente agli esseri umani. Inoltre
sarebbero state necessarie troppe spiegazioni e troppe bugie per
giustificare la mia presenza accanto a Jacob senza parlare
dell'imprinting, sebbene all'epoca io non sapessi neanche
dell'esistenza di questo problema. Dunque non ci conoscevamo affatto ed
ero impaziente di incontrarla.
Rachel, invece, trascorreva buona parte del suo tempo alla
riserva, sebbene vivesse e lavorasse a Seattle, e con lui avevo da
sempre un buon
rapporto: l'imprinting di Paul l'aveva introdotta nel mondo
sovrannaturale ancor prima della mia nascita, con lei non c'era bisogno
di segreti.
A quel punto intervenne Alex. «Sembra che abbiate da fare,
allora. Forse... è meglio che vada», disse, ma dal
modo in
cui mi guardò subito dopo capii che, se fosse stato per lui,
non
se ne sarebbe andato affatto. Ma perchè aveva un
comportamento
così bizzarro? Era la presenza di Jacob ad infastidirlo? E
per
quale motivo?
Ero sconcertata, ma cercai di mostrarmi tranquilla. Se loro due
sembravano fuori di testa, quel giorno, almeno io dovevo mantenere la
calma. «In effetti dovrei parlare con la sposa,
però... Non devi andartene per forza. Possiamo continuare la
passeggiata, oppure... potresti venire con noi». Esitai nel
pronunciare l'ultima frase e lui se ne accorse. Non sapevo bene nemmeno
io cosa stessi dicendo, ma portarlo a La Push... Alex tra i miei amici
licantropi? L'idea mi inquietava un poco.
Mi fissò in silenzio per un secondo prima di rispondere.
«No, nessun problema. Lo capisco, davvero. Avrete tante
faccende
da sbrigare...». Non concluse la frase e mi parve di cogliere
una
lievissima traccia di sarcasmo. Accidenti, se l'era presa? Era l'ultima
cosa che volevo.
Stavo per intervenire, ma lui non me lo permise. Mi raggiunse con due
passi e mi circondò le spalle con un braccio. Lo guardai
negli
occhi, il suo viso vicinissimo al mio, e mi resi conto con assoluta
certezza che covava qualcosa. Il blu era in tempesta. Restai rigida e
d'istinto feci mezzo passo indietro, preoccupata e a disagio. Jacob era
accanto a noi, ci stava guardando, e la sua presenza mi frenava. Non
avevo intenzione di baciare appassionatamente Alex davanti a lui. Alex
percepì all'istante la mia tensione e si bloccò a
pochi
centimetri dal mio viso. Nei suoi occhi la tempesta fu sostituita da
una rapida successione di emozioni: sorpresa, confusione, rabbia e
timore. Esitò un istante, poi mi diede un fulmineo bacio
sulla
guancia.
«Ci vediamo, Renesmee», disse con tono formale.
Lanciò un'occhiata alle mie spalle. «Jacob...
è
stato un piacere».
«Anche per me», rispose lui, tranquillamente.
Alex si voltò e si allontanò in fretta lungo la
spiaggia.
Lo seguii con lo sguardo, ansiosa, chiedendomi il motivo del suo strano
atteggiamento. Possibile che incontrare Jacob gli avesse dato tanto
fastidio? Possibile che io
fossi così imbarazzata senza nessun motivo?
«Tutto bene?», chiese Jake. Mi accorsi che mi
osservava con
un mezzo sorriso sulle labbra. «Simpatico, il tuo ragazzo.
È sempre così?».
Ricambiai il suo sorriso, un po' impacciata. «No, ti giuro
che di
solito non è affatto così. Era... nervoso per
qualcosa».
«Non gli ha fatto piacere conoscermi», rispose,
schietto come sempre.
«No, non dire questo. Perchè mai?».
Tacqui di colpo. Probabilmente aveva ragione, ma perchè
ad Alex non dpvesse far piacere incontrare il mio migliore amico
restava un mistero. Adesso sì che mi avrebbe fatto comodo il
potere di papà.
«Andiamo?», propose Jacob, la mano tesa verso di
me.
Io la presi quasi senza accorgermene e iniziammo a camminare lentamente
sul bagnasciuga.
«Allora», riprese lui, dopo un breve silenzio,
«com'è andata la vacanza?».
«Bella domanda! Da dove comincio?», esclamai,
divertita.
«Da dove vuoi». Sembrava stupito.
«Okay. Dunque... ho incontrato Nahuel».
«Nahuel? Quel
Nahuel?».
La sua sorpresa mi fece ridacchiare. Non se l'aspettava, e come dargli
torto. «Non credo che in giro ci siano molte persone con quel
nome. Abbiamo fatto amicizia molto in fretta, sai? Stiamo molto bene,
insieme. È come se fossimo sulla stessa lunghezza d'onda. E
indovina che è successo? Ha cercato di baciarmi».
Parlai di getto, senza pensarci, e un attimo dopo ero già
pentita. Jacob si fermò ed io con lui.
«Cosa?»,
disse, con voce bassa e fredda.
Lo guardai, riluttante, e arrossii di botto. Dannazione, sembrava
arrabbiato. Mi dissi che forse avevo appena commesso un errore. Non era
il caso di parlare di quello,
ma ero troppo abituata a raccontargli tutto... mi veniva spontaneo.
«Sì», borbottai, ma non aggiunsi altro,
desiderando con tutte le mie forze di rimangiarmi quello che avevo
detto.
All'improvviso ero di nuovo a disagio, come poco prima, sotto gli
sguardi gelidi del mio ragazzo e del mio migliore amico.
Jake non smetteva di fissarmi sconvolto. «E cos'è
successo?», indagò, cauto.
«Niente. Cioè, io l'ho fermato prima che...
succedesse... qualcosa di rilevante».
«Quindi non vi siete baciati?».
Ma cos'era, un'interrogatorio della CIA?
«No. Quasi», mi corressi subito dopo.
Non aggiunse altro. Rimase in silenzio per un po', poi riprese a
camminare all'improvviso, tirandomi dietro di sè. Ogni tanto
gli
lanciavo un'occhiata furtiva, ma la sua espressione era piuttosto
neutra. Sembrava solo molto impegnato con i propri pensieri. Per
rompere il silenzio presi a parlare a raffica degli argomenti
più svariati: le sperimentazioni culinarie in salsa
brasiliana
della mamma, il mucchio di cartoline che Emmett e Rose mi avevano
spedito dalla Francia, le vacanze delle mie amiche, i preparativi per
il matrimonio. Lui interveniva di tanto in tanto, ma rimase serio e
pensieroso per il resto del tempo. Probabilmente la sua
iperprotettività nei miei confronti gli stava suggerendo di
prendere subito un aereo per il Brasile e dare una bella lezione al mio
nuovo amico... Sì, doveva essere questa la spiegazione. Il
fatto
che Nahuel avesse provato a baciarmi non poteva che infastidirlo,
perchè era il mio migliore amico, era il mio Jacob, e non
tollerava che qualcuno facesse lo stupido con me. Be', se la sua
reazione era quella,
non avrei mai più fatto il nome di Nahuel davanti a lui.
Eppure... non riuscivo a non sentirmi sconcertata. Avevo sempre pensato
di poter parlare di tutto, con Jake, senza alcun imbarazzo o
difficoltà. Un tempo era stato così. Adesso,
evidentemente, le cose erano cambiate.
Note.
1. Qui
la canzone. Adoro questo ragazzo! Grazie di esistere! xd
2. Il nome del marito di Rebecca, Solomon, è preso dalla Guida ufficiale illustrata,
come al solito. A me non piace affatto, lo ammetto, ma praticamente
è canon... E il canon è canon.
Spazio autrice.
Salve, salve, salve ^^. Come andiamo? E allora, che ve ne pare? Cosa ne
pensate del modo in cui "si chiude" la faccenda tra Nahuel e Renesmee?
In realtà potrebbe non essere affatto chiusa. Potremmo
ritrovare Nahuel in futuro, chissà :-P.
Forse questo vi sembrerà un capitolo un po' di passaggio
perchè non succede un granchè, ma se fate
attenzione vi accorgete che in realtà la storia prosegue
eccome... Anzi, possiamo dire che ha fatto un piccolo passo avanti.
Forse il testo della canzone, Get
to you, potrebbe darvi un suggerimento. E un passo avanti
ancora più lungo ci sarà nel prossimo capitolo.
Quindi, mi raccomando, leggete, recensite e fatemi sapere! Grazie, un
bacione! Alla prossima! <3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Collide ***
C 5
Capitolo 5
Collide
I'm quite, you know
You make a first
impression
I've found I'm scared to
know
I'm always on your mind
Even the best fall down
sometimes
Even the wrong words
seem to rhyme
Out of the doubt that
fills my mind
I somehow find you and I
collide.
Collide,
Howie Day¹
Certe cose hanno bisogno
di tempo e di attesa; da certe cose non si può fuggire.
Kajsa Ingemarsson, Se
potessi tornare indietro
Sto correndo.
La sensazione del vento e del sole caldo sul mio viso, tra i capelli,
è meravigliosa. Inebriante.
Sempre più veloce, percorro un viale ricoperto di fresca
erba verde e affiancato da due alte siepi che proseguono alla svolta
del viale e sembrano continuare senza fine. Un labirinto. Siamo in un
labirinto. Rido, felice, impaziente, eccitata dal gioco.
Lui è subito dietro di me, posso sentire il tonfo leggero
dei suoi passi e il respiro reso affannoso dalla corsa.
Volto appena la testa per guardarlo, i capelli che danzano sulle mie
spalle, come per misurare la distanza che ci separa, divertendomi a
stuzzicarlo. Alex accelera il passo, ma io sono più veloce.
Svolto a destra, poi a sinistra, seguendo il misterioso percorso del
labirinto. Non rallento neanche per un istante, decisa a fargli
mangiare la polvere, e poi all'improvviso, dopo l'ultima svolta a
destra, si apre davanti a me un piccolo spiazzo erboso circondato dalle
stesse siepi alte e impenetrabili: il centro del labirinto. E nel
centro dello spiazzo, di forma perfettamente circolare, una statua di
pietra posta su un'alta base. Mi sembra che rappresenti una donna con
un velo sottile che le ricopre il corpo, ma non ho il tempo di
osservarla attentamente. Mi precipito dietro la base della statua, un
blocco di pietra regolare alto quasi quanto me e largo il
doppio, e mi
nascondo, ridendo, nel timore che riesca a prendermi e che il
divertimento finisca.
Ma lui sta al gioco. Arriva alla statua e si ferma di botto, poggia una
mano sulla pietra liscia e levigata della statua,
sbircia da un lato, cercandomi, ed io lo imito,
sottraendomi al suo sguardo e alle sue mani. Lo sento ridere insieme a
me e mi perdo in quel suono meraviglioso.
Poi, all'improvviso, mi viene un'idea. Il nostro gioco non deve finire.
Non finirà. Dall'altra parte dello spiazzo rispetto al viale
da cui siamo entrati il labirinto continua e altri sentieri affiancati
da siepi imponenti si perdono in chissà quali direzioni,
verso chissà quali angoli segreti... Voglio esplorarli
tutti.
Scatto in quella direzione, sperando di coglierlo di sorpresa, ma Alex
compare di colpo davanti a me, fulmineo, tende le braccia e mi
afferra, impedendomi la fuga. Strillo tra le risate e cerco di
divincolarmi, ma senza troppa convinzione. Quel nuovo gioco mi piace
ancora di più. Alex mi stringe al suo corpo, guardandomi
negli
occhi, serio. Poggia un dito sulle mie labbra, spegnendo dolcemente la
mia risata, poi si china a baciarmi.
È il paradiso. La sua bocca
sulla mia scatena un piacere inimmaginabile. Ogni volta che le nostre
labbra si toccano è come se fosse la prima. Continuo ad avvertire quella
stessa scarica elettrica che mi percorre le vene, come durante il
nostro primo bacio, e che mi restituisce la vita. Ogni bacio è come una
scoperta. Premo con forza la bocca sulla sua e mi sfugge una risata
mentre mi abbandono contro il suo corpo caldo, appassionata, sicura,
come mai prima d'ora. Mi sento così bene, leggera e
appagata, che mi sembra
di galleggiare su una nuvola.
E poi, all'improvviso, qualcosa cambia. Le sue braccia si
irrigidiscono, le sue labbra diventano fredde. Spalanca
gli occhi, fissi in un'espressione di terrore. Si stacca da me e il suo
corpo, diventato assurdamente inerte, si accascia sull'erba verde
brillante, il colore della primavera in trionfo. Cado insieme a lui,
cercando di sorreggerlo, sconvolta. Vorrei
chiamarlo, ma non riesco ad articolare le parole. Alex viene scosso da
un sussulto mentre mi guarda con aria incredula, come se aspettasse da
me
una spiegazione su quello che gli sta succedendo. Stringo il suo viso
gelido tra le mani, cercando disperatamente un modo per aiutarlo. Poi
si immobilizza di colpo e si abbandona sulle mie ginocchia, gli occhi
vitrei ancora fissi nei miei.
No. No, non è possibile. Scuoto quel corpo senza vita,
balbettando il suo nome a fior di labbra. Non può essere.
Non
può essere.
Chiudo gli occhi e urlo.
L'urlo di terrore mi seguì dall'incubo alla
realtà. Ma
non riuscivo a distinguere l'uno dall'altra. Stavo ancora sognando? Ero
sveglia? Era tutto vero? Aprii gli occhi, chiedendomi se avrei rivisto
lo spiazzo erboso circondato dalle siepi, la statua di pietra, il cielo
azzurro, il sole scintillante, Alex accasciato a terra, e mi
accorsi di essere nel
mio letto, in camera mia. Le tende tirate, la luce chiara del mattino,
la pila di libri sul comodino, i vestiti sparpagliati in giro: tutto
era familiare, tranquillo, sicuro. Scattai a sedere nel letto, sudata,
tremante, e gettai via le coperte.
«Renesmee!».
La mamma piombò di colpo nella stanza, agitata e spaventata,
i
capelli scompigliati; probabilmente aveva corso. Alle sue spalle
comparve papà che subito cercò il mio viso,
ansioso.
«Tesoro,
cos'è successo? Un altro incubo?»,
indagò Bella mentre sedeva sul letto, accanto a me.
La guardai,
sforzandomi
di concentrarmi. «È sempre lo stesso»,
farfugliai. Avevo il
fiatone e riuscivo appena a parlare. «Non è mai
uguale, ma
è sempre la stessa cosa».
«Cioè
Alex...».
La mamma
lasciò la
frase in sospeso, come se non osasse dire quelle parole ad alta voce,
ed io non risposi, limitandomi a fissarla con gli occhi sgranati.
Restammo in silenzio tutti e tre, ma dopo qualche secondo non ressi
più. Mi alzai in fretta, uscii dalla stanza e mi rifugiai in
bagno, lasciandoli lì. L'acqua fresca sul viso mi
calmò
un poco, ma il mio riflesso allo specchio diceva tutto: avevo i capelli
in disordine, due orrende occhiaie e il viso bianco come cera. Si
vedeva lontano un chilometro che non avevo dormito affatto bene. Mi
osservai a lungo, le mani poggiate sulle guance bollenti, ancora
scombussolata. Poi mi diressi lentamente in cucina, dove i miei stavano
preparando la colazione in un'atmosfera tesa e cupa. Quando entrai, si
voltarono verso di me con due identiche espressioni preoccupate.
Sedetti al bancone da lavoro e mi presi la testa fra le mani. Ero
così stanca che temevo potesse cadermi sul tavolo da un
momento
all'altro. Sentii due mani fredde e delicate accarezzarmi piano i
capelli.
«Non
preoccuparti, Renesmee», mormorò una voca dolce.
Era la mamma. «È soltanto un sogno».
Feci un
profondo respiro, riflettendo sulle sue parole. «Non
è soltanto un sogno», protestai con voce rauca.
Un attimo di
silenzio. «In che senso?», chiese lei, esitante.
«Nel
senso che
è qualcosa di più. Un brutto sogno non torna due
notti su
quattro per cinque settimane consecutive», risposi a denti
stretti.
«A
volte succede», osservò papà, con voce
calma.
«Non
è solo
questo. È diverso da altri sogni, è molto...
realistico e
dettagliato. Mi sembra di essere davvero lì. E poi fatico a
svegliarmi... Non ho mai avuto incubi così». Mi
tremava la
voce e me la presi con me stessa per non riuscire a controllarla, ma
non ne avevo la forza.
«Renesmee»,
cominciò papà lentamente, mettendomi davanti una
tazza di
latte e una confezione di cereali, «di solito i sogni
rappresentano
paure o desideri. Io credo che questo incubo concretizzi i tuoi timori
che possa accadere qualcosa ad Alex». Strinse le labbra e
tacque per
un istante. Al mio fianco, Bella si mosse nervosamente. «Ma
non
c'è motivo di temere questo».
Sollevai gli
occhi e lo fissai di sotto in su. «Tu dici?».
«Sì»,
rispose, deciso. «Rifletti: quali pericoli potrebbe correre?
Ormai sappiamo controllarci perfettamente, tutti
quanti, tu molto meglio di noi. E i Volturi non sanno della sua
esistenza e non lo sapranno mai».
Ovviamente
conosceva
ogni pensiero che avessi mai formulato al riguardo. «E se
invece lo
scoprissero?», insistei, la voce che tremava sempre di
più.
«Ma
come potrebbero?»,
intervenne la mamma, allontanandosi un po' per guardarmi in viso.
«Sono troppo lontani per...».
«Avete
dimenticato come hanno saputo di me?»,
sbottai.
Papà
scosse il
capo. «È diverso. Tu eri una potenziale infrazione
della
legge. Frequentare gli umani, se si riesce a nascondergli la nostra
vera natura, non è un crimine».
A mia volta
scossi la
testa, ostinata. Gli occhi vitrei di Alex, accasciato senza vita tra le
mie braccia, erano ancora troppo vivi nella mia memoria. «La potenziale
infrazione della legge era solo una scusa,
papà. Non volevano distruggere me,
volevano annientare l'intera famiglia Cullen. E non ci risulta che Aro
abbia cambiato i suoi progetti. Quanto credete che ci
metterà a trovare un'altra scusa e a riprovarci? E se Alex
fosse
coinvolto?», li incalzai, sempre più agitata.
La mamma
sospirò,
incrociando le braccia. «Se ragioniamo così,
allora ogni
essere umano con cui entriamo in contatto sarà sempre in
pericolo mortale, anche Charlie... o Jas...».
«Mamma,
io non sto avendo incubi su Charlie o Jas, ma su di lui!».
«Ma
un sogno non significa niente, Renesmee! Non vuol dire che Alex sia
davvero in pericolo!».
«Non
è solo un sogno!», ripetei, con tono leggermente
isterico.
Lei mi
fissava confusa, senza riuscire a capirmi. No, non capiva. Ed io ero
esasperata. «E cos'è allora?».
«È
una specie
di avvertimento, secondo me. È come se il mio inconscio
volesse
dirmi qualcosa. Alice non riesce a vedere il futuro di Alex, ma questi
sogni vogliono
mettermi in guardia. Io ho sempre saputo che per lui era un rischio
stare con me... forse adesso è davvero in pericolo. Ed io...
non
posso fare finta di nulla».
«Cosa
vuoi fare, allora?», chiese la mamma, piano, la voce carica
di tensione.
Per un attimo la
guardai
in silenzio, senza sapere cosa rispondere. Mi strinsi di nuovo la testa
tra le mani, sospirando. Ero così stanca, come se non avessi
chiuso occhio per tutta la notte, e non riuscivo a pensare con
lucidità.
«Non lo so», sussurrai. «Non lo
so».
Nella cucina scese il silenzio. Ero certa che i miei si stessero
scambiando occhiate preoccupate, ma riuscivo a pensare solo ad Alex. Le
immagini dell'incubo mi scorrevano davanti agli occhi chiusi, sotto le
palpebre, stampate a fuoco nel cervello. Non me ne sarei mai liberata,
lo sapevo.
Cosa dovevo fare?
Che cosa faccio?
«Be',
comunque», disse la mamma all'improvviso, «non
è il caso di pensarci oggi, tesoro. Sarà una
giornata
impegnativa, cerca di concentrarti su quello che devi fare. Per il
resto c'è tempo».
Come? Sollevai gli occhi e la fissai, aggrottando la fronte. Lei mi
sorrideva, incoraggiante, ma chissà perchè quel
sorriso
mi fece venire un nodo allo stomaco.
«Oggi? Che succede oggi?».
Silenzio. Il suo sorriso vacillò. «Ehm... Il
matrimonio»,
rispose, esitante. Poi, vedendo che non reagivo, proseguì.
«Il
matrimonio di Rachel e Paul. Jacob viene a prenderti tra
poco».
Rimasi zitta per un attimo, assimilando l'informazione. Poi il
significato di quello che diceva mi piombò addosso tutto di
un
colpo. Saltai sulla sedia. «Il matrimonio! Merda, il
matrimonio!».
Corsi a razzo fuori dalla cucina, tornai in camera mia e per qualche
confuso secondo non feci che saltellare di qua e di là, nel
panico più totale. Era tardi, dannazione! Tardi, tardi, tardi!
Rischiavo di perdermi il matrimonio? Rachel mi avrebbe uccisa!
Dove avrebbe rimediato un'altra damigella a poche ore dalle nozze?
Ci volle un po', ma poi iniziai a calmarmi, facendo respiri lenti e
profondi. Dovevo mantenere il controllo. Prima cosa da fare: una doccia.
Mi tuffai in bagno e muovendomi più o meno alla
velocità
della luce riuscii a recuperare il tempo perduto. Ogni altro pensiero
era stato immediatamente sostituito dal programma della giornata e
ripetevo di continuo tra me e me la lista delle cose da fare. Il
matrimonio era alle due, ma io dovevo essere a casa Black alle nove e
trenta per aiutare la sposa a prepararsi. Dopo la doccia, tornai come
una furia nella mia stanza e avevo appena iniziato a vestirmi quando
sentii il cellulare vibrare sulla scrivania. Meglio rispondere, poteva
essere Rachel. O Jacob. Allungai il braccio mentre mi infilavo il
reggiseno e
afferrai il telefono.
«Pronto?», esclamai, senza fiato.
«Renesmee? Oddio, finalmente! Sto provando a chiamarti da ben
dieci minuti, sai?».
«Jas?».
«Sì, sono io. Perchè questo tono
sorpreso?».
«Pensavo fosse qualcun altro, scusami».
«E invece è la tua migliore amica. In teoria
avresti dovuto
chiamarmi tu, ieri, ma non l'hai fatto», disse con tono
accusatore.
Sbuffai mentre frugavo tra i vestiti sparpagliati nell'armadio in cerca
di un paio di jeans. «Hai ragione, ma lo sai che ho avuto un
sacco di cose da fare in questi giorni».
«Be', hai l'occasione di farti perdonare, tranquilla.
Devi assolutamente venire a casa mia, ho bisogno di parlarti».
«Adesso?».
«Prima possibile. È urgente». Fece una
breve pausa. «Ho
litigato di nuovo con Tom. Quello stupido se l'è presa
perchè ieri sera non sono andata al cinema con lui, ma avevo
una
cena di famiglia! Tu sai com'è
mia madre e lo sa anche lui! Non sono riuscita ad evitarla, ma Tom non
capisce, non
vuole
capire e avresti dovuto sentire con che tono mi ha
parlato...».
«Senti, Jas, non potremmo discuterne in un altro momento? Ho
un po'
da fare, adesso», sbottai, saltellando su un piede solo per
infilarmi i jeans che avevo finalmente acciuffato sul fondo
dell'armadio.
«Renesmee, lasciati dire che come amica del cuore ultimamente
lasci
molto a desiderare», mi informò con tono secco e
altezzoso.
«Jas, oggi c'è il matrimonio! Non posso venire da
te, mi dispiace!».
«Non potresti saltarlo... ?».
«Sono una delle damigelle! Non credi che qualcuno noterebbe
la mia assenza?».
La sentii sospirare pesantemente. «E io come
faccio?».
«Verrò domani, te lo prometto»,
esclamai, senza fiato per la fretta e l'agitazione. Infilai le scarpe
da ginnastica senza allacciarle e mi raddrizzai, cercando
contemporaneamente
di sistemarmi i capelli in disordine. Poi iniziai a raccogliere tra le
braccia mucchi di oggetti sparsi in giro per lanciarli nella borsa.
Spazzola, piastra
per capelli, phon, due paia di calze, rossetto, profumo...
«Ma io voglio la mia migliore amica, adesso. Ho raccontato
tutto a Gatto, ma non è la stessa cosa»,
protestò, imbronciata.
Jas aveva l'abitudine di intrattenere lunghe conversazioni con il suo
Gatto, un grasso persiano rossiccio fuori di testa quanto la sua
proprietaria e
così chiamato in onore del gatto di Colazione da Tiffany,
uno
dei film preferiti di Jas. Gli confidava tutto, dal numero dei baci
scambiati con Tom durante l'ultimo appuntamento al problema delle
doppie punte.
«Okay, senti, visto che io non posso venire da te, che ne
dici di
venire tu da me?», chiesi, seguendo un pensiero nato in quel
preciso
istante.
«Perchè dovrei venire a casa tua se tu non ci
sei?».
Alzai gli occhi al cielo. «No, vieni al matrimonio! Ti
va?».
Tacque un istante. «Al matrimonio? Ma non conosco per niente
gli
sposi, non sono stata invitata... non voglio imbucarmi, non
è di
classe».
«Tranquilla, Rachel è praticamente una di
famiglia, per me.
Le chiederò se le va bene che tu venga, ma è
scontato che
dirà di sì. Allora?».
Jas rifletteva. «Uhm... Potrei mettermi quel vestito che ho
appena
comprato... E se dici che alla sposa non dispiacerà... Okay,
vengo», esclamò, decisamente più
allegra.
Le spiegai brevemente dove si sarebbe svolto il ricevimento,
perchè era decisa a non venire in chiesa, e disse che
l'avrebbe
accompagnata l'autista di suo padre, che al momento non aveva nulla da
fare; il signor Williams, infatti, era nel giardino di casa a
provare le sue nuove mazze da golf e ci sarebbe rimasto per un bel po'.
Riuscii a salutarla e a chiudere la
telefonata appena un minuto prima che Jacob suonasse il clacson della
sua auto, in strada. Bella piombò in camera mentre con una
certa fatica chiudevo la cerniera della borsa piena da scoppiare.
«È arrivato», annunciò.
«Sì, me ne sono accorta», sbottai. Misi
la borsa in spalla e marciai verso la porta.
«Non stai dimenticando qualcosa?».
Seguii con gli occhi la direzione indicata dal suo dito e vidi il
copriabito bianco, appeso alla porta della cabina armadio, contenente
il
mio abito da damigella. Ops. Non avrei fatto granchè senza
quello.
«Dannazione», protestai a mezza bocca.
Corsi a recuperarlo, ma prima che potessi schizzare fuori la mamma mi
acciuffò per baciarmi sulla guancia. «Ciao, buona
fortuna!», esclamò, allegra.
Nell'ingresso papà mi stava tenendo aperta la porta di casa.
Mentre passavo, mi baciò sulla testa. «Divertiti,
Raggio di
sole. E non pensare a niente».
«Ci proverò», borbottai, non troppo
convinta.
Due secondi dopo saltavo nella Golf rossa di Jacob, un po' trafelata,
ma in perfetto orario. Lui mi guardò e il suo ampio sorriso,
il
sorriso jacobico, come lo chiamava
la mamma, si congelò.
«Che cos'hai?».
«Niente. Ho dormito male, tutto qui».
Aggrottò la fronte. «Di nuovo
quell'incubo?», indagò mentre metteva in moto.
Esitai un attimo, poi annuii. «Sì.
Però... non voglio
parlarne, non adesso. Ci sono cose più urgenti a cui
pensare».
A casa Black, dove giungemmo dieci minuti dopo, la confusione regnava
sovrana. Rachel era in piena crisi isterica perchè il cielo
nuvoloso non prometteva niente di buono e si trovava in compagnia di
uno strano gruppetto tutto al femminile che non poteva esserle di
grande aiuto: Rebecca, che pur con tutta la sua buona
volontà
non sapeva nulla di preparativi per un matrimonio dal momento che il
suo
era stato una vera e propria fuga d'amore, come mi aveva raccontato;
Leah, che ospitava a casa sua Rebecca e Solomon, era lì
soltanto
per riguardo a Jacob e perchè costretta da Seth e si era
portata
dietro il suo solito, immancabile buon umore; Summer, compagna
di università e amica di Rachel, ancora in
preda alla sbornia dell'addio al nubilato della sera prima.
Avevamo organizzato solo una piccola riunione di ragazze
a casa Clearwater, ma Summer era una festaiola scatenata e aveva
trasformato la nostra serata tranquilla in un party a base di fiumi di
alcol. Già da sobria si era dimostrata un tipetto
piuttosto
vivace, ma dopo la bevuta della sera prima era notevolmente peggiorata,
e a giudicare dagli sguardi assassini che le lanciava Leah forse
avrei dovuto preoccuparmi di tenerla al sicuro o saremmo rimasti senza
una damigella.
Rebecca mi accolse con un grosso sospiro di sollievo. Fisicamente era
quasi identica alla sorella, ma a differenza di Rachel portava i
capelli corti, alle spalle, e aveva lineamenti un po' più
spigolosi. Ancora non la conoscevo bene, ma sembrava più
estroversa di Rachel. Mi informò che da oltre mezz'ora era
alle
prese con l'acconciatura della sposa, ma senza grandi risultati,
così iniziai subito ad aiutarla.
Eravamo un po' in ritardo sulla tabella di marcia, ma se ci fossimo
date una mossa potevamo farcela. Eravamo praticamente solo io e
Rebecca ad aiutare la sposa a prepararsi, perchè le altre
due
non erano di alcun aiuto: Leah se ne stava seduta in poltrona con aria
scocciata, limitandosi a passarci la spazzola o il phon di tanto in
tanto, e Summer gironzolava per la stanza ballando, canticchiando e
sorseggiando bicchieri di gin avanzato dalla festa. Rachel era
così agitata e presa
da mille preoccupazioni che quando le comunicai di aver invitato la mia
amica Jas al ricevimento fece di sì con la testa senza
neppure
ascoltarmi.
Nel frattempo sentivamo la porta di casa aprirsi e chiudersi in
continuazione e il telefono squillare ogni cinque minuti. Con noi c'era
solo Jacob, che probabilmente era alle prese con un intenso via vai.
Billy, molto saggiamente, si era defilato fin dalla prima mattina.
Charlie era passato a prenderlo per portarlo a casa sua,
da dove poi sarebbero andati tutti insieme alla cerimonia.
Verso mezzogiorno sentimmo bussare alla porta della stanza e Jacob
infilò dentro la testa. «Ehilà,
ragazze. Come
andiamo?».
«Be'... Rachel ha ancora la testa attaccata al corpo, per cui
direi bene», risposi con una scrollata di spalle. Le altre
ridacchiarono.
«Ottimo», esclamò Jacob,
sorridendo. «Immagino che abbiate fame, vi ho portato
rifornimenti», disse e allungò un vassoio carico
di tramezzini.
«Grazie, fratellino», disse Rachel, seduta davanti
allo specchio.
Summer corse verso di lui e prese il vassoio. «Io sto morendo di fame»,
rispose con un sorriso smagliante. «Grazie mille,
Jacob».
Lui la fissò per un attimo. «Di nulla. A
dopo». Mi
cercò con lo sguardo, mi fece l'occhiolino ed io ricambiai
con
una linguaccia, poi uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Stavo per tornare a concentrarmi sullo smalto di Rachel, quando mi
accorsi che Summer mi fissava, ma prima che potessi intercettare il suo
sguardo si era voltata. Poggiò il vassoio sul
letto, sedette
con eleganza, prese un sandwich e gli diede un morso.
«Allora, Rach», cominciò,
«quanti anni ha esattamente tuo fratello?».
«Ventuno. Ne compie ventidue il prossimo quattordici
gennaio».
Summer fece una risatina maliziosa. «Perfetto. Volevo solo
accertarmi che fosse maggiorenne... Anche se dimostra ben
più di
ventun'anni».
«Come mai tutto questo interesse?», chiese Rebecca,
impegnata a
stendere lo smalto sulle unghie della mano sinistra di sua sorella,
mentre io mi occupavo della destra.
«C'è bisogno di chiederlo? È un figo da
paura!».
Cosa? Sollevai la testa
di scatto e la guardai. Che cavolo stava dicendo? Un
figo da paura? Jacob? Il mio Jacob?
«Sapete se è impegnato in qualche modo? Si vede
con
qualcuna?», proseguì Summer, ostentando la massima
disinvoltura.
«E perchè la cosa dovrebbe
interessarti?», sbottai.
Solo un attimo dopo mi resi conto di averlo detto davvero. Ma era
troppo tardi. Lei mi fissò con aria divertita.
«Hai ragione,
piccola. Tanto non fa differenza, giusto?», e
scoppiò a ridere.
Dio, la sua risata era insopportabile! Non ci avevo fatto caso, prima.
Distolsi lo sguardo da lei, infastidita, e mi accorsi che le altre mi
stavano osservando: Rebecca con aria perplessa, Rachel sembrava
interessata e Leah... aveva uno strano sorrisino sardonico sulle
labbra. Sentii le guance scaldarsi immediatamente.
«Attenta, Renesmee», disse Rebecca.
Abbassai gli
occhi e vidi che tenevo
sospeso in aria il pennellino
dello smalto e il colore stava per sgocciolare sul pavimento.
«Accidenti!», sbottai e subito infilai il
pennellino nella
boccetta. Appena in tempo.
Dopo pranzo tutto cominciò a succedere molto in fretta. Leah
ci
lasciò per andare a vestirsi a casa sua e restammo in
quattro,
anche se Summer non contava, non essendo di alcuna utilità.
Sistemati i capelli e il trucco di Rachel, la aiutammo ad entrare nel
vestito da sposa, ad infilarsi le scarpe e la giarrettiera azzurro
chiaro per il lancio tradizionale, poi la lasciammo impalata al centro
della stanza e andammo a vestirci.
Io, Rebecca
e Summer avremmo
indossato abiti dello stesso colore,
grigio argento, ma dal taglio diverso. Il mio era corto, a vita alta,
con sandali in tinta. Stirai un po' i capelli con la piastra per
rendere i boccoli più morbidi e poi li legai dietro la testa
in
una semplice mezza coda. Non ebbi il tempo di osservarmi con
attenzione, ma quando Rachel si mise davanti allo specchio a figura
intera per controllare come Rebecca le appuntava il velo mentre io le
stavo
accanto reggendo la montagna di tulle bianco dello strascico, potei
studiare a lungo il mio riflesso e ne rimasi stupita. Mi
sembrò
di cogliere dei cambiamenti: il mio corpo era più sottile in
alcuni punti e più morbido in altri, dove erano apparse
delle
curve che ricordavo appena accennate all'inizio dell'estate e che ora
sembravano ben più evidenti. I fianchi disegnavano due archi
armoniosi, le gambe erano slanciate, molto più di quanto mi
sembrasse sull'Isola Esme, il viso era leggermente dimagrito e gli
zigomi sporgevano un po' di più. Soltanto gli occhi erano
sempre gli stessi, troppo grandi per i miei gusti, come quando ero
bambina.
Chissà perchè quei cambiamenti mi colpivano tutto
a un
tratto? Forse perchè non erano stati rapidi come in passato,
ma
molto più graduali, e guardandomi ogni giorno allo specchio
non
li avevo colti.
Ma non ebbi
molto tempo per
pensarci. Appena il velo fu assicurato in cima all'acconciatura di
Rachel, udimmo bussare alla porta di casa.
«Sono
già
arrivati!», squittì Rachel, un'espressione di
autentico
terrore sul bel viso delicatamente truccato.
«Vado
a controllare», dissi.
Lasciai la
stanza matrimoniale e
avevo fatto solo qualche passo nel corridoio quando dall'ingresso
spuntò Jacob. Indossava già il suo smoking e
sembrava si
fosse tirato a lucido dalla testa ai piedi. Era
così
diverso dal solito Jacob che restai a bocca aperta. Lui
incrociò
il mio sguardo e mi sorrise, un sorriso ampio, caldo, bellissimo. Poi
abbassò gli occhi sul mio abito, o almeno così mi
parve,
e lentamente assunse un'aria molto seria.
«Renesmee»,
disse dopo un attimo
di silenzio, «sei... fantastica». Mi
guardò di nuovo dritto
negli occhi e inspiegabilmente mi sembrò di vacillare, come
se avessi le vertigini o qualcuno mi avesse fatto uno sgambetto.
«Anche
tu», balbettai. «Cioè, voglio dire...
sei davvero... elegante».
Non smetteva
di fissarmi con quella
strana espressione grave e intensa ed io mi sentivo sempre
più a
disagio. Provavo la fortissima tentazione di correre a nascondermi da
qualche parte e sottrarmi ai suoi occhi scuri. Jacob venne lentamente
verso di me, mi prese per mano ed io sentii un tuffo al cuore. Mi fece
girare piano su me stessa, come su una pista da ballo, per
osservarmi da ogni angolazione, poi sorrise, anche se la
gravità
non era sparita dal suo sguardo. Accennai appena un piccolo sorriso,
ancora imbarazzata, e in quel momento si udì un click. Ci voltammo:
Seth, fotografo ufficiale del matrimonio, era apparso sulla
porta e aveva scattato una foto.
«E
con questa si comincia», esclamò, allegro.
«Siete pronti? Dov'è la sposa?».
Puntando il
pollice dietro di me
indicai la stanza di Billy e lui entrò, probabilmente per
immortalare Rachel prima che uscissimo di casa. Rimasti soli, io e Jake
ci fissammo in silenzio per un istante.
«Charlie,
Sue e Billy sono arrivati», disse all'improvviso.
«Oh,
bene. Vado a salutarli», mormorai.
Lasciai il
corridoio, che a un tratto
mi sembrava più stretto del solito, uscii sulla soglia di
casa e
vidi Jared, che avrebbe fatto da autista, spingere la sedia a rotelle
di
Billy verso casa insieme a Sue. Charlie era proprio dietro di loro.
«Ciao!».
«Ehi,
Nessie!»,
esclamò Billy. «Stai benissimo, tesoro».
Sembrava
soddisfatto, chissà perchè.
«Grazie»,
bofonchiai, tenendo gli occhi ben fissi a terra.
Sue mi venne incontro e mi strinse in un breve, affettuoso abbraccio.
«Questo vestito è incantevole, Renesmee. Ti sta
una
favola».
Alle sue spalle, Charlie mi guardava stravolto. «Chi sei tu e
che ne hai fatto della mia bambina?», sbottò.
Sorrisi. «Tranquillo, è sempre qui. È
solo vestita
meglio del solito. Anche tu non sei niente male, sai?»,
dissi,
scoccando un'occhiata maliziosa al suo bel completo grigio scuro che
faceva pandant con l'abito di sua
moglie.
Le sue guance si colorarono un po'. Ecco perchè ero
così incapace di accettare i complimenti con nonchalance: DNA Swan.
«Ti ringrazio, tesoro, ma... sono solo una vecchia e
sgangherata poltrona con una tappezzeria nuova».
Quel paragone mi fece ridere. «E allora? Le vecchie poltrone
sono le più comode, lo sanno tutti».
Lui alzò le spalle. «Comunque è stata
Sue a
sceglierlo», precisò, mentre si stirava con la
mano il bavero
della giacca in un gesto imbarazzato, riuscendo soltanto a
stropicciarlo ancora di più.
«Nessie! Ehi, Nessie!», chiamò Seth da
dentro casa.
«Vieni qui! È inutile che cerchi di nasconderti,
sei una
damigella e non puoi sfuggire al fotografo!».
Alzai gli occhi al cielo. «Devo andare».
«Sì, anch'io. È quasi ora»,
rispose Charlie
controllando il suo orologio da polso. Sue sarebbe venuta in chiesa con
noi e avrebbe aiutato Billy ad accompagnare Rachel all'altare spingendo
la sua sedia a rotelle. Il nonno si chinò per baciarmi sulla
guancia
e fece un passo verso la macchina, ma poi ci
ripensò e
tornò indietro, osservandomi accigliato. «Questo
vestito
è troppo corto. E troppo scollato»,
brontolò. «Non
sarebbe meglio coprirlo con un cappotto o qualcosa del
genere?».
«Non credo che Rachel ne sarebbe molto felice»,
risposi,
trattenendo a stento una risata. La faccia di Charlie era impagabile.
«Uhm, tu dici? Sì, forse hai ragione,
però... Insomma, potresti prendere freddo e...».
«Renesmee Carlie Cullen! Vieni subito qui!»,
gridò ancora Seth e stavolta senza traccia di ironia.
«A dopo», bisbigliò Charlie e corse alla
macchina.
Seth aveva preso molto sul serio il suo incarico, come appurai
più tardi. Troppo sul serio. Ci costrinse a posare per una
quantità spropositata di fotografie e l'unica entusiasta
della
cosa era Summer, che cercava sempre di mettersi davanti e accanto a
Jacob, tra sciocche risatine e ammiccamenti. Capivo che fosse un
po' sbronza, ma iniziava a stufarmi. A un certo punto perfino Rachel
non ne poteva più e quando Jake dichiarò che era
il
momento di andare, perchè dieci minuti di ritardo potevano
anche
essere eleganti, ma quaranta diventavano insostenibili, ci
seguì
e continuò a scattare foto anche mentre aiutavamo la sposa a
salire sull'auto guidata da Jared. Jacob salì accanto a lui,
mentre io, Summer e Rebecca ci stringevamo sui sedili posteriori.
Nell'auto di Sue, che ci avrebbe seguiti, montarono Seth e Billy e
finalmente partimmo.
Il tragitto verso la piccola chiesa di La Push durava solo una decina
di minuti e ben presto apparvero le prime auto parcheggiate ai
lati della strada. Non erano molte, ma sapevo che la maggior parte
degli invitati aveva raggiunto la chiesa a piedi. Iniziai a sentirmi un
po' agitata.
Chissà quanta gente c'era lì dentro... La
famiglia di
Jake era molto conosciuta e stimata a La Push... La chiesa doveva
essere
piena zeppa. L'unica più tesa di me era Rachel, che aveva
gli
occhi sbarrati come se si stesse dirigendo al patibolo e non all'altare.
«Oh, accidenti!», protestò mentre
scendeva dalla macchina,
trattenendo con una mano il velo gonfiato e scompigliato dal vento.
«Datemi una
sistemata prima di entrare o sembrerò una strega appena
scesa
dalla scopa!».
Seth rise così forte che dovette smettere di scattare foto
per
qualche secondo. Io e Rebecca giravamo intorno a Rachel per rassettare
il vestito e il velo e nel frattempo Summer se ne stava appoggiata alla
macchina in una posa sensuale e lanciava sguardi languidi all'indirizzo
di Jacob.
«Lo smoking ti sta una favola, sai?», disse,
sbattendo le ciglia senza dubbio ben più del necessario.
Lui rimase impassibile. «Ti ringrazio», rispose
senza guardarla.
«Okay, possiamo andare. Siamo pronte», intervenne
Rebecca.
Ci avviammo all'ingresso della chiesa.
«Nessie, tutto bene? Cos'è quella faccia? Non
vorrai
rovinarmi le foto», brontolò Seth osservandomi di
sbieco.
«Tutto bene», tagliai corto.
Sentivo i muscoli facciali irriggiditi e cercai di distenderli in un
sorriso smagliante, ma a giudicare dalla faccia di Seth, che scuoteva
la testa con aria preoccupata, senza grandi risultati. Tutta colpa di
Summer e dei suoi commenti fuori luogo. Mi dava sui nervi il modo in
cui si disinteressava completamente di Rachel e del matrimonio
perchè troppo impegnata a fare gli occhi dolci a Jake.
Soltanto
una persona buona e gentile come Rachel avrebbe potuto sopportare quel
comportamento senza dare di matto.
Entrammo nella piccola anticamera della chiesa dove trovammo ad
accoglierci la moglie del pastore, la signora Young,
che si occupava di gestire gli aspetti pratici della cerimonia e subito
iniziò a parlare con Rachel. Tutto ciò che ci
separava
dagli invitati era una grande porta bianca a due battenti, chiusa, con
due composizioni di fiori ai lati. Si udiva un certo brusio e qualcuno
che strimpellava al pianoforte per riscaldarsi le dita. Io sarei stata
la prima ad entrare e guardando quella porta chiusa davanti a me ebbi
la sensazione che potesse cadermi addosso da un momento all'altro.
Jacob, Seth e Jared ci lasciarono per andare ad occupare i loro posti
all'interno, poi, a un segno della signora Young, il musicista
iniziò a suonare una musica lenta e dolce che non conoscevo.
«Sorridete!», suggerì la signora Young, poi
spalancò la porta e si allontanò di un passo.
Davanti a me comparve la sala della cerimonia, decorata da composizioni
di fiori bianchi e strapiena di gente. Sembrava che tutta La Push fosse
stipata lì dentro. Un mare di teste si voltò
verso di noi
per vedere meglio. Strinsi con più
forza il mio bouchet come se fosse stato un appiglio e presi un bel
respiro profondo. Quando riconobbi
la mia battuta d'entrata, feci un passo avanti, un gesto semplicissimo
che mi costò un certo sforzo, e iniziai a camminare
lentamente
sulla passerella tra gli invitati.
Tenevo gli occhi bassi, un po' inquieta all'idea di guardarmi in giro e
scorgere un migliaio di persone che mi fissavano, attenta a non andare
nè troppo piano nè troppo veloce e a mantenere
l'equilibrio sui tacchi. Solo di tanto in tanto azzardavo un'occhiata
davanti a me, così rapida che tutto sembrava un alone
confuso di
facce, luce e colori. Gli ultimi metri furono i più facili
da
percorrere e quando raggiunsi il pastore, Paul e Sam, il testimone
dello sposo, tirai un piccolo sospiro di sollievo.
Presi posto e mi voltai appena in tempo per vedere Summer che si
avviava lungo la passatoia, incespicando un po'. Tutti trattennero
rumorosamente il fiato, qualcuno ridacchiò, ma grazie al
cielo
Summer si riprese subito e proseguì con la disinvoltura di
una
stella del cinema.
«Mi sa che non era il giorno adatto per
sbronzarsi», le bisbigliai sotto voce, seccata, appena mi
ebbe raggiunta.
Lei fece spallucce, perfettamente tranquilla. Cercò Jacob
tra
quelli seduti in prima fila e gli sorrise, ammiccando. Lui non se ne
accorse, o almeno così mi parve.
Era il turno di Rebecca, bellissima nel suo abito lungo e senza
spalline, e constatai con stupore che era imbarazzata quasi quanto me.
Raggiunse l'altare e mi rivolse un gran sorriso mentre prendeva
posizione accanto a Summer. La musica si interruppe e ci fu qualche
secondo di silenzio. Poi cominciò la tradizionale marcia
nuziale, tutti si alzarono in piedi, rivolti verso la porta, e Rachel
fece il suo ingresso trionfale. Avanzava con passo sicuro, saldamente
ancorata al braccio di suo padre.
Billy aveva gli occhi lucidi e Sue, alle loro spalle, minacciava di
imitarlo da un momento all'altro. Ammirai incantata la bellezza
della sposa, che sembrava splendere di luce propria. Tutta l'agitazione
era sparita dal suo volto e guardava Paul dritto negli occhi,
così tranquilla, felice e sicura da lasciare senza fiato.
Per un
attimo mi sembrò sbagliato osservarla, come se stessi
spiando un
momento privato.
Lasciai vagare lo sguardo sugli invitati, per distrarmi. Charlie mi
guardava commosso dalla seconda fila, Seth immortalava ogni passo della
sposa, al suo fianco Leah aveva l'espressione più dolce e
serena
che le avessi mai visto, Emily ricambiò il mio sguardo e
accennò un saluto da lontano. Poi vidi Jacob e mi accorsi,
sopresa, che in quel momento cruciale, mentre Rachel prendeva la mano
di Paul ed entrambi si giravano verso l'altare, non stava guardando sua
sorella. Guardava me, con un sorriso tenue sulle labbra. D'istinto gli
sorrisi anch'io. Era incredibilmente affascinante, quel giorno. Be',
Jake era sempre stato un bel ragazzo, ma adesso c'era qualcosa di
speciale, in lui, qualcosa di diverso. Forse era lo smoking, o
l'occasione particolare, o il fatto che si fosse dato finalmente una
sistemata... Di solito non badava mai a quello che si metteva
addosso...
«Dio, Rebecca, tuo fratello è uno
schianto»,
sussurrò Summer a voce bassa, perchè solo noi due
potessimo udirla.
Rebecca sbuffò. «Senti, potresti cercare di
contenerti almeno in questo momento, per
favore?
Grazie»,
sibilò, sforzandosi a sua volta di non alzare la voce.
Lanciai a Summer un'occhiata assassina, sebbene lei facesse finta di
nulla, e provai la fortissima tentazione di saltarle addosso e
picchiarla ripetutamente sulla testa con il mio bouchet fino a farle
chiudere quella boccaccia. La cosa mi stupì. Non ero mai
stata
una persona violenta, proprio no. Ma quella lì non la
sopportavo, lei e i suoi apprezzamenti su Jacob, il
mio
Jacob!
Ma
come si permette?, sbottai
tra me e me, furibonda, mentre le ultime note della marcia nuziale si
dissolvevano nell'aria e il pastore dava inizio alla cerimonia.
In quel preciso istante, davanti a un centinaio di persone e nel bel
mezzo di un matrimonio, eccola lì. Una consapevolezza
sconvolgente che mi investì con la violenza di un treno
lanciato
a tutta velocità. Mi lasciò a bocca aperta.
Ero gelosa. Ero gelosa di Jacob Black.
Note.
1. Qui
la canzone.
Spazio autrice.
Eccomi qui! Innanzitutto vi chiedo scusa per il lieve slittamento della
pubblicazione! Purtroppo ieri ho avuto qualche problema tecnico con Efp
e poichè ero anche molto stanca a causa dello studio non
sono riuscita a risolvere la cosa... A un certo punto mi sono arresa e
ho pensato Va be', se
ne parla domani. Ho scritto un post al riguardo su
Facebook, spero che lo abbiate visto e non vi siate preoccupate xd.
Allora, la storia va avanti. Un passo alla volta si sta costruendo un
nuovo scenario che vi apparirà pienamente comprensibile tra
qualche altro capitolo. Ma sono sicura che abbiate già i
vostri sospetti xd. Fatemi sapere quali sono!
Spero che il matrimonio di Rachel vi sia piaciuto ^^. Forse ricorderete
che se ne parla per la prima volta nel capitolo sei di Midnight star, e
devo dire che ero impaziente di pubblicare questo capitolo. Per quanto
riguarda la cerimonia, ho deciso di ambientarla in una chiesa dopo
essermi documentata un po' su Wikipedia. Ho scoperto che la maggior
parte dei nativi d'America fanno parte della Chiesa nativa americana,
che unisce elementi del cristianesimo con elementi propri della
spiritualità dei nativi. Quindi immagino una cerimonia un
po' "esotica", magari, rispetto a quelle cristiane tradizionali, ma una
chiesa mi sembrava comunque il posto migliore dove ambientarla. Vi
assicuro che è un aspetto sul quale ho riflettuto
tantissimo, perchè ero molto incerta xd.
Spero anche che abbiate apprezzato il riferimento a Colazione da Tiffany!
È uno dei miei film preferiti e non so come mai ma ho sempre
immaginato la mia Jas come una grande fan di questo film, della
splendida Audrey, dell'età d'oro di Hollywood... Ce la vedo,
e voi?
Infine, qualche parola su Collide
di Howie Day <3. Amo moltissimo questa canzone, soprattutto
perchè viene considerata un po' la canzone "ufficiale" di
una coppia appartenente ad un altro fandom, una coppia che io adoro.
Dedicare questa canzone a Renesmee e a Jacob e a questo capitolo in
particolare ha un significato molto profondo per me. Spero che
approviate la mia scelta.
Okay, è tutto! Grazie di aver letto fin qui e mi raccomando,
vorrei conoscere i vostri pareri. Al prossimo capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Open arms ***
C 6
i
Capitolo
6
Open arms
Whatever
happened to truth?
Lost without a trace
Whatever happened to the mirror?
That showed me a happy face
Whatever happened to sorry?
You know it's never too late
Whatever happened to good things coming?
Coming to those who wait
Whatevere happened to this city?
It's not like it used to be
Whatever happened to you?
Whatever happened to me?
Open arms,
Gary Go¹
La fissava come...
come un cieco che vede il sole per la prima volta.
Stephenie Meyer, Breaking
dawn
Il
ricevimento di nozze si svolse in una zona isolata e tranquilla sulle
scogliere di La Push, un promontorio di nome Cape Greenwood. Rachel e
Paul avevano scoperto quel posto per caso, durante una passeggiata, e
se ne erano innamorati. Organizzare una grande festa in mezzo al nulla
non era una cosa da poco, ma Rachel aveva potuto contare sull'aiuto del
suo datore di lavoro a Seattle, nonchè suo buon amico, che
gestiva
un servizio di catering e
si era incaricato di occuparsi del ricevimento a un prezzo accessibile.
La festa si svolgeva all'interno di una grande tenda che da un lato
fiancheggiava la rigorosa foresta della riserva, dall'altro affacciava
sulla strada panoramica che da La Push si snodava lungo la costa.
Fortunatamente il tempo era abbastanza mite da consentire agli ospiti
di uscire a passeggiare lungo la costa, godendosi la meravigliosa vista
sull'oceano.
I due novelli sposi giravano tra gli invitati tenendosi per mano,
ridendo e scherzando, diffondendo un'aura di felicità ed
entusiasmo dappertutto. La loro allegria era contagiosa.
«È stato davvero un bel matrimonio. Rachel e Paul
saranno
molto felici», commentò Kim, fidanzata ufficiale
di Jared e
oggetto del suo imprinting. Si tenevano abbracciati e lei si
voltò a guardarlo con la chiara espressione di chi si
aspetta
qualcosa del genere anche per se stessa molto presto. Sapevo che
avevano stabilito di sposarsi da
tempo, ma continuavano a rimandare per motivi economici. E comunque si
consideravano già marito e moglie a tutti gli effetti dal
momento che convivevano da tre anni. Il matrimonio sarebbe stata una
pura formalità. Jared rispose allo sguardo della sua Kim
scoccandole un bacio sulla fronte.
«Voi due sarete i prossimi, ci scommetto»,
esclamò
Quil. «Mi sa che è il caso di conservare i vestiti
eleganti,
ragazzi, ci serviranno molto presto».
Il nostro gruppetto ridacchiò. Eravamo fermi sul bordo della
pista da ballo e seguivamo con gli occhi gli sposi impegnati in un
romantico lento.
«I prossimi, e decisamente non gli ultimi»,
aggiunse Embry mentre
ancora rideva. «A chi toccherà dopo Jared e Kim?
Si accettano
scommesse!».
«Io azzardo una previsione e dico che Quil sarà proprio
l'ultimo», fece Jared, lanciando un'occhiata divertita
all'amico. Quil rispose con un'altra risatina e una spinta.
«Secondo me Jacob potrebbe battervi tutti se quella Summer
continua ad impegnarsi con tanta determinazione», aggiunse
Embry.
Gli altri risero di nuovo, io no. Accennai un sorriso stentato.
«Ah-ah, che divertimento», borbottai.
Guardai Jacob, che era accanto a me, sbirciando la sua reazione. Rideva
insieme agli altri, spensierato. Sembrava che quell'allusione non gli
avesse fatto nè caldo nè freddo. Mi
circondò la
vita con un braccio, un gesto spontaneo e inconsapevole, attirandomi
verso di sè. I nostri corpi si sfiorarano e avvertii
immediatamente un brivido corrermi lungo la schiena. Turbata, mi
ritrassi di qualche centimentro, allontanandomi quel poco che bastava a
tranquillizzarmi.
«No, non sono d'accordo. Sarà Leah a batterci
tutti»,
esclamò Jared, e qua e là scoppiò
qualche risatina sommessa e a stento trattenuta.
L'interpellata gli rivolse uno sguardo di ghiaccio.
«Idiota»,
disse, tranquilla e senza alcuna inflessione, come se stesse
semplicemente constatando un dato di
fatto. Girò i tacchi e si allontanò, dirigendosi
verso
Charlie e Sue.
Mentre camminava la seguii con lo sguardo. Mi dispiaceva un po' per
lei. Dopo i fatti della scorsa primavera il nostro rapporto era
tornato freddo ed educato come sempre. Probabilmente non saremmo mai
diventate amiche: eravamo troppo diverse ed erano accadute troppe cose,
fra noi, per fingere che andasse tutto bene. Però mi
sembrava di
capirla meglio, adesso. Immaginavo che per lei dovesse essere dura
assistere al trionfo dell'imprinting, il fenomeno che aveva sconvolto
la
sua vita.
«Jared», disse Jacob in tono di rimprovero,
guardandolo male.
Prendeva le difese di Leah, come sempre in quelle situazioni. Anche il
loro rapporto non sembrava cambiato dopo quello che era successo a
marzo. Sapevo grazie a mio padre che quando Leah mi aveva spiattellato
tutto, lei e Jake erano stati praticamente a ferro e fuoco per una
settimana: lui era deciso a staccarle la testa non appena ne avesse
avuto l'occasione, Leah aveva seriamente valutato la
possibilità
di lasciare il branco come unico rimendio a ciò che aveva
fatto.
Ma negli ultimi anni il loro legame era diventato sempre più
stretto e Jacob sapeva, come il resto del
branco, che il gesto di
Leah non era stato dettato dalla cattiveria o dalla semplice
volontà di farmi del male. Era solo il frutto di un
malessere
che affondava le proprie radici in un profondo dolore. Jacob non
avrebbe mai potuto ignorare quello che leggeva nella sua mente ogni
volta che erano in forma di lupo. Aveva capito. E così,
seppure
con qualche difficoltà, erano tornati ad essere la strana
coppia di un tempo.
«Potevi risparmiartela, questa», aggiunse Emily,
seccata.
Jared alzò gli occhi al cielo. «Oh, andiamo! Era
una battuta.
Quella ragazza non ha il senso dell'umorismo, l'ho sempre detto,
io».
«Forse, ma non penso che le occorra il senso dell'umorismo
per
darti una lezione», rispose Jake con un'occhiata eloquente.
Jared fece una smorfia, ma non aggiunse altro. Gli sposi si stavano
avvicinando al nostro gruppetto, probabilmente per salutare e
ringraziare, purtroppo accompagnati da Summer.
«Renesmee!», esclamò Rachel. Mi
abbracciò con
slancio carico di affetto e felicità. «Ti stavo
cercando, volevo ringraziarti per tutto quello
che hai fatto in questi giorni. Sei stata fantastica».
Felice, ricambiai la stretta solo con un braccio
perchè con l'altro ero ancora agganciata a Jacob.
«Non devi
ringraziarmi. È stato divertente, sai? E comunque non ho
fatto
chissà cosa...».
Lei scosse la testa. «Sei stata di grande aiuto, invece. Ti
ricordi
quando il catering aveva confuso le ordinazioni? E quando non riuscivo
a scegliere il bouchet?
Ti devo un milione di favori. La festa sta andando bene? Vi
divertite?», chiese, rivolgendosi anche agli altri.
«È
tutto perfetto», la rassicurò Emily, sorridendo.
«E
questo posto è così suggestivo...».
Nel frattempo mi accorsi che Summer si era strategicamente spostata in
zona Jacob e adesso era al suo fianco, dal lato opposto rispetto a me.
«Allora, Jacob», iniziò con voce
suadente, guardandolo
dritto negli occhi, «tu vivi a La Push, giusto? Non ti sposti
mai?
Per esempio, hai mai fatto un giro a Seattle?».
«Sono stato in città, qualche volta, ma se non
è necessario non mi sposto mai dalla riserva».
«Capisco. Be', sai che noia! Ogni tanto ti ci
vorrà un po' di svago».
«Veramente ho parecchio da fare, qui».
«Rachel mi ha detto che lavori con le auto».
«Giusto».
«Che cosa affascinante! Io adoro le macchine, i motori e
tutto il
resto, ma non sono certo un'esperta. Mi piace un sacco la tua Golf,
sai?».
«Sì, non è male».
Breve pausa.
«La prossima volta che vieni a Seattle devi promettermi di
dare
un'occhiata alla mia macchina. Credo che abbia qualche problema,
ultimamente. E dopo potremmo fare un giro insieme... Ti mostro la
città, che ne pensi?».
«Certo, certo».
Altra breve pausa, poi Summer tornò alla carica.
«Ehi, ti andrebbe di ballare?».
«Scusate», sbottai all'improvviso prima che Jacob
potesse
rispondere. «Vado un attimo a... prendere da bere»,
aggiunsi, sebbene non avessi davvero sete; avevo sparato la prima cosa
che mi era venuta in mente.
«Vuoi che ti accompagni?», chiese lui,
trattenendomi per il
braccio. Aveva un'espressione seria e tranquilla, così
serafica
da mandarmi in bestia. Ma non si rendeva conto di quello che stava
facendo Summer? Perchè non la mandava al diavolo invece di
chiacchierare educatamente con lei?
«No, grazie».
Liberai il braccio con un gesto delicato ma deciso e marciai spedita
verso il buffet senza voltarmi
indietro. Mi versai un bicchiere di punch color rosa chiaro e lo
sorseggiai lentamente, osservando le coppie di ballerini sulla pista.
Claire e il piccolo Levi Uley saltellavano insieme, lei sforzandosi di
seguire il ritmo e di imitare i grandi, lui sgambettando di qua e di
là. Erano così carini che riuscirono a strapparmi
un
sorriso. Poco più in là, Charlie e Sue ballavano
lentamente, stretti l'uno all'altra. Il nonno aveva l'aria di chi si
sente un idiota, ma poi ridacchiò per qualcosa che sua
moglie
gli aveva bisbigliato. Si scambiarono un piccolo bacio a fior di
labbra, sereni, felici e perfetti. Che bella coppia. Poi lo sguardo mi
cadde sul gruppo di licantropi che avevo appena lasciato, dall'altra
parte della pista, e il mio sorriso si dileguò all'istante:
Summer era ancora lì, vicino a Jacob, e sembrava che
insistesse
per invitarlo a ballare. Fatica sprecata. Jake non ballava mai.
Click!
Mi girai di botto sentendo lo scatto di una macchina fotografica: Seth
mi si era avvicinato di soppiatto per immortalarmi e adesso esaminava
sul display la foto che aveva appena scattato.
«Uhm... Questa la intitolerei Damigella infuriata»,
disse.
«Non sono infuriata».
Lui fece un piccolo sorriso. «Cos'è che ti
infastidisce
tanto?». Seguì la direzione del mio sguardo e la
sua
espressione divenne consapevole. «Ah»,
mormorò. Tacque per
un istante. «Be', quella Summer sta dando sui nervi un po' a
tutti,
oggi. Leah dice che se sente la sua risata da oca un'altra volta
troverà il modo di tapparle la bocca per sempre».
«Summer non c'entra niente», protestai, stizzita.
Seth mi lanciò una rapida occhiata di sotto in su, poi
riprese
ad armeggiare con la macchina fotografica, le sopracciglia lievemente
inarcate. «Okay».
Il suo tono condiscendente mi irritò ancora di
più. «È
vero, Seth! Sono preoccupata perchè... la mia amica Jas
dovrebbe già essere qui e invece non è ancora
arrivata».
«Vedrai che arriverà».
Ero certa che non mi credesse, ma non potevo farci nulla. Non mi andava
di provare a fargli cambiare idea. Poteva pensare quello che preferiva.
«Ma come fa Rachel ad essere amica di quella
lì?», sbottai di colpo dopo un breve silenzio.
«Inspiegabile», commentò Seth, uno
strano sorrisino sulle labbra.
«E come fa Jacob a sopportare di parlare con lei? Io l'avrei
già strozzata».
L'espressione di Seth era sempre più divertita, ma ero
troppo
arrabbiata per sentirmi in imbarazzo. «Renesmee, io credo che
Jake
non la vedo nemmeno», rispose, tranquillo.
Sbuffai. «Come sarebbe a dire? Ha problemi di
vista?».
«No, ma non la vede. Dammi retta».
Lo guardai, perplessa. Mi stava fissando con un'aria significativa che
mi stupì. Sembrava che cercasse di farmi capire qualcosa in
silenzio, solo con gli occhi, qualcosa che forse avrei già
dovuto sapere.
«Posso darti un consiglio da amico? Non rovinarti la
festa per questa cretinata e vieni a ballare con me».
Si infilò in tasca la macchina fotografica, mi tolse il
bicchiere di mano e mi tirò in pista.
Ballare mi piaceva e con Seth mi sentivo perfettamente a mio agio.
Ballammo insieme un
paio di canzoni veloci, poi, poco prima che la seconda terminasse,
notai a bordo pista Jas e Jacob intenti a chiacchierare.
«Ehi, Jas è arrivata», esclamai.
Seth guardò in quella direzione. «Vuoi andare da
lei?».
«Ti dispiace? Vorrei sapere come sta, quando l'ho sentita
stamattina era piuttosto agitata. Dobbiamo parlare di una cosa
seria».
«Certo, vai pure. Credo che inviterò Rach, non ho
ancora ballato con la sposa».
Gli baciai velocemente la guancia. «Grazie per i balli. A
dopo».
Sgusciando tra le coppie danzanti raggiunsi i miei due amici, al
margine della pista da ballo, proprio mentre entrambi scoppiavano a
ridere per chissà quale motivo.
«Jas, finalmente!».
Lei si girò verso di me con un gran sorriso.
«Renesmee, ciao!
Cavoli, sei stupenda!». Si sporse per abbracciarmi, ma si
tirò indietro quasi subito. «Oh, scusa, scusa!
Stavo per
rovinarti i capelli!».
«Stai benissimo anche tu», dissi, ammirando il suo
abito di un intenso rosa carico, corto e aderente, che le fasciava il
corpo minuto e ben fatto senza essere volgare. «Adoro il tuo
vestito».
Scrollò le spalle. «Questo? È
una cosina da nulla. Scusa il ritardo, ma il navigatore satellitare ha
fatto confusione e l'autista di mio padre si è perso un paio
di
volte. Questo posto è fantastico, ma un tantino
sperduto».
Guardò Jacob e ammiccò, disinvolta.
Io gli lanciai uno sguardo freddo. «Che ci fai
qui?», chiesi a denti stretti.
Lui parve sorpreso. «Non dovrei esserci? Sono venuto a
salutare Jas».
«Credevo fossi impegnato».
«Impegnato a fare cosa?».
«Non saprei. A ballare, magari».
Jacob accennò un sorriso, come se qualcosa lo
divertisse. «Lo sai che io non ballo facilmente».
«Jas, hai fame?», esclamai, troncando di colpo la
conversazione e smettendo di guardarlo.
La mia amica ci stava osservando con aria confusa, ma non fece
commenti. «Sì, vorrei proprio mangiare qualcosa.
Ma prima
presentami agli sposi, per favore. Non sopporto di fare
l'imbucata».
«Sì, certo. Vieni con noi?», chiesi a
Jacob, sforzandomi di
addolcire il tono. Mi sentivo in colpa per come ero stata acida, prima.
Dopo tutto, non era colpa sua se quella stupida vacca gli si strusciava
addosso. E poi, ero incapace di arrabbiarmi davvero con lui.
Jacob sorrise. «Meglio di no, vi lascio tranquille. Ci
vediamo dopo».
Mi strinse un attimo la mano, un muto segnale di riappacificazione, e
si allontanò. Presentai Jas a Rachel e Paul, e lei si
congratulò e li ringraziò per averla lasciata
venire, poi
andammo al buffet, dove si riempì un piatto di tartine.
Trovammo
un tavolo vuoto e appartato, lontano dalla pista da ballo, e ci sedemmo
per dedicarci a un quarto d'ora di confidenze.
«È
tutto a posto?», indagai, un po' preoccupata, mentre la
guardavo
buttare giù tartine al salmone e caviale come se fosse stato
l'ultimo pasto della sua vita.
«Sì... Più o meno.
Perchè?», fece lei, masticando, le parole appena
comprensibili.
Alzai le spalle, titubante. «Niente, è solo che...
quando mangi così in genere c'è qualcosa che non
va»,
mormorai cautamente.
Subito scattò sulla difensiva. «Mi stai dicendo
che sono grassa, per caso?», sibilò con aria
indignata.
«Ma certo che no! Che cavolo c'entra, scusa?».
Jas sbuffò sonoramente e mise in bocca una tartina ai
gamberetti. «Oggi mia madre mi ha fatto una predica di
mezz'ora
perchè sostiene che dovrei perdere due chili. Forse ha
ragione,
ma... diamine, la fa sempre tanto lunga! Mi ha stressato, e lo sai
che quando sono stressata non faccio che mangiare».
Accidenti alla signora Williams e alle sue stupide idee.
«Be',
tua
madre si sbaglia. Non hai bisogno di perdere neanche mezzo chilo, stai
benissimo così». Jas inarcò le
sopracciglia,
dubbiosa. «Lo sai che se fosse vero te lo direi»,
aggiunsi
con un sospiro.
Fece un debole sorriso che si spense rapidamente. «Lo
so».
Abbassò lo sguardo, all'improvviso seria e pensierosa.
«Lei... ha detto che potrei non piacere più a Tom
per
questo
motivo. Sai che me ne importa. Tanto ci lasceremo comunque».
«Lascia perdere quello che ha detto tua madre»,
sbottai, esasperata. «Mi spieghi che succede con
Tom?».
«Oggi pomeriggio abbiamo discusso ancora»,
cominciò la mia
amica dopo un attimo di silenzio. Sembrava stanca, come se avesse
già discusso di quella storia altre mille volte.
«Non voleva
che venissi al matrimonio oppure pretendeva di accompagnarmi. Ho
cercato di fargli capire che già io
ero un'imbucata e che non potevo portarmi dietro un'altra persona.
Alla fine si è rassegnato, ma l'ha presa malissimo. Ha detto
che
non tengo in nessun conto quello che vuole lui, ma non è
affatto
vero».
«Strano», mormorai, mentre lei si interrompeva per
prendere fiato.
Osservai la pista da ballo senza aggiungere altro per un minuto,
riflettendo; da lontano luci, colori e suoni si fondevano in una sorta
di surreale incantesimo. «Perchè fa
così? È
già successo che tu andassi da qualche parte senza di lui.
Ricordi la festa di compleanno di Sarah Jones,
a maggio? Lui aveva la febbre e ci siamo andate da sole, ma non ha
fatto storie. E poi avete appena trascorso più di un mese
separati... fa problemi per una sola serata? Non capisco».
«È
geloso», spiegò Jas, guardandomi con l'aria di chi
la sa lunga.
«Geloso? Di chi?».
«Nessuno in particolare. Ma è diventato
insopportabile.
Controlla sempre dove vado e con chi, se mi chiama al cellulare e trova
occupato per più di cinque minuti va in paranoia e mi fa un
processo per sapere con chi stavo parlando»,
esclamò,
accalorata. Le sue parole straripavano come un fiume in piena, come
qualcosa che tratteneva da tempo e che adesso finalmente esplodeva.
«Si lamenta delle mie gonne, ti rendi conto? Sembra mio
padre!
Non
che mio padre abbia mai fatto caso a quello che indosso, ma insomma, si
comporta come immagino che mio padre dovrebbe comportarsi se non stesse
sempre fuori casa. E poi mi accusa di essere distratta quando siamo
insieme, di pensare ad altro, magari a qualcun altro...».
A quel punto si interruppe di botto, trasalì e rimase zitta.
Sembrava che avesse tirato d'un colpo il freno a mano.
«E... ha ragione?», domandai, sbirciando attenta la
sua reazione. «È vero
che sei distratta e tutto il resto?».
Non rispose subito. Teneva gli occhi bassi, fissi sul piatto ormai
vuoto. «Qualcosa è successo.
Quest'estate», rispose
lentamente, esitando. «E credo che Tom lo abbia capito...
chissà come».
Quasi avevo paura di porre la domanda successiva.
«Cos'è successo?».
Jas mi lanciò un'occhiata fugace, come se avesse voluto
controllare la mia faccia prima di confessare. Poi sospirò.
«Ho baciato un altro ragazzo», disse tutto d'un
fiato.
«Ah», mormorai, colta completamente di sorpresa. La
fissai in silenzio per un attimo, assimilando la notizia.
«Chi...».
«Non lo conosci, è uno di Long Beach.
L'ho incontrato quando sono stata lì per il matrimonio di
mia
cugina, a luglio. Si chiama Luke, ha diciotto anni e faceva il barista
in un
locale dove sono stata una sera con le mie cugine. Ho cercato di
convincerlo a darmi un cocktail di nascosto e così abbiamo
fatto
conoscenza». Mentre parlava, passava lentamente il dito sul
bordo
del suo bicchiere di punch e aveva un sorriso tenue sulle labbra.
«Quando ha finito il turno è rimasto con noi, mi
ha
invitato
a ballare e... ci siamo baciati».
«Com'era?», domandai, curiosa, un sorrisino quasi
inconsapevole sulle labbra. Per un attimo mi ero lasciata coinvolgere
dalla sua aria sognante.
Jas ridacchiò. «Carino. Molto carino. Capelli
biondo scuro... Occhi azzurri... Muscoloso... Abbronzato...».
«Wow. Povero Tom».
«Povera me»,
corresse lei in tono tragico. «Ti rendi conto di cosa
significhi cercare di resistere a uno così?».
«E poi?».
«Io... pensavo che sarebbe finita lì. Ma poi l'ho
rivisto al matrimonio di mia cugina».
Per poco non mi strozzai con il mio punch. «Cosa?».
Jas annuì. «Faceva il cameriere. All'inizio ci
siamo ignorati
a vicenda. Io ero imbarazzata, e anche lui, immagino. A un certo punto,
però, ci siamo incrociati, perchè mi è
quasi
caduto addosso mentre portava le fette di torta ai tavoli e
così... Accidenti, non so neanch'io com'è
successo, ma
poco dopo eravamo nelle cucine a baciarci».
«Di nuovo?».
«E il peggio deve ancora venire: mentre stavamo
lì, ci ha sorpresi la sua ragazza».
Trattenni rumorosamente il fiato, sconvolta. «No!»,
esclamai.
Sembrava una puntata di un telefilm per adolescenti. «Aveva
una
ragazza? E che ci faceva lei al matrimonio di tua cugina?».
«La cameriera! Pensa che poi è venuto fuori che
era stata lei a procurargli quel lavoro».
«Non ci posso credere...».
«Già! Be', comunque, hanno cominciato a litigare
furiosamente
e io avevo paura che quella tizia mi saltasse al collo o
qualcosa del genere. Era parecchio aggressiva, sai. Ma poi è
arrivata la responsabile del catering e li ha buttati fuori tutti e
due».
«Porca miseria! E tu?».
«Ma la sono filata sotto i tavoli mentre quei due venivano
licenziati. Per fortuna nessuno ci ha fatto caso. Sai quante storie
avrebbe fatto mia madre se questa storia fosse venute fuori?».
Era una domanda retorica, ovviamente. Annuii, comprensiva,
perchè sapevo quanto la madre di Jas sapesse essere
insopportabile quando c'era di mezzo la vita sociale della sua
famiglia; dal suo punto di vista se Jas si fosse fatta
soprendere nel mezzo di una situazione così incasinata
sarebbe stata una tragedia.
«Che storia», mormorai, scuotendo il capo.
«Lo puoi ben dire. È stato
assurdo».
Per un po' tacemmo entrambe, mentre io rimuginavo sulla faccenda e
trattenevo a stento le risate immaginando la mia amica che scappava
sotto i tavoli, e Jas sorseggiava il suo punch. Poi cercai di tornare
al problema principale.
«Quindi è per questo che sei distratta? Pensi a
questo... Luke?».
Jas mi scoccò un'occhiata strana. «Luke? Certo che
no.
Insomma, è stato divertente, sì, almeno fino a
quando è arrivata quella pazza isterica della sua fidanzata,
ma
è una cosa senza importanza. Il fatto è
che...».
Rimase zitta per qualche secondo, sospesa, forse cercando le parole
giuste. «Le cose non vanno più, con Tom. Lui non
mi capisce,
non mi capisce mai, ed io... Senti, Renesmee, non pensi che a un certo
punto una storia tra due persone debba fare un passo
avanti?»,
aggiunse tutto d'un fiato.
Mi sentii colta alla sprovvista. Che intendeva dire?
«Suppongo di sì... prima o poi... In che senso un passo avanti?».
«Da quanto tempo stiamo insieme io e Tom?».
«Cinque mesi, più o meno».
«E prima di metterci insieme siamo usciti per due o tre
settimane,
quindi direi anche sei mesi. E poi ci conosciamo da due anni».
«Dove vuoi arrivare, Jas?».
«Ricordi che ho sempre definito la nostra storia
"semiseria"?».
Mi chiesi se per caso avesse l'intenzione di rispondere sempre alle mie
domande con un'altra domanda. «Sì,
certo», dissi,
paziente. «Perchè non è una cosa da
nulla, ma non
volete neanche
stare insieme per sempre, giusto?».
Lei annuì, decisa. «Giusto. Però
ultimamente mi sto
chiedendo se dopo tutto questo tempo non dovrei provare qualcosa di
più, per lui. Se non dovrei esserne innamorata»,
concluse,
guardandomi dritto negli occhi senza traccia di disagio. A differenza
di me, non era mai in imbarazzo quando si trattava di esternare i
propri sentimenti.
«L'amore non è una scienza esatta, Jas. Non esiste
nessuna
regola che stabilisce che entro cinque mesi tu debba per forza
innamorarti follemente della persona con cui stai».
«Non mi riferisco soltanto a quello. Non dico che dovrei
esserne follemente innamorata,
ma... ho la sensazione che quello che sento per Tom sia rimasto
esattamente quello che sentivo all'inizio del nostro rapporto. Non
è cambiato niente, capisci? Tom mi piace, e tanto. È
carino, divertente, ci sono un sacco di cose che adoro in lui. La sua
risata mi fa impazzire, lo sai. E ha uno sguardo così dolce.
Ma
non c'è nient'altro. Quando mi bacia, non sento niente di
particolarmente forte, nessuna emozione travolgente, e invece credo che
dovrei sentirla. Non c'è passione tra noi due. Non pensi che
dovrei... provare qualcosa di più intenso?».
Jas
mi osservava, aspettando, ma io non avevo idea di cosa dire. Per
qualche istante mi limitai a ricambiare lo sguardo con occhi
spalancati, incerta. Mi sembrava una questione delicata e avevo timore
di sbagliare. Cosa potevo risponderle?
«Anche Tom la pensa così?», domandai
sotto voce, cercando di prendere tempo per pensarci.
Ma la sua risposta non fu di alcun aiuto. «Sinceramente non
ne ho
idea», mormorò, la fronte aggrottata,
l'espressione
dubbiosa. «Te l'ho detto che non ci capiamo
più».
Fece un piccolo sospiro e poi chinò il capo in un gesto
triste.
«Non starai correndo un po' troppo?», dissi in
fretta,
preoccupata. Avrei voluto aiutarla con tutto il cuore, ma era un
problema nuovo anche per me. «In questo momento litigate
spesso,
okay, ma forse... forse è soltanto una fase. Può
essere
che lui senta che ti è successo qualcosa, quest'estate,
quindi
è geloso e preoccupato e ti sta così addosso. Se
dice che
gli sembri distante, cerca di parlargli di più. Vedrai che
gli
passerà».
Lei rimase zitta a lungo, senza sollevare gli occhi. «E la
totale
mancanza di passione? Come la mettiamo?», aggiunse
un attimo dopo,
con il tono di chi vuole contraddire a tutti i costi.
«Jas, dai tempo al tempo. So che è una frase
fatta, ma...
avete sedici anni e ti assicuro che cinque mesi non sono poi
così tanti. Forse alcune persone hanno bisogno di
più
tempo e voi siete tra queste», dissi, cercando di parlare con
semplicità, di tirare fuori quello che sentivo; mi sembrava
la cosa
migliore.
Eppure lei non era convinta. Mi lanciò un'occhiata rapida,
un
po' titubante, come se volesse domandare qualcosa, ma dubitasse di
ricevere una risposta.
«Tu sei innamorata di Alex?», chiese a bruciapelo,
senza abbassare lo sguardo.
Restai spiazzata. Mi ci volle qualche secondo per realizzare il senso
della domanda. «Io...», balbettai, confusa. Cercai
in tutta
fretta qualcosa per riempire il silenzio, ma mi sembrava che la mia
mente si fosse svuotata. I pensieri mi sfuggivano, e più
cercavo
di inseguirli e raccoglierli, peggio era. «Non lo so. Non ci
ho mai pensato», dissi infine.
«"Amore" è una parola grossa».
Jas annuì, meditabonda. «In effetti...
sì, è
bella grossa», mormorò, e abbassò di
nuovo gli occhi
per un attimo. Poi, dopo aver fissato il piatto per un minuto,
all'improvviso sbuffò e sollevò la testa di
scatto con un
gesto deciso; scrollò i lunghi capelli biondi, lisci e
leggeri,
che le danzarono allegri sulle spalle lasciate scoperte dal vestito.
«Forse hai ragione tu. È
presto, sia per me e Tom che per te e Alex». Sorrise,
più
tranquilla, e mi parve che fosse tornata la solita Jas. Non era da lei
passare tanto tempo a rimuginare su qualcosa; se si rendeva conto di
non avere la soluzione di un problema a portata di mano, lo metteva da
parte e non lasciava che la ossessionasse.
«Ovvio che ho ragione», esclamai, ostentando
un'aria di divertita superiorità.
Lei mi guardò storto, ma senza smettere di sorridere.
«La
consulente di affari di cuore Renesmee Cullen», mi prese in
giro.
Alzai le spalle. «Ho scoperto quale sarà il mio
futuro».
Jas ridacchiò, ma poi di colpo tornò seria e mi
scoccò un'occhiata indagatrice. «Pensi davvero che
non dovrei perdere due chili?», domandò in tono
sospettoso.
«Jas, se ne parli un'altra volta giuro che ti riempio di
nuovo il
piatto di tartine e ti costringo a mangiarle tutte», sbottai.
Un
giorno o l'altro avrei dovuto fare un discorsetto alla signora Williams
sul giusto comportamento di una madre. Il mio tono severo cozzava a tal
punto con la stupidità della minaccia che non riuscii a
impedirmi di scoppiare a ridere e lei mi seguì a ruota.
Stavamo
ancora ridacchiando, quando Rebecca si avvicinò al nostro
tavolo
camminando a passo svelto.
«Scusate l'interruzione, ragazze, ma ci serve la damigella
mancante» esclamò, allegra. «È il
momento della torta».
«Davvero? Di già?».
Mi guardai intorno e mi accorsi con stupore che il brusio era aumentato
e che gli ospiti si stavano radunando al centro della pista da ballo,
chiassosi ed eccitati. Saltai in piedi, tirandomi dietro Jas, e li
raggiungemmo, ma quasi subito la persi di vista mentre aiutavo Rachel a
sistemarsi il vestito e posavo accanto agli sposi per un milione di
fotografie o giù di lì. La cosa andò
avanti per un
bel pezzo prima che fossi di nuovo libera, ma quando cercai la mia
amica tra la folla, praticamente mezza accecata dai flash, non la vidi
da nessuna parte. Volevo accertarmi che fosse
davvero tranquilla e non le andasse di parlare ancora. Girai su me
stessa, percorrendo la tenda con lo sguardo, e per poco non andai a
sbattere contro Jacob, che era dietro di me.
«Ehi», esclamò.
«Ehi», balbettai, sussultando. Mi ero spaventata e
il mio
cuore batteva più velocemente del solito. Ci squadrammo in
silenzio.
«Cerchi qualcuno?», domandò con voce
gentile.
«Sì, ehm... Stavo cercando Jas. Non la vedo da un
po' e sono preoccupata».
«Come mai?».
«È
giù di morale, tutto qui».
Annuì, serio. «Capisco. Ti andrebbe un ballo con
me
prima di cercarla?». Sorrideva, ma in fondo ai suoi occhi mi
parve di scorgere un velo d'ansia. Strano. Forse temeva che lo
maltrattassi di nuovo? Che gli facessi una scenata lì in
mezzo,
davanti a tutti, o che uccidessi Summer con le mie mani?
«Tu non balli», obiettai, stupita.
Lui rise mentre mi prendeva per mano. «Non è vero.
Con la persona giusta potrei ballare per sempre».
Senza parole, lo seguii in pista proprio mentre iniziava un lento. Mi
circondò la vita con le braccia, stringendomi a
sè con
dolcezza, ed io gli poggiai le mani sulle spalle, un po' a disagio.
Quello sgradevole imbarazzo che aleggiava tra noi non accennava ad
andarsene, sebbene lui sembrasse decisamente più tranquillo
di
me, ma non riuscivo a comprenderne la causa. E non aiutava il fatto che
continuassi ad avvertire su di noi gli occhi curiosi di tutti gli
invitati, come poco prima, durante il taglio della torta. Forse stavo
diventando pazza, chissà. Mi guardai intorno furtivamente e
scorsi Embry e Summer che uscivano dalla tenda tenendosi abbracciati,
ridacchiando e bisbigliando tra loro. Sembravano tutti e due poco
stabili sulle gambe, come se avessero bevuto troppo. Lanciai
un'occhiata a Jacob, curiosa. Anche lui li aveva visti, ma appariva
sereno e vagamente divertito. Spostò lo sguardo su di me ed
io
mi affrettai ad abbassare il mio, pregando di essere stata abbastanza
veloce perchè non cogliesse la mia espressione indagatrice.
«Sta andando tutto bene, vero?», mormorai con tono
casuale. «Rachel e Paul sembrano felici».
«Certo, certo. È tutto
perfetto», commentò Jake mentre mi faceva girare
su me stessa.
Quando mi cinse di nuovo con le braccia, la folla di ballerini che ci
attorniava si aprì improvvisamente, come ubbidendo ad un
comando
misterioso, e tra le coppie comparvero, a una certa distanza, Seth e
Jas. Seth e Jas? Che ci facevano quei due insieme? Non ricordavo che si
fossero mai incontrati prima. Aggrottai la fronte, perplessa.
«Jake, hai visto? Seth e Jas stanno ballando». Lui
guardò solo per un istante in quella direzione e non
rispose. «Non si conoscono
neanche», aggiunsi, pensierosa.
«Credo che si siano appena presentati», disse Jacob
dopo una breve pausa.
«Ah. Be', spero che lei si diverta un po'. Ne ha
bisogno».
«Sono sicuro di sì».
Il suo tono era controllato, eppure qualcosa nella sua voce mi spinse a
guardarlo: l'ansia che avevo già scorto in fondo ai suoi
occhi
neri si era fatta più intensa.
«Va tutto bene?».
«Certo».
Il suo sorriso si era spento. Mi strinse con più forza e ci
allontanammo da Seth e Jas, continuando a ballare lentamente. Era come
se Jacob mi stesse conducendo via di proposito, ma non riuscivo
comunque a staccare gli occhi da loro. Avevo la sensazione che mi
sfuggisse qualcosa, qualcosa che invece avrei dovuto sapere. E
più li osservavo, più mi rendevo conto che forse
qualcosa
c'era. La mia amica sembrava stranamente imbarazzata e teneva gli occhi
incollati a
terra. Possibile? Jas non era mai timida, neanche con le nuove
conoscenze, neanche un po'. Invece lui... la fissava ipnotizzato.
Di
colpo, capii.
«No», rantolai, la voce bassa e quasi
incomprensibile.
Jacob mi guardò e sul suo viso teso lessi la conferma
di ciò
che sospettavo. Per un tempo infinito restammo a fissarci in silenzio,
immobili in mezzo alla pista. Avevamo smesso di ballare. Ero
così incredula da non riuscire ad articolare un pensiero
razionale.
«No», ripetei, più decisa, questa volta.
Istintivamente, senza pensarci, cercai di andare verso di loro, ma
qualcosa mi bloccò: Jacob mi teneva ancora stretta per la
vita.
«Non farlo, Renesmee», disse con forza,
l'espressione seria e intensa. «È
inutile».
Inutile? Mi sentii come se qualcuno mi avesse troncato di netto le
gambe. Jacob mi strinse al suo petto, forse per continuare a ballare,
ma io mi divincolai. Mi mancava l'aria e mi girava la testa.
«Jake, lasciami... Jacob... Lasciami!», sussurrai
con voce debole e roca.
Finalmente la sua stretta si allentò, riuscii a sgusciare
via e
mi precipitai verso l'uscita con una mano premuta sulla bocca, senza
badare agli sguardi perplessi degli ospiti. Dovevo apparire esattamente
quello che ero: sconvolta. Abbandonai l'ambiente caldo, affollato e
illuminato della tenda e arrancai nel buio lungo il sentiero che si
snodava
tra gli alberi alti e frondosi. No. Non poteva
essere. Non poteva essere.
«Renesmee! Renesmee, fermati!», gridò
una voce dietro di me. Jacob mi aveva seguita.
«Vattene!», ansimai.
«Non ti lascio sola in queste condizioni!».
«Io voglio stare sola, invece!».
«Dai, non è una tragedia!».
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi voltai con uno
scatto rabbioso e incontrai il suo sguardo preoccupato. «Ah,
non
è una tragedia, dici? Non è una tragedia che Seth
abbia
avuto l'imprinting con la mia migliore amica?», strillai.
«Esatto, non è una tragedia. Non è
colpa di Seth, lo sai che non è una cosa che si
controlla».
«Non me ne frega un accidenti! È
ridicolo! È...
sbagliato! Non deve continuare! Gli dirai di starle lontano!».
Mi guardò come se fossi pazza e avessi appena detto
un'assurdità. «Cosa? E come?». Sembrava
che stesse
per scoppiare a ridermi in faccia e repressi a stento la tentazione di
tirargli uno schiaffo. Osava anche prendermi in giro?
«Sei il suo alpha», sibilai.
«Sì, sono il suo alpha, non il suo padrone. Seth
decide da
solo della sua vita», rispose, il tono fermo e deciso.
«Ma non della vita di Jas!».
Lui fece un passo avanti verso di me. «Renesmee, sai che non
costringerò mai Seth nè nessun altro ad
ubbidirmi, se
potrò evitarlo. E non servirebbe comunque. Un ordine alpha
non
è niente, niente in confronto a questo».
Per un attimo le sue parole mi colpirono e lo fissai in silenzio.
Scossi lentamente il capo, ostinata. «No, non è
possibile.
Io... devo fare qualcosa», balbettai.
«Cosa vorresti fare?».
«Non lo so... Tenerli lontani. Troverò il
modo».
«Ma perchè
ti dà così fastidio?».
Mi sfuggì una smorfia amara. «Tu non capisci,
vero? No che
non capisci, perchè il tuo punto di vista è
quello di un
licantropo. Jas è la mia migliore amica. Le voglio
bene»,
dissi piano, con forza, cercando di far passare il concetto.
«E allora dovresti essere felice per lei»,
osservò Jacob, tranquillo.
«Non potrò mai essere felice per qualcosa che la
mette in pericolo!».
«Ma come puoi pensare che Seth la metterebbe in
pericolo?»,
esclamò. Era incredulo davanti alla mia reazione, come io lo
ero
davanti all'imprinting di Seth. «Tu sai di che si
tratta...».
«È
diverso!», esplosi, pestando un piede per terra per la
rabbia.
«Io sono una mezza vampira, ci sono già dentro
fino al
collo! Lei no, lei è umana... Lei ne era fuori, e adesso...
finirà scaraventata in questo enorme casino! Ti rendi
conto che verrà a sapere tutto quanto? Saprà dei
licantropi, saprà dei vampiri... e saprà chi sono
io». Mi si ruppe la voce e faticai ad andare avanti.
«Scoprirà
cosa sono veramente. Lo scoprirà e non vorrà
vedermi mai
più. Mi odierà per averle mentito tutto questo
tempo e
avrà paura di me... La perderò, Jacob».
Tremavo a
tal punto che pensai di non riuscire a stare in piedi. Mi coprii il
viso con le mani e scoppiai in lacrime. Era un incubo. Soltanto un
brutto incubo, come quei sogni su Alex, e mi sarei svegliata presto.
«Non succederà», ribattè
Jacob, dolce e deciso
al tempo stesso. Capii che mi si era avvicinato, perchè
sentivo
la sua voce e il suo respiro a un soffio da me. «Se la vostra
amicizia è forte, sopravviverà».
Scossi di nuovo la testa, senza guardarlo, rifiutandomi di credergli.
Le sue parole sembravano prive di significato contro la paura che mi
serrava la gola.
«Non è giusto», farfugliai tra i
singhiozzi. «Non è giusto... La vita di una
persona non
può essere sconvolta così. Io odio l'imprinting,
lo
odio...».
Jacob restò a lungo in silenzio, prima di rispondere.
«Calmati, per favore. Stai facendo una scenata per
niente».
«Non è niente!»,
sbottai, togliendomi di colpo le mani dal viso e guardandolo con
rabbia. «So benissimo quello che dico. Non trattarmi come una
bambina».
«E allora non comportarti come tale!».
«È il tuo
atteggiamento che mi dà sui nervi!».
All'improvviso Jacob scattò in avanti, avvicinandosi ancora
di
più per guardarmi in faccia, l'espressione determinata.
«Sai una cosa? Penso che Seth e Jas in questa discussione
c'entrino poco: tu sei arrabbiata con me», disse, calmissimo.
«Non è vero».
«E invece sì. Non stiamo parlando dell'imprinting
di Seth, ma del mio».
«No», ribattei, alzando la voce. Stavamo facendo
tanto di
quel casino che era un miracolo che nessuno fosse ancora venuto a
controllare. O forse tutti gli invitati erano appostati in massa dietro
la sottile parete della tenda per ascoltare. «Adesso il tuo
imprinting è l'ultima delle mie preoccupazioni, te
l'assicuro».
Mi fissò per un attimo in silenzio, osservando il mio viso.
Poi
fece un piccolo sorriso amaro. «Riprovaci. Dillo di nuovo,
magari
sei più convincente».
«In questo momento avrei solo voglia di prenderti in
schiaffi», sussurrai con la voce che tremava, ferita da
quella che sembrava indifferenza
alle mie preoccupazioni, totale incapacità di comprendermi.
No, non
riusciva a capirmi. Era impossibile, ma Jacob non riusciva a capirmi.
Lui allargò le braccia. «Fallo. Sono io che ti ho
sconvolto la vita, giusto? Prenditela con me e lascia stare
Seth».
«Chi sarebbe il bambino tra noi due? Io non ce l'ho con te,
Jacob, ma questo non doveva succedere! Perchè ho lasciato
che Jas venisse qui, stasera, perchè? È colpa
mia... Se lei non fosse mia amica ora non si troverebbe in questo
casino».
«Ehi!», esclamò Jacob con forza,
prendendomi per le
spalle e costringendomi a guardarlo dritto negli occhi.
«Basta,
Renesmee! Queste sono stronzate e lo sai benissimo! Ragiona, porca
miseria. Tu sai cos'è l'imprinting, sai come funziona, sai
che
non si può fermare. Sarebbe successo comunque, anche se Jas
non
fosse venuta al matrimonio. Prima o poi sarebbe successo»,
ripetè scandendo piano ogni parola. «Perchè
non vuoi accettarlo?».
«Dovrei accettare che la mia migliore amica sia messa in
pericolo
e che possa odiarmi per il resto della vita?», sussurrai,
incredula.
Jake mi fissava con aria triste. «Devi accettare quello che
non
è possibile cambiare», ribattè, calmo,
gentile, ma
con la stessa determinazione.
Per un lungo attimo restammo lì a guardarci, in silenzio, io
scossa dai singhiozzi, lui senza battere ciglio, senza staccare gli
occhi dai miei, come se soltanto attraverso il suo sguardo potesse
trasmettermi qualcosa che non avevo, la forza di accettare
l'inevitabile. Poi, con uno strattone mi liberai delle sue mani e
indietreggiai, mettendo qualche passo tra me e lui.
«Vorrei stare un po' da sola».
«Renesme...».
«Jacob, ti prego», sussurrai, chiudendo un attimo
gli occhi. «Per favore, lasciami sola».
Mi voltai senza esitare e mi incamminai verso la tenda, incrociando le
braccia e stringendole contro il busto. Era una notte estiva,
chiara e tiepida, eppure avvertivo un gran freddo. Un gelo interiore
che mi
serrava il cuore in una morsa di ghiaccio. E avevo l'orrenda sensazione
che mi avrebbe fatto compagnia per un bel po'.
****
Quando
il ricevimento ebbe termine, Jacob mi accompagnò a casa con
la
sua auto. Per tutto il tragitto non scambiammo neanche una parola. Non
sapevo a cosa stesse pensando lui, ma io non riuscivo a togliermi dalla
testa l'immagine di Seth e Jas insieme. Avevano ballato tantissimo, poi
avevano parlato per il resto del tempo e al momento di andarsene Jas
sfoggiava un'espressione radiosa che decisamente non prometteva nulla
di buono. Seth si era tenuto alla larga da me per tutta la sera, forse
perchè immaginava quale potesse essere la mia opinione su
quella
faccenda, e anch'io avevo evitato di incrociarlo; era probabile che se
lo avessi ucciso, poi, a mente fredda, me ne sarei pentita.
Jacob fermò la Golf davanti al cottege, sempre silenzioso.
Allungai stancamente una mano per afferrare la borsa con tutte le mie
cose, ma poi, invece di scendere subito, come avevo pensato di fare,
rimasi seduta lì. Sbirciai nella sua direzione. Lui sembrava
in
attesa che io parlassi per prima, ma non ne potevo davvero
più.
Ero esausta. Avevo solo voglia di fare una lunga dormita e magari il
giorno dopo le cose sarebbero sembrate meno brutte e difficili. Con un
piccolo sospiro, mi sporsi e gli posai le labbra sulla guancia.
«Ciao, Jake. Ti chiamo domani».
Feci per scendere, ma lui mi afferrò il braccio.
«Aspetta un secondo. Devo dirti una cosa».
Sorpresa, mi voltai di nuovo a guardarlo. Aveva un'espressione seria,
dolce e intensa. Sentii qualcosa di strano alla bocca dello stomaco,
come una stretta. Una sensazione potente, ma difficile da definire, e
istantanea; scivolò via quasi nello stesso momento in cui la
percepii.
«Non so come andrà questa faccenda»,
disse
lentamente, «ma ti giuro che qualunque cosa accada, io
sarò al tuo fianco. Non sarai mai sola, Renesmee.
Mai».
Ero commossa dalle sue parole. Sapevo che lui
ci sarebbe sempre stato per me; anche tra mille problemi, discussioni e
incomprensioni, ci sarebbe sempre stato. Ma era bello sentirselo dire,
soprattutto in quel momento di tristezza.
«Lo so, Jake. Scusa per prima. Non pensavo le cose che ho
detto... Non le penso davvero. È
solo che... ho paura», balbettai, combattendo un grosso nodo
in
gola che minacciava di sciogliersi. Ma non volevo piangere ancora; non
sarebbe servito a niente.
«Lo capisco. Però ce la faremo, Renesmee. Io e te,
insieme, ne usciremo. Te lo prometto».
Non sapevo cosa rispondere. Temevo che se avessi aperto bocca non
sarei riuscita a trattenermi. Gli accarezzai piano la guancia,
sfiorandola appena, cercando di mettere in quel gesto tutta la
tenerezza che provavo per lui. Le sue labbra si curvarono in un sorriso
dalla piega malinconica, mentre ci guardavamo negli occhi, e
chinò leggermente la testa verso la mia mano, come per
venirmi
incontro. Quando lasciai ricadere la mano, mi parve di spezzare un
incantesimo.
Scesi dall'auto e arrancai lungo il vialetto lastricato fino alla porta
di casa. I miei genitori erano in salotto, allungati sul divano e
probabilmente impegnati a coccolarsi, come al solito, ma quando entrai
si alzarono entrambi, i volti seri con l'ombra di sorrisi complici
spenti da poco.
«Ciao, tesoro. Ehi, sei bellissima», disse la
mamma. «Allora, com'è andata?».
La guardai in silenzio, senza rispondere. Pensare a cosa avrei potuto
dirle mi diede la nausea. Forse il mio viso era verde come immaginavo,
perchè lei cambiò espressione rapidamente.
«Che è successo?», mormorò
con un filo di voce, senza più traccia di entusiasmo.
Non ci provai nemmeno a mettere insieme una spiegazione. Sospirai
pesantemente e guardai papà. «Racconta tu. Io vado
a
dormire».
E mi trascinai in camera mia.
Note.
1. Link.
Spazio autrice.
Ed eccoci qui! Non posso credere di aver appena pubblicato il capitolo
sei, in un attimo mi ritroverò alla fine di questa seconda
parte della storia di Renesmee & co. e a stento me ne
sarò accorta xd. Anche a voi sembra che il tempo passi
troppo in fretta?
Va be', poche chiacchiere. Altro capitolo abbastanza cruciale, come il
precedente, credo che ve ne siate accorte. Lo scenario a cui accennavo
al termine dello scorso capitolo continua a muoversi e a cambiare.
Jacob e Renesmee sono alle prese con qualcosa di strano che sta
accadendo tra loro e nel frattempo abbiamo una new entry tra le coppie
o potenzialmente tali! Cosa pensate dell'imprinting di Seth? Credete
che in qualche modo possa cambiare le carte in tavola o influenzare il
comportamento di Renesmee? C'è stato un punto del capitolo
in cui avete iniziato a sospettare o è stata una sorpresa
totale? E adesso che succede? Bella domanda xd, appuntamento al
prossimo capitolo per scoprirlo!
Qualche curiosità sparsa qua e là... Cape
Greenwood non esiste, l'ho inventato di sana pianta. Long Beach invece
esiste eccome, è una città della California.
Okay, la chiudo qui. Spero che il capitolo vi piaccia e fatemi sapere
cosa ne pensate, sono curiosissima! Ciao ciao!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Chasing cars ***
C 7
Capitolo
7
Chasing cars
If I lay here
If I just lay here
Would you lie with me
and just forget the world?
I don't quite now
How to say
How I feel
Those three words
Are said so much
They're not enough
[...]
And all that I am
All that I ever was
Is here in your perfect
eyes, they're all I can see.
Chasing cars, Snow Patrol¹
Tutto è
cambiato, cambiato totalmente:
una tremenda bellezza
è nata.
William Butler Yeats, Pasqua
1916
Mi
svegliai all'improvviso. Aprii gli occhi per un istante, poi li
richiusi subito. C'era un silenzio assoluto, a parte il cinguettio
degli uccellini nel piccolo giardino del cottege; doveva essere troppo
presto per alzarsi. Mi voltai sull'altro fianco, sperando di
riaddormentarmi subito, ma c'era qualcosa di strano. Sentivo una
presenza accanto a me. Spaventata, scattai a sedere nel letto e
spalancai gli occhi. Due figure incombevano sul mio letto e per poco
non cacciai un urlo da spaccare i timpani: erano i miei
genitori.
«Buon compleanno!», esclamarono contemporaneamente.
Rimasi paralizzata dalla sorpresa e dal leggero spavento mentre mi
avvolgevano con entusiasmo in una specie
di abbraccio a tre. Ero ancora mezza addormentata e restai impalata per
un attimo prima di ricambiare cautamente l'abbraccio.
«Grazie... Wow, mi avete colta di sorpresa»,
balbettai.
La mamma mi stampò un bacio sui capelli arruffati prima di
tirarsi indietro, guardandomi con un sorriso che andava da orecchio a
orecchio. Sembrava soddisfatta, come se stesse ammirando il capolavoro
della sua esistenza.
«Ah, sì, scusa se ti abbiamo spaventata. Veniamo
sempre a svegliarti il giorno del tuo compleanno e le tradizioni vanno
rispettate».
«Da quanto tempo siete qui?», chiesi a mezza voce,
ancora un po' confusa. Passai cautamente una mano tra i capelli,
sistemando alcune ciocche in disordine dietro le orecchie.
Bella accennò un sorriso. «Circa
mezz'ora, più o meno. Non volevamo svegliarti troppo
presto».
«Non avete proprio niente di meglio da fare per passare il
tempo?», li stuzzicai, scoccandogli un'occhiata ironica.
«Ti prendi gioco dei tuoi genitori?»,
esclamò papà,
ostentando un'aria incredula. «Molto bene, allora questi li
porto
via». Fece per alzarsi, tenendo sotto il braccio due
pacchetti che
non avevo notato. Regali!
«Aspetta! Ritiro tutto quello che ho detto!»,
esclamai precipitosamente.
Lui si fermò e mi lanciò uno sguardo indagatore,
come per accertarsi che fossi seria. «Sicura?».
Annuii, sforzandomi di non ridere. «Promesso».
«Be', in questo caso...». Tornò a
sedersi sul letto e mi
porse un pacchetto rettangolare. «Prima quello della
mamma».
Curiosa, lo presi e strappai la carta di un bel rosa antico con una
stampa di fiori dai colori pastello. Scoprii una scatola di cuio blu
contenente tre libri. A giudicare dall'aspetto sembravano antichi.
Quando ne estrassi uno e lessi il titolo e l'anno di pubblicazione,
sgranai gli occhi.
«Una prima edizione di Cime
tempestose!
Non posso crederci, è fantastica!». Guardai la
mamma, che
continuava ad avere quel sorriso gongolante. «Avrai speso un
occhio
della testa!»
«Non pensarci, amore, è un'occasione speciale. Ti
piace?».
Per tutta risposta la abbracciai con slancio, stringendo al massimo
delle mie forze. Lei rise mentre mi accarezzava i capelli con le mani
fredde, marmoree, eppure assurdamente dolci e premurose.
«Direi che è un sì»,
commentò a bassa voce.
«Okay, uno è andato», dissi quando ci
separammo. Ero su di
giri. Il clima festoso e frizzante mi aveva contagiata, e poi adoravo
ricevere regali; era la parte migliore del mio compleanno.
«Il
prossimo».
«Questo è da parte mia», disse
papà, porgendomi una
scatolina di velluto chiusa da un nastro. «Buon compleanno,
Raggio
di sole».
Quando la presi tra le dita, mi stupì l'incredibile
morbidezza
del velluto, come la pelle di un neonato. Sciolsi il nastro con
cautela, sollevai il coperchio e comparve un piccolo cristallo a forma
di goccia. Aveva mille sfaccettature e brillava con
un'intensità
impressionante alla luce chiara del mattino. Toccai con un dito la
superficie dura e incredibilmente liscia e ne osservai i riflessi
sulla mia pelle, incantata.
«Che cos'è?», sussurrai.
«Un diamante. Apparteneva ad Elizabeth, mia madre».
Guardai istintivamente il polso della mamma, dove attaccati ad un
braccialetto d'argento dondolavano un piccolo lupo intagliato nel legno
e un ciondolo simile al mio, ma a forma di cuore.
«Sì, anche quello era di tua nonna»,
rispose papà, anticipando la mia domanda. Mi sorrise.
«È
già da un po' che volevo regalarti uno di questi ciondoli e
adesso sei abbastanza grande per portare un gioiello».
Lo guardai e l'affetto puro, caldo, intenso che lessi nei suoi occhi
ambrati mentre studiava il mio viso mi scaldò il cuore. Ma
come
avevo potuto dubitare di lui, anche solo per un istante?
«Grazie», sussurrai, felice. Avrei voluto dire
qualcos'altro,
affinchè capisse, ma naturalmente non ce n'era bisogno;
conosceva i miei pensieri più profondamente di quanto li
conoscessi io stessa e annuì appena, per rispondere
silenziosamente alle mie parole inespresse.
La mamma ci osservava, curiosa. Forse aveva intuito che tra me e lui
era avvenuta una delle nostre consuete comunicazioni silenziose, ma non
commentò e non fece domande. «Allora,
contenta?»,
esclamò con tono allegro.
Le sorrisi. «Tantissimo. E immagino che se avete rispettato
le
tradizioni fino in fondo, di là deve esserci una colazione
speciale per me. Ho ragione?».
Lei alzò le spalle. «Uhm, chissà. Forse
sì, forse no. Su, vestiti. Ti aspettiamo in
cucina».
Uscirono dalla stanza tenendosi per mano. Feci un profondo respiro. Mi
sarebbe piaciuto starmene a letto ancora un po', ma dovevo andare a
scuola e Jacob sarebbe passato a prendermi in moto di lì a
poco.
Per fortuna, quella notte non avevo avuto incubi e il mio riposo era
stato profondo e tranquillo. Scrollandomi di dosso le ultime tracce di
sonnolenza, feci la doccia e quando tornai in camera per vestirmi
sentii provenire dalla cucina chiacchiere e risate: Jake doveva essere
arrivato. Mi preparai più rapidamente possibile, ansiosa di
vederlo, e mi catapultai fuori dalla stanza come una palla di cannone.
In cucina, Edward parlava con Jacob, che era in piedi appoggiato al
bancone, mentre Bella preparava una spremuta d'arancia che presumevo
fosse destinata a me. Appena mi vide, Jake si illuminò.
«Ecco la signorina che compie gli anni», disse in
tono
canzonatorio e affettuoso. Aprì le braccia ed io corsi da
lui,
felice. «Buon compleanno, piccola», mi
sussurrò
nell'orecchio.
Mi strinsi a lui, sentendomi una bambina piccola che abbraccia un
adulto. Ero così bassa e minuta rispetto al suo fisico
imponente
da licantropo.
«Grazie, Jake. Allora, ti sembro più
grande?».
Si scostò appena, fingendo di esaminarmi, ma senza
sciogliere
l'abbraccio. «Eh, sì. Hai proprio l'aspetto di una
che deve
iniziare a preoccuparsi per la pensione».
Ridacchiai. «Vuoi smetterla di fare lo scemo? Ormai ho sedici
anni e voglio essere trattata come un'adulta».
«Be', ufficialmente
hai sedici anni, ma noi sappiamo benissimo che in realtà ne
compi sei...».
«Ti odio, Jacob Black».
Lui alzò le spalle sorridendo con aria divertita, come per
rassegnarsi all'inevitabile. «Mi farò perdonare
con il mio
regalo».
«Dipende dal regalo. Potrebbe non essere sufficiente,
sai».
Sbuffai, facendo l'altezzosa, ma Jake mi attirò di nuovo a
sè e fui costretta a cedere. La sua vicinanza fisica era una
specie di droga: non era mai abbastanza, e più ne avevo,
più la desideravo. Mentre mi aggrappavo alle sue spalle
immense
e forti, con la coda dell'occhio colsi un movimento nella stanza e di
colpo rammentai che i miei genitori erano lì con noi e non
lontani chilometri come mi era sembrato fino a un istante prima.
All'improvviso essere stretta così a Jacob mi parve... fuori
luogo. Mi
allontanai piano da lui, avvertendo uno strano ma insopprimibile
disagio, e sedetti a tavola, ansiosa di far scivolare via quel momento
imbarazzante. Tenni lo sguardo basso per non incontrare gli occhi degli
altri e a quel punto notai la torta: piccola, perfettamente rotonda,
ricoperta di glassa rosa e con una scritta bianca nel centro che
augurava "Buon compleanno".
«E questa?», esclamai, sorpresa.
La mamma mi sorrise, in piedi davanti a me. «Finalmente te ne
sei
accorta! L'abbiamo fatta io e papà».
«È bellissima. Ma non dormite proprio
mai?». Le lanciai un'occhiata maliziosa, per prenderla in
giro.
Edward si strinse nelle spalle. «Sai che ho un problema di
insonnia da centoundici anni».
Jacob
ed io scoppiammo in una sonora risata scambiandoci uno sguardo
d'intesa.
«Be', ora ci sono io a farti compagnia»,
commentò la mamma.
«Siete una famiglia di svitati, Bells, lasciatelo
dire»,
intervenne Jacob continuando a fissarmi con aria molto divertita ed io
non
riuscii a frenare un'altra risatina.
Lei rispose con un'occhiataccia mentre armeggiava con un coltello per
tagliare la torta. «Tu bada a come parli o non avrai la tua
parte», minacciò in tono di rimprovero.
Jake chiuse la bocca immediatamente. Mangiammo un paio di fette di
torta a testa mentre Edward e Bella ci facevano compagnia
chiacchierando del più e del meno. Ero rilassata e
tranquilla,
sparita ogni traccia di disagio, e mi godevo al massimo l'atmosfera
festosa. Più tardi Jacob mi consegnò il suo
regalo, un
paio di orecchini d'argento a forma di cuore, decorati su un lato da
una fila di minuscoli brillantini. Disse di averli visti nella vetrina
di un gioielliere a Portland, dove era andato per comprare certi
attrezzi da lavoro, e gli erano sembrati perfetti. Naturalmente aveva
indovinato. Lo ringraziai con entusiasmo e gli mandai un bacio da
lontano; meglio stargli alla larga per evitare altri momenti
di imbarazzo.
«Allora... come hai dormito stanotte?»,
domandò lui all'improvviso, dopo un breve silenzio.
Mi colse di sorpresa, ma intuii dove voleva arrivare. «Niente
incubi, se è questo che vuoi sapere», risposi con
un
sospiro. «Finalmente una notte di tregua», aggiunsi
a voce
più
bassa. Nella settimana precedente i soliti brutti sogni su Alex mi
avevano letteralmente perseguitata, togliendomi il sonno. Avevo il
terrore di chiudere gli occhi, addormentarmi e rivivere quei momenti, e
a volte trascorrevo intere notti in bianco, sforzandomi di restare
sveglia. Non c'era da stupirsi se spesso sembravo uno zombie ubriaco e
a scuola rischiavo di addormentarmi sul banco.
Jacob mi osservava attentamente, le braccia incrociate, l'aria seria.
«Continui ad averli spesso?».
«Piuttosto spesso, sì».
Con la coda dell'occhio vidi
i miei genitori guardarsi per un attimo, senza dire nulla.
Lui annuì. «Tu sai qual è il mio
parere. Smetti di
pensarci e vedrai che se ne andranno».
Il suo sorriso riusciva
sempre a rassicurarmi, ma in quel momento era come se avesse effetto
solo a metà. Quando ripensavo a quella storia, un blocco di
gelida paura mi invadeva lo stomaco, la paura che un giorno i miei
incubi potessero diventare realtà. Scioglierlo non era
affatto
semplice. Abbassai lo sguardo sulla confezione del suo regalo, ancora
aperta e poggiata sul tavolo, e osservai il luccichio allegro degli
orecchini senza parlare.
«Sono assolutamente d'accordo», disse la mamma.
«Anche io», aggiunse papà in un cauto
mormorio.
Alzai le spalle. «Tutti d'accordo, perfetto. È inutile
parlarne, siete la maggioranza», borbottai.
Edward si mosse leggermente, l'espressione preoccupata.
«Tesoro,
possiamo parlarne ancora, se vuoi. Ma crediamo che tu abbia
soltanto bisogno di rilassarti un po' e smettere di pensare alle cose
che potrebbero o non potrebbero succedere».
Quasi mi venne da ridere. «Rilassarmi», ripetei
sottovoce,
sospirando. Mi sembrava impossibile. Gli incubi su Alex non erano il
mio unico problema, in quel momento. «È strano
che non abbia ancora iniziato a fare sogni spaventosi su
Jas», aggiunsi, amaramente ironica.
«Non ti sembra di esagerare un po' con questa
faccenda?», chiese Jacob, tranquillo.
«È meglio
che non ricominciamo a discuterne, io e te», borbottai,
irritata, lanciandogli un'occhiata eloquente.
In
quei giorni ne avevamo parlato così tanto, spesso in toni
accesi
e litigiosi, che ormai l'argomento nauseava entrambi.
«Ma tu hai detto che Jas non ha capito nulla»,
disse la mamma.
«Certo che no, cosa vuoi che capisca? Forse pensa soltanto
che Seth le stia dietro».
«Cosa dice di lui?».
«Oh, un sacco di cose. Dovresti sentirla», risposi
in tono acido
come limonata senza zucchero. «Ha fatto colpo, su questo non
c'è dubbio».
Lei fece un sorrisino. «Davvero?».
«Eccome. Pare che Seth possieda tutte le qualità
più
migliori dell'universo e fin'ora non ce ne eravamo accorti:
è
carino, dolce, divertente, interessante... E chi più ne ha,
più ne metta. Nomina un pregio qualunque: lui ce
l'ha».
La sua espressione era sempre più divertita e tesa in un
sorriso
trattenuto, non avrei saputo dire se per la situazione in sè
o
per il mio atteggiamento; in effetti, il tono funereo con cui parlavo
non avrebbe potuto essere più eloquente di così.
«Hanno parlato una sera ed è già cotta
di lui?
Caspita. So che Jas non è la persona più profonda
del
mondo, ma...».
«Cotta di lui?», sibilai, indignata. «Che cosa? Jas sta
con Tom!».
Bella
tornò seria di botto, così rapidamente che fu
quasi
comico. «Era una battuta, Renesmee»,
mormorò.
«Be', rivedi un po' il tuo senso dell'umorismo».
Scrollai la testa, profondamente infastidita, e lo sguardo mi cadde su
mio padre. Mi stava fissando con una strana espressione, seria,
concentrata, come se si sforzasse di capire qualcosa che gli sfuggiva.
«È tardi.
Dobbiamo andare», dissi all'improvviso. Scattai in piedi,
ansiosa di sottrarmi al suo sguardo indagatore.
«Prendi le tue cose, ti aspetto fuori», rispose
Jacob, e bevve
l'ultimo sorso del suo caffè. Sembrava che non avesse notato
nulla.
Mi diressi alla porta, ma prima di uscire mi voltai appena,
spinta
dall'impulso di osservare cosa succedeva alle mie spalle. I miei
genitori si stavano scambiando un'occhiata che non riuscii a decifrare,
ma mi sembrò che non promettesse nulla di buono.
****
«Finalmente
un po' di sole, grazie al cielo! Non ne posso più di questa
dannatissima pioggia. Darei la vita per tornare in
California»,
esclamò Jas in tono appassionato e nostalgico.
Insieme a Danielle, stavamo trascorrendo l'intervallo all'aperto,
sdraiate sui prati accanto alla mensa, approfittando del tempo caldo e
soleggiato. Quasi tutti gli studenti della Forks High avevano avuto la
stessa idea e intorno a noi c'era una gran calca di chiacchiere,
risate, strilli, ragazzi che giocavano a fresbee e ragazze che
prendevano il sole con le t-shirt e le camicette sollevate sulla pancia.
«Chissà com'è un posto dove non piove
mai»,
mormorò Danielle, curiosa. Distesa sulla schiena, guardava
il
cielo azzurro chiaro con una mano sulla fronte per proteggere gli occhi
dal sole. Accanto a lei giaceva, abbandonato, il libro di letteratura
inglese, che aveva sfogliato con blando interesse fino a un attimo
prima.
«Fantastico», rispose Jas con un sospiro. Tacque un
secondo, poi
girò appena la testa verso di me. «Ehi, la festa
è
all'aperto, vero? Sei certa che stasera non
pioverà?».
Annuii distrattamente, guardando gli studenti che ciondolavano
sull'erba sparsi qua e là, in coppie o a gruppetti. Mi
chiedevo
dove fosse Alex, quella mattina non ci eravamo ancora incontrati.
«Sì, tranquilla. Zia Alice me l'ha
assicurato».
«E lei che ne sa?», indagò la mia amica,
perplessa.
Accidenti. Sentii una piccola ondata di panico e cercai alla svelta un
modo per rimediare. «Oh, be'... Lei... tutte le mattine
controlla il
meteo su Internet», buttai lì con fare tranquillo,
augurandomi
che ci cascasse.
Ci cascò. «Capisco», mormorò
in risposta,
evidentemente poco interessata. Raddrizzò la testa ed io
tirai
un sospiro di sollievo. «Siamo fortunate, allora. Staremo
tranquillamente in giardino e la pettinatura che vorrei farmi
reggerà. Questo clima schifoso è troppo
stressante per i
miei capelli», borbottò, seccata. Tese una mano
all'indietro e
si toccò la capigliatura bionda accuratamente stesa
sull'erba,
come per accertarsi che fosse ancora lì.
«Non sono mai stata ad una festa in giardino. Deve essere
bellissimo», esclamò Danielle con aria sognante.
La sua
ingenua allegria mi faceva sempre sorridere.
«Certo. Gli adulti staranno in casa, tra il salotto e la
biblioteca».
«Ci saranno molti adulti?».
«No, non molti. Mio nonno Charlie, qualche amico di
famiglia... tutto qui».
Per un po' restammo in silenzio. Strizzai gli occhi al sole per
guardare Caroline Johnson, a pochi metri di distanza da noi, che faceva
la stupida con Toby Moore, la sua nuova
fiamma. Lui era seduto sull'erba e Caroline fingeva di
buttarglisi addosso, ridendo, finchè non caddero entrambi,
l'una
sull'altro. Caroline si avvinghiò a lui e iniziò
a
baciarlo con passione. Grazie al cielo Alex le era quasi uscito di
mente. A volte ancora si divertiva a stuzzicarlo, come una cacciatrice
che si rifiuta di mollare la preda di cui non riesce a trovare
il
punto debole, ma sapevo che non avrebbe mai rinunciato completamente a
lui... Non mi avrebbe mai dato questa soddisfazione. La voce di Jas
interruppe le mie riflessioni.
«Ci sarà anche Seth?».
Dubitai di aver sentito bene. «Come?».
«Seth. Verrà anche lui alla festa?».
La fissai senza rispondere, sgomenta. Potevo osservare bene il suo viso
perchè lei era distesa sull'erba, mentre io ero seduta con
le
ginocchia piegate davanti a me e le braccia tese all'indietro, ed ero
più in
alto rispetto a lei. La sua espressione era incolore, come se stessimo
parlando ancora del tempo. Chissà se fingeva o se in fondo
davvero non le importava così tanto. Ma allora
perchè
chiedere?
«Vuoi dire Seth Clearwater?», balbettai.
«Il mio amico?».
«Quanti altri Seth conosciamo, Renesmee?».
Deglutii e distolsi lo sguardo da lei, tornando a fissare Caroline e
Toby e pensando che se quei due avessero continuato a strofinarsi
l'uno sull'altra in quel modo, tra poco gli avrei suggerito di prendere
una stanza da qualche parte.
«Sì, ci sarà», risposi in
tono secco.
Temevo che continuasse a parlarne, ma proprio in quel momento un'ombra
in movimento sull'erba si avvicinò al nostro gruppo. Era
Tom,
che ci raggiunse camminando a grandi falcate.
«Ehi, ragazze!», esclamò.
«Buon compleanno, Renesmee!».
Si chinò per stringermi in un abbraccio affettuoso.
«Grazie, Tom».
«Allora, stasera ci sarà baldoria a casa tua,
giusto?».
«Una baldoria mai vista prima», confermai,
sorridendo.
«Ottimo. Sgancerò qualcosa a Matt per avere
rifornimenti».
Matt era suo cugino e aveva appena compiuto ventun'anni; Tom lo
sfruttava come gancio per avere un po' di alcolici da portare alle
feste.
Scossi la testa. «Spiacente, Tommy: tutta la mia famiglia
sarà in casa».
La sua faccia delusa fu così divertente che mi
scappò da
ridere. «Dannazione», borbottò,
accigliato. Si
buttò a terra accanto a Jas e le scoccò un bacio
sulle
labbra, così rapido da coglierla di sorpresa.
«Tom, sta' attento ai capelli!»,
protestò lei,
divincolandosi un poco, ma poi sorrise, lo abbracciò e
ricambiò il bacio.
Distratta da quella scena, non mi accorsi che qualcun altro si
avvicinava; una folata di vento improvvisa mi portò il suo
odore di lavanda, dolce e familiare, e capii all'istante
che era lui. Prima che potessi voltarmi Alex si inginocchiò
sull'erba, alle mie spalle, e mi circondò piano con le
braccia.
«Buon compleanno, Scheggia», mi sussurrò
all'orecchio, la voce roca e seducente. Con le labbra mi
sfiorò
l'attaccatura del collo, una piccola porzione di pelle lasciata
scoperta dal maglioncino d'angora bianco a maniche corte che indossavo.
Rabbrividii come se avessi freddo e sollevai la mano per accarezzargli
il viso, avvicinandolo al mio.
«Grazie», risposi, sorridendo. I suoi occhi erano
incantevoli osservati così da vicino. «Finalmente
ti sei
deciso a fare il tuo dovere di fidanzato. Ti aspetto da ore».
«Andiamo, Scheggia... È risaputo che l'attesa del piacere
è essa stessa il piacere²»,
protestò, ammiccando con aria furba.
«Sempre così modesto! Non esagerare, mi
raccomando, non vorrei mai che ti sottovalutassi troppo».
Rise mentre mi sfiorava la punta del naso con una mano.
«Fortuna che ci sei tu a tenermi con i piedi per
terra».
«Già, meno male».
«Ehi, ragazzi», disse Tom all'improvviso,
interrompendoci, «noi andiamo: devo parlare con la
professoressa Hughes e Jas viene
con me».
Entrambi si stavano alzando e Jas era impegnata a spazzolare via dal
jeans qualche filo d'erba.
«Perchè devi parlare con la Hughes?»
indagò Danielle.
Tom fece una smorfia. «Ho preso una D al test di
trigonometria
della settimana scorsa, voglio capire come posso corromperla per non
essere bocciato, quest'anno».
«Vengo con voi», disse Danielle. Si alzò
a sua volta, sbadigliando, e raccolse le sue cose.
«Posso suggerirti di assoldare un gigolò e
mandarglielo a
casa in regalo?», intervenne Alex, rivolto a Tom.
«Ho la
netta impressione che le farebbe piacere».
Jas scoppiò a ridere di gusto, seguita da Danielle. Tom
rispose
con un'imprecazione, presumibilmente indirizzata proprio alla Hughes.
«Se avessi i soldi lo farei», brontolò.
Afferrò la mano di Jas. «Andiamo».
Si allontanarono camminando vicini, tutti e tre, lentamente. Sentii Jas
mormorare qualcosa e colsi la parola "gigolò"; lei e
Danielle
ridacchiarono di nuovo mentre Tom scuoteva la testa.
«Le tue battute sono cattivissime, lo sai, vero?»,
dissi ad
Alex. «Povera professoressa Hughes, non è colpa
sua se in
giovane età si è lasciata conquistare dalla
matematica al
punto da non prestare più attenzione al resto del genere
umano.
E ai propri vestiti. E ai propri capelli».
Mi voltai verso di lui con un sorriso ironico sulle labbra e mi accorsi
che aveva messa qualcosa sulle mie ginocchia: un pacco di forma
rettangolare, avvolto in una semplice carta bianca.
«E questo?».
Alex ghignò. «È
per farmi perdonare l'attesa. Ti assicuro che ne valeva la
pena».
Un altro regalo! Sentii un impeto di entusiasmo. «Be',
verificheremo subito».
Tolsi in fretta la carta, curiosa ed impaziente come una bambina, e
scoprii una cartellina trasparente che racchiudeva qualcosa di bianco.
Un
cartoncino? No, era un foglio da disegno. Un foglio su cui era
raffigurato un volto di profilo. Il volto di una ragazza
leggermente chino in avanti. Aveva tratti delicati e armoniosi, il naso
appena all'insù, le labbra lievemente dischiuse, e
un'espressione strana: il suo sguardo era lì, fissato sulla
carta, eppure sembrava che stesse viaggiando chissà dove,
perso
in un altro mondo o in molti altri mondi. Il disegno era realizzato a
carboncino, tracciato da
una mano leggera, ricco di
ombre e sfumature, e sembrava quasi vivo, come se stesse pulsando. Mi
ci volle un minuto per capire.
«Questa sono io», dissi con un filo di voce, senza
staccare gli occhi dal disegno.
«Però, che intuito», commentò
Alex, come al
solito patologicamente incapace di restare serio troppo a lungo.
«Qualche giorno fa sei venuta a casa mia e abbiamo il
pomeriggio
insieme. Tu eri distesa sul mio letto a leggere, mentre io ero alla
scrivania e teoricamente avrei dovuto studiare... Ma gli occhi
continuavano a cadermi su di te. E avevi un'espressione così
affascinante... Ce l'hai sempre quando leggi. Avevo una matita e un
foglio bianco e prima che me ne rendessi conto ti stavo disegnando. Poi
sei andata via, ma ho continuato a lavorarci su e sono passato al
carboncino. Alla fine è uscito fuori un piccolo capolavoro,
come
vedi, così ho pensato che sarebbe stato uno spreco lasciarlo
chiuso in un cassetto».
Lo ascoltavo in silenzio. Avrei voluto dire qualcosa, ringraziarlo, ma
non ci riuscivo. Continuavo a percorrere con lo sguardo le linee che
disegnavano il mio volto, immaginando Alex con la matita in mano e
quell'espressione concentrata che aveva sempre quando disegnava,
intento a lanciare un'occhiata furtiva verso di me e a far scorrere
piano la matita sul foglio, perchè io non me ne accorgessi.
C'era qualcosa di così incredibilmente bello nel ritratto,
nella
curva delicata del collo, nelle piccole pieghe delle labbra, nelle
morbide onde dei capelli che mi incorniciavano il viso, da lasciarmi
senza
fiato. Era così che lui mi vedeva?
Probabilmente rimasi in silenziosa contemplazione per un bel pezzo, ma
la pazienza non era certo il pregio più grande del mio
ragazzo.
«Allora? Che ne pensi?», mi incalzò.
Lo guardai e la sua espressione traboccante di curiosità mi
fece sorridere. «È
perfetto», mormorai. «Perfetto. Grazie».
I suoi occhi blu lampeggiarono di entusiasmo. «Doti
eccezionali
per una bellezza eccezionale», commentò scrollando
le
spalle con aria trionfante.
Tolse di mezzo il disegno per
poggiarlo sull'erba con attenzione, poi si sedette e si
allungò in modo da
sistemare la testa sul mio grembo. Gli accarezzai piano i capelli,
pensierosa. Restammo in silenzio tanto a lungo, occhi negli occhi, che
a un certo punto mi sembrò di perdermi in quell'azzurro
luminoso
e sconfinato, ma era infinitamente bello perdersi così. Il
suo
sguardo era stata la prima cosa che mi aveva colpita, di lui, in quel
giorno lontano durante la lezione di geografia del signor Redmont. Lo
stesso sguardo che
era il particolare
più orrendamente realistico nei miei incubi. Lo stesso
sguardo
che mi aveva osservata con tanta attenzione per catturare quello che
c'era in me di più profondo mentre mi disegnava. Nessuno mi
aveva mai guardata così. In quel disegno c'era qualcosa di
bellissimo, potente e tremendo al tempo stesso. Qualcosa di
ineluttabile, che ormai non poteva essere fermato.
Una morsa di paura
mi strinse lo stomaco come una mano d'acciaio e le mie dita si
bloccarono tra i capelli di Alex. Distolsi gli occhi dai suoi e
guardai lontano, osservando la vegetazione fitta che circondava la
scuola, gli studenti
allungati sul prato a godersi il sole, Toby Moore che cercava di
insinuare
le mani sotto
la maglietta di Caroline mentre lei strillava e si tirava indietro con
ostentata, falsa ritrosia. Mi parve che il sole fosse meno caldo sulla
pelle, al punto che avvertii un brivido freddo lungo la schiena e le
braccia.
«Alex, io ti proteggerò sempre. Sempre, a
qualunque
prezzo. Te lo prometto», bisbigliai all'improvviso, con voce
appena udibile.
Alex percepì che qualcosa era cambiato. Sentii il
suo corpo irrigidirsi mentre mi
fissava con la fronte aggrottata. Un angolo della sua bocca si
sollevò leggermente, come se volesse sforzarsi di sorridere.
«E così ci scambiamo i ruoli? Tu sei il cavaliere
e io la damigella?», scherzò.
Non riuscii a rispondere. Mi resi conto all'improvviso di quanto
profondamente credessi in ciò che avevo appena detto. Avrei
voluto gridarlo al mondo intero. Mai, mai avrei lasciato che gli
accadesse qualcosa.
«Sei seria», osservò dopo un lungo
silenzio.
Abbassai lo sguardo. «Tu sei una cosa seria»,
risposi senza un briciolo di ironia.
Lui mi fissava intensamente, l'espressione concentrata. Rifletteva su
qualcosa.
«Renesmee?», disse all'improvviso, rompendo il
silenzio.
«Sì?».
Altra pausa. Corrugò la fronte, un gesto che faceva sempre
quando qualcosa occupava con prepotenza i suoi pensieri. Lo conoscevo
così bene che sarei stata capace di tracciare una mappa
delle
sue espressioni ad occhi chiusi. Era sul punto di dire qualcosa di
importante, lo sentivo. Ma dopo avermi guardato con quell'aria
concentrata ancora per un attimo, fece un sospiro lieve, come se avesse
lasciato volare via in quel
sospiro le parole che avrebbe voluto dirmi.
«Niente».
Note.
1. Link.
2. Citazione di Gotthold
Lessing.
Spazio autrice.
Salve! Innanzitutto vi chiedo scusa per aver saltato l'aggiornamento
della settimana scorsa, ma ero troppo impegnata con lo studio e varie
faccende universitarie per dedicare il tempo necessario alla rilettura
e alla correzione del capitolo. Spero che tutte abbiate letto gli
avvisi, tra facebook e la mia pagina qui su Efp.
Stavolta nessun papiro xd, non c'è moltissimo da dire su
questo capitolo. Più che la trama, sono i sentimenti e i
pensieri dei personaggi che subiscono un'evoluzione. Forse vi
sarà chiaro cosa succede, forse ancora no, ma preferisco non
dire troppo qui nello spazio autrice, perchè magari
c'è qualcuna che non vuole anticipazioni nè
chiarimenti e vuole aspettare di leggere per scoprire cosa succede.
Quindi se avete domande, dubbi, perplessità etc., o se
volete semplicemente approfondire alcune cose, aspetto le vostre
recensioni ^^.
Un abbraccio e un bacione!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Madness ***
C 8
Capitolo
8
Madness
I, I can't get these memories
out of my mind
It's some kind of
madness, it started to evolve
I, I tried so hard to
let you go
But some kind of madness
is swallowing me
Whole
I have finally seen the
light
And I have finally
realized
What you mean
And now I need to know
Is this real love
Or is it just madness
keeping us afloat.
Madness,
Muse¹
Noi crediamo di condurre
il destino, ma è sempre lui a condurre noi.
Denis Diderot, Jacques
il fatalista e il suo padrone
«Ragazze,
non ne posso più», annunciò Jas con
tono drammatico.
«Ho assolutamente bisogno di sedermi oppure
ucciderò chi
ha
inventato questi strumenti di tortura».
Barcollando, si attaccò al braccio di Maggie e
sollevò un
po' la gamba sinistra per sistemare il cinturino del sandalo intorno
alla caviglia, restando in precario equilibrio sull'altro piede.
«Sono d'accordo!», convenne Danielle, costretta ad
urlare per
sovrastare il ritmo martellante della musica sparata a tutto volume.
Aveva una ciocca di capelli in disordine e l'aria accaldata, sebbene
fossimo all'aperto, nel giardino sul retro della grande casa di Esme e
Carlisle.
Maggie sospirò mentre aiutava Jas a mantenersi in piedi e ad
evitare un capitombolo nel mezzo della pista da ballo. «Te
l'avevo
detto di non mettere queste scarpe, Jas».
Jas la guardò storto. «Ma se le ho comprate
appositamente per
la festa perchè erano intonate al vestito!»,
sbottò,
indignata.
Maggie la guardò di sbieco, sospirò di nuovo e
non rispose.
«Anche a me serve una pausa. Andiamo a bere
qualcosa», intervenni.
«Cosa? Andate via?», strillò Holly,
apparendo di colpo dal
nulla al mio fianco. «Ma se avete ballato appena tre
canzoni!».
Maggie fece per parlare, ma Jas la anticipò. «Io
sto per
stramazzare. Addio». Sgusciò tra la folla danzante
alla
massima velocità consentita dai tacchi e si
allontanò. Maggie le andò dietro con aria
sollevata.
«Vieni con noi?», chiesi ad Holly, avvicinandomi a
lei e sperando che mi sentisse.
«No! Dai, ragazze, questa è proprio
bella!»,
esclamò
mentre iniziava una nuova canzone. «Paul!
Balliamo!». Il
suo
ragazzo, che ballava poco distante da noi, emerse lentamente dalla
folla muovendosi a ritmo sostenuto e le cinse i fianchi senza fermarsi.
Holly gli gettò le braccia al
collo con entusiasmo, puntando verso le sue labbra. Danielle ed io ci
scambiammo un'occhiata eloquente e ci allontanammo
per lasciarli soli; Holly avrebbe dimenticato in fretta la nostra
assenza. Tenendoci per mano per non essere separate, attraversammo il
giardino e raggiungemmo Jas e Maggie. Erano sedute ad uno degli alti
tavolini rotondi con sgabelli che zia Alice aveva sistemato
qua e là per dare l'idea di un romantico bar all'aperto,
insieme
alle lucine nascoste tra il fogliame e ai morbidi, rigogliosi festoni
di tulle bianco sparsi in apparente disordine. Maggie
sorseggiava una Coca, Jas si massaggiava una caviglia con aria
sofferente.
«Perchè i ragazzi possono andare alle feste con le
scarpe da
ginnastica?», ci aggredì appena fummo abbastanza
vicine.
Danielle fece un sorrisino. «Perchè non lo fai
anche tu?»,
disse in tono divertito mentre estraeva un piccolo specchio dalla borsa
e
si ritoccava il rossetto. «Sarebbe una cosa che non si vede
tutti i
giorni».
Jas non era dell'umore adatto per fare dell'ironia e le
lanciò
un'occhiata gelida. «Stai scherzando, per caso?
Dovrà
congelarsi l'inferno prima che io faccia una cosa del genere».
Scoppiamo tutte a ridere, compresa Danielle, che fu costretta a
smettere di
passarsi il rossetto sulle labbra. Non avevamo ancora smesso quando
sentii una mano poggiarsi delicata sulla schiena. Mi voltai e vidi zio
Jasper dietro di
me, bellissimo come un fotomodello
nel suo completo grigio scuro di Armani.
«Scusate l'interruzione, ragazze», disse,
sfoggiando un
sorriso affascinante che, ne ero sicura, fece perdere un paio di
battiti alle mie amiche. «Renesmee, ti dispiace entrare un
momento? È arrivato Charlie».
«Oh, certo». Smontai dallo sgabello stringendo la
mano che Jazz
mi offriva per mantenere l'equilibrio. Stavo cominciando a detestare le
mie scarpe almeno quanto Jas detestava le sue. «Torno
subito».
Entrammo insieme in biblioteca, dove c'era il buffet. Passando accanto
al tavolo, presi al volo un minuscolo sandweech al salmone e lo mandai
giù.
«Com'è?», chiese lo zio mentre salivamo
le scale per raggiungere il soggiorno.
«Ottimo», esclamai, allegra.
Lui sorrise. «Dovrò crederti sulla
parola».
Sbucammo nel soggiorno, che era già piuttosto affollato.
Faceva
un gran caldo e la musica spaccatimpani giungeva attutita. Jasper mi
guidò con destrezza tra gli ospiti, superando qualche Cullen
sparso
qua e là, e raggiungemmo Charlie e Sue intenti a
chiacchierare con i
miei genitori e Jacob.
«Eccola qui», annunciò zio Jazz. Mi fece
l'occhiolino
mentre lasciava la mia mano e sparì tra la folla,
probabilmente
in cerca di Alice.
«La nostra festeggiata! Tanti auguri, tesoro»,
disse Sue con gioia sincera. In una
mano stringeva una flȗte
di champagne e con l'altro braccio mi cinse le
spalle.
«Grazie! Sono contenta che siate venuti».
«Non ce la saremmo persa per niente al mondo,
piccola», disse
Charlie, avanzando per stringermi in un goffo abbraccio. «Da
non
credere quanto sei cresciuta», aggiunse a mezza voce. Mi
osservò con un'espressione strana. Il suo tono era burbero,
ma
velato di commozione. «Mi sembra che sia passato
così poco
tempo da quando ti tenevo in braccio. È...
sconvolgente».
«Eh, già, il tempo passa»,
commentò la mamma
ostentando un fare disinvolto, ed io mi trattenni a stento dallo
scoppiare a ridere.
In quel momento arrivò Seth, sorridente e tirato a
lucido con
una camicia azzurra e una giacca elegante. Brandiva un bicchiere di
birra e sembrava più carino del solito. Diede a Charlie una
pacca sulla spalla.
«Ehi, di cosa parlate?», esclamò in tono
allegro
per inserirsi nella conversazione. Sembrava che fosse passato
di
lì casualmente, ma ebbi la sensazione che avesse ascoltato
tutto e fosse intervenuto in un lampo.
«Siamo un po' nostalgici, questa sera», rispose
Sue,
mentre prendeva affettuosamente suo marito sotto braccio. Charlie si
sforzava di mantenere un'espressione impassibile nonostante avesse gli
occhi lucidi.
Seth diede un'altra pacca comprensiva sulla spalla di Charlie.
«È normale, la tua nipotina sta crescendo, vecchio
mio».
«Certo. È
il trionfo della normalità, da queste parti»,
commentò
Jacob, e rispose con uno sguardo divertito alla gomitata che gli
rifilai.
Charlie sembrò non farci caso. «Hai ragione,
Seth»,
sospirò. «Quando si invecchia si diventa
sentimentali».
La mamma rise. «Dai, papà, non esagerare. Non hai
novant'anni».
Lui inarcò le sopracciglia. «Uhm, no. Ma ormai
sono un matusa, è inutile negarlo».
Sue disse qualcosa che fece ridere tutti, ma io non sentii; Seth mi
aveva appena stretta in un abbraccio mozzafiato, quasi sollevandomi da
terra.
«Buon compleanno, Nessie!», esclamò, la
voce carica di sincero affetto.
«Grazie», borbottai, sul punto di soffocare. Cercai
di prendere
aria. Faceva già abbastanza caldo lì dentro senza
che un
licantropo mi si appiccicasse addosso. «Ehi, vacci
piano».
«Ops, scusa».
Mi lasciò andare subito ed io ricominciai a respirare.
Accidenti, quanto era forte. Avrebbe potuto stritolarmi con un braccio
solo.
«Quando sei arrivato?», chiesi, mentre gli altri
continuavano a parlare tra loro.
«Praticamente ora. Sono venuto con la mamma e Charlie.
C'è anche Leah... credo sia qui, da qualche parte».
«Allora tu... non hai ancora visto nessuno?».
Seth
mi sorrise, rilassato. «Chi avrei dovuto vedere?».
«Lo sai benissimo», risposi, lanciandogli
un'occhiataccia eloquente.
«No, non l'ho vista», disse. Divenne serio di
colpo.
«Probabilmente in questo casino non ci incontreremo, quindi sta'
tranquilla».
Okay, perfetto. Adesso mi sentivo anche in colpa. Avrei voluto
spiegargli che non ce l'avevo con lui, ma con l'imprinting; peccato a
che a volte non fosse affatto semplice tracciare confini netti, pensai
con un'occhiata malinconica verso Jacob. Poi
Seth parlò di nuovo dopo un breve silenzio ed io cambiai
subito idea.
«Quindi è già arrivata?»,
aggiunse, come niente fosse.
«Se è arrivata o no a te non deve
interessare!», sbottai,
irritata. «Senti, devi promettermi che non creerai problemi a
Jas,
stasera. Promettilo», dissi, guardandolo dritto negli occhi
con
determinazione.
«Renesmee, crearle problemi è l'ultima cosa che
vorrei, te l'assicuro».
Non mi sentii più tranquilla, neanche un po'. Forse era
sincero,
ma se non fosse riuscito a controllarsi? Se fosse successo qualcosa di
strano in presenza di Tom?
«Cerca di starle alla larga, allora», aggiunsi in
tono
significativo. Accanto a me Jacob si mosse appena, forse una reazione a
qualcosa che avevo detto. Lui e Seth si scambiarono un'occhiata che non
capii.
«Farò del mio meglio», rispose Seth,
lentamente.
Rimasi lì a scrutarlo ancora per un attimo, cercando di
capire
cosa significasse quella risposta. Ma la sua espressione era neutra.
«Devo tornare giù», dissi, distogliendo
lo sguardo. «Accompagnami, Jake, per favore».
Lui mi prese per mano senza dire nulla e ci allontanammo attraverso il
soggiorno, verso le scale.
«Che intenzioni ha?», indagai a bassa voce,
accostandomi a lui.
Jacob mi lanciò un'occhiata. «Non è
ovvio? Vuole
saltarle addosso e chiederle di sposarlo per mettere al mondo dieci
marmocchi».
Sebbene fossi sinceramente preoccupata, mi sfuggì un
sorriso. «Jake, è una cosa seria».
Lui mi tirò per il braccio, costringendomi a fermarmi.
Eravamo
in cima alle scale, in un angolino tranquillo e isolato dal gruppo di
ospiti cha gironzolava per il salotto chiacchierando e ridendo.
«Lo so, ma è
il tuo compleanno. Perchè non cerchi di goderti la
festa?».
Be', non aveva torto. Anzi, forse aveva pienamente ragione e stavo
esagerando. Forse ero paranoica. No, non ero paranoica. Jas era la mia
migliore amica e si era inconsapevolmente cacciata in una situazione
complicata. Molto complicata. Era naturale che mi preoccupassi per lei.
Ma se volevo
aiutarla davvero dovevo restare lucida. Abbassai per un momento lo
sguardo sulle scale, poi lo sollevai nuovamente su Jacob, che era
lì in piedi e mi guardava con affetto.
«Mi prendi?».
Capì al volo e mi rivolse un sorriso splendente di affetto e
complicità che mi scaldò il cuore.
«Certo».
Scese rapidamente i gradini e si fermò ai piedi della scala.
Scesi un paio di gradini anch'io e mi gettai un'occhiata veloce alle
spalle per controllare che nessuno stesse guardando, poi, facendo
leva sul corrimano, spiccai un salto decisamente poco umano e con un
strillo di felicità mi tuffai tra le sue
braccia tese e pronte ad accogliermi. Da
bambina adoravo quel gioco e lo avevamo fatto così tante
volte
da essere ormai perfettamente sincronizzati. Mi fece girare un paio di
volte, tenendomi sollevata, e strillai ancora, scossa da brividi di
entusiasmo. Quando mi mise a terra, invece di lasciarmi andare mi
strinse a sè ancora più forte, annullando la poca
distanza che ci separava, e mi baciò la fronte.
«Wow, Renesmee! Deve essere divertentissimo!».
Mi voltai di scatto con un sussulto. Sulla porta che conduceva alla
biblioteca erano apparse due persone: Danielle, che sembrava divertita
dal nostro gioco, e Alex, alle sue spalle, muto e immobile.
«Sì. Ed è anche molto
infantile», risposi,
ridacchiando nervosamente. Guardai Alex. Ci fissava con un'espressione
fredda che
congelò all'istante il mio sorriso. Qualcosa non andava.
Automaticamente mi allontanai da Jacob.
«Ti stavamo cercando, dov'eri finita?», chiese
Danielle.
«Ero di sopra per salutare Charlie. Scusate se sono sparita.
Vengo con voi».
E Jake? Mi girai verso di lui, incerta sul da farsi. Ero terribilmente
imbarazzata. E infastidita, anche. Perchè mi sentivo
così?
«Vai pure», disse lui, tranquillo. Mi strinse con
forza la mano
per un attimo, poi mi lasciò, salì le scale ed io
lo
seguii con gli occhi mentre si allontanava.
«Sai, Renesmee, il buffet è fantastico. Voglio
assaggiare
tutto. Scott ha detto che le tartine sono buonissime», stava
dicendo
Danielle con entusiasmo. «Venite, ragazzi?».
Pensierosa, stavo per seguirla varcando la soglia della biblioteca,
quando Alex tese un braccio e mi bloccò.
«Balliamo?», propose. Aveva un tono freddo come il
suo sguardo e per un attimo restai a fissarlo, paralizzata.
«Certo, se ti va», mormorai, preoccupata.
Chissà che diavolo gli prendeva.
Accennò un sorriso brusco. «Sì, mi va.
Questa canzone
è perfetta... il testo è una vera ispirazione.
Voglio
baciarti ogni volta che me lo suggerisce²».
Lasciammo Danielle al buffet, intenta a chiacchierare con alcune amiche
del corso di francese, e Alex mi trascinò in pista, ma non
mantenne la sua parola, perchè invece di seguire il testo
della
canzone mi baciò praticamente senza interruzioni. Non
ballammo
quasi per niente. La canzone successiva era un lento. Alex mi
abbracciò con dolcezza mentre ci muovevamo piano in tondo ed
io
misi la testa sulla sua spalla.
«Ti stai divertendo?», mi chiese in un sussurro,
all'improvviso. Mi
sfiorò la fronte con il mento e sentii il suo respiro sulla
pelle.
Annuii. «Sì. È tutto
perfetto».
Tutto tranne l'imprinting di Seth.
No, Renesmee, non pensarci. Non adesso.
«Ti
ho già detto che stasera sei più bella del
solito?».
«Soltanto una decina di volte», risposi, un sorriso
divertito
sulle labbra. «Ma anche l'undicesima sarebbe
apprezzata».
Avvicinò di nuovo la bocca al mio orecchio. «Sei
stupenda, Scheggia. Ogni tuo desiderio è un
ordine».
«Davvero? Allora posso chiedere anche di non essere chiamata
"Scheggia" almeno per stasera?».
«No, questo no».
Il suo tono serio mi fece ridere. Mossi leggermente la testa e qualcosa
catturò l'attenzione di Alex. Aggrottò la fronte.
«Belli questi orecchini. Regalo dei tuoi?».
Con un dito disegnò il profilo di uno dei due cuori
d'argento
che portavo alle orecchie. Colta alla sprovvista, esitai un istante
prima di parlare.
«No, veramente... me li ha regalati Jacob»,
mormorai e sollevai lo sguardo d'istinto per osservare la sua reazione.
Il dito di Alex si fermò. Il volto rimase impassibile, ma
negli
occhi colsi un guizzo di qualcosa che mi lasciò a bocca
aperta.
Rabbia. Allo stato puro. Abbassò la mano di scatto.
«Però. Questo sì che è un
regalo degno del tuo migliore amico», commentò
freddamente.
Era tornato gelido e distaccato, come prima, quando mi aveva vista
sulle scale con Jake. Eravamo ancora stretti l'uno all'altra, girando
lentamente in tondo, eppure mi parve che in un attimo tra noi si fosse
eretto un muro. E nello stesso momento capii. Gelosia: ecco la
spiegazione di tutti quegli strani comportamenti e di tutto
quell'imbarazzo ogni volta che io, Alex e Jacob ci trovavamo insieme.
Alex era geloso di Jake. Mi sembrò una verità
così
spaventosamente chiara che mi sentii un'autentica idiota per non
esserci arrivata prima. Era geloso dei nostri abbracci, della nostra
sintonia, del nostro legame forte e indissolubile come la pietra.
Sapeva benissimo che Jacob era il mio amico più caro, eppure
sembrava che ai suoi occhi non fosse tutto lì. Ma una cosa
del
genere era impossibile, naturalmente. Alex si sbagliava.
E Jacob? Era a sua volta geloso di Alex? Ripensai al tono formale con
cui gli rivolgeva la parola, alla freddezza nei suoi confronti, e mi
sentii cadere la mascella per la seconda volta nel giro di un minuto.
Allora la follia che mi aveva colta al matrimonio di Rachel,
l'improvviso, assurdo desiderio di prendere a schiaffi Summer ogni
volta che si avvicinava a Jake, non apparteneva soltanto a me. Jacob
provava la stessa cosa?
Ma che accidenti stava succedendo?
Confusa e un po' agitata, lasciavo vagare lo sguardo qua e
là sul
giardino senza vedere niente, presa dai miei pensieri e cercando
soltanto di non guardare in faccia Alex; mi sembrava di sentirlo sempre
più lontano, come un sogno evanescente che si dissolve nella
luce del mattino lasciando solo una vaga sensazione in ricordo di
sè. Poi, all'improvviso, qualcosa suscitò la mia
attenzione: seduti da soli a un tavolino, intenti a
chiacchierare vivacemente, c'erano Seth e Jas. Seth e Jas.
«Maledizione», sbottai senza rendermene conto. Li
avevo
completamente dimenticati.
«Cosa?», domandò Alex.
Lo guardai; nei suoi occhi c'era un'espressione circospetta. Sbattei le
palpebre, cercando di pensare in fretta a qualcosa.
«Ehm... No, niente... Scusami», farfugliai.
Non aggiunse altro. Sembrava ancora arrabbiato. Continuammo a ballare,
anche se io non badavo più a dove mettevo i piedi e cercavo
solo
di allungare il collo per sbirciare verso Seth e Jas, ma ben presto ci
allontanammo troppo e la folla di persone in movimento li nascose al
mio
sguardo. Fantastico. Decisi che al termine della canzone li avrei
raggiunti e sarei rimasta con loro, a costo di fare il terzo incomodo
per tutta la sera. Ma il mio brillante piano fallì. Poco
dopo
fummo raggiunti da alcuni compagni di classe di Alex che erano appena
arrivati alla festa e volevano salutarci, farmi gli auguri e
consegnarmi il loro regalo.
Alex appariva disinvolto e spiritoso come al solito, ma dal suo sguardo
e dalla piega della bocca capivo che non gli era passata; era solo un
maestro nell'arte di far finta di nulla. Riuscii ad intravedere
nuovamente la mia amica che ballava con Seth una canzone veloce. Lui le
diceva chissà cosa e lei rideva. Sembrava che si
divertissero
parecchio. Ero così preoccupata che prestavo scarsissima
attenzione agli amici di Alex, sentivo un gran caldo al viso
e uno strano ronzio nelle orecchie. Non potevo credere che Seth
ignorasse in quel modo le promesse che mi aveva fatto soltanto mezz'ora
prima. Ogni tanto notavo che Alex mi osservava, ma non riuscivo a
concentrarmi neanche su di lui. L'unica cosa che desideravo era cercare
quei due e impedire che succedesse un disastro.
A un tratto non ce la feci più. Inventai una scusa qualunque
e
scappai via senza osare guardare Alex. Percorsi in tutta fretta il
perimetro del giardino, ma non li scorsi da nessuna parte. Avevano
smesso di ballare? Passai accanto ai tavolini, dove c'erano solo Holly
e Paul molto impegnati a baciarsi appassionatamente, ed entrai in
biblioteca. Era affollata, soprattutto nei pressi del buffet, ma non
troppo; decisamente Seth e Jas non erano lì. Mentre mi
guardavo
intorno, sentii il panico invadermi lo stomaco come un fiotto acido e
poi salire su per la gola. Una piccolissima parte di me era consapevole
del fatto che stavo esagerando, ma non riuscivo a ragionare. Dove erano
finiti? Dove?
Passando accanto al buffet incrociai Maggie mentre si versava un
bicchiere di punch. La afferrai per un braccio, lei si voltò
e
strabuzzò gli occhi.
«Renesmee, tutto bene?».
«Hai visto Jas?», chiesi per tutta risposta.
«No. Poco fa era insieme al tuo amico della riserva, mi pare.
Come si chiama? Seth, giusto?».
Non dissi nulla. Mi diressi rapidamente verso la porta, mentre Maggie
mi chiamava. «Renesmee, che cos'hai? Renesmee!».
Mi fiondai nell'ingresso, dove il fracasso della musica giugeva appena,
i sensi tesi al massimo, e finalmente colsi qualcosa che mi spinse a
fermarmi. Qualcuno gridava oltre la porta di ingresso. Guardai
attraverso i vetri e nel buio riconobbi due sagome. Ascoltai
attentamente, avvicinandomi di qualche passo alla porta chiusa.
«Non posso credere che tu abbia fatto una cosa del
genere!».
«Non è stato niente,
te l'ho già detto!».
«Baciare un altro per te è niente?».
«Lo conoscevo a malapena!».
«Questa sì che è una consolazione! E
perchè mai hai deciso di dirmelo proprio adesso?».
«Volevo solo essere sincera!».
«È
successo due mesi fa e a te viene in mente ora di essere
sincera?».
«Non
trovavo mai il momento giusto!».
«E ti sembra questo il momento giusto, dannazione? Stai
rovinando la festa di Renesmee!».
«Non è vero!».
Agii
d'istinto. Senza riflettere, spalancai la porta ed uscii. Tom e Jas
erano in piedi sui gradini, uno di fronte all'altra; si girarono
contemporaneamente a guardarmi ed io rimasi lì impalata per
un
secondo, titubante.
«Oh, scusate», mormorai, sfoderando una faccia da
poker. «Non
volevo disturbarvi, ma ho sentito gridare e...». Non terminai
la
frase e li osservai con ansia, aspettando le loro reazioni.
Jas incrociò le braccia bruscamente. «È
tutto a posto,
Renesmee», rispose, sebbene la sua voce incrinata e risentita
suggerisse l'esatto contrario.
Tom non disse una parola. Conoscendolo, sapevo che con ogni
probabilità farsi beccare a litigare con la sua ragazza nel
mezzo della mia festa di compleanno doveva infastidirlo parecchio. A
quel punto non potevo fare altro che andarmene e sperare che il mio
breve intervento avesse raffreddato un po' gli animi. Annuii.
«Okay. Allora io... vado. Scusatemi ancora».
Guardai Jas con espressione significativa, cercando di intuire cosa
stesse accadendo, ma lei tenne gli occhi puntati a terra con decisione.
Tornai dentro e mi chiusi la porta alle spalle. Un attimo dopo avevano
già ricominciato.
«Hai visto?», sbottò Tom.
«Sapevo che avresti rovinato la festa!».
«Non ho rovinato un bel niente!»,
strillò la mia amica di rimando, e dalla voce capii che
stava piangendo.
«Davvero? Ne sei sicura? Chissà che diamine
sarebbe successo
tra te e quella specie di energumeno pellerossa se fossi arrivato
cinque minuti dopo!».
«Stavamo solo parlando, te l'ho detto mille volte!».
«Anche con il barista di Long Beach
stavi solo parlando prima di baciarlo, immagino!».
Okay, avevo ascoltato abbastanza. Con una specie di fredda
determinazione, sebbene fossi piuttosto arrabbiata, marciai su per le
scale e piombai in salotto, evitando per un pelo di finire addosso a
Charlie e a Billy che chiacchieravano tra loro bevendo birra.
Individuai Seth tra la folla e puntai dritta verso di lui. Stava
parlando con Jacob e la mamma, ma notai a malapena la loro presenza.
«Che cavolo hai combinato?», lo aggredii con una
certa veemenza.
Lui sgranò gli occhi, stupefatto.
«Come?».
«Non fare il finto tonto, hai capito benissimo! Che cavolo hai combinato?».
Prima che Seth potesse rispondere, papà apparve al mio
fianco
come se si fosse materializzato dal nulla e mi circondò la
vita
con un braccio.
«Tesoro, per favore. Sta' calma»,
sussurrò, la voce
bassa e controllata. «Non è come
pensi...».
Mi divincolai per sottrarmi alla sua stretta. «E
com'è,
allora?», sibilai, fissando Seth con un'espressione che parve
spaventarlo un poco.
«Non so di cosa stai parlando, Nessie».
«Tom e Jas! Stanno litigando furiosamente, di sotto! È colpa
tua, lo so!
Che cosa hai fatto?».
Seth
assunse
lentamente un'aria grave a mano a mano che afferrava la situazione.
«Niente, te lo giuro. Stavamo chiacchierando... Poi abbiamo
ballato...».
«Ma Tom se l'è presa e adesso le sta urlando
contro!».
«Mi dispiace, ma non è successo
niente...».
«Ti avevo detto di starle lontano! Perchè eravate
insieme?».
Seth alzò la voce per sovrastare la mia, senza smettere di
guardarmi dritto negli occhi con espressione seria, tranquilla,
vagamente dispiaciuta. «È
stata lei a cercarmi, Renesmee», esclamò. Restai
talmente
basita che ammutolii di colpo. Lui ne approfittò per
proseguire. «Mi ha visto da
lontano ed è venuta da me. Che cosa avrei dovuto fare?
Mandarla
via? Rifiutarmi di parlarle? Lo sai che non posso».
Pronunciò
l'ultima frase con voce più bassa e intensa, quasi
tormentata.
Il suo sguardo era limpido e sincero come sempre.
Ed io ero confusa. Restai in silenzio, fissandolo ad occhi spalancati.
Jas aveva cercato lui? In quel momento scorsi con la
coda dell'occhio un lampo di lunghi, lisci capelli biondi che si
fiondava su per le scale. Era lei. Mollai tutti lì senza
fornire nessuna spiegazione e le corsi
dietro, ignorando le occhiate perplesse e curiose della gente intorno a
me. Ero piuttosto sicura che gli ospiti si stessero ponendo qualche
domanda osservando tutto quell'ansioso via vai.
Al secondo piano sentii una porta che sbatteva e, seguendo il rumore di
singhiozzi
soffocati, percorsi il corridoio fino alla camera di
Alice. Mi guardai intorno; non c'era nessuno, ma la porta del bagno era
chiusa. Con un piccolo sospiro, mi avvicinai camminando lentamente e
bussai dopo una breve esitazione. Nessuna risposta. Bussai di nuovo.
«Vattene, Renesmee! Lo so che sei tu!».
Stava piangendo davvero. Maledizione. «J, ti prego, fammi
entrare. Voglio aiutarti. Per favore», mormorai, preoccupata.
Trattenni a stento un sorriso un po' triste; avevo usato inconsciamente
il suo vecchio nomignolo, forse nella speranza che stuzzicasse qualcosa
dentro di lei e la spingesse a darmi ascolto.
Ci fu una lunga pausa. Poi sentii dei passi dall'altra parte e la
chiave girò nella toppa. Abbassai piano la maniglia, con
l'assurda sensazione che fosse meglio non fare rumore, ed entrai. Jas
era seduta sul bordo della vasca da bagno, una gamba elegantemente
accavallata, un braccio
stretto intorno alla vita e l'altra mano sulla bocca, come per
nascondere il viso. Mi gettò una rapida occhiata, poi
girò la testa dall'altro lato e scoppiò in
lacrime. Mi
chiusi la porta alle spalle, sperando che nessuno udisse quel baccano e
pensasse di venire a controllare.
«Che succede?», domandai con cautela, avvicinandomi
di qualche passo.
«Ho litigato con Tom», balbettò lei tra
i singhiozzi, senza scoprire il viso.
Avrei dovuto soprannominarla "Miss Ovvio" invece di "J".
«Sì, questo l'ho capito. Ma perchè
stavate
litigando?».
Jas fece un respiro profondo, mentre il flusso di lacrime sembrava
diminuire appena, e si passò il dorso della mano su una
guancia
bagnata, rivelando il volto congestionato. «Mi ha... mi ha
vista... con Seth... E si è arrabbiato. Che razza di
idiota!». La sua voce si ruppe in uno nuovo scoppio di pianto
e
per un paio di minuti non riuscì a dire altro. Io la
guardavo in
silenzio, immobile, tesa. «Stavamo soltanto
ballando»,
aggiunse all'improvviso in tono quasi isterico.
Proprio quello che avevo sospettato. E probabilmente non era colpa di
Seth. «Tutto qui? A giudicare da quello che ho sentito
c'è qualcos'altro», mormorai. Non volevo forzarla
a
confidarsi con me, ma dovevo capire cosa stava succedendo e
soprattutto capire il ruolo di Seth in quella faccenda.
Lei scrollò la testa, il volto ancora girato verso la parete
per
non guardare verso di me. «Hai ragione»,
sussurrò.
Per un lungo istante mi sentii quasi sospesa nell'aria mentre aspettavo
l'inevitabile. Lentamente, Jas mi fissò con aria tragica.
«Gli ho detto di Luke. Il ragazzo di Long Beach».
Repressi a stento la voglia di mettermi a strillare agitando le braccia
al cielo; non sarebbe servito a nulla, se non a far accorrere gente. Mi
lasciai sfuggire un gemito basso, quasi un lamento.
«Oh, Jas...
Non posso crederci. Perchè l'hai fatto?».
Le lacrime aumentarono di intensità mentre parlava.
«Perchè lui continuava a ripetermi che non poteva
fidarsi
di me, che ero strana, che gli nascondevo qualcosa... La stessa roba
che mi ripete da un mese e a un certo punto non ce l'ho fatta
più e gli ho raccontato tutto! So di aver sempre detto che
tutti
i normali rapporti di coppia si basano su sfiducia e bugie, ma non
resistevo più a mentirgli, mi sentivo in colpa... Io gli
voglio
bene».
Jas tacque, asciugandosi le guance, e per un minuto restammo in
silenzio. La musica e l'allegro vociare della festa giungevano fino a
noi, anche se attutiti, e sembravano fuori luogo in quel momento.
Camminando a passi lenti, sedetti al suo fianco con un sospiro.
«Questo ti fa onore, Jas», risposi a bassa voce,
passandole
un braccio intorno alle spalle scosse dai singhiozzi.
Fissai il
pavimento, pensierosa, e mi presi una pausa prima di continuare. Le
parole della mia amica mi spingevano a riflettere su tutto
ciò
che nascondevo ad Alex. Il bacio di Nahuel era solo la punta
dell'iceberg. Una parte di me si sentiva tremendamente in colpa, come
Jas, ma ero anche consapevole del fatto che confessargli del bacio e
continuare a mentire su mille altre cose non avrebbe avuto molto senso.
Per lei era diverso: non aveva segreti da nascondere, era giusto che
fosse sincera fino in fondo.
«Però... forse hai scelto il
momento peggiore, lascia che te lo dica».
Jas tirò su col naso. «Mi dispiace di averti
rovinato la festa».
«Cosa? Ma no, non intendevo questo. Voi due eravate
già in
crisi, non credo che la tua... confessione vi
aiuterà,
ecco», borbottai, a disagio. Non volevo fare l'uccello del
malaugurio, ma non potevo neanche mentirle e fingere che andasse tutto
bene.
Jas annuì lentamente. «Lo so. Sono una stupida,
vero? Ho rovinato tutto».
La sua voce incrinata dal pianto mi serrava il cuore in una morsa di
tristezza e sembrava risvegliare le mie paure. Le strinsi le spalle con
più forza.
«No, non è vero. Vedrai che le cose si
aggiusteranno», risposi, cercando di apparire tranquilla e
sicura e di infonderle un minimo di fiducia. Lei non aggiunse altro,
occupata a tamponarsi gli occhi con un
fazzoletto, e di nuovo scese il silenzio. Poi, all'improvviso, mi
ritrovai a parlare ancora quasi senza accorgermene. «Credo
che
Alex e Jacob siano gelosi l'uno dell'altro», dissi tutto d'un
fiato.
Jas mi lanciò un'occhiata strana, forse stupita da quel
repentino cambio di argomento. La sua risposta, però, mi
spiazzò completamente.
«Davvero? Be', un po' me l'aspettavo. Se
io avessi per amico un gran figo di ventidue anni, come credi che
reagirebbe Tom?».
«Jacob è un fratello per me!», obiettai,
incredula.
«Forse sì, ma... direi che siete anche
più di
questo. Tra voi c'è qualcosa di speciale, si vede benissimo.
È normale che Alex sia geloso. E Jacob probabilmente si
preoccupa per te, da bravo fratello
maggiore».
Non sapevo cosa rispondere. Continuai a fissarla sbalordita per un po',
poi abbassai gli occhi sul pavimento. Avevo pensato che Jas avrebbe
riso delle mie supposizioni e invece era d'accordo con me. Non avrei
saputo dire come mi sentivo in quel momento, se più sorpresa
o più in
imbarazzo.
«In ogni caso, non ci voleva proprio», sbottai con
tono
stanco. Quella faccenda rischiava di crearmi un bel po' di problemi e
al momento ne avevo più che a sufficienza.
«Che
casino», commentò Jas all'improvviso, scocciata.
Non piangeva
più, ma la sua voce era ancora debole e roca.
«Come siamo riuscite a cacciarci tutte e due in una
situazione da soap opera? È un talento naturale,
forse?».
«Siamo
tutti pazzi» risposi di getto, buscamente.
«È l'unica spiegazione, punto».
Mi tornò in mente
l'espressione fredda e dura di Alex quando aveva visto Jacob prendermi
tra le braccia e quel guizzo di rabbia nei suoi occhi scoprendo che i
miei orecchini erano un regalo di Jake. E ricordai il modo in cui
l'avevo lasciato, pochi minuti prima, senza neanche guardarlo, senza
una spiegazione. Una fitta di senso di colpa mi strinse lo stomaco.
Chissà cosa stava facendo adesso. Chissà se mi
stava
cercando. Chissà se era arrabbiato.
Fui distratta dal suono di una sorta di singhiozzo sommesso accanto a
me. Stupita, mi voltai verso Jas, pensando che avesse ripreso a
piangere, e scorsi le sue spalle minute sussultare mentre ridacchiava
con una mano a coppa sul viso, come nel tentativo di trattanersi.
«Be'? Cosa
c'è?», indagai,
fissandola con le sopracciglia inarcate. Faceva venire voglia di ridere
anche a me, sebbene non ne conoscessi il motivo, e sentii nascere un
sorriso spontaneo sul mio volto.
Scosse la testa, asciugandosi gli occhi con le dita delicatamente per
non spargere ombretto e mascara ovunque, e per un attimo pensai che
stesse ridendo di se stessa. O di tutti noi.
«Niente, è
solo che... siamo davvero tutti pazzi quando si parla di amore». Fece un sospiro
pesante e si passò le mani sulle guance, sotto gli occhi,
con più decisione, come se fosse intenzionata ad arginare le
lacrime - e le risatine isteriche - una volta per tutte.
«Spero proprio che Tom ne valga la pena», aggiunse
dopo un secondo di silenzio, un lieve scetticismo nella voce.
«Certo che ne vale la pena», esclamai, convinta.
«State attraversando un brutto momento, ma
passerà».
Lei mi fissò di sotto in su, leggermente dubbiosa.
«Tu dici?».
Annuii con forza. «Io dico».
Non rispose, ma non smise di guardarmi negli occhi, attenta, come se
cercasse di leggervi cosa pensavo veramente. Mi allungai per
afferrare la scatola di Kleenex dal mobiletto del bagno e gliela
passai.
«Devo tornare giù, non posso sparire
così»,
dissi, i pensieri fissi su Alex. «Vieni con me?».
Jas si soffiò rumorosamente il naso. «Resto qui
ancora un
po'. Devo darmi una sistemata e rifarmi il trucco».
Per fortuna aveva messo l'eyeliner resistente all'acqua, come al
solito, ma un po' di ombretto era sbavato insieme al mascara,
disegnandole ombre nere intorno agli occhi.
Sorrisi. «Va bene. Ci vediamo più
tardi». Mi sporsi
verso di lei e ci stringemmo in un breve abbraccio. Le accarezzai i
capelli, lisci e soffici come seta, sperando di averla tranquillizzata
un poco. «Coraggio, J», sussurrai.
Lei non disse nulla, ma quando ci separammo e mi alzai, mi rivolse un
piccolo sorriso. Uscii, chiudendo accuratamente la porta del bagno, e
tornai di sotto con passo pesante come i miei pensieri. Il solotto mi
parve all'improvviso troppo affollato, rumoroso e caotico; avrei
desiderato che la festa terminasse e che sparissero tutti, per restare
sola, in silenzio, a riflettere. Seth mi scorse da un angolo della
stanza e cambiò espressione, passando quasi istantaneamente
da una faccia preoccupata ad una molto
preoccupata. Mi raggiunse
con tre passi delle sue lunghissime gambe.
«Che succede?», indagò, la voce carica
di sincera
premura. Fu proprio la preoccupazione che traspariva dai suoi occhi a
stuzzicare i miei nervi, già tesi al massimo, più
di
qualunque altra cosa accaduta quella sera. Che diritto aveva di essere
preoccupato per la mia migliore amica? Non era niente, niente, per lei.
Come osava? Era tutta colpa sua se Jas era in lacrime, chiusa in un
bagno.
«Quello che succede a Jas non ti riguarda»,
risposi,
sforzandomi con tutta me stessa di non alzare la voce e di
controllarmi. Poco più in là, Alice e Rosalie ci
stavano
fissando con attenzione e sembravano allarmate.
La sicurezza di Seth non vacillò, ma non gli permisi di
ribattere. Mi allontanai in fretta e imboccai le scale, desiderosa
soltanto di allontanarmi, da lui, da tutto e tutti, di mettere
più spazio possibile tra me e quella situazione
così
complicata, perchè nessuno si accorgesse del bruciore sempre
più intenso alla gola che mi impediva di spiccicare parola,
e
del velo di lacrime che mi offuscava la vista. Farmi un bel pianto e
poi dormire per una settimana senza incubi. Non avrei desiderato
nient'altro.
Nell'ingresso un'ombra mi si parò improvvisamente
davanti. Sussultai, spaventata, prima di rendermi conto che era Alex,
ma l'ondata di aggressività che mi rovesciò
addosso non
mi fece sentire affatto più sollevata. Neanche un po'.
«Renesmee!», sbottò in tono arrabbiato;
sembrava sul
punto di esplodere in mille pezzi e che si contenesse a stento, mentre
si fermava a un centimetro da me. «Finalmente! Ti sto
cercando da mezz'ora. Dov'eri finita? Si può sapere che
succede?».
Mi sforzai di rispondere, ma le parole mi morirono in gola, strozzate
da quella insopprimibile voglia di piangere. Lo guardai in silenzio,
mordendomi un labbro, indecisa, preoccupata dalla sua reazione. Poi
con due passi colmai la piccola distanza che ci separava e gli gettai
le braccia al collo. Alex rimase perfettamente immobile per un tempo
che mi parve infinito. Lo sentivo respirare a malapena, le spalle
rigide sotto le mie mani che si aggrappavano al tessuto fine della sua
giacca.
«Ti prego, stringimi», sussurrai con un filo di
voce. «Per favore».
Doveva essere spiazzato. Molto lentamente, sollevò le
braccia e
le passò intorno alle mie, in un gesto dapprima meccanico,
freddo, poi più morbido e spontaneo. Mi accarezzò
piano
la schiena e strinse con più forza quando mi
sfuggì un
singhiozzo contro il suo collo. Pensai alla mia migliore amica, la cui
esistenza era destinata a cambiare nel folle, complicato mondo con il
quale era entrata in contatto per causa mia. Pensai ai sogni in cui il
corpo caldo, vivo e meraviglioso che
adesso stringevo contro il mio si spegneva lentamente, come la
fiammella di una candela nel vento.
Forse non avevo alcun potere
sull'imprinting di Seth e sul futuro di Jas, ma Alex era mio.
Proteggerlo o condannarlo dipendeva esclusivamente da me. Se esisteva
un modo perchè fosse al sicuro, almeno lui, l'avrei trovato.
Note.
1. Link.
Meravigliosa, vero?
2. Qui
la canzone che Alex è tanto ansioso di ballare con Renesmee.
Ecco perchè si sentiva ispirato
xd.
Spazio autrice.
Salve a tutti!
E allora, eccoci qui con un nuovo capitolo! Cavoli, mi sembra che il
tempo stia passando in un attimo, tra poco avrò pubblicato
tutta la fanfiction e neanche me ne sarò resa conto xd.
Incredibile.
La storia prosegue e ci avviciniamo ad una svolta, come sicuramente
avrete intuito. Renesmee si trova a un bivio e deve decidere cosa fare.
A mano a mano che si va avanti, alcune domande che forse vi siete poste
nei capitoli precedenti stanno trovando risposta (o almeno spero xd),
ma allo stesso tempo ne sorgono di nuove e una piccola parte di me
sarebbe quasi tentata dall'idea di dirvi tutto, davvero,
perchè non resisto, ah ah ah! Ma ovviamente sarebbe come
darsi la zappa sui piedi! xd Quindi come al solito, per qualunque
dubbio, chiarimento o semplice chiacchierata aspetto le vostre
recensioni. Ultimamente sto riflettendo molto su quello che scrivo e su
come scrivo, e mi rendo conto sempre più di quanto io debba
ancora migliorare... E affinchè ciò avvenga i
vostri pareri e i vostri suggerimenti sono fondamentali.
Perciò fatevi sentire, se vi va ;-).
Spero che il capitolo vi sia piaciuto comunque, anche con i suoi
difetti ^^. Un bacio e alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Into the fire ***
C 9
Capitolo
9
Into the fire
Come on, come on
Put your hands into the
fire
Explain, explain
As I turn and meet the
power
Turning white and senses
dire
Pull up, pull up
From one extreme to
another.
Into the fire,
Thirteen senses¹
Dopo tutto, una bugia
cos'è? Nient'altro che la verità in maschera.
George Gordon Byron, Don
Giovanni
«...
Quindi il funzionamento più elementare è il
motore a due
tempi, perchè ha soltanto due fasi: compressione-aspirazione
ed
espansione-scarico. Nel motore a quattro tempi i passaggi sono quattro:
aspirazione, compressione, scoppio e scarico. La differenza
fondamentale è questa, capito?».
Abbassai lo sguardo su Jacob, le sopracciglia inarcate, cercando di non
sembrare troppo confusa. «Sì, certo. Ho
capito».
Ovviamente non se la bevve. «Davvero? Ti va di ripetere
tutto?», propose, un sorrisino sghembo sul viso.
Merda. Fissai la parete di mattoni del suo vecchio garage e mi sforzai
di ricordare qualcosa di sensato.
«Ehm... Allora, motore a due
tempi, due fasi, motore a quattro tempi, quattro fasi. Fin qui ci
arrivo. E poi... com'era quella cosa dei giri e dell'albero?».
Jacob, in ginocchio sul pavimento, occupato ad armeggiare con un
attrezzo
dall'aria misteriosa nel motore della sua Harley Sprint,
scoppiò
a ridere.
«Lascia perdere, è meglio. Mi sa che questa roba
non fa per te».
Sbuffai e scossi la testa, risentita. Mi sistemai meglio sul cofano
della Golf, dove ero appollaiata. Non era il massimo della
comodità, ma era quella la mia postazione quando passavo ore
ed
ore con Jake a guardarlo lavorare.
«Non mi sto concentrando, tutto qui».
«Certo, certo. Se ti concentrassi, saresti un'esperta di
motociclette».
«La pianti, per favore? Ora ti faccio un bel test sull'uso
dell'ombretto e vediamo come te la cavi, ti va?».
Mi lanciò un'occhiata rapida e sorrise. «Touchè»,
mormorò.
Per un po' restammo in silenzio, ascoltando il rumore del vento tra le
fronde degli alberi. Era così tranquillo, lì. A
casa di
Jacob mi sembrava di essere in una bolla di sapone
e non soltanto per via della sua presenza. La
casetta rossa tra i boschi della riserva era il mio rifugio sicuro dal
resto del mondo, e lo sarebbe sempre stata, che Jake fosse presente o
meno. Una delle poche cose
immutabili dell'esistenza.
«La verità è che ho troppe cose per la
testa. Non
posso pensare a... fasi e motori», confessai all'improvviso,
di getto.
«Mi dispiace se ti ho annoiato».
«No, non è colpa tua. Sono stata io a farti delle
domande». Mi sfuggì un sospiro e increspai la
fronte.
Quando il mio umore era così strano, anche la compagnia che
gradivo maggiormente diventava difficile e pesante. «Credevo
che
fosse una faccenda abbastanza complicata da riuscire a distrarmi, ma
forse è troppo
complicata».
Jacob rimase zitto per un secondo, occupato a svitare qualcosa con un
cacciavite. Per quanto osservassi quegli stessi gesti da quando ero
bambina, per me restavano un autentico mistero: non avevo la minima
idea di cosa facesse quando infilava le mani nel motore di una macchina
o di una motocicletta.
«Se vuoi possiamo passare a qualcosa di più
semplice. Potrei spiegarti come funziona un triciclo, magari».
Lo guardai e non appena i nostri occhi si incontrano scoppiai a ridere,
mio malgrado.
«Passo, grazie», risposi con una scrollata di
spalle. «Mi tengo le mie preoccupazioni. Non se ne vanno in
ogni
caso».
«Pensi a Jas, immagino», buttò
lì a bassa voce, quasi in tono casuale.
Esitai un po' prima di rispondere. «Tra le altre
cose», mormorai, esitante.
«Credevo che avesse fatto pace con Tom».
«Sei tu che vuoi saperlo o è Seth?»,
indagai, evitando con cura di guardare verso di lui.
«Renesmee...».
«Tanto lo so che stai dalla sua parte», mugugnai, e
tirai su col naso, stizzita.
«Non è vero», ribattè Jacob
con forza. Mi
accorsi che mi stava guardando, ma io continuai a fissare la parete
senza battere ciglio. «Io non voglio che Jas stia male
o abbia dei problemi con il suo ragazzo, però capisco Seth.
E
proprio perchè lo capisco, non posso fargli una colpa di
quello
che è successo».
«Lo so», tagliai corto, e un attimo dopo mi resi
conto di
quanto era stato acido il mio tono.
Gli lanciai un'occhiata titubante e
una parola di scuse era già sul punto di scivolarmi fuori
dalle
labbra, ma poi, un istante prima di pronunciarla ad alta voce, cambiai
idea di colpo e tacqui. Lui non aggiunse altro. Aveva ricominciato a
lavorare, la testa bruna china sulla moto, e per un po' restammo in
silenzio.
«Be', comunque sì, hanno fatto pace»,
ripresi all'improvviso. In fondo, nasconderglielo non sarebbe servito a
nulla. «Tom è stato sulle sue per qualche giorno,
poi
hanno parlato e credo che le cose siano a posto... Almeno per
ora».
«Bene», commentò Jake tra i rumori
metallici che
produceva muovendo in fretta le mani grandi e sorprendentemente abili e
delicate. «Purchè non Jas non baci qualcun altro
nel
frattempo».
Gli lanciai uno sguardo assassino. «Se vuoi la mia opinione,
la
storia del bacio con il tizio di Long Beach è solo la goccia
che ha
fatto traboccare il vaso. Direi che è stato il comportamento
di
Seth, assolutamente scorretto e fuori luogo, ad infastidire
Tom»,
ribattei, piccata.
Jake mi fissava divertito, con l'aria di chi la sa lunga.
«Non pensi che forse Tom non avrebbe reagito in quel modo
senza
nessun fatto concreto che confermasse le sue paure?».
Rimasi impassibile. «No, non lo penso. Per niente».
Dopo un
attimo Jacob abbassò lo sguardo, senza smettere di
sorridere,
ed io repressi a stento il desiderio di lanciargli qualcosa.
«Comunque, ormai sono passate due settimane e sembra che la
situazione sia tornata tranquilla». Sospirai di nuovo.
«Adesso dobbiamo soltanto tenere duro fino alla prossima
bufera».
Lo sentii ridacchiare, anche se non potevo vederlo bene, mezzo nascosto
dalla macchina. «Cos'è tutto questo
ottimismo?».
«Meglio essere preparati al peggio che illudersi».
Lui non
rispose ed io riflettei in silenzio per un minuto. Quando parlai di
nuovo, lo feci quasi senza accorgermene. «Ho un brutto
presentimento».
I rumori metallici cessarono e con un po' di ritardo notai che Jake mi
fissava con aria seria. «Riguardo a cosa?».
«Niente in particolare. Semplicemente... credo che presto
succederà qualcosa. Qualcosa di importante. Tom e Jas sono
in
bilico in questo momento. Io li conosco bene e lo sento quando non sono
tranquilli, quando c'è qualcosa che li preoccupa. E una
situazione così non
può durare a lungo. Prima o poi si cade, da una parte o
dall'altra».
All'improvviso mi chiesi se stessi davvero parlando dei miei amici o di
qualcun altro, di me stessa, forse. Per un istante temetti che Jacob
volesse pormi la stessa domanda e sentii una fitta di paura allo
stomaco; non avrei saputo cosa rispondere.
«Speriamo che cadano dalla parte giusta, allora»,
disse invece.
Sollevata, pensai in fretta a qualcosa da dire per cambiare argomento,
quando mi accorsi che il mio cellulare vibrava nella tasca
dei jeans. Probabilmente era arrivato un messaggio. Lo estrassi dala
tasca, guardai il display e sussultai: tre telefonate perse di Alex.
«Oh», esclamai. «Alex ha provato a
chiamarmi. Scusami, Jake».
Saltai giù dal cofano e uscii dal garage senza guardarlo. Mi
allontanai un poco, sperando che fosse sufficiente perchè
Jacob
non sentisse. Non avevo nulla da nascondere, ma per una volta mi
sarebbe piaciuto tenere per me una conversazione telefonica con il mio
ragazzo. Tirai un respiro profondo mentre premevo il tasto di chiamata
e ascoltai gli squilli uno dopo l'altro, tesa. Poi sentii un click dall'altra
parte.
«Scheggia! Finalmente! Stavo per chiamare la
polizia».
Sorrisi, il cuore che batteva più in fretta del consueto.
Ascoltare la sua voce mi causava sempre un'emozione intensa, anche se
ci eravamo parlati l'ultima volta poche ore prima, a scuola.
«Ah,
sì? Scommetto che Charlie sarebbe felice di aiutarti a
trovarmi».
«Non sottovalutare il potere del mio fascino. Lo sai che tuo
nonno non può resistermi», ribattè.
Invidiavo il
modo in cui riusciva a mantenersi perfettamente serio e sicuro di
sè anche quando ci prendevamo in giro a vicenda.
«Sto
provando a chiamarti da un po'», aggiunse un attimo dopo, e
subito registrai un cambiamento nel suo tono. Lievissimo, ma c'era.
«Sì, ho visto. Mi dispiace».
«Nessun problema, tranquilla. Dove sei?».
I miei occhi saettarono istintivamente verso il garage, a pochi metri
da me. Gli voltai le spalle. «A casa di... ehm, Danielle.
Stiamo facendo qualche
esperimento con il trucco».
Alex si prese una lunga pausa prima di rispondere. Io attesi, il
respiro un po' affannato. «Interessante», disse
infine, il
tono accuratemente neutro. «Ti stai divertendo?».
«Abbastanza».
Altra pausa. «Senti, hai da fare stasera?», chiese
all'improvviso.
«No, sono libera. Perchè?».
«Julie e Phoebe sono partite oggi per Vancouver: è
il
compleanno di Andrew, il fidanzato di mia zia, e passeranno il week end
con lui, perciò...
Che ne dici di venire da me? Ordino una cena italiana, giochiamo a
backgammon...».
«Wow, che prospettiva eccitante», commentai,
ironica, sorridendo.
«Stare con me è già abbastanza
eccitante, Scheggia. Cosa vuoi di più?».
«Ah, lo so! Okay, va bene. Ci sarò».
«Ottimo», esclamò. Sembrava davvero
felice. «Passo a prenderti alle otto».
«Okay».
«In teoria, ormai hai preso la patente e hai anche una
macchina
fantastica, quindi forse sarebbe il caso di utilizzare
entrambe»,
aggiunse con voce insinuante.
«Perchè dovrei se ci sei tu che mi scarrozzi in
giro?».
«Scarrozzarti in giro va bene, purchè il pagamento
sia in natura».
Risi, scuotendo il capo. «Piantala, stupido. Ci vediamo
stasera».
«Sì, a stasera», rispose, poi tacque.
Stavo per
chiudere la comunicazione, quando sentii di nuovo la sua voce.
«Senti, Renesmee...». Aveva uno strano tono, come
se la sua
impassibile ironia fosse sparita completamente. Era serio, grave.
«Sì?», lo incitai, dopo una breve
esitazione. Non
ero certa di voler sentire davvero cosa stava per dirmi. Avevo la
sensazione che fosse una cosa seria e avvertivo un groppo d'ansia alla
bocca dello stomaco.
«È tutto a posto?».
Deglutii con forza. «Certo. Perchè? In che
senso?», domandai, cauta, temendo la risposta con tutta me
stessa.
Dall'altro lato ci fu un lungo silenzio, di nuovo. Non era da lui
restare a corto di parole. Cosa stava succedendo? Cosa ci stava
succedendo? Era davvero tutto a posto? Quanto avrei desiderato esserne
sicura.
«Non importa», disse all'improvviso, troppo
bruscamente
perchè potessi indovinare il suo stato d'animo.
«Ciao,
Scheggia».
«Ciao», mormorai, sconcertata, e un attimo dopo
aveva riagganciato.
Lentamente, infilai il cellulare nella tasca e tornai verso il garage,
rimuginando. Alex era così strano in quei giorni.
Probabilmente
percepiva la mia tensione, dovuta a tutte le cose che avevo per la
testa, e questo lo preoccupava. Stare insieme era diventato complicato,
al punto che talvolta il pensiero di incontrarlo era fonte di un'ansia
difficile da arginare. E avevo paura che pensasse di essere lui la
causa del mio strano umore.
Trovai Jacob ancora sul pavimento, chino sulla sua moto. Quando entrai,
sollevò gli occhi.
«Alex mi ha invitato a cena da lui, stasera»,
dissi,
sforzandomi di apparire tranquilla e di accennare un sorriso.
«Julie e Phoebe sono a Vancouver dal fidanzato di Julie... ti
ho
detto che lavora lì, vero? È un
giornalista. Staranno via tutto il week end».
Lui annuì senza lasciar trapelare nessuna emozione
particolare. «Bella idea».
Mi strinsi nelle spalle. «Sì», mormorai.
Un attimo
dopo mi accorsi che mi stavo dondolando avanti e indietro sui talloni,
impaziente. Smisi subito. «Allora, ehm... io andrei. Si
è
fatto tardi e devo prepararmi».
«Certo, certo. Ti accompagno».
Si mosse verso la Golf,
pulendosi al contempo le mani sui jeans, e a me
sfuggì un mezzo sorriso. Lo faceva sempre, mentre lavorava,
senza accorgersene, sporcando inevitabilmente tutti i suoi jeans. E se
qualcuno glielo faceva notare, lui per tutta risposta alzava le spalle,
tanto poco si curava dei propri vestiti e del loro aspetto.
«No, non preoccuparti», esclamai di getto.
«Non serve che mi accompagni, faccio due passi».
Jacob si fermò e mi guardò con le sopracciglia
leggermente inarcate. «Ah. D'accordo». Aveva
un'aria
interrogativa, come se fosse sul punto di chiedermi qualcosa. E
infatti subito dopo aprì bocca.
«Renesmee», riprese con tono incerto. Fece una
breve pausa. «Va tutto bene con Alex?».
Per un po' ricambiai il suo sguardo preoccupato e affettuoso in
silenzio. Avevo immaginato che volesse chiedermi qualcosa del genere.
Chissà come avrebbe reagito se avessi risposto che il mio
ragazzo era tremendamente geloso di lui e che la nostra amicizia
metteva a rischio il mio rapporto con Alex. E se gli avessi detto che
la sua vicinanza mi causava strane sensazioni? E se gli avessi detto
che al matrimonio di Paul e Rachel ero stata seriamente tentata di
uccidere quella Summer solo perchè non la smetteva di
provarci
con lui?
Meglio di no. Deglutii.
«Sì, tutto bene. Grazie per...
l'interessamento».
Accennai un sorriso forzato. «Ci vediamo, Jake».
«Ciao. Buona serata», disse, la voce appena
più alta di un sussurro.
Mi voltai e uscii rapidamente, desiderosa di allontanarmi il
più
possibile da lì, da lui. Per qualche crudele scherzo del
destino, sembrava che tutti i legami a cui tenevo di
più
stessero cambiando drasticamente oppure dissolvendosi all'improvviso,
senza darmi il tempo di capire. Ed io non potevo fare altro che
starmene lì a guardare.
****
«Vuoi
tirare di nuovo i dadi?», ripetei, sorpresa, osservando Alex
di sotto in su con aria scettica.
«Certo», rispose lui, disinvolto, agitando appena
la mano
destra chiusa a coppa e facendo tintinnare i dadi racchiusi al suo
interno.
«E perchè mai?».
«Perchè mi è uscito un due e fa schifo.
Non mi
serve a niente un due», disse, come se fosse stato lampante.
«Be', mi dispiace, ma non puoi farlo».
Mi squadrò con aria incredula. «Sì che
posso».
«No, tesoro. È esplicitamente vietato dalle regole
del backgammon²».
Alex fu sul punto di scoppiare in una sonora risata sotto il mio naso
arricciato. «Okay, primo: da quando mi chiami tesoro? Secondo: ti
sbagli, si può fare benissimo».
Era sul punto di rilanciare i dadi, ma io non mollai. «Ti
dico di no!».
«E io ti dico di sì!».
«Alex!», sbottai, sbalordita da tanta
testardaggine. Non si
comportava mai docilmente, ma sapevo che quando si impuntava in quel
modo su una sciocchezza lo faceva per il puro gusto di provocarmi, di
vedermi sbuffare e arrossire per la stizza e darmi da fare per
contraddirlo. Aveva uno strano senso dell'umorismo.
«Scheggia!», ribattè, velocissimo e
impassibile.
Per un attimo lo fissai con aria truce, reprimendo a stento
l'irresistibile impulso di schiaffeggiarlo. Poi allungai una mano verso
la scatola del gioco, abbandonata sul tappeto del salotto.
«Okay,
basta. Guardiamo il regolamento».
Alex era sdraiato di fronte a me, appoggiato a un gomito. Il fuoco
acceso nel camino illuminava la sua
sagoma rilassata in quella posa di distratta eleganza. Fece un sorriso
diabolico e incantevole mentre alzava le spalle.
«Fai pure. Ma se ho ragione io, paghi pegno».
«E cioè?», sbuffai, rovistando nella
scatola del backgammon.
Breve pausa. «Dovrai farmi uno spogliarello. E che sia molto,
molto sexy».
Mi bloccai con il libretto del regolamento tra le dita. Sollevai lo
sguardo lentamente e lo fissai, aspettandomi di
vederlo ridere con gli occhi, senza muovere le labbra, come solo lui
sapeva fare, e invece, mentre la sua bocca sensuale si curvava in un
sorriso furbo, l'espressione era incredibilmente seria. Sospirai per
prendere fiato, fingendo di essere solo profondamente
esasperata,
e scorsi in fretta il regolamento. Quando trovai quello che cercavo, mi
sfuggì un sorrisetto compiaciuto.
«Niente spogliarello, ho ragione io. Ecco qua».
Gli
porsi il libretto, soddisfatta. Alex lo prese e lo gettò
via,
lasciandolo cadere sul tappeto, senza dargli neanche un'occhiata.
«Lo sapevo. Ma valeva la pena di provarci soltanto per vedere
la tua faccia quando ho nominato lo spogliarello».
Scoppiai a ridere, scuotendo la testa. Si comportava come un
bambino cresciuto troppo in fretta, come se sapesse di doversi
comportare come
un adulto e si sforzasse di farlo, lasciando trapelare di continuo il
vero se stesso, immaturo ed esasperante.
«Sai che ti dico? Hai sbagliato tu, quindi sarai tu a pagare
pegno».
«Ah», fece lui con aria grave. «Okay.
Però decido io qual è il pegno».
Alzai gli occhi al cielo. In un modo o nell'altro doveva sempre avere
l'ultima parola. «E cosa proponi? Sentiamo».
«Lo vedrai». Mentre parlava, si mise a sedere,
spinse di
lato la tavola del backgammon, mi prese per la vita e mi
attirò
a sè. «Nei prossimi minuti sarò...
completamente al tuo servizio per fare di te la ragazza
più felice del mondo», sussurrò, la
voce bassa e
suadente.
Stavo per rispondere con una battuta scherzosa, sperando di
alleggerire l'atmosfera che iniziava a scaldarsi un po'
troppo, ma lui mi chiuse la bocca con un bacio. Le sue labbra calde,
soffici e abili mi fecero scordare tutto e ricambiai il bacio,
sporgendomi verso di lui. Continuava a stringermi la vita con un
braccio, mentre con l'altra mano mi sosteneva il collo, sotto i
capelli. A un tratto si scostò appena,
ma le nostre labbra erano ancora in contatto, sfiorandosi leggermente.
Sentivo il suo respiro caldo e accelerato su di me e rabbrividii. Alex
poggiò i denti sul mio labbro inferiore, esercitando una
lievissima pressione che aumentò gradualmente di
intensità, fin quasi a morderlo. Una minuscola punta di
dolore,
quasi impercettibile, si mescolò ad una sensazione
incredibilmente piacevole. Mi concentrai con tutta me stessa su quella
piccola porzione di pelle che bruciava come se andasse a fuoco e
seguii il calore elettrizzante che da quel punto si propogava in ogni
parte del mio corpo, ipnotizzata, stregata, incapace di muovermi e di
pensare. Mi sfuggì un gemito.
Alex rafforzò la presa sulla mia vita e mi
trascinò sul
tappeto. Il suo
peso mi tolse il fiato per un istante prima che lui facesse leva sui
gomiti, sollevandosi un po'. Non ci eravamo mai baciati in quel modo,
prima: sdraiati l'uno l'altra, così vicini da
sottrarci il respiro a vicenda, completamente soli, liberi e fuori da
ogni controllo. A disagio, mi mossi di scatto e urtai la tavola del
backgammon con un gran tintinnio di pedine che si mescolavano
disordinatamente. Mi scappò una risatina soffocata dal tono
un
po' isterico.
«Ehm... Alex... temo che la nostra partita sia andata a farsi
friggere».
«Chi se ne frega della partita», sbottò,
quasi infastidito.
Si tuffò sulla mia bocca e riprese a baciarmi con impeto,
lasciandomi stupita. Era sempre molto passionale, ma quella sera
sembrava che dentro di lui divampasse un incendio interminabile.
Riuscii a respirare di nuovo solo quando spostò la bocca sul
mio
collo, percorrendone la curva con micidiale lentezza, poi sulla spalla,
continuando a scendere. Le sue mani mi accarezzavano e mi stringevano
ovunque, strappandomi sussulti violenti: il seno, i fianchi,
le gambe, e dal suo tocco trapelava un desiderio così
intenso e
potente da trascinarmi a bruciare con lui. Una piccolissima parte della
mia mentre mi urlava di non perdere del tutto il controllo, ma non
riuscivo a prestarle attenzione, troppo presa dal piacere che sentivo
irradiarsi in tutto il corpo come lava bollente e
distruttrice.
Impossibile resistere.
La mano di Alex si strinse all'improvviso, accarezzandomi una coscia,
le
unghie grattarono la calza e strapparono il tessuto sottile,
graffiandomi la pelle. Mi fece male e quella sensazione di dolore
all'improvviso mi riscosse, come la lama di un coltello che squarcia un
velo. Di colpo mi resi conto di quello che stavamo facendo. Di quello
che poteva succedere se avessimo continuato. Dovevamo... Cosa dovevamo
fare? Fermarci e ragionare, sì, pensai, sforzandomi con
difficoltà di scacciare la nebbia che mi avvolgeva il
cervello.
Alex sussultò.
«Ops. Scusa, non volevo», disse in un sussurro, la
bocca
premuta contro la mia scollatura. Ma non ritrasse la mano, e anzi
riprese ad accarezzarmi la coscia, salendo verso l'alto fino alla
curva del fondoschiena. Non mi aveva toccato così, prima.
Era bellissimo e spaventoso al tempo stesso. Gli afferrai il
braccio, bloccandolo.
«No, aspetta», ansimai.
Lui esitò, perplesso dal cambiamento che iniziava a
percepire. Adesso
ero rigida, tesa, le dita strette intorno al suo polso. Mi
guardò attentamente, sebbene il suo sguardo fosse velato dal
desiderio, cercando di capire.
«Rilassati, Renesmee. Va tutto
bene», mormorò con voce roca, poggiando la bocca
sul mio
viso, di lato, e baciandomi la tempia. Con un mano mi tirò
giù la spallina del vestito e del reggiseno.
Un altro brivido mi attraversò da cima a fondo, scuotendomi
fin
dentro le ossa. Alex se ne accorse e forse lo interpretò
come un
incoraggiamento a proseguire. Si sollevò per
sfilarsi velocemente il golf grigio chiaro e lo gettò a
terra,
restando con la camicia bianca, gli occhi accesi e scintillanti che non
si staccavano dai miei neanche per un istante, ed io ricambiai lo
sguardo, inchiodata a terra e imbavagliata dalle due spinte
contrastanti che mi immobilizzavano, paura e desiderio,
impegnate in una lotta furibonda dentro di me. Era come se il
mio corpo
e la mia mente fossero del tutto scollegati e il primo bramasse
sensazioni che la seconda si sforzava di arginare perchè
tornasse la lucidità.
Alex si chinò di nuovo di me, senza permettermi di pensare,
le
sue mani dolci e frenetiche che cercavano di sollevarmi la gonna
aderente, a tubino, facendola scorrere lungo le cosce. Ero sul punto di
lasciarmi andare, quando un'ondata di panico montò di colpo
dentro di me, un brivido gelido che spense il calore delle sue mani sul
mio corpo. Mi divincolai per sottrarmi alle sue labbra.
«Alex, basta... Fermati... Fermati!».
A quel punto sembrò che qualcosa scattasse anche dentro di
lui.
Si bloccò all'improvviso e rimase immobile per alcuni
istanti,
ancora sdraiato su di me, le mani serrate sulle mie gambe, la fronte
contro la mia. Eravamo troppo vicini perchè riuscissi a
guardarlo bene in viso. Poi scivolò di lato e ricadde sul
tappeto, accanto a me. Il silenzio divenne assordante, rotto soltanto
dai respiri accelerati di entrambi. Cercai disperatamente di tornare
lucida, mentre mi tiravo giù la gonna con mani tremanti.
«Alex», lo chiamai con voce tesa, preoccupata,
quando non
riuscii più a sopportarlo. «Alex, non te le
prendere,
io...».
Lui si sollevò e si mise in ginocchio con uno scatto
così
rapido da fare invidia ad un vampiro. Senza guardarmi, si
passò
più volte le mani tra i capelli in disordine, come per
sistemarli, ma a me parve solo un gesto nervoso e inconsapevole.
«Non me la sono presa», rispose, con calma.
«Se non ti va, non ti va».
Se l'era presa eccome, invece. Accidenti. «No, è
solo che... non mi hai dato il tempo di rifletterci...».
«Su certe cose non c'è bisogno di
riflettere»,
disse, la voce bassa e incolore. «Renesmee», mi
chiamò un attimo dopo, e mi accorsi che si era girato verso
di
me. «Renesmee, guardami».
Controvoglia, ubbidii. Sembrava
spaventosamente calmo e capii che stava per arrivare qualcosa di
grosso. Qualcosa che non forse non avrei voluto ascoltare. Era
esattamente la stessa sensazione che avevo avvertito nel pomeriggio,
quando avevamo parlato al telefono.
«Io ti amo», disse
infine, con semplicità. La quieta determinazione che colsi
nella
sua voce fu come uno sgambetto improvviso, se solo non fossi stata
ancora distesa sul tappeto.
Niente. Non provai niente. Soltanto paura. Un'ondata di paura gelida,
bianca, inarrestabile, che mi sommerse di colpo. Per non so quanto
tempo mi sentii sospesa, bloccata, incapace di parlare, pensare o fare
qualsiasi cosa. Una drastica consapevolezza si faceva strada lentamente
in quel mare di bianco, l'unica cosa alla quale sentivo di potermi
aggrappare. L'unica cosa giusta da fare. Lo era sempre stata, in fondo.
Me ne resi conto in quel momento e fece male.
Lentamente, mi tirai su con un respiro profondo. Ero
stupita dalla mia stessa calma, ma era una calma spaventosa,
inquietante. Mi scostai i capelli dal viso con un gesto automatico e
rimisi a posto la spallina dell'abito. Dopo un paio di tentativi a
vuoto, riuscii a tirare fuori la voce.
«Dobbiamo parlare», dissi in tono fermo, serio.
Lui non mi aveva tolto gli occhi di dosso neanche per un attimo. La sua
espressione era intensa, concentrata.
«Di cosa?».
«Non...
non posso fare l'amore con te», cominciai,
balbettando, lo sguardo fisso a terra. Così era
più
facile.
Ci fu una breve pausa. «Perchè no?»,
domandò
ancora, perfettamente calmo e padrone di sè, la voce bassa e
attenta. Chissà cosa pensava.
Chiusi gli occhi per un attimo, raccogliendo le idee. Cosa gli avrei
detto, adesso?
Il mio cervello lavorava, febbrile, in cerca delle parole giuste. Se
mai fossero esistite, dovevo trovarle. Non avevo avuto la
possibilità di rifletterci con calma e ora
annaspavo, nel panico, temendo che una parola sbagliata potesse
mettermi definitivamente nei guai. Dovevo essere attenta, molto
attenta, eppure sapevo che non avrei avuto una seconda occasione di
risolvere il problema.
Ora o mai più.
Pensa. Pensa. Pensa...
«Io...
credo che... stiamo correndo troppo, Alex. Voglio fare le cose con
calma. Forse dovremmo... prenderci una pausa», dissi infine,
tutto d'un fiato, seguendo l'ispirazione del momento, gli occhi ancora
puntati sul tappeto e ben lontani dal rischio di incrociare i suoi e
cedere immediatamente.
«Una pausa?», ripetè, e la sua voce
suonò carica di pura, autentica incredulità, come
se di colpo fosse caduto da una nuvola a seguito di una spinta decisa.
Lo capivo e forse era proprio ciò su cui contavo in quel
momento, che lo stupore prima e la rabbia poi lo accecassero almeno per
un po', distogliendolo dall'indagare troppo a fondo e lasciandomi
così un po' di tempo per pensare. «Ehi, aspetta.
Frena», esclamò bruscamente dopo un secondo di
silenzio attonito. «Che stai dicendo, che succede? Mi sono
perso qualcosa?».
«Ascoltami, ti prego. È la cosa giusta da
fare», mormorai a denti stretti.
«Ma che diavolo... Renesmee?», sbottò
con uno scatto istintivo in avanti, come se volesse raggiungermi senza
riuscirci. «Io ti dico che ti amo e tu mi rispondi che vuoi
una pausa?», disse, e il gelido risentimento che si percepiva
nella sua voce fu uno schiaffo bruciante in pieno viso.
«Sì, è quello che voglio»,
ripetei, concentrandomi per manterne il tono fermo e sicuro.
«Ci sto pensando già da un po' e stasera... quello
che stava per succedere... mi ha convinta ancora di
più».
Cadde di nuovo il
silenzio. Lui non smetteva di fissarmi e anche se non potevo guardare
il suo volto riuscivo ad immaginarlo perfettamente: la fronte
contratta, come sempre quando non riusciva ad afferrare un problema,
gli occhi azzurri sgranati, le labbra appena dischiuse, come sul punto
di dire qualcosa, ma senza trovare le parole.
«Non
riesco a capire», riprese, la voce bassa.
«È solo perchè ci siamo lasciati andare
per un attimo...».
«No, non è solo per questo. Ci pensavo da tempo,
te l'ho detto».
«E da quanto? Da quanto tempo stai pensando che vuoi una
pausa? Perchè non me ne hai parlato prima?».
Ecco che la sorpresa iniziava a lasciare il passo alla rabbia,
pensai.
«Perchè sono confusa, Alex!», esclamai
di getto, esasperata. Finalmente lo guardai e forse la mia espressione
fu abbastanza convincente, perchè qualcosa sul volto di Alex
all'improvviso cambiò e lui ammutolì.
«Sì, lo vedo», rispose piano, con calma,
dopo un istante di sconcerto davanti alla mia esplosione improvvisa.
«Lo vedo che sei confusa e strana dalla fine dell'estate.
Io... a volte non ti riconosco più, non capisco a cosa
pensi, che cosa vuoi... Non sei più la stessa. È
successo qualcosa, vero?».
Ero sul punto di dirgli di no, ma le sue parole fecero scattare
qualcosa dentro di me, cogliendomi di sorpresa. Rimasi in silenzio per
un minuto, pensando. La fine dell'estate... Sì, era da
lì che tutto aveva cominciato a cambiare, dalla prima notte
in cui avevo fatto quel sogno, sull'Isola Esme. E gli incubi su Alex
non erano stati gli unici eventi che mi avevano scombussolata durante
la vacanza in Brasile.
Di colpo sapevo che cosa dire.
Feci un respiro profondo, recuperando la calma, prendendo tempo. Dovevo
solo trovare il modo giusto, adesso.
«Sì... qualcosa è successo.
C'è un'altra persona», risposi lentamente, la voce
sorprendentemente ferma e decisa.
Nuova pausa, più lunga, questa volta, quasi interminabile.
Alex mi fissava senza battere ciglio, sembrava pietrificato.
«Non ho capito bene», mormorò.
«È una persona che ho incontrato quest'estate, in
Brasile. In realtà ci conoscevamo già... È
una specie di vecchio amico. Ma non ci vedevamo da parecchio tempo e
una volta io... l'ho baciato». Cercai di allontanare dalla
mia
mente il ricordo di quella sera, delle labbra di Nahuel che a malapena
sfioravano le mie prima che mi ritraessi. Temevo di non riuscire a
mentire se avessi pensato a quello che era realmente accaduto.
«Credevo che fosse una cosa senza importanza, ma forse mi
sbagliavo perchè non riesco a smettere di pensare a
lui».
All'improvviso mi si ruppe la voce e dovetti fermarmi. Alex taceva,
immobile e silenzioso, simile ad una statua di cera. «Mi
dispiace
di non avertelo detto prima, io... speravo di riuscire a dimenticarlo.
Scusami».
Scese un silenzio assoluto e pesante come piombo. Mi costrinsi a
sostenere il suo sguardo duro, freddo, impenetrabile, acqua
color zaffiro che vorticava come il mare squassato da una tempesta.
Abbassare il mio in quel momento avrebbe significato ammettere che non
riuscivo a tollerare il suo esame, perchè forse avevo
qualcosa
da nascondere. Passavano i secondi, poi i minuti, lenti come i
granellini di sabbia che scivolano in una clessidra uno dopo l'altro.
Lo scoppiettare della legna nel camino mi rimbombava nelle orecchie,
mentre l'atmosfera diventava sempre più insostenibile.
«Alex», proruppi quando non riuscii più
a sopportarlo. «Ti prego, di' qualcosa».
Le sue labbra si schiusero lentamente. «Cosa vuoi che ti
dica?».
Il suo tono era gelido come i suoi occhi e mi colpì dritto
al cuore. Non mi aveva mai parlato in quel modo. Mai.
«Non lo so. Qualunque cosa. Quello che vuoi».
Per un tempo infinito rimase di nuovo in silenzio, perfettamente
immobile. Se non fosse stato per il sollevarsi ritmico delle spalle,
avrei detto che avesse smesso perfino di respirare.
«Ti accompagno a casa», disse all'improvviso.
Con uno scatto fluido si alzò in piedi senza degnarmi di un
altro sguardo.
****
Durante
il tragitto in macchina non fece che premere sull'acceleratore.
All'esterno poteva anche apparire controllato, ma a giudicare da come
sfrecciavamo per le strade buie e deserte della città e da
come
stringeva le mani sul volante, dentro doveva avere una tempesta. Per
fortuna erano le undici passate e in giro non c'era anima viva. Dopo
le otto di sera a Forks calava il sipario sulla vita cittadina.
Ogni tanto aprivo la bocca per scongiurarlo di calmarsi e rallentare,
perchè se ci fossimo schiantati contro un albero non avremmo
risolto un bel niente ed era lui quello che ne sarebbe uscito peggio,
ma non riuscivo ad emettere alcun suono. Le parole mi morivano in gola.
Lo avevo ferito e adesso non avevo il diritto di chiedergli nulla.
Arrivammo a casa mia in pochi minuti. Alex frenò di botto,
inchiodando la macchina a terra con una frenata stridente, ed io
rimbalzai contro il sedile del passeggero. Spense il motore e rimase
zitto, gli occhi tempestosi fissi davanti a sè. Le mani mi
tremavano e ci misi più tempo del normale a slacciarmi la
cintura di sicurezza, ma nel frattempo pensavo e raccoglievo tutto il
coraggio in mio possesso per parlare. Non potevo lasciare che ci
separassimo così, senza nemmeno provare a dargli una
spiegazione.
«Alex, io...», cominciai, esitante.
«Scendi, per favore», mi interruppe in tono
risoluto, a denti stretti.
Sentii una fitta di dolore al petto. Era orribile ascoltarlo rivolgersi
a me con quel tono di ghiaccio appena velato di cortesia e quelle
parole formali. Avrei
preferito mille volte che mi urlasse contro. Quel nulla era molto
più duro da mandare giù.
«Dobbiamo parlare», azzardai ancora.
Alex non rispose subito ed ebbi l'impressione che stesse cercando di
mantenere il controllo di sè. Ma quando lo fece, era di
nuovo
spaventosamente calmo.
«In questo momento non riesco neanche a
guardarti, come pretendi che possa parlare con te?».
Lui sì che sapeva come colpire e affondare. Cosa avrei
potuto
replicare ad una frase del genere? Deglutii più volte,
convulsamente, quasi facendo violenza a me stessa per restare
impassibile e non lasciar scorrere le lacrime che mi gonfiavano gli
occhi. Non dovevo piangere. Non dovevo piangere. Scesi dalla macchina
con gesti impacciati e prima di chiudere la portiera lo osservai per
un attimo, imprimendo nella mia mente il ricordo del suo profilo
armonioso che si stagliava nel buio.
«Mi dispiace», sussurrai.
Quando lasciai andare la portiera, aveva già rimesso in
moto.
Partì con un rombo aggressivo e poco dopo era scomparso.
Note.
1. Link.
2. Se siete curiosi di scoprire cos'è il backgammon e qual
è il senso del battibecco tra Alex e Renesmee, leggete qui.
È il gioco che Alex preferisce, ricordate? ^^
Spazio
autrice.
Salve! Innanzitutto mi dispiace di non essere riuscita ad aggiornare
mercoledì, spero che tutte abbiate letto gli avvisi su
Facebook e nella mia pagina Efp. Scusate :(.
Veniamo subito al capitolo! Come avevo anticipato, siamo arrivati ad
una svolta. Questo è un momento cruciale per la storia e i
capitoli successivi saranno altrettanto importanti. Confesso che
scrivere questa parte è stato tutt'altro che semplice e
spero che il risultato finale sia apprezzabile, anche se sicuramente
imperfetto.
Qualcuna di voi sarà già in lutto per quello che
succede tra Alex e Renesmee, qualcun'altra forse farà i
salti di gioia, aspettandosi che da un momento all'altro lei si butti
tra le braccia di un certo licantropo (ogni riferimento è
puramente casuale xd), ma in ogni caso mi auguro di lasciarvi con
questo capitolo molto
curiose di scoprire cosa succederà e soprattutto con un
pizzico di incertezza... La mia paura più grande
è sempre quella di essere prevedibile e noiosa, ma ce la
metto davvero tutta perchè non accada.
Be', per ora è tutto. Ci diamo appuntamento tra due
settimane e fatemi conoscere i vostri pareri, mi raccomando! Un
abbraccio!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Trouble ***
C 10
Capitolo
10
Trouble
Oh no, I
see
A spiderweb is tangled up with me
And I lost my head
And thought of all the stupid things I'd said
Oh no, what's this?
A spiderweb and I'm caught in the middle
So I turned to run
And thought of all the stupid things I'd done
And I never meant to cause your trouble
And I never meant to do you wrong
Ah, well if I ever caused you trouble
Oh no, I never meant to do you
harm.
Trouble,
Coldplay¹
Non sai mai quanto sei
forte, finché essere forte è l’unica
scelta che hai.
Chuck Palanhiuk
Chissà
come, riuscii a resistere alla tentazione di chiamare Alex. Se una
parte di
me era preoccupata e addolorata e fremeva dal bisogno di accertarsi che
stesse bene, l'altra si vergognava troppo per pensare di
affrontarlo. Inutile dire che aveva vinto la seconda, almeno per il
momento. Forse aveva bisogno di stare un po' da solo per digerire la
cosa a modo suo. Dopotutto, gli avevo gettato addosso una bella
rivelazione e quando era toccata a me una cosa del genere, la scorsa
primavera, di certo non avevo bramato la compagnia delle persone
coinvolte nella vicenda. Anzi, ero scappata il più lontano
possibile. E comunque era venerdì e ci saremmo visti a
scuola entro poche ore.
Quando entrai in cucina per fare colazione trovai i miei genitori ai
fornelli. Colsi immediatamente le
loro espressioni preoccupate ed ebbi la netta sensazione che avessero
discusso di me fino ad un attimo prima.
«Buongiorno»,
esclamò la mamma.
«Ehi, piccola», disse papà quasi
contemporaneamente.
«Giorno», borbottai, mentre lasciavo la borsa e la
giacca su una
sedia e mi versavo una tazza di caffè con i miei soliti due
cucchiaini di zucchero; detestavo il caffè amaro.
Per un po' restammo in silenzio. Forse aspettavano che parlassi io per
prima, ma quando fu chiaro che non avrei detto un bel niente la mamma
si decise a prendere l'iniziativa.
«Renesmee», cominciò, sforzandosi di
apparire tranquilla
come per una normale chiacchierata tra madre e figlia, «che
ne
diresti se... Ti andrebbe di parlare di quello che è
successo
ieri sera?».
Sembrava che volesse blandire una bambina piccola per convincerla a
prendere lo sciroppo per la tosse.
«No», risposi. Semplice e diretta. «Non
mi va. E comunque
sapete già tutto». Afferrai una fetta di pane
tostato e le
diedi svogliatamente un morso. Non avevo molta fame, ma era meglio
mandare giù qualcosa.
La mamma si avvicinò a passi lenti, le braccia incrociate,
la
fronte corrugata. «Sì, lo sappiamo,
però preferiremmo
parlarne con te. Insomma, tu ed Alex avete...».
Istintivamente sussultai. «Mamma, non... non è
successo niente», mi affrettai a specificare, arrossendo un
po'. Mi girai verso la finestra per evitare il suo
sguardo. Fuori cadeva una pioggerillina fitta e sottile e il cielo era
color grigio chiaro con qualche striatura di bianco qua e
là. La giornata standard di Forks.
«Lo so, ma...».
Sbuffai, poggiando la tazza vuota nel lavandino. «Sentite,
possiamo
rimandare a un altro momento, per favore? Faccio tardi a
scuola».
Bella scosse leggermente la testa, con le labbra serrate e gli occhi
socchiusi. Era meglio svignarsela il prima possibile, così
afferrai in fretta la giacca e la borsa.
«A volte è
assolutamente impossibile dialogare con te, lo sai, vero? Devo
travestirmi da Jacob Black perchè tu mi stia a
sentire?».
Mio malgrado scoppiai a ridere. «So cosa vorresti dirmi: sono
un'adolescente insopportabile che non ascolta mai i suoi genitori e
passa troppo tempo con quel licantropo... Lo so. Anche di questo
possiamo parlare un'altra volta».
Le scoccai un bacio sulla guancia, incurante della sua espressione di
rimprovero, superai papà che ridacchiava sotto i baffi e
uscii
velocemente di casa. Fu un sollievo entrare in macchina, la mia
macchina. Era un regalo dei miei, una Mercedes Guardian che in passato
era appartenuta alla mamma per un po' di tempo, prima della
trasformazione
in vampira. Era praticamente la macchina più sicura del
mondo e
dunque perfetta per la mamma quando era ancora umana. Ora che lei non
aveva più bisogno di vetri antiproiettili, un sistema
antincendio e una scorta di ossigeno in caso di attacco con i gas, la
macchina a prova di bomba spettava al nuovo componente
più fragile
della famiglia e cioè a me. Non che mi dispiacesse,
anzi. Tralasciando la soffocante iperprotettività della mia
famiglia, era una gran bella macchina. Jas era quasi impazzita la prima
volta che avevamo fatto un giro insieme e aveva riso da morire nel
sentirmi elencare tutti i dispositivi di sicurezza installati sulla
vettura. Il pensiero che io me ne andassi in giro in un'auto blindata
per le strade di Forks, dove non si verificava una rapina da vent'anni
o giù di lì, la divertiva immensamente.
Entrata nel parcheggio della scuola, dovetti ignorare gli sguardi di
tutti puntati sulla mia macchina mentre cercavo un posto, fingendo di
non accorgermene. Sembrava che ci fossero più auto del
solito,
quella mattina, e ci misi un bel po' di tempo. Quando riuscii a
parcheggiare, con una certa cautela dal momento che il parcheggio non
era il mio forte, tirai un sospiro di sollievo. Poi scesi dalla
macchina per mescolarmi alla folla che si aggirava nel parcheggio in
attesa dell'inizio delle lezioni e dimenticai tutto il resto,
concentrata unicamente su Alex. Non sapevo se augurarmi di incontrarlo
oppure no.
Tra una lezione e l'altra trascorse l'intera mattina senza che lo
vedessi da nessuna parte. In una scuola così piccola come la
Forks High non era raro che ci incontrassimo casualmente nei corridoi,
ma quel giorno non accadde neanche una volta ed io non sapevo se
considerarlo un caso o il frutto di accurate manovre da parte di Alex.
Forse mi evitava.
Più il tempo passava, più diventavo ansiosa e
inquieta;
temevo la sua reazione, ma non sapere nulla di come stava affrontando
la cosa era molto peggio.
Continuavo a sentire le sue parole nella testa, come una registrazione
incisa a fuoco nella mia memoria.
Cosa vuoi che ti
dica?
In questo momento non riesco neanche a guardarti, come pretendi che
possa parlare con te?
Ripensare
alla sua espressione gelida mi feriva come se lui fosse sempre
davanti a me. Forse avevo sbagliato tutto. Se questa decisione mi
faceva stare così male, come poteva essere quella giusta?
Ero
riuscita a mentire abbastanza bene
da ingannarlo e adesso probabilmente mi detestava. Lo conoscevo
abbastanza da immaginare senza difficoltà quali potessero
essere
i suoi sentimenti nei miei confronti, al momento. Non era una persona
che perdonava con facilità, era stato lui stesso a dirmelo,
una
volta. Sapevo quanto odiasse gli inganni e le bugie, lui che fin dal
nostro primo incontro mi aveva sempre detto tutto, di se stesso, della
sua storia. Lui che era sempre stato schietto e sincero, dicendomi
quello che pensava di me, di noi, del nostro rapporto, senza maschere
nè finzioni. Ricordavo le poche volte in cui avevo osato
accennargli qualcosa dei miei problemi, la primavera precedente, e
ricordavo come mi avesse sempre parlato con franchezza, senza indorare
mai la pillola, nemmeno quando pensava che stessi sbagliando tutto.
Mi aveva confessato di essersi aperto con me come non faceva con nessun
altro da tanto tempo e
io lo avevo ferito senza esitare. Solo a pensarci mi si rivoltava lo
stomaco per la nausea. Eppure, era accaduto proprio quello che avevo
desiderato, forse inconsciamente: che ci allontanassimo. Perchè
non vedevo altro modo per proteggerlo. I miei incubi e la situazione di
Jas mi avevano fatto pensare a quanto fosse pericoloso per lui stare
con me e a volte mi sembrava di non poter più convivere con
questa paura. A volte mi sembrava di impazzire. Forse per Jas era
troppo tardi. Un giorno avrebbe scoperto tutto e sarebbe entrata nel
mio folle mondo. Io avrei lottato fino all'ultimo secondo per impedire
che accadesse, ma dentro di me sapevo di essere già stata
sconfitta. Nessuno avrebbe mai potuto vincere con l'imprinting.
Ma Alex... Lui poteva ancora uscirne. Poteva ancora allontanarsi da me
e vivere una vita normale, al sicuro, ed io sentivo di doverci provare.
Non gli avrei voluto bene davvero se non avessi fatto un tentativo,
anche se questo significava farlo soffrire un po'.
Quando suonò la campanella del pranzo ero piuttosto tesa. Il
giorno prima avevamo stabilito di mangiare insieme e anche se forse lui
non aveva voglia di sedere allo stesso tavolo con me, adesso, doveva
pur pranzare. Fui molto sorpresa quando percorsi la mensa con lo
sguardo, cercandolo al solito tavolo che occupava con i suoi amici,
senza riuscire a individuarlo. Non c'era.
«Torno subito», dissi a Jas, che era seduta accanto
a me, e mi
diressi con passo veloce in direzione del suo gruppo di compagni di
classe.
«Ehi, Renesmee», mi salutò Robbie
Cavanough quando fui abbastanza vicina. «Come va?».
«Ciao», esclamai, cercando di apparire tranquilla.
«Tutto bene. Ehm... Sapete dov'è Alex?».
Robbie aggrottò leggermente la fronte pallida. Era carino,
con i
capelli neri che ricadevano in ciuffi ordinati e gli occhi verdi, ed
era un bravo ragazzo.
«No, non è venuto a scuola, credo.
Avevamo insieme matematica e geografia, oggi, ma non l'ho
visto».
Restai spiazzata, anche se un secondo dopo mi stavo dicendo che avrei
dovuto pensarci. Che stupida.
«Ah. Ne sei... sicuro?».
«Credo di sì. Aspetta un attimo... Josh? Ehi,
Josh!».
Josh Hamilton, seduto poco più in là, distolse la
sua
attenzione dal pranzo con scarso entusiasmo e si voltò.
«Che
c'è?».
«Hai visto Alex, oggi?».
A quel punto ci stavano ascoltando tutti, compresa Karen Wilson, una
delle tante ragazze (troppe, secondo me) che guardavano Alex e si
interessavano a lui ben più di quanto fosse lecito.
Fantastico.
Josh scosse la testa. «No. Non è venuto».
Robbie si girò di nuovo verso di me. Mi lasciai sfuggire un
sospiro lieve.
«Okay, grazie, ragazzi. Ci vediamo».
Robbie sorrise gentilmente. «Ciao».
Invece di tornare al mio tavolo, attraversai la mensa camminando a
passo sostenuto e uscii sotto il portico. Faceva freddo e dovetti
infilarmi il giubbotto mentre prendevo il cellulare dalla tasca. Cercai
il nome di Alex nella rubrica e premetti il tasto di chiamata. Non
potevo più rimandare, dovevo almeno accertarmi che fosse
tutto
okay. La sera prima, dopo la mia geniale rivelazione, mi era sembrato
sconvolto e sapevo che quando Alex era sconvolto tendeva a perdere il
controllo di sè. Dopo il settimo squillo la comunicazione
cadde.
Sbuffando, riprovai subito e ancora ascoltai a lungo il suo cellulare
squillare a vuoto.
Be', non era il caso di preoccuparsi troppo, pensai, infilando di nuovo
il cellulare in tasca e rientrando nella mensa. Forse stava poco bene.
O forse era troppo arrabbiato per correre il rischio di incontrarmi a
scuola. Potevo capirlo. Probabilmente se ne stava a casa, nella sua
stanza, e passava il tempo usando una mia foto come bersaglio per le
freccette. Meglio lasciargli un po' di tempo per sbollire, e
dopo, forse... forse avrei trovato una soluzione.
«Tutto bene, Renesmee?», domandò Jas,
interrompendo di colpo la sua converdazione con Tom, quando raggiunsi
il tavolo e mi sedetti.
Le rivolsi un piccolo sorriso. «Sì... tutto
bene».
Lei annuì, sebbene sembrasse un po' incerta, ma non aggiunse
altro. Si girò di nuovo verso Tom. «Scusami, cosa
stavi
dicendo?».
Lui si mosse sulla sedia con aria irritata, poi afferrò di
scatto la sua lattina di Coca e la aprì fin troppo
energicamente.
«Niente. Niente di importante», borbottò
in tono
risentito.
Jas parve un po' spiazzata da quella reazione. Abbassò lo
sguardo sul piatto, in silenzio, un'espressione tirata in viso. Non si
rivolsero la parola per il resto del pranzo.
****
Quella settimana la solita cena dai nonni era stata spostata alla
domenica perchè Charlie e Sue erano a
letto con una brutta influenza. Dopo la scuola non tornai subito a
casa e insieme ad Holly accompagnai Jas a Port Angeles per fare
shopping. Jas comprò due paia di scarpe nuove e una
borsetta,
mentre Holly provò mucchi di vestiti e solo a prezzo di
grandi
sforzi riuscimmo a convincerla a non acquistarli tutti o quella sera
ci sarebbe stata una bufera in casa Matthews.
Passeggiamo sul lungomare e ci fermammo in un grazioso ristorantino per
mangiare qualcosa. Fu un bel pomeriggio e ogni tanto mi distraevo a
sufficienza da non pensare ad Alex; per un paio di minuti, mentre ero
presa dalle chiacchiere con le mie amiche, quasi dimenticavo del tutto
i miei problemi, ma poi mi tornavano in mente di colpo, all'improvviso,
accompagnati da una sgradevole sensazione simile ad un pugno nello
stomaco, e subito afferravo il cellulare.
Lui non provò a
chiamarmi neanche una volta.
Mi sforzai così tanto di fingermi allegra e spensierata con
Holly e Jas che quando arrivai a casa, a sera inoltrata, ero esausta.
Lasciai la macchina in garage e mi diressi a piedi
verso il cottage, stringendo il telefono in una mano. Aprii la porta di
casa e scorsi papà seduto sul divano intento a leggere un
libro.
Appena mi vide, lo chiuse e lo mise sul tavolo. La mamma apparve sulla
soglia della cucina, un sorriso cauto sul volto perfetto.
«Ciao», esclamò.
«Com'è andata? Ti sei divertita?».
«Sì», risposi, sbrigativa.
«Per caso ha...».
Papà parlò prima che terminassi la frase.
«Non ha
chiamato nessuno», disse a mezza voce. Abbassai lo sguardo
senza
riuscire a nascondere la delusione. «Renesmee... non
preoccuparti», aggiunse dopo una pausa. «Vedrai che
ti
chiamerà. Prima o poi la rabbia iniziale gli
passerà e
avrà voglia di parlarti. Dagli tempo».
La sua voce era dolce
e carezzevole, ma non aveva il potere di consolarmi, questa volta.
Impaziente di restare sola, feci per uscire dalla stanza.
«Aspetta», intervenne la mamma, avanzando verso di
me. Mi
osservava ansiosamente e non potei fare a meno di sentirmi un po' in
colpa per come mi stavo comportando. «Avevi promesso che
stasera
avremmo parlato».
Accidenti. Perchè cavolo l'avevo detto?
«C'è una sola persona con cui voglio parlare,
adesso».
Mi affrettai ad uscire prima che potesse dire altro e mi chiusi in
camera mia. Mi liberai della giacca, lasciai cadere la borsa sul
pavimento di legno chiaro e composi il numero di Alex. Ancora una volta
non ricevetti nessuna risposta. Chiusi la telefonata e provai con il
numero di casa sua. Mentre ascoltavo gli squilli uno dopo l'altro,
fissavo il buio oltre i vetri della finestra avvertendo un senso
crescente di oppressione al petto. Chiusi la comunicazione, avvilita.
Alex non mi avrebbe risposto. Crollai a sedere sul letto e incrociai le
braccia, stringendo con forza, come per mantenermi tutta intera. Avevo
ottenuto esattamente ciò che desideravo: Alex mi odiava.
****
Quando
suonò la sveglia, il mattino dopo, me ne stavo
giù da un
po' sdraiata tra le coperte ad occhi spalancati, perfettamente
cosciente. Bloccai la sveglia con un gesto automatico, sebbene non ci
fosse affatto il pericolo di buttare i miei genitori giù dal
letto, afferrai il cellulare dal comodino e riprovai a chiamare Alex.
Non ero troppo preoccupata dal pensiero di svegliarlo. Alzarsi presto
non gli dispiaceva, al contrario di me. A volte si svegliava apposta
quando era ancora quasi buio per godersi il sorgere del sole. Era il
momento che preferiva di tutta la giornata. Diceva che ogni cosa
sembrava diversa, più bella, più luminosa. E
anche lui si
sentiva diverso. Una volta mi sarebbe piaciuto svegliarmi all'alba
insieme a lui, osservare il mondo tornare lentamente alla vita e
leggere sul suo volto il cambiamento di cui parlava. Probabilmente non
sarebbe mai accaduto.
Dopo il decimo squillo a vuoto, chiusi la chiamata, gettai con rabbia
il cellulare sul letto e mi alzai. In teoria avevo un mucchio di
compiti da fare, nella pratica non combinai quasi nulla. Passai la
giornata gironzolando per casa, evitando i miei genitori e i loro
sguardi preoccupati. Non facevano più domande, ma la loro
presenza, sapere che pensavano a me e forse ne parlavano bisbigliando
tra loro, bastava a mettermi a disagio. Dopo pranzo uscirono per andare
a caccia e finalmente mi sentii più sollevata. Avevo
soltanto
voglia di starmene da sola e rimuginare tranquillamente, sebbene fossi
consapevole che non sarebbe servito a nulla.
I miei erano usciti da poco quando telefonò Jacob per fare
due
chiacchiere e quasi rischiai un infarto, credendo che si trattasse di
Alex. Rimasi al telefono pochi minuti, parlando del più e
del
meno, non accennai alle ultime novità e respinsi la sua
proposta
di incontrarci nel pomeriggio con la scusa dei compiti. Ero decisa a
non fare mai più il nome di Alex con Jacob e viceversa, se
fosse
stato possibile. Ero stufa marcia di tutte quelle complicazioni, non ne
volevo altre. Se davvero Jake era geloso del mio ragazzo, raccontargli
che Alex aveva provato a fare sesso con me e mi aveva detto di amarmi,
mentre io lo avevo allontanato con una bugia colossale, sarebbe stato
orrendamente difficile e imbarazzante e non sarebbe servito a
risolvere le cose. In passato confidarmi con Jacob mi aveva sempre
fatto sentire meglio, ma negli ultimi tempi la situazione era cambiata.
Avevo scoperto che non potevo parlargli di tutto, non più, e
quel pensiero faceva male al cuore come una coltellata.
Che cosa significa? Cosa stava succedendo? Rischiavo di perderlo? Era
come se in un quadro che osservavo da tutta la vita, le linee, le
forme, i colori avessero iniziato a muoversi e a mutare sotto i miei
occhi, trasformandosi in qualcosa di completamente diverso. Qualcosa di
sconosciuto. Il mio Jacob stava cambiando? Oppure stavo cambiando io?
Che confusione.
Dopo averlo salutato, per un po' camminai per le stanze, senza meta,
agitata e nervosa, sentendo ancora nella testa la voce di Jake che mi
parlava al telefono. Entrai nella camera di Edward e Bella, silenziosa,
ordinata e fredda. Sul comodino della mamma, accanto al letto, c'era la
sua copia un po' sgualcita di Anna
Karenina,
su quello di papà un libro di poesie in spagnolo di un
autore
che non conoscevo con un segnalibro tra le pagine. Mio padre era sempre
in cerca di qualcosa di nuovo da leggere e non era affatto semplice:
in più di cento anni probabilmente aveva letto gran parte
della
letteratura mondiale; per giunta, la sua memoria perfetta rendeva
inutile una rilettura, anche a distanza di molti anni. Spesso finiva
con il buttarsi su libri e autori a me completamente sconosciuti.
Sapevo che tra qualche decennio, forse, mi sarei trovata nella sua
stessa sensazione, ma stranamente quel pensiero mi metteva tristezza e
lo allontanai in fretta.
Mi lasciai cadere sul letto freddo con un sospiro e affondai il viso
nella morbida trapunta bianca, come se avessi potuto sprofondarci
dentro.
Da qualche tempo avevo iniziato a chiedermi se a un certo punto
l'imprinting potesse smettere di funzionare a dovere. Incepparsi. Che
diavolo stava succedendo tra me e Jacob? E se l'avessi perso davvero? E
se ci fossimo allontanati? Poteva accadere? Afferrai un lembo del
copriletto e senza farci caso lo strinsi forte tra le dita. No, non era
possibile. Stavo già perdendo Alex, forse un giorno anche
Jas si
sarebbe allontanata da me, non potevo perdere perdere anche il mio
Jacob.
Alex, pensai con un
sussulto. Per qualche minuto avevo smesso di pensare a lui, ma non
appena mi tornò in mente tutta la mia preoccupazione
riemerse di
botto. Automaticamente presi di nuovo il cellulare dalla tasca, sebbene
con scarse speranze, e provai ancora una volta. Volevo solo accertarmi
che stesse bene e non facesse stupidaggini. Ma dopo il decimo squillo a
vuoto, all'improvviso mi sentii invadere da un'ondata di rabbia calda e
bruciante. Niente, di nuovo. L'ennesimo tentativo a vuoto. Ma perchè
faceva così? Stupido ragazzino viziato ed egoista.
Chiusi la comunicazione e scattai in piedi così velocemente
che
per poco non persi l'equilibrio. Era il momento di fare qualcosa. Presi
la giacca e le chiavi della macchina e uscii dal cottage. Camminando a
passo di marcia raggiunsi la casa dei nonni. Mi infilai
nel garage facendo meno rumore possibile e montai sulla mia Mercedes.
Non avevo alcuna possibilità di passare inosservata, anche
il
mio respiro e il mio passo leggero erano perfettamente udibili, ma
speravo che i miei familiari mi lasciassero in pace. Per fortuna
riuscii a sgusciare via prima che un paio di occhi color ambra
spuntasse da qualche parte, sentendomi una specie di fuggitiva, come
quella volta che io ed Alex avevamo saltato la scuola insieme.
Per un
po' lottai con me stessa, cercando di soffocare i ricordi di
quella giornata così bella e così lontana che
affioravano
in superficie. Ricordare faceva male, ma era uno strano tipo di dolore.
Era quasi piacevole. In fondo, niente che fosse legato ad Alex e alla
nostra storia avrebbe mai potuto causarmi una vera sofferenza, mai. La
spiaggia di La Push, il profumo dell'oceano, il suono della sua risata,
i suoi capelli scompigliati dal vento, l'intensità del suo
sguardo su di me, il nostro primo bacio... il mio
primo bacio... Deglutii più volte, con decisione, per
ricacciare
indietro le lacrime e premetti sull'acceleratore, senza esagerare, ma
volevo arrivare presto e farla finita. Volevo che Alex mi guardasse in
faccia e mi dicesse che non poteva più stare con me,
così
mi sarei messa l'anima in pace. Mi sarei rassegnata. Lui sarebbe stato
finalmente al sicuro, e io... io?
Ero arrivata. Frenai di botto e parcheggiai alla meglio sul ciglio
della strada, gettando di continuo occhiate ansiose alla villetta
bianca. Saltai giù e ricordai appena in tempo di chiudere la
macchina. Il cancello era chiuso. Andai al citofono con passo deciso e
suonai. Una volta. Due volte. Tre volte. Niente, nessuna risposta.
Digrignai i denti e quasi pestai i piedi, furibonda. Ma che razza di
idiota! Pensava forse che quel silenzio ostinato fosse la soluzione,
davvero? Be', io no.
Mi guardai intorno: la strada era deserta, neanche un'auto di passaggio
o l'ombra di un vicino di casa. Fu un attimo: mi attaccai saldamente
alle sbarre del cancello, eleganti ghirigori di ferro
battuto che potevo attribuire con certezza al buon gusto della zia di
Alex, e scavalcai senza difficoltà. A mali estremi, estremi rimedi,
pensai mentre atterravo sul viale, dall'altra parte del cancello,
silenziosa come un gatto. Notai subito che l'Audi nera di Alex non era
parcheggiata davanti alla casa, ma forse era in garage. Era come se
avessi inserito il pilota automatico e senza esitare raggiunsi la
porta e bussai con forza.
«Alex!», sbottai, esasperata. «Alex,
maledizione, apri! Devo
parlarti! Non puoi fare così, non puoi chiudermi fuori dalla
tua
vita da un giorno all'altro come se tra noi non ci fosse stato niente,
non è giusto! Apri questa dannata porta e dimmi che non vuoi
più vedermi, ma almeno guardami in faccia mentre lo
fai!».
Dovetti interrompere la mia tirata per prendere fiato e attesi, certa
di vedere la porta aprirsi da un momento all'altro e di incontrare i
suoi occhi azzurro scuro, carichi di rabbia, sconcerto o indignazione.
Non accadde nulla. Dall'interno non proveniva alcun rumore, come se la
casa fosse vuota.
«Alex?», chiamai ancora una volta, in tono
dubbioso.
Augurandomi di non spaventare nessuno nel caso fossi stata vista
aggirarmi in giardino con aria furtiva, feci lentamente il giro della
casa e andai sul retro. Le porte-finestre del salotto erano chiuse, le
tende tirate; anche la finestra della stanza di Alex e quella della
stanza di Phoebe, che affacciavano sul retro, sembravano chiuse. Forse
davvero non c'era nessuno. Sapevo che Julie e Phoebe erano a Vancouver,
ma Alex? Dove accidenti era finito?
A testa china, divorata dall'ansia e immersa in cupe riflessioni,
riattraversai il giardino, scavalcai il cancello e tornai alla
macchina. Per tutto il tragitto guidai automaticamente, senza fare caso
alla strada che conoscevo a memoria. Ero troppo distratta e
preoccupata. Forse era il caso di parlare con qualcuno. Dovevo chiamare
Julie e avvertirla che Alex non era venuto a scuola e sembrava
introvabile? Sapevo che si sarebbe preoccupata a morte, visto il
passato turbolento di Alex, ma forse lei sarebbe riuscita a
rintracciarlo e almeno mi sarei tranquillizzata un po'.
Però...
lui se la sarebbe presa da morire se avessi fatto una cosa del genere e
già mi odiava abbastanza. Avere il fiato di Julie sul collo
lo
faceva impazzire.
Chissà se i miei erano già tornati dalla caccia.
Prima di fare qualunque cosa, volevo parlarne con loro.
Quando arrivai a casa stava facendo buio. L'intera giornata era
trascorsa quasi senza che me ne accorgessi. Parcheggiai la Mercedes in
garage in tutta fretta, entrai in casa e salii di sopra a rotta di
collo. Emmett e Jasper erano seduti davanti alla tv, impegnati a
seguire una partita di baseball. In cucina, Carlisle, Esme e Rosalie
chiacchieravano con voci allegre, ma quando entrai mi guardarono in
viso e smisero subito.
«Ciao», salutai frettolosamente, il fiato corto e
il viso accaldato. «Mamma e papà sono
qui?».
«No, tesoro», rispose Carlisle, affabile.
«Ho appena parlato
con tuo padre al cellulare, stanno rientrando ma ci vorrà un
po' prima che arrivino. Oggi si sono spinti più lontano del
solito».
«Ah», mormorai, abbassando lo sguardo.
Accidenti. Niente andava
per il verso giusto, quel giorno. La delusione mi si leggeva in faccia,
probabilmente, perchè zia Rosalie intervenne con tono
preoccupato.
«Se vuoi parlargli possiamo richiamarlo».
Scossi il capo, senza guardarla. Non volevo che notasse i miei occhi
umidi. Avrei voluto allontanarmi, ma stranamente non ci riuscivo; era
come se qualcosa mi paralizzasse, bloccandomi lì dove mi
trovavo. Emmett e Jasper avevano abbassato il volume della tv e ci
stavano fissando.
«Va tutto bene, Renesmee?», indagò il
nonno. La sua voce
era gentile e affettuosa, ma invece di consolarmi sembrò
accentuare il nodo che mi chiudeva la gola e quasi mi soffocava.
«È successo qualcosa?».
Presi fiato per parlare. «No», sussurrai, e un
attimo dopo scoppiai in lacrime.
Incapace di trattenermi o frenare il pianto, mi coprii il viso in
fiamme con le mani e corsi di sopra, rifugiandomi nella vecchia stanza
di papà e chiudendomi la porta alle spalle con un tonfo. Mi
lasciai cadere sul letto, mi rannicchiai tra i cuscini grandi, morbidi
e confortevoli, e singhiozzai disperatamente, incurante del fatto che
gli altri erano al piano di sotto e stavano sentendo tutto. Avrei
preferito essere al cottage, da sola, per sfogarmi in pace e in
solitudine, ma quella stanza era il posto più vicino dove
potermi rifugiare al momento.
Ero lì da dieci minuti circa e avevo iniziato a calmarmi un
po',
quando sentii bussare delicatamente. Prima che io dicessi qualcosa, la
porta si era già aperta. Sapevo benissimo chi fosse senza il
bisogno di guardare, così non sollevai neanche la testa. Ci
fu
un rumore di passi leggeri sul pavimento, un lieve ticchettio di scarpe
alte ed eleganti.
«Renesmee? Tesoro, che cos'hai?»,
domandò zia Rose,
la voce bassa e ansiosa. «Cos'è
successo?».
Per un attimo rimasi ferma con il volto seppellito tra i cuscini. Poi,
con un sospiro pesante, mi tirai su e mi misi a sedere, asciugandomi le
guance bagnate con la mano e cercando di ricompormi. Basta piangere,
pensai, decisa. Era una reazione infantile e umiliante; quando ero
arrabbiata non riuscivo a trattenere le lacrime e in quel momento non
avrei saputo dire se ce l'avessi più con Alex, con Jacob,
con
Seth e il suo dannato imprinting o con il mondo intero... o con me
stessa, forse.
«Di tutto», sbottai con voce tremante, e il
racconto degli ultimi
eventi sgorgò tra le mie labbra veloce e inarrestabile come
un
fiume in piena che finalmente straripava. Cominciai dal bacio con
Nahuel e finii con la casa vuota degli Hayden.
Rosalie, seduta sul letto davanti a me, mi ascoltava attentamente,
un'espressione neutra e impassibile sul volto, ma ogni tanto inarcava
appena le sopracciglia sottili ed io intuivo che si stava chiedendo
come diavolo avesse fatto la sua nipotina timida, tranquilla e
imbranata con i ragazzi a cacciarsi in un simile guaio. Giunta al
termine della storia, ero senza fiato per l'agitazione.
«E così Alex è praticamente scomparso!
Non lo vedo e
non lo sento da due giorni e non voglio che faccia
qualche sciocchezza! Lui... non riesce a ragionare quando è
arrabbiato, perde il controllo... ho paura», esclamai di
getto, affannata.
Lei mi fissò in silenzio ancora per un attimo, poi mi
afferrò le mani e le strinse; la sua presa salda e fredda
ebbe
l'impensabile effetto di schiarirmi un po' la mente. Quando
parlò, lo fece con calma e padronanza di sè.
«Capisco che tu sia preoccupata, ma era prevedibile che
reagisse
così, non trovi? Gli hai detto di aver baciato un altro
ragazzo
e di pensare a lui: cosa ti aspettavi che facesse?».
«Io... non lo so! Voglio dire, sapevo che se la sarebbe presa
ed era quello che volevo, ma non immaginavo che facesse questo. Vorrei
soltanto sapere se sta bene, nient'altro», mormorai,
angosciata, chiudendo gli occhi per un secondo.
«Ma tu davvero pensi ancora a Nahuel?»,
domandò la zia all'improvviso.
Sorpresa, scossi la testa. «No. Non nel senso che ho fatto
credere
ad Alex. Ammetto che lui mi aveva colpita e che desideravo conoscerlo
meglio, ma credo sia accaduto per lo stesso motivo per cui anche Nahuel
è rimasto colpito da me e ha provato a... insomma, ha fatto
quello che ha fatto», conclusi, imbarazzata, abbassando lo
sguardo.
«Perchè voi due siete simili», rispose
Rose dolcemente.
Dentro di me, sorrisi. Aveva capito.
«Esatto. Noi... ci siamo riconosciuti per caso nel mezzo
della folla
ed è stato incredibile... Penso che ci saremmo riconosciuti
ovunque. È
stato bello parlare con qualcuno che capisse certe cose, che capisse la
sensazione di trovarsi sempre a metà strada tra le due
estremità di una linea e non avvicinarsi mai davvero a
nessuna
delle due». Ripensare alle nostre chiacchierate mi fece
affiorare un
piccolo sorriso spontaneo sul volto congestionato. «Ma non
c'è stato nient'altro. Quello che ho detto ad Alex era una
bugia. Ho dovuto
mentirgli».
«Perchè? Forse perchè lui voleva...
andare troppo in fretta?».
«No, non è per questo». Scossi la testa
con vigore,
cercando di mettere in ordine le idee e parlare con chiarezza.
Avvertivo una tale confusione dentro di me che dubitavo di riuscire a
spiegarmi. «Ormai sono settimane che mi chiedo se non dovrei
lasciarlo o trovare il modo di allontanarlo per il suo bene. Poi,
l'altra sera, è stato come se le cose facessero
all'improvviso
un balzo in avanti». Abbassai lo sguardo sul copriletto per
non
doverla fissare; quel discorso era un po' imbarazzante, ma cercai di
scacciare quella sensazione infantile. «Quando lui ha provato
a... fare l'amore con me, ha detto di amarmi ed io... mi sono resa
conto che sarebbe stato incredibilmente semplice dirgli di
sì e
andare fino in fondo». Tacqui per un attimo, serrando le
labbra,
riflettendo. «Io volevo farlo. O almeno credo. Quello che
provo
per Alex... non so se sia amore, non lo so, ma so che in quel momento
stavo bene, lì con lui».
«Allora perchè ti sei fermata?». Zia
Rose non mi
staccava gli occhi penetranti di dosso nè batteva ciglio.
«È successo tutto molto in fretta»,
proseguii,
piano, lo sguardo sempre basso. «Ho avuto paura. Mi serviva
un
po' di tempo per pensare prima di... Così l'ho fermato. Poi
Alex
ha detto di amarmi e io ho capito che era sincero. Diceva sul serio.
Facevamo sul serio tutti e due. E ho capito anche che non potevamo
continuare». La voce mi si ruppe all'improvviso e mi morsi il
labbro, prendendomi una pausa per recuperare il controllo.
«Non
posso permettergli di amarmi. Non posso lasciare che la nostra storia
diventi così importante o non riuscirò
più ad
allontanarlo, capisci? Più andiamo avanti, più
tempo
passiamo insieme, più diventa difficile. E lasciarlo andare
è l'unica cosa che posso fare per proteggerlo dai pericoli
del
mio mondo. Forse... forse ho sbagliato tutto fin dall'inizio. Non avrei
mai dovuto permettere che si avvicinasse tanto a me, che si innamorasse
di me. Una storia con un umano... ma che cosa credevo?».
Abbassai
le palpebre sugli occhi nuovamente gonfi di lacrime e le sentii
scivolare lungo le guance. Faceva male, accidenti, un male dannato. Ora
sapevo cosa significasse avere il cuore spezzato. «Di
ripetere la
storia dei miei genitori? Il loro sarà anche stato un grande
amore, ma mia madre è morta ed è diventata un
vampiro...
Una cosa simile non dovrebbe mai accadere. Non esiste nessun amore che
valga tante sofferenze. Alex è vivo e sta bene e niente, niente
conta più di questo. Forse oggi sta male, ma domani mi
avrà dimenticata e sarà andato avanti. E
avrà un
futuro, quello che non esiste per noi due. Non sa neanche che cosa sono
veramente, non ho fatto altro che raccontargli bugie da quando ci
conosciamo.
Quanto tempo pensi che ci vorrà prima che lui si
renda conto che in me c'è qualcosa che non va, che un giorno
non
invecchierò più, tanto per cominciare? Quanto
può
durare questa farsa? Prima o poi dovremo separarci comunque e se
aspetto che il nostro legame diventi sempre più forte
sarà soltanto peggio, soffrirà molto
più di quanto
possa soffrire adesso. È
per questo che devo lasciarlo andare, zia Rose». Non riuscivo
più a parlare. Scossi il capo quasi senza accorgermene, come
se
avessi desiderato allontanare così quei pensieri, e mi
coprii il
viso con una mano, sforzandomi di frenare il pianto. Era dura
pronunciare quelle parole a voce alta e sentire quanto fossero vere.
«Se tengo davvero a lui, devo lasciarlo andare prima che sia
tardi», sussurrai con voce rotta.
Mi sentivo soffocare e non riuscii a pronunciare un'altra parola.
Rosalie tese le braccia ed io mi strinsi a lei, disperatamente triste e
al tempo stesso grata di averla con me in quel momento.
****
Fui
svegliata da un brontolio basso e insistente, qualcosa che sentivo
muoversi a intervalli regolari sul letto, accanto a me. Ancora ad occhi
chiusi, mi ci volle qualche secondo per rendermi conto che era giorno e
che dovevo essermi addormentata lì, nella vecchia stanza di
papà, avvolta nella coperta color oro intenso. Avevo un gran
mal
di testa e un dolore sordo allo stomaco che non riceveva cibo dal
giorno precedente.
Il brontolio continuava. Cos'era? Ah, sì, il cellulare,
nella
tasca dei jeans. Probabilmente i miei genitori sapevano che mi ero
addormentata lì, quindi doveva essere Jacob che si chiedeva
dove
fossi finita. Senza grande entusiasmo, mi girai sulla schiena mentre
tiravo fuori il cellulare e risposi senza neanche guardare il display.
«Pronto?».
«Renesmee, sono io».
Mi catapultai letteralmente giù dal letto, ad una
velocità tale che mi girò la testa. Per un attimo
pensai
che fosse un sogno.
«Alex», sussurrai, incredula.
«È
presto, lo so. Ti ho svegliata?», aggiunse. Sembrava calmo,
controllato e freddo. Non gelido come l'ultima volta che ci eravamo
parlati, ma ancora freddo e distante.
«N-no», balbettai, cercando di schiarirmi le idee.
Sembrava
proprio che fosse tutto vero. «Non ha importanza. Dove sei?
Stai
bene? Sono due giorni che ti cerco».
Dall'altra parte ci fu silenzio per un istante. «Lo so. Ho
visto
le tue telefonate. Scusa se non ho risposto, io... avevo bisogno di
pensare. E poi... si è scaricato il cellulare, credevo di
aver
lasciato il carica batteria a casa e invece era nel cruscotto della
macchina».
Dovetti concentrarmi per cogliere il senso delle sue parole. Il mal di
testa non smetteva di pulsare.
«Si può sapere dove eri finito?»,
sibilai, senza riuscire ad avere un tono meno arrabbiato.
«A James Bay, vicino Victoria».
Per poco non mi cadde il cellulare di mano. «Victoria? In
Canada?». Per un attimo pensai che scherzasse, come al
solito.
«Ma... Cosa... Come... Perchè?
Cosa sei andato a fare in Canada?».
«Non è il caso di parlarne adesso»,
rispose in tono
secco. «Sono al volante, sto tornando a Forks. Potremmo
vederci
domani a scuola. Ti va?».
«A scuola? Perchè, ci vieni?».
«Sì, verrò».
Stavo per chiedergli come pensasse di riuscirci dal momento che stava
tornando dal Canada e che ci avrebbe messo quasi tutta la giornata, poi
mi tornò in mente la sua guida da pazzo e cambiai idea.
«D'accordo».
«Dopo pranzo? Nel laboratorio di chimica?».
«Okay», risposi con un sospiro. Voleva parlarmi,
voleva
parlarmi davvero. Una parte di me era sollevata, l'altra spaventata a
morte. Quale era il suo umore? Cosa stava pensando? Non era sereno, ma
non sembrava più arrabbiato come giovedì sera.
«Allora...», aggiunsi, senza sapere esattamente
cosa stessi
per dire, ma Alex mi risparmiò la fatica di pensarci.
«Ciao, Renesmee», mi salutò sempre con
quel tono
sostenuto, e chiuse la telefonata senza aspettare che gli rispondessi.
Note.
1. Link.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Stay ***
C 11
Capitolo
11
Stay
Alright,
everything is alright
Since
you came along
And
before you
I
had nowhere to run to
Nothing
to hold on to
I
came so close to giving it up
And
I wonder if you know
How
it feels to let you go
You
say goodbye in the pouring rain
And
I break down as you walk away
Stay,
stay
'Cause
all my life I felt this way
But
I could never find the words to say
Stay,
stay.
Stay, Hurts¹
La
verità, come la luce, acceca. La menzogna invece
è un bel crepuscolo, che mette in risalto tutti gli oggetti.
Albert Camus, La caduta
La
prospettiva di parlare con Alex mi faceva sentire come se avessi dovuto
sostenere un esame. Mi chiedevo se ce l'avrei fatta. Se sarei riuscita
a guardarlo dritto negli occhi, ripetere le atroci bugie che gli
avevo detto quella sera e ad aggiungere dell'altro, qualcosa di
peggiore. Sapevo di doverlo fare, ma questa consapevolezza non rendeva
le cose più facili.
Quando suonò la campanella del pranzo raggiunsi la mensa
insieme alle mie amiche, ma arrivata davanti alla porta non provai il
minimo desiderio di entrare e pranzare come ogni giorno; mi si era
chiuso lo stomaco per il nervosismo e non mi andava di stare in mezzo
alla folla e al chiasso. Avevo bisogno di un po' di calma e di silenzio
per pensare. Le ragazze sapevano che dovevo parlare con
Alex e non fecero commenti quando le informai che avrei saltato il
pranzo, ma mentre mi allontanavo colsi uno strano scambio di sguardi
tra Holly e Jas; non avevo confidato a
nessuna di loro di ciò che stava accadendo tra noi,
perchè prima di rispondere alle loro domande e assistere al
loro dispiacere volevo chiudere definitivamente con Alex... Meglio
affrontare una cosa alla volta.
Il
laboratorio di chimica, dove io ed Alex avevamo deciso di
incontrarci, era un'ampia aula rettangolare con una fila di finestre
che correva lungo un'intera parete inondando la stanza di luce. Con
passo pesante, la mente annebbiata da pensieri, dubbi
e paure, spalancai la porta e mi accorsi che l'aula non era
vuota.
Seduto su uno dei bassi armadietti che rivestivano la parete sotto le
finestre, le spalle appoggiate al vetro dietro di lui, una sigaretta
accesa in mano, c'era Alex.
Quasi sobbalzai per la sorpresa, mentre lui mi fissava con aria
inespressiva.
«Ehi», balbettai. Lasciai la presa sulla porta, che
si chiuse con
un tonfo. «Sei già qui? Credevo... Dovevamo
vederci
più tardi, dopo pranzo».
Continuava ad osservarmi senza battere ciglio. Poi si portò
la sigaretta alle labbra e abbassò gli occhi.
«Lo so, ma non ho fame», rispose semplicemente, in
tono piatto.
Fantastico. Non ero la sola ad avere i nervi a fior di pelle.
«Siamo in tue, allora», mormorai. Forse
Alex
non sentì. «Non dovresti fumare qui
dentro»,
aggiunsi, a
volume normale. «Se ti scoprono...».
«Ho aperto la finestra», disse con tono brusco.
Allungò il
braccio e picchiettò con un dito la sigaretta sottile per
far
cadere la cenere fuori. Lo avevo osservato così tante volte
mentre compiva qui gesti, sempre eleganti e controllati, che avrei
potuto chiudere gli occhi e continuare a vederlo davanti a me.
All'improvviso accennò l'ombra di un sorriso.
«Okay, Miss
Perfettina...
la spengo», disse, con l'aria di chi sta facendo un grosso
favore a
qualcuno. E lo fece davvero: spense accuratamente la sigaretta sul
davanzale esterno
della finestra, poi saltò giù dall'armadietto e
andò a gettare il mozzicone nel cestino, in un angolo della
stanza. «Ecco fatto. Parliamo».
Il brusco cambio di argomento mi lasciò sconcertata per un
attimo. Mi guardò in silenzio e capii che dovevo essere io
ad
iniziare. Facile a dirsi. Feci un profondo respiro e poggiai la borsa
su un banco lì accanto.
«Allora...».
«Allora...», mi fece eco lui quasi nello stesso
istante.
I nostri sguardi si incrociarono, esitanti. Ero ancora piuttosto tesa,
ma più tranquilla e padrona di me rispetto a quando ero
entrata
nel laboratorio; quasi ero impaziente che si arrivasse al dunque, per
liberarmi di quel peso e superare il momento.
«Com'era James Bay?», buttai lì, tanto
per dire qualcosa.
Alex inarcò un sopracciglio, ma non commentò la
mia
strana domanda. Ci pensò su. «Piccola. Tranquilla.
Veramente non ne ho visto un granchè. Ho preso una camera in
un motel e sono stato lì quasi tutto il tempo».
«Ma... come sei arrivato fin lì?».
«Ho guidato fino a Port Angeles, lì ho preso un
traghetto,
portandomi dietro la macchina, sono arrivato a Victoria e...».
«No, non intendevo questo. Voglio dire, perchè
l'hai
fatto?», esclamai con forza. «Perchè sei
sparito
così all'improvviso, senza avvisare nessuno? Hai idea di
cosa ho
passato...». Mi fermai appena in tempo e mi morsi il labbro.
Non
volevo esagerare e riportargli alla mente brutti ricordi o accusarlo di
chissà cosa. Lui sollevò la testa di
scatto, un
istintivo gesto di sfida, ma non parlò. «Stavo per
chiamare
Julie», aggiunsi, bruscamente.
«Ah, questo sì che sarebbe stato
grandioso», rispose in tono scocciato, alzando gli occhi al
cielo.
«Mi sono spaventata a morte, Alex», ribattei,
fregandomene,
questa volta, che potesse restare turbato dagli accenni al suo passato
turbolento. Forse il suo problema era proprio non riuscire a
comprendere il male che faceva agli altri, non solo a se stesso.
«Rilassati, adesso lo sa. Si è accorta che non ero
a casa e
ho dovuto dirle che ero andato via per un paio di giorni».
«Come l'ha presa?».
Alex alzò le spalle. «Non bene. Ma non fa niente,
me
l'aspettavo. Le ho spiegato che avevo bisogno di staccare un
po'».
La voce sommessa con cui pronunciò le ultime parole
suonò
alle mie orecchie come un rimprovero. «Mi dispiace tanto,
Alex. Non
volevo che succedesse questo...».
Non sapevo esattamente cosa stessi farfugliando, ma lui mi interruppe.
«No, aspetta». Alzò le mani come per
fermarmi ed io
lo
guardai, titubante; aveva un'espressione seria che mi spinse a chiudere
la bocca. «Ero arrabbiato. Ero furioso, così tanto
che
l'unica cosa che ho potuto fare per calmarmi, appena sei scesa dalla
macchina, è stata andarmene, allontanarmi il
più possibile da te. Ho guidato fino a Port Angeles e poi ho
continuato ad andare, senza neanche sapere esattamente dove fossi
diretto, perchè avevo il terrore di cosa poteva succedere se
fossi tornato indietro. Credevo di averti perso».
Fece una breve
pausa, ma io non fiatai. Rimasi a fissarlo, zitta e immobile,
ipnotizzata dalle sue parole.
«Ce l'avevo con te, sì, ma
anche con me stesso. Ho pensato di aver rovinato tutto. Poi... la
rabbia è sbollita e mi sono reso conto... che le cose erano
rimaste uguali, per me, esattamente le stesse di prima».
Espirò profondamente, di colpo, come se stesse lasciando
andare qualcosa che aveva trattenuto troppo a lungo dentro di
sè, e fece un passo avanti. «Quello che ti ho
detto
l'altra
sera era vero e non è cambiato. Io ti amo», disse,
la voce
salda e forte. «Ti amo e non me ne frega niente di cosa
è
successo quest'estate. Voglio dimenticarlo. Andiamo avanti».
Per un pezzo rimasi senza parole, lì impalata, a fissare la
determinazione nel suo sguardo e a chiedermi dove accidenti avessi
sbagliato. Lui avrebbe dovuto odiarmi e invece mi ripeteva quanto mi
amasse. Una parte di me era commossa e avrebbe desiderato accogliere e
ricambiare quel sentimento con tutto il cuore, ma allo stesso tempo
sentivo
dilagare nello stomaco un incredulo terrore.
«N-no, Alex», balbettai, scuotendo la testa.
«No».
«Che significa no?»,
mi
incalzò, senza mostrare un briciolo di incertezza.
All'esterno
appariva calmo, ma i suoi occhi erano fiammeggianti.
«Io... io ho baciato un altro ragazzo...».
«Ti ho detto che non mi importa! Sai quante ragazze ho
baciato io?
No, aspetta, non so dirtelo con precisione. Non ricordo buona parte
delle cose che ho fatto negli ultimi due anni, ero quasi sempre
completamente sbronzo. Non fa niente, è
stato solo un bacio, un momento di debolezza».
«Non è stato un momento di debolezza, è
successo
perchè lo volevo. Insomma, voglio dire... Non è
come
pensi... Oh, accidenti!», sbottai, esasperata, disperata. Mi
stavo
letteralmente arrampicando sugli specchi ed Alex mi guardava con
espressione stupita. Okay, forse era meglio smettere di pensare e
provare ad improvvisare. «Quel ragazzo... mi piaceva davvero,
Alex.
Quello che è successo con lui mi ha fatto capire che abbiamo
corso troppo, io e te», ripresi, con più calma,
seguendo
l'ispirazione del momento.
Coraggio, Renesmee. Ce
la puoi fare.
«Ho capito che per quanto la nostra storia fosse
bellissima... non è una cosa seria. Non è
così
importante come pensavo. E poi, dopo che l'altra sera hai detto di
amarmi... mi sono resa conto che è meglio chiudere prima di
farci del male. Mi dispiace, ma non me la sento più di
andare
avanti. Vuoi qualcosa che non posso darti», conclusi con un
filo di
voce. In quel momento mi detestavo con tutta me stessa, ma mi costrinsi
a tenere duro, a non abbassare lo sguardo e a non mostrare segni di
cedimento. Dovevo farlo per lui. Per lui
«Forse è stata colpa mia»,
mormorò Alex, pallido in
volto. «Non è vero? Stai reagendo così
perchè
sono andato troppo in fretta». Dopo un attimo di confusione,
capii
di cosa parlava e mi sentii arrossire. Colta di sorpresa, non riuscii a
ribattere subito e lui proseguì. «Senti, Renesmee,
l'ultima
cosa che volevo era farti pressioni, te lo giuro. Mi sono lasciato
andare e non ho riflettuto... Non ho pensato che forse tu non eri
pronta, che prima avremmo dovuto parlarne. Ho sbagliato, okay, ma
possiamo rallentare. So che tu non hai mai...».
Lasciò la frase in sospeso. Non avevamo mai affrontato
l'argomento, tra noi, ma non era difficile intuirlo. Gli lanciai
un'occhiata fugace.
«Tu invece sì?», domandai in un
sussurro. Sospettavo di
conoscere già la risposta, ma volevo esserne certa.
«Con
Madison?».
Alex mi guardò in silenzio per un lungo attimo, poi
annuì. «Sì. Con Madison».
Forse in un altro momento quella conferma avrebbe scatenato gelosia,
timori e chissà quante emozioni, ma per lì per
lì,
con altri pensieri ben più gravi per la testa, la accolsi
con
assoluta calma e compostezza. In fondo era la risposta che mi
aspettavo. Mi dissi che era il caso di cogliere la palla al balzo e
sfruttare l'occasione.
«Forse... forse c'entra un po' anche questo»,
aggiunsi,
esitante. «Non potevo dirti di sì, l'altra sera,
perchè non ero sicura che fosse la cosa giusta. E non ero
sicura
che lo fosse perchè non sono sicura di provare per te un
sentimento abbastanza forte da fare... un passo così
importante». Tenevo gli occhi ben fissi a terra e parlavo
lentamente, cercando di apparire serena e sincera. Sapevo di non essere
brava nel raccontare bugie, ma ce la stavo mettendo tutta.
«Io ti
voglio bene, Alex, te ne voglio un sacco. Sei molto importante nella
mia vita, ma... il bene non è amore. E credo che dovresti
pensarci anche tu prima di dire o fare qualcosa di cui potresti
pentirti».
«Che razza di cretinate!», sbottò per
tutta
risposta. «So benissimo quello che dico e te lo
ripeterò». Mi raggiunse con due passi veloci e mi
afferrò le spalle con forza, quasi scrollandomi,
obbligandomi a
guardarlo in viso. «Io ti amo», scandì.
«Ti
amo, ti amo, ti amo e voglio che resti con me».
«Ma io no, io no!», esclamai, alzando la voce e
divincolandomi per sfuggire alla sua presa. Avevo gli occhi umidi e la
gola gonfia e trattenevo a stento le lacrime. Non avevo immaginato che
sarebbe stato così difficile. «Io non voglio
più
stare con te!».
Lui non si mosse di un millimetro e continuò a fissarmi,
intrappolandomi con l'intensità del suo sguardo.
«Non vuoi
più stare con me perchè hai baciato un tizio
quest'estate?», domandò, con calma forzata.
Sembrava che ai suoi occhi la situazione apparisse assurda e non
potevo certo dargli torto, ma era l'unica possibilità alla
quale
aggrapparmi.
«Te l'ho spiegato il perchè!».
Per un lunghissimo istante non parlò. Quando aprì
bocca, sussultai.
«Non ti credo».
«Che cosa?».
«Te lo leggo in faccia che non è così.
Se vuoi
lasciarmi va bene, ma almeno non prendermi in giro», disse a
denti stretti, la voca carica di rabbia.
«Pensa quello che ti pare», sussurrai. Ero stanca,
che
credesse pure ciò che preferiva. Mi voltai per andarmene, ma
Alex mi afferrò per un braccio, trattenendomi, e dovetti
girarmi
di nuovo.
«È per lui,
vero?», disse, aggressivo, una smorfia sul volto.
Lo fissai senza capire. «Lui chi?».
«Il tuo amico. Jacob Black», rispose, come se
pronunciare
quel nome gli desse il voltastomaco.
Jacob? Jacob?
Investita dallo shock, lo fissai in silenzio, a bocca aperta, per
un'eternità, e forse ad Alex quella reazione parve una
conferma; il
suo viso si pietrificò.
«Ho visto come lo guardi, ho visto
come ti guarda. Se c'è qualcuno a cui pensi è lui».
Scossi la testa automaticamente. Che stava dicendo? Avevo capito che
provava gelosia per il mio migliore amico, ma addirittura pensare che
lo stessi lasciando per fidanzarmi con Jacob... ? Era...
«... ridicolo», farfugliai. «È
semplicemente ridicolo. Jacob è il mio migliore
amico!».
La smorfia sul volto di Alex si deformò in un sorriso amaro.
«Dovresti vederti adesso, Renesmee. Vedere quello che vedo
io. Ti
conosco e lo so quando dici una bugia».
«E invece ti stai sbagliando», ribattei, decisa.
«Jacob non c'entra niente, niente,
con me e te», aggiunsi, ed era la pura verità. A
volte i
miei sentimenti per Jake mi confondevano, sì, ma avevo
ancora
ben chiaro chi fosse: il ragazzo che mi aveva vista nascere, il ragazzo
con il quale ero cresciuta. Era il mio migliore amico. L'idea che
potesse
esserci qualcosa di più tra noi era folle. «Ci
siamo
soltanto noi due e quello che proviamo l'una per l'altro. Tu dici di
amarmi e non ti rendi conto che questo è un motivo in
più
per farla finita adesso. Non voglio farti soffrire»,
conclusi, la
voce tremante. Ecco le uniche due verità uscite dalle mie
labbra
quel giorno.
Alex mi strinse di nuovo e mi avvicinò di più a
sè, al punto che sentii il suo fiato caldo sul viso.
«Allora non lasciarmi!», esclamò e la
forza che
traboccò dalle sue parole fu impressionante. Tutto il suo
corpo
sembrava sprigionare un'energia disperata che mi investiva a ondate.
Cercai ancora di liberarmi, ma lui mi teneva ben stretta come se avesse
paura che volassi via da un momento all'altro.
«Resta con
me! Tu non hai idea di come hai cambiato la mia vita. Quando ho
lasciato New York, la mia casa, i miei amici, la mia famiglia, non ero
più il pazzo furioso che fumava erba fino a non ricordare
più neanche il proprio nome o... distruggeva la macchina di
sua zia, ma non ero felice. Non ero
felice. Sentivo sempre che mi mancava qualcosa, di aver perso qualcosa e
credevo che non l'avrei mai più ritrovata, qualunque cosa
fosse.
Poi ti ho conosciuta ed è stato come se tu mi restituissi
tutto
quello che avevo perso. Ho ricominciato a sognare, a desiderare, a
sorridere davvero, non per finta... A svegliarmi la mattina pensando
che la mia vita avesse un senso. Stavo bene», disse con
semplicità disarmante. Sentii una fitta al cuore e distolsi
gli
occhi dai suoi, sbattendo le palpebre, per non cedere. Supplicando me
stessa di non cedere. «Tutto questo sparirà se te
ne
vai», continuò, a voce bassissima, intensa.
«Resta.
Per favore, resta con me».
Era insopportabile. Atroce. Bruciavo dal desiderio di abbracciarlo,
rassicurarlo, dirgli solo la verità... che avrei tanto
voluto
restare con lui e che abbandonarmi ai nostri sentimenti sarebbe stato
infinitamente facile. Dirgli che sapevo benissimo cosa aveva passato
perchè gli ero stata accanto ogni giorno per sette mesi. E
proprio perchè lo sapevo, avevo il dovere di proteggerlo e
tirarlo fuori dal tunnel senza uscita che era la nostra storia.
«Non posso», bisbigliai con un filo di voce,
scuotendo il
capo. Mi sottrassi alle sue mani, che finalmente mi lasciarono andare,
inerti e abbandonate come prive di vita. «Non posso, mi
dispiace.
Lasciami stare».
Afferrai la borsa alla cieca e corsi fuori prima che potesse fermarmi
ancora.
Note.
1. Link.
Spazio autrice.
Salve! Eccomi qui, puntualissima (più o meno), a rompervi le
scatole! Allora, sul capitolo non farò commenti, aspetto che
siate voi a dire la vostra... Sono molto curiosa di scoprire cosa ne
pensate ;-). Vorrei ringraziare le persone che seguono la storia e in
particolare chi mi recensisce :-) non ho avuto il tempo di rispondere
per bene alle recensioni, ma le leggo sempre con il massimo interesse e
nei prossimi giorni risponderò a tutti i commenti.
Infine, un avviso di carattere pratico. Il mese di giugno
sarà piuttosto impegnativo perchè dovrei dare tre
esami all'università, dei quali due un po' difficili, quindi
dubito fortemente che riuscirò ad aggiornare
mercoledì 11 giugno, secondo il programma. Nel caso in cui
l'11 salti, aggiornerò il mercoledì successivo,
il 18. Può anche darsi che l'11 riesca ad aggiornare senza
problemi e che magari sia la data successiva a slittare, tutto dipende
dalle date degli esami. Mi spiace non poter essere precisa come vorrei,
ma lo studio ha la precedenza, purtroppo. Comunque sia,
mercoledì 11 giugno fate un salto su Efp e date un'occhiata
a Black moon,
magari troverete il prossimo capitolo ;-). Se non lo trovate,
l'aggiornamento è rimandato al 18. Se invece lo trovate...
allora ci vediamo al prossimo Spazio autrice per le nuove informazioni
sull'aggiornamento.
Scusate ancora, cercherò di essere il più precisa
possibile e di rispettare la scadenza di due settimane o al massimo
tre. Grazie mille, un bacio e alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Echo ***
C 12
Capitolo 12
Echo
I'm
out on the edge and I'm screaming my name
Like
a fool at the top of my lugs
Sometimes
when I close my eyes I pretend I'm
Alright
But
it's never enough
Cause
my echo, echo
Is
the only voice coming back
My
shadow, shadow
Is
the only friend that I have
I
don't wanna be down and
I
just wanna feel alive and
Get
to see your face again, once again
Just
my echo, my shadow
You're
my only friends.
Echo, Jason
Walker¹
Che
sia l'amore tutto ciò che esiste
è
ciò che noi sappiamo dell'amore;
e
può bastare che il suo peso sia
uguale
al solco che lascia nel cuore.
Emily Dickinson
«Signorina Cullen?
Signorina Cullen!».
Con un sussulto mi resi conto che qualcuno mi stava chiamando. Sbattei
le palpebre, come se mi stessi risvegliando da un sonno profondo e
misi a fuoco il professor Berty che mi fissava con aria interrogativa.
Ops.
«S-sì?»,
balbettai, presagendo un'imminente catastrofe.
«Ha sentito la
domanda che le ho fatto?», proseguì Berty.
Sembrava seccato. Molto seccato. E anche piuttosto stupito.
«No»,
ammisi, sospirando. «Mi spiace».
«In quale periodo
Shakespeare ha composto Romeo
e Giulietta?».
«Tra il 1594 e il
1596», risposi, senza pensarci. Grazie al cielo lo sapevo.
Lui inarcò un sopracciglio grigio e cespuglioso mentre mi
fissava. «Ben preparata come
sempre, signorina Cullen. Ma questo non
la autorizza a pensare a chissà cosa durante le mie
lezioni».
Sentii le guance andare a fuoco per l'umiliazione sotto gli occhi
di ventiquattro persone incuriosite dal diversivo. In due anni e due
mesi di scuola superiore, le occasioni in cui ero stata richiamata da
un insegnante si contavano sulle dita di una mano e l'avevo sempre
detestato. Abbassai lo sguardo sul banco, ingoiando il boccone amaro.
«Lo so. Mi scusi», mormorai. I fitti capelli ramati
piovvero intorno al mio viso, sottraendolo alla vista degli altri.
«Bene, continuiamo», disse Berty, tagliando corto,
ma in quel
momento suonò la campanella. Nell'aula divampò un
chiacchiericcio dapprima cauto e sommesso, poi sempre più
eccitato, mentre tutti si alzavano e raccoglievano le proprie cose per
scappare via. Era l'ultima ora e credo che nessuno avesse voglia di
passare tra quelle mura neanche un minuto di più.
«Ehi, ehi, non così in fretta!»,
esclamò il
professore, alzando la voce. «Non dimenticate la relazione
sulle
tragedie shakesperiane per lunedì. E mercoledì
prossimo
faremo un test per verificare le vostre conoscenze sul teatro in
età elisabettiana». Dagli studenti si
levò un cupo
brusìo di protesta e Berty fece un sorrisino, squadrandoci
al di
sopra degli occhiali dalle lenti spesse. «Sì,
sì, lo
so che non aspettavate altro. A lunedì».
Imprecai a mezza voce mentre raccoglievo i libri e li infilavo nella
borsa con gesti rapidi e nervosi. Per scrivere quella relazione ci
avrei messo tutto il week end, e un test così vicino proprio
non
ci voleva. Ultimamente trovavo molto faticoso stare dietro a tutto,
compiti in classe, interrogazioni... Avevo sentito dire che il terzo
anno era più difficile, ma sapevo che il vero problema ero io. Io e la mia
scarsa capacità di concentrazione in quel periodo.
«Ehi, tutto bene?», disse una voce alle mie spalle.
Era Paul, che
si stava alzando dal banco dietro al mio, un sorriso gentile sul volto.
Mi sforzai di ricambiare l'espressione gentile.
«Sì, certo.
Sai quanto me ne importa di lui e delle sue stupidaggini»,
risposi,
indicando Berty con un cenno del capo.
Paul rise. «Sai, una cosa del genere uscita dalla tua bocca
di secchiona suona molto più divertente».
Stava ancora parlando quando ci raggiunsero Holly e Jas, che erano
sedute qualche banco più in là.
«Non sembra per niente che vada tutto bene»,
intervenne Jas.
Doveva aver ascoltato la conversazione. Mi lanciò una delle
sue
migliori occhiate indagatrici ed io finsi di non accorgermene.
«Dai, lasciala in pace», disse Holly, scrollando i
lunghissimi e
lisci capelli color mogano che erano il suo orgoglio. «Come
vuoi che
stia dopo aver passato un'ora ad ascoltare Berty e i suoi racconti
deprimenti? Ma com'è possibile che la storia di Romeo e
Giulietta sia considerata romantica? Secondo me è
terrificante». Guardò Paul, gli sorrise e lo
baciò a
timbro sulle labbra.
«Dipende dalla tua idea di romanticismo», osservai,
mentre uscivamo dall'aula camminando vicini.
«Be', la mia di sicuro non comprende il suicidio»,
rispose lei in
tono allegro. «Praticamente... è il loro amore che
li uccide.
Cosa c'è di più triste di questo?».
«Eh, già», mormorai, pensierosa,
fissandomi la punta degli
stivali. Stavo chiedendomi come spostare la conversazione su un
argomento che non mi facesse sentire ancora più abbattuta di
prima, quando Holly parlò ancora.
«Paul, devo restituire un libro in biblioteca, vieni con
me».
Lui fece una faccia da martire che strappò una risatina a
Jas. «E io che c'entro, scusa?».
«Come che
c'entri? Accompagnami!».
«Perchè? Non sai arrivarci da sola?».
«Ah-ah,
che divertente! Sei
il mio ragazzo, non hai la possibilità di
protestare». Lo
afferrò per un braccio e se lo tirò dietro come
se fosse
stato un rimorchio. «Ciao, ragazze! A domani!».
«Com'era quella storia dell'amore che uccide?»,
chiese Paul in
tono retorico, ma nessuno ebbe il tempo di rispondergli; un attimo dopo
Holly lo aveva già trascinato oltre l'angolo del corridoio.
«A volte mi domando seriamente per quanto resisteranno quei
due»,
mormorai, pensierosa. Lanciai un'occhiata a Jas: mi stava fissando, di
nuovo, con quell'espressione che la faceva somigliare ad un poliziotto
al lavoro su un caso particolarmente difficile. Sospirai.
«Per
favore, potresti smettere di guardarmi come se fossi una bomba a
orologeria?».
Lei distolse subito lo sguardo, ma solo perchè stavamo
attraversando un corridoio affollato e non voleva finire addosso a
qualcuno.
«Okay, scusa», borbottò, stizzita.
Rimase zitta
per cinque secondi, poi non riuscì più a
trattenersi e
ricominciò. «Il fatto è che sono
preoccupata!»,
esclamò, la voce carica di angoscia.
«Lo so, Jas. Ma non devi. In questo periodo... ho tante cose
per la testa, tutto qui».
«Secondo me ne hai una sola, invece»,
ribattè,
sicura del fatto suo. «Hai più parlato con
Alex?».
«Ehm... No, non proprio». Lui che coglieva ogni
occasione per
avvicinarmi e riprendere il discorso da dove lo avevo bruscamente
interrotto l'ultima volta ed io che scappavo blaterando scuse di ogni
tipo non poteva certo definirsi "parlare".
«Non voglio impicciarmi», continuò Jas,
mentre
camminavamo
piano, «so che è presto per essere allegra e
spensierata,
non pretendo questo da te. L'hai lasciato dieci giorni fa. Ma devo
ammettere che continua a sfuggirmi il
perchè tu l'abbia lasciato».
Ovvio che le sfuggisse. Ero stata molto vaga con lei e le altre. Non
avrei mai potuto raccontargli che avevo lasciato Alex per salvaguardare
la sua incolumità fisica ed evitargli di soffrire molto di
più tra qualche anno, quando sarei stata comunque costretta
a
separarmi da lui.
«Anche Seth pensa che tu non l'abbia presa affatto
bene»,
aggiunse lei dopo un attimo di silenzio, e dal suo tono capii che si
era distratta e che quella frase le era sfuggita.
Mi fermai di botto e la guardai, sconvolta. «Seth? Seth Clerawater?».
Jas sembrò rendersi conto solo allora di aver parlato troppo
e
la sua espressione si congelò.
«Sì».
Sbattei più volte le palpebre, incredula, cercando di
connettere
il cervello con la bocca. «Ma... Come... Vi siete
visti?»,
boccheggiai.
«Non ci vediamo dal tuo compleanno. Ci sentiamo qualche
volta, tutto
qui». Jas guardava dritto davanti a sè con
ostentata
tranquillità, ma si era irrigidita, forse per riflesso alla
mia
reazione.
«Vuoi dire per telefono? Ti ha cercata lui? Perchè
non me l'hai detto?».
Scrollò le spalle. «È una cosa recente,
non ne ho avuto il tempo. È una
sciocchezza».
Certo, come no. Per un attimo fui tentata di dirle che il ragazzo del
quale era così palesemente invaghita si trasformava in un
lupo
gigante e che l'attrazione verso di lui non era altro che il frutto di
una specie di magia misteriosa... Giusto per vedere quale sarebbe stata
la sua
espressione. Ma naturalmente non potevo. L'istante di follia
passò e recuperai la ragione.
«E comunque l'ho cercato io», aggiunse dopo una
pausa.
«Ho preso il numero sull'elenco e l'ho chiamato».
Restai a bocca aperta per la seconda volta nel giro di tre minuti.
«E perchè lo avresti fatto?», chiesi,
pur non
essendo
affatto sicura di voler ascoltare la risposta.
Jas sbuffò e accelerò un po' il passo; non vedeva
l'ora
di liberarsi di me e di quell'imbarazzante conversazione, ci avrei
scommesso. «Non c'è un motivo in particolare.
Avevo voglia di
parlare con lui, punto. È stato
felice di sentirmi».
Poco, ma sicuro,
pensai, acida.
«È
simpatico e divertente e ascolta sempre tutto quello che
dico».
«Anche io ti ascolto!», esclamai senza alcuna
logica.
«Sì, ma è diverso. Tu sei la mia
migliore amica».
Non capii esattamente cosa intendesse, ma sulle mie labbra premeva una
questione più urgente. «E Tom?».
Il suo sguardo si indurì. «Tom non mi ascolta
davvero da un sacco di tempo, Renesmee».
«No, volevo dire... Sa che tu e Seth vi sentite per
telefono?».
Prima di rispondere riflettè in silenzio per un bel po'.
Pessimo
segno, pensai, ansiosa. Pessimo segno. «No», disse
infine. «Non... non ho avuto l'occasione di farlo».
«Dovresti dirglielo», suggerii, sforzandomi di
mantenermi
tranquilla. Ero consapevole che a Jas dovesse sembrare decisamente
strana tutta quell'agitazione, ma non era facile controllarmi sapendo
che i miei incubi peggiori stavano diventando realtà.
Subito la mia amica scattò sulla difensiva. «Tom
non deve sapere per forza tutto quello che faccio. È
il mio ragazzo, non il mio carceriere», sbottò in
tono
arrabbiato e lanciando un'occhiata di fuoco al mio indirizzo.
«Se è una sciocchezza come sostieni
perchè nascondergliela?».
Jas sbuffò sonoramente. «Non gli ho detto nulla
perchè non c'è niente da dire. Io
e Seth siamo amici, tutto qui. È come
con Paul o Scott».
«Però Paul o Scott non li senti di nascosto,
giusto?», continuai, imperterrita.
A quel punto si fermò di scatto e mi guardò. La
sua
espressione ferita mi colpì come uno schiaffo. Ero stata io
a
provocarla? Ma se stavo soltanto cercando di impedire che si rovinasse
la vita!
«Tu non hai il diritto di dirmi quello che devo o non devo
fare,
Renesmee», rispose, la voce improvvisamente dura e fredda.
Fu il mio turno di sentirmi ferita. Sussultai senza rendermene conto e
la fissai in silenzio per un attimo, ammutolita e sbalordita.
«No,
hai ragione», mormorai, piano. «Ma non posso
lasciarti commettere
un errore senza fare niente. Parla con Tom, ti prego. Se davvero non ha
importanza, capirà e andrà tutto bene. Ma non
mentirgli.
Non se lo merita, e potresti perderlo».
Curioso come fossi proprio io, quella che aveva riempito il suo ragazzo
di bugie, a suggerire a Jas di essere sincera. Forse proprio
perchè la mia storia con Alex era naufragata volevo cercare
di
salvare la sua, finchè era possibile.
Jas aveva le braccia incrociate e il cipiglio altezzoso di quando era
costretta a prendere parte ad una discussione che dal suo punto di
vista era inutile. Fece un respiro profondo, come se
avesse discusso silenziosamente con se stessa e infine avesse preso una
decisione.
«No. Non glielo dico. Non voglio».
Mi sentii sconfitta. Per un secondo provai un tale senso di sconforto
che desiderai abbandonarmi per terra con la testa sulle ginocchia e
disperarmi in silenzio. E poi arrivò la rabbia.
Perchè
doveva essere tutto così difficile? Perchè?
«Fai come ti pare», sbottai, irritata.
Le voltai le spalle e mi allontanai, lasciandola lì, senza
fretta, ma con passo deciso.
Perchè sembrava che Jas fosse
determinata a rovinarsi l'esistenza e a complicare la mia? Era sempre
stata testarda, sì, ma questa volta proprio non trovavo le
parole per arrivare a lei e farle capire ciò che
non potevo
dire a voce alta. Eppure eravamo sempre riuscite a comunicare, noi due,
in un modo o in un altro. Era come se qualcosa, nel nostro rapporto, si
stesse inceppando. Forse era colpa dell'indispensabile barriera di
bugie che mi proteggeva, ma allo stesso tempo mi isolava senza scampo,
dal resto del mondo. La mia migliore amica percepiva quanto io e lei
fossimo
distanti in realtà? Sentiva che c'era qualcosa, tante
cose, che non le raccontavo? Era questo che ci stava allontanando?
Rischiavo di perderla? E se fosse successo anche con le altre?
Uscii nel cortile, camminando velocemente, la testa china e la mente
distratta da quelle riflessioni, e di colpo mi trovai davanti un altro
dei miei problemi: Alex, in piedi davanti all'ingresso dell'edificio,
che mi aspettava. Quando mi vide, scattò in avanti. Ci
fissammo
da lontano per un attimo, immobili. Mi sfuggì un gemito tra
le
labbra.
«Oh, no», mugugnai sottovoce. Non era proprio la
giornata adatta per affrontare anche lui.
Decisi di far finta di nulla. Ripresi a camminare e attraversai il
parcheggio, diretta verso la mia Mercedes. Pregavo in silenzio che
cogliesse il messaggio e mi lasciasse in pace, ma subito me lo ritrovai
alle spalle, impegnato a tallonarmi con determinazione.
«Renesmee, fermati. Dobbiamo parlare», disse in
tono fermo.
Ascoltare la sua voce, saperlo così vicino, a pochi passi da
me,
faceva male al cuore, un male tremendo. Inghiottii la fitta di dolore
ed evitai di rispondere direttamente.
«Da quanto tempo eri lì
ad aspettarmi? Hai saltato l'ultima ora?».
Evitò a sua volta la domanda e a quel punto non dubitai
più che avesse davvero perso l'ultima lezione. Fantastico.
«Ti vuoi fermare?», esclamò, esasperato.
Aveva un passo
piuttosto veloce, ma faticava a starmi dietro adesso che cercavo di
liberarmene. Alzò le spalle con uno sbuffo. «Okay,
d'accordo,
se preferisci parlaremo camminando».
«Non posso, mi dispiace».
«Be', io non me ne vado», ribattè, il
tono quasi aggressivo.
«Non posso, vado di fretta. Ho un impegno».
Tenevo lo sguardo ben
fisso sulla mia macchina che si avvicinava, evitando accuratamente di
incrociare il suo; se avessi scorto le fiamme di
rabbia che
immaginavo scintillare nei suoi occhi, avrei ceduto.
«Certo, come no. Posso suggerirti almeno di cambiare scusa?
Questa sta diventando ripetitiva».
«Smettila, Alex», sbottai tra i denti, stringendo
forte nel pugno
serrato le chiavi dell'auto. Mancavano pochi metri, pochissimi. Potevo
farcela.
«Voglio soltanto parlare! Soltanto questo! Non pensi di
dovermelo?».
Esitai per un istante e trattenni il fiato. Sapevo che aveva ragione,
ma... Non potevo correre il rischio.
«Abbiamo già parlato, Alex».
«No, tu mi hai raccontato un bel po' di balle: questo non
è
parlare», disse, arrabbiato. Per fortuna eravamo arrivati
alla
macchina. Aprii in tutta fretta la portiera. «Solo dieci
minuti!», aggiunse, e la disperazione nella sua voce mi
inchiodò sul posto. Dovetti costringermi a muovere le gambe
e a
salire in auto.
«Mi dispiace», sussurrai, chiudendo la portiera con
un tonfo che
sentii risuonare in fondo al cuore. «Lascia
perdere».
Misi in moto con qualche difficoltà, perchè mi
tremavano
le mani, e feci manovra più lentamente del solito. Guardavo
dritto davanti a me e non vidi la sua faccia neanche una volta, ma un
secondo prima che accelerassi per allontanarmi, mi gridò
qualcosa.
«Non mi arrendo! Hai sentito, Renesmee? Non mi
arrendo!».
Mentre guidavo lungo Main Street le mani non accennavano a tornare
salde e stringevo il volante con più forza del necessario,
temendo che mi sfuggisse tra le dita stranemente fredde e deboli. La
sua voce carica di rabbia e sofferenza mi risuonava nelle orecchie. Non
si sarebbe arreso... Naturalmente. Lo conoscevo bene e sapevo che non
avrebbe mollato subito, senza insistere, senza lottare. Ma ormai ci
eravamo lasciati da giorni e mi auguravo che di lì a poco si
sarebbe stufato di corrermi dietro. La Forks High era piena di ragazze
pronte a dare battaglia per il bell'Alexander Hayden. E ormai
frequentava l'ultimo anno: a giugno, dopo gli esami, lo aspettavano le
solite vacanze e poi il college. Probabilmente sarebbe tornato in
città solo di tanto in tanto per vedere Phoebe e Julie. Io
avrei fatto in modo di evitarlo il più possibile e allora
sì che mi avrebbe dimenticata davvero.
Deglutii più volte per mandare giù il nodo che mi
stringeva la gola. Nel tentativo di distrarmi, ripensai alla
conversazione con Jas. Mi dispiaceva averle detto quelle cose
e che
lei se la fosse presa. Decisi che quella sera l'avrei chiamata per
chiederle scusa, ma non ero pentita: l'avrei rifatto perchè
credevo sinceramente che stesse commettendo un errore. Tom era un bravo
ragazzo, ma non era un santo. Era già passato sopra
all'avventura estiva di Jas, sopportava sempre di buon grado le sue
scenate e i suoi capricci, e negli ultimi tempi era così
strano
e taciturno. Se la loro storia fosse finita, non soltanto Jas avrebbe
perso un fidanzato fantastico, ma Seth avrebbe avuto campo libero,
pensai, stizzita, cambiando le marce con gesti bruschi. E questo non
doveva succedere. A costo di rapire Jas e tenerla chiusa da qualche
parte, non avrei permesso che Seth si inserisse nella sua vita, la
trascinasse in un mondo pieno di pericoli, le raccontasse tutto di me e
mi privasse per sempre
della mia migliore amica.
Alex, ormai, lo avevo perso... Dovevo
perderlo, perchè fosse al sicuro, perchè vivesse
un'esistenza tranquilla e normale con una ragazza adatta a lui. Una
ragazza umana, tanto per cominciare. Non potevo perdere anche Jas o
sarei impazzita. Dovevo restare al suo fianco e arginare il pericolo,
che al momento si presentava sotto le spoglie delle telefonate di Seth.
Chissà da quanto andava avanti questa faccenda? Sicuramente
Jacob sapeva tutto e pensai che forse me ne avrebbe parlato quel
pomeriggio. Non avevo mentito dicendo ad Alex che ero impegnata:
avevamo un appuntamento a casa sua; era stato lui a chiedermi di
vederci, perchè ultimamente passavamo poco tempo insieme e
perchè doveva parlarmi di qualcosa. Forse si trattava
proprio
delle telefonate tra Seth e Jas.
Prima di andare da Jake, feci un salto a casa. Un bigliettino di
papà attaccato al frigorifero mi informava che lui e la
mamma
erano insieme ai nonni e agli zii. Dopo una rapida doccia, mi rivestii,
mandai giù una tazza di delizioso sangue di cervo e mezz'ora
più tardi ero pronta per uscire di nuovo e raggiungere la
riserva.
Avevo appena imboccato La Push Road quando la vidi. Una macchina ferma
sul ciglio della strada. La riconobbi all'istante e mi sentii investire
da un'ondata di orrore. Con una brusca sterzata accostai anch'io,
togliendomi dalla strada, scesi con tale rapidità che quasi
inciampai nei miei stessi piedi e mi precipitai a passo di marcia verso
l'Audi Coupè di un nero scintillante. Alex aveva il
finestrino abbassato e finalmente lo guardai dritto in faccia: aveva
un'espressione di calma, fredda, granitica determinazione. Merda.
«Che cavolo ci fai qui?», sbraitai, un tantino
aggressiva.
Non si scompose minimamente. «Ti stavo aspettando».
«Questo lo vedo! Che cosa vuoi? E non dirmi parlare altrimenti
giuro che ti vengo addosso con la macchina!».
Alex alzò le spalle, disinvolto. «Okay, non lo
dico. Sono qui
per raccogliere funghi nei boschi: è il mio nuovo hobby. Va
bene
così?».
Dovetti trattenermi con tutte le mie forze per non mollargli una
sberla. Quando faceva così era insopportabile.
«Sei un
idiota, Alex».
«Stai andando da lui, vero?», chiese per tutta
risposta.
Sentii un tuffo al cuore, ma all'esterno rimasi impassibile.
«Come facevi a sapere dov'ero?».
«Me l'ha detto Jas. L'ho chiamata per sapere se oggi saresti
stata a
casa o se... avevi altri progetti», concluse, alzando le
sopracciglia con aria significativa.
Jas? Jas?
«E perchè avrebbe fatto una cosa del genere?
Stavolta mi sente», sibilai a denti stretti, furiosa.
«Non prendertela con lei. È
stata sincera, a differenza di te», rispose, tranquillo,
guardandomi
negli occhi senza alcuna traccia di imbarazzo o esitazione. Un
comportamento così sfrontato, eccessivo anche per Alex,
poteva
nascere solo dalla consapevolezza di essere nel giusto. Non stava
tirando a indovinare con la storia delle bugie: lo sentiva davvero.
Sentiva che non ero sincera. E questo complicava notevolmente le cose.
«Bene. Se pensi che io ti abbia mentito, perchè
non mi lasci perdere?».
«Perchè prima di chiudere voglio che tu mi dica
come stanno veramente le cose».
«Sono stufa. Se vuoi continuare questo stupido gioco, allora
gioca da solo».
Me ne andai senza aggiungere altro. Montai di nuovo in macchina,
superai Alex e continuai a guidare, faticando a mantenere la
concentrazione, in preda ad un profluvio di sentimenti amari. Ero
arrabbiata, addolorata, preoccupata, ferita... Mi sembrava di aver
esaurito lo spazio disponibile per provare qualcosa.
Un secondo più tardi scoprii che per un po' di rabbia extra
c'era sempre
spazio. Con un'occhiata nello specchietto retrovisore mi accorsi che
Alex mi stava seguendo. Mi stava seguendo! Per un bel pezzo mi limitai
a boccheggiare come un pesce fuor d'acqua, senza fiato per
l'incredulità, fissando la sua macchina invece di guardare
la
strada e rischiando di finire contro un albero da un momento all'altro.
E adesso cosa dovevo fare?
Pensai di ignorarlo. Alex era troppo abituato ad essere al centro
dell'attenzione, più davo importanza a quello che faceva,
più lui avrebbe continuato. Non avrebbe potuto starmi dietro
per
sempre, giusto? Però... se mi avesse seguita alla riserva
avrebbe incontrato Jacob e non potevo lasciare che accadesse. Avevo il
presentimento che Jacob avrebbe preso piuttosto male il comportamento
di Alex nei miei confronti.
Sbuffando, frenai di colpo, fermando la macchina nel mezzo della
strada. Alex, che stava guidando piuttosto veloce per non perdermi,
frenò a sua volta a pochissima distanza da me con un forte
stridìo di gomme sull'asfalto. Scesi dall'auto e lui mi
imitò. Mi venne incontro con quell'aria tempestosa che avevo
scorto sul suo viso poco prima, nel parcheggio della scuola.
Camminavamo l'uno verso l'altra così rapidamente che per
poco
non ci fu uno scontro frontale.
«Ma sei completamente impazzito?Vuoi andartene?».
«No!», gridò Alex di rimando a un
centimetro dalla
mia faccia, fuori di sè quanto lo ero io. Forse avremmo
dovuto
provare a calmarci, ma non riuscivo a pensare a nulla in quel momento.
Riuscivo a malapena a respirare. «No! Non me ne vado
finchè non mi dirai che non mi ami! Dimmi che non provi
niente
per me!». Con un movimento così repentino che non
riuscii
quasi a vederlo mi afferrò con forza per le spalle mentre
scandiva lentamente l'ultima frase, fissandomi dritto negli occhi con
una determinazione d'acciaio.
Ricambiai il suo sguardo in silenzio, paralizzata tra le sue mani.
L'azzurro intenso che amavo tanto si era fatto cupo, minaccioso,
vorticante, come se qualcosa dentro di lui, nel profondo, stesse
cambiando. Faceva male vederlo così diverso, un male
dannato, al
punto che lottai per racimolare la forza di aprire bocca.
«Io non ti amo», risposi, la voce bassa e tremante.
Cercai
di liberarmi dalla sua stretta, ma invano. Avrei dovuto usare tutta la
mia forza e non potevo, non davanti a lui. Quella sensazione di
prigionia scatenò in me un'ondata di rabbia così
violenta
che quasi senza rendermene conto diedi un forte strattone e per poco
non gli sfuggii. Lo vidi aggrottare la fronte, sorpreso. «Io
non
ti amo! Non ti amo!», continuai, alzando la voce fin quasi ad
urlare di nuovo.
Le sue dita si strinsero ancora di più sulle mie braccia,
facendomi male. «Non ti credo! So cosa provi per me, te l'ho
letto negli occhi un milione di volte!».
«Ma perchè devi rendere tutto così
complicato?
Perchè?», proruppi con voce rotta, esausta e senza
fiato.
«È finita, non lo capisci? Era finita ancora prima
che
cominciasse! Non posso stare con te, non posso! Devi dimenticarmi! Ti
prego, ti scongiuro, Alex, dimenticami!».
Lui scuoteva la testa fissandomi con un'espressione così
ferita che mi odiai per il male che gli stavo facendo.
«No, non può finire così. Io non ti
lascio andare... Non ti lascio andare...».
Senza ascoltarlo, cercai nuovamente di sgusciare tra le sue mani.
Basta, non ne potevo più. Dovevo andarmene da lì,
allontanarmi da lui. Mi sentivo come se qualcuno mi stesse strappando
il cuore dal petto.
«Lasciami, mi stai facendo male! Alex,
lasciami!».
Con un ultimo strattone mi sottrassi alla sua presa e barcollai
all'indietro. Nello stesso istante udii una voce gridare il mio nome,
poi una grossa figura piombò su di noi e si frappose tra me
e
Alex. Indietreggiai istintivamente, disorientata, e misi a fuoco la
persona che ci aveva interrotti: Jacob. Era lì, in piedi
davanti
a me, per proteggermi. Da dove cavolo spuntava fuori? Ma sì,
certo... mi aveva detto che prima di incontrarsi con me sarebbe stato
di ronda nei boschi. Probabilmente si trovava lì intorno e
aveva
sentito le nostre voci. Non potevo guardarlo in viso, perchè
mi
dava le spalle, ma quando parlò sentii un brivido lungo la
schiena.
«Lasciala stare», ringhiò. Era teso in
avanti,
pronto in qualunque momento a... Corsi da lui e mi aggrappai al suo
braccio muscoloso.
«Jacob, no...».
«E tu da dove sei spuntato?», sbottò
Alex per tutta
risposta. Fissava Jake negli occhi e non mostrava traccia di paura, ma
non era pienamente in sè, in quel momento; forse non avrebbe
giudicato pericoloso neanche lanciarsi da un ponte, figurarsi far
arrabbiare uno che era due volte più robusto di lui.
«Levati di mezzo».
Jacob non si mosse di un millimetro. «Qual è il
tuo problema?», sibilò.
«Sei tu
il mio problema. Sparisci», ribattè Alex, il tono
freddo e un'aperta aria di sfida in volto.
«Datti una calmata».
Alex fece un passo avanti con fare aggressivo.
«Perchè non
ce la vediamo qui, adesso? Non dirmi che non ci hai pensato anche
tu».
Sussultai. Non ero sicura che Jacob avesse capito di cosa parlava Alex
e invece, con mio profondo stupore, non manifestò la minima
sorpresa. Si limitò ad un mezzo sorriso dall'aria letale.
«Se fossi in te ci penserei bene, ragazzino».
«Chi credi di essere? Stupido pallone gonfiato...»,
ringhiò Alex, e fece per lanciarsi contro Jacob.
Rapidissima, mi
infilai tra loro con un balzo e tesi le braccia per fermarlo.
«No!», gridai, spaventata. «No, no, no! Basta,
smettetela!».
Sentii due braccia possenti che mi circondavano da dietro e mi
spostavano di peso come se fossi stata una piuma. Jacob, ovviamente.
«Renesmee, stanne fuori», disse.
«Sì, stanne fuori. È
ora che risolviamo questa faccenda», concordò Alex
senza
smettere di fissare Jake come se avesse voluto farlo a pezzi.
«Non c'è niente da risolvere! Io non sono
più la
tua ragazza, cosa faccio e con chi sto non ti riguarda!»,
esplosi, sporgendomi per cercare di recuperare il mio posto in mezzo a
loro anche se Jacob continuava a tenermi saldamente tra le braccia,
facendomi scudo con il suo corpo.
Di colpò Alex sembrò dimenticare Jacob. Mi
guardò
come se tutto il suo mondo si riducesse a me. Contrasse la fronte in
un'espressione di dolore quasi fisico, gli occhi velati, il respiro
affannoso. Sembrava che avesse la febbre. Poi mi prese per un braccio,
un gesto delicato, ma fermo, e
sentii Jacob irrigidirsi; pregai silenziosamente che non cercasse di
staccarglielo.
«Andiamo via», mormorò, la voce bassa e
senza
traccia di insicurezza. Cercò di tirarmi verso di
sè.
«No...», protestai, ma Jacob si intromise di nuovo.
Bloccò Alex con una mano sul suo braccio e
contemporaneamente
rafforzò la stretta intorno alla mia vita, quasi togliendomi
il
respiro. Mi ritrovai letteralmente intrappolata tra i due.
«Ho detto lasciala
stare», ripetè in tono duro.
«E io ho detto levati
di mezzo!».
Alex si liberò della mano di Jacob con uno scrollone. Jake
ebbe
uno scatto istintivo ed io mi sentii travolgere dal terrore al pensiero
che potesse trasformarsi da un momento all'altro. Mi infilai di nuovo
tra loro e spinsi via Alex, che sembrava sul punto di indirizzare il
pugno serrato verso la mascella di Jacob. Lui indietreggiò,
sorpreso.
«Basta!», esclamai, disperata. Dovevo fermarli,
subito, a
qualunque costo. Anche a costo di ferire profondamente Alex. «È
finita!», ripetei ancora. «È finita
e tu devi riuscire ad accettarlo!».
Mi
fissò
senza dire nulla per un minuto che mi parve interminabile. L'atmosfera
era sospesa, Alex immobile con gli occhi fissi nei miei, Jake dietro di
me che fremeva nel tentativo di trattenersi, io nel mezzo, ansimante
per l'agitazione, tremante, ogni singolo nervo teso al massimo. Alex
alzò lentamente una mano e la tese verso di me. Un invito,
questa volta.
«Vieni con me», disse con voce spaventosamente
calma.
Scossi piano la testa. «No, Alex».
Ma lui non si mosse. Il suo torace si alzava e si abbassava
velocemente, i lineamenti del suo viso sembravano distorti, ma non
mostrava un briciolo di esitazione. Non abbassò la mano.
«Vieni con me adesso
o
tra noi è finita davvero. Per sempre»,
insistè,
scandendo bene le parole come se dubitasse della mia
capacità di
comprensione.
«No», ripetei stancamente. Misi in quell'unica
parola tutta la forza che mi restava e pregai che
quella fosse l'ultima volta. L'ultima volta che ero costretta a
rifiutarlo.
Il dolore che lessi nei suoi occhi mi disse che avevo finalmente
raggiunto il mio scopo. Lo avevo perso. Avevo sempre saputo che prima o
poi avrebbe ceduto e il momento era arrivato. Quello che non avevo
previsto era quanto sarebbe stato difficile sopportarlo, quel momento.
Alex lasciò ricadere la mano, impassibile.
Sollevò il
mento, come per sfidarmi. «Te ne pentirai, Renesmee. Giuro
che te
ne pentirai».
Si allontanò in fretta, salì in macchina senza
degnarmi di un
altro sguardo, e con una sgommata e una pericolsa inversione
tornò indietro, verso Forks.
Non mi accorsi che stavo tremando come una foglia finchè la
stretta di Jacob intorno al mio corpo, fino a un istante prima decisa e
protettiva, non divenne inaspettatamente dolce e accogliente. Mi
abbandonai contro di lui, la testa sul suo petto, cercando di arginare
il dolore e la sensazione di perdita. Per un attimo mi sentii strappata
in un milione di frammenti come un foglio di carta. Ma non ero sola.
Non ero sola. Stringendomi a Jacob, respirai profondamente il suo
odore, un buon odore di legno, muschio e alberi, il profumo
della
foresta, della riserva, della mia infanzia, della mia intera esistenza,
e all'improvviso non mi sembrò più di andare in
mille
pezzi: lui mi teneva tutta intera.
No, non ero sola. C'era il mio Jacob con me.
Note.
1. Qui
la canzone.
Spazio autrice.
Salve! Sono tornata ^^. Scusate l'assenza, che è stata un
po' più lunga del previsto. Purtroppo uno dei miei esami
è stato rimandato di una settimana e quindi
mercoledì scorso non ho avuto neanche il tempo di pensare di
aggiornare xd. Adesso per fortuna ho un po' di tempo per tirare il
fiato, quindi credo che i prossimi aggiornamenti saranno regolari.
Veniamo al capitolo! Non c'è tantissimo da dire, in
realtà. Alex ha serie difficoltà ad accettare la
fine della sua storia con Renesmee, soprattutto perchè si
è trattato di una fine brusca, improvvisa, e non
sufficientemente motivata. Le risposte che Renesmee gli fornisce gli
sembrano vuote, ma lui è testardo, ostinato, non si arrende
facilmente, ormai lo conoscete. E la ragione più valida che
riesce a trovare per il comportamento di Renesmee è che lei
si stia innamorando di Jacob, dal quale Alex si è sentito
minacciato nel periodo precedente. Nulla potrebbe essere più
lontano dalla verità, come sappiamo le motivazioni di
Renesmee sono ben altre, ma Alex ha visto abbastanza del rapporto che
c'è tra loro due per temere Jacob e si aggrappa a questa
risposta perchè è l'unica che riesca a fornirsi
da sè. So che i vostri sentimenti sono molto diversi per
quanto riguarda questa rottura, c'è chi ne è
felice e chi vorrebbe assolutamente che tornassero insieme, ma spero
che tutto vi sembri chiaro in ogni caso; e se così non
fosse, chiedete pure nelle recensioni ;-).
Vi anticipo che il prossimo capitolo sarà più
leggero... Ci voleva, forse, dopo tutti questi capitoli densi di
lacrime e tristezza xd. Sarà incentrato su Seth e Jas e
Renesmee si troverà in una situazione dai risvolti
tragicomici, diciamo. In genere non scrivo anticipazioni sul capitolo
successivo nello spazio autrice, ma questa volta mi va, e
così...
Ok, è tutto. Grazie mille alle persone che recensiscono
sempre e a quelle che recensiscono solo qualche volta, appena
avrò tempo risponderò ai vostri commenti. Ciao!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Love illumination ***
C 13
Capitolo
13
Love illumination
Sweet love illumination
Sweet, sweet love
elevation
Outside, fresh other side
But inside love
You will be alright
Sweet love illumination
Sweet, sweet love
celebration
Got covered, reason term
But it'll bring you up
You'll be alright.
Love illumination, Franz Ferdinand¹
Di rado va come ci
aspettiamo che vada. Per la precisione, mai.
Le bugie hanno le gambe corte,
Charles Bukowski
Bloccai le dita per un istante, sospese sui tasti bianchi e neri, e
interruppi a metà il Notturno di Chopin che stavo suonando.
Qualcuno mi stava chiamando. Sollevai lo
sguardo dal pianoforte e incrociai quello di zio Emmett fisso su di me.
«Renesmee?».
«Uhm?», bofonchiai per tutta risposta.
Non avevo idea da quanto
tempo fossi seduta lì, nel salotto di casa, a suonare. Ero
stata
così concentrata sulle note e sul filo dei miei pensieri da
perdere il
senso del tempo, e ora mi sembrava di aver appena aperto gli occhi dopo
un lungo sonno. Sentivo la mente annebbiata e distante anni
luce
dal salotto silenzioso e ordinato di nonna Esme.
«Piccola, capisco la fine del primo amore, la perdita delle
illusioni giovanili, il tormento dei ricordi e compagnia bella, ma non
trovi che
questa roba sia un po' troppo strappalacrime?», disse lo zio,
osservandomi con le sopracciglia inarcate e la fronte contratta. Era
seduto sul divano di fronte al pianoforte con un giornale di auto e
motociclette tra le mani. Accanto a lui, zia Rose sfogliava una rivista
di moda.
«Questa roba
sarebbe il Notturno² di Chopin che stavo suonando?»,
domandai invece di rispondere, gelida.
Lui rimase impassibile. «Precisamente».
Lo guardai in silenzio per un attimo, cercando di decidere tra me e me
quale risposta sarebbe stata più acida e antipatica.
«Tappati
le orecchie», dissi infine.
Posai di nuovo le dita sui tasti e
ripresi a suonare da dove mi ero fermata, senza degnarlo di altra
considerazione. Non mi chiesi neanche per un istante se avesse ragione
oppure no. Ovvio che
non ce l'ha, pensai con rabbia silenziosa.
«Tesoro,
se posso essere sincera», cominciò zia Rosalie
poco dopo,
mentre io continuavo, imperterrita, «anche io penso che
sarebbe meglio
suonare qualcosa...». Esitò e quello che era sul
punto di
dire rimase sospeso sulle sue labbra dischiuse. «Qualcosa di
più allegro», aggiunse dopo una brevissima
pausa, facendo finta di nulla.
Interruppi bruscamente l'esecuzione per la seconda
volta, causando un inciampo di note le une sulle altre, e
misi le mani in grembo con un sospiro scocciato, forte e breve. Stavo
suonando così male che fu un sollievo anche per le mie
orecchie. Avevo capito
benissimo ciò che la zia era stata sul punto di dire, che
non avrei dovuto
suonare qualcosa che mi ricordava tanto Alex; perchè quella
musica mi faceva pensare a lui, e al giorno in cui avevamo
parlato di Chopin e Beethoven e del jazz, chiusi nella sua macchina in
una fredda mattina di inizio primavera. Alex si sarebbe fatto una bella
risata se avesse saputo che lo ricordavo proprio in quel modo.
«Non
è che non
mi piaccia Chopin. È tutta la musica classica che non mi fa
impazzire».
Queste
erano state le sue parole.
Sì,
lui non amava quel genere di musica nè tantomeno amava
Chopin. Ma in quei
giorni
qualunque cosa era in grado di farmi pensare ad Alex.
Da quando lo avevo lasciato mi sembrava di ritrovarlo ovunque, nel
rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia della
riserva come il giorno del nostro primo bacio, nell'odore della
pioggia, nel sapore
del mio rossetto che lui si toglieva dalle labbra, ridendo, dopo ogni
bacio. Come se non volesse lasciarmi, o come se io non volessi
lasciarlo andare.
«D'accordo», mormorai tranquillamente, gli occhi
bassi e le mani
abbandonate sulle ginocchia. Rimasi ferma per un minuto, poi feci un
respiro profondo e posai di nuovo le dita sui tasti, pronte
per gli accordi iniziali dell'Adagio
in E Maggiore di Schubert³, qualcosa di completamente diverso.
E
soprattutto privo di qualsiasi legame con Alex. Avevo appena iniziato,
quando Emmett fece di nuovo sentire la sua voce.
«Eh, no, questo è ancora peggio!»,
esclamò,
la voce per metà indignata e per metà divertita.
Okay,
forse la mia
precedente risposta era stata fin troppo gentile. Smisi di botto di
suonare per la terza volta ed ero sul punto di mandarlo a quel paese,
ma la mamma scelse il momento perfetto per intervenire.
«Renesmee, che ne diresti di uscire un po'? Io e
papà
pensavamo di andare a caccia, dopo la partita»,
esclamò in
tono tranquillo e controllato, come se fosse ben decisa a impedire che
scoppiasse una rissa. Lei ed Edward sedevano a un tavolino, impegnati
in una partita a scacchi.
Le lanciai un'occhiata fugace per poi tornare a fissare lo spartito sul
leggìo. «No, non mi va», risposi a bassa
voce. Era vero,
non ne avevo voglia; mi sentivo stranamente stanca e spenta, come se
qualcosa mi avesse risucchiato tutte le energie. Affrontare mezz'ora di
caccia mi sembrava troppo impegnativo anche solo a pensarci.
«Ah», commentò la mamma. Tacque per
alcuni secondi e
pensai che ci fosse rimasta male. Ma presto tornò
all'attacco.
«Perchè non chiami Jacob e non vi incontrate? Che
cosa fa,
oggi?».
«Non ne ho idea», risposi in tono piatto. Quasi
senza
accorgermene, avevo iniziato a premere più volte il dito su
un tasto, producendo suoni brevi, identici e
rapidi. Tutti mi fissarono come se avessi appena detto
un'assurdità ed io ricambiai i loro sguardi, confusa. Emmett
non
si decideva ad abbassare quel sopracciglio e Rose sembrava impassibile,
ma la sua espressione riusciva a mettermi a disagio comunque.
«Be',
che c'è?», sbottai, seccata. «Non sono
l'agenda vivente
degli impegni quotidiani di Jacob».
«Ah, no?», chiese zio Emmett, ironico, l'ombra di
un sorriso sghembo sul volto.
«Sai cosa farei in questo preciso istante se avessi
un'accetta e una
scatola di fiammiferi?», rilanciai, sempre più
infastidita,
fissandolo con gli occhi ridotti a fessure.
«E Jas?», intervenne di nuovo la mamma, sventando
un'altra crisi nel giro di una manciata di minuti.
«Jas cosa?», domandai, riluttante a distogliere
l'attenzione da
Emmett che mi sorrideva indulgente e dalle piacevoli riflessioni su
come sarebbe stato interessante far sparire quel sorrisino. Nessuna
minaccia uscita dalle mie labbra avrebbe mai avuto il minimo effetto su
di lui o su un qualunque altro vampiro, ovviamente.
«Lei che cosa fa questo pomeriggio?».
Alzai appena le spalle. «Non lo so. Credo che sia a casa. Sua
madre
andava alla SPA e in genere Jas ne approfitta per... rilassare la
mente».
La mamma annuì con aria comprensiva. La pensavamo allo
stesso
modo sulla signora Williams e la sua stramba concenzione del ruolo
materno.
«Be', potresti chiamarla», disse papà,
guardandomi
con espressione affettuosa. «Fate qualcosa insieme».
Ci pensai su un momento, senza smettere di premere sul tasto del
pianoforte, anche se un po' più leggermente rispetto a
prima.
«Veramente... dovrei fare i compiti. Grammatica
francese»,
mormorai con scarso entusiasmo.
«Credevo che li avessi finiti», obiettò
Bella.
«I compiti non finiscono mai
al terzo anno delle superiori, soprattutto quelli di
francese»,
risposi con un'occhiata eloquente nella sua direzione. «La
professoressa Holland pensa che la sua materia sia la più
imporante per superare il
SAT⁴. Come tutti i
professori, del resto».
Papà rise sommessamente. Seduta davanti a lui, la mamma
spostava
alternativamente lo sguardo da uno dei suoi pedoni alla regina con
espressione seria, mordendosi un labbro, forse cercando di decidere la
sua prossima mossa; ma io ero certa che ascoltasse con attenzione e che
non si perdesse neanche una parola.
«A maggior ragione sarebbe meglio che ti distraessi un po'.
Non ti fa bene preoccuparti tanto».
«Non sono preoccupata per il SAT», risposi senza
pensarci, e poi
tacqui di colpo; non avevo voglia di continuare e confessare a voce
alta a cosa stessi pensando davvero.
I miei genitori non avevano mai condiviso la decisione di
lasciare Alex. Sembravano sinceramente convinti che le mie paure
fossero immotivate, sebbene ritenessero che alcune delle motivazioni
che mi avevano spinta a tanto non fossero del tutto insensate, come il
fatto che prima o poi avrei dovuto lasciarlo comunque o rivelargli la
verità sulla mia natura e trascinarlo nel mio mondo
complicato.
Sostenevano che niente di tutto ciò rendesse del tutto
impossibile la continuazione della mia storia con Alex e che avrei
almeno potuto vivere il nostro rapporto con spensieratezza ancora per
un po', ma avevano deciso di non interferire. Se questa era la
decisione che reputavo migliore per entrambi, per me e per Alex, allora
dovevo prenderla.
E per quanto non fossi affatto convinta di aver preso
la decisione giusta, per quanto trascorressi minuti su minuti e ore su
ore a ripensare al problema, vagliandone ogni aspetto e ogni possibile
soluzione, senza mai giungere ad una conclusione diversa da quella che
mi aveva indotto a lasciare Alex, apprezzavo la loro discrezione.
Sembrava proprio che avessero deciso di smettere di trattarmi come una
bambina, che volessero lasciarmi spazio e piena facoltà di
decidere per me stessa, e non potevo che apprezzare il cambiamento.
Mi alzai di scatto dallo sgabello del pianoforte, così
repentinamente che se nella stanza fosse stato presente un umano mi
avrebbe senz'altro lanciato un'occhiata confusa.
«Credo che proverò a chiamare Jas. Magari le va di
fare un po' di shopping», dissi.
La mamma si illuminò mentre mi guardava e fece un gran
sorriso.
«Ottima idea», esclamò con voce
frizzante.
«Salutala da
parte mia».
«Ti presto la mia carta di credito», aggiunse
Rosalie, sfoggiando
un sorriso che poteva rivaleggiare con quello della mamma.
«È
un po' che non ti faccio un regalo».
«Ottima idea», ripetè Bella, sempre
più entusiasta.
Ero incredula. Lei detestava lo shopping e la mia passione per
l'abbigliamento alla moda era causa di parecchie discussioni tra noi
due, soprattutto se spendevo troppo o se la mia stanza minacciava di
esplodere per la quantità di abiti e scarpe che conteneva.
Alice
e Rosalie mi avevano influenzata irrimediabilmente e alla mamma era
toccato rassegnarsi all'inevitabile con qualche sfuriata occasionale. E
adesso addirittura mi incoraggiava a fare spese con una delle carte di
credito senza fondo delle zie, purchè uscissi di casa e la
piantassi di rimuginare pensieri tristi strimpellando musiche
deprimenti al pianoforte.
«Non ne potevate proprio più di ascoltare Chopin,
eh»,
commentai a mezza voce, un sorrisino colpevole sulle labbra, mentre
lasciavo la stanza. Sapevo che agivano e parlavano sempre e solo per il
mio bene e sperai con tutte le mie forze di superare il più
in
fretta possibile quel momento di tristezza. Prima o poi i dubbi e la
paura sarebbero svaniti. Prima o poi sarei stata certa di aver fatto la
cosa giusta per Alex. E se lui stava bene, me la sarei cavata anch'io.
Entrata nella vecchia stanza di papà, che ormai utilizzavo
come
camera personale quando ero a casa dei nonni, afferrai il telefono, mi
lasciai cadere sul letto a gambe incrociate e composi il numero di Jas.
Il
telefono squillò a lungo mentre fissavo gli alberi
frondosi fuori dalle finestre; le loro chiome
erano così
rigogliose che sembravano piegarsi verso gli ampi vetri fin quasi a
toccarli.
Poi, finalmente, qualcuno sollevò la cornetta dall'altra
parte.
«Renesmee?».
Era Jas e sembrava sconcertata. Oltre che un tantino seccata. Doveva
aver letto il numero sul display del cordless.
«Ciao», mormorai, esitante. «Ehm... Che
hai? Tutto bene?».
«Sì, tutto bene», esclamò,
sbrigativa. Fece una lunga pausa. «Cercavi me?».
Aggrottai la fronte. «Be', sì. Di certo non ho
chiamato per parlare con Gatto».
«Oh, capisco», rispose in fretta, senza cogliere la
battuta.
Rimase di nuovo in silenzio e dopo qualche secondo intervenni.
«Jas, sicura che sia tutto okay? Se hai da fare posso
richiamare più tardi».
Prima che riuscissi a terminare la frase stava già parlando.
«Hai proprio ragione, sono molto... occupata... in questo
momento. Sarebbe meglio se ci sentissimo stasera, magari».
«D'accordo», risposi, lentamente.
«Allora...».
In quell'istante udii una voca dall'altra parte. Qualcuno parlava con
Jas e riconobbi immediatamente Louise, la domestica dei Williams.
«Signorina Jas, il suo ospite sta arrivando. Ha una Ford,
giusto?».
«Sì, grazie, Louise!», saltò
su la mia amica, a voce così alta da farmi sussultare. Si
rivolse nuovamente a
me, molto più allarmata di prima. «Renesmee,
scusa, devo
proprio andare...».
«Ferma
lì!», sbottai, colpita da un pensiero improvviso.
«Chi sta arrivando a casa tua?».
«Nessuno!
Non sta arrivando nessuno, Louise si è
sbagliata...».
Fu interrotta dal suono del campanello; qualcuno bussava alla porta di
casa.
«Come nessuno?
E nessuno
ha appena bussato alla porta?».
«Ma come diavolo hai fatto a sentirlo? Hai una specie di
super udito?».
«Non cambiare argomento! È Seth, non è
vero? Nessun
altro ha una Ford tra quelli che conosciamo», esclamai,
balzando in
piedi di scatto come una molla.
«Non posso
parlarne adesso, devo andare», fece lei per tutta risposta. Qualcuno
suonò ancora il campanello. «Poi ti chiamo e ti
racconto tutto, giuro. Baci!».
«Che cosa? No, Jas, aspetta! Jas!».
Troppo tardi, aveva già riagganciato. Mi parve di vederla
davanti agli occhi mentre correva al piano di sotto di casa sua, si
controllava i capelli nello specchio dell'ingresso, spalancava la porta
con un sorriso accattivante sul volto truccato. E poi...
Accidenti!
Lanciai il telefono sul letto e mi precipitai giù per le
scale
con un tale fracasso che sentii appena la voce di Emmett dal salotto.
«Ehi, che succede? Una mandria di bufali sta invadendo la
casa?».
«Seth è andato da Jas!», esclamai,
piombando senza fiato nella stanza.
Emmett, Rose e Bella mi fissarono con aria sconcertata, fermi nelle
stesse posizioni in cui li avevo lasciati cinque minuti prima. Solo
papà si alzò in piedi come per fronteggiarmi. Lui
sapeva
già, naturalmente.
«E... e allora?», chiese la mamma, piano, con
cautela. Aveva gli
occhi sgranati come se avesse davanti una bomba a orologeria invece di
sua figlia.
«Seth è a casa di Jas! In questo preciso istante!
Sono lì insieme, da soli!».
Silenzio. Zia Rose e la mamma si scambiarono uno sguardo perplesso.
«E allora?», ripetè Bella.
«E allora?
Come sarebbe a dire e
allora?
Ti rendi conto che quello che potrebbe succedere?», sbottai,
alzando
la voce. Sentivo un nodo di ansia all'altezza dello stomaco che si
faceva sempre più stretto, come un cappio. Provai a
respirare
profondamente, con calma.
«Che cosa potrebbe succedere?», domandò
papà,
tranquillo. Sulle labbra aveva un sorriso leggero e nel suo sguardo
leggevo una certa dose di esasperazione.
«Ah! Di tutto!».
La mamma fece un sospiro pesante e abbassò di nuovo gli
occhi
sulla scacchiera, scuotendo il capo. «Renesmee, stai
esagerando. Si
conoscono appena, Jas ha un ragazzo che adora... E sai come
è
fatto Seth, dubito che abbia intenzione di saltarle addosso».
«Non è questo il problema principale»,
intervenni in tono
brusco e alzai una mano per interromperla. «Potrebbe dirle
qualcosa!».
Lei scosse di nuovo la testa con decisione. «Non lo farebbe
mai
senza prima averne parlato con te. Sa benissimo che è una
situazione delicata, che Jas è la tua migliore amica e che
vuoi
proteggerla. Devi fidarti di Seth, come hai sempre fatto».
«Ma questa non è una circostanza normale!
C'è di mezzo...».
Mi interruppi di botto, incapace di terminare la frase. Non potevo
pronunciare quella parola. Non veniva prounciata tra noi a voce alta
da mesi, da quando ero tornata a casa dopo il periodo trascorso da
Charlie. Non in mia presenza, almeno. Ma questa volta la mamma ruppe il
patto che avevamo silenziosamente stipulato al mio ritorno a casa.
«L'imprinting?», esclamò guardandomi
dritto negli
occhi. «Sì, e allora? Anche tra te e Jacob
c'è di
mezzo
l'imprinting. Insomma, non capisco quale sia il problema.
Perchè
Seth e Jas non possono avere quello che avete voi due?».
Ricambiai il suo sguardo in silenzio, le labbra serrate per non lasciar
sfuggire i pensieri che mi assillavano da settimane e settimane e che
mai sarei riuscita a confessare a voce alta, non davanti a lei e al
resto della famiglia. Era così atrocemente imbarazzante.
Quello
che avevamo io e Jacob? Compresa la gelosia, l'attrazione fisica e
l'incapacità di gestire una sola conversazione senza
metterci in
imbarazzo a vicenda? Raccontargli la fine della mia storia con Alex, il
giorno in cui loro due avevano quasi fatto a botte nella riserva, era
stato così strano e difficile che lo stesso Jake aveva
cambiato argomento il prima possibile. Incrociai lo sguardo di
papà: appariva
preoccupato.
«Io vado lì», sussurrai, e marciai fuori
dalla stanza prima che qualcuno potesse dire altro.
Nella mia stanza afferrai il cellulare, la giacca e le chiavi della
macchina e tornai di sotto. Edward e Bella mi aspettavano nell'ingresso
e mentre scendevo le scale di corsa intravidi con la coda dell'occhio
Rosalie ed Emmett fermi sulla porta del salotto; mi seguirono con gli
occhi, immobili come statue di cera, senza dire una parola. I miei
genitori, invece, avevano intenzioni ben diverse.
«Renesmee», proruppe la mamma in tono severo non
appena fui
apparsa in cima alle scale, «cosa vuoi fare
esattamente?».
«Devo tenerli d'occhio!», sbottai, esasperata
almeno quanto lei.
Forse pensava che io non capissi, ma dal mio punto di vista era mia
madre che non capiva. Nessuno poteva capire, me ne resi conto
all'improvviso e fu come uno schiaffo secco sul volto. Nessuno che non
avesse provato l'imprinting sulla propria pelle avrebbe potuto capire
cosa significava quella corda di acciaio che incantenava il tuo
cuore a quello dell'altro; un laccio che rischiava di rovinare la vita
di Jas.
«Tesoro, per favore, pensaci bene», intervenne
papà, la
voce bassa e melodiosa; sapevo che stava cercando di calmarmi, ma
questa volta non gliel'avrei permesso. «So che adesso ti
senti
confusa e spaventata, ma non è detto che... Non tutti
provano le
stesse cose...».
Arrossii furiosamente. «Io non sono confusa»,
saltai su, piccata,
e vidi la sua espressione cambiare di colpo, come se fosse pentito di
aver sfiorato un argomento proibito. «Per niente. So
benissimo
quello che faccio. Lo so benissimo».
«Non puoi immischiarti in questo modo nella vita di Jas! Non
farlo,
Renesmee, o potresti perderla», ribattè la mamma
con forza,
afferrandomi per un braccio delicatamente ma senza traccia di
esitazione.
Scossi il capo, senza fiato, gli occhi bassi per non incontrare i suoi
colmi di ansia e di rimprovero. «La sto già
perdendo, mamma.
La sto già perdendo. E quando scoprirà cosa sono
davvero,
quando scoprirà che le ho sempre mentito sulla mia vita, la
perderò definitivamente, per sempre», sussurrai
con voce
rotta. Era un pensiero così spaventoso da non riuscire
neanche
ad immaginare che accadesse realmente. Dovevo fare qualcosa, qualunque
cosa, per impedirlo. Dovevo tentare.
In silenzio, lottando per ingoiare le lacrime che minacciavano di
sgorgare, sottrassi piano il braccio alle dita forti e fredde della
mamma e uscii velocemente chiudendomi la porta alle spalle.
****
Arrivai a casa Williams nel giro di una manciata di minuti, infrangendo
un bel po' di regole del codice stradale. Se Charlie mi avesse vista,
gli sarebbe venuto un colpo. Davanti al cancello era parcheggiata la
vecchia Ford blu scuro che Seth divideva con sua sorella Leah. Con un
tuffo al cuore, parcheggiai lì accanto e mi fiondai alla
porta,
determinata e perfettamente convinta di essere nel giusto.
Dopo la nostra ultima
discussione a proposito di Seth avevo chiesto scusa a Jas per il mio
comportamento, sinceramente dispiaciuta di essere costretta ad
intromettermi nella sua vita privata, e avevo cercato di spiegarle che
ero soltanto preoccupata e desiderosa che facesse la scelta giusta. Jas
aveva fatto la sostenuta per un po', ma ben presto aveva ceduto e mi
aveva abbracciata senza dire nulla, ponendo fine in quel modo al
litigio. Ero stata molto sollevata nello scoprire che tutto sommato non
se l'era presa, e adesso mi chiedevo, non senza una certa ansia, come
avrebbe presto questa irruzione.
In un'altra
situazione non mi sarei mai sognata di precipitarmi in quel modo a casa
di una mia amica, senza essere stata invitata e con il preciso scopo di
metterle i bastoni tra le ruote con un ragazzo, ma si trattava di
proteggere l'esistenza di Jas dal mondo soprannaturale. E se Seth
avesse deciso, in qualche folle impulso dettato dall'imprinting, di
raccontarle tutto? Tremavo solo a pensarci.
La porta si aprì e apparve Louise, un sorriso ampio e sereno
sul
volto. Era una signora minuta sulla quarantina, di aspetto gradevole,
con lunghi capelli scuri sempre legati in cima alla testa e l'uniforma
bianca e nera impeccabile. Sfoggiava il solito atteggiamento pacato e
serafico che, ormai lo sapevo bene, era la sua tecnica di sopravvivenza
in casa Williams. Sembrava che niente avesse il potere di turbarla,
nè le scenate della signora Williams, nè
l'assenza quasi
costante del signor Williams, nè i capricci della loro
figlia.
«Signorina Renesmee, che sorpresa. Non la
aspettavamo», disse, facendosi da parte con un gesto di
invito.
Entrai e lei chiuse la porta alle mie spalle. «Eh,
già», bofonchiai.
Jas spuntò da una porta sulla sinistra che conduceva alla
cucina, l'aria perplessa e Seth alle calcagna. Quando mi vide, al di
là di Louise, spalancò gli occhi azzurro chiaro.
«Sorpresa!», esclamai con un sorrisone.
«Che ci fai tu
qui?»,
boccheggiò la mia amica. Mi guardava come se fossi un mostro
orrendo piombato dritto in casa sua dallo spazio profondo.
«Sono venuta a trovarti. Sei contenta?», risposi,
non senza un tocco di acidità nella voce.
«No, per niente», sbottò, secca. Come al
solito, Jas non aveva peli sulla lingua.
«Ci credo», borbottai. Lei sembrò
indignata, ma non ebbe
tempo per dire altro. «Ho interrotto qualcosa?»,
aggiunsi.
Lanciai un rapido sguardo a Seth, sorridente al fianco di Jas; quando
lo guardai dritto negli occhi, il suo sorriso luminoso e caldo si
spense immediatamente.
«No, tranquilla. Mi fa piacere vederti», rispose
lui a mezza voce.
«Ah, bene! Allora credo che mi fermerò un
po'».
Mi sfilai la giacca e la porsi a Louise che aspettava con la mano tesa.
«Stavo per servire uno spuntino, spero che abbia
fame», disse.
«Tantissima fame», esclamai, evitando accuratamente
lo sguardo assassino di Jas.
«Su, andiamo», fece lei, scocciata.
«Louise, aspettiamo il the in salotto».
«Subito, signorina Jas».
Alzando gli occhi al cielo, la mia amica varcò una grande
porta
sulla destra e Seth la seguì dopo avermi lanciato
un'occhiata
esitante. Io e Louise restammo da sole. Lei continuava a sorridere, io
valutavo rapidamente la situazione.
«Dimmi, Louise, come ti ha corotto la signorina Jas
perchè tu non riferissi a sua madre che oggi sarebbe venuto
a
casa un ragazzo a lei completamente sconosciuto?», domandai,
retorica.
In realtà la signora Williams non si curava quasi per niente
delle frequentazioni di sua figlia, purchè fossero "del suo
stesso ceto sociale", come diceva lei. Però teneva
moltissimo
alle apparenze e alle convenienze e di tanto in tanto faceva una
predica di dieci minuti a Jas sul comportamento da assumere con i
ragazzi, per poi dimenticare completamente l'argomento.
Louise non si scompose affatto. «Non capisco, signorina. Non
so di cosa stia parlando».
La guardai male per un minuto,
le braccia incrociate e il mento sollevato. Annusai l'aria.
«È Chanel quello che sento?».
«Si accomodi in salotto, prego. Il the arriva
subito».
Sbuffai e marciai nella stanza accanto. Aggiungere altro sarebbe stato
inutile, ormai. Il salotto era una stanza enorme riccamente arredata
con pezzi di antiquariato e opere d'arte contemporanea che si
mescolavano armonicamente. Ogni oggetto, dai divani rivestiti di
tessuti preziosi alle delicate sculture di cristallo
che si ergevano sul pavimento di marmo, dai quadri ricoperti da schizzi
di pittura appesi alle pareti color crema ai grandi lampadari importati
dall'Italia, sembrava appena uscito da una cassa
da imballaggio. Quando ero a casa di Jas avevo sempre la sensazione di
trovarmi in un museo ed esitavo perfino a sedermi su una sedia.
Probabilmente Seth, abituato ai divani sgangherati e al minuscolo
salotto di casa sua, si sarebbe sentito come un pesce fuor d'acqua. E
invece era seduto accanto a Jas su uno degli ampi divani, impegnato a
chiacchierare e del tutto indifferente a ciò che lo
circondava.
Grandioso.
«Tieniti lontana da Gatto, Renesmee», disse Jas
mentre sedevo di fronte a loro sull'altro divano.
«Come mai?».
«È
di cattivo umore».
«E quando non
è di cattivo umore?».
«Sì, ma oggi è particolarmente nervoso.
Quando è arrivato Seth ha
cominciato a soffiargli contro, a tirare fuori gli artigli e a
miagolare come un pazzo», spiegò con un'aria seria
che era
quasi comica. «Ho dovuto chiuderlo in lavanderia prima che
gli
saltasse addosso. Proprio non capisco che cos'abbia. In genere reagisce
così soltanto quando incontra il barboncino dei
vicini».
Mi trattenni a fatica dallo scoppiare a ridere. «Be', si sa
che i
gatti non amano i cani e viceversa», mormorai, mordendomi il
labbro
inferiore per frenare un sorriso.
Jas mi fulminò con lo sguardo. «E questo che
c'entra?» chiese a denti stretti.
«Hai una casa incredibile, Jas», intervenne subito
Seth, deciso. «È
fantastica, davvero».
Lei gli rivolse un sorriso radioso. «Grazie!». Poi
mi
guardò con aria malevola. «Prima che tu arrivassi
stavo per
fargli fare un giro».
«Davvero? E perchè mai? Mi sembra
così noioso», esclamai con una scrollata di
spalle.
«A che ti serve conoscere tutte le stanze della casa, Seth? A
meno
che tu non pensi di trascorrere molto tempo qui, e questo mi sembra
abbastanza improbabile... È
improbabile, vero?». Lo fissai con un sopracciglio inarcato e
un
amabile sorriso, augurandomi che recepisse il messaggio. Lui sembrava
sul punto di dire qualcosa, ma poi esitò e
abbassò gli
occhi sul tappeto.
«Si può sapere che cos'hai, Renesmee?»,
sbottò Jas. «Ti comporti in modo così
strano».
Era infastidita e non riuscii a non provare un po' di dispiacere per
lei. Fortunatamente Louise scelse proprio quel momento per entrare in
salone portando un vassoio con the al limone, fumante e
profumato, e tramezzini di vari gusti. Con un sorriso professionale
sistemò il vassoio sul tavolino tra i due divani e se ne
andò senza smettere di sorridere, incurante delle mie
occhiate
truci. Ci fu qualche attimo di silenzio mentre Jas versava il
tè
nelle tazze, divertendosi un mondo nel suo ruolo di padrona di casa.
«Spero che ti piaccia, Seth», disse, la voce bassa
e stranamente
dolce. Di solito parlava in quel mondo soltanto al vecchio professor
Redmont nella speranza di stordirlo e convincerlo ad alzare i suoi voti
in geografia.
«Veramente non bevo spesso il the, ma mi piace».
Seth
abbassò lo sguardo su di lei, mentre parlava, e sorrise. Un
sorriso tenero, carico di affetto. Per me fu un colpo allo stomaco e
quasi mi strozzai con un sorso di the.
«Ah, sì? Non ne avevo idea», osservai,
stizzita. Jas mi
lanciò un'occhiata furiosa e disorientata al tempo stesso,
ma io
finsi di non accorgermene. «È una
passione recente o sbaglio? Non ricordo di averti mai visto con una
tazza di the in mano».
Seth mi fissava tranquillo, senza ombra di disagio o senso di colpa sul
volto. Nei suoi occhi scuri, grandi e gentili, leggevo comprensione, un
po' di dispiacere e un pizzico di preoccupazione. Preoccupazione per
me, non per se stesso, ne ero sicura. Come se vedesse qualcosa di
triste che a me sfuggiva. Stava per rispondere, ma la mia amica
intervenne.
«Louise ha dimenticato lo zucchero»,
annunciò, guardandomi
dritto negli occhi. «Puoi andare a prenderlo, per
favore?».
Conoscevo quel tono perentorio. Era il tono che usava quando non era
intenzionata ad ammettere repliche. Ma ero riluttante a lasciarli soli,
seppure per un minuto. Esitai.
«È
proprio necessario?».
I suoi occhi si strinsero mentre mi fissava e in quel momento pensai
che se avesse potuto mi sarebbe saltata al collo per strangolarmi.
«Lo sai che non bevo il the senza latte e due cucchiaini di
zucchero», rispose con voce soave. Qualcun altro avrebbe
potuto
trovarla tranquillizzante, ma io sapevo che l'estrema dolcezza era
l'ultimo stadio prima di una furia omicida che non avrebbe lasciato
scampo a nessuno. «Per favore», aggiunse,
sorridendo.
Alzai gli occhi al cielo. «D'accordo. Vado».
Attraversai la stanza con passo pesante e uscii. Lì per
lì pensai di nascondermi dietro la porta del salone per
origliare, ma decisi immediatamente che non era il caso. Mi sembrava
troppo scorretto nei confronti di Jas. In cucina, Louise stava
riordinando il frigorifero e intanto canticchiava tra sè.
Quando
entrai, naturalmente mi sorrise.
«Tutto bene, signorina Renesmee?».
Le risposi con un sospiro mentre prendevo la zuccheriera di porcellana
dal tavolo.
«Spero almeno che Jas le abbia regalato il flacone
più grande, così ne sarà valsa la
pena.».
Stavo attraversando il corridoio per tornare in salotto quando qualcuno
suonò il campanello. Senza riflettere, andai ad aprire e mi
trovai davanti Tom. Stringeva tra le mani un piccolo mazzo di delicati
fiorellini gialli e aveva un'aria soddisfatta.
«Ciao, Renesmee», mi salutò. Era
evidentemente un po'
sorpreso di trovarmi lì, ma non tanto. «Non sapevo
che fossi
qui. Tutto okay?».
Non risposi. Lo fissavo a bocca spalancata, incredula. Era veramente
Tom? Sbattei più volte le palpebre, ma senza successo. Non
era
un'illusione: lui era ancora lì. Lui era lì e
Seth e Jas
erano in salotto a bere il the. Lentamente iniziò a
montare il panico. Tom, stupito dal mio silenzio di tomba e forse dalla
mia espressione sconvolta, si schiarì la voce, a disagio.
«Ho pensato di fare un salto a trovare Jas. È in
casa, vero?».
«Ehm...».
Prima che potessi farfugliare una risposta, sebbene non avessi la
minima idea di cosa
farfugliare, Jas arrivò dal salone a passo svelto.
«Allora, questo zucchero...».
Vide Tom sulla porta e si bloccò con un sussulto. Sul suo
volto
si dipinse rapidamente un'espressione di autentico orrore. Lui, invece,
si illuminò come se non la vedesse da settimane; e invece si
erano incontrati quella mattina a scuola, come ogni giorno.
«Ciao!», esclamò, allegro, avanzando
nell'ingresso. Io mi
feci da parte, gli occhi bassi sul pavimento, pregando in silenzio che
un miracolo giungesse a salvarci. «Sorpresa!». Tom
sollevò
il mazzolino di fiori con aria raggiante.
Mi chiesi se a Jas non sembrasse sgradevolmente ironico ascoltare
quella stessa parola ripetuta per due volte di seguito, nello spazio di
dieci minuti, da due persone che in quel momento, poco ma
sicuro,
non avrebbe mai desiderato vedere. Se ne stava lì impalata a
fissarlo, come se non avesse idea di cosa fare, e a poco a poco Tom
iniziò a capire che qualcosa non andava, lo sguardo confuso
che
andava da me a Jas.
«Ragazze, tutto bene?».
«S-sì», balbettò lei.
«È
solo che... Non ti aspettavo... Io... Ma non dovevi fare una ricerca di
storia? Mi hai detto che avresti studiato tutto il
pomeriggio»,
disse, una punta di disperazione nella voce.
Tom sorrise di nuovo. «Ho finito presto. Così
possiamo stare
un po' insieme». Sicuramente non era quella la reazione che
si
aspettava. Davanti alla faccia sconvolta di Jas il suo entusiasmo
finalmente si sgonfiò come un soufflè
venuto male. «Che c'è che non va?».
«Niente. Mi hai presa alla sprovvista, tutto qui»,
rispose Jas.
Scosse appena la testa, cercando di ricomporsi. Mi sembrava quasi di
sentire il rumore degli ingranaggi del suo cervello che lavoravano per
risolvere la situazione.
Tom sgranò gli occhi. «Alla sprovvista?
Perchè, cosa
stavate facendo?». Silenzio. Jas mi guardò come se
si
aspettasse che io inventassi chissà cosa, ma mi sembrava di
avere la testa piena di ovatta. Non riuscivo a pensare. Ricambiai il
suo sguardo allarmato e Tom, che pur non essendo particolarmente
sveglio, non era un idiota, si insospettì. «Di chi
è
la Ford parcheggiata qui fuori?», aggiunse, sfoderando un
cipiglio
da interrogatorio della polizia. Charlie glielo avrebbe invidiato di
sicuro. «Chi c'è con voi?».
I suoi occhi socchiusi guizzarono verso la porta del salotto, da dove
giungeva un lieve acciottolio di tazze. Fece un passo in quella
direzione ed io già mi auguravo che il nostro ospite fosse
uscito dalla finestra, quando sulla porta comparve proprio lui, Seth.
Tom non ebbe alcuna reazione immediata; si limitò a
sbiancare
leggermente e ad osservare Seth con espressione indecifrabile.
«Ciao, Tom», disse Seth, tranquillo, ma serio in
volto. Accidenti
a lui, perchè doveva comportarsi da uomo e affrontare il
ragazzo
di Jas invece di filarsela come avrebbe fatto chiunque altro? Lo
guardai male, ma lui fece finta di nulla. «Come
va?».
Per diversi secondi ci fu un silenzio così profondo che
potei
ascoltare perfettamente i battiti del cuore di tutti noi. Tre veloci e
agitati, uno calmo e lento. Poi Tom scattò in avanti.
«Che
sta succedendo qui?», domandò.
«Non è come sembra!», strillò
Jas.
«Sembra che stiate bevendo il the»,
osservò Tom, sbirciando oltre le spalle di Seth.
Lei annuì precipitosamente. «Sì,
esatto! È solo un the!».
«Ma lui
che c'entra? Da quando prende il the a casa tua?».
Ero sul punto di intervenire e dire qualcosa, qualunque cosa, per
salvare la mia amica, ma non ne ebbi il tempo. In
quel preciso istante la porta della cucina si spalancò e
apparve
Louise con un cesto di panni puliti tra le braccia; quando ci vide,
afferrò la situazione in un lampo, fece dietro front e
sparì di nuovo nella cucina. Beata lei che poteva scappare,
pensai, sconsolata.
«Da oggi!», rispose Jas, sempre più
allarmata. «Stavamo
solo facendo due chiacchiere, e non era mai venuto a casa mia prima
d'ora!».
«Come no! Due chiacchiere di nascosto».
«Ma non è così! Non te l'ho detto
perchè...
perchè non è capitato... Non ne ho avuto
l'occasione...».
«Tom, davvero, non c'è niente di
cui...», iniziò Seth, ma non riuscì a
dire nient'altro.
«Tu non parlare!», sbottò Tom,
lanciandogli un'occhiata
velenosa che avrebbe fatto indietreggiare di corsa anche me. Aveva il
viso arrossato, agitava il mazzolino di fiori che aveva portato a Jas
come se fosse stato un'arma e sembrava davvero furioso. «Come
osi
venire a casa della mia ragazza a provarci con lei...».
Seth e Jas aprirono bocca contemporaneamente per ribattere, ma questa
volta riuscii a precederli. «No, ti stai
sbagliando», esclamai,
decisa, e questa era la pura, semplice verità; era Jas a
provarci con lui, non il contrario. «Sono stata qui con loro
per
tutto il tempo, non è successo niente. Niente».
Mentre Tom mi fissava, scorsi un piccolo dubbio iniziare a farsi strada
nei suoi occhi. Sentiva che ero sincera, ma era comunque troppo
arrabbiato per accettarlo.
«Questo non ha importanza. Non ha importanza
perchè lei non
me l'ha detto»,
continuò, e si voltò verso Jas.
«Perchè l'hai
fatto se non c'era niente da nascondere? Perchè?».
A quel punto Jas esplose. «Oh, insomma!»,
strillò,
alzando
le voce e le braccia come per levare una protesta verso il cielo. Tom
sobbalzò e mi parve di sentire chiaramente i
delicati
soprammobili di cristallo del salotto tremare nelle loro consolle.
«Non sono tenuta a dirti tutto quello che faccio!».
Tom strabuzzò gli occhi. «Non sei tenuta a dirmi
che ti vedi
con un altro ragazzo? Uno che conosci appena e che ti viene
dietro?».
«Io non mi vedo con un altro, abbiamo solo bevuto un the,
maledizione!».
«Ma certo! Quindi non si siete guardati nè
sfiorati, forse
non avere nemmeno parlato, giusto? È ridicolo!».
«No, tu sei ridicolo! Piantala!».
Jas non potè aggiungere altro. Dalla cucina giunse un grido
che la ammutolì.
«Signorina Jas! Signorina Jas, il gatto!».
Poi dalla porta della piccola lavanderia accanto alla cucina
schizzò fuori qualcosa di simile a una grossa palla di pelo
lanciata a tutta velocità. Era Gatto, che soffiando,
miagolando
e graffiando si gettò contro Seth. Jas cacciò un
urlo di
spavento e per i successivi due minuti ci fu solo una gran confusione.
Jas strappò dalle mani di Tom il mazzolino di fiori e
iniziò a colpire il gatto ripetutamente per fargli mollare
la
presa mentre Seth si divincolava per liberarsi, più stupito
che
spaventato dagli artigli che si agitavano a un centimetro dalla sua
faccia. Di istinto mi lanciai verso la mia amica per cercare di
fermarla e come unico risultato mi ritrovai a barcollare all'indietro,
mezza accecata da un pugno di margherite ormai distrutte che avevano
centrato quasi perfettamente la mia faccia.
Forse per sfuggire a Jas e
al suo mazzo di fiori, improvvisamente il gatto balzò di
nuovo
sul pavimento e si fiondò nel salone come una palla da
baseball
emettendo una serie di acuti e insopportabili miagolii. Era davvero
fuori di testa. Jas, consapevole del fatto che l'animale aveva
l'assoluto divieto di entrare in quella stanza, gli corse dietro
urlando qualcosa di incomprensibile e Tom, almeno in apparenza
dimenticando di essere arrabbiato con lei, la seguì a ruota.
Un
attimo dopo anche la porta della cucina si spalancò con un
gran
fracasso e ne uscì Louise con una scopa tra le mani, i
capelli
scarmigliati e l'aria determinata di un soldato che intraprende una
missione di vita o di morte. Seth fece un salto all'indietro e si tolse
dalla
sua traiettoria appena un secondo prima che la donna si precipitasse
nel salone come una furia.
Rimasti soli, ansimanti e sconvolti, ci guardammo per un attimo. Poi lo
afferrai per un braccio e lo spinsi verso la porta d'ingresso,
che era rimasta aperta. Mi augurai che almeno qualche vicino
ficcanaso si fosse goduto lo spettacolo che avevamo offerto.
«Ehi, ma cosa...».
«Vattene subito, Seth! Sparisci!», sbraitai,
trascinandolo con
tutte le mie forze e riuscendo soltanto a farlo scivolare lentamente
sul tappeto. Nella stanza accanto si udì un tonfo, il rumore
di
una tazza che si infrangeva sul pavimento, uno strillo di Jas e una
sonora imprecazione di Tom. Seth guardò verso il salone con
aria
sinceramente preoccupata.
«Ma... sei sicura... Jas... il gatto...».
«Qui ci penso io, tu vattene!», sibilai, affannata,
scostandomi
una ciocca di capelli arruffati dalla fronte. «E comunque
sappi che
Gatto ha tutta la mia approvazione!».
Chiusi con forza la porta sulla sua faccia sconcertata.
****
Mezz'ora
più tardi ero ancora a casa Williams, seduta sul divano del
salotto ad osservare i resti della battaglia condotta per acciuffare
Gatto e ascoltando Tom e Jas che litigavano furiosamente davanti a
me. Louise era riuscita
a
bloccare il gatto lanciandosi sul felino con tutto il suo peso e a
chiuderlo di nuovo in lavanderia, dalla quale si udivano ancora
miagolii furibondi e un forte rumore di unghie contro la porta; risolta
l'emergenza, avevo cercato di
andarmene per tre volte, ma Tom
e Jas me l'avevano impedito. Louise aveva pensato bene di dileguarsi in
cucina, probabilmente perchè non voleva essere incolpata del
disastro nel salotto all'arrivo della signora Williams, e a me era
toccato ascoltarli. Non facevano che chiamarmi in causa nella
discussione e sebbene mi rifiutassi di rispondere e di prendere le
parti di uno dei due, non ero comunque riuscita ad allontanarmi.
Fissavo in silenzio il pavimento ricoperto di schegge di vetro e
porcellana, i cuscini lanciati in aria e una sedia rovesciata su un
fianco (Tom ci era caduto sopra inseguendo il gatto), e ascoltavo, le
braccia
incrociate e l'aria assente.
«Come diavolo ti è venuto in mente di invitarlo a
casa tua?».
«Se voglio invitare qualcuno a casa mia lo faccio e
basta!».
«La senti, Renesmee? La
senti? E poi dice che io sono paranoico! Ma se lo conosci
a stento da cinque minuti!».
«Non è vero, lo conosco eccome!».
«Immagino che in che modo abbiate fatto
conoscenza!».
«Non dire stupidaggini! Abbiamo parlato qualche volta, tutto
qui!».
«Che cosa? Che
cosa? Lo vedi che ho ragione? Quante volte vi siete
incontrati alle mie spalle? Dove? Quando?».
«Per telefono, soltanto per telefono! Sono io
che ho ragione, sei un paranoico e un ficcanaso, non è vero,
Renesmee? Sei d'accordo con me, non è
così?».
«Ma come ti è venuto in mente di
chiamarlo?».
«Se mi va di chiamare una persona la chiamo!».
Sospirando, lasciai andare la testa dolorante all'indietro, contro la
morbida spalliera del divano, rassegnata ad affrontare un lungo,
lunghissimo pomeriggio. Chiusi gli occhi e mi dissi che se mai Seth si
fosse ripresentato a casa di Jas, avrebbe dovuto fare i conti con Gatto
e le sue crisi isteriche, e tutto sommato il pensiero era consolante:
forse nella mia piccola battaglia personale avevo finalmente trovato un
alleato.
Note.
1. Qui
la canzone. Mi piace moltissimo e trovo che il testo sia un po' ironico
se messo in relazione con il contenuto del capitolo... Spero che la
troviate adatta.
2. Probabilmente non lo ricorderete, così ecco il link.
3. Terzo e ultimo link "musicale"
per questo capitolo, giuro xd.
4. Il SAT è una sorta di test attitudinale che negli Stati
Uniti viene richiesto per l'ammissione al college. Qui se siete curiosi di saperne di più.
Spazio autrice.
Salve a tutti! Sono contenta di essere riuscita a rispettare i tempi di
aggiornamento senza nessun problema, per una volta... olè!
Allora, come vi avevo anticipato, finalmente un capitolo più
leggero dopo un bel po' di capitoli incentrati sulla tragedia xd. Mi
sono divertita scrivendo queste scene e spero di essere
riuscita a strapparvi un sorriso; desideravo proprio alleggerire un po'
l'atmosfera, anche se i problemi di Renesmee sono sempre lì
e non sono affatto scomparsi, e mi auguro di essere riuscita
nell'intento. In fondo, trovo che Jas sia un personaggio spontaneamente
"comico" in quasi tutto ciò che fa, spesso quando scrivo le
sue battute mi ritrovo a ridacchiare da sola, così ho
pensato che anche il suo primo appuntamento con Seth (perchè
in fondo di una specie di primo appuntamento si tratta) non poteva
essere troppo serio.
Spero che non siate troppo arrabbiate con Renesmee dopo questa ennesima
interferenza nella vita privata della sua migliore amica xd. Capisco
che possa sembrare esagerata, ma spero di riuscire sempre ad esprimere
cosa pensa e cosa prova nel modo più chiaro possibile. E
soprattutto, più avanti Renesmee farà chiarezza
dentro di sè e i suoi sentimenti nei confronti
dell'imprinting di Seth diventeranno più comprensibili.
Grazie e alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Glitter in the air ***
C 14
Capitolo 14
Glitter
in the air
It's
only half past the point of no return
The tip of the ice burg
The sun before the burn
The thunder before lightning
The breathe before the freeze
Have you ever felt this way?
[...]
It's only half past the point of
oblivion
The hourglass on the
table
The walk before the run
The breathe before the
kiss
And the fear before the
flames
Have you ever felt this
way?
Glitter in the air,
Pink¹
Non bisogna adirarsi
contro i fatti. Le nostre collere non li toccano.
Plutarco
Charlie
si lasciò andare contro lo schienale della sedia con un
sospiro
di soddisfazione e lanciò uno sguardo adorante verso sua
moglie.
«Il miglior roast-beef che abbia mai mangiato,
tesoro».
Sue, seduta dall'altro lato del tavolo, sorrise. «Lo
sospettavo,
visto che ne hai spazzolato la metà praticamente da solo...
Forse sarebbe il caso di mettersi un po' a dieta, che ne pensi, tesoro?».
«Dieta... Tsè», borbottò il
nonno per tutta
risposta. Lanciò a Sue uno sguardo di soppiatto,
incontrò
la sua espressione di divertito rimprovero e subito abbassò
gli
occhi. «Be', sì, forse stasera ho esagerato un
po', ma non
è colpa mia se il tuo roast-beef batte di gran lunga
qualunque
altro abbia mai assaggiato. E comunque non voglio sentir
parlare
di diete fino a quando non sarò chiuso in una
bara».
«A quel punto potrebbe essere un po' tardi per iniziarne
una», ribattè lei con tono ironico, ed io non
riuscii a
trattenere una risatina.
Charlie scrollò le spalle. «Meglio
così»,
rispose. Istintivamente guardai sua moglie e la sua aria di
disapprovazione era così comica da strapparmi un altro
piccolo
scoppio di risate.
Era venerdì sera e come ogni settimana stavo cenando con
Charlie
e Sue. Questa volta, però, ero da sola: i miei genitori
erano
partiti il giorno prima per trascorrere il week-end a Jacksonville, in
Florida, da Renee e Phil. Dopo mesi di discussioni, ripensamenti e
contrattazioni con la nonna, Bella aveva finalmente acconsentito ad una
visita, seppure breve, mentre io ero stata lasciata a Forks, in
consegna al resto della famiglia. Sapevo che tenermi alla larga da
Renee, dal suo intuito e dalla sua curiosità era la cosa
migliore per tutti, compresa me, ma essere lasciata a casa come una
bambina che non è abbastanza grande
per seguire i suoi genitori non mi faceva piacere. Neanche
un po'.
«E allora, stavi dicendo di aver parlato con i tuoi
stamattina?»,
riprese Charlie dopo un minuto di silenzio durante il quale aveva
osservato i
resti dell'ottima cena di Sue con aria assente e una mano sullo
stomaco, forse impegnato a meditare sugli orrori di dover seguire una
dieta.
«Sì, la mamma ha chiamato prima che andassi a
scuola. Sono
atterrati ieri sera, ma non hanno telefonato perchè avevano
paura di svegliarmi».
Il nonno assentì. «Cosa ti ha raccontato? Se la
stanno
spassando tra sole e mare?». Mentre parlava fece
inconsciamente una
smorfia. L'idea di un viaggio in Florida non lo attraeva minimamente,
anzi, il caldo opprimente e la luce troppo forte lo inquietavano quasi
quanto un enorme negozio di abbigliamento inquietava la mamma.
«Sembra che in Florida la gente faccia il bagno anche a Natale».
«Probabilmente sì, ma la mamma ha detto che piove
e il cielo
è coperto. A quanto sembra hanno scelto l'unico week-end
piovoso
dell'anno», scherzai.
Ovviamente Edward e Bella avevano prenotato il volo soltanto dopo uno
scrupoloso esame del bollettino metereologico e la consulenza di zia
Alice; potevano arrischiarsi ad andare in giro per Jacksonville solo se
c'era brutto tempo.
«Ah, davvero? Peccato», commentò
Charlie, rilassato e beatamente ignaro della
verità.
«Renee sarà stata molto felice di rivedere
Bella», intervenne Sue.
«Lo spero proprio», rispose il nonno al posto mio.
«Negli
ultimi mesi non faceva che chiamarmi alla centrale per parlare di
lei».
«E tu, Renesmee?», aggiunse subito Sue, ansiosa di
allontanare la
conversazione da argomenti scomodi. «Non ti andava di vedere
la
Florida?».
Serrai le labbra per un istante, pensierosa. «Be',
sì, ehm...
Ma... non potevo proprio partire... con la scuola e tutto il resto...
Il terzo anno delle superiori è piuttosto
impegnativo»,
accennai un mezzo sorriso.
Il nonno sollevò un attimo lo sguardo dal piatto vuoto per
lanciarmi un'occhiata veloce, la fronte corrugata, come riflettendo su
qualcosa, poi lo riabbassò.
«Peccato, tesoro. Non vedi Renee da tantissimo tempo ed
è pur sempre tua nonna».
Ahi. Altro argomento spinoso. «Lo so. Magari la prossima
volta», risposi con tono tranquillo.
Sue si alzò in piedi, troncando la discussione.
«Allora, siete pronti per il dolce?».
Servì una delle sue specialità, crostata di
lamponi con
panna montata, e quando Charlie ebbe la sua fetta nel piatto
dimenticò Renee, Bella e i nostri misteri nel giro di un
minuto.
Quando terminammo anche il dolce, lanciai uno sguardo all'orologio.
«Meglio che vada», dissi, posando la forchetta.
«Scusate se scappo via, ma
è già tardi e ho... ehm... un po' da fare,
stasera»,
spiegai a mezza voce.
Sue mi rivolse un'occhiata curiosa, ma non fece domande, discreta come
sempre, neppure quando mi alzai per aiutarla con i piatti sporchi.
«Senti, Ness», cominciò Charlie al
nostro ritorno al
tavolo, «perchè non ti fermi a dormire qui? Sarai
troppo
stanca per guidare fino a casa. La tua camera è sempre
pronta,
lo sai». La mia
camera? Ah, sì. Dalla scorsa primavera la vecchia stanza
della mamma era diventata la mia
stanza. «Ad Esme e Carlisle non dispiacerà, in
fondo hai passato la notte scorsa a casa loro».
«Sei gentile, ma non voglio darvi fastidio».
«Fastidio?». Il nonno mi fissò
sbalordito.
«Sciocchezze! È sempre un piacere averti
con noi,
vero,
Sue?».
Lei annuì con un sorriso. «Ma certo, puoi fermarti
quando vuoi, cara».
E adesso? Mi morsi un labbro, indecisa. Accidenti, possibile che non
fossi capace di mantenere un briciolo di privacy neanche con
papà dall'altra parte del paese?
«Lo so, è solo che... non dormo a casa,
stasera».
«Ah, davvero? Ti ospita Jas?», chiese con blando
interesse,
probabilmente troppo sicuro della risposta che avrebbe ricevuto per
preoccuparsi.
Da quando io ed Alex ci eravamo lasciati niente di ciò che
facevo era più in grado di destare la sua ansia, come se
credesse che tutti i possibili pericoli che avrei potuto incontrare
fossero spariti insieme al mio ragazzo. Sembrava ben più
interessato al resto della crostata, che stava adocchiando con aria
ghiotta già da cinque minuti.
Sospirai. «No. Dormo da Jacob».
Charlie dimenticò di colpo la crostata e mi fissò
con gli occhi sgranati, allarmato.
«Che significa che dormi da Jacob?»,
domandò dopo un attimo di silenzio di tomba.
«Significa che dormo da Jacob», mormorai,
sconcertata. Non avrei
saputo in quale altro modo rispondere tanto la domanda mi sembrava
assurda. «Quello che ho già fatto altre mille
volte in
passato, hai presente?».
«Sì», balbettò il nonno.
Stava diventando rosso,
chissà per quale motivo. «Sì, ma non lo
fai da tanto
tempo. Da quando eri bambina».
Sue gli stava lanciando una delle sue occhiate ammonitrici, ma lui non
sembrava in condizioni di accorgersene.
«Be', che importanza ha?», dissi mentre mi alzavo
da
tavola. «È una nostra vecchia tradizione,
ultimamente ci
siamo visti
poco e così... abbiamo pensato di rispolverarla».
«Quando eri piccola adoravi i vostri
pigiama-party»,
osservò Sue con un sorriso nostalgico. «Penso che
sia
un'ottima idea».
«Io no. Per niente», ribattè il nonno, e
si alzò
per seguirmi nell'ingresso dove avevo lasciato borsa e giubbotto. Aveva
un'aria così allarmata che era quasi divertente e faticai a
trattenere una
risata.
Sue smise di armeggiare con la lavastoviglie e si affacciò
alla porta
asciugandosi le mani con uno strofinaccio, pronta ad arginare una
crisi.
Raccolsi la giacca, la infilai e automaticamente raccolsi con le mani i
capelli che erano rimasti tra il golf e il collo del giubbotto, ma
all'improvviso mi bloccai. Di colpo mi erano tornate alla
mente tutte le volte, splendide, infinite volte in cui Alex aveva
compiuto quello stesso gesto al mio posto, liberandomi delicatamente i
boccoli ramati dalla trappola di giacche e cappotti e
lasciandoli
ricadere sulle mie spalle, le dita che indugiavano per un istante,
leggere, accarezzandomi le ciocche di capelli come se fossero un
tessuto prezioso, sfiorando la pelle sulla nuca, per poi
scivolare
via.
Respirai profondamente, cercando di arginare la fitta di dolore che
avvertivo nel petto e sperando di apparire normale agli occhi di
Charlie. Succedeva all'improvviso, cogliendomi ogni volta alla
sprovvista. Bastava un gesto, un gesto qualunque, un'immagine, una
canzone, un colore, un sapore, ed ecco che mi piombava addosso un
ricordo, un dolce, straziante ricordo di lui. E ogni volta contrastare
il senso di perdita e il desiderio di
riaverlo con me era come una battaglia. Una battaglia persa in partenza.
«È tardi», balbettò il nonno,
del tutto ignaro di
ciò che si agitava nell'animo della sua nipotina,
«sarai
stanca, non puoi guidare fino a La Push».
Scrollai la testa con un gesto energico e tornai alla
realtà, al
piccolo ingresso lustro e ordinato e allo sguardo spaventato di Charlie
che sembrava implorarmi di restare dov'ero.
«Non ci metterò neanche dieci minuti. Ho una
Mercedes, non
una bicicletta», risposi, un sorriso un po' indisponente sul
volto.
Sue scoppiò a ridere e si allontanò nuovamente
con passo sicuro, forse pensando che sarei stata in grado di
cavarmela da sola.
«È tardi
comunque. Hai visto che ore sono?».
Lanciai un'occhiata esasperata al vecchio orologio anni Sessanta appeso
alla parete. «Le nove e mezza. Non sarebbe tardi neanche se
avessi
sette anni, nonno».
Lui continuava a fissarmi con aria disperata e a me scappava sempre
più da
ridere. Per metà ero divertira e per metà
assolutamente
perplessa. Tutta quell'agitazione era troppo anche per gli standard
della mia famiglia di pazzi. Cosa c'era sotto?
«Adesso basta». Sue tornò a grandi passi
nell'ingresso e squadrò il nonno
con sguardo deciso. «Vai, tesoro, o comincerà
davvero a farsi
tardi. Non preoccuparti e passa una bella serata. E tu»,
aggiunse
all'indirizzo di Charlie, che sussultò come se avesse
sentito
uno schiocco di frusta, «sta' tranquillo, Renesmee sa
cavarsela
benissimo. Sarà a La Push in pochi minuti».
Le sorrisi, sollevata. Tutto sommato sarei riuscita a gestire il nonno
anche da sola, ma la presenza di Sue aveva sempre un effetto calmante
su di lui quando si trattava di affrontare qualcosa di strano, come i
nostri segreti o una notte a casa di Jacob... Evidentemente per Charlie
fare i conti con le mie stranezze e accettare il modo in cui avrei
passato la serata erano più o meno sullo stesso piano.
«Bene! Allora vado», esclamai, afferrando al volo
la borsa.
«Buona serata anche a voi. E grazie per la cena.
Ciao!».
Corsi verso Charlie, che sembrava pietrificato, gli stampai in tutta
fretta un bacio sulla guancia, mi precipitai fuori prima che potesse
dire altro e saltai in macchina. Mentre guidavo cercai di riflettere
sul suo comportamento, ma ero distratta, altri pensieri reclamavano con
prepotenza la mia attenzione e nel giro di un minuto mi ero lasciata
catturare.
In passato ero stata abituata a trascorrere più tempo con
Jacob
che con i miei genitori, ma le cose erano cambiate. Nelle ultime
settimane ci eravamo visti molto meno del solito e la colpa era mia. Lo
evitavo.
Sembrava che tutto intorno a me fosse in costante cambiamento: Alex,
Jas, Seth, perfino la mia famiglia, che non riusciva a capire
interamente le mie scelte, come se quel filo di intesa e comprensione
reciproca che ci aveva sempre unito iniziasse a lacerarsi e a diventare
più sottile. Questa volta li avevo chiusi fuori dalla mia
vita e
avevo preso da sola le mie decisioni, senza ascoltare il parere di
nessuno, fidandomi soltanto di me stessa e delle mie sensazioni. Forse
era un modo per rivendicare autonomia e libertà di scelta
dopo
anni e anni trascorsi a seguire inconsapevolmente la strada che loro
avevano tracciato per me. A poco a poco, però, mi stavo
rendendo
conto che prendere le mie decisioni senza condizionamenti non significava
necessariamente escluderli. Avrei dovuto sforzarmi di trovare un
equilibrio.
E poi Jacob. Anche lui mi sembrava cambiato. Quando gli avevo
raccontato della rottura con Alex era stato dolce e comprensivo come
sempre. Mi aveva ascoltato in silenzio, fino all'ultima parola prima
che il pianto mi chiudesse la gola, poi mi aveva abbracciata
stringendomi forte, ma per la prima volta, da quel che potevo
ricordare, un abbraccio del mio Jacob non era riuscito a scacciare le
nuvole e a far tornare il sereno.
Era stato silenzioso, grave, pensieroso, come se il mio racconto gli
avesse dato qualche seria preoccupazione. Davanti a me aveva cercato di
mostrarsi tranquillo, ma avevo avvertito qualcosa di stonato nella sua
voce e il suo sorriso mi era sembrato smorzato. E quella strana
alternanza di ostentata serenità e cupe meditazioni era
continuata nei giorni successivi. In alcuni momenti appariva distante,
freddo e pensieroso, come se qualcosa lo frenasse e bloccasse il suo
modo naturale di comportarsi. In altri momenti, invece, avevo la
sensazione di sentirlo troppo
vicino:
il modo in cui mi guardava quando credeva che non me ne
accorgessi, la tenerezza con cui mi accarezzava il polso quando mi
teneva la mano, scatenavano una piccola tempesta di confusione e
imbarazzo dentro di me. E quando i nostri sguardi si incontravano per
un istante, esitanti e un po' spaventati, mi sembrava di leggere
lo stesso miscuglio di sentimenti nei suoi occhi. Una parte di me
avrebbe desiderato capire cosa ci stava succedendo. L'altra sospettava
di averlo già capito ed era per questo che avevo iniziato ad
evitare Jacob. Avevamo preso l'abitudine di parlare al telefono, un
modo di comunicare molto più sicuro per
entrambi, e per lo più chiacchieravamo di cose poco
importanti, la scuola, il suo lavoro, la mia famiglia.
Forse il pigiama party in nome dei vecchi tempi non era stata una
grande idea, ma Jacob ed io eravamo finiti a parlarne per caso qualche
giorno prima: chiacchierando al telefono ci eravamo lasciati prendere
dalla nostalgia e prima che potessimo rendercene conto davvero
già avevamo organizzato la serata.
Tutta presa a rimuginare, mi accorsi di essere giunta a destinazione
solo quando il piede calò automaticamente sul freno.
Parcheggiai
con una certa cautela, ancora un po' incerta quando si trattava di fare
manovre, e vidi una sagoma sbucare da sotto il portico della piccola
casa di mattoni immersa nell'oscurità. Jacob mi venne
incontro e
prima ancora che mettessi piede fuori dall'auto mi aveva tolto di mano
la borsa con tutte le mie cose per la notte.
«Jake!». D'istinto lo abbracciai con un piccolo
sospiro di
felicità.
Nonostante tutto, ogni volta che sentivo la sua voce o incrociavo i
suoi occhi il mio cuore faceva un balzo nel petto ed ero semplicemente
felice di averlo accanto a me. «Mi sei mancato»,
sussurrai.
Era così alto che per raggiungerlo dovevo sollevarmi sulle
punte
dei piedi, come una bambina. Lui mi circondò la schiena con
un
braccio e lo sentii affondare il viso nei miei capelli sciolti sulle
spalle.
«Anche tu, piccola». Quando ci allontanammo, per un
attimo mi
osservò in silenzio con un'espressione seria che quasi
subito si
distese in un sorriso. «Come va? La cena è andata
bene?
È successo qualcosa?».
«Perchè me lo chiedi?», domandai,
stupita.
«Charlie ha chiamato qui poco fa, voleva parlare con Billy.
Non
credo che fosse importante, hanno fatto solo due chiacchiere, ma mi
è sembrato un po'... strano».
Abbassò la voce quando aprì la porta di casa e si
spostò di lato per lasciarmi passare.
«Davvero?». Lanciai un'occhiata alla porta della
stanza di Billy,
in fondo al breve e stretto corridoio che portava alle camere da letto.
Era chiusa. «Sta dormendo?».
Jacob annuì, senza parlare. Nella sua camera
lasciò
cadere la borsa sul letto, poi accese il lume sulla piccola scrivania.
Come sempre quando passavo la notte lì, io avrei dormito
nella
sua stanza e lui sul divano del salotto.
«È appena andato di là. Allora, secondo
te perchè Charlie ha chiamato proprio adesso?».
Lo fissai, riflettendo. All'improvviso mi era passata per la mente
un'idea folle: forse il nonno aveva voluto controllare che Billy fosse
in casa e magari avvisarlo di qualcosa... del mio arrivo, forse. Ma
Billy senz'altro sapeva che quella notte avrei dormito a casa
sua. Perchè
mai Charlie avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Non aveva senso. Ripensai
alla nostra conversazione poco prima che uscissi, alle mie parole, alle
sue, al rossore che aveva dipinto le sue guance rugose.
«... dormo
da Jacob. Quello che ho già fatto altre mille volte in
passato, hai presente?».
«Sì, ma non lo fai da tanto
tempo. Da quando eri bambina».
Jacob aspettava una risposta, in piedi di fronte a me, un sopracciglio
appena inarcato. Scossi la testa, cercando di scacciare quell'idea
assurda.
«Uhm... Non saprei, Jake. Probabilmente hai ragione tu,
voleva solo
fare due chiacchiere», risposi a mezza voce, passandomi una
mano
sulla fronte come per schiarirmi le idee.
Lui non disse nulla e rimase fermo, in silenzio, nella penombra, a
guardarmi. Mi avvicinai alla borsa e aprii la cerniera. Poi,
accorgendomi che Jacob non si muoveva, sollevai lo sguardo su di lui.
«Vorrei cambiarmi», mormorai, quasi in tono
interrogativo.
«Certo, fai pure. Ti aspetto di là».
Mi sorrise e lasciò la camera, chiudendosi accuratamente la
porta alle spalle. Indossai i pantaloni morbidi e il top
leggero del pigiama, lavai i denti, spazzolai
i capelli, continuando a rimuginare sul comportamento di Charlie, ma
quando tornai in salotto ero decisa a non parlarne più. Mi
sembrava soltanto una colossale sciocchezza.
Jacob era sul divano, appoggiato a un cuscino, una t-shirt a
maniche corte e dei pantaloni neri da ginnastica; non aveva bisogno di
coperte nè di abiti pesanti, sebbene fossimo ormai alle
soglie
dell'inverno. Mi accolse con un cenno del capo.
«Ehi», disse.
Sedetti sul divano con le ginocchia piegate davanti a me, dal lato
opposto rispetto al suo, anche se lui era
così ingombrante che eravamo comunque appiccicati l'uno
all'altra.
«Ehi», risposi con un sorrisino. Mi accorsi che ero
sinceramente
felice di trovarmi lì con lui e che dubbi e paure sembrano
lontanissimi. Era sempre così, con Jake. Era sempre stato
così e questo non sarebbe cambiato mai. Eppure, quanto avrei
desiderato poter tornare indietro nel tempo, a quando tutto era
meravigliosamente semplice.
«Sembri stanca», osservò dopo un minuto
di silenzio.
Scrollai le spalle. «Un po', ma è presto per
andare a letto».
«Vuoi guardare la tv?».
Ci pensai su un secondo. «Uhm... No, non mi va. Veramente
vorrei
parlare un po', se va anche a te. È tanto che non lo
facciamo».
Capì al volo cosa intendevo. Annuì appena mentre
si
sistemava più comodamente contro il bracciolo del divano.
«Hai ragione. Allora, come vanno le cose? La
scuola?».
«Piuttosto bene. I professori si agitano un sacco
perchè
quest'anno c'è il test di ammissione
all'università, ma
in genere cerco di ascoltarli il meno possibile».
«Ben detto», rispose con un sorrisino. «E
le ragazze?».
Naturalmente si riferiva alle mie amiche. «Tutto ok... Sabato
sera Danielle
uscirà con un ragazzo, sai? Si chiama Nick, frequenta il
nostro
corso di informatica e le viene dietro dall'inizio dell'anno. A lei
piace, ma si è decisa a parlargli solo qualche giorno
fa»,
raccontai, un'espressione intenerita sul volto. Danielle era sempre
stata la più timida di tutte noi con l'altro sesso, ma
sospettavamo che stesse iniziando a sciogliersi un po'. Era stato
incredibilmente dolce assistere alla nascita di quella nuova intesa. Mi
aveva fatto tornare indietro nel tempo, ai primi giorni con Alex,
quando ci stavamo ancora conoscendo: l'imbarazzo, le paure,
l'insicurezza, l'indecisione, ma anche l'entusiasmo, l'emozione e il
batticuore. Mi scappò un sospiro lieve e Jake
aggrottò le
sopracciglia, mentre mi fissava, forse stupito dalla direzione un po'
malinconica che aveva preso il mio umore. Mi affrettai a cercare
qualcos'altro da dire per evitare domande scomode, ancora fermamente
decisa a non parlare di Alex con lui. «Oh, lunedì
prossimo,
dopo la scuola, probabilmente andremo tutte insieme a Port Angeles per
fare shopping. Jas ha detto che vuole fare spese pazze. Ha visto in una
vetrina un vestito di 300 dollari e sostiene che deve averlo
assolutamente», scossi il capo, divertita. «Io e le
altre
cercheremo di fermarla, naturalmente, altrimenti suo padre le
toglierà la carta di credito, ma sai com'è fatta
Jas...
Non ascolta mai se non
vuole ascoltare. Sarà una bella lotta cercare
di farle cambiare idea».
«Be', mi sembra complicato», commentò
Jacob,
ridendo. «Cosa potreste fare, legarla, imbavagliarla e
portarla
via?».
Scoppiai a ridere anch'io. «E comunque, cosa ci fa con un
vestito
da
300 dollari? Non sapevo che a Forks organizzassero serate di
gala».
«Ha detto che ha bisogno di consolarsi e distrarsi»,
risposi con un'occhiata eloquente. «In questo è
troppo simile
a sua madre, che dà fondo alle carte di credito del marito
ogni
volta che si annoia. Il suo prossimo passo sarà ritirarsi
per
una settimana in qualche costosissimo centro benessere, proprio come la
signora Williams».
«Consolarsi e distrarsi?», ripetè Jacob.
«Come mai?».
Esitai per un attimo. Avrei preferito evitare che finissimo a parlare
proprio di quello:
non serviva a nulla e ogni volta rischiavamo di litigare.
«Be'... Le cose non le vanno molto bene in questo periodo.
Lei e Tom
non fanno che discutere da... lo sai da quando», borbottai,
lanciandogli un'occhiata di traverso. Ovviamente lui sapeva tutto del
tè pomeridiano finito in tragedia circa una settimana prima.
La
consapevolezza balenò sul suo viso e annuì con
aria
seria. «Non penso che resisteranno ancora per
molto», aggiunsi a
mezza voce dopo qualche attimo di silenzio. Avevo gli occhi bassi e la
malinconia che impregnava la mia voce mi stupì.
«Jas è
molto determinata se qualcosa le interessa davvero, ma a volte... a
volte guarda Tom come se fosse un estraneo. Come se dentro di
sè
si chiedesse che cavolo ci fa insieme a lui, capisci? E Tom... Lui non
è una persona molto combattiva, invece». Sospirai.
«Spero
quasi che anche loro si rendano contro prima possibile che è
finita. So che sembra brutto da dire, so che mi sono impegnata al
massimo per evitare che accadesse questo, ma vedo che non sono
più felici insieme. Stanno male ed io non voglio che stiano
male. Forse devo semplicemente lasciare... che vada come vada, tra
loro. E magari riuscirò comunque a proteggere Jas».
Le mie ultime parole sfumarono in un borbottio appena percettibile, ma
Jacob aveva udito e compreso benissimo. Mi guardò in
silenzio
per un po' con una strana espressione.
«Proteggerla da Seth?», domandò
all'improvviso, il tono accuratamente neutro.
«Non da Seth», lo corressi, irrigidita.
«Da un mondo molto pericoloso».
«Non mi sembra che Emily, Kim o Rachel rischino la vita
quotidianamente, eppure sono tutte vittime dell'imprinting»,
continuò, e mi parve che calcasse un po' la voce sulle
ultime tre parole.
Mi chiesi se avesse volutamente escluso me dall'elenco.
«Devo ricordarti cos'è successo ad
Emily?».
Per un momento esitò, ma poi rispose con decisione.
«Quello
è stato un incidente. Sam si era trasformato da poco e non
riusciva a controllarsi, ma Seth è perfettamente in grado di
evitare una cosa del genere, ormai».
«Non è detto. Gli incidenti possono sempre
capitare», ribattei, ostinata.
Jacob fece un sorriso esasperato. «Certo, e può
capitare che
domani mattina un meteorite precipiti sulla casa di Jas e la
incenerisca».
«Ah-ah!
Che ridere», commentai in tono acido, lanciandogli uno
sguardo profondamente irritato.
«Dai, Renesmee! Gli incidenti capitano, hai ragione, e non
soltanto
alle persone che frequentano i licantropi. Stare lontano da Seth non la
terrà al sicuro da tutte le cose brutte e pericolose che ci
sono
nel mondo. E non sto parlando del mondo soprannaturale, ma del mondo
umano». Fece una pausa durante la quale ci guardammo in
silenzio,
lui tranquillo e sicuro, io preoccupata e infastidita. «Sai
chi mi
ricordi da quando hai iniziato ad agitarti in modo così
irrazionale per questa storia? I tuoi genitori. E il modo in cui si
sono comportati con te, continuando a trattarti come una bambina che
doveva essere protetta anche quando non lo eri più da un bel
pezzo».
Sussultai, colpita dal paragone, e sentii un'ondata di sorpresa mista a
un pizzico di fastidio che mi invadeva di colpo. Presi fiato, pronta a
urlargli contro, ma quel brevissimo istante di istante di riflessione
mi
suggerì che forse non aveva tutti i torti. Provai a
pensarci,
invece di prendermela e basta. Stavo commettendo il loro stesso errore?
«Anche tu mi hai mentito, Jacob», sbottai, senza
riuscire a
contenere del tutto la rabbia. E forse a suscitarla era proprio la
consapevolezza che aveva ragione.
«Giusto», ammise, tranquillo, con un cenno della
testa verso di
me. «Ti ho mentito e ho sbagliato. Vuoi sbagliare anche
tu? È
normale voler proteggere le persone che si amano, ma a un certo bisogna
lasciarle libere di scegliere anche se sbaglieranno e
soffriranno
e noi soffriremo con loro. È questo
l'amore. Le cose vanno
come devono andare, Renesmee, l'hai appena detto tu stessa, e non
sempre abbiamo il potere di cambiarle».
«Lo so», mormorai a labbra serrate. «Io
non voglio decidere
per lei. Ma Jas è come una sorella per me. Le voglio davvero
bene e voglio che sia felice, è tanto sbagliato?».
«E pensi che se Seth entrerà nella sua vita non
potrà più esserlo?».
«Non è per Seth!», ripetei, esasperata.
«È
solo che...». Sbuffai nervosamente, incapace di trovare le
parole
giuste. Restai per un minuto zitta a fissare il buio. La
verità
era che sapevo benissimo quali fossero le parole giuste, ma non avevo
il coraggio di usarle. Presi nuovamente un respiro lento e profondo,
per controllarmi e allo stesso tempo per trovare la forza di tirare
fuori quello che avevo sulla punta della lingua. Incrociai le braccia
e guardai Jake con aria di sfida. «Non voglio che succeda a
loro
quello che succede a noi», aggiunsi con un filo di voce.
Lui rimase impassibile, ma mi sembrò che i suoi lineamenti,
appena visibili nella penombra della stanza, la curva delle labbra e le
rughe espressive intorno agli occhi, si curvassero appena verso il
basso, e il suo viso si velasse di malinconia. O
forse fu soltanto un gioco di ombre.
«Cosa succede tra noi?», domandò con
tono tranquillo.
Avrei voluto maledirmi da sola per essere stata così stupida
da
parlare senza pensare alle conseguenze. Era sempre così con
lui.
Riusciva a tirarmi fuori tutto, perfino cose di cui ignoravo
l'esistenza. A volte era bello, altre volte, come quella notte, era
insopportabile. Ed eccoci lì, seduti uno di fronte
all'altra, a
parlare di argomenti che avevo giurato a me stessa di non nominare mai
con lui. Come diavolo era potuto accadere? Come?
«Io... ho paura che... che Jas si senta in
trappola», risposi a
fatica, con voce rotta. Lasciavo vagare lo sguardo qua e là
per
la stanza, troppo inquieta per sostenere il suo in quel momento.
«Davvero?», chiese ancora, malinconico. Ebbi
l'impressione che in realtà mi stesso chiedendo È
così che ti senti tu? Avevo
il terrore di rispondere a una domanda del genere e aprii la
bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, e impedirgli di continuare, ma
quando parlò non fu per pormi un'altra domanda.
«Jas non
è in trappola, Renesmee. Lei può scegliere,
è
libera di dimenticare che Seth sia mai esistito e se questo
è
ciò che vuole davvero, Seth la lascerà
andare».
«E lui, invece? Passerà il resto della vita
pensando a Jas ma senza poterla avere?».
Jake scuoteva piano la testa, un sorriso enigmatico sul volto.
«Dal giorno in cui l'ha conosciuta, i desideri
di Jas sono i suoi, lui sente quello che sente lei e vuole quello che
lei vuole. Nessuna decisione che Jas prenderà per se stessa
potrà mai renderlo infelice. Se lei starà bene,
starà bene anche Seth».
«E credi che questo mi faccia sentire meglio?»,
sussurrai, la
voce rotta. Sentivo un dolore al cuore che si inerpicava su per la gola
e strozzava le parole. «Credi che non mi importi di Seth, che
non
gli voglia bene come se fosse un fratello? Credi che sia questo
ciò che avrei voluto per lui, una vita vissuta soltanto a
metà? È in trappola anche lui, come
Jas».
«Renesmee...», mi chiamò, meravigliato.
«No, basta!», esclamai di getto, alzando la voce
ben più
di quanto volessi. Balzai in piedi. «Non avrei mai dovuto
parlare di
queste cose, ho sbagliato io. Buonanotte».
Uscii dal salotto camminando a grandi passi, entrai nella stanza di
Jacob, ma quando feci per spegnere il piccolo lume che rischiarava un
angolo dell'ambiente, scorsi un'ombra sul muro e mi voltai. Mi aveva
seguita.
«Pensi di poter troncare una discussione
così?»,
sbottò. Era palesemente irritato, per quanto si sforzasse di
tenere bassa la voce, al contrario di me.
«Sì! Ne ho abbastanza! Vai via, per
favore».
«No», rispose con forza, senza muoversi di un
centimetro.
Mi fissava dritto negli occhi, ma io non riuscivo a ricambiare;
sostenere il suo sguardo intenso e determinato non era mai stato tanto
difficile. Ero imbarazzata per essermi aperta in quel modo su argomenti
tanto delicati, arrabbiata con lui, con me stessa e con l'imprinting
per la situazione in cui ci trovavamo. Ed ero spaventata, tremendamente
spaventata. Avevo
perso Alex e sembravo destinata a perdere anche Jas, il prossimo
sarebbe stato Jacob?
«Quello che hai detto non è vero!».
«Non è vero?», ripetei, incredula e
stizzita in ugual
misura. Davvero pensava che fossi così stupida, o immatura,
o
cieca, o tutte e tre le cose. «Jacob, tu hai rinunciato alla
tua
vita!». Mentre pronunciavo quella frase mi parve di
esplodere. Fu
come se qualcosa che trattenevo da tempo si riversasse di colpo al di
fuori di me, come se avessi infranto una diga o una barriera. Era da un
pezzo, ormai, che non stavamo più parlando di Seth e Jas, ma
di
noi due, ed ero sicura che lui lo avesse già capito da un
bel
po'. «Credi che non me ne sia accorta? Credi che non ci abbia
pensato in questi mesi, da quando... da quando ho saputo come stanno le
cose? Non sei andato al college, lavori a La Push, non ti allontani
mai, vivi fianco a fianco con un
mucchio di succhiasangue che dovresti odiare e uccidere e invece passi
insieme a loro il tuo tempo libero, settimane fa stavi per fare a botte
con un adolescente fuori di testa... E tutto questo è colpa
mia!
Hai paralizzato la tua esistenza per me. È vero,
io mi sono sentita in trappola quando ho saputo dell'imprinting,
ma sei tu
quello che è stato incastrato ed io ne sono
responsabile!».
Ero rimasta senza fiato e dovetti interrompere quella tirata. Lui, che
fino ad allora mi aveva fissata a bocca aperta, colse al volo
l'occasione per parlare.
«Eri
una bambina, Renesmee, non l'hai voluto tu!».
«Non ha importanza, è comunque colpa mia! Sono
stata io
che... l'ho fatto scattare», conclusi dopo un attimo di
incertezza nel cercare le parole giuste.
«Sì, l'hai fatto scattare»,
ripetè Jacob,
impassibile. «Ed è la cosa migliore che mi sia mai
capitata. Credi che ora io sia infelice perchè non vado al
college? Stronzate», sentenziò, tranquillo e
sicuro di
sè. «Quella è una mia scelta e mi sta
bene. Sono
felice, Renesmee. Non voglio negare di esserlo stato anche prima di te,
a volte. Ma questo è diverso, completamente diverso.
L'imprinting non ha bloccato la mia vita, l'ha cambiata. Ero un
ragazzino distrutto dal dolore, convinto che la sua delusione d'amore
lo avesse segnato per sempre. Poi sei arrivata tu ed è
bastato
uno sguardo: io ero una persona nuova, la persona che sono oggi, e non
lo sarei senza di te. Io sono felice», ripetè,
più
lentamente, come per assicurarsi che afferrassi il concetto. Lo
guardavo in silenzio, le braccia abbandonate lungo i fianchi,
catturata. «Non hai paralizzato niente, hai dato un senso ad
una
vita che in quel momento non ne aveva più. Forse ne sarei
uscito
anche da solo, dopo molto tempo... Allora come adesso, io avevo una
famiglia, degli amici, e chissà quante altre persone ancora
avrei incontrato, e tutti loro avrebbero potuto darmi amore, amicizia,
comprensione o qualunque altro sentimento che un essere umano
è
in grado di provare, ma tu... tu mi hai dato molto di più:
la
possibilità di avere accanto una persona nella quale
rispecchiarmi, e che io potessi rispecchiare; che mi faccia sentire
completo, e che io riesco a completare; che mi capisca sempre e
comunque, anche quando nemmeno io riesco a capire me stesso, e che io
riesco a comprendere sempre... anche quando lei non sa capire se stessa»,
aggiunse in un sussurro leggero, a volte talmente bassa che quasi
dubitai di aver sentito bene. Arrossii e fui
felice che la luce non fosse sufficiente a mostrare il mio stupido,
inutile imbarazzo. «Questo non
è qualcosa che può essere spiegato facilmente.
Chiamala amicizia,
se vuoi... ma non so se le regole e le definizioni di questo mondo
possano davvero racchiudere quello che sento per te. E vorresti
scusarti per questo? No, Renesmee...». Sorrise, scuotendo
piano
la testa, come se avesse appena detto qualche assurdità. «Non posso
lasciartelo fare».
Scese
un silenzio
vibrante e carico di significanti che lasciai durare a lungo, ancora
presa dalle sue parole dolci, delicate, ma intense, pronunciate con
voce sommessa, sicura, che mi sembrava di ascoltare e riascoltare
all'infinito nella mia mente. Le accolsi lentamente e sentii nel
profondo quanto fossero autentiche e sincere. Mi sentii invadere da una
strana, piacevole, sensazione di quiete, e al tempo stesso da
un'incredibile stanchezza; all'improvviso ero esausta. Mi lasciai
cadere sul letto con un sospiro lento, portai le mani sul viso, chiusi
gli occhi per un attimo, li riaprii.
«Oddio, Jake, mi dispiace. Scusami», sussurrai,
scuotendo
la testa. «Ti ho fatto una scenata... un'altra»,
aggiunsi
in tono amaro. «Ma non è colpa tua. Niente di
tutto questo
è colpa tua. Scusami, ti prego».
Sollevai gli occhi per guardarlo e la sua espressione dolce mi
rasserenò. Gli sorrisi istintivamente e gli porsi una mano.
Jacob si avvicinò, la strinse con delicata
fermezza.
Restammo fermi per un po', uno accanto all'altra; io riflettevo sulla
frequenza con la quale mi comportavo in modo infantile e stupido con
lui e sulla sua pazienza, che sembrava infinita, ma ero così
spossata che ben presto mi lasciai scivolare all'indietro e mi allungai
sulla coperta con un sospiro.
«E comunque, per la cronaca... non ho rinunciato al
college», riprese Jake dopo qualche minuto di silenzio
profondo.
Aprii gli occhi, sorpresa. A giudicare dal tono della sua voce,
sembrava che sorridesse. Capii che qualunque cosa fosse sul punto di
dire non avrei dovuto prenderla sul serio. «Quando andrai ad
Harvard o in un'altra grande università, io ti
seguirò,
se vorrai».
«Harvard? Però... puntiamo in alto, eh»,
osservai, ironica.
«Be', è ad Harvard che vorresti andare da quando
eri
bambina, perchè tuo padre e Carlisle hanno studiato
lì. E
ci andrai».
Mentre parlava, si allungò sul letto, al mio fianco, e
pensai che probabilmente doveva essere stanco quanto me.
«Ma non sono affatto sicura che ci riuscirò. E poi
non
credo che tu sia abbastanza bravo per Harvard», aggiunsi in
tono
scherzoso.
Jacob afferrò al volo. «Poco male. Mentre tu studi
per
diventare un genio, io posso sempre guidare un taxi o vendere gelati
per le strade del campus».
Scoppiai a ridere d'istinto, sarebbe stato impossibile trattenersi. E
lasciarsi andare a una risata liberatoria mi fece sentire
improvvisamente molto più leggera, come se tutta la tensione
si
fosse sgonfiata.
«Billy ne sarà entusiasta! Avvertimi quando glielo
dirai, voglio esserci».
«Contaci».
Scese di nuovo il silenzio. Mi stiracchiai piano e mi girai sul fianco,
verso Jacob, sempre più rilassata. Il sonno si avvicinava
inesorabilmente e dubitavo di riuscire a tenerlo a bada ancora per
molto. Anzi, forse neanche per poco, pochissimo tempo. Soffocai un
piccolo sbadiglio, iniziavo a sentire le palpebre pesanti.
«Senti davvero tutto quello che hai detto?», chiesi
in un
sussurro quasi inconsapevole. Ormai ero nel dormiveglia e quella strana
domanda era sgorgata fuori da chissà dove, chissà
per
quale motivo, eppure mi parve che Jacob non fosse molto sorpreso.
«Tu lo
sai. Non hai bisogno di chiedermelo», rispose
in un sussurro.
Subito
prima di assecondare l'impulso irresistibile che mi invitava a chiudere
gli occhi, ebbi l'impressione che lui avesse girato la testa verso di
me e mi guardasse con una tenerezza tale che scivolai nell'incoscienza
con una incredibile sensazione di benessere e
serenità. Sì, sarei stata al sicuro, con il mio
licantropo.
«Sono
felice anch'io, Jake».
****
Fui
svegliata da un acciottolìo di tazze in cucina e un profumo
intenso e familiare. Caffè. Aprii gli occhi lentamente. Era
giorno, ma le imposte abbassate filtravano i raggi del sole lasciando
la camera nella penombra. Voltai la testa e scoprii che Jacob non era
più al mio fianco. Intuii dalle lenzuola e dalle coperte
aggrovigliate che la sera prima doveva essersi addormentato
lì.
Probabilmente era lui che preparava il caffè.
Restai immobile per qualche istante, riflettendo, chiedendomi se il
fatto che avessimo dormito insieme per una notte intera, nello stesso
letto, dopo tutto l'imbarazzo, le incomprensioni e gli strani eventi
che c'erano stati tra noi fosse un problema. Ma non riuscii a trovare
alcun motivo perchè dovesse essere considerato tale. Eravamo
soltanto due vecchi amici che avevano fatto le ore piccole ed erano
crollati prima di rendersene conto. Lui ed io lo sapevamo
benissimo e non era necessario che qualcun altro fosse informato di
questo episodio. A parte papà, ma ormai ero rassegnata, con
lui.
Mi stiracchiai con un respiro profondo. Mi sentivo incredibilmente
bene, fresca e riposata, come se avessi dormito per una settimana
intera. Da quanto tempo non mi svegliavo al mattino dopo un
incubo tra urla e lenzuola gettate in aria, con le occhiaie, i
capelli arruffati e il viso cadaverico?
Stavo per alzarmi, un sorriso soddisfatto che andava da orecchio a
orecchio, quando sentii il cigolìo della sedia a rotelle di
Billy che avanzava lungo il corridoio. La porta della stanza era
accostata, quindi non poteva vedermi, e forse credette che stessi
ancora dormendo. Proseguì ed entrò nella cucina.
«Buongiorno, figliolo», disse, con la sua solita
voce tranquilla e profonda.
«Giorno», rispose Jacob, impegnato ad armeggiare
con qualcosa.
«Come va?».
Ero sul punto di scendere dal letto, ma mi bloccai immediatamente.
Conoscevo quel tono. Era il tono perfettamente normale che Billy
usava quando stava covando qualcosa. Senza muovermi di un centimetro
per non fare rumore, restai in ascolto.
Non sapevo se anche Jake avesse colto il sottinteso nella domanda del
padre, perchè rispose come se non ci fosse nulla di strano.
O
forse fece finta di nulla. «Bene. Una tazza di
caffè?».
«Sì, grazie».
Per un po' nessuno dei due disse una parola. Riuscivo ad immaginare
senza difficoltà Billy seduto con la sua tazza in mano e gli
occhi fissi sul figlio, ma Jacob? Che espressione aveva Jacob?
Poi Billy parlò di nuovo, sempre con quello stesso tono
apparentemente sereno. «Ieri sera Renesmee è
arrivata
piuttosto tardi, vero?».
«Sì, ha cenato da Charlie».
«Lo so. Mi ha telefonato prima che andassi a letto, voleva...
fare due chiacchiere. Mi ha detto che Renesmee stava arrivando, ma io
già lo sapevo, naturalmente».
Jacob non disse nulla. Ero perplessa, confusa e vagamente agitata,
sebbene non sapessi dire per quale motivo. Cosa aveva Billy? Parlava
come se alludesse a qualcos'altro.
«Che avete fatto?».
«Il solito. Abbiamo parlato un po'».
«È stata una bella serata?».
«Sì, ma Renesmee era stanca, è andata a
letto quasi subito».
Ci fu una pausa. Io aspettavo, ansiosa, sospesa, il cuore che batteva
con forza, pregando che Jake non se ne accorgesse o facesse finta di
non sentirlo.
«Dorme ancora?», aggiunse Billy.
«Sì».
La risposta del mio amico suonò secca come uno schiaffo.
Ebbi la
sensazione che qualcosa lo infastidisse e che fosse sulla difensiva. Ma
cosa?
Quanto avrei voluto poterli osservare senza essere vista a mia volta,
senza dover essere presente.
«Jacob», continuò suo padre dopo un
lungo silenzio.
«Che c'è?».
«Stamattina mi sono alzato presto, prima del solito. Vi ho
visti».
Trattenni a stento un sussulto e un sospiro di meraviglia. Accidenti.
«E allora? Abbiamo dormito, tutto qui. Non è la
prima volta che succede».
«Però le cose sono cambiate, adesso. Renesmee
è una ragazza. Praticamente è un'adulta,
ormai».
Non potevo credere a quello che sentivo. Pensai di pizzicarmi da sola
per essere certa che non stessi sognando quell'assurda conversazione.
Ma cosa credeva Billy? Che io e Jacob... Era impazzito, forse? Come
poteva pensare una cosa del genere? Come?
«Davvero? Non l'avevo notato», fu l'ironico
commento di Jacob.
Suo padre sembrò non farci caso. «Non è
più
una bambina, ma è ancora... molto giovane. E
ingenua»,
continuò, la voce lenta e grave. «Se lei non si
rende
conto del significato che possono avere certe cose... non soltanto per
voi due, ma anche agli occhi degli altri... se non è in
grado di
tracciare un confine... dovrai farlo tu».
Cadde di nuovo un lungo silenzio e Jake aspettò a lungo
prima di romperlo.
«Sì, lo so», mormorò, a voce
così
bassa che riuscii ad udirlo a stento. «Ci sto provando. Ma...
non
so che cosa sia giusto fare».
Anche Billy riflettè per un po' prima di rispondere. Quando
parlò, il suo tono era cambiato, improvvisamente
più
dolce e carico di affettuosa preoccupazione, e mi domandai con ansia
cosa avesse letto, nella voce o nello sguardo di suo figlio, capace di
generare quel cambiamento.
«Lo capisco, figliolo, credimi. Troverete la strada giusta,
un
giorno. E se tu hai questa sensazione, pensa cosa deve provare lei. Ma
state attenti, d'accordo?».
Jacob non rispose e nella casa tornò il silenzio. Rimasi
sdraiata a letto ancora per un bel po', gli occhi spalancati fissi sul
soffitto, a riflettere.
Note.
1. Qui
la canzone. La adoro, quando la ascolto mi commuovo sempre... vai a
capire perchè xd.
Spazio autrice.
Salve, lettori e lettrici! Forse avrete notato che oggi è
giovedì... infatti ho dovuto far slittare l'aggiornamento di
un
giorno perchè ieri avevo un esame all'università.
Scusate, ma sembra che di tanto in tanto debba verificarsi un
imprevisto del genere xd.
Ok, veniamo al capitolo. Trovo che qui, con la chiacchierata tra
Jacob e Renesmee a proposito dell'imprinting, i suoi
significati e le sue conseguenze,
si arrivi ad una svolta per la storia. Finalmente Renesmee inizia a
riconciliarsi davvero con l'idea dell'imprinting, non si limita a
tollerarlo e far finta che non ci sia, che esista soltanto la sua
amicizia con Jacob, come alla fine di Midnight star,
ma guardandolo attraverso gli occhi di Jacob si avvia ad accettarlo sul
serio e a considerarlo non più un problema da gestire, o
addirittura qualcosa che intrappola lei e il suo migliore amico,
bensì ciò a cui deve il rapporto più
importante
della sua vita. Quindi, qualcosa di decisamente positivo. In secondo
luogo, riusciamo a capire meglio i suoi sentimenti nei confronti della
situazione di Seth e Jas: gran parte della rabbia e delle paure legate
alla sua amica, infatti, sono dovute al fatto che Renesmee vede se
stessa e la situazione un po' complicata che vive con Jacob riflesse in
Jas e nel suo rapporto con Seth. Renesmee sente di essere prigioniera
dell'imprinting insieme a Jacob, teme che le loro vite non abbiano un
andamento "normale" a causa della forza che li tiene uniti, non sa come
gestire l'attrazione che ha iniziato a provare per lui, ha paura di
perderlo e di alterare la loro amicizia se non riuscirà a
controllare queste nuove sensazioni, ed è il timore che un
giorno la sua amica possa trovarsi a sua volta intrappolata in una
situazione del genere, insieme ai rischi concreti derivanti da un
coinvolgimento di Jas nel mondo sovrannaturale, che l'ha resa
così ostile verso l'imprinting di Seth. Ma come sempre
parlare
con Jacob le chiarisce le idee e forse da questo momento in poi
riuscirà a vedere la propria situazione e quella di Jas in
modo
diverso.
Spero che tutto quello che ho cercato di trasmettere e di spiegare sia
emerso dal capitolo con sufficiente chiarezza e che ora il
comportamento e i pensieri di Renesmee vi sembrino giustificati. Molte
di voi hanno espresso dubbi in passato, ma naturalmente non potevo
spiegare tutto questo senza spoilerare un intero tassello della storia;
Renesmee doveva avere il tempo di arrivarci da sola, e voi insieme a
lei. Comunque sia, per qualunque domanda o chiarimento chiedete pure.
Ok, è tutto. Appuntamento al 14 agosto con il prossimo
capitolo,
salvo imprevisti causati dalle vacanze xd. Nel caso fossi via e non
riuscissi ad aggiornare il 14, come sempre l'aggiornamento è
rimandato al mercoledì successivo, ma spero di non avere
problemi. Buone vacanze!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Hurricane ***
C 15
Capitolo 15
Hurricane
Welcome
to the inner workings of my mind
So
dark and foul I can't disguise
Can't
disguise
Nights
like this
I
become afraid
Of
the darkness in my heart
Hurricane.
Hurricane, Ms. Mr.¹
Il
destino mescola le carte e noi giochiamo.
Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena
Una mattina, qualche
giorno dopo la notte trascorsa a casa di Jacob, ero a scuola e
stavo andando verso la mensa in compagnia di Holly e Scott. La
campanella dell'intervallo era suonata da poco, ma noi tre avevamo
lasciato di corsa il laboratorio di chimica per evitare che il
professore ci assoldasse per pulire le provette e mettere tutto in
ordine. Camminavamo lentamente lungo il corridoio affollato e nel
frattempo Holly raccontava le ultime follie della Campbell, la
professoressa fuori di testa che insegnava teatro e tormentava i poveri
studenti della Forks High con le sue stupide iniziative, per le quali
nessuno a parte lei provava il benchè minimo interesse, e i
suoi
orrendi caftani dai mille colori.
«Sapete cosa ho appena sentito? Che sta mettendo su un
laboratorio
di ceramica e che stamattina è andata in giro per tutta la
scuola in cerca di partecipanti», raccontava Holly con
un'espressione eloquentissima sul viso. «Mentre andavo a
matematica
l'ho vista venire verso di me e ho avuto il terrore che mi incastrasse!
Per fortuna mi sono nascosta all'ultimo secondo nel bagno delle ragazze
e credo
che non mi abbia
vista». Proruppe in un gran sospiro teatrale e scosse la
testa con
aria esasperata. «Un laboratorio di ceramica, ma vi rendete
conto?
Ceramica! È la cosa più barbosa che abbia mai
sentito.
Una simile attività può interessare soltanto a un
dinosauro».
«Be', questo spiega perchè interessa a
lei», osservò Scott ed io e Holly ridacchiamo.
«L'hai scampata bella», concordai, prendendo Holly
sotto braccio
e lanciandole uno sguardo di intesa. «La Campbell ci
dà il
tormento, due volte su tre siamo noi quelle che finiscono intrappolate
in uno dei suoi stupidi progetti...».
«Già! E sai una cosa? Penso che sia tutta colpa
tua».
«Mia?».
Lei annuì, seria e compunta. «Sì,
perchè
è la tua aura di secchiona senza speranza che attira i
professori e dal momento che io e le altre siamo tue amiche circonda
anche noi, capisci? Ecco perchè la Campbell ci
perseguita».
Annuii a mia volta, ostentando la massima serietà.
«Ah, sì, certo. Questo spiega tutto».
«Non siete le uniche, ragazze», intervenne Scott.
Guardava
davanti a sè con aria pensierosa, seguendo il
filo dei propri pensieri. «Ho sentito dire che la Campbell ha
provato ad incastrare anche altra gente. Pare che sia andata a cercare
adesioni in un paio di classi dell'ultimo anno, dicendo che il
laboratorio avrebbe dato punti per il college», si interruppe
un
istante per lanciarci un'occhiata significativa, e noi
ricambiammo con espressione sprezzante, «ma le
è andata male perchè... be', ho sentito che
qualcuno...
non so cosa le abbia risposto esattamente, ma la Campbell è
quasi svenuta». Non aggiunse altro, all'improvviso sembrava
in
imbarazzo e fissava il pavimento con aria seria, sebbene si sforzasse
di trattenere
una risata.
Holly era deliziata. «Davvero? Cosa le hanno risposto? Voglio
saperlo!».
«Niente di piacevole, penso», disse Scott con gli
occhi che gli brillavano. «Ma non lo so
esattamente».
«Uffa! Almeno sai chi è stato?».
«Già, chi è stato?», domandai
a mia volta,
incuriosita. Perchè di colpo sembrava che Scott non volesse
più parlare dell'argomento?
«Non lo so, ragazze».
«Non è vero, lo sai», ribattè
Holly. Lo guardava
dritto in faccia con aria determinata. Scott non sarebbe riuscito a
fargliela. «Perchè non vuoi dirlo? Ok,
d'accordo»,
sbottò, irritata, voltando la testa di scatto. «Lo
chiederò a Jas. Lei sa sempre tutto».
Annuii. «Sì, Jas lo saprà senz'altro.
Ma come fa? È
impossibile starle dietro», mormorai, meditabonda.
Scott sbuffò e scosse la testa come se disapprovasse la
nostra
curiosità. «E va bene, se volete saperlo ve lo
dico».
Tacque per un attimo, mi lanciò uno sguardo rapido e alla
fine
parlò. «È stato
Alex».
L'espressione curiosa si congelò sul mio viso nel giro
di un secondo. Lo guardai in silenzio, a lungo incapace di spiccicare
una parola.
«Sul serio? Sul serio Alex ha fatto questo?»,
mormorai.
Istintivamente guardai Holly: aveva un'espressione per
metà stupita e per metà di sincero rammarico. Se
avesse
anche solo sospettato di chi stava parlando Scott, non lo avrebbe
costretto a tirare fuori quel nome per niente al mondo, ne ero certa.
«Sì», rispose Scott. Era visibilmente a
disagio e adesso
cercava di evitare il mio sguardo. «Cioè, l'ho
sentito dire,
ma... non so se è vero. Potrebbe essere una balla».
«Certo», confermò Holly, annuendo con
aria decisa.
Scrollò i lunghi capelli color mogano che portava sempre
sciolti sulle spalle e li gettò all'indietro. La sua mano
strinse affettuosamente il mio braccio. «Ha ragione,
Renesmee,
magari non è vero. Sai quante sciocchezze circolano negli
spogliatoi dei ragazzi».
Sentivo che nessuno dei due credeva davvero che fosse una balla, ma
apprezzai silenziosamente il loro tentativo di tirarmi su e mi sforzai
di avere un'aria tranquilla. Qualunque cosa Alex avesse combinato
sarebbe stata in linea con il suo comportamento degli
ultimi tempi. Dal giorno in cui avevamo chiuso in modo definitivo, alla
riserva, quando lui e Jacob erano stati a un passo dall'uccidersi a
vicenda, non aveva più tentato di avvicinarsi a me o di
parlarmi. Se per caso ci incrociavamo nei corridoi o in mensa, non mi
rivolgeva la parola, non mi guardava e tirava dritto con fare spavaldo
come se fossi parte del muro. Sembrava che volesse cancellarmi
dalla sua esistenza. E anche se all'inizio la ferita causata da questo
comportamento era stata
profonda, con il tempo avevo capito che era la cosa migliore. In
fondo, avevo desiderato proprio questo, che mi dimenticasse. Eppure non
mi sentivo sollevata, perchè
Alex non stava bene, per niente.
Da alcune settimane aveva seri problemi a scuola: mi giungevano
continuamente voci di lezioni saltate, infrazioni alle regole e
relative punizioni; una volta aveva preso parte a una rissa nel cortile
della scuola e un'altra volta si era fatto beccare dal
preside mentre usciva da scuola prima dell'orario con una birra in una
mano e una sigaretta nell'altra. Non potevo sapere esattamente come
andassero le cose in famiglia, ma non era tanto difficile immaginare le
reazioni di Julie davanti a un evidente recupero delle sue pessime
abitudini del passato.
Alex stava dando un esempio concreto di quel
comportamento instabile e pericoloso per se stesso e per gli altri che
due anni prima gli aveva creato tanti problemi. Sembrava che non fosse
in grado di affrontare una perdita senza reagire in quel modo: ostentare la
più totale
noncuranza verso il proprio stesso dolore, voltare le spalle al
mondo e
mandare al diavolo tutto e tutti. E non potevo fare a meno di pensare
a quanta fragilità si celasse dietro il solito atteggiamento
spavaldo e sicuro di cui adesso vedevo le estreme
conseguenze. Fingeva che niente potesse toccarlo e non si rendeva conto
di quanto profondamente mostrasse le proprie ferite, in quel modo,
invece di nasconderle.
All'inizio Holly e Jas mi avevano tenuta aggiornata su Alex e tutto
quello che combinava con il loro telegiornale quotidiano di
pettegolezzi, poi avevano capito quanto mi faceva male ascoltarle e
avevano smesso. Ma la nostra scuola era troppo piccola e troppo
tranquilla perchè storie così gustose potessero
passare
inosservate e prima o poi, in un modo o in un altro, venivo a sapere
sempre tutto, che lo volessi o meno. E ogni volta provavo una fitta al
cuore.
Ero continuamente assillata dal dubbio di aver commesso un
errore, l'ennesimo, troncando la nostra relazione. Quando lo vedevo nei
corridoi, di tanto in tanto, e cercavo di incrociare il suo sguardo per
stabilire un contatto, mentre lui guardava con ostinazione ovunque
tranne che verso di me, provavo l'impulso fortissimo di tornare da lui,
chiedergli scusa, baciarlo e ricominciare da capo. Sarebbe stato
così semplice porre fine a tutto questo. Semplice, eppure
dannatamente inutile. La nostra felicità avrebbe sempre
avuto i
giorni contati: gli stessi problemi che mi avevano indotta a lasciarlo
adesso si sarebbero ripresentati, identici, tra un anno, o due, o
cinque, sempre che la sua vicinanza al mondo sovrannaturale non lo
uccidesse prima, e avrei dovuto lasciarlo comunque. Per di
più,
i miei incubi su di lui non erano affatto cessati e ripensare a quelle
immagini orribili costituiva un ottimo incentivo a non cedere ai
desideri e a tenermi lontana da lui. Mi aggrappavo alla speranza che
quelle settimane turbolente fossero soltanto una fase, che Alex
smaltisse il dolore come preferiva e andasse avanti.
«Sì», mormorai, pensierosa, in risposta
alle parole di
Holly. Mi riscossi, sforzandomi di non apparire troppo turbata.
«Sì, probabilmente non è
vero».
«Certo, e probabilmente Babbo Natale si sta preparando a
consegnare
i regali con la slitta e le renne! Andiamo, Renesmee, credi proprio a
qualunque cosa?», esclamò una voce divertita alle
nostre
spalle.
Caroline Johnson ci superò camminando a passo svelto, un
sorriso
odioso sul volto ben truccato e la solita banda di cheerleader
ridacchianti e starnazzanti alle calcagna. Chissà da
quanto camminavano dietro di noi per ascoltare.
Holly le rivolse un'occhiata così gelida che avrebbe
tramortito
anche un sasso. «Come, prego? Hai detto qualcosa? Mi sembra
di
averti sentito parlare, ma non capisco la lingua delle oche,
scusami».
«Cerchi di fare la spiritosa per compensare la tua mancanza
di
attrazioni fisiche, Holly Matthews?», rispose Susan, una
delle
migliori amiche di Caroline, una ragazza minuta e diafana con una gran
massa di capelli rossi e ricci, il viso lentigginoso e un nasino
all'insù che le dava sempre un'aria da aristocratica offesa.
La mia amica stava per ribattere a tono, infuriata, ma a quel punto
intervenni. Sapevo che l'autocontrollo non era uno dei suoi pregi
maggiori, ma più se la prendeva, più quelle
lì
avrebbero avuto soddisfazione.
«Lascia perdere, Holly», dissi con tono tranquillo,
continuando a
tenerla saldamente sottobraccio, «non vale la pena di
rispondere».
«Quello che non capisco io,
invece», riprese Caroline, guardandomi con occhi
scintillanti,
«è come hai potuto lasciarti sfuggire Alex Hayden!
Cosa
è successo esattamente è un mistero, vero,
ragazze?»,
chiese, rivolta alle sue amiche. «Ma io mi sono fatta la mia
idea
e
sai che ti dico? Che non devi prendertela troppo».
Scrollò
le
spalle minute fasciate da una golf verde chiaro, il suo colore
preferito. «Dopotutto, chissà quante esperienze
avrà
avuto prima di te... Non è colpa tua se non eri abbastanza
per
lui».
Avevamo smesso di camminare, ormai, ed io la fissavo con astio profondo
mentre intorno a noi divampavano le risatine del suo gruppetto.
«Credo che tu abbia perso il cervello da qualche
parte», risposi,
la voce fredda e a stento controllata. «O forse non ne hai
mai
avuto uno? Chissà». Alzai le spalle con fare
casuale, come se
mi stessi davvero ponendo quella domanda. Accanto a me sentii Scott
scoppiare a ridere di gusto e Holly strinse appena la mia mano nella
sua per farmi capire che approvava. «Andiamo»,
aggiunsi a bassa
voce, senza smettere di fissare Caroline con aria di sfida.
Mi allontanai di qualche passo, tirandomi dietro Holly e con Scott alle
nostre spalle, quando sentii ancora la sua voce.
«Non preoccuparti per Alex, Renesmee... Ti assicuro che
sarà
consolato al più presto. Quando me lo porterò a
letto
prometto di chiamarti e raccontarti tutto, d'accordo?».
E rise allegramente, entusiasta della propria sagacia, circondata dai
risolini e dai commenti soddisfatti delle amiche. Poi non riuscii a
capire esattamente cosa stava succedendo per qualche secondo. Sentii il
braccio di Holly sfilarsi da sotto il mio e la sua voce che gridava:
«Brutta stronza!». Un attimo dopo non era
più al mio
fianco, ma si era lanciata contro Caroline, sbraitando insulti e
agitando le braccia per colpirla, i lunghi capelli scuri che le
saettavano intorno come una frusta.
Esplose una gran confusione. Caroline strillava e si dibatteva per
sfuggire alla furia di Holly, che le aveva afferrato una ciocca di
capelli biondi, mentre le sue amiche indietreggiavano tra urla ed
esclamazioni di orrore. La folla che occupava il corridoio
sembrò ritrarsi con un boato di sorpresa creando uno spazio
vuoto intorno alle due ragazze, come per godersi meglio lo spettacolo.
Caroline inciampò e cadde sul pavimento con uno strillo
acuto,
trascinandosi dietro Susan, ed Holly le franò addosso senza
smettere di tirarle i capelli, poi Scott fece un balzo in avanti
comparendo dal nulla, la prese per la vita e dopo una breve lotta
riuscì a strapparla via, urlando qualcosa impossibile da
sentire
al di sopra del frastuono della folla e delle grida isteriche di
Caroline.
Mi precipitai ad aiutare Scott e insieme trascinammo Holly il
più lontano possibile da Caroline, mentre lei si agitava per
cercare di liberarsi e raggiungerla di nuovo, completamente fuori di
sè, e Caroline strillava a pieni polmoni.
«Pazza! Pazza! Sei una pazza da legare!».
Mi resi conto con orrore che Holly stringeva in mano una manciata di
capelli biondi strappati, e per quanto la situazione fosse drammatica,
mi venne improvvisamente da ridere e faticai a trattenermi.
«Lasciatemi! Lasciatemi! Scott, mollami!»,
sbraitava la
mia amica, dibattendosi con determinazione. «Le faccio vedere
io
a quella grandissima... sgualdrina...
Ti pentirai di aver aperto bocca! Lasciatemi!».
«Ma insomma, che sta succedendo qui?».
Per completare il quadro, il preside Green era appena piombato su di
noi come un falco pronto a beccare a sangue qualcuno. Aveva gli occhi
strabuzzati e le narici così dilatate per la rabbia e lo
sconcerto che non mi sarei stupita affatto se avesse cominciato a
sbuffare fumo; sembrava un toro scalpitante nell'arena.
Spostò
gli occhi da Caroline, ancora sul pavimento, piangente e con le mani
tra i capelli come per verificare i danni, a Susan che cercava di
rialzarsi, barcollando, con seria difficoltà,
perchè
tutti i capelli le erano finiti sul viso, ad Holly, agitata e
scarmigliata, a me e a Scott, che avevamo praticamente ingaggiato un
corpo a corpo con lei per trattenerla. Lentamente capì. Si
gonfiò come un palloncino e di colpo esplose.
«Una rissa! Nel corridoio! Signorina Matthews! Signorina
Johnson! Vergognoso! Inammissibile! Inaudito!».
Era talmente furioso, con il viso rosso e congestionato, che gli
mancava il fiato e gridava a scatti come un robot mal funzionante.
«E anche lei, signorina Cullen! E lei, signor Green! Ma come
osate? Come osate?
Inammissibile!».
«Lei
mi ha aggredito senza nessun motivo! Io non ho fatto
nulla!», strillò Caroline, sfoggiando la sua
migliore
espressione da vittima innocente e puntando un dito accusatore contro
Holly.
Lei, che alla comparsa del preside aveva smesso di agitarsi, trattenne
rumorosamente il fiato, indignata, e si sarebbe scagliata di nuovo
contro la sua avversaria se Scott, che la teneva saldamente per la
vita, non l'avesse trattenuta.
«Sta' zitta! Sta' zitta, lurida bugiarda! Ti strappo tutti i
capelli!».
«Basta! Basta!»,
ruggì il preside, ormai paonazzo. «Non intendo
tollerare
simili comportamenti nella mia scuola! Punizione! Tutti e
quattro!».
Scott imprecò a bassa voce.
«No, signore, la prego... Loro non c'entrano»,
ansimò Holly, angosciata. «È colpa
mia...».
«Non mi interessa! Non voglio sentire altro! Non ho mai visto
nulla del genere! Filate a pranzo! Tutti quanti!».
Il preside continuò a sbraitare a scatti agitando il pugno
chiuso finchè io e Scott non riuscimmo ad entrare nella
mensa,
che era proprio davanti a noi, attraversando la folla che iniziava a
diradarsi rapidamente e tirandoci dietro Holly. Mi sembrava di essere
circondata da mormorii eccitati e risatine e di avere gli sguardi di
tutti puntati addosso; perciò tenni gli occhi ben fissi a
terra,
una mano stretta saldamente intorno al braccio di Holly, fino al nostro
solito tavolo, dove sedemmo tutti e tre vicini. Dovevamo avere un'aria
strana, perchè gli altri ci fissavano a bocca aperta come se
avessero visto un fantasma.
«Che vi succede?», esclamò Maggie,
scandagliandoci
uno dopo l'altro con un cipiglio da poliziotto. «Abbiamo
sentito
un gran casino».
«Be'...». Cercai di spiegarle l'accaduto, ma non
riuscii a
tirare fuori una parola. Ero ancora sotto shock, probabilmente.
«Holly, che hai fatto ai capelli?»,
indagò Jas, lanciandole un'occhiata strana.
Holly sussultò e si toccò i capelli arruffati e
in
disordine; era la prima volta, da quando la conoscevo, che la vedevo in
quelle condizioni. «Perchè? Cos'hanno che non
va?».
Si sporse per afferrare un coltello dal vassoio di Jas, seduta di
fronte a lei, e si specchiò nella lama.
«Oddio!»,
sbottò con voce soffocata. «Sono un disastro!
Paul, non mi
guardare!». Subito prese a sistemarli con gesti frenetici.
«Si può sapere che è
successo?», intervenne
Paul, ignorando la richiesta della sua ragazza.
Finalmente ci pensò Scott a rispondere. «Holly ha
fatto a
botte con Caroline», disse in tono piatto e incolore.
Tutti trattennero il fiato contemporaneamente, come se si fossero messi
d'accordo.
«Che cosa?», esalò Jas, stupefatta.
«E le ha strappato un bel po' di capelli», aggiunse
Scott, sempre con lo stesso tono.
«Che cosa?».
«Oh, insomma! Non sono capelli suoi, ha le
extensions!»,
esclamò Holly, ancora impegnata a rimettersi in sesto.
Maggie rise, con grande sorpresa di tutti. «Davvero? Be', hai
fatto bene. Era ora che qualcuno le desse una lezione».
Holly lanciò un'occhiata esitante tutt'intorno, a disagio,
forse
per saggiare le reazioni di ciascuno di noi. Arrossì un
poco.
«Io... non volevo, ma lei... mi ha provocata...».
«Quando mai Caroline non provoca qualcuno»,
commentò
Tom, sotto voce. Era seduto accanto a Jas e stranamente aveva un'aria
molto seria,
come se quella faccenda lo preoccupasse davvero.
Sbuffai pesantemente. «No, non ha provocato te, ha provocato me
e tu hai fatto questo per difendermi», intervenni, rivolta a
Holly. «Non avresti dovuto. Ti ringrazio di avermi difesa, ma
non
avresti dovuto».
Lei scrollò la testa, ancora imbarazzata. «Non
è
stato solo per questo. Sai che non la sopporto, lei e le sue amiche
cerebrolese».
«Non dovevi farlo comunque. Renesmee ha ragione»,
osservò Danielle, con calma. Lei e Tom erano gli unici, al
tavolo, che non sembravano minimamente divertiti da quella storia.
Erano soltanto preoccupati. «Potevi finire nei
guai».
Inaspettatamente, guardò Jas con aria colpevole e non
aggiunse
altro.
«Siamo già finiti nei guai. Tutti e
tre», la
informò Scott. «Il preside ci ha visto e ci ha
messo tutti in
punizione, compresa Caroline».
«Maledizione», commentò Paul, alzando le
sopracciglia.
Holly sospirò. «Mi dispiace che siate stati
coinvolti
anche voi due. Dovevate lasciarmi stare come vi avevo detto».
«Certo, così l'avresti uccisa e poi ti sarebbe
toccato ben
altro che il doposcuola», ribattei. «Non dire
sciocchezze... Tanto, prima o poi avrei dovuto sperimentare una
punizione», aggiunsi con un piccolo sorriso di intesa verso
di lei.
«Ah, giusto! È
la tua prima volta», esclamò Paul. Mi
guardò con
aria furba e un sorriso sghembo che gli tagliava il viso.
«Allora, com'è passare da studentessa modello a
pericolosa
delinquente?», domandò con tono inquisitorio
adatto ad un
reporter che conduceva un'intervista.
«Chiudi il becco, Scott», borbottai, scrollando il
capo.
Per un po' restammo in silenzio. I vassoi erano quasi intatti e nessuno
mangiava, eravamo tutti troppo presi a rimuginare sull'accaduto. Poi,
all'improvviso, Jas incrociò le braccia con un sospiro e
parlò.
«Be', oggi è davvero una pessima giornata. Credo
che io e Tom vi faremo compagnia in punizione».
Sollevai la testa e la fissai, sorpresa. «Cosa? E
perchè?».
Lei lanciò un'occhiata di traverso a Tom prima di
rispondere,
esitando leggermente. «Una sciocchezza. Abbiamo... avuto una
piccola discussione mentre facevamo la fila, la Campbell passava di
qui, ci ha sentiti e se
l'è presa», raccontò con fare
disinvolto, come se
non desse tanto peso alla faccenda. «Vecchia rompiscatole. Se
avesse
una vita sua non penserebbe così tanto a quello che fanno
gli
altri», aggiunse, mugugnando, dopo un attimo di pausa.
L'atmosfera sembrò raffreddarsi lentamente e mi accorsi che
gli
altri si erano irrigiditi, come se qualcosa, nelle parole di Jas, non
tornasse. Ero confusa, ma poi scorsi Tom lanciarle uno sguardo talmente
gelido che ne rimasi stupita. E all'improvviso capii che la loro non
era
stata una piccola discussione.
****
L'ultima ora, io,
Tom, Jas, Danielle e Paul avevamo letteratura
francese insieme. Quando la lezione terminò, mi avviai con
Tom
e Jas verso l'aula delle punizioni nel silenzio più
assoluto.
Per la verità non ci aspettava niente di terribile, soltanto
tre
ora di noia mortale seduti in un'aula senza nulla da fare
mentre
tutti gli altri tornavamo allegramente a casa, ma a giudicare dalle
facce depresse di Tom e Jas sembrava che fossimo diretti nel braccio
della morte. Ancora non sapevo cosa li aveva fatti litigare, a pranzo,
Jas non ne aveva fatto parola e io non avevo chiesto nulla, ma negli
ultimi tempi le loro discussioni si incentravano sempre su vere e
proprie sciocchezze: se Jas chiamava Tom al telefono con dieci minuti
di ritardo o se Tom perdeva una penna che Jas gli aveva prestato, erano
capaci di strillarsi contro fino a spaccare i propri timpani e quelli
di chiunque capitasse nelle vicinanze, come se fosse accaduto qualcosa
di irreparabile ogni volta. A me sembrava che l'unica cosa irreparabile
fosse la loro relazione.
Tom spalancò la porta dell'aula dove si tenevano i
doposcuola
punitivi e fece entrare me e Jas. Caroline, Scott e un ragazzo
dell'ultimo anno che mi pareva si chiamasse John, il classico bulletto
muscoloso dall'aria molto poco intelligente, erano seduti nei banchi,
sparpagliati qua e là e ben lontani l'uno dall'altro. Solo
Scott
ci rivolse un mesto cenno di saluto. Il bulletto ci lanciò
uno
sguardo annoiato e nient'altro, tutto preso dalla musica che ascoltava
con le cuffiette, mentre Caroline guardò ostinatamente
davanti a
sè con il naso all'aria e un'espressione di profondo
disprezzo.
Jas fece un sospiro pesante, sedette accanto a Scott ed io e Tom la
seguimmo con aria svogliata. Tom aspettò che io
occupassi
il banco vicino a quello della mia amica prima di sedersi, in modo da
trovarsi accanto a me e non a lei. Sospirai a mia volta e risposi con
un'alzata di spalle all'occhiata interrogativa di Jas. Ormai ero
così stanca di quella situazione da non avere più
l'energia di mettermi in mezzo e darmi da fare per aiutarli. Che
facessero come volevano, pensai, fissando torva la superficie
del banco, ricoperta di scritte e disegni volgari.
Un paio di minuti più tardi la porta si aprì ed
entrò Holly. Subito intercettò Caroline e la
guardò con aria così minacciosa, mentre l'altra
ricambiava con uno sguardo truce, che quando sedette a un banco vuoto e
decisamente troppo vicino a Caroline, Scott si alzò,
allarmato,
e si spostò ad un altro banco che si trovava esattamente tra
loro due, come per fare da isolante. Jas scosse appena la testa,
abbattuta, mentre Tom inarcò un sopracciglio
ed ero certa che pensasse che Scott aveva del fegato a piazzarsi tra
quelle due, rischiando che ci andassero di mezzo i suoi, di capelli.
Trascorsero altri cinque minuti di silenzio di tomba. Il bulletto
ascoltava la sua musica con la testa che andava su e giù,
Caroline aveva tirato fuori il rimmel e uno specchietto, Tom
scarabocchiava sul banco, Jas guardava fuori dalla finestra con aria
assente, Holly continuava a sprecare energie lanciando occhiate astiose
in direzione di Caroline e nel frattempo si passava una mano tra i
capelli con movimenti lenti e regolari, come per controllare che
fossero a posto, e Scott
giocherellava con le fibbie della sua cartella e di tanto in tanto
guardava Holly con espressione preoccupata. Io avevo tirato fuori il
libro di francese e cercavo di leggere, ma non riuscivo assolutamente a
concentrarmi, nonostante tutto quel silenzio. Stavo giusto pensando di
fare un sonnellino, quando la porta fu spalancata di nuovo e con una
certa veemenza. Voltai la testa e il cuore mi balzò
in gola per la sopresa. Era Alex, la cartella a tracolla su una spalla
e il giubbotto sull'altra, i capelli un po' scompigliati, come se si
fosse appena alzato dal letto, e l'aria annoiata. Il suo sguardo
percorse l'aula lentamente, esaminando i presenti con blando interesse,
e infine si soffermò su di me.
«Wow», commentò a bassa voce, senza la
minima
traccia di una qualunque emozione nel tono o sul viso,
«questo
sì che è interessante».
Note.
1. Link.
Spazio autrice.
Ciao a tutti, sono tornata! Allora, per prima cosa mi dispiace di non
aver aggiornato mercoledì, ma purtroppo non ho avuto
Internet per qualche giorno e il problema si è risolto solo
stamattina. Ultimamente sono proprio perseguitata da una specie di
maledizione degli aggiornamenti xd, ma per il prossimo prometto massima
puntualità, se Internet non mi fa scherzi.
Veniamo al capitolo! Come avrete notato, gli eventi non fanno grandi
passi avanti, è un capitolo di passaggio, ma in
realtà qualcosina succede. Innanzitutto veniamo a sapere
qualcosa di interessante su quello che sta combinando Alex ultimamente,
come ha preso la rottura con Renesmee e qual è la sua
situazione emotiva. Scopriamo anche quali sono i sentimenti di Renesmee
al riguardo: non è affatto sicura che averlo lasciato sia
stata la scelta giusta e l'unico motivo per cui non torna sui suoi
passi è che l'alternativa, cioè tornare con Alex,
rischia di essere soltanto più problematica della situazione
in cui si trovano adesso. Tra le due opzioni continua a scegliere
quella che le sembra più giusta per il futuro di Alex, ma
naturalmente ci sta male. E non è detto che riesca a
resistere! xd
In effetti questo capitolo è una sorta di premessa del
capitolo seguente, che invece sarà ricco di avvenimenti. In
particolare, succederà qualcosa che imprimerà una
vera svolta alla storia. Dopo, nulla sarà più
come prima. Spero che siate pronti... aspetto le vostre recensioni per
sapere cosa ne pensate ;-). A proposito, come al solito ringrazio per
tutti i commenti che ricevo, appena avrò tempo
risponderò. Alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2371985
|