Quello che accadde durante le vacanze

di aelfgifu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Happy Birthday, Karl (Amburgo chiama Monaco) ***
Capitolo 2: *** Come acqua o come sabbia tra le dita ***
Capitolo 3: *** Entra in scena il ragazzo dal polso rotto ***
Capitolo 4: *** Febbre (I am mine) ***
Capitolo 5: *** I want to break free ***
Capitolo 6: *** Bad boy vs nerd girl ***
Capitolo 7: *** Intermezzo (sul lago di Starnberg e ritorno) ***
Capitolo 8: *** Stefan on the road, ovvero: da Malmö a Lund ***
Capitolo 9: *** Sotto il tiglio ***
Capitolo 10: *** C'era una volta ***
Capitolo 11: *** La scommessa ***
Capitolo 12: *** Fine delle vacanze ***
Capitolo 13: *** Skål! ***
Capitolo 14: *** Storia di Julia e di Alexander ***
Capitolo 15: *** Chiarimenti & confessioni ***
Capitolo 16: *** Alea iacta est ***
Capitolo 17: *** Epilogo. Ahia (Amburgo chiama Monaco) ***



Capitolo 1
*** Prologo. Happy Birthday, Karl (Amburgo chiama Monaco) ***


Buon compleanno (con un giorno di ritardo) al *mio* Karlchen... e un abbraccio alla nazionale tedesca di calcio (quella in carne e ossa), che ieri sera si è qualificata per le semifinali del Campionato del Mondo.

 

1. Happy Birthday, Karl (Amburgo chiama Monaco)

 

“Disgraziato, puzzone, bastardo, testa di c****, buon compleanno!” così esordisce Hermann al telefono, senza dire né ciao né come stai, nel suo solito modo rumoroso e sboccato.

“Ciao, idiota” risponde lui, tranquillissimo, mentre un piccolo sorriso gli si insinua nell’angolo della bocca. “Non hai dormito per l’ansia di farmi gli auguri?”

“Ahm” Kaltz esita “perché dici così?”

“Hermann, sono le sette e mezza di mattina” ride, stavolta apertamente, Karl.

“Le sette e mezza?!?” Hermann appare sinceramente stupito.

“Le sette e mezza di mattina” conferma Karl.

“Possibile? Così presto?” A Karl sembra di vedere il suo vecchio amico mentre si gratta la testa perplesso. “Ma io mi sono svegliato più di un’ora fa ed era già giorno, sono andato a correre, sono tornato a casa, mi sono buttato sotto la doccia e ho anche fatto colazione: davvero è così presto?”

“D’estate fa giorno presto”.

“Dici?”

“Dico”.

“Oh cavolo”.

“Grazie, comunque” sorride Karl. “Sei sempre il primo a ricordartene”.

“Eeeh...” Kaltz è imbarazzato, non sa mai come reagire quando Karl diventa gentile.

“Hm-hm...”

“Ma stavi dormendo?” chiede all’improvviso Hermann.

Karl non tenta neanche di soffocare la risatina di scherno che gli fuoriesce dalle labbra.

“Oddio, scusa!”

“No, no, ero sveglio... solo non mi sono ancora alzato”.

“Uah uah” sghignazza Kaltz “stai prendendo tutte le abitudini dei meridionali!... Ti alzi tardi, vai a dormire tardi...”

“Ufficialmente sarei in vacanza...” si giustifica Karl.

“Sì, sì, razza di addormentato!... Anche io sono in vacanza!”

“... e ufficialmente sarei pure infortunato, se permetti”.

“Sììì, una frattura al polso sinistro! Robetta!...”

“Robetta? Ho portato il gesso fino a ieri, ora devo indossare un tutore con cui non riesco a far niente e ho una seduta di riabilitazione tutti i santi giorni. Volevo andarmene in vacanza e non posso e Monaco in questi giorni è una città fantasma perché sono tutti via per le ferie. Come osi dire che è robetta, brutta bestiaccia?” ringhia Karl.

“Ma quanto sei lagnoso, proprio un bavarese!”

“Allora ti auguro di romperti felicemente un polso anche tu, così saremo compagni di sventura”.

“Ehi, non dirai sul serio? Accidenti! Tocca ferro!”

“Se tutte le maledizioni che mando raggiungessero i loro obiettivi, la popolazione del pianeta si sarebbe già dimezzata...”

“Augurare al tuo amico fraterno di rompersi qualcosa!...” borbotta Kaltz. “Lo sapevo che il Bayern ti avrebbe rovinato, tu che eri un ragazzo così nobile e generoso...”

“Guarda, ha parlato l’amico fraterno che qualche anno fa mi ha mollato una botta negli stinchi a gioco fermo ed è stato cacciato dal campo per direttissima!”

“Non rivanghiamo!”

“E allora robetta lo dici a tuo nonno”.

“Okay, scusa”.

“Scuse accettate”.

“Beh, che programmi hai per oggi?”

Karl esita.

“Beh, niente di speciale... alle nove e mezza ho la fisioterapia, poi vado a pranzo dai miei, poi ho un’intervista con la tv del nostro club, poi... poi non ho ancora deciso. Sei soddisfatto?”

“Come, non festeggi con la tua ragazza?” si informa Kaltz malizioso.

Karl sembra cadere dalle nuvole.

“Quale ragazza?” chiede.

“La tua, no?” ridacchia Hermann.

“Io non ho una ragazza, deficiente...”

“E allora Viktoria Sonnenfels?”

“Che c’entra Viktoria Sonnenfels?”

“Non esci con lei?”

“Sei matto? Ci siamo incontrati quest’inverno a una trasmissione televisiva, questo è quanto, stop, basta”.

“E quindi non festeggi con lei?”

“Che razza di pettegolo! No, non festeggio con lei”.

“Sì, sì, dici così perché non vuoi raccontarmi niente della tua vita privata. Aspetti che io lo scopra dai giornali, bell’amico!”

“Ma guarda un po’, bestiaccia, io ho invece il sospetto che se te lo dico andrai a venderti la notizia alla redazione di qualche giornalaccio per finanziarti il tuo vizio delle raccolte di figurine!”

La risata di Kaltz dall’altra parte del telefono somiglia al barrito di un elefante.

“Carogna! Sono sicuro che ai tuoi compagni di squadra lo dici!”

“Assolutamente no. A parte il fatto che loro non chiedono: non tutti sono pettegoli come te, bestia”.

“Testa di c****”.

“Tu, non io”.

Hermann sospira.

“Guarisci presto allora. Tra un mese inizia il campionato e ci incontriamo già alla seconda giornata... non sia mai che il Kaiser manchi nella partita in cui la sua squadra le prenderà malamente!”

“Non sia mai che rinunci a farti un sedere così, Kaltz”.

“Vedrai, brutto pallone gonfiato!”

“Ah ah, sì, vedrò, certo che vedrò...”

“Be’...” la voce di Hermann si è addolcita. “Allora ci vediamo ad agosto... salutami il coach e tua madre, e anche la piccola... e festeggia con la tua ragazza

“Non ce l’ho la ragazza...”

“Allora festeggia con chi ti pare. Buona giornata e buon compleanno, stronzo”.

“Buona giornata a te e grazie, bestia”.
 

***

 

Note al testo. Ci sono un po’ di stereotipi nel capitolo: tengo a dire che non sono stereotipi miei, ma idee preconcette diffusissime in Germania sul conto dei meridionali e dei bavaresi. Kaltz le rappresenta bene primo perché è del profondo Nord e poi perché ha sempre un po' il dente avvelenato nei confronti di Karl per il suo trasferimento al Bayern... :-)

Disclaimer. Ovviamente Karl-Heinz Schneider, Hermann Kaltz & C. non appartengono a me ma al maestro Yoichi Takahashi e alle case editrici che pubblicano le storie di Captain Tsubasa nei vari paesi. La storia non è scritta a scopo di lucro.

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Capitolo 2
*** Come acqua o come sabbia tra le dita ***


2. Come acqua o come sabbia tra le dita

 

La casa è immersa nel silenzio del primo mattino, dalle tende accostate filtra un chiarore diffuso ma come attenuato.

Gli è sempre piaciuto il momento del risveglio nei mattini di prima estate, con la luce negli occhi, e un’atmosfera di pigra beatitudine che aleggia intorno.

Karl si crogiola nel calduccio del suo letto, stirando braccia e gambe e affondando la faccia nel cuscino liscio e morbido. Non vorrebbe alzarsi, è una di quelle giornate fatte apposta per rimanere a letto fino a tardi, fare colazione con calma, andare ai laghi o, se proprio non è possibile, almeno all’Englischer Garten, sbocconcellare un gelato mentre si sta sdraiati alla beata ombra di un albero e poi, alla sera, prendere il fresco sulla terrazza, magari con un buon bicchiere di prosecco, magari con qualche amico.

No: è ora di alzarsi, sono quasi le otto, tra un’ora e mezza deve essere alla clinica universitaria e non gli va di fare tutto di corsa.

Karl rotola sospirando verso il bordo del letto e con un agile colpo di reni balza in piedi. Mentre va in cucina per prepararsi la colazione, indugia un momento a guardare il suo riflesso nello specchio del corridoio.

“Buon compleanno, Karlchen” mormora a sé stesso, sogghignando. “Buon compleanno e buona fortuna”.

 

***

 

Christoph Reinecke ed Elisabeth Probst sono dei ragazzi simpatici, non è la prima volta che va in studio da loro; l’intervista procede senza intoppi, allegra e rilassata come una chiacchierata tra amici. Christoph fa domande tecniche, gli chiede del suo infortunio, delle prospettive della squadra per la prossima stagione, gli chiede un parere sui nuovi acquisti. A Elisabeth toccano gli argomenti extra-calcistici: come e con chi festeggerà il compleanno, il suo ultimo spot pubblicitario, la sua ultima iniziativa benefica. Hanno preparato anche dei contributi video; tra una cosa e l’altra, gli hanno detto, la trasmissione durerà una mezz’oretta.

“Karl, ho dato un’occhiata poco fa alla tua pagina Facebook e ho contato duemila messaggi di auguri” gli annuncia Elisabeth con un sorriso furbetto.

Lui la sogguarda, di sotto in su. È veramente una bellissima ragazza, e gli abiti sobri che indossa – camicia bianca di taglio maschile con le maniche arrotolate, jeans a sigaretta e scarpe sportive – non fanno altro che sottolineare la curva delicata del seno e il sederino alto e sodo. È bella anche nei lineamenti del viso, la stessa bellezza di una mela matura.

“Sì, ringrazio molto i ragazzi, sono veramente affezionati e gentili” risponde Karl con un sorriso intenso.

“I fan della tua pagina sono aumentati di cinquecentomila unità dallo scorso mese di aprile” continua Elisabeth “credi che questa ondata di popolarità dipenda dalla vittoria nella Champions League?”

“Può essere” fa lui “sono eventi mediatici di grande portata che attirano l’attenzione anche di chi normalmente non segue il calcio. Poi chi vince piace sempre... e chi batte quelli che vincono sempre piace ancora di più”.

“Molti tuoi ammiratori sono stranieri. I calciatori tedeschi non sono mai stati popolari come ora, come mai secondo te?”

“Mah” Karl strizza gli occhi “sicuramente dipende dal fatto che oggi tutti i club più importanti hanno un settore marketing e un settore comunicazione, che si occupano scientificamente di promuovere le squadre e i singoli calciatori. Anche i social network contribuiscono: un ragazzino dall’altra parte del mondo può lasciarmi un messaggio in qualunque momento. Prima questo non era possibile...”

“Sì, però questo non spiega il motivo per cui il pubblico ti è così affezionato...”

“Forse perché sono affascinante?” sogghigna lui, e rivolge a Elisabeth un’occhiata così penetrante che la giovane donna non può non arrossire. “No, scherzo... forse perché in qualche modo o si riconoscono in me o vedono in me qualcosa a cui aspirano?”

“Facciamocelo dire dai tifosi” interrompe Christoph. “Regia, il contributo per piacere”.

Tutti tacciono e rivolgono la loro attenzione verso lo schermo al plasma che campeggia sulla parete, sul quale, nel giro di pochi secondi, compare una Elisabeth sorridente e in tenuta sportiva e microfono alla mano:

“Buongiorno, gentili telespettatori. Qui è Elisabeth Probst per MBCF-TV e siamo nella Maximilianstraße per un piccolo sondaggio sulla nostra squadra del cuore...”

Karl sorride leggermente tra sé. Sa bene quello che diranno i tifosi. Gli appassionati diranno che lui, oltre a essere tecnicamente un fuoriclasse, ha il temperamento del leader, ha autorevolezza, ed è uno che dà tutto. (La sua disposizione alla lotta è uno dei fattori che gli hanno sempre garantito la simpatia dei tifosi: non vedono il talento fuori dal comune a cui riesce tutto facile, vedono un ragazzo che soffre anche lui per ottenere quello che desidera. E a questo proposito, il suo infortunio durante la finale di Champions League, per quanto doloroso e antipatico, gli ha versato addosso la luce del martirio, aumentando ulteriormente la sua popolarità). Le ragazzine strilleranno “Schneider è figo”, mentre le mamme e i papà parleranno della sua serietà dentro al campo e fuori. Certo, lui è un bel ragazzo, un tipo serio, uno per cui il lavoro è tutto e il sacrificio una parte del lavoro; ma quanto di tutto questo è veramente lui e quanto gli è stato appiccicato addosso, giorno dopo giorno, anno dopo anno, sottolineato, evidenziato e ripetuto con costanza e fin nei minimi dettagli dagli esperti mediatici del Bayern, della nazionale e dei marchi pubblicitari che rappresenta, al punto da diventare vero anche ai suoi stessi occhi?

Karl fissa la sua immagine ingrandita che campeggia sullo schermo e un pensiero eretico gli attraversa il cervello:

“Chi diavolo è quel tipo lì?”

 

***

 

“Robby, stellina, guarda nello schermo, altrimenti mamma non la vedi” la voce di Uta, paziente e carezzevole, una mano che aiuta il piccolo a sistemare meglio l’iPhone davanti a sé. Il visetto sorridente di Robby entra nel computer di Julia:

“Ciao, mamma!”

Dietro alla testa castana di Robby fa capolino per un momento la mano di Michael.

“Ciao!”

“Ciao Mick... dove siete?”

“Siamo in spiaggia... Robby, fai vedere a tua mamma che costume figo abbiamo comprato!”

La mano di Mick allontana il cellulare quanto basta perché nello schermo appaiano gli short da bagno che indossano il ragazzo e il suo cuginetto, identici in tutto tranne che nella misura. Julia non può fare a meno di coprirsi la faccia con le mani, mentre Robby ridacchia tra sé e Mick chiede tutto orgoglioso alla zia dall’altra parte:

“Visto, eh?”

“Dove avete trovato quegli orrori?”

La voce fuori campo di Uta spiega:

“C’è una bancarella qui sul lungomare... vendono solo articoli da spiaggia ispirati al calcio...”

“Non sono belli?” ride Michael.

“Sono bruttissimi” commenta Julia. “Però, se a voi piacciono...”

“A Monaco li avremmo pagati tre volte di più” dice Michael.

“Perché, vendono quelle schifezze anche a Monaco?”

“Certo, e costano un occhio” sospira Uta.

“Abbiamo fatto anche il bagno con il costume nuovo” annuncia Robby.

“Ed è stato bello?”

“Sì, il mare è una meraviglia e la giornata calda e asciutta” riprende Uta.

“Michael mi sta insegnando a nuotare!”

“Michael è già stato preso di mira da un gruppo di ragazzine italiane... tempo due giorni e non si occuperà più di Robby” sussurra Uta nell’altoparlante dell’iPhone, come un a parte di una scena teatrale.

“Mamma! Ti ho sentito!” urla un Michael dal tono vagamente isterico.

“Ah ah, senti come urla... ha una paura...”

“Mick, che hai da avere paura? Un bel bimbo come te, biondino con gli occhi azzurri, e per di più parli anche italiano...”

“Anch’io parlo italiano, anch’io” la faccia di Robby saltella davanti allo schermo.

“È vero” confida Uta “quando andiamo a prendere il gelato lui ordina sempre tutto da solo”.

“Ma bravo, stellina! Quindi capisci quello che dicono le persone?”

“Non tutto” fa Robby, modesto “certe volte corrono troppo... allora la nonna mi spiega lei...”

“E se non c’è la nonna?” si informa Julia.

“Allora devo dire: per-favore-può-ripetere-lentamente? E loro ripetono più piano”.

“Capisco...”

“Domani andiamo a visitare Siracusa!”

“Che palle, sempre vecchie pietre...”

“Michael!”

“Perché, non è vero?”

“E dov’è nonna Utzi?”

“È qui vicino, si sta facendo una rimpatriata con una sua amica d’infanzia. Te la chiamo?”

“No, no, non fa niente...”

“Quando la nonna chiacchiera con le persone di qua, sembra che parli ostrogoto” s’intromette Michael sfacciato.

“La nonna parla ostrogoto” ripete Robby.

“Anche tu quando sei al telefono col tuo Ole Schattenberg parli ostrogoto”.

“Non è vero!”

“Certo che è vero!”

 

***

 

Robby è via da tre giorni e già ne sente la mancanza. Suonano vuote e troppo grandi, le stanze di casa, senza quella voce di bambino che rimbalza tra le pareti – e sì che Robby non è un bimbo pestifero, non strilla, non strepita e fa i capricci secondo il minimo sindacale (come dice, con meravigliosa icasticità, il Meisterbäcker), è tranquillo e padrone di sé come Julia non avrebbe mai creduto si possa essere a cinque anni.

Robby è naturalmente gentile con tutti ed ha una grande fiducia nel mondo. Una volta, al parco, ha visto alcuni ragazzini poco più grandi di lui impegnati in una partitella di pallone e gli si sono illuminati gli occhi:

“Mamma, vado un momento da quei bambini”.

“Perché?” ha chiesto lei, smarrita, ben sapendo dove voleva andare a parare Robert.

“Vado a vedere se posso giocare con loro”.

Julia si è dovuta mordere un labbro per non dovergli dire “non vedi che sono più grandi di te, non ti faranno giocare"; ha finto indifferenza e con un sorriso gli ha dato il permesso:

“OK, vai...”

Là per là i ragazzini non hanno voluto Robby con loro. Allora lui se ne è tornato accanto alla mamma, si è seduto di nuovo vicino a lei sulla panchina, ha ripreso in mano il suo album con le figure da colorare e i suoi pastelli e si è rimesso a colorare con impegno l’immagine lasciata a metà poco prima. Nessuna delusione, nessuna umiliazione sul visetto serio e acuto. Julia ha dovuto automaticamente ripensare alla sua, di infanzia, a quando cercava di giocare con le altre bambine del Kindergarten, ma loro ripetevano sempre “sei troppo piccola” e la mandavano via. Quanti pianti disperati si era fatta. Poi, a un certo momento, aveva smesso di andare dagli altri bambini. Aveva incominciato a giocare da sola, a non volere nessuno con lei. Le maestre la invitavano a unirsi agli altri e lei rispondeva no. I suoi piccoli compagni la invitavano a giocare con loro e lei rispondeva no.

Il suo stupore è stato immenso quando, circa dieci minuti dopo, uno dei ragazzini che avevano mandato via Robby si è avvicinato alla panchina e ha apostrofato suo figlio:

“Ehi, tu, Robert... vuoi ancora giocare con noi?”

Robby ha alzato gli occhi dall’album, la matita verde tenuta a mezz’aria e le sopracciglia aggrottate come a valutare la serietà dell’offerta.

“Se per voi va bene” ha risposto infine.

L’altro ragazzino ha annuito vigorosamente.

“Io vado, allora” ha mormorato Robby a sua madre.

Quanti figli nascono per errore, per malinteso, per frode, per odio, per atti di sopraffazione, sussurra Julia rivolta alla parete. Anche Robby è il risultato di due volontà amareggiate e deluse, due gesti sbagliati che scontrandosi hanno generato un frutto giusto. In filologia la chiamano combinatio: il ripristino di una lezione corretta tramite la combinazione di due parzialmente er...

Lo squillo del telefono di casa la strappa alle sue cogitazioni.

Chi sarà? Con metà della sua famiglia ha appena terminato di parlare via Skype, chiunque altro lei conosca chiamerebbe al cellulare. In effetti ormai al telefono fisso chiamano soltanto i ragazzi dei call center per le offerte pubblicitarie, l’idraulico e l’elettricista.

Julia si alza dalla sua sedia e percorre con calma i pochi passi che la separano dall’apparecchio, posato su un mobiletto del corridoio.

“Casa Gutenbrunner...”

“Schneider” risponde una voce maschile giovane e vibrante dall’altra parte.

“Schneider chi?”

La persona all’apparecchio esita un momento, come se stesse decidendo se deve prendere sul serio la domanda, poi fa:

“Karl-Heinz Schneider”

“Karl-Heinz Schneider?”

L’interlocutore misterioso esita ancora, poi risponde:

“Sì, Schneider, Schneider del Bayern Monaco...”

“... è uno scherzo?”

Un’altra esitazione. Poi:

“No...”

“No, eh?” Julia pensa che magari è qualcuno dei suoi studenti in vena di goliardate telefoniche. “Sai una cosa, Karl-Heinz Schneider? Sparati”.

Quindi riattacca il telefono sbattendo il ricevitore con molta enfasi.

“Va’ all’inferno!” esclama, mentre torna in cucina a passo di marcia.

Non appena è di nuovo seduta il telefono ricomincia a squillare.

“Perché non ho staccato?” pensa Julia. Si alza furente: “Ah, ma ora ti faccio vedere io, brutto imbecille!”

Afferra il ricevitore con rabbia e urla:

“Allora, la finiamo di fare i cretini?”

Un lungo istante di silenzio dall’altra parte, poi la stessa voce di prima, questa volta vibrante di ira trattenuta, sibila:

“Non è uno scherzo, chiaro?”

Stavolta tocca a Julia ammutolire di sorpresa.

“Non è uno scherzo” ripete la voce dall’altro capo del telefono.

“Dimostramelo” dice Julia.

“Ci siamo conosciuti sette settimane fa all’Allianz Arena, durante la partita Bayern-Eintracht Francoforte. Abbiamo guardato la partita insieme. Sei amica del mio collega Levin. Il tuo ultimo libro si intitola Ritratto estivo di ragazzo svedese ed è una raccolta di racconti. Insegni alla Ludwig-Maximilians-Universität. Hai...”

Julia lo interrompe:

“Va bene, mi hai convinto. Sei Schneider. E quindi?”

“Quindi cosa?”

“La ragione di questa telefonata?”

“Volevo passare a trovarti”.

“Eh?” chiede Julia che non è sicura di aver capito.

“Volevo – passare – a – trovarti” ripete Schneider scandendo le parole.

“Perché?”

“Perché sì”.

“Ah... perché sì”.

“Hai da fare nel pomeriggio? Sei a casa?”

Sono a casa nel pomeriggio? si domanda Julia.

“Sì...”

“Allora passo verso le cinque, va bene?”

“Ma... non...”

“Non ho bisogno di nessuna informazione, il tuo indirizzo è sull’elenco telefonico, sei l’unica Julia Gutenbrunner di Monaco. A più tardi”.

La comunicazione si interrompe e Julia rimane col ricevitore in mano, come istupidita. Poi guarda l’orologio che porta al polso: sono le quattro meno un quarto.

Posa il ricevitore, lentamente. Ritorna in cucina, riprende posto sulla sua sedia, fissa lo schermo del computer, poi si gira verso la parete da cui pende un grosso calendario.

Che giorno è oggi? si interroga. Non sa perché, ma sa che ha bisogno di saperlo.

Oggi è giovedì, giovedì quattro luglio, le risponde il calendario.

 

***

 

Nota al testo. La combinatio è una procedura della critica testuale per mezzo della quale, unendo due lezioni parzialmente errate, si riesce a ricostruire una lezione corretta.

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Capitolo 3
*** Entra in scena il ragazzo dal polso rotto ***


3. Entra in scena il ragazzo dal polso rotto
 
Alle cinque meno un minuto il trillo del citofono lacera la penombra del corridoio.
Cinque meno un minuto, pensa Julia; il tipo è preciso e metodico nella vita come sul campo.
Julia sente il portone che si apre e si richiude con un tonfo, lo scricchiolio di un paio di sneaker che attraversano l’ingresso a passo rapido e deciso, lo stesso scricchiolio sulle scale – sta facendo i gradini a tre a tre, uno alla volta sarebbe ridicolo per un atleta dalle gambe lunghe come lui.
Uno come lui…
I passi si avvicinano, sta superando il pianerottolo del terzo piano, ha infilato l’ultima rampa di scale: altri sei, cinque, quattro, tre, due balzi degni del felino cui somiglia, ed ecco Karl-Heinz Schneider emergere dalle scale, snello e forte, i capelli scompigliati, il viso aperto in un sorriso trionfante che gli fa scintillare occhi e denti. È vestito casual, camicia chiara con le maniche arrotolate al gomito e jeans sbiaditi. La mano sinistra penzola pigra lungo il fianco, protetta dal tutore; nella destra tiene un mazzo di fiori, sotto il braccio compare il collo di una bottiglia.
Si ferma di botto davanti a Julia, la squadra dall’alto in basso. Julia al contrario deve guardarlo di sotto in su.
“Ciao” ride Karl.
“Ciao”.
“Puoi farmi un favore? Prendi questa”
Julia gli sfila la bottiglia di sotto al braccio.
“Grazie”
“Accomodati…”
Lui entra con passo sicuro.
“Corridoio, prima porta a destra” gli indica Julia.
“Sì generale”
Julia richiude la porta e lo segue nella direzione indicata.
“Non ti dispiace, vero, se stiamo qui… o se vuoi andiamo in terrazza, ma a quest’ora del giorno non ci fa più tanto caldo…”
“No, no, va bene così, figurati”
Julia posa la bottiglia sul tavolo e offre una sedia all’ospite.
“Prego…”
“Tieni questi intanto” il giovane le tende i fiori.
“Per me?” chiede Julia con una lievissima nota d’incredulità nella voce. E prende in mano la composizione, un piccolo mazzo di gerbere di vari colori inframmezzate di rami di mughetto e felce. “Grazie…”
“Prego” risponde Schneider con un sorrisetto divertito, sedendosi.
“Mi piacciono le gerbere, sono allegre” mormora Julia quasi a sé stessa.
“Bene. In realtà io non avrei saputo che cosa scegliere, mi sono fatto consigliare dalla ragazza del negozio”.
Si guardano.
“L’altra volta non avevi la barba così lunga” è la prima osservazione che esce dalle labbra di Julia.
“L’altra volta non avevo ancora vinto la Champions League, non mi ero ancora rotto il polso e non avevo ancora scoperto quanto può essere fastidioso farsi la barba solo con la destra. Anche tu l’altra volta non portavi gli occhiali”
“L’altra volta non ero a casa mia a lavorare…”
Si guardano ancora.
“Metto a posto i fiori”
Julia prende un vaso dallo scomparto più basso della credenza, lo riempie a metà di acqua, scarta il mazzo, raccoglie i fiori tra le mani, li infila nell’imboccatura del vaso. Sgombera il tavolo dalla carta che avvolgeva i fiori, sposta il vaso sul mobiletto d’angolo.
“Sono belle, danno luce alla stanza” commenta. “Grazie ancora… Non dovevi ma grazie”.
“Ora però brindiamo” Schneider indica la bottiglia posata sul tavolo.
Julia guarda meglio l’etichetta della bottiglia: non è il solito Sekt, è un pregiato spumante italiano dolce.
“Brindiamo perché?”
“Perché non abbiamo ancora brindato alla nostra vittoria di Lisbona. So che Levin ti aveva invitato alla nostra festa, ma non sei potuta venire…”
“…”
“Perciò ho pensato, se lei non viene da noi allora vado io da lei…”
“Già, è vero, scusa, sono talmente distratta: congratulazioni per la Champions League, anche se…” gli occhi di Julia cadono sul polso stretto nel tutore semirigido che imprigiona anche parte del dorso e del palmo della mano di Karl e l’intero pollice, lasciando libere le altre dita “anche se ti sei fatto male… va tutto bene ora?”
Lui alza le spalle, con aria allegra e noncurante.
“Sì, va tutto bene. La frattura si è ricomposta, ora sto facendo gli esercizi riabilitativi, per la fine del mese sarò come nuovo e potrò cominciare la nuova stagione nella forma migliore. Sono stato fortunato”.
Ha uno sguardo così luminoso. Ha due stelle al posto degli occhi, pensa Julia.
“Ho dei biscotti al cioccolato. Puoi mangiarli?” chiede invece.
“Certo che posso, non sono mica allergico”.
“No, chiedevo… so che voi atleti dovete seguire una dieta…”
“Sono in vacanza, Julia, posso mangiare quel che voglio”.
Ha pronunciato il mio nome. Che strano. Il mio nome nella sua bocca, tra i suoi denti. Ha una bella voce, profonda ma con delle belle note argentine, e dolcemente vibrante.
 
***
 
Hanno brindato alla vittoria del Bayern nella Champions League, Karl ha assaggiato i biscotti del Meisterbäcker Gutenbrunner.
“… e ti chiederai perché ci tenessi tanto a venire a trovarti”.
Julia non risponde. Se gli rispondesse, gli direbbe che no, non se lo è chiesto, lo shock della telefonata e della sua presenza qui è già abbastanza senza stare a chiedersi il perché.
“Sai… credo che tu abbia contribuito molto alla nostra vittoria di Lisbona”.
“Io? Perché?”
“Sul volo di ritorno Levin era seduto accanto a me, per passare il tempo s’era messo a leggiucchiare. Poi si è appisolato e il libro gli è ruzzolato giù dalle mani. Io l’ho raccolto, erano i tuoi racconti. Stefan si era portato i tuoi racconti nella trasferta della finale”.
“Davvero?”
“Sì, credo che siano stati una specie di amuleto portafortuna, per lui. Invece io…”
Karl s’interrompe, porta la flûte alla bocca e beve un piccolo sorso.
“…io invece… giuri che non mi prenderai per pazzo?”
“Io non ho il diritto di prendere per pazzo nessuno” ridacchia Julia scuotendo la testa, e intanto fissa con ostentazione le bollicine che frizzano nel suo bicchiere.
“Io ti ho visto” riprende Schneider, assorto “ti ho visto e ti ho parlato. È stato durante l’intervallo, stavamo perdendo per due a uno, Ozora aveva segnato il vantaggio del Barcellona proprio al quarantacinquesimo ed eravamo tutti giù di corda, mi sentivo a pezzi, m’ero lasciato cadere su una panca, quando mi sei comparsa davanti e mi hai sgridato come si fa con un bambino capriccioso”.
“Io?”
“Sì. Mi hai chiesto: ‘Che cos’hai intenzione di fare, vuoi lottare o lasciar perdere?’”
“Lo sai che non ero io, vero? Eri tu che parlavi a te stesso”.
“Lo so, lo so. Sono cose che accadono quando si è sotto un forte stress. Volevo dirtelo, ecco tutto. Era importante”.
“Sono onorata di aver fatto la parte del tuo io più combattivo” sorride Julia.
“Posso chiederti una cortesia?”
“Quello che vuoi”.
“Puoi toglierti gli occhiali? Ora non stai lavorando”.
“Ma…”
“Per favore?”
Julia esita.
“Hai detto: ‘quello che vuoi’, mantieni la parola” sogghigna Karl, e con un gesto fulmineo sfila gli occhiali dal viso di Julia. Per un lungo istante annegano l’uno negli occhi dell’altro, che occhi grandi che hai, pensa Karl, è per guardarti meglio, nipotina mia, perché il suo sguardo è così luminoso, pensa Julia, e subito distoglie la faccia, non riesce a sostenere quegli occhi così azzurri puntati nei suoi.
Uno spostamento d’aria leggero leggero la fa trasalire, lui ha allungato il braccio e le sta toccando la mano con la sua mano ferita:
“Ehi”.
Silenzio.
“Ehi. Guardami”.
Julia prende un bel respiro, solleva gli occhi e incontra l’espressione interrogativa di Schneider.
“Ti faccio paura?”
“No” risponde Julia con sincerità.
“Allora perché non mi guardi?”
“Non è che non guardo te”.
Karl squadra la figuretta seduta di fronte a lui, ecco, l’ha messa in imbarazzo, si morde il labbro inferiore, stringe lo stelo del bicchiere con entrambe le mani per avere qualcosa da fare. Sono un bastardo, pensa Schneider. Ora che Julia non ha più gli occhiali sulla faccia può studiare con calma i tratti del bel visetto tondeggiante, la fossetta quasi invisibile sul mento, la bocca piccola e ben modellata, gli occhi che dietro alle lenti sparivano e che invece sono così grandi, spalancati, indagatori e trasparenti.
“Sono timida, gli occhiali servono per proteggermi” Julia sputa infine il rospo “ecco, l’ho detto”.
Con la stessa elegante rapidità con cui prima li aveva sfilati, ora Karl posa di nuovo gli occhiali sul naso della sua ospite.
“Scusami” dice, serio.
“Niente…”
“Scusami, davvero. A volte so essere molto stupido”.
 
***
 
Che atmosfera strana, penserebbe un osservatore esterno, guardando la scena.
Ci sono il giovane biondo e la donna piccoletta, seduti uno di fronte all’altra al tavolo di questa piccola cucina di un piccolo appartamento al quarto piano di un palazzo di una zona residenziale. Sono separati dal ripiano del tavolo, da un vassoietto di biscotti, una bottiglia di spumante piena per tre quarti e due bicchieri ormai vuoti, ma la distanza fisica è tale che, stendendo un braccio, le loro dita potrebbero sfiorarsi facilmente. Sono seduti uno di fronte all’altra e cercano di parlare, cercano di conoscersi, ma la conversazione non è tanto facile, a volte il silenzio prende il sopravvento, in fin dei conti sono due estranei, che cosa possono avere in comune il calciatore idolo di mezza Germania e un’oscura studiosa del Medioevo che scrive racconti? Eppure perfino nei momenti di silenzio non c’è niente di sgradevole.
Karl-Heinz s’è ripromesso di non parlare solo di calcio, cosa per lui quasi impossibile, ma Julia gli sta rendendo le cose più facili perché è lei a chiedergli del suo lavoro. Non glielo chiede per amore di cortesia, questo è evidente, dal tono delle sue affermazioni e delle sue domande si capisce che s’intende di calcio, anche degli aspetti che normalmente sfuggono ai profani. Così lui, una parola dopo l’altra, prende confidenza. Quasi non si accorgono che sta facendo buio; solo quando l’ombra diventa così fitta da spingere Julia ad accendere la luce, tutti e due si interrogano, all’unisono:
“Ma che ore sono?”
“Le otto” fa Karl guardando il quadrante dell’orologio che per ovvi motivi nelle ultime settimane ha dovuto portare al polso destro.
“Le otto? Accidenti. Non ho preparato niente per cena” borbotta Julia.
Lui fa per alzarsi:
“Bene, è tardi, è ora che vada…”
Julia si gira di scatto.
“Devi andar via? Hai impegni?”
Lui è colto di sorpresa:
“N-no, veramente. Vado a casa, mangio qualcosa, guardo un po’ di televisione e poi vado a dormire, perché?”
“Ti va di restare a cena?”
“…”
“Sono abbastanza brava a cucinare, non rischi di morire intossicato”.
“L’idea non mi ha neanche sfiorato. Volentieri”.
“Bene” Julia si torce le mani con aria meditabonda. “Che può mangiare un calciatore convalescente? Bistecca e insalata? Una frittata con gli spinaci?”
“Non importa, quello che ti è più comodo…”
“No, di’ tu, sei tu l’ospite. Pasta?”
“Beh, se proprio dev’essere, meglio una frittata con gli spinaci”
“Agli ordini”
E così rimane a fissarla mentre si allaccia un vecchio grembiule scolorito, si ravvia i capelli, prende le uova, gli spinaci, il parmigiano, la noce moscata, dispone sul piano di lavoro un tagliere, un coltello, una piccola grattugia, una ciotola, una padella, una forchetta, una bottiglietta d’olio.
“Cucini all’italiana?” s’informa Karl-Heinz, non appena vede l’olio.
Lei lo scruta interrogativa.
“Che c’è?”
“Pensavo lo sapessi”.
“Che cosa?”
“Io sono italiana. Cioè, per metà. Mia mamma lo è”.
“Davvero?”
“Non te lo ha detto Levin?” riprende Julia, mentre prende un uovo, tac, ne incrina il guscio con un colpo mirato contro il bordo della ciotola e con dita rapide fa colare albume e tuorlo nella ciotola.
“Perché avrebbe dovuto?”
“Già, vero. In fin dei conti siete solo colleghi, e poi lui è talmente discreto” Julia rompe altre due uova nella ciotola. Nel frattempo, ha già lavato e spezzettato gli spinaci e li ha messi a cuocere in padella.
“Quindi tua madre è italiana” ripete Karl. “Di dove?”
“Del sud. La famiglia di papà viene dai dintorni di Linz. Tu invece?”
“Io sono nato ad Amburgo, mio padre è di Amburgo, mia madre è di Amburgo… aspetta, credo che una mia bisnonna materna fosse danese”.
“Danese di dove?” chiede Julia mentre grattugia energicamente un pezzo di parmigiano.
“Jutlandese… una cittadina sul Mar del Nord, non ricordo quale”.
“Sarà stato difficile per te ambientarti a Monaco”.
“Ormai non me ne ricordo neanche più. Ho vissuto quasi più qui che ad Amburgo”.
“Sì?” Julia tiene in mano il barattolo del sale.
“A-ha. Sono venuto via che avevo quindici anni”.
“Ti hanno preso al Bayern a quindici anni?!?”
“Sì…”
“E sei… sei venuto qui da solo?”
“L’idea all’inizio era quella. Poi hanno assunto anche mio padre e così… non ce n’è stato bisogno”
“Cioè, fammi capire. Tu eri disposto ad andartene mille chilometri lontano da casa, da solo, a quindici anni?”
“Perché no?”
“Già, perché no?” ripete Julia sovrappensiero mentre rimescola gli spinaci che s’ammorbidiscono e indorano in padella.
“Che buon profumo” sorride Karl.
“Siamo solo a metà dell’opera” ribatte Julia. Com’è carina, con quel grembiulino liso e le mani sporche, pensa lui, proprio una simpatica donnina di casa. “Sicché non avresti avuto esitazioni”.
“No”.
“E da allora è sempre stato così?”
“Credo di sì. Sì”.
“Bene!” L’esclamazione fa quasi sobbalzare Karl, ma Julia è concentrata sugli spinaci che ormai sono cotti a puntino, afferra la padella e li rovescia nella ciotola delle uova. Rapidamente aggiunge il formaggio e la noce moscata grattugiati e con energici colpi di forchetta mescola il tutto. Poi versa il contenuto della ciotola nella padella, che rapidamente rimette sulla piastra e copre con un coperchio.
“E allora, monacese d’adozione… intanto che la frittata si fa, mi aiuti a sistemare la tavola?”
“Certo”.
“Piatti, sportello di destra. Forchette e coltelli, primo cassetto in alto”.
 
***
 
Hanno cenato così, semplicemente. Hanno continuato a chiacchierare, o a tacere, per lunghi minuti. Julia ha tagliato la frittata a Schneider a precisi tocchi quadrati, come una madre. Gli ha diviso un panino in tanti piccoli pezzi, per non farlo sforzare con la mano ferita, nonostante le fiere proteste del giovane.
“Non sono così grave, posso fare da solo” l’ha rimproverata Schneider.
Lei è arrossita, ma immediatamente ha alzato le spalle con fare quasi indispettito:
“Oh!”
Senza farsene accorgere, Julia studia il giovane seduto di fronte a lei, ne studia la fisionomia, i gesti, ogni minimo cambiamento d’espressione. La mano destra che tiene la forchetta, le spalle rilassate contro lo schienale della sedia. Il movimento ritmico della mascella mentre mastica un pezzo di frittata. Le sopracciglia che ogni tanto si aggrottano, forse perché sta pensando a qualcosa. Le lunghe gambe distese sotto il tavolo.
Come è bello, pensa a un certo punto Julia, e immediatamente, per un riflesso automatico, si tira un pugno contro la tempia per la rabbia di aver fatto un pensiero del genere.
“Che c’è?...” si allarma Karl.
“C’era una zanzara” spiega Julia con ammirevole faccia di bronzo.
“Una zanzara? Io non sento niente…”
“Boh! Mi sembrava… quanto le odio, le zanzare”.
E certo, e quanto odio questi pensieri stupidi e molesti, più delle zanzare, continua Julia fra sé. Ha delle belle mani… grandi, però non goffe, con quelle dita lunghe e affusolate ma anche forti…
“Tuo figlio?” Schneider interrompe il flusso dei suoi pensieri, accennando col mento al portaritratti nell’angolo della credenza che ritrae Julia e un Robby treenne abbracciati e nel pieno di una risata stratosferica.
Julia guarda un momento al di là della sua spalla, sorridendo – conosce a memoria la foto, l’ha scattata Uta durante le vacanze di Natale di due anni fa, Robby s’era messo a fare i capricci perché il papà non gli aveva fatto il regalo che voleva, allora lei aveva cominciato a fargli il solletico, e avevano riso tutti e due fino alle lacrime, e alla fine Robby aveva completamente scordato il motivo dei suoi capricci.
“Si chiama Robert”.
“È un bel nome. Quanti anni ha?”
“Cinque compiuti”.
“E suo padre…?” domanda Karl a bruciapelo.
“Ehm-ehm. Lui non sta con noi”.
“Mi dispiace”.
“Eh…”
“Ma…” qui Karl esita, la domanda gli brucia sulla lingua, sa che potrebbe suonare indiscreto e lei potrebbe rispondergli male, ma improvvisamente è tornato indietro di quindici anni, e ha visto sé stesso nel bambino che ride nella fotografia “ma… lui è così piccolo… non gli manca il papà?”
“Non per colpa mia”.
“Non sto dicendo questo”.
“Tra me e suo padre non è andata bene, anzi, io non… però lui è un bravo ragazzo, gli sta vicino, è… insomma, fa quel che può”.
“Tutti i bambini dovrebbero crescere con un padre e una madre” la replica di Schneider suona secca e tagliente.
“Se è per questo, ogni donna dovrebbe poter avere accanto il padre dei suoi figli” lo rimbecca Julia.
“Ne deduco che ti ha lasciata lui?”
“Bravo, perspicace”.
“E come mai?”
“Non… non andavamo bene”.
“Che significa ‘non andavamo bene’?”
“Significa quello che significa: non andavamo bene”.
“E non è tornato sui suoi passi neanche quando…?”
“A parte il fatto che lo ha saputo molto, molto tardi. No. Perché ti scaldi così?”
“Quando avevo tredici anni i miei si sono separati. Non si capivano, non parlavano, erano due testardi, e si sono separati. Mio padre se n’è andato di casa. Due anni. È stato un periodo molto difficile. Se penso che basta avere quel po’ di onestà che serve per venirsi incontro per non creare fratture insanabili… se poi ci sono dei figli, il loro benessere dovrebbe avere la priorità”.
“Il mio caso è diverso”.
“Non credo”.
“Te lo dico solo perché lo prendi come un fatto personale: nel mio caso io volevo parlare, lui no”.
“La colpa non è mai tutta da una sola parte”.
“La mia colpa è stata non capire per tempo quel che passava per il cervellino di Alexander…”
“E cioè?”
“E cioè… e cioè ha dovuto scegliere”.
“D’accordo, parli per enigmi”.
“No, è che… insomma, sono cose private. Comunque ha dovuto scegliere”.
“E ha scelto di stare lontano da suo figlio?”
“Non sta lontano, abita a dieci chilometri”.
“Non era quello che intendevo…”
“Sì, ho capito cosa intendevi”. Julia gli getta uno sguardo sofferente, quasi supplichevole. “Per favore, possiamo lasciar cadere il discorso?”
“Sì, scusa. Dopotutto non sono affari miei”.
“Non è per questo…”
“…ti fa male parlarne” conclude Karl inaspettatamente.
Lei annuisce, con gli occhi lucidi.
“Sì, mi fa male”.
“…è l’ennesima gaffe che faccio oggi” commenta il giovane, rivolto più a sé stesso che a Julia.
“…è che ti sei sentito coinvolto… mi dispiace, abbiamo rivangato cose brutte sia per me che per te”.
“Pace allora?” Karl dispiega un sorriso allegro e le tende la destra.
“Ma non c’è mai stata guerra” risponde lei, prendendogliela. La pelle della sua mano è leggermente ruvida, le mani degli uomini sono così, fa un po’ il solletico ma è… è…
Julia non capisce cosa stia succedendo, il cervello le dice che lui le sta stringendo la mano un po’ troppo a lungo, e il suo pollice le sta accarezzando il dorso della mano con intenzione.
“Pace?” ripete Schneider, la voce più bassa.
“Pace...”
 
***
 
Continuano a chiacchierare anche dopo cena, anche mentre Julia lava i piatti e rassetta la stanza, fino a che, verso le dieci, Schneider dichiara di dover assolutamente andare. Julia non fa domande, si sfila soltanto il grembiule e dice:
“Ti accompagno giù”
Prende le chiavi di casa e precede Schneider sul pianerottolo e per le scale. Attraversando il cortile, si ferma di botto.
“Aspetta un momento”.
Senza far rumore, fa una rapida deviazione e fulmineamente si china a terra per raccogliere qualcosa. Solo quando si avvicina, Karl vede che Julia tiene in braccio un grosso gatto persiano dagli occhi azzurri, il pelo di un bel grigio lucido e un codone setoso che sbatte nervosamente a destra e sinistra.
“È Zorba, il gatto della mia vicina… ha la brutta abitudine di sgattaiolare fuori approfittando delle persone che entrano ed escono” spiega Julia fissando affettuosamente il micio “… vero, delinquente? Così un giorno finirai sotto un’auto e così sia”.
“…ma è enorme” ride Karl-Heinz alla vista del gattone che lo guarda con aria ostile.
“Per forza, è castrato, povero Zorbone” Julia si stringe il gatto contro la spalla “puoi aspettare un momento?... lo riporto dalla padrona”.
Facendo velocemente dietro-front, Julia rientra col gatto in braccio. Karl-Heinz rimane ad aspettare sotto il lampioncino del cortile finché lei non esce, qualche minuto dopo, lo affianca e si avviano verso il marciapiede.
“È veramente un gatto gigantesco” sghignazza apertamente Schneider. “È più grosso di te, ho temuto che non ce la facessi a portarlo”.
Julia ride anche lei.
“Non sottovalutarmi”.
“Non lo farei mai”.
Mentre attraversano la strada, Karl tira fuori le chiavi della sua auto, preme sul comando dello sblocco e un segnale acuto gli risponde. “Eccoci”.
Eccoci? Julia guarda con meraviglia la splendida Porsche che le sta davanti.
“Accidenti! È questa la tua macchina?”
“Sì, è la mia auto privata”.
“…modello 911” esala Julia con un filo di voce “accelerazione da 0 a 100 chilometri all’ora in quattro secondi, velocità massima non ricordo bene ma s’avvicina ai trecento, costo medio novantatremila euro… Mamma mia”.
“Te ne intendi?”
“Alex fa il carrozziere, parlava di automobili anche mentre dormiva”.
“Davvero?”
“Giuro. Beh, è veramente bellissima. Ma…”
“Ma?”
“Non saprei. È una macchina da fighetti, tu non mi sembri un fighetto” spara Julia.
Lui la fissa:
“Devo offendermi o sentirmi lusingato?” chiede.
“Io… è un capolavoro di automobile, davvero. Ma tu sei troppo serio per guidare una Porsche!”
“Chi ti dice che io sia troppo serio?”
“Tutto lo dice” risponde Julia. “Come sei nel tuo lavoro, come sei con le persone… come ti vesti, come parli…”
“La prossima volta verrò con un’auto più seria, allora” sogghigna Karl-Heinz.
“Scusa, sei offeso? Non volevo off – ”
“Buona notte e grazie, Giulietta” sorride Schneider, mentre si china a soffiarle un veloce bacio sulla guancia. Julia rimane di sale, non sa se per il bacio o perché lui l’ha chiamata Giulietta.
Il giovane s’infila nel posto guida, chiude la portiera, alza la mano sinistra a mo’ di saluto mentre con la destra aggancia la cintura di sicurezza. Julia, di riflesso, solleva anche lei la mano, e rimane a guardare Schneider che gira l’accensione, preme sul freno, poi sul pedale della frizione, scala la marcia, ruota leggermente il volante (ci s’appoggia con tutto l’avambraccio, visto che il tutore gli dà fastidio e la presa con la sinistra gli è difficile), s’immette in carreggiata fluido ed elegante e nel giro di pochi secondi è sparito dietro la curva.
La donna piccoletta dai capelli corti riattraversa la strada e il cortile, risale le scale, rientra nella sua casa vuota. Che cosa resta da fare per oggi? Chiamare sua sorella in Italia, dare la buona notte a Robby, andare a dormire.

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Capitolo 4
*** Febbre (I am mine) ***


4. Febbre (I am mine)
 
Questo capitolo è dedicato tutte le ragazzine diciassettenni ferite dal loro Markus Hanfstaengl. Aelfgifu
 
***
 
Dopo una notte di sogni confusi e angoscianti, Julia si sveglia alle cinque in un bagno di sudore, oppressa da un peso sul ventre che non le dà tregua. Esce dal letto a tentoni, a tentoni infila le pantofole, si trascina in bagno come un sacco di patate e vomita tutto quello che ha mangiato ieri. Dopo quella che le sembra un’eternità, si solleva con le gambe che tremano per lo sforzo, apre il rubinetto e si sciacqua la bocca più volte per mandare via quell’acidità che le impasta la lingua e il palato. Giacché c’è, si lava il viso con abbondanti getti d’acqua; ed è proprio quando solleva la faccia che, tra i rivoli che le scorrono sulle guance e sugli occhi, vede il suo riflesso nello specchio che è sopra al lavabo e le sembra di vedere un fantasma.
A parte i capelli arruffati – conseguenza naturale del sonno –, ha gli occhi rossi e gonfi, la gola le duole e quando prova a dire al suo riflesso nello specchio “sei messa male, Julialein”, le esce solo una specie di rantolo.
“Porca paletta, ho perso la voce” pensa “come diamine è successo? Ho dormito con la finestra aperta per caso?”
Mentre ritorna barcollando nella sua camera, ma relativamente sollevata dal fatto che non ha più nessun peso sullo stomaco, controlla la finestra: è chiusa.
“Mah” riflette confusa, mentre s’infila di nuovo nel letto. Si allunga comodamente, posa la guancia sul cuscino e nel momento in cui sente il contrasto tra la freschezza del tessuto e la sua pelle bollente, capisce di avere la febbre. Si tasta la fronte col palmo della mano: brucia.
Julia impreca mentalmente.
“Non è possibile, no, no” mormora, digrignando i denti non per la rabbia ma per la paura; perché sa cosa significa una febbre così improvvisa, senza nessun motivo apparente. "Non c'è niente da chiarire, in qualche modo ho preso freddo, tutto qui. Magari quando ho accompagnato lui alla sua macchina... Era tardi, faceva freschetto e io avevo addosso solo una maglietta leggera... È colpa di Ka-, di Schneider, è tutta colpa sua, lui e il suo spumante e i suoi racconti di fantasmi e -"
 
***
 
A: Bunny
Jul 5 07:47 am
Paula, ho la febbre e sono momentaneamente afona. Potresti andare in farmacia a prendermi un antipiretico e qualcosa per la gola? Grazie, baci, Julia
 
A: Julialein
Jul 5 08:13 am
Stellina!!! Mi dispiace!!! Vado senz’altro. Devo passare anche a farti un po’ di spesa? Fammi sapere! :-*
 
***
 
Paula abita due strade più in là di Julia, lavora come parrucchiera e per arrotondare fa la baby-sitter. Spesso si occupa di Robby, anche se non si capisce chi sia il bambino fra i due, perché la ragazza è allegra e confusionaria, mentre Robert a volte è serio in modo inquietante per un piccolino della sua età. Paula ha una cascata di capelli rossi e un visino appuntito sparso di efelidi, è buonissima d’animo, a volte infantile, e irruenta; e irruenta, dunque, come sua abitudine, fa il suo ingresso in casa Gutenbrunner con due grosse buste della spesa.
“Allora Giulietta, tanto per non sbagliare ti ho fatto rifornimento per qualche giorno…”
Julia le toglie una delle buste dalle mani:
“Grazie, eh”.
“Per carità. Sono andata anche in farmacia, le medicine le ho messe qui dentro” e solleva leggermente la grossa busta del supermercato che ancora tiene in mano “c’è un antipiretico, un leggero antibiotico e un coso da spruzzare per il mal di gola. Il farmacista ha detto che se è un banale colpo d’aria nel giro di un paio di giorni dovrebbe passare anche senza prendere l’antibiotico, ma se dovesse persistere farai bene ad andare dal dottore”.
Guardando Paula che sgambetta nel suo vestitino estivo svolazzante, Julia è presa dai brividi. L'amica la sente battere i denti:
“Stella, sei proprio conciata male, guarda che occhi!” esclama. “Ma come hai fatto?”
“Non ne ho idea. Ero convinta di aver lasciato la finestra aperta stanotte, invece era chiusa. Forse è un virus che circola…”
“Non ho sentito di nessun virus, Julialein”.
“E allora boh”.
Paula entra allegramente in cucina, posa la busta del supermercato e le medicine sul tavolo, e all’improvviso si irrigidisce come un palo. Poi, a mo’ di cane da caccia, ruota la testa a destra, quindi a sinistra, annusando.
“Che succede?” si allarma Julia.
Paula non risponde e continua ad annusare arricciando il naso. Poi la sua faccia lentigginosa si apre in un sorriso largo e malizioso; si gira verso Julia, le punta contro l’indice della mano destra ed esclama:
“Tu!”
“Eh?”
“Tu!” Paula scoppia a ridere come una pazza. “Ecco perché ti sei ammalata! Di’ la verità, hai fatto ginnastica senza vestiti con un ragazzo, ecco perché hai preso freddo!”
“Paula!”
“Cosa, ‘Paula’? C’è stato un uomo qui, sì o no?”
“Sì, ieri, ma… è solo un… un amico. Non ho fatto ginnastica senza vestiti” ride Julia.
“Peccato” sospira Paula “a occhio e croce direi che il tipo merita”.
“Ah sì?”
“Senti, uno che usa Cool Water come colonia merita a prescindere. Nota superficiale fresca e fondo speziato di ambra, muschio e tabacco. Un classico. Sensuale da morire. Il tuo amico è un tipo deciso e con la testa sulle spalle, affidabile, preciso, metodico e nello stesso tempo molto passionale. Non fartelo scappare, Julialein”.
“E tu hai sentito il suo profumo? Dopo tutte queste ore?”
“Io ho l’odorato di un cane, stella. Vogliamo parlare?” Paula si siede comodamente e accavalla le gambe.
“Nooo” protesta Julia.
“Perché nooo?”
“Perché” Julia si torce le mani e guarda dall’altra parte “perché non c’è niente da dire…”
Paula fa improvvisamente silenzio, guarda la sua amica di sotto in su.
“Lo sai che ti sei appena tradita?” domanda infine, ridacchiando.
“Cosa?”
“ ‘Non c’è niente da dire’, eh?” Paula ripete la frase facendole il verso. “Quando dici così c’è sempre una montagna di cose da dire”.
“E stavolta niente, invece!”
“Non importa, sono paziente, io!”
“E sai dove te la devi mettere la tua pazienza?” sbuffa Julia.
Paula le mostra la lingua.
“Peggio dei bambini” Julia gonfia le guance “quanto ti devo per la spesa?”
 
***
 
Dopo pranzo Julia si è messa a letto con la radio accesa. Si è addormentata quasi subito, ma non profondamente: di quel sonno leggero e intermittente, quasi un dormiveglia, che coglie di solito chi è malato o debole. E nel suo sonno, all’improvviso, ha sentito la voce calda di Eddie Vedder:
 
I know I was born and I know that I will die
The inbetween is mine
I am mine
 
“Già, hai ragione…” è una delle sue canzoni preferite. Mezzo dormendo, accompagna Eddie con un filo di voce:
 
The sorrow grows bigger when the sorrow’s denied
I only know my mind
I am mine
 
And the meaning it gets left behind
All the innocence lost at one time
Significance between the eyes
There’s no need to hide
We’re safe tonight …
 
Mentre ripete quelle parole che conosce a memoria, gli occhi, a tradimento, le si riempiono di lacrime. Un sospiro. Julia si abbraccia al cuscino e scivola definitivamente nel sonno.
 
***
 
Quando, verso le sei, il telefono di casa squilla improvvisamente, ha subito l’impressione di un déjà vu.
“… è lui” pensa. E subito un tremore, che non è quello della febbre, le si diffonde per tutto il corpo fino alla punta delle unghie. Riesce ad aggiustarsi a fatica il plaid sulle spalle mentre va a rispondere.
“Gutenbrunner” articola, sforzandosi di far uscire la voce.
“Julia?!?”
È lui. Lo stomaco di Julia si contrae.
“Sì…”
“Julia, sono io, Karl Schneider. Che hai fatto?”
“Ciao...” Julia prende un profondo respiro. “Ho la febbre e mi è andata via la voce… stanotte ho dormito con la finestra aperta, forse ho preso un colpo d’aria”.
“Peccato”.
“Peccato? Perché?”
“Volevo chiederti se ti andava di uscire per un gelato, ma okay, pazienza”. La voce di lui suona leggermente delusa.
“Eh…”
“Vuol dire che aspetteremo che tu stia meglio, va bene? Tanto il gelato non scappa”.
“Sei gentile…”
“Figurati. Piuttosto, hai bisogno di qualcosa?”
“Io?”
“Sì, se magari devi prendere qualcosa in farmacia o fare la spesa… Io sono qui a far niente”.
“Grazie, sono a posto. Ci ha già pensato la mia amica Paula stamattina”.
“Bene, ma l’offerta resta valida da adesso in poi. Segnati il mio numero: zero, uno, sei…”
“Fermo” esclama Julia allarmata (è nella sua intenzione esclamare, in realtà viene fuori come una specie di raglio). “Come sarebbe, mi dai il tuo numero?”
“Beh, in caso domani tu abbia bisogno di qualcuno che ti vada a comprare il pane e il latte… o per qualunque altra necessità”.
“Ma senti! Tu ti fidi a lasciare il tuo numero a chiunque? Potrei rivendermelo ai giornali di gossip, potrei essere una stalker!”
Una risata argentina dall’altra parte:
“Deliri per la febbre, vero?”
“No!”
Lui interrompe la sua risata, tace per un momento, poi domanda serio:
“Sei davvero una stalker?”
“…”
“Ecco, brava, non sforzare la voce, specialmente se devi dire delle cretinate. Allora… ci sei?”
“Aspetta” rassegnata, Julia afferra il mozzicone di matita che tiene accanto al telefono.
“Allora. Zero, uno, sei, due, otto, sei, quattro, nove, otto, tre, sei. Ce l’hai?”
“Sì” risponde lei, scarabocchiando le ultime cifre sul frontespizio della vecchia agenda che sta lì da anni.
“Va bene, senti. Non voglio stancarti oltre. Ti lascio, va’ a prepararti una bella minestrina calda e poi a nanna. E per qualunque cosa…”
“Grazie” Julia esita “Sei molto caro, Karl-Heinz”
Stop! Porca puttana! Ha detto veramente quello che ha detto? Gli ha veramente detto una cosa così… così?!?
E lui in effetti reagisce con stupore, sembra non avere parole per rispondere.
“Beh, allora ciao…” si affretta a dire lei, per troncare quel silenzio imbarazzante.
Ancora un lunghissimo momento. Julia sente il ghiaccio salire dall’osso sacro per tutta la colonna vertebrale, su su, fino alle scapole. Poi, dall’altra parte:
“Ciao”
Clic
 
***
 
Febbre, per Julia, vuol dire trauma. Non s’è mai ammalata per il freddo o per un virus, sempre e solo dopo eventi traumatici.
Ed è tutto iniziato quel mattino di febbraio in undicesima, durante la pausa, quando aveva dovuto sopportare gli occhi smarriti e le parole senza senso del suo migliore amico, Markus Hanfstaengl, diciassette anni:
“Hanno cominciato a sparlare di me, ieri Thomas e Basti mi hanno sfottuto tutto il pomeriggio, dicono che non sono normale, che mi piacciono le ragazze… strane… Sai, perché passiamo un sacco di tempo insieme. E il fatto che tu sia anche la mia vicina di banco non migliora la situazione”
“Cioè ti fanno il mobbing per causa mia?”
“Er…”
“Ma – tu sai che non è vero… quella cosa che dicono, insomma”.
“Sì, ma non importa quello che so io, importa quello che pensano loro!”
“Ho capito…”
“Mi dispiace, Julia, forse è il caso che io cambi posto e –”
“Fa’ come ti pare”
Era un venerdì, quel giorno, l’ultimo giorno di lezione della settimana, e la scuola finiva a mezzogiorno, a mezzogiorno e mezzo Julia era a casa. Anche quel giorno era arrivata puntuale, aveva posato lo zaino nella sua stanza, aveva indossato la sua tuta felpata e le sue babbucce con la faccia di Gatto Silvestro, sua madre aveva fatto il minestrone – se ne ricorda perché era una giornata freddissima e lei era stata felice che ci fosse qualcosa di caldo per pranzo –, avevano mangiato, aveva aiutato sua madre a lavare i piatti e rassettare in cucina, poi era andata a fare un sonnellino perché si era sentita improvvisamente stanca. Che cosa sia successo dopo, non lo sa esattamente. Ricorda le voci, in sottofondo, di papà e del dottor Wienert. Ricorda sua madre che piangeva forte e mormorava stidduzza, stidduzza. Lei era mezzo incosciente, ma si era impaurita per le lacrime di sua madre, Utzi non piangeva mai, oddio, aveva pensato Julia, non starò per morire? Ma che sciocchezze, fino a poco fa stavo benone!
Come le hanno raccontato dopo, aveva preso un’influenza virale, con una febbre a quaranta durata per più di una settimana, cosa che aveva gettato il dottor Wienert nella più totale confusione.
Poi era guarita, era tornata a scuola e non aveva più rivolto la parola a Markus. Né lui a Julia, ma questo, date le premesse poste durante quel freddissimo mattino di febbraio, le era parso un fatto del tutto normale.
 
***
 
A: Bunny
Jul 5 00:53 am
Paula, hai ragione tu. Provo qualcosa per quel ragazzo.
 
A: Julialein
Jul 5 00:57 am
Stupidotta, ci voleva poco a capirlo. Qual è il problema?
 
A: Bunny
Jul 6 01:03 am
Non è facile, Bunnylein. È uno dell’alta società e io ho paura di provare qualcosa per lui per i motivi sbagliati.
 
A: Julialein
Jul 6 01:10 am
Uno dell’alta società? E dico, stai ancora a pensarci? :-D E poi quali sarebbero i motivi sbagliati? Che cos’hai tu in meno rispetto a uno dell’alta società?
 
***
 
Note al testo. 1) La canzone che Julia canticchia nel sonno è un classico dei Pearl Jam, I am mine (2002), estratto dall’album Riot Act, il primo dopo la tragedia del concerto di Roskilde, nel 2000, durante il quale nove fan della band avevano perso la vita. A proposito di I am mine, Eddie Vedder dichiarò in un’intervista con Rolling Stone (maggio 2003) che era stata scritta “to reassure myself that this is going to be all right”. 2) L’undicesima classe tedesca corrisponde più o meno alla nostra terza superiore. 3) Stidduzza è ovviamente la forma siciliana dell’appellativo affettuoso ‘stellina’.

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Capitolo 5
*** I want to break free ***


5. I want to break free
 
I’ve fallen in love
I’ve fallen in love for the first time
And this time I know it’s for real
I’ve fallen in love, yeah
God knows, God knows I’ve fallen in love
.
 
Queen, I want to break free
 
A: Ragazzo dal polso rotto
Jul 9 10:43 am
 
Ciao, sono guarita
J.
 
***
 
Nota al testo. Capitoletto brevissimo, ma denso di significato XD Non ve l’aspettavate, eh? Da leggere con I want to break free dei Queen in sottofondo… Un saluto e un grazie a tutti gli amici lettori, recensori & C., Aelf.

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Capitolo 6
*** Bad boy vs nerd girl ***


6. Bad boy vs nerd girl
 
Si sono messi d’accordo per le cinque del pomeriggio, come due cospiratori.
“Verrò in incognito” le ha detto lui ridendo a gola spiegata. “Vedrai che roba”.
E infatti, quando Julia esce dal portone di casa e attraversa il cortile, eccolo lì, dall’altra parte della strada, appoggiato al cofano dell’auto, salutarla con un cenno della mano ancor prima che gli si avvicini.
Uno: l’auto non è la Porsche dell’altra volta, è un’Audi, e nemmeno una delle eleganti berline grandi da città, ma un’A3 nera. Come la macchina di Gerhard, pensa Julia. Solo che questa è uno splendore: senza un graffio, lucida, i vetri splendenti. Se ci fosse Alex, con un’occhiata saprebbe dirle che le sospensioni sono tenute magnificamente, gli specchietti regolati al millimetro, le gomme perfettamente a posto.
E lui è lì, mollemente appoggiato, con una gamba penzolante. Ancora più casual dell’altra volta, oggi addirittura ha addosso una t-shirt grigio chiaro a maniche corte con una stampa sul davanti col segnale stradale del “via libera” e sotto la scritta a grandi caratteri maiuscoli BAD BOY. Ha pettinato le ciocche ribelli all’indietro, legandole in un buffo codino; s’è calcato in testa un cappellino da baseball con la visiera girata e… mio Dio, porta gli occhiali! Nel momento in cui fa questa constatazione, Julia si tocca automaticamente i suoi. Non sono occhiali da sole, sono lenti da vista dalla forma lievemente allungata, con una leggera montatura nera. Quando gli arriva davanti, Julia può vedere che Karl si è anche rasato scrupolosamente, ha le guance lisce e rosee di un adolescente. In effetti dimostra dieci anni di meno.
“Ciao”
“Ciao”
“Allora sei guarita?”
“Credo di sì”
“Sono contento”
“Sei in versione nerd?”
“Che te ne pare?”
“Ti mimetizzi bene… ciononostante, sei ancora troppo poco nerd. Vedi” Julia indica sé stessa “io sono nerd”.
“Ma se siamo vestiti pressoché uguali!...”
“Io ho l’aria nerd, tu non ce l’hai neanche se metti gli occhiali”.
“A proposito” butta lì Karl con aria innocente “tu gli occhiali non li toglierai mai, vero?”
“No, credo di no, perché?”
Lui alza le spalle, come se stesse dicendo un’ovvietà:
“Se metti quei fondi di bottiglia, nessuno può vedere i tuoi occhi. Ma se va bene a te…”
“Mi va benissimo, grazie. È tua?” chiede Julia indicando l’Audi.
“La mia auto di servizio”.
“Ovvero?”
“Quella con cui vado agli allenamenti e allo stadio. L’Audi è uno degli sponsor della squadra”.
“Non siete neanche liberi di usare la macchina che volete” osserva Julia. “Ma come mai oggi sei venuto con questa?”
“Mi pare di capire che non ti piacciono le Porsche” Karl-Heinz è lievemente arrossito.
“No! Cioè… io ho detto che non ti ci vedevo con una Porsche, è una macchina che dà così nell’occhio, è come se gridasse: guardate, sono una macchina figa e il mio proprietario è uno strafigo!”
“Non sono uno strafigo io?”
Julia ridacchia sotto i baffi.
“Che ridi?”
“Sei stato carino”.
“Sì?” fa lui.
“Sì, la Porsche mi mette a disagio”.
“E ora che facciamo?”
“Ora” annuncia solennemente Julia “ti porto a prendere il gelato più buono di Monaco”.
“Ok” lui, cavalleresco, fa per aprirle la portiera, ma lei lo ferma con un gesto della mano:
“Possiamo andare a piedi, è a dieci minuti da qui.”
 
***
 
La gelateria è un grande locale luminoso con grandi vetrate che danno su un bel giardino curato e traboccante di colori. Senza neanche essersi consultati, i due cospiratori decidono di sedersi dentro, dove c’è molto più spazio e tranquillità rispetto al giardino affollato; e poiché quella che conosce il posto è Julia, è lei a entrare per prima, aprendo con un gesto deciso il battente della porta a vetri, che aziona un campanellino dal suono dolce.
L’uomo dietro al bancone alza gli occhi allo scampanellio che annuncia i nuovi venuti, posa gli occhi sulla piccola figura di Julia e fa sbocciare il viso in un’espressione di gioiosa sorpresa.
“Giulietta!”
“Ciao Franco… oggi porto un amico”
“Benvenuto”
“Possiamo sceglierci il posto, vero?”
“Certo, certo, se ne stanno tutti fuori… se volete rimanere dentro, avete l’imbarazzo della scelta”.
“Grazie! Allora dove?” chiede Julia a Karl, che da quando sono entrati ha ancora pronunciato parola.
Sempre senza parlare, lui indica uno dei tavolini più all’interno e, raggiuntolo, sceglie il posto che dà le spalle al resto del locale.
“Non hai parlato perché temevi riconoscessero la voce?” s’informa Julia accomodandosi a sua volta.
Lui annuisce.
“Non parlerai per tutto il tempo?” si preoccupa Julia.
“No, tranquilla. Solo per ora”.
Una delle ragazze, intanto, si è avvicinata porgendo loro la carta dei gelati. Julia ringrazia con un sonoro ‘grazie’, il giovane con un cenno della testa e un sorriso.
“Sembra che il travestimento stia funzionando” commenta Julia “finora non ho visto né occhiate strane né gesti inconsulti”.
“Speriamo…”
“Dai che ce la facciamo. E se a qualcuno viene il dubbio, ci sono io a fugarglielo. Ti pare che uno come il Kaiser si possa far vedere in giro con una come me?” Julia strizza l’occhio con aria furba mentre apre la lista e la porge a Karl. “Io so già cosa prendere, scegli tu”.
“Uhm”. Il giovane scorre il cartoncino plastificato con gli occhi. “Com’è il gelato al cioccolato?”
“Superlativo. Tutti i loro gusti sono superlativi!”
“Allora mi sa che prenderò una coppa al cioccolato con una montagna di panna…”
Quando arrivano i gelati, gli occhi del calciatore s’illuminano come quelli di un bambino.
“Che meraviglia” esclama.
“… è sempre stato il tuo gusto preferito?”
“Sì, fin da piccolo”.
“Si capisce… posso farti una domanda?”
“Una domanda pericolosa?”
“Che giorno era il quattro luglio?” chiede Julia con aria perfettamente tranquilla.
“L’anniversario dell’indipendenza degli Stati Uniti?”
“Vabbè, anche quello… Non era per caso il tuo compleanno?”
“Come sai che è stato il mio compleanno?”
“Perché non me lo hai detto?”
“Mi sentivo in imbarazzo a dirtelo. Come lo hai scoperto?”
“Ho fatto la stalker e cercato notizie sul tuo conto sui motori di ricerca. Allora, la data del tuo compleanno è sulla tua pagina Wikipedia, sul tuo profilo nel sito del Bayern e in quello della nazionale, nonché in tutti i database di calcio di tutto il pianeta. Ho altresì scoperto che sei alto un metro e settantanove, pesi sessantasei chili, il tuo gruppo sanguigno è zero perciò sei donatore universale, tua madre si chiama Helga ed è impiegata, tuo padre si chiama Frank ed è l’allenatore della tua squadra, hai una sorellina minore di nome Marie, ventun anni, studentessa. La tua carriera: hai militato per otto anni nelle giovanili del Hamburger Sport Verein, a sedici anni sei stato acquistato dal Bayern, da ragazzo il tuo ruolo era quello di centrocampista d’attacco, più tardi hanno pensato di spostarti nel ruolo del centravanti puro, a causa della tua velocità, della potenza del tuo tiro, della tua intuizione che ti permette di leggere, anzi prevedere, il gioco e ti rende in grado di approfittare di ogni opportunità: per questo sei un grande realizzatore. Sei stato il capocannoniere del campionato negli ultimi tre anni. Non essendo altissimo, non eccelli nel gioco aereo; però il Bayern ha vinto la Champions League grazie a un tuo gol di testa. Hai esordito molto presto anche in nazionale e a oggi hai già ottantuno presenze con ventitré gol segnati. Al Bayern e in nazionale porti la maglia col numero 11. Dimentico qualcosa? Ah, ecco: sei testimonial permanente di un progetto di formazione scolastica ed extrascolastica per ragazzi socialmente svantaggiati e spesso vai a parlare nelle scuole…”
“… e che quando vado a parlare nelle scuole mi trema il sedere non c’è scritto, hm?”
“No, quello no”.
“Eh, vedi, non dicono le cose più importanti”.
“Davvero ti trema il sedere?”
“Certo. Un conto è giocare al calcio e un conto è parlare con le persone”.
“E come fai quando ti intervistano?”
“In qualche modo faccio… ma non mi piace molto”.
“Vuoi sapere quello che dicono di te i siti di gossip? Da buona stalker ho cercato anche quelli” sorride Julia.
Lui sorride di rimando, un po’ pensieroso:
“Guarda, so cosa dicono i siti di gossip e ti rispondo subito che uno, non ho una storia con Viktoria Sonnenfels, due, non mi piacciono i maschi, tre, non sono neanche bisessuale”.
“Come sai che scrivono queste cose?”
Lui alza le braccia in un gesto dimostrativo, quasi a dire: “Te le sbattono in faccia a ogni momento!”
“…”
“… e quarto, sono single”.
Julia fa una smorfia che vuol essere gentile ma rivela tutto il tuo disappunto, come se avesse detto “se dici che è così è così, ma tanto non ti credo”.
“Non ho una ragazza o un ragazzo, o amanti, o storielle. Al momento sono solo”.
“Ma va’!...” esclama Julia che non riesce a tenersi.
“Ti è difficile crederlo?”
“Metti a dura prova la mia visione del mondo, così”.
“E quale sarebbe la tua visione del mondo?”
“La mia visione del mondo, a grosse linee, dice che tu, atleta giovane, ricco e celebre, avendo un grosso potere sociale, non hai praticamente alcuna probabilità di rimanere solo anche per un singolo istante”.
“Ma se sono io che voglio star solo?...”
“Ah, beh. A questo non avevo pensato”. Julia guarda di lato. “Di solito il problema delle persone è come non rimanere sole, non il contrario”.
“Sai…” Schneider scucchiaia nella sua coppa di gelato, meditabondo. “Non ho avuto mai molto tempo per i rapporti umani. Forse sono diventato professionista troppo giovane. Ero troppo piccolo per avere avuto esperienze con le persone, con le ragazze, e dopo… dopo ero Karl Schneider, il centravanti del Bayern e della nazionale. Non che non mi sia tolto i miei sfizi, ma…”
“Karl-Heinz” lo interrompe Julia con voce squillante.
“Come?”
“Il tuo nome è Karl-Heinz, perché devi accorciarlo?” chiede lei con aria severa.
“Ma è un nome così pretenzioso. E poi mi hanno sempre chiamato Karl, a casa, gli amici… anzi, no, mia madre mi chiamava ‘Karl-Heinz!’ con l’indice alzato quando doveva rimproverarmi. ‘Karl-Heinz! Chi ha rotto lo specchio dell’ingresso?’ Io, ovviamente, con una pallonata” il giovane sorride al ricordo e porta il cucchiaino alla bocca. “Uhm, buono” commenta, assaporando la sua cioccolata con panna.
“Non è pretenzioso. Sono due antichi e bellissimi nomi regali” risponde Julia fissando il suo gelato.
“Se non ti piace Karl, puoi chiamarmi Kalle” ribatte lui con un lampo mascalzonesco negli occhi.
“Per carità, Kalle, che orrore”
“O Kalli” propone Schneider, stavolta ridendo apertamente.
“Kalli è infantile”.
“E allora…?”
“Mi attengo a Karl-Heinz… Non senti come suona bene?”
“Sì? Suona bene?” lui le rivolge una delle sue occhiate che trapasserebbero un muro, lunghe e indagatrici. Julia si dà da fare col suo gelato per non farsi prendere dall’imbarazzo.
“Fuona molto bene” annuisce a bocca piena. “Ma tu non ti occupi di parole, non fai percepire la bellezza dei fuoni”.
“Non fo percepire la bellezza dei fuoni?” le fa il verso Schneider.
Julia arrossisce.
“Fcufa” ingoia il boccone di gelato. “Non pensavo che tra amici ci si dovesse formalizzare. Di solito osservo le buone maniere, non parlo a bocca piena con chiunque”.
“Fei fimpatica” Schneider tira fuori la lingua.
“Anche tu sei simpatico. E dire che sui media passi come un tipo freddo e distaccato”.
“Eh fì, fui media paffo come un tipo freddo e diftaccato” Karl socchiude gli occhi, per un momento assume la posa sorniona di un micio sdraiato al sole “anzi, direi ftronzo…”
“Dai, ora basta”.
“Okay” Karl riempie il cucchiaino di gelato e panna e lo porge alla sua interlocutrice. “Vuoi?”
Julia fissa quell’invitante bocconcino.
“Vado a chiedere un altro cucchiaino” annuncia infine, alzandosi. Lui rimane a guardarla mentre si avvicina al banco e parla con la cameriera (gesticola molto, nota, anche se è una donna timida si esprime molto con i gesti, dev’essere la sua eredità italiana). Seguendo il filo di chissà quale pensiero, Karl riprende a mangiucchiare il suo gelato, quando Julia ritorna al tavolo e si siede, non prima di avergli messo davanti una piccola torta sormontata da una candelina accesa.
“Buon compleanno, in ritardo”.
Segue a ruota la cameriera, che posa sul tavolo due piatti e due forchette da dolce, e senza parlare, con velocità e sbrigliatezza da professionista, taglia due grandi fette dalla torta e le depone elegantemente nei piatti.
“Buon compleanno, signore” dice, prima di lasciare il tavolo.
“Grazie, Kathrin” dice Julia.
“Niente, dottoressa Gutenbrunner”.
“Grazie” è la volta di Schneider.
“… a lei, signore”.
“… dovevamo trovare il momento giusto per sorprenderti” commenta Julia.
“Mi farai scoppiare prima di stasera”.
“Eh sì, proprio nello stile di una mamma italiana. Mangia, mangia, bambino mio: è tutta salute”.
 
***
 
Al momento di regolare il conto, Julia fa finta di lasciare l’incombenza a Schneider; si alza con nonchalance mormorando “aspetto qui davanti” e si avvia verso la porta salutando i camerieri e il gestore. Karl si avvicina alla cassa, carta di credito alla mano, ma Kathrin scuote la testa sorridendo:
“Ha offerto la signora Gutenbrunner”.
“Sì, ma abbiamo preso anche del gelato” insiste Karl.
“Ha offerto la signora Gutenbrunner” ripete Kathrin.
Lui si gira e fissa Julia che è ferma fuori dalla porta, in attesa, le mani in tasca, il piede che giocherella con un ciottolo. Sembra esitare, poi si rivolge di nuovo alla ragazza:
“Va bene, grazie”, fa un cenno cortese con la testa, infila di nuovo la carta di credito nel portafogli e si avvia verso la porta. Quando esce, Julia alza gli occhi. Non sorride, non sogghigna, come qualcuno che ha fatto un bello scherzetto a un amico. È seria.
“Volevi dimostrarmi qualcosa?” la domanda di Karl è dura e diretta come un pugno.
“Perché?”
“Perché hai offerto tu?”
“Non si fa così tra amici?”
“Ti avevo invitato io”.
“Ma è stato il tuo compleanno…”
“Non ho mai conosciuto una donna che offrisse a un ragazzo”. Di solito accade solo nei casi in cui lui è un escort e lei una cliente, aggiunge fra sé.
“Bene” Julia alza le spalle “ora la conosci”.
Continuano a camminare affiancati, ora fra loro è sceso il silenzio, un silenzio che pesa.
È chiaro, rimugina Julia, è a disagio perché non gli ho consentito di fare il maschio alfa, perché mi sono posta sul suo stesso piano e voglio essere alla pari con lui. Non è abituato ad agire così con le ragazze, anzi, non è abituato ad agire così con nessuno, lui è quello che domina, che guarda gli altri dall’alto. Guarda che faccia scura che ha. Non si sarà offeso?
È così semplice, riflette contemporaneamente Schneider, ha voluto mettere in chiaro che non ha nessuna intenzione di stare un passo indietro al calciatore ricco e famoso. È orgogliosa, non vuole avere debiti di nessun genere, neanche per un gelato. Anzi, non crede che qualcuno possa offrirle un gelato senza doverlo risarcire.
Si è offeso, ha concluso intanto Julia. Pensa che io abbia voluto pagarlo per il disturbo.
È turbata, dice Schneider a sé stesso sbirciando il visetto preoccupato della giovane donna, ha paura di dovermi qualcosa…
Alla fine, Julia si ferma, e nel frattempo tocca l’avambraccio di Schneider, che è costretto a fermarsi anche lui e, stupito dal gesto improvviso, la guarda interrogativo.
“Scusa se ho fatto qualcosa che ti è dispia –“
“Ehiii! Levatevi di lì!!!”
Tutto accade nel giro di un secondo: Karl che afferra precipitosamente Julia e la tira verso di sé, Julia che presa alla sprovvista perde l’equilibrio e si aggrappa al ragazzo per non cadere, lui che barcolla un momento per la sorpresa di quel peso che gli viene addosso, e quattro mocciosi in bicicletta che sfrecciano a velocità impressionante a pochi centimetri da loro.
L’aria si ferma. Sono immobili sul bordo del marciapiede, praticamente abbarbicati uno all’altra, lui col braccio destro serrato convulsamente sulle spalle di Julia, Julia aggrappata alla vita di Karl per non cadere. I ragazzini sono già lontani, i loro strilli allegri nell’ebbrezza della sfida sono ormai solo un’eco. Karl e Julia si guardano per un momento che sembra durare un secolo.
“Tutto b-bene?” balbetta Schneider. “Quei piccoli screanzati!…”
“Sì, tutto bene, grazie, anzi, a momenti ti facevo cadere” Julia si ritrae precipitosamente.
Riprendono la loro passeggiata, meditabondi.
“Che stavi dicendo, prima che arrivassero quelle piccole furie?”
“Stavo dicendo: scusa se ho fatto qualcosa che ti è dispiaciuto…”
“Ah. Okay. No, va bene, non fa nulla; a dire il vero, mi è venuta un'idea” sulla bocca di Karl si disegna un sorrisetto pieno di sottintesi “pensavo, che ne dici di un giro sul lago di Starnberg? Arriviamo che c’è ancora luce, facciamo una passeggiata e per le nove siamo di nuovo a Monaco”.
 
***
 
NdA: i due "antichi e bellissimi nomi regali" sono Karl e Heinrich, di cui Heinz rappresenta una forma diminutiva.
P.S.: buona Pasqua a tutti!

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Capitolo 7
*** Intermezzo (sul lago di Starnberg e ritorno) ***


7. Intermezzo (sul lago di Starnberg e ritorno)
 
Der Traum, ein Ziel.
Philipp Lahm, Der kleine Unterschied
 
***
 
Nota registrata sull’iPhone di Julia, 11 luglio, ore 21,47
 
K. è un insieme di fattori socialmente desiderabili, io un insieme di fattori socialmente indesiderabili.
 
***
 
POV Schneider
 
Oggi abbiamo condiviso molte cose. Il mio travestimento da nerd non abbastanza nerd, un gelato, una torta di compleanno “in ritardo”, un equivoco dovuto al fatto che sei forse più orgogliosa di me, un viaggio in auto, una passeggiata sul lungolago tra Starnberg e Berg, e molti silenzi.
Riesci a stare senza parlare per ore. Mentre percorrevamo l’A95, siamo stati zitti per quasi tutto il tempo: tu guardavi fuori dal finestrino, io guardavo la strada. Di solito il silenzio tra due persone è molto imbarazzante, invece con te era un bel silenzio.
E anche la strada pedonale con vista sul lago, tranquilla, con gli alberi che stormiscono piano perché quando fa sera scende sempre un po’ di vento, sembra che il resto dell’umanità abbia deciso di lasciarla solo a noi, per il tempo della nostra passeggiata. Ho calcolato bene, abbiamo ancora più di mezz’ora di luce. E poi, se vorrai, potremo anche starcene ancora un po’ a vedere arrivare il buio.
Fa freddino, dal lago spira un’arietta che è bene non sottovalutare. Cammini accanto a me, lo sguardo fisso sulla strada e le mani infilate nelle tasche del giubbino. A un certo punto il tuo cellulare squilla; dopo avermi chiesto scusa, apri la comunicazione e cominci a parlare con qualcuno in una lingua melodiosa che io non capisco, mentre continuiamo a camminare e tu tieni agevolmente il mio passo – o io il tuo. La tua voce è allegra e piena di affetto: forse stai parlando con tuo figlio? È la stessa voce con cui ti rivolgi a me, ma in certo modo diversa: meno seria, meno sommessa, meno adulta.
Quando termini la telefonata, riponi il cellulare nella tasca del giubbotto e dici, con un sorriso negli occhi:
“Era mia sorella dall’Italia. Ho parlato anche con Robby...”
“L’avevo capito… all’improvviso la tua voce è cambiata”.
“Davvero?”
“Hm-hm”.
Continuiamo a camminare.
“Com’è?” chiedo, dopo un po’.
“Com’è cosa?”
“Io non ho figli. Com’è?”
Ti stringi nelle spalle.
“Posso dirti com’è per me. È un fatto fortemente fisico. Insomma, qualcosa che prima non c’era ti cresce in grembo per nove mesi, poi lo allatti, poi continui a prendertene cura in altre maniere… e poi… conosci La lettera scarlatta di Hawthorne?”
“Cos’è, un romanzo?”
“Sì. Parla di una donna che ha avuto una bambina a seguito di una relazione extramatrimoniale e che per questa ragione viene marchiata come adultera e scacciata della sua comunità. A un certo punto l’autore parla del rapporto della protagonista con la sua bambina, di nome Pearl, e dice che aveva un amore fortissimo per la figlia, che era la sua perla preziosa, acquistata con grandi sofferenze…”
Scuoti la testa, lievemente, da destra a sinistra, poi da sinistra a destra.
“Robby è la mia perla” ridi piano. “A volte me lo abbraccio a tradimento, gli stampo dei grossi baci in faccia, mentre lui si dibatte, distoglie il viso, si sfrega le guance col dorso della mano e protesta fieramente: mamma, che schifo! Che smielatezze! Io sono un bambino grande! Dice proprio così: smielatezze. Chissà dove l’avrà sentito… E io: sì sì, signor Robert B., ora vediamo se sei un vero bambino grande, e attacco a fargli il solletico. Dice mia madre che le risate si sentono fino alla strada!”
“… è bello”
“Già, vero? Io sono socia fondatrice e presidentessa della Abbracci anonimi e.V., se potessi abbraccerei tutto il mondo. Finché ci riesco, mi spupazzo il bambino!”
“Tuo figlio è un bimbo fortunato. Mia madre non è mai stata un tipo molto incline alle coccole, e a me sono sempre un po’ mancate”.
“Anche mia madre non è molto affettuosa. Capirai, lei viene da una famiglia di contadini dell’Italia meridionale di  sessant’anni fa. Lì altro che abbracci, comandavano i maschi, il padre era il padrone e al posto delle parole si usavano le occhiate e le legnate…”
“Mia madre invece è proprio così di carattere. È distaccata. Ma anche di me dicono che sono distaccato” ammetto.
Seguitiamo a camminare. Un brivido ti scuote da capo a piedi; non so come, un istante più tardi stiamo procedendo abbracciati, io ti cingo le spalle e tu mi hai passato un braccio attorno alla vita. Hai ancora freddo?
“A qualche chilometro da qui è morto Ludwig” dici improvvisamente.
“Intendi Ludwig il pazzo?”
“Non più pazzo di me o di te” rispondi, e poi taci definitivamente.
Per quanto tempo ancora continuiamo la nostra passeggiata abbracciati? È solo quando poso gli occhi sulla tua testa, e vedo che ha preso lo stesso colore grigio-azzurro dell’aria, che mi risolvo:
“Sta facendo buio, meglio tornare indietro”.
Invertiamo il senso di marcia ma non ci stacchiamo, ripercorriamo la strada senza una parola. Quando arriviamo in vista della mia auto, e io prendo le chiavi per aprire col comando a distanza, sento tremare il braccio che tieni sul mio fianco. Mi guardi dal basso verso l’alto:
“Da quanto tempo stiamo così?” mi chiedi, confusa.
“Così come?”
“Così” e mi stringi più forte.
“Non lo so. Ti dispiace?”
Rispondi con una domanda:
“Posso guidare io al ritorno?”
“Perché?”
“Così non stanchi la mano sinistra. Col tutore non hai una buona presa del volante, ti affatichi troppo”.
 
***
 
Ora conosco un po’ meglio il tuo corpo, la sua morbidezza e il calore di cui è capace. Tenerti stretta – è stato bello; ne sento già la mancanza. Mi lasci nelle vicinanze della Marienplatz, con la scusa che così dovrò fare meno strada, mentre tu puoi prendere il bus – la fermata è poco distante – e arrivare a casa entro un quarto d’ora.
“Grazie per avermi fatto guidare, sei il primo maschio al mondo a cui l’idea non abbia provocato uno scompenso cardiaco”.
“Avevo scelta?”
“Per il tuo bene, no” ridacchi.
“Buonanotte, Julia”.
Mi abbracci. Poi ti sollevi sulla punta dei piedi e mi baci su una guancia.
“Notte, Karl-Heinz”.
 “Quasi quasi m’iscrivo anch’io alla Abbracci anonimi e.V.” ti dico staccandomi.
“Quando vuoi” sollevi la mano a mo’ di saluto, mentre ti allontani “non costa niente!...”
 
***
 
Ora, Julia, vorrei farti una confidenza.
Da tredici anni mi porto dietro un ricordo. L’ho tenuto con me in tutti i trasferimenti e in tutti traslochi; oggi riposa nel fondo di un cassetto dell’armadio dove sono riposti i miei vestiti.
È la mia ultima maglia delle giovanili del HSV. L’ho indossata durante un’amichevole contro la nazionale giapponese, era il mese di luglio, vincemmo noi per cinque a uno. Ho bisogno di aggiungere che tutti e cinque i gol erano miei?
Adesso non è altro che un vecchio pezzo di stoffa, odora di naftalina, il blu e il nero della maglia sono sbiaditi, il numero 10 sulla schiena si è mezzo cancellato, ma la tengo sempre lì, ripiegata con cura. Se me l’appoggio al petto, mi meraviglio di essere cresciuto così tanto da allora, perché dentro di me ho sempre quindici anni, mi manca il mio papà, mi mancano le coccole della mia severa mamma, e ho un sogno.
Il mio sogno, il mio obiettivo.
 
***
 
Piccolo capitolo extra come dono pasquale agli amici di EFP :-)
Note al testo. 1) Der Traum, ein Ziel ‘il sogno è un obiettivo’. 2) Starnberg e Berg sono due cittadine ubicate rispettivamente sulla riva nord e nord-est del lago di Starnberg. Starnberg è la prima località che si incontra arrivando da Monaco, percorrendo l’autostrada A95. 3) Abbracci anonimi e.V.: e.V., ovvero eingetragener Verein ‘associazione registrata’, è il marchio legale di tutti i club e le associazioni registrati in Germania. Ovviamente Julia qui usa l’espressione scherzosamente, per indicare la sua propensione a dare e ricevere abbracci. 4) Il Ludwig “pazzo” di cui si parla è il re di Baviera Ludwig II Wittelsbach (1845-1886), il cui corpo fu ritrovato, insieme a quello dello psichiatra presso cui era in cura, e con cui era uscito a fare una passeggiata, sulle rive dello Starnberger See, nei pressi di Schloss Berg, la sera del 13 giugno 1886. Ludwig era stato da poco deposto dal trono per una presunta malattia psichiatrica e trasferito presso lo Schloss Berg sotto sorveglianza. Ancor oggi le circostanze della sua morte non sono chiare: l’ipotesi dell’annegamento è alquanto compromessa, perché nei polmoni del re non fu trovata alcuna traccia d’acqua. Si è parlato di omicidio-suicidio, o di un duplice omicidio politico mascherato. Ludwig probabilmente non era affatto pazzo, ma un uomo dalla personalità tormentata e complessa, innamorato delle arti. Protesse e finanziò per anni Richard Wagner e spese tutto il suo patrimonio personale, nonché tutto il tesoro pubblico del regno di Baviera, nella realizzazione di grandiosi castelli, tra cui lo spettacolare e celeberrimo Neuschwanstein.

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Capitolo 8
*** Stefan on the road, ovvero: da Malmö a Lund ***


9. Stefan on the road, ovvero: da Malmö a Lund
 

N.B.: il campionato svedese di calcio di serie A (Allsvenskan) si svolge da fine marzo/aprile a novembre. Pertanto, mentre Stefan Levin è in vacanza, in Svezia il campionato è in corso.

 

POV Levin

 

Malmö (Svezia), 20 luglio, pomeriggio

 

Henk mi guarda e ridacchia sotto i baffi mentre guida verso casa sua.

“Di’, non te l’aspettavi un’accoglienza del genere” finisce per dire.

“Hmmm”.

“Hmmm? Che razza di risposta è?”

“È la prima volta che visito il vostro nuovo stadio” dico, guardandomi le mani.

“La prima volta? La nazionale ci ha giocato un’amichevole l’anno scorso” obietta Henk.

“Io non c’ero”.

“Non c’eri?”

“No, avevo qualche problema al piede sinistro, sono rimasto a Monaco”.

“Ah!”

“Eh, sì”.

“E allora ti è piaciuto?”

“Una bella struttura”.

“Detto da te che giochi all’Allianz Arena…”

Quando ho chiamato Henk dicendogli che avevo in programma di andare a Lund da mio fratello e che mi sarebbe piaciuto passare a trovarlo, la sua risposta è stata una domanda: “Quando arrivi?” “Il diciannove o il venti”. “Noi il venti giochiamo in casa. Ti mando i biglietti per la partita. La sera sei a cena da noi, ti ospitiamo per la notte e la mattina del ventuno te ne vai con calma a Lund”. “Ok, ma niente posti nel settore VIP”. “Mai nella vita, amico, ti conosco!”

È stato un pomeriggio allegro, tempo sereno, caldo temperato, il Malmö ha vinto per 1-0 (cross di Henk dalla fascia sinistra ai cento metri e Carl Sjögren di testa) e il mio cappellino da baseball con occhiali annessi non ha impedito ai tifosi di riconoscermi e avvicinarsi per una stretta di mano, un autografo o una foto. Anche la stampa ne ha approfittato per qualche scatto e qualche domanda. È stato molto bello che mi abbiano voluto negli spogliatoi per fare un saluto a entrambe le squadre: “Guarda un po’ chi c’è, il tedesco!” Una volta ero il giovane dio della distruzione. Oggi nel mio paese sono il tedesco.

“Domani uscirà sui giornali: ‘Stefan Levin alla partita Malmö-Helsingborg’!” ha sghignazzato Henk mentre uscivamo dallo stadio.

“Sai che notizia!”

Henk è concentrato sul volante, gli rivolgo un’occhiata di sotto in su senza farmene accorgere. È tornato in Svezia un anno e mezzo fa e sembra che l’aria di casa gli faccia molto bene.

“Da quanto tempo mi chiamano il tedesco?” chiedo all’improvviso.

“Boh… due o tre anni, credo. Perché?”

“Non ne sapevo nulla”.

“Giochi in Germania da quasi dieci anni, Stefan…”

“Te ti hanno mai chiamato l’iberico, quando stavi in Spagna?”

“No”.

“A Monaco si sono inventati un altro soprannome, il berserk gentile…”

“Però, carino”.

“Tu trovi?”

“Ti ricordi quando ci chiamavano i quattro cavalieri del sole di mezzanotte? Io, tu, Brolin e Fredericks? Che ridere. Mio Dio, era una vita fa!” Henk dà un colpo sul volante con la mano. “Ogni tanto viene ancora fuori, quando siamo convocati tutti e quattro in nazionale. ‘Ritornano i quattro cavalieri’!”

“Sì, i quattro cavalieri dell’Apocalisse…”

Vorrei aggiungere: sai, Henk, ho un altro soprannome ancora. Me l’ha dato una giovane donna triste e intelligentissima, abbracciandomi, dopo tre bicchierini di snaps. Mi ha detto che sono luminoso e bello, una giovane betulla argentea della Scandinavia.

L’auto procede lungo le strade larghe e ben tenute di un quartiere residenziale. Il sole è ancora ben alto. Henk innesta la freccia a sinistra, fa un’ampia curva e svoltiamo nella via dove abita.

Quando saliamo a casa, non appena la serratura scatta, la voce sottile di Maj ci raggiunge:

“Henk?”

“Sono io, sono io!”

Una sedia viene spostata in cucina. Maj ci viene incontro, indossa un paio di pantofole che non fanno rumore. Nella luce forte dell’ingresso, vedo un visetto stanco benché sorridente e una mano posata su un pancione di almeno sei mesi.

“Ciao, Stefan” Maj mi abbraccia, io resto un po’ imbambolato, poi le metto le braccia intorno alla vita, cercando di non stringere.

“Non mi uccidi se stringi un po’…” sussurra Maj staccandosi.

“Scusa”. Le sorrido; credo di essere vagamente commosso. “Lui non me l’aveva detto”.

“Volevo vedere la tua faccia, è ovvio” scherza Henk.

“Lo conosci” Maj gli dà un pizzicotto. “Ahi” strilla Henk. “Zitto, tu, e fai vedere a Stefan la sua stanza. Io sono in cucina”. “Sissignora”.

“Maj, non ti sarai messa a cucinare per –”

“Nooo”

“Henk, –”

“Levin!” esclama Maj, ormai lontana “Una donna incinta non è malata!”

“Vieni, lasciamo la tua roba di là” fa Henk.

“Tu le consenti di sforzarsi con la cucina e il resto?” gli chiedo.

“No, lei fa di testa sua, ovviamente!”

 
***
 

Per fortuna Maj non ha strafatto come ci si poteva aspettare: mi accomodo con un sospiro di sollievo. I coniugi Larsson sono seduti fianco a fianco di fronte a me e ogni tanto si rivolgono uno sguardo furtivo e complice.

“Voi due” li rimprovero mentre porto alla bocca una forchettata di riso e verdure “che state complottando?”

“Noi? Niente!”

“Okay, come volete”. Mastico il boccone lentamente, con aria meditabonda.

Maj mi domanda come sto, come va la vita al sud.

“Non male…”

“Te lo chiedevo perché ti vediamo contento” spiega lei “vero Henk? Ha un’aria così tranquilla e allegra!”

“Già!”

“Mai quanto voi…”

E qui la chiacchiera di Maj comincia a fluire come un fiume, spiega che hanno lasciato la Spagna dopo averci riflettuto profondamente, certo, la Liga è la Liga, un traguardo prestigioso per un calciatore, ma a un certo punto avevano incominciato a sentire nostalgia di casa, otto anni lontano sono tanti, quasi un’intera carriera,

“… e poi in Spagna avevo già vinto tutto il possibile o quasi” s’intromette Henk, quasi con aria di scusa.

“Tu non hai mai nostalgia?” chiede Maj.

La domanda mi coglie di sorpresa. Nostalgia? Non ci ho mai pensato.

“Non saprei, non ci ho mai pensato veramente. Non c’è tempo di pensarci”.

“Non volevamo far nascere i nostri figli lontano” dice Henk con gli occhi fissi nel piatto. Maj lo fissa, colpita; solleva la mano e lo accarezza leggermente sui capelli biondi che ora porta tagliati alla marine. Come per un riflesso condizionato, lui si tocca il punto in cui lei gli ha lasciato la sua carezza:

“Ricordi quando facevo il rasta?”

“Ragazzi” Maj si copre la faccia con una mano.

“Dieci anni fa” commento.

“Ora li porta così perché gli si sono diradati, ha una piazza sulla fronte, altro che rasta” ride Maj.

“Che stronza” ribatte Henk piccato.

“Ha anche un mucchio di capelli bianchi” Maj sembra inarrestabile.

“Be’, che vuoi, diventiamo vecchi, no?”

“Vecchio? Tra cinque mesi compi ventinove anni!”

“Fì, appunto” risponde Henk a bocca piena. “Mi avvicino alla pensione, sono un calciatore io, mica un ragioniere”.

“Henk vorrebbe lasciare tra un paio d’anni”.

“Davvero?”

L’interessato annuisce.

“Poi vuol prendere il patentino di allenatore, o magari laurearsi in scienze motorie e insegnare educazione fisica”.

“Maj, perché non mangi invece di chiacchierare?”

La cena prosegue silenziosa. Alla fine io e Henk ci concediamo un bicchierino di acquavite, che a Maj è assolutamente vietato; poi il mio amico spedisce sua moglie a guardare la televisione, con la scusa che ha già lavorato abbastanza quest’oggi, mentre noi “uomini di casa” sparecchiamo e laviamo i piatti.

“Avrei voluto dirtelo io” attacca infine Henk, mentre mi passa un piatto bagnato e io lo prendo e incomincio ad asciugarlo con lo strofinaccio pulito che mi ha dato.

“Cosa?”

“Che voglio lasciare”.

“Ma non subito, no? C’è ancora tempo”.

“Sai come passa in fretta il tempo? Dieci anni? Sono un’enormità, dieci anni. Eppure passano incredibilmente veloci. Tra due o tre anni è come dire adesso”.

“E come mai ora, Henk?”

“Non so. Forse il bambino che sta per nascere. Pensi: voglio esserci per lui, non voglio ritirarmi a quarant’anni e trovarmi all’improvviso accanto un ragazzino che mi è estraneo quanto io sono estraneo a lui”.

Continuo a strofinare il piatto meccanicamente, nonostante sia già asciutto.

“E davvero vuoi fare l’allenatore o l’insegnante?”

“Non è male come prospettiva” Henk mi toglie il piatto dalle mani. “E tu?”

“Io cosa?”

“Tu non ci pensi mai?”

“Io? No, finora no…”

“Vuoi giocare fino a quarant’anni?”

“Se il fisico regge…”

“E dopo? Non pensi a quello che farai dopo?” insiste Henk.

“Mmm. Sì, qualche volta ci penso”.

“E allora?”

“Giornalista sportivo” lascio cadere lapidario.

Henk mi guarda sorpreso.

“Giornalista sportivo? Tu? Ma se hai sempre odiato le telecamere”

“Un giornalista può anche scrivere articoli”.

Henk tace per un momento, cerca di riordinare le idee. Poi:

“Qui o in Germania?”

“Ancora non so. Però quando finirò col calcio vorrei rimettermi a studiare, forse anche prima se ci riesco. All’università di Monaco c’è un ottimo programma internazionale di giornalismo. Sarebbe valido anche qui da noi e…”

“Per essere uno che ci pensa solo qualche volta, hai le idee più chiare di me” m’interrompe Henk.

 
***
 

Malmö, 21 luglio, mattina

 

Il bus per Lund parte alle nove. Maj dorme ancora e d’accordo con Henk decidiamo di non svegliarla. Le lascio un biglietto di ringraziamento e di saluto, poi ci avviamo giù per le scale senza far rumore. La stazione degli autobus non è lontana, arriviamo che è ancora presto per la partenza, perciò ci fermiamo a chiacchierare ancora per qualche minuto. Henk si accende una sigaretta.

“Pfff, un atleta che fuma”.

“Non ti ci mettere anche tu!”

“Quando nascerà tuo figlio dovrai smettere, sai? E se non smetterai Maj ti spedirà a fumare ogni volta sul balcone, anche al freddo e al gelo”.

“Farà bene” sussurra lui, aspirando con aria pensierosa.

All’improvviso mi viene in mente che non ho chiesto né a lui né a Maj se il loro primogenito sarà un bambino o una bambina. Potrei chiederlo a Henk adesso, ma mi parrebbe di suonare indiscreto.

Mentre i passeggeri cominciano a riempire il bus, vediamo il conducente uscire dal bar all’angolo e dirigersi nella nostra direzione. Henk ha fumato la sigaretta fino al filtro, schiaccia il mozzicone sotto il piede.

“Smetti di fumare”.

Lui mi allunga due pacche sulla spalla.

“Ciao, capitano”.

“Fammi sapere quando nasce”

“Senz’altro. Tu telefona quando arrivi a Lund, sennò mi preoccupo, piccino mio!” ride Henk.

Faccio scivolare gli occhiali sul naso e col braccio sollevato a mo’ di saluto salgo sull’autobus. Per fortuna non è pieno, in fondo ci sono diversi posti liberi. L’autista chiude le porte e avvia i motori, e mentre fa manovra per uscire dall’area di sosta, il bus compie un mezzo giro, e io vedo Henk immobile nel punto in cui l’ho lasciato, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo fisso nel vuoto. Busso leggermente sul vetro del finestrino per attirare la sua attenzione, e quando lui alza il viso lo saluto con la mano chiusa a pugno e il pollice alzato.

 
***
 

Lund (Svezia), 21 luglio, mattina

 

Non faccio in tempo a scendere dal bus che due schegge impazzite mi si precipitano addosso e per poco non mi mandano lungo disteso sotto lo sguardo sogghignante di mio fratello.

“Zio Stefan!” questo è Ola, sette anni di energia fisica straripante.

“Tao!” e questa è Magdalena, tre anni e mezzo, che mi abbraccia una gamba affondandoci il viso senza staccarsi più.

“Bambini, fate piano ché lo rompete zio Stefan” la voce tranquilla e ironica di Anders si alza al disopra della ressa e dei saluti rumorosi dei suoi figli. Quindi, avvicinandosi a passi calmi e misurati, continua:

“Scusali, io li avrei lasciati a casa, ma erano così ansiosi di vederti che stamattina si sono alzati prima di me, non ho potuto farci niente”.

“Beh, dunque” esordisco io, posando a terra il mio borsone. “Così non va, bisogna salutarsi per bene…”

Ricambio con una strizzata d’occhio l’espressione felice sui visetti congestionati e brillanti di attesa dei miei nipotini.

“Ola” sorrido, e ci battiamo il cinque.

Poi sollevo Magdalena, me l’abbraccio stretta e strofino il mio naso contro il suo:

“Ciao, Polpetta”.

“Tao, Tef” risponde lei afferrandomi i capelli con tutte e due le mani, tanto che ho difficoltà a staccarmi per posarla di nuovo a terra.

“Fatemi salutare anche il papà” aggancio la mano tesa di Anders “ciao fratellone…”

“Ciao fratellino…”

“… sei stanco?” chiede Ola.

“Arrivo da Malmö, ho fatto solo mezz'ora di autobus”.

“Già, già... credevamo arrivassi da Stoccolma” mormora mio fratello.

“Ho fatto tappa a Malmö, Henk Larsson mi ha invitato alla partita di ieri e stanotte ho dormito da lui. Sai com’è, quando è possibile fa piacere rivedere i vecchi amici…”

“… e anche i fratelli maggiori, le cognate e i nipotini” completa Anders.

“Che cos’è le co… cognate, papà?” interviene ovviamente Magdalena, che è nel pieno della fase dei ‘cos’è’ e dei ‘perché’.

La cognata. È la mamma, Polpetta” spiega Anders.

“Ma la mamma è la mamma, non la co… co…”

“Cognata! Impiastro” fa Ola con aria di superiorità.

“Ola, anche tu all’età di tua sorella non pronunciavi ancora bene alcuni suoni” dice mio fratello severo. Poi, rivolto a Magdalena: “La mamma è la mamma per te e Ola, Polpetta. Ma è mia moglie, ed è la cognata di zio Stefan, ed è la figlia dei nonni Britt e Joakim e la nuora dei nonni Martin e Sibylla, è la sorella della zia Jutta ed è l’amica di Ingrid, Rikke e Gert. Ci sono nomi diversi a seconda del tipo di rapporto tra le persone. Però è sempre lei, ha sempre i capelli castani corti e gli occhi azzurri, le piacciono sempre le crêpes con la cioccolata e lo zucchero a velo sopra…”

Si capisce, vero, che mio fratello insegna?

"Devi sempre fare il professore, Anders. Come fanno a sopportarti questi ragazzi?"

"Taci, Stefan. Ai bambini bisogna dare risposte serie".

"Papà è noioso, vero Polpetta?"

"Nooo! Papà è bravo" protesta Magdalena, mentre mio fratello mi mostra la lingua.

Ci avviamo verso l’uscita, Ola davanti a tutti, sgambetta felice, ci supera, corre avanti, poi vede che noi andiamo a passo di lumaca, torna indietro di corsa, gira intorno a suo padre e a me, poi si slancia di nuovo in avanti. Mio fratello e io camminiamo appaiati, Anders ha insistito per portare il mio borsone, mentre io procedo tenendo strettamente per mano Polpetta che invece vorrebbe essere presa in braccio perché dice che sono “più morbido di papà”.

Nel breve tragitto verso casa, la piccola sistemata nel suo seggiolino mi dice che c’è una sorpresa, mentre Ola mi chiede della partita di ieri. Per ora prende a pedate un pallone solo quando fa educazione fisica a scuola, ma il football sembra piacergli molto, mio fratello e sua moglie stanno valutando se iscriverlo a una scuola di calcio, l’anno prossimo.

“… è vero che c’è una sorpresa a casa?” chiedo a Ola.

Lui alza le spalle:

“Sì, forse. Ma è roba da bambini…”

“Ah”.

“Diciamo che è una cosa a cui Ola non presta molto interesse” corregge mio fratello.

“Quindi è una cosa tua, Polpetta?” m’informo da Magdalena.

Lei s’infila l’indice in bocca.

“Sì… No” risponde, con aria dubbiosa.

“Diciamo che non è una cosa di proprietà di Polpetta…”

“Ne so quanto prima”.

“Un po’ di pazienza e il mistero sarà svelato…”

Il mistero viene svelato dieci minuti dopo, non appena scesi dall’auto Polpetta mi trascina verso un angolo del minuscolo giardino cintato che circonda la loro villetta. Accanto a una piccola cuccia di legno dipinto in tutto simile a una casetta, perfino col tetto a due spioventi e una minuscola finestrella (ma la porta è un’apertura rotonda), sonnecchia un gatto di circa cinque mesi, dal pelo lungo e di un bianco splendente.

“Questo è il nottro gatto” sussurra intenerita la mia nipotina.

“È una femmina. Magdalena voleva tanto un gattino, un gattino… ci ha sfiniti” mio fratello è ora accanto a me e osserva a braccia conserte la figlia che è corsa a fare le carezze all’animale. “Se ne prende cura con tanta amorevolezza, vedessi. Le mette i croccantini, le cambia l’acqua…”

Robby vorrebbe un gatto, ma non posso accontentarlo. Siamo fuori casa per quasi tutta la giornata, non potremmo prendercene cura, gliel’ho spiegato. Lui per ora si accontenta di Zorba, il micio della vicina, un mangia-e-dormi fenomenale…

“Tef” Magdalena torna tenendo in braccio il gatto.

Il micino mi guarda con aria allarmata e io prudentemente allungo solo due dita e gli do una breve grattatina all'altezza della collottola.

“Sai come si chiama?” mi fa Polpetta.

Le sorrido.

“Forse Ljus?” suggerisco.

Lo stupore si accende sul faccino di Magdalena. Gli occhi le si allargano e la sua bocca fa una smorfia a forma di O:

“Cooome lo sai?...”

“Zio Stefan sa tutto” le risponde Anders. Io gli piazzo una gomitata nel fianco:

“Non dire così ché poi ci crede” protesto.

“Su, Magdalena, entriamo” Anders posa le mani sulle spalle della bambina e la spinge delicatamente verso la porta di casa. Mentre ci avviamo, mi racconta:

“La gatta di una mia collega ha avuto i cuccioli e tre mesi fa siamo andati a prenderne uno perché, come ti dicevo, Magdalena ci aveva stufati, voglio il gattino, voglio il gattino. La mia collega abita in campagna, poco fuori Lund. C’erano cinque gattini, tutti di colore diverso, uno nero coi baffetti e le zampette bianche, uno arancione, uno bianco e grigio, uno tutto macchiettato e poi c’era Ljus. Mentre i suoi fratelli ruzzavano tra loro e con la mamma, lei se ne stava per i fatti suoi, acciambellata in un angolo, come se non c’entrasse niente. ‘Vediamo chi sceglierà Magdalena’ ho pensato. E lei, risoluta: ‘Voglio il micio bianco’…”

 

***

 

Note al testo. 1) Lo snaps è la tipica acquavite dei paesi nordici. 2) Larsson compare in World Youth coi capelli acconciati nelle tipiche treccine rasta. 3) Malmö dista da Lund circa venti chilometri. 4) Ljus significa ‘luce’ in svedese.

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Capitolo 9
*** Sotto il tiglio ***


8. Sotto il tiglio
 
Buon compleanno, Karl!
 
***
 
20 luglio, mattina
 
“Signora Jungreithmayr? Sono Julia. Volevo avvisarla che Zorba ha saltato il balcone come al solito e ora è al sicuro qui da me… glielo riporto più tardi, va bene?”
……….
“Va bene, non gli darò nulla…”
……….
“D’accordo, a più tardi…”
Mentre chiude la comunicazione, Julia sbircia oltre il cellulare e fissa con intenzione il gattone che s’è acciambellato regalmente sulla sedia, arrotolando la folta coda attorno al corpo.
“Sei proprio il padrone del mondo, tu, eh?” allunga una mano e gli gratta dolcemente la testa. Zorba riceve le carezze a occhi socchiusi.
“La tua padrona ha detto che non devo darti niente da mangiare, perché sei già troppo grasso…”
Zorba sembra scoccarle uno sguardo contrariato.
“Ma sei bello lo stesso” prosegue Julia, facendo ancora una carezza al micio.
La mattina prosegue così, col gatto acciambellato sulla sedia di Robby e Julia che batte con impegno sui tasti del suo portatile.
“Sai Zorbone” sbotta a un certo punto Julia “oggi pomeriggio Karl… te lo ricordi Karl, vero? Lo hai incontrato qualche sera fa… Karl mi ha invitato per una scampagnata…”
Il gatto continua a dormire.
“… è un ragazzo così gentile. Lo avresti detto?”
Zorba apre un occhio e lo richiude subito dopo.
“Sempre così serio… tu dirai: che responsabilità può avere uno che di mestiere tira calci a un pallone? E invece… poveri ragazzi, fanno una vitaccia, sempre in giro, su un autobus o su un aereo, sempre sotto i riflettori, sbranati dal gossip e dalla pubblicità… e poi quando smettono di giocare il mondo si dimentica di loro… allora meglio come me… tu che ne pensi?”
Il codone setoso del gatto frusta nervosamente l’aria, una volta, due volte.
“Preferirei che non fosse così gentile… io non so mai cosa fare quando qualcuno è gentile con me”.
“Miao” commenta Zorba.
“… ci sono ricascata, Zorbone” sospira Julia. “Che scema, eh?”
Proprio scema, riflette intanto tra sé, scema, e senza nessuno con cui parlare sulla faccia della terra, al punto di confidarti col gatto della vicina. Sei messa davvero molto, molto male, Julialein…
Mentre continua a scrivere, posa lo sguardo sul gatto che continua a sonnecchiare, soddisfatto e pacifico.
Beato te che non hai più nessun istinto riproduttivo: mangi, dormi, fai i tuoi bisogni, ti fai coccolare da mezzo condominio, non devi preoccuparti di niente… fai proprio la vita del signore.
Mi sento così sola, Zorba. Non ho nessuno con cui parlare e finisco col parlare con te, proprio con te che non puoi dirmi la tua, vedi?
 
***
 
Il posto ‘segreto’ di Schneider è la riva verde di un ruscelletto che scorre con impeto sul suo letto sassoso. Lungo l’argine si allineano alti alberi; alle narici di Julia arriva un profumo dolce e aromatico. Si sono accampati proprio accanto a un tiglio in piena fioritura; Julia tende una mano e accarezza una delle grandi foglie.
Karl è sdraiato supino, una gamba distesa e una flessa, e ha chiuso gli occhi. Non sta dormendo, assapora soltanto la quiete del posto, il venticello che agita le fronde e il rumore dell’acqua.
Julia ha portato con sé un libro, un libro qualunque, e ora sta fingendo di leggere per non infastidire Schneider.
Com’è dolce il profumo del tiglio.
 
Unter der linden, an der heide,
da unser zweier bette was,
da muget ir vinden
schone beide gebrochen
bluomen unde gras…
 
i versi le fluiscono sulla bocca spontanei, facendola arrossire.  Si raggomitola su se stessa, volgendo le spalle al compagno, e affonda la faccia nel libro aperto.
Fai che stia dormendo, fai che stia dormendo
“Cos’è, leggi qualcosa di scabroso?” la voce di Schneider le arriva alle spalle, lievemente divertita. Julia si gira di scatto e si ritrova la faccia di lui a pochi centimetri.
“Aah!” esclama.
“Dai, non sono così brutto”.
“Mi hai spaventato” lo rimbecca Julia.
“Sì, perché ti sei portata dietro un libro porno e ti sei messa a leggerlo pensando che io dormissi”.
“Perché pensi questo?”
“Perché ti sei tutta raggomitolata, come un bambino che ruba la cioccolata”.
“Non è questo il mo–” comincia a protestare Julia, quando lui le sfila abilmente il libro dalle mani.
“Vediamo un po’ che cosa stavi leggendo…” mormora Karl, mentre sfoglia le pagine fingendo un interesse esagerato. “Tutto qui?”
“Tutto qui!”
“E allora perché ti sei raggomitolata su te stessa come se non volessi farti vedere…?”
“Non voglio dirlo” replica Julia prendendogli il libro.
Restano così per qualche minuto, fingendo di ignorarsi, gli occhi rivolti alla fitta chioma del tiglio che scoppia di foglie e di fiori.
Alla fine è Karl a rompere il silenzio:
“Tu sei una persona con cui non bisogna fingere”.
Julia chiude gli occhi e si lascia accarezzare la faccia dal vento.
“Dovrebbe essere così sempre…”  
“Anche per Levin è la stessa cosa?” s’informa Karl.
Julia apre gli occhi.
“Non so, perché?”
Karl si mette a sedere, i gomiti puntati a terra all’indietro. Il vento gli scompiglia i capelli e lui scuote la testa per toglierseli dagli occhi.
“Sai perché il nostro regista è Levin, non io?” dice, guardandosi le scarpe. “Io sono altrettanto bravo, credimi. Sono un bravo stratega. Ma Stefan ha qualcosa che io non ho e che è decisiva per fare un buon regista: è al servizio dell’undici, ha generosità. È lui a pensare le azioni, a impostare il lavoro che altri finiranno. Io invece sono un opportunista e un egoista. Che, per inciso, sono le doti del finalizzatore. Ecco perché sto sotto ai riflettori più di lui”.
“Non credo che a Stefan importino molto i riflettori…”
“A volte m’intimidisce, sai?”
“Lui intimidisce te?” Julia sorride. “Forse è reciproco; forse v’intimidite a vicenda…”
“No, non intimidisce solo me. I suoi libri, la sua musica: è come se avesse un’altra vita segreta, oltre a quella che condivide con noi. Sai, noialtri non brilliamo mica per cultura, non ci intendiamo quasi di nulla a parte il calcio. Invece lui… credo che abbiate molte cose in comune” termina Karl precipitosamente.
“…”
“… ti ammira molto”.
Julia ha capito dove vuole andare a parare Schneider col suo discorso, ed è tentata di ingiungergli di arrivare dritto al punto. Poi però fa un sorrisetto tra sé e sé, e con femminile arguzia decide che il grande calciatore può pure stare un po’ sulle spine per una domanda che gli brucia in bocca.
“Hm”.
“Tutto qui? Hm?” chiede Karl, con una lievissima nota d’impazienza nella voce.
“Eh!” sorride Julia con aria incolpevole, alzando le spalle.  
“… ah”.
“Eh già”.
“… negli ultimi mesi lo abbiamo visto sereno e allegro come non mai, pensiamo che si sia innamorato. Siamo una banda di pettegoli, eh?”
“Non l’avrei mai detto” Julia ora fa fatica a non ridere apertamente.
“… non sei tu?” sputa finalmente fuori il Kaiser.
“No”. La risposta è netta e lapidaria.
“Allora chissà chi è”.
“Boh!”
“Uhm! Pensavo che tu e lui…”
“No no” Julia nega ripetutamente con la testa.
“Ah, ecco”.
“Già”.
Di nuovo scende un silenzio imbarazzato. Poi Julia lancia la sua esca:
“Una cosa è ammirare qualcuno, un’altra esserne attratto. Da me normalmente le persone scappano”.
Karl si morde ripetutamente il labbro inferiore, sembra combattuto, forse vuol dire qualcosa di cui teme di pentirsi.
“Quando avevo diciassette anni, il mio migliore amico nonché compagno di banco cominciò a essere preso di mira dai suoi amici perché, a detta loro, “gli piacevano le secchione”. Mi voleva bene, amavamo le stesse cose, ma non poteva sopportare di essere sminuito agli occhi degli altri perché io ero una secchiona. Allora cambiò posto, e non ci siamo mai più parlati per diciotto anni”.
Karl tace.
“Tre mesi fa, mi ha chiamato la direttrice del KiTa di mio figlio, in preda a una crisi isterica. Robby aveva preso a pugni il suo compagno Chrissy, perché quello gli aveva detto “la tua mamma fa schifo”. Dramma di stato, convocazione dei genitori di entrambe le parti. Te l’immagini?...”
Karl tace.
“Bene, arrivo, la direttrice è nel suo ufficio, aspettiamo il papà del piccolo che farà qualche minuto di ritardo per via del lavoro. Intanto parliamo, si ricostruisce la dinamica del fatto: è proprio così, il compagno di Robby gli ha gridato “la tua mamma fa schifo” e Robby gli è immediatamente saltato al collo. “Sa” fa la direttrice “Robert aveva le sue ragioni, ma noi non possiamo ammettere…” “Sì, ma perché Chrissy ha detto che faccio schifo? Mi conosce? Forse i suoi genitori hanno qualche cosa contro di me?” “Credo” risponde la direttrice “che non fosse un insulto diretto a lei personalmente. Il bambino è… insomma, sua madre è l’amministratore delegato di un’importante compagnia e spesso è fuori per lavoro. Suo padre è sostituto procuratore qui a Monaco e quindi sta di più con lui, ma… insomma, crediamo che gli manchi la sua mamma; e forse vedendo lei e Robert, vedendo quanto siete vicini, prova rabbia, perché vorrebbe anche lui passare più tempo con la madre”. “Capito, ma il papà le sa queste cose?” “Sì, gliel’abbiamo accennato…” Ahi ahi, un sostituto procuratore!, pensavo intanto io. Cinque minuti dopo s’è aperta la porta dell’ufficio, un giovane uomo alto e distinto è entrato quasi di corsa scusandosi per il ritardo e… il sostituto procuratore, il padre del ragazzino che mi aveva insultata, era il mio vecchio amico. Si è fermato in mezzo alla stanza, smarrito. Io sono scoppiata a ridere, giuro, non volevo ma era una situazione talmente assurda! Markus. Non ci potevo credere. Si è seduto, compunto, ha ascoltato il resoconto della direttrice, compunto, e quando la direttrice ha finito ha detto: “Ho capito”. Poi mi ha guardato in faccia e mi ha detto: “Senti, che ne dici se ne parliamo davanti a un caffè? Solo tra noi?” “E perché no” ho risposto. La direttrice non stava in sé dal sollievo, già s’immaginava denunce, ricorsi eccetera. Così ce ne siamo andati a prendere un caffè. Eravamo seduti proprio uno di fronte all’altra, quando Markus ha allargato le braccia e con aria afflitta ha sospirato: “Avanti, spara. So che non riuscirai a trattenerti, quindi prima è meglio è”. “Be’!” ho sogghignato. “Quando ti ho visto in mezzo alla stanza, la prima cosa che ho pensato è stata: perbacco, dev’essere proprio una tradizione di famiglia!” “Me lo merito” ha commentato Markus. Siamo stati a parlare per due ore. Abbiamo scoperto, per esempio, che Chrissy parlava sempre di Robby, cercava sempre di attrarre la sua attenzione rubandogli i giochi, facendogli lo sgambetto… “La faccenda è risolvibile, credi a me” gli ho detto. “Ti credo”. Alla fine mi ha accompagnato a casa, e durante il tragitto mi ha confessato: “Ti ero molto affezionato, ma la paura è stata più forte. Non è facile, a diciassette anni”. “Conosco qualcuno che ha avuto la stessa paura a trent’anni passati” gli ho risposto”.
Julia s’interrompe e alza gli occhi per misurare la reazione di Karl.
“Capisco” fa lui.
“Davvero?”
“Come hai risolto col piccolo Chrissy?”
“Ho elaborato un piano di guerra, insieme a Robby. Per una settimana Robby ha portato doppia merenda, ovvero due dei celebri muffin di mio padre: uno per lui e uno per Chrissy. Il primo giorno Chrissy ha buttato il muffin per terra e l’ha calpestato. Il secondo giorno lo ha buttato nel cestino. Il terzo lo ha lasciato lì, sul suo banchetto. Il quarto giorno lo ha preso, senza farsene accorgere, lo ha riportato a casa e lo ha mostrato a suo padre: “Robby mi ha regalato un muffin uguale al suo”. Ora sono amici. Uno ha la mamma lontana, l’altro vede poco suo padre, direi che si completano…”
“Come fai a capire così bene le persone? Anche i piccoli?”
“Non è difficile. Dietro ogni amarezza c’è un desiderio ignorato, o svillaneggiato, o censurato, o…”
Schneider fa un gesto col braccio, quasi a scacciare una mosca che non c’è.
“Okay, allora anch’io ho un racconto per te…”
“Un racconto? Sono tutta orecchi”.
“Il mio è breve”. Karl si schiarisce la voce e fissa la giovane donna con un’espressione implacabile. “Ricordi la partita Bayern-Eintracht? Bene. Quella notte ti ho sognato. Ti ho sognato anche la notte prima della finale. Ti ho sognato la sera del mio compleanno, e ti ho sognato ancora altre volte in questi giorni. E ogni volta, ogni maledetta volta, mi svegliavo all’improvviso, come se mi mancasse l’aria, come se mi avessero rovesciato un secchio d’acqua ghiacciata addosso, e..."
Julia sente la sua faccia andare a fuoco. Si gira di scatto, per non essere vista, e senza che possa farci niente incomincia a tossire forte.
“Scusa, ma non sapevo in che altro modo dirtelo” le parole dell’imperatore arrivano come da un altro pianeta.
Julia continua a tossire.
“Julia?”
“Non preoccuparti“ colpo di tosse. “Tossi-sco perché so-no imba–” colpo di tosse. “–razzata”.
“Scusami!” E nel parlare, Karl afferra con forza la mano di Julia; lei cerca di ritrarsi:
“Non lo fare” dice.
“No” è la tranquilla risposta di Schneider, che a sua volta tira Julia verso di lui e ovviamente ha buon gioco perché è molto più alto, forte e pesante.
“Non doveva andare così” aggiunge, scuotendo lievemente la testa.
“E come allora?”
La voce di Julia suona acuta e stridula, all’opposto di quella di lui. È confusa e ha paura, pensa Karl-Heinz.
“Comunque non così” ripete.
A quel punto la giovane donna gli afferra le braccia con forza e lo bacia. Lo bacia a lungo, irruenta, con un’ansia e un’urgenza come se fosse l’ultima cosa al mondo che le è dato di fare. Poi stacca il viso da quello di lui, fissa i suoi occhi grandi e curiosi negli occhi del giovane, e mormora:
“Karl-Heinz”.
Quindi spinge avanti la testa, fino a premere la fronte contro quella di Karl.
“Karl-Heinz” ripete, chiudendo gli occhi.
Quando li riapre, allontanando la testa, vede – è come se seguisse una scena al rallentatore – lui che, con aria assente, si porta i polpastrelli della mano destra a toccare le labbra. Quando li ritrae, Julia nota che sul labbro inferiore di Karl è sbocciata una minuscola goccia di sangue.
“Oddio” ora dalla sua voce traspare solo panico, panico allo stato puro.
“Non è niente”
“Bisogna disinfettare…”
“Non ce n’è bisogno…”
Ma Julia non lo ascolta nemmeno, con la vista annebbiata, a tentoni cerca nella sua borsa le salviette disinfettate, gli tampona la ferita con le mani che tremano, e continua a mormorare “Scusa, scusa” mentre lui si fa medicare senza una parola, rigido come un automa, le braccia abbandonate, il viso inespressivo.
E quando Julia termina di tamponare la piccola escoriazione, restano l’uno di fronte all’altra, lui seduto con le braccia abbandonate e come impietrito, lei piegata verso di lui, il batuffolo di garza insanguinata stretto nella destra.
“Scusami! Sono una tale frana!”
“No, scusami tu” mormora lui pianissimo, quindi prende il viso di Julia tra le mani e la bacia. È un bacio diverso da quello di poco fa, gentile, lento e morbido, come se, a differenza di lei, Karl sapesse di avere a disposizione tutto il tempo dell’universo. Julia assapora la morbidezza di quelle labbra, l’insinuante carezza della lingua, il calore di quelle mani maschili leggermente ruvide posate sulle sue guance, avverte un lieve sentore di ferro entrarle in bocca – letteralmente sta succhiando un po’ della minuscola goccia di sangue dal labbro di lui.
Da quanto tempo qualcuno non mi bacia? Da quanto tempo qualcuno non mi bacia così? Sono mai stata baciata così? Ora svengo. Di sicuro svengo e faccio un’altra figura del cavolo.
Ovviamente questo non succede; invece succede che Schneider si stacca dolcemente, la avvolge in un abbraccio e le posa la testa sulla spalla.
“Ora dovrai darmi la tessera di socio permanente della Abbracci anonimi e.V.” fa, la bocca premuta sulla t-shirt di Julia.
 
***
Nota al testo. 1) Stare seduta sotto a un tiglio insieme a Schneider fa venire in mente a Julia i versi di una poesia d’amore del poeta medievale Walther von der Vogelweide, che rievoca le effusioni di due giovani amanti en plein air: “Sotto al tiglio, nella brughiera / dov’era il letto di noi due, / potete trovare / belli che spezzati / erba e fiori”. 2) Il KiTa (Kindertagesstätte) corrisponde grosso modo alla nostra scuola materna. 3) Il micione Zorba deve il suo nome al gatto Zorba del racconto di Luis Sepúlveda "Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare" :-)

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Capitolo 10
*** C'era una volta ***


10. C’era una volta
 
21 luglio, pomeriggio
 
***
 
C’erano una volta il desiderio, l’attrazione, e magari anche l’affinità, l’affetto, la tenerezza.
Poi la società si è impadronita del desiderio, ne ha fatto una espressione di potere, una merce regolata dalle norme del mercato. Da bambina aveva due esempi davanti: il primo era l’amore tra i suoi genitori, partiti da due culture tanto diverse l’una dall’altra e miracolosamente incontratisi a mezza strada. L’altro era il mondo, i giornali, il cinema, la letteratura. Il primo le offriva un’immagine di sincerità, di calore umano, ma appariva anche indifeso e un po’ buffo. L’altro le rimandava immagini di benessere, luci della ribalta, potere, ma anche di un freddo difficile da sopportare.
Quando, a otto o nove anni, aveva incominciato a capire il senso della parola “amante”, aveva associato alla parola l’immagine di una giovane donna ingioiellata e impellicciata (erano gli anni Ottanta e le pellicce vere andavano ancora di moda, erano anzi uno status symbol) che per quei gioielli e quella pelliccia doveva acconsentire a fare dei giochini dalla natura poco chiara e non bella con un uomo.
Quando, poco più tardi, aveva decodificato l’espressione “fare l’amore”, l’aveva associata o a due pazzi che improvvisamente escono di senno, sfidano tutte le regole della comunità e vanno incontro a un destino terribile, o a due che per compiere legittimamente un atto necessario e indispensabile per la vita umana, si comprano a vicenda offrendosi in pagamento oggetti ritenuti di valore.
Sempre vendere o comprare, vendere o comprare.
Verso i sedici anni, era tormentata da una domanda: “Ma cosa si son comprati l’un l’altra mamma e papà? Mamma forse ha comprato un marito tedesco, che per una giovane immigrata come lei era una fortuna impensabile, ma cosa gli ha dato in cambio? La sua ignoranza, la sua debolezza? Utzi non è neanche molto bella ed è cocciuta e antipatica. Oppure per papà la debolezza di Utzi era un compenso sufficiente?”
Vendere o comprare, e vergognarsi dei propri pensieri. Meglio essere il frutto di un accordo commerciale o della pazzia di due sconsiderati che buttano all’aria tutti gli accordi commerciali per stare insieme? si chiedeva a volte mentre erano seduti a tavola e papà faceva battute che la mamma non capiva, perché il tedesco di Utzi ancor oggi zoppica un po’.
Non le è mai sembrato di provare attrazione per qualcuno per il suo valore in soldoni, forse più per l’intelligenza, l’umorismo. Il senso di giustizia, che ti fa alzare in piedi di fronte al temutissimo professor Reinecke per dirgli che sbaglia nel prendere sempre di mira quel tuo compagno goffo e maldestro (Markus. Non a caso oggi è procuratore della repubblica). Una tranquilla bravura nel capire e nel fare le cose (Alexander). La serietà. La lealtà. La disponibilità al sacrificio (Schneider). Schneider che, al netto della sua serietà, lealtà e disponibilità al sacrificio è anche un bell’uomo, pieno di soldi e celebre. E tutte queste qualità, sommate, non fanno altro che crearle un torturante disagio. Costa troppo, è il suo pensiero. Sa anche troppo bene che nel mondo del compra-e-vendi il suo valore corrisponde più o meno a quello di uno di quegli anellini che una volta uscivano come sorpresa dalle buste di patatine.
Alex. Quanto gliel’hanno rimproverato, quel meccanico più grande di lei, bruttino e incolto. Se credi di non poter trovare di meglio, sbagli, era il commento costante di Uta. E chi se ne frega, rispondeva lei, tanto non ho bisogno di uno ricco che mi mantenga, a mantenermi ci penso da sola, mi basta un essere umano decente che mi stia vicino. Con cui possa scambiare una parola, a cui ogni tanto possa confidare un cruccio.
Eppure anche Alex, com’era capitato a Markus dieci anni prima, sembrava provare un grande imbarazzo nello stare vicino a lei in pubblico, anche solo fisicamente. Non voleva mai andare da nessuna parte, al cinema si addormentava, il trekking non gli piaceva (diceva che doveva sforzare il corpo tutta la settimana, almeno la domenica voleva riposare), non amava leggere, le discussioni sulla politica lo infastidivano, parlava sempre e solo delle sue automobili. Mai detta una sola parola sul vivere insieme, su un eventuale matrimonio o eventuali figli. Qualche timido accenno lo aveva fatto Julia, ricevendo in cambio solo risposte vaghe e battutine ironiche. E poi quell’abbandono brusco e anche un po’ (un po’ tanto, sogghigna Julia al ricordo) ridicolo; ridicolo, assurdo, incomprensibile.
Non gli ha mai chiesto perché. Sa che Alex svierebbe nel suo solito modo, risposte vaghe e battutine ironiche. Forse è uno di quegli omosessuali che cercano di darsi una parvenza di vita “normale” con la prima ragazza che gli capita, però poi non ce la fanno a reggere a lungo la messinscena?... O forse lei non gli è mai piaciuta abbastanza, e gli serviva solo per far vedere che aveva una ragazza? Avere trentacinque anni e non essere né sposato né avere qualcuno purchessia fa parlare la gente del quartiere, e lui non se lo poteva permettere, anche per non rovinare gli affari?...
 
***

C’era una volta un calciatore quindicenne amareggiato dal disaccordo tra i suoi genitori. Capiva le ragioni sia del papà che della mamma, e cercava di far capire alla mamma che l’atteggiamento di papà non era solo “il solito egoismo e la solita cocciutaggine degli uomini, che pensano solo a sé stessi, e non pensano che le conseguenze ricadono anche sulla loro famiglia”. Al papà, invece, cercava di far capire che la mamma soffriva perché si sentiva messa in secondo piano rispetto a tutto il resto: la squadra, Schmitt, il direttivo, i tifosi rompiballe, l’esonero, l’orgoglio ferito di un bravo professionista trattato ingiustamente.
“Le donne hanno questa strana pretesa di essere sempre al primo posto nella tua vita, nei tuoi pensieri e nelle tue azioni, come se non potessero sopravvivere senza attenzioni costanti, ma quando fai un mestiere come il nostro non puoi stare continuamente appresso alle donne” gli aveva detto l’allenatore quando, diciassettenne, aveva incominciato a far parlare di sé non solo per l’indubbio talento ma anche per la sua maschia, bionda e adolescente avvenenza. “Perciò tieni presente quel che ti dico: se proprio ne hai bisogno, fatti qualche avventura senza coinvolgimento sentimentale, il coinvolgimento distrae dal lavoro. Se proprio ti devi impegnare, trovati qualcuno di molto paziente e intelligente, di cui avere fiducia e che ti dia stabilità. Se ci riesci, rimani single. Ti puoi sempre accoppiare quando appenderai gli scarpini al chiodo: anche come calciatore ritirato non sarai proprio l’ultimo poveraccio a questo mondo, avrai comunque da scegliere, e specie se manterrai quel che prometti e te ne uscirai ricco e blasonato”.
Il Karl diciassettenne aveva fatto un piccolo sogghigno e pensato: “Voglio proprio vedere se è come dici”.
Bene, il discorso cinico del suo vecchio allenatore s’è sempre dimostrato giusto. Tutte le volte che ha deciso di intraprendere una relazione seria, a distanza di mesi si è sentito rinfacciare il poco tempo passato insieme, le sue frequenti assenze, la priorità sempre data a qualcos’altro. Ma io sono un calciatore professionista, la mia vita è così, lo sapevi anche prima. No che non lo sapevo. O allora cosa immaginavi? Che la mia fosse tutta vita di società? Ma come li segno i gol io, come faccio a correre per novanta minuti, con la bacchetta magica? Ti sei mai domandata come fa un calciatore a correre per novanta minuti, maledizione? Ma non hai mai tempo per me! E allora domenica scorsa al cinema, una settimana fa alla festa di Natale? Ma lì ti sei messo a parlare con quei dirigenti e non la finivi più. Non sono io che mi sono messo a parlare con loro, sono loro che si sono messi a parlare con me… e così di seguito.
Queste creature verso cui la biologia ci spinge e la cui vicinanza si paga quasi sempre con una serie di grandissime seccature. Voglio questo, voglio quello. Se lo vuoi prenditelo, è la legge di Schneider. Non mendicare perché qualcuno lo prenda al tuo posto.
Siano benedetti le difficoltà, le durezze della vita e il dolore, ha detto una volta Julia.
***
 
C’era una volta Stefan Levin di Östermalm, virgola, Stoccolma. Questo Stefan Levin era appena diventato maggiorenne e aveva due grandi affetti, lo sport che praticava,che a breve sarebbe diventato il suo lavoro, e una ragazza sua coetanea di nome Katarina.
Katarina gli sembrava un miracolo, forse perché era la prima persona davanti al quale nella sua vita aveva provato quel sentimento di vicinanza, eccitazione e senso di reverenza che normalmente chiamano amore. Per questo perderla era stato così atroce, col dolore per la mancanza costantemente rinfocolato dal rancore, dal vivo sentimento di avere subito un’ingiustizia imperdonabile da parte di Dio.
È un tranquillo pomeriggio d’estate. Poco fa nel cielo è apparsa una mongolfiera e i bambini si sono precipitati fuori in giardino per vederla meglio. Anders legge il giornale sdraiato sul divano e Marina, seduta in poltrona col suo portatile sulle ginocchia, scrive qualcosa digitando furiosamente. Lui è in piedi davanti alla finestra e sorveglia i movimenti di Ola e Magdalena. Dopo che la mongolfiera è scomparsa all’orizzonte, Ola ha raccolto il pallone abbandonato sotto la tettoia e ha proposto alla sorella di “giocare a calcio”. La piccola ha acconsentito con entusiasmo, nonostante abbia la metà degli anni del fratello, sia alta la metà, pesi la metà e abbia la metà della sua forza e coordinazione.
“Non dovremmo fermarli? Ho paura che Ola possa far male a Polpetta” dice, guardando sempre fuori, ma rivolto a suo fratello e Marina.
“Lascia stare, Polpetta si difende benissimo” risponde Marina senza alzare gli occhi dal pc.
Ed eccoli i due piccoli Levin, a distanza di forse una decina di metri l’uno dall’altra, Ola palla al piede pronto a tirare, Polpetta di fronte a lui con le gambette flesse e le braccia aperte a mezz’aria, proprio come un vero portiere.
“Pronta?” domanda Ola alla sorellina.
“Plonta!” strilla Magdalena.
“E allora para questa!”
Il ragazzino carica un bel tiro col piede destro. È un tiro forte per un bambino della sua età. Il pallone si solleva per un buon metro e mezzo da terra, schizzando a sinistra, poi inizia velocemente la sua discesa. È troppo veloce e troppo forte per la piccola, si preoccupa Stefan, e mentre formula questo pensiero vede la nipotina spiccare un salto e buttarsi sul pallone grande quasi la metà di lei. Il pallone ricade a terra con Magdalena aggrappata sopra.  
“Allora? Niente morti né feriti?” domanda Anders scostando il giornale.
“Ha preso un pallone grande la metà di lei” risponde Stefan compiaciuto.
“Eh eh. La nostra Polpetta ha fegato” commenta Anders con l’immancabile orgoglio del padre di una figlia promettente.
Fegato e intelligenza, riflette Stefan. Ha parato quel pallone in modo da non farsi male, lei così piccina.
Ma questo è meglio non dirlo ad alta voce, altrimenti suo fratello parte in quarta.
 
***
 
Buongiorno a tutti e buona domenica. Sono di nuovo qui dopo oltre un anno di assenza, e non mi meraviglierei se dopo tanto tempo non ci fosse più nessuno a leggermi. Comunque questa è una storia che dev’essere terminata e che sarà terminata, presto o tardi.

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Capitolo 11
*** La scommessa ***


11. La scommessa


Vous êtes embarqué (Blaise Pascal)
 

Dev'essere proprio solo
per dividere con me
questo pomeriggio di luglio,
ho pensato 
mentre il ragazzo dal polso rotto
mi veniva incontro
con una bottiglia sottobraccio 
e un mazzo di gerbere,
dev'essere proprio solo - 

ma come fa a essere solo 
questo maschio alfa della specie,
questo atleta dagli occhi azzurri?

E voi non ridete, nessuna domanda 
potrebbe essere più adatta 
alla bambina strana
che entrava nel negozio di dolci
e non poteva mai comprarne
perché le sue monete 
non erano nella valuta del paese.
 

*** 

Lo ha sorpreso a leggere quei versi scarabocchiati, che non avrebbero dovuto essere lì in bella mostra. Il suo primo impulso è stato quello di strappargli il foglio dalle mani, il secondo quello di prendere a testate lo stipite della porta della cucina. Come si fa a rendersi tanto ridicoli? 

Poi però non ha fatto niente di tutto questo. 

“Sì, in effetti ero molto solo” ha commentato lui con aria grave alzando gli occhi dal foglio.

Si sono guardati con quell’imbarazzo, quel senso di disagio che prende le persone quando stanno di fronte a qualcuno davanti a cui - volontariamente o per errore - hanno fatto cadere la maschera, e non c’è più verso di tornare indietro e rimettersela. È il primo gradino dell’intimità e c’è chi non lo sperimenta mai nel corso di tutta la vita: essere nudi di fronte a un’altra persona è potenzialmente letale, laddove il fine di tutti è massimizzare i vantaggi e mantenere il controllo. 

Schneider abbozza un sorriso: “La mia entrata in scena ti ha sconvolto la vita?” 

Julia, di rimando, con lo stesso sforzo nel comporre un sorriso: “No… solo fatto saltare tutta una visione del mondo!” 

Si stringe le braccia con le mani. Ho paura, vorrebbe dirgli, ho una paura terribile, aiutami, posso fidarmi di te? 

Lui torna a fissare il foglio stropicciato con quei versacci scarabocchiati sopra. Lo fissa con tutta la concentrazione possibile. “Non diceva uno dei tuoi filosofi che bisogna scommettere sull’esistenza di Dio, perché se poi si perde, non si perde niente, ma se si vince, si vince tutto?” 

Il fatto è, risponde mentalmente Julia, che per tutta la vita ho portato sulle spalle una specie di sacco pieno di sassi; ora pare che il sacco sia scomparso, dovrei sentirmi meglio, posso tenere la schiena dritta, ma non sentire più quel peso mi manda nel panico. 

“Eri davvero la bambina che non aveva soldi per comprare i dolci?” sorride Schneider. 

“I soldi li avevo, per usare una metafora, ma non era moneta accettata. Dal lato della mia famiglia e del quartiere ero troppo strana perché ero una secchiona che andava al ginnasio, dal lato della scuola ero la figlia di un panettiere e di un’immigrata, ero come una tigre che ti capita nel giardino di casa e tu dici: ma come ci è arrivata? Una tigre nel giardino di casa è un pericolo! Come la mando via, chi chiamo? La polizia, lo zoo, i reparti speciali? Gli uni non mi volevano per un motivo, gli altri per un altro. E lo so che cosa vuoi dirmi, che erano stupidi eccetera. Ma non erano stupidi. Magari subivano uno stato di cose, ma non erano stupidi. Ho tirato diritto, ho anche studiato scientificamente le cause di questi comportamenti, e tutto ha un suo perché, tutto si spiega, ma… il mondo è così, o fai parte di una tribù o di un’altra. Io non facevo parte di niente. Dice: le decisioni sbagliate, le persone sbagliate… magari non saranno sbagliate ma sono tutto quello che ti tocca? E poi arrivi tu, cioè, sì, arriva Stefan, poi arrivi tu, e, e, e, e, e allora è normale che io mi sia… io sia… io ti… era anche fin troppo prevedibile. Ma tu…” Julia muove un braccio nell’aria, impaziente: “Insomma, è un affare serio!” 

“Anch’io ho paura”. 

Perché è così calmo? C’è da sbattere la testa al muro!, pensa Julia. 
“Ti fidi di me?” domanda Schneider.
“Non lo so!” 
“Ma ormai sei in ballo, devi scommettere”. 
“E tu no?” 

“Io pure. E infatti scommetto. Scommetto che ti amo, che tu mi ami, e che insieme possiamo costruire qualcosa. Avanti, Giulietta: hai il coraggio di scommettere anche tu?”

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Capitolo 12
*** Fine delle vacanze ***


12. Fine delle vacanze

 

Domenica sera sono tornati la nonna, Uta, Robby e Michael dall’Italia. Robby e Michael sono comparsi nell’ingresso di casa, abbronzati e rumorosi, con le mani piene di scatole, buste e contenitori. Robby portava una camiciola a disegni hawaiani sui pantaloncini bermuda color sabbia comprati da Julia. Ha lasciato cadere scatole e buste per terra e si è tuffato nelle braccia della mamma.

 

*** 

 

A cena, mentre Michael mangia a quattro palmenti - e ne chiede ancora - e Robby scava tunnel nel purè di patate, Uta e la nonna fanno il resoconto della vacanza.  Il tempo è stato sempre bellissimo, con l’eccezione di qualche pioggerella pomeridiana; il mare meraviglioso, hanno fatto il bagno quasi ogni giorno. Uta ha portato i ragazzi a visitare Siracusa. La nonna al mare ha addirittura incontrato la sua compagna di banco delle elementari, venuta dagli Stati Uniti: abita lì da quarant’anni. E Michael, così pare, ha fatto conquiste. “Mamma!” esclama il sedicenne arrossendo fino alle orecchie. Uta non se ne dà per intesa e racconta.

“E tu? Hai passato buone vacanze?” s’informa Utzi.

“Io? Ho preso il raffreddore… sono andata sullo Starnberger See… ho fatto delle passeggiate…” risponde Julia. 

“Ti hanno fatto bene” approva subito Utzi. 

“Speriamo… Robert, smetti di giocare col purè! O lo mangi o lo lasci stare”. Dopo cena aprono i regalini che sua madre e Uta hanno portato, e mentre Robby casca dal sonno seduto su un angolo del divano, gli altri tre si congedano. “Ciao, salutate il papà, salutate Gerhard da parte mia” raccomanda Julia sulla porta. E quando sua madre, sua sorella e suo nipote spariscono per le scale, richiude piano la porta, torna in salotto e piano piano prende per mano Robby e lo fa alzare. Robby, tutto insonnolito, cerca di farsi prendere in braccio: “Mamma, non ci vedo a camminare, ho sonno…” 

A Julia scappa da ridere.  “Andiamo, giovanotto, come faccio a prenderti in braccio? Tra poco diventerai più alto di me!” “Ma almeno posso dormire con teee?” piagnucola Robby. 

“Questo si può fare” sorride la mamma.

 

*** 

 

Il Bayern Monaco ha ripreso gli allenamenti ai primi di agosto: il campionato quest’anno inizia piuttosto presto, perché l’anno prossimo ci sarà il campionato europeo. 

“To’, che aria strana” pensa Stefan nel preciso momento in cui avvista il suo capitano. E continua a pensare così durante tutto l’allenamento: l’aria ‘strana’ dipende dal fatto che Karl, insieme alla concentrazione e all’autorevolezza di sempre, sembra irradiare una specie di luce. Non è un’aria strana, è un’aria felice, si corregge Levin riflettendo tra sé. Chissà che gli è successo in queste settimane. Ma in fondo in fondo Stefan immagina benissimo cosa possa essere successo, qualcosa glielo ha suggerito fin dalla sera della partita contro l’Eintracht di Francoforte, fin dal viaggio di ritorno da Lisbona: Schneider è il tipo che capisce immediatamente le situazioni e le prende in mano senza perdere tempo. Se si è reso conto di essere attratto da Julia, sarà sicuramente passato subito all’azione. E se ora ha quell’espressione sulla faccia, si direbbe che è innamorato cotto, sogghigna Levin. 

Durante una breve pausa, per caso o per calcolo, Karl va a sedersi vicino a lui. “Capitano” saluta sinteticamente Levin. “Stefan” risponde Schneider. 

“Come sono andate le vacanze?” 

“Bene, bene” sorride Levin sotto i baffi. “Sono stato a casa, ho passato del tempo con la famiglia, con gli amici… riflettuto sul mio futuro… e tu?” 

Karl solleva il braccio sinistro e agita la mano: “Ho pensato a guarire…”

"Okay” annuisce Levin. 

"Ho - ho visto spesso la tua amica” 

“Okay” ripete Levin, con un sorriso più benevolo che mai. 

“Sai solo dire ‘okay’?” domanda Schneider irritato. 

“E che devo dire?” fa Levin, mettendo su un’espressione interrogativa. 

“Ma non lo so” brontola Karl agitando la mano “cose come ‘se fai soffrire Julia ti ammazzo’!” 

“Lo sai già da te: se fai soffrire Julia ti ammazzo”.

Si guardano in faccia  e scoppiano a ridere.  Ridono ancora quando risuona il fischietto del viceallenatore che li richiama in campo.

Mentre si alzano dalla panca, Stefan dice: “Tua sorella studia giornalismo alla LMU, ricordo bene?” 

“Sì, perché?” 

“Ho deciso di iscrivermi all’università. Magari Marie può darmi qualche dritta”.

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Capitolo 13
*** Skål! ***


13. Skål!
 

Sono seduti sul terrazzino di Julia, di fronte a un tramonto color di rosa, in un’aria di tarda estate ancora calda e profumata. Non sembra possibile che già tra un paio di settimane arriverà l’autunno bavarese. Ieri c’è stata la quarta giornata di andata del campionato e il Bayern ha vinto in casa per 1-0. E siccome il gol l’ha segnato proprio Levin, i giornali si sono sprecati in lodi e incensamenti e a Julia viene da ridere perché quando Levin o Karl passano da casa sua nessuno li riconosce. 

“Ma com’è possibile che tu prenda l’ascensore con Jürgen Stahlmann del quinto piano e lui neanche ti riconosca?” chiede, rivolta a sé stessa, a Levin e a quel bel tramonto, mentre versa succo d’arancia appena spremuto nei due bicchieri posati sul tavolino di ferro battuto. “È vero che ti presenti in borghese, ma un  tuo tifoso dovrebbe riconoscerti…” 

Levin “in borghese” somiglia a un ragazzo come tanti: t-shirt, giubbotto, jeans, sneaker, capelli raccolti e quando vuol proprio strafare - anche lui, come Karl - un paio di occhiali da vista. Non c’è niente come un paio di occhiali da vista per mimetizzarsi, le hanno spiegato. Ma che il suo vicino di casa tifosissimo del Bayern non riconosca il bel viso dai lineamenti delicati e gli occhi chiari dello svedese, neanche avendoli a mezzo metro di distanza? 

“Mmm!” Julia medita ad alta voce mentre si siede. “Magari ha a che fare con la dissonanza cognitiva”.

“Che roba è la dissonanza cognitiva?” chiede Levin alzando le sopracciglia. 

“Semplice. Se ti trovi davanti a una situazione che non combacia con le tue aspettative, decidi di negarla anche se i tuoi occhi ti dicono il contrario. Ovvero, il mio vicino ti incontra in ascensore, ti riconosce pure, ma pensa: non può essere lui! E quindi fa finta di niente”. 

“Meglio per me!” 

“Le persone sono proprio curiose. Jürgen sogna di incontrarti da tutta una vita, e una volta che ti incontra non ti sa riconoscere”. 

Rimangono così in silenzio per molti minuti. Poi Levin dice: 

“Abbiamo gli occhi e non guardiamo…” 

“Ci abituano a non saper guardare da quando nasciamo”. Una volta Julia gli ha detto che, pur occupandosi di roba vecchia per mestiere, come scrittrice si interessa molto alla psicologia e alla sociologia. “Le persone sono proprio curiose, per usare un eufemismo”. Ma stasera Stefan è strano, è meno controllato del solito, si agita sulla piccola sedia di ferro battuto, tormenta il bicchiere, si tocca gli occhiali, si passa una mano tra i capelli, accavalla la gamba destra, poi la mette giù, poi accavalla la sinistra, e quindi la mette giù, poi batte con i piedi, come seguendo una melodia che sente solo lui. “Lo sai? Mi iscrivo all’università, scienze della comunicazione. Inizio col semestre estivo. Come studente lavoratore!” esplode infine. 

“Allora hai deciso di fare sul serio col giornalismo?” si informa Julia. 

“Sì. Marie mi aiuterà ad ambientarmi”.

“Marie, eh?” 

“Sì, Marie”. 

Di nuovo silenzio. Ha già detto tutto, secondo il suo punto di vista, pensa Julia guardando l’amico di sotto in su e facendo uno sforzo per non esclamare: Auguri e figli maschi! Ché poi, perché proprio maschi? Però non può fare a meno di allungare una mano e di stringere forte quella di Stefan, come per dire: guarda che ho capito! “Sono contenta” dice. Lui annuisce. 

E siccome le cose importanti sono state dette, tornano a parlare di come è strana la gente, di come sembra che combattano tanto per avere quello che vogliono, ma non sanno che in verità non vogliono quello che vogliono.

“Guarda certe rockstar, certi attori del cinema. Sono belli, ricchi, famosi, hanno la facoltà di scegliersi il compagno che preferiscono. Eppure molti di loro soffrono, hanno problemi di depressione, di dipendenze: perché, secondo te?”

“Forse perché quello che volevano non è quello che li avrebbe resi veramente contenti?” azzarda Stefan.

"Esatto. Noi crediamo di volere qualcosa perché è quello che tutti sembrano volere, ci vendiamo l’anima per averlo, e una volta che lo otteniamo ci rendiamo conto che sono cose senza senso”.  

“E allora che bisogna fare?” 

“Bisogna avere il coraggio di guardarsi dentro e di capire chi si è e cosa si cerca. Tu perché giochi a calcio?” 

“Perché… perché immagino sia la cosa più bella del mondo”. 

“Anche Karl mi ha risposto così”. 

“Eh” ridacchia Levin; non c’è modo di sbagliarsi.

“È la regola aurea, Stefan. Bisogna ascoltare sé stessi e non le sirene, se non si vuole fare naufragio”.

"Messa così pare semplice…” 

“È semplice a dirsi, non a farsi. E ci vuole molto coraggio. La maggior parte della gente trascorre tutta la vita estranea a sé stessa. Insomma, siamo una massa di alienati!”

Julia sorride. “A diciassette anni avevo un’amicizia speciale con un ragazzo. Avevamo gli stessi interessi, le stesse passioni, tutto. Probabilmente ci stavamo anche innamorando, se non che lui decise di rompere l’amicizia perché i suoi compagni lo deridevano, gli dicevano che gli piacevano i tipi strani. Io ne ho sofferto tantissimo, anche se mi è servito a capire come gira il mondo, ma suppongo che lui ci abbia perso più di me. Pensa, a te piace una ragazza buffa che ama la fantascienza, come te, e legge Tolkien, come te, e ama andare al cinema, come te, e tu decidi di mollarla perché un tuo amico più stupido di te ti dice che la ragazza buffa non va bene, devi avere al fianco la bonona della classe se vuoi essere cool.  Pensa, perdere l’anima per fare la parte del ragazzo figo. Magari non te ne importa neanche, ma senti l’obbligo di apparire figo. Capisci? Vivere fuori di sé provoca dolore non solo a noi ma anche a tutti quelli che ci circondano. Oh! Quando l’ho capito ho deciso che, per quanto mi riguardava, non avrei vissuto fuori di me”. 

“Però…” Levin beve un sorso di succo d’arancia, la gola gli si è improvvisamente seccata.

“Però questo non ti mette al riparo”. 

“Per niente”. 

“E allora?” 

“Chiediti se soffri per un motivo vero o per un motivo falso”. 

“E come fai a distinguere?” “Normalmente un dolore vero ti restituisce a te stesso” Julia esita “anche se… a volte… occorre tempo”. 

“Anche molto tempo?” “Immagino di sì”. 

“Anche dieci anni?” 

“Anche venti, anche trenta, se è per questo… certe cose diventano chiare solo dopo tanto. E quando diventano chiare…” 

“Quando diventano chiare?…” 

“Be’, allora trovi la pace, ovvero, anche se può sembrare una parolaccia kitsch: trovi la gioia. O per metterla da un altro punto di vista: perdi tutta la rabbia, l’angustia e il rancore”. 

Levin stringe il bicchiere con entrambe le mani. “Credo di aver perso la mia rabbia…” 

Da giorni sente continuamente quel crac nella testa e nelle giunture, quel rimbombo cupo contro la sua cassa toracica. 

“Non è una bella cosa?” “Non saprei”. Pausa. “Ho vissuto tanto tempo insieme alla rabbia che ora che non c’è più mi sento a disagio”. 

E mentre lo dice, sente ancora vibrare, tra la lingua e i denti, un rumorosissimo crac

“Be’, a questo bisogna brindare. Prosit!” Julia alza il suo bicchiere. “Anzi: skål!”

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Capitolo 14
*** Storia di Julia e di Alexander ***


15. Storia di Julia e di Alexander
 

Un silenzio di tomba scese sul piazzale dell’officina meccanica Schnell & Schreiner, quando il signor Schneider, che quattro giorni prima aveva prenotato telefonicamente un appuntamento per il martedì alle 16, scese dalla sua auto. I ragazzi che stavano lavorando fuori si fermarono a bocca aperta e con le mani a mezz’aria. 

Karl-Heinz Schneider sollevò gli occhiali neri sulla fronte, avanzò di qualche passo, tranquillo e rilassato, e chiese a Leo - il più vicino, ancora a bocca aperta:

“Buon pomeriggio, mi chiamo Schneider, ho appuntamento col signor Schnell…” 

“S-sì” farfugliò Leo “u-un momento, prego”, e si tuffò dentro l’officina, zigzagò tra le auto in riparazione, prese il corridoietto che portava all’ufficio di Alexander, spalancò la porta senza bussare, e mentre il capo alzava gli occhi dalle carte che aveva sulla scrivania, incuriosito da quell’entrata violenta e teatrale, esclamò con voce isterica: 

“C’è Schneider!” 

Alex disse: 

“Certo, il signor Schneider aveva preso appuntamento…” 

Leo scosse la testa. “Non hai capito, capo: è Schneider! Schneider, Schneider del Bayern” l’apprendista si fermò per riprendere fiato. “È proprio lui!” 

Alex si alzò, un sopracciglio sollevato. “Be’, questa è proprio una cosa curiosa” commentò. Fece il giro della scrivania e si affiancò a Leo. “Andiamo a vedere!”
 

*** 
 

Karl aspettava, le mani nelle tasche, mentre operai e apprendisti lo guardavano senza fare un gesto. Quando dall’officina uscì trotterellando il ragazzo a cui aveva parlato, seguito da un uomo di circa quarantacinque anni, piccolino, magro, in tuta da lavoro, con mani grandi e piene di cicatrici - dai tagli alle bruciature -, una barbetta incolta e brizzolata, occhiali da vista sul naso e in testa, un cappellino con la visiera girato al contrario, tirò fuori le mani dalle tasche e tese amichevolmente la destra ad Alex: 

“Buon giorno, signor Schnell, ci siamo sentiti al telefono la settimana scorsa, mi chiamo…” 

“Karl-Heinz Schneider” sorrise Alex stringendogli la mano. “I ragazzi, come può vedere, la stanno fissando trasecolati da cinque minuti”.

Alex portò intorno uno sguardo minaccioso, da capo: “Beh? È passato un angelo, che siete rimasti tutti folgorati? Tornate al lavoro, dai!”

 

*** 

 

Risultò che Karl aveva avuto qualche problema con l’apertura di uno degli sportelli e Schnell & Schreiner gli erano stati caldamente consigliati come i migliori carrozzieri della zona est. 

Alex fece tutte le prove del caso, aprì e richiuse lo sportello da fuori, da dentro, controllò i vetri, s’infilò sotto l’auto, saggiò il profilo dello sportello con le dita, controllò le intercapedini. A un certo punto un piccolo sorriso gli spuntò sulle labbra e, annuendo tra sé e sé, annunciò che forse l’inghippo era stato trovato. 

“Venga con me in ufficio, parliamo della riparazione” disse, girandosi verso Karl. Richiuse accuratamente lo sportello e precedette Karl nell’ufficetto polveroso. 

“Si accomodi” gli indicò la sedia di fronte alla scrivania, mentre entravano. E lasciò passare avanti Karl, mentre lui rimaneva un istante sulla porta, prima di chiuderla ed entrare lui stesso. 

“Posso offrirle qualcosa? Birra?” “Avrebbe dell’acqua?”

“Certamente. Ma dovrà accontentarsi di un bicchiere di carta”. 

“Se ha una bottiglietta piccola, posso bere dalla bottiglia”.

Con aria pensosa, Alex aprì il frigorifero e tirò fuori una bottiglietta d’acqua. Richiuse il frigo e si diresse anche lui verso la scrivania. Mentre faceva il giro e posò la bottiglietta di fronte al suo cliente, che intanto si era accomodato, lasciandosi scivolare un po’, una gamba portata avanti e una tenuta indietro. E sedette al suo posto. 

“Allora, signor Schneider, prima di tutto spero che mi dirà chi le ha consigliato la nostra officina, perché dovrò fargli un regalo. Secondo, volevo chiederle una cortesia …” “Prego”. 

“I ragazzi là fuori sicuramente muoiono dalla voglia di farsi un selfie con lei, anche se non hanno osato muovere un dito perché sono contrario a queste cose sul posto di lavoro. Se dopo vuole dare loro questa gioia…” 

“Oh, certo” rispose Karl. “Non ci avevo pensato”. 

“E ora a noi. Il suo problema è una sciocchezza…” 

“Lo so” lo interruppe Karl “ho fatto riverniciare lo sportello sei mesi fa perché era stato graffiato da alcuni vandali e il carrozziere autorizzato ha saputo fare male anche un lavoro stupido”. 

“Ah” si stupì Alex. “E perché non ha riportato l’auto da loro? Ha la convenzione con Winkelmann e figli, no?” 

Karl inspirò profondamente. 

“Il fatto è, signor Schnell, che avevo bisogno di una scusa per parlare con lei”. 

Alex lo fissò di sotto in su. 

“Con me?” 

“Sì”.

“E che diavolo…” 

“Si tratta di Julia”.

 

*** 

 

“Io… insomma, io e Julia. Abbiamo una relazione”. 

Alex aprì la bocca tre volte prima di riuscire a rispondere. 

“Se non la vedessi qui davanti a me, non esito a dire che non ci crederei”. 

Karl non trovò che rispondere. 

“Allora il misterioso ragazzo biondo di cui mi ha parlato la mia vicina pettegola è niente meno che il campione di Germania… ma la signora Jungreithmayr non segue il calcio” proseguì Alex. E incrociò le braccia al petto, in attesa di una risposta.

Karl taceva. 

Alex lo guardò di traverso. “Se posso chiedere… che ci fa lei con Julia?”

“Immagino di essermi innamorato di lei” rispose Karl con sincerità. 

“E come è successo? Uno come lei frequenta tutt’altro tipo di persone, mi pare”. 

“Non proprio…” 

“È una cosa inverosimile, inverosimile” Alex scosse la testa. 

“Io amo Julia”. 

Alex fece un sospiro irritato. 

“Ma lei ha capito chi è Julia? Che cosa è, Julia?”

Karl sorrise con aria di scusa:

“Temo che non riuscirò mai a capirlo fino in fondo”. 

“È un buon inizio”.

“Lei dice?”

Alex sogghignò. “Che vuole sapere?”

“Perché l’ha lasciata?” 

“Perché non avrei mai dovuto mettermici insieme”. 

“Ma avete un figlio…” 

“Già. E quindi?”

“Mi sembra che Julia abbia molto sofferto per questo…”

Alex si alzò di scatto, fece il giro della scrivania e andò a fermarsi davanti alla finestra. Parlò rivolto al vetro: 

“Julia non glielo dirà nemmeno sotto tortura, ma ha dovuto combattere tutta la vita con le unghie e con i denti. Dall’insegnante di tedesco in ottava che la accusava di copiare a quelli dell’università che l’hanno ostacolata dal primo momento che ha messo piede lì dentro. E le delusioni, le derisioni, perché una come lei non la infili in una casellina e lì sta, tranquilla e rassicurante. Julia è una che sconvolge gli assetti del mondo. L’hanno sempre guardata tutti con sospetto. Chi è questa, da dove viene, che vuole? Le hanno fatto di tutto, dal mobbing alla diffamazione. Perché? Perché chi è questa? Non è dei nostri. Non era mai dei loro. Julia non è mai stata di nessuno”. 

“Ma lei l’amava?” 

“Potevo non amarla?” 

“E allora perché?”

“Julia aveva un disperato bisogno di qualcuno su cui riversare il suo affetto, perché lei scoppia di affetto, e pensava che quel qualcuno potessi essere io; ma io non potevo darle niente. Non potevo dedicarle la mia vita; avevo già una famiglia in difficoltà di cui occuparmi. Mia madre, mio fratello”.

“Comunque avete fatto un figlio…” 

“Lo ha voluto lei. Cocciuta e determinata ad andare fino in fondo, come sempre. Col suo coraggio da pazza scriteriata. Mentre la lasciavo ha voluto donarmi Robby. L’unico regalo che potevo fare io a lei e Robby, invece, era togliermi dai piedi”. 

Alex fece dietro-front dalla finestra e tornò verso la scrivania a passo di carica. Si fermò di botto davanti a Karl. L’uomo piccolo, in piedi, ora sovrastava il centravanti del Bayern. 

“Ragazzo” disse Alex. “Julia si è convinta che io l’abbia lasciata perché non valeva abbastanza per me, ma io l’ho fatto perché lei doveva, lei deve… volare. Dove poteva andare con uno come me? Deve essere libera, ed essere sé stessa, ed essere amata come merita. Ci siamo capiti?” 

“Credo di sì” mormorò Schneider. 

“E non credere che i tuoi gol e i tuoi milioni ti rendano automaticamente alla sua altezza”. 

“Questo lo so”. 

“È un buon inizio. Ora va’ a farti un selfie coi ragazzi, che non aspettano altro”.

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Capitolo 15
*** Chiarimenti & confessioni ***


14. Chiarimenti & confessioni 

 

“Ma tu, esattamente, che ci azzecchi con Julia Gutenbrunner?” 

La domanda arriva così, sparata dal niente, dalla sua sorellina compostamente seduta al tavolo del tinello: la sorpresa è tale che l’acqua che sta bevendo gli va di traverso e gli parte un accesso furioso di tosse. Marie lo fissa imperturbabile. Quando tutto torna a posto, Karl-Heinz fa un ampio respiro, si appoggia con la schiena al frigorifero, si batte brevemente il pugno sul petto e articola, la voce mezzo strozzata: “Ch-che dici?” 

“Che ci azzecchi con Julia Gutenbrunner? Hai presente, Julia Gutenbrunner?” ripete Marie. 

Lui fa un gesto con la mano, come a voler scacciare una mosca fastidiosa. 

“Dieci settembre, ore 17.50, zona università” spiega sua sorella con un sogghignetto malizioso. “Ti sono passata proprio accanto, ma tu guardavi da tutt’altra parte e non mi hai neanche visto”. Lui non dice niente per non peggiorare la situazione. “Allora ho fatto un giro largo e mi sono messa a spiarti”. 

“Non ci posso credere” sospira Karl-Heinz battendosi la fronte col palmo della mano. 

“Che cosa vuoi? Sono curiosa!” sogghigna sua sorella sempre più diabolicamente. “E poi mi preoccupo per te! Dovesse capitare che ti metti in situazioni pericolose…” “Io?” 

“Dopo cinque minuti ho visto uscire la persona in questione… e tu le sei andato incontro e l’hai salutata con un bacetto” Maria protrude le labbra all’infuori, nella buffa imitazione di un bacio. “A momenti me ne cascavo per terra… mi ero aspettata che avessi appuntamento con qualche studentessa belloccia. Tu lo sai, vero, chi è lei?” 

“Hai così poca considerazione di me?” Karl-Heinz le risponde con una domanda. 

“Ah, voi uomini… siete talmente prevedibili che mi hai colto di sorpresa”. 

“Vedi allora che io non sono prevedibile?”

“Vorrei solo assicurarmi del fatto che tu sappia con chi hai a che fare”. 

Karl-Heinz scoppia a ridere di cuore: 

“Sì, lo so, lo so”. 

“Lo sai, davvero?”

“Lo so, davvero”.

“Buon per te. E dimmi” Marie esita un attimo, poi spara la domandona: “La prof c’entra qualcosa anche con la decisione di Stefan?” 

Stavolta è lui a fare un enorme sogghigno: “Dovresti chiederlo a lui. Ma in ogni caso pare che la svolta culturale di Levin ti faccia piuttosto piacere, o mi sbaglio?” 

Marie ribatte indispettita: “Guarda che lui non è mai stato come voialtri ignoranti…”

“E ora che si vuole iscrivere al tuo stesso corso di laurea ce l’hai tra le tue minuscole grinfiette!” 

Marie si prende la testa nelle mani.

“Le mie minuscole grinfiette possono solo fargli il solletico…” 

Karl-Heinz guarda la sorella, colpito. 

“Ohiohiohi… allora è una cosa seria” commenta, improvvisamente serio anche lui. 

“Se gliene parli ti uccido”. Il tono di Marie è quello di chi sta per avere una crisi di pianto. 

“Mariechen…” incomincia lui, impostando un tono di voce protettivo da fratello maggiore.

“Mi hai sentito?” ripete Marie. “Guai a te. Se gliene parli ti uccido!” 

E così è, pensa Karl-Heinz, noi siamo allegri e sicuri di noi solo se di una persona non ce ne frega niente. Se invece teniamo a lei, diventiamo pieni di paure e di dubbi. Accidenti a me e quando li ho messi in contatto per vía dell’università. Anzi, accidenti a Levin e a quando me l’ha chiesto!

“Se si comporta male con te lo uccido io”. 

“Non ci provare!” 

Si guardano negli occhi e nel giro di un secondo scoppiano a ridere come due pazzi, Marie crolla con la testa sul tavolo, sobbalzando, lui non riesce a tenersi in piedi e scivola a terra, tenendosi la pancia. Ridono a gola spiegata per un minuto buono, e quando l’attacco di riso si estingue si ritrovano a guardarsi con gli occhi velati di lacrime.

“Ma stai piangendo per piangere o piangi dal ridere?” fa Marie, col suo sorriso contagioso di nuovo sulle labbra.

“Guarda, non chiedermelo!” Karl-Heinz si rialza facendo leva con una mano sul pavimento, e una volta in piedi si spolvera i pantaloni passandoci sopra i palmi delle mani. Incrocia le braccia e fissa la sorellina. “Levin è un bravo ragazzo, Mariechen. Se senti che è la persona che fa per te, non esitare”.

“E se…?” 

La domanda rimane sospesa nell’aria. E se mi sbaglio? E se lui non mi vuole…? 

“Qui non parliamo di lui, ma di te. Quello che dirà o farà lui è secondario. Il coraggio delle tue azioni lo devi avere tu”. 

“Sembra uno di quei discorsi motivazionali che vi fa papà prima delle partite”.

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Capitolo 16
*** Alea iacta est ***


16. Alea iacta est

 

Karl-Heinz ricorda quelle settimane di luglio come un lungo sogno. Erano andati tutti via per le vacanze e lui era dovuto rimanere in città per la fisioterapia: erano stati giorni come vissuti dal fondo del mare, vedeva movimenti e sentiva rumori come ovattati e al rallentatore. Ricorda solo l’odore degli alberi e dell’alba, la luce del primo mattino. 

Era stata tutta un’anomalia: non aveva invitato Julia a cena, ma era andato direttamente a casa sua con una bottiglia di spumante, “per festeggiare la conquista della Champions, anche se in ritardo”. E le aveva raccontato della strana apparizione durante l’intervallo che gli aveva dato la carica per portare la squadra alla vittoria nel secondo tempo. “Lo sai che eri tu che parlavi a te stesso, vero?” gli aveva domandato Julia. Lui aveva risposto di sì, ma non era riuscito a tirare fuori la domanda da un milione di dollari: perché ho scelto te come schermo per parlare a me stesso in quel momento di difficoltà? Avevano cenato insieme, quella sera. Nel tinello di Julia. Una frittata con gli spinaci. E lui l’aveva aiutata ad apparecchiare. Come se niente fosse. Il giorno dopo, quando l’aveva sentita al telefono, roca e raffreddata, la prima cosa che aveva fatto era stata darle il suo numero privato, in caso avesse bisogno di aiuto per la spesa o per comprare le medicine. E la seconda volta erano andati in una gelateria italiana, come due ragazzi qualunque. Si chiede ancora come mai non l’abbiano riconosciuto. Gelato e torta di compleanno, con gli omaggi della signora Gutenbrunner. Come due ragazzi qualunque. E poi erano andati a passeggiare in riva allo Starnberger See, e improvvisamente si erano ritrovati a camminare abbracciati. Avevano parlato della Abbracci Anonimi e.V.  Julia è il primo essere umano a cui abbia dato le chiavi della sua auto e a cui abbia concesso di guidarla; certo, era l’Audi e non la Porsche, ma lui è geloso di TUTTI i suoi mezzi di locomozione, anche della bici.  

Si erano baciati per la prima volta nell’erba, durante una scampagnata lungo un’ansa imboscata dell’Isar, col venticello che portava cullandolo il profumo dei tigli. Julia gli aveva procurato una piccola ferita sul labbro inferiore; lui non gliel’ha mai detto, ma si era sentito come i protagonisti delle antiche saghe, dopo che hanno concluso il patto di sangue con il loro amico più caro. Il mio amico più caro, sei tu? Le aveva sussurrato, come uno che prega: “Fai l’amore con me”.  

“Qui?” si era meravigliata Julia. 

“Be’, no, non sono ancora così selvaggio… non hai ancora visto casa mia” aveva sogghignato lui. 

Julia aveva riso, di una risata allegra e cristallina che non le aveva mai ancora sentito: “Eh no, capitan Schneider, giocare in casa non te lo concedo, non ancora! Vieni tu in trasferta da me!”

Lo aveva preso per mano e gli aveva tenuto la mano per tutto il tempo, in macchina, per le scale, mentre lo guidava nella penombra profumata sua stanza da letto. Lo aveva spogliato, lo aveva preso. Lo aveva amato, con un’intensità che non credeva possibile. La tenerezza di quelle piccole mani, i sussurri di quella voce dolcissima. Karl non ne è sicuro, ma alla fine crede di essere svenuto per qualche secondo, o se non è svenuto ha avuto un black-out totale. Non gli era mai capitata una cosa del genere. Si erano ritrovati così, abbracciati nella penombra, occhi negli occhi,  come due che non riescono ancora a credere a quello che è successo; e Karl-Heinz con le braccia e le gambe molli come gelatina e la voce che gli tremava, le aveva detto: “Io ti amo”. 

Julia lo aveva zittito posandogli una mano sulla bocca: “Shh. In questo momento hai una marea di endorfine e dopamina in circolo, è come se fossi strafatto, può uscirti dalla bocca qualunque cosa”. 

Lui, inspiegabilmente, era scoppiato a piangere. Mentre singhiozzava stretto a quella piccola donna, lei lo aveva calmato come si fa con i bambini, a forza di piccoli baci e accarezzandogli lievemente i capelli. 

“Non so cosa mi sia preso” si era scusato più tardi. 

“Lo so io” aveva sorriso Julia “ma non c’è da preoccuparsi “.

Quella notte era rimasto a dormire da lei, con un sonno così profondo e leggero nello stesso tempo che quando si era svegliato nell’aria bianca e frizzantina gli era parso di continuare a sognare.  Si era alzato, si era vestito, e aveva trovato Julia in cucina che preparava pancake mentre il caffè era sul fuoco, e intanto scambiava opinioni col gattone della vicina, regalmente accomodato su una sedia. “Buon giorno” lo aveva salutato “ti ricordi di Zorba?” 

Avevano fatto colazione, poi lui era scappato all’appuntamento col fisioterapista.  “Stasera però vieni da me” le aveva detto. 

“Eh già, ora tocca a me la trasferta” aveva sogghignato Julia.

Quella sera, da Karl, si erano amati per ore, come se non ci fosse nient'altro al mondo che loro due. Solo alle tre di notte, morti di fame, non trovando niente di meglio in cucina, avevano finito col rimpinzarsi di patatine, noccioline e Gatorade.  

“Siamo due pazzi” aveva dichiarato Frau Professor Gutenbrunner, mentre alzava la bottiglietta di plastica verso di lui a mo’ di brindisi.

“Ho perso la ragione per colpa tua” l’aveva rimproverata scherzosamente Karl-Heinz, scuotendo la testa. 

“Non esagerare! Sono semplici fenomeni di chimica del cervello” gli aveva risposto Julia “si vede che ho toccato qualche punto estremamente eccitabile della tua fantasia”. 

Nel giro di pochi giorni, tra lui e Julia Gutenbrunner era successo tutto.

Le sue relazioni fino a quel momento avevano avuto un andamento molto stereotipato: occasione mondana, flirt, invio fiori, invito a cena, uscita, seconda uscita, terza uscita, prima notte insieme, dopo di che le strade si biforcavano: la relazione proseguiva o si interrompeva.  Ma anche quando la strada proseguiva, la scansione degli eventi continuava von molta prevedibilità, fino all’inevitabile fine, che arrivava spesso per stanchezza, per esaurimento: Karl-Heinz si era reso conto col tempo che spesso si era cercato partner a cui non aveva niente da dire - né loro a lui.

Con Julia avevano rimescolato completamente le carte, lui forse perché sapeva di non poter trattare Frau Professor come una modella o una donna di spettacolo; Frau Professor d’altra parte  doveva aver capito che lui era in cerca di qualcosa che avvertiva confusamente, ma che non sapeva bene come riconoscere, non avendolo mai incontrato prima - un altro essere umano che poteva rifletterlo come uno specchio.  

Certo, da quella sera allo stadio il concetto di ‘normalità’ è straordinariamente cambiato agli occhi del Kaiser.

 

*** 

 

Ora è qui a chiederle se vuole uscire a cena, un vero appuntamento come Dio comanda, glielo deve, dopo che per settimane si sono comportati come due adolescenti ora il capitano del Bayern e della nazionale deve far vedere chi è lui, l’uomo di mondo dagli ampi mezzi: ristorante stellato, location chic, e dopo cena qualunque cosa abbiano voglia di fare.  

“Ma è sicuro? È quello che vuoi? Guarda che ci vedrà un sacco di gente e dovrai dare spiegazioni…” 

“Da come ne parli la fai sembrare una brutta cosa!” 

Julia arrossisce violentemente.  

“Non… non saprei. Dovrei vestirmi elegante, vero?” 

“Puoi vestirti come ti pare”. 

“Sì, ma non posso farti fare una brutta figura!” 

L’altro giorno Karl ha trovato quell’abbozzo di poesia e le ha confessato che sì, si era sentito molto solo negli ultimi mesi e sì, è sicuro dei suoi sentimenti ed è pronto a scommettere sulla loro storia. Devo venire a patti con le mie paure, non posso essere meno coraggiosa di lui. Così, va bene: usciranno a cena, locale stellato e location chic, Julia cercherà di essere bella ed elegante per quanto possibile, non farà fare brutta figura al suo amore, e i gossipari sui social dicano quello che vogliono.  
 

***

A cena, Capitan Schneider, bello come il sole in tenuta casual-chic, fa lo sfacciato e le tiene addirittura la mano sul tavolo, davanti agli occhi di tutti, come se non potesse stare a lungo senza toccarla. Julia pensa: come siamo buffi! Sembriamo due ragazzini! Forse, anche se non può verificare, è addirittura arrossita. Lui arrotola le linguine cacio e pepe sulla forchetta e parla animatamente, ridendo. Racconta storie di partite e di spogliatoio, di trasferte e di disavventure varie. Sa essere anche allegro e spiritoso. Julia ascolta; le piace molto ascoltare le persone, spesso i suoi racconti nascono da una parola, una frase, un nome che ha colto per caso in mezzo alla folla. 

“Non raccontare troppe cose di te a uno scrittore, Karl-Heinz: rischi di ritrovarti tra le pagine di un romanzo” lo ammonisce birichina. 

“Vuol dire che ti commissionerò la mia biografia” replica immediatamente Karl. 

“Sei troppo giovane per una biografia!” 

“Per ora scriviamo solo la prima parte…” 

Ridono. (Ridono tanto, insieme).
All’improvviso, Schneider si schiarisce la voce: 

“Bene, in questo momento non ho troppe endorfine e dopamina in circolo, perciò non corro il rischio di dire stronzate” e le strizza l’occhio. “Frau Professor, nel pieno delle mie facoltà mentali, confermo che io la amo e che voglio fare sul serio con Lei. Sono uno che segna gol per mestiere, riconosco la situazione giusta quando si presenta”.   

 
*** 

Il giorno dopo, i siti di gossip esplodono: “Misteriosa nuova fiamma per il capitano del Bayern e della nazionale”. 

Julia lo viene a sapere tramite un WhatsApp di Paula, che le ha inviato uno screenshot di una pagina di gossip.de e relativa foto, insieme a questo commento: “È lui il ragazzo dell’alta società che ti mandava in crisi? Accidenti a teeeee 😂😂😂” 

”Misteriosa” nuova fiamma un corno, pensa Julia, la mia vita è quasi più pubblica di quella di Schneider. Mentre ridacchia sul messaggio di Paula, e con una mano regge l’iPhone e con l’altra scrive al PC, la invade una sensazione che conosce, che ha già provato tutte le volte che le è successo qualcosa di ineluttabile e non è più potuta tornare indietro. 
 

Abbiamo abbattuto i ponti, abbiamo bruciato le navi. Alea iacta est.

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Capitolo 17
*** Epilogo. Ahia (Amburgo chiama Monaco) ***


17. Ahia! (Amburgo chiama Monaco) 

 

Inesorabile come la morte, esattamente tre giorni dopo gli arriva il WhatsApp di Kaltz, sotto la specie di uno screenshot della foto comparsa su gossip.de e di un commento: “Com’era la storia che non avevi la ragazza? 😲” 

Karl digita fulmineamente: “Sei una vecchia comare che stalkera gli amici 🤗” 

Mezzo secondo dopo, il telefono squilla.

 

Trascrizione  della conversazione telefonica avvenuta tra il numero xxxxxxxxxx (Hermann Kaltz) e il numero xxxxxxxxxx (Karl-Heinz Schneider) 

 

H. “Buonasera, bestiaccia”  [risata] 

K. “Ciao, brutto pettegolo”  [risata ancora più forte] 

H. “E mi avevi detto di essere single!” 

K. “Ero single, due mesi fa. Che fai, metti in dubbio la parola di un amico?” 

H. “Non sia mai. Però pensavo mi avresti informato in anteprima”.  

K. “Ma perché ti interessano tanto i fatti altrui?” 

H. “Non i fatti altrui, quelli di un caro amico. E poi tu t’infili sempre in storie strane, e i consigli di zio Hermann ti possono fare comodo” 

K. “Di’ la verità, hai preso qualche pasticca? Hai bevuto?” 

H. “Dimmi tu se non ti sei infilato in una storia strana!” 

K. “Una storia strana?” 

H. “Yeah. Senti cosa leggo… bla bla… Julia Gutenbrunner, 35 anni, di Monaco di Baviera… scrittrice… docente universitaria… insegna… aspè, che roba è?” 

K. “Ältere deutsche Sprache und Literatur!“ 

H. “Devi essere ammattito”

K. “Avresti preferito Viktoria Sonnenfels?”

H. “In un certo senso sì” [si schiarisce la voce] “Beh, coraggio. Spiegami”. 

K. “Cosa devo spiegarti?”

H. “Cosa ci fai tu con una così. Che cosa avete in comune?”

K. “Faccio che la amo, va bene? E che  cosa avevo in comune con la Sonnenfels?”

H. “Ma come?”

K. “E invece sì! Avanti!”

H. “Oh, non ti arrabbiare!”

K. “E chi si arrabbia?”

H. “Sono esterrefatto, Karl. Non me lo aspettavo” 

K. “Farai bene a riprenderti in fretta, allora”

H. [con una certa agitazione nella voce] “OK, non voglio sindacare sulla tua vita sentimentale. Ma sei proprio sicuro? Sicuro sicuro sicuro?” 

K. “Che palle, Hermann, sembra quasi che tu sia geloso” 

H. “No! Geloso no, perdiana!”

K. “Vieni a  trovarmi un giorno di questi, così ti presento Julia e vedrai se poi non mi dai ragione” 

H. [dopo un momento di prolungato silenzio] “Ahia. Allora la situazione è grave!” 

K.  [ridendo forte] “Esatto! Anzi, a essere precisi la situazione non è grave, è gravissima!”

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