La Guerra crea strani compagni di letto

di Aurelianus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




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Neu Bottrop, 12 giugno 2453, ore 20.42 (data desunta dal calendario militare della Wehrmacht)

Helmut aspirò una lunga boccata dalla sua Batschari.
Buttò fuori il fumo mentre si sedeva su un cumulo di calcinacci dietro la sua trincea. Cercando di trovare la posizione più comoda, slacciò l’elmetto e lo poggiò ai suoi piedi, accanto all’MG-3000.
Sollevando gli occhi al cielo verde, sbiadito dal crepuscolo, cercò vanamente di captare qualche indizio su come stessero andando le cose là sopra.
“Sergente, cosa fai?”
“Cazzo, Karl, mi sto godendo la mia ultima sigaretta prima di essere ammazzato da quei fottuti figli di puttana laggiù” replicò, indicando vagamente un punto imprecisato oltre la barricata di fortuna che avevano eretto.
“Be, non so se riuscirai a finirla se non ti rimetti l’elmetto, anche con la testa dura che ti ritrovi” lo punzecchiò l’altro, scatenando le risate di tutti quelli che erano a portata d’orecchio.
“Ah, ma muori” gli augurò, sputando per terra “E torna alla tua merdosa trincea” ordinò, suscitando nuovamente l’ilarità del reparto.
Spense il mozzicone sopra quella che era stato un pezzo della facciata di un grattacielo, buttato giù dai bombardamenti.
“Ehi, Hans! Smettila di rimpinzarti di razioni e dimmi cosa cazzo succede!”
Il soldato in questione si sollevò dalla sua postazione, guardandolo infastidito.
“Se i Korakiani disturbano i sensori del tuo casco, Sergente, lo fanno anche con i miei sensori portatili: ne so quanto te.”
“Triangola con il satellite” fece con semplicità.
“Anche quello è disturbato” borbottò.
Gli parve di udire anche un “imbecille” sottovoce, prima che il soldato si girasse.
“Ammettilo di essere inutile: un sottoufficiale addetto ai sensori che non sa far funzionare i suoi fottuti sensori” lo rimbeccò, divertito e trasferendo le attenzioni del plotone sopra il malcapitato Caporale.
L’eco delle risate non si era ancora spento, quando un inconfondibile fischio si levò nell’aria, ammutolendo tutti all’istante.
Helmut si riallacciò il casco e si risistemò il ferrigno giubbotto anti-proiettili.
“Forza, ragazzi: è l’ora di morire! Prendere posizione! Ricordate: raffiche brevi e precise, non abbiamo munizioni da sprecare” ricordò ai suoi uomini.
“Sergente” gracchiarono gli auricolari del casco.
“Albrecht, Augustine, cosa vedete?”
“Mutt, di tutti e due i tipi e almeno un migliaio, quattro blindati, una ventina di bombardieri a bassa quota e cento Mörder; altre truppe dietro di loro, ma da qui non riesco a vederle. Non so come se la passino gli altri plotoni” rispose laconico il primo.
“Merda” imprecò, “tempo stimato per l’arrivo?”
“Un minuto e mezzo.”
“Va bene, ragazzi: muovete il culo, tornate alle vostre trincee” ordinò alle due vedette.
“Sissignore” risposero.
Non passarono due secondi che li vide sbucare trecento metri più avanti, mentre correvano come forsennati verso di loro.
Sintonizzò la radio incorporata nel casco sui Flakkorps, contattandoli.
“Caporale Heinemman, c’è rimasto qualcosa con cui fare fuoco di sbarramento?” domandò.
La pausa che seguì fu maledettamente lunga.
“Esclusi quelli distrutti e quelli che devono fornire copertura alle altre unità, ho tre Flak-200. Ma se li uso subito mi sventreranno i bunker con i bombardieri a bassa quota” rispose dopo aver riflettuto.
“Non ti preoccupare, abbiamo riservato loro una sorpresina. Mi serve l’artiglieria per  i blindati che sopravvivono e per le loro truppe d’élite”
“Possiamo farcela, ma tieni a mente che ho sette colpi a pezzo,  non uno in più e non basteranno contro i loro scudi mobili. Il trasporto con le munizioni è stato abbattuto dai Killer ieri: non c’è rimasto praticamente nulla.”
“Lo so, cazzo, lo so” replicò, abbassando la visiera e puntando l’arma.
“Pronti a far fuoco ragazzi! I Mutt sono semplice carne da proiettile, non valgono nulla, non fatevi spaventare del loro numero: siete MSK del Reich! Heil Schmidt!”
“Heil Schmidt!” ruggirono di rimando cento gole, maledettamente poche per quello che gli stava per saltare addosso e maledettamente tante per lui, che era abituato a guidarne una ventina.
Il mirino del casco si allineò automaticamente con quello dell’arma, che portò al massimo ingrandimento aspettando che i Korakiani sbucassero dalle montagne di macerie innanzi a loro.
Il loro plotone disponeva della copertura di edifici crollati su entrambi i lati, le strade attigue erano presidiate dalle altre unità: non potevano essere circondati tanto facilmente, i Korakiani per attaccarli dovevano infilarsi in quello stretto imbuto e caricarli frontalmente, esponendosi al loro fuoco.
L’occasione giusta per divertirsi un po’.
“Georg, Friedrich: tenete i Panzerschrek per i bombardieri” comunicò alla radio.
“Ricevuto” risposero.
Captò dei movimenti sul crinale a trecento metri dalla loro posizione, costituito da un cumulo di macerie, unici resti di un grande edificio residenziale.
La sagoma nera di un Mutt apparve sgambettando, presto seguita da altre decine.
Piccoli e disgustosi, parevano l’incrocio tra uno scarafaggio e una testuggine. Avevano due gambe e due braccia che gli consentivano di muoversi in posizione eretta, ma spesso preferivano caricare a quattro zampe, come in quel momento.
Fischi e schiocchi composero parole nella loro lingua incomprensibile e l’assalto iniziò.
“Aspettate!” intimò secco, mentre la brulicante massa nera si avvicinava velocemente alla loro posizione, causando vibrazioni nell’asfalto semi sgretolato.
“Aspettate” ripeté, più lentamente.
Le antenne del capofila alieno si drizzarono improvvisamente, seguite dal suo intero corpo. Il piccolo alieno puntò la sua pistola a energia e fece fuoco.
Una fulminea sfera azzurro pallida volò sopra la sua testa, mancandolo completamente.
“ORA!” tuonò, premendo il grilletto: la sua raffica precisa lacerò in due tronconi il Mutt, protetto solo da una leggera corazza.
Il crepitio delle armi dell’intero plotone esplose, riecheggiando pesantemente fra le pareti del collo di bottiglia.
La massa di Korakiani fu investita tremendamente: caddero falciati a dozzine.
I superstiti di quella prima poderosa raffica iniziarono a indietreggiare emettendo fischi di terrore, ma la pressione delle file e file di loro compagni che premevano ostinatamente in avanti, li sospinse di nuovo verso la loro barricata. Una pioggia di granate, raffiche di mitragliatrice e fucile automatico li travolse, atterrandone almeno un centinaio.
Un altro acuto richiamo si fece udire, ferendo le orecchie di tutti gli MSK, che infuriati intensificarono il fuoco, facendo strage dei piccoli fanti.   
Il Sergente sapeva bene cosa significasse quel suono. I feroci Mörder, richiamavano all’ordine i codardi Mutt, intimandogli di rispondere al fuoco.
“Occhio, ragazzi: la pacchia è finita. Adesso si fa sul serio. Thomas, cazzo, stai gi…” non fece in tempo a terminare la frase che una gragnuola di sfere azzurrine lo centrarono in pieno, smembrandolo e cauterizzandolo nel contempo. 
Fu il loro primo caduto, non fu l’unico. Altri otto uomini, a pochi istanti di distanza l’uno dall’altro, vennero abbattuti.
“Merda, ed è solo l’inizio” sussurrò Helmut.
Gli allarmi di tracciamento antiaereo squillarono nel suo casco.
“Hans!” lo avvertì, ritornando a sparare nella massa nemica immediatamente dopo.
“Georg, a sinistra, 50 per 20! Fried, 90 per 35” dispose il Caporale.  
I due si alzarono simultaneamente in piedi, inclinando i loro Panzerschrek verso l’alto e sparando due razzi a testa; le scie si allungarono sino a sfiorare la collina davanti a loro, proseguendo poi fino a quando non intercettarono quattro piccoli bombardieri a bassa quota.
Quattro appaganti palle di fuoco si accesero nel cielo
“Bel colpo!” urlò tutta la sua approvazione il Caporale
Helmut inserì un nuovo caricatore nella mitragliatrice portatile e continuò la sua opera di sfoltimento, i colpi alieni sfrecciavano tutto intorno a lui.
Un giovane soldato che gli stava accanto si sporse e sparò una breve raffica con il suo Mauser-K, uccidendo due Mutt intenti a scalare la barricata. Un balenio celeste lo raggiunse al collo, nel punto dove né il giubbotto né il casco giungevano.
Fu sbalzato indietro, la testa da una parte, il corpo dall’altra.
Digrignò i denti, concentrando il suo fuoco sui bassi alieni che trovavano il coraggio di sparare con le pistole in dotazione.
E fu così che li vide.
“Porca… Hans, spostati!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola, mentre rotolava via.
Il Caporale si alzò in piedi e corse velocemente al riparo, ma non abbastanza in fretta.
Un panciuto raggio azzurro chiaro, simile ad una cometa, lo raggiunse e l’esplosione lo vaporizzò, coinvolgendo Karl e un’altra dozzina di uomini.
L’onda d’urto investì Helmut e lo sbalzò violentemente a terra; la sua schiena impattò con forza su una roccia, mozzandogli il respiro. Se non avesse indossato il giubbotto, la spina dorsale gli si sarebbe di certo frantumata. 
Si costrinse a rialzarsi. Il dolore lo travolse, la vista gli si offuscò per un secondo, poi tornò a intravedere qualcosa.
Quasi lo rimpianse: vedeva sfuocato e doppio, ma non abbastanza da non scorgere i due Mutt che scavalcarono la barricata in fiamme e che uccisero un soldato, sparandogli a bruciapelo.
Non lo conosceva, sapeva solo che si chiamava Andreas e che aveva appena diciott’anni. Accecato dalla furia si alzò in piedi, incurante dei raggi Korakiani che gli sfrecciavano attorno e puntò l’MG.
Premette convulsamente il grilletto, riducendo i due alieni in una poltiglia nero violacea.   
Ansimando, riguadagnò la sua vecchia postazione, delle protezioni di fortuna che la circondavano rimanevano mozziconi semifusi e fumanti.
La testa gli girava, eppure riuscì a vedere i responsabili di quel disastro: due carri Korakiani, che aprirono nuovamente il fuoco in quell’istante; dal visore degli effettivi vide scomparire altri sette uomini.
Nello stesso istante gli allarmi antiaerei tornarono a ululare.
“Georg, Fried! Lasciate perdere quei carri! Buttate giù i bombardieri!” gli urlò.
“Dove cazzo sono gli altri due… merda!” imprecò, mentre i lanciarazzi spararono un copia di missili ciascuno contro i bombardieri in avvicinamento. Ne centrarono ancora quattro, ma quelli in arrivo erano oltre una dozzina.
Una bomba piovve sulla loro postazione. Come a volersi vendicare, andò a colpire proprio la trincea dei due soldati muniti di lanciarazzi, intenti a ricaricarli freneticamente.
Un paio di secondi dopo, le mine che avevano sistemato sul crinale esplosero con un boato assordante, innalzando i due pensati blindati alieni di un metro da terra e riducendoli in pezzi.
“Troppo presto! Cazzo! Troppo, fottutamente, presto!” imprecò.
I due carri alieni restanti presero, illesi, il posto dei primi due e ricominciarono la loro opera di distruzione.
“Heinemman! Mi servono quei 200, ORA!” sbraitò nella radio.
“Arrivano, ma i loro bombardieri vi hanno passato; mi faranno il culo tra dieci secondi: non so quanti colpi posso piazzare” avvertì il sottoufficiale.
Tre tuoni secchi risuonarono alle loro spalle.
L’istante successivo, quattro violente esplosioni causarono un momentaneo terremoto, l’onda d’urto spappolò una ventina di Mutt che stavano in piedi sulla barricata, intenti a falciare uomini dall’alto.
Fu scaraventato di nuovo a terra, la sua collezione di lividi aumentò ancora.
Si mise in ginocchio, tossendo. Del sangue gli colò sullo zigomo.
“Sergente, sei ferito?” lo interrogò un soldato, aiutandolo ad alzarsi.
“Solo un graffio. Riprendi posizione, e porca miseria, corri rannicchiato!”
Solo in quel momento si accorse che il fuoco era cessato, un’irreale calma era scesa; l’eco degli scontri che avvenivano nelle strade vicine, li raggiungeva ovattato, impedendo di cadere nella tentazione di pensare che l’assalto fosse stato respinto.
Si sporse a controllare il risultato: pezzi di cemento e metallo ricadevano ancora al suolo con tonfi a volte sordi a volte acuti, tre enormi crateri avevano rispettivamente preso il posto della strada antistante la loro barricata, di uno dei pochi edifici rimasti in piedi e della montagna di macerie su cui avevano preso posizione i carri alieni.
“Il vecchio Heinemman è stato sin troppo pessimista, i bastardi non avevano eretto scudi a proteggere la loro avanzata e lui è riuscito persino a direzionare quattro pezzi verso di noi. Abbiamo fatto un fantastico macello” rifletté compiaciuto.
“Emh, capo” gli toccò una spalla uno dei suoi uomini.
“Che c’è, Albrecht?”
“La quarta esplosione era del bunker: i bombardieri hanno lanciato una raffica di quello loro fottute bombe anti-casamatta” disse, indicando l’enorme complesso infossato nel sottosuolo una decina di chilometri più addietro, di cui spuntava solo la parte superiore, totalmente sventrata. Incendi alti centinaia di metri si levavano al cielo, spargendo un fumo acre che si stava velocemente protendendo verso le nuvole.
Sputò per terra, inserendo rudemente un altro caricatore nell’MG. L’ultimo.
“Dottore!” sbottò, roco, “Vedi di fare il tuo lavoro e mettiti a rattoppare gli idioti che si sono fatti beccare!”
Il medico annuì, mentre stavo ricucendo uno squarcio grande quanto un’arancia nel petto di un uomo, ancora vivo solo grazie alle protezioni.
Controllò le perdite e si trattenne dall’imprecare un’ennesima volta: quarantasette segnali mancavano all’appello, quasi la metà della loro unità. E per che cosa? La colonia era perduta dal momento in cui le navi trasporto Korakiane erano riuscite a sbarcarci delle truppe con una manovra a sorpresa. Quando quelli puntavano un obbiettivo, non ce n’era più per nessuno.
“Qui gruppo di combattimento C, Colonello Weimar, mi sente?” inoltrò, accolto dalla statica per un interminabile momento.  
“Qui è il Tenente Koch: il Colonello Weimar è… caduto. Sono lieto che siate ancora vivi, non ricevo più niente dai gruppi D, E, F e G. Ho ragione di credere che siano stati sterminati” l’accolse sollevato l’ufficiale, costretto ad urlare, nel tentativo di sovrastare il suono delle armi a ripetizione, che dovevano sparare a pochi metri da lui.
“Tenente, la mia unità ha subito perdite rilevanti e abbiamo perso definitivamente l’appoggio dell’artiglieria: chiedo il permesso di ripiegare”
“Negativo, Sergente” replicò, facendosi freddo “non ci sono più posizioni su cui ripiegare: avete l’ordine di resistere sino all’ultimo uomo. Sono stato chiar…” un forte boato si propagò nell’aria e dalla radio.
“Meglio: quell’imbecille ci avrebbe fatto ammazzare” sbottò, infuriato.
“Sergente! La Gestapo! Ascoltano le registrazioni” esclamò Albrecht.
“Stronzate, pensa a dirmi cosa succede, piuttosto” lo apostrofò di rimando.
“Succede che ci sono altri tre blindati in avvicinamento, con altri quattrocento Mutt e i cento Mörder dietro. Ecco cosa succede” mugugnò Augustine, mettendo un comico broncio dopo essere tornato da un’altra breve esplorazione.
Helmut sfiorò il pulsante per le comunicazione con la flotta, attivando il canale d’emergenza.
“Unità MSK a terra. Subite perdite rilevanti, munizioni quasi esaurite, la nostra posizione è compromessa: richiediamo estrazione immediata.”
Questa volta la risposta non si fece attendere, sebbene fosse disturbata e non contenesse il messaggio sperato: “Negativo, non… più l’orbita… navi Kor… scalzato. Estrazione impossibile… vete resistere da soli ancor… nque minuti”
“Non ce li abbiamo cinque minuti, cazzo! Dovete recuperarci ora, fra tre minuti saremo tutti morti!” urlò, accolto solo da rumore bianco. Aveva perso di nuovo le comunicazione.
L’allarme antiaereo ululò contemporaneamente in tutti i caschi rimasti attivi, per interrompersi bruscamente alcuni secondi più tardi; il Sergente guardò il cielo, il satellite che monitorava la loro area e che li avvertiva del traffico aereo in avvicinamento era appena stato distrutto.  
“Ci mancava solo questa… Augustine, Michel: ci sono rimasti un Panzerschrek e un Panzerfaust, usateli per abbattere quei bastardi” dispose.
Lo stridio emesso dai velivoli alieni si propagò, assordante: molto più forte rispetto a prima.
“Porca… sono Killer!” avvertì un soldato, riconoscendo il rumore.
“Tutti a terra! Lasciate perdere i lanciarazzi!” urlò ai due soldati pronti a far fuoco, invano. Fieri rimasero al loro posto, sperando di causare qualche danno.
I profili a forma di ago e color rame cromato di due Killer apparvero avvicinandosi rapidamente, fendendo le colonne di fiamme e fumo che si levavano dall’altra parte delle città. Dovevano essere stati loro a causare l’esplosione che aveva ucciso il Tenente e, ora che sapeva chi vi aveva dato origine, era certo anche l’intero gruppo A.
Volavano bassi e leggermente traballanti: quei caccia erano stati progettati per il combattimento nello spazio, dove surclassavano nettamente quasi qualunque avversario l’umanità gli avesse schierato contro; nell’atmosfera si trovavano in difficoltà, ma sopperivano alla mancanza con l’enorme potenza di fuoco, sufficiente a spazzarli facilmente via in un paio di passaggi.
Le lunghe gocce di energia azzurro chiara iniziarono a piovere sul cratere causato dal 200 nell’asfalto, allargandolo. Un compatto muro di esplosioni iniziò ad avvicinarsi velocemente alla loro posizione.
Augustine e Michel spararono nello medesimo istante, gettandosi subito dopo a terra.
I quattro razzi sfrecciarono veloci verso i loro obbiettivi, che richiamarono la picchiata istantaneamente e interruppero l’attacco. Due mostruosi boati scossero l’aria, ma Helmut li ignorò, intento a  guardare i due Killer: i caccia alieni avrebbero evitato il colpo con estrema facilità, nello spazio; tuttavia lì, la loro agilità era fortemente compromessa. Quattro esplosioni, una coppia per velivolo, fiorirono a ridosso dei loro affilati profili, liquidi scudi azzurrini si attivarono e respinsero l’assalto senza nemmeno tremolare.
“Ci è andata bene, li avete spaventati,” sospirò “sparpagliatevi, idioti! Ora ritornano e ci friggono” disse secco, mentre si rendeva conto che le raffiche nemiche avevano vaporizzato i due grattacieli, già dimezzati, al fianco sinistro e destro della loro posizione.
“Cazzo, se ci è andata bene” ripeté, sbiancando.
Il terribile stridio dei loro motori riprese immediatamente a farsi udire, mentre i due caccia tornavano indietro veloci e implacabili. E stavolta avevano dietro un intero squadrone di loro compagni.
“Grandissimi stronzi! Ve ne basta uno per farci fuori tutti, cosa volete fare?! Umiliarci?!?” urlò contro di loro.
Conscio che niente avrebbe potuto salvarli ora, si levò in piedi, imitato dall’intero plotone, e iniziò a sparare con la sua mitragliatrice.
“Heil Schmidt!”
Il crepitio dell’armi leggere e il loro grido di sfida fu superato da quello dei motori, ridicolizzandoli ancora.
Helmut poté vedere la doppia fila di cannoni dei caccia nemici illuminarsi, preannunciando la raffica mortale.
Raffica che non giunse.
All’ultimo istante, i Killer, cabrarono seccamente e spararono un’agghiacciante e continuata bordata molto sopra le loro teste.
Veloci scie di vapore intercettarono le gocce azzurrine, scoppi si espansero nell’aria sopra di loro.
Dozzine di missili raggiunsero i Killer, intenti a rompere la formazione alla massima velocità consentita dalle loro limitazioni; due, tre, quattro esplosioni brillarono contro gli scudi di ogni caccia, che non furono risparmiati dalla quinta.
Rapidissimi jet li oltrepassarono prendendo celermente e agilmente quota, alla ricerca di nuovi bersagli.
“M-306! Per quella vacca di tua sorella! M-306!” urlò Michel ad Augustine, che lo guardò in cagnesco, come a voler dire: “Cosa ne sai tu di mia sorella?”
“Spaghettari?” proruppe Helmut, allibito.
Si guardò intorno: decine e decine dei micidiali caccia italiani sfrecciavano nel cielo, divertendosi in un semplice tiro al bersaglio con i lenti bombardieri Korakiani che tentavano disperatamente di fuggire. Alcuni Killer contrattaccarono, ma ognuno di loro fu bersagliato da intere squadriglie finché non precipitò al suolo, in frammenti incendiati.
“Chi l’avrebbe mai detto che proprio loro sarebbero venuti a salvarci?” domandò al nulla Helmut, mentre buttava in sospiro di sollievo nel scorgere le sagome delle navette J-104 che si avvicinavano speditamente.
“Già da quando ce ne sono così tanti di M-306? Come ogni loro arma è micidiale, ma prodotta in numeri ridicoli” disse ad alta voce un altro soldato, sovrastando il rombo dei razzi di manovra delle J-104 in fase di atterraggio.
“Be, il fatto che i Korakiani gli abbiano preso Esperia, Mediolanum e Nuova Costantinopoli non gli deve essere andata proprio a genio. Si diceva che si stessero mobilitando già da un anno” gli rispose Augustine.  
Mentre aspettava che gli altri salissero sulla navetta attraverso il portellone spalancatosi a poppa, Helmut si guardò indietro.
L’M-306 in assoluto l’unico caccia in grado di contrastare il Killer nel suo ambiente naturale, lo spazio; arrivando persino a raggiungere la condizione di superiorità nell’atmosfera.
Il Reich aveva speso qualcosa come quindici miliardi di marchi, comprando dalla Repubblica Coloniale Italiana parti del progetto, in modo da migliorare i propri intercettori impietosamente ridicolizzati dalla controparte Korakiana.
Sorridendo a mezza bocca scese dal portellone, che si stava già chiudendo, e si diresse nella cabina di pilotaggio, scavalcando i feriti che si erano stesi per terra, mentre i medici vi prestavano febbrilmente i primi soccorsi.
Dal tettuccio nella cabina, si scorgeva il cielo declinare già nello spazio,  quando vi giunse.
“Ve la siete passata male, laggiù, eh?” gli disse il pilota.
“Già, ma non da quel che ho capito nemmeno a voi è andata di lusso” replicò.
“Ci puoi giurare,” rispose mentre spingeva i motori al massimo, dirigendosi verso le loro navi.
“Un’avanguardia di dieci incrociatori ci è saltata addosso: ci hanno fatto a pezzi”
“E come li avete respinti?” domandò incuriosito, intanto che constatava i danni subiti dalla flotta: delle quaranta navi, ne rimanevano solo diciotto, tutte con lo scafo butterato e mezzo abbrustolito.
“Noi? Ci hanno presi di sorpresa, ne abbiamo fatte fuori solo quattro. Sono stati gli spaghettari a distruggere le altre sei: hanno sviluppato una nuova lega metallica con cui hanno corazzato le loro navi, si sono ripresi Esperia e Nuova Costantinopoli e si dice che abbiano distrutto quarantacinque tra fregate e incrociatori Korakiani, perdendo solo cento navi” fece entusiasta.
“E perché diavolo non rimangono a difendere Neu Bottrop?” lo interrogò, indicando con il braccio lo schermo direzionato a poppa che inquadrava due navi Korakiane, emerse improvvisamente dall’iperspazio nell’orbita del pianeta.
Il pilota fece spallucce: “Per ora, loro di navi ne hanno solo duecentocinquanta. Hanno perso quasi la metà delle loro forze per questa controffensiva. Non pretendere troppo, cazzo, è già tanto che sono entrati in guerra. Che abbiano vinto le prime battaglie, poi, è un miracolo.”
“Hanno smesso di essere degli incapaci trecentocinquanta anni fa, non dovresti essere troppo sorpreso” sussurrò, con l’attenzione rivolta verso una scena che si ripeteva identica da tredici anni: decine e decine di navi aliene, simili a razze, saettarono rapide nel vuoto, circondando il pianeta; un mastodontico trasporto apparve in un lampo bianco e sganciò degli oggetti sulla superficie.
Altre navi si portarono in posizione, lanciando navette colme di truppe: l’invasione finale era iniziata.
Il Reich aveva perso un altro pianeta. E forse per sempre.
 


Note dell'autore:

MSK: unità militare tedesca, assimilabile al corpo dei Marines statunitensi (è successivo alla seconda guerra mondiale, ma essendo questa storia ambientata nel futuro ho ritenuto che menzionarli non costituisse un errore);
Mutt: bastardino;
Mörder: Assassini.

Ringrazio chiunque si sia cimentato sino a qui: so che forse  non è stato facile. Se ritenete che sia stato troppo volgare, fatemelo presente, ho semplicemente cercato di rendere in modo veritiero il linguaggio diretto tipico dei soldati al fronte. Inoltre vi rammento che questo è solo un prologo, non rappresenta tutta la storia per questo vi chiedo di proseguire se non siete stati soddisfatti, guardando il secondo e terzo capitolo vi accorgerete di come sono le cose più o meno e allora potrete dire "no, non mi piace" "sì, mi piace" con certezza.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***




Berlino, 16 dicembre 2458, ore 10.07 (data terrestre corrispondente al calendario militare della Wehrmacht)
Tutta la Germania si era fermata. Ogni colonia del sistema solare, ogni colonia Interna aveva inviato i propri delegati a porgere l’ultimo saluto ad Alexander Wagner, Ammiraglio della Kriegsmarine. Solamente le colonie Esterne, coloro che più delle altre gli erano debitrici, coloro che tutto dovevano a suo padre, non avevano mandato nessuno. Per quindici anni Alexander Wagner aveva lottato, difendendole strenuamente; decine di colonie non erano cadute sotto la furia Korakiana perché lui le aveva salvate. Inneggiato a nuovo eroe, si era sobbarcato la responsabilità di dover combattere da solo contro un nemico di una determinazione cieca, tecnologicamente più avanzato e sempre più numeroso ad ogni anno che passava.
Lodato, glorificato e amato perché membro dell’élite ristrettissima che aveva saputo opporsi con efficacia alla minaccia aliena, era stato ritenuto invincibile: in quindici anni, formalmente, non aveva mai perso una battaglia. Il salvatore, era stato definito, senza di lui i Korakiani sarebbero già arrivati sulla Terra, o vi sarebbero molto vicini. Questo ripetevano ostinatamente gli alti ufficiali, i funzionari e la gente comune, imbevuta più degli altri di propaganda, rivolgendosi alla bara di marmo avvolta nel grande stendardo rosso e bianco, su cui campeggiava il simbolo della loro nazione: la svastica.
Eppure le colonie Esterne, coloro che dovevano la propria sopravvivenza a suo padre, non erano venute a rendergli omaggio. Il grande Ammiraglio non aveva saputo tener fede al mito dell’invincibilità che gli era stato edificato attorno, nella sua ultima battaglia era morto. Aveva sconfitto la poderosa flotta aliena che bramante di sangue aveva attaccato Aachen; la sua immolazione, l’ultimo sacrificio della sua flotta affaticata, provata da anni di guerra aveva salvato i due pianeti abitati del sistema. Ma lui era morto. E così tutti i grandi eroi che lo avevano seguito in battaglia. Relitti, semplici ombre di quello che erano stati prima, ridotti a meri fantasmi smunti e scarni, dagli occhi spiritati,  che procedevano per inerzia combattendo giorno dopo giorno, anno dopo anno, contro un nemico troppo al di sopra delle loro possibilità;  ombre che la nera mietitrice non impensieriva più. E quando questa era alfine sopraggiunta, l’avevano accolta con gioia; avevano cessato di soffrire, loro.
Eppure le colonie Esterne avevano riposto tutte le speranze nell’Ammiraglio, ma lui, ora, era morto. Non c’era più nessuno che le avrebbe difese. Alexander Wagner aveva fallito, aveva abbandonato quegli insediamenti, lasciandoli alla mercé del terribile nemico alieno. Li aveva delusi tutti, non era stato capace di essere l’uomo invincibile che tutti avevano creduto fosse.
Il cielo, di un candore lattiginoso, lasciava intendere che presto avrebbe nevicato. L’enorme corteo era giunto ai piedi dell’Altare della Patria. In quel mastodontico edificio da più di cinquecento anni, tutti i Fürher e i grandi ufficiali elevati per meriti insigni venivano tumulati in un’ultima dimora, affinché potessero compiere il freddo sonno che li avrebbe portati al definitivo e lento sfacelo in un trionfo di essenze profumate, oro e marmo.
Nemmeno nella morte i grandi erano uguali alle miriadi di esponenti del volgo, che pure erano venuti adoranti a porgere le proprie condoglianze. Neppure nella morte i ricchi e i privilegiati imputridivano come i poveri, il Nazismo non aveva cambiato nulla. Potevano adularti da vivo perché necessitavano del tuo consenso, ma da morto non valevi più niente e avresti avuto un anonimo funerale, in un cimitero sperduto ai margini delle grandi metropoli. E forse sarebbe stato meglio così, gli sconosciuti non avrebbero dovuto sopportare tutto quel peso mentre il momento più brutto delle vita di un figlio si consumava con tutta la sua impietosa e feroce crudeltà.
Il rimbombo della marcia si fermò, insieme alla sua famiglia venne condotto al palco allestito innanzi la grande e marmorea scalinata che conduceva nell’Altare.
La retorica roboante e incalzante del Fürher, Adolf Schultz, fu condotta in ogni luogo della grande piazza dalla sua potente voce baritonale, amplificata da megafoni celati in fulcri acustici ben scelti. Definì suo padre come il salvatore della razza umana, del Nazismo e il vincitore delle barbariche e inferiori orde aliene. La folla e i militari, alzarono il pugno al cielo urlando tutta la loro approvazione.
Esaltati dal discorso, iniziarono a intonare in coro “Heil Wagner! Heil Wagner!” in un circolo ritmato e infinito. Folli, accecati da una fede verso una struttura politica vuota e menzognera, la loro litania si levò potente mentre i primi, lattei fiocchi discendevano indolentemente al suolo, sporcando di bianco, con il loro candore immacolato, gli intarsi e le insegne del partito incise nelle lastre poggiate a terra, nel corridoio adibito alle parate.
Salvatore del Nazismo suo padre, che lo aveva sempre ritenuto un pomposo e privo di senso lascito di un passato scomodo, che avrebbero dovuto dimenticare e lasciarsi alle spalle.
Un vento gelido spirava e pungeva i presenti, ma inebriati dalle loro credenze dogmatiche sembravano non avvertire il freddo che si insinuava nelle ossa, spegnendo lentamente ma implacabilmente ogni calore.
Sua madre fu chiamata a pronunciare un ultimo saluto. Era splendida nel suo vestito scuro da lutto; i suoi occhi erano umidi e rossi, eppure non scendevano lacrime sul suo volto: le aveva già versate tutte.
Fedele al suo ruolo di moglie e madre Nazista, interpretò la sua parte, convinta di ogni formula cerimoniale che recitava una dopo l’altra.
Poi fu il turno di sua sorella, lei aveva dodici anni, era la maggiore. Spettava a lei parlare per tutti i figli dell’Ammiraglio.
Ma appena si posizionò di fronte al microfono, le lacrime, sino ad ora a stento trattenute, scesero copiose. Piangendo e gemendo riusciva solo a chiamare il padre, lo implorava di tornare e, persino lei, quell’ ottusa ignorante, lo malediva perché l’aveva lasciata sola, abbandonandola.
Il macigno di gelida roccia che aveva nel petto si sciolse appena, lasciando spazio ad una sensazione di insofferente fastidio verso la ragazzina.
Il Viceammiraglio Lorenzo Marconi, capo della delegazione italiana, gli pose una mano sulla spalla.
Si volse a guardarlo: lui e suo padre, contrariamente ai secolari rapporti tesi che vigevano fra il Reich e la Repubblica Italiana, avevano stretto una solida amicizia e instaurato una forte complicità. Suo padre glielo aveva rivelato. Il dolore aveva scavato il volto al geniale stratega italico, degna controparte repubblicana del grande Ammiraglio, eppure i suoi occhi erano aridi e la sua espressione impassibile.
Espressione che si incrinò in un mezzo sorriso: “Markus, vuoi parlare tu al posto di tua sorella?” gli domandò.
Assentì seccamente, senza proferire parola.
Si posizionò al microfono e parlò, leggendo il discorso che scorreva sullo schermo che aveva davanti. Era consapevole di essere sotto gli occhi di miliardi di persone, tutte le colonie avrebbero visto la registrazione del funerale entro quattro giorni, cinque al massimo. Eppure parlò chiaramente, con forza e sicurezza, senza tentennamenti. 
Guardava la bara grigio bianca, attraversata da venature più scure, e parlava. Si rendeva conto che stavano tumulando il niente, il fuoco nucleare aveva consumato il corpo di suo padre. La cerimonia era una pura formalità: non avevano più nulla da seppellire.
Nessuna delle migliaia di famiglie che avevano perso i propri padri, le proprie madri, i propri figli, fratelli e sorelle aveva ricevuto indietro qualcosa a cui rendere omaggio. Solo una stupida medaglia placcata in oro, come se quel ninnolo inutile potesse davvero ripagarli della perdita subita e colmare il vuoto che scavava nell’anima.
Si interruppe un istante, infilando la mano nella tasca della sua divisa da Gioventù Hitleriana, ed estrasse il riconoscimento che avevano ricevuto in cambio di suo padre.
Lo strinse con forza, ma non pianse. Non aveva lacrime da versare: non avrebbe macchiato la memoria del suo genitore umiliandolo in quel modo.
Alzò lo sguardo al cielo. I responsabili, li aveva tutti attorno, quei vili e vanagloriosi burocrati che lo avevano mandato a combattere in prima linea senza sufficienti rinforzi e rifornimenti, unicamente per servirsi delle sue sanguinose vittorie di Pirro come propaganda da dare in pasto al popolo. Ma c’erano anche altri che avevano avuto una parte nella sua morte: i Korakiani.
“Lo giuro, padre,” sussurrò, lasciando perdere il discorso ampolloso e costruito, di cui non credeva nemmeno ad una parola “ti vendicherò. Pagheranno per averti strappato da me” dichiarò, vincolandosi. “Così come tu hai sempre battuto ogni loro flotta, così come tu hai sempre distrutto ogni loro nave, anche nell’ultima battaglia, io farò: non sarò pago sino a quando non ne avrò uccisi almeno tanti quanti ne hai uccisi tu. E sarà in tuo nome che lo farò, padre.”
Il Viceammiraglio parve udire il suo voto, intervenne: “Markus, non dire così. Lui non vorrebbe questo, non era la guerra che sognava per te…”
Il grande idiota, Schultz, si interpose fra loro prendendolo per le spalle.
Gli occhi azzurri gli brillavano di una maniacale luce di esaltazione, d’intensità rara e pericolosa.
I capelli biondicci, sin troppo lunghi, gli ricaddero sulla fronte.
“Cadetto Wagner: i miei complimenti, sei un degno figlio del Reich. So che l’Ammiraglio sarebbe orgoglioso di te, tutta la Germania lo è! Tu sei il futuro del Reich, rappresenti i giovani soldati che presto imbracceranno le armi contro il nemico e difenderanno la nostra grande Patria!” urlò affinché i microfoni intercettassero le sue assurdità propagandistiche e le trasmettessero in tutta la piazza, in tutto il mondo, in tutti i domini degli uomini.
Osservò l’omuncolo: un idiota di prima categoria. Aveva strutturato il suo aspetto in funzione del Padre Fondatore, aveva persino fatto crescere dei ridicoli baffetti sopra il labbro superiore che si era fatti tingere di nero, ad imitazione della prima, grande, guida.
L’unico aspetto degno di menzione in lui era la sua capacità di infiammare gli animi delle masse, e proprio per quello ricopriva la carica di Fürher. Si credeva il padrone della razza umana, ma la dura verità era che quel titolo aveva perso ogni valore e potere effettivo da secoli. Il Consiglio militare della Wehrmacht governava davvero, e mandava Schultz innanzi al popolo e le altre nazioni, a prendersi i meriti… ma anche le colpe, tutte le colpe.
Nauseato lasciò perdere e tornò da sua madre, che con suo sommo disgusto ascoltava adorante l’uomo mentre iniziava un nuovo proselito.
Si mise accanto alla delegazione repubblicana, situata non lontano da quella americana.
Da lì si poteva scorgere meglio il feretro. E a quello rivolse la propria attenzione, attendendo che arrivasse il momento di dire definitivamente addio a qualcosa che nemmeno c’era più, qualcosa a cui avrebbe voluto poter parlare ancora una volta. Ma suo padre era stata assassinato, doveva farsene una ragione.
Le grandi astronavi e i caccia rombarono nel cielo: dalle loro formazioni perfette un unico, piccolo e insignificante, velivolo si staccò in un antico e simbolico gesto volto a onorare il defunto; le truppe presenti scaricarono le loro munizioni a salve verso il cielo. Fucili, mitragliatrici, cannoni: il boato fu infernale.
La marcia riprese, finalmente. Entrarono nell’austero edificio, sotto i volti severi e immutabili dei grandi del passato, congelati in busti posti accanto ai loro sepolcri.
E infine arrivarono nello spazio che era stato riservato all’Ammiraglio.
La pesante bara fu introdotta a mano, da un nutrito gruppo di soldati, come voleva la tradizione.
Avvicinandosi prima che fosse completamente all’interno, la sfiorò ricercando quel calore che gli abbracci col padre gli avevano sempre provocato. Ma c’era solo il freddo ad attenderlo: si ritrasse, quasi inorridito.
La lastra fu posta a sigillo della tomba. Solo una piccola targhetta dorata venne sistemata a raccontare chi era stato l’uomo che lì riposava, un busto che riproduceva le fattezze di Alexander Wagner venne collocato accanto. Tutte le vittorie, tutti i sacrifici, le perdite e le fatiche sovraumane, riassunte in poche, insufficienti, righe.
Un riconoscimento che non bastava, lui non era un Fürher non meritava che una piccola menzione.
E allora si rammentò le parole che suo padre una volta aveva pronunciato:
“Non importa se saremo ricordati o no per quello che facciamo, importa solo che lo facciamo e basta. Salvare l’umanità è un fardello che è pesato sulla nostra epoca, non sul futuro. Di quel tempo lontano non ci deve interessare: noi lottiamo per vincere, perché i nostri figli e i nostri nipoti abbiamo la possibilità di vivere, non per guadagnarci una nota piè di pagina in un file storico. E se poi questa arriva, tanto meglio.” 

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***




Base Lunare Braun, 23 maggio 2468, ore 17.45 (data desunta dal calendario militare della Wehrmacht)
I calcoli che aveva di fonte erano stimolanti. Ci lavorava da mesi nei ritagli di tempo, ma quel giorno vi si era dedicato completamente: l’esame finale dell’Accademia l’aveva superato, le lezioni che si stavano ancora svolgendo erano una pura formalità, un semplice e crudele desiderio degli istruttori di divertirsi ancora un po’ a loro spese. Non era necessario degnarvi attenzione più di una certa misura.
Il disperato bisogno di nuovi ufficiali al fronte aveva convinto i vertici accademici a concedere un’opportunità di accelerare i tempi agli studenti migliori, così gli istruttori si erano visti strappare via le proprie prede preferite due anni in anticipo rispetto al consueto. Forse era per quello che erano di cattivo umore da un paio di settimane… d’altronde, ufficiali in una nave della Kriegsmarine a diciannove anni, chi non avrebbe accettato?
Tutti avevano superato brillantemente l’esame, cosa che non aveva costituito una grossa sorpresa dato che ognuno di loro era stato raccomandato dagli stessi insegnanti.
Sfiorò alcuni tasti dell’elaborate inserito nel banco, lanciando una simulazione. I risultati furono quelli previsti: aveva appena trovato un nuovo modo per calcolare una rotta nell’iperspazio. Un modo forse non più preciso, ma più rapido di quello in uso al momento e questo poteva dire molto.
Si apprestò a ricontrollare alcune variabili e rifare alcuni calcoli cercando di vedere se riusciva a perfezionare ancora i risultati, quando un’inaspettata gomitata lo colpì al fianco.
Sollevò la testa dal suo lavoro, infastidito. Edel lo stava guardando con un’espressione divertita.
Alzando le mani in un gesto interrogativo le disse: “Be? Cosa vuoi?”
Atteggiando le sue labbra ben disegnate in un grazioso sorriso, gli indicò con il mento di guardare in avanti.
Spostando gli occhi verso la direzione segnata, si trovò davanti un inferocito Sergente Meyer che lo trapassava con occhi di fuoco.
“Cadetto Wagner!” urlò.
Markus l’osservò di rimando, con un espressione che doveva essere palesemente scocciata, perché l’istruttore si volse e giunse alla sua postazione.
“Cadetto Wagner, solo perché è risultato il primo del suo corso non deve credersi tanto superiore: quello che andrà ad affrontare non sono simulazioni, ma vera guerra! Prestare attenzione a queste lezioni potrebbe insegnarle ancora qualcosa!” rincarò, indicando con un gesto imperioso lo schermo principale dell’aula.
Ancora una volta Markus seguì le indicazioni, portando il suo sguardo annoiato a fare un giro completo dello stanzone.
Trenta fra ragazzi e ragazze della sua età avevano puntato gli occhi su di lui; qualcuno ridendo, qualcuno scuotendo il capo, qualcuna sorridendogli ammiccando.
Lo schermo era congelato in una Fregata Virtuale, come si soleva definirla all’Accademia: la registrazione di una battaglia realmente avvenuta, terminata con una cocente sconfitta per la Kriegsmarine, a cui il malcapitato studente di turno toccava provare a cambiare il finale inserendo qualche variabile; ovviamente, la simulazione era estremamente realistica, quindi praticamente impossibile da vincere. Pochi ce la facevano. A lui era capitato in passato di vincerne qualcuna, ma solo quelle ambientate dopo il 2453.
“Allora, Cadetto, riconosce lo scontro?” fece Meyer, con un tono soddisfatto che non preannunciava nulla di buono.
Il fallimento di un suo compagno era ancora ben visibile, quando il simulatore iniziò ad azzerarsi: doveva essere solo l’ultima di una sequela di imbarazzanti sconfitte, inferte all’autostima dei giovani appena promossi da un aguzzino sadico che si divertiva ad umiliarli un’ultima volta.
Be non lo sapeva, aveva avuto altro da fare.
Appena le navi tornarono alla posizione di partenza e il pianeta nella cui orbita si era combattuto fu visibile, riconobbe la battaglia. Tutti la conoscevano, chi non avrebbe ricordato il giorno in cui la storia era cambiata per sempre?
“Sì” rispose laconico.
“Bene: ci faccia un po’ di ambientazione, dato che lei in Storia militare aveva il massimo dei voti” fece il Sergente, pensando di infierire.
“29 gennaio 2440, ore 16.57, colonia Esterna di Neu Frankfurt: il luogo del primo contatto,” prese a recitare senza aver bisogno di starci a pensare, “Il 3 gennaio si erano perse le comunicazioni con la colonia e i tentativi di ristabilirle nei giorni successivi fallirono. Il Comandante Krause fu incaricato di recarsi sul luogo e accertarsi della situazione” introdusse.
“Krause aveva a disposizione quattro navi: l’incrociatore leggero Emden e le fregate leggere Hansa, Coronel e Kormoran. Quando arrivarono a destinazione, trovarono che tutte le città della colonia erano state distrutte da un bombardamento effettuato con armi sconosciute, ma di efficacia tremenda. Diciassette minuti dopo essere entrati in orbita, una nave non identificata è uscita dall’iperspazio a quattrocento chilometri dalla loro posizione, sbalordendoli. Nessuna nostra nave aprirebbe una finestra di uscita così vicino ad un pianeta: rischierebbe di rientrare nello spazio normale all’interno di esso, data l’imprecisione dei nostri motori di salto.”
“Molto bene cadetto Wagner, continui” lo incitò l’istruttore, infastidito per non essere riuscito a metterlo in difficoltà.
“Lì per lì si è pensato ad un attacco della Federazione Russa, ma essendo le colonie sovietiche distanti svariate centinaia di anni luce da Neu Frankfurt e “dall’altra parte dei territori controllati dall’umanità” si è compreso immediatamente che non era possibile; perciò si è passati alla comunicazione con la nave, intimandole di indentificarsi e ricevendo come risposta un’assurdità religiosa nella nostra lingua che sino ad ora, in vent’otto anni dal primo contatto, rimane l’unica comunicazione diretta che si sia mai avuta con i Korakiani. Per il resto ci hanno fatto capire la loro profonda ammirazione nei nostri confronti sparandoci addosso e ammazzandoci a milioni” fece con un sorriso a trentadue denti e scatenando risate in tutta l’aula.
“Ehi! Non era una battuta!” sbottò nei confronti dei compagni, risentito… ma non troppo.
“Faccia poco lo spiritoso: avanti, si appresti ad inserire la sue disposizioni nel suo banco, ora sarà collegato al simulatore” l’ammonì seccamente Meyer.
Sospirando, riprese a parlare: “Signore, vincere questa battaglia è impossibile” ammise indicando lo schermo “Quello è un incrociatore Korakiano, 1200 m per 800m di diametro nel punto più largo. Scudi, corazze, torrette a ripetizioni con cannoncini a particelle e l’arma principale, il cannone a particelle, lo rendono oltremodo potente; non si sa ancora di preciso come questi armi funzionino, ma si sa che sono maledettamente efficaci. Nel 2440 le nostre navi non avevano alcuna possibilità di vincere una battaglia: usavamo una lega di titanio tre volte più debole rispetto alla lega titanio-acciaio che si usa dal ’53, i missili Braun IV aveva un quarto della potenza rispetto ai Braun V, i cannoncini  mitragliatori da 50 e 150 mm avevano meno munizioni e una capacità di penetrazione mezza rispetto ad ora e il cannone ad accelerazione magnetica aveva una potenza sei volte inferiore” elencò, marcando particolarmente la voce sull’ultimo dato.
“Molto bene, allora non deve avere ansie da prestazione nel timore di fallire, se sa già che non ce la farà, primo del corso. Proceda!” infierì aspramente, mentre un sorriso si estendeva sulle sue labbra.
Alzando platealmente gli occhi al cielo, suscitando così un’altra espressione cagnesca nel viso di Meyer, fece partire la simulazione.
Le quattro navi si diressero verso l’incrociatore alieno, che mandò in quel momento lo storico messaggio:
“La vostra esistenza è un affronto per le razze pure. Il nostro Dio ha posto sulla nostra strada voi, disgustosi e deformi abomini adoranti del Maligno, per metterci alla prova. Noi non lo deluderemo! È sua volontà che voi moriate affinché il grande Impero Korakiano possa ergersi vittorioso in ogni parte di questa coltre di stelle. E voi, demoni, soccomberete ai Giusti!”
“Ehi! Chi sarebbero i deformi?” sbottò indignata Alenn, una bruna statuaria che aveva tutto il diritto di reagire a quel modo, dato il suo aspetto più che piacevole.
Markus si soffermò un istante a osservarla, mentre la classe scoppiava in un’altra risata.
Alenn ricambiò lo sguardo, lanciandogli un sorriso tutt’altro che innocente: sapeva di piacerle, ma non aveva mai iniziato niente con lei, la frequentava solo perché era un’eccellente addetta alle armi, utile per studiare.
“Cadetto Wagner!” lo riportò alla realtà Meyer.
“Che scocciatura” brontolò, senza alcuna traccia di ironia. E forse fu solo per quello che l’istruttore, diventato cinereo dalla rabbia, mandò giù e si limitò a squadrarlo imbufalito.
Prese il comando della situazione.
Krause non aveva commesso errori, aveva perso la battaglia non perché incapace, ma perché si era trovato di fronte un osso troppo duro da rodere.
Esattamente nello stesso istante in cui anche il Comandante aveva dato l’ordine il 29 gennaio 2440, anche lui fece partire i Braun IV nella simulazione.
Il profilo a forma di razza della nave nemica si voltò nella direzione della sua flottiglia virtuale ad una velocità impressionante, impossibile per i rozzi propulsori di manovra dell’epoca.
I raggi del sole illuminarono il vascello: in effetti era davvero bello; minaccioso e mortale, lo scafo lucido come uno specchio e dal color del rame, aveva riflessi neri dove la luce non lo colpiva, cosa che dava vita ad un effetto splendido.
Dalle ali della nave, le torrette secondarie, aprirono il fuoco. Dozzine di missili furono intercettati ed esplosero lontani dal loro bersaglio; quelli che giunsero a destinazione, cozzarono innocui a ridosso di uno scudo azzurrino.
Esattamente come Krause, dispose che le navi eseguissero delle manovre elusive mentre scaricavano i loro pezzi da 50 e 150 sul vascello alieno, accompagnandoli con un’altra bordata di missili.
Quel uragano di fuoco si dimostrò inutile contro gli scudi Korakiani, che semplicemente si illuminavano senza fluttuare, quando venivano colpiti.
Poi gli alieni passarono al contrattacco.
Ordinò alla Kormoran di compiere una manovra evasiva, poiché bersaglio più probabile. Ma esattamente come nella battaglia reale, le sfere azzurrine delle torrette aliene si abbatterono impietosamente sulla nave, facendola esplodere.
L’incrociatore virò strettamente portandosi in posizione per colpire l’Hansa, ma si trovò di fronte anche il Coronel. Le due fregate scaricarono le proprie batterie lanciamissili e i propri cannoncini contro la nave aliena, mentre l’Emden si posizionava alla sua poppa, dove il vascello Korakiano aveva solo due torrette, e fece fuoco con la sua arma principale.
Fosse stata una nave umana, sarebbe stata annientata dall’attacco combinato; fosse anche stata priva degli scudi, con il resistente strato di corazze di cui disponeva come secondo sistema di protezione, sarebbe rimasta solo lievemente danneggiata.
Con le armi dell’epoca non c’era storia.
Invece l’invisibile barriera che la circondava completamente, si accese di una tonalità un po’ più intensa d’azzurro rispetto a prima, ma la nave rimase inviolata.
Dalle sue ali partì una bordata di sfere azzurrine, il Coronel la evitò con un’abile manovra, l’Hansa scansò solo la prima metà: fu raggiunta e distrutta dalla conseguente, violenta esplosione.
“Cadetto Wagner!” sbraitò Meyer,  interrompendo la partita “Lei mi sta prendendo in giro! Sta eseguendo la simulazione in modo che sia identica alla vera battaglia!” lo accusò, rosso in volto e imperlato dal sudore.
Markus alzò le spalle, giustificandosi: “La strategia di Krause non aveva falle, semplicemente con la tecnologia dell’epoca era impossibile riuscire ad aver ragione di un loro incrociatore con solo quattro navi, tutte di classe leggera per altro.”
“Ed è proprio questo il senso dell’esercizio, cadetto: mettervi in situazioni apparentemente impossibili dalle quali dovete uscire!” esclamò trionfante.
“Voi tutti state per diventare ufficiali a bordo di una nave da guerra, e aspirate certo ad avere una comando tutto vostro un giorno, giusto?” li interrogò, guardandoli uno per uno.
“Come pensate di essere qualificati a diventare comandati di una nave, o di una flottiglia, se non sapete tirarvi fuori da situazioni di svantaggio?” fece, secco.
“State andando ad affrontare un nemico molto potente, determinato e spietato. Non pensate di intenerirli, loro non prendono prigionieri: un solo errore e siete morti, non ci sono seconde possibilità in questa guerra. Insegnarvi un po’ di umiltà e abbassare un po’ la vostra cresta, fa parte del mio lavoro. L’arroganza ha portato solo sconfitte in questo conflitto” concluse.
“Cadetto Wagner, immagino che avrebbe proseguito la sua partita tentando di piazzare un ordigno nucleare Gungnir nelle vicinanze della nave, sperando si spezzarne gli scudi, sbaglio forse?”
“Protocollo di base dell’accademia e percorso d’azione logico: se le armi convenzionali falliscono, passa al nucleare. Il nucleare risolve tutto” replicò, allargando le braccia in un gesto di ovvietà.
“Mmh,” grugnì il Sergente, “ovviamente, certo. Ma gli scudi della nave aliena avrebbero retto e, ritenendo impossibile vincere lo scontro, avrebbe ripiegato cercando di salvare le navi superstiti.”
“Be, il fallimento del Gungnir è opinabile: essendo sparato da solo e senza alcun altro missile ad attirare il fuoco nemico, la contraerea Korakiana lo ha colpito prima che giungesse al bersaglio; quindi i loro scudi hanno dovuto resistere ad un’esplosione i cui effetti sono stati smorzati dalla distanza” replicò, candido.
“Cadetto, se ha individuato un aspetto da cui divergere con la strategia del Comandante Krause, perché diavolo non lo ha fatto?!” ruggì l’istruttore, inviperito.
“Be, lei ha interrotto la simulazione prima che si arrivasse a quel punto”
Meyer digrignò i denti e socchiuse gli occhi, preparandosi a rispondere… proprio in quell’istante il segnale acustico che metteva fine alla lezione, l’ultima della loro vita, suonò.
Tutti gli studenti si alzarono, incamminandosi verso l’uscita e trattenendosi a stento dal precipitarvisi correndo: nell’ultimo giorno, il contegno marziale che con solerzia era stato inculcato negli studenti, generalmente scompariva.
Markus stette al suo posto, aspettando pazientemente che la calca affluisse nei corridoi.
“Sa, Wagner? La preferivo di più quando non fingeva di essere il buffone del gruppo e si limitava a essere il ragazzo gelido e apatico di sempre, è un comportamento che le si addice di più… oltre a far dannare meno noi istruttori” gli confidò il Sergente, quando rimasero soli.
Si alzò in piedi, raccogliendo meticolosamente le sue cose, soprattutto il palmare in cui aveva salvato i dati su cui stava lavorando prima di essere interrotto.
“Be, Sergente, l’anno passato gli psicologi avevano ritenuto il mio comportamento calmo e misurato una semplice maschera per nascondere il mio desiderio di vendetta verso i Korakiani. Sa, un ufficiale che sia accecato dal desiderio di rivalsa ha buone probabilità di condurre i propri uomini verso un’inutile, prematura e infruttuosa morte. Non sia mai che lo Stato mandi a morire degli uomini senza ricavarne qualcosa, sarebbe immorale... e penso anche incostituzionale” fece, riflettendo “Se non avessi cambiato modo di comportarmi negli ultimi sei mesi, non sarei mai stato incluso in questo gruppo. Mentre invece così hanno ritenuto che mi fossi sbloccato e che avessi accantonato il passato… e poi diciamocela tutta: ogni singolo uomo valido è necessario, non è tanto il caso di fare gli schizzinosi” rivelò, gelido.
Dirigendosi verso l’uscita, si soffermò di fronte a lui, “Comunque sia, Sergente, le sue lezioni si sono dimostrate utili, alla fine” gli disse lasciandolo attonito.
Uscì camminando rapidamente, nel tentativo di evitare inutili convenevoli, aveva del lavoro importante da sbrigare.
“Ehi, Markus!” lo chiamò qualcuno da dietro le sue spalle. Inutile, l’avevano visto.
Ignorando il richiamo, si fece largo verso tra i suoi compagni, rimasti a parlare nel corridoio.
“Markus! Dove scappi?!” lo accusò una trafelata Edel, mentre gli si accostava.
“È già la seconda volta che te lo ripeto oggi, e la cosa inizia a infastidirmi: cosa vuoi?” le disse calmo, mentre continuava a camminare.
“Sempre gentile tu, eh?” lo redarguì, con un mezzo sorriso.
Sospirando, si bloccò in mezzo al corridoio, volgendosi verso di lei e squadrandola da capo a piedi: alta, bionda, occhi azzurri. La perfetta ariana.
Certo, le manipolazioni genetiche intraprese dal Reich nel 21° secolo avevano aumentato di molto la percentuale di popolazione che possedeva quei tratti, un tempo così rari.
A quegli idioti che stavano al comando non era bastato sterminare milioni di persone in nome di un ideale assurdo, lo avevano voluto perseguire in ogni modo, rischiando di causare un errore irreparabile nel DNA della razza umana.
Nonostante tutto era una ragazza attraente.
“D’accordo, di cosa hai bisogno, Edel?” riprovò, addolcendo il suo tono.
“Io, Julia e Alenn volevamo ringraziarti per tutte le volte che ci hai dato una mano con le lezioni quest’anno…”
“Se fosse così, mezza classe dovrebbe ringraziarmi. Non lo fatto certo per altruismo: più soldati escono dall’accademia, più Korakiani muoiono. E poi ve la siete cavata egregiamente anche da sole, non mi dovete nulla” la interruppe, riprendendo la via verso il suo alloggio.
“Oh, ma dai! Dopodomani ci imbarcheremo su navi diverse e verremo spediti in zone differenti del fronte. Probabilmente non ci rivedremo per dieci anni o giù di lì” continuò, rincorrendolo.
“Sempre se i Korakiani non ci ammazzano prima” congetturò, mentre rivolgeva la sua attenzione ai calcoli.
“Menagramo,” lo apostrofò, mentre evitava gli altri cadetti tentando di inseguirlo “Comunque, nella mia stanza ho una bottiglia di vera Vodka russa! Sono riuscita a corrompere il cuoco della nostra ala e prenderla di contrabbando, pensavo di dividercela!” propose con un entusiasmo accattivante.
“Io? Con voi tre? Da solo nella vostra stanza?” le disse fermandosi di colpo  in mezzo al camminamento panoramico, un tubo trasparente che collegava due edifici della base Braun. Il  grigio chiaro del suolo lunare sotto, lo spazio nero e le stelle brillanti sopra. Uno spettacolo piacevole all’occhio.
“Perché cosa c’è di strano?” fece lei, con un’innocenza così falsa da essere quasi divertente.
“Assolutamente nulla” assicurò in tono beffardo.
“Comunque con tutti i nostri amati compagni che pagherebbero per avere un’opportunità simile con una sola di voi tre, venite a importunare me?” aggiunse.
“Appunto: non dovresti fare lo schizzinoso, allora vieni sì o no?” si annunciò Alenn, avvicinatasi senza che nessuno dei due se ne accorgesse.
Osservandole, fu tentato per un istante, un lungo istante, di accettare. Erano così belle, così estroverse, ed era così piacevole passare il tempo con loro: sprizzavano vita da tutti i pori. Socchiuse le labbra, per proferire così faticosamente quel sì così insistentemente  reclamato, quando,  sollevando lo sguardo, scorse una nave transitare alcuni chilometri sopra di loro. Classe Thor, incrociatore pesante, commissionati e progettati dopo la disfatta di Neu Bavaria del 2461, affinché un simile disastro non si ripetesse. Doveva essere appena uscito dai cantieri in orbita geostazionaria attorno alla luna.
Loro emanavano vita. Lui si era votato alla morte molto tempo prima.  
“No, ragazze. Grazie, davvero, ma ho da fare” decretò, voltandosi e procedendo verso il settore alloggi.
Non lo seguirono.
Aveva rischiato di dimenticare il motivo per cui era lì, il motivo per cui aveva passato la sua intera adolescenza a studiare e a esercitarsi. Non aveva sacrificato tutto se stesso per il nulla, la meta era così vicina! Presto avrebbe avuto la sua occasione, la possibilità di fare la sua parte in quella guerra. E, perché no? Iniziare a farsi ripagare il debito di sangue che aveva con quei disgustosi insetti, vomitati fuori da chissà quali pianeti della galassia.
Si avvicinò ad uno degli oblò, guardando in alto: vide le stazioni spaziali della griglia difensiva orbitale; i grandi cantieri fluttuanti nel vuoto impegnati a produrre navi, caccia, navette e ogni genere di velivolo che servisse al fronte. Tumori ferrigni e metallici che assorbivano quantità enormi di risorse dai molti luoghi occupati dall’uomo; un volume di risorse reso disponibile dal lavoro febbrile e interminabile di milioni di persone in dozzine di mondi. Mentre lì sotto si produceva la carne fresca, capi di prima qualità da mandare al macello, affinché le parole di Erodoto, in tempo di conflitto i padri seppelliscono i figli, si avverassero.
Un detto che, forse, avrebbe preferito fosse stato valido anche per lui.
Luna, solo una, e nemmeno la più grande, delle tanti basi su cui si fondava l’alimentazione del grande inferno.
Un inferno chiamato guerra.

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