Gwennyfer e la chiamata di Merlino

di SweetMelany
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Addio ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***



Capitolo 1
*** Prologo - Addio ***


 Prologo
Addio

 
 
 
 
 

Correre.
Era questo l’importante, l’unica cosa che contasse al mondo, il soggetto dominante che invadeva i suoi pensieri.
Poi, un altro ne prese il sopravvento non appena udì lo scalpiccio della ghiaia alla sue spalle.
Le guardie, constatò mentre i battiti del suo cuore prendevano velocità insieme ai suoi passi, spinti dalla fretta e altrettanto dalla paura.
La stavano raggiungendo, e questa consapevolezza veniva dalle grida che questi lanciavano.
Erano tutte affermazioni del tipo: È andata da questa parte! O: Sbrigatevi!
Non poteva mollare.
Non adesso, dopo tutto quello che lei e Waylon avevo progettato e sacrificato per questo giorno, per il bene della missione.
Non ora che aveva qualcosa di prezioso da custodire, addirittura più della sua stessa vita.
Il fagotto che teneva tra le braccia era in una posizione alquanto precaria, ma anche piuttosto generosa, considerato che stava facendo una corsa molto vicina a farle venire un infarto. Era coperto da un lenzuolo di lana grezza – l’unico oggetto che era riuscita a procurarsi prima di essere scoperta.
Per fortuna, nessuno era a conoscenza della sua esistenza. E così doveva rimanere.
Purtroppo, la speranza di fuggire da Camelot era ormai un vano miraggio. L’idea di ricongiungersi a Waylon era così allettante che le vennero le lacrime agli occhi quando si rese conto che non sarebbe stato possibile, che non l’avrebbe rivisto mai più. Questo perché il ponte levatoio che conduceva al bosco di Dwair, l’unica via di fuga dalla cittadella, era alzato. E a vegliarlo vi erano due cavalieri ben addestrati e che non avevano nessun timore o esitazione nel sfoderare la spada.
Fortunatamente i Druidi avevano previsto quest’eventualità.
Possedevano un amico all’interno delle mura, ed era lo stesso che li aveva aiutati a tenere segreto il loro tesoro.
Gli uomini armati non l’avevano ancora raggiunta, ma nonostante questo lei non diminuì l’andatura, anche se era intralciata in parte dalla lunga gonna che di solito indossava nella sua copertura di cameriera o serva, in parte dall’involucro che teneva appresso al suo petto.
Dopo aver percorso una serie di vicoli bui finalmente giunse alla dimora dove, al suo interno, l’attendeva Gwaine, uno dei pochi sopravvissuti che erano appartenuti all’ordine dei Cavalieri della Tavolo Rotonda. Erano passati quasi cinquant’anni da quando era stata fondata, eppure l’uomo rifugiato in quella casa non aveva mai dimenticato i doveri e gli obblighi di un Cavaliere di quel titolo. Re Arthur sarebbe stato fiero di lui…
Ma con la caduta del regno di Arthur la confraternita era stata distrutta e, per quanto Gwaine volesse aiutare ancora il popolo di Camelot, era vitale che lui non rivelasse la sua vera identità.
La donna era allo stremo quando bussò alla porta, disperata.
Erano in pochi a essere a conoscenza dell’identità del Cavaliere e Letha era felice e orgogliosa di essere fra quelli. Si era guadagnata la sua fiducia, il che non era stata cosa da poco, era diventata sua amica e consigliera e col tempo, l’affetto per Gwaine si era acuito, rendendolo simile a quello che si prova per un familiare.
Insieme avevano programmato un piano alternativo, nel caso la fuga non fosse riuscita. Cosa che infine si era verificata.
Come prestabilito, mise il pacco che teneva ancorato al petto sopra la paglia, di fianco alla parete della casa. Essa era contenuta in una botte, abbastanza larga da custodire la creatura senza farle mancare l’aria.
La donna sperò con tutta se stessa che non si ridestasse dal suo sonno privo di incubi, di modo da non attirare l’attenzione delle guardie nel caso fossero passate da quelle parti.
- Addio. -
Al suono di quella parola, Letha non riuscì a trattenere una lacrima di tristezza. Certo, era anche sollevata ma non era niente in confronto all’amarezza e al rammarico che stava provando e che le squarciava il petto in una morsa insidiosa. Si sentì dilaniata dai sensi di colpa quando si diresse alla porta e bussò cinque volte.
Ma, dopotutto, questo era il suo destino e non spettava a lei cambiarlo o intralciarlo. La Congrega aveva predetto ormai da tempo immemore cosa l’attendeva e lei non era autorizzata a interferire in alcun modo, anche se non sempre veniva considerata così saggia da dare ascolto agli ordini che le venivano imposti.
Si prese un ultimo istante per salutare la creature e infine, quando seppe che era giunto il momento di andarsene e di lasciarla vivere senza di lei, se ne andò.
 
 
Gwaine si ridestò di soprassalto dallo stato di trance, in cui era entrato nell’attesa di ricevere notizie, non appena sentì i colpi alla porta.
Non era riuscito a chiudere occhio e non aveva nemmeno voluto provarci.
Era troppo preoccupato per la sorte di Letha, che persino sdraiarsi richiedeva un certo sforzo. Sperò che le fosse stato almeno d’aiuto in un qualche modo. Dopotutto, era stato quello il suo compito tanto tempo fa: aiutare la gente.
Ripensare a quei tempi, cosi lontani e felici, lo facevano sembrare un ricordo ancora più remoto di quanto già non fosse. Quasi una leggenda, come quelle narrate nel bosco o sussurrate in una taverna.
Arrivato al quinto busso, si diresse svelto verso l’ingresso. Quando spalancò la porta, sperando di vedere la donna, e non trovandola la preoccupazione lo attanagliò, impedendogli quasi di respirare.
Conoscendola, era andata senz’altro a consegnarsi ai soldati e, con suo profondo rammarico, lui non poteva agire in alcun modo in proposito. I consiglieri del Re sospettavano già abbastanza di lui. Letha aveva addirittura proposto di farsi consegnare al sovrano direttamente da Gwaine, nella speranza di riguadagnare qualche punto.
Ma lui aveva rifiutato categoricamente, senza voler sentire obbiezioni da parte sua. Non avrebbe potuto sopportare tutto questo, anche se avrebbe voluto dire ricevere dei favori da parte della corte. Già era stato difficile sapere che c’era l’eventualità che Letha venisse catturata, figuriamoci se lui fosse stato anche un complice!
Non aveva mai conosciuto una persona più gentile di quella donna e non poteva credere che fosse accusata per faccende che non la riguardavano e che non avevano niente a che fare con lei. Non importava cosa dicesse il popolo e soprattutto il Re: Gwaine sapeva la verità.
Quando, dopo aver aspettato sulla soglia di casa per quelli che gli sembrarono decenni, sentì i rintocchi della campana che indicavano la cattura della prigioniera, il Cavaliere si diresse ai lati della propria dimora, ormai arresosi all’inevitabile.
Tolse il coperchio dal cesto contenente la paglia e prese il fagottino che vi era nascosto dentro tra le sue mani. Era una cosa così fragile che Gwaine aveva la sensazione che se solo avesse aumentato la presa, questo si sarebbe sbriciolato.
Quando lo portò in casa, notò con sorpresa che si era svegliato.
Come se si fosse resa conto di trovarsi con un amico, o almeno un alleato, la cosa proruppe in una serie di suoni di giubilo.
Aveva dimenticato quanto fossero belle le risate dei bambini.
La piccolina lo guardo con i suoi profondi occhi castani ramati, gli stessi di Letha, e pensò a quanto fosse stato fortunato ad aver incontrato una persona tanto speciale.
 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


UNO
 Diciassette anni dopo
 
 
 
 
 
- Dove vanno depositati questi? – domandai, tenendo tra le braccia dei cocci di legno che sarebbero serviti allo scopo di riscaldare le stanze della corte. L’inverno si stava lentamente avvicinando, annunciandosi con ventate gelide e settimanali piogge autunnali, e dovevamo prepararci per il cambio di stagione. Motivo per il quale nel castello erano tutti in agitazione e stressati continuamente con richieste di ogni tipo, come consegnare piatti dalla cucina alle stanze dei lord, cambiare le tende della sala del trono o, come nel mio caso, trasportare pezzi di legname per aumentare il tepore degli ambienti.
Questo era sicuramente il periodo dell’anno che detestavo maggiormente. Tutti rispondevano male non appena qualcuno poneva una semplice domanda, e questo solo perché venivano distratti dai loro attuali compiti.
Come se non fosse abbastanza, quel giorno ci sarebbe anche stato un banchetto e, sfortuna voleva, io mi trovavo a dover lavorare proprio nelle cucine. Fino a pochi minuti fa stavo tagliando le verdure per fare lo stufato o per utilizzarle come ripieno del filetto di cinghiale, finché Jaclyn non mi era venuta a chiamare, chiedendo aiuto con le faccende domestiche. All’inizio ero stata sollevata, felice di poter uscire da quell’inferno governato dalle cuoche e da Agnes.
Avevo cantato vittoria troppo presto.
- Poggiali pure qui sopra – mi rispose una delle molte serve indaffarate.
La mia condizione poteva essere vista sotto diversi punti di vista, e dal mio ero molto fortunata. Dato che appartenevo a uno dei ranghi più inferiori delle ancelle, se avessi commesso uno sbaglio o avessi dimenticato di svolgere un compito, non sarei stata incolpata o sanzionata dal Re in persona.
Mi costava tanto ammetterlo, ma era grazie al mio mentore che mi trovavo in una situazione così agiata e concordante alle mie esigenze. Non mi piaceva ricoprirlo di complimenti e lui era più che abituato al mio comportamento freddo e distaccato, anche se le persone erano solite lusingarlo per le sue numerose doti. Ma io pensavo che, nonostante fosse una persona anziana e ancora intelligente e capace di dare lezioni e di regalare qualche perla di saggezza ogni tanto, non meritasse il mio interesse. Certo, mi aveva accudita e accolta in casa sua – sapevo benissimo di essere stata abbandonata e molto probabilmente di essere un’orfana – ma non volevo lodarlo troppo per questo. Svolgevo i miei compiti ed eseguivo i doveri a me assegnati. E questo era sufficiente.
 - Gwen! -. Mi voltai, anche se sapevo già chi era la proprietaria di quella voce squillante.
- Non restartene lì impalata! Vieni a darmi una mano – mi rimproverò Jaclyn, stracolma di piume tenute scomodamente e in modo precario tra le gracili braccia.
Sorrisi divertita. Aveva un che d’ironico considerando quanto fosse magra e, nonostante questo, quanta roba riuscisse a trasportare.
Presi metà del bottino e l’aiutai con molta calma a infilarlo nelle fodere dei cuscini. Era strano pensare che persino quelli richiedevano un cambiamento con il passare del tempo. Mi veniva quasi voglia di sparpagliare tutte quelle piume per la stanza, per il castello, andando a dare cuscinate a chiunque passasse, persino al Re se fosse capitato lì per caso. Ma ho detto quasi.
Da quel che avevo sentito dire dagli altri servitori – i fedeli aiutanti della famiglia del sovrano – i reali erano molto viziati e questo doveva essere uno dei loro tanti capricci. Chissà se erano talmente delicati da accorgersi del cambiamento delle piume… Una volta, quando ero piccola, il mio tutore mi aveva raccontato una storia: si concludeva con una ragazza sdraiata su un’infinità di materassi sotto i quali era schiacciato un pisello. Lei se n’era accorta, nonostante tutta la distanza che li separava, perché era di sangue reale. Io a quei tempi avevo pensato che se era davvero così, non ci voleva poi tanto per diventare principessa se era richiesto solo di dormire scomodamente. E anche in quel momento lo pensavo. Di tanto in tanto andavano a far visita al sovrano delle principesse provenienti da regni vicini. Erano tutte viziate e incapaci di tutto se non lamentarsi dalla mattina alla sera. Dunque avere la testa vuota serviva solo a riconoscere gli errori degli altri o a sottolineare la mancanza o l’aggiunta di qualcosa. Nel caso della storia, di un pisello.
 
 
In più di un’ora avevamo riempito a malapena quindici cuscini. Ovvio, era il nostro lavoro e lamentarsi era più che inutile, considerato anche che non sarei stata l’unica se avessi espresso i miei pensieri ad alta voce.
In compenso, erano arrivate in nostro soccorso altre tre ragazze, grazie al cielo. Alzai lo sguardo per osservarle. Indaffarate com’erano, non si accorsero minimamente delle mie occhiate. Dovevano avere all’incirca la mia età, anche se due di loro erano già felicemente sposate. Mi chiesi cosa provassero convivendo con un uomo, trascorrendo la maggior parte del tempo con lui, dipendendo completamente da qualcuno che non fossero loro stesse. Chissà se io mi sarei comportata in egual modo…
 Jaclyn fu l’unica ad accorgersi della mia breve pausa, anche se non fece la spia. Si asciugò la fronte sudata con il dorso della mano e sapevo con certezza che, come la mia, la sua era altrettanto ricoperta di calli. Le rivolsi un sorriso, che lei ricambiò con gentilezza, anche se nei suoi occhi potevo leggervi una leggere confusione, forse dovuta alla stanchezza. Riabbassai la testa, presi una manciata di piume nel pugno e le infilai nella fodera senza proferire parola. Mi ci vollero alcuni minuti per accorgermi che Jaclyn era rimasta a fissarmi, come io avevo fatto con le nostre aiutanti poco fa. Alzando lo sguardo notai che nelle sue pupille non era affatto scomparsa quella luce che vi aveva scorto prima e che credevo fosse confusione. In quel momento invece mi resi conto che si trattava più di un’esigenza, come se non potesse trattenersi dal dire qualcosa, dallo svelare un segreto.
- Come ci riesci? – mi chiese. Ah, e così si trattava di una domanda. Voleva semplicemente pormi un quesito.
- Come riesco a fare cosa? -. Adesso ero io quella confusa tra le due.
Poi, un flash mi passò per la mente e per un istante mi immobilizzai. Che lei sapesse?
Lasciò andare la federa di cotone che teneva tra le mani. – A fare tutto questo, a eseguire un lavoro tanto umile e sorridere, come se fosse la cosa più bella al mondo… - spiegò, gesticolando e facendo svanire le mie preoccupazioni.
- Non so di cosa parli. Per me è un compito come un altro – mi giustificai.
Lei mi lanciò un’occhiata scettica. Adesso aveva negli occhi una luce diffidente e indagatrice. Infine scrollò la testa, come per cercare di dimenticarsene e andare oltre e sperai con tutta me stessa che lo sguardo che avevo scorto pochi attimi fa fosse svanito davvero.
Jaclyn poteva essere molte cose, ma di sicuro non era un’ingenua.
- Allora, come sta andando? – domandò Agnes, irrompendo all’improvviso nella stanza e facendo sobbalzare tutti i presenti. Era sempre stato merito di quella donna se avevo svolto diligentemente i miei compiti, quindi per me era una figura di autorità e rispetto. Questo ovviamente esclusivamente entro le mura della fortezza. Agnes mi riempiva costantemente di promemoria e mi colmava il tempo che passavo al castello con faccende di ogni tipo, anche se le andava riconosciuto che quando si rivolgeva a qualcuno, chiunque fosse, usava dei toni di voce rispettosi e gentili. Non mi lamentavo sapendo delle voci che giravano riguardo a Claire, un’altra addetta alle supervisioni, la quale si adirava anche solo per una camicia un po’ sgualcita o per un pollice di polvere che andava rimosso.
- Andrebbe meglio se avessimo qualche minuto di riposo – intervenne una delle giovani aiutanti. Mi pareva che il suo nome fosse Dyan. L’avevo incontrata più di una volta al mercato nella cittadella, mentre razziava i banconi delle vivande.
- Bene, basta per oggi con i cuscini. Vi consiglio di dirigervi subito alle cucine. Lì che abbiamo davvero bisogno di una mano – comandò, usando il solito tono imperioso che sfoggiava tutte le volte che si rivolgeva a più di cinque persone.
Nella stanza risuonò un borbottio generale di disapprovazione ma, come al solito, quando Agnes dettava legge, tutti obbedivano.
Io e Jaclyn non ci scambiammo altre parole. Ci conoscevamo da quando aveva iniziato a fare l’apprendistato qui, anche se l’avevo già intravista diverse volte per le vie della Città Bassa, intenta a comprare alimenti per lei e per il fratello minore. Avevo saputo che i loro genitori erano morti a causa di una strana malattia che aveva invaso tutta Albion e di cui non vi era alcuna cura. Fortunatamente, essa era stata debellata, anche se prima aveva fatto molte vittime, tra cui la Regina Elderea. In un certo senso, era stata una sorte di rassicurazione per il popolo, visto che confermava il fatto che non solo i comuni contadini incappavano nelle disgrazie mal desiderate.
Nonostante Jaclyn non avesse raggiunto la maggiore età, come me del resto, aveva comunque iniziato a cercare un impiego per mantenere entrambi e si era rimboccata le maniche. Era ancora parecchio inesperta, ma comunque migliorata rispetto a otto mesi fa.
Il resto della giornata trascorse lentamente e, tra una faccenda e l’altra, non mi accorsi che il sole stava già tramontando dietro la collina.
Jaclyn se n’era andata prima di me, così salutai Agnes e mi diressi sulla via di casa. Lasciai la fortezza, salutai le guardie di controllo ai cancelli che dividevano la Città Alta dalla Cittadella e mi diressi alla mia dimore, dove mi attendeva il mio tutore, colui che si era preso cura di me in tutti questi anni: Galvano.
 
 
I focolari nelle case si stavano a uno a uno accendendo, rischiarando almeno un pochino le strade. Ormai la luce diurna era allo stremo e le guardie stavano accendendo le fiaccole che percorrevano e illuminavano le vie di notte.
Quando passavo e incontravo qualcuno a me conosciuto lo salutavo cordialmente, il che capitava spesso. Conoscevo quasi tutti i miei compaesani e non passavo di certo inosservata, visti gli indumenti che portavo, per niente adatti a una giovane donna. In verità non c’era un vero e proprio regolamento – o almeno non uno scritto – che sanzionava il vestiario che una persona deve avere nell’ambito lavorativo. Così, al contrario delle mie colleghe, io indossavo un paio di pantaloni di pelle marron al posto di una gonna lunga di lana, accompagnati da cintura e stivali che mi arrivavano al ginocchio, con due centimetri di tacco. Sopra la vita indossavo una maglia rossa di cotone a maniche lunghe, con uno scollo a V, mentre i capelli erano acconciati in una crocchia da cui spuntavano riccioli ribelli. Lo chignon era l’unica regola che mi veniva imposta e che non poteva essere infrante: serviva per identificare il mio rango.
Varcata la soglia di casa, mi lasciai ricadere i lunghi capelli corvini sulla schiena, slegando quel concio che odiavo tanto: lì non ero obbligata a tenerlo.
- Gwennyfer! – mi chiamò una voce dalla fine della stanza.
- Quante volte ti ho ripetuto di bussare prima di entrare? – rimproverò Galvano.
- E io quante volte ti ho ripetuto di non chiamarmi col mio nome completo? – risposi io a tono. Detestavo quando faceva così. Sapevo che ribattere in questo modo non avrebbe fatto altro che aggravare la situazione, incitandolo a cominciare la solita tiritera che mi rifilava ogni sera. Ma era più forte di me: non resistivo, ero troppo impulsiva.
- Se non sento bussare e vedo entrare qualcuno senza che questo si annunci, mi viene da pensare che siano le guardie, o peggio! – si giustificò lui.
sicuramente si stava riferendo ai banditi. In città giravano parecchie voci di gente aggredita nei vicoli o nelle proprie case, fuori dalla taverna o di ritorno dagli orti. È vero, vi erano alcune guardie che presidiavano le strade, ma a volte non bastavano. Soprattutto quando queste si addormentavano sul posto con la testa appoggiata alla spalla o si ubriacavano prima di arrivare. Il Re si pensava fosse all’oscuro di tutto questo, dato che non si decideva a mandarne altre più efficienti, per sostituire quelle che vi erano in quell’istante. Ma io non ero solita a pensare il meglio dai reali, soprattutto visto e considerato che erano anni che questo problema invadeva la Cittadella. Ma a quanto pareva, io ero stata la prima ad accorgermene. Forse per il fatto che tutti erano troppo impegnati o eccessivamente egoisti da pensare solo a loro stessi e da non interessarsi se il vicino di qualcuno veniva aggredito. Adesso però le uccisioni erano così tante che era impossibile contenere la preoccupazione e il panico delle persone.
- Non è colpa mia se sei paranoico – ribattei sottovoce. Galvano era una delle persone più caute che conoscessi e la causa era probabilmente la saggezza acquisita in tutti questi anni trascorsi a Camelot. Non ne ero completamente sicura, ma ormai doveva aver raggiunto gli ottant’anni – una rarità per una persona di quest’epoca. Aveva il viso ricoperto di rughe e il capelli grigi gli arrivavano alle spalle. Gli occhi castani scuri brillavano ancora, il che era una contraddizione considerata la sua vecchiaia.
Le mani nodose mi fecero cenno di accomodarmi a tavola, indicando che era ora di cena. Mi sedetti senza troppe cerimonie e lo sguardo del mio tutore mi seguì, incuriosito, probabilmente per sapere com’era andata la giornata al castello. Me ne restai zitta mentre mangiavamo: era il mio modo di comunicargli che era tutto a posto. Da quel che ne sapeva lui, io non ero il tipo di persona che nascondesse qualcosa. Se avevo delle difficoltà o ero terrorizzata da qualcuno o qualcosa glielo riferivo immediatamente.
Da fanciulla osservavo incuriosita i bambini della mia età. La maggior parte di essi possedeva una madre e un padre ed era normale per me domandarmi come mai io non fossi come loro. Io esposi subito il mio quesito infantile a Galvano, il quale mi rispose parlandomi per la prima volta dei miei genitori. Disse che mi avevano affidato a lui per proteggermi, dato che era un loro fedele amico. Aggiunse anche che non mi avevano tenuta a causa delle ingiustizie che ottemperavano allora. Da quel momento, il mio unico desiderio era stato saperne sempre di più e cercavo ogni volta che potevo di prendere il tutore in contropiede con qualche domanda a trabocchetto, a cui lui ovviamente non cascava mai. Mi ero sempre ripetuto che l’avevano solo fatto per il mio bene, che per questo erano stati altruisti pensando prima di tutto a me che a loro, ma non riuscivo comunque a capacitarmene: mi aveva pur sempre abbandonata. Che non ne avessero davvero potuto fare a meno? Per essere sinceri, non ero interessata tanto al fatto che fossero ancora vivi oppure morti. Per me rimanevano dei completi sconosciuti. E io e Galvano ce l’eravamo cavata piuttosto decentemente in questi diciassette anni, anche se litigavamo abbastanza spesso. Il mio mentore era capace di tenere il muso per due settimane di fila, se necessario, senza rivolgermi una parola per tutto il tempo. E tutto solo per farmi sentire in colpa per aver commesso una qualche bravata innocente. Così alla fine toccava sempre a me fare la prima mossa, arrendermi ai suoi silenzi, per cercare di riappacificarci. Sapevo che il suo era solo un ulteriore tentativo per cercare d’istruirmi e insegnarmi a essere paziente. E non cedeva nonostante fossi in un’età difficile, non cercava nemmeno di fare un semplice sforzo, provando a venirmi in contro.
Quando fui sazia mi alzai dalla panca. Ma la voce di Galvano mi bloccò prima che riuscissi a portare la mia scodella dal secchio per pulirla dagli avanzi.
- Ah dimenticavo… stasera tocca a te rassettare -.
Trasalii a quelle parole.
- Come? Ma se l’ho fatto la scorsa settimana! -. Ero sconcertata. Adesso cercava pure di provocarmi? Era un nuovo metodo, per caso? E quale sarebbe stata la lezione?
- È vero. Ma vedi… io ormai ho raggiunto un’età in cui i lavori domestici non fanno più per me… - divagò lui. Strinsi i pugni dalla rabbia.
- Ah sì? E sentiamo: quando anni avresti? – gli chiesi con tono di sfida. Non l’aveva mai ammesso prima e io avevo sempre dovuto tirare a indovinare.
- Non ribattere Gwen! Devi cominciare a portare rispetto agli anziani come me. E se la persona che è responsabile di te t’impone di fare una determinata cosa, tu non devi stare a domandarti il come o il perché e devi eseguirla, capito? È una questione di disciplina! -.
Non capivo proprio come facesse, ma riusciva sempre – e dico sempre – a cavarsela a parole.
E scovava sempre una lezione da infliggere dove in verità non ve n’erano. Affermava che era per educarmi meglio, ma io non me la bevevo affatto. Semplicemente si divertiva a mettere becco in ogni mia osservazione e io vi ero ormai abituata.
Sbuffai con aria rassegnata.
Mi armai di secchio e strofinaccio e iniziai a ripulire il pavimento di legno. Era già ricoperto di uno strato di sudiciume, nonostante non fosse passato molto tempo. Non riuscii a trattenermi dal borbottare maledizioni e dall’inveire contro Galvano. Perché toccava sempre a me svolgere questi lavori scomodi?
Il mio tutore nel frattempo si era diretto in camera, probabilmente per stendersi e riposare dopo una giornata faticosa. Perché ovviamente la mia non lo era stata affatto, pensai adirata, premendo con più forza la scopa sul pavimento.
Il motivo del suo continuo affaticarsi mi era ignoto, per quanto cercassi di indagare non ero a conoscenza di cosa Galvano facesse durante il giorno. Tentai di non pensarci troppo mentre mi rimboccavo le maniche e iniziavo a risistemare.
 
 
Quando finii era mezzanotte passata. Lo capii dalla posizione della luna; la sua luce filtrava dalla finestra, dove avevo appena pulito le imposte.
Ero stanca morta e fra poche ore sarei dovuta partire alla volta del palazzo. Non potevo inventare una qualche scusa per rimanermene a letto tutta la mattina perché quello spione di Galvano lo sarebbe andato a riferire subito ad Agnes, ne ero sicura. Tuttavia, non l’avrei fatto in ogni caso. Dopo tutto quello che Agnes aveva passato per aiutarmi a inserirmi in modo piacevole nel personale del castello non potevo ripagarla in questo modo.
I miei pensieri furono interrotti dal cigolio di una porta. Per un istante pensai si trattasse di Galvano, alzatosi per venire a controllare il mio operato. Ma poi mi accorsi che il rumore veniva dalla porta di ingresso.
Sein fece la sua comparsa sulla soglia, senza annunciarsi in alcuna maniera (una brutta abitudine che ci accomunava).
A quanto pareva, quella notte non avrei trovato il tempo di riposare.
Scambiandoci un’occhiata d’intesa, si avvicinò. Io protesi l’indice alle labbra, per comunicargli di fare silenzio, e indicai con lo sguardo la porta, aldilà della quale dormiva il mio tutore. Lui capì al volo e si limitò ad annuire. Appoggiò una chiave di ferro rozza sopra al tavolo che avevo appena lucidato. Fatto questo, si girò e uscì dalla dimora con uno sguardo di ammonimento nelle iridi nocciola. Annuii a mia volta. Aspettai che lui si fosse dileguato e misi a posto gli attrezzi da lavoro, prima di dirigermi con passo veloce e felpato all’uscio. La mia mano stringeva con sicurezza la chiave, afferrata poco fa. Quel gesto aiutava a calmarmi dall’eccitazione e dalla gioia che avevo provato nel vedere Sein e che cresceva mano a mano che camminavo. Un altro aspetto positivo nell’avere un paio di guardie incapaci? Non si accorgevano nemmeno se qualche minorenne violava il coprifuoco.
Arrivata al cancello che delimitava il confine tra la Cittadella e la Città Alta, osservai le guardie che lo sorvegliavano. Queste erano tutta un’altra storia confronto alle nostre. Ma io ero preparata: avevo imparato a memoria il tempo in cui le guardie si alternavano per darsi il cambio e riposare.
Dovetti aspettare solo un quarto d’ora all’ombra delle torce prima che gli uomini si allontanassero di dieci passi dalla grata, lasciandomi uno squarcio in cui potei passare. Corsi veloce sul terreno sabbioso, smorzando più che potevo i passi e l’agitazione.
Passata l’arcata trassi un sospiro di sollievo.
Attesi ancora un istante, ascoltando che nessuno si fosse accorto del mio passaggio clandestino all’una di notte e, quando ne fui certa, andai dritta alle scuderie. Era un bel sollievo che non esistessero più i Cavalieri e che al loro posto ci fossero delle guardie incompetenti, altrimenti a quest’ora sarei rinchiusa nelle segrete. Per di più a metà settimana i soldati venivano sempre mandati a compiere missioni, al di fuori del bosco, anche se nessuno era a conoscenza del motivo e di dove si dirigessero. Ci avevo riflettuto a lungo, ma non vi erano mai stati tentativi di attacco da parte di regni adiacenti o forze nemiche, quindi quale poteva essere un’altra ragione?
Giunta alla tanto agognata meta, infilai la chiave nella serratura malandata e, lanciandomi un’ultima occhiata alle spalle, entrai.


 

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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


DUE
 
 
 
 
 
Quando mi ritrovai all’interno dell’armeria, mi accorsi immediatamente che tutto era esattamente come l’avevo lasciato l’ultima volta. Senza perdere altro tempo, afferrai una spada e iniziai a esercitarmi.
Mi allenai ininterrottamente per il resto della notte. Certamente sarebbe stato di maggiore aiuto se avessi avuto qualcuno che mi addestrasse, preferibilmente una persona competente. Usai ogni tipo di arma, partendo da pugnali e spade e terminando con balestre e lance. Quello era il luogo nel quale le guardie si rifornivano, dove nel caso fosse indetto un torneo i partecipanti prendevano le attrezzature. E a me piaceva pensare che una volta anche i Cavalieri della Tavola Rotonda avevano toccato quell’acciaio, quelle else. E che si erano trovati nello stesso luogo dove ero stanziata in quel momento.
Quando uscii dalle scuderie, stava albeggiando.
Le case erano rivestite di un colore, solitamente anomale, aranciato e rossastro; sui loro tetti venivano proiettate le ombre degli alberi della foresta di Dwair e le guardie si erano quasi sicuramente già avviate verso la Città Alta, dirette al castello, il che voleva dire non c’era nessuno a presidiare l’inferriata. Sperai con tutta me stessa che quella notte Galvano non si fosse alzato prima del solito, interrompendo il suo sonno di solito profondo e incontaminato dagli incubi.
Ma ne era comunque valsa la pena. Il rischio era sempre alto, ma per me rinunciarvi era chiedere troppo. Era l’unico passatempo che mi distoglieva la mente dal mio lavoro e dal mio tutore e l’unica ragione per cui ogni giorno andavo avanti, il motivo per il quale sorridevo anche quando riempivo i cuscini di piume.
Al contrario dell’andata, potevo tornare con calma verso casa. Passeggiai tranquillamente per le strade della Città Alta, con un sorriso idiota stampato in volto: mi sentivo finalmente realizzata dopo una settimana di torture.
I lunghi ricci molleggiavano alle mie spalle, contro la schiena; il mio viso era baciato dal sole che piano piano saliva a sorpassare il colle. Accelerai il passo: dovevo sbrigarmi.
Mi accorsi solo in quell’istante che in fondo alla via principale vi era un giovane. Anche lui camminava alla svelta e a quanto pareva era mattiniero. Si stava avviando nella direzione opposta alla mia, ma non dovevo agitarmi per così poco. In fondo non stavo facendo niente di male e lui non poteva sapere quello che ero andata a fare o dove mi trovavo pochi minuti prima.
Aveva viso e corpo coperti da un mantello blu oceano e si capiva immediatamente che non era originario di quelle parti di Camelot dal materiale di cui era composta la sua cappa: seta, una stoffa ce un semplice abitante non si sarebbe procurato facilmente. A meno che non fosse rubata…
In quel momento rammentai che una volta mi era capitata tra le mani una mantella pregiata come quella, da lavare a secco come mansione quotidiana.
Sì, ma… No, non poteva essere.
Il ragazzo aveva spalle larghe e petto robusto. Di certo era stato addestrato come tutti gli appartenenti alla sua possibile classe sociale. Era risaputo che la maggior parte dei figli maschi dei lord dimostrava il proprio valore combattendo per il regno e lui non doveva far eccezione.
Mentre camminava teneva il capo chino: un comportamento anomalo, se si teneva in considerazione la sua probabile discendenza. Ma in fondo, chi ero io per giudicare?
Quando gli passai vicino sentii chiaramente un forte odore di cenere e muschio fresco. Un profumo del genere poteva provenire solamente da…
Appena quel pensiero mi sfiorò la mente, il ragazzo si voltò a osservarmi. Venni sopraffatta dallo stupore non appena i suoi occhi, di un meraviglioso turchese come i cieli azzurri di primavera, incontrarono i miei, di un banale castano ramato.
I capelli biondi delineavano il viso marcato, colorato appena dalle guance rosee e dalle labbra carnose. Mi fermai al centro della strada, mentre lui continuò a camminare imperterrito, come se quello scambio tra noi non fosse mai accaduto. E forse era proprio così.
Lasciai andare l’aria che tenevo nei polmoni e che non mi ero resa conto di trattenere. All’improvviso mi resi conto che il cuore aveva preso a battermi all’impazzata e mi misi una mano al petto. Sussultava come non aveva mai fatto prima, come se avessi corso per tutta Albion senza riprendere fiato. Chiusi la mano a pugno e abbassai gli occhi, fino a serrarli. Respirai col naso fino a quando non mi fui calmata. Il mio comportamento era indecifrabile. Tutto il mio corpo aveva reagito contro il mio consenso.
Lentamente ripresi il tragitto; il cuore aveva riassunto un battito regolare. Avrei voluto ignorare quell’avvenimento, proprio come sembrava avesse fatto il giovane sconosciuto, e andare avanti, ma mi era praticamente impossibile. Quegli occhi… No, non sarei riuscita a dimenticarmene facilmen-te. Però, ripensando a come a lui non avesse fatto alcun effetto, a come non aveva fatto una piega di fronte a me, mi fece venire una stretta al cuore.
No… era assurdo. Avevo accumulato parecchie ore d’insonnia, era senz’altro questa la ragione della confusione che mi aleggiava in testa. Sì, non c’era altra spiegazione.
Doveva trattarsi di questo. Doveva essere così.
 
 
Quando rientrai, il primo rumore che avvertii fu il russare di Galvano. Il peso che mi opprimeva il petto scomparve: l’avevo scampata un’altra volta.
Non avrebbe avuto senso stendermi se il fine era dormire pochi minuti prima di dovermi rialzare. Decisi quindi di cambiarmi i vestiti e già che c’ero di darmi una lavata veloce. Non volevo presentarmi ad Agnes e al mio mentore in quelle condizioni, ma soprattutto non volevo rischiare di avere addosso il profumo del ragazzo incontrato poco fa.
Una volta uscita dal recipiente contenente l’acqua, ormai sporca, indossai una maglia di flanella bianca e un gilè di pelle beige sopra. Infilai le gambe in un paio di pantaloni di cuoio e i misi i miei stivaletti da lavoro. Mi acconciai i capelli ribelli nella solita crocchia e mi preparai per uscire. Andai a svuotare la tanica e la riposai nella posizione in cui si trovava prima di essere usata. Lancia un’ultima occhiata alla stanza di Galvano e stavo per girarmi nella direzione della porta, quando mi ritrovai davanti un volto conosciuto.
Sein se ne stava con le braccia incrociate sul petto e mi osservava con uno sguardo corrucciato. Mi domandai che avessi fatto di male, quando iniziò a parlare.
- Si può sapere dov’è? – chiese accennando un tono scocciato. A che si riferiva? Sarà stata colpa del sonno, ma proprio non ci arrivavo. Notando la mia faccia confusa si spiegò meglio.
- La chiave! Che fine ha fatto la chiave che dovevi consegnarmi prima dell’alba? – aggiunse allarmato, vedendo che la mia espressione si stava via via tramutando in pure orrore.
Oh no! Mi ricordai dell’oggetto che fino a poco fa per me non significava nulla. La mia bocca si dilatò, formando una “O”; lo sguardo vago nel tentativo di fare mente locale. Possibile che l’avessi lasciata nell’armeria? Ma sì, doveva essere andata in quel modo. Era improbabile che l’avessi persa per strada. O meglio, non volevo pensarci nell’eventualità che fosse accaduto proprio quello che temevo.
- Ti prego non dirmi che l’hai persa… - adesso il suo tono di voce era disperato e non potevo dargli torto. Non c’era bisogno che rispondessi. Dalla mia espressione si capiva chiaramente il mio sbigottimento. Sein si passò le dita tra i capelli mori, agitato e in cerca di una soluzione. Avrei voluto fermarmi anch’io a riflettere per cercare un rimedio, ma la mia era un’indole più impulsiva. Non lo degnai di una risposta e mi avviai velocemente fuori dalla porta, diretta ancora una volta alla Città Alta. Corsi più veloce che potevo, sperando che nessuno avesse trovato l’arnese. Nel caso fossi stata scoperta, la pena comprendeva diverse frustate e una notte nelle prigioni. Se la chiave era rimasta all’interno, allora la porta doveva essere rimasta aperta in tutto questo tempo e la paura che qualcuno fosse entrato e avesse trafugato qualche cimelio mi raggelò.
La mia supposizione si rivelò esatta, ma non avevo il privilegio di esserne sollevata. Dovevo prima assicurarmi che le armi fossero ognuna nel suo corrispettivo posto e trovare l’oggetto perduto.
Iniziai a frugare la stanza da cima a fondo, ma della chiave non c’era traccia. Dopo dieci minuti di ricerche ero sfinita: tutta l’agitazione sommata alla ricerca e al fatto che quella notte non avevo chiuso occhio mi aveva sfiancato. Mi chinai a gattoni sulle assi di legno che ricoprivano il pavimento, nel caso fosse caduta da qualche parte: niente da fare. Ero spacciata… e Sein con me, altrimenti come avrei potuto giustificare il fatto di trovarmi lì dentro senza aver forzato la serratura. E come avrebbe fatto il mio amico a dimostrarsi innocente una volta che non avesse presentato l’oggetto al suo signore? No, dovevo concentrarmi e impegnarmi per ricordare. Tentai di evocare una qualche memoria, mi visualizzai davanti agli occhi l’immagine della chiave e in quell’attimo un mare di emozioni mi pervase, soprattutto le sensazioni che avevo provato quando mi trovavo nell’armeria, mentre brandivo le spade e facevo i miei esercizi. Quella era l’unica cosa che contasse nella mia vita e non poteva essermi tolta, maledizione!
Dovetti sedermi per l’improvviso mancamento. Avvicinai le ginocchia al petto e, prima che potessi poggiare le mani di fianco alla vita, il palmo di una di esse sfiorò qualcosa di freddo e metallico. Non appena voltai lo sguardo rimasi senza fiato. Come avevo fatto a non accorgermi di averla avuta tutto il tempo sotto gli occhi? Comunque fosse, l’afferrai e mi alzai alla svelta, anche se la brusca azione mi fece venire un capogiro alla testa. Stavo per ricadere quando udii dei passi provenire dall’esterno: le guardie dovevano essere tornate dalla loro missione in anticipo. Diedi una svelta occhiata agli armamenti, anche se non mi sembrava ci fosse stato alcun furto o spostamento.
Uscii veloce dalla porta, sperando di non essere scorta, e la chiusi a chiave. Quando mi voltai verso la strada, vidi Sein che cercava di non farsi notare ai lati dello sterrato. Mi fece segno di avvicinarmi e io gli andai incontro senza lasciar trasparire alcuna emozione: le guardie mi stavano osservando circospette, anche se probabilmente il motivo era il mio abbigliamento poco consono al mio sesso. Sein mi venne incontro a metà strada, ma io non mi fermai e pensai che neanche lui ne avesse l’intenzione. Quando ci trovammo l’uno di fianco all’altra gli passai la chiave, più cauta che potei e vidi con la coda dell’occhio il suo viso rilassarsi di colpo. Non era bravo come speravo a nascondere ciò che provava e sperai che i soldati fossero stanchi come me per non accorgersene. Mi diressi nella direzione opposto al cancello. Avevo un urgente bisogno di riordinare le idee. Che mi servisse da lezione: d’ora in poi non avrei più trascurato le ore di sonno.
Nel frattempo le vie avevano cominciato ad animarsi. Varcando la soglia di casa mi stupii di non trovare Galvano ad attendermi, bensì Agnes.
- Si può sapere dov’eri finita? – mi accolse lei. Aveva un cipiglio piuttosto irato, ma capii subito che la sua era più una domanda retorica e che era almeno in parte felice di vedermi.
- Che succede? – domandai preoccupata. Dopo tutto quello che mi era capitato non potevo non esserlo.
- Le guardie sono rientrate prima del previsto – rispose.
Già. – L’ho notato… -.
- Abbiamo un mucchio di lavoro da sbrigare. Jaclyn è ormai al lavoro da tempo. Sei pronta? -.
- Ehm, a questo proposito… - iniziai, ma m’interruppi non appena incrociai gli occhi ambrati di Agnes. Non potevo deluderla dopo tutto quello che aveva passato per aiutarmi. E se come affermava c’era davvero così tanto da fare non mi sarei potuta tirare indietro nemmeno volendo.
- Non fa niente… - mormorai infine.
Agnes mi guardò sospetta.
- Sì, sono pronta – ripetei più decisa.
Un sorriso fiero le increspò le labbra.
 
 
Seguii Agnes fino all’entrata della reggia. Erano state poche le volte in cui vi ero stata, dato che le altro volte io e le altre lavoravamo ai piani delle cucine o delle scuderie. La faccenda doveva essere più seria di quanto pensassi, probabilmente il cambiamento di programma aveva stravolto tutta la settimana, il che significava che avevamo un mucchio di lavoro arretrato di cui occuparci. E, come se non bastasse, non ero nemmeno nel pieno delle mie forze. Infatti combinai un disastro dietro l’altro: inciampai diverse volte nelle taniche d’acqua posate sul pavimento; mi caddero di mano le coperte e le tende che dovevano occupare le stanze reali e che erano appena state lavate e stirate. Come previsto, tutti i presenti mi lanciarono sguardi accusatori e severi, mentre Agnes si limitò a espirare. Un sospiro carico di rammarico. Jaclyn fu la sola che si avvicinò per darmi una mano. - Forza, ti aiuto a dare una sistemata. Basta spazzolarle un po’ e il gioco è fatto, non è successo nulla di grave o irrimediabile – mi rassicurò lei, ma nonostante quelle belle parole, non potei non udire commenti come Incapace o Incompetente. Oggi non era decisamente la mia giornata.
- Dovrete andare al piano di sotto allora. Qui hai già combinato abbastanza guai… - informarono le altre. Io e la mia amica ci dirigemmo così alle imponenti scale di marmo che conducevano ai piani inferiori.
Una volta scese e rimesso in ordine i drappi, risalimmo la scalinata con i panni tra le braccia. Questa volta cercai di prestare più attenzione ai passi che compivo, anche se per poco le mie intenzioni furono mandate al diavolo da Jaclyn, la quale si era bloccata all’improvviso in mezzo a un corridoio e per poco non le andavo a sbattere contro. Avevo la vista coperta a causa della massa di coltre e tendaggi, quindi riuscii appena a scorgere la mia amica piegarsi in un leggero inchino, anche lei intralciata dai tessuti. Io ebbi almeno il buon senso di imitarla, anche se non avevo la più pallida idea di chi avesse appena attraversato l’arcata. Almeno quell’azione mi era venuta egregiamente, pensai sollevata.
Quando il giovane – si trattava di un ragazzo notai – ci diede la schiena, capii davanti a chi ci eravamo appena piegate. Era appena passato il principe. Camelot attualmente era governata da Re Abner, la quale discendenza era composta da Alden, unico erede al trono esistente. Con grande rammarico da parte del sovrano e del popolo sua moglie, la regina Elderea, morì anni or sono, anche se Alden non era stato il suo unico figlio. Arth, l’ultima progenie dei Pendragon, era il primo pargolo della regina, anche se non aveva alcun diritto al trono appartenendo a un’altra dinastia, ovvero quella del monarca che aveva governato in precedenza.
- Gwenny, hai visto chi è appena passato? Non è da tutti incontrare il principe Alden, dovresti sentirti onorata! – sussurrò Jaclyn una volta che il giovane si fu volatilizzato. Mi trattenni dall’inarcare un sopracciglio davanti all’espressione estasiata della mia amica. Ovviamente avevamo una diversa concezione della parola onore. Lo ritenni un insulto alla sua intelligenza che anche solo si fosse sentita in quella maniera, quando il principino non ci aveva neanche degnate di un saluto. I Cavalieri non sarebbero mai rimasti impassibili…
- Anche se dicono che Arth sia di una bellezza indescrivibile – uggiolò di nuovo lei, riportandomi alla realtà dalle mie fantasie. Sapevo che con “dicono” intendeva le serve che lavoravano al castello. Io rimasi indifferente a quel commento malizioso, non ero interessata ai pettegolezzi, figuriamoci ai ragazzi! Mi definivo una persona alternativa e diversa con tutta me stessa, e ne andavo fiera.
Jaclyn, con la mente ancora fra le nuvole, aveva iniziato a incamminarsi verso la fine del corridoio, dove ci attendeva Agnes. Lei si accorse immediatamente del comportamento bizzarro della mia compare non appena varcò la soglia. E non fu la sola.
- Che ti è successo, Jac? – domandarono. Era il soprannome che usavano le altre domestiche, anche se personalmente preferivo il nome completo.
Lei si limitò a sospirare, il che non fece che aumentare la voglia di sapere delle presenti. Jaclyn, dopo una serie infinita di suppliche, non resistette a lungo e rivelò tutto quanto alle sue ammiratrici. Questo causò altrettanto dissapore tra le ragazze che si struggevano in segreto per il principe quanto ammirazione da parte di coloro che lavoravano a palazzo. Ma perché quella giornata non si decideva a finire?
La mattina avevamo riordinato le stanze delle guardie che abitavano a castello e ci fummo occupate dei lavori giornalieri in cucina, mentre il pomeriggio avevamo lucidato le armature dei soldati e strigliato i cavalli.
Quando infine arrivò il crepuscolo ero esausta. 
La mente cominciò ad annebbiarsi mentre mi dirigevo verso casa, dove nessuno mi avrebbe giudicato o guardato storto, dove potevo essere semplicemente me stessa.
 
 
Quando mi fui sdraiata a letto non ci volle molto perché caddi in un sonno pacifico e ricco di sogni. Non avevo nemmeno avuto la forza di cenare e Galvano fortunatamente non aveva fatto domande, intuendo quanto fossi stanca.
La mattina seguente feci un abbondante colazione ed ero felice di aver ritrovato la mia solita vitalità. Mi avviai serena alla Città Alta con l’intenzione di vedere Agnes e di scusarmi per il mio comportamento di ieri. In più dovevamo fare il prospetto della settimana seguente, dato che era lei che distribuiva sempre i compiti e affidava i ruoli da ricoprire alla servitù, sotto l’autorizzazione del sovrano e secondo le necessità che venivano richieste.
Nei sette giorni seguenti avevo l’ardire di ripulire le stalle e mantenere i cavalli in salute e puliti. Ormai ero un’esperta e questo Agnes lo sapeva di certo. Pensai che il motivo della sua scelta fosse il fatto di trovarsi nella posizione di non poter sbagliare. Che centrasse il rientro anticipato delle guardie? Che il Re in questi giorni fosse più irascibile? Ma non mi soffermai a fare domande e ubbidii in silenzio.
I soldati ripartirono il martedì successivo e questa volta sperai che sarebbero rimasti fuori dal regno per un tempo maggiore. Non seppi se Sein mi avesse perdonato dal nostro ultimo incontro, non ebbi l’occasione di parlargli a quattr’occhi come desideravo.
Ma la risposta arrivò puntuale insieme a qualcos’altro che non avrei immaginato potesse accadere a me. Stavo tornando alla mia dimora dopo essere passata per il mercato a fare il setaccio di quello che era rimasto, quando il mio amico mi fermò prendendomi, o dovrei dire avvinghiandomi, per un braccio. Di sicuro la gentilezza non era il suo forte, senza contare che non mi piaceva essere toccata, soprattutto quando la persona in questione non aveva il mio consenso. Gli lanciai uno sguardo di fuoco, per fargli capire le mie intenzioni, ma lui m’ignorò e mi trascinò sotto un portico di legno che delimitava le strade e che non era illuminato granché. Ma forse era proprio questa l’intenzione di Sein, anche se non riuscii a trattenermi oltre.
- Si può sapere che cavolo ti è preso? – domandai adirata.
- Scusa tanto ma era necessario… ho bisogno di parlarti – rispose lui con aria grave. Intravidi un lieve accenno di imbarazzo velargli gli occhi. Faceva bene a sentirsi in colpa.
- Ho sentito delle voci… - iniziò. Teneva lo sguardo basso, altrimenti avrebbe notato la confusione che vi era nel mio.
- Ovvero? Non capisco… - cercai di incoraggiarlo.
- Ricordi Eldwyn? Lavorava per il principe Alden, era il suo servitore – continuò lui, pronunciando in modo anomalo l’ultima parola, come per metterla in risalto e allo stesso tempo fare in modo che ne avessi paura.
- Sì, certo -. Ma dove voleva arrivare?
- Ecco… se n’è tornato nelle terre di Briath per dare man forte alla sua famiglia -. Ero arrivata al limite, pronta a schiaffeggiarlo o prenderlo a pugni se non si fosse deciso a parlare, a finire il suo maledetto discorso.
- Non vedo come questo possa interessarmi – dissi con tono gelido, incrociando le braccia davanti al petto.
- Be’, come dire… -. Come dire? Perché non si decideva a sputare il rospo, una volta per tutte?
- Insomma Sein! Se devi riferirmi qualcosa fallo subito! Sai com’è, ho una cena da preparare – esplosi infine.
- Ho sentito Agnes riferire a Ser Garwin che saresti stata tu a sostituire Eldwyn! – dichiarò finalmente, paonazzo in volto.
Io rimasi immobile, ammutolita, come se quella notizia non mi riguardasse affatto.
- Ti giuro non stavo origliando… - cominciò a giustificarsi intanto, poi vedendo che non reagivo, che ero pietrificata dalla sua notizia aggiunse: - Senti, non ne sono certo. Forse si è trattato di un enorme malinteso -. Sorrise, cercando di risollevarmi il morale.
- Parlane con Agnes, magari insieme riuscirete a… -. Ma non lo stavo più a sentire. Continuavo a fissarlo anche se la mia mente era altrove. Essere un servitore all’interno della corte voleva dire trasferirsi all’interno del castello. Come avrebbe fatto Galvano, senza di me, a cavarsela? E come avrei fatto io senza i suoi consigli, i suoi insegnamenti, senza di lui? Mi ero così abituata a convivere con lui che all’idea di separarmene mi sentivo male. E soprattutto come avrei fatto con i miei esercizi? Il lavoro a palazzo richiedeva un impegno a tempo pieno, ventiquattr’ore su ventiquattro e non era una passeggiata raggiungere l’armeria senza essere fermati o visti. Per non dimenticare che non avrei più avuto occasione di vedere Sein, quindi come potevo in ogni caso procurarmi la chiave? Come poteva Agnes farmi questo? Era a conoscenza della situazione di Galvano, che non era autosufficiente, e non credo che avrebbero permesso a un anziano come lui di entrare tra quelle mura, un popolano.
Lasciai cadere la cesta con all’interno i viveri e abbandonai il mio amico che nel frattempo aveva continuato a blaterare. Ero determinata a risolvere la faccenda e non l’avrei lasciata immutata. Non m’importava se Agnes avrebbe trovato quel comportamento inadeguato: bussai violentemente alla sua porta. Dall’interno trasparivano delle luci, il che significava che si trovava in casa e non poteva arrancare scuse non aprendomi. Si doveva considerare fortunata che non l’avessi semplicemente spalancata, senza annunciarmi. Galvano ne sarebbe andato fiero, pensai divertita.
Riuscii a udire delle parole provenire dalla dimora, poi la porta si spalancò. Agnes mi accolse con la solita facciata indifferente che non si scalfiva facilmente. Non lasciava trasparire niente, al contrario della mia. Adesso era il mio turno di dimostrarmi delusa.
- Entra – si limitò a dire. Di sicuro aveva intuito la ragione del nostro voluto incontro.
Varcai la soglia, sollevata che non dovetti dare spiegazioni. La tavola, notai, era apparecchiata e il fuoco scoppiettava all’interno del caminetto. Era una casa umile, almeno quanto la mia. Lei mi fece accomodare su una panca e si sedette di fronte a me, su una sedia posizionata in un angolo della stanza.
- Ti spiegherò tutto per bene, ma prima dimmi come l’hai saputo -.
Già pretendeva di fare lei le domande? Questo fece crescere la rabbia che si era insinuata dentro di me.
- Non intendo rispondere – dissi.
- Non sei nella posizione di rifiutarti – ribadì seria.
- Allora spiegami il perché, Agnes, ti prego – cercai di farla sembrare una supplica.
Lei distolse lo sguardo, un’azione che non le avevo mai visto fare. Incutevo davvero così tanto terrore?
- Perché io? – la incoraggiai. – Ci sarebbero state decine di ragazze pronte a prendere il posto di Eldwyn, perché proprio io? -.
A quel punto i suoi occhi tornarono a incrociarono i miei, come se qualcosa dentro di lei fosse scattata. – È vero. Ma il Re mi ha chiesto una persona competente, non un’adolescente con gli ormoni in subbuglio che riesce a malapena a parlare – rispose a tono.
- In questi ultimi tempi ti sei rivelata molto capace, Gwennyfer. E sono certa che migliorerai di giorno in giorno col passare del tempo – aggiunse.
- Ma anche Jaclyn si è rivelata eccellente nell’assolvere i suoi compiti – ribadii.
- Giusto, ma dimentichi che lei ha suo fratello di cui occuparsi -. Aveva una risposta pronta a ogni mia domanda, ma non era l’unica tra le due.
- E allora non pensi a me? Anch’io devo badare a Galvano! Senza di me non è autosufficiente… -. Il mio tono stava diventando via via più insolente.
- Infatti. Per questo, prima di prendere una decisione, gli ho chiesto cosa ne pensasse -.
Una lama sembrò trafiggermi il cuore. – E che cosa ha risposto? – chiesi, anche se sapevo già la conclusione.
- Ha detto che per lui non ci sono problemi e che sarebbe venuta una parente a prendersi cura della casa – disse tranquilla Agnes, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Era incredibile come tutti si fossero alleati di nascosto contro di me. Però, sapere che Galvano sarebbe stato bene anche senza di me, allietò la notizia del mio trasferimento ma allo stesso tempo lo rese doloroso. Possibile che in tutto questo tempo non si fosse minimamente affezionato a me? Ormai mi ero arresa all’idea e oppormi non avrebbe giovato a nessuno. Così mi rimase un ultimo quesito da porre ad Agnes.
- Quando si comincia? -.

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


TRE
 
 
 
 
 
Due giorni.
Mi rimaneva una sola notte da trascorrere nella mia casa all’interno della cittadella. Il punto era che non l’avrei fatto, anche se sarebbe stata quella la cosa giusta da fare. No. Non avrei passato la mia ultima notte a rigirarmi nel letto in preda all’ansia. Sein mi aveva già procurato la chiave e questa volta non l’avrei persa di vista.
Qualche ora dopo il crepuscolo, mi diressi per le vie anguste che attraversavano il regno, diretta alle scuderie. Galvano mi aveva augurato la buonanotte, come se fosse un giorno come un altro. La sua indifferenza nei miei confronti mi lasciava spiazzata.
Come al solito, dovetti aspettare che le guardie si dessero il cambio e, una volta trovatami nella Città Alta, iniziai a correre. Mi rimaneva pochissimo tempo a disposizione, pensando che quella sarebbe stata l’ultima notte in cui avrei potuto allenarmi indisturbata. Girai la chiava nella serratura con circospezione e mi richiusi la porta alle spalle. Vi appoggiai la testa e con lo sguardo iniziai a scandagliare la stanza, indecisa su dove cominciare. La mia scelta ricadde su una delle spade all’interno delle teche. Questa, al contrario delle altre, non era mai impolverata. Veniva sempre pulita a dovere da qualcuno che doveva tenere davvero molto a quella lama, tanto da affilarla ogni giorno e facilitandomi il lavoro. Presentava delle increspature sulla superficie liscia che formavano dei simboli arcaici. Non aveva alcun fodero al suo fianco, probabilmente era andato perduto nel corso del tempo, e nessuna didascalia a identificarne il nome. L’impugnatura era ricoperta da un nastro oro di velluto che formava una spirale e sull’elsa vi era incastonata una pietra che identificai come un opale e tutto attorno piccoli brillanti di smeraldi. Per essere un’arma così prestigiosa era conservata nell’armeria insieme a tutte le altre e non riuscivo a spiegarmene la ragione. Era davvero bellissima. Tolsi con cura la teca che la ricopriva e la poggiai delicatamente sul pavimento. Impugnai la spada e trovai strano trovare l’impugnatura tiepida, come se qualcuno l’avesse utilizzata da poco. Sperai con tutto il cuore di non stare diventando paranoica come Galvano. Mettendo da parte le preoccupazioni, iniziai il mio allenamento.
 
 
Passarono parecchie ore e avevo già usato la gran parte di spade e scudi per esercitarmi a dovere. Almeno la mia mente si era svuotare e il pensiero del trasloco imminente sembrava solo un avvenimento lontano anni luce. Quando terminai, riposi con cautela ogni arma al loro posto, assicurandomi che fossero nella stessa posizione del mio arrivo. Le ammirai un’ultima volta e, infine, mi diressi verso l’uscita con la chiave tenuta in tasca. Stavo per aprire la porta, quando un rumore sospetto attirò la mia attenzione: un cigolio. Anzi, diversi cigolii. Non ci volle molto che un volto comparì in seguito a quei suoni.
Si trattava di un ragazzo. Capelli mori con morbidi ricci ribelli e delinearne il volto; occhi marrone castagna; carnagione bronzea; spalle larghe e petto massiccio. Conoscevo fin troppo bene quel viso. L’avevo visto un migliaio di volte percorrere le strade della cittadella, in testa a un reggimento di guardie, sempre a cavallo, con la spada tenuta al fianco e un’aria fiera e orgogliosa che traspariva da tutti i pori. Avevo davanti il Capo della Guardia, l’unico che possedesse una copia della chiave di Sein.
Il mio corpo non rispondeva ai comandi, troppo terrorizzato, e non sapevo se scappare voltandogli le spalle o se iniziare a scusarmi. Dopotutto gli sarebbe bastato poco per riuscire a rintracciarmi, era necessario solo chiedere in giro e poi controllare di persona. Il mio problema era sempre stato quello di sentirmi invincibile, di non aver avuto paura di essere scoperta.
Feci a malapena un passo indietro, con le ginocchia che tremavano violentemente, che lui mi parlò. – Aspetta, non te ne andare -. La sua voce era molto calda e profonda, assolutamente stupenda e autoritaria. In fondo, era abituato a dare ordini ai suoi sottoposti e di farsi ubbidire. Dovevo darmi una controllata e pensare a un piano per scappare. Era ovvio che volesse consegnarmi seduta stante al principe o forse al Re.
Le sue parole, invece di tranquillizzarmi, non fecero che incoraggiarmi a una fuga veloce e istantanea. E così feci.
Non mi preoccupai nemmeno di richiudere la porta, mentre dietro mi rimbombava l’eco della sua voce che gridava parole incomprensibili. Non m’importava, che mi seguisse o mi denunciasse in ogni caso io sarei stata tra le mura del castello entro ventiquattr’ore, l’ultimo posto in cui sarebbe venuto a cercarmi. Per la prima volta, fui grata a Galvano e Agnes di avermi trovato un impiego del genere.
Corsi più svelta che potei, la destinazione era irrilevante, l’essenziale era allontanarsi.
 
 
Adesso avevo due prerogative. Oltre a essere prudente e svolgere con eccellenza il mio lavoro, come Agnes e Galvano mi avevano già raccomandato un centinaio di volte, vi si aggiungeva essere discreti e il non farsi notare. Dopo l’inaspettato incontro di ieri notte era vitale che non mi facessi riconoscere se non volevo finire nelle segrete, imprigionata per metà della mia vita.
I bagagli erano già sulla soglia, pronti per essere trasportati. Non mi restava altro che partire alla volta del castello. E in quel caso sarebbe stato per un periodo di tempo maggiore rispetto agli altri. Agnes mi aveva procurato un vestito di cotone grezzo che mi ero già preoccupata di indossare. Non aveva ricami di alcun tipo, era molto umile anche per una serva del mio rango, ma il Re era stato chiaro: vestiti assolutamente monotoni e incolori per chi lavora a palazzo. Era di un avorio sbiadito, tendente al crema, e presentava una scollatura a barchetta. In vita e a metà spalla vi era legata una cintura marron, come per sottolineare la nostra posizione di servitù. Le maniche erano attillare alle braccia, mentre la gonna era a ruota e arrivava alle caviglie. Solo le principesse potevano avere vestiti attillati e che le coprivano i piedi. Non potevo nemmeno indossare i miei stivaletti, avrebbero richiamato l’attenzione degli altri e solo le dame di corte potevano indossare calzature col tacco, che questo fosse grosso o a spillo. Agnes aveva pensato anche a questo: aveva barattato a mia insaputa gli stivali con un paio di scarpe piatte, assolutamente orribili, che s’intonavano perfettamente al mio abbigliamento e allo stesso tempo anonime.
Il mio vestiario era l’ultimo dei miei problemi, comunque, così decisi di non dare troppo peso alla faccenda e di concentrarmi sui miei obiettivi. Mi armai della sacca, che poteva considerarsi un bagaglio da viaggio, e – dopo aver salutato Galvano con un saluto veloce, Agnes con un bacio sulla guancia e una leggera stretta al volo, Sein con un pugno sulla spalla e Jaclyn con un abbraccio più caloroso – m’incamminai verso la mia futura dimora.
 
 
Una serva, che identificai poi come Madama Gilbert, m’indicò con fare affrettato e consegnandomi le chiavi, la mia stanza. Feci a malapena in tempo a poggiare il bagaglio che lei subito mi accompagnò davanti a un’imponente porta, ai piani superiori.
- Qui alloggia il principe Alden – annunciò velocemente. – Entra e presentati al tuo signore – aggiunse, dandomi una leggera spinta in quella direzione.
Bussai, intimidita, e sperai con tutto il cuore che lui non ci fosse.
Madama Gilbert, nel frattempo, si era dileguata. Capii subito che mi avrebbe reso la vita un inferno in terra, senza perdere un momento per lasciarmi respirare.
- Avanti -. Mi ridestai sentendo una voce provenire da dietro la porta in mogano. Mi feci coraggio e girai l’inferriata che la teneva chiusa. Quando vi ci affacciai notai che al suo interno vi erano più stanze e calcolai che il tutto doveva essere grande almeno il doppio della mia intera vecchia dimora. Davanti a me si estendeva una tavolata, anch’essa di un legno pregiato, apparecchiata di un cesto di frutta e, seduto su una delle sedie, vi era un giovane. Doveva trattarsi del principe, il mio signore. Stava rigirando tra le mani un foglio di pergamena alquanto interessante, visto che non mi degnava nemmeno di un attenzione. Che non mi avesse sentito entrare? No, impossibile, mi aveva detto di entrare. Ma decisi comunque di schiarirmi la gola.
A quel punto alzò leggermente la testa, ma senza distogliere lo sguardo dal foglio, come se fosse stato un incoraggiamento a continuare la sua azione mattutina.
- Mio signore - feci un largo inchino. Agnes mi aveva istruito a eseguirli senza commettere errori, prima di partire. Dato che lui si ostinava a ignorarmi, decisi di aumentare la mia audacia.
- Sono la sua nuova domestica, il mio nome è… - gli rivolsi la parola senza essere stata interpellata, ma m’interruppe prima di riuscire a finire la frase.
- So benissimo chi siete voi -. Solo quando disse questo si decise ad alzare gli occhi e a guardarmi in faccia. Solo una volta nella vita mi era capitato di vederne di così meravigliosi ed era stato recentemente a quel momento.
- Ma avete fatto bene a passare di qui. Sono trascorsi molti giorni da quando Eldwyn se n’è andato e il lavoro da svolgere è tanto. Spero che ne sarete all’altezza – disse in tono di sfida. Si stava riferendo al lavoro che avevo da svolgere o a se stesso? Pensava che non fossi in grado di svolgere poche mansioni? Pensava di mettermi paura con questi avvertimenti? Sperava in un mio cedimento?
- Tuttavia, ci vorrà del tempo prima che mi possa fidare di voi e mi auguro che non mi deludiate – aggiunse. E detto questo, mi fece un elenco delle faccende che avrei dovuto sbrigare.
 
 
Finii in tarda serata e in tutto quel tempo Madama Gilbert non si era fatta viva. Sapeva sicuramente che il principe mi avrebbe affidato subito una serie di compiti. Che bastarda…
Avevo comunque eseguito la maggior parte delle cose elencate nella lista e potevo ritenermi soddisfatta. Sperai che lo stesso valesse per il principe, dato che mi ero occupata del lavoro arretrato di un intera settimana. Avevo fatto il bucato, cambiato le tende, lavato i pavimenti, rifatto il letto e scelto lenzuola nuove. Stavo riportando i vestiti piegati e stirati nelle stanze del mio signore, quando mi resi conto di un piccolo particolare: mi ero persa. Ed era tutta colpa di Madama Gilbert, accidenti! Aveva camminato così in fretta che era già stato difficile starle dietro e non mi aveva nemmeno fatto fare un giro per il castello. Non mi aveva nemmeno fornito una mappa, quella strega. Come se non bastasse, i corridoio di palazzo si somigliavano in maniera incredibile. Se ero fortunata sarei incappata in un sorvegliante che vegliava il via vai di persone che vi circolavano. Girai a destra, speranzosa, e incappai non in una semplice guardai, ma nel Capo in questione, l’unica persona al mondo che mi ero ripromessa di evitare. Accidenti…
Riuscii a vederlo di striscio, dato che avevo il viso coperto dagli indumenti che tenevo tra le braccia, e sperai che anche la sua visuale fosse limitata. Portava dei pantaloni di lino neri e una maglia beige che metteva in risalto i muscoli sodi e possenti. Sembrava un’altra persona di quando portava l’armatura e l’elmo. Gli passai davanti.
Lui si guardò bene dal travolgermi e fu abbastanza agile dal fare un passo indietro appena in tempo prima che lo travolgessi.
- Oh scusate – si affrettò a dire, anche se in realtà ero stata io a voltare all’improvviso. Feci un inchino affrettato in risposta.
- Siete nuova del castello? – chiese prendendomi alla sprovvista.
- Come? – non potei fare a meno di domandare.
- Siete la nuova serva del principe Alden, giusto? -. Notai che alla cinta non portava alcuna spada. Lui interpretò il mio silenzio come un assenso.
- Come avete fatto a capirlo? –. Potevo rivolgergli la parola, dopotutto non avevo parlato con lui l’ultima volta. Sentii una risata sommessa seguire il mio quesito.
- Non lo sapevo, veramente. L’ho intuito vedendo cosa stavate portando -. Quindi era un acuto osservatore. Interessante… avrei dovuto guardarmene in futuro.
- Ah, le stanze del vostro signore sono nella direzione opposta – aggiunse, sempre sorridendo. Lo divertiva così tanto vedermi in difficoltà? O erano le serve in generale a farlo ridere in quel modo? In ogni caso, già lo detestavo. Un Cavaliere non si sarebbe mai permesso di deridere così un signora.
Mi affrettai a fare un veloce e sbadato inchino di commiato, prima che le parole di rabbia che volevo tanto pronunciare mi sgorgassero fuori, in preda alla furia. Mi voltai a mi avviai nella direzione che mi aveva suggerito, sperando non si trattasse di un tranello o di uno scherzo di cattivo gusto.
Fortunatamente non era una menzogna. Con mio grande sollievo riuscii a ritrovare le stanze del mio signore. Sospinsi lentamente la porta che era rimasta socchiusa e decisi di entrare, non sapendo come annunciarmi. E se avesse avuto qualcosa da ridire sul mio comportamento, doveva solo provarci. Mi ero preoccupata inutilmente, visto che lui non c’era. Probabilmente si era diretto a cena, dato che era piuttosto tardi. E la prova era il mio stomaco che aveva iniziato a brontolare da quando avevo attraversato il corridoio semi deserto. Sarei sprofondata dalla vergogna se il Capo della Guardia mi avesse sorpreso in quelle condizioni. Non ne conoscevo la ragione, ma non volevo che mi trovasse debole. Volevo che non pensasse che io ero come le altre serve.
Mettendo da parte queste fantasticherie cominciai a riordinare gli abiti nell’armadio, e già che c’ero, controllai quelli che vi erano dentro. Se mi avesse sorpresa a curiosare potevo giustificarmi dicendo che stavo riordinando il disordine che vi aleggiava ormai da due settimane. Volevo scoprire una volta per tutte se era lui il ragazzo che avevo incrociato per le strade deserte della Cittadella, la mattina preso, una settimana fa. Gli occhi erano i suoi, ne ero certa. Perlustrai da cima a fondo il guardaroba del principe, ma della mantella blu non c’era traccia. Che mi fossi sbagliata in partenza? Dovevo considerare anche altri dettagli oltre a quegli splendidi occhi turchesi. Ora che ci riflettevo, i capelli erano più chiari, le spalle più larghe e i lineamenti del viso più marcati. Possibile che esistesse una persona tanto simile ad Alden?
Dopo aver finito di rimettere in ordine il disastro che avevo creato, mi ero avviata verso la mia camera. Sarebbe stato strano dormire in un altro letto e soprattutto senza il russare di Galvano come ninnananna. A quel pensiero mi fiorì sulle labbra un lieve sorriso. Chissà se in quel momento lui stava sentendo la mia mancanza esattamente come io sentivo la sua. Lo stomaco intanto non aveva smesso di emettere dei suoni gutturali per niente flebili e così decisi di cambiare destinazione a metà strada, sperando di non perdermi una seconda volta. Ero diretta alle cucina e arrivarci doveva essere abbastanza semplice per me, dato che ci avevo passato gran parte del tempo a svolgere le faccende quando ancora abitavo nella Cittadella. Le mie supposizioni furono esatte e le cuoche furono felici di rivedermi e mi diedero con piacere una pietanza abbondante che io fui lieta di accettare. Erano già state informate del mio trasferimento da Agnes.
Una volta terminato il pasto ed essermi riempita la pancia, mi avviai all’uscita. Loro di nuovo mi salutarono calorosamente, congratulandosi per la mia “promozione”. Almeno qualcuno era felice di questo.
 
 
Le torce, sorrette da un cerchio di rame attaccato al muro da un chiodo, erano state accese mentre io ero a cena. Il suono delle campane confermò i miei dubbi riguardo alla tarda ora. La temperatura stava calando, la prossima volta mi sarei portata dietro uno scialle.
Avevo così poca voglia di ritornare in quella buia camera che era diventata la mia casa, che stavo camminando a passo lento e svogliato. Avevo raggomitolato le braccia intorno al corpo, cercando di generare maggiore calore e guardavo distratta il pavimento, contando ogni mio passo. Intorno a me era come se fosse tutto bloccato, immobile, come se il tempo stesso si fosse fermato. Percepivo una conversazione non molto distante, ma decisi di ignorarla pensando che fossero due guardie intente a discutere della propria giornata. Così tenni lo sguardo basso mentre un ragazzo, uno dei due partecipanti alla conversazione, mi passava affianco. Non vidi di chi si trattava, ma sicuramente non era uno dei controllori che stanziavano i corridoio, dato che non aveva prodotto lo stridio tipico delle armature, mentre si incamminava velocemente in una direzione a me ignota. E non avrebbe avuto l’autorizzazione di lasciare la sua postazione senza essere congedato da qualcuno. Il suo passaggio lasciò la scia di un odore a me familiare: muschio, con qualche accenno di erba bruciata. Sapevo da dove proveniva e anche da chi, senza alzare gli occhi. Mi voltai comunque, troppo tardi per intercettare il giovane che avevo incontrato già una volta nelle stesse circostante di rientrare nella mia dimora, e per avere la conferma dei miei sospetti. Lui, ovviamente, non mi aveva riconosciuta. E come poteva, dato che ero vestita in un modo completamente diverso? Per lui, probabilmente, ero stata solo una ragazza che passava di lì per caso, in una parola: insignificante. Come del resto avrebbe pensato un qualunque cittadino. Ma era meglio così, mi consolai. Se mi avesse considerato una testimone del suo passaggio, sarei stata coinvolta in un mare di guai. Un uomo accusato di entrare nella foresta di Dwair veniva punito severamente. Una donna veniva giustiziata a morte.
Mi ero chiesta più di una volta che cosa si nascondeva all’interno di quelle selve buie, che cosa si celava da meritare di essere sanzionato se anche solo veniva nominata. In questo modo però avevo scoperto che il misterioso ragazzo faceva parte della corte ed era un buon inizio per evitarlo. Era un sollievo avere la conferma che non si trattava del mio signore. Nel frattempo, mi ero nuovamente incamminata. Passai davanti alla guardia che aveva avuto quell’accesa discussione col ragazzo e cercai di assumere un atteggiamento indifferente. Sperai che l’uomo non pensasse che vessi origliato, anche perché era la mia parola contro la sua.
Dovevo essere sembrata poco convincete, perché il tizio nascosto sotto l’armatura mi fermò non appena gli passai davanti. Gli lanciai degli sguardi che lasciavano intendere il mio risentimento e sperai si sentisse almeno un poco in colpa per aver fermato una fanciulla.
- Scusate damigella, siete nuova del palazzo? – domandò intimidito. Un comportamento strano, visto che uno dei suoi compiti era di infondere coraggio. Ah, no. Mi sbagliavo, quello era il compito dei Cavalieri. Dimenticavo che le guardie erano lo pseudonimo di quei nobili che una volta mantenevano l’ordine tra la gente. Pensare che furono sostituiti da questa sottospecie di persone mi faceva salire il sangue alla testa, ma cercai di non farci caso. Mi limitai a rispondere, tentando di non far uscire i sentimenti che occupavano il mio cuore turbato.
- Ehm, sì – ammisi. Non sapevo cos’altro aggiungere, dopotutto non apparteneva alla corte. E nemmeno un inchino sarebbe stato opportuno. – Perché? – aggiunsi in un impeto di spavalderia. Dopotutto, non poteva aspettarsi che avrei risposto senza porgli qualche domanda in merito alla sua.
Lui si tolse l’elmo, un gesto che mi stupì molto. Mi guardò intensamente negli occhi e disse: - Non vi ho mai visto all’interno di queste mura. In più stiamo cercando una persona. Una ragazza – specificò. Quelle parole mi spiazzarono. Trattenni il fiato involontariamente.
- Come mai? -. Pregai con tutta me stessa che non pensasse fossi una sconsiderata che non riesce a stare al suo posto.
- Sono questioni private. Non sono tenuto a risponderle – rispose. Lo immaginavo. Una frase precaria, come si addiceva a una guardia senza cervello, in fondo. Probabilmente non l’avevano riferito neanche lui, supposi.
- Sì, certamente – dissi educata, sperando di recuperare qualche punto. Poi mi venne un’idea.  – Potete descrivermela? Forse potrei riconoscerla, se la incontro, e nel caso verrei subito a riferirvelo. O magari è una mia amica, una vicina di casa – sa, io provengo dalla Cittadella e lì ci conosciamo tutti – mi giustificai, speranzosa. La guardia ci rifletté, si accarezzò la mandibola ricoperta da una barba incolta e alla fine, quando sembrò prendere una decisione, mi osservò con i suoi occhi ambrati.
- D’accordo, proverò a fidarmi -. In silenzio, esultai.
Annuii decisa e riconoscente, pronta ad ascoltare la descrizione della donna.
- Fate attenzione, non è difficile notarla e non passa inosservata. Possiede lunghi capelli corvini, aggrovigliati in morbidi ricci dai riflessi castani e non li porta legati in una crocchia, quindi non è una serva. Ha occhi marroni, è di statura media e non indossa un vestito, ma capi che si addicono più a un uomo. Ti suona familiare? -. Eccome: ero io. Fortunatamente in quel momento avevo i capelli acconciati e il mio abbigliamento era esattamente il contrario di quello descritto.
In quell’istante però milioni di domande mi affollavano la mente. Qualcuno stava indagando e chiedendo informazioni sul mio conto in giro, per trovarmi. E i maggiori sospettati e candidati rimanevano due: il Capo della Guardia e il misterioso ragazzo dagli occhi azzurri. Non mi restava che schierarmi con uno di essi, anche se il gioco l’avrei stabilito io. E a mie spese.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


QUATTRO





Mi trovavo nella mia camera: stavo riordinando i vestiti e sistemando un po’ meglio i mobili per renderla più accogliente. Tutto a un tratto la porta sbatté a terra con un boato che rimbombò per le pareti per parecchi secondi. Nessuno si era preoccupato di bussare e io, sconcertata, non avevo la forza di ribattere, indignata com’ero da quell’entrata a dir poco rumorosa e per niente ben accetta, per lo stupore di quella scena.
Erano state le guardie, le quali capeggiate dal ragazzo biondo che avevo incrociato in corridoio appena due ore fa. Come aveva fatto a trovarmi così presto? Che il sorvegliante di prima avesse avuto dei sospetti per colpa del mio discorso? Ero stata davvero poco convincente? Gli lanciai delle occhiate di fuoco, piene di odio e risentimento, anche se lui non ricambiò. Mi guardava con espressione addolorata, come se gli dispiacesse della sorte che mi attendeva, ma non avesse altra scelta se non quella di condannarmi.
Uno dei suoi sottoposti mi afferrò per il braccio e mi trascinò fuori per i corridoi, deserti data la tarda ora. Mi sorprendevo io stessa del fatto che non cercassi di dibattermi, in preda alla rabbia. Che tenessi poco alla mia vita? Ci avvicinammo a passo lento alla sala del consiglio, dove sarebbe stata decisa la mia sorte: sembrava tutto irreale.
A metà strada incontrammo sul nostro passaggio il Capo della Guardia, accompagnato dal principe Alden, il mio signore. Entrambi mi osservarono di sbieco, ma nonostante questo, non distolsero mai lo sguardo dal mio. Non mi preoccupai neanche del fatto che il primo potesse riconoscermi, il che era sospetto. A un certo punto Lancel, non seppi il motivo ma sentivo la necessità di chiamare il Capo della Guardia per nome almeno nella mia testa, si decise ad aprire la bocca per parlare.
- Sire, lasciate che mi occupi io della prigioniera -. La sua voce era proprio come la prima volta che l’avevo udita: vellutata e profonda. Non mi accorsi immediatamente, per questo, delle parole che erano uscite dalle sue labbra. Aveva detto “sire”? Che motivo aveva per volermi accompagnare di persona, se eravamo quasi arrivati? Che credesse di avere un qualche privilegio nei miei confronti, dato che mi aveva sorpreso lui stesso nell’armeria? Qualunque fosse la ragione, ero estremamente tranquilla vista la situazione.
Le guardie non si azzardarono a controbattere, mi consegnarono nelle mani del loro capo, il quale specificò che non era necessaria la scorta. Non ne sapevo il motivo, ma intuii che fosse una frecciata diretta al ragazzo che ne era accompagnato, lo stesso che avevo incontrato in quegli stessi corridoi ore fa. Un’ira inattesa si formò dentro di me, tanto che dovetti guardare male Lancel per riuscire a calmarmi almeno un po’, come unico sfogo. La situazione era talmente assurda che ormai non mi stupivo più di niente. Comunque fosse, non ero stata l’unica ad aver avuto quella impressione, perché anche il giovane a cui era diretta la critica iniziò a lanciargli delle occhiate per niente amichevoli, ma rimanendo in silenzio. Anzi, ammonitrici.
Infine, tutti si decisero ad andarsene, come aveva stabilito il mio, in qualche modo, salvatore. Sapevo che era così, anche se non riuscivo a spiegarmene la causa. Quando anche l’ultima guardia ebbe svoltato l’angolo, Lancel cominciò a strattonarmi e, senza rendermene conto, stavamo correndo in tutt’altra direzione. Alla fine del corridoio vi erano delle scale che non avevo mai visto prima. Quando lui scese senza un attimo di esitazione, io, senza obiettare, feci lo stesso. Erano buie e non vi si affacciava alcuna finestra. Erano appena schiarite dalla luce fioca delle torce appese alle pareti. Mentre scendevo alla svelta gli scalini, nella speranza di non inciampare, una voce mi sussurrò all’orecchio delle frasi che non riuscivo a interpretare completamente. Man mano che calavamo nelle tenebre, questa diventava sempre più forte e costante. Era come un mantra: continuava a ripetere le stesse parole svariate volte.
Da questa parte!
Possibile che l’avvertissi solo io? Eppure l’idea non mi spaventava affatto, provavo la sensazione di essere al sicuro. Che fosse la vicinanza di Lancel a causarla?  Ero talmente presa dall’incessante corsa che non mi accorsi che nel frattempo aveva spostato la presa più in basso, fino a tenermi per mano, anziché trascinarmi per il braccio. Un’azione che mi provocò imbarazzo e mi dipinse un rossore sulle guance, ma che allo stesso tempo era piacevole. Sapevo che sarei potuta rimanere al suo passo anche se avessi mollato la presa, ma non lo feci. Volevo avere la prova tangibile che lui si trovava lì, al mio fianco, e che mi sarebbe rimasto vicino. Ormai avevo accettato questa bizzarra realtà e quindi decisi di darle corda, come se fosse un gioco. Non m’importava più di tutte le incongruenze che vi erano. Decisi che era meglio vivere l’esperienza appieno.
Fatti tutti gli scalini, davanti a noi si erse un’immensa arcata, attraversata da una porta massiccia. A quel punto, un dubbio iniziò a formarsi nella mia testa: che mi avesse portato direttamente alle prigioni? Dentro di me brillava ancora la speranza che non fosse così e decisi quindi di non spegnerla. Sperai vivamente che fosse sensata. Intanto, lui stava frugando nelle fibbie della sua cintura alla ricerca di una chiave ben precisa. Quando riuscì a trovarla, la infilò nella serratura, gli fece fare due giri completi in senso orario e quella scattò. Lancel sospinse la porta che si spalancò con una serie di cigolii. Doveva essere rimasta sigillata per anni, rimuginai. I cardini avevano su di loro il segno del passare incessante del tempo, erosi dalla ruggine e ormai a pezzi. Dietro vi erano altre gradinate, di cui però questa volta si vedeva la fine. Lancel si armò di una torcia, tenendola alta davanti a sé, e scendemmo in fretta, ansiosi di terminare quella corsa che sembrava infinita.
Arrivati a destinazione, mi trovai davanti un’immensa grotta, ricoperta di stalattiti e stalagmiti enormi quanto case. Assumevano un colore ocra alla luce soffusa del fuoco, ma l’oggetto che mi lasciò senza fiato in corpo fu il gigantesco drago alato che si stava avvicinando a noi e che soffiò una spirale di fuoco nella nostra direzione, senza alcuno scrupolo o ripensamento.
 
 
Mi svegliai in preda agli spasmi, ricoperta da un lieve velo di sudore su schiena e viso. Era stato solo un incubo.
 

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