Rette parallele di HannibalLecter (/viewuser.php?uid=452484)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Dicono che l'amore sia
cieco ma io aggiungerei che sono le persone a volte ad essere
più cieche delle talpe. I film e i libri ci mostrano
centinaia di esempi di donne e uomini che finché non
sbattono letteralmente contro il loro innamorato o innamorata non si
rendono conto della pena che stanno provocando ai loro poveri
spasimanti. Un esempio? Elizabeth Bennett, passino tutti i pregiudizi
che le coprono gli occhi e le impediscono di vedere fin dall'inizio che
Mr. Darcy è un uomo da sposare senza indugiare, ma chiedersi
se lui l'amerà ancora dopo che ha dilapidato metà
del suo patrimonio solo per salvare la sua sciocca sorella mi sembra
veramente da ottusi. Se fossi stata io Lizzy sarei fuggita fin da
subito nella meravigliosa Pemberley con l'altrettanto meraviglioso Mr.
Darcy.
La protagonista del film non aveva ancora capito che il suo vicino di
casa che la riempiva di regali, la invitava sempre a cena e le teneva
il gatto quando andava in vacanza era irrimediabilmente cotto di lei
con tanto di sguardo da pesce lesso innamorato. Io non avevo mai
trovato un uomo che mi ricoprisse di doni, mi preparasse anche solo la
colazione o mi tenesse quel grassone di Isidoro altrimenti sarei
già sposata e circondata da tanti bimbetti saltellanti.
Sbadigliai per la
centesima volta e, cercando di fare meno rumore possibile, mi chinai
alla ricerca della mia borsa, nascosta nei meandri più
irraggiungibili dello spazio sotto la mia poltrona. Il buio della sala
del cinema non aiutava e così cercando alla cieca afferrai
quella che credevo essere la mia borsa. Tastai sospettosa, da quando
avevo una borsa di forma cilindrica? Alzai gli occhi imbarazzata e
incontrai lo sguardo accigliato del ragazzo seduto vicino a me e
spostai lentamente lo sguardo sulla mia mano che circondava la sua
caviglia. Ringraziai tutti gli dei dell'Olimpo per
l'oscurità della sala che impediva che il mio viso paonazzo
venisse ammirato da tutti.
«Oddio scusi, è stato un errore io...»
Feci per alzarmi in piedi ma urtai il bicchiere di coca cola della
ragazza seduta accanto a me e quella scattò in piedi
imprecando e guardandomi furiosa mentre io cercavo disperatamente la
mia borsa e dei fazzoletti per aiutarla.
«Signorina, si toglie di mezzo?»
Mi voltai di scatto e incontrai lo sguardo stizzito del grasso signore
della poltrona dietro alla mia.
Trovata! Afferrai velocemente la borsa, scovai i fazzoletti, li
consegnai alla ragazza farfugliando delle scuse e mi diressi
velocemente verso l'uscita.
Cosa avrei scritto di quel film? Che era una schifezza infarcita di
romanticismo scaduto, creata per far scucire a della povera gente
ignara i soldi del biglietto. Dovevo trovare un rimedio al
più presto, la sfiga che mi perseguitava fin dalla culla
unita al mio essere spesso maldestra formava un mix micidiale che un
giorno o l'altro mi sarebbe stato fatale. Forse la soluzione era
chiudersi in casa con una scorta di vaschette di gelato e una pila di
dvd. No, ci avevo già provato e non avevo funzionato.
Ricordo come se fosse ieri l'episodio della vasca da bagno, era stata
una vera e propria serie di sfortunati eventi. Ero arrivata a casa
distrutta dopo un giorno in università e mi ero concessa un
lungo bagno caldo con tanto di schiuma e Debussy di sottofondo. Non so
come mi addormentai e fui svegliata dai colpi insistenti alla porta
d'ingresso. Io mi ero svegliata all'improvviso e avevo fissato confusa
il mio bagno allagato. I momenti successivi furono un susseguirsi di
episodi degni di Paperissima. Io uscii di corsa dalla vasca e mi
precipitai ad aprire la porta, sulla soglia della quale mi attendevano
cinque vicini inferociti. Uno di loro mise il piede nell'atrio,
scivolò sul pavimento bagnato e pensò bene di
aggrapparsi a me, che infreddolita e in accappatoio stavo cercando di
giustificare il perché si fossero trovati improvvisamente i
soffitti grondanti d'acqua. Finimmo entrambi in ospedale. Lui nel
reparto geriatria con il femore rotto e io con il braccio ingessato.
Inutile aggiungere che pagai i danni e cambiai appartamento.
Però, a dispetto di tutto, rimasi in contatto con il povero
Signor Arturo che andai a trovare spesso durante la sua convalescenza e
le mie visite continuarono anche quando il suo femore si
aggiustò e lui poté tornare ad andare a ballare
il liscio la domenica pomeriggio.
Pescai il telefono dalla tasca interna della mia borsa di Mary Poppins
e lo controllai velocemente.
Due messaggi non letti, una chiamata persa a una mail.
Lessi distrattamente i messaggi; Chiara che mi ricordava l'appuntamento
di quella sera con le ragazze e mia madre che mi ordinava di chiamare
una misteriosa zia di nome Agata per farle gli auguri e mi lasciava il
numero della neo novantenne.
La mail era di Joanne, la mia amica francese, che mi rimproverava per
il ritardo con cui rispondevo ai suoi messaggi e mi invitava da lei a
Lione per il ponte di Carnevale. Pfff, come se a me fosse concesso di
stare a casa per travestirmi da unicorno e girare per le strade a
spargete coriandoli multicolore.
La chiamata persa era di Alfredo, il mio capo, che mi affrettai a
richiamare.
«Cipollina perché non sei seduta su una poltrona
intenta nella visione della nuova commedia romantica con Jennifer
Aniston?»
Cazzo! Perché doveva sempre essere così preciso?
Tossii imbarazzata.
«Pandorina non c'è bisogno che ti faccia venire un
attacco improvviso di bronchite: so perfettamente che quel film
è una palla al piede. Ecco perché ti ho chiamata,
volevo salvarti da una morte causata da noia acuta. Non ringraziarmi
cara, come ricompensa accetto volentieri il tuo supporto per un
pomeriggio di shopping! Come sono generoso, oltre che incredibilmente
bello e talentuoso»
Sbuffai di fronte a quel commovente sfoggio di modestia e
umiltà.
«Alfie piuttosto che sorreggere per un intero pomeriggio pile
e pile di maglioncini rosa confetto e pantaloni giallo canarino torno
in sala e finisco di vedere il film»
Sentii un risolino dall'altra parte della cornetta.
«Bene, stavo pensando a chi affidare l'articolo sul nuovo
film strappalacrime basato su una storia di Nicholas Sparks ma dato che
ti sei proposta come volontaria posso dire conclusa la mia
ricerca!»
Oh no! Nicholas Sparks e le sue storie zuccherose mi facevano venire il
voltastomaco. Una volta avevo provato a guardare con le ragazze 'Le
pagine della nostra vita' ma neanche la meravigliosa visione di Ryan
Gosling era riuscita a trattenermi su quel divano per più di
dieci minuti.
«Brutto traditore frou frou! Quando vuoi andare?»
Quella settimana dovevo scrivere due articoli, vedere due film, andare
ad un party di beneficenza organizzato dall'associazione attori
italiani e presenziare alla festa di benvenuto del nuovo misterioso
collega che sarebbe giunto a fine settimana. Alfie ogni volta che lo
riempivo di domande sul nuovo arrivato mi rispondeva con uno strano
sorrisino e un irritante 'aspetta e vedrai'.
«Giovedì pomeriggio? Così mi compro un
completo nuovo per venerdì sera e ne approfitto per
assicurarmi che tu venga vestita in modo adeguato. Sai topolina cosa ho
visto ieri? Una cosa meravigliosa e stupefacente: saldi da
Dolce&Gabbana! In vetrina c'era un incantevole abitino di pizzo
rosso che su di te starebbe divinamente»
Alzai gli occhi al cielo. Pallida com'ero il vestirmi di rosso non
faceva altro che mettere in evidenza il mio incarnato da Dracula.
Quando Alfie iniziava a blaterare di saldi e vestiti il mio cervello si
scollegava. Mi piaceva fare shopping ma dove volevo io, nei negozi che
volevo io e per comprare qualcosa che volevo io e non il mio adorato
capo gay. Alfie aveva uno stile tutto suo e cercava di convertire tutti
alla sua personalissima concezione di eleganza. A Natale mi aveva
regalato un cappottino color azzurro puffo che avevo messo una volta
solo per farlo contento.
«Va bene, comunque adesso vado a pranzo e poi passo in
ufficio ok?»
«Perfetto, così mi racconti di quanto fosse
entusiasmante il film. A dopo carotina!»
Riposi il telefono e mi guardai attorno. Quel giorno per pigrizia avevo
deciso di non attraversare la città per andare al solito
piccolo cinema di fiducia ma di affidarmi alla più vicina
multisala che si trovava in un grande centro commerciale inaugurato da
poco.
Dopo aver mangiato una piadina al volo e aver chiamato la mia presunta
zia Agata, che era convinta mi chiamassi Ermengarda, tornai in ufficio.
Una volta entrata nell'atrio scambiai due parole con Carmen, la
segretaria, mia fonte di pettegolezzi e scoop sui membri della
redazione, e mi diressi agli ascensori. Ogni mattina mi promettevo che
avrei iniziato ad utilizzare le scale per arrivare al terzo piano ma
poi ogni giorno arrivavo di fronte alla scalinata e i miei buoni
propositi si smaterializzavano. Vidi di sfuggita le porte
dell'ascensore chiudersi e senza pensarci due volte mi lanciai in una
folle corsa. Non so grazie a quale miracolo riuscii ad entrare
nell'abitacolo un secondo prima di finire schiacciata tra le due porte
metalliche come una foglia d'insalata in un sandwich. Non avevo ancora
tirato un sospiro di sollievo quando mi resi conto con sommo orrore che
la mia cartelletta era rimasta incastrata. Cazzo la cartelletta no!
Lì dentro c'erano tutte le bozze degli articoli che avrei
dovuto scrivere nelle prossime due settimane e piuttosto che perderli
mi sarei trasformata in Hulk e avrei separato con la mia super forza
bruta le due porte per liberare la mia preziosissima cartellina.
Iniziai a tirare con tutte le mie forze ma quella non ne voleva sapere
di muoversi. L'ascensore non si muoveva perché probabilmente
aveva rilevato che le porte non erano chiuse correttamente.
Non mi persi d'animo, ignorai il signore alle mie spalle, si,
perché non ero sola, e mi appesi alla cartelletta tirando
verso di me. Niente. Sull'orlo di una crisi di nervi mi voltai per
chiedere al signore se poteva in qualche modo aiutarmi ma rimasi a
bocca aperta. Perché ogni volta dovevo rendermi ridicola
davanti a dei novelli Jude Law? Perché le mie avventure
degne di un film di Fantozzi dovevano avvenire sotto gli occhi di
questo meraviglioso esemplare di uomo simile al Tom Cruise dei tempi
d'oro di Top Gun? Perché ero sfigata ed evidentemente da
piccola avevo in qualche modo offeso qualche divinità ed ora
ero destinata ad anni di sventura peggio del povero Ulisse costretto a
vagabondare per i mari per dieci interminabili anni. Il ragazzo, eh si
perché oltre che incredibilmente figo era anche giovane, mi
sorrise e pigiò un tasto sulla pulsantiera dorata
dell'ascensore. Le porte si spalancarono e la mia cartellina
scivolò a terra. Meraviglioso, non solo ero sembrata pazza
ma anche scema. La raccolsi e dopo essermi assicurata che il suo
prezioso contenuto fosse al sicuro mi rialzai stringendomela al petto.
«Grazie mille»
Quegli occhi verdi mi fissavano curiosi e mi sembrava di essere tornata
ai tempi dell'esame di maturità tanto mi sentivo in
soggezione. Suvvia Ginevra svegliati! Quando mai ti sei fatta
intimorire da un ragazzo per quanto belloccio sia? Mai. Mi riscossi e
lo osservai a mia volta senza mostrare il mio imbarazzo.
Lui sorrise un'altra volta come se in me avesse visto qualcosa di buffo
e mi porse la mano.
«Di nulla. Io sono Alessandro Grimaldi, piacere»
Simulando una sicurezza che non possedevo gli strinsi cordialmente la
mano. Me la strinse energicamente e con ciò segnò
un punto a suo favore perché non sopportavo le persone che
me la stringevano debolmente o lasciavano la mano molle e passiva.
Ovviamente oltre che dolorosamente bello aveva anche una voce calda e
suadente che sembrava avvolgerti e prometterti mille sottintesi.
«Ginevra Visconti»
In quel momento l'ascensore ci annunciò con un rapido
scampanellio che eravamo giunti a destinazione e le porte si aprirono.
Mi riscossi e uscii decisa dall'abitacolo diretta al mio ufficio
cercando di scrollarmi dalla mente un paio di occhi verdi corredato da
una sensuale voce roca.
Non feci in tempo a salutare Francesco e ad appoggiare la borsa sulla
scrivania che in un turbinio arrivò Alfie che mi
afferrò per un polso e mi spinse a forza nel suo ufficio.
«Lo sai vero che se il tuo essere dell'altra sponda non fosse
così palese gli altri potrebbero pensar male? È
più il tempo che passo chiusa con te nel tuo ufficio che
quello che passo alla mia scrivania, non che mi dispiaccia»
Alfie si spaparanzò comodo sulla sua poltrona girevole da
boss e con fare cospiratore aprì il cassetto della sua
scrivania e ne estrasse un fascicolo. Non appena lo ebbi sotto il naso
scoppiai a ridere. Altro che fascicolo di documenti quella era una
copia dell'ultimo Vogue USA. Quell'uomo era assurdo, lo conoscevo da
sette anni e riusciva ancora a sorprendermi.
«So che mi stai lanciando un messaggio ma non è
detto che io voglia coglierlo»
Lui continuò imperterrito a sfogliare le pagine patinate
fino a quando una sua esclamazione di vittoria rese manifesto il fatto
che la sua ricerca si era conclusa con successo. Ruotò la
rivista e picchiettò con fare insistente su una fotografia.
Sospirando abbassai lo sguardo e rassegnata guardai la modella che
indossava un abito color verde bosco lungo fino alle caviglie.
«Venerdì indosserai questo»
Questo è un
esperimento o meglio una sfida con me stessa, devo riuscire a portare a
termine almeno una storia senza abbandonarla alla sua triste sorte dopo
soli sette capitoli, spero di farcela!
S.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Maledette Louboutin.
Strinsi i denti e continuai a camminare imperterrita.
Il mio cappottino blu elettrico era un vero gioiellino ed era stato un affare dato che lo avevo scovato all'ultima svendita della Rinascente nel reparto Armani, ma in quel momento avrei di gran lunga preferito il mio caldo e poco chic parka verde militare.
Sbuffai e una nuvoletta di vapore uscì dalla mia bocca.
Non si era mai visto un febbraio così freddo e io odiavo le temperature polari.
In verità odiavo i collant quindi di conseguenza odiavo la stagione invernale. Perché dovevo rinchiudermi in quelle specie di sacchetto sottovuoto? In più essendo maldestra finiva che prima di riuscire ad indossarne un paio ne rompevo altri tre.
Probabilmente alla mia morte la Golden Point mi avrebbe dedicato una targa commemorativa: a Ginevra Visconti, che non si arrese mai di fronte ad una calza smagliata.
Finalmente vidi la tanto agognata scritta luminosa che ad intermittenza si accendeva e si spegneva.
Il 'Milky Way' era il locale preferito delle ragazze, al piano terra un lungo bancone a forma di esse allungata offriva i migliori cocktails della città, almeno secondo Chiara, intorno ad esso c'era un ampio semicerchio formato da tavolini bianchi e al centro la pista da ballo che aveva un pavimento costellato da migliaia di stelle fluorescenti. Tutto il locale era provvisto di particolari luci che avevano il potere di far risaltare il colore bianco trasformando ogni ragazzo con camicia bianca in fantasma.
Salutai Frank, il buttafuori, e rassegnata superai la soglia dell'entrata e mi trovai immersa nella solita nuvola di musica tum-tum-tum che aveva il potere di stordirmi ancora meglio di quanto facessero quattro mojito.
Dieci minuti più tardi, dopo aver minacciato di morte la ragazza del guardaroba nel caso qualcosa o qualcuno avesse rovinato il mio prezioso cappotto, stavo sgomitando tra la folla lanciata in danze sfrenate, sempre se così si potevano chiamare, e cercavo, allungando il collo, di individuare la chioma bionda di Veronica che solitamente pareva bianca grazie ai giochi della luce.
Una mano strinse il mio polso e io mi voltai improvvisamente e sospirai di sollievo nel vedere il sorriso di Cecilia e il suo volto lentigginoso colorato dalle luci stroboscopiche.
Chiara mi obbligò a sedermi vicino a lei e iniziò a raccontarmi dell'ennesimo litigio che aveva avuto con il suo compagno di tirocinio.
Chiara, Veronica, Cecilia e Ginevra.
Formavamo un quartetto dalla terza elementare e tranne rari casi non ci eravamo mai divise.
Chiara con i suoi capelli color ebano e gli occhi cioccolato era un quasi avvocato grintoso e pieno di voglia di farsi valere.
Cecilia, centinaia di lentiggini accompagnate da capelli biondo scuro e occhioni azzurri, era una dolce maestra che adorava i bambini della scuola elementare nella quale insegnava, i quali ovviamente ricambiavano ricoprendola di disegni nei quali raffiguravano la loro piccola maestra come un gigante più alto di alberi e case. Cecilia faceva coppia fissa con Alberto da anni ed erano semplicemente perfetti insieme.
Veronica con il suo metro e ottantadue di figaggine allo stato puro si divertiva ad illudere tutti i poveri malcapitati che avevano l'infelice idea di mostrare occhi da triglia lessa di fronte ai suoi capelli da finlandese e alle sue gambe chilometriche. Veronica lavorava in una casa di moda e stava imparando a cucire e a creare lei stessa dei vestiti.
Era veramente brava, l'anno scorso per il mio compleanno mi aveva regalato un vestitino color carta da zucchero realizzato da lei e pensato proprio per me ed è inutile dire che mi stava benissimo.
Ogni settimana ci incontravamo per aggiornarci e ogni sette giorni mi ritrovavo a pensare a quanto la mia vita fosse piatta e monotona.
Che cosa potevo raccontare? Isidoro aveva avuto il raffreddore e quando ero corsa dal veterinario al posto dell'anziano e gentile Dottor Forti avevo trovato il più giovane e maleducato Dottor Severini che mi aveva sgridato perché Isidoro stava benissimo e io gli avevo solo fatto perdere del tempo prezioso. Alfie mi aveva portata a vedere una partita di rugby e io ero andata solo perché mi aveva offerto il gelato e mi aveva detto che i giocatori era sicuramente un panorama più stuzzicante di Bruno Vespa a 'Porta a porta' ed effettivamente aveva ragione e ciò è testimoniato dal fatto che entrambi abbiamo sbavato per due ore di fronte a bicipiti e pettorali scolpiti.
«Su Gin raccontaci la tua disavventura settimanale»
Sorseggiai tristemente il mio cocktail. Anche quella era una tradizione; solitamente ogni settimana mi capitava un episodio che confermava il mio essere nata di venerdì 13 e che faceva morire dalle risate le mie amiche.
Sono molto superstiziosa e sono convinta che ci siano dei riti scaramantici in grado di eliminare o perlomeno arginare la mia sfiga cronica. Ad esempio non mi vesto mai di viola perché sono convinta sia un colore attira iella e non oso neanche portare un mini ombrellino da cocktail all'interno di casa mia per timore di attirare disgrazie o di provocare l'ira di qualche entità superiore tipo Zeus che mi possa colpire con fulmini e saette.
«Questa settimana non è successo nul-»
Non riuscii a finire la frase perché qualcuno mi afferrò per i capelli e tirò facendomi gemere di dolore.
«Brutta puttana che non sei altro! Credi che non ti abbia visto l'altro giorno con Federico?? Cosa credi di fare? Lui è mio e tu sei solo una sgualdrina che si è scopato una volta o due»
Prego? Da quando io mi facevo un certo Federico senza esserne al corrente? Era avvenuto mentre mi trovavo in una stato di incoscienza? Avevo una gemella segreta che vagava a piede libero per il globo ed andava a letto con un certo Federico? Era una Candid Camera? Se sì, dove si celava la telecamera?
Federico, Federico, Federico.
Ma certo!
Mi voltai lentamente cercando di sfuggire alla presa ferrea dell'arpia che rischiava di estirparmi un terzo dei capelli.
«Cara mi dispiace così tanto deluderti, il rapporto che c'è tra me e Federico è molto più profondo di quello che tu credi» Vidi la fronte della tipa invasata aggrottarsi e il suo sguardo si fece ancora più cattivo.
No vi prego, tutto ma calva no.
«Vedi io e lui ci conosciamo da sempre e il nostro legame è solido e indissolubile, quindi nonostante tutto lui non potrà mai e poi mai disfarsi di me o sostituirmi»
Lei come risposta mi tirò i capelli guardandomi in un modo molto crudele.
Dove si trovava il negozio di parrucche più vicino? Ormai doveva avermi strappato quasi tutti i capelli grazie alla forza bruta di cui la squilibrata era dotata.
Una voce alle mie spalle mi raggiunse: «Hei Gin, cosa ci fai qui?» e dopo un attimo «Gaia lascia subito i capelli di mia sorella! Sei impazzita per caso? Cosa pensavi di fare?»
Un sorrisino di scherno si fece strada sul mio volto mentre la presunta Gaia mollava finalmente la presa sui miei capelli e allontanandosi di un passo mormorava incredula: «Sorella?»
Federico avanzò e mi passò un braccio intorno alle spalle stringendomi contro il suo corpo con fare protettivo.
«Eh già! Pensa un po': ho un rapporto incestuoso con mia sorella. Che scandalo! Gin mi sa che questa è in overdose di 'Game of Thrones' come te. Gaia vattene e non osare più avvicinarti né a me né a Ginevra»
Quella, offesa, girò i tacchi e sparì, confondendosi tra la folla di ragazzi che occupava la pista.
Veronica scoppiò a ridere: «Stavi dicendo tesoro?»
Mi massaggiai il cuoio capelluto e scoccai un'occhiata di fuoco a mio fratello che in quel momento si stava accomodando sul divanetto di pelle bianca accanto a Veronica.
«Gin perdonami, sai che non è colpa mia...»
Cecilia tossì per attirare l'attenzione: «Non per smentirti ma ricordi la pazza che le ha rapito Isidoro?»
Federico sbuffò e agitò una mano: «Un incidente»
Mi trattenni e mi aggrappai alla sedia per evitare di saltare al collo di quell'imbecille con cui avevo la sfortuna di condividere il patrimonio genetico.
Non avevo ancora metabolizzato del tutto quella faccenda e di conseguenza il riportarlo alla mente in quel momento non mi aiutò certo a perdonare Federico.
Isabella, un'altra ex fidanzata invasata da lui illusa e abbandonata, aveva deciso di sfogare tutta la sua sete di vendetta sul mio povero gatto, che di fatto nella disputa c'entrava ben poco. Quando, dopo due settimane di disperazione, scoprimmo che il povero Isidoro era suo ostaggio ormai era troppo tardi. Ancora oggi dò la colpa della sua stupidità a quell'incidente e alla terribile tinta fucsia a cui fu sottoposto dall'arpia. Ci sono traumi che lasciano segni indelebili e dopo essere stato trasformato in un gattino gusto fragola Isidoro non è più stato lo stesso, certo bisogna dire che non è mai stato un Einstein felino ma quell'incidente gli diede il colpo di grazia e lo condannò ad un'esistenza dominata dall'idiozia e dall'ottusità. Un gatto che dorme a pancia in su e che mangia solo gelato allo yogurt e carote non può essere definito normale giusto?
Sfuggii all'abbraccio stritolante da fratello maggiore con modalità cane da guardia ON e sorseggiai il cocktail di Cecilia.
Sbuffai nel rendermi conto che come sempre la nostra amica maestra aveva optato per un rassicurante mix di succo e frutta.
Avevo bisogno di un po' di alcool e ne avevo bisogno immediatamente.
«Torno subito»
Mi alzai velocemente prima che qualcuno si proponesse di accompagnarmi e mi feci strada attraverso la sala che con l'avvicinarsi della mezzanotte stava diventando una sorta di bolgia infernale. La coda infinita che si snodava di fronte al guardaroba mi fece desistere dal proposito di recuperare il mio cappotto e così sfidando il gelo uscii dalla porticina laterale che conduceva ai parcheggi sul retro.
Sfilai una sigaretta dalla clutch blu elettrico e l'accessi nervosamente con le mani che mi tremavano a causa della temperatura polare di fine gennaio. Non ero una grande fumatrice ma a volte sentivo il bisogno vitale di farlo e questa voglia improvvisa poteva venirmi una volta al mese come sette volte in un giorno ma solitamente significava che presto sarebbe successo qualcosa di nuovo e diverso che avrebbe spezzato l'equilibrio a cui io tanto tenevo.
Gli anziani hanno mal di ossa prima che il tempo cambi in modo repentino e io avevo l'abitudine di fumare prima di imminenti cambiamenti.
Con la mano libera mi strofinai velocemente le braccia nude cercando di scaldarmi ma tutti i miei tentativi risultarono vani al cospetto del clima groenlandese.
«Gin?»
Mi voltai di scatto e rimasi senza parole di fronte a un paio di titubanti occhi color caramello.
Ci fissammo per un lungo istante come per studiarci a vicenda e vedere quanto fossimo cambiati in sette mesi. Riconobbi la sua espressione, la usava sempre quando era imbarazzato e a disagio, si mordicchiava l'interno della guancia destra e aggrottava leggermente la fronte. Aveva i capelli leggermente più lunghi e il viso ombreggiato da una barba appena accennata che non ricordavo, indossava il cappotto grigio che gli avevo regalato io due anni prima e mi fece sorridere il ripensare alle sue proteste quando aveva scartato il mio dono perché lui si definiva, secondo le sue testuali parole, un tipo da giubbotti e non da cappotti per checche.
«Ciao Nicola» il mio sussurro fu accompagnato da una lieve nuvoletta formatasi nell'aria di ghiaccio.
Abbozzai un timido sorriso perché, nonostante la fine turbolenta del nostro rapporto, il rivederlo non mi faceva male, anzi mi lasciava indifferente, al massimo mi sentivo curiosa.
«Come stai?»
Come stavo? Bene.
Allora cosa ci faceva da sola, senza cappotto, con una sigaretta stretta spasmodicamente tra le dita tremanti nell'oscurità di una notte invernale?
L'uomo è nato testardo e dotato della stupida tendenza a mostrarsi sempre forte ed invincibile per paura di leggere delusione o pena negli occhi degli altri se solo confessasse le proprie debolezze.
«Benissimo, tu?»
Nicola fu bravo a mascherare i suoi pensieri e spostò il suo sguardo sulla sigaretta ormai consumata stretta tra le mia dita.
«Abbastanza bene. Fumi ancora quando sei nervosa?»
Prego? Io non ho mai fumato perché ero nervosa, al massimo sono irrequieta o inquieta e allora sento uno strano nodo allo stomaco e ho bisogno della sensazione del fumo che mi gratta la gola.
«A volte, ma non per il nervoso»
Lui sorrise come fanno a volte gli adulti di fronte alle bugie impacciate dei bambini.
«Eviti il mio sguardo e continui a muoverti in un modo tutt'altro che tranquillo e rilassato»
Non ero indifferente, non ero curiosa, ero solo piena di odio, un odio cieco e profondo indirizzato solamente a me stessa perché ero io la colpevole, ero io che avevo abbassato le mie barriere restando indifesa e permettendo a Nicola di conoscermi così a fondo da saper derivare il mio stato d'animo da un mio minimo movimento.
«Cosa vuoi ancora da me?»
Il mio tono di voce era sembrato esasperato ma non potei farci niente, ogni secondo che passava rendeva più doloroso lo stare lì di fronte a colui con cui avevo condiviso tutto per tre anni.
«Niente» e a quelle mi parole mi odiai ancora di più perché provai una leggera delusione «volevo solo sapere se stavi bene e se eri andata avanti con la tua vita come ho fatto io. So che non ci siamo lasciati nel migliore dei modi ma spesso mi vieni in mente e non provo altro che rimpianto. Desidero solo che tu sia felice»
«Sono felice, ora puoi andartene»
Sostenne il mio sguardo per qualche secondo, poi, senza aggiungere nulla, mi diede le spalle e se ne andò.
Ero stata acida e scorbutica ma quello era sempre stato il mio scudo protettivo, la barriera di ghiaccio che mi tutelava da tutto il male che le altre persone avrebbero potuto farmi.
Gettai il mozzicone della sigaretta per terra e rientrai nel locale imponendomi di scrollarmi dalla mente la recente conversazione con Nicola.
Dopo aver recuperato un mojito mi diressi verso il nostro tavolino che durante la mia assenza si era affollato. Cecilia era seduta sulle ginocchia di Alberto, che le cingeva delicatamente la vita in un mix di possessività e tenerezza. Chiara stava chiacchierando amabilmente con uno sconosciuto che sembrava più interessato alla sua scollatura che alle sue parole mentre Veronica, stretta tra Federico e il suo migliore amico Luca, sbuffava, annoiata dalle solite tipiche conversazioni maschili incentrate solo sul calcio e sulle donne.
Il resto della serata si rivelò privo di nuove sorprese e passai due ore a ballare con Veronica e ad allontanare le mani polipose di un tipo con i capelli rossi che sembrava Ron Weasley e dimostrava quindici anni.
Quando tornai a casa mi lanciai sul letto vestita e fissando il soffitto pensai a quanto dovesse essere bello trovare qualcuno ad aspettarti ogni volta che tornavi a casa. A sedici anni quando, dopo essere uscita, tornavo a casa trovavo il papà addormentato sul divano in attesa del mio ritorno, a diciotto anni trovavo il cancello di casa socchiuso e la luce piccola dell'atrio accesa mentre i miei dormivano già nel loro letto, ora di anni ne avevo ventitré e quando tornavo trovavo il cancello chiuso, le luci spente e Isidoro immerso nel mondo dei sogni. Mi misi il pigiama, impostai la sveglia e senza neanche accorgermene scivolai quasi subito nel sonno.
Tic, tic, tic, tic, tic.
Stavo digitando sulla tastiera del computer alla velocità della luce per cercare di concludere in fretta e andarmene a casa.
Lavoravo per una nota rivista di cinema e la cosa strana era che i film che sbancavano il botteghino erano quelli che nessuno di noi voleva vedere e recensire. Quando usciva un film d'autore i miei colleghi si avvalevano di ogni tipo di inganno o sotterfugio pur di assicurarselo e dopo esserci riusciti andavano in giro sbandierando che mentre loro si occupavano di film di Lars Von Trier a te, povero sfigato, era stato assegnato l'ultimo film demenziale con Adam Sandler. Questa volta il kolossal hollywoodiano era toccato a me, due ore di pisolino mentre sullo schermo infuriava una battaglia tra robot. Adoravo il mio lavoro e il genere che preferivo erano in assoluto i cartoni animati, questa mia predilezione era condivisa anche da Francesco, mio grande amico fuori dall'ufficio ma mio nemico numero 1 in ambito lavorativo. Quando era uscito Rapunzel tra noi era scoppiata una specie di guerra fredda che si era conclusa solo dopo due settimane di stretto corteggiamento rivolto ad Alfredo e aveva sancito la mia vittoria e la sua sconfitta schiacciante.
«Gingin, aperitivo?»
Tic, tic, tic, senza staccare gli occhi dallo schermo del computer mugugnai un lamento incomprensibile.
«Ok, aspetta che cerco su Google Translate il significato di questo tuo borbottio stile uomo primitivo ancora ignaro dell'esistenza di un linguaggio comunicativo composto di parole e non di grugniti»
Ormai la concentrazione mi aveva abbandonata e così smisi di scrivere e guardai scocciata Francesco.
«Allontanati oppure potrei far apparire magicamente la mia clava e sperimentare la sua potenza sulla tua testolina»
Francesco si sedette elegantemente sul bordo della mia scrivania e passò un dito sulla mia fronte aggrottata.
«Su, su zitellina acida e rugosa, alza il tuo nobile didietro e seguimi»
Allontanai la sua mano e mi alzai dalla poltroncina da ufficio color bouganville, gentile concessione di Alfie. Alfredo era un ottimo superiore ma aveva delle piccole manie, ad esempio assegnare ad ogni dipendente un colore che lo rappresentava e fornirlo di conseguenza di arredamenti, cancelleria e computer in tinta. A me il rosa piaceva ma girare con un portatile fucsia non riempiva il mio animo di gioia incontenibile.
«In una sola frase hai inserito due ordini e un'offesa, quindi ora, piena di disdegno, raccoglierò i miei effetti personali e senza degnarti di uno sguardo me ne andrò»
Ovviamente come sempre non riuscii a mettere in pratica il mio proposito perché scoppiai a ridere di fronte alla faccia da cane bastonato di Francesco.
Gli spettinai i capelli con fare affettuoso e gli diedi un buffetto: «Andiamo prima che cambi idea»
Lui, felice che avessi acconsentito, stoicamente sopportò che lo spettinassi e non mi insultò come faceva con chiunque osasse anche solo sfiorare la sua preziosa chioma impomatata .
Venti minuti più tardi stavamo sorseggiando due martini appollaiati su sgabelli cromati che per altezza sfidavano la Tour Eiffel.
«Allora dimmi un po', chi è Febbraio?»
Francesco era un gran bel ragazzo, alto, fisico asciutto, fascino nordico ereditato dalla mamma finlandese ed un'ottima posizione sociale. Come ben si sa però non è tutto oro ciò che luccica e così Francesco nonostante il fisico prestante, la mente sveglia e il conto in banca aveva un piccolo difetto: era un grandissimo stronzo. Le donne, si sa, impazziscono per gli uomini che le trattano come zerbini e così il mio caro amico era letteralmente preso d'assalto da ammiratrici e spasimanti. Francesco, che è tutto tranne che stupido, aveva deciso di cogliere la palla al balzo e così ogni mese sceglieva una nuova ragazza da scaricare scaduti i trenta giorni. Ogni mese mi informavo sulla ragazza corrente perché avevo la vana speranza che incontrasse qualcuna in grado di andare oltre il suo muro fatto di boria e superbia e che riuscisse a durare più di un mese.
Francesco sbuffò e bevve un sorso del suo aperitivo.
«Tania, una russa alta due metri, oca come poche»
Ecco, ogni volta però le mie aspettative venivano puntualmente deluse.
«Cambiando discorso, questo weekend sei libera?»
Febbraio, giorni di carnevale, messaggio dimenticato di mamma...compleanno di papà!
«Oh no! Mi ero completamente scordata che mio papà compisse gli anni. In questo periodo sono nella tenuta in Toscana quindi dovrò star via due giorni interi. Mi dispiace Fra, ti prometto che sabato prossimo sono tutta tua»
Francesco mi rassicurò dicendo che non c'era problema e che avrebbe rimandato il mio rapimento al fine settimana successivo.
Ci salutammo affettuosamente e una volta arrivata a casa chiamai Federico.
«Eila' sorellina, tutto bene?»
Mi accoccolai in poltrona e abbandonai il capo contro il bracciolo rivestito di morbida pelle bordeaux.
«Fede cosa regaliamo a papà? Quest'anno ne compie cinquanta e il fatto che abbiano deciso di festeggiare in Toscana mi fa presagire con terrore un grande ritrovo di amici e parenti»
Dall'altro lato della cornetta si sentì un gemito strozzato.
«Oh no, zia Adelaide no!»
«Vogliamo parlare del prozio Ferdinando? L'ultima volta che ci siamo visti non abbiamo fatto altro che litigare perché lui sostiene che la donna dovrebbe stare a casa ad occuparsi dei figli e non lavorare ed essere indipendente»
Ed al tempo della discussione ero fidanzata, se ora avesse scoperto che ero vivevo da sola e lavoravo gli sarebbe venuto un infarto o mi avrebbe bruciato sul rogo come eretica.
«Ho una soluzione; arriviamo sabato nel pomeriggio e partiamo domenica dopo pranzo così limitiamo la tortura. E come regalo un bel viaggetto farà bene ad entrambi»
Giusto, almeno avrebbero lasciato stare la loro idea di vivere in modo sano e amico dell'ambiente per un po'.
«Perfetto, domani vado in agenzia viaggi. Ci vediamo sabato ok? A che ora passi a prendermi?»
Dopo esserci accordati su orario e luogo ci salutammo e io accessi il mio portatile in stile Barbie e controllai le mail.
Da: alfredo.arnaboldi@gmail.com
A: ginevra.visconti@gmail.com
Oggetto: cambio di progetto!
GIN!
Ho scoperto il paradiso terrestre!
Non ti anticipo nulla perché non voglio rovinarti la sorpresa ma ti dico solo due parole: meraviglie scontate.
Quando ho scovato questo posto sono quasi svenuto dall'emozione (so che starai pensando che sono il solito esagerato ma...tu non lo hai visto quindi non puoi capire, non ancora).
Domani mattina sono via quindi ti aspetto direttamente qui (via Trento 13, non farti ingannare dall'aspetto esteriore, ricorda: mai giudicare un libro dalla copertina) alle 17.00.
Baci tesoro,
Alf
Alfie mi inviava almeno due email del genere al giorno e amava infarcirle di punti esclamativi e parentesi nelle quali si divertiva a prevedere le mie reazioni.
Sorridendo spensi il computer e dopo aver acciuffato Isidoro mi diressi verso il mio lettone.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Ci sono persone che parlano di shopping terapeutico e che trovano conforto nell'entrare senza sosta in ogni negozio che incontrano e provarsi ogni capo d'abbigliamento che attira la loro attenzione.
Io quando sono giù di morale preferisco isolarmi e concedermi una lunga passeggiata con la sola compagnia del mio Ipod.
Rinchiudermi in un soffocante camerino a fare la contorsionista per cercare, senza successo, di infilarmi vestiti elaboratori pieni di laccetti e fiocchetti, che non so mai dove sbattere continuamente contro le pareti di quegli sgabuzzini da un metro quadrato mi faceva venire l'ansia.
«Scoiattolina, guarda questo!»
Chiamando a raccolta le mie ultime energie mi alzai dalla comoda poltroncina color salvia sulla quale mi ero accasciata per far riposare i miei poveri piedi, che rinchiusi in un paio di stivali tacco 12 sembravano supplicarmi di avere pietà di loro.
Scostai la tendina del camerino e dopo una breve occhiata non potei fare a meno di scoppiare a ridere.
Alfie, uno scheletrino alto quasi due metri, era rinchiuso in un completo viola melanzana talmente stretto da costringerlo a stare nella classica posizione pancia in dentro - petto in fuori.
«Sono ridicolo?» mi chiese quasi mortificato.
Alfie era un vero tesoro ed era anche un sorta di guru della moda solo che aveva un problemino con l'abbinamento dei colori.
Sembrava avere un'allergia a quelli che lui definiva i colori 'over 60', cioè grigio, beige e blu; lui preferiva senza ombra di dubbio un bel pervinca o un vitaminico arancione.
Mi aveva assunto mentre frequentavo ancora l'università ma la nostra amicizia risaliva a sei anni prima quando io, giovane e inesperta matricola, mi rivolsi ad un Alfredo in maglione rosa fragola per sapere dove potevo trovare la biblioteca.
Da allora, nonostante i suoi capricci e il suo puntare i piedi peggio di un bambino di quattro anni, lo avevo trascinato a comprarsi una serie di giacche, camicie, cardigan, pantaloni e scarpe sobrie, adatte agli incontri di lavoro. E così la mattina mi ritrovavo a parlare con un Alfredo in veste professionale, chiuso in un austero completo gessato, ma non appena la redazione chiudeva la sua fantasia irrefrenabile partoriva gli abbinamenti più audaci ed improbabili. Vi assicuro che non dimenticherò mai il suo outfit composto da camicia gialla, calzoni arancio e trench rosso, sembrava un omino alieno arrivato direttamente dal Sole oppure un pazzo sfuggito da una casa di cura, scegliete voi l'opzione che ci aggrada di più.
«Ehm, Alfie, non pensi che sia un po' mmh troppo?»
Lui, perplesso, fissò la sua immagine allo specchio.
«Lo prendo!» esclamò all'improvviso e fece un piroetta su se stesso tutto soddisfatto.
Mi passai disperata una mano tra i capelli; venire a fare shopping con lui era sempre uguale, tu lo consigliavi e lui faceva di testa sua snobbando altamente gli appunti che gli facevi.
Dieci minuti più tardi uscimmo dal negozio e non potei fare a meno di sorridere di fronte alla gioia quasi infantile esibita da Alfie che quasi saltellava facendo roteare la sua preziosa borsina, che conteneva l'ancora più prezioso completo.
«Ora, fragolina, tocca a te. Follow me, baby! E shhh, so che stai per protestare...»
Rimasi con la bocca aperta, zittita ancora prima di avere la possibilità di oppormi.
«Oddio. Alfredo Arnaboldi vieni qui! Subito!»
Trotterellando arrivò, accompagnato da una commessa smorfiosa che sembrava godere nel farmi provare tutti i vestiti più brutti presenti nel negozio.
«Sembro una teiera!»
Il vestito, di organza, era un tripudio di voilant e sbuffi, in più l'effetto confetto era amplificato dall'orrenda fantasia a roselline rosa e uccellini azzurri.
Uccellini azzurri, vi rendete conto?!
Alfie mi osservò attentamente e dopo aver scosso la testa più volte, senza dir nulla afferrò il braccio della commessa e si allontanò con lei.
Insospettita, infilai la testa fuori dal camerino e sbirciai: Alfredo stava rimproverando la commessa.
Rincuorata rientrai nel mio soffocante bugigattolo e iniziai a sfilarmi quell'obbrobrio, indegno persino di essere chiamato abito.
Alfie, nonostante il suo problema con i colori sgargianti, sapeva come valorizzare i punti forti del mio corpo e come celare i difettucci.
Il mio abito preferito in assoluto me lo aveva regalato lui anni prima quando andavamo ancora entrambi all'università.
Avevo vent'anni e lui mi invitò ad accompagnarlo a questa festa a casa di un suo compagno di corso riccone. Ho avuto una fase, tra i sedici e i diciannove anni, durante la quale adoravo vestirmi seguendo uno stile che definivo vintage-hippie. Gonne e vestiti lunghi, ampie camicie candide o ricamate, comodi pantaloni a fantasia, collane e grandi orecchini un po' etnici. In più in quel periodo adoravo i maglioni ampi decorati con renne e vari ghirigori improponibili. Probabilmente Alfie ebbe paura che mi presentassi con il mio adorato maglione a trecce verde bosco e così decise di giocare d'anticipo e mi regalò un impalpabile abito dello stesso colore del mio maglione preferito.
Ricordo che quella sera mi sentii una vera principessa e Alfie era stato il perfetto principe azzurro.
Quella festa resterà indimenticabile perché fu l'occasione nella quale ci scambiammo il nostro primo bacio e nella quale Alfie scoprì, o meglio ebbe la conferma definitiva, di essere gay. Ogni volta che ricordiamo quel momento non possiamo fare altro che scoppiare a ridere; il povero Alfie si impegnò molto ma il risultato non cambiò: né io né lui sentimmo nulla, niente campane, niente farfalle, niente fuochi d'artificio. Da lì però diventammo migliori amici e quando fondò la sua rivista cinematografica mi volle al suo fianco.
«Caramellina mia, provati questo, vedrai che il tuo Alfie ci ha azzeccato, non come qualcuno...»
La commessa, ignorò la frecciatina, ma si allontanò sculettando.
Incontrai lo sguardo divertito del mio amico ed entrambi scoppiammo a ridere.
«Sei tremendo. Oh, Alfie, questo colore...»
Accarezzai quasi timorosa la seta cangiante del mio amato color verde bosco.
«Sei meravigliosa con quel colore, sembri una ninfa»
Gli schiocchiai un bacio sulla guancia e poi tirai la tendina tagliandolo fuori dal camerino.
Feci una giravolta e mi ammirai.
Aveva ragione. Sembravo una creatura delle foreste, eterea, con la mia pelle chiara costellata di qualche lentiggine e i miei occhi verde scuro.
Ruotai sulla mia sedia fucsia e mi chinai ad afferrare la mia borsa.
Alle mie spalle sentii un tossicchiare educato e così lasciai perdere la mia infruttuosa ricerca del cellulare nella mia borsa senza fondo e ruotai nuovamente in modo da fronteggiare il misterioso visitatore, che così misterioso non era dato che avevo già capito chi era guardando le sue scarpe.
«Si?»
Francesco si appollaiò, come sempre, sulla mia scrivania e si sporse a sistemarmi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Passo da te per le 20.00, va bene?»
La mia mente iniziò a calcolare febbrilmente:
Ore 17.30 uscita dal lavoro
Ore 18.00 doccia+capelli
Ore 18.45 unghie
Ore 19.15 trucco
Ore 19.45 parrucco (o meglio parrucca, unica soluzione ai miei capelli flosci e tristi)
Ore 20.15 scelta di borsa e scarpe
Ok, non ce la potevo fare.
Opzione 1: compattare i tempi.
Opzione 2: arrivare in ritardo.
Inutile dire che propendevo per la seconda.
Non feci comunque in tempo a chiedergli di abbonarmi una mezz'oretta perché una voce si intromise: «Eh no! Gin viene con me! Alle otto sono da te, ciliegina»
Francesco si voltò accigliato verso il suo capo: «A dire la verità mi ero proposto per primo...»
Alfie scrollò le spalle e con un sorrisone angelico disse: «A dire il vero sono io qui quello che ti paga lo stipendio...»
Francesco aggrottò la fronte e con fare spazientito esclamò: «Suvvia Alfie non tirare sempre in ballo il fatto che il capo sei tu, è snervante!»
Alfie era diventato amico di Francesco sperando di convertirlo all'omosessualità ma dopo aver scoperto che era una missione talmente impossibile che neanche il mio bel Tom Cruise avrebbe potuto fare qualcosa aveva continuato ad uscirci saltuariamente.
Ignorai i due litiganti che sembravano voler riaffermare il loro essere dei veri maschi alfa e sbottai: «Verrò da sola più tardi»
Afferrai cappotto e borsa, spensi il mio computer color chewing gum e, senza degnarli di uno sguardo, li superai diretta all'ascensore.
«Signorina, aspetti!»
Velocemente infilai un braccio tra le porte metalliche dell'ascensore per bloccarle e permettere all'uomo trafelato che aveva richiamato la mia attenzione di salire.
Uomo trafelato che si rivelò essere il bel figo che avevo già avuto il piacere di conoscere sempre in ascensore.
«Grazie, grazie mille. Ginevra,giusto?»
Si-ricordava-il-mio-nome!
Nono, si ricordava il mio nome?
Si ricordava il mio nome!
Lalala, com'è bella la vita.
Ginevra! Riprenditi. Immediatamente. Contieniti.
Con fare noncurante risposi: «Giusto. Tu invece sei?»
Lo so, lo so, sono una stronza ma non potevo mica fargli capire che di lui mi ricordavo benissimo perché solitamente io in ascensore trovavo tipi grassi e sudati che cercavamo maldestramente di fare conversazione.
Lui fece un sorrisino, come se lo avesse divertito un pensiero passatogli per la mente: «Alessandro Grimaldi. Memoria corta, eh?»
Prego?!
Come si permetteva?
«Oh no, è solo che ogni giorno vedo decine di volti nuovi e, a meno che non mi colpiscano in modo particolare, tendo a dimenticarli»
Touche!
Così impari, brutto sbruffone, a dare per scontato che tutti debbano ricordarsi il tuo bel faccino e a insinuare che abbia poca memoria.
Lui non si scompose e, non appena le porte si aprirono, io sgusciai rapidamente fuori mormorando un arrivederci.
Lanciai un'occhiata all'orologio poggiato sul mio tavolino da toeletta.
20.45
Ero in ritardo.
Molto in ritardo.
Terribilmente in ritardo.
Mi fissai per l'ultima volta allo specchio.
Stranamente, per una volta, mi piacevo e se avessi avuto tredici anni mi sarei fatta un selfie allo specchio corredato da boccuccia a papera e posa simil sexy.
Mi infilai il cappottino, cacciai il cellulare nella clutch ignorando i dodici messaggi e le sette chiamate perse e, dopo aver afferrato le chiavi di casa, uscii rapidamente dal mio appartamento.
Solitamente quando uscivo la sera non prendevo mai la mia auto perché così ero libera di bere qualcosina senza avere il terrore di non essere poi abbastanza lucida per guidare.
Una volta in strada fermai un taxi e mi infilai velocemente nell'abitacolo dando l'indirizzo all'autista.
Il cellulare continuava a vibrare.
Alfie.
Fra.
Val.
Stavo per arrivare: cosa volevano tutti?
Un po' di pazienza, cari.
Pagai e scesi velocemente rischiando di sfracellarmi sul marciapiede.
Una mano mi afferrò prontamente per il braccio mentre una voce familiare urlava istericamente: «Ti ammazzo, ti uccido, ti faccio fuori. Gin, giuro che se non fosse che mi macchierei il vestito lo farei sul serio! Si può sapere dov'eri??»
Sbuffai e mi staccai da Francesco cercando di ritrovare l'equilibrio sui tacchi.
Valeria, la mia collega che si occupa di commedie romantiche, arrivò tutta trafelata.
«Grazie al cielo sei arrivata Gin!»
Sempre più perplessa mi lasciai guidare verso l'ingresso del sontuoso albergo che ospitava il party organizzato da Alfie per dare il benvenuto al nuovo collega che nessuno aveva mai visto e che sarebbe diventato ufficialmente parte del team a partire dal lunedì successivo.
Val mi sfilò il cappotto, Francesco sogghignò mentre Alfie mi spingeva verso l'interno.
Sempre più dubbiosa cercai di farmi spiegare cosa stesse succedendo non ricevendo però risposta. Tentai di puntare i piedi per oppormi ad Alfie che mi stava trascinando come se fossi una bambola attraverso un labirinto di salottini e corridoi. Il mio amico non si perse d'animo e continuò imperterrito il suo tragitto, cercando di ammansirmi con un «Aspetta e vedrai».
Continuammo a camminare fino a quando giungemmo in una sala più ampia e arredata in modo più spartano. Feci vagare lo sguardo per la stanza e incontrai lo sguardo divertito di Fabrizio, addetto stampa, e quello di Giovanni, che si occupava di film d'azione, che mi fece l'occhiolino.
Confusa, tirai una manica della giacca di Alfie per attirare la sua attenzione.
«Dimmi cosa sta succedendo. Ora»
Lui, per tutta risposta, mi prese la mano e dopo avermi rivolto uno sguardo che mi supplicava di non fare storie e di fidarmi, scostò una tenda amaranto e fece un passo in avanti trascinandomi dietro di sé.
Abituata alla penombra dovetti socchiudere gli occhi di fronte alle luci accecanti che mi accolsero.
Quando mi abituai ed ebbi modo di guardarmi intorno mi resi conto del panorama agghiacciante che si parava di fronte a me. Tutti i miei colleghi erano schierati ai piedi del palco sul quale mi trovavo, seduti comodamente su soffici poltroncine, fasciati nei loro abiti eleganti e con un sorriso carico di aspettativa stampato in volto.
Alfie, nel frattempo aveva lasciato la mia mano e avvicinatosi ad un leggio rialzato dotato di microfono pronunciò la mia condanna a morte.
«Cari colleghi e care colleghe, buonasera. Vi ringrazio per essere venuti così numerosi stasera. Come sapete non sono bravo a fare discorsi e così ho delegato questo compito ad una mia fidata collaboratrice nonché cara amica, che si è dichiarata entusiasta e lusingata. Ginevra, il microfono è tutto tuo!»
E con un sorrisone mi sfilò accanto, scese le scalette che conducevano in platea e si accomodò contento nel suo bel posto riservato in prima fila.
Imbarazzata e furiosa al tempo stesso mi avvicinai al leggio, mi schiarii la voce e alzai lo sguardo.
Una cinquantina di persone mi fissava in attesa e io deglutii nervosamente.
«Il nostro adorato capo ama le sorprese ed è anche un gran burlone, stasera la vittima sono io ma se fossi in voi mi guarderei le spalle, d'altra parte come fidarsi di un uomo vestito di color melanzana?»
Tutti scoppiarono a ridere tranne Alfie che si fingeva offeso e evitava il mio sguardo.
«Dato che sono stata presa alla sprovvista non ho avuto tempo per preparare un discorso serio e organizzato quindi mi darò all'improvvisazione e mi appello alla vostra clemenza sperando non siate troppo severi nel giudicarmi»
Feci una pausa e mi sistemai una ciocca di capelli ribelli sfuggita alla crocchia.
Bene, avevo già messo le mani in avanti per salvaguardarmi in caso di spiacevoli cadute.
«Stasera siamo qui riuniti per dare il benvenuto a questo nuovo collega di cui, onestamente, ignoro non solo l'aspetto ma anche il nome, dal momento che il nostro superiore ha deciso di ammantare quest'uomo di un'aura di mistero. Di cosa potrei parlare dunque? Quando ero piccola sognavo di fare la bibliotecaria, ho sempre amato i libri e l'idea di passare tutta la vita tra di essi mi sembrava paradisiaca. Al liceo ci fecero vedere 'Philadelphia' e quel film mi colpì con la forza di un pugno, di uno schiaffo. Kafka diceva che i libri non devono renderci felici, no, i libri devono svegliarci con un pugno violento sul cranio e devono essere l'ascia che spezza il lago ghiacciato che alberga dentro di noi. Io che amavo tanto la letteratura, trovai tutto ciò in un film e non in un libro definito classico. Tom Hanks con la sua interpretazione mi aveva scosso più di quanto Tolstoj o Shakespeare o Leopardi avessero mai fatto»
Ormai era come se le parole uscissero spontanee, quasi non mi rendevo conto di star raccontando dei miei ricordi intimi di fronte ad un'intera platea che sembrava interessata alle mie parole.
«Colpita decisi di informarmi e documentarmi e così facendo mi imbattei in una recensione che affondava quello che ai miei occhi di adolescente sembrava un capolavoro. Rimasi scossa e decisi di mettere per iscritto le sensazioni regalatemi da quella pellicola, una volta fatto inviai la mia modesta opinione al giornalista, autore del famoso articolo. Due giorni più tardi pubblicarono la mia recensione sul Corriere della Sera. Mi appassionai al mondo del cinema; ogni settimana sceglievo con cura un film da andare a vedere e poi, una volta a casa, scrivevo le mie impressioni su un blocchetto. Scegliere scienze della comunicazione fu naturale, non dovetti pensarci. Alda Merini in una sua poesia scrisse che i poeti, pur lavorando di notte, in disparte, al riparo dalle luci abbaglianti della vita alla luce del sole, con le loro parole fanno più rumore di una muta cupola di stelle. Noi giornalisti non possiamo neanche lontanamente paragonarci a dei poeti, noi siamo nettamente inferiori, a mio avviso, noi dovremmo essere al servizio della verità nuda e cruda, dell'informazione chiara e accessibile a tutti, della divulgazione. Però anche noi, nel nostro piccolo, possiamo con i nostri brevi articoli far sentire la nostra voce e cambiare in qualche modo le cose. Ho provato una volta a vedere un film dopo aver letto una recensione negativa e un'altra volta dopo averne letto una entusiasta. Vi assicuro che ne sono stata profondamente influenzata, e allora ho pensato: se io, giornalista, quindi a conoscenza dei trucchetti subdoli spesso presenti nel nostro mondo lavorativo, non sono riuscita a restare impermeabile alle opinioni espresse da altri giornalisti, provate a pensare all'effetto che ciò che scriviamo ha sulla gente comune, estranea al nostro settore. Le parole hanno un potere, potere che può essere utile o terribile. Le parole consolano, curano, illustrano, raccontano ma possono anche ferire, profondamente, in un modo proprio solo della violenza verbale. Noi lavoriamo con le parole, abbiamo quindi tra le nostre mani un potere. Ogni potere porta con sé una responsabilità; auguro quindi al nostro nuovo collega di essere altezza del compito che si appresta a compiere, di restare fedele ai propri principi, di ricordare sempre che noi siamo solo giornalisti: non inventiamo, noi riportiamo solo. Vi prego di scusarmi se pensate che abbia detto sciocchezze infarcite di retorica da due soldi, grazie a tutti per l'attenzione»
Tutta la platea si alzò e iniziò ad applaudire. Io esterrefatta non trovai di meglio da fare che arrossire come una dodicenne.
Parlare in pubblico non era mai stato un problema per me, ricordo come se fosse ieri il discorso che tenni alla consegna del diploma. Avevo passato notti insonni intenta a scrivere, correggere e cancellare la bozza di un probabile discorso. Era finita che prima di salire sul palco avevo stracciato il figlio sul quale avevo riportato in bella calligrafia il discorso e avevo improvvisato.
Un Alfie raggiante arrivò saltellando sul palco e mi stritolò in un abbraccio.
«Sei stata meravigliosa!» mi sussurrò in un orecchio e subito dopo, in preda ad una felicità incontenibile, mi diede un bacio sulla guancia e uno sulla fronte.
Io, imbarazzata, non perché non fossi abituata ai gesti affettuosi del mio migliore amico ma perché quest'ultimi stavano avvenendo di fronte a cinquanta paia di occhi curiosi, mi scostai e gli rivolsi uno sguardo di ghiaccio.
«Dopo facciamo i conti» sibilai a denti stretti.
Alfie mi rivolse un sorriso furbetto e poi, dopo essersi voltato verso il pubblico, esordì con un: «Carissimi, l'attesa è finita»
Fece un cenno con il capo e un uomo si alzò dalle ultime file e si fece strada fino al palco, tra gli sguardi curiosi dei miei colleghi, che ignorando ogni forma di buona educazione lo stavano fissando sfacciatamente.
Non poteva essere vero.
Era impossibile.
Chiusi gli occhi per un istante e li riaprii sperando di trovarmi davanti un'altra persona.
«Ecco a voi Alessandro Grimaldi! Vieni avanti caro» esclamò tutto pimpante Alfredo.
Alzai lo sguardo e mi accorsi che il nuovo attivato mi stava fissando divertito.
Rossa in volto, mi affrettai a lasciare il palco cercando di non dare nell'occhio.
Non appena fui al sicuro nella sala in penombra attigua alla tenda che conduceva sul palco mi sedetti su una poltroncina.
La voce di Alfie mi raggiunse ovattata: «E ora basta chiacchiere, godiamoci questa festa!»
Mi alzai rapidamente non appena sentii dei passi avvicinarsi e mi diressi spedita alla volta del bagno.
«Giuro che se mi fai ancora una cosa del genere io mi travesto da ninja, faccio irruzione in casa tua e do fuoco al tuo guardaroba da pappagallo finocchio!»
Alfie, nonostante lo avessi agguantato per il bavero della camicia e gli stessi rivolgendo il migliore sguardo inceneritore del mio repertorio, non si scompose, anzi, ebbe la faccia tosta di rispondermi con un sorrisino.
«Oh Gin, mi faresti solo un favore, perché così facendo mi offriresti il pretesto perfetto per rifarmi completamente l'armadio»
Uffa! Era impossibile scalfire il perenne buonumore e la fastidiosa positività di Alfie.
Frustrata mi consolai con una tartina che sapeva di polistirolo.
«Se non amassi questo lavoro mi sarei già licenziata anni fa; sei un tiranno senza pietà per i tuoi sottoposti» mi lamentai imbronciata.
Lui gettò il capo indietro e scoppiò a ridere: «Licenziati, vediamo dove lo trovi un altro tiranno che ti prepara la parmigiana di melanzane, arriva a casa tua carico di gelato e assorbenti ogni volta che stai attraversando quel tanto odiato periodo del mese e che viene con te ai concerti dei Placebo e dei Depeche Mode»
Cazzo, mi costava ammetterlo ma aveva ragione. Alfie prima di essere il mio datore di lavoro era un mio caro amico; mi aveva visto malata con le guance arrossate e il naso gocciolante, aveva assistito al triste spettacolo di una Ginevra ubriaca coi capelli sconvolti che vomitava nelle toilette di un McDonald dimenticato da Dio ed era stato spettatore del mio declino, culminato con la mia clausura in casa, vestita con un orribile pigiama di flanella color vomito, di sei giorni, dopo la recente rottura con Nicola. Era stato Alfie a venirmi a prendere quando mi ero messa in testa di raggiungere il mio ex in Sicilia da sola in auto e mi ero trovata sperduta tra le colline umbre. Era stato Alfie ad accompagnarmi a fare quella stupidaggine di tatuaggio: io avevo una melanzana e lui un'anguria.
Senza sapere perché gli gettai le braccia al collo e lo strinsi con forza a me.
«Sei uno zuccone crudele ma ti voglio tanto tanto bene»
Lui mi accarezzò la schiena e mi sussurrò: «Gin, stavo per confessarti tutto l'amore che provo per te ma è giunto qualcuno che reclama la tua presenza»
Mi voltai e incontrai due occhi di un intenso verde bosco, sì, aveva gli occhi del mio colore preferito.
Mi staccai da Alfie e lo fronteggiai, ero stata stupida, davvero pensavo che sarebbe stato possibile evitarlo per tutta la sera?
«Mi dispiace interrompere questa tenera scenetta ma volevo chiedere alla signorina se potevo avere l'onore di averla come compagna in questo ballo»
Non riuscii neanche ad aprire la bocca per rispondere con un secco diniego perché il mio capo fedifrago mi diede una spinta in avanti e disse: «Caro Alessandro, certo che la nostra Gin accetta il tuo invito, anzi ne è onorata»
Alessandro mi prese a braccetto e mi condusse verso il centro della sala dove una decina di coppie stavano ballando.
Ebbi appena il tempo di voltarmi e sillabare infuriata «onorata?» in direzione di Alfie.
«Allora, si ricorda di me, signorina Smemorina?»
Ha ha ha, quest'uomo era un concentrato di simpatia.
Mi avvolse la vita con un braccio e fui costretta a ridurre la distanza tra di noi. Cosa non si fa per uno stupido ballo.
«Credo che sarò costretta a ricordarmi di Lei d'ora in poi»
Dovevo trovare al più presto un modo per portare anche lui nel limbo dove risiedevano i miei amici maschi non omosessuali per cui non provavo alcuna attrazione sessuale, non potevo fare pensieri poco ortodossi ogni volta che vedevo i suoi occhi fissarmi o avere una vampata di caldo, in pieno stile donna in menopausa, non appena parlava con quella sua voce sensuale leggermente strascicata.
«Io Le assicuro che di Lei mi ricordavo alla perfezione già prima di incontrarla in ascensore. Ginevra Visconti e il suo discorso sul 'se vuoi puoi' sono stati il mio incubo per anni»
Sorpresa lo fissai a bocca aperta. Questo significava che avevamo fatto il liceo insieme e che senza saperlo io lo avevo visto centinaia di volte. Evidentemente da ragazzo era un rospo perché al quartetto delle meraviglie nessun bel ragazzo sfuggiva.
«Sei del '90 come me?»
La musica avvolgente e le calde luci soffuse creavano un'atmosfera intima che sembrava racchiuderci in un abbraccio rassicurante.
Alessandro scosse la testa divertito: «Siamo passati al tu? Comunque no, ero al secondo anno di università e venni alla consegna del diploma di mio fratello. Mi sconvolse, non ci sono altre parole per descrivere l'effetto che ebbero le tue parole su di me, furono per me quel pugno che ti spacca il cranio di cui hai parlato tu. Sono passati molti anni ma tu sei ancora maledettamente brava con le parole»
Quel discorso fu forse il migliore che io abbia mai fatto, ricordo che in modo molto semplice, forte del mio giovane entusiasmo, avevo incoraggiato i miei compagni a seguire i propri sogni e a non permettere ad altri di scegliere per loro.
«Perché?»
Fissai il suo volto, che inaspettatamente assunse una piega amara.
«Non ti riguarda» disse brusco.
Colpita dal suo tono duro mi scostai e rimanemmo nel centro della sala, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, a fissarci senza vederci veramente, ognuno perso nei propri ricordi.
«Gingin, ti accompagno a casa ok? Vado a recuperare il tuo cappotto. Ti aspetto all'ingresso»
Annuii in direzione di Francesco che si allontanò rapidamente e io feci per seguirlo ma una mani mi trattenne.
«Non prenderla per scortesia, è solo che non volevo tediarti raccontandoti tristi vicende familiari. Buonanotte Ginny»
Scomparve velocemente tra le poche coppie rimaste sulla pista e l'ultima immagine che ebbi di lui furono due spalle curvate da un passato doloroso.
Ginny.
Eccomi qui!
Sono consapevole di essere alquanto inconstante nella scrittura: a volte silenzio per un mese e poi, improvvisamente, due capitoli in pochi giorni.
Chiedo scusa ma il modo di scrivere riflette il mio modo di essere: disorganizzata, disordinata, scostante, incostante.
Ormai si è capito chi sarà il nostro protagonista, resta solo da delinearne il carattere.
Spero che la storia continui a piacere a voi lettori silenziosi e all'unica persona che finora ha recensito e che approfitto per ringraziare nuovamente.
Fatemi sapere cosa ne pensate, anche un breve giudizio.
Grazie mille :)
S. xxx
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
«Hello there the angel from my nightmare, the shadow in the background of the morgue...»
Picchiettai con le mani sul cruscotto per tenere il ritmo.
Accanto a me scorreva grigia e triste l'autostrada.
«Tocca a te Fede!»
Ascoltammo in religioso silenzio le parole della canzone per trovare il momento perfetto per attaccare.
«The unsuspecting victim of darkness in the valley, we can live like Jack and Sally if we want.
Where you can always find me and we'll have Halloween on Christmas and in the night we'll wish this never ends, we'll wish this never ends...»
Eccolo!
«Ora!»
«Where are you and I'm so sorry, I cannot sleep, I cannot dream tonight. I need somebody and always, this sick strange darkness
comes creeping on so haunting every time...»
Felice come una bambina lanciai un urletto estasiato.
«Non ci credo: ti ricordi ancora tutte le parole!»
Federico rise divertito mentre usciva dal casello autostradale e imboccava una strada secondaria.
«Gin, vorrei farti presente che l'hai cantata ininterrottamente per anni e che sono stato io a portarti al concerto dei Blink-182.»
Giusto.
'Miss you' era stata una delle canzoni che avevano composto la colonna sonora della mia adolescenza. Ognuno ha delle canzoni che possiedono un significato particolare o che racchiudono dentro le loro parole un ricordo felice. La musica dei Blink-182 aveva accompagnato l'estate dei miei tredici anni, trascorsa in Sardegna in campeggio. Furono quattro settimane all'insegna del sole, del mare luccicante, dei primi amori e delle avventurose scampagnate nei boschi.
La radio continuava ad accompagnare il nostro viaggio diffondendo quella dolce musica nell'abitacolo della Golf di Federico.
«Insieme ora!»
Ci ritrovammo così ad urlare a squarciagola: «Don't waste your time on me you're already
The voice inside my head,I miss you, miss you...»
Non mi sentivo così leggera e spensierata da tempo e sorridendo guardai fuori dal finestrino. L'inverno non era riuscito a diminuire il fascino proprio del paesaggio toscano.
«Già mi immagino la gioia di mamma quando scoprirà che presto partiranno per una crociera nel Mediterraneo.»
Mi stiracchiai pigramente e mi voltai verso mio fratello, impegnato alla guida.
«Io invece mi prefiguro già la faccia allucinata di papà quando si renderà conto che dovrà trascorrere dieci giorni in mare.»
Mio padre era un fifone mentre mia madre era nata per l'avventura.
Viaggiavano spesso ma convincere mio papà a partire era sempre una lotta estenuante.
Papà era convinto che prima o poi l'aereo su cui viaggiava sarebbe precipitato, la nave su cui navigava sarebbe affondata e il treno con cui si spostava sarebbe deragliato. Una volta, anni fa, a Londra, la nostra camera d'albergo si trovava al diciassettesimo piano di un grattacielo altissimo e lui, convinto della precarietà degli ascensori, aveva passato tutta la settimana a farsi diciassette piani di scale a piedi, rischiando l'infarto ogni volta.
«Fede, alla prossima svolta a destra e poi ci siamo.»
«Tesorooo mio!»
«Come sei magro Federico mio»
«Cara, che brutta cera che hai!»
«Siete soli? Niente fidanzati?»
«Siete in ritardo»
«Non vi fate mai vedere»
L'attacco dei parenti cominciò non appena mettemmo piede sull'erba del giardino antistante la casa nella quale avevamo passato tutte le estati della nostra infanzia. L'unica cosa che volevo in quel momento era rientrare subito in auto, fare una bella inversione a u e partire alla velocità della luce.
Una decina di parenti urlanti ci diede il benvenuto rimproverandoci per l'aspetto sciupato che avevamo e per la nostra lunga assenza dai pranzi di famiglia.
Zia Adelaide si appese al mio collo e non accennò a staccarsene mentre Zia Agata, la famosa novantenne pimpante, stava ricoprendo di baci al rossetto il viso del mio povero fratello.
«Lasciate respirare quei poveretti! Poi vi chiedete perché non si fanno mai vedere...»
Questo borbottio fu seguito dall'ingresso in scena del mio adorato nonnino. Senza esitazione lo abbracciai stretto e gli lasciai un bacio sulla testa canuta.
«Come stai nonno?»
Lui mi prese a braccetto e mi riservò un sorriso furbetto: «Benissimo Ginevra cara, benissimo! Mi sono iscritto ad un corso di tango argentino e ora mi sento un trentenne pieno di energia. Se vuoi più tardi ti insegno qualche passo, vedrai, il ballo è un elisir di giovinezza!»
Scossi la testa divertita e superai la soglia di casa.
Dopo aver salutato e scambiato due chiacchiere con mamma, mi diressi, cercando di non farmi notare da qualche zio impiccione o prozia pettegola, verso la porta sul retro che dava sul frutteto.
Sapevo benissimo che lo avrei trovato lì, papà era un uomo solitario che a volte aveva bisogno del silenzio e della sola compagnia della natura.
«Ciao Ginevra»
Presa in contropiede mi guardai interno per capire da dove provenisse la voce di mio padre.
Decise di aiutarmi nella mia ricerca scendendo con un agile balzo dal grande pesco, teatro di interi pomeriggi di giochi durante la mia infanzia.
«Ti stavo aspettando» mi disse mentre si dirigeva silenziosamente verso il dondolo seminascosto da un ulivo.
Papà era fatto così, spesso diceva cose che ti lasciavano senza parole per il loro significato misterioso.
Mi accomodai accanto a lui e gli accarezzai il dorso della mano.
«Come stai?»
Lui sorrise impercettibilmente e si guardò intorno fino a fermare il suo sguardo su una maestosa quercia, che troneggiava in mezzo al giardino, e dopo un breve momento la indicò.
«Vedi quella quercia? È antica, imponente, ispira rispetto. È sopravvissuta ad estati aride e secche e ad inverni gelidi e crudeli. Eppure è sempre lì, fiera di ricoprire il suo ruolo di sentinella» fece una breve pausa, il suo sguardo era assente, come se lui fosse da tutt'altra parte «mi sento un po' così, il mio viso reca i segni del tempo, il mio corpo inizia ad avvertire la stanchezza, eppure resto qui, orgoglioso di essere il capofamiglia di questa nostra splendida tribù.»
Con un braccio mi avvolse le spalle e mi strinse teneramente a sé.
Eravamo sempre stati una piccola tribù felice, così ci definiva papà; ognuno contribuiva essendo portatore di qualità preziose ed uniche.
«Papi, hai solo cinquant'anni, per una volta metti da parte il tuo pessimismo e renditi conto che hai davanti a te ancora lunghi anni di vita felice da passare con noi.»
Una leggera vena di malinconia era sempre stata propria del modo di essere di mio padre e forse con l'avanzare degli anni si era accentuata. Mamma diceva sempre che quando aveva conosciuto papà, a sedici anni, era già lo scrittore pensoso e melanconico che sarebbe diventato a tutti gli effetti poi.
«Forse è vero, ma io non riesco a crederci. Ho ripreso a scrivere sai?»
Ecco, e poi lui nell'immobilità e nella pace di un freddo pomeriggio di febbraio lanciava una notizia straordinaria e sconvolgente come quella.
«Papà! Ma è meraviglioso! Quando è successo?»
Questa era senza dubbio una lieta novella; papà aveva passato gli ultimi due anni cercando di combattere e sconfiggere il cosiddetto blocco dello scrittore e ultimamente sembrava essersi arreso.
Il suo sguardo si rattristò mentre sussurrava: «Dopo la morte di mamma.»
Mio papà aveva sempre sofferto di una specie di complesso di Edipo, sembrava che il cordone ombelicale che legava lui e sua madre non fosse mai stato reciso in modo definitivo. Mamma nei primi tempi del matrimonio aveva sofferto molto per questa tendenza di papà ad idealizzare la nonna e a mettere in secondo piano ogni altra donna, compresa sua moglie. Con gli anni il loro legame si era affievolito, grazie anche all'arrivo di tre figli, ma mai spezzato. Lo scorso autunno la nonna era spirata e papà, sensibile e delicato com'era, aveva avuto un crollo.
«Giacomo, ti vogliono al telefono»
Mio padre alzò gli occhi verso il viso preoccupato di mia madre e la fissò per un istante in silenzio prima di alzarsi e dirigersi verso casa.
Mamma sospirò e si sedette accanto a me.
Era sempre stata una donna forte, determinata e con il suo realismo e i suoi piedi ben piantati per terra era riuscita a contrapporsi ai castelli in aria e ai sogni utopici di mio padre e a mandare avanti la casa e la famiglia.
Entrambi appartenevano a due famiglie benestanti della Milano bene e si erano conosciuti quasi per caso ad una cena organizzata dai genitori, tre anni più tardi si erano incontrati nuovamente, mamma era una grintosa e brillante studentessa della Bocconi mentre papà frequentava lettere classiche e faceva una vita da bohémien spiantato. Si sposarono e mamma rimase incinta, rifiutarono qualsiasi aiuto economico dei nonni e si fecero in quattro per riuscire ad acquistare una casetta in grado di ospitare la famiglia che intendevano formare.
Ventisei anni più tardi mamma era l'arcigno ed inflessibile capo di un'azienda ricca e ben avviata e papà era un geniale scrittore corteggiato da decine e decine di case editrici.
Era strano, le differenze, a prima vista inconciliabili, che avrebbero dovuto separarli e tenerli distanti erano state invece il ponte che li aveva uniti ed entrambi, anche dopo trent'anni, avevano ancora bisogno l'uno dell'altro. Cercavano nell'altro ciò che mancava loro; papà aveva insegnato a mia madre l'arte della pazienza, della pacatezza, della riflessività mentre lei gli aveva donato la forza d'animo e gli aveva sempre instillato parte di quella energia incontenibile che l'aveva sempre caratterizzata.
«A volte sembra così felice, pieno di vita e voglia di fare, poi all'improvviso si chiude nel più impenetrabile dei silenzi ed è scontroso e scostante. Almeno ha ripreso a scrivere...»
Accarezzai i capelli di mia mamma che in quel momento mi sembrava estremamente indifesa e vulnerabile.
«Vedrai che andrà tutto bene; la scrittura è sempre stata per lui il migliore degli antidepressivi» feci vagare lo sguardo tra gli alberi spogli e scheletrici, silenziosi abitanti del giardino «quando tornerete a Milano?»
Mamma si alzò e io la imitai.
«Penso già la settimana prossima, Lorenzo deve studiare e concentrarsi da ora fino a luglio.»
Povero Lorenzino, gli esami di maturità lo attendevano.
Dieci minuti più tardi stavo salendo in punta di piedi le scale che conducevano al secondo piano per vedere il più strambo e forse il più simile a papà dei miei fratelli.
La porta della sua stanza era socchiusa e così sbirciai all'interno e un sorriso nacque spontaneo sulle mie labbra.
Lorenzo, avvolto in una felpa gigante color antracite, era sdraiato a pancia in giù sul letto e scarabocchiava pensoso su un quadernetto, nelle orecchie i suoi immancabili auricolari e sul viso la sua tipica espressione corrucciata.
Entrai di soppiatto e quando fui a meno di un metro dal letto mi lanciai letteralmente su di lui.
Lo abbracciai stretto stretto mentre lui si divincolava e gridava: «Cazzo Gin, sei sempre la solita!»
Riuscii a scoccargli un impercettibile bacetto sulla guancia prima di essere scostata in malo modo.
«Ahh Lorenzino quanto mi sei mancato! Come stai? Che stai scrivendo? Cosa stai ascoltando? Come va a scuola? E che mi dici di Silvia?»
Lui fece un balzo sul letto nel sentir nominare quel nome e mi guardò scioccato.
«Co-come fai a saperlo?»
Scoppiai a ridere e gli spettinai i capelli.
«Segreti del mestiere. Suvvia, Lori, tutti hanno avuto un amore non corrisposto a diciotto anni.»
Lui si lasciò cadere sconsolato sul letto sprofondando il viso nel cuscino e io gli battei con la mano sulla gamba per comunicargli la mia comprensione.
All'improvviso riemerse dalla soffice imbottitura del cuscino e mi chiese a bruciapelo: «Anche tu?»
Ahi! Tasto dolente.
«Anche io» ammisi sconsolata.
Lui, ripresosi improvvisamente, balzò a sedere e con uno sguardo assetato di sapere mi disse interessato: «Racconta dai.»
Fu così che passai l'ora successiva a narrare la triste storia della povera Ginevra e del bel Ludovico, che mai la considerò e che forse, non la vide neanche mai.
Allungai le gambe e mi sdraiai affianco a Lorenzo.
«Se sai già che è una storia destinata a non avere un lieto fine, desisti.»
Mio fratello si voltò prono e, con il viso sorretto da una mano, mi fissò con quei suoi inquietanti occhi blu.
«Perché arrendersi?» mi chiese in un sussurro.
«Per evitare di ritrovarsi tra le mani un cuore in mille pezzi e rendersi conto solo quando il danno è già fatto che non si è in grado di riaggiustarlo»
Lorenzo non ribatté ma continuò a fissarmi in silenzio. Allungai una,mano e gli accarezzai lievemente una guancia.
«Solo tu puoi sapere se ne vale la pena» aggiunsi tristemente.
Mi diede le spalle e lo vidi chinarsi e trafficare sotto il letto, alla ricerca di qualcosa. Riemerse poco dopo con un blocco di fogli e una matita.
«Non muoverti»
Passai la successiva mezz'ora immobile, sdraiata sul letto dalle coperte blu con i puffi di quella tipica stanzetta da adolescente, con le pareti costellate da disegni. Centinaia di volti, dai lineamenti leggeri, sfumati, color grafite; visi di persone incontrate sull'autobus, in pasticceria, al parco pubblico; facce che in qualche modo avevano colpito mio fratello, che aveva deciso di ritrarli. Decine e decine di occhi che mi fissavano e che sembravano raccontare storie: storie di viaggi senza ritorno, storie di amori infelici, storie di sogni irrealizzabili, storie di battaglie vinte. Osservai le sopracciglie aggrottate di mio fratello, la sua fronte attraversata da sottili pieghe, dovute alla concentrazione, le lunghe ciglia abbassate celavano quasi parzialmente quel blu innaturale che colorava le sue iridi. Ripensai ai miei diciotto anni e alla voglia di scappare, di urlare, di ribaltare il mondo tipica di quell'età.
«I miei disegni non hanno mai un titolo, ma se questo questo ce lo avesse sarebbe Sehnsucht» mi disse porgendomi il disegno.
«Desiderio senza nome di qualcosa di indefinito» sussurrai fissando il mio volto assorto e l'espressione malinconica, che Lorenzo aveva riprodotto alla perfezione «è meraviglioso».
Lorenzo posò in terra i fogli e la matita e si distese nuovamente.
«Gin, non sono bravo a dare consigli, neanche un po' e tu lo sai».
Scoppiai a ridere: «Eccome se lo so! Ricordo benissimo quando la povera vicina venne a piangere disperata da noi perché il marito l'aveva abbandonata e tu le consigliasti di smettere di cucinare quelle orribili ed immangiabili crostate alla marmellata di castagne, che lei si ostinava a propinare a chiunque, dicendo che forse così il marito sarebbe ritornato».
Lorenzo mi diede un pugnetto scherzoso sul braccio: «Ehi! Avevo nove anni!»
Mi voltai su un fianco ridacchiando: «Stavi dicendo?»
Lui si fece serio: «Non sembri la solita Ginevra, è come se il tuo solito modo di essere vivace ed allegro fosse offuscato, sei una versione sbiadita di te stessa e sei così da quando quel bastardo ti ha tradito».
Chiusi gli occhi, colpita dalle sue parole che riaprivano un cassetto mai del tutto chiuso.
Stavo cercando di risalire, di lasciarmi alle spalle il buio che aveva avvolto la mia vita il luglio dell'anno precedente. Quel luglio maledetto, durante il quale avevamo deciso di fare una piccola vacanza separati prima di partire insieme. Nicola in Grecia con i suoi amici, io in Spagna con le ragazze. E poi, in procinto di partire, felice e innamorata per la Sicilia, lui aveva confessato di avermi tradito. Me lo disse piangendo, implorando il mio perdono, incolpando l'alcool. In Sicilia ci andai lo stesso, ma con Francesco che fu così buono da rinunciare a spiaggia e mare e passare una settimana ad abbracciarmi, passarmi Kleenex e cucinarmi i miei piatti preferiti.
«Lo so» ammisi sospirando «ma ti assicuro che ora sto molto meglio e che tornerò presto ad essere la solita isterica e folle Ginevra».
«A tavola! Gin, Lori!»
Abbracciai velocemente mio fratello ringraziandolo silenziosamente e lui ricambiò sorridendo.
«Pronta per l'interrogatorio?»
«Allora com'è andata la grande riunione di famiglia?»
Chiara mi aveva chiamata non appena ero tornata a Milano.
«Come al solito. Ho mangiato tanto, mi sono chiesta più volte se non fossi stata adottata e mi è venuta la solita nostalgia di sempre» risposi mentre con la mano libera riempivo di latte la ciotola di Isidoro.
«Novità?»
Mi rialzai e riposi il cartone nel frigorifero.
«Zio Ferdinando, alla tenera età di ottantadue anni, si risposa, con una quarantenne. Zia Adelaide partirà tra un mese per un viaggio avventura in Tibet e ancora mi chiedo se si droghi perché non è possibile essere così piena di energia a ottantotto anni. Zia Agata ha annunciato che quest'anno non andrà in Sardegna quindi la sua casetta sul mare è a completa disposizione dei suoi nipoti, non è fantastico?»
Isidoro nel vedere il liquido bianco che stavo versando fece un balzo e atterrò con le zampe nella ciotola spargendo latte ovunque.
«Stupido gatto! Chiara posso chiamarti più tardi? Isidoro ha appena dato vita ad un lago di latte in cucina. Baci tesoro».
Recuperai uno straccio dall'armadietto sotto il lavello e mi apprestai a pulire il disastro combinato da quello sciocco del mio gatto obeso.
Din don.
Oh santo cielo! Che tempismo.
Sbuffando andai alla porta e aprii, senza neanche guardare dallo spioncino.
Mi si pararono davanti agli occhi i sorrisi smaglianti di Alfredo e Francesco, che reggevano tra le mani due borsine di McDonald's e cinque o sei dvd.
«Non compro nulla» scossi la testa rassegnata e mi feci di lato «entrate su».
Pulii velocemente il pavimento e poi mi accomodai al tavolo chiamando i miei due amici per invitarli a raggiungermi con il cibo.
Dal salotto mi raggiunse la voce di Alfie: «Gin, vieni qui, mangiamo sul divano».
Un attimo: mangiamo sul DIVANO?! Il mio adorato, morbido, prezioso, soffice divano. Il mio divano immacolato. Il mio divano intoccabile.
Corsi come una furia in salotto e ciò che vidi per poco non mi fece svenire.
Alfie stava addentando un doppio hamburger bisunto colmo di salsa barbecue che minacciava di cadere e macchiare il mio sofà mentre Francesco aveva appoggiato in bilico sul tessuto candido il bicchiere di coca cola e si stava dedicando ad una confezione maxi di patatine.
Lanciai un urlo disperato e mi precipitai a strappare di mano ai miei presunti amici che miravano ad uccidermi in giovane età le loro vivande.
«In cucina! Subito!»
Raccolsi sacchetti, scatoline e bicchieri e li depositai sul tavolo, lontano dal mio divano color panna montata.
A malincuore mi raggiunsero e brontolando si lasciarono cadere sulle due sedie di fronte a me.
«Sei una donna senza cuore» sbottò il mio capo.
Afferrai una patatina e la intinsi nel ketchup.
«Se fossi davvero crudele ora voi due stareste banchettando sul mio zerbino e non al mio tavolo» affermai portandomi alla bocca una crocchetta di pollo.
Francesco sogghignò: «Sei sempre adorabile».
Tra un sorso di coca cola e un altro lo squadrai: «Credevo fossi un nemico del cibo spazzatura e adorassi quelle schifezze biologiche o vegane».
Il mio amico solitamente era molto attento alla linea e all'alimentazione e quando uscivamo mentre io ordinavo un cappuccino e un muffin gigante al cioccolato lui sorseggiava composto il suo espresso senza zucchero.
«Lo sono solo quando mi conviene» di fronte al mio sguardo interrogativo mi spiegò «voi donne moderne ripudiate le calorie e i grassi e dichiarate fedeltà eterna a yogurt bianchi insapori e insalatine scondite, e adorate gli uomini che seguono la vostra stessa filosofia».
Alfredo si interessò subito alla questione mentre io scoppiai a ridere di fronte a quelle sciocchezze.
«Dici che questa tattica funziona anche tra gli uomini? Ho conosciuto un ragazzo bellissimo in palestra e lui segue una dieta stramba, quindi potrei professarmi seguace della medesima condotta alimentare e diventare il suo fidanzato! Meraviglioso, grazie mille Fra».
Alfredo ormai stava già fantasticando su una vita futura con il suo bel palestrato e io ne approfittai per confutare la falsa tesi di Francesco.
«Io odio gli uomini che seguono diete improbabili per restare magri, quelli che storcono il naso di fronte ad una torta al cioccolato, quelli che vanno tutti i giorni in palestra e poi tornano a casa e misurano la circonferenza dei loro bicipiti sperando in un miglioramento» sorrisi candidamente ai miei due amici «quindi o la tua tesi è una gran cazzata, opzione più che valida, oppure io non sono una di quelle che tu chiami 'donne moderne'».
Alfredo se ne uscì con una delle sue perle di saggezza sostenendo che dato che sapevo usare il computer e possedevo un cellulare ero per forza una donna dell'era moderna e si zittì solo quando gli dissi che anche Marina, la novantunenne vicina di casa di mio nonno, sapeva usare un pc ed era pure iscritta a Facebook.
Francesco ammise che forse doveva perfezionare la sua teoria: «Comunque io adoro mangiare un hamburger ogni tanto, solo che esistono poche donne che preferirebbero un Big Mac ad uno yogurt Activia».
«Allora conosci solo donne stupide» affermai convinta.
Dopo aver finito di mangiare, sistemammo rapidamente la cucina e mentre loro sceglievano il dvd da vedere io andai in camera a telefonare a Chiara.
«Ciao Gin, allora eravamo rimaste alla casa in Sardegna...»
Mi sedetti a gambe incrociate sul letto e fissai la mia immagine allo specchio che si trovava proprio ai piedi di esso, sull'armadio.
«Giusto, non trovi sia un'idea splendida? Ovvio, siamo in tre fratelli, Federico sicuramente vorrà andarci con quei suoi amici idioti e Lorenzo quest'anno vorrà fare il famoso viaggio di maturità e magari deciderà di approfittare dell'occasione; in più bisogna sperare che non si faccia avanti anche il mio stupido cugino snob. Però sono certa che se ci accordiamo riuscirò ad ottenerla per un paio di settimane, la casa è grande: tre camere da letto e un divano letto in salotto. Dovrebbero esserci dieci o undici posti, ora non ricordo con precisione perché l'ultima volta che ci sono andata avevo diciotto anni, però potrebbe essere un'opzione per quest'estate, non credi?»
Adoravo viaggiare e il pensare già all'estate e alle vacanze mi rallegrava nonostante fossimo solo alla fine di febbraio.
«È una magnifica idea secondo me! Certo, un po' grande per solo noi quattro ma meglio avere spazio e comodità a volontà che il contrario».
Isidoro mi raggiunse sul letto e mi si accoccolò in grembo.
«Potrei invitare anche Alfie e Fra e voi potreste portare una persona a testa come accompagnatore o accompagnatrice, no?»
Accarezzai le morbide orecchie pelose del mio gatto mentre fuori iniziava a piovigginare.
«Giusto! Più siamo più ci divertiamo anche se non saprei chi portare...»
Mi alzai a chiudere le imposte e mi persi a guardare la pioggia cadere nell'oscurità della notte invernale.
«Oh io lo so: il tuo adorato compagno di tirocinio!»
Uno strillo mi perforò un timpano: «Sei impazzita? Se vogliamo ricreare un romanzo di Agatha Christie allora è un'idea perfetta, ma non dovrete cercare a lungo per trovare chi lo ha assassinato».
Ridacchiai chiudendo finalmente le ante e la finestra.
«Chi disprezza compra...»
Dall'altro capo del telefono mi arrivò uno sbuffo: «Risparmiami questi detti popolari da due soldi. Gin, non sai quanto quell'uomo sia detestabile, è convinto che per il solo fatto che io sia donna il posto fisso sarà suo perché io sono capace solo di fare la calzetta a casa. Capisci che razza di schifoso maschilista è?»
Mi scaldai subito. Avevo un animo da suffragetta.
«Brutto bigotto del cazzo nemico della parità dei sessi. Al rogo! Come può esistere ancora gente così ottusa??»
Sentii un leggero tossicchiare provenire dalle mie spalle e mi girai di scatto.
Francesco avanzò nella penombra della mia stanza: «Non volevo interromperti ma è già tardi e domani...»
Non lo lasciai finire, salutai calorosamente Chiara, assicurandomi che desse un bel calcio nel sedere a quel suo collega cretino anche da parte mia e seguii il mio amico in salotto.
«Mi dispiace avervi fatto aspettare tanto; allora che film si guarda?» chiesi sprofondando nel mio candido e morbido divano.
«Mission Impossible II» affermò sicuro Francesco.
«Notting Hill» ribatté Alfredo.
Sbuffai alzandomi, mi diressi verso la mia libreria e dopo aver osservato brevemente le centinaia di dvd che albergavano negli scaffali ne afferrai uno, decisa a fargli pagare il fatto di non essere riusciti a mettersi d'accordo in mezz'ora di tempo.
Inserii il cd nel lettore dvd, spensi la luce e mi riaccomodai nella mia postazione precedente, tra i miei due amici.
Dopo pochi secondi, alla vista dei primi titoli, i miei amici iniziarono a lamentarsi e a borbottare sconsolati.
Li zittii rapidamente con uno scappellotto e mi concentrai felice e serena sulla storia: d'altronde 'Dirty dancing' era un classico intramontabile.
Buongiorno!
Ecco a voi un nuovo capitoletto della mia storiella. Avete avuto una breve panoramica della famiglia Visconti, che tornerà anche in futuro, e una breve comparsa di Chiara, Alfie e Francesco. So che manca uno dei personaggi fondamentali, cioè Alessandro, ma questo capitolo è ambientato nel weekend quindi niente lavoro. Da lunedì si torna in ufficio quindi ci saranno delle novità.
Spero che la storia continui a piacervi.
Un grazie di cuore a coloro che hanno recensito, messo la storia tra le seguite/ricordate o hanno solo letto in silenzio.
I vostri commenti sono sempre accolti con espressioni di gioia e gaudio quindi lasciatemi una piccola recensione e io sarò felicissima :)
S. xxx
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
«Ah ah fregato!»
Dopo tre giri nel parcheggio antistante il palazzo che ospitava gli uffici della redazione ero riuscita a trovare un posto libero, soffiandolo ad un pallone gonfiato alla guida di una Porsche argentata.
Nessuno poteva competere con la mia cara Teiera, per gli amici Tea, che nonostante i suoi tredici anni suonati si faceva ancora rispettare.
I miei genitori quando mi diplomai mi fecero trovare in giardino Tea, un maggiolino Volkswagen di seconda mano, avvolta in un lungo fiocco rosso.
Accarezzai affettuosamente la vernice blu del mio macinino, compagno di tante avventure, e quando mi voltai vidi il volto del proprietario della Porsche: Alessandro Grimaldi.
Lui si accorse di me e così, dopo essersi assicurato che la sua preziosa auto fosse chiusa, sigillata ed inespugnabile, mi si avvicinò.
Ogni volta che ci incontravamo sul suo viso era dipinta sempre la stessa espressione divertita.
«Signorina Visconti» mormorò sorridendo.
Afferrai la borsa e la valigetta e chiusi la portiera.
«Buongiorno, può chiamarmi Ginevra se vuole: non sopporto quando mi si dà della signorina, sa di obsoleto non trova?»
Ci avviammo fianco a fianco verso l'ingresso del palazzo, anticipato da una scalinata in marmo.
«E non trovi obsoleto il darsi del Lei tra coetanei?» ribatté divertito.
Colpita e affondata.
Mi sorpassò rapidamente, aprì la porta e si fece di lato per farmi passare.
La cavalleria rimaneva una delle poche caratteristiche degli uomini capaci di farmi sciogliere.
Lo ringraziai ed entrai nell'ampio atrio a pianta ottagonale, nel quale troneggiava l'imponente banco reception in granito occupato dalla massiccia sagoma della simpatica Signora Carmen.
«Ginevra cara, ho una cosa per te!»
Carmen scomparve sotto il bancone e ne riemerse qualche secondo più tardi sventolando vittoriosa una busta.
«Sai chi la manda?» chiesi curiosa.
Carmen era una signora di mezza età buona e generosa, ma la discrezione e la riservatezza non erano proprio il suo forte.
Lei si guardò intorno sospettosa e, dopo essersi assicurata che non ci fossero persone nella hall, si chinò nella mia direzione e mi sussurrò: «Viene dal nemico».
Proprio in quel momento entrò un fattorino che trasportava un grosso pacco.
Carmen si allontanò di scatto e dopo avermi rivolto un ultimo sguardo ammonitore si dedicò al dipendente della ditta di corriere espresso.
Perplessa salii in ascensore, impaziente di aprire la missiva al sicuro dietro il muro invalicabile rappresentato dalla mia scrivania.
Mi diressi sicura alla mia postazione salutando i colleghi fino a quando, svoltando l'angolo non mi si parò davanti agli occhi uno spettacolo terribile.
Prima di allora la mia scrivania, posta perpendicolarmente alle ampie vetrate che davano sulla città di Milano, si trovava di fronte a quella di Francesco.
Ora invece nell'ampia sala costeggiata da vetrate svettava un'unica grande scrivania, una di quelle costose, probabilmente in mogano. E beffa della beffe in un'imponente poltrona di pelle scura era seduto, comodo come un pascià Grimaldi il riccone.
«Ginevra sei arrivata finalmente. Come puoi notare c'è stato un piccolo cambiamento nella disposizione delle scrivanie; ora tu e il tuo collega lavorerete nella saletta attigua» mi disse accorgendosi della mia espressione sbalordita.
Furiosa, strinsi i pugni e mi avviai a passo di marcia verso quello che sembrava essere diventato il mio nuovo ufficio.
Aprii la porta e mi ritrovai in uno sgabuzzino, sì una specie di ripostiglio per le scope, perché non esistevano altre parole per descrivere quel minuscolo spazio soffocante nel quale erano state stipate a forza due piccole scrivanie illuminate solamente da una finestrella grande quanto un francobollo.
«Gin, hai visto che squallore?»
Mi voltai e incontrai lo sguardo sconsolato di Francesco, che entrò nella stanzetta e si chiuse la porta alle spalle.
Chi aveva osato operare quel cambiamento? Chi?!
Nella redazione dove lavoravo ogni giornalista era importante e non esisteva una gerarchia o una sottospecie di scala sociale. O almeno non esisteva finora, perché adesso tutto era cambiato e l'arrivo del principino aveva scombinato le cose, in peggio.
«Sai se c'è Alfie?» domandai sedendomi sulla nuove sedia in plastica rigida che aveva sostituito la mia poltroncina rosa girevole.
Francesco fece per appollaiarsi come suo solito sulla mia scrivania ma si accorse che ora, data l'inesistente distanza tra i nostri due tavoli di lavoro, era impossibile e così si sedette rassegnato sulla sua seggiolina.
«Stamattina non c'è»
Aprii la mia cartellina e sbattei stizzita alcuni documenti sulla scrivania.
«Ovvio, quando serve non c'è mai» esclamai inviperita.
Mi misi all'opera, battendo con foga sulla tastiera, cercando di calmarmi.
Solo due ore più tardi mi ricordai della misteriosa lettera e decisi di leggerla durante la pausa caffè.
Francesco mi portò il mio solito cappuccino e io per poco non me lo rovesciai sulla camicetta, sorpresa dal contenuto della busta.
Carmen aveva ragione: la missiva proveniva dal nemico.
Fin dalla sua fondazione, cinque anni prima, il nostro settimanale cinematografico aveva dovuto fare i conti con un grande ostacolo di nome Saverio Tabucchi.
Il signore sopra citato era a capo da quasi quarant'anni della più popolare rivista di cinema del paese, rivista che usciva mensilmente ed era considerata una vera e propria bibbia del cinema. Il signor Tabucchi, informatosi riguardo all'incredibile successo che la nostra rivista stava avendo, grazie alla sua formula semplice, fresca ed accattivante, aveva votato la sua vita a rendere impossibile la vita ad Alfredo.
Ed ora, tra le mie mani tremanti, tenevo una proposta di lavoro firmata dal signor Tabucchi in persona.
Mi veniva offerta la posizione di giornalista a capo della sezione cartoni animati, il mio sogno in poche parole.
Mi guardai intorno e mi chiesi se non fosse stato il destino a far coincidere l'arrivo della lettera con il mio confino in quella catapecchia.
«Gin, ti ripeto per la centesima volta che per il momento non vedo altra soluzione al problema» Alfie si passò stancamente una mano sul volto «gli spazi concessi alla redazione sono sempre gli stessi, vedrai che con il tempo troveremo una sistemazione migliore per tutti».
Mi alzai in piedi colma di rabbia e iniziai a camminare avanti e indietro furiosamente.
Mi fermai di colpo di fronte al mio capo: «Dimmi almeno perché».
Lui abbassò gli occhi, come se si vergognasse di quello che stava per dire: «Lui lo ha preteso. Gin, non guardarmi così, ti prego. Grimaldi è uno dei migliori giornalisti in circolazione ed è anche di ottima famiglia, quando gli ho offerto questo lavoro era ovvio che lui avrebbe chiesto qualche concessione».
Ero senza parole; Alfie era sempre stato a favore della meritocrazia e ora, basandosi solo sulla presunta fama e sul nome di famiglia di Grimaldi, aveva concesso ad un nuovo dipendente molto di più di quello che un normale giornalista, dopo anni e anni di carriera, avrebbe ottenuto.
«Mi hai delusa, molto delusa. Amo questo lavoro e non sarà l'avere un bugigattolo al posto di un ufficio a diminuire la passione che metto nel mio impiego. Ma sappi che odio le ingiustizie e odio i raccomandati spocchiosi e non me ne starò in silenzio» esclamai fiera.
Feci per uscire, colma di ira, ma giunta di fronte alla porta decisi di dare una stoccata finale ad Alfredo.
«Una cosa ancora, proprio stamattina ho ricevuto un'offerta di lavoro da Tabucchi; chissà che non accetti» dissi con un'ombra di irriverenza negli occhi.
Alfredo si alzò in piedi allarmato: «Gin, per favore, non fare la bambina e cerca di capire: il torto, se così si può chiamare, è stato fatto a tutti, non solo a te. Hai perso il tuo ufficio, ma è capitato a te come poteva succedere a Valeria o Fabrizio. Fidati di me e vedrai che presto riavrai un vero ufficio» mormorò avvicinandosi e mettendomi una mano sul braccio.
«Vedremo» e mi voltai ignorando il suo viso dispiaciuto che mi implorava di perdonarlo.
Era difficile essere amici tra colleghi di lavoro ma lo era ancora di più esserlo con il proprio superiore perché era complicato separare l'ambito lavorativo da quello affettivo. In questo momento ero arrabbiata con il mio capo e non con il mio amico, ma separare le due cose risultava complicato ai miei occhi.
Spesso le persone ti raccomandano di fare la cosa giusta, di compiere la scelta giusta, di scegliere la strada giusta.
Qual è la cosa giusta?
Qual è la scelta giusta?
Qual è la strada giusta?
Sprofondai ancora di più nell'acqua calda e schiumosa e mi beai del tepore che mi avvolgeva.
Ero sempre stata una persona impulsiva; non riuscivo a rendere impermeabile la mente dalle emozioni. La mia razionalità veniva sempre in qualche modo contaminata dalla potenza dei miei stati d'animo.
Papà mi ripeteva sempre di pensare prima di agire e parlare, di riflettere sulle conseguenze.
Ma lui era sempre stato di natura meditabonda e calma mentre io assomigliavo a mia madre. Noi difendevamo con i denti e con le unghie quello a cui tenevamo e cercavamo di annientare tutto ciò che minacciava il nostro prezioso mondo. Questo significava che Alessandro Grimaldi doveva essere rimesso al suo posto, sì, ma come? Appoggiai il capo al bordo della vasca e chiusi gli occhi.
Stavo diventando paranoica e io odiavo avere la testa colma di problemi e rompicapo da risolvere.
Un lieve bussare mi distolse dai miei pensieri e così mi affrettai ad afferrare un asciugamano e ad avvolgermelo attorno al corpo. Quando, pochi istanti più tardi, aprii la porta di fronte a me trovai solamente il corridoio semibuio e deserto. Stavo per chiudere la porta quando mi accorsi del pacchetto abbandonato sul mio zerbino.
Lo afferrai e, dopo un'ultima occhiata al corridoio vuoto, rientrai in casa.
Mi rivestii velocemente per evitare di prendere un raffreddore e mi avvolsi i capelli bagnati in un morbido asciugamano celeste. Mi accoccolai sul divano accanto a Isidoro, che dormiva placidamente, e aprii il pacco.
Scivolarono fuori un biglietto aereo, un piccolo fascicolo e un foglio ripiegato.
Aprii quest'ultimo e lo lessi incredula.
Cara Gin,
innanzitutto non essere subito sospettosa, quello che sto per fare non vuole essere un modo per addolcirti e farmi perdonare (ok, forse un pochino anche per quello) ma per premiare il tuo operato sempre eccellente e per darti la possibilità di fugare i tuoi dubbi e abbattere i tuoi pregiudizi riguardo ad una persona. La settimana prossima partirai per Los Angeles dove tu e Alessandro incontrerete la famosa attrice russa Natalia Alexandrova. Mi affido alla tua professionalità.
Alfie
P.S. Mi perdoni vero?
P.P.S. Sai benissimo che non vorrei mai che tu te ne andassi ma sai anche che voglio solo il meglio per te, quindi se davvero tu volessi lasciarci sentiti libera di farlo nonostante spezzerai il mio povero cuoricino.
Sorridendo sfogliai il fascicolo e ci trovai tutta la documentazione riguardo all'attrice e alla sua filmografia.
Il mio sorriso si spense nel ricordare chi sarebbe stato il mio compagno di viaggio ma poco dopo si riaccese nel pensare alle assolate spiagge della California e al clima mite che mi aspettava.
«E così quello stronzo se n'è uscito con la più grande cazzata dell'universo sostenendo che in quanto appartenente al sesso debole nessuno mi ingaggerà mai come avvocato difensore perché equivarrebbe a rassegnarsi alla perdita della causa».
Chiara, con un diavolo per capello, ci stava aggiornando sulle sue abituali disavventure con il collega di tirocinio.
Cecilia, dolce come sempre, cercava di farla ragionare e la incitava a provare a capire cosa spingesse il suo collega ad avere quell'atteggiamento ostile nei confronti delle donne mentre io e Veronica le proponevamo di pedinarlo, accerchiarlo in un angolo e usarlo come sacco da pugilato.
«Ragazze, calmatevi. Noi siamo contro la violenza e voi dovete imparare a gestire la vostra rabbia» Cecilia, con la sua voce calma e pacata, cercava come sempre di farci ragionare.
«Sì ma Ceci, siamo nel 2014 non nell'Inghilterra dell'Ottocento dove la donna serviva solo a generare figli!» Veronica non si rassegnava di fronte a qualcuno dotato di vedute così ristrette.
Tagliai una fetta della mia pizza alle verdure: «Ceci devi ammettere che Chiara ha ragione; le donne godono degli stessi diritti degli uomini, la legge lo stabilisce, e lui non dovrebbe permettersi certi atteggiamenti misogini».
Cecilia si vide costretta a concordare con me ma tentò comunque di trovare un modo per conciliare la donna fiera che era Chiara e l'uomo difficile che sembrava essere il suo collega.
«Hai provato a parlargli?» chiese premurosa.
Chiara per poco non si strozzò con la coca cola che stava bevendo da una cannuccia fucsia.
Veronica le batté prontamente sulla schiena.
«Stai scherzando, vero? Gli ho ripetuto più volte quanto i suoi commenti e le sue opinioni sul genere femminile mi urtino ma lui fa spallucce e continua imperterrito».
Se davvero il suo compagno di tirocinio corrispondeva alla descrizione fatta, lavorare con lui doveva essere un vero e proprio incubo.
Ricordo ancora con rabbia un episodio accaduto quattro anni fa. La facoltà di scienze della comunicazione aveva diramato il bando per un concorso, dedicato agli studenti dei primi tre anni, che consisteva nel redarre un articolo inerente l'ecologia e l'ecosostenibilità. Già allora adoravo le sfide e mi piaceva mettermi in gioco e così decisi di partecipare. L'articolo lo scrissi di getto, durante una passeggiata notturna nel frutteto sul retro del casale in Toscana, circondata solo dal fruscio della brezza e dalla fioca luce intermittente delle lucciole. Inaspettatamente il mio pezzo arrivò alla selezione finale insieme a quello di Francesco, eh si a volte il destino escogita strani mezzi per far incontrare due persone. Il professore, che aveva il compito di giudicare i due articoli, decretò la vittoria di Francesco, all'epoca ragazzo a me sconosciuto, e il mio premio di consolazione fu il suo acido commento secondo cui in quanto donna un secondo posto era il massimo a cui potevo aspirare. Francesco assistette alla scena e la fece presente al rettore che decise di leggere egli stesso gli articoli e che alla fine sancì un ex aequo. Lì iniziammo a conoscerci ma poco dopo ci perdemmo di vista perché lui partì per un Erasmus in Finlandia. Il fato ci fece rincontrare come colleghi di lavoro e non finirò mai di ringraziarlo per l'opportunità regalatami di riscoprire una persona così meravigliosa come Francesco.
«Chiara?»
Nel sentire quella voce titubante ci voltammo all'istante tutte e quattro e fissammo curiose il nuovo arrivato, che sembrava conoscere la nostra cara avvocatessa.
Il viso di Chiara, di fronte a quei grandi occhi marroni celati da un paio di occhiali che conferivano al ragazzo un'aria da intellettuale, subì una trasformazione, le sue guance si fecero scarlatte mentre mormorava imbarazzata: «Marco, da quanto sei qui?»
Lui la guardò confuso: «In realtà sono appena arrivato, perché?»
Chiara, sempre più rossa in volto, ci guardava disperata in cerca di aiuto: «Ehm...»
L'aiuto arrivò prontamente da Veronica, sempre spigliata e a suo agio anche nelle situazioni più imbarazzanti: «Piacere, io sono Veronica. Tu sei?» esclamò balzando in piedi e allungandosi a porgere cordialmente una mano al nuovo arrivato.
Lui, preso in contropiede, strinse perplesso la mano di Veronica e rispose: «Marco Veronesi, sono il compagno di tirocinio di Chiara».
Cosacosacosa?
Il mascalzone maschilista era a pochi centimetri da noi: occasione irrinunciabile per conoscerlo e metterlo sotto torchio.
Incrociai lo sguardo di Veronica e capii che anche lei stava pensando la medesima cosa. Ci scambiammo un sorrisetto diabolico e subito dopo mi alzai anche io esclamando: «Io sono Ginevra e lei è Cecilia, che ne dici di unirti a noi?»
Sentivo le saette e i fulmini indirizzati a me che lo sguardo furioso di Chiara mi stava inviando ma la ignorai e dedicai un sorriso luminoso all'avvocatuccio misogino.
Lui parve tergiversare ma poi ricambiò il sorriso ed esclamò: «Perché no? Ero venuto a prendere una pizza da asporto da mangiare in solitudine ma direi che la vostra compagnia è di certo più interessante di quella delle pratiche dello studio legale».
Due minuti più tardi una sedia era stata aggiunta e tutte noi eravamo intente ad ascoltare divertenti aneddoti sulla vita degli avvocati, tutte noi tranne Chiara.
Lei si era chiusa in un silenzio offeso chiaro segno della sua disapprovazione di fronte al nostro comportamento; ai suoi occhi stavamo socializzando con il nemico. Evidentemente la mia amica non aveva mai sentito il detto che recitava 'tieniti stretti gli amici e ancora più stretti i nemici'. Il Padrino docet.
Anche se a dire il vero Marco era un ragazzo cordiale ed affabile e l'impressione che dava era in totale disaccordo con la descrizione fatta da Chiara.
Subito, la mia mente folle iniziò a fantasticare riguardo ad una possibile storia tra i due, sulla falsa riga di 'Orgoglio e pregiudizio'.
Quante volte ci capita di sbagliarci nel giudicare una persona? Spesso i nostri pregiudizi ci impediscono di vedere la vera natura delle persone, perdendo talvolta l'occasione di conoscere la parte migliore degli altri verso cui nutriamo dei falsi preconcetti.
La serata passò in fretta, tra un'ottima pizza e molte risate. Quando arrivò il momento dei saluti Marco lasciò il suo numero a tutte quante promettendo di farsi vivo per organizzare un'altra serata tutti insieme. Chiara gli rivolse un freddo arrivederci e, accampando la scusa delle toilette, si allontanò in tutta fretta. Colsi lo sguardo dispiaciuto che il ragazzo rivolse alla figura di spalle della mia amica, che si stava allontanando.
Il mistero si infittiva e Miss Ginevra Marple, complice il suo ingegno, avrebbe risolto il caso. Oppure ero più una Poirot in gonnella? O una novella Sherlock?
Indifferente, l'importante era sbrogliare la matassa e cercare di capire che cosa stava succedendo tra le pareti di quello studio legale.
«Gin, ci sei? Che stai aspettando?» esclamò Cecilia, sventolandomi una mano davanti al naso.
Veronica non mi diede neanche il tempo di infilare tutte e due le maniche del cappotto perché mi afferrò saldamente per un braccio trascinandomi verso l'uscita.
«Ormai Ginevra l'abbiamo persa; sempre più spesso ti troviamo intenta a fissare il vuoto» osò dire la mia rapitrice «dovresti smetterla di pensare tanto, sento quasi il rumore degli ingranaggi del tuo cervellino».
Sbuffai infastidita e mi divincolai dalla sua presa ferrea per allacciarmi il cappotto: eravamo pur sempre in febbraio!
Marco se ne andò, salutandoci cordialmente e sparendo nell'oscurità, diretto alla sua abitazione.
Non appena la sua sagoma scomparve, lo sfogo di Chiara, che tutte stavamo aspettando, ebbe inizio.
«Come avete potuto farmi questo? Come??» si infiammò subito «vent'anni di amicizia e voi mi tradite così? Questa volta l'avete combinata grossa e dovrete darvi da fare per riguadagnarvi il mio affetto».
Fantastico, tutto procede come al solito: Chiara adorava fare l'offesa.
Cecilia, dopo aver frugato nella sua borsa, più simile ad una valigia in verità, tra pupazzetti, giornali di pimpa e dvd di peppa pig, scovò un pacchetto di pavesini. Sorvolando sul fatto che probabilmente quei poveri biscotti erano stati testimoni dell'impresa dei Mille di Garibaldi, noi tre ci guardammo ed annuimmo.
Cecilia con fare materno si avvicinò a Chiara e, dopo averle cinto le spalle con un braccio, le chiese suadente: «Dolcetto?»
Chiara ebbe un attimo di esitazione e noi per un istante sperammo di averla fatta franca, ma fu un secondo, la nostra vittoria si rivelò presto illusoria perché Chiara allontanò stizzita i biscotti e si voltò infuriata verso di noi.
«Credevate davvero che il vostro subdolo metodo di chiedere scusa avrebbe funzionato?» chiese sarcastica.
Veronica cercò di nascondere un sorrisetto: «Bé, in passato aveva sempre successo il metodo biscotto...»
Chiara ci fulminò con lo sguardo: «Non è vero! Non sono così facile da circuire!» esclamò arrabbiata mettendosi le mani sui fianchi.
Feci un passo in avanti e con fare teatrale declamai: «Anno 1998, scuola elementare Montessori, una piccola Chiara chiede al baby playboy di essere il suo compagno di fila all'uscita da scuola. Il piccolo dongiovanni rifiuta, preferendole la piccina Veronica, Chiara, a questo punto, invece di incolpare il bimbetto se la prende con la sua povera amichetta innocente e decide di non essere più sua amica. Veronica, dispiaciuta, il giorno seguente si presenta da te con un sorriso di scuse e un muffin, inutile aggiungere che, magicamente, ritornaste ad essere inseparabili».
Chiara mi dedicò una smorfia a metà tra l'infastidito e il colpevole, Cecilia non le diede il tempo necessario per ribattere, d'altronde anche la saggezza popolare dice che bisogna battere il ferro finché è caldo.
«Autunno 2001, primi giorni di scuola media, test d'ingresso di matematica. Nonostante nessuna di noi sia mai stata un asso in quella materia, quella volta noi tre riuscimmo a strappare un bell'otto mentre tu ti dovesti accontentare di un sei meno meno. Ti offesi, tutt'oggi ignoriamo il perché, e non ci rivolgesti la parola per ben sei ore. La sera ci presentammo da te con una vaschetta di gelato e tu ritrovarsti l'uso della lingua».
Chiara appariva quasi dispiaciuta ora ma in serbo per lei avevamo l'ultima storia e così Veronica prese la parola: « Anno 2008, il nostro liceo decise di indire un concorso di scrittura, il premio sarebbe stato una vacanza studio a Parigi. Partecipaste sia tu sia Gin e fu lei a vincere il viaggio premio. Tu l'acussasti, ingiustamente, di aver imbrogliato e lei furiosa se ne partì per la Francia. Al suo ritorno ti portò un vassoietto di macarons e tu le dicesti che si era meritata la vittoria».
Afferrai il pacchetto di pavesini e glieli porsi: «Mangia e smetti di fare la finta offesa, su!».
Chiara tentennò ancora per poco e poi scoppiò a ridere e si mise a sgranocchiare un pavesino.
Abbracciai Chiara e Cecilia e le sospinsi verso il parcheggio: «Qui ci vuole qualcosa di serio, tutte a casa mia così tra un boccone e l'altro del tiramisù di mia mamma cercheremo di capire se Marco ha un gemello cattivo o una sorta di Mr Hyde».
Eccomi!
Non ho quasi nulla da dire sul capitolo se non che più scrivo questa storia più nascono nella mia folle testolina idee sempre più strambe e potenziali sviluppi delle vicende, che si distaccano profondamente da quelli pensati inizialmente. Chi vivrà vedrà...
Bacioni
S.
P.S. Le recensioni sono sempre gradite :) |
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
«Avvisiamo i gentili passeggeri che siamo in fase d'atterraggio. Sono le 9.25 ora locale, il tempo è soleggiato e si registra una temperatura di 24°».
Aprii gli occhi, svegliata dalla voce dell'assistente di volo, che, uscendo gracchiante dall'altoparlante posizionato sopra la mia testa, mi strappò dal mio onirico mondo.
«Sei ritornata tra i vivi, finalmente», mi voltai e improvvisamente ogni traccia di sonno sparì e presi bruscamente coscienza di dove mi trovassi, perché mi ci trovassi e chi fosse il mio compagno di viaggio.
Mi passai le mani tra i capelli, cercando di dare una parvenza di ordine al cespuglio, simpatico souvenir di sei ore di dolce e profondo sonno, che mi ritrovavo sul capo.
«Tu non hai chiuso occhio?», chiesi chinandomi a recuperare uno specchietto dalla borsa, che avevo malamente incastrato sotto il sedile anteriore al mio.
«No, però mi sono riletto il fascicolo su Natalia Alexandrova e ho scoperto che, con i suoi capricci e le sue pretese, è l'incubo di giornalisti, assistenti e registi» mi informò Alessandro.
Lo squadrai con i miei occhietti assonnati e mi chiesi come fosse possibile che, mentre io sembravo una selvaggia naufraga su un'isola deserta, lui sembrasse un modello di Abercrombie, con la sua camicia immacolata e i capelli perfettamente in ordine.
«Sei un vampiro?», gli domandai curiosa.
Ieri avevamo lavorato fino a tardi e poi eravamo partiti subito, senza avere il tempo di riposarci; quindi o si faceva iniezioni endovena di caffè oppure era Edward Cullen, uomo che aspettavo da sempre, perché, diciamocelo, un uomo indistruttibile, che luccica al sole e che ti scrive ninnananne è il sogno di tutte.
Lui mi guardò stralunato: «Mi dispiace deluderti, non sono un vampiro; sono solo abituato alle notti insonni».
Il brusco impatto con il terreno pose fine alla nostra conversazione. Pochi minuti più tardi l'aereo si arrestò, arrivarono le scalette e le persone iniziarono a sciamare per il corridoio, dirette alle porte d'uscita.
Una signora anziana cercava disperatamente di prelevare il suo trolley dal portabagagli sopra le nostre teste mentre teneva in equilibrio un vassoio, un vaso di fiori e la gabbietta del suo gatto. Alessandro si fece avanti prontamente e aiutò la povera vecchina a trasportare il suo ingombrante e pesante bagaglio; questa, una volta giunti al ritiro bagagli, si aggrappò al collo del mio collega e gli stampò un bacio sulla guancia.
«Giovanotto, sei stato veramente gentilissimo. Sei fortunata, cara Signorina, ad averlo. Tienitelo stretto. Grazie ancora, caro», detto questo, si voltò e si allontanò insieme alla sua piccola montagna di bagagli.
Io e Alessandro ci fissammo per un attimo negli occhi sorridendo e poi distolsi lo sguardo, scrollando le spalle.
«Questo è il paradiso!», esclamai gettandomi a peso morto sul maestoso letto matrimoniale, che troneggiava al centro della stanza.
Strofinai felice il viso tra le candide lenzuola color avorio e sospirai soddisfatta.
«Ancora un po' e ti metti a saltare sul letto dalla gioia».
Mi sollevai, sorreggendomi sui gomiti, e fissai Alessandro, appoggiato contro lo stipite della porta.
«Non è escluso che lo faccia» ribattei sorridendo irriverente.
Lui si avvicinò alla grande vetrata che si affacciava sulla città e poi si voltò: «Sei sempre così?».
Perplessa gli rivolsi uno sguardo interrogativo: «Così come?»
Lui si passò una mano sul viso e in quel momento mi sembrò immensamente triste e stanco e mi venne voglia di stringergli una,mano per rassicurarlo e infondergli un po' di speranza.
Ma come potevo farlo se non sapevo neanche cosa fosse a procurare quella silenziosa sofferenza? Come potevo aiutarlo senza conoscere nulla di lui e di quel muto dolore?
«Nulla, lascia stare», sancì, cambiando discorso «comunque ero venuto qui per definire gli ultimi dettagli dell'intervista di domani».
Le domande erano state stabilite e io e Alessandro eravamo decisi a sfruttare al massimo la mezz'ora che ci era stata concessa.
Poco più tardi l'ingresso di Natalia Alexandrova fu preceduto da uno strillo inumano: «Dove è quella parrucchiera incapace?! Dooove? Stupida donna americana! In testa non ho capelli ma nido di upupa! Se fossimo a tempo di zar sua testa zac!»
Spaventata, guardai ad occhi spalancati Alessandro, che ricambiò il mio sguardo perplesso dalla sfuriata dell'attrice.
Dopo altre urla, insulti e minacce di decapitazione rivolte alla povera acconciatrice, una timida assistente fece capolino da dietro la porta e con un viso terrorizzato ci chiese se eravamo così gentili da attendere per un'altra mezz'ora.
Alessandro parve scocciato ma io mi affrettai ad acconsentire, impietosita dall'espressione della poveretta, che era costretta ad assistere quotidianamente a quegli scoppi d'ira.
«Sei troppo accondiscendente», brontolò lui «è un'attrice, non una divinità egiziana scesa in terra o la reincarnazione di Maria Antonietta».
Gli porsi una rivista di giardinaggio, pescata a caso tra quelle posate sul tavolino vicino a me: «Su pazienta un po'; nel frattempo puoi apprendere come far crescere dei gerani folti e sani e ringraziare di non essere l'assistente personale della Alexandrova».
Lui, sconsolato, iniziò a sfogliare il giornale, che raccontava segreti e consigli per coltivare pomodori e avere una siepe rigogliosa.
Tre quarti d'ora più tardi, dopo che io e Alessandro avevamo scoperto che esisteva un oroscopo floreale e che il suo fiore era il gelsomino e il mio l'iris, la Signora Natalia fece la sua comparsa.
O meglio, una sagoma imbacuccata da capo a piedi entrò nella stanza fiancheggiata da due bodyguard massicci e minacciosi.
Si accomodò di fronte a noi abbaiando: «Katrinaaa! Dove è mio latte di capra? Svegliati, incapace!»
Si sfilò gli occhiali da sole e ci squadrò sospettosa, fissando in particolar modo me, con un'espressione leggermente schifata in viso mentre a Alessandro dedicò un sorriso civettuolo.
«Non mi piace suo abito, troppo corto, da poco di buono» decretò guardando disgustata l'orlo del mio vestito color sabbia, scelto appositamente da Alfie.
Strinsi i denti, cercando di non pensare al fatto che mi avesse appena insultato e dovetti mordermi la lingua per evitare di farle presente che lei, nel suo ultimo film, per quasi la metà della durata della pellicola indossava uno striminzito bikini fucsia con inserti di pelo e piume: il trionfo del cattivo gusto e della volgarità.
Alessandro non si scompose e cercò di ingraziarsela lodando la sua eccellente interpretazione nel suo ultimo film.
Lei lo ringraziò, facendo la finta timida e sbattendo in modo ridicolo le ciglia, cercando, con scarsi risultati, di apparire seducente.
Stanca di quel giochetto domandai: «Bene, possiamo iniziare?»
Il suo sguardo da gattamorta si posò gelido su di me: «Io faccio intervista solo con lui, tu fuori», disse in modo sgarbato.
Prego? Ma nessuno aveva insegnato le buone maniere a questa donna?
Alessandro cercò di trovare un compromesso ma di fronte all'ultimatum 'o l'intervista o la mia presenza' lui cedette e quando venni scortata, fumante di rabbia, fuori dalla stanza lui mi rivolse uno sguardo dispiaciuto e mi sillabò: «Ci penso io».
Irritata ed adirata iniziai a fare avanti e indietro per il corridoio deserto, nel quale ero stata condotta.
Possibile che il successo e la fama fossero in grado di dare alla testa e di trasformare le persone in creature convinte di appartenere ad una casta superiore?
La risposta era sì.
L'esempio lampante era mio cugino Eugenio e sua madre, l'odiosa zia Maria Elisabetta.
Nessuno della famiglia ha mai capito cosa abbia spinto il gioviale e spassoso zio Tiziano a sposare quella donna orribilmente spocchiosa. Le ipotesi più accreditate sono un matrimonio lampo a Las Vegas mentre lo zio era ubriaco oppure una doppia personalità della cara Maria Elisabetta, dolce fidanzatina prima e insopportabile moglie megera poi.
Purtroppo Eugenio, il loro unico foglio, non ereditò nulla dello zio simpatico; anzi è una specie di copia al maschile della madre.
Figlio unico, genitori benestanti con lavori di prestigio, cognome di rilievo, Eugenio era cresciuto con l'idea che ogni essere vivente dovesse adorarlo e così ai pranzi di famiglia cercava in tutti i modi di comportarsi da principino anche con me e Federico.
Purtroppo si sa, l'unione fa la forza, e così finiva che io e mio fratello per smorzare la sua boria lo bombardavamo di pezzi di lego e lui correva a piangere da sua madre che, sprezzante, diceva a mamma che aveva cresciuto due selvaggi. Crescendo era peggiorato ed ora dopo aver preso la laurea solo grazie alle più che generose offerte fatte all'ateneo privato frequentato dal piccolo re, lavorava nell'azienda del nonno, o meglio diceva di lavorare ma in verità rompeva le uova nel paniere a tutti quei poveri operai che dovevano sopportarlo.
Per calmarmi cercai una porta che conducesse all'esterno dell'edificio, dopo aver percorso il corridoio, giunsi in un'ampia sala che aveva una grande terrazza che dominava lo skyline di Los Angeles. Frugai nella borsa pregando di trovarci ancora un pacchetto di sigarette.
Mi accessi una sigaretta e aspirai profondamente, sentendo il fumo grattarmi la gola.
Respirai a pieni polmoni e cercai di calmarmi, mi appoggiai con i gomiti al parapetto che delimitava la terrazza e mi persi ad ammirare il mare che luccicava in lontananza.
«Sei qui, ti ho cercato dappertutto».
Sbattei gli occhi spaventata da quell'interruzione inattesa e mi voltai.
«Com'è andata?», chiesi infastidita.
Lui mi raggiunse e si appoggiò stanco alla ringhiera della terrazza: «Quella donna è folle; durante tutta l'intervista non ha fatto altro che accarezzarmi un braccio e sussurrarmi le risposte all'orecchio e alla fine mi ha congedato lasciandomi le chiavi della sua stanza d'albergo! Come se potessi mai andare a letto con una donna che nemmeno conosco e che, maleducata come poche, ti ha giudicata ed insultata ingiustamente».
Sorpresa gli rivolsi un sorriso grato: «Pensavo non ti importasse di quello che mi aveva detto...»
Lui fissò un punto indistinto davanti a sé: «Me ne sarei andato e ti avrei portato via da quella donna, che ti aveva mancato di rispetto, se non fosse che quelle sue insulse risposte ci servivano per l'articolo», mi guardò e mi sorrise «e per la cronaca, quel vestito ti sta benissimo anche se ti preferisco in verde», conclusa facendomi l'occhiolino.
Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio: «Evidentemente la gente adora darmi della poco di buono, anche il mio ex, dopo avermi tradito, quando venne a sapere che ero andata in vacanza con Francesco mi disse la medesima cosa, aggiungendo che mi ero consolata in fretta. In verità passai dieci giorni a piangere sulla sua spalla».
Alessandro mi cinse le spalle con un braccio e mi strinse a sé e io restai immobile, pietrificata da quel contatto ravvicinato; solitamente mi dava fastidio essere toccata da persone che conoscevo poco ma quell'ombra di abbraccio mi provocò solo gratitudine e un senso di protezione e sicurezza.
«Le persone sono sciocche e parlano decisamente troppo»
Restammo così. In silenzio. Il suo braccio a cingermi e le mie mani sul suo petto. Lo sguardo rivolto al sole che tramontava.
«Alessandro! Guarda in su!», gli afferrai la mano e gli indicai il bellissimo spicchio di luna che capeggiava al centro della volta celeste trapuntata di piccole stelle luminose.
«Meraviglioso. Riusciamo ad andare in un posto buio per vedere bene il cielo?», chiese fissando affascinato verso l'alto.
Percorremmo tutto il viale che costeggiava la spiaggia fino a raggiungere un punto nel quale i negozi e i locali si diradavano e così l'illuminazione diminuiva.
Mi tolsi le ballerine e affondai i piedi nella sabbia fresca, sciolsi i capelli e li lasciai liberi di danzarmi attorno al viso, mossi dalla brezza notturna. Erano gli inizi di marzo eppure c'erano quasi 25° e si stava bene con pantaloni lunghi e una maglia leggera. Ci avvicinammo alla battigia e ci sedemmo vicini.
Quando ero piccola papà, nelle calde notti estive, mi portava sempre sulla collinetta vicina al casale in Toscana e inventava una storia per ogni stella. Mi ricordo ancora della Danzistella, quella che secondo papà era la discoteca delle stelle; diceva che ogni sabato sera questa appariva molto più luminosa e quasi pulsante perché tutte le piccole stelle si riunivano lì per scatenarsi in folli danze. Da piccola adorava le storie di fantasia ed ero capace di restare per ore ad ascoltare, immobile ed in silenzio, le avventure che prendevano vita dalle parole di mio padre.
Mi sdraiai, incurante del fatto che la sabbia si sarebbe infilata tra i miei capelli, e poco dopo Alessandro seguì il mio esempio.
«Guarda là», mi prese la mano e mi indicò un una serie di stelle «quella è la costellazione di Andromeda, non si vede spesso. Il mito dice che la madre di Andromeda, la regina etiope Cassiopea, si vantò di essere più bella delle Nereidi, le ninfe del mare; queste si offesero e chiesero al dio del mare, Poseidone, di punire la vanità della ragione. Poseidone esaudì la richiesta delle ninfe ed inviò un terribile mostro di nome Ceto. Cefeo, marito di Cassiopea, chiese all'oracolo come si potesse placare l'ira del dio; gli fu risposto che doveva sacrificare sua figlia Andromeda. La ragazza innocente venne incatenata ad una rupe per essere sacrificata al mostro marino; Perseo, di ritorno dall'impresa della decapitazione della gorgone Medusa, capitò da quelle parti e rimase colpito dalla fragile bellezza della ragazza, la liberò e la chiese in sposa. Invece quell'altra costellazione è Cassiopea, la vanitosa regina fu condannata a girare in eterno intorno al polo celeste, costretta in alcuni periodi a farlo a testa in giù».
Affascinata ascoltavo rapita quei miti antichi legati a quei corpi celesti ancora più antichi.
Mi voltai e fissai i suoi lineamenti illuminati solo dalla pallida luna.
«Da piccolo adoravo i miti greci e ogni volta che mio padre mi portava nel suo studio perché voleva che imparassi in cosa consisteva il suo lavoro di notaio io di nascosto leggevo per ore libri di miti, al liceo li ho letti in lingua originale e sono ancora più belli».
Sorrisi quasi inconsapevolmente perché nella mente mi figurai l'immagine di un bambino, che nascosto in un angolino di un prestigioso e lussuoso studio legale, leggeva un grosso libro di antichi miti.
«Piacevano anche a me, ma io non ho fatto greco quindi se mi capitava li leggevo in latino», feci una pausa e poi decisi di buttarmi «non sembri una persona snob quindi non riesco a spiegarmi perché, appena arrivato, hai preteso di avere un ufficio personale».
Lui sospirò e si sedette, reclinando il viso e appoggiando la guancia sulle ginocchia piegate.
«Non l'ho preteso, quando torneremo a casa la tua scrivania e quella di Francesco saranno nuovamente al loro vecchio posto e io condividerò con voi l'ufficio», fece una pausa, come se si vergognasse di quello che stava per dire «era tutta una farsa, organizzata in accordo con Alfredo, per ingannare mio padre».
Aggrottai la fronte confusa ed incrociai le gambe: «Non capisco»
Lui fissò il mare e poi continuò: «Mio padre è il notaio Grimaldi, probabilmente il più noto di Milano, e la professione del notaio è una sorta di tradizione di famiglia. Mio papà non ha mai accettato il fatto che io abbia deciso di percorrere una strada differente da quella che lui mi aveva già tracciato. Mi ha sempre dato del perdente e così, quando ha saputo del mio nuovo impiego, ha annunciato che sarebbe venuto per essere testimone della miseria nella quale lavoravo e io non volevo sentirmi dare nuovamente del fallito, non avrei potuto sopportarlo. Mi dispiace, di averti trattato così e di averti dato l'impressione sbagliata».
Gli accarezzai un braccio: «Mi dispiace Alessandro».
Lui si strinse nelle spalle: «Ormai ci ho fatto l'abitudine».
Mi alzai in piedi scrollandomi la sabbia dai vestiti: «Sarebbe meraviglioso fare il bagno in una notte limpida come questa...»
Lui si alzò e si avvicinò all'acqua fino ad immergere i piedi nel mare.
«Non ho mai fatto il bagno di notte, non al mare perlomeno».
«Non è possibile! Ok, allora, adesso lo facciamo; l'intervista l'abbiamo fatta e il nostro compito qui è finito quindi possiamo anche fare una pazzia rischiare di prendere il raffreddore»
Senza aspettare iniziai a sfilarmi i pantaloni e subito dopo la maglia di cotone azzurro che indossavo.
Alessandro mi guardò perplesso e io sentii il suo sguardo percorrere quasi timoroso il mio corpo coperto solo da un completino intimo blu. Arrossii e lo spronai a spogliarsi a sua volta, in modo da porre fine a quello scambio di sguardi che stava risvegliando in me qualcosa che a lungo era restato sopito. Lui si svestì e io non potei fare a meno di scendere con lo sguardo sul suo petto nudo e sulle linee delicate dei suoi muscoli solo accennati. Tra di noi c'era una strana elettricità e io mi ritrovai impreparata di fronte a quella situazione e così, per mettere fine a quel momento di stallo, lo afferrai per mano e iniziai a correre verso le onde, sperando che l'acqua donasse sollievo al mio corpo, preda di vampate di calore, procurate dall'eccessiva vicinanza di Alessandro.
Rieccomi qui!
Dico subito che questo capitolo non mi piace molto ma era da tanto che non pubblicavo quindi ho deciso di postarlo ugualmente anche se non sono soddisfatta. Questo sesto capitolo è dedicato solo a Ginevra e ad Alessandro perchè volevo dare modo a quest'ultimo di emergere perchè poi sarà uno dei personaggi principali.
Lascio a voi la parola :)
Bacini a tutti xx
S. |
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
I due giorni restanti passarono in fretta; tra di noi, dopo le recenti confessioni, sembrava essersi instaurata una sorta di neonata intimità, a cui non sapevo dare nome né interpretazione. O forse non volevo dare un nome a quello che si stava sviluppando silenziosamente e timidamente tra di noi, perché, si sa, spesso denominando le cose, definendole, volendo ridurre a tutti i costi qualcosa di grande e bello dentro una riduttiva e formale denominazione, l'unico risultato che si ottiene è la perdita della magia iniziale. Etichettando i rapporti, gli stati d'animo, le esperienze si finisce solo per veder venir meno la poesia che le rendeva speciali.
Decisi così di vivere l'attimo e di non curarmi di nomi e definizioni; probabilmente Chiara mi avrebbe rimproverato dicendo che il mio atteggiamento era dettato dal timore ed equivaleva al distogliere lo sguardo da qualcosa che mi spaventava troppo e che non volevo affrontare nell'immediato. Cecilia, tutta zucchero e confetti, avrebbe predetto, con occhi a forma di cuoricino, un futuro felice insieme, allietato da tanti piccoli pargoli; mentre Veronica avrebbe riassunto il tutto con: desiderio dettato da astinenza prolungata. Non osai neanche immaginare i probabili consigli di Alfredo e Francesco; il secondo mi avrebbe esortato a portarmelo a letto, divertirmici un po' e poi ciao ciao, chi s'è visto s'è visto, mentre il mio capo mi avrebbe convinta ad essere generosa e a lasciare a lui quello che aveva definito come uno 'squisito bocconcino'.
«Ginny, prova a leggere e dimmi che cosa ne pensi».
Alessandro voltò il computer portatile in modo da mettermi di fronte lo schermo e mi indicò un paragrafo di un documento Word.
Mi concentrai sulle parole scritte fitte e mi sorpresi nel constatare che la mia bozza iniziale non era stata penalizzata dalle aggiunte e dalle correzioni di Alessandro, al contrario, era riuscito, in modo discreto e professionale, a migliorarla e a valorizzarla pur non stravolgendola.
«I lettori ignari, dopo aver letto questo nostro articolo, crederanno che Natalia Alexandrova sia una persona estremamente cordiale e disponibile quando invece è una sorta di Signorina Trinciabue in campo cinematografico», sancii una volta terminata la lettura.
Lui si sfilò gli occhiali dalla montatura tartarugata, che indossava quando lavorava per un tempo prolungato al computer, e mi chiese titubante: «Secondo te abbiamo sbagliato a presentarla in una luce migliore?».
Mi appoggiai allo schienale della poltroncina color tortora della scrivania, situata di fronte alla finestra nella stanza di Alessandro: «No, non credo. Tengo molto alla verità e al riportare in modo corretto e sincero i fatti di cui siamo testimoni e divulgatori, ma ci sono volte nelle quali è meglio abbellire con un po' di tulle e fiocchetti un vestito vecchio e usurato; e questo è uno di quei casi».
«Perfetto. Allora lo invio ad Alfredo», concluse chiudendo il portatile ed alzandosi dalla sedia.
Ogni volta che scrivevo un nuovo articolo ero sempre ansiosa perché avevo il terrore di ferire o offendere, anche solo indirettamente, persone, ideali o opinioni. D'altronde era inutile tentare di annullarsi per scrivere qualcosa di imparziale e obiettivo; le parole portano con sé le esperienze, i sogni e le convinzioni di chi le scrive. Avrei potuto stendere un articolo infarcito di lodi dirette ad una persona che non stimavo ma un lettore attento si sarebbe accorto del leggero velo di menzogna che celava parzialmente le mie vere idee. Alessandro con il suo intervento era riuscito ad appianare i passaggi più aspri e bruschi del mio pezzo, ammorbidendolo. E per una volta appoggiavo questo genere di intervento perché trattare con i personaggi famosi era sempre molto difficile: un passo falso e loro si vendicavano, forti della loro visibilità, in modo meschino.
«Usciamo a cena?», mi domandò Alessandro, distogliendomi dalle mie riflessioni.
Mi alzai e raccolsi il mio bloc-notes e i miei appunti sparsi sul suo letto: «Va bene, così diciamo addio a Los Angeles», mi avvicinai alla porta e prima di uscire aggiunsi, «Vedrò di non impiegarci troppo ma non ti assicuro nulla».
Lo vidi sorridere un momento prima di chiudermi la porta alle spalle, diretta alla mia stanza, situata di fianco alla sua.
«Non urlare!», esclamai dal box doccia rivolta al mio capo pazzoide, «Sei in vivavoce e il mio bagno confina con la sua stanza».
«Mirtillina mia cosa mi combini? Lo sapevo che a Carnevale mi dovevo vestire da Cupido, me lo segno per il prossimo anno. Io ti mando lì per lavorare e tu amoreggi all day long?», mi chiese divertito.
Sbuffai uscendo dalla doccia ed indossando il morbido accappatoio di spugna bianca decorato con il logo dell'albergo.
«Io ho lavorato, tant'è che l'articolo è pronto, e non amoreggiato!», ribattei offesa.
Lo sentii brontolare dall'altro lato del telefono: «La prossima volta facciamo cambio: tu resti in ufficio con un Francesco mestruato e io me ne vado in California con un figone».
«Cosa ha Francesco?», mi informai afferrando il cellulare e portandolo in camera.
Spalancai la valigia e mi misi a frugare alla ricerca di un completino intimo abbinato.
«Ha le paturnie il tuo tesorino. Non capisco perché per lui ti preoccupi tanto mentre a me non chiedi neanche come sto», esclamò offeso.
Alfie era sempre stato esageratamente permaloso.
«Forse perché tu non mi lasci neanche il tempo di dire 'pronto?' e ti lanci subito in un monologo da cui capisco che sei lamentoso e in forma come al solito?», risposi sarcastica.
Lui borbottò e all'improvviso urlò: «Ginevra Letizia Visconti non osare mettere le tue mutandine decorate ad ananas o quelle con le ochette!».
Mi bloccai e fissai gli slip che avevo appena pescato dalla valigia: delle candide papere sguazzavano felici in tanti stagnetti.
Sollevata dal fatto che non stessimo facendo una video chiamata, infilai con aria colpevole e circospetta le mutandine sul fondo della valigia.
«Quelle con le melanzane vanno bene?», domandai per provocarlo.
Lui strillò: «Non provarci! Quelle puoi metterle solo quando ci sono io, melanzana del mio corazon».
Risi mentre mi sedevo sul letto per frizionare i capelli con un asciugamano asciutto.
«Accidenti a te Francesco! Scusa, tesoro, ma lo scocciatore mi reclama. Mi raccomando, metti il vestito che abbiamo comprato insieme. Scarpe nere e niente collane e ciarpame simile. Buona serata!»
Sorrisi immaginandomi quei due insieme senza me a fare da mediatrice.
«Salutamelo. Buona serata anche a voi!», esclamai congedandomi.
Un'ora più tardi un lieve bussare mi distolse dal vano tentativo di raccogliere i miei capelli in un ordinato chignon.
«Entra pure», esclamai lottando con le forcine, che quella sera non ne volevano proprio sapere di stare al loro posto.
«Wow, sono stati sessanta minuti ben spesi», affermò Alessandro non appena entrò e squadrò il mio riflesso alla specchio.
Mugugnai un timido grazie corredato da guance infuocate e subito dopo, in preda alla disperazione, decisi di lasciar perdere qualunque pettinatura elaborata e, dopo aver sfilato tutte le mollette, concessi ai miei capelli di incorniciarmi liberi il viso.
Alessandro sembrò approvare:«Molto meglio: con i capelli raccolti e la tua espressione pensierosa sembri una professoressa di latino, severa e un po' arcigna», esclamò ridacchiando.
«Ehi! Come ti permetti?», ribattei lanciandogli la prima cosa che mi capitò sottomano.
Lui l'afferrò prontamente e lesse con un ghigno divertito stampato sul volto: «Crema anti-cellulite con estratti di bava di lumaca. Credevo fosse una leggenda metropolitana il fatto che mettessero schifezze simili nei cosmetici invece purtroppo è vero e tu li usi anche, bleah!».
Se prima ero arrossita questa volta assunsi una tonalità vicina al bordeaux e mi affrettai a strappargli di mano il prezioso barattolino che costava la bellezza di 35€, ma che aveva effetti portentosi.
«Tra vent'anni io avrò ancora una pelle di pesca mentre tu ti aggirerai sconsolato e pieno di rughe, domandandoti perché all'epoca tu non abbia voluto far uso di magiche creme alla bava di lumaca», asserii convinta.
Non facevo parte di quella folta schiera di donna schiave dei prodotti di bellezza, ma ci tenevo al mio corpo e, pur senza strafare, me ne prendevo cura con creme idratanti e prodotti semplici e naturali. Meglio la bava di lumaca che chissà quale componente chimico sconosciuto no?
«Vedremo, me lo segno sull'agenda questo nostro appuntamento tra vent'anni perché non vorrei che la tua memoria fallace, da donna anziana, ti tradisse», ribatté pronto, dedicandomi un sorrisetto canzonatorio.
Gli rivolsi uno sguardo offeso mentre, in equilibrio su un piede, mi infilavo le mie décolleté preferite, nere con un sottile cinturino che mi cingeva delicatamente la caviglia. Aprii il piccolo portagioie che portavo sempre con me e ne estrassi le semplici perle, eredità di nonna, che adoravo portare perché mi conferivano un'aria di sobria eleganza. Mi lisciai il vestito e mi guardai per l'ultima volta allo specchio.
I lunghi capelli castani con riflessi ramati si snodavano in morbide onde fino a metà schiena, gli occhi verde scuro sembravano più grandi grazie al magico intervento del rimmel, la bocca valorizzata da un sottile strato di rossetto chiaro e infine l'abito, per cui Alfie aveva insistito tanto affinché lo acquistassi, che si stringeva sotto il seno e scendeva morbido in un turbinio di voile color prugna.
Afferrai la piccola pochette e mi avviai verso la porta: «Andiamo?»
Alessandro annuì e mi seguì verso l'ascensore.
Chiusi nel piccolo abitacolo di nuovo provai la stessa sensazione senza nome già sperimentata in precedenza sulla spiaggia.
Era come se inconsapevolmente delle mani invisibili mi spingessero ad avvicinarmi a lui, a ricercare la sua compagnia, a porgli domande solo per poter sentire ancora una volta la sua voce. Se poi si vestiva con camicia bianca e giacca, risultando estremamente affascinante, come potevo io restare lucida?
Una gentile brezza tiepida giocava con i miei capelli e creava nuvole e sbuffi di voile ogni volta che sfiorava il tessuto leggero del mio abito. La città illuminata sotto i nostri piedi continuava a pullulare di vita e a fare da scenario all'esistenza di migliaia di persone. In quell'istante di apparente quiete notturna probabilmente stavano succedendo centinaia di eventi e, come facevo da piccola, mi immaginai la vita delle persone, celata dietro le piccole luci dei palazzi.
Una signora anziana si spegneva sorridendo serena, la mano racchiusa dalla dolce stretta di suo marito, con cui aveva condiviso gioie e dolori per più di cinquant'anni.
Due fidanzati litigavano, frustrati dalla piega che il loro rapporto, logorato dall'abitudine e dagli impegni di lavoro pressanti, aveva preso.
Una mamma guardava il suo bambino compiere i primi passi incerti sul pavimento della loro piccola cucina e pensava, con un velo di amarezza negli occhi, all'uomo che lei aveva amato e che era fuggito di fronte alle sue responsabilità di padre.
Una famiglia riabbracciava dopo anni un figlio, tornato a casa dopo anni passati lontano, alla ricerca di risposte che non aveva trovato in giro per il mondo ma nelle braccia forti di suo padre e negli occhi dolci di sua madre.
E poi c'ero io, su una terrazza al ventitreesimo piano di un grattacielo, lontana kilometri da casa, con un oceano a separarmi da tutto ciò che mi era familiare e in compagnia di Alessandro, uomo che avevo giudicato in modo errato e che inaspettatamente si era rivelato una persona gentile, brillante, ironica e paziente. E poi c'era sempre quella sensazione senza nome che aleggiava tra di noi, invisibile ma al tempo stesso tangibile.
Mi domandai come apparissimo visti attraverso gli occhi di uno sconosciuto: quel filo impalpabile che ci univa era visibile?
«Sono in serate come queste che mi faccio pervadere dalla malinconia e inizio a pensare di essere vecchio», mormorò piano.
Voltai leggermente il volto per riuscire a scrutare la sua espressione leggermente triste e mi persi nell'osservare i suoi lineamenti leggermente squadrati e a pensare a quanto fosse inconsapevole della sua bellezza.
«Andresti d'accordo con mio padre, sono poche le persone che stima e apprezza pienamente ma sono certa che tu gli piaceresti», sorrisi immaginando gli occhi pensosi di papà scrutare quelli melanconici di Alessandro e trovarvi dentro il medesimo sentimento di smarrimento.
Si girò e i nostri sguardi si intrecciarono e io non riuscii in alcun modo a interrompere quel contatto che si instaurò tra di noi e che riaccese quell'ombra di sentimento che albergava dentro di me a mia insaputa.
No, no, Ginevra Visconti, non ci siamo. Non sei pronta per imbarcarti in quella missione suicida che è una storia d'amore. Anche perché non c'era nessun amore tra di noi. No. Assolutamente no. Pura attrazione. Sì, sì, non poteva essere altrimenti. Suvvia lo conoscevo da due settimane e in quei quindici giorni avevo passato la maggior parte del tempo a odiarlo in silenzio, augurandogli di inciampare nella sua preziosa scrivania e di sfracellarsi al suolo.
«Mi piacciono i cactus!», esclamai senza pensare, «Mi piacciono molto perché permettono anche ad una persona come me, assolutamente negata nel giardinaggio, di avere un po' di verde in casa. A te piacciono le piante grasse?», chiesi con un sorriso idiota stampato sul volto.
Complimenti Ginevra, sei veramente la regina del saltare di palo in frasca e del rovinare ogni traccia di atmosfera romantica in due secondi. Come mi era potuto venire in mente di parlare di cactus?
Alessandro distolse lo sguardo, impedendomi così di vedere la sua espressione, e mi rispose calmo: «Domanda insolita. Diciamo che non ho nulla contro questa specie di piante», concluse appoggiandosi alla balaustra.
«Oh ok», mormorai senza sapere cosa dire.
Lui si voltò e mi fissò nuovamente aggrottando le sopracciglia: «Era un test? Una sorta di teoria delle olive rivistata?», domandò confuso dalla mia reazione.
«Teoria delle olive?»
«Mmh, sì. Al liceo la mia ragazza mi ha scaricato proprio per quello. In pratica questa teoria dice che se in una coppia ad uno piacciono le olive e all'altro no allora sono fatti l'uno per l'altro e la loro relazione avrà successo», mi spiegò.
«Interessante, forse è per questo che con Nicola non ha funzionato: entrambi adoravamo le oliva», constatai pensierosa, «A te piacciono?», gli chiesi curiosa.
«Le odio», sancì sorridendo.
«Siamo anime gemelle allora!», esclamai ridendo.
Lui si unì a me e fu incredibile vedere il suo viso abbandonare la tipica piega pensosa e distendersi sereno.
Ci fissammo negli occhi sempre sorridendo e la piccola scintilla familiare ricominciò a scoppiettare nel mio petto.
Senza mai smettere di guardarmi, sollevò una mano e, dopo un lieve tentennamento, mi sfiorò quasi timoroso le labbra. Passò leggero il pollice sul labbro inferiore e io, come incantata dal suo tocco, non riuscii a far altro che avvicinarmi a lui fino a mischiare i nostri respiri e poi fu un attimo, un soffio. Appoggiai esitante le mie labbra sulle sue, senza muovermi, aspettando.
Lui mi cinse la vita e mi attirò a sé, facendo combaciare perfettamente i nostri corpi.
Stretta tra le sue braccia, le nostre lingue intrecciate, mi sentii finalmente serena. Era come se, dopo mesi passati ad essere una mera spettatrice della mia vita, avessi finalmente ripreso il comando delle mie azioni e delle mie emozioni, nuovamente vivide, prepotenti, che esigevano di essere ascoltate.
«Non posso farlo, non è giusto», mormorò sciogliendo il nostro abbraccio, allontanandosi fisicamente ed emotivamente da me.
Presa in contropiede indietreggiai confusa e dopo avergli rivolto un ultimo sguardo mi voltai e lo lasciai solo sulla terrazza.
Le ferite vanno sempre leccate in solitudine o al massimo in compagnia di un barattolo di gelato.
Et voilà!
Eh eh sono o non sono una persona cattiva e guastafeste?
Tranquilli, ricordate che c'è sempre un perché.
Che ne dite?
Aspetto i vostri commenti :)
Un abbraccio,
S. |
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Tornare nel mio ufficio non si rivelò il lieto evento prospettato da Alfredo e da Francesco.
Lavorare fianco a fianco con Alessandro mi procurava sensazioni contrastanti che riuscivo ad arginare solo allontanandomi da quella stanza soffocante. Non riuscivo a capire se in me prevalesse l'offesa di essere stata illusa oppure la curiosità di scoprire cosa lo avesse spinto ad allontanarsi dalle mie labbra.
«Cara GinGin apri al tuo prode cavaliere», gracchiò la voce di Francesco attraverso il citofono.
Sorridendo ciabattai fino alla porta di ingresso che si aprì ancor prima che allungassi una mano verso la maniglia.
«Eccomi qui», esclamò schiacciandomi un bacio sulla guancia.
Mi porse due cartoni della pizza ancora caldi e si sfilò il cappotto scuro e le scarpe.
Mi diressi con il mio prezioso bottino verso il divano, che avevo ricoperto con un telo, ben sapendo che solitamente questi pizza party si concludevano con qualcuno che macchiava la candida pelle color panna del mio sofà.
«Che onore poter mangiare qui», esclamò il mio amico spaparanzandosi sul divano.
«Già, puoi dirlo forte», asserii infagottandomi nella mia amata coperta di pile rosso, «come ricompensa mi basterà mangiare anche metà della pizza».
Francesco afferrò il suo cartone e lo aprì.
«Accontentati delle olive», mi rimbeccò lui divorando un pezzo di pizza fumante.
La teoria delle olive. Alessandro. Los Angeles.
Ho sempre odiato quando magicamente, senza che niente e nessuno gli chieda di farlo, il mio cervello prende l’iniziativa e avvalendosi del metodo delle libere associazioni mentali riporti alla ribalta spiacevoli episodi che avevo cercato in tutti i modi di rimuovere, nascondendoli in un cassetto e perdendone la chiave.
Francesco odiava da sempre le olive e io da sempre mangiavo le olive che lui tanto detestava e avanzava sempre nel piatto. Mi facevano pena, lì sole solette, e così finiva sempre che allungavo la mia forchetta e le infilzavo condannandole ad un destino forse peggiore della solitudine.
Mangiai la mia pizza in silenzio; non ero brava a mantenere un segreto e, non avendo ancora deciso se rivelargli del famoso bacio, preferivo tacere ed aspettare che fosse lui a fare la prima mossa.
Avrei dovuto prevedere che Francesco e il suo dannatissimo ed infallibile intuito sarebbero arrivati più presto del previsto alla conclusione che qualcosa non andava.
«Gin, non hai mangiato le olive che ho avanzato», osservò indicando il suo cartone ormai quasi vuoto, «e non mi hai raccontato nulla del tuo viaggio. Cosa succede?», mi domandò fissandomi preoccupato.
«Fra…tu credi alla teoria delle olive? Credi che se uno le odia e uno le ama, questi formino una coppia perfetta?», chiesi fissando la mia pizza ormai fredda.
Perché mi importava così tanto di quella stupida teoria? Perché dovevo sempre farmi fermare dalle mille paranoie che mi creavo da sola?
«Non lo so e sai benissimo che io, con la mia vita sentimentale inesistente, non sono la persona migliore a cui chiedere ciò», rispose stringendosi nelle spalle dispiaciuto.
«Ad Alessandro non piacciono, proprio come a te…», mormorai appoggiando il capo contro lo schienale del divano.
Francesco non fiatò e pazientò, conscio del fatto che mi serviva tempo e silenzio ma che presto mi sarei confidata con lui.
«Non so cosa pensare; tutto sembrava più bello là e io per un momento mi sono sentita nuovamente felice, felice come non mi sentivo da tanto tempo. C’erano le stelle, c’era il mare e poi c’era lui con questa maledetta storia delle olive e…», chiusi gli occhi ricordando il viso sofferente di Alessandro mentre raccontava di quel padre che lo considerava un fallito, di quel padre che aveva cercato in tutti i modi di ostacolare i suoi progetti, di quel padre che non si era mai comportato da padre.
Quasi inconsciamente decisi di custodire quel racconto doloroso e di non condividerlo con il mio amico, cullandomi nell’egoistica convinzione che fosse un segreto tra me e Alessandro, segreto che andava a rafforzare il pallido filo che già ci univa.
«Gli ho raccontato di Nicola…», ammisi infine.
Sentii Francesco trattenere il fiato sorpreso. Lui, più di tutti gli altri, sapeva quanta sofferenza, quante notti insonni e quanti singhiozzi erano legati a quel nome. Lui sapeva quanto odiassi ritornare con la mente al periodo buio che avevo attraversato lo scorso anno. Lui lo sapeva perché era stato lui a prendermi per mano e a farmi rivedere la luce.
«Cos’è successo poi?», chiese cauto.
Bella domanda. Cos’era accaduto? Nulla. Non era successo nulla e io dovevo smetterla di dare vita a mille idee che poi si agitavano per giorni nella mia testa minando la mia serenità da poco ritrovata.
«Ci siamo baciati, lui si è staccato blaterando che non poteva, che era sbagliato e bla bla bla, le solite scuse da due soldi che inventate voi uomini, e stop», conclusi categorica rialzando il viso e fissandolo in volto.
Francesco mi fissò dubbioso per un tempo interminabile prima di darmi un buffetto sulla guancia ed esclamare sorridendo: «Tanto lo scoprirò prima o poi».
Sbuffai e mi allungai ad abbracciarlo.
A volte mi sorprendevo quasi di fronte all’affetto sconfinato che provavo per lui.
«Noi saremmo una coppia perfetta insieme, indipendentemente dalle olive», mormorai contro il suo collo.
Lo sentii irrigidirsi per un momento dopo la mia affermazione e un attimo più tardi sciolse la stretta che mi tratteneva al suo petto.
«Lo so», sussurrò malinconicamente.
«Non possiamo regalarle un’iguana!»
«Un boa constrictor?»
«Siete pazze?»
«Chiara, che ne dici di un serpente a sonagli?», esclamai indicandole entusiasta lo schermo del piccolo notebook.
«Ottimo!», approvò saltando sul letto e battendo le mani.
Cecilia ci riservò uno sguardo allucinato: «Credo che Veronica apprezzerebbe molto di più una borsa in coccodrillo che un vero rettile!», affermò arricciando il naso di fronte all’immagine del serpente che la fissava dal desktop.
Io e Chiara ci fissammo allibite negli occhi prima di voltarci verso di lei e urlare: «EH?!»
Cecilia era iscritta a GreenPeace, WWF, Lipu e qualsiasi associazione dichiarasse di proteggere e salvaguardare gli animali. Teneva talmente tanto alla sua causa che, probabilmente, se le avessero chiesto di fare una donazione per proteggere le pulci lei l’avrebbe fatta.
Lei si strinse nelle spalle e ci guardò rassegnata: «A volte l’affetto che si prova per una persona è capace di farti trasgredire i principi e le scelte di vita fatte», ci spiegò passandosi nervosa le dita tra i capelli, «E poi diciamocela tutta: Vero impazzirebbe per una borsa o una cintura in vera pelle di coccodrillo».
Non potemmo contraddirla. Veronica lavorava nel campo della moda ed era una stilista alle prime armi. Il suo passatempo preferito consisteva nello scovare in internet offerte imperdibili in grandi store o outlet, raggiungere i posti individuati anche a costo di percorrere chilometri e chilometri di autostrada e fare incetta di ogni capo di abbigliamento presente. Poi, una volta giunta nel suo loft/laboratorio di idee/sartoria/boutique, si divertiva a tagliuzzare, decorare e incollare per fare in modo che semplici abiti insignificanti, prodotti in serie per i grandi magazzini, venissero trasformati in pezzi unici ed originali. E non si poteva negare il fatto che la ragazza avesse gusto.
«Oppure potremmo regalarle dei biglietti per assistere ad una sfilata; se non sbaglio tra poco ci sarà la Milano Fashion Week con la presentazione della nuova collezione autunno inverno», propose Chiara segnando su un foglietto le varie proposte.
«Ottima idea!», assentii convinta cercando su google come procurarsi i biglietti, «Apprezzerebbe moltissimo e potrebbe essere un’esperienza molto utile per lei».
Cecilia si allungò sul letto in modo da sbirciare la schermata del pc da sopra la mia spalla.
«E per quanto riguarda la festa?», chiese la nostra amica maestra, intenta ad abbuffarsi di biscotti al cioccolato.
«Ceci sicura di non essere incinta?», le chiesi scherzando. La sua fame da lupi mi sorprendeva perché solitamente mangiava come un uccellino, come testimoniava la sua figura esile.
Lei cessò all’istante di sgranocchiare il biscotto che aveva in bocca e mi guardò spaventata: «Potrebbe essere un sintomo della gravidanza?», chiese in apprensione.
Ridacchiai davanti alla sua espressione preoccupata: «Sei fidanzata con un medico, direi che potresti chiederlo a lui, no?».
Alberto era un ginecologo e, per quanto potesse risultare imbarazzante, aveva in cura tutto il magico quartetto. A Cecilia non importava ma all’inizio era stata dura convincere me, Veronica e Chiara a farci visitare dalla stessa persona con cui uscivamo in compagnia durante il weekend.
Cecilia si fissò le mani intrecciate tra loro e mormorò piano: «In verità ho un ritardo di due settimane ma non ho osato fare alcun test per accertarmi delle mie condizioni».
Improvvisamente non mi importava più della festa di Veronica. La fissai senza parole mentre Chiara per la sorpresa fece cadere il suo cellulare in terra. Il tonfo del telefono sul pavimento non interruppe quel momento di irreale quiete.
Cecilia forse aspettava un bambino. Forse aspettava un bambino. Aspettava un bambino. Un bambino. UN BAMBINO?!
«Ceci! Ma se fosse vero non sarebbe meraviglioso?», esclamò entusiasta Chiara.
La nascita di un piccolo bebè è sempre un lieto evento, no? Cecilia però non sembrava molto felice, anzi, il suo viso era tutt’altro che allegro.
«Qual è il problema Ceci?», le domandai premurosa.
Conoscevo le mie amiche da più di vent’anni e sapevo decifrare le loro espressioni ancora meglio delle loro parole. Cecilia amava così tanto i bambini da decidere di dedicare loro tutta la sua vita intraprendendo la missione dell’insegnamento. E la tristezza che si leggeva nei suoi occhi era assolutamente fuori posto. Cecilia era provvista di un innato senso materno, a volte quasi soffocante, e che spesso esercitava anche nei nostri confronti o in quelli di Alberto. E la notizia di una sua possibile gravidanza avrebbe dovuto renderla piena di gioia ed aspettativa all’idea di avere un piccolo frugoletto tutto suo di cui prendersi cura. Invece sembrava preoccupata e non faceva altro che accarezzarsi la pancia con lo sguardo fisso nel vuoto.
«Alberto se n’è andato», sussurrò con voce incolore.
Mi congelai sul posto e fissai smarrita Chiara. Noi tre avevamo avuto vite sentimentali caratterizzate da costanti alti e bassi, costellate di storie finite male e forse mai veramente iniziate. Cecilia e Alberto stavano insieme da dieci anni, da quando si conobbero sui banchi di scuola, lei appena quindicenne e lui ventenne. Loro avevano rappresentato un punto di riferimento della mia vita, erano la testimonianza che forse il vero amore esisteva davvero, nascosto da qualche parte nel mondo.
Invece anche il loro amore non era bastato.
«Quando è successo?», chiese in un sussurro Chiara.
Quasi non la sentii tanto la notizia mi aveva colta impreparata.
Non riuscivo a non pensare a quanto, in fondo, tutto ciò che incontriamo lungo il cammino della vita sia fugace e precario. Tutto passa. Passa il tempo e passano anche le persone che hanno significato tanto per noi. Tutto è temporaneo, appeso ad un sottile filo che prima o poi sarà destinato a spezzarsi.
Mi avvicinai a Cecilia, che mai prima d’ora mi era parsa così vulnerabile, e la strinsi tra le mie braccia.
Il suo dolore doveva essere dieci volte più forte e tenace di quello che avevo provato io dopo la fine della mia storia con Nicola, durata solamente due anni.
«Una settimana fa. Ha detto che era stanco di essere trattato come se fosse uno dei miei alunni. Mi ha baciata e, dopo avermi detto che così non poteva funzionare, se n’è andato», mormorò piano Cecilia guardando dritto davanti a sé e stringendo spasmodicamente tra le dita le lenzuola color lilla del letto di Chiara.
Le sollevai il viso e le asciugai le lacrime silenziose che erano scivolate lungo le sue guance: «Cecilia tu, dopo la rottura con Nicola, mi hai ripetuto per settimane che dietro le nuvole c’è sempre il sole. Quindi ora noi facciamo un test per scoprire se presto avremo un nipotino e poi vedremo come aggiustare le cose con Alberto, ok?», le domandai facendole un sorriso.
Non potevamo e non dovevamo dimostrarci deboli; in quel momento Cecilia aveva bisogno di affetto e premure e noi, mostrandoci forti, potevamo aiutarla a rialzare il capo e ad affrontare la situazione.
Lei annuì debolmente mentre io mi alzavo dal letto e mi dirigevo verso l’ingresso, dove avevo lasciato le scarpe e il cappotto. Chiara mi raggiunse rapida.
«Cerco una farmacia aperta. Tu nel frattempo preparale una tisana. Durante il tragitto proverò a contattare Alberto», elencai velocemente mentre afferravo le chiavi dell’auto.
Trovare una farmacia aperta a quell’ora di notte non fu semplice e ancor più difficile fu tentare di mettersi in contatto con Alberto. Lo chiamai tre volte ma non rispose mai, allora, gli mandai un messaggio pregandolo di richiamarmi il prima possibile.
Una volta giunta nuovamente all’appartamento di Chiara, parcheggiai e salii frettolosamente le scale.
«Come sta?», chiesi mentre mi sfilavo il cappotto e lo appendevo all’appendiabiti.
«Sembra calma ma non parla molto», mi rispose lei indicandomi Cecilia, seduta con aria assente sul bordo della vasca.
La raggiunsi in bagno e dopo averle letto le istruzioni sulla confezione la lasciai sola, assecondando la sua richiesta.
Io e Chiara ci sedemmo sul letto in attesa, con gli occhi fissi sulla porta chiusa del bagno.
Non volevo saltare subito a conclusioni drastiche ma la situazione non prometteva nulla di buono.
Cecilia forse era incinta e non aveva un uomo accanto, dato che Alberto aveva scelto il momento meno opportuno per lasciarla.
Uno spiraglio di luce uscì dal bagno e la sottile figura di Cecilia fece capolino dalla soglia.
Teneva gli occhi puntati a terra e si torturava le mani.
Fu un sussurro quasi impercettibile: «Aspetto un bambino».
SURPRISE!
Presto nel cast di Rette Parallele ci sarà una new entry: un piccolo bebè strillante! Questo capitolo è molto molto deprimente e ne sono perfettamente consapevole quindi farò in modo che il prossimo sia più leggero e vivace senza cuori infranti o madri abbandonate. Forse è un po’ corto ma ho avuto poco tempo e mi sono detta che forse, piuttosto che farvi aspettare ulteriormente, era meglio pubblicare questo capitolo sebbene ridotto. Voi cosa preferite? Capitoli lunghi e sostanziosi postati in tempi più lunghi o aggiornamenti rapidi e capitoli meno corposi? Fatemi sapere :)
Sto portando avanti parallelamente due storie e mi sono promessa di scrivere un capitolo di questa ff e uno dell’altra (New Girl per chi fosse interessato :)), in modo da alternarli e da aggiornare rapidamente entrambe.
Niente, che dire ancora? Al prossimo capitolo!
Recensioni sempre moooolto gradite.
Baci,
S. |
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
L'arrivo di un bambino può consolidare un rapporto oppure può spezzarlo definitivamente, soprattutto se si tratta di una relazione fragile.
Cecilia e Alberto erano senza dubbio legati profondamente e noi eravamo certe che presto ci sarebbe stata una nuova piccola famiglia felice a dispetto dei recenti screzi che li avevano allontanati.
A chi piace vincere facile? A tutti probabilmente, tranne che a Cecilia.
Dopo aver scoperto che nel suo pancino, presto destinato ad espandersi e a raggiungere le dimensioni di una mongolfiera, si stava sviluppando un nuovo esserino, era scomparsa per tre giorni salvo poi ricomparire improvvisamente.
«Sono andata dai miei per riflettere e ho deciso che non voglio rinunciare ad Alberto», ci spiegò accarezzandosi quasi inconsapevolmente la pancia, «Però se devo riconquistarlo voglio farlo correttamente, cioè senza parlargli della gravidanza. Vorrei che tornasse da me perché lo vuole veramente e non perché si sente in colpa».
Nessuna di noi osò contraddirla e così Cecilia, convinta che il nostro silenzio equivalesse ad un assenso, cambiò rapidamente discorso iniziando a raccontarci quanto fosse orribile la vita di una donna incinta.
«Oddio che cosa disgustosa!», esclamò schifata Veronica, «Non avrò mai un bambino. Mai e poi mai. Nausea, stazza da balena, gonfiori. E poi quando finalmente arriva il tanto atteso frugoletto, che ha reso un inferno i tuoi ultimi nove mesi di vita, questo inizia a piangere ininterrottamente, a vomitare e a riempire pannolini e pannolini di materiale radioattivo. Mai!».
Scoppiammo a ridere di fronte alla sua espressione corrucciata.
Veronica era sempre stata così: autosufficiente e gelosa della sua indipendenza. Aveva sempre odiato dipendere dagli altri così come non sopportava l'idea che qualcuno potesse dipendere da lei. Probabilmente la spaventava l'idea di poter deludere coloro che in qualche modo si affidavano a lei e così tendeva ad isolarsi e a non lasciar avvicinare troppo nessuno.
«Io invece ti invidio Ceci», disse sospirando Chiara, «Sono certa che con Alberto si sistemerà tutto e presto avrai un figlio. Io invece sono ancora sola e questa mia condizione di zitellaggio non sembra destinata a mutare a breve», terminò sconsolata.
Cecilia la abbracciò stretta e le sussurrò maliziosa: «Mmh secondo me qualcosa cambierà presto...sai com'è con tutta quell'atmosfera pre sesso che aleggia nello studio legale...».
Chiara scattò subito di fronte a quell'insinuazione: «Atmosfera pre sesso?? Al massimo atmosfera pre bellica!!».
Scambiai uno sguardo scettico con Veronica e reclinai il capo in modo da nascondere con i capelli il ghigno divertito che era spuntato sul mio volto.
«Se son rose fioriranno…», mormorai ridacchiando di fronte all’espressione furente della mia amica.
Veronica si alzò in piedi e si infilò il cappotto. «Venerdì sera grande serata al Milky Way! Ho già avvertito tutti perciò l’unica cosa che dovete fare è portare le vostre chiappette dal divano al divanetto del locale. Ce la potete fare?», domandò guardandoci.
Chiara era avvolta nella coperta a quadri fatta dalla nonna di Cecilia, la quale era imbacuccata in un pigiamone azzurro di pile mentre io indossavo la felpa gigante che sul davanti portava scritto a caratteri cubitali il nome del mio vecchio liceo.
Cinque minuti più tardi Veronica ci lasciò e noi tre, nel nostro comodo e confortevole abbigliamento da casalinghe pantofolaie, potemmo finalmente riprendere a parlare del regalo che avremmo dovuto farle e della festa che avremmo organizzato.
«Potremmo sfruttare l’occasione che lei stessa ha proposto: venerdì sera al Milky Way», propose Chiara allungandosi verso il tavolino di vetro posto davanti al divano per afferrare il telecomando.
«Già. In pratica si è inconsapevolmente organizzata la festa di compleanno da sola», constatai ridendo.
«I biglietti vado a prenderli io domani quando finisco a scuola», si offrì Cecilia che subito dopo strappò di mano a Chiara il telecomando dicendo che i programmi di cucina la facevano ingrassare anche solo guardandoli.
«Perché non è ancora arrivato nessuno?», domandò con tono scocciato Veronica. Era da un quarto d’ora che cercavo di trattenerla all’esterno del locale con scuse assurde, aspettando che Chiara mi inviasse l’ SMS che mi autorizzava a far entrare la festeggiata.
Quindici minuti passati a ciarlare di cose senza senso e senza spessore solo per tener a bada l’impazienza di Veronica, che si aggirava senza pace, avanti e indietro, avanti e indietro, senza sosta.
Lo schermo del mio cellulare si illuminò e rapidamente lessi:
Che lo spettacolo abbia inizio!
Presi a braccetto la mia amica e la trascinai verso l’entrata illuminata da tante piccole lucine bianche.
Una volta giunte al guardaroba lasciammo i nostri cappotti e ci dirigemmo verso la tenda di velluto blu notte che separava l’ingresso del locale dalla pista da ballo e dal bar.
«Pronta?», le chiesi sorridendo un secondo prima di scostare il pesante tendaggio.
Lei mi guardò confusa: «Pronta per co-». Non terminò la frase poiché rimase senza parole quando, non appena mise piede nella sala, all’urlo di Chiara “È lei!”, tutti i presenti si voltarono verso di noi e intonarono uno stonato Tanti Auguri.
Veronica lanciò un urletto e sorridendo felice iniziò a salutare tutti i nostri amici salvo saltare, come sempre, mio fratello. Tra Federico e Veronica era stato odio a prima vista. Mio fratello al liceo era stato il tipico belloccio fighetto che nei film americani impersona sempre il ruolo del capitano della squadra di football. Mio fratello non era a capo di nessuna squadra se non della sua cricca, cricca formata da ragazzi tamarri e ragazze tettone, entrambi i generi erano uniti dalla caratteristica di essere privi di cervello. Federico non era stupido, no, era semplicemente vanitoso ed arrogante, desideroso di farsi notare a tutti i costi. Se Veronica avesse a sua volta preso parte ad un film americano ambientato in una High School, lei sarebbe stata sicuramente una cheerleader. Con i suoi lunghi capelli biondi e le sue gambe senza fine aveva, ovviamente, catturato l’attenzione di Federico. Al tempo però Federico era ancora troppo scemo per apprezzare una ragazza provvista di intelligenza oltre che di un bel fondoschiena e Veronica era ancora troppo snob per prendere anche solo in considerazione l’idea di mettersi con un ragazzo che aveva soltanto un anno più di lei. Federico aveva così continuato a saltare di letto in letto, lasciandosi alle spalle una serie di cuori infranti, mentre Veronica usciva con strambi tipi alternativi che navigavano verso i trent’anni. A causa della mia parentela con uno e della mia amicizia con l’altra erano spesso costretti ad incontrarsi, per la gioia di tutti noi, che dovevamo passare la serata a mettere fine ai loro battibecchi infiniti. Nessuno sa se tra loro ci sia mai stato qualcosa, entrambi non ne hanno mai accennato ma quando sono nella medesima stanza aleggia sempre un nonsoché, che ci fa sospettare che tutta questa antipatia e scarsa sopportazione sia in verità solo un bel teatrino messo in scena dai due.
«Grazie! Io non me lo aspettavo proprio», esclamò felice abbracciando Alfredo.
«Ed ora…Champagne!», urlò Chiara facendo un segno al cameriere.
Un’ora e molti cocktails più tardi la situazione era degenerata.
Veronica si era tolta la camicetta di raso bianca, che indossata infilata nella gonna di pelle a vita alta, perché voleva a tutti i costi sfoggiare il reggiseno di pizzo rosso che le avevamo regalato io e le ragazze, ed ora, ballava sfrenata su un tavolino vicino, in compagnia di un ragazzo e di una bottiglia quasi vuota di vodka.
Cecilia era scomparsa quindici minuti prima, almeno credo, con Alberto, che aveva già la camicia slacciata. Facile immaginare in che attività fossero impegnati.
Chiara stava discutendo di debito pubblico e cervelli in fuga con Marco, entrambi però avevano esagerato con la tequila e così più che un dibattito tra di loro stava avendo luogo una conversazione fatta di risolini, parole senza senso sbiascicate e sussurri nelle orecchie.
E poi c’ero io, scalza, al centro della pista, con le mani di Francesco a cingermi i fianchi mentre ballavamo e saltavamo cercando di seguire il ritmo dell’ennesima canzone truzza scelta dal dj.
Abbandonai il capo all’indietro sulla spalla di Francesco e gli sorrisi, guardando il suo viso dal basso verso l’alto. La testa era leggera e l’euforia era aumentata dopo l’ultimo mojito bevuto.
Stretta tra le braccia del mio amico lasciavo che il mio corpo si muovesse libero mentre con lo sguardo percorrevo il perimetro della sala. Il mio sguardo si fermò su un uomo che, dalla penombra, mi fissava. Mi raddrizzai rapidamente e scossi la testa sentendomi sempre meno lucida e sempre più intorpidita.
«Tutto bene Gin?», strillò nel mio orecchio Francesco.
Annui distratto, gli occhi calamitati da quelli dello sconosciuto che non si distoglievano da me. Quasi senza accorgermene iniziai ad avanzare lentamente verso di lui e man mano diminuiva la distanza tra di noi, più aumentava la consapevolezza di conoscerlo. Mi fermai solo quando mi trovai a pochi centimetri dal suo petto.
«Cosa ci fai tu qui?», sibilai cattiva.
Chi lo aveva invitato? Chi gli aveva dato il permesso di fissarmi per tutto quel tempo? Avvertivo ancora la medesima sensazione di vertigine che mi aveva avvolto quella sera sul balcone. La ormai famosa sensazione senza nome che provavo in sua presenza tornò piano piano ad aleggiare attorno a noi, avvolgendoci in una bolla quasi soffocante.
Non me ne resi conto e non sarei del tutto sincera se per quel gesto avventato incolpassi solamente l’alcool. Le mi labbra cercarono le sue e si unirono, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se lo avessimo già fatto altre mille volte. Infilai una mano tra i suoi capelli mentre le sue braccia mi avvolgevano strette e mi schiacciavano contro il suo petto, come per assicurarsi che non potessi sfuggirgli. Ma chi voleva fuggire da lì? Sicuramente non io. Fu lui il primo a staccarsi e con gli occhi che brillavano mi sorrise. Sorrise. A me. E il mio cuore per un secondo cessò di battere per poter ammirare anche lui quel sorriso luminoso. Fu un attimo poi sentii una mano afferrarmi a trascinarmi lontano, sempre più lontano da quel viso perfetto rischiarato da un sorriso altrettanto perfetto.
«Gin che cazzo stai facendo?», mi rimproverò Chiara, obbligandomi a sedere sul divanetto accanto a lei.
La guardai confusa per un attimo prima di distogliere lo sguardo, alla ricerca di quel sorriso, che però sembrava scomparso.
«Stavi pomiciando in allegria con uno sconosciuto!», mi ricordò severa.
Ma non era ubriaca? Perché l’alcool non aveva offuscato il suo lato da mamma chioccia?
«Alessandro», mormorai come in trance fissando l’angolo in penombra dove mi trovavo fino a pochi istanti prima.
«Quell’Alessandro?!», domandò preoccupata scuotendomi per un braccio.
Annui mentre sorseggiavo il cocktail abbandonato da qualcuno sul tavolino.
Chiara mi abbracciò e poi, a tradimento, mi sfilò la cannuccia dalle labbra: «Direi che per stasera abbiamo bevuto a sufficienza…».
Mugolai una debole protesta e la seguii in pista cercando di dimenticarmi di quel bacio e di focalizzare la mia attenzione sulle sue parole: Non posso farlo, non è giusto.
Perché non poteva? Perché non era giusto? Nei confronti di chi non era giusto?
Scacciai dalla mia mente confusa quelle domande insistenti e cercai di svuotare la mente abbandonandomi completamente alla musica martellante.
«Buongiorno piccola zombie!»
Aprii un occhio e subito lo richiusi a causa della luce accecante presente nella stanza. Mi stiracchiai e poi cautamente riprovai ad aprire gli occhi. Davanti a me si stagliava la figura indistinta di un uomo.
«Chi sei?», biascicai con la voce ancora impastata dal sonno.
Mi misi a sedere, tenendo gli occhi socchiusi, e mi passai le mani tra i capelli aggrovigliati.
Una risata cristallina attraversò i vari strati di ovatta che mi circondavano sempre dopo aver preso una bella sbronza.
«Fragolina sei davvero messa così male?»
Ecco. Era bastata la prima parola per fugare tutti i dubbi riguardanti l’identità del misterioso uomo proprietario del letto in cui avevo dormito.
«Grazie al cielo sei tu!», esclamai sospirando di sollievo e provando ad alzarmi da quel morbido giaciglio.
Avevo un terribile mal di testa, le tempie mi pulsavano e dovevo aver dormito con le lenti a contatto.
La mano gentile di Alfie afferrò la mia e mi condusse in cucina, dove mi fece sedere, come se fossi una bambina, al tavolo, davanti ad un vassoio contenente un’abbondante colazione.
Addentai controvoglia un biscotto integrale. Sapevo che il mio capo mi stava fissando, sentivo il suo sguardo preoccupato sulla pelle. «Come ti senti?»
Una fitta alla testa mi fece chiudere gli occhi dal dolore: «Mi sento come se avessi dentro la testa cento elefanti intenti a ballare il tiptap», rantolai mangiucchiando il bordo di una fetta biscottata.
Lui mi sorrise e mi accarezzò dolcemente i capelli: «La soluzione ideale per riprendersi da una sbornia è l’aria aperta! Ora chiamo Francesco e gli dico che passiamo a prenderlo. Anche lui non era messo molto meglio di te…», concluse allegro digitando sul suo IPhone.
«Mi sento un papà con due figli irresponsabili ed adolescenti», trillò contento Alfie fissandoci sorridente attraverso lo specchietto retrovisore.
Io e Francesco, entrambi protetti da occhiali da sole, necessari per mascherare le orribili occhiaie che contornavano i nostri occhi, eravamo stati caricati a forza da Alfredo sui sedili posteriori della sua Bmw.
Non sapevo che ore fossero, non ricordavo nulla del mio ritorno a casa la sera prima e ignoravo la destinazione di quel folle viaggio. Non riuscivo a pensare a nient’altro che non fosse un modo per far fuori quei maledetti elefanti saltellanti che albergavano nella mia povera e dolorante testa.
Francesco, anche lui in semi coma, era di poche parole e molto probabilmente, nascosto dalle lenti scure, stava sonnecchiando.
«Arrivati!», esclamò il nostro capo, con un tono di voce più alto del normale.
Accidenti a lui! Era da quando mi ero alzata che non faceva altro che urlare. Scese rapidamente dall’auto e si precipitò a spalancare la portiera contro cui stava facendo un pisolino Francesco. Quest’ultimo, trovandosi improvvisamente privato del suo appoggio, cadde letteralmente fuori dalla macchina e iniziò ad imprecare a gran voce contro un Alfie gongolante perché era riuscito finalmente a svegliarlo.
Abbandonai il tepore dell’abitacolo dell’auto e scesi nel freddo pungente di quel sabato mattina di metà marzo. Mi strinsi nel mio giubbino grigio e iniziai a camminare avanti e indietro, guardandomi intorno.
Eravamo vicini ad un boschetto da cui provenivano degli schiamazzi.
Alfie ci spinse deciso in direzione degli alberi supplicandoci di essere pazienti e di non deluderlo.
I sempreverdi celavano uno dei miei incubi maggiori: una pista di pattinaggio.
Dove aveva trovato una pista di pattinaggio a Milano ancora aperta a marzo? E soprattutto: come accidenti gli era venuto in mente di portarci a pattinare? Alfie sapeva benissimo quanto fossi maldestra e poco predisposta per qualsiasi attività che richiedesse più di venti passi e che non consistesse nel tragitto letto-divano o casa-auto.
«Tadaaaaan!»
Francesco aveva stampata in viso un’espressione perplessa e continuava a far correre lo sguardo dalla pista ad Alfredo e da Alfredo alla pista, come se stesse cercando il senso di tutta quella follia.
«Venite! Qui ci daranno i pattini…», ci fece segno di seguirlo mentre si dirigeva saltellando verso una casetta di legno posta sul lato sinistro della pista.
Francesco lo rincorse velocemente e lo bloccò, afferrandogli un braccio: «Secondo te il rendermi ridicolo danzando maldestramente sul ghiaccio dovrebbe farmi passare questo costante e martellante mal di testa?», domandò sarcastico, «Io vi guarderò da qui».
Alfie lo ignorò e si rivolse cordiale alla signora paffuta, addetta alla consegna dei pattini: «Un 44, un 43 e un 39. Grazie».
Io sbuffai rivolgendogli uno sguardo di disapprovazione.
«Paperina è inutile che mi guardi così; vedrai, adorerai questa esperienza!», mi rassicurò dandomi un buffetto su una guancia.
«Toglietemi questi arnesi infernali dai piedi!»
«Pisellina, sapevo che non eri una persona sportiva ma non pensavo fossi così…impedita!»
«Alfredo Arnaboldi me la pagherai, fosse l’ultima cosa che faccio prima di rompermi l’osso del collo a causa di uno scivolone sul ghiaccio!», esclamai rivolgendogli il mio miglior sguardo inceneritore.
Francesco, che si era rivelato un pattinatore ancora più scarso di me, mi porse una mano, tentando allo stesso tempo di restare in piedi e di restare attaccato alla balaustra, che segnava il perimetro della pista.
Afferrai la sua mano e tentai di rialzarmi. Ero seduta sul pavimento di ghiaccio da più di cinque minuti e ormai avevo perso la sensibilità del mio povero didietro. Riuscii a sollevarmi di poco ma proprio in quel momento il mio piede destro slittò sulla superficie ghiacciata e io caddi a peso morto. Cadendo, con la mano stretta in quella di Francesco, lo strattonai e lui perse l’equilibrio capottandosi in avanti, ovvero addosso a me.
Mi si mozzò il respiro, schiacciata com’ero dal peso non proprio piuma del mio amico, che si dibatteva peggio di un’anguilla per cercare, senza successo, di alzarsi.
Alfredo, ci raggiunse quasi immediatamente, pattinando leggiadro fino al nostro groviglio di braccia, gambe e pattini. Invece di aiutarci o almeno tentare di farlo, si mise a ridere a crepapelle e, pescato dalla tasca del cappotto il suo telefono, iniziò a fotografarci senza mai smettere di prenderci in giro.
Fu necessario l’intervento di altri due signori molto gentili, che con estrema attenzione ci fecero alzare uno alla volta e ci portarono nella casetta dei pattini, dove ci furono offerte due coperte e della cioccolata calda.
«Alfredo? Sai che ti avevo promesso di presentarti il mio insegnante di yoga? Quello metà orientale, moooolto gay e molto figo? Ecco, scordatelo!», esclamai puntandogli un dito accusatorio contro.
«Alfredo? Sai che ti avevo promesso di rivelarti dove ho comprato quella meravigliosa camicia color verde salvia? Quella per cui ti eri infiltrato in casa mia in piena notte fingendo di essere un ladro, che guarda caso, voleva rubare solo quella camicia? Ecco, scordatelo!», mi supportò subito Fra.
Lui assottigliò lo sguardo e sorridendo ci disse: «Ginevra e Francesco? Sapete che vi avevo promesso un aumento? Quel famoso aumento con cui tu volevi andare un weekend a Londra e tu pagare una rata della tua super meravigliosa e fighissima moto da machoman? Ecco, scordatevelo!».
«Alf! Non puoi giocare sempre la carta del superiore stronzo!», protestò Francesco.
«Infatti, non vale!», gli diedi man forte io.
Alfredo fece una piroetta e tutto contento esclamò: «Oh si che posso! Adoro farlo!».
Non riuscii a ribattere perché fui anticipata dallo squillo insistente del mio telefono.
Un urlo mi perforò un timpano ancora prima che avessi il tempo necessario per dire ‘pronto?’: «Giiiiiin! Alberto mi ha chiesto di sposarlo!».
Buonasera!
Sono tornata con questo capitolo che è uscito differente da come lo avevo preventivato ma pazienza. Allora allora: Cecilia e Alberto tornano a fare i piccioncini, Chiara e Marco, anche grazie ad un aiutino alcolico, sono riusciti a parlare senza che quest’ultima cercasse di far fuori il povero collega, Veronica e Federico, come si è appena scoperto, non si sopportano da…sempre e la nostra Ginevra ha un nuovo incontro con Alessandro. Aggiungiamoci Alfie e Fra, come sempre immancabili, e la notizia finale di questo futuro matrimonio! Risultato? Lascio a voi il compito di giudicare.
Grazie a tutti.
Baci,
S.
P.S. Perdonate gli eventuali errori: non ho avuto tempo di rileggere.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
«Mia madre si è scandalizzata e dopo vari rosari e benedizioni con l'acqua santa ci ha supplicato, anzi sarebbe meglio dire ordinato, di sposarci in fretta», ci spiegò allegro Alberto guardando felice negli occhi la sua futura sposa.
Nella loro casetta aleggiava una gioia contagiosa e nessuno di fronte allo spettacolo di quella coppia innamorata poteva restare insensibile.
Cecilia sarebbe stata così la prima di noi quattro a convolare a nozze.
E il lieto evento avrebbe avuto luogo sul lago di Como tra poco più di un mese.
Non che fossi sorpresa, anzi, avrei scommesso le mie scarpe blu elettrico di Prada che Ceci sarebbe stata la prima.
Di sicuro io e Veronica saremmo state le ultime o non forse non avremmo neanche mai portato una fede all'anulare sinistro.
Veronica amava la sua indipendenza e non avrebbe mai rinunciato ad essa per legarsi in modo definitivo con qualcuno.
E io, bé io non credevo molto nel matrimonio. So benissimo che non si può pensare di costruire una vita insieme pensando già ad un eventuale fallimento e conseguente separazione, ma ero convinta che il legame matrimoniale, pur essendo uno stupido foglio di carta, portasse con sé molti più svantaggi che altro. Matrimonio significava ricoprire d'oro l'avvocato divorzista, abbassarsi a ricatti meschini e litigi infantili per stabilire a chi lasciare cosa.
Ovviamente se un matrimonio funzionava niente di tutto ciò accadeva però i vantaggi dati dal 'vi dichiaro marito e moglie' non erano di molto maggiori a quelli di una semplice convivenza.
In tanti avevano cercato di contraddire questa mia convinzione e di confutare la mia tesi, ma tutti avevano fallito e, di fronte alla mia testardaggine, si erano dichiarati sconfitti.
Veronica lanciò un urlo che squarciò la calma serena del soggiorno illuminato dalla tenue luce del pallido sole di marzo.
«Cecilia! Come posso prepararti un vestito da principessa in così poco tempo?!», domandò disperata passandosi le mani tra i capelli.
I nostri volti da spaventati per il suo grido improvviso si rilassarono e tutti noi scoppiammo a ridere di fronte a quella reazione esagerata.
«Tesoro, la parola chiave deve essere: semplicità», dichiarò sorridendo calma Ceci, «Sbizzarisciti piuttosto nel disegnare gli abiti per le mie tre meravigliose damigelle!», esclamò cogliendoci di sorpresa.
A quella notizia io, Chiara e Veronica lanciammo degli urletti estasiati e ci precipitammo nella sua direzione, sommergendola di abbracci e baci.
«Ragazze andateci piano altrimenti potrei diventare geloso», ridacchiò divertito Alberto.
Veronica tornò a sedersi sul divano e, magicamente, nel giro di pochi secondi, sulle sue gambe si era materializzato un bloc-notes.
«Ceci hai già un'idea? Modello, lunghezza, tessuto, colore?», domandò mangiucchiando il cappuccio della penna a sfera.
Cecilia sorrise e sparì verso la sua stanza.
Due minuti più tardi Veronica teneva tra le mani un ritaglio di giornale e lo osservava attenta, sotto lo sguardo speranzoso di Cecilia, che nel frattempo blaterava ininterrottamente: «So che non è propriamente un vestito da sposa ma vi ricordate? Abbiamo sempre detto che ci saremmo sposate in un abito di Elie Saab. Non posso acquistarne uno perché manca la materia prima ma potrei averne uno simile. Credi sia possibile? Mi piacerebbe fosse bianco con le varie decorazioni sui toni del blu».
«Ovvio che posso farlo cara! Sono o non sono una stilista?», rispose sicura Veronica.
Cecilia lanciò un urletto e le stampò un bacio sulla guancia.
«E per voi tre», sussurrò assottigliando gli occhi, «ho in mente qualcosa di favoloso!».
A nulla servirono le mille moine e i biscotti al cioccolato con cui provammo a corromperla per farci rivelare i suoi piani.
Ce ne andammo verso mezzanotte e io salii in macchina rapidamente. Per essere metà marzo faceva ancora un freddo polare. Accesi il riscaldamento e la radio, canticchiando tra me.
Lo facevo spesso, soprattutto quando dovevo guidare di notte: la musica era un ottimo modo per scongiurare pisolini al volante.
Dopo pochi minuti, grazie alle strade semi deserte, parcheggiai di fronte al mio palazzo e scesi dall'auto.
Attraversai la strada, stringendomi nel cappotto alla ricerca di un po' di calore.
Solo allora mi accorsi della figura seduta sul gradino davanti al portone d'ingresso.
Rallentai e avanzai incerta.
Chi poteva essere? Un senzatetto? Non avevo mai visti in quella zona. Un mio vicino rimasto chiuso fuori? Bastava suonare ad un altro vicino per farsi riconoscere e chiedere di aprire il portone.
Non appena giunsi in prossimità dell'ingresso la figura si alzò e io, riconoscendola, mi bloccai, senza parole.
«Alessandro...», mormorai non credendo ai miei occhi.
Cosa ci faceva a mezzanotte seduto davanti a casa mia? C'erano tre gradi!
«Dovevo parlarti», si scusò lui abbassando gli occhi.
Fissai le sue mani tremanti, le braccia conserte, come a cercare un po' di tepore, gli occhi lucidi.
Sospirai e aprii il portone, scostandomi per farlo entrare.
Il tragitto in ascensore fu silenzioso.
Gli feci segno di accomodarsi sul divano mentre mi sfilavo il cappotto e le scarpe.
«Da quanto tempo eri lì fuori?», chiesi infine, spezzando quel silenzio irreale.
«Dalle otto, forse prima...»
Spalancai gli occhi incredula.
Aveva passato più di quattro ore al freddo e al gelo solo perché doveva parlarmi. Quell'uomo doveva essere pazzo!
«Avrai rischiato di morire assiderato», osservai ancora scioccata da quella rivelazione, «Vuoi una coperta?».
Lui scosse la testa: «Ormai ho freddo fin dentro le ossa. Non importa, alle fine sei arrivata...».
Scossi la testa sempre più incredula, continuava a mettersi in secondo piano, ansioso di parlarmi di chissà che cosa.
Ok, non potevo fingere di non sapere perché fosse lì. Sospettavo riguardasse i due incidenti nei quali erano rimaste coinvolte le nostre labbra.
«Al gelo nelle ossa c'è un unico rimedio: una bella doccia calda», esclamai decisa.
Lui alzò le sopracciglia malizioso e io sbuffai: «Non farti strane idee. Mi sento solo responsabile, in fondo se sei ridotto così è anche colpa mia. Vieni...», specificai, facendogli segno di seguirmi.
Gli indicai il bagno e gli diedi un asciugamano pulito.
«Io sono in cucina», gli dissi lasciandolo alla sua doccia calda.
Riempii il bollitore e lo accesi.
Mi arrampicai su una sedia per riuscire a raggiungere la scatola con le bustine di the.
Sentivo l'acqua della doccia scorrere intervallata da pause, durante le quali la voce di Alessandro, intenta a canticchiare una canzone dei Beatles, raggiungeva la cucina.
Era strano. Quella situazione. Quell'uomo. Quella sensazione che stava provando. Tutto ere insolito.
Avevo passato gli ultimi nove mesi in solitudine, tra cenette veloci e serate trascorse sul divano con coperte e serie tv.
La sola consapevolezza di non essere sola in quell'appartamento mi faceva sentire bene.
Con Nicola tutto era stato veloce: incontro, scintilla, uscite, sesso, convivenza, rottura.
Dopo un mese condividevamo già tutto: appartamento, letto, pranzi.
Forse quella rapidità ci aveva danneggiato, ci aveva fatto perdere la possibilità di godere delle piccole cose, di gustarle pienamente, con lentezza e più volte. Era stata una corsa contro il tempo, ansiosi di raggiungere chissà che cosa. E come quando corri, tutto è sfuocato, i contorni si disperdono e i particolari sfuggono.
Mi mancava però avere qualcuno con cui, mano nella mano, andare piano ed ammirare le tante cose belle che la vita ci avrebbe riservato.
«Grazie mille!»
Mi voltai di scatto e per pochi attimi il mio sguardo restò fisso nel suo.
Distolsi gli occhi rapidamente e portai le tazze di the in soggiorno, dove, dopo esserci seduti sul divano, gliene porsi una.
«Hai una doccia enorme! Occupa metà bagno...», osservò sorridendomi.
Era venuto qui per aprire un dibattito sulle dimensioni della mia doccia?
Il suo comportamento mi disorientava e ancora di più lo facevano i suoi capelli bagnati e la sua camicia leggera, che gli lasciava scoperta una porzione di petto.
«Ho una vera passione per la doccia, se potessi passerei la mia vita lì dentro...», risposi arrossendo.
Non mi ero mai sentita così stupida. Io e la mia patetica passione per la doccia.
«Interessante. Solitamente le persone come passioni hanno la cucina o uno sport. Avrei dovuto immaginare che tu fossi originale anche in questo», mormorò pensoso.
Era un complimento o un insulto velato?
Lo fissai senza ribattere, stringendo spasmodicamente tra le mani la tazza colma di the.
Lui sospirò e si passò le mani tra i capelli, chinandosi poi ad appoggiare la sua tazza sul tavolino accanto al divano.
Lo faceva apposta? I miei ormoni ormai erano impazziti ed ora stavano ballando una scatenata rumba. I suoi occhi erano ancora più verdi del solito, sembravano quasi fosforescenti.
Faceva uso di lenti a contatto colorate? Quel verde era quasi innaturale. Era ammaliante e io ne ero come incantata.
Lui mi sfilò dalle mani la tazza e si avvicinò piano.
Sempre lentamente sollevò una mano e mi mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Senza fretta la sua mano raggiunse la mia bocca e leggera ne tracciò il contorno.
Io ero come in trance; ero frastornata dal martellare assordante prodotto dal mio cuore e dalla tempesta di emozioni aggrovigliate che si stava scatenando dentro di me.
Anche lui sembrava aver deciso che l'andar piano era senza dubbio la soluzione più saggia.
Se fossimo già passati alla fase dello strapparci i vestiti di dosso mi sarei persa l'espressione quasi sognante dei suoi occhi, il leggero tremolio delle sue dita contro le mie labbra e il suo respiro accelerato.
Senza fretta mi avvicinai a lui e, finalmente, passai lieve una mano tra i suoi capelli ancora umidi, fino ad arrivare al collo.
Come se fossero dotate di vita propria le mia mani trovarono autonomamente, senza bisogno di comandi da parte del mio cervello ormai ko, la strada per il suo petto.
Tracciai con le punta delle dita un semicerchio alla base del collo, scendendo pian piano, fino a dove il tragitto non veniva interrotto dalla camicia abbottonata.
Slacciai lentamente i primi due bottoni e continuai il mio cammino lungo quel meraviglioso petto caldo.
Quasi rapita appoggiai i palmi delle mani aperte sul suo petto.
Era bollente. Mi avvicinai e appoggiai le labbra sopra il suo cuore, tra le mia mani.
Mi scostai senza fretta, con l'intenzione di dedicarmi un po' a quell'appetitoso collo solcato da decine di vene azzurrine.
Non raggiunsi mai il suo collo perché le mie labbra si imbatterono prima nelle sue.
Mi fece appoggiare la schiena sul divano mentre lui si allungava sopra di me, sempre senza lasciare le mie labbra.
Mi aggrappai al suo collo cercando di recuperare un po' di lucidità. Era come se stessi naufragando, come se fossi sott'acqua. Ma non c'era altro posto al mondo in cui sarei voluta essere in quel momento.
Allungai pigramente le gambe indolenzite e aprii piano gli occhi, sorpresa di trovare la stanza già invasa dalla luce del sole, filtrata attraverso le persiane chiuse.
La vera sorpresa però fu il corpo a cui ero semi avvinghiata.
Mi sollevai di scatto, come scottata.
«Buongiorno», biascicò Alessandro.
Fissai stupita quel corpo perfetto sdraiato nel mio letto e cercai di riavvolgere mentalmente il nastro.
Ieri sera. Lui davanti alla porta. Doccia. The. Baci e pomiciata bollente sul divano. E poi?
Alessandro si appoggiò sorridente ai cuscini e mi accarezzò una guancia: «Qual è il problema?»
Domanda corretta. Qual era il problema? Mi sentivo bene e, per quanto mi costava ammetterlo, mi era piaciuto svegliarmi in compagnia.
«Alessandro...noi abbiamo...ehm ecco...noi...», balbettai non sapendo se porre una domanda diretta o fare un giro di parole.
«No», mi rispose tranquillo, «Abbiamo deciso di andare piano, una cosa alla volta».
«Ah», mormorai sorpresa.
Quell'uomo era da sposare! Dove lo scovavo un altro che aspettava a fare sesso, nonostante la serata fosse iniziata in modo muy caliente, solo per dar retta alle mie stupide idee sull'andar con calma?
«E poi sono certo che se fosse successo te lo saresti ricordato», constatò ridacchiando malizioso.
Gli diedi un pugno scherzoso sulla spalla: «Presuntuoso! Magari a letto eri stato così noioso che io me ne ero dimenticata...», ipotizzai ridendo a mia volta.
Lui si alzò repentinamente e schiacciandomi contro i cuscini.
«Oh ti posso assicurare che sono tutto fuorché noioso...», sussurrò suadente prima di appoggiare le sue labbra sul mio collo.
Cercai di non farmi trascinare nuovamente in quella sorta di limbo onirico, nel quale scivolavo ogni volta che mi baciava.
«Non abbiamo parlato però...», lo fermai ricordandogli il motivo della sua quasi ipotermia.
Lui si staccò dalla mia pelle mugugnando e mi guardò serio.
«È colpa tua! Sei così bella da costituire una fonte di distrazione continua!», mi accusò imbronciandosi.
Arrossii e mi chinai a posargli un veloce bacio sulle labbra.
«Non sono sposato, non ho figli, ne sono stato promesso sposo a chissà quale principessa quando sono nato», iniziò e, dopo aver visto il mio sopracciglio alzato, si giustificò, «Magari lo avevi pensato! Ti ho già raccontato la triste vicenda di mio padre e del suo schifosissimo snobismo. Gli uomini Grimaldi, oltre ad essere tutti notai, sono tutti sposati a varie contesse o donne con qualche polveroso titolo nobiliare. Al liceo mi fidanzai con una mia compagna di classe, figlia del bidello, alunna del mio liceo solo grazie ad une borsa di studio. Avevamo sedici anni e la nostra era la tipica storiella adolescenziale di poco conto, ma allora, ai miei occhi inesperti, appariva come il grande amore della mia vita. Un giorno la portai a casa, mamma aveva insistito tanto. Mio padre si comportò in modo orribile; la umiliò e si prese gioco di lei e delle umili professioni dei suoi genitori. Io non riuscii a difenderla e non mi perdonai mai questa mia debolezza. Fu allora che iniziai a capire che persona di poco valore fosse mio padre e che la nobiltà d'animo è mille volta più preziosa di quella materiale, frutto di un'eredità», si fermò e chiuse gli occhi.
Strinsi la sua mano tra le sue per infondergli un po' di conforto.
«Per questo ti ho allontanato, per questo sono scappato: per paura di ferirti», mormorò piano.
Afferrai il suo mento e lo costrinsi a guardarmi: «Tu non sei come tuo padre e se mi ferirai non sarà di certo colpa dell'essere suo figlio. Tu sei nobile d'animo», affermai certa sorridendogli.
Lui fece un timido sorriso e io lo abbracciai stretto.
«Queste tue belle parole mi confortano ma non cambiano il fatto che sono figlio di una sorta di essere freddo ed insensibile, da cui voglio proteggerti, almeno finché riuscirò», sospirò triste, «Mamma vorrà conoscerti prima o poi e a lei non potrò dire di no. Lei è una persona luminosa e con questa sua luce ha sempre cercato di limitare la negatività di mio padre».
Doveva essere terribile nascere e crescere in una famiglia, nella quale il padre si comportava da despota e trattata con disprezzo quasi tutti, ritenendoli inferiori.
Pensai con affetto a papà, la creatura più mite di tutta la terra, sempre perso nei mondi che egli stesso creava.
«E tu prima o poi dovrai confrontarti con i coniugi Visconti, ma vedrai che sarà piacevole...»
Lui mi baciò, stringendomi forte tra le sue braccia nude.
«Mmh stiamo già parlando di eventuali presentazioni con i genitori...non avevamo detto di voler andar piano?», mormorò staccandosi dalle mie labbra.
«Ci penseremo più avanti. Ora torna qui», gli sussurrai circondandogli il collo con le braccia.
Il nostro piacevole stretching mattutino fu però presto interrotto dal trillo insistente proveniente dal mio telefono.
Sbuffando mi allontanai da Alessandro e mi allungai ad afferrare il cellulare.
Francesco.
«Scusa un attimo», borbottai.
Feci per alzarmi dal letto ma poi scuotendo leggermente la testa sprofondai nuovamente tra le lenzuola, dove le braccia calde di Alessandro mi accolsero protettive.
Che bisogno c'era di andare in un'altra stanza? Non avevo segreti da nascondere.
«Pronto?»
«Ehila bella addormentata! Il tiranno...ahi!...volevo dire il caro Alfredo è qui con me e vuole sapere se è un caso che sia tu che il nostro bel collega manchiate all'appello»
Merda! Il lavoro!
Scostai un attimo il telefono dall'orecchio e indicai ad Alessandro l'orario scritto sul display.
8.33.
Lui si strinse nelle spalle e ridacchiò.
«Ehm non mi ero accorta fosse così tardi...», cercai di giustificarmi, «Di ad Alfie di considerare il mio ritardo come due ore di richiesta di permessa», Alessandro si indicò e io aggiunsi, «Idem per Alessandro».
Un urlo mi trapanò un timpano.
«È lì con teeee!! Furbacchiona! Vi concedo una giornata di ferie, dillo al tuo bel maschione. A patto che stasera tu mi chiami e mi racconti dettagliatamente e ripeto dettagliatamente ogni cosa, senza tralasciare nulla!», trillò Alfie, che evidentemente aveva strappato il telefono di mano a Francesco.
Sentii Alessandro soffocare una risata nell'incavo del mio collo e sorrisi imbarazzata.
«Alfie guarda che Alessandro è qui e tu sente...»
«Oohhh allora ti lascio e mi raccomando: fagli tutto quello che vorrei fargli io!»
«Alfie!»
«Copulate suvvia! Diventerò zio! Addio cari! Briochina attendo con ansia la tua telefonata!», concluse prima di riattaccare.
Posai il telefono e mi voltai verso Alessandro tentando di scusarmi.
«Mmh non preoccuparti, io direi di seguire i suoi consigli che ne dici?», mi sussurrò piano facendo scivolare una mano sul mio seno.
Mi tuffai letteralmente sulle sue labbra.
Al diavolo la faccenda della calma e della lentezza!
Eccomi qui!
Ieri ho aggiornato l'altra storia e oggi sono già qui con un nuovo capitolo di Rette Parallele, wooo mi sto velocizzando.
Forse dovrei rallentare anche io come propone saggiamente Gin (ok, alla fine cede ma...chi non l'avrebbe fatto? ;) )
Allora allora allora?
Capitolo total Ginevra-Alessandro: commenti?
Sono curiosa di sapere cosa ne pensate.
Bacioni,
S. |
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
La primavera finalmente era arrivata; quella mattina era illuminata da un timido sole ancora pallido e dai primi cinguettii degli uccelli di ritorno dalla loro vacanza invernale.
I deboli raggi si infrangevano contro la vetrata della piccola cucina dell'ufficio disegnando strani disegni di luce sul pavimento lucido.
Fissai pensierosa la città in movimento ai miei piedi e mi versai lentamente una tazza di the caldo.
Io e la caffeina non eravamo mai andati molto d'accordo, forse a causa del mio carattere, già iperattivo di natura, che non necessitava ulteriore agitazione.
Il mio cellulare, posato sul piano in marmo dell'angolo cottura, prese a vibrare.
Chi mi chiamava a quell'ora? Teoricamente stavo lavorando, in pratica quello era il sacro momento inviolabile della pausa caffè. Per me più pausa spuntino che pausa caffè ma la mia volontà di riposarmi per una decina di minuti non mutava.
«Pronto?»
«Gin, so che sei al lavoro ma è una questione di pochi istanti», esclamò agitata la mia amica Chiara.
«Dimmi», la incoraggiai calma: Chiara tendeva ad esagerare ed ingrandire ogni cosa quindi ero abituata ad iperboli e toni tragici.
«L'avvocato Martini doveva partire per il Giappone per sistemare alcuni documenti dei nostri clienti, dirigenti della Toyota. Purtroppo ieri sera non si è sentito bene e, dopo essere andato al pronto soccorso, è stato ricoverato per accertamenti e gli è stato categoricamente proibita la partenza. Invece di rimandare lui ha pensato bene di mandare un'altra persona, cioè Marco, e fin qui tutto bene se non fosse che ad affiancarlo abbia voluto me grazie alla mia ottima conoscenza delle lingue!», concluse senza fiato.
Soffiai piano per raffreddare il liquido ambrato all'interno della tazza.
«È un'ottima occasione no? Potrebbero decidere di tenerti», osservai non capendo, o meglio facendo finta di non capire, quale fosse agli occhi di Chiara il problema insormontabile.
«Lo so, lo so, solo che...dopo la serata in discoteca Marco mi ha chiesto se volevo uscire con lui e bé io...»
«Tu?», la incitai.
«Io non capisco! Prima ci odiamo, poi magicamente iniziamo a parlarci in modo civile, poi addirittura inizia ad uscire con noi e ora...», cercò di spiegarmi confusa.
«E ora, cotto come una mela dopo ore nel forno, ti chiede un appuntamento», conclusi al posto suo, «Dov'è il problema Chia?».
«L'etica professionale! Lavoriamo fianco a fianco e non potrei mai essere così lucida e razionale da non mischiare mai sfera lavorativa e privata. Finiremmo a litigare per qualsiasi cosa! A casa passeremmo il tempo a recriminare gli errori dell'altro in ambito legale e al lavoro, ogni minimo pretesto riguardante la nostra vita privata potrebbe far scattare una lite riguardo alle decisioni di tipo professionale», mi illustrò agitata.
Ah Chiara e i suoi scenari apocalittici.
«Tesoro ancora non siete usciti per il primo appuntamento e già tu immagini una possibile vita insieme», le feci notare ridendo, «Devo mettermi a canticchiare come alle elementari: Chiara è cotta di Marco, Chiara è cotta di Marco?», la presi in giro.
Lei sbuffò: «Immagino tu abbia ragione».
«Come sempre», gongolai soddisfatta.
«Ginevra Visconti devo ricordarti l'episodio del pedinamento?», tuonò minacciosa.
«Ok, ok, mi correggo: quasi sempre».
Quella storia sarebbe rimasta nella top ten delle figure di merda che avevano caratterizzato la nostra amicizia.
Avevamo tredici anni, più o meno, e, come ogni estate, eravamo andate alla casa a Gallipoli dei nonni di Chiara. Un giorno, mentre eravamo in spiaggia, ero andata da sola al chiosco dello stabilimento a comprare una bottiglietta d’acqua naturale e avevo conosciuto Giuseppe, un ragazzo che ci aveva provato in modo spudorato con me. Allora ero ancora una suorina puritana che disprezzava il genere maschile, non che ora io sia una mangia uomini eh, però di sicuro non divento più rossa come un peperone maturo ogni volta che un ragazzo mi rivolge la parole né vado in giro sostenendo che tutti i maschi sono degli idioti, anche se in fondo un po’ è vero. La Ginevra di allora non prese bene quell’impacciato tentativo di rimorchio messo in atto dal ragazzo e il suo cervellino, infarcito di storie romanzate tratte dai gialli che divorava in continuazione, iniziò a ricamare sulla vicenda fino ad arrivare alla conclusione che il povero Beppe era un adesca bambine, che voleva portarla nel suo covo di briganti, approfittare della sua innocenza, ucciderla e banchettare con la sua carne. Effettivamente oltre ad una naturale predisposizione per il macabro la piccola Ginevra aveva anche un amore sconfinato per i miti greci infarciti di tradimenti, incesti e tragedie familiari. Ovviamente esposi le mie supposizioni alle mie amichette e loro mi presero in giro e minacciarono di nascondermi i libri di Agatha Christie, che avevo portato con me. Il giorno dopo Giuseppe venne a cercarmi all’ombrellone e, non appena lo vidi, mi affrettai a scappare in acqua. Si sa che i ragazzini sono facilmente influenzabili e così nel giro di due giorni riuscii a convincere della mia tesi anche Chiara, Cecilia e Veronica. Una sera, con la scusa di una voglia improvvisa di granita, andammo in centro e iniziammo a pedinare il povero Beppe. Lo seguimmo di soppiatto per tutta la sera: prima in gelateria, poi in spiaggia con i suoi amici e infine a casa. Arrivate a casa sua lui ci scoprì perché Veronica si mise a starnutire a causa della presenza di due cani. Quando, stupito di trovarci nascoste tra i cespugli di casa sua, ci chiese cosa stessimo facendo le traditrici confessarono che ero pazzamente innamorata di lui e volevo accertarmi della sua integrità morale. Sì, disse proprio così Chiara: integrità morale. Giuseppe assunse una tonalità bordeaux e mi sorrise timido chiedendomi se mi andava di prendere un bicchiere di limonata e di conoscere sua mamma. Scappai a gambe levate seguita a ruota dalle mie immancabili compari. Ricordo le risate infinite e le prese in giro; «Gin non doveva essere un maniaco?», «Gin io non ho mai sentito di delinquenti che presentano le loro vittime alle madri». Dovetti ammettere che anche io a volte mi sbagliavo e offrire un gelato a tre gusti a tutte e tre. Da allora cercai di essere un attimino più razionale nel dare giudizi ma il vizio di voler avere sempre ragione non lo persi mai.
Salutai velocemente Chiara quando il viso di Alfie fece capolino dalla sogli della porta a vetri.
«Pasticcino, il fatto che tu ora stia insieme ad un bel fustacchione e che sprizzi soddisfazione e appagamento da tutti i pori non ti giustifica sempre e comunque purtroppo», mi rimproverò lui, corredando il tutto con un sorriso canzonatorio, «Tra quindici minuti devi intervistare Gianni Franchi quindi al lavoro! Se fai la brava ti lascio finire prima», concluse facendomi l’occhiolino.
Sbuffai e scuotendo la testa uscii dalla cucina e mi diressi alla mia scrivania.
Alfie continuava ad approfittare della situazione e non perdeva occasione per lanciarmi frecciatine o fare battutine ricche di doppi sensi.
Io e Alessandro cercavamo di ignorarle elegantemente ma lui, se voleva, sapeva essere proprio molesto; due giorni prima era arrivato saltellante da noi e, dopo essersi appollaiato sulla mia scrivania, ci aveva chiesto con fare cospiratore: «Allora è vero quello che dicono? Un’appagante vita sessuale esercita un ottimo influsso anche in campo lavorativo?», corredando il tutto con un falsissimo sorriso candido da bambino nella foto della prima comunione.
Francesco stranamente non trovava molto divertente quella situazione e non appena Alfredo iniziava a parlare della mia relazione con Alessandro se ne andava o si immergeva nel suo mondo, estraniandosi dalle nostre conversazioni.
Avevo notato questo suo strambo comportamento ma non avevo ancora fatto nulla al riguardo, troppo impegnata a godermi la mia bella avventura su una nuvoletta rosa insieme ad Alessandro.
Non stavamo ufficialmente insieme, lui non me lo aveva chiesto e io non volevo fargli pressione, ma in pratica agli occhi di tutti eravamo una coppia a tutti gli effetti.
Era passata una settimana e mezza da quella famosa notte e tutto sembrava procedere bene; stavamo cercando di abituarci alla presenza l’uno dell’altro e a trovare i nostri equilibri.
Veronica sosteneva fossimo in piena fase “piccioncini tubanti” perché continuavamo a ridacchiare, sbaciucchiarci, fare l’amore e dormire insieme, una notte da lui e una da me. Io, come sempre allergica alle definizioni, mi godevo l’attimo cercando di non farmi prendere dall’ansia al pensiero di un possibile futuro insieme.
«Sorellina, posso venire da te stasera?»
Mi fissai i piedi: cinque dita erano già laccate di un rosa perla mentre le altre aspettavano che le pitturassi con lo smalto.
Il mio cervello si mise a lavorare febbrilmente: quella sera dovevo andare a cena a casa di Alessandro. Mi aveva detto che voleva cucinare per me e io non potevo, ok non volevo, dirgli di no.
«Fede stasera non ci sono», mormorai dispiaciuta.
Incastrai il telefono tra l’orecchio e la spalla e mi allungai per passare il pennellino dello smalto sulle unghie dei piedi.
«Uff, da quando sei in modalità luna di miele sei diventata alquanto noiosa!», si lagnò lui.
«Ehi»!, ribattei offesa.
Non ero noiosa, ero solo felice. E ora che avevo trovato qualcuno a cui dedicarmi e con cui passare tutto il mio tempo libero, il mio divano aveva smesso di accogliere rifugiati e cuori infranti.
Quando ero sola tutti i miei amici sapevano che casa mia sarebbe sempre stata aperta per loro e così, almeno due sere a settimana, mi raggiungeva un ospite inatteso, che fosse Veronica con le sue tiritere contro l’anima gemella o Alfredo con le sue lamentela sui pochi gay interessanti presenti a Milano, non ero mai sola.
Ora, Alessandro calamitava tutte le mie attenzioni e io facevo fatica a trovare del tempo per i miei amici.
«Starai là tutta notte?», domandò scocciato.
Perché era così insistente?
«Federico, qual è il problema?»
Lui sospirò sconfitto e infine ammise: «Ho perso una scommessa con Klaus e ora devo togliermi dalle scatole per una notte affinché lui sia libero di, sue testuali parole, “trasformare in realtà tutte le più torbide fantasie sessuali”. Non chiedermi cosa intenda perché non lo so e non lo voglio sapere».
Oddio! Klaus era il coinquilino di Fede da ben sette anni, da quando entrambi erano due matricole spaesate del Politecnico. All’inizio le abitudini del tedesco erano entrate in collisione con quelle del mio fratellino ma, dopo pochi mesi, erano diventati inseparabili compagni di cazzate. Insieme facevano un unico neurone.
«Ti lascio le chiavi nella cassetta della posta. Niente ragazze, niente feste, niente disordine», sancii torva, «Ah e ti manderò la foto della borsa di Michael Kors che mi piace tanto», aggiunsi candidamente.
Lui brontolò un po’ ma dopo vari ringraziamenti, conditi con epiteti poco carini riferiti alla mia mancata ospitalità e al mio essere un’approfittatrice, mi lasciò.
Un’ora più tardi ero pronta. Alessandro aveva detto di adorare il fatto che mi truccassi poco e così mi ero limitata ad una rapida passata di mascara e uno strato leggero di lucidalabbra. Avevo raccolto i capelli in una treccia morbida, che mi cadeva sulla spalla sinistra e lasciava scoperta la scollatura a cuore del semplice abitino bordeaux che indossavo. Infilai i miei adorati stivaletti bassi e il cappottino nero e mi diressi alla porta, dove afferrai il cellulare che, ignorando i messaggi ricevuti, gettai rapidamente nella borsetta a tracolla e uscii, chiudendomi l’uscio alle spalle.
«Benvenuta», esclamò Alessandro aprendomi sorridente la porta del suo appartamento.
Sorrisi vedendo che, sopra una candida camicia dalle maniche arrotolate, indossava un grembiule verde e tra le mani teneva un mestolo.
«Ti manca solo una toque per essere uno chef perfetto», mormorai entrando.
Lui mi afferrò veloce per la vita e mi fece voltare verso di lui: «Signorina Visconti, io sono già uno chef perfetto», asserì stampandomi un dolce bacio sulle labbra.
Gli allacciai le braccia al collo e feci aderire il mio corpo, ancora coperto dal cappotto, al suo. Possibile che le sue labbra avessero quel sapore irresistibile? Avrei passato tutti i minuti dei giorni delle settimane dei mesi degli anni della mia vita a baciarlo se solo avessi potuto.
Fu lui il primo a staccarsi, era leggermente ansimante e mi guardava come se io fossi una torta al cioccolato e lui fosse a dieta da mesi: «Meglio andarci piano altrimenti finisce che non riesco a farti assaggiare le prelibatezze che ho preparato per te, solo che sei così…appetitosa», esclamò lasciandomi un rapido bacio sulla punta del naso e aiutandomi a sfilarmi il cappotto, «Dio Ginny sei splendida, non so se riesco a tener fede a ciò che ho appena detto», mormorò facendo scorrere lo sguardo sul mio corpo.
Arrossii lusingata dal suo complimento e lo presi per mano dirigendomi verso la cucina, dove ci attendeva un tavolino, apparecchiato alla perfezione, decorato con piccole candele bianche.
«Oh ma è meraviglioso», commentai stupefatta.
Lui ridacchiò tornado di fronte ai fornelli per mescolare il misterioso contenuto di una pentola: «Non farci l’abitudine tesoro, ora devo conquistarti ma poi…».
«Poi mangeremo per terra le pizze da asporto?», conclusi scherzando.
Lui si voltò e mi fissò intensamente: «Se ci fossi tu risulterebbe meraviglioso anche mangiare un panino al sapore di cartone nel più triste degli autogrill».
Due passi e le mie labbra stavano già cercando le sue. Lui non perse tempo e mi afferrò sotto le natiche per sollevarmi e farmi sedere sul bancone della cucina. Allacciai le gambe intorno ai suoi fianchi e lo imprigionai vicino a me.
Uno sbuffo ci costrinse a staccarci. Dalla pentola sul fuoco stava fuoriuscendo acqua bollente, allagando pian piano il piano cottura.
Alessandro si affrettò ad abbassare la fiamma e ad asciugare la piastra d’acciaio.
«Niente più contatti fino a dopo cena, ok?», proposi ridacchiando e accarezzandogli la schiena.
«Ginny lo stai facendo anche ora», sospirò piano, «Mi distrai se fai così…».
«Ops», trillai allontanandomi e tornado a sedermi al mio posto.
Pochi minuti più tardi Alessandro mi mise davanti un piatto fumante di pasta al pesto, la mia preferita.
Lo guardai stupita dal fatto che se ne fosse ricordato.
Lui si accomodò di fronte a me e con fare snob mi rimproverò: «Signorina Visconti, lei mi sottovaluta sempre».
Scossi la testa sorridendo e, dopo avergli augurato buon appetito, portai alla bocca una forchettata di trofie.
«Oddio Ale! Sono semplicemente deliziose», esclamai masticando contenta.
Amavo mangiare ed ero sempre stata, fin da piccola, quella che viene definita ‘una buona forchetta’.
La cena proseguì tra ottimo cibo, buon vino e conversazioni leggere.
«Vai pure in salotto che io ti raggiungo con il dolce», mi suggerì lui sfilandomi di mano i piatti sporchi che avevo raccolto dal tavolo con l’intenzione di riporli nel lavello.
Andai in soggiorno e mi accoccolai sul tappeto, che si trovava tra il divano e il caminetto. La prima volta che ero stata lì non avevo resistito alla morbidezza del pelo di quel meraviglioso tappeto blu notte e avevo chiesto ad Alessandro se potevo sedermi sopra di esso e lui ridendo aveva detto che potevo fare quello che più preferivo.
La casa di Alessandro era semplice e non recava traccia dell’opulenza e della ricchezza esibita a tutti i costi che permeava il mondo dei suoi genitori. Era un pochino più grande del mio, con due stanze, un bagno, una cucina ed un salotto. Si vedeva che era abitato da un uomo single perché era piuttosto freddo e impersonale, caratterizzato da colori freddi e ordine quasi maniacale.
«Sapevo che ti avrei trovato lì», mormorò sedendosi accanto a me e porgendomi una ciotolina e un cucchiaino.
Spalancai gli occhi e lo guardai senza parole: «Maaa…»
Lui sorrise e mi fece cenno di assaggiarlo: «Io ci ho provato ma l’esperta di creme brulèe sei tu».
Non me lo feci ripetere due volte. Ruppi la patina di caramello in superficie e mi portai alla bocca un cucchiaino di dolce.
«Mmh è qualcosa di paradisiaco…», mormorai leccando il cucchiaino.
«Smettila Ginny, altrimenti finisce che io mangio te e non il dessert…»
Lo guardai con gli occhi spalancati, fingendo un’espressione innocente: «Di fare cosa?»
Senza aspettare una risposta mi portai nuovamente il cucchiaino alla bocca e lo succhiai piano, guardandolo con aria di sfida.
La sua reazione non si fece attendere; mi tolse dalle mani la ciotolina e il cucchiaino e mi allungò sopra di me, costringendomi ad abbassarmi fino a far aderire la mia schiena al tappeto.
«Sai cosa succede alle bambine cattive?», domandò piano, tracciando leggero disegni astratti dalla mia guancia al collo con la punta del naso. Sentire il suo respiro mi faceva rabbrividire.
«Vuoi punirmi?”, chiesi alzando impertinente il mento.
Lui sogghignò: «Niente più dolce», affermò deciso.
Feci sgusciare rapido un braccio in direzione delle ciotoline abbandonate lì vicino ma lui fu più rapido e mi afferrò i polsi portandomeli sopra la testa e tenendoli fermi.
Iniziò a baciarmi il collo, salendo piano piano fino al viso, dove iniziò a tracciare il contorno della mia bocca, senza mai raggiungerla per davvero, facendomi sbuffare di frustrazione.
Voltai repentinamente la testa e gli morsi il labbro inferiore, succhiai piano le sue labbra, strusciando piano il mio bacino contro il suo, fino a quando riuscii a strappargli un gemito.
«Sai di creme brulèe…», soffiai sulle sue labbra.
Lui invertì le posizioni e sollevò il busto, e io mi trovai seduta sulla sue gambe, circondata dalle sue braccia. Le sue mani corsero alla zip del mio abito e me lo sfilarono delicatamente. Spalancò gli occhi quando si accorse che non portavo il reggiseno e si tuffò famelico sul mio seno. Gettai la testa indietro e sporsi il busto verso di lui e verso la sua bocca che a forza di leccare, mordicchiare e baciare si stava rivelando un dolce ancora più gradito della mia amata creme brulèe.
Feci scorrere le mie mani sul suo petto, dove slacciai impaziente i bottoni della sua camicia prima di sfilargliela e percorrere quella pelle calda in punta di dita.
Mi scostai da lui e iniziai ad armeggiare con la fibbia della sua cintura. Lui mi fece sdraiare e mi baciò mentre mi aiutava a sfilargli i pantaloni, io infilai le dita tra l’elastico dei suoi boxer e la sua pelle bollente e li feci scorrere verso il basso, percorso presto ripetuto dalle mie mutandine. Si infilò rapido il preservativo e lentamente si fece strada dentro di me. Avvolsi le gambe intorno ai suoi fianchi e incollai le mie labbra alle sue, come se fossero l’unica fonte di ossigeno rimasta. Lui si muoveva dentro di me aumentando il ritmo e a me sembrava nuovamente di annegare in un mare di piacere. Fu un turbinio di corpi sudati, parole mormorate, gemiti, urli soffocati, nomi sussurrati. Fu meraviglioso.
«Devo andare», sussurrai percorrendo piano con le dita la linea della spina dorsale di Alessandro.
Lui si voltò stupito e mi chiese contrariato: «Non ti fermi?».
Scossi la testa e mi alzai, recuperando il mio vestito e i miei slip.
«A casa c’è Federico e domattina vorrei salutarlo», mi scusai stringendomi nelle spalle.
Lui si infilò rapidamente boxer e pantaloni e mi guardò freddo: «Ok».
Mi avvicinai e gli accarezzai la guancia sorridendogli: «Vieni tu da me no?».
Lui si rianimò subito e mi lasciò un lieve bacio sulle labbra: «Sto diventando Ginevra dipendente», mormorò sorridendo.
Venti minuti più tardi scesi dall’auto e raggiunsi Ale, che, ovviamente, grazie al suo bolide, era arrivato a casa mia prima di me.
Lo presi per mano e lo trascinai per le scale.
Un attimo prima di aprire la porta mi voltai e gli sorrisi: «Shhh, conoscendolo si sarà addormentato alle otto sul divano, con la tv accesa e una bottiglia di birra…».
Spalancai piano la porta, cercando di non far rumore, e lo spettacolo che ci si parò davanti ci lasciò senza parole.
Federico era si sul divano ma nudo e avvinghiato ad una ragazza.
«Cosa ti avev-», feci per rimproverarlo ma rimasi senza parole quando la ragazza si voltò e mi guardò imbarazzata.
«Veronica?!».
In verità avrei dovuto aggiornare l’altra storia, seguendo la mia regola dell’alternare la stesura dei capitoli, ma non ce l’ho fatta perché mi prudevano le mani dalla voglia di continuare questa! Allora allora allora, cos’abbiamo in questo capitolo? Un accenno alla storia Chiara-Marco, che presto partiranno alla volta del Giappone e chissà che il mondo nipponico non vedrà succedere qualcosa tra i due; un rapido riferimento ad Alfie, arzillo ed impiccione come sempre e al nostro Francesco, che inizia ad avere un comportamento misterioso; ed infine la dimostrazione della mia incapacità di descrivere scene di sesso. A tal proposito mi sto domandando se per caso ho sforato il rating…voi che dite? Non sono stata troppo esplicita ma non si sa mai, quindi, se per voi dovrei alzare il rating e passare al rosso fatemelo presente, grazie :)
E poi, sorpresa delle sorprese (se lo aspettavano tutti in verità), Veronica e il bel fratellino.
Allora cosa ne pensate? Aspetto i vostri commenti!
Bacioni,
S.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
«È solo sesso»
«Solo sesso»
«Cioè non lo avevamo preventivato ma si è trattato di solo sesso senza risvolti o conseguenze»
«Infatti, sono capitata qui ed è successo. Ma è stato-»
«SOLO SESSO?!», strillai esasperata.
La mia mente stava rivivendo in una sequenza infinita e sempre uguale la scena del mio rientro spensierato e dello shock provocato dallo spettacolo a luci rosse che mi si era parato davanti agli occhi.
«Il sesso non è mai solo sesso», sentenziai guardandoli cupamente, «Mai», ripetei per essere sicura che il concetto entrasse in quelle testoline vuote.
Il sesso poteva essere senza complicazioni? No.
O meglio, forse poteva esserlo se succedeva con uno sconosciuto mai visto prima raccattato in un bar quando si è un po' brilli e con cui, dopo aver passato una notte, ci si salutava per sempre. Saluti e baci, chi s'è visto s'è visto.
Certo, se poi eri l'emblema della sfiga e di nome facevi Meredith e di cognome Gray allora, quando scoprivi che la tua avventura di una notte era il tuo superiore, erano cavoli amari.
Ma qui si trattava di Federico e Veronica. Si conoscevano da sempre. Da quando io trascinavo le mie amichette a casa per guardare il Mondo di Patty e sospirare ammirando il poster formato gigante di Zac Efron, trovato quella settimana nel giornalino di Cioè, e Federico, con i suoi amici, nella più buia e terribile fase della pubertà corredata da stupidità acuta, faceva incursione nella mia camera per tirarci le trecce e canticchiare «Le femmine sono delle lagne insopportabili!» e subito dopo scappare nuovamente a rincitrullirsi di fronte alla playstation.
Non era qualcuno che potevi depennare dalla lista dei conoscenti senza porti alcun problema. Anche perché in questo caso il problema ero io, essendo il filo li legava. Da un lato rischiavo di perdere una tra le mie migliori amiche e dall'altro mio fratello.
«Gin, smettila», esclamò sbuffando Federico, «Posso quasi vedere una nuvoletta fuoriuscire dalla tua testa nella quale dentro ci sei tu di fronte ad un bivio: io o Veronica. Non succederà, te lo assicuro», cercò di tranquillizzarmi.
Ma io avevo già assistito a questa scena. Oh sì.
«Il nome Gabriele vi dice niente?», domandai suadente.
Gabriele era il migliore amico di Alberto e faceva parte da sempre della nostra allegra combriccola. Al liceo era fidanzato con una certa Licia la quale però, dopo un anno di università, decise di mollare tutto, paese e ragazzo, e di andarsene all'estero. Lo fece all'improvviso e senza voltarsi indietro. Gabriele non la prese molto bene e diventò una copia cupa e imbronciata del ragazzo sempre allegro e un po' impacciato che era stato in passato. La sfortuna volle che sempre in quel periodo accadesse un'altra terribile disgrazia: la cornificazione con la C maiuscola di Chiara. La poveretta, dopo anni e anni di sopportazione nei confronti di quell'essere lagnoso di nome Umberto, odiato da tutti ma da lei idealizzato e santificato, scoprì il suddetto pezzo di merda a letto con la sua matrigna. Una storia che sembra uscita direttamente dall'Upper East Side di Gossip Girl. I due, abbandonati dai rispettivi partner e con il cuore e lo spirito a pezzi, finirono a letto insieme. Il problema nacque dal significato che essi attribuirono a quella notte. Per Chiara fu semplice sesso fatto in un momento di cupa depressione, per Alberto l'inizio di una grande storia d'amore con l'amica di sempre. Finì malissimo, tra cattiverie urlate e silenzi pesanti come macigni. Nessuno di noi voleva schierarsi e per tutti quanti fu un periodo difficile, durante il quale ogni minima parola poteva scatenare litigi e discussioni. Gabriele risolse tutto trasferendosi a Pavia in pianta stabile e tagliando i rapporti con tutti tranne che con Alberto.
Vidi un lampo di consapevolezza attraversare gli occhi della mia amica la quale subito dopo scrollando le spalle si mise a ridere.
«È andato a studiare a Pavia, ovvio che non sia più uscito con noi», mi fece notare lei.
«Hai detto bene. A Pavia», la rimbeccai prontamente, «Non in Groenlandia o su Plutone»
Federico sbuffò infastidito: «Dicci dove vuoi arrivare e diamo un taglio a questa paternale insensata»
«Paternale insensata?!», strillai inviperita.
Feci un balzo in avanti e lo afferrai per il colletto della camicia allungando l'altra mano per cingere saldamente il polso di Veronica.
«Mi avete scocciato. Volete fare sesso senza porvi il problema che siete amici e complicherete solo le cose? Bene!»
Li spinsi senza molto garbo fino alla porta d'ingresso dove mollai la presa giusto il tempo di afferrare i loro cappotti e lanciarglieli con mala grazia.
Veronica mi fulminò con lo sguardo e lisciò con cura il tessuto color rosso ciliegia del suo prezioso cappotto, «Primo, non trattare mai più così il mio cappotto Dior; secondo, noi siamo tutto tranne che amici; terzo, Gin non fare la santa protettrice del sesso per puro e semplice amore dato che tu meno di cinque mesi fa ti sei fatta alla grande e ripetutamente Francesco!»
Spalancai la bocca ma la richiusi quasi subito, presa in contropiede, non sapendo bene quali parole usare per insultarla.
«Sei andata a letto con Francesco?!»
La voce arrabbiata di Alessandro mi colse di sorpresa. Ecco ci mancava pure lui, non poteva starsene in silenzio e tenersi fuori da tutta questa faccenda come aveva fatto finora?
Fissai Veronica, la quale, presa consapevolezza di cosa aveva appena rivelato in preda alla rabbia, aveva gli occhi che scintillavano di dispiacere e lacrime trattenute, e sussurrai inespressiva: «Andate via»
Voltai loro le spalle e andai a rifugiarmi in bagno. Mi accovacciai sul pavimento, la schiena contro la vasca da bagno, e appoggiai le mani sulle piastrelle azzurrine, rese tiepide da riscaldamento a pavimento ancora acceso. Primavera o non primavera, freddolosa ero e freddolosa sarei sempre stata.
Fissai il cielo scuro al di fuori della finestra, di cui mi ero scordata di chiudere l'anta, e mi chiesi perché proprio io dovevo essere dotata di quella sorta di istinto altruistico suicida, che mi portava a preoccuparmi costantemente delle persone a cui tenevo in modo quasi ossessivo. Potevo risultare fastidiosa ed inopportuna, d'altra parte chi ero per dire ai miei amici cosa era meglio per loro e per rimproverarli? Sarebbe stato molto più semplice scrollare le spalle e lasciarli a sbrogliare i loro guai da soli, d'altronde erano adulti e vaccinati; o perlomeno sul fatto che fossero vaccinati ero quasi certa sulla questione dell'essere adulti nutrivo ancora qualche dubbio. Sarebbe stato più semplice stare in disparte e guardarli fare scelte sbagliate e passi falsi senza intervenire, avendo fiducia nel fatto che avrebbero trovato un modo per farcela da soli. Ma no, la Ginevra impicciona aveva sempre la meglio e così mi pigliavo un sacco di «Gin impara a farti i cazzi tuoi!» piuttosto scortesi e scocciato come ricompensa per la mia apprensione, ai loro occhi assolutamente ingiustificata.
Veronica e Federico non potevano essere la replica della triste vicenda di Chiara e Gabriele. Non avrei tollerato che uno dei due se ne andasse per sempre, recidendo tutti i ponti che lo legavano a noi. Soprattutto a causa di una stupidissima notte di sesso.
Semplice sesso. Ma quando mai?
Un lieve bussare mi distolse dai miei pensieri e mi ricordò che non ero sola nell'appartamento.
L'ultima cosa che volevo era litigare con Alessandro per una cosa avvenuta ancora prima che ci conoscessimo. Una cosa che avevo cercato in tutti i modi di nascondere nel pertugio più oscuro e celato del mio cervello; terrorizzata dai risvolti che quella notte di ottobre avrebbe potuto avere sullo splendido rapporto privo di nuvole che c'era tra me e Francesco.
«Arrivo subito», mormorai prima di alzarmi e avvicinarmi al lavandino e bagnare con un po' di acqua fresca il mio viso stanco.
Nel silenzio più assoluto fissai per qualche istante il mio riflesso nello specchio; il verde dei miei occhi arrossati, quella sera più opaco del solito, le leggere lentiggini accanto al naso, le ombre violacee appena sotto la palpebra inferiore e le labbra screpolate. Per non menzionare i miei capelli, che meno di cinque ore prima stavo pettinando accuratamente di fronte al medesimo specchio e che ora parevano troppo lunghi e troppo spettinati. Sospirai piano e uscii dal bagno.
«Tutto bene?», una mano sollevata delicatamente con l'intenzione di sfiorarmi il viso e uno sguardo carico di preoccupazione.
Non so perché lo feci ma il mio corpo reagì inaspettatamente e si scostò da quella muta carezza, quasi infastidito da quella che percepì come un'intrusione.
Annuii, sempre facendo attenzione a non guardarlo negli occhi, e mi allontanai di qualche passo in direzione della mia camera.
Appena prima di varcare la soglia mi ricordai della presenza alle mie spalle e mi voltai: «Vorrei stare da sola stanotte», sussurrai piano, facendo quasi violenza a me stessa poiché tutto il mio corpo mi urlava che stare da sola era proprio quello di cui non avevo bisogno quella notte.
Vidi il suo volto intristirsi e mi sentii sempre peggio sapendo che allontanandolo non facevo altro che farlo soffrire. Quella sera c'era una quiete irreale, un silenzio denso e pesante, rischiarato solo dalla fioca luce che filtrava dalle ante. E fu in quella sottile penombra che lo vidi accennare un passo verso di me, forse con l'intenzione di toccarmi, consolarmi per un dolore che neanche lui, e forse neanche io, sapeva da dove derivava.
E nella medesima atmosfera immobile e calma lo vidi scuotere impercettibilmente il capo e rinunciare ad avvicinarsi a me. Probabilmente aveva capito che in quel momento ero distante, con la testa affollata da mille pensieri che io stessa faticavo a decifrare.
Una volta rimasta sola mi sfilai il vestito, pallido ricordo della serata appena trascorsa, ma già lontanissima, a casa di Alessandro e indossai il mio pigiama blu con le stelline di pile.
Mi lavai i denti, feci il solito giro di controllo in tutte le stanze, assicurandomi che le ante fossero chiuse e le luci spente, e detti una carezza a Isidoro, che dormiva pacifico e beato in cucina.
Rannicchiata nel letto mi domandai quando era successo che fossi diventata così malinconica. Ero sempre stata una persona vivace e briosa, non essendo mai stata un'amante di drammi e piagnistei avevo sempre cercato di non lasciarmi andare alla mestizia e allo sconforto. Cercavo di reagire, di fare qualsiasi cosa pur di non permettere all'avvilimento e allo scoraggiamento di influenzarmi e compromettere la mia personalità di sua natura spensierata.
Mi rigirai senza sosta nel letto, che non mi era parso mai così grande e così vuoto, nell'illusione di vedere arrivare il tanto agognato sonno.
Dopo un'ulteriore mezz'ora di pensieri sempre più depressi e demoralizzanti scalciai via le coperte e balzai in piedi.
La radiosveglia mi informava che erano le due e cinquantatré di mattina. Benissimo!
Infilai rapida il mio orribile paio di Ugg di camoscio marrone, rifugio antiestetico ma deliziosamente caldo per i miei piedini. Coprii il mio pigiamone con il montgomery blu e dopo essermi assicurata che tutti gli alamari fossero ben allacciati e che la sciarpa gialla mi avvolgesse per bene il collo partii alla volta del mio personalissimo elisir di buonumore.
Francesco mi aveva dato una copia delle sue chiavi di casa dopo che, una notte di un lontano dicembre di ben tre anni fa, avevo ricevuto la lettera che mi annunciava che ero stata scelta per il progetto Erasmus e che otto mesi più tardi sarei partita alla volta di Amsterdam, e, in preda ad una gioia incontenibile e piuttosto molesta, avevo scampanellato alla sua porta verso le due di notte, impaziente di metterlo al corrente della lieta novella. Dopo ripetuti tentativi e nessuna risposta avevo iniziato a preoccuparmi perché nel pomeriggio mi aveva assicurato che sarebbe andato a dormire presto in vista della giornata di studio che lo aspettava il giorno seguente. Avevo provato a chiamarlo sul cellulare più e più volte non avendo più fortuna.
Il mio famoso istinto altruistico molesto sull'impiccione andante aveva iniziato a farcire la mia testolina di scenari raccapriccianti che mi portarono ad un'unica soluzione: chiamare il 118 e allertare i vigili del fuoco.
Fu così che, dopo aver abbattuto la porta blindata dell'appartamento, facemmo irruzione nella sua stanza da letto dove trovammo un ignaro ed addormentato Francesco con i tappi nelle orecchie e una tazza mezza piena di camomilla ormai fredda sul comodino.
In verità avevo anche una copia delle chiavi di casa di Chiara e Veronica. E ovviamente quelle di Alfie, che mi sfruttava in modo vergognoso ogni volta che partiva per i suoi viaggi di lavoro affinché non facessi morire di fame Coco, Yves e Valentino, i suoi tre pesci rossi, e innaffiassi le sue piantine sul balcone. E di mamma e papà. Più quelle del trilocale di Federico e Klaus, il perché le possedessi ancora mi sfuggiva. In pratica possedevo un mazzo di chiavi con un peso che si aggirava attorno ai tre kg e che apriva le porte di mezza città.
Dopo il breve tragitto in auto, Francesco abitava poco lontano da me ma fare una passeggiata a piedi da sola in piena notte non era propriamente la cosa più raccomandabile per una donzella indifesa e in pigiama come me.
Cercando di fare meno rumore possibile zampettai in punta di piedi di fronte a Gaspare, il portiere notturno che sonnecchiava allegramente con tanto di rumori sinfonici come accompagnamento, e mi infilai nell'ascensore.
Il suo appartamento si trovava all'ultimo piano di un elegante palazzo abitato perlopiù da single in carriera, coppie benestanti e famigliole con mocciosi piagnucolanti e iper viziati e tate francesi.
La chiave girò silenziosa nella toppa e finalmente il meraviglioso soggiorno di Francesco mi accolse silenzioso e in penombra.
Adoravo quell'appartamento e il modo in cui il mio amico lo aveva reso suo. Non assomigliava neanche lontanamente allo stile impersonale e freddo che imperversava nel salotto di Alessandro. Perfetto e da rivista di arredamento si, ma assolutamente poco originale e anonimo. Partendo dalle pareti dipinte di un delicato grigio tenue e arrivando alle ampie vetrate che occupavano la facciata a sud e assicuravano luminosità e calore tutto il giorno non c'era nulla di banale e scialbo. Il soffitto, essendo la casa all'ultimo piano, seguiva la pendenza del tetto e donava alla stanza un aspetto raccolto e intimo. L'ampio divano chiaro e la poltrona a sacco rosso accesso, mio posto fisso quando passavamo i pomeriggi a leggere tranquilli e indisturbati, si trovavano proprio di fronte ad un delizioso caminetto, che Francesco e Alfie avevano imparato ad accendere guardando un video tutorial su YouTube e incendiando le frange del tappeto persiano che una volta ricopriva il pavimento della sala. E poi, meraviglia delle meraviglie, la libreria imponente che era la regina indiscussa della stanza. I ripiani inferiori erano occupati dai numeri passati della nostra rivista, accuratamente riposti in ordine cronologico, poco sopra riposavano tranquille decine e decine di dvd e cd, ed infine i reparti superiori erano riservati ai libri.
Dopo aver fatto un salto nella poltrona rossa, giusto per assicurarmi che sprofondasse sotto il mio peso nel solito modo, mi sfilai gli stivali da Yeti e il cappotto e quatta quatta a passi felpati mi appropinquai alla stanza da letto.
Francesco dormiva tranquillo a pancia in giù, un braccio a penzoloni giù dal letto e il viso per metà nascosto dal cuscino.
ECircumnavigai il letto facendo attenzione a non inciampare in qualche cosa e così facendo non mi accorsi dell'angolo del letto contro cui il mio povero, piccolo ed indifeso mignolino del piede sinistro andò violentemente a collidere.
Altro che stelle. Grazie a quel dolore improvviso feci un tour assai sgradito nell'intera Via Lattea.
«Cazzo che male!», strillai saltellando sul piede sano e tentando di massaggiarmi delicatamente la povera falange ferita.
Un fruscio di lenzuola e uno scricchiolio di doghe di legno mi fece voltare verso il letto da dove due occhi mi fissavano spalancati.
«Ehm...ciao Fra», mormorai imbarazzata sventolando una mano nella sua direzione, mano però che prima tenevo saldamente ancorata alla maniglia dell'armadio per far si che la mia posizione da fenicottero non mi facesse perdere l'equilibrio.
Nel giro di due secondi, ancora non capisco bene come e cosa sia successo, mi sbilanciai e finii spiaccicata a terra.
Quando osai riaprire gli occhi trovai la testa di Francesco che sbucava dal letto, lo sguardo irrisorio e il sorriso a stento trattenuto.
«Ciao a te GinGin», esclamò lui rinunciando poi a fare la persona seria e lasciandosi andare in una risata liberatorio.
Gli rivolsi un'occhiata assassina e mi massaggiai la testa dolorante per la botta ricevuta. Mi puntellai sui gomiti e dopo essermi assicurata di essere ancora tutta intera in un unico movimento mi alzai e mi gettai a peso morto sul letto accanto al mio amico ancora intento a prendersi gioco di me.
Ignorandolo bellamente, gattonai fino alla testata del letto contro cui mi accasciai semi sdraiata. Scalciai il piumone in modo da poterci infilare sotto le gambe mezze congelate.
Francesco mi raggiunse e si rinfilò sotto le coperte anche lui. L'uomo stufetta ovviamente dormiva senza maglietta, forte del sue sangue finlandese.
«Non dirmi che anche bardata con quella tuta da palombaro hai freddo», constatò alzando gli occhi al cielo nel vedermi tirare la trapunta fino a sotto il mento.
«Taci», bofonchiai sprofondando ancora di più sotto lo spesso strato di coperte.
Due secondi più tardi, al semplice gesto di spalancare le braccia di Fra, ero già accoccolata contro di lui. Probabilmente nel momento esatto in cui entrai in contatto con la sua pelle bollente la mia temperatura corporea fece un salto di cinque gradi.
«Sto meditando di toglierti la copia delle mie chiavi...», borbottò appoggiando piano il mento tra i miei capelli.
«E se ci fosse un attacco alieno e tu, sotto l'effetto narcotico di un'overdose da camomilla, restassi qui ignaro del pericolo, senza alcuna possibilità di essere avvisato dato che sei stato così idiota da ritirarmi le chiavi di casa tua, e venissi usato come cavia per generare dei nuovi ibridi cyborg con cui la specie aliena governerebbe il mondo e darebbe la caccia agli umani tra cui me?», chiesi tutto d'un fiato.
«Ho sempre sognato di essere un cyborg indistruttibile e di avere la possibilità di farti tacere una volta per tutte usando un raggio laser ultra letale. Credo proprio che seguirò il tuo consiglio a ti ritirerò le chiavi», mi rimbeccò allegro.
Stupido maschio appassionato di fantascienza.
«Tu sai vero che anche se mi uccidessi io tornerei sotto forma di spirito a ripeterti quanto sei cretino per il resto dei tuoi giorni?», gli domandai candidamente, «Sai, non vorrei mai che te ne dimenticassi...»
«Allora spiegami perché sei abbarbicata al petto del suddetto cretino alle tre di notte», mi rispose alzando un sopracciglio.
Touché.
La cosa curiosa era che io mi stavo ponendo il medesimo quesito da più di mezz'ora e ancora non ero giunta ad una risposta soddisfacente.
Non volevo stare sola ma non volevo Alessandro al mio fianco in quel momento, nonostante fosse il compagno perfetto. Sempre attento e premuroso. Dolce ed appassionato. Allora qual era il mio problema? Trovavo l'uomo dei miei sogni e fuggivo da lui a gambe levate.
Probabilmente mamma aveva ragione quando da piccola aveva ventilato l'opzione che fossi leggermente disturbata e dopo che le confessai che andavo sempre a chiacchierare con Emilio, il coniglietto nano, morto da mesi e sepolto in giardino, perché era un ottimo ascoltatore. Molto silenzioso soprattutto.
«Mi mancavi», bofonchiai strofinando la guancia contro il suo collo caldo.
Una risata incredula ruppe il silenzio, «Proprio ora? E negli ultimi dieci giorni?»
Ovviamente aveva ragione; avevo replicato quello che facevo sempre quando iniziavo una nuova storia: mi ero estraniata. Totalmente immersa nel mio nuovo mondo fatto di Alessandro e solo Alessandro avevo trascurato le persone che più mi volevano bene.
Mi sollevai e gli diedi un bacino sulla guancia: «Mi dispiace», mormorai mogia mogia, guardandomi le mani.
Un dito raggiunse il mio mento e mi costrinse ad alzare lo sguardo e a fissarlo nei suoi occhi così sfacciatamente blu. Accidenti a lui e ai geni finlandesi! Aveva delle ciglia foltissime e delle leggere rughette ai lati delle palpebre. Sollevai una mano e le sfiorai piano sorridendo tra me e me pensando a quanto a volte fossero le piccole imperfezioni a donare quel qualcosa in più che rendeva un viso bellissimo.
Per un attimo nei suoi occhi mi parve di scorgere un'ombra di smarrimento, come se, preso alla sprovvista, non sapesse come reagire. Passò in un lampo e pensai di essermelo immaginato perché Francesco sapeva sempre come comportarsi e cose fare, soprattutto se si trattava di una donna e di una camera da letto.
E questo pensiero da dove saltava fuori?
Scrollai la testa e lasciai cadere la mano, interrompendo il contatto.
«Cos'è successo?»
Piegai la testa stanca e presi a percorrere con un dito la leggera greca geometrica ricamata sull'orlo della federa del cuscino.
E così gli raccontai tutto. Dall'insolita ed esagerata reazione che avevo avuto con Veronica e mio fratello ad io che allontanavo Alessandro. Gli riferii anche il riferimento che la mia amica aveva fatto a noi due e alla notte condivisa mesi prima. Francesco nel sentire quel particolare non si scompose e non lasciò trapelare nulla e io pensai tristemente che probabilmente per lui non aveva significato nulla. Cosa a dire il vero più che corretta dato che, quando ci svegliammo e scoprimmo lucidi e alla luce del sole cosa avevamo fatto, decidemmo si fosse trattato di una piccola deviazione dalla strada maestra, alias la via retta fino a lì percorsa, che dovevamo raggiungere nuovamente al più presto.
«Probabilmente mi hai contagiato e mi sto trasformando in una stronza con i fiocchi», conclusi mesta.
«Hei, io non sono stronzo!»
Sollevai il mento guardandolo di traverso e nascondendo un sorrisetto, «Ah no? Allora dimmi: dov'è Marzo?»
Lui si strinse nelle spalle e bello come il sole mi rispose tranquillo, «Liquidata prima della fine del mese. Non sopportavo più il suo cane topo del cazzo. Lo portava ovunque, persino nel letto e in doccia»
L'espressione scandalizzata dipinta sul suo volto era assolutamente spassosa.
«Vorrei ben sperare che tu abbia cambiato le lenzuola...», lo presi in giro sollevando con finto disgusto un angolo del tessuto di cotone blu in cui ero avvolta.
Lui mi dedicò una delle sue migliori smorfie.
«Penso di aver o bruciato o sterilizzato qualsiasi oggetto e superficie sfiorata da quella specie di aborto canino»
«Pensa che stavo proprio valutando se regalarti un chihuahua per il compleanno...»
«Se vuoi mettere fine alla nostra conoscenza...», mi rispose minaccioso lui.
«Fantastico! Domani corro a prendere il piccolo cucciolo», ribattei facendogli una linguaccia.
«Tsè! Come faresti senza di me?»
E aveva perfettamente ragione.
***
La mattina seguente fui svegliata dal chiacchiericcio allegro proveniente dalla cucina e dall'odore penetrante di caffè appena fatto. Mi stiracchiai nel letto dalle coperte stropicciate, il cui lato occupato da Francesco era vuoto, e sorrisi. Mi sentivo molto meglio e avevo una voglia incredibile di iniziare con il piede giusto quella giornata.
«Buongiorno cara!», trillò Tuulikki, la mamma di Fra, con il suo solito buonumore contagioso.
Era sempre biondissima e luminosa come la ricordavo, avvolta in un morbido vestito di lana azzurro pastello che la faceva assomigliare ad una sorta di regina delle nevi.
«Salve Tuuli! Come stai?», risposi allegramente baciandola sulle guance.
Mai osare darle del lei se non si voleva essere tramutati in polaretti dalla signora.
«Benissimo! Ti trovo un po' pallidina tesoro, colpa di quello sciagurato di mio figlio?», mi chiese premurosa accarezzandomi i capelli e scoccando un'occhiata da raggelarti il sangue nelle vene al mio amico.
Bè se io ero pallida allora la signora, con il suo incarnato da fatina nordica, era cadaverica. Peccato che a lei quell'incarnato chiaro donasse e la facesse rilucere come se fosse di alabastro mentre io sembravo una malata terminale.
Francesco posò con malagrazia la scatola di latta dei biscotti sul tavolo e borbottò offeso, «Perché deve sempre essere colpa mia?»
La signora Tuulikki piroettò graziosamente su sé stessa per poter allungare un indice minaccioso nei suoi confronti, «Perché sei figlio di quell'idiota, scemo, imbecille e rincitrullito di tuo padre!»
«Mamma, vorrei ricordarti che è tuo marito...», le fece notare Fra, per nulla turbato nel sentire tessere lodi così elevate sul conto di suo padre.
Io ne approfittai per avvicinarmi al piano cottura e versarmi una tazza di caffè.
«Ah già...», mugugnò Mamma Tuulikki contrariata.
Adoravo quella famiglia. Il papà di Francesco era un medico oculista con la passione per il giardinaggio e una inclinazione a dimenticarsi tutte le cose più importanti, soprattutto quelle ordinategli dalla moglie. Tuulikki invece faceva l'architetto e le sue creazioni erano alquanto estrosi, per non dire incomprensibili ed oscure a tutti tranne alla sua fantasiosa mente. Vivevano in una stramba villa appena fuori Milano a forma di fungo, ovviamente progettata da Tuulikki, che secondo lei doveva assomigliare ad una creazione di Gaudì ma che ricordava solo le case dei Puffi. Battibeccavano sempre e ogni volta il tutto si concludeva con il papà di Fra, che dedicava una nuova specie di rosa alla moglie chiamandola Tuulikki MCLXII (litigavano spesso e le rose che portavano il suo nome erano ormai assai) e lei che gorgogliava felice «Annibale sei un idiota!» e gli baciava la testa pelata.
«Niente caffè! Il tuo latte con il Nesquik è nella tua tazza con il maialino», mi rimproverò Francesco, sfilandomi di mano la tazza che stavo per portare alle labbra e sostituendola con l'altra.
«Francesco Nyyrikki smettila di fare il prepotente!», lo mise in riga subito la cara mamma.
Io gli dedicai un sorrisetto diabolico e prima di raggiungere la signora al tavolo, nel passargli vicino, gli sussurrai in un orecchio: «Quando mi sento giù mi basta ricordare che tu di secondo nome fai Nyyrikki e subito le mie disgrazie sembrano bazzecole in confronto...»
In quel momento si sentì un tonfo fuori dalla parte seguito da una serie di mugolii di sofferenza. Ci fissammo negli occhi allarmati e feci per alzarmi seguita da Francesco, quando Tuulikki ci fermò alzando una mano e borbottando, tra un sorso e l'altro di thè, «Non scomodatevi. Sarà solo Annibale che fa il suo circo per farmi sentire in colpa per avergli chiesto di portarti due cosette...»
La porta si spalancò e una pila di borse, sacchetti e scatole dotata di un paio di gambe fece il suo ingresso. La montagna vivente di pacchetti e pacchettini a quanto pare era dotata di parola dato che si mise a strillare in direzione di Tuulikki.
«Maledetto il giorno in cui misi piede sul suolo finlandese e mi innamorai delle tue chiappe nordiche!»
«Mamma! Due cosette?!», domandò Fra, che stava rischiando di soffocarsi con un pandistelle.
Dopo diverse manovre coordinate e l'intervento di tutti i presenti, tranne Tuulikki che ovviamente si rifiutò di dare retta a suo marito, finalmente il volto accaldato e la capoccia pelata del Signor Annibale si palesarono.
«Ginevra! Che piacere rivederti!», esclamò gioviale abbracciandomi, «Sempre cieca come una talpa?»
«Anche più del solito. Chiedi al suo mignolo sinistro...», ridacchiò quell'idiota di Francesco, prontamente raggiunto da un rapido ma ben assestato scappellotto di Mamma Tuulikki.
«Annibale dove hai parcheggiato?»
«Cara, dove c'era posto cioè a chilometri da qui...», sbuffò Annibale, il quale, prevedendo saggiamente una filippica in arrivo da parte della moglie la bloccò sul nascere, chiedendomi: «Mi fa così piacere sapere che c'è almeno una figura femminile nella vita di quello sciagurato di mio figlio che duri più di due settimane»
«Ancora con questa storia del figlio sciagurato?! Non sono sciagurato!», sbottò Fra.
«Sciagurato taci e lascia parlare tuo padre che finalmente sta dicendo la prima cosa sensata da un anno a questa parte!», lo zittì sua madre.
Non sapendo bene cosa ribattere sorrisi ad entrambi sperando di tenerli buoni.
«Frequenti qualcuno?»
Occhi fissi su di me ed espressioni curiose.
«Ehm si...», mormorai non sapendo bene chi dei due guardare.
Su entrambi i volti vidi passare un'ombra di delusione subito celate da sorrisi cortesi.
«Come mai allora sei rimasta qui a dormire?», mi chiese candidamente Tuulikki.
Cercai con lo sguardo Francesco lanciandogli il tipico sguardo da HELP ME!
«Si è chiusa fuori di casa da sola stordita com'è...»
Francesco santo subit- EH?! Stordita a chi???
«Oh. Bè, cara, puoi anche trasferirti qui. Ho portato talmente tanti deliziosi piatti finlandesi che potreste tranquillamente sopravvivere per un anno senza uscire di casa», ci sorrise materna.
«IO li ho portati», precisò Annibale scoccando un'occhiata di traverso alla moglie.
«Caro, hai detto qualcosa?», lo ignorò lei.
***
Un'ora più tardi facevamo il nostro ingresso nella redazione del giornale. Francesco impeccabile come sempre, solo delle leggere ombre sotto agli occhi a testimoniare la notte non propriamente rilassante che aveva avuto. Io infagottata in un paio di jeans che fortunatamente dovevo aver dimenticato secoli fa da lui e una sua camicia infilata nei pantaloni per evitare che mi arrivasse quasi alle ginocchia. Ai piedi avevo i miei Ugg. Praticamente sembravo una-
«Barbona! Oddio, c'è un clochard nel mio ufficio. Copritevi gli occhi colleghi cari, non vorrei mai che questo insulto alla moda e al buon gusto vi danneggiasse le retine!», Alfie fece la sua apparizione, teatrale come sempre, «Francesco, l'hai recuperata da un cassonetto? O oggi è la giornata mondiale dei senzatetto?»
«Ginny?», Alessandro, allertato dallo sciocco melodramma di Alfredo, ci aveva raggiunto nell'atrio antistante il nostro ufficio.
«Aspetta aspetta! Quella è una camicia da uomo! Furbacchiona!», starnazzò l'idiota che fece per voltarsi tutto ringalluzzito verso il viso cinereo che io stavo già fissando.
Alessandro aveva lo sguardo rivolto verso di me, o meglio verso quella maledetta camicia.
«Peccato non sia mia», mormorò incolore prima di darci le spalle e tornarsene da dove era venuto.
È passato tantissimo tempo da quando ho aggiornato questa storia e so benissimo che qualsiasi scusa o giustificazione non basterebbero a spiegare i quasi dieci mesi intercorsi tra gli ultimi capitoli ma non riesco a capire perché d'estate sono piena di inventiva e voglia di scrivere mentre d'inverno sprofondo svogliata in un mondo fatto di coperte calde, cioccolata calda e lettura ma non scrittura. E pensare che ora dovrei studiare. E anche tanto ma ho le mani che prudono perché voglio continuare le mie storie o più in generale scrivere. Ginevra mi mancava e così tutti i suoi amici perciò eccoli di nuovo in pista. La prima parte del capitolo non piace neanche a me ma non sono riuscita a fare di meglio. Che ne pensate? Pareri, commenti e critiche sono sempre i benvenuti!
Bacini,
S.
(se ci sono errori non esitate a farmeli presenti, grazieee) |
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Un
tiepido sole faceva capolino dalle
nubi e i suoi raggi si riflettevano sulla vetrata posta come parete del
mio
ufficio.
O
forse sarebbe stato meglio dire nostro
ufficio.
Le
mie otto ore lavorative non mi
erano mai sembrate così lunghe. Avevo scritto ben due
articoli senza mai
staccare gli occhi dallo schermo del computer e solitamente io due
articoli li
scrivevo nell'arco di una settimana, se andava bene ed ero ispirata
altrimenti
anche dieci giorni potevano servire. Oltre a molte suppliche e promesse
di
regali futuri ad Alfie, giusto per fargli indorare la pillola senza
troppe
lamentele riguardo al mio essere una procrastinatrice seriale.
Avevo
evitato come la peste la saletta
caffè con annessa la piccola cucina ed ero andata in bagno
molto
frequentemente, troppo frequentemente. E a quanto pare sembrava se ne
fossero
accorti tutti dato che all'ennesima pausa pipì Fabrizio mi
aveva fissato
preoccupato e informato dell'esistenza di pannoloni appositi per
persone
incontinenti.
Poi
avevo cincischiato per mezz'ora
alla fotocopiatrice, facendo mille copie inutili di un fascicolo
altrettanto
inutile, giusto per temporeggiare.
Infine,
stremata dai miei continui e
patetici tentativi di sfuggire ad Alessandro, mi ero rifugiata
dall'unica
persona in grado di salvarmi.
«Non
mi serve nulla che non sia in
questo edificio al momento», mi spiegò Alfredo, lo
sguardo fisso sul tablet che
teneva posato sulle gambe, «A parte il maestro del mio corso
serale di tango,
l'ultimo modello dei mocassini Ferragamo e un Warhol originale da
mettere in
salotto. Ah, e una di quelle deliziose palafitte alle Maldive in
usufrutto da
qui alla mia morte. Ma non credo tu possa aiutarmi e procurarmi nessuna
di queste
cose...»
«Quanto
costano i mocassini?»
Il
mio capo lasciò perdere
all'istante qualunque cosa stesse combinando con il suo iPad e
alzò lo sguardo
preoccupato, «Sei davvero così disperata?»
A
quanto pareva si. E tutto per colpa
della mia infantile paura del confronto e delle discussioni. Sapevo
benissimo
quanto il mio comportamento fosse immaturo e molto spesso esagerato ma
non
riuscivo a fare a meno di comportarmi come una sciocca bimbetta che ha
paura di
essere messa in punizione. Questioni spinose, problemi irrisolti,
malintesi da
chiarire: ero una maga nell'evitarli. Come ci riuscivo? Facile:
sparendo,
sviando il discorso, rimandando la questione e scavandomi da sola una
fossa
sempre più profonda. Eh sì, perché
solitamente se uno, quando si viene a trovare
in una posizione scomoda e soprattutto equivoca, non fa altro che
fuggire a
gambe levate invece di provare a chiarire la propria posizione non pare
quasi
voglia ammettere implicitamente la propria colpa? La fuga e il silenzio
solitamente sono accolti come una tacita ammissione. E nel mio caso era
quella
maledetta camicia la tacita ammissione. A dire il vero non tanto tacita
dato
che mi pareva di essere uno di quegli uomini sandwich, stretta tra due
cartelli
pubblicitari, recanti la scritta in stampatello, giusto
perché non sfugga a
nessuno: TRADIMENTO.
E
il mio silenzio fu preso per una
conferma anche da Alfredo che, dopo aver sospirato, si alzò
e mi si avvicinò
cauto.
«Parlagli»,
mi esortò accarezzandomi
i capelli, «Hai davanti a te due opzioni ma in entrambi i
casi lui si merita la
tua attenzione. Lascia a Francesco la parte dello stronzo...»
Sbuffai
sonoramente.
Da
quando era diventato un saggio
dispensatore di consigli seri?
Sapevo
perfettamente che aveva
ragione solo che...solo che nulla, Ginevra!
Avevo
trovato l'uomo perfetto e dopo
meno di un mese io e i miei inutili folleggiamenti stavamo
già per mandare
all'aria tutto.
Per
cosa poi? Per una notte a dormire
con Francesco? Cioè, facciamo le persone serie: io e
Francesco? Va bene
l'amicizia, va bene scolarsi una bottiglia di tequila in sua compagnia,
va bene
mangiare schifezze sdraiati davanti al suo caminetto con lui, va bene
litigarci
perché io voglio vedere per l'ennesima volta Gossip Girl e
lui The Walking Dead
con la sua fissa assurda per gli zombie, va bene tutto ma una storia
d'amore
mai in mille anni.
«Hai
ragione»
Ripetere
prego? Sì, esisteva sempre
una prima volta nella vita, ed era giunto l'umiliante momento in cui
ammettevo
che, probabilmente per qualche astrusa combinazioni di astri o passaggi
di
pianeti e lune, Alfie aveva detto una cosa ragionevole.
«La
Rinascente, secondo piano,
Salvatore Ferragamo, mocassini di camoscio color tortora, codice:
791359,
quattrocentotrentasette euro»
Ecco,
fine della saggezza e del buon
senso. 437€?!
Potevo
dire addio al mio regalo
mensile. Peccato perché avevo già adocchiato un
meraviglioso vestitino a
corolla azzurro di Moschino.
«Ok,
te le porto più tardi a casa»,
mormorai abbatacchiata, facendo calcoli frenetici per cercare di far
entrare
nel mio precario bilancio mensile sia l'abito che i mocassini.
«Tu,
piuttosto di parlare con
Alessandro e spiegargli che non è successo niente stanotte,
saresti disposta a
spendere quella cifra per comprarmi delle scarpe? Scarpe
meravigliosamente
lavorate e rifinite ma...», mi bloccò lui
incredulo, lo vidi aggrottare la
fronte come per sforzarsi di capire cosa non funzionasse nel mio
cervello,
prima di chiedermi incerto, «Perché non
è successo nulla, vero?»
«Certo
che no», esclamai
precipitosamente.
Fortunatamente
no, altrimenti altro
che la Rinascente e cinquecento euro, mi sarei fatta spedire alle
Maldive a
scegliere di persona la palafitta per Alfie, spendendo tutti i miei
risparmi,
prima di annegarmi in quelle acque cristalline in preda ai sensi di
colpa.
«Sai
cosa devi fare», e con questo mi
congedò spingendomi fuori dal suo ufficio.
Feci
ritorno alla mia scrivania
facendo ben attenzione a fissare qualsiasi cosa che non fosse il viso
di
Alessandro.
Il
pavimento era sempre stato di
quell'orribile color magenta? E quella piccola macchia di
umidità nell'angolo?
Quando era spuntata?
«Gin,
vieni a vedere!»,
la voce entusiasta di Francesco mi
distolse dalla contemplazione delle foglie tristi e flosce della
piantina
accanto alla vetrata.
Feci
il giro della sua scrivania e mi
sporsi sopra la sua spalla per leggere quello che mi stava indicando
sullo
schermo del computer.
«Sono
o non sono una persona
meravigliosa?»
«Non
lo sei», lo rimbrottai
sovrappensiero, divisa tra la gioia procuratami da quello che stavo
leggendo e
il senso di colpa che mi attanagliava nel percepire lo sguardo
perforante di
Alessandro, a pochi metri da dove mi trovavo, fisso su di noi.
«Non
ho fatto in tempo ad acquistare
i due biglietti che due secondi dopo era già tutto sold
out»
Non
so dove trovai il coraggio di
sollevare lo sguardo e fissarlo in quello di Alessandro.
«Fra,
non credo verrò», mormorai
senza distogliere l'attenzione da quegli occhi così verdi da
sembrare
fluorescenti.
«Stai
scherzando?», sbottò incredulo
girandosi a guardarmi, «Ma se fino a una settimana fa dicevi
che eri disposta a
chiedere un giorno di ferie solo per stare a casa, incollata al pc, ad
aspettare che aprissero le prevendita dei biglietti?»
Lo
sapevo. Lo sapevo benissimo. Ma se
prima di oggi avrei ucciso Isidoro e venduto i suoi reni al mercato
nero degli
organi felini in cambio di un pass per il Festival di Glastonbury.
Acciuffai
il mio cappotto e recuperai
la borsa. Aprii il mio raccoglitore rosa alla ricerca di un documento
su cui
avrei potuto lavorare a casa e lo infilai in una busta plastificata.
Fatto ciò
marciai decisa fuori da quell'ufficio asfissiante consapevole di avere
due paia
di occhi puntati alle spalle che mi fissavano sconcertati e di essere
terribilmente infantile.
***
Tre
tazze di thè caldo, cinque
pasticcini e ottocento euro più tardi stavo decisamente
meglio.
Il
vestito di Moschino era
assolutamente un capo irrinunciabile. Avevo provato a resistere, ci
avevo
provato sul serio, lo giuro sulla testa del mio povero gatto
decerebrato. Avete
presente Ulisse e il canto ammaliatore delle sirene? Ecco, io non avevo
alcun
caro amico disposto a legarmi all'albero maestro di una galera e ad
offrirmi
morbida cera malleabile con cui rendere le mie orecchie insensibili a
quei
richiami tentatori.
E
ora stavo finalmente bene, seduta
ad un tavolino della pasticceria super leziosa alle spalle del Castello
Sforzesco che serviva thè aromatizzati al lampone e macarons
dai mille colori
dell'arcobaleno. Fissavo serena le persone indaffarate che passavano
rapide di
fronte alla vetrina del locale, la presenza rassicurante delle mie due
preziose
borsine targate Moschino e Ferragamo al fianco.
La
soluzione a tutti i problemi
risiedeva nell'ignorarli.
Esattamente
come stavo facendo io con
il mio telefono, il cui schermo non smetteva di illuminarsi e la cui
spia
lampeggiava impazzita, decisa a catturare la mia attenzione e a farmi
capire
che i messaggi e le mail si stavano accumulando copiose.
Inutile,
nulla mi avrebbe distolto
dalla mia pausa thè zen.
I
problemi per quelle due ore non
esistevano. Alessandro non sapevo chi fosse. Alfredo era solo il nome
del pesce
rosso che mia cugina fece morire di fame dopo la bellezza di soli tre
giorni. E
Francesco, bè era l'autore del canto di frate sole e sorella
luna, no?
«Ginevra»
Fine
del momento zen.
«Che
ci fai qui?», mormorai
sollevando lo sguardo verso un paio di seri occhi verdi.
Che
domande! La risposta era una
sola: Alfredo. Il pettegolo del villaggio. La comare dell'ufficio. La
gazzetta
di Milano.
Per
un attimo mi balenò in mente
l'immagine di un falò scoppiettante nel quale ardevano i
mocassini Ferragamo e
le urla di disperazione di Alfie, costretto ad assistere allo
spettacolo,
dopodiché la mia attenzione si focalizzò su
Alessandro, che nel frattempo si
era sfilato il cappotto grigio scuro e si era allentato il nodo della
cravatta,
ora seduto di fronte a me.
«Non
mi piacciono i giochetti e le
prese in giro. Non mi va di essere lo zimbello dell'ufficio»,
esordì grave,
«Probabilmente la colpa è anche mia
poiché non mi sono curato di definire il
nostro rapporto...»
Lo
fissai cauta in attesa delle sue
prossime parole.
L'assenza
di definizioni era sempre
stato proprio ciò che avevo apprezzato di più nel
nostro rapporto. Niente
richieste ufficiali, impegni a lungo termini, promesse difficili da
mantenere.
Vivevamo giorno per giorno la nostra relazione senza curarci di
ciò che il
futuro ci avrebbe riservato e questo mi permetteva di evitare di
sentirmi
soffocare, di mantenere intatta la mia tanto amata libertà.
«Vorrei
che tu diventassi
ufficialmente la mia fidanzata. Voglio impegnarmi seriamente con te e
se
accetti gradirei che tu facessi lo stesso; e questo implica basta notti
nel
letto dei tuoi amici…», strinse la mia mano destra
tra le sue e io con sguardo
terrorizzato osservai impotente come il suo sguardo si soffermava
troppo a
lungo sul mio anulare nudo.
Quando
i nostri occhi si incontrarono
nei suoi intravidi un'ombra di felicità così
lucente da spaventarmi quasi. Un
uomo, uno splendido uomo tra l'altro, mi stava
chiedendo di impegnarmi con lui, di provare a costruire
qualcosa di
potenzialmente bellissimo con lui e l'unica cosa che provavo era una
paura
paralizzante.
Paura
di poter rovinare tutto, di
poterlo deludere, di potermi dimostrare inferiore alle sue aspettative.
Ma
il calore con cui mi guardava mi
faceva venire solo voglia di baciarlo e di urlare un sonoro
«Si, anche io
voglio le stesse cose!», al diavolo la paura.
«Credi
funzionerebbe?», domandai
timorosa.
«Potrei
dirti che ci credo come credo
nel fatto che il sole un'ora fa è tramontato ad ovest ma
sarebbe una bugia.
L'unico modo per scoprirlo è tentare, non credi? E io voglio
provarci con tutto
me stesso, voglio provare ad arrivare a credere nella nostra storia e
in te al
pari di quanto credo nel ciclo solare».
Wow.
Moccia e Baci Perugina
inchinatevi di fronte a questo sfoggio di animo romantico.
«E
poi sarei io quella brava con le
parole?», domandai ridacchiando, «Direi che
possiamo tentare», mormorai prima
di sporgermi al di sopra del tavolino e stampargli un bacio sulle
labbra.
«Posso
portarle qualcosa?»
Sì,
una vanga con cui scavarti una
buca e seppellirtici a vita.
Le
cameriere avevano sempre un
tempismo invidiabile pensai staccandomi controvoglia da Alessandro e
tornando a
sedermi al mio posto.
«No,
grazie»
«Un
cappuccino? Una tisana
depurativa? Una fetta di cheesecake al ribes? Un pasticcino alla scorza
di
cedro?», insisté quella.
Insomma,
dov'è questa vanga? Se
continuava così altro che buca, sulle gengive gliela davo.
«No,
davvero, sono a posto così,
grazie lo stesso», cercò di frenarla Alessandro
cortesemente.
«Abbiamo
anche dei tortini caldi
appena sfornati al cioccolato e cannella...»
Che
guardava insomma? Non aveva mai
visto un meraviglioso ragazzo con degli altrettanto meravigliosi occhi
verdi?
«Ce
ne andiamo, ci porti il conto,
per favore», tagliai corto, alzandomi e afferrando il
cappotto.
«Gelosetta?»,
mi stuzzicò Ale, non
appena uscimmo dalla pasticceria e ci lasciammo alle spalle l'adorabile
cameriera.
«No»,
borbottai scontrosa,
avvolgendomi per bene la sciarpa attorno al collo, «Solo
attenta alla tua
linea. Niente dolcetti al cioccolato che poi ti viene la
pancetta», sentenziai.
«Certo,
certo», mi rabbonì lui,
fingendo di credere alle mie miserevoli giustificazioni.
«Io
ho lasciato la mia teiera in
ufficio»
Schivai
una pozzanghera e afferrai la
sua mano per trascinarlo sotto i portici, al riparo dalla lieve
pioggerellina
che stava iniziando a scendere.
«Teiera?»
A
volte dimenticavo che conoscevo
Alessandro da poco meno di un mese e tendevo a dare per scontate
tantissime
cose.
«È
il mio maggiolino», gli spiegai,
«Posso portarti a casa io?», domandai entusiasta.
Vidi
un'espressione dubbiosa e
leggermente allarmata scorrere sul suo viso.
Tsè,
gli uomini e il loro scetticismo
nei confronti delle doti come autista delle donne.
Donne
al volante, sicurezza costante.
Non a caso io nei miei quasi sette anni di patente avevo fatto solo tre
tamponamenti e preso un paio di multe. Ook, forse una decina, ma
rimanevo
comunque una fantastica guidatrice.
«E
che ne facciamo della mia auto?»
«Domani
vieni in metro al lavoro...o
passo a prenderti io», proposi, «Sempre che dopo
stasera tu voglia ancora
salire in macchina con la sottoscritta», conclusi sorridendo
malefica.
«Sono
di stomaco forte»
«Vedremo»
«Sei
completamente impazzita?! Hai
tagliato la strada a quell'auto, che aveva senza dubbio la precedenza,
rischiando di portargli via tutto il muso della macchina!»
Alessandro
dopo due minuti di
viaggio, alla prima rotonda per la precisione, si era aggrappato alla
maniglia
sopra la portiera, come Scrat si aggrappava alla sua dannata ghianda.
Terza.
Accelerazione. Quarta.
Sfrecciai lungo il viale, schivando il camioncino della spazzatura e
sorpassando l'autobus fermo alla pensilina.
«Razza
di deficiente! Brutta testa di
cazzo! Hai comprato la tua patente di merda collezionando i punti per
la
batteria di pentole all'Esselunga?!
Che
ti colpisca un meteorite cosicché tu e la tua guida da
cretino idiota spariate
dalla faccia della terra!», strillai furiosa nei confronti
del coglione che
aveva inchiodato senza preavviso davanti a me, costringendomi a pigiare
il
freno in tutta fretta e facendomi rischiare di proiettare il povero
Alessandro
al di là del parabrezza.
Mi
attaccai irata al clacson
continuando ad urlare improperi a volume di voce sempre più
alto. Finalmente
dopo che la terra aveva fatto tredici giri attorno al sole e gli alieni
avevano
colonizzato il pianeta quel babbeo decise che era ora di muovere quel
suo culo
schifoso e permettermi di raggiungere l'appartamento di Alessandro.
Ripartii
alla velocità della luce,
facendo un bel dito medio all'autista cerebroleso, non appena lo
superai.
Quando
dieci minuti più tardi, dopo
uno spettacolare parcheggio ad L fatto con ancora la quarta inserita e
il
rischio di finire al di là del muretto che delimitava i
posteggi, mi slacciai
la cintura e mi voltai verso il mio compagno di viaggio, lo trovai
terreo con
gli occhi spalancati e un'ombra di shock dipinta in viso.
«Credo
prenderò la metropolitana
domattina», mormorò con un filo di voce.
«Oh
no, non dirmi che anche tu soffri
la mia guida come Alfie! Credo abbia vomitato minimo quindici volte,
proprio su
quel sedile dove sei seduto...», ghignai indicandolo.
Balzò
in piedi in meno di un
nanosecondo andando a sbattere violentemente la testa contro il
tettuccio.
Scoppiai
a ridere di fronte alla sua
smorfia di dolore.
«Vuoi
salire?», mi domandò
massaggiandosi la testa.
Avrei
potuto rispondere
affermativamente, salire e concludere la serata in bellezza.
O
potevo declinare l'offerta, fare
dietrofront e passare la serata con Isodoro e una scatola di cornflakes
come
cena.
«Ok»
***
«Smettila
di fare il bambino e sali
in auto!»
«Scordatelo!»
Ore
7.57 di una giornata di marzo,
mattinata all'insegna di un pallido sole, anticipo dell'imminente
primavera, e
del solito traffico milanese.
Con
le quattro frecce inserite e la
testa fuori dal finestrino, occupando irregolarmente lo spazio dedicato
all'autobus, stavo cercando di convincere Alessandro a venire al lavoro
con me
e ad abbandonare la pensilina del 54.
«Se
sali stanotte ti faccio stare da
me...», proposi persuasiva sbattendo le ciglia ripetutamente
e fissandolo
malizioso.
«Quello
era sottinteso dato che io ti
ho ospitato nel mio letto stanotte, calci e discorsi insensati da
addormentata
compresi nel pacchetto...»
Ecco,
questo era il grande potere che
le mie doti seduttive avevano. Forse sarebbe stato meglio farsi dare
delle
ripetizioni intensive da Francesco, il quale deteneva il tempo record
di
rimorchio: trentasette secondi.
«Signorina,
non può stare qui», mi
ricordò una vocetta stridula, vocetta che scoprii
appartenere alla tipica
nonnetta fastidiosa capace di farsi gli affari di tutti tranne i suoi.
La
ignorai bellamente; lo sapevo
benissimo anche io, non le vedeva le frecce che lampeggiavano?!
«Ti
permetto di tenere per un intero
weekend Isidoro...»
Ale
scoppiò a ridere e scosse la
testa, «Quel gatto è posseduto e finirebbe
esorcizzato a colpi di acqua di
Lourdes e salmi in latino da Dolores, la mia portinaia cilena, super
religiosa»
Mi
immaginai Isidoro zuppo e
spaventato in un angolo, mentre una signora sovrappeso teneva di fronte
a sé un
grosso crocefisso e strillava «Vade retro Satana!».
Magari
mi avrebbe restituito il
tenero gattino, tutto leccatine e fusa, che Isidoro era stato per i
primi due
giorni a casa mia, prima che la nostra convivenza lo traumatizzasse.
Nicola
odiava la mia folle palla di
pelo e non voleva assolutamente che mettesse piede nella nostra camera
e così
passavamo le notti in bianco a sentirlo piangere fuori dalla porta
chiusa della
stanza da letto e le giornate a riverniciare il legno della suddetta
porta per
celare i segni dei graffi disperati che Isidoro aveva lasciato le notti
precedenti. Io mi arrabbiavo con Nicola, lui se la prendeva con lo
'stupido
animale' e il gatto mi ignorava, convinto che io non mi battessi in sua
difesa.
Probabilmente se non fosse finita per il suo tradimento, la nostra
storia si
sarebbe conclusa per Isidoro, adorato da me mentre Nicola ne
pianificava la
morte di notte probabilmente.
«Signorina,
si sposti! Il bus sta per
arrivare...»
Stessa
vocetta stridula, tono ancora
più fastidioso ed irritante.
«Con
cosa posso convincerti a salire
allora?», chiesi sollevando un sopracciglio.
Essendomi
bruciata la carta sesso,
vero jolly di noi donne, non mi restava molto se non impegnare i miei
orecchini
Cartier o la mia borsa Hermés, per permettermi di comprargli
un abbonamento
allo stadio o una seduta di lucidatura della carrozzeria della sua
Porsche o
qualsiasi accidenti di cosa piacesse agli uomini.
Alfie
era molto più facile da
decifrare ed accontentare. Molto più simile a me, bastava
una nuova cravatta
Emporio Armani con una fantasia stravagante ed eccentrica per essere di
nuovo
al centro del suo cuoricino e in cima ai suoi pensieri.
Nicola
aveva la fissa per il ciclismo
e, nonostante questo significasse che ogni fine settimana di sole io
venivo
abbandonata per un gruppetto di fanatici in tutine sgargianti e
attillate in
modo imbarazzante con cui sbiciclettare felicemente per tutta la
Brianza e
dintorni, ad ogni compleanno o festività mi bastava andare
in un negozio
sportivo e farmi fare un buono spesa.
«Presentami
ai tuoi amici», esalò
inaspettatamente.
La
mia mente partorì l'immagine di
Chiara, Cecilia e Veronica sedute, una accanto all'altra, pronte a
fronteggiare
il povero Alessandro, posteggiato su uno sgabellino di fronte a loro,
stile
commissione di esame di maturità.
«Perché?»,
lo interrogai per prendere
tempo.
Le
mie amiche, aggiungiamoci anche
Alberto e mio fratello, mi conoscevano da sempre e le storie che
potevano
narrare sul mio conto erano innumerevoli e non sempre innocue e
lusinghiere.
«L'autobusss-»
La
vocetta dell'anziana fu sovrastata
da un potente strombazzare di clacson, proveniente dalle mie spalle.
Lo
specchietto retrovisore mi offrì
il riflesso del muso arancione del bus e dell'autista di questo,
intento a
gesticolare nella mia direzione e, probabilmente ad insultarmi, vista
la sua
espressione furiosa.
Ginevra,
tu sai sempre come farti ben
volere.
«Muova
il culo! Gli risponda di si e
se ne vada che devo prendere l'autobus!», mi
suggerì acida la solita nonnina,
guardandomi astiosa.
«Ma...»,
presa in contropiede
dall'improvviso arrivo del mezzo e dal linguaggio tutt'altro che
principesco
della signora.
Vidi
il riflesso dell'autista che si
stava alzando per scendere, probabilmente per venire a picchiarmi e a
far
capire alla mia testa dura che dovevo sloggiare e non farmi mai
più vedere.
«Ok,
ok! Sali subito, per carità!»
Girai
la chiave, accesi il motore e,
ancora prima che Alessandro avesse avuto il tempo di chiudere la
portiera,
partii sgommando.
«Venerdì
sera sono libero», mi
ricordò lui allacciandosi la cintura e sorridendo trionfante.
Svoltai
a sinistra in modo repentino
mandandolo a sbattere la tempia contro il finestrino, ovviamente
apposta, ed
ebbi l'enorme soddisfazione di vedere il suo sorriso gongolante
scomparire.
***
«Sul
serio, non capisco perché tu
debba venire con noi»
Ormai
era da più di mezz'ora che
cercavo di convincere Alfie a levare le tende e partire verso lidi
più
accoglienti e soprattutto più lontani di camera mia ma era
come dialogare con
Bettina, la vicina sorda come una campana di nonna.
Ma
si sa, a me piace parlare al vento
e sprecare fiato, e così continuavo imperterrita a cercare
di sbolognarlo tra
una prova d'abito e l'altra.
«Sembri
una zucca di Halloween
conciata così...», commentò cortese
come sempre Alfredo, appollaiato sul
bracciolo della poltrona color bordeaux ai piedi del mio letto.
Fissai
il mio riflesso allo specchio
cercando di capire cosa non andasse in quel delizioso abito con gonna a
campana
color arancione, gentile dono della mia madrina di battesimo, che
soffriva di
daltonismo.
Borbottando
contrariata mi avvicinai
al mio capo e gli diedi le spalle, scostandomi i capelli ancora umidi
dalla
schiena, per liberare la zip.
Se
andavamo avanti così stasera mi
sarei presentata in pigiama. Ma non in una di quelle camicie da notte
tutte
merletti fiorati e pizzi trasparenti in stile Victoria's Secret con cui
non
capivo come la gente riuscisse a dormire, ma con il mio bel pigiamone
felpato
di pile decorato con i pasticcini.
Uscire
con Alessandro era uno stress
continuo, o meglio, il prepararsi agli appuntamenti con lui lo era. Mi
aveva
sempre vista al meglio. Non aveva ancora avuto l'enorme piacere di
assistere
allo spettacolo raccapricciante di una Ginevra malata, naso rosso,
occhiaie
violacee, mollemente adagiata in un tappeto di kleenex appallottolati.
O peggio
ancora non aveva ancora visto la mia versione depressa, vaschetta di
gelato
alla mano e lacrima facile. O quella ubriaca, abbracciata alla tazza
del wc a
cantare i più grandi successi di Tiziano Ferro.
«Non
è giunta l'ora di abbandonare la
tua postazione ed avviarti verso una serata senza dubbio più
divertente e
briosa?», chiesi mentre
lottavo con la
chiusura lampo di una gonna con una fantasia a rombi viola e gialli,
reperto
dei miei diciotto anni probabilmente, in cui non sarei entrata neanche
cibandomi
di gambi di sedano per due
interi mesi.
«Prova
quello di pelle nera»
Sorseggiava
il suo thè tranquillo,
con un sorrisetto stampato sulla sua faccia di bronzo, mentre faceva
dondolare
il piede, calzato da una scarpa di vernice Gucci, ovviamente.
Acciuffai
un abito di velluto a
costine con corpetto stile salopette color sangue dalla pila sul letto
e,
gettata alle spalle la gonna, mi infilai in quello ignorando il
consiglio.
Se
volevo dare l'idea di una appena
fuggita da una comunità hippie ero decisamente su una buona
strada. Forse se ci
aggiungevo una coroncina di fiori e mi procuravo un po' di hashish,
giusto per
avere quel tocco da fricchettona strafatta con le pupille dilatate e
gli
unicorni saltellanti attorno, potevo essere presa per un revival di
Woodstock.
Rimasta
in mutande e reggiseno per
l'ennesima volta, osservai sconsolata la pila, molto alta, di abiti
già provati
e scartati e quella, molto bassa, di vestiti ancora da indossare.
In
pratica restavano l'abito di pelle
nera e un tubino super stretch color pisello. Probabilmente quando
facevo
shopping ero sotto l'effetto di sostanze psicotiche o ero in compagnia
della
già citata madrina daltonica, non si spiegava altrimenti la
scelta assurda del
colore.
«Albicocchina
mia, non farlo, so
quanto ti costi ammettere che avevo ragione io ma...non indossare
quell'obbrobrio», mi supplicò Alfie, spaventato
dalla direzione del mio
sguardo.
Se
odiavo dare ragione ad Alfredo
Arnaboldi? Diciamo che rasarmi i capelli a zero e girare vestita di
foglie di
fico e noci di cocco mi avrebbe dato meno fastidio del dover ammettere
che io
avevo torno e lui no.
Trattenendo
il fiato e rischiando di
slogarmi entrambi i polsi riuscii a far salire il vestito dai fianchi,
dove il
mio didietro aveva rappresentato un avversario tenace, fino alle spalle.
Non
avevo ancora chiuso la cerniera e
già rischiavo il soffocamento.
Ero
ingrassata così tanto negli
ultimi tre anni?!
Alfie
sbucò alle mie spalle e, con un
ghigno malefico stampato in volto, alzò tutto d'un colpo la
zip, facendomi
restare letteralmente senza fiato.
«Ripeto:
indossa quello di pelle
nera»
Sembravo
Trilli, la fatina di Peter
Pan, solo venti volte più alta e quaranta più
larga. Qualcuno sapeva dove avrei
potuto procurarmi un paio di ballerine in tinta con pompon?
Sbuffando
sgusciai fuori da
quell'aborto di vestito e mi infilai il famoso abito di pelle nera.
Ovviamente
mi calzava a pennello e
altrettanto ovviamente lo avevo preso in una seduta di shopping con
Alfie.
«Stellina
cara, mi prude tantissimo
la lingua e vorrei con tutto me stesso dire che avev-»
«Shhh!»,
lo zittii prontamente, era
già stato abbastanza umiliante vestirsi da abitante
dell'Isola-che-non-c'è per
sostenere la mia causa fallimentare.
«Avevo
rag-», ritentò cocciuto
quello.
«Non
sento, non sento!», strillai
tappandomi le orecchie con il palmo delle mani.
Quell'idiota
approfittò del fatto che
avessi sollevato le braccia per impedirmi di sentirlo cantar vittoria e
si
gettò verso i miei fianchi iniziando a farmi il solletico.
Ecco,
se volevate togliere a Ginevra
Visconti quel poco di serietà che si era guadagnata tanto
duramente bastava
iniziare a solleticarmi, anche solo in punta di dita, i fianchi.
Un
minuto e mi stavo contorcendo sul
letto, lacrime agli occhi, continui risolini e suppliche
affinché Alfie la
smettesse.
«Dillo»,
mi sfidò perfidamente lui,
riacciuffandomi per le ascelle un secondo prima che ruzzolassi
giù dal
materasso in un disperato tentativo di fuga.
«T-ti
pre-prego...», non ce la facevo
più, mi mancava il fiato e non riuscivo a smettere di
ridere, «Oddio
bas-basta!»
«Dillo!»,
mi sussurrò la serpe
all'orecchio continuando a muovere le sue lunga dita su e
giù.
«Hai
ragione tu!», urlai esasperata
con il poco fiato rimastomi.
Il
solletichio cessò all'istante e di
fronte agli occhi mi si parò il sorriso a trentadue denti di
Alfie, che
dondolava felice la testa e batteva le mani, come un bambino che ha
appena
ricevuto il suo contentino.
«Andiamo,
per carità». Mi sollevai
dai cuscini e andai in bagno, seguita da un trotterellante Alfredo.
Un
quarto d'ora più tardi, truccata e
semi acconciata, stavamo finalmente per salire in auto quando ci
trovammo a
discutere come sempre. Il problema ogni volta era lo stesso: chi
avrebbe
guidato?
Alfie
soffriva la mia guida e io la
sua. Lui avrebbe sbraitato di fronte ai limiti di velocità
del tutto personali
che io seguivo e io mi sarei innervosita per i 20 km/h che in media lui
teneva
in tangenziale. Lui si sarebbe irritato per le mie rotonde in quarta,
il mio
ignorare i passanti e le mie mancate precedenze. Io me la sarei presa
per il
suo voler fermarsi a far attraversare persino le formiche e le lumache
e le
soste di svariati minuti che faceva agli imbocchi delle rotonde,
perché gli
pareva che in lontananza, cioè a circa mezzo chilometro, gli
pareva arrivasse
qualcuno.
Soluzione?
Taxi.
«Capisco
benissimo come mai ti hanno
bocciato due volte all'esame pratico della patente»,
borbottai rientrando
nell'androne del mio palazzo, almeno avremmo aspettato il taxi al caldo.
«E
io non capisco come mai non ti
abbiano mai bocciato, evidentemente papino avrà fatto una
generosa donazione
alla scuola guida...», insinuò velenoso come una
vipera, «La tua cassetta sta
scoppiando», constatò indicandomi la targhetta con
inciso il mio nome.
Frugai
nella mia borsa e gli lanciai
le chiavi della posta non appena le pescai dal fondo, invaso da reperti
di
caramelle e scontrini.
Mi
sedetti sull'ultimo gradino della
scalinata in marmo dell'ingresso, solitamente di venerdì
sera bisognava
attendere per secoli un taxi.
Alfie
si appoggiò alla parete accanto
a me, perché guai far venire a contatto il prezioso tessuto
dei suoi pantaloni
con il pavimento lucidato a specchio di un plebeissimo atrio, e
iniziò ad analizzare
la mia corrispondenza.
Lo
lasciai fare senza problemi,
probabilmente sapeva più cose su di me e le mie relazioni
della diretta
interessata stessa. Alfie era come una sorella impicciona e decisamente
troppo
esagitata e piena di folli idee, ma io, cresciuta con due fratelli
maschi,
molto più interessati ai videogiochi e alle mie amiche che
alle mie confidenze,
avevo terribilmente bisogno di una figura come Alfredo. Alfredo non mi
giudicava mai, mi ascoltava, si lasciava scappare qualche buffa
smorfietta che
lasciava trasparire i suoi pensieri al riguardo ma era sempre dalla mia
parte,
qualsiasi cosa succedesse.
«Joanne
ti invita a Lione per Pasqua,
sappiamo già entrambi che le darai buca come quasi sempre
perciò scrivile che
se vuole io accetto volentieri il soggiorno pasquale francese a
scrocco», mi
informò aprendo una seconda lettera.
Joanne,
ragazza francese conosciuta
ai tempi di una vacanza studio al liceo, perseverava nel volermi
invitare
almeno sei volte l'anno da lei, nonostante il nostro appuntamento fisso
fosse
un weekend a Cannes nel periodo del festival, perfetto connubio tra
lavoro e
svago.
Il
rumore di carta strappata fece
tornare la mia attenzione sul mio amico, che stava riducendo in
pezzetti sempre
più piccoli un foglio di carta.
«Che
stai facendo? È una lettera che
si scusa per il mancato invito alla cerimonia degli Oscar di quest'anno
e mi
offre un posto in prima fila, tra Bradley Cooper e Eddie Redmayne, per
il
prossimo anno? È un biglietto per la sfilata di Dior per
Paris Fashion Week?»,
incalzai curiosa.
«Sì,
sogna. Bradley avrebbe occhi
solo per me!», mi rispose strizzandomi l'occhio,
«No, era solo la bolletta
della luce»
«E
perché mai lo avresti fatto?!»,
domandai sbigottita.
Il
mio cervello cercò di trovare un
collegamento tra i conti da pagare per la luce utilizzata e la reazione
psicopatica di Alfredo.
Ovviamente
non lo trovò.
Lui
fece spallucce, «Io straccio
sempre le lettere che vogliono denaro da me. Odio le bollette. Ormai
anche la
Enel lo ha capito e le manda direttamente al mio povero
commercialista»
Spiegazione
super ragionevole, no?
Avevo
avuto l'onore di conoscere
Andrea Agosti, il suo commercialista, e potevo affermare che dopo la
sua morte
sarebbe finito dritto filato in paradiso, su un tappeto rosso, e
probabilmente
sarebbe anche stato fatto santo.
Tenere
in ordine le finanze di Alfie
e fare in modo che non dovesse dichiarare bancarotta prima del suo
trentesimo
compleanno causava molteplici notti insonni e mal di pancia al povero
ragazzo.
Oculatissimo
e super prudente quando
si trattava del giornale, scialacquatore e senza freni con i suoi
risparmi.
«Dovresti
aumentare la parcella del
povero Andrea...», commentai a mezza voce alzandomi in piedi,
poiché avevo
intravisto il taxi attraverso il vetro coperto di goccioline di pioggia
della
porta d'ingresso.
Alfie
mi aprì la portiera e mi fece
salire per prima, accomodandosi a sua volta subito dopo.
«Buonasera,
via Alfieri 33, grazie»,
informai l'autista, un signore brizzolato sulla sessantina, che annui e
mi
rispose con un sorriso.
Il
mio amico mi porse il suo telefono
indicandomi lo schermo, «Andrea è già
fin troppo ricco, e lo è grazie alla
gente ricca che non sa amministrare il proprio capitale, fortunato
lui».
Non
commentai, avevamo cercato, sia
io sia Francesco, a spiegargli dei rudimenti di economia, nulla di
troppo
cervellotico e complesso ovviamente, in fondo eravamo pur sempre
giornalisti di
cinema, ma giusto le basi per imparare a farsi la dichiarazione dei
redditi da
soli e tenere un bilancio approssimativo delle entrate e delle uscite.
Fra poi
aveva anche tentato di iniziarlo al mondo degli investimenti, con
risultati
disastrosi, dato che Alfie già a sentir parlare di spread e
deficit al tg
diventava magicamente sordo.
Sul
display illuminato dell'iPhone di
Alfie lessi il messaggio di Francesco che si scusava del poco
preavviso, inesistente
a dire il vero, con cui ci informava che stasera non si sarebbe unito a
noi,
rapito in anticipo da Aprile per un weekend alla spa.
Avrei
potuto convincermi che non me
ne importava nulla ma ciò avrebbe significato mentire in
modo sfacciato a me stessa.
Ero arrabbiata e delusa, sì, delusa e arrabbiata
perché Francesco odiava le
terme, perché questa cosa di chiamare le ragazze come il
mese in cui le
frequentava era una cosa semplicemente squallida, perché
avrebbe dovuto esserci
quella sera, Aprile o non Aprile.
Sapevo
benissimo di avere gli occhi
attenti di Alfredo puntati sul mio viso, in attesa di leggere
chissà quale
espressione di sconsolata disperazione nell'apprendere la notizia
arrivata via
sms.
Non
aveva avuto neanche il coraggio
di scrivere direttamente a me e così aveva usato Alfie come
ambasciatore.
Codardo.
«Peggio
per lui, Alessandro lo
conosce già e per me è indifferente che ci sia o
meno...»
Bugiarda.
Bugiarda. E ancora
bugiarda.
Non
so se Alfredo notò la mia
menzogna ma se anche fosse fu così gentile da non commentare.
***
La
serata fu un successo. Veronica
avvolta in uno splendido smoking dal taglio maschile, sotto cui si era
casualmente scordata di indossare una camicia, era stata l'anima della
cena,
brillante e ciarliera come sempre, e aveva ignorato per tutto il tempo
mio
fratello Federico. Quest'ultimo, poveretto, non fu così
bravo nel mostrarsi
indifferente, tradito dai suoi occhi che cadevano più spesso
del dovuto sulla
scollatura della mia amica.
Cecilia
e Alberto parevano già in
luna di miele, continuavano a sfiorarsi, quasi sovrappensiero, che
fosse una
carezza sul dorso della mano o una parola bisbigliata all'orecchio
dell'altro,
e avevano lanciato il totonome per il bebè in arrivo.
Per
ora i più quotati erano Gabriele
e Margherita. E solamente io e Alberto eravamo convinti sarebbe stata
una
femminuccia, tutti gli altri propendevano per un futuro fiocco azzurro,
con
l'eccezione di Alfie che scommetteva su una coppia di teneri gemellini
strillanti.
Chiara,
arrivata trafelata
dall'ufficio, ancora in tailleur color cipria, era parsa sempre
leggermente
assente, la testa persa in chissà quali pensieri.
E
poi ovviamente c'era Alessandro,
splendido, ancora più del solito, in un completo informale
ma molto elegante
dai colori tipicamente invernali. Aveva chiacchierato senza problemi
con tutti
i presenti, trovandosi in sintonia persino con Federico, che
solitamente
snobbava e odiava in silenzio i miei fidanzati.
Fidanzato,
pareva ancora così strano
considerarlo tale, eppure la sua mano che più volte era
scivolata sotto il
tavolo per cercare la mia, anche solo per una leggera stretta o una
carezza
fugace, e i sorrisi complici che mi dedicava, tutto rendeva il nostro
legame un
po' più reale.
Al
ritorno, dopo saluti durati una
lunga mezz'ora a causa dei temporeggiamenti farciti di pettegolezzi
spiccioli
di noi ragazze, avevo abbandonato senza sensi di colpa Alfie e mi ero
infilata
nella Porsche di Alessandro.
«Allora
che mi dici?», lo incalzai
curiosa non appena si sedette in auto e partimmo.
Nella
penombra dell'abitacolo della
macchina risuonò la sua risata, «Poco impaziente,
eh?»
Mi
morsi il labbro inferiore in preda
all'imbarazzo. Effettivamente non gli avevo neanche dato il tempo di
premere
l'acceleratore e uscire dal parcheggio che già lo avevo
aggredito con la mia
curiosità morbosa.
«Mi
piacciono. Soprattutto Alfie, che
non vedo abbastanza in ufficio, cinque giorni a settimana»,
scherzò lui.
Mi
rigirai tra le mani le frange
della mia sciarpa, «Ops, non l'avevo vista in quest'ottica.
Alfie è un mio
amico, prima di essere il mio superiore. Avevo invitato anche
Francesco...»
Perché
mai mi stavo giustificando?
Alfredo era un mio amico, un mio grande amico a dire il vero, la mia
piccola
sorellina sciroccata.
«Come
mai non c'era?», domandò,
potevo quasi percepire il sollievo che provava nell'apprendere che
Francesco,
sebbene invitato, non si era presentato.
«Impegni»,
restai sul vago.
Alessandro
non conosceva Francesco e
non volevo che, saputa la storia delle ragazze a scadenza mensile, lo
giudicasse in modo sbagliato.
Francesco
era uno stronzo, trattava
le donne come fossero usa e getta ma, nonostante non approvassi il
metodo,
capivo che il suo ero solo un modo di reagire a ciò che gli
era successo.
«Invidio
tantissimo la felicità di
Cecilia e Alberto, loro sono l'esempio di tutto ciò che
vorrei io dalla
vita...», esordì Alessandro, interrompendo il mio
rimuginare sulla storia del
mio amico.
Effettivamente
i miei amici erano
stati molto fortunati, considerato che si erano conosciuti poco
più che bambini
e, salvo sparuti litigi e incomprensioni, era da dieci anni che
andavano d’amore
e d’accordo.
Io
però non avrei mai voluto un amore
così, alcuni penseranno che la mia affermazione deriva dal
fatto che non l’ho
avuto un unico grande amore simile a quello, ma la verità
era che io ero
incapace di legarmi per troppo tempo ad una persona, o forse non avevo
ancora
incontrato una persona con cui valesse davvero la pena impegnarsi per
tutta la
vita.
Non
avevo mai avuto il sogno dell’abito
bianco, delle damigelle vestite da confetti e della torta a sette piani
con gli
sposini di zucchero in cima. Non credevo nel per sempre o probabilmente
ne ero
solo spaventata. Fatto sta che ero felice di aver vissuto le mie
esperienze,
per quanto tragiche e deprimenti alcune di esse fossero state,
perché mi
avevano aiutato a capire cosa desideravo davvero, e di sicuro avevo
capito che
questa cosa non era il matrimonio. Volevo semplicemente una relazione
solida,
in cui il mio compagno fosse prima di tutto anche mio amico, mio
complice, che
mi conoscesse davvero e apprezzasse tutte le sfaccettature del mio
carattere,
qualcuno che venisse a fare jogging con me alle sei di una domenica
mattina se
mi venisse voglia di farlo, qualcuno disposto a correre in aeroporto a
prendere
il primo aereo, senza prenotazioni e con pochi bagagli, qualcuno che
riuscisse
a comprendere, assecondare ma al tempo stesso, quando necessario,
limitare il
mio carattere folle, caratterizzato da un’irrazionale
impulsività, una
tagliente schiettezza e dei vertiginosi sbalzi d’umore.
Qualcuno che mi facesse
ridere e fosse in grado di sorprendermi, impedendo alla noia di
prendere il
sopravvento nella nostra relazione.
Non
ribattei all’affermazione di
Alessandro, preferendo non fargli sapere che io ero di
tutt’altro avviso. Un figlio
adesso? Sapevo a malapena prendermi cura di me stessa e ricordarmi i
croccantini di Isidoro, rischiando ogni sera di farlo morire di fame a
causa
della mia sbadataggine, figurarsi un frugoletto strillante.
Sentii
vibrare il telefono nella
borsetta e così lo pescai, giusto per dare
un’occhiata alle ultime mail,
nonostante sapessi benissimo che Alessandro detestava che guardassi il
cellulare quando ero con lui, diceva che nuoceva ai rapporti umani.
Se
Marzo aveva il cane-topo non puoi immaginare quale
orribile creatura Aprile si porti appresso: una cavia da laboratorio.
Ora è di
là a far scorrazzare il mostriciattolo nella vasca da bagno,
speriamo caschi
nel buco dello scarico. Salvami!
Non
potei fare a meno di sorridere. Francesco
era un idiota, e non solo per il suo essere uno sciupafemmine
incallito, ma perché
le donne che si sceglieva erano una più pazzoide
dell’altra.
«Chi
è che ti scrive a quest’ora?»,
domandò Alessandro dopo aver notato il mio digitare semi
nascosto dalle pieghe
del cappotto.
«Mio
fratello Lorenzo, quello che non
hai ancora conosciuto», mentii e non seppi neanche io
perché lo feci.
Stavo
per riporre il telefono, dopo
aver consigliato a Francesco l’acquisto di una trappola per
topi, quando questo
iniziò a squillare.
«Pronto?»,
risposi dopo aver letto un
numero sconosciuto sul display.
I
secondi che seguirono furono tra i
più terribili della mia vita. Ascoltai come in trance quello
che la signora
dall’altro capo mi stava spiegando tra lacrime e singhiozzi.
Nonostante
le frasi spezzate dai
singulti avevo afferrato la notizia che mi faceva tremare e che mi
aveva gelato
il cuore: Alfie aveva avuto un incidente nel tornare a casa.
Buongiornooo!
Mi
spiace turbare gli animi dei miei
lettori con questa notizia sconvolgente ma vi voglio rassicurare
dicendovi che
Alfredo è uno dei miei personaggi preferiti e questo
dovrebbe già calmarvi e
garantirvi sonni tranquilli. Francesco c’è poco in
questo capitolo, troppo impegnato
nella sua personale caccia ai topi, ma tranquille che
tornerà. Mercoledì prossimo
parto per due settimane quindi vorrei riuscire ad aggiornare nuovamente
prima
di quel giorno ma non assicuro nulla perché sono
già impegnata nella stesura
del capitolo dell’altra mia storia quindi vedremo, io
però farò tutto il
possibile.
Come
sempre i vostri commenti sono più
che graditi.
S.
xxx
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
«Dov’è?
Lui
dov’è?»
Correvo
senza sapere dove andare. La vista offuscata dalle copiose lacrime che
non
riuscivo ad arrestare e continuavano a rigare il mio viso arrossato.
Non appena
avevo ricevuto quella terribile telefonata ero rimasta immobile per
qualche
secondo prima di sentire qualcosa dentro di me spezzarsi e da allora
non mi ero
più fermata. Avevo ordinato ad Alessandro di correre il
più velocemente
possibile in ospedale e avevo chiamato la madre di Alfredo e avevo
tentato di
tranquillizzarla nonostante io stessa fossi terrorizzata
all’idea di quello che
mi attendeva una volta arrivata al pronto soccorso.
Non appena
arrivammo nel parcheggio mi ero fiondata fuori dall’auto
ancora prima che ci
fossimo fermati completamente e avevo corso. Mi ero dovuta fermare a
causa del
dolore lancinante che le scarpe dal tacco vertiginoso mi stavano
procurando e
così, per perdere meno tempo possibile, me le ero levate e
avevo ripreso la mia
corsa incurante dell’asfalto umido sotto ai piedi coperti
solo da un sottile
velo di nylon.
Un’infermiera
tentò di afferrarmi per un braccio ma mi divincolai e
continuai imperterrita la
mia marcia disperata. Non mi sarei fermata finché non mi
fossi assicurata che
Alfie fosse ancora vivo e vegeto e non lo avrei lasciato fino a quando
non
avrebbe potuto abbandonare anche lui l’ospedale.
«Signorina!
Signorina si fermi un attimo!»,
una voce trafelata mi bloccò mentre aspettavo impaziente
l’arrivo dell’ascensore.
Mi voltai
infastidita dall’ennesimo tentativo di farmi tardare. Non
avevo tempo da
perdere. Dovevo vederlo. Perché sembrava che tutti, dal
personale ospedaliero a
quell’accidenti di ascensore della prima guerra mondiale,
volessero ritardarla
e farle perdere tempo prezioso?
L’anziana
signora, vestita di azzurro pallido, mi raggiunse e con il fiatone a
causa
della corsa fatta per inseguirmi mi domandò chi stessi
cercando.
«Credo
che
se si lascerà aiutare da me impiegherà meno tempo
a trovare chi sta cercando
rispetto a fare un tour allo sbaraglio per l’intero
edificio…», me fece notare
acutamente.
Perché
non
ci ero arrivata da sola? Nella testa avevo una confusione e una paura
così
radicata da non riuscire più a ragionare lucidamente.
«Alfredo
Arnaboldi. Ha avuto un incidente una mezz’oretta fa
più o meno e mi hanno detto
che è stato portato qui
d’urgenza…», le spiegai angosciata
supplicandola con lo
sguardo di aiutarmi.
Lei
annuì,
mi accarezzò lievemente il braccio e mi fece cenno di
seguirla.
La seguii
per scale, ascensori, corridoi senza far domande. Aveva perfettamente
ragione:
mi sarei persa senza dubbio senza la sua guida.
Attraversammo
un’ultima porta prima di fermarci davanti ad una vetrata
chiusa dove capeggiava
il cartello: Terapia intesiva –
accesso
consentito solo al personale autorizzato.
«Oltre
non
ci è consentito andare per ora. Le consiglio di sedersi e
attendere che esca un
medico così potrà chiedere ulteriori informazioni
e aggiornamenti a lui…»
Mi accasciai
stanca su una di quelle tristi seggioline in plastica rigida da tipica
sala
d’attesa e mi fissai i piedi e le calze chiazzate di acqua e
fango.
«Vedrà
che
andrà tutto bene…», tentò di
rassicurarmi l’infermiere prima di congedarsi con
un sorriso gentile.
Tra le mani
stringevo ancora le mie scarpe e così le posai a terra di
fianco a me e mi
portai le ginocchia al petto. Avevo freddo e non riuscivo a non pensare
ad
altro che al mio amico in fin di vita.
Non so
quanto tempo passai rannicchiata in quella posizione prima che la sedia
accanto
alla mia cigolasse e un braccio mi avvolgesse delicato le spalle. Posai
esausta
il capo sulla spalla di Alessandro e chiusi gli occhi. Lo sentivo
respirare ad
un ritmo lento e regolare e cercai di concentrarmi su quello per non
farmi
prendere dal panico e scoppiare nuovamente in lacrime.
Il mio
telefono vibrò e fui costretta a staccarmi da lui per
rispondere.
«Ginevra
cara, ci sono novità?», mi domandò la
voce angosciata di Amelia, la madre di
Alfredo, non appena accettai la chiamata e mi portai il cellulare
all’orecchio.
Potevo solo
immaginare il dolore di quella donna. Distante chilometri dal suo unico
figlio,
ferma in quel limbo fatto di attesa e sofferenza. Amelia si era
trasferita
qualche anno prima a vivere a Firenze, decisione dettata
dall’essere rimasta
vedova abbastanza giovane e dalla sua volontà di voler
portare avanti un
progetto filantropico nella sua terra d’origine.
La misi al
corrente della situazione attuale e le chiesi quando sarebbe arrivata.
«Domattina,
ovvero tra qualche ora, la mia vicina mi porterà in
stazione. Se prendo il
primo treno dovrei arrivare a Milano per le otto e mezza o nove circa.
Da lì
prendo un taxi e ti raggiungo subito. Hanno fatto storie per il fatto
che non
sei una parente?»
Non avevo
pensato alla possibilità che il medico si rifiutasse di
darmi notizie riguardo
allo stato di Alfie per quella stupida regola della parentela. Negai ma
le
dissi che probabilmente non mi avrebbero detto nulla non essendo in
nessun modo
legata da vincoli di consanguineità alla persona ricoverata.
Lei, da donna
forte e pratica quale era sempre stata, mi disse che subito dopo la
nostra
telefonata avrebbe chiamato l’ospedale per rilasciare la sua
delega e
autorizzarmi a fare le sue veci per il momento.
«Signora
Amelia, non appena sta per arrivare in città mi chiami
così la mando a prendere
e non perde tempo inutile a cercare un taxi», la rassicurai e
ignorando
volutamente le sue proteste le spiegai dove farsi trovare.
La sentii
soffiarsi il naso dall’altro lato della cornetta e il cuore
mi si strinse nel
petto. «Starà bene, vero Ginevra?», mi
interrogò debolmente, la voce spezzata
dai singhiozzi trattenuti.
Sospirai e
mi passai una mano tra i capelli ancora semi raccolti.
«Starà bene, Alfredo non
può lasciarci ora e non lo farà»
Scambiammo
ancora
due parole prima di salutarci con la promessa di aggiornarci non appena
ci
fossero stati dei cambiamenti.
Tornai al
mio posto e mi voltai verso Alessandro, il quale mi stava scrutando
preoccupato. Ritornai a posare il capo contro il suo petto e ripresi
quell’attesa sfiancante che mi stava logorando.
La porta del
reparto di terapia intensiva si aprì e si richiuse infinite
volte ma nessuno ci
prestò mai la minima intenzione. Medici, infermieri, parenti
in lacrime,
inservienti e tecnici di laboratorio facevano avanti e indietro di
continuo, i
loro passi rimbombavano sul linoleum verde acqua che rivestiva il
pavimento e
scandivano i minuti che passavano. Le lancette ticchettavano, le luci
alogene
alle pareti sfarfallavano e i nostri respiri riempivano
l’aria pesante di quel
corridoio.
Poco dopo le
quattro di mattina le porte dell’ascensore
all’angolo si aprirono e ne emerse
un uomo dal viso stanco e segnato, la camicia stropicciata e i capelli
in
disordine. Non appena lo vidi balzai in piedi e corsi tra le sue
braccia. Lui
prontamente mi strinse al proprio petto e posò la guancia
sul mio capo. Mi
aggrappai alla sua schiena e ripresi a piangere in silenzio mentre lui
continuava pazientemente a cullarmi senza dire nulla. Sotto il mio
orecchio
sentivo il battito accelerato del suo cuore e quel suono mi fece stare
meglio,
saperlo lì mi faceva stare meglio.
Sentii dei
passi arrestarsi alle mie spalle. «Francesco...»,
la voce di Alessandro era
velata di fastidio ma era così ben celato che pensai di
essere paranoica e di
essermelo solo immaginata. Dopotutto ero stremata e non era quello il
momento
di pensare a quelle cose futili.
«L’ho
avvertito io», spiegai sapendo che era quella la domanda
implicita a cui dovevo
rispondere. «Vieni…», presi la mano del
mio amico e lo trascinai a sedere
vicino a me sulla fila di tristi seggioline.
Lui mi
accarezzò piano i capelli e mi chiese se avevo sentito
Amelia, dicendomi che
lui non era riuscito a contattarla perché aveva dimenticato
il telefono
nell’albergo della spa data l’agitazione generata
dal mio messaggio e dalla
fretta di mettersi in viaggio il prima possibile.
«Arriva
domattina poco prima delle nove, qualcuno dovrà andare a
prenderla in stazione.
Poi bisognerà avvertire anche tutti in ufficio,
chiamerò più tardi Fabrizio o
Valeria, non voglio seminare il panico ora che ancora non sappiamo
nulla
e…oddio non so più cosa
fare…», esalai stringendogli una mano.
«Amelia
non
sarà qui prima delle prossime quattro ore,
dopodiché Alessandro potrebbe andare
a recuperarla in stazione, portarla qui e poi andare in ufficio a
mettere al
corrente tutti mentre noi due restiamo qui in attesa di notizie che si
spera
siano buone…», snocciolò infilando una
mano nella tasca interna della giacca
per cercare qualcosa.
Alessandro,
che non pareva per nulla contento della situazione attuale, si
parò di fronte a
noi ma, dimostrandosi abbastanza maturo da rimandare eventuali
sceneggiate a
dopo, ci chiese solo come riconoscere la madre di Alfie e come avrebbe
fatto ad
aprire l’ufficio. Il mio amico gli porse il mazzo di chiavi
che aveva pescato
dalla giacca e gli spiegò a grandi linee le caratteristiche
principali di
Amelia, anche se probabilmente i suoi capelli rosso fuoco bastavano da
soli per
renderla riconoscibile a miglia di distanza.
Dopo un
tempo che parve infinito la porta di vetro si aprì per
l'ennesima volta ma
invece di superarci di fretta l'uomo in camice bianco ci
fissò per un instante
prima di dirigersi verso di noi.
Alzai la
testa speranzosa e strinsi più forte la mano di Francesco.
«Siete
qui
per Alfredo Arnaboldi?», ci interrogò e al mio
cenno affermativo annuì tra sé
prima di chiederci di pazientare ancora un attimo.
Lo seguimmo
in modo apprensivo con lo sguardo mentre questo si avvicinava allo
sportello
dove poco più avanti si trovavano la caporeparto e un altro
paio di infermiere
che avevano il turno notturno. Li sentimmo parlottare e poco dopo il
medico
riemerse con un biglietto di carta in mano.
«Allora
la
Signora Arnaboldi ha già spiegato per telefono la situazione
perciò in sua assenza
sono autorizzati a seguirmi Ginevra Visconti e Francesco
Ferrari...siete voi,
giusto?», ci illustrò dopo aver letto il post-it
ed esserselo infilato
distrattamente nella tasca del camice immacolato. «Bene,
venite pure con me»,
concluse strisciando il badge che teneva al collo davanti ad un lettore
a
scansione ottica che aprì automaticamente la porta.
Lanciai un
ultimo sguardo ad Alessandro, in disparte sulla sua solita seggiolina,
e gli
rivolsi un sorriso che voleva essere d'incoraggiamento prima che il
vetro ci
separasse definitivamente.
Mi
dispiaceva lasciarlo indietro ma in quel momento ero impaziente di
sapere cosa
avesse da dirci il dottore.
«Allora,
il
vostro amico è stato piuttosto sfortunato...»,
esordì e il mio cuore si fermò
per un attimo. «Il tassista ne è uscito illeso
come anche l’uomo alla guida
dell’auto che ha causato il tamponamento, avvenuto proprio
dal lato dove sedeva
il Signor. Arnaboldi. Non vi abbiamo fatto sapere nulla prima
d’ora perché era
importante che l’intervento alla milza a cui è
stato sottoposto d’urgenza
andasse per il meglio. Fortunatamente così è
stato perciò, nonostante il
copioso sanguinamento, gli resta solo una gamba con una frattura
multipla e un
bello spavento. Ora è ancora sotto effetto
dell’anestesia ma tra poco dovrebbe
svanire. Venite, questa è la sua stanza. Lo terremo in
osservazione ancora per
un paio di giorni poi, se le sue condizioni resteranno stabili,
verrà dimesso
senza problemi…», ci spiegò
accuratamente mentre percorrevamo un lungo
corridoio costeggiato da tante porte chiuse e contrassegnate da
numeretti.
Giunti di fronte alla camera 237 il dottore si arrestò,
aprì la porta e si fece
da parte per permetterci di entrare per primi.
Alfie
sonnecchiava sorretto da una pila di cuscini chiari che facevano
risaltare il
suo colorito giallastro e i capelli scuri spettinati. Aveva un cerotto
sulla
fronte, le mani fasciate da leggeri bendaggi forse a causa di
escoriazioni
minori, una camiciola verdina da ospedale e la gamba completamente
ingessata
dall’anca alla caviglia.
Mentre io mi
avvicinavo al letto sentii Francesco trattenere ancora un attimo il
dottore.
Accarezzai quel viso così fanciullesco e così
caro e quasi senza accorgermene
gli occhi mi si inumidirono a causa del sollievo sconfinato che mi
aveva avvolta
mano a mano che il medico ci assicurava che Alfie si sarebbe ripreso
senza
problemi e sarebbe tornato in forma come prima.
«Grazie
al
cielo!», esclamò Fra alle mie spalle prima di
avvicinare una sedia al letto per
farmici accomodare mentre lui si appollaiava ai piedi del materasso.
«Il
chirurgo assicura che l’operazione non lascerà
strascichi, l’unico problema
resta la gamba. Ha detto che si tratta di una brutta frattura, in
più si tratta
di punti dell’omero e della fibula abbastanza insidiosi e
c’è il rischio che il
gesso non basti, lui sostiene che un mese di completa
immobilità su una sedia a
rotelle basterà ma se così non fosse bisognerebbe
intervenire chirurgicamente.
Ma si tratta solo di
un’eventualità…», mi mise al
corrente mentre guardava con
occhi carichi di affetto il suo migliore amico.
Allungai una
mano e gli strinsi il ginocchio per ringraziarlo silenziosamente per
essere lì
con me. «Hai impiegato pochissimo ad
arrivare…», gli feci notare cercando di
calcolare mentalmente quanto distava la località del
Trentino Alto Adige in cui
si trovava da Milano.
Lo sentii
ridacchiare piano mentre si grattava piano una guancia coperta da un
velo di
barba. «Credo di avere i calzini spaiati, ho dimenticato in
albergo
praticamente tutto e probabilmente nel tragitto devo essermi beccato
circa una
decina di multe per eccesso di velocità o sorpassi
azzardati. Non so come ho
fatto ad arrivare qui senza mai essere fermato da una pattuglia della
Polizia,
ad un certo punto credo di aver fatto superare i duecento alla mia
povera auto…»
La sua
povera auto era un’Audi che probabilmente aveva fatto le
feste alla
possibilità, per una volta almeno, di sfruttare a pieno la
sua potenza invece
dei soliti trenta km/h che era costretta a tenere nel traffico milanese.
Sorrisi
scuotendo
il capo, era tipico di Francesco non ragionare nelle situazioni
d’emergenza e
agire impulsivamente. «Magari evita di rifarlo dato che
è bastato Alfie a farmi
perdere quindici anni di vita dallo spavento che mi ha
procurato», lo
rimproverai.
Mentre
aspettavamo
che il malato accennasse qualche segno di vita lasciai un attimo la
stanza per
telefonare alla Signora Amelia, la quale si stava già
preparando per prendere
il treno e che risultò immensamente sollevata nel sentire
che il suo bambino ne
era uscito solo con una gamba rotta. Le detti appuntamento per qualche
ora più
tardi e le spiegai il punto di ritrovo, le fattezze di Alessandro e il
colore e
il modello della sua automobile.
Una volta
terminata la chiamata ne approfittai per ripercorrere al contrario la
strada
fatta in precedenza e tornare nel corridoio dove avevamo atteso tanto a
lungo.
Sporsi la testa perché non volevo che la porta si
rischiudesse alle mie spalle
non permettendomi poi di rientrare dato che non ero in possesso di
alcun badge
e rimasi un attimo perplessa nel constatare che le seggioline addossate
alla
parete erano tutte vuote. Dov’era finito Alessandro?
Contravvenendo
nuovamente alla norma che vieta l’utilizzo di telefoni
cellulari, digitai il
numero sullo schermo e me lo portai all’orecchio aspettando
che squillasse e
che lui rispondesse. Attesi un attimo ma al settimo squillo riattaccai
e gli
inviai rapidamente un messaggio ricordandogli orario e luogo per
recuperare la
Signora Arnaboldi.
Tornai sui
miei passi e quando riapparsi sulla soglia della stanza 237 ebbi la
lieta
sorpresa di ritrovarmi davanti agli occhi un Alfredo sveglio e
già nel pieno
delle sue facoltà mentali. Infatti si stava lamentando senza
sosta con il
povero Francesco, il quale cercava in tutti i modi di farlo star fermo
e di
rabbonirlo per evitare che si alzasse o si agitasse troppo.
«Mirtillina
mia! Sapevo che non potevi davvero avermi abbandonato qui con questo
bruto. Mi
ha appena detto che mi trova bene. Bene?! Ci credi? Ho un cerotto in
fronte,
per l’amor del cielo! E questa tovaglia da internato in un
manicomio cos’è?»,
domandò istericamente scrutando il cotone verdognolo che lo
ricopriva.
Mi lasciai
andare ad una risata liberatoria nel vedere che il mio adorato Alfredo
era di
nuovo tra noi dopo quelle ore di ansia e paura che avevamo vissuto non
sapendo
il grado di serietà delle sue condizioni. Tornai alla mia
postazione e lo abbracciai
delicatamente stando attenta alle flebo e ai suoi lievi ematomi,
visibili sotto
la luce bianca della stanza.
«Ci
hai
fatto prendere un bello spavento! Sono così felice che tu
stia bene…», mormorai
lasciandogli un lieve bacio sulla fronte.
«Posso
avere
uno specchio?», domandò imbronciato. Mentre
analizzava i graffi presenti sulle
braccia e le unghie ancora leggermente incrostate di sangue rappreso.
Francesco
scosse vigorosamente il capo e gli disse di scordarselo.
Effettivamente,
vanesio com’era, sarebbe stato molto più saggio
aspettare di sistemarlo un
attimino prima che iniziasse a strillare perché voleva la
crema copri occhiaie
o un cappello Borsalino per mascherare i capelli in disordine.
«Io
sono
malato e da quanto mi avete riferito lo sarò per il prossimo
mese perciò voi
due non potete rifiutarvi di esaudire i desideri di un povero malato
moribondo!»,
iniziò subito a fare la lagna petulante quello mentre
assumeva la miglior
espressione offesa del suo repertorio.
Francesco mi
rivolse uno sguardo esasperato e io alzai gli occhi al cielo e gli
indicai la
porta socchiusa del bagno. Sbuffando e mugugnando si alzò e
sparì dietro quella
soglia alla ricerca di un benedetto specchio per il convalescente in
vena di
capricci.
Nel
frattempo io ne approfittai per fare il possibile nel migliorare
l’aspetto di
Alfie. Con le mani gli pettinai in modo sommario i capelli e acconciai
il suo
ciuffo in modo da coprire almeno parzialmente il cerotto che aveva
sulla
tempia. Rifeci i fiocchetti del camice che si erano slacciati sulla sua
schiena
e gli sistemai il colletto di questo per fare in modo che potesse
assomigliare
più ad una polo che ad una camicia di forza per pazzi. Gli
pizzicai le guance
per donargli un poco di colore ignorando le sue proteste e gli tirai le
coperte
fino al petto per fare in modo che vedesse quella camiciola il meno
possibile.
«Il
trattamento di bellezza è finito?», mi chiese
ironico mentre Francesco
riemergeva dal bagno e gli metteva di fronte agli occhi uno specchietto
da
viaggio con il manico rotto.
«OMIODDIOOO!»,
strillò portandosi disperato le mani al viso e
accarezzandosi corrucciato le
sopracciglia e il mento.
«L’avevo
detto che era una pessima idea…»,
sbuffò Francesco mentre il suo amico non si
dava pace e ora aveva sciolto i fiocchetti che avevo appena fatto per
farsi
scivolare un poco la camicia sul collo e fissava inorridito le leggere
chiazze
violacee dovute probabilmente agli urti subiti.
Poi
all’improvvisò si bloccò nel bel mezzo
della sua ispezione e ci fissò
terrorizzato. «Avete detto che mi hanno operato alla milza,
vero?», sussurrò
flebile.
Confermai
non capendo dove volesse andare a parare.
Francesco,
evidentemente più intuitivo di me, scoppiò a
ridere sotto gli sguardi perplessi
della sottoscritta e del malato. «Sì, caro, hai
una super cicatrice che
attraversa il tuo addome in obliquo. Molto d’effetto devo
dire…», non appena
afferrai dove volesse andare a parare sogghignai divertita pronta a
godermi lo
spettacolo.
Alfie non ci
deluse. Lanciò un urlo e iniziò affannosamente a
lottare per liberarsi della
camiciola e dopo mille tentativi, data la presenza dei mille laccetti
di
chiusura sulla schiena difficilmente raggiungibile, riuscì a
denudarsi e a
fissarmi l’addome con occhi spalancati. Restò un
attimo interdetto e proprio in
quel momento entrò nella stanza un infermiere, probabilmente
accorso per il
trambusto.
«Che
succede
qui?», guardò prima Alfredo mezzo nudo, poi noi
due che avevamo un ghigno
malefico stampato in volto e infine ritornò a concentrarsi
sul ricoverato. «Signor
Arnaboldi perché si è denudato? Le fa forse male
qualcosa? Ha qualche fastidio?
Deve andare in bagno?», chiese premuroso mentre si avvicinava
al letto e
schiacciava qualche pulsante posto alle spalle della testiera per far
sollevare
automaticamente lo schienale del letto.
Alfredo,
inizialmente tutto rosso a causa della presenza del
bell’infermiere, decise che
non era il caso di comportarsi da persona psicopatica anche con il
personale
ospedaliero, perché no, quel comportamento era riservato
solo ai suoi più cari
amici, e tranquillizzò l’uomo che se ne
andò con la promessa di tornare più
tardi a controllare e a cambiare la flebo.
«Ti
hanno
operato in laparoscopia perciò non resterai orrendamente
sfigurato a vita anche
se è un peccato, almeno avresti potuto inventare storie
super fantasiose e di
coraggio su come ti
eri procurato quella
cicatrice…», gli spiegai mentre lo coprivo alla
bell’e e meglio con la
camiciola e le coperte.
Lui non
pareva dello stesso avviso infatti si imbronciò e
sentenziò che d’ora in avanti
avrebbe parlato solo con la sua mammina, non appena questa fosse
arrivata
ovviamente.
E se mai
fosse arrivata, aggiunsi io mentalmente domandandomi se il silenzio e
l’assenza
di Alessandro dovesse essere presa come un tacito assenso o meno.
«Come
sei permaloso! Suvvia, dicci cosa
possiamo fare per farci perdonare…», propose
spazientito Francesco, che non era
proprio capace di restare in conflitto con qualcuno.
Io gli tirai
un una sberla sul braccio, «Hei, parla per te! Io non
farò proprio niente
perché non ho null-…», mi bloccai
vedendo Alfie inscenare il teatrino degli
occhioni lucidi e del labbro tremolante. Quell’uomo era
incredibile! Adulto, si
fa per dire, proprietario di una rivista, di una casa, di
un’auto eppure ancora
più infantile di un bebè in fasce.
«D’accordo, d’accordo!», mi
arresi alzando
le braccia.
L’allettato
parve ringalluzzirsi tutto e iniziò a snocciolare ordini.
Che novità!
«Allora…vi
hanno detto per quanto mi tratterranno qui?», si
informò. Fra gli rispose che
si parlava di un paio di giorni ma tutto dipendeva dalla sua ripresa.
Ripresa che
secondo me era già abbondantemente avvenuta vista la sua
capacità di dettare
legge ancora migliore rispetto a prima dell’incidente.
Lui
annuì,
socchiuse gli occhi come per fare due calcoli mentali rapidi e poi
riprese le
vesti di tiranno. «Benissimo. Uno dei due si munisca di
taccuino e inizi a
segnare. Mia madre starà nel mio appartamento, appartamento
le cui chiavi sono
in tuo possesso Gin, e qualcuno andrà a prendere tutto
quello che ora vi
elencherò…»
La
mezz’ora
successiva la trascorremmo a cercare di non obiettare alle richieste
pazzoide
del nostro amico che, instancabile, continuava a farsi venire in mente
nuove e
strampalate cose di cui avrebbe potuto aver bisogno durante il suo
soggiorno
ospedaliero.
Avevo
sbirciato Francesco e mi ero accorta che dopo aver segnato la vestaglia
di seta
cinese in fantasia Pucci, gli incensi al sandalo per ingraziarsi gli
dei della
guarigione (poveretto, nessuno lo aveva messo al corrente dei
rilevatori di
fumo onnipresenti nell’edificio) e la coperta di pelo di
cammello albino aveva
iniziato a disegnare qualcosa, continuando però ad annuire
convinto in
direzione dell’ammalato quando in realtà stava
ignorando ogni sua richiesta.
Sapendo che
quella storia sarebbe finita con un’altra crisi isterica di
Alfredo e pensando
che i rapidi eccessi d’ira e picchi di pressione alta non lo
avrebbero aiutato
nella sua ripresa fisica per una volta mi sottomessi alle sue
stramberie e,
senza farmi vedere, registravo con il telefono celato dalle pieghe del
vestito
quella lista infinita di parole sciorinate da Alfredo.
Verso le
sette e mezza i nostri stomaci iniziarono a brontolare e a reclamare di
essere
riempiti e così mentre Francesco partiva alla volta del bar
per fare la scorta
io uscivo dalla stanza per cercare un infermiere a cui chiedere cosa
potesse
mangiare il nostro caro malato.
«Assolutamente
no! Dopo l’intervento deve assumere solo cibi liquidi per le
prime
ventiquattr’ore. Tra un attimo arrivo io con la sua
colazione, non si preoccupi»,
mi rassicurò un’infermiera rotondetta e un
po’ scorbutica.
Prima di
rientrare ne approfittai per fare una sosta al bagno delle signore e
sentire
Amelia. Una volta appreso che si trovava nelle vicinanze di Bologna e
tra
un’oretta sarebbe arrivata mi dedicai alla grande incognita
di quella sera:
Alessandro.
Riprovai a
chiamarlo e questa volta dopo un paio di squilli fui più
fortunata.
Per un
attimo restammo entrambi in silenzio dopodiché presi la
parola io. «Prima sei
sparito. Dove sei?», non riuscivo proprio a capire il senso
di fastidio che
provavo in quel momento.
Se ufficialmente
eravamo una coppia allora perché mi sentivo terribilmente
inopportuna nel
domandargli che fine avesse fatto? Mi sembrava quasi di impersonare i
panni
della donna invadente che non si faceva riguardi nel ficcare il naso
nella vita
del proprio fidanzato.
«Sono
andato
a casa a cambiarmi e a darmi una rinfrescata prima di recarmi in
stazione e poi
in redazione. Non vi siete più fatti vivi e così
mi sono preso una breve pausa.
Come sta?», mi spiegò distrattamente mentre in
sottofondo sentivo il rumore
della radio.
Capivo
perfettamente
che Alessandro conosceva Alfie da poco più di un mese e per
lui non era altro
che un superiore un po’ frivolo ed indiscreto ma rimasi
comunque interdetta di
fronte a quella manifestazione di scarso interesse. Era pur vero che mi
era
stato vicino fino all’alba e si stava rendendo molto utile
dando un passaggio
alla Signora Amelia e aprendo lui l’ufficio ma…
Pensai come
sempre che probabilmente ero io a pretendere troppo. In fondo anche
Nicola non
aveva mai compreso davvero il rapporto d’amicizia che mi
legava ad Alfie. Sbuffava
sempre quando si presentava a casa nostra senza preavviso, in sua
assenza si prendeva
gioco del suo inusuale modo di vestire e lo trovava terribilmente
chiassoso e
colorato.
Gli spiegai
sommariamente il quadro clinico di Alfredo senza dilungarmi sul fatto
che
psicologicamente fosse già tornato perfettamente in
sé.
«Bene.
Ci vediamo
più tardi allora»
«Ok»
«Ok»
E quando il
telefono mi riportò solo il muto tu-tu-tu che segnalava la
fine della
comunicazione rimasi per un attimo immobile chiedendomi cosa fosse
appena
successo.
Stavamo insieme
da tre giorni in teoria e già le nostre chiamate erano
piatte e monotone. Non avevamo
quasi nulla da dirci e quello che sarebbe dovuto essere detto veniva
invece
taciuto.
Frenai la
tentazione di richiamarlo per chiedergli cosa ci stesse succedendo,
incolpando
la notte insonne, la stanchezza accumulatasi e la fame.
Il buonumore
mi tornò non appena ritornai nella stanza di Alfie, il quale
era intento a
sfuggire in tutti i modi all’infermiera di poco prima che
cercava di portargli
alla bocca delle cucchiaiate di quella che pareva purea di mele.
Francesco invece,
spaparanzato nella mia poltroncina, stava assistendo divertito alla
scena
mentre si divorava un krapfen alla crema.
«Perché
io
non posso avere una brioche? O almeno dei biscotti? Io questo
omogenizzato non
lo voglio! Desista insomma!», strillava mentre
l’infermiera tentava di
approfittare delle sue urla per cacciargli in bocca il cucchiaio colmo
di
poltiglia giallognola.
Non vi avevo
forse detto che quella piccola donna era leggermente indisponente?
Ecco, come
volevasi dimostrare, si spazientì, afferrò in
malo modo la nuca di Alfie,
immobilizzandolo e lo forzò ad aprire la bocca, prima di
fargli trangugiare in
pochi bocconi tutto il contenuto della confezione di mousse.
«Non
a caso ho lavorato per anni in pediatria…»,
ci informò mentre con poca delicatezza puliva la bocca di
Alfie con un
tovagliolo prima di mollare la presa e farlo ricadere sui cuscini.
Dopo che se
ne fu andata io e Francesco ci guardammo un attimo senza parlare prima
di
scoppiare a ridere. Mi feci cadere sulle sue gambe e gli sfilai dalle
mani il
sacchetto di carta bianca che teneva in pugno.
«Mmh,
è
integrale con ripieno ai frutti rossi?», chiesi ispezionando
il cornetto che
riempiva l’involucro.
«Ovviamente!
Proprio come piace a lei, mademoiselle…»
Soddisfatta
addentai
quell’impasto friabile godendomi il sapore perfetto di una
calda brioche da
poco sfornata. Sapendo di irritarlo mangiai la mia colazione con
estrema
lentezza, intervallando lunghe pause in cui sorseggiavo il mio
cappuccino non zuccherato.
Alfie non mi deluse e iniziò a piagnucolare che lui voleva
andare a casa,
mangiare la parmigiana di melanzane di sua madre e andare a fare
shopping da
Prada.
«Amico,
un’oretta
e la tua adorata mammina sarà qui e noi potremo svignarcela
lasciandoti alle
sue amorevoli cure», lo rassicurò Fra, dandogli
una pacca sulla gamba sana con
fare incoraggiante. «E comunque per un mese potrai indossare
solo metà dei pantaloni
del pigiama…», gli fece notare indicando la lunga
ingessatura che ricopriva
completamente l’arto inferiore.
Sogghignai
immaginandomi
mentalmente lo shock che probabilmente stava paralizzando la mente di
Alfie in
quel momento mentre metabolizzava la notizia che per più di
trenta giorni
avrebbe dovuto dire addio ai suoi splendidi completi abbinati in favore
di
pigiami antiestetici.
Anche se io
i pigiami di Alfie li avevo visti ed erano di una seta così
morbida e di una
fattezza così pregiata che probabilmente avrei potuto
sfilare alla Mostra del
Cinema di Venezia con quelli e tutti avrebbero lodato il mio look da
red
carpet.
«Gin,
chiama
subito il mio personal shopper, spiegagli la situazione attuale e digli
che
deve assolutamente trovare una soluzione a questo problema! Come
farò? Potrei lavorare
da casa e per un mese fare l’eremita. Tanto ormai con lo
shopping online posso
far si che mi consegnino a casa tutto ciò di cui ho
necessità senza dovermi per
forza esporre agli occhi del mondo, no?». Al colmo
dell’agitazione afferrò il
suo iPhone e iniziò a digitare in modo compulsivo senza mai
staccare le dita
dallo schermo.
Consapevoli che
quell’attacco di follia acuta poteva protrarsi per un lungo
lasso di tempo
decidemmo di lasciarlo fare in modo da prenderci una pausa dal nostro
lavoro di
Alfie-sitter.
«Hai
notato
il numero della sua stanza?», gli domandai, sistemandomi
meglio sulle sue
ginocchia e indicandogli la targhetta usurata affissa al legno della
porta che
recava scritto 237.
«Non
credo
sia una coincidenza, probabilmente, in onore di Shining, riservano
questa
camera solo ai pazzi…», commentò mentre
sorseggiava il suo caffè nero.
Come tesi
non pareva molto valida dal momento che ci avevano riferito che quando
il
nostro amico era arrivato in pronto soccorso era in stato di
incoscienza però
lo interpretai comunque come uno strano segno del destino.
«Il
tuo
fidanzatino dove si è cacciato?»
Storsi il
naso di fronte notando il tono di malcelato disprezzo con cui si era
riferito
ad Alessandro e sospirai abbattuta. Alessandro non era di certo un fan
di
Francesco e, visti gli ultimi accadimenti, neanche di Alfie. Francesco
dal
canto suo non si sforzava neanche di nascondere la sua antipatia per il
mio
fidanzato. E poi c’ero io che adoravo immensamente tutti e
tre.
Sarebbe stato
bello per una volta nella vita avere la fortuna di trovare un compagno
che
piacesse anche ai tuoi amici e non fosse invece fonte di continui
dissapori.
«Se ne
è
andato a casa. Ora sarà quasi in stazione
penso…», risposi stancamente
passandomi una mano sugli occhi. Indossavo le lenti a contatto da quasi
ventiquattr’ore e ormai si erano quasi fuse con il mio
occhio.
Francesco ebbe
l’accortezza di non commentare e si limitò a
lasciarmi una lieve carezza sulla
schiena. Approfittai di quella pausa, con Alfie sempre ipnotizzato dal
turbinio
di parole con cui stava intasando la memoria del suo telefono, per
prendere in
prestito il barattolino di lacrime artificiali di Fra e fare una
capatina in
bagno per darmi una sistemata.
Oltre alle
occhiaie, naturale dono di una notte passata in piedi, avevo gli occhi
cerchiati dall’eyeliner sbavato e dagli sbaffi del mascara.
Waterproof un bell’accidenti!
Mi sciacquai
il viso, reclinai il capo all’indietro per potermi mettere il
collirio con più
facilità ed infine sciolsi del tutto i capelli prima di
rintrecciarli in una
treccia morbida sulla spalle. Quando uscii e spensi la luce mi ritrovai
stretta
tra due braccia minute e avvolta in una nuvole di profumo di lavanda.
«Ginevra
cara, non sai quanto ti sia grata. Quello di stamane è stato
il viaggio più
lungo di sempre! Mi accompagni tu da Alfredo?», la Signora
Amelia, piccola e
gracile, come sempre mi prese per mano e mi rivolse un sorriso carico
di
gratitudine.
Mentre la
conducevo alla stanza del figlio mi voltai perché sapevo
benissimo che lui
sarebbe stato lì a pochi passi da me. Incontrai di sfuggita
quegli occhi verdi
e subito mi sentii meglio e mi diedi della sciocca per tutti i brutti
pensieri
infondati che avevo fatto quella mattina presto quando mi ero accorta
che lui
se ne era andato.
Dopo aver
lasciato madre e figlio da soli, Francesco ci lasciò
accampando la scusa di
dover cercare un telefono pubblico per chiamare l’albergo e
Aprile, la
poveretta che era stata abbandonata in fretta e furia in una spa
dell’Alto
Adige. Gli prestai il mio cellulare dato che probabilmente si sarebbero
succeduti cinque diversi sovrani sul trono d’Inghilterra
prima che lui potesse
trovare una cabina telefonica. Mi ringraziò e se ne
andò in tutta fretta,
facendoci chiaramente capire che lui nei litigi tra amanti non voleva
essere
coinvolto.
«Ti
porto a casa?», mi chiese gentilmente
accarezzandomi una guancia.
Reclinai stanca
il viso contro la sua mano e chiusi gli occhi godendomi il contatto con
la sua
pelle fresca. Io invece stavo letteralmente andando a fuoco a causa
delle
temperature tropicali che sono sempre presenti nelle strutture
ospedaliere.
«Tra
un po’,
va bene?», lui annuì piano e mi
abbracciò in silenzio.
Allungai una
mano e seguii in punta di dita il profilo della sua clavicola, lasciata
semi
scoperta dal colletto allentato della camicia che sbucava dal cappotto.
Quando rialzai
il capo lo vidi fissarmi sorridente, «Ho sentito Valeria poco
fa. Nell’arco di
trenta secondi è passata dalle lacrime alle imprecazioni.
Penso di non essere
molto bravo nel comunicare con tatto le notizie
delicate…»
Potevo
facilmente
immaginare Val, ancora semiaddormentata e con i capelli biondi sparsi a
nuvola
attorno alla testa, ricevere quella doccia fredda subito seguita
però dal
racconto che ora Alfie, con la sua gamba rotta, stava abbastanza bene
da
riprendere il suo ruolo di galletto del pollaio.
«Consolati:
ambasciator non porta pena anche se io al posto tuo sarei in pensiero e
controllerei che la carrozzeria della Porsche non venga
rigata…», lo presi in
giro anche se nel profondo sapevo che Val una cosa del genere avrebbe
potuto
benissimo farla.
Non avevo
mai pensato di presentarla a Veronica ma probabilmente era stato un
bene perché
quelle due insieme sarebbero finite in carcere per il resto dei loro
giorni. Anche
se per come stavano le cose ultimamente ora a temere di vedersi
sfasciata l’auto
doveva essere mio fratello Federico.
«Ora
si che
mi sento molto meglio!», mi rispose ironicamente prima di
trascinarmi per un
braccio per togliermi dal centro del corridoio dove stavo bloccando la
circolazione di un paio di infermieri con lettino e malato al seguito.
Ridacchiai nel
vedere le occhiatacce che mi erano state rivolte dalla più
giovane e carina
delle due donne e ne approfittai per stringermi più vicina
ad Alessandro.
Una figura
familiare fece capolino dal fondo del corridoio, le mani occupate da
una scatola
e un’espressione lugubre stampata in volto.
«Cos’è successo? Per una volta sei
stato tu a ricevere un due di picche?», domandai maligna non
appena arrivò a
portata d’orecchio.
Francesco per
tutta risposta mi sbatté in testa la scatola con mio grande
dolore e
disappunto. Mi massaggiai pensosa la zona lesa mentre gli rivolgevo
sguardi
assassini.
«Ti
sei
comprato un telefono?», gli chiese alle mie spalle Alessandro
accennando alla
scatola incriminata.
«Ho
dovuto,
quella pazza donna con cui ero alle terme ha dato i numeri e il
concierge dell’albergo
mi ha detto che ha distrutto mezza camera, accanendosi in particolar
modo sui
miei oggetti personali, per un totale di quasi 3000€ di danni.
A mie spese
ovviamente…», borbottò tra i denti il
mio amico visibilmente livido.
Non potei
trattenere un sorrisetto malefico. Un po’ se l’era
cercata; forse a forza di
frequentare donne superficiali e pazze avrebbe capito che era ora di
impegnarsi
un po’ di più con qualcuno con cui valesse davvero
la pena. Glielo avevo
ripetuto mille volte che le storie di letto potevano essere anche
divertenti
all’inizio ma poi alla lunga tediavano e si arrivava sempre a
desiderare
qualcosa di più profondo. Quando io gli facevo questi
discorsi, dispensando i miei
saggi consigli, lui solitamente si metteva a cantare a squarciagola per
sovrastare la mia voce e non prestarmi la minima attenzione. Quando si
dice
gettare perle ai porci…
«Sono
cose
che possono capitare…», commentò poco
convinto Alessandro, trattenendo a stento
una smorfia.
Se da un
lato fui contenta che anche a lui tutto ciò sembrasse una
grande sciocchezza,
segno che non aveva sperimentato un passato a base di dissolutezze come
il caro
Franceschino, dall’altro mi infastidì il suo
giudicare in silenzio una persona
che a malapena conosceva.
Anche io
giudicavo una stronzata colossale quella delle storielle a scadenza
mensile ma
conoscevo il mio amico da anni e avevamo raggiunto un livello di
confidenza
tale da poterglielo riferire senza il timore di sembrare inopportuna.
Di nuovo mi
rimproverai mentalmente convinta di farmi come mio solito troppe
paranoie
mentali.
«Sì
certo,
cose che capitano solo a lui però. Sei un idiota caro e non
smetterò mai di
ripetertelo. Vabbè dai, andiamo a vedere se Amelia
è già ripartita alla volta
di Firenze in preda alla disperazione dopo dieci minuti da sola con il
figlio…»,
proposi chiudendo la questione. Almeno per il momento perché
di sicuro mi sarei
vendicata di quella botta alla testa.
Alfredo, da
brutto essere infimo qual era, stava facendo le fusa a sua madre in un
fiume di
‘sì mammina cara’ e ‘per
fortuna ci sei qui tu’. Si poteva dire tutto su
quell’uomo
frou frou ma non che non sapesse come entrare nelle grazie delle
persone con
cui si rapportava.
Amelia
però
era decisamente più furba e ne aveva approfittato per fargli
mangiare, senza
proferire protesta, una nuova confezione di mousse di mela. Ben gli
stava così
imparava a fare il pavone conquistatore con chiunque.
«Ragazzi
ora
voi andate a casa e vi riposate. Domani andate al lavoro normalmente e
non
preoccupatevi per il neonato qui presente: a lui ci penserò
io. E non fatevi carico
dei miei spostamenti, ho abitato tutta la vita in questa giungla
milanese,
vedrò di arrangiarmi», ci ordinò con
fare autoritario la Signora Arnaboldi. E nonostante
il sorriso dipinto che aveva sulle labbra nessuno di noi tre si
sognò
minimamente di contraddirla. Tale madre tale figlio.
Agli ordini!
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