Apocalypse

di _Leviathan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le loro vite sono diverse. ***
Capitolo 2: *** L'ex Ospedale Psichiatrico di Westwood. ***
Capitolo 3: *** Che diamine era quella cosa? ***
Capitolo 4: *** "Non è un sogno, Daisy." ***
Capitolo 5: *** Città fantasma. ***
Capitolo 6: *** Dalla padella alla brace? ***
Capitolo 7: *** Il piano. ***



Capitolo 1
*** Le loro vite sono diverse. ***






















***Alcuni piccoli accorgimenti prima di cominciare.
Non ho idea di cosa uscirà da questa storia, l'ho ideata oggi pomeriggio e ho ancora centinaia di incognite. Questo capitolo è stato dunque scritto un po' di getto.
I personaggi sono tutti miei tranne ovviamente Frank, Gerard, Mikey e Bandit (gli ultimi tre appariranno più avanti).
Purtroppo non è una Frerard. Sono una convinta sostenitrice della coppia (yay!) ma ho voluto fare qualcosa di diverso.
Spero gradirete :3

Ah, vi sarei grata se mi lasciaste una recensione alla fine del capitolo per farmi sapere cosa ne pensate, non avete idea di quanto le recensioni mi siano utili.

Bando alle ciance, si comincia!***




Capitolo uno.



Ero sempre stata convinta che le cose che accadevano a me accadessero anche a tutte le altre persone. Semplici esperienze, magari situazioni abituali vissute e rivissute.
Rimanevo sempre un po’ scioccata ogni volta che mi rendevo conto che quasi solo per me era così. Le persone sono tutte diverse, vivono situazioni completamente diverse dalla mia tutti i giorni, le loro vite sono diverse.
Mia madre piangeva seduta sulla sedia di fronte a me. A separarci solo il tavolo della cucina. Aveva dimenticato la sigaretta sul piattino del caffè. Ormai si era consumata quasi del tutto.
Piangeva e non la smetteva, eravamo ridotte a quel silenzio interrotto solo dai suoi singhiozzi da quasi venti minuti.
Il suo compagno l’aveva lasciata. Sei anni buttati nel cesso.
Ogni tanto lei, tra un singhiozzo e l’altro, se ne usciva con un’imprecazione particolarmente originale e colorita, o più semplicemente piagnucolava su quanto le mancasse Denny e su quanto avesse significato per lei quella relazione.
Io stavo ad ascoltare, non particolarmente colpita.
Conoscevo bene quella donna. Mia madre era sempre stata una persona dal temperamento forte, ma necessitava costantemente di qualcuno a cui aggrapparsi. Senza quell’appoggio, tutto il suo temperamento forte andava a farsi fottere.
Denny Pitsbury era stato la sua roccia per gli ultimi sei anni.
Si erano conosciuti un anno e mezzo dopo il divorzio da mio padre, quando io ero ancora troppo piccola per poterle dare tutto l’appoggio che cercava, per essere la fonte del suo temperamento forte.
Non biasimavo Denny, le cose avevano semplicemente smesso di funzionare nella maniera corretta. Troppi litigi, troppe lacrime, troppe urla.
Le persone cambiano, le cose non funzionano più come dovrebbero.
Allungai una mano sul tavolo fino ad incontrare una delle sue. Era particolarmente rigida, bagnata dalle lacrime che si era asciugata in malo modo dal viso.
- Ehi, Rachel. – Non la chiamavo mai mamma. Sempre Rachel. Avevo smesso di chiamarla mamma nell’anno subito seguente al divorzio. Era venuto a mancare qualcosa tra noi due, qualcosa che non era ancora andato recuperato e che probabilmente non lo sarebbe mai stato.
- Rachel. – Dissi più decisa. Lei sollevò gli occhi su di me. Le sorrisi.
Che cosa si diceva ad una mamma che era appena stata lasciata dall’uomo che ama?
- Andrà tutto bene. – Parole false e vuote, alle quali nemmeno io credevo.
No, le vite delle altre persone non erano come la mia. Avevano una famiglia normale e non chiamavano la loro mamma per nome.



Frank era completamente assorbito dal disegno al quale stava lavorando da tutta la mattina. Il naso affondato nel foglio e la lingua tra le labbra semichiuse denotavano la sua estrema concentrazione.
Gli avevo tirato un bigliettino tutto accartocciato, ma non si era voltato.
Avevo chiamato Mitchell, il suo compagno di banco, ma le uniche attenzioni che avevo ricevuto erano state quelle del signor Kurzem, l’insegnante di scultura.
Rigorosamente tedesco.
Pallido. Capelli biondi. Occhi di ghiaccio. Sembrava quasi albino.
Insopportabile.
- Signorina Snowdon? –
Mi voltai verso di lui con una smorfia. – Si, signor Kurzem? –
- Fuori dalla porta. E non si azzardi a ribattere. –
Ah, mi conosceva sin troppo bene. Aveva pronunciato la seconda frase nel momento esatto in cui io avevo aperto la bocca per ribattere.
Annuii una sola volta con la testa, le labbra ridotte ad una linea rigida. Mi alzai dalla mia sedia, girai i tacchi, e mi incamminai verso la porta.
Finalmente Frank si era degnato di rivolgermi un minimo d’attenzione. Lo mandai a fare in culo tenendo la mano ben nascosta davanti a me, così che Kurzem non mi vedesse.
E tanti saluti alla bravissima studentessa-antisgamo Daisy Snowdon.

Avevo passato entrambe le due ore di scultura fuori dalla porta. Avevo impiegato il mio tempo come meglio avevo potuto, tra un giro al bagno, un cappuccino in caffetteria in compagnia di Barnaby – il bidello migliore del mondo, ve l’assicuro – e una chiacchierata con Linda Steele – la ragazza delle punizioni per eccellenza – riguardo al tema: “I croassant sono più buoni alla crema o al cioccolato?”
Finalmente, alle 10.25, era suonata la campanella della ricreazione.
Ero sfrecciata in direzione della mia classe, pronta a prelevare Frank non appena avesse messo il naso in corridoio.
Salutai Kurzem con un sorrisino tanto angelico quanto falso, e non appena vidi il ciuffo di Frank spuntare – no, spuntare non è la parola giusta, vista la sua bassezza – beh, non appena riuscii a vedere Frank, lo presi a braccetto e lo trascinai verso il cortile, in quell’angolo all’ombra del tiglio che ormai era diventato il nostro angolo.
- Allora? Che ne pensi? –
Corrugò la fronte, si leccò velocemente le labbra. – Penso che sia fantastico D, sul serio. Ma sei sicura di volerlo fare? –
- Assolutamente. Senti Frank. Il concorso di fotografia scade tra cinque giorni esatti, siamo l’unica coppia che non ha ancora un fottutissimo scatto, e abbiamo trovato un posto da urlo. Saresti scemo a non accettare. –
- Potrebbe essere pericoloso. –
Lo guardai storto, il sopracciglio destro partito per la tangenziale. – Mi prendi in giro, vero? –
A questo punto Frank fece una delle rare cose che io odiavo categoricamente di lui. Mi prese per i fianchi e mi sollevò da terra, mi stampò un bacio a schiocco sulla guancia. Tra mille imprecazioni – ovviamente da parte mia – e un calcio sullo stinco – ancora da parte mia – si decise finalmente a mettermi giù.
- Certo che stavo scherzando. – Sorrise.
Suonò la campanella di fine pausa.
– Ci vediamo domani lì. Dopo cena. –
- Okay, a domani. –
Mi voltai e mi recai nell’ala est della scuola per il corso di scenografia, mentre Frank si recò in quella nord per architettura.



Rachel dormiva ancora. Era mezzogiorno passato, e dalla sua camera da letto non proveniva alcun rumore se non quello delle sue narici che russavano sonoramente.
Scossi la testa e mi recai in cucina, misi l’acqua a bollire e mi accesi una sigaretta.
Facevo schifo a cucinare, ma piuttosto di ritrovarsi a pranzare alle cinque…
Controllai il telefono. Nessun messaggio di Frank, ciò stava a significare che quella sera il progetto avrebbe preso vita.
Era anche l’ora, diamine! Non ero mai stata in un tale ritardo per un progetto scolastico.
E odiavo esserlo, se non si fosse capito.
Il pomeriggio passò con una lentezza esasperante. Il tempo non passava, la lancetta dell’orologio sembrava essere sempre nello stesso punto.
Il risultato fu che alle otto e mezzo uscii di casa con il nervoso e con quel mal di testa che viene sempre quando si passa la giornata a non fare nulla o ad aspettare qualcosa.
Quando arrivai mi resi conto che ero in anticipo. Nel luogo dell’incontro ero sola. E diciamocelo, quel posto aveva il potere di mettere i brividi.
Mi strinsi nella mia giacca di jeans e mi sedetti sullo skateboard, il mio fido compagno di cadute. Presi lo zaino e me lo misi sulle ginocchia. Ne tirai fuori la macchina fotografica e l’accesi. Scattai qualche foto a casaccio, qualsiasi cosa pur di ingannare l’attesa.
Dopo circa un quarto d’ora arrivò Frank sul suo skateboard – era stato lui ad insegnarmi ad andare sul mio – e appena mi vide esibì il suo miglior sorriso, quello che io adoravo. Mi salutò con due dita portate sulla fronte, molto in stile “militare”.
- Allora, Principessa delle Tenebre! – Principessa delle Tenebre. Il soprannome che mi aveva dato appositamente riguardo alla mia passione per il macabro e l’orrido. – Sei pronta? –
- Sono nata pronta. – Dissi, con un sorrisino pericoloso.
- E allora entriamo e vediamo di finire questo lavoro in fretta. –
Non senza difficoltà riuscimmo ad aprire il portone d’ingresso. Era sbarrato ed arrugginito, se mi fossi tagliata probabilmente avrei fatto intervenire direttamente tutto il paradiso (Dio compreso). Le porte si aprirono con un cigolio decisamente inquietante, mentre nuvole di polvere ci costrinsero a coprirci il naso e la bocca con i lembi delle giacche. All’interno, regnava il silenzio.
- Però… - Fu il timido commento di Frank. – Fa un po’ paura. –
Corrugai la fronte. – Già. Ma non mi aspettavo diversamente da un ex Ospedale Psichiatrico. –

No, le vite delle altre persone non erano come la mia.

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Capitolo 2
*** L'ex Ospedale Psichiatrico di Westwood. ***







***Un grazie di cuore alle persone che hanno recensito il primo capitolo, mi avete aiutata molto e vi siete meritate tanti biscottini al cioccolato *-*
Okay no, seriamente, grazie mille.
 
Eccoci qua con il secondo capitolo, yay! Spero vi piaccia e... niente, non mi va di aggiungere altro.
Enjoy, leggete, e recensiteeee <3 ***




 
Capitolo due.



 
Mossi i primi passi esitanti all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico. Non volava una mosca, era come se il tempo lì dentro si fosse fermato per sempre.
Frank non si era ancora mosso. Sbuffai e tornai indietro, lo trascinai all’interno per un braccio.
Il luogo in cui ci trovavamo in quel momento era, all’apparenza, ciò che un tempo doveva essere stato il salone d’ingresso. Non c’era molto all’interno, solo muri bianchi tutti scrostati e ammuffiti e qualche vecchio mobile mangiato dai tarli.
La luce fioca che penetrava dai finestroni stava svanendo quasi del tutto, ma per gli scatti che avevo ideato avrei avuto bisogno del buio assoluto e della luce di una torcia, che Frank aveva appositamente portato da casa.
I nostri passi rimbombavano all’interno dell’edificio, rendendo il tutto ancora più inquietante e… in qualche modo solenne.
Forse Frank aveva ragione ieri. Forse non era stata un’idea brillante.
Immediatamente una vocina nella mia testa, quella che io chiamavo la-Daisy-ragionevole-con-i-controcoglioni, mi ordinò di zittire certi pensieri e di concentrarmi sul mio lavoro.
Frank si diresse verso uno dei finestroni e spostò qualche mobiletto per creare la prima scenografia. Posizionò diversamente le tende consumate della finestra, poi tornò verso di me. Mani sui fianchi, fronte corrugata, sguardo concentrato.
- Che ne pensi? –
Esaminai la composizione per qualche secondo. Decisi che mancava qualcosa.
Feci una veloce ispezione dell’atrio e trovai, su un bancone marcito, un piattino di ceramica sul quale giaceva una rosa appassita e rinsecchita.
Presi piattino e rosa e li posizionai sopra uno dei mobiletti che facevano parte della composizione. Tirai fuori dallo zaino una bottiglietta d’acqua diluita con del colorante rosso, e la versai all’interno del piattino.
Sangue. Sembrava sangue, esattamente come avevo sperato. E quel tocco donava alla scena una macabra perfezione, come se quel luogo fosse stato sede di un rito sacrificale.
Mi affiancai a Frank. – Penso che sia perfetto. –  
Miss modestia.
Ammirai per qualche istante l’opera. Le tende ingrigite cadevano come mani cadaveriche sui mobili, lambendone appena la superficie, e la luce fioca che penetrava dalla finestra conferiva alla scena un’aria spettrale.
Il tutto aveva un’aura di… morte.
- Per questo scatto non ci serve la torcia, no? – Fece Frank.
- No, infatti. –
Tirai fuori dallo zaino la macchina fotografica e il piccolo cavalletto. Trovai dopo qualche minuto un’inquadratura interessante, che feci controllare anche a Frank e che lui approvò.
Scattai le prime fotografie.
Quando finii richiusi il cavalletto e presi in mano la macchina fotografica.
- Bene. Io direi di fare un giro ai bagni e alle stanze dei pazienti. Che ne pensi? –
Frank annuì. – Certo. Scattiamo qualche foto lì e poi andiamo. –
Sollevai il lato destro della bocca e lo guardai di sbieco. – Te la stai facendo sotto, Frankie? –
Scosse la testa e sorrise, colpendomi il braccio con un pugno leggero.
 
Trovammo le stanze al piano superiore. Per quanto io avessi insistito per fermarci ed immortalare anche le scale, Frank non aveva voluto sentire ragioni.
“Non rientra nel nostro progetto, D. Non complicare le cose.”
E così ci eravamo diretti alle stanze.
Le porte erano quasi tutte aperte. Vecchie, scrostate e arrugginite. Molte non erano neanche più sui loro cardini.
Trovai la stanza 66, mi fermai sotto lo stipite.
- Frank? –
- Mh? –
- Non è che hai un pennarello? O qualcosa con cui scrivere? –
Frank seguì il mio sguardo, e dall’espressione che fece quando vide il numero 66 capii che aveva compreso le mie intenzioni.
Si mise a rovistare nello zaino. Dopo qualche minuto mi si avvicinò con un pennarello nero in mano. – Oggi sei fortunata, D. –
Si mise in punta di piedi e cominciò a disegnare un altro sei accanto al numero della stanza. Dovetti soffocare una risata. Vedere Frank Iero, non certo conosciuto per essere Sua Altezza in persona, cercare di allungarsi il più possibile per scrivere sullo stipite di una porta, era uno spettacolo abbastanza comico.
Purtroppo io non ero più alta di lui. Misuravo la bellezza di un metro e sessant’uno d’altezza, quindi non avrei potuto fare nulla per aiutarlo. E poi, era decisamente più allettante l’idea di restare lì e prenderlo in giro silenziosamente.
Dopo un paio di minuti Frank terminò la sua opera di riadattamento dello stipite della porta, e io scattai le foto. Non c’era bisogno di aggiungere o cambiare altro, era già tutto perfetto. La targhetta arrugginita e sporca, il muro bianco.
Ne scattai qualcuna anche da un’angolazione dalla quale si intravedeva anche l’interno della stanza, poi qualche altra nel corridoio.
Quando entrammo nella stanza per gli ultimi scatti della sezione, un senso di claustrofobia mi prese immediatamente la gola.
La stanza era… beh non si poteva dire “il minimo indispensabile”, perché era assolutamente meno del minimo.
Piccola, minuscola. Le pareti erano talmente spesse che una volta chiusa la porta tutti i suoni provenienti dall’esterno non sarebbero mai riusciti a penetrarvi. L’unica finestra, in alto – irraggiungibile per due persone della statura di me e Frank – doveva essere al massimo di dieci centimetri per quindici.
I resti arrugginiti di un letto in ferro battuto erano ammucchiati sulla sinistra. Per il resto – a parte qualche matassa di polvere e mucchi di non-so-cosa-ma-credo-sia-terra sul pavimento – non c’era altro.
Non riuscivo a capacitarmi di come certe persone avessero potuto vivere lì.
Vivere… non era l’espressione più adatta.
Mi abbracciai lo stomaco per scacciare i brividi e guardai Frank. L’espressione stampata sul suo volto era la stessa che si rifletteva sul mio.
Il pensiero ricorrente nella mente di entrambi? Muoviamoci e torniamo a casa.
Come prima, non ci fu bisogno di cambiare nulla per conferire un’aria spettrale a quella stanza. L’unica cosa da sistemare era la luce, che grazie al magico intervento della torcia di Frank rese il tutto ancora più perfetto. Le ombre aggravate dalla luce accecante della torcia creavano dei chiaroscuri mozzafiato.
Presi la macchina fotografica, la sistemai sul cavalletto. Tolsi il copri obiettivo e misi a fuoco. – La vittoria è nostra. –
Scattai.
Fu in quel momento che le cose cambiarono.
Un vetro che si infrangeva al suolo. Il rumore di qualcuno che correva.
Tirai un urlo e lasciai cadere la macchina fotografica, maldicendomi mentalmente subito dopo per averlo fatto. La raccolsi e mi voltai verso Frank.
- Anche tu hai…? – Non c’era bisogno di finire la frase, il suo volto cinereo confermava che si, quei rumori non erano stati frutto della mia immaginazione.
Merda. Chi cazzo c’era lì dentro?
- Da dove provenivano? – Chiesi in un soffio.
Frank scosse la testa. – Non ne sono sicuro, probabilmente dall’atrio. –
Uscì dalla stanza e si affacciò sul corridoio.
- E ora dove cazzo vai?! – Lo raggiunsi e gli strinsi il braccio.
Si, me la stavo facendo sotto.
- Dobbiamo andare a vedere. –
- NO! – Strillai. Il tono della voce era salito di un paio d’ottave. – Lo sai meglio di me che nei film dell’orrore il coglione che va a vedere chi è che fa rumore è il primo a lasciarci la pelle. –
Mi guardò come se fossi pazza. Mi posò entrambe le mani sulle spalle.  – Daisy Snowdon. Questo non è un film dell’orrore. – Pronunciò la frase con una lentezza esasperante, come se fossi stata una rincretinita con qualche problema mentale.
Mi scrollai di dosso le sue mani e lo guardai storto. – Frank Iero. – Era arrivato il mio turno di parlargli in quel modo. – Siamo in un fottuto ex Ospedale Psichiatrico. Magari non ci girano mostri ma la gente che frequenta questi posti di notte solitamente non è più amichevole di Freddy Krueger. –
Dove diamine era finito il ragazzino cacasotto di dieci minuti prima?
Frank roteò gli occhi. – E va bene. Ma dovremo comunque uscire di qui prima o poi… – Gli premetti una mano sulla bocca per farlo stare zitto.
- Prima o poi?! Noi ce ne andiamo da qui subito. –
Continuò come se non mi avesse sentito (e come se non avesse una mano spiaccicata sulla bocca): – … e quindi è probabile che incapperemo comunque in quella cosa.-
Sollevai un sopracciglio. – Chiamarlo quella cosa ha avuto l’effetto di terrorizzarmi ancora di più, sappilo. –
Come odiare Frank Iero, parte due. Un giorno ci avrei fatto un tutorial.
Cominciò ad avanzare per il corridoio deserto con me alle calcagna. Non avevo alcuna intenzione di stargli più lontana di dieci centimetri.
Il fascio della torcia puntata davanti a noi era ormai l’unica fonte di luce. Non sapevo che ore fossero, ma doveva essersi fatto tardi.
Arrivammo alla fine del corridoio e scendemmo le scale.
Avevamo raggiunto l’atrio facilmente, ora non ci restava che attraversarlo e imboccare la porta. Non mi importava una beneamata minchia del fatto che alle latrine non ci avevamo neanche messo piede.
- Aspetta D. E i bagni? –
Ecco.
- Chissenefrega dei bagni Frank, voglio andarmene da qui. –
- E dai, quanto ci metteremo? Dieci minuti? –
- Dimentichi che dovremmo anche trovarli, i bagni. –
- Va bene, proviamo di qua. – Fece dietrofront e mosse il primo passo nell’optata direzione dei bagni. Lo fermai immediatamente parandomi davanti a lui.
- Non mi hai sentito? Voglio andarmene. –
Aprì la bocca per ribattere, ma l’urlo che sentimmo subito dopo gliela fece richiudere immediatamente.
L’urlo continuava, sempre più stridulo e soffocato. Terrificante, agghiacciante.
Era una voce femminile.
Spalancai la bocca. Volevo urlare anch’io, ma la voce mi rimase imprigionata in gola.
- AIUTO! QUALCUNO MI AIUTI! –
Frank imprecò, cominciò a correre nella direzione della voce. Lo seguii tra stanze e corridoi bui, inciampai più volte in assi di legno e ferraglia che a causa del buio pesto non riuscii a vedere. Si fermò di botto e gli andai a sbattere contro. Le urla erano terminate, regnava il silenzio più totale.
Mi venne voglia di coprirmi le orecchie tanto era fastidioso ed insopportabile.
Avevamo entrambi il fiatone. I nostri occhi erano colmi di domande, ma nessuno dei due osava aprir bocca e dar voce a quei pensieri.
Poi le urla ricominciarono.
- Di qua! – Disse Frank, e ricominciammo a correre.
Per ironia della sorte, sbucammo alle latrine.
Il mio primo pensiero fu: Cazzo, avevo ragione. Non dovevamo venirci.
Persi l’equilibrio, se Frank non mi avesse sostenuta sarei stramazzata al suolo.
Era uno spettacolo orribile, mi sembrava di essere stata catapultata in uno di quei film dell’orrore che tanto amavo. La parete di fronte a noi era quasi completamente vermiglia a causa di tutto il sangue che l’aveva imbrattata.
Ed eccola lì, la ragione per cui eravamo finiti in quel posto. Era una ragazza – o meglio, lo era stata – ma da ciò che restava di lei non avrei saputo dire quanti anni aveva. Pezzi del suo corpo erano sparsi per tutta la stanza, l’odore metallico e penetrante del sangue mi fece venire un altro capogiro.
Ma non erano i resti di quella ragazza la cosa più terrificante. Era il suo aguzzino.
Potevo decretare solo una cosa a riguardo: Qualsiasi cosa fosse, non era umano.
Le sembianze erano quelle di un umano, ma c’era qualcosa che non andava. Gli arti erano troppo lunghi, il corpo troppo magro, sembrava che la pelle fosse stata stesa direttamente sulle ossa. E i rumori che faceva con la bocca… somigliavano più a dei  grugniti.
Ah, dimenticavo. Stava mangiando la ragazza.
E grazie a Dio non si era accorto di noi. Non ancora, perlomeno.
Ero pietrificata, non riuscivo a muovere un muscolo. Non so come, ma in qualche modo trovai la forza di stringere debolmente la mano congelata di Frank.
Indietreggiammo insieme cercando di non fare il minimo rumore. Probabilmente quella fu l’unica volta che pregai Dio in tutta la mia vita, e a quanto pare le mie preghiere furono ascoltate, visto che dopo qualche minuto interminabile ci ritrovammo fuori dalle latrine.
Mano nella mano ci mettemmo a correre, percorremmo a ritroso tutti i corridoi e sbucammo nell’atrio. Non ero mai stata tanto felice di rivedere un luogo in vita mia.
Imboccammo la porta e fummo fuori.
Mi appoggiai al muro e vomitai.
 
 


 

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Capitolo 3
*** Che diamine era quella cosa? ***









***Miao! Come sempre all'inizio di ogni nuovo capitolo tengo a ringraziare immensamente le fantastiche persone che utilizzano un pochino del loro tempo per leggere e seguire questa storia. Un abbraccio enorme va anche e soprattutto a quei tesori che recensiscono, mi aiutano con i loro consigli, e mi infondono sempre più fiducia in me stessa. Siete importanti aw c: 
Non ho altro da aggiungere, se non: Leggete, godetevi il capitolo e... recensiteeee! <3***





 
Capitolo 3.

 
 

- Che diamine era quella cosa? –
- Non lo so. – Frank si alzò dalla sedia.
Si passò una mano sulla faccia. Indugiò per qualche istante sul mento e poi la lasciò ricadere lungo il corpo. – Dio… – Scosse la testa e tornò a sedersi.
Eravamo a casa sua, in cucina. Avevo perso il conto di quante sigarette avessimo fumato negli ultimi venti minuti, ma dalla consistente nube di fumo addensata sul soffitto dovevano essere state parecchie.
- D, dammi la macchina fotografica. –
Gliela passai facendola scivolare sul tavolo. Non ne volevo sapere più niente di fotografia per quella notte, e probabilmente anche per il resto della mia vita.
Avevo vomitato l’anima fuori da quel fottuto Ospedale Psichiatrico, e dovevo ancora fare del mio meglio per trattenere la bile – ormai era rimasta solo quella – all’interno del mio corpo.
Ero senza forze, ma non avevo intenzione di mangiare o bere nulla. Il solo pensiero di ingerire qualcosa mi dava il voltastomaco.
Osservai Frank dalla mia postazione accanto al frigorifero. Aveva acceso l’aggeggio e stava scorrendo le foto di quella notte.
- Che cosa speri di trovare? Quello di scattare foto al… coso non è certo stato il mio primo pensiero. – Anzi, non mi era neanche passato per l’anticamera del cervello.
Frank mi ignorò.
Sbuffai e roteai gli occhi. Raggiunsi il mio pacchetto di sigarette sul davanzale della finestra e ne accesi un’altra.
Fu più o meno quando ero arrivata al terzo tiro che gli occhi di Frank si spalancarono. Le sue mani lasciarono andare la macchina fotografica che cadde con un tonfo sul tavolo, e lui si alzò di slancio dalla sedia. In realtà somigliava più al movimento che compie una persona nel momento in cui si è scottata con un ferro rovente.
- Merda! – Imprecò, prendendo a pugni il tavolo.
Avevo ufficialmente paura ad avvicinarmi.
- Non dirmi che l’ho immortalato. –
- Cazzo… sì! –
Quello fu il mio turno di sgranare gli occhi. La mia bocca si spalancò a vuoto, ma Frank rispose alla muta domanda con la frase successiva: - Dev’essere stato quando siamo sbucati alle latrine. Mi sembra di ricordare che mi hai urtato leggermente. Credo… credo che venendomi addosso tu abbia cliccato per sbaglio il pulsante e… ecco. – Scrollò le spalle.
In effetti non faceva una piega.
Presi a tormentarmi il labbro inferiore con i denti. Allora era tutto vero. Quella cosa era vera. Certo, non avevo dubbi di averla vista, dal momento che eravamo in due e che nessuno dei due aveva assunto di recente sostanze stupefacenti, ma la foto era un’ulteriore conferma.
Guardai Frank. Il suo volto era incredibilmente pallido. Se non fossi stata al corrente della situazione avrei giurato che soffrisse di anemia.
Mi avvicinai al tavolino di legno. Non volevo vedere quella foto, ma qualcosa dentro di me mi diceva che dovevo farlo. Era la parte di me che voleva prendessi completamente atto della situazione.
Avvicinai una mano tremante alla macchina fotografica, la presi e l’avvicinai.
La foto era tutta storta e sfocata, la luce quasi inesistente, ma ad un’analisi un po’ più approfondita si riusciva a distinguere la sagoma dell’essere. Era esattamente come lo ricordava la mia mente, forse ancora più mostruoso perché purtroppo non era solo nella mia mente. Gli arti allungati, la pelle sottile e putrida. E quegli occhi… due maligni puntini luminosi nell’oscurità.  
Rabbrividii.
- E’… umano, secondo te? – Chiesi con un filo di voce. Appoggiai la macchina fotografica sul tavolo, la mia mano tremava ancora.
Non riuscii a comprendere l’espressione sul volto di Frank. Probabilmente perché lui stesso non riusciva a comprendere quali sentimenti stesse provando. Era un misto tra terrore, ansia e confusione totale. C’era anche un pizzico di razionalità. E se si guardava attentamente si riusciva a scorgere quel piccolo accenno di follia. Proprio là, appena a sinistra delle pupille dilatate.
Scosse la testa e strinse le labbra. Mi guardò spaesato. – Non lo so. – Sollevò le braccia e le lasciò ricadere lungo il corpo. – Penso di doverci dormire sopra. Ne parliamo domani, che ne dici? –
Annuii automaticamente, anche se l’idea di affrontare di nuovo l’argomento mi terrorizzava.
Frank mosse qualche passo verso di me e mi abbracciò. Fu un abbraccio lungo e straziante, potevo sentire chiaramente la paura e la tensione, ma fu probabilmente il più bell’abbraccio della mia vita.
Sollevai il volto e i miei occhi incontrarono quelli di Frank. – Posso dormire con te questa notte? – Il tono con cui lo chiesi sembrava quello di una bimba impaurita dal mostro nell’armadio che chiede al papà se può dormire nel lettone con lui.
Ho reso l’idea?
Frank mi stampò un bacio sulla fronte e mi sorrise. Uno di quei sorrisi che amavo. – Certo che si, Principessa delle Tenebre. –
 
 
Sarebbe stato decisamente troppo bello se quella fosse stata una notte serena e limpida. Sarebbe stato bello, ma innaturale.
Il rumore della pioggia scrosciante, gli ululati del vento e i ticchettii insistenti dei rami del platano in giardino che battevano sulla finestra della camera di Frank mi convincevano sempre di più di essere stata catapultata in un film dell’orrore.
E quando mai in un film dell’orrore la notte è serena?  
Mai, appunto.
Quindi sarebbe stato innaturale.
Appunto.
Non riuscivo a dormire. Erano le tre e quarantasette e non avevo ancora chiuso occhio. Frank, affianco a me, dormiva un sonno agitato. Spesso gemeva e sussultava, stava sudando molto. Preferii comunque non svegliarlo, in ogni caso stava riposando più di me. Gli posai un bacio leggero sulla fronte che sgombrai dai capelli scuri.
Sollevai le coperte e mi sedetti sul bordo del letto, in attesa che arrivasse l’alba.
 
 
Qualche ora dopo – o almeno presumevo che fosse qualche ora dopo – mi ritrovai seduta per terra con la schiena appoggiata al bordo del letto, e il viso di Frank a meno di dieci centimetri di distanza.
Il collo mi faceva un male cane, il braccio destro aveva perso sensibilità.
- D, che ti è successo? –
Mi ero addormentata. Mi ero addormentata in una posizione decisamente innaturale.
Perché dormire in un letto è troppo mainstream.
Sbattei le palpebre ancora un paio di volte, poi cercai di alzarmi tenendomi aggrappata al letto. Una volta in piedi, mi stiracchiai.
– Mi ricordo solo che non riuscivo a dormire e che a un certo punto ho cominciato a gironzolare per la stanza. Devo essermi addormentata lì. – Indicai il punto in cui ero seduta qualche secondo prima. Mi grattai la testa e sbadigliai. – Tu come stai? Hai fatto un casino questa notte…  –
Frank si strinse nelle spalle. – Incubi. –
- Già. Avrei dovuto svegliarti. –
- No, tranquilla. Almeno ho dormito un po’. –
E ciò seguiva esattamente il mio ragionamento di questa notte. Per qualche istante mi sentii l’amica perfetta, quella che ha sempre la situazione sotto controllo e che sa sempre cosa fare. Non riuscii a trattenere un sorriso.
Frank mi guardò per un po’, poi anche le sue labbra si curvarono all’insù. – Cosa c’è? –
Scossi la testa. – Niente! Vado a preparare la colazione. –
 
 
Frank Iero, Daisy Snowdon, un tavolo, e un foglio di carta ancora immacolato.
- Allora… - Cominciò Frank, la bocca piena di pancake allo sciroppo d’acero. – Punto numero uno della lista? –
Ci pensai su. – Mmmh. “Non stavamo sognando”, direi. Ho anche il punto numero due. –
- Spara. –
- “Non eravamo fatti.” –
Accennò a un sorriso e trascrisse i primi due punti sul foglio bianco.
Sapevo che erano cose banali ed ovvie, ma in un caso come quello era necessario partire da lì.
- Ho il punto numero tre. – Disse.
- Okay. –
- “Era reale.” –
Lo guardai di sbieco con un sopracciglio sollevato.
- Ehi, che c’è? Eravamo d’accordo di partire dalle ovvietà. –
Sorrisi, gli diedi un buffetto sotto il mento e annuii. – Hai ragione, scusa. –
- Punto numero quattro. – Continuò. – “Era innaturalmente alto e magro, gli arti superiori erano più lunghi del normale, la pelle era quasi diafana.” –
- Direi che questi sono tre punti, Frank. –
- Hai ragione. – Trascrisse tutti i punti. – E per finire… punto numero sette: “Stava mangiando un essere umano”. –
- No! – Lo corressi. – E per finire, punto numero otto: “Era umano?” Questo penso debba restare un punto di domanda. –
- Giusto. –
Frank rilesse la lista e sbuffò. – Sapremo mai con cosa abbiamo avuto a che fare? –
- Spero di no. – Rabbrividii.
- E domani? –
- Cosa? –
- A scuola D. Come faremo? –
Mi morsi l’interno delle guance, non ci avevo pensato. – Io quelle foto non le sviluppo. Non voglio più vederle. Se proprio ti interessano fai te. –
- Ma… il concorso…  –
- Affanculo il concorso Frank. –
 
 
La notizia che ebbe la capacità di scioccarmi ancora di più la ricevetti alle otto di sera, per gentile concessione del telegiornale.
Non credevo ci fosse ancora qualcosa in grado di scioccarmi, ma evidentemente mi sbagliavo. Io e Frank avevamo passato la giornata a fare il nulla più assoluto, tra un’ipotesi e l’altra su cosa potesse essere il coso  (erano venuti fuori le opzioni: alieno, zombie, mostro, scimmia evoluta male, umano evoluto male, un serial killer travestito) e il terrore di essere stati seguiti e di poter ricevere visite spiacevoli durante la notte. Non aveva senso, perché se quella cosa ci avesse davvero seguiti sarebbe entrata di sicuro ieri notte, ma ogni cosa ormai mi terrorizzava, e sospettavo seriamente di star diventando paranoica. Per di più, i genitori di Frank erano fuori città per lavoro, quindi ogni rumore in casa bastava e avanzava per farmi perdere dieci anni di vita alla volta.
Jodie Quinn, l’insulsa giornalista bionda che mi era sempre parsa come la perfetta mogliettina americana, stava presentando il telegiornale di quella sera.
15 Ottobre 2013. Il giorno in cui passai un’intera giornata stravaccata sul divano del salotto di casa Iero, con una scodella piena di popcorn in una mano e una lattina di coca cola nell’altra. E i piedi di Frank sulle gambe.
Jodie Quinn blaterava le solite inutili notizie che si sentono ogni giorno al telegiornale, io e Frank guardavamo la televisione distrattamente. Fino a quando…
“Notizia dell’ultima ora” disse Jodie. Sembrava allarmata. Anzi, sembrava una di quelle persone che cercano di nascondere la paura e la perplessità dietro ad una maschera d’indifferenza, ovviamente senza riuscirci.
Risultava ridicola.
“All’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico di Westwood sono appena stati ritrovati i resti del cadavere di una donna, e due agenti di polizia sono stati gravemente feriti. Impossibile per ora identificare la donna, mentre si presume che l’aggressore sia un animale.” 
Guardai Frank. – Un animale?! Quello non era un animale! –
- Beh, D, che ti aspettavi? Non diranno mai al telegiornale che è un mostro uscito direttamente dall’Inferno. –
Sospirai. – Che sta succedendo, Frank? –
Si strinse nelle spalle. Non disse nulla.
- Ho paura. – Mi accoccolai accanto a lui e lo abbracciai. – C’è qualcosa di troppo strano ed irreale in questa faccenda. –
E’ strana ed irreale, ma è… reale. E’ assurdo. –
“L’ambulanza sta trasportando in questo momento i feriti al Westwood Hospital Center, dove…”
Frank spense la tv.
- Ehi! –
- Ne ho abbastanza. –
- Non mi interessa se ne hai abbastanza, accendi subito quella tv. –
Frank sbuffò e la riaccese, ma il servizio era terminato. – Visto? Non hanno aggiunto altro. –
Strinsi le labbra e me ne stetti in silenzio per un po’.
- Non voglio andare a scuola domani. – Mormorai.
- Già, neanche io. Non riuscirei a sopportare tutte le domande di James riguardo al concorso. –
Aveva ragione. James Jackson era un primino che dall’inizio dell’anno si era accollato a Frank, probabilmente l’aveva preso in simpatia o, secondo altre voci, si era innamorato di lui. Storsi le labbra in una smorfia. Non mi piaceva pensare a Frank assieme a qualcun altro. Ma forse era una cosa normale, dal momento che ero la sua migliore amica. O forse no.
Fatto sta che James Jackson era un patito di fotografia, e domandava a Frank ogni singolo dettaglio riguardo al concorso. Quando sarebbe arrivata la domanda: “Allora, l’avete trovata la location?” probabilmente mi sarei messa a vomitare nel cortile della scuola, ed era una cosa che ero assolutamente intenzionata ad evitare.
La cosa che non sapevamo, era che non ci saremmo mai più tornati a scuola. 

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Capitolo 4
*** "Non è un sogno, Daisy." ***






 
 
***Buonsalve! Sono viva, sono viva, yay! (?) c: 
Eccoci qua con un altro capitolo e i soliti ringraziamenti, che però non sono mai abbastanza. Un grazie immenso alle persone adorabili che hanno commentato la storia con le loro recensioni, e anche a coloro che l'hanno aggiunta tra le preferite/seguite/ricordate. 
Bene, siete morte d'ansia abbastanza? Eccone un'altra dose :3 
Meow***




Capitolo 4.





- Daisy! Daisy, dobbiamo andare! –
Mi rigirai nel letto mugugnando qualcosa che con un po’ di fantasia poteva somigliare ad un “che cosa c’è?”
In risposta Frank mi tirò per un braccio fino a che non riuscii a mettermi più o meno seduta sul materasso.
- Fraaaank… –
- Daisy ti prego alzati, dobbiamo andare! –
Era disperazione, quella che sentivo nella sua voce?
Corrugai le sopracciglia e mi misi a sedere un po’ più diritta. Lo guardai in faccia per qualche istante.
Si, era disperazione.
- Frank, cosa succede? –
- Smettila di chiedermi cosa succede, NON NE HO IDEA! Succede che là fuori va tutto a puttane D, e noi dobbiamo andarcene di qui ORA! –
Mi ritrassi istintivamente da lui, gli occhi sgranati e la bocca aperta senza che riuscissi a produrre una minima parvenza di suono. La sua espressione mutò improvvisamente, e Frank tornò ad essere il mio Frank.
- Scusami. Oddio, scusami, non volevo. –
Mi passai velocemente la lingua sulle labbra, annuii. Poi mi alzai dal letto e indossai i jeans abbandonati lì per terra. Presi lo zaino e me lo misi sulle spalle, poi uscii dalla stanza.
Tutto questo senza dire una parola.
Frank mi inseguì e mi bloccò prima che riuscissi a sgattaiolare giù dalle scale.
- Daisy, scusami. Non volevo, ma sono sconvolto. –
- Se là fuori sta andando tutto a puttane come dici, allora sta andando a puttane anche il mio mondo. C’è la mia famiglia là fuori.
Si morse il labbro inferiore.
- Non riusciremo ad andare da tua madre. –
- Che cosa stai dicendo?! –
- Non c’è tempo. Chiamala, dille di prendere le sue cose e di andarsene da qui, ora! –
- Frank, non lo farebbe mai. Non se io non sono con lei. Ma potrebbe…  –
- No, non può niente, deve andarsene ora. –
- Frank ragiona! Se le dico di venirci a prendere ce ne andremo tutti! –
- Ma non deve venirci a prendere. Per arrivare a casa mia bisogna passare per forza dalla zona dell’Westwood Hospital Center, dove è cominciato tutto. E… non ne uscirebbe viva. Daisy, quella cosa che c’era nell’ospedale psichiatrico… penso che abbia passato una specie di virus a quegli agenti di polizia feriti. E loro lo stanno diffondendo. –
Rimasi paralizzata per un lasso di tempo che mi parve infinito.
- E tu come lo sai? – Okay, non era esattamente la cosa che ci si sarebbe aspettato avrei detto dopo una storia come quella. – Voglio dire, mi hai appena detto che non ne sapevi nulla! –
- Ho guardato il telegiornale. Te l’avrei detto dopo, ora non c’è tempo. –
Riprese a tirarmi per un braccio, ma ancora non mi lasciai guidare. Davvero pensava che l’avrei seguito così, senza che mi dicesse nulla?
- Frank. Non posso. Io devo andare a prenderla. –
Si morse il labbro. Non sapeva cosa fare.
- Ti prego. –
- Daisy… -
- Se tu non vieni andrò da sola. –
Si avvicinò e mi prese il viso tra le mani, guardandomi fisso negli occhi.
- Ti prometto che ci andremo, te lo giuro. Ma ora non possiamo. E’ più grave di quello che pensi. Sono già morte tantissime persone, e noi non abbiamo nulla con cui difenderci. Non ci resta che nasconderci e aspettare. Ma ti prometto che poi ci andremo. –
- Ma poi sarà troppo tardi. –
- No, se la avverti. –
Corrugai la fronte e me ne stetti in silenzio per qualche istante.
- Dove stiamo andando? –
- Mio nonno aveva costruito una specie di… bunker, in giardino. Andiamo lì. Chiama tua madre finché c’è ancora campo. –
Annuii e presi il telefono cellulare dalla tasca dei jeans. Composi il numero di Rachel e attesi.
- Ti prego, ti prego rispondi. –
Nulla. Il cellulare squillava a vuoto. Partì la segreteria.
Decisi di lasciarle un messaggio.
“Ehi, Rachel, sono io. Devi andartene da questo posto il prima possibile, adesso. Lo so che sembra una cosa da pazzi ma ti prego, ti prego di ascoltarmi e di fidarti di me. Vattene il più lontano possibile, vai-via-da-Westwood. Io sono con Frank. Starò bene.
Ti voglio bene, mamma.”
La voce mi tremava, non avevo mai avuto così tanta paura in vita mia.
Riposi il cellulare nella tasca dei jeans.
Frank si era già incamminato.
- Frank? –
Si fermò e si voltò verso di me.
- E se le è successo qualcosa? –
Scosse la testa. – Non penso. La zona in cui abiti tu è lontana dall’ospedale. Probabilmente sta ancora dormendo. –
- Allora sarà meglio che si svegli in fretta. –
Frank annuì e si voltò di nuovo.
- Frank? –
- Cosa c’è? –
- Dobbiamo andare a prenderla. –
- Non abbiamo i mezzi D. E uscire a pedi sarebbe come suicidarsi, lo sai. Mi dispiace…  –
Mi morsi il labbro inferiore. Sospirai. – Okay. – Sussurrai. Annuii un paio di volte cercando di convincermi che sarebbe andato tutto bene, senza molti risultati, comunque.
- Ehi. Andremo da lei.
Frank allungò una mano verso di me. Per circa un minuto rimasi a guardarla come se fosse un serpente velenoso. Non capivo cosa dovevo fare. Non sapevo quale sarebbe stata la scelta giusta. Mi ero sempre fidata ciecamente di Frank, ma quel giorno c’era una parte di me che non voleva lasciarsi convincere.
Il mio corpo era bloccato. Diviso nella parte di me che avrebbe voluto correre via, e in quella che avrebbe voluto seguire Frank. La parte emotiva e quella ragionevole. Le due forze, di egual potenza, si annullavano, rendendomi completamente incapace di muovermi.
I miei occhi verdi si fissarono in quelli nocciola di Frank. Mi guardava come implorandomi, urlandomi silenziosamente di andare con lui, di fidarmi di lui.
Strinsi la sua mano, e insieme ci dirigemmo in giardino.
Era uno scenario apocalittico. La città, nei pressi dell’Westwood Hospital Center, andava letteralmente a fuoco. Nubi di fumo si sollevavano dai palazzi, urla e scoppi provenivano da ogni parte.
Mi ero bloccata, di nuovo. Non avrei mai pensato di essere così debole.
Lì, nel giardino che sarebbe rimasto tale ancora per poche ore al massimo, mano nella mano con Frank, gli occhi sgranati, non riuscivo a muovere un muscolo.
Non capivo come ciò che avevamo visto nell’ospedale psichiatrico potesse collegarsi a tutto questo. Sembrava molto più un attentato terroristico.
Deglutii. Mi sentii tirare per il braccio, e allora mi ricordai dov’ero e cosa dovevo fare. Seguii Frank.
Ci fermammo sul retro del giardino, dove lui lasciò andare la mia mano per aprire una botola completamente coperta d’erba. Non l’avevo mai notata, e in effetti sarebbe stato impossibile farlo.
- Forza D, scendi. –
Annuii. Misi un piede sulla scaletta che portava giù nel rifugio, poi un altro e un altro ancora, finché non toccai il suolo. Poco dopo arrivò anche lui. Fece luce con la torcia che avevamo utilizzato l’altra notte nell’ex ospedale psichiatrico, e accese la luce dopo aver illuminato l’interruttore. Era tutto arrugginito, doveva avere almeno cinquant’anni. Mi meravigliai che funzionasse ancora.
Frank salì di nuovo la scala e chiuse la botola.
Eravamo completamente isolati. Non si sentiva più alcun rumore provenire da fuori.
Mi guardai intorno. L’abitacolo doveva misurare al massimo quattro metri per tre. Tutto quello che c’era erano una brandina e uno scaffale colmo di cibo in scatola e bottiglie d’acqua.
Andai automaticamente verso la brandina e mi ci buttai sopra. Pensai che probabilmente era stata la forza d’inerzia a farmi muovere, più che la mia vera e propria forza di volontà.
Frank mi raggiunse, si sedette sul bordo del letto e si prese la testa tra le mani. Subito pensai che stesse per mettersi a piangere. Non l’avrei biasimato, in effetti non avevo idea del perché io stessa non avevo ancora pianto.
Poi però abbassò le mani sul materasso. Sbuffò. Cercò di farmi un sorriso, anche se più che un sorriso quella cosa sembrava più una smorfia di dolore.
Si stese di fianco a me. Mi prese la mano, e sospirò. Guardavamo entrambi il soffitto bianco coperto di muffa.
- Eccoci qui. Io, te, e il mondo che va in fiamme. – Sussurrò. Era davvero stremato.
- Sono contenta di essere qui con te. Sei l’unica persona che avrei voluto vicino in un momento simile. – Avevo parlato a voce talmente bassa che subito non fui sicura che lui avesse sentito. Ma l’aveva fatto, certo. Eravamo distanti solo pochi centimetri.
Si voltò su un fianco e mi guardò. Feci lo stesso.
- Daisy, voglio che tu sappia questo. Qualunque cosa succeda, io ci sarò e mi prenderò cura di te. Vedrai, ce la caveremo. –
Annuii ed appoggiai la fronte contro la sua. – Mi fido di te. –
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto.
– E’ tutto così assurdo, Frank. Vorrei solo svegliarmi. Svegliarmi e tornare alla normalità. Questo è solo un brutto sogno. –
- Non è un sogno, Daisy. –
 
 
 
La prima cosa di cui mi resi conto quando mi svegliai, era che mancava la luce.
Frank era ancora di fianco a me. Lo chiamai, e dopo qualche leggero scossone e un paio di mugolii aprì gli occhi.
- Frank? –
- Mmh? –
- Hai spento tu la luce? –
Mi resi conto subito dopo aver pronunciato quelle parole che la domanda era insensata. Ci eravamo svegliati esattamente nella posizione in cui ci eravamo addormentati, sdraiati l’uno di fianco all’altra, mano nella mano. Frank non si era mosso da lì per tutto il tempo.
- No…. –
Appunto.
Si alzò e si stiracchiò un po’. Poi, aiutandosi con la luce della torcia, si diresse verso l’interruttore. Schiacciò tutti i pulsanti ma non successe nulla.
- Merda, dev’essere andata via l’elettricità. Devo andare a controllare. –
Avevo sentito bene?
- Frank, no. –
- Devo.
Sbuffai e mi misi le mani sui fianchi. – Non fare l’eroe, non ce n’è bisogno. Vuoi davvero rischiare di rimanerci secco per una cosa del genere? –
Frank mi guardò con un’espressione che sembrava voler dire: “Quali-sono-i-tuoi-problemi-donna?” –  Devo solo mettere la testa fuori da questo rifugio D, non mi succederà niente. E poi è necessario per vedere cosa sta succedendo là fuori. –
Provai a ribattere, ma mi zittì all’istante. – Lo sai che ho ragione. –
Controvoglia, annuii e lasciai perdere. Si, sapevo che aveva ragione e sapevo anche che era impossibile cercare di smuoverlo dalla sua decisione.
Mi alzai dalla brandina e presi la torcia che teneva in mano, illuminai la scaletta
mentre lui saliva.
Con un po’ di fatica sollevò la botola. Il mio cuore accelerò i battiti improvvisamente. Avevo paura di quello che avrebbe visto.
- Oh, cazzo. –
- Cosa? – Avevo il cuore in gola.
Chiuse la botola e tornò giù. Non avrei saputo descrivere l’espressione sul suo viso. Ma era pallido, troppo.
- Beh, hai presente com’era la città prima, no? –
Annuii, la fronte corrugata. Non si prospettava nulla di buono.
- E’ ancora in quello stato, ma è molto… peggio. La zona colpita si è estesa a dismisura. Un’immensa nube di fumo oscura completamente il cielo, se non avessi il cellulare non sarei in grado di dire che ore sono. Manca l’elettricità dappertutto. E… la mia casa. E’ stata incendiata. Non è rimasto molto. –
Mi portai una mano alla bocca. Non era possibile. Tutto questo era troppo. Mi prese un capogiro, mi tenni in piedi attaccandomi allo scaffale del cibo.
Non riuscivo a parlare. Sapevo solo che stavo per piangere.
Abbracciai Frank e lo tenni stretto per quello che parve un lasso di tempo infinito. Qualcosa di caldo bagnò il mio collo. Lacrime. Stava piangendo anche lui.

 

 
 
 
Giorno 01.
 
Ho trovato un vecchio block notes e una matita, mi sto facendo luce con la torcia. Tra poco dovrò spegnere, io e Frank dobbiamo conservare la poca batteria rimasta.
I cellulari sono morti, sappiamo solo che sono passate poco più di ventiquattr’ore da quando siamo qui. Tra poco non riusciremo neanche più a distinguere i giorni.
La nube di fumo in cielo sta svanendo a poco a poco, ma ancora non ci fidiamo ad uscire. Non sappiamo cosa sia successo, perciò non abbiamo idea di come attrezzarci. Sappiamo solo una cosa: Tutto questo ha a che fare con l’essere dell’ex ospedale psichiatrico. In che modo, ci è sconosciuto.
 
 
 
Giorno 02.
 
Io e Frank abbiamo appena mangiato.
Cibo in scatola.
Fa schifo ma non mi sento assolutamente nella posizione di potermi lamentare. Anzi, penso di essere una delle cittadine più fortunate di Westwood.
Che fine hanno fatto quelli che conoscevo? Qualcuno di loro è ancora vivo? E’ assurdo pensare che solo tre giorni fa era tutto normale, e che ora la situazione è questa. Si rischia di diventare pazzi.
Vivere qui dentro sta diventando faticoso.
Per fortuna sono con una delle persone che più amo al mondo.

 
 
Giorno 03.
 
Oggi io e Frank usciremo da qui.
 

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Capitolo 5
*** Città fantasma. ***





***Importante: E' stata da me modificata gran parte del capitolo quattro, consiglio a tutti di rileggerlo prima di cominciare la lettura del quinto. 
Ringrazio come sempre le adorabili persone che recensiscono e seguono la storia, siete meravvvvvvvigliose v.v***



 
Capitolo 5.


 

Era come trovarsi su Marte.
Il mondo che avevamo conosciuto fino a pochi giorni prima non c’era più. Era stato spazzato via per sempre.
La città non sembrava più la Westwood in cui ero nata e cresciuta, somigliava più ad un campo di guerra bombardato e abbandonato.
Dopo tre giorni (erano passati davvero tre giorni? O eravamo rimasti chiusi là sotto per più tempo?) gli incendi si erano spenti, le nubi di fumo erano scomparse.
Il sole brillava in cielo, non una nuvola copriva l’arcata cobalto.
Per un momento mi immaginai Lewis Spencer, l’omino del meteo, che annunciava: “Si prospetta una fantastica giornata di sole a Westwood, perfetta per portare i vostri amici a quattro zampe a fare un giro al parco comunale. Ah, dimenticavo, la città è andata a fuoco.”
Frank mi guardò in modo strano, e allora mi resi conto di star ridendo nervosamente. Smisi all’istante.
- Tutto bene, D? –
Pensai che mai parole più stupide fossero uscite dalla bocca di Frank Iero.
Per qualche strana ragione a me sconosciuta, gli risposi che si, andava tutto bene.
Ma eravamo come due uomini mandati in avanscoperta in un nuovo mondo.
Cosa dovevamo fare? Dove dovevamo andare? C’era ancora qualcuno? Dov’erano finiti tutti? Che cos’era successo? Era ancora pericoloso stare lì fuori? Il resto del mondo aveva fatto la stessa fine? Era meglio uscire di giorno o di notte? Che cosa ci aspettava là fuori? In che modo ci saremmo difesi, se qualcuno o qualcosa ci avesse attaccati?
Non lo sapevamo. Ma il piano era semplice: Riuscire ad arrivare vivi a casa mia.
In effetti, era molto più semplice a dirsi che a farsi.
L’auto di Frank, rimasta nel garage, era andata a fuoco assieme a casa sua e a tutta la città. Quindi l’opzione “troviamo un’altra macchina, cerchiamo di metterla in moto e andiamo con quella” era decisamente off limits. A meno che non avessimo avuto un immenso colpo di fortuna, ma sapevo che non sarebbe successo. Io non ero mai fortunata.
Camminavamo ormai da un’ora.
Io, Frank e il mio zainetto, che conteneva cibo sufficiente per due o tre giorni al massimo. Una volta finito, non sapevo come avremmo fatto a trovarne altro. Non volevo pensarci, ma era una delle domande che si ripetevano regolarmente nel mio cervello, e non mi dava tregua.
Avevamo evitato di comune accordo l’ospedale scegliendo così di fare il giro più lungo. Ci avremmo messo di più, ma infondo cosa cambiava? Non avevamo più orari, non dovevamo fare più nulla che rientrasse in uno schema preciso. Solo vagabondare in cerca di una speranza.
Non avevamo ancora incontrato anima viva, il silenzio che aleggiava tutto intorno a noi era opprimente.
Perché era scoppiato un incendio? Se era vero che il problema principale era un virus, non aveva senso.
Sovrappensiero, non prestai attenzione a dove stavo mettendo i piedi. Inciampai in un sasso e caddi a terra.
Frank fu subito accanto a me, mi aiutò a rimettermi in piedi.
- Tutto bene? –
Annuii.
Camminammo in silenzio per altri dieci minuti.
- Frank? –
- Si? –
- Perché non c’è nessuno? –
Sospirò. – Me lo stavo chiedendo anch’io. –
Scossi la testa. – Non possono essere morti tutti. –
Non rispose, si limitò ad una smorfia che non riuscii ad interpretare.
Un’altra cosa strana era che non avevamo trovato neanche un cadavere. Era come se tutti fossero scomparsi nel nulla. Westwood non era grande, ma era comunque impossibile che tutti fossero scomparsi. Il pensiero che gli unici in città fossimo rimasti io e Frank, per quanto inconcepibile, cominciava a darmi i brividi.
Non era affatto divertente. Non era come nei film.
Non era emozionante e non dava adrenalina.
Era solo triste e angosciante.
Eravamo quasi arrivati nel quartiere in cui abitavo, e la cosa che notammo immediatamente fu che il paesaggio stava mutando. Le tracce dell’incendio diminuivano, le case non erano distrutte. Della gente, però, ancora nessuna traccia.
Mi chiesi ancora come fosse possibile. Le città vicine, le altre città degli Stati Uniti e del resto del mondo, non avevano saputo nulla? Non era possibile che non sapessero.
E allora perché nessuno arrivava?
Forse erano già venuti. Forse avevano fatto evacuare tutti mentre noi eravamo nascosti. Era possibile, e ciò mi diede un barlume di speranza. Forse Rachel era riuscita a mettersi in salvo. Involontariamente sorrisi, anche se solo per un istante. Ero lungi dal potermi sentire sollevata.
Frank si fermò. Lo imitai, e mi resi conto che eravamo davanti a casa mia. Era ancora perfettamente intatta, nessun segno della catastrofe, nessun segno dell’incendio che aveva colpito la parte ovest della città.
Le imposte erano socchiuse, il giardino ancora perfettamente curato, il vento leggero faceva sbattere i rami del larice sulla finestra del salotto. Come sempre. Solo che non c’era nessuno, lo sapevo. Lo sentivo.
Sembrava la dimora di un fantasma.
Un brivido mi percorse la schiena.
Frank mi stava guardando. - Vuoi entrare? –
Annuii. Era comunque meglio accertarsene.
Non appena misi piede sul vialetto di ghiaia mi sentii strana. Osservata era l’aggettivo giusto. La sensazione era talmente vivida e forte che fui costretta a voltarmi. Gli unici occhi che incontrai furono quelli nocciola di Frank, che mi sorrise appena per incoraggiarmi.
Mi voltai e continuai a camminare. Ero turbata, la sensazione non accennava a diminuire.
La porta di casa era socchiusa. La spinsi e misi un piede all’interno.
- Rachel? – Chiesi timidamente. – Rachel, sei in casa? –
Non l’avevo chiamata mamma. Mi resi conto di essere riuscita a farlo solo quando avevo temuto di stare per perderla.
Nessuna risposta. Aumentai il tono della voce e la chiamai ancora.
Niente.
Il cuore cominciò a battere forte.
- Sarà meglio che controlli tutte le stanze. – Ma nonostante tutto, avevo ancora la sensazione che lei non fosse in casa. Il presentimento di essere osservata, invece, era un poco scemato. Ma probabilmente solo perché ero entro le mura domestiche.
Feci un giro veloce per la casa, controllai armadi e sgabuzzino. Sapevo che sembrava stupido, ma io avrei potuto nascondermi persino lì, se mi fossi trovata nella sua situazione. Mi bloccai un attimo. In realtà non avevo la più pallida idea di quella che era stata la sua situazione. In ogni caso, Rachel non c’era.
Frank mi raggiunse. – Niente? –
- No. Niente. –
Si morse l’interno delle guance.
- Che ne pensi, Frank? –
Non rispondeva. Notai che stava diventando paonazzo. Si stava sforzando di non mettersi a piangere. Il senso di colpa si manifestava in lui così, sempre. Ormai lo conoscevo troppo bene. Anch’io mi sarei sentita in colpa se fossi stata lui.
Mi resi conto che in quel momento gli avrei volentieri colpito la faccia con un pungo, sentivo il bisogno impellente di rovinargli quel nasino perfetto.
Ma sapevo che non era colpa sua se Rachel non era in casa, così come sapevo che non avremmo potuto fare niente per raggiungere l’abitazione prima di quel giorno.
Feci qualche respiro profondo cercando di non alzare le mani su di lui. Sapevo che farlo non sarebbe stato giusto, ma la sola consapevolezza non bastava.
- Daisy… -
- No. Non dire niente. –
Ma purtroppo Frank era una persona che non demordeva facilmente. – Daisy, mi dis… -
- Ti ho detto di stare zitto Frank. Non è colpa tua, okay? E ora non rivolgermi la parola se non vuoi ritrovarti con la faccia sfondata. – Sotto l’aspetto linguistico non ero riuscita a trattenermi. Ringraziai il cielo che, nonostante tutti i suoi difetti, Frank avesse sempre avuto il buonsenso di capire quando poteva parlare e quando invece doveva starsene zitto.
Uscii di casa sbattendo la porta, senza curarmi di dove fosse rimasto Frank. Mi accovacciai sul vialetto e mi presi la testa tra le mani. Volevo urlare. Il nervosismo mi stava portando a pensare di compiere azioni sulle quali normalmente non avrei indugiato per mezzo secondo. Mi sarei strappata i capelli e la faccia a unghiate.
Mi alzai e tornai in casa. Presi un coltello dalla cucina tornai fuori in giardino, nel tragitto urtai Frank. Immediatamente avvertii di nuovo la sensazione di essere osservata, ma me ne infischiai. Mi diressi al larice e cominciai a prenderlo a coltellate.
Meglio l’albero che me.
Quando ebbi accoltellato gran parte della corteccia mi fermai. Lasciai cadere il coltello a terra. Fissai l’albero sventrato per minuti interi, le mani così serrate che avevo quasi perso sensibilità alle dita.
Scese una lacrima. Pigra, lenta.
Non rimase sola per molto tempo. A poco a poco altre la seguirono, sempre di più, premevano per uscire sempre più violentemente.
Frank mi circondò la vita con le braccia. Esitava. Probabilmente si stava ancora chiedendo se poteva toccarmi senza subire ripercussioni negative, ma io non avevo più voglia di prendermela con lui. Mi ero sfogata, ed ora ero completamente svuotata. Volevo solo piangere.
Mi abbandonai al suo abbraccio, piansi sulla sua spalla fino a non avere più lacrime.

 
 
 
 
Giorno 04
 
Ci siamo barricati in casa, passeremo la notte qui.
Nessuna notizia di Rachel, non abbiamo idea di cosa le sia capitato. E’ ancora viva? Non lo sappiamo. Lo spero ardentemente. Ovunque lei sia, spero che stia bene.
Mi rifiuto di credere che sia morta.
Frank parla molto poco, credo sia ancora scosso per la mia reazione di oggi. Devo assolutamente parlargli.
 
Domani mattina ripartiamo. Vogliamo uscire dalla città per vedere qual è la situazione fuori.
Vogliamo sapere che cosa è successo a Westwood. 

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Capitolo 6
*** Dalla padella alla brace? ***






*** Non ho riletto il capitolo prima di postarlo perchè devo correre a studiare, ma dovevo postarlo assolutamente. Se ci sono errori di qualsiasi tipo non linciatemi, appena avrò un po' di tempo li sistemerò! 
Buona lettura! ***



 
Capitolo 6.





La mattina seguente il tempo era mutato completamente. Pioveva a dirotto, il vento faceva sbattere le imposte e frusciare i rami degli alberi.
Mi alzai dal letto e trovai Frank alla finestra.
- Ehi. –
Sorrise appena. – Ehi. –
- Da quanto tempo sei lì? – Mi stiracchiai.
- Un paio d’ore, penso. –
Annuii. L’insonnia ormai era all’ordine del giorno, per questo non rimasi particolarmente colpita. Entrambi avevamo delle occhiaie che avrebbero potuto far invidia al Conte Dracula in persona.
Mi alzai dal letto e mi accostai a lui. Sospirai. Quella che infuriava all’esterno era una vera e propria tempesta.
Guardai Frank. Il suo volto era tirato, segnato da mille preoccupazioni. Gli diedi una carezza leggera sulla guancia semibarbuta,  poi lo presi per mano.
– Su, andiamo a fare colazione. –
 
Seduta al tavolo della cucina fissavo la mia tazza di thè fumante senza essermi ancora azzardata a toccarla. In effetti, la guardavo come se contenesse arsenico.
- Non bevi? –
Sollevai gli occhi sulla figura di Frank. Lui il suo thè l’aveva quasi finito. Mi strinsi nelle spalle. – Si, è che… si sente che lei non c’è. – Sospirai. – Mi… manca. –
E quel finto quadretto di sana quotidianità mi stava dando sui nervi. Mi sentivo un’ipocrita. Bevevamo tranquillamente thè in cucina come se non fosse mai successo nulla. Ma d’altra parte la ricerca di un minimo di normalità, in un momento simile, era imperativa da parte del nostro subconscio.
Frank annuì, posò una mano sulla mia. Era calda, ma probabilmente solo perché era stata a contatto per cinque minuti buoni con la tazza. In ogni caso, quel calore riuscì ad infondermi un po’ di conforto. – La troveremo, Daisy. Te lo prometto. –
Corrugai la fronte. – Il problema non è trovarla. Il problema è trovarla viva. –
Non disse nulla. D’altra parte neppure io avrei saputo cosa dire.
 
Dopo qualche minuto riuscii a finire il thè.
Ci dirigemmo in garage nella speranza che l’automobile di Rachel fosse ancora lì. Io non ne possedevo una, perciò quella era l’unica cosa in cui potevamo sperare.
In realtà non era proprio una speranza. O meglio, lo era solo da una parte. Se l’auto fosse stata ancora lì, avremmo potuto utilizzarla per spostarci, e questo era un bene. Ma allo stesso tempo voleva dire che Rachel non se n’era andata. Perlomeno non con la sua auto. E allora che cosa le era successo?
Scossi la testa cercando di scacciarne i pensieri.
Tutto inutile. L’automobile c’era, con tanto di chiavi inserite nel blocchetto di accensione. Mi morsi il labbro inferiore.
Frank doveva aver pensato la stessa cosa che aveva albergato nella mia mente fino a qualche istante prima, a giudicare dalla sua espressione.
Aprì la portiera del posto di guida, entrò nell’abitacolo. Feci lo stesso e mi sedetti sul sedile del passeggero. 
Si schiarì la voce. – Vuoi… vuoi guidare tu? –
Scossi la testa. Frank mimò un “okay”.
Girò la chiave. L’auto si mise subito in moto, seppur con un po’ di fatica. Frank mise la retromarcia e uscì dal garage. Appena ci trovammo sulla strada deserta accese i tergicristallo e mise la prima. Il tempo si era stabilizzato, ora piovigginava soltanto.
- Direzione frontiere? – Domandai.
- Esattamente. –
- E poi? –
- E poi si vedrà. –
La strada più veloce per arrivare ai confini della città prevedeva circa venti minuti di viaggio, che passarono con una lentezza disarmante.
Lo scenario era sempre lo stesso: Strade ed edifici deserti – su molti dei quali si potevano benissimo vedere le tracce dell’incendio – e non un’anima in giro. Il silenzio era assordante.
Buffo, ma vero.
- Frank? –
- Si? –
- E se fossimo solo noi due? –
Frank mi rivolse un’occhiataccia dal sedile di guida. – Non dire sciocchezze D. Non siamo gli ultimi rimasti. –
Cercava di autoconvincersi. – Io non ho ancora visto nessuno. Quando ti capita, fammi un fischio. – Meglio essere realistici.
Eravamo quasi arrivati.
Fu in quel momento che spinse il pedale del freno così forte che rischiai concretamente di schiantare la fronte sul cruscotto dell’automobile.
- Sei impazzito?! – Strillai.
- C’è qualcuno! –
Ironia della sorte.
- Cosa? Dove?! –
- Là davanti, vengono verso di noi! – Frank indicò esattamente davanti a noi, sulla carreggiata rettilinea. Strinsi le palpebre e notai che effettivamente qualcosa c’era, e aveva tutta l’aria di essere un’automobile. Probabilmente un pick-up.
Guardai Frank di sfuggita, un sorriso di quelli che non vedevo da giorni stava occupando gran parte del suo volto. I suoi occhi erano tornati a splendere.
Non eravamo soli, dunque. Aveva avuto ragione lui, per fortuna.
Frank rallentò avanzando ad una velocità di quindici chilometri orari. Mano a mano che l’altra auto si avvicinava, si riuscivano a distinguere i particolari.
Era un pick-up, e sembrava essere piuttosto malmesso. No, non malmesso. Era… dipinto? E aveva dei pezzi in più di quelli di un semplice pick-up, con ogni probabilità modifiche che erano state apportate dal suo proprietario. O meglio, dai suoi proprietari. Ora si distingueva chiaramente che le persone all’interno dell’abitacolo erano due, e sul rimorchio ce n’erano almeno tre.
E avevano… erano armi, quelle?
Ormai la nostra auto distava al massimo dieci metri dal pick-up.
- Frank, fermati. – Intimai. Avevo parlato sottovoce senza neanche sapere il perché.
- Perché dovrei? – Anche lui aveva sussurrato. Non era riuscito a sembrare sicuro come probabilmente aveva sperato di fare.
Il pick-up si fermò, e il tempo congelò. Furono interminabili gli istanti in cui nessuno si mosse. Né noi, né loro.
E poi gli sportelli del pick-up si aprirono. Spuntò una gamba, poi l’altra. Jeans scuri, stracciati, stivali di pelle rinforzati in ferro sulle punte.
L’uomo dalla parte della guida chiuse lo sportello, seguito subito dal tizio alla sua destra. I tre sul rimorchio restavano a guardare.
Facevano… paura.
Dalle giacche senza maniche dell’uomo che era stato al volante spuntavano tatuaggi che si ramificavano per tutte le braccia. Mi concentrai su di lui. I capelli biondi, rasati solo di lato, cadevano sulla spalla destra, sulla quale era appoggiato un machete. Oh si, era proprio un machete. Deglutii a fatica, la gola improvvisamente secca.
Non riuscivo a vedere bene il suo volto, ma sembrava sfregiato da una o più cicatrici.
Non faceva nulla. Era immobile e guardava verso di noi.
- Frank. – Sussurrai stringendogli l’avambraccio. – Non mi piace. –
- Neanche a me. –
Era preoccupato, visibilmente. Tutto il suo ottimismo era scomparso. Puff, come se non fosse mai esistito.
- Che facciamo, Daisy? –
Mi morsi l’interno della guancia. Che cosa dovevamo fare?
- Magari vogliono solo accertarsi che non siamo pericolosi… - Azzardai. Cazzata, non ci credevo neanche io. Saremmo stati noi che avremmo dovuto accertarci della loro innocuità, ma la situazione era decisamente sfavorevole.
Scappare? Ogni fibra del mio corpo mi urlava di farlo. La ragione, però, cercava di metterle a tacere. Avevamo finalmente trovato qualcuno e l’unica cosa che volevo era correre il più lontano possibile da quegli individui.
Irrazionale? Forse, ma fino ad un certo punto. Avevo sempre considerato il sesto senso una componente molto importante dell’integrità di un individuo.
L’uomo col machete mosse un passo verso di noi.
Machete. L’avrei soprannominato così. Mi sorpresi di essere capace di pensare certe stupidaggini in un momento del genere.
Continuava ad avanzare a passo lento e cadenzato. Sembrava leggero, troppo per un uomo di quell’altezza e abbigliato in quel modo. Frank, di fianco a me, si irrigidì.
Machete era vicino, ancora un paio di passi e la distanza tra noi e lui sarebbe stata annullata.
Trattenni il fiato.
Sollevò il braccio muscoloso e si appoggiò al finestrino dalla parte di Frank.
¬ Buon pomeriggio… - La sua voce era strascicata e melliflua, non il tipo di voce che automaticamente si associava a persone del genere. Sembrava quasi gentile, ma sapevo che era solo una falsa facciata. Il suo sorriso sghembo nascondeva dell’altro.
- Che ci fanno due ragazzini in giro da soli di questi tempi? Ce l’hai la patente, almeno? – Si era rivolto a Frank, e Frank era troppo impegnato a cercare di respirare correttamente per riuscire a rispondere.
Mi schiarii la voce, lo colpii leggermente con il gomito e lui sembrò riprendere il controllo di sé.
– S-si, ce l’ho –
Machete sorrise. Gli occhi, di uno strano azzurro troppo chiaro, brillarono di un qualcosa che mi fece paura. Non ero per niente tranquilla.
E prima di riuscire a capire che cosa stavo facendo, prima di poter anche solo pensare di controllarmi, parlai. – Chi siete voi? –
Frank mi guardò con gli occhi spalancati. Feci altrettanto, cercando di comunicargli “sono solo persone”. Era ormai appurato che non erano solo persone, ma pensavo che una domanda semplice come quella non potesse certo peggiorare la situazione.
Machete esibì per la seconda volta il sorrisino di prima. Rabbrividii.
–  Noi? –  Il sorriso si allargò. – Oh beh… noi siamo solo persone che… come dire, si prendono cura dell’ordine di questa città. –
Ordine della città? La città era deserta, non c’era nessun ordine da amministrare. Deglutii a vuoto.
Doveva essere pazzo.
- Puoi… puoi dirci cos’è successo? – Era stato Frank a parlare, questa volta.
Machete sollevò un sopracciglio. – Ma come, non lo sapete? –
Io e Frank scuotemmo la testa all’unisono.
Machete si guardò intorno. Sembrava sinceramente preoccupato. – Non è saggio restare qui fuori. Ora torno al pick-up, metto in moto e voi ci seguite. Una volta arrivati alla base, parleremo. – Il suo tono non mi era piaciuto per niente.
Si voltò e tornò all’auto. Il resto della banda era ancora là, immobile. Appena Machete arrivò, rientrarono tutti.
Ma qualcosa non quadrava. Guardai meglio.
Non erano tutti, due di loro non c’erano.
– Dove… ? –
– Cosa? –
– Ne mancano due. Dove sono? –
Guardai Frank. Frank guardò me.
–  Io non mi fido. – Sentenziai.
– Neanche io, ma quali altre scelte abbiamo? –
Intimai a Frank di fare silenzio. Non erano ancora partiti, e lasciare che ci vedessero discutere non era una buona idea. – Metti in moto. – Sussurrai. – Dobbiamo fargli credere che li seguiremo. –
Frank fece come avevo detto.
Ed ecco che anche Machete fece lo stesso. Fece inversione, e partì.
– Ora vagli dietro, ma vai molto, molto lentamente. –
– Okay. –
– Bene. Dunque, usciamo dalla città com’era nel programma, e scopriamo queste cose da soli. – Ripresi il discorso di prima.
– Non pensi che ci seguiranno, se cambiamo direzione? –
– Hanno un pick-up, noi abbiamo una Mercedes. Potranno inseguirci, ma non ci prenderanno. – Non ne ero sicura, ma avrei detto qualsiasi cosa pur di evitare di andare con loro. Sperai solo che Frank fosse dalla mia.
Prese un respiro profondo, poi annuì lentamente. – Okay. Quindi…  fingiamo di seguirli per un po’ e poi prendiamo un’altra strada. –
Annuii. – Si. –
Purtroppo, non riuscimmo mai a prendere quella strada. Non riuscimmo neppure a seguirli. La Mercedes smise di funzionare circa cinque metri più avanti.
Si spense di botto, dal motore fuoriusciva del fumo.
Rimasi impietrita. 
- Oh-Merda. – Fece Frank.
Com’era potuto succedere? L’auto non aveva mai dato segni d’allarme, aveva sempre funzionato alla perfezione.
A meno che… Machete. Era stato lui. Mi sfuggiva ancora il come, ma doveva per forza essere stato lui.
Era una trappola.
- E adesso? – Sussurrai.
Il rumore del pick-up tornò a risuonare nelle nostre orecchie.
- Cazzo, cazzo! Tornano! –
Frank spalancò la portiera. – Corri, Daisy! –
Scesi dalla macchina e lo raggiunsi. Mi prese la mano e, insieme, cominciammo a correre. Ci trovammo subito alle calcagna i due che prima mancavano all’appello.
E allora capii il loro piano: Avevano pensato di prenderci quando ci saremmo resi conto che l’auto era fuori uso.
Non sapevo dove si erano nascosti, non sapevo da dove erano sbucati. L’unica cosa che la mia testa mi urlava era: “CORRI!”
Eravamo io e Frank. Io e Frank inseguiti da una banda di criminali. Io e Frank contro il mondo, come era sempre stato.
Scavalcammo la protezione della carreggiata e continuammo la nostra corsa su un prato in discesa. Un chilometro o due più avanti si apriva un boschetto di faggi, mentre una stradina secondaria attraversava il prato. L’unica speranza di riuscire a scappare era raggiungere quel bosco.
Ma anche il bosco, come scoprimmo di lì a poco, non l’avremmo mai raggiunto.
Questa volta erano due: Un suv e un vecchio autobus malmesso. Passavano per la stradina secondaria, si piazzarono esattamente tra noi e il bosco.
Imprecai.
Il finestrino del suv si abbassò, tutto ciò che riuscii a vedere furono dei capelli rosso fuoco e un braccio che cercava di attirare la nostra attenzione. E poi, una voce.
- Per di qua! Venite qua! –
Non potevamo fermarci, perciò continuammo a correre.
E se fosse stata un’altra trappola? Saremmo finiti dalla padella alla brace? Non lo sapevo.
Ma d’altra parte, non avevamo altra scelta. O loro, o Machete.
Ci guardammo, e senza bisogno di parole decidemmo cosa fare. Avevamo scelto loro.
Quando mancavano solo pochi metri per raggiungere il suv, le portiere posteriori si spalancarono.
Ero stremata, sentivo che sarei potuta stramazzare al suolo da un momento all’altro. Serrai le labbra e mi costrinsi a compiere l’ultimo sforzo.
Ci buttammo in macchina e Frank chiuse la portiera con una forza tale che tutto il veicolo tremò. – PARTITE! – Sbraitò. Era fuori di sé.
Il rosso che era al volante premette il piede sull’acceleratore.
 
Cinque minuti dopo stavamo sfrecciando ad alta velocità sulla stessa strada secondaria nel mezzo della campagna del Minnesota.
Avevo passato quei pochi minuti a studiare i nostri presunti salvatori, che dal canto loro non avevano ancora detto una parola.
L’uomo al volante era piuttosto giovane, doveva avere al massimo venticinque anni.  I capelli rossi erano l’unica nota di colore nel suo abbigliamento, completamente nero. Sbirciai nello specchietto retrovisore. Il volto aveva lineamenti ben definiti, ma allo stesso tempo delicati… non era un volto tipicamente virile, ma era affascinante. Notai che i suoi occhi erano di un insolito verde muschio. Abbassai lo sguardo imbarazzata nel momento in cui i nostri sguardi si incrociarono.
Accanto a lui, seduta sul sedile del passeggero, c’era una ragazza che doveva avere all’incirca la sua età. Capelli neri, occhi chiari, pelle diafana. Vestita anche lei di nero.
Mi voltai. Dietro di noi, il vecchio autobus era guidato da un ragazzo piuttosto insolito. Da quella distanza riuscivo a distinguere solo un particolare: era pieno di tatuaggi, ma non sembrava minaccioso come Machete. Forse perché in quell’esatto istante mi fece una linguaccia accompagnata da un occhiolino.
Ero troppo sconvolta per mettermi a ridere, quindi passai oltre.
Nell’autobus c’era un’altra persona. Era un uomo, probabilmente sulla trentina. Mi rivolse un sorriso luminoso.
Mi voltai con una strana espressione. Perché sembravano tutti così svitati?
- Tutto bene, ragazzi? –
Era stato il rosso a parlare.
Annuii. Probabilmente non mi aveva visto, ma non ci feci caso.
- Chi erano quelli? – Chiese Frank.
Il rosso storse la bocca. – Meglio non saperlo. –
- Ma noi vogliamo saperlo. – Ribatté Frank.
Lui sospirò e fece un sorrisino. – Sono… beh, potrebbero essere definiti “banditi”. Sono convinti di essere una sorta di paladini della città, di… liberatori. – Fece una pausa. – Da quando è cominciata l’Apocalisse, so… –
- COSA?! – Urlammo, all’unisono, io e Frank.
Il rosso sollevò un sopracciglio. La ragazza rise di sottecchi.
- Ragazzi… dove siete stati, negli ultimi sette giorni? –
- E’ una storia lunga. – Commentai, sbrigativa. – Apocalisse. Dimmi che stai scherzando. –
– Vorrei potertelo dire, credimi. –
Apocalisse. Non sapevo come sentirmi. Non sapevo se ero agitata, o spaventata, o incredula, o scioccata. Forse il mio umore era un misto di tutte queste cose.
Apocalisse. Ma proprio l’Apocalisse biblica? Non avevo visto angeli, né carestie, né… guerre. A meno che la sorte che era toccata a Westwood non fosse una specie di presagio.
Morte.
Poteva davvero essere Morte? Uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse?
Oppure, più semplicemente, stavo solo dilagando. Forse tutto questo non aveva nulla a che fare con l’Apocalisse biblica.
Sospirai, strinsi la mano di Frank.
–  Ah, comunque… –  Fece il rosso. – Io sono Gerard. – 

 

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Capitolo 7
*** Il piano. ***




***Salve a tutti! Come l'altra volta, vi consiglio di rileggervi il capitolo precedente perchè ha subìto qualche piccola modifica. 
Buona lettura!***




 
Capitolo 7


 



C’era voluta un’ora e mezza per arrivare. Il luogo in cui ci trovavamo era nel bel mezzo del nulla, e non potevo credere che quella fosse la destinazione.
Guardavo scettica la catapecchia abbandonata in mezzo al prato rinsecchito. Tutta l’erba che vi cresceva era ingiallita, i pochi alberi erano secchi e storti.
Gerard scese dall’auto e sorrise. – Casa dolce casa! –
Sollevai un sopracciglio. – Sei serio? –
Sorrise di nuovo, ma in modo… strano. Si avviò verso la catapecchia. Guardai Frank, che non riuscì a trattenere un sorrisino, e lo seguimmo.
 
Si chiamava Gerard Way e aveva ventisette anni. Aveva una figlia piccola, Bandit,
mentre sua moglie era stata presa cinque giorni prima dalla banda di Machete.
Nonostante fosse incazzato nero, cercava di non darlo a vedere. E ci riusciva.
La ragazza, invece, si chiamava Amanda Hendrick. Venticinque anni, si trovava a Westwood per frequentare il college. Si era ritrovata con Gerard e gli altri solo perché era stata abbastanza scaltra da riuscire a sopravvivere.
Non ci avevano ancora detto dove fosse finita tutta la gente. O meglio, come fosse morta. A questo punto era l’opzione più probabile.
I due svitati del pulmino invece erano Oliver Sykes e Jared Leto, fratellastri. Stessa madre, padri differenti. Il padre di Jared era morto quando lui era molto piccolo, così sua madre si era risposata e aveva avuto Oliver.
Non si assomigliavano per niente.
 
Eravamo arrivati.
Prima di aprire la porta, Gerard si voltò a guardare me e Frank. – Preparatevi. –
Non seppi che cosa rispondere, così sorrisi. Ero piuttosto imbarazzata. Che cosa poteva nascondersi di tanto grandioso in un casotto pericolante di cinque metri quadrati?
Mi convincevo sempre di più che quei quattro fossero completamente svitati.
Erano sopravvissuti solo i pazzi?
Misi un piede all’interno convinta che l’intera struttura mi sarebbe caduta rovinosamente addosso. E invece resse. E fu in quell’istante che capii che non erano dei folli, ma dei geni.
Quella specie di favela non era il rifugio, bensì la copertura.
C’era una scala che portava di sotto. Gerard accese la luce. La percorremmo, e una volta arrivati in fondo ci si aprì un mondo intero. Era enorme. Un corridoio che doveva essere lungo almeno venti metri correva longitudinalmente fino ad un punto non rischiarato dalla luce artificiale, e dozzine di porte si aprivano alla sua destra e sinistra. Mi sembrava di essere finita in un libro di Harry Potter.
Guardai di sfuggita Gerard. Sembrava piuttosto orgoglioso, si guardava intorno e annuiva. – Allora, che ve ne pare? –
– E’ una figata. – Sentenziò Frank.
Si, era una figata.
– Venite, vi accompagno alla vostra stanza. –
Lo seguimmo lungo il corridoio mentre gli altri andavano in quello che - avevo visto solo di sfuggita - doveva essere una specie di soggiorno.
–  Bene, eccoci qua. –
Nella stanza c’erano un paio di comodini, una scrivania e… un letto matrimoniale. Guardai Frank. Gerard si grattò la nuca. – Beh, se… ecco, se avete bisogno dei preservativi ditemelo, abbiamo ancora qualche scatola. –
Oddio. L’aveva detto davvero?
Pensavo di non aver mai provato un imbarazzo tale in tutta la mia vita.
Non osai guardare in faccia Frank. – Ehm… noi non stiamo… insieme. – Balbettai. Dieci a uno che ero rossa come un pomodoro.
Gerard sollevò un sopracciglio. – Non ci credo. Ma ehi, a me potete dirlo! –
– Davvero Gerard. Non stiamo insieme. –
“Dio, se ci sei, fa che questa tortura finisca presto.”
– Uh. Okay. – Fece spallucce. – Ma non ci sono altre stanze libere. Cioè… non abbiamo altri letti. –
– Questo non è un problema, non ti preoccupare. –
Gerard annuì. – Okay. Beh, allora… sistemate le vostre cose e… ci vediamo tra un’ora nella terza stanza a destra dall’inizio del corridoio. – Silenzio imbarazzato. – A… a dopo. –
– A dopo. – Mormorammo in coro io e Frank.
Gerard uscì chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.
Non so per quanto tempo io e Frank ci guardammo, fatto sta che dopo qualche secondo lui cominciò a ridacchiare, e più il tempo passava più la sua risata aumentava d’intensità. Mi buttai su di lui tappandogli la bocca con il palmo della mano.
– Taci scemo, così ti sentirà! – Troppo tardi, stavo ridendo anch’io.
Mi sollevò di peso e mi buttò sul letto, poi si sdraiò al mio fianco. Guardavamo il soffitto grigio ammuffito, ridevamo, entrambi con le mani sullo stomaco.
– Oddio Daisy, sono un branco di svitati. – Disse ridacchiando.
– Assolutamente. Ma abbiamo avuto fortuna a trovarli. – Tornai seria. – Senza di loro, probabilmente saremmo morti. –
Frank sospirò pesantemente. – Già. – Se ne stette in silenzio per un po’. – Comunque, credo che mi piacciano. –
– Anche a me. –
– Daisy? –
­– Si? –
– Sembriamo davvero una coppia? –
Gli occhi puntati sul soffitto, mi fermai a pensare a tutte le cose che io e Frank avevamo fatto insieme. Il punto era che io e Frank facevamo tutto insieme.
– Penso di si. –
 
Esattamente un’ora più tardi, ci trovavamo tutti e sei nella terza stanza a destra dall’inizio del corridoio.
Delle poltroncine erano state disposte circolarmente attorno ad un tavolino di legno ingombro di carte e piante geografiche. Su alcune di esse erano tracciate delle “x” in determinati punti.
Gerard e Amanda confabulavano qualcosa sottovoce, Oliver e Jared fumavano sigarette e ridacchiavano.
Sigarette. Da quanto tempo non ne fumavo una?
Mi morsi il labbro inferiore. Dovevo-assolutamente- rimediare-una-sigaretta.
Daisy Snow e le complicazioni da dipendenza, da Settembre in tutti i cinema.
In realtà, non feci neanche in tempo ad aprire la bocca per chiederne una ad Oliver, perché la porta si spalancò e una cosina minuscola ed urlante irruppe correndo verso Gerard con le braccine spalancate.
Doveva essere Bandit.
– Papi! – Esclamò.
Si, era Bandit.
Il volto di Gerard si illuminò all’istante. – Ehi, Bee! – La sollevò da terra e la fece sedere sulle sue gambe.
Nella stanza era entrata anche un’altra persona. Era un ragazzo, alto e biondo. Somigliava molto a Gerard, anche se i suoi lineamenti erano più affilati.
Sembrava piuttosto serio.
– Ehy babysitter, ci sei mancato! – Lo salutò Oliver, facendo per dargli il cinque. Ma lui non lo considerò minimamente, la sua attenzione era tutta per me e Frank.
Sollevò un sopracciglio. – E voi chi siete? –
Rispose Gerard. – Loro sono Frank e Daisy. Scappavano dalla banda di Machete. –
Mi voltai immediatamente verso di lui. Anche loro lo chiamavano Machete? Da non credere.
– Frank, Daisy… lui è Mikey, mio fratello. –
Ecco spiegata la forte somiglianza.
Mormorai un “piacere”. Frank sorrise impacciato. Mikey sporse il labbro inferiore e annuì. – Beh, benvenuti allora. – E si sedette sull’ultima poltroncina rimasta.
– Allora Bee… – Disse Gerard rivolto a sua figlia, che nel frattempo sembrava essersi interessata particolarmente ad una ciocca dei suoi capelli. – Ti sei divertita con lo zio Mikey? –
La bimba annuì energicamente e sorrise. – Si! Abbiamo giocato ad “ammazza lo zombie”! –
Gerard spalancò gli occhi e lanciò un’occhiataccia a Mikey, che alzò le mani per discolparsi. – Ehi, è stata lei ad insistere! –
Gerard sospirò e alzò gli occhi al soffitto, tornò poi alla figlia.
– Bandit, non devi giocare a quelle cose. –
– Perché no? – Piagnucolò la bimba.
– Perché no. –
Bandit mise il broncio e incrociò le braccine. Gerard sorrise dolcemente. Spostò i capelli che erano caduti sul viso della figlia e le stampò un bacio sulla fronte. – Su, fai la brava. –
Bandit tirò su col naso. – Quando torna la mamma? –
Sul volto di Gerard, per un istante, si dipinse un’espressione di pura apprensione, che mascherò subito dopo con un lieve sorriso. – La mamma torna presto. –
Si alzò in piedi e, la figlia in braccio, si avviò verso la porta. – Forza Bee, andiamo a fare la nanna. –
Gli occhioni castani di Bandit, che spuntavano da sopra la spalla di suo padre, fecero più volte avanti e indietro da me a Frank. Poi, Gerard abbandonò la stanza.
Tornò circa dieci minuti dopo, tempo in cui nessuno, all’interno della terza stanza a destra dall’inizio del corridoio, aveva aperto bocca.
Gerard tornò a sedersi sulla poltrona. – Bene! – Fece, schioccando la lingua sul palato. – Ecco il piano. – Prese quella che riconobbi come la pianta geografica di Westwood e dintorni, e puntò l’indice su una delle due “x” tracciate. – Qui è dove siamo noi… – Spostò l’indice sull’altra “x” – Mentre qui, è dove pensiamo si trovi l’acquartieramento della banda di Machete. –
Tutti annuirono. Io cercavo solo di capire dove volesse arrivare.
– Ora. Il piano è semplice a dirsi ma piuttosto complicato a farsi, quindi ascoltatemi bene. Domani partiremo per un’altra spedizione per assicurarci dell’esatta ubicazione dell’acquartieramento. Voi due – Fece, rivolto a me e Frank. – Starete qui. Partiremo molto presto e voi avete bisogno di riposare. –
Annuii, controvoglia. Frank fece lo stesso.
– Una volta certi della posizione della base, organizzeremo una seconda spedizione e ci apposteremo nei pressi del luogo. Probabilmente a questo punto avremo bisogno anche di voi. – Annuimmo di nuovo. – Poi, io cercherò di infiltrarmi così da poter tracciare una mappa dettagliata della base, e… –
– E’ troppo pericoloso. – Sentenziò Mikey. – Ti riconosceranno. –
– No, se non mi farò vedere. –
– E come farai a non farti vedere? E’ un suicidio, Gee. –
– Troverò un modo. C’è mia moglie la dentro, Mikey. Devo andare. –
Mikey scosse la testa ma non aggiunse altro. Effettivamente, anche io mi sarei comportata come Gerard se mi fossi trovata nella sua situazione.
– Quando avremo la mappa – Continuò. – Potremo organizzare un attacco e liberare Lindsey e, se siamo fortunati, anche qualche altro prigioniero, e scoprire perché quei bastardi hanno rapito tutte quelle persone. –
Mi si accese una lampadina. Guardai Frank per scoprire che mi stava fissando allo stesso modo. – Rachel… – Sussurrò. Annuii e mi passai velocemente la lingua sulle labbra.
Mia madre poteva trovarsi nello stesso posto in cui era rinchiusa Lindsey Way.
– E’ tutto. Qualche domanda? – Chiese Gerard.
Oliver fece una smorfia. – Beh… non è molto dettagliato, come piano. –
– Hai ragione. Lo sarà quando avremo una mappa. Per quanto riguarda la spedizione di domani, dovremo solo attendere di avvistarli in una delle loro ronde giornaliere, e poi seguirli. –
Oliver annuì. – Bella, fratello. – E si prese una gomitata da parte di Jared, che cominciò a sghignazzare.
– Altre domande? –
Ci fu un mormorio generale di “no”, Gerard annuì.
– Bene. A domattina, allora. –
Feci per alzarmi, ma Gerard mi fermò. – Voi due restate qui, ho bisogno di parlarvi. –
– Okay. –
Quando tutti furono usciti, cambiò poltrona e si sedette di fronte a noi.
– Quanto sapete di questa storia? –
– Non molto. Anzi, quasi nulla. – Disse Frank. – O perlomeno, io non ci sto capendo più niente, rischio di impazzire. –
– Che cosa vi è successo? –
– Beh, è cominciato tutto… – Mi guardò spaesato. – Quando è successo? – Scossi la testa. Non ne avevo idea, avevo completamente perso la cognizione del tempo.
Frank strinse le labbra. – E’ cominciato tutto all’ex ospedale psichiatrico di Westwood. Io e Daisy eravamo là per scattare delle fotografie e… abbiamo trovato un… non sappiamo che cos’era, era… –
Gerard sembrava preoccupato. – Sapresti descriverlo? –
Frank si fermò a pensare. – Alto. Magro, la pelle non era altro che un sottile strato che ricopriva le ossa. Gli arti superiori erano lunghi… troppo lunghi. Non so dirti altro, era molto buio. –
Gerard sbiancò.
– Che cosa sta succedendo? – Chiesi con un filo di voce.
Il rosso si passò una mano sul volto. – In realtà non ne sappiamo molto neanche noi. Quella… cosa che avete visto, è stata la causa principale dell’incendio di Westwood. Non sappiamo con certezza da dove vengono né come abbiano proliferato, ma pensiamo sia opera della banda di Machete. –
Persi un battito. – In che… modo? – Ma sapevo già la risposta.
– Esperimenti sugli esseri umani. O perlomeno, questo è il mio sospetto. Dobbiamo scoprire se è vero e, in tal caso, perché lo hanno fatto. –
Rabbrividii.
– Perché non chiedete aiuto alle altre città? – Chiese Frank.
– Perché siamo completamente isolati. Gli apparecchi elettronici non funzionano. E per quanto ne sappiamo, tutto il Minnesota si trova nella nostra situazione. –
Era come se un masso mi avesse appena schiacciato il costato.
Ero scioccata. La situazione era decisamente peggiore di quando io e Frank credevamo.
Mi si formò un groppo in gola e mi costrinsi a deglutire.
– E non avete incontrato nessuno? – Chiesi.
Gerard scosse la testa – Voi due siete i primi. – Annuì pensieroso. – Come avrete capito, neppure noi ne sappiamo molto. –
– Si, ma… - Ribattei. – Non possono essere tutti prigionieri di Machete. E se fossero morti, avremmo trovato i corpi. La città era completamente deserta. –
Annuì. – Infatti. Anche questo è un mistero. Spero solo che la spedizione di domani porti a qualcosa. –
Mi morsi l’interno delle guance.
Per qualche minuto restammo tutti e tre in silenzio.
– Avete… qualche domanda? –
Scossi la testa, Frank fece lo stesso.
– Okay. – Sussurrò Gerard.
Si alzò. – Allora buona notte. –
– Buona notte. – 

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