Abbie trova Abbie

di a_marya
(/viewuser.php?uid=591584)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Con la mia faccia ***
Capitolo 2: *** Abbie è scomparsa ***
Capitolo 3: *** Collega e mentore ***



Capitolo 1
*** Con la mia faccia ***


Sbatto il cellulare sul tavolo, ignorando lo scricchiolio che ne fuoriesce come un lamento.
- Ancora lo sconosciuto? – mi domanda Mel, sollevando la testa dalla tastiera del tablet.
- Credo che dovresti parlare con la polizia. È un reato punibile per legge. Una mia amica ci ha fatto un sacco di soldi con una storia simile.
Questo è tipico di Mel. Lei ha sempre un’amica che ha fatto, detto o pensato quello di cui si parla. A sentire lei, sembra che conosca tutta New York. Io, invece, credo che queste amiche non esistano affatto e che lei le nomini solo per sembrare cool.
- Non dovresti dire i fatti delle tue amiche a chiunque, Mel – le rispondo, comunque, tagliando corto.
Non ho bisogno di una lezione sui miei diritti di donna e, inoltre, credo di conoscere il mittente di queste stupide chiamate, solo che Mel non è il tipo di amica a cui puoi rivelare certe cose. Anzi, in realtà non è nemmeno mia amica, solo una collega ficcanaso e invadente che passa il tempo a inventare nuove ragioni per non lavorare.
Lei mi fissa in cagnesco per qualche secondo, forse scocciata dal mio rifiuto di spettegolare, poi fa uno dei suoi sorrisetti maligni.
- Comunque, credo che Phil ti stia cercando – mi avverte, col suo tono strascicato.
Finalmente stacco lo sguardo dal computer per rivolgerlo a lei.
- E perché?
- Non lo so, so solo che stamattina ha chiesto come mai non eri ancora arrivata.
Stamattina. Cioè, dato che sono le due del pomeriggio passate, quasi sei ore fa.
E me lo dice solo ora?
Mi volto verso di lei per farle notare il suo tempismo, ma un’occhiata alla sua faccia soddisfatta mi fa capire che il ritardo è stato del tutto intenzionale, perciò mi rimangio tutte le parolacce e mi limito ad alzarmi dalla mia postazione per raggiungere l’ufficio di Phil, in fondo alla stanza, mormorando una serie di maledizioni contro quell’oca svampita con cui lavoro.
- Melanie mi ha appena detto che mi cercavi Phil. Ti servo ancora? – gli domando. Inutile spiegargli la stupida malignità della mia collega, e comunque se fosse stato qualcosa di urgente mi avrebbe cercata di nuovo.
- Meglio tardi che mai – risponde lui laconico con un’occhiataccia di rimprovero, poi mi fa segno di accomodarmi sulla seggiola di fronte alla sua scrivania.
Per un momento mi viene voglia di rifiutare.  Mi mette ansia quando la gente ti fa sedere di fronte a loro con l’espressione che ha ora Phil, quella faccia da “è meglio se ti siedi”. Mi fa pensare al peggio.
Però mi faccio coraggio e mi siedo dove mi è stato indicato, sforzandomi di assumere la faccia più impassibile che mi riesce. Sono piuttosto certa di non aver fatto errori sul lavoro, perciò a meno che non si tratti della solita riduzione del personale… Certo, non mi meraviglierei se quella vipera di Mel avesse raccontato delle bugie sul mio conto, solo per movimentare la vita in ufficio…
Phil intanto mi squadra per qualche secondo in silenzio, poi comincia a parlare in un tono lento e misurato che mi rende ancora più nervosa.
- Ieri ho ricevuto una visita interessante – mi dice, fissandomi attentamente.
- Un tizio è venuto a chiedermi se potevo rintracciargli una persona, di cui ha perso le tracce circa un mese fa.
Mentre parla continua a fissarmi come se si aspettasse una qualche reazione precisa, ma io ancora non capisco dove vuole arrivare perciò resto in silenzio e alla fine lui si decide a riprendere.
- Mi ha raccontato che questa persona viveva in un posto che si chiama Littletown, sul Millers Lake. Pochi negozi, nessun servizio, meno di duecento anime in tutto. Ti dice niente?
Lo fisso, probabilmente con espressione piuttosto ebete, poi scuoto lentamente la testa, perplessa. Perché mai avrei dovuto sentir parlare di un posto del genere? Non saprei nemmeno indicare il Millers Lake sulla cartina.
- Questa ragazza ha più o meno venticinque anni, biondina, fisico normale, non molto alta, occhi castani. Faceva l’infermiera agli anziani del paese o qualcosa del genere fino a che, un bel giorno, puff! Sparisce senza lasciare tracce.
Di nuovo una pausa, come se si aspettasse un qualche commento da parte mia, solo che io non so proprio cosa dovrei dire e me ne resto in silenzio a guardarlo sempre più confusa.
Quando capisce che non ho intenzione di aggiungere niente, Phil riprende a parlare ancora più lentamente di prima, come se pensasse che sono troppo tonta per reggere quel ritmo.
- La ragazza scomparsa si chiama Abigail McPherson.
Per l’ennesima volta, Phil si interrompe e mi fissa in attesa di un commento da parte mia, che però brancolo ancora nel buio e per di più sto perdendo la pazienza.
- Perché mi stai dicendo tutto questo, Phil? Mi vuoi affidare il servizio? – chiedo sarcastica (ma anche blandamente speranzosa), sperando di indurlo a concludere in fretta.
Phil scoppia in una risata sardonica, come se avessi fatto una battuta divertente e poi torna a fissarmi, come uno squalo sulla preda.
- Te lo sto dicendo, mia cara, perché la persona che cerca questo tizio sei tu.
La notizia mi coglie completamente alla sprovvista e di nuovo me ne resto muta, alla ricerca delle parole giuste per chiedere al mio capo se non ha per caso bevuto, stamattina.
- Il mio nome è Abigayle Matthews, Phil – cerco di fargli notare dopo qualche momento, col tono più controllato che mi riesce, mentre mi allungo impercettibilmente per sentire se il mio capo odora di alcool.
- Già, stesso nome, appena una minuscola differenza di pronuncia. E… - si interrompe per cercare qualcosa tra le innumerevoli carte che riempiono la scrivania – questa è la sua foto.
Mi mostra un’istantanea un po’ spiegazzata, che ritrae il viso di una giovane donna mentre sorride all’obiettivo. È piuttosto bella, anche se non come una modella o un’attrice, e ha un viso dolce, di quelli che vedi bene su una mamma.
Ma, soprattutto, ha il mio viso.
Be’, non proprio il mio. I suoi incisivi sono leggermente distanziati e ha due piccoli nei sul naso. Inoltre i suoi occhi sono di un marrone molto più chiaro del mio e nel complesso, lei è più bella di me, anche se non saprei dire perché.
Eppure la somiglianza è talmente evidente che non riesco a smettere di fissare la foto e chiedermi quando possono avermela scattata.
Sconcertata, alzo gli occhi sul mio capo, che continua a fissarmi con quell’aria da squalo che assume quando sente odore di un buon servizio. Chissà che storia si sta immaginando dietro quei suoi occhi freddi, forse qualcosa sulla droga o un omicidio. Niente che corrisponda al vero, comunque, per quanto ne so.
Torno a fissare nuovamente la foto, esaminando ogni dettaglio alla ricerca di qualcosa che illumini la mia mente, che mi faccia immaginare una qualsiasi spiegazione plausibile ma il mio cervello rimane muto. E non sono mai stata dalle parti del Millers Lake.
C’è solo una spiegazione possibile, per quanto sembri incredibile.
- Non sono io, Phil. Solo una che gli somiglia.
Lui non mi risponde e si limita a fissarmi, mentre mi agito sulla sedia.
Guardo di nuovo la foto, focalizzando le differenze. Sono minime ma ci sono. Quella non sono io, anche se la somiglianza è davvero inquietante.
- Hai per caso una gemella in giro per gli Stati Uniti? – mi domanda allora Phil, suggerendomi un’idea.
- No, non che io sappia.
In realtà non ne sono assolutamente certa, perché sono stata adottata quando ero molto piccola, ma immagino che avrei saputo se avevo una gemella, no? E poi le sorelle non vengono sempre adottate insieme? Quindi mi sembra poco probabile.
- Chi hai detto che la sta cercando? – domando, incapace di staccare gli occhi dalla mia immagine riflessa. Quasi la mia immagine.
- Non l’ho detto. Dice di chiamarsi Nathan McPherson, fratellastro della scomparsa. Mi ha offerto un sacco di soldi per dargli una mano, deve essere uno ricco.
Di nuovo si zittisce e mi fissa come immagino che gli investigatori del KGB fissassero le loro vittime, quando quelle erano sul punto di confessare.
Ma cosa si aspetti che confessi?
- Di certo non lo conosco allora, non ho amici ricchi. E non ho fratellastri – gli faccio notare, imitando un sorriso che deve riuscirmi decisamente male perché Phil allarga il suo sorriso subdolo.
- Da quanto sei a New  York? – mi domanda, cambiando discorso.
- Circa un mese…
Lui si gratta il mento con fare pensieroso, come un investigatore che mette insieme i pezzi del caso. E anche se so di non avere nulla da nascondere, all’improvviso mi sento colpevole per il solo fatto di essere fissata a quel modo e capisco come mai alcune persone confessino reati mai commessi.
- Appena il tempo di sparire da un villaggio sconosciuto, toglierti quei nei e venire a lavorare da me – ipotizza e non riesco a trattenere una risata.
- Phil, ti posso assicurare che ho trascorso i ventitré anni precedenti a Staten Island, in un appartamento poco più grande della mia automobile. Quella ragazza non sono io, gli somiglio solamente – ribadisco, questa volta con un tono più convinto.
Lui mi fissa ancora un po’, indeciso se credermi o meno.
- Ho letto da qualche parte che ognuno di noi ha sette sosia nel mondo. Io ne ho appena trovato uno, probabilmente – insisto, mentre riprendo poco a poco la mia tranquillità.
È ovvio che non sono io, so riconoscermi in fotografia e sono assolutamente certa di non aver mai sentito nominare Millers Lake. Certo, la somiglianza è sconcertante ma solo una coincidenza. Così come il fatto che abbia un nome quasi identico al mio.
All’improvviso mi viene in mente, però, un’altra strana coincidenza.
- Come mai questo McPherson si è rivolto proprio a noi? Non credo che New York sia nei paraggi di casa sua e nemmeno che a qualcuno in città importi molto di una tizia che scompare a Millers Lake.
Phil riprende quel suo sorriso da squalo.
- Pare che la matta di paese ripeta da settimane il nostro indirizzo e alla fine il ragazzo si è deciso a controllare, nell’eventualità che la sorellastra avesse detto accidentalmente alla pazza dove si trovava.
Di nuovo mi fissa con fare indagatore e di nuovo, senza nessun motivo, la mia sicurezza vacilla.
Certo, questa è ancora più difficile da spiegare come una coincidenza. Una matta che ripete l’indirizzo di un posto dove lavora la sosia di una tizia scomparsa che ha un nome quasi identico. C’è da metterci su la puntata di qualche show.
E da come mi fissa Phil, credo che anche lui abbia avuto lo stesso pensiero.
- Anche se dovessi credere che questa Abigail non sei tu ma una tua sosia dalle mille coincidenze, potrebbe essere una storia interessante per i nostri lettori… - lascia cadere lì, come un vago suggerimento.
In realtà, dal momento che ne ha accennato, sono sicura che ha già pensato a tutto, compresa l’impaginazione di una storia che probabilmente si sta inventando di sana pianta, sulla base di qualche scherzo del destino. In fondo, quasi il quaranta per cento delle storie che pubblichiamo nasce così, qualche buffo caso unito a tanta, tanta immaginazione.
- Ammesso che quella non sei tu, diciamo due o tre anni fa, prima di un’operazione al viso per togliere i nei e lenti a contatto, una tipa scomparsa che viene cercata dalla sua sosia potrebbe proprio attirare l’attenzione.
Di nuovo, mi muovo a disagio sulla sedia, senza sapere esattamente cosa dire. Di solito, contraddire Phil su un servizio è un ottimo modo per farsi licenziare e io ho disperatamente bisogno di soldi in questo momento, se voglio tenermi la stanza dove vivo. Inoltre è evidente che questo servizio non si può fare senza di me e aspettavo un’occasione come questa da quando ho finito il college.
D’altra parte, quando Phil comincia un servizio, lo porta a termine sempre e comunque, il che vuol dire che ci sono alte probabilità che finisco il mio primo pezzo in un letto di ospedale, dove mi avranno spedito parenti incazzati dopo aver letto assurdità e fesserie di ogni genere. Qui non si tratta del solito furto di piccolo conto o dell’omicidio di prostitute di cui non frega niente a nessuno.
- Creeremo una sezione web invece della solita rubrica, così potremo inserire notizie ogni momento e creare una serie di contest per i lettori. “Credi che siano due sosia o una fuga da un oscuro passato?” “Credi che sia viva o morta?” – continua intanto Phil, con la mente che lavora forsennatamente. Riesco quasi a vedere i passaggi di corrente tra i neuroni.
- Posso chiamare Wade, è bravo con queste cose – continua intanto il mio capo, in preda a una euforia che lo fa sembrare un po’ esaltato.
All’improvviso, poi, Phil ha una specie di piccolo sussulto e torna a voltarsi verso di me, come se si fosse appena ricordato che ci sono anche io nella stanza.
- Quando vuoi partire? – mi domanda, in tono sbrigativo.
- Veramente…
Non voglio partire affatto. Era questo quello che stavo dicendo. Ma mentre le parole non hanno ancora raggiunto la mia bocca, penso che è l’occasione che aspettavo da tutta la vita e non posso lasciarmela sfuggire solo per qualche scrupolo. In fondo, ormai Phil ha saputo della faccenda e in un modo o nell’altro la sfrutterà ugualmente, quindi perché sputare in faccia alla fortuna? E poi non è detto che ci sarà bisogno di ingannarli molto…
- Parto solo se sarò io a fare il servizio – dico perciò, cercando di assumere lo stesso tono autoritario del mio capo.
Come previsto, non è che l’inizio di una lunga discussione che sembra protrarsi per ore (e che in realtà dura appena quarantotto minuti) ma alla fine, non so nemmeno come, riesco a spuntarla. Più o meno.
In realtà, non sarà la mia firma a completare l’articolo ma figurerò come assistente e co-redattrice del pezzo e potrò usare le credenziali del giornale per ottenere le mie informazioni. Tutto questo, sfortunatamente, sotto il controllo di un reporter free-lance che collabora col giornale da qualche anno e che pare avere molta esperienza in fatto di eventi on-line.
Non è il massimo, ma è pur sempre qualcosa. E poi sarà la mia faccia ad essere associata alla storia e questo mi assicura una buona percentuale di pubblicità. Se la storia dovesse risultare interessante (e ho come il presentimento che Phil ci riuscirà) potrebbe essere il mio trampolino di lancio.
Esco perciò raggiante dall’ufficio del capo e mi dirigo nuovamente alla mia scrivania, dove comincio subito a raccogliere tutta la mia roba, sotto lo sguardo morboso di Mel che forse cerca qualche lacrima sul mio viso.
In effetti, sono stata dentro così a lungo e abbiamo alzato la voce così tanto, che probabilmente la mia insopportabile collega di fotocopie pensa che sia stata licenziata e io non mi prendo la briga di informarla del contrario. Sarà divino quando scoprirà che invece si tratta di una specie di promozione, specialmente perché avrà detto a tutto l’ufficio che mi hanno licenziata e farà la figura della contaballe, il che è piuttosto vero.
Con lo scatolone tra le braccia, mi fiondo giù per le scale, con la mente piena delle cose da fare nei prossimi giorni.
La mia partenza è stata stabilita tra una settimana esatta, il che vuol dire che ho sette giorni per trovare qualcuno che badi alla casa, compreso il gatto e le piante, rassicurare mia madre che non parto per un servizio suicida nelle zone di guerra e prendere i contatti che mi serviranno una volta lì.
Inoltre devo chiamare questo McPherson per fissare un appuntamento di persona e poi fare qualche ricerca sulla mia presunta sosia. L’idea che io possa avere una gemella è forse meno improbabile di quanto sembri, considerato che sono stata adottata. Magari quelli dell’adozione hanno fatto confusione, oppure…
Salgo al volo su un taxi (che credo di aver rubato a un tizio che mi sta agitando un pugno contro dal marciapiede) e do l’indirizzo di casa mia, poi chiamo il fratellastro della mia sosia, per chiedergli un incontro e conoscerci. Mi sembra il minimo incontrarlo di persona, visto che sto per stravolgergli la vita per qualche giorno.
- L’ha trovata? – risponde dopo un po’ una voce maschile leggermente nasale. Non chiede nemmeno chi parla.
Tossisco imbarazzata e mi presento, spiegandogli brevemente l’idea del servizio per il giornale, poi gli chiedo se ha il tempo per un caffè. Posso sentire la sua delusione persino attraverso il telefono.
Lui, comunque mi propone un bar che conosce e mi chiede se so arrivarci. Lo rassicuro e ci mettiamo d’accordo sull’ora, quindi lo saluto e chiudo la comunicazione, in preda a una brutta sensazione di disagio.
Che cosa dovrei dirgli se mi chiede come possiamo aiutarlo? La verità è che possiamo far ben poco per rintracciare persone scomparse, non siamo mica investigatori, perciò di fatto avremo poche possibilità di avere informazioni che non possa avere anche da solo. Quasi spero che sia un tizio antipatico e maligno, così che mi sarà più facile distorcere un po’ i fatti per avere la mia storia.
Intanto sono arrivata a casa emi fiondo direttamente in bagno, dove faccio una doccia rapidissima e mi vesto con quello che spero essere un abbigliamento professionale, poi chiamo mia madre per mettere a parte anche lei dei miei progetti per i prossimi giorni.
Come mi aspettavo, parte una lunga sfilza di domande alternate a preghiere che io ascolto mentre applico giusto un velo di trucco. Quando finalmente finisce il fiato, la interrompo per domandargli della possibilità che io abbia una gemella.
- Non che io sappia. Immagino che l’assistente sociale dell’epoca ne avrebbe accennato durante la pratica, se ne avessi avuta una.
Già, come pensavo. Eppure questa volta sono io ad essere delusa, anche se solo pochino. In fondo, non è che io mi sia impegnata a cercare le mie origini e cose simili in questi anni, però… per un po’ mi aveva solleticato l’idea di avere una sorella, da qualche parte non troppo lontano, qualcuno che fosse davvero sangue del mio sangue.
Intanto mia madre riprende un’altra lunghissima serie di raccomandazioni, poi finalmente mi saluta, strappandomi però la promessa di cenare da loro prima di partire, quindi mi lascia libera di accendere il computer e cercare qualche informazione sulla mia prossima destinazione.
In realtà, Llittletown è talmente piccola che non trovo quasi niente nel web, solo un nome piccolissimo su Google Maps, a ridosso del Millers Lake, che non avevo mai sentito nominare e che scopro ora essere nello Stato del Michigan, a quasi settecento miglia da NY.
A giudicare dalle immagini satellitari, comunque, mi meraviglio che abbiano pensato di assegnare a quel cumulo di case un nome tutto suo, visto che la sua superficie sembra essere grande quanto il mio isolato.
Per qualche momento mi abbandono allo sconforto: il mio primo servizio vero è un’assoluta perdita di tempo.
Che senso ha cercare una storia interessante in un posto che non conta più persone del mio presepe di Natale (e il mio presepe non va molto al di là della capanna del Gesù bambino)? Cosa può mai esserci che valga la pena di scoprire in un posto così piccolo che il nome Littletown è addirittura un’esagerazione?
In tutta sincerità, non mi meraviglia affatto che una ragazza giovane e carina abbia deciso che non ne poteva più di quel posto e che era meglio ricominciare dove c’era la vita vera. Io sarei fuggita già intorno ai dodici anni da un buco così…
All’improvviso il mio cellulare si mette a suonare, strappandomi dai miei pensieri. Guardo il numero che compare sul display ma al suo posto c’è solo la scritta “numero sconosciuto”. Dannazione!
Per un secondo penso se non sia meglio non rispondere e smettere di dare soddisfazione a questo sconosciuto molestatore, ma poi penso che potrebbe essere McPherson che, giustamente, preferisce non dare il suo numero a una giornalista, perciò premo la cornetta verde e rispondo.
- Sono Aaron Wade, a quanto pare passeremo insieme un bel po’ di tempo nei prossimi giorni – mi dice una voce sconosciuta, lasciandomi interdetta per qualche secondo, prima di ricordare.
- Wade, sei l’altro giornalista di cui parlava Phil.
Dall’altra parte della linea sento una risata.
- Come no, piccola. Ho parlato con Phil fino a poco fa. Io sono l’unico giornalista in circolazione, tu sei la scocciatura che devo sopportare se voglio guadagnare – mi rettifica.
Per fortuna stiamo parlando per telefono, perché altrimenti questo idiota saprebbe come le mie guance sono avvampate. Chi si crede di essere per trattarmi in questo modo?
- Sono l’unica ragione per cui il servizio può essere fatto, se ci sarà un servizio da fare – gli faccio notare gelida, ma ottengo solo un’altra risata.
- Chiaro. E per quanto riguarda il servizio, credimi, si farà. Aaron Wade non perde tempo e nemmeno Phil.
Perfetto, la mia balia è un coglione gonfiato a stupidità compressa. Forse sarebbe meglio rinunciare in questo preciso momento all’incarico e al diavolo le opportunità. L’unica cosa certa che guadagnerò da questa storia, se lavoro con un simile idiota, è un ulcera.
Ma poi mi viene in mente che forse Phil l’ha fatto apposta ad affiancarmi proprio questo Wade, per convincermi a mollare e non insistere oltre. Ce lo vedo benissimo, quell’infido spregevole a ridere della sua stessa pensata mentre chiama questo tizio. Anzi, forse lo ha istruito perché si comportasse intenzionalmente da stronzo.
Quindi decido che non sarà l’arroganza fatta persona a farmi rinunciare al mio primo incarico da giornalista.
-Nemmeno io perdo tempo, quindi perché non mi dici perché mi hai chiamato? Ho un appuntamento tra meno di un quarto d’ora – taglio corto.
- Pensavo che sarebbe meglio lavorare a questa cosa un momento, prima di fiondarci nel paese delle meraviglie. Studiare la storia, fare qualche ricerca. Non voglio che mi combini casini mentre sto lavorando.
Be’ di sicuro, se è stato Phil a chiedergli di comportarsi da deficiente, questo qui ha proprio del talento come attore. Che storia dovremmo studiare se non abbiamo nessuna storia ancora?
Lui coglie la mia esitazione e sbuffa, come se fosse troppo impegnato per restare al telefono con me.
- Senti, pivellina, se vuoi imparare a fare qualcosa nel tuo mestiere, ti conviene venire all’Ontheroad, sulla 20th Street verso le sette. Io comincio anche se non ci sei.
Dopodiché il mio simpatico collega chiude la comunicazione, senza nemmeno darmi il tempo di rispondere e io resto talmente interdetta che fisso per qualche istante il telefono, come se mi aspettassi che richiamasse per darmi una spiegazione. Ovviamente non succede niente del genere.
Di nuovo mi domando se voglio davvero lavorare con uno così, a prescindere che sia o meno una trovata del mio capo, ma un’occhiata all’orologio mi avverte che non ho tempo ora per prendere una decisione.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Abbie è scomparsa ***


Arrivo all’appuntamento con appena una decina di minuti di ritardo, un vero record considerato il traffico sulla strada, e individuo McPherson piuttosto alla svelta.
È talmente fuori luogo in questo posto da sembrare un pugno nell’occhio e lui stesso ha un’aria sperduta, come se non sapesse bene cosa ci faccia in un luogo simile.
Mi avvicino lentamente, per avere modo di guardarlo per bene e farmi un’idea: magro, alto per la media, viso squadrato dalle linee forti, aria da bravo ragazzo di campagna. Di certo non lo si può scambiare per questi newyorkesi pieni di gelatina e firme costose.
I suoi vestiti, anzi, sembrano essere passati di moda da qualche decennio, però gli vestono bene, gli danno un’aria mascolina e… caratteristica. In senso buono però. Anche i capelli, decisamente fuori moda con quelle basette sottili e il ciuffo un po’ più lungo sulla fronte, gli donano, gli danno un’aria sbarazzina che smorza l’effetto delle rughe intorno agli occhi e alla bocca.
Diciamo che ce lo vedrei benissimo in quelle commedie romantiche col bravo ragazzo carino che spacca legna e festeggia il Natale con i nonni, senza però sembrare uno sfigato. Anzi, a guardarlo bene somiglia anche a un attore, anche se non riesco a ricordare quale con precisione…
Nell’insieme, comunque, sembra una persona posata, credibile come fonte per delle informazioni e già questo mi sembra un buon passo avanti.
Quando sono vicina al tavolo tossisco per non spaventarlo (ha l’aria di uno che si aspetta di essere derubato da un momento all’altro) e non appena si volta mi presento.
Lui però non risponde subito, si limita a fissarmi a bocca aperta, come se fossi un fantasma o avessi due teste. Evidentemente, Phil non deve averlo preparato a quanto somiglio alla sorellastra scomparsa.
- Mi scusi, devo sembrarle un vero maleducato a fissarla in questo modo – si scusa poco dopo, ma senza smettere di fissarmi.
- E’ che lei è talmente identica ad Abigail che…
Scuote la testa, come per scacciare un’immagine mentale o un pensiero inopportuno, poi mi fa un impacciato gesto per invitarmi a sedere.
- Deve pensare che sono un maleducato. Solo che Abigail è scomparsa da un mese ormai e ora rivedere il suo viso, così uguale al suo…
Torna a fissarmi sbalordito per qualche secondo e io cerco di smorzare l’imbarazzo con un sorriso. In effetti, sembra un po’ matto in questo momento, con i suoi vestiti fuori moda e l’aria stralunata, intento a fissarmi come se fossi un fantasma.
Nonostante l’aria stralunata, però, devo ammettere che ha il suo fascino questo tizio. Non ha un viso particolarmente bello ma il suo sguardo è magnetico ed emana una sorta di fascino retrò, come se venisse dal secolo scorso.
All’improvviso mi viene in mente a quale attore somiglia: non so il nome ma ricordo che ha interpretato il protagonista di un qualche film sui soldati e il paragone sembra calzare a pennello anche col personaggio del film. In divisa, questo tizio, starebbe divinamente.
La mascella squadrata, il naso aquilino, quell’ombra di barba che sottolinea la linea dura del volto, l’espressione di chi ne ha viste tante nella vita ed è sopravvissuto a tutto senza tante storie, senza panico e drammi inutili. 
- Sono felice che almeno lei mi creda quando dico che non sono Abigail McPherson – butto lì, cercando di smorzare un po’ l’atmosfera imbarazzante, mentre faccio segno alla cameriera di avvicinarsi.
- No, no, lei non è certo mia sorella. Nonostante la somiglianza, non potrei mai scambiarla per Abigail – mi rassicura. Poi però fa una smorfia e si affretta a specificare.
- Non in senso negativo, è ovvio. Non se la prenda. Solo che sa, Abigail è mia sorella e la riconoscerei tra mille, anche in un altro corpo, come diceva un film di qualche anno fa.
Io gli sorrido, per fargli capire che non importa, mentre do un’occhiata al menu e decido per un bel the caldo.
- Perché non mi parla un po’ di Abigail? – domando, dico dopo aver chiuso il menu, tanto per introdurre l’argomento. Temo che se aspetto che il signor McPherson smetta di fissarmi, faremo notte.
Lui ci pensa un po’ su, forse per raccogliere le idee, poi fa un sorriso triste che gli dona moltissimo.
- Abbie è… speciale. È allegra, gentile, responsabile… lavora per gli anziani del paese e credo che questo dica molto di lei…
La descrizione, più simile a un’ovazione a dire il vero, continua ancora per un po’, con una tale ammirazione e devozione nella voce da sembrare quasi una parodia se non fosse per l’espressione di questo tizio. Adorazione pura, come se parlasse di una santa ascesa al cielo, invece che di una infermiera che è scappata di casa.
Il che è piuttosto inquietante, visto che è suo fratello. Da un marito te l’aspetti pure la manfrina smielata sulle qualità della donna scomparsa, ma dal fratello? Io adoro mia sorella Sarah, eppure saprei citare decine di difetti.
Intanto, la cameriera si avvicina e prende le nostre ordinazioni mentre io tiro fuori il mio taccuino per gli appunti. Che emozione utilizzarlo finalmente! È chiuso in un cassetto dal giorno in cui me l’hanno regalato, alla mia laurea.
Quando la cameriera si allontana, McPherson riprende a parlare in tono più concreto, come se si fosse reso conto di aver perso il filo.
- La settimana scorsa è passato un mese esatto dalla sua scomparsa. L’ultima volta che l’ho vista aveva preso l’auto per andare in centro, perché doveva incontrare una persona…
Si interrompe, come se il solo ricordo lo sconvolgesse al punto da impedirgli di parlare, poi però si ricompone e cerca di continuare in tono più controllato.
- Il giorno dopo la sua auto è stata trovata in riva al lago, sommersa per metà, ma nessuna traccia di Abigail.
- Quindi potrebbe essere annegata? – domando, aggrottando la fronte. Non era il caso di dirlo prima?
Subito però mi rendo conto di aver fatto una gaffe. Non era il caso di dire una cosa del genere in maniera tanto brusca e cerco di riparare in qualche modo.
- Voglio dire, sono state condotte delle indagini in quel senso?
McPherson, fortunatamente, non sembra aver preso male la mia uscita poco delicata.
- Sì, ma il corpo non è stato trovato e comunque sarebbe potuta uscire, con un po’ di sforzo.
Questa volta mi trattengo dal dire che molto spesso, in questi casi, la morte è causata soprattutto dalla perdita dei sensi prima di rendersi conto che si sta morendo affogati.
Però, in effetti, una macchina sommersa a metà non è necessariamente una trappola mortale per una donna giovane e in salute.
- Abigail aveva qualche malattia?
McPherson mi lancia un’occhiata quasi feroce.
- Abigail non era depressa – assicura con un ringhio.
Ripensandoci, non era il caso di chiederlo così sgarbatamente, soprattutto perché l’uomo sembra entrato in modalità venerazione ed è poco probabile che si renda conto che sua sorella poteva non essere felice come credeva.
Abbozzo un sorriso rassicurante, quindi, e mi affretto a correggermi.
- Voglio dire, qualche patologia che le avrebbe potuto impedire di uscire da quella macchina in tempo. Tipo asma, fobia dell’acqua, emofilia…
- No, era una donna in perfetta salute – risponde lui, più calmo.
Evidentemente devono essere in molti a chiedergli se soffriva di disturbi di altro tipo, come depressione o esaurimento. Forse perché gli altri avevano notato qualche comportamento strano? Segno sul taccuino di fare qualche domanda in proposito, magari al medico della ragazza.
- Ammesso che si sia allontanata di sua volontà, quale potrebbe essere stata la ragione? – domando dopo un altro sorso di the.
- Davvero non saprei. Tutti le vogliono bene al paese e lei sembrava felice…
- Lei e sua sorella vivevate insieme? – gli chiedo. È molto più facile nascondere qualcosa, tipo una relazione segreta, se abiti un due case diverse. Ma qualcosa mi dice che questi due dormivano nello stesso letto.
- Si, vivevamo ancora nella casa dei miei genitori. Nessuno dei due aveva un’altra famiglia e Abbie diceva che ho disperatamente bisogno di una donna nella mia casa, così…
Come immaginavo. Ma questo non vuol dire che non ci sia qualche segreto ben nascosto, ho fumato per quasi tre anni senza che i miei genitori sospettassero niente.
Basterà fare qualche domanda in giro nel loro paesino, di certo un paese così piccolo conterà qualche simpatica pettegola più disposta di McPherson a spifferare i panni sporchi di famiglia. Anche se, adesso che so con che razza di sbruffone dovrei viaggiare, l’idea di raggiungere la microscopica Littletown non mi entusiasma nemmeno un po’.
- E non ha notato niente di strano nei giorni prima che sua sorella sparisse? Non aveva conosciuto qualcuno, non aveva avuto problemi di nessun genere?
Per la prima volta, McPherson sembra esitare.
- Non credo, ma non ne sono certo. Ultimamente io e Abbie… ecco, avevamo opinioni diverse riguardo ad alcune cose e così… era qualche giorno che c’era un po’ di tensione tra noi… - risponde alla fine, evitando il mio sguardo e grattandosi un orecchio, come un bambino imbarazzato.
Prendo di nuovo nota sul taccuino: scoprire per cosa hanno litigato Hansel e Gretel è decisamente uno dei primi passi da fare quando sarò in quel paesino sperduto. Poi continuo con la mia raffica di domande, sentendomi più un poliziotto che un giornalista.
- Dove avete già cercato?
- Tutte le case delle sue amiche, quelle che si erano trasferite dopo il liceo. Ospedali e alberghi nella nostra contea… Abbie è sempre vissuta a Littletown, non so proprio dove altro potrebbe essere andata.
A New York, mi viene da pensare. Non a caso è comparso un indirizzo di New York che sembra legato a questa storia ed è una città grande e lontana da casa. Il posto perfetto per sparire.
- Mi scusi se le sembro indiscreta ma ha già cercato delle… stranezze nei suoi conti bancari? Sono spariti dei soldi? Ci sono stati movimenti inspiegabili con le carte di credito?
- La polizia locale ha cercato in quel senso ma non è venuto fuori niente di utile.
Si interrompe e finisce di bere il suo caffè in un ultimo sorso, poi si strofina gli occhi e mi fissa con lo sguardo più penetrante che abbia mai visto in vita mia.
- Nelle sue ricerche deve tenere presente una cosa: Abbie è una brava ragazza, responsabile, coscienziosa… non è il tipo che scompare così, da un giorno all’altro, perché ha voglia di cambiare aria.
Dal tono in cui parla, mi sembra di capire che deve essersi ripetuto questa battuta almeno una decina di volte al giorno, forse per rassicurarsi, perciò evito di fargli notare che, a dispetto della sua coscienziosità, sua sorella è appunto sparita da un giorno all’altro.
- Va bene. Ammettiamo che lei ha ragione e che non si sia allontanata volontariamente. C’è qualcosa che potrebbe aver… scoperto, diciamo, che l’ha costretta a fuggire?
McPherson mi guarda perplesso e per la prima volta provo un moto di stizza nei suoi confronti. Se alla sua età, che deve essere intorno ai trent’anni, è ancora così ingenuo, o è uno stupido oppure sta giocando alla parte dello sprovveduto ragazzo di campagna. E in entrambi i casi mi sta solo facendo perdere tempo.
- C’è qualcuno che ha degli affari poco puliti nel vostro paesino? Un banchiere corrotto, un prete pedofilo, qualcosa che sua sorella può aver scoperto e per cui è stata fatta… costretta a sparire?
“Fatta sparire” era quello che stavo dicendo ma non è certo una forma delicata da usare.
Per tutta risposta lui rivolge un sorriso stanco.
- Non ce lo vedo proprio il reverendo Dobrev a fare il pedofilo e non abbiamo banchieri in città.
Per poco il suo scellerato uso del termine città riferito a un posto che conta trenta costruzioni, negozi compresi, mi fa scoppiare a ridere. Tuttavia, non mi sembra molto professionale fare commenti sulle dimensioni del suo paese, perciò cerco di trattenermi.
- Littletown è così piccola che tutti sanno tutto di tutti nel giro di una giornata, senza bisogno di giornali. Le assicuro che c’è ben poco che Abbie poteva sapere che non sapesse già tutta Littletown.
Io sto per contraddirlo ma alla fine chiudo la bocca e mi limito a prendere un altro appunto sul taccuino. Magari in città mi sapranno dare qualche informazione più interessante, perciò decido di rimandare la questione a più tardi e cambio discorso, dando una rapida occhiata all’orologio.
- E posso chiederle come mai in tutto questo lei ha pensato di rivolgersi al mio giornale?
McPherson sembra esitare di nuovo, poi si decide a rispondermi, anche se con l’aria piuttosto imbarazzata, come se temesse che io lo prenda in giro.
- A dire il vero questa è una storia strana. Nel mio paese vive una signora, Theresa, che è affetta da una deformazione al cervello. Era una delle pazienti di mia sorella – mi spiega.
- In realtà, Theresa era la paziente più importante per Abbie, passavano insieme ore e ore e Theresa dice spesso che è la sua migliore amica, poveretta. Ha sofferto molto la mancanza di Abbie.
Di nuovo scuote la testa, come per scacciare dalla mente i ricordi e riprendere il giusto filo del discorso. Mi sa che è uno di quelli a cui piacciono le digressioni.
- Comunque, da alcune settimane, Theresa non fa che ripetere lo stesso indirizzo, continuamente, senza saper spiegare nemmeno lei a cosa si riferisce e ho pensato che potesse riguardare Abbie.
Si interrompe di nuovo, come se non sapesse come proseguire. Io ne approfitto per segnarmi il nome di Theresa per altre ricerche e sorseggio a mia volta il the.
- Vede, Theresa, a causa della sua deformazione, è un po’ come una bambina autistica, alle volte. Così capita che senta una parola che la colpisce per qualche motivo e la infila nei suoi discorsi anche a caso.
Io lo guardo un po’ confusa e lui deve accorgersene perché cerca altre parole con cui spiegarmi.
- Per esempio, Theresa sente sua madre dire: “la sciarpa rossa”. Nei due o tre giorni a seguire, tutto è “rossa” per Theresa. La sua bambola è rossa, vuole mangiare rossa, il sole sembra rossa. Capisce?
Sì, più o meno, anche se non ho mai conosciuto una persona affetta da un disturbo simile. Il che mi porta a chiedermi che tipo deve essere questa Abigail, per essere così legata a una persona gravemente disabile, fare l’infermiera agli anziani e poi sparire da un giorno all’altro.
- Così, quando ha cominciato a dire che la sua bambola si chiamava Hellrose 11 di NY, non ci ho fatto caso e lo stesso quando diceva che la zia vestiva Hellrose 11 di NY e che la nuova infermiera veniva da Hellrose 11 di NY, anche se non era vero.
Hellrose 11 è ovviamente l’indirizzo degli uffici del giornale per cui lavoro, l’HRose Post per l’appunto.
- Poi mi è venuto in mente che ha cominciato a ripetere quell’indirizzo quando il giornale ha pubblicato un articolo sulla scomparsa di Abigail. Così mi sono chiesto se per caso non l’avesse sentito dalla stessa Abbie e sentirla nominare gliel’ha fatto tornare in mente…
Effettivamente, sembra una teoria possibile, tranne che sono abbastanza certa che nessuno si sia presentato ai miei uffici in quest’ultimo periodo con la faccia identica alla mia. Non siamo in molti a lavorare per il giornale e ci conosciamo tutti almeno di vista, qualcuno avrebbe notato la somiglianza e me ne avrebbe accennato.
- Difficile, ma non è detto che non sia successo. Farò qualche controllo al giornale, tanto per essere sicuri.
McPherson annuisce speranzoso, poi sorseggia di nuovo il caffè. Io intanto penso a quale assurda coincidenza del destino può aver portato la mia sosia a venire proprio nel giornale dove lavoro io. E se ci fossimo incontrate? Se si fosse rivolta proprio a me per una qualsiasi ragione, come avremmo reagito? Sarebbe stato stranissimo parlare con un’altra versione di me stessa.
- Certo è strano che ci abbia trovato lei a quell’indirizzo. È così uguale ad Abbie…
- Potrebbe essere questo il motivo per cui sua sorella ha nominato il giornale? Poteva avere qualche conoscente a New York che le può aver detto che c’era una sua gemella a quell’indirizzo? Le dirò, io ho subito pensato a una gemella e una persona molto curiosa…
Lui sembra rifletterci su per un po’. Probabilmente l’idea non gli era passata per la mente finora ma secondo me potrebbe essere un’ipotesi. In fondo non dovevano succedere molte cose emozionanti nella sua vita e lo spiraglio di aver trovato forse una sorella gemella perduta…
- Ha detto che anche lei ha pensato a una gemella. Non sa quante sorelle ha? – domanda giustamente McPherson, dopo qualche secondo.
- Sono stata adottata anche io quando ero molto piccola, perciò non lo escluderei a priori.
Vedo i suoi occhi sgranarsi e mi viene da sorridere.
- Potrebbe davvero essere la sorella gemella di Abigail? – mi domanda cauto, forse preoccupato di sconvolgere il mio equilibrio personale. O il suo.
- Ne dubito, perché sono piuttosto certa che la legge preveda di dare in adozione i fratelli alla stessa famiglia e comunque né i miei genitori, né i suoi mi pare di capire, hanno mai saputo nulla riguardo a una gemella. Ma è un’altra cosa da controllare.
Non aggiungo che spero proprio che non sia così, specialmente ora che scopro che la mia possibile gemella è una perfettina sicuramente insopportabile.
- Posso chiederle il suo nome? – mi domanda lui, dopo un po’.
- Abigayle Metthews.
Di nuovo la faccia di McPherson è così buffa da strapparmi un sorriso, che questa volta non riesco a nascondere.
- Mi perdoni… è che… sembra una storia da talk show. Nomi quasi identici, volti quasi identici…
Vite diametralmente opposte, mi pare di capire. Ma questo non lo dico, perché potrebbe risultare offensivo e questo tipo mi pare avere i nervi particolarmente scossi.
- In realtà mi sembra strano che due sorelle abbiano nomi così simili. Sa se i suoi hanno cambiato il nome della bambina quando l’hanno adottata?
- No, non che io sappia. Ma a casa ho ancora la copia dei documenti dell’adozione. Forse lì c’è qualcosa a proposito…
Prendo nota di chiedere ai miei genitori se per caso non hanno cambiato il mio nome, anche se sono piuttosto sicura che non sia così.
Il suono del mio cellulare interrompe la nostra comunicazione e sono costretta a cercare nella borsa, per poi scoprire ancora una chiamata da un numero sconosciuto. Questa volta non mi prendo la briga di rispondere, chiunque sia, e schiaccio direttamente il tasto per interrompere la chiamata.
- Mi scusi – dico, spingendo il fastidio che mi provocano queste chiamate in un angolo della mia mente. Non è proprio il momento, ma prima o poi dovrò affrontare la questione.
- Si figuri, sono io a dovermi scusare. Le ho rubato fin troppo tempo e si è fatto tardi anche per me, ho un treno tra poco più di un’ora – mi avverte McPherson, alzandosi e infilandosi alla svelta il giacchino di pelle.
- Il suo capo mi ha detto che ha intenzione di venire a Littletown la prossima settimana, per raccogliere altre informazioni.
Cerca nella tasca del giubbotto per qualche secondo, quindi mi porge un bigliettino stropicciato.
- Questo è il mio numero, mi chiami prima di arrivare, così la vengo a prendere dalla stazione e le trovo una sistemazione adatta. Verrà da sola?
A denti stretti, mi costringo a spiegare la presenza anche di Wade, sebbene la spaccio per una “possibilità”. Non appena posso, infatti, ho tutte le intenzioni di convincere Phil a togliermi di dosso quel tizio, meglio Mel a questo punto.
- Bene, vedrò di trovare qualcosa di comodo per entrambi allora e tirerò fuori tutto quello che può esserle utile. La ringrazio davvero di cuore per il fastidio.
Detto questo, scompare verso il bancone e dal tavolo riesco a vedere che paga il conto, poi mi fa un cenno ed esce definitivamente dal locale, mentre io ho ancora mezzo bicchiere di the da terminare, anche se ormai è appena tiepido.
Mentre finisco la mia ordinazione, rileggo gli appunti che ho preso durante l’incontro e mi sento soddisfatta di me stessa. Credo di aver fatto le domande giuste, nel modo giusto e le informazioni mancanti non sono difficili da reperire, basterà chiacchierare con le persone giuste una volta sul posto.
Inoltre, contro le più nere previsioni, c’è abbastanza incertezza intorno a tutta la faccenda per poter costruire una storia abbastanza interessante proprio come vuole Phil, senza irritare parenti e amici.
Una giovane donna scompare in un paesino sperduto. Una matta che ripete l’indirizzo del giornale dove lavora una sua sosia, forse addirittura la sorella gemella persa alla nascita, che ha un nome uguale al suo. Un segreto, forse, che nemmeno l’adorato fratello conosce e che la costringe a fuggire o la fa ammazzare.
Una relazione segreta, forse? Un’accidentale intrusione negli intrighi di qualcun altro? Un reato di cui ancora non sono a conoscenza? Il fratellone amorevole tende a bere più del necessario?
Le possibilità sono tante e col giusto pizzico di creatività la storia può diventare piuttosto intrigante. Certo, non esattamente una storia da NY Times, ma quanto basta per avere il mio primo articolo vero e proprio.
Il che però mi riporta il pensiero all’odioso Wade, perciò faccio un altro tentativo disperato di chiamare Phil per convincerlo a farmi fare da sola.
Sfortunatamente, il mio capo si dimostra piuttosto soddisfatto delle informazioni raccolte finora, ma è irremovibile sulla storia del collega e non accetta nemmeno di sostituire Wade con qualcun altro.
- Ringrazia che mi serve la tua faccia per fare il pezzo e accontentati. Potresti addirittura imparare qualcosa, già che ci sei – mi suggerisce nel suo solito tono sprezzante, come se non avessi una laurea in giornalismo e due tirocini in testate migliori della sua (che però, sfortunatamente, non avevano nessuna intenzione di assumermi e pagarmi lo stipendio).
Alla fine, scoraggiata, chiudo la comunicazione e do un’occhiata all’orologio. Mancano appena quaranta minuti alle sette, quindi perché non raggiungere il mio maledetto collega e scoprire qualcosa in più anche su di lui?
Magari di persona è meno odioso di quanto è sembrato al telefono, oppure, ipotesi ancora migliore, decide che la storia non gli interessa e si tira fuori da solo da tutta la faccenda. Persino troppo bello da sperare.
Finisco quindi il the, rimetto tutto nella borsa e mi fiondo a cercare un taxi, mentre mi preparo ad affrontare la situazione da vera giornalista di professione.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Collega e mentore ***


L’Ontheroad è un posto decisamente diverso da quello dal quale sono appena uscita e non in senso positivo.
Molto fuori mano, è un posticino squallido, con una triste carta da parati sbiadita alle pareti e una puzza di frittura e grassi saturi ad urtarmi lo stomaco. Le cameriere sembrano essere state reclutate in un centro per madri disperate e anche i clienti non sembrano esattamente provenire dall’alta società .
Comunque, mi faccio coraggio e cerco tra i tavoli quello che potrebbe avere l’aria del giornalista, con poco successo. A vederli, sembrano tutti delinquenti o morti di fame, nessuno che possa mai lavorare per uno preciso come Phil.
Alla fine, mi avvicino al bancone e chiedo al barista, un tipo dall’aria truce che prima di rispondermi mi squadra dalla testa ai piedi per una decina di minuti, come se stesse valutando a quanto potrebbe vendermi al mercato degli organi.
- Di Wade ce n’è uno solo che potrebbe convincere un bocconcino come te a raggiungerlo in questa bettola – risponde alla fine, indicandomi con la testa un tavolo nell’angolo, dove un ragazzo beve una birra enorme davanti a un computer.
Il suo tavolo è talmente nascosto che non mi sorprende che non l’abbia notato da sola, mentre mi sorprende la sua giovane età. Considerando quanta considerazione ha mostrato Phil nei suoi confronti, mi aspettavo qualcuno con più esperienza non un ragazzetto che sembra appena laureato.
Comunque, cerco di assumere un’aria sicura di me (nonostante l’incubo del tetano, che deve avere il suo habitat naturale qui dentro) e mi avvicino all’angolino, squadrandolo per bene nella luce fioca.
A vederlo sembra più un nerd che un giornalista, con la camicia a scacchi portata sopra la t-shirt come i teenager e il modo di sedere scomposto.
Oddio, carino è carino: biondo, occhi scuri, bella bocca. Non una bellezza mozzafiato - niente fisico scolpito o roba da rotocalchi - ma è affascinante, col taglio spettinato e l’aria di chi sa il fatto suo. Mia sorella direbbe che è sexy e forse non ha tutti i torti, se ti piacciono i tipi da liceo.
- Alla fine sei venuta, pivellina – mi apostrofa all’improvviso, alzando gli occhi verso di me.
- Il mio nome è Abigayle Metthews, vedi di ricordartelo. E il pezzo non si fa senza di me, ricordati anche questo.
Mentre parlo mi siedo di fronte a lui, sforzandomi di non fare smorfie di disgusto. Qualcuno nel frattempo carica il juke-box e parte una canzone jazz, non saprei dire quale, che aumenta l’impressione di essere in uno di quei postacci da film di serie b. Ci manca solo una rissa per completare il tutto e a giudicare dall’aria arrogante del mio collega, non è detto che non ce ne sia una fino alla fine della serata, tra me e lui.
- Bene Abigayle Metthews, prenditi da bere e comincia a raccontare: hai già incontrato il fratellino disperato?
La sola idea di bere qualcosa in questo posto mi disturba ma non voglio darlo a vedere, così ordino una birra piccola, che mi viene servita con la stessa cortesia che si potrebbe usare per dar da mangiare a una bestia e che si rivela essere amara e decisamente scadente, poi gli faccio un breve riassunto di quello che ho scoperto parlando con McPherson, sforzandomi di rendere tutto il più noioso possibile.
- Interessante – commenta però lui, a dispetto delle mie segrete speranze. Accidenti.
- E questa tizia è così uguale a te? – mi domanda poi, fissandomi in quel suo modo indiscreto.
- Sembra di sì, l’ha confermato anche il fratello.
Bevo un altro po’ di birra, lentamente, reprimendo una smorfia, e guardo la reazione di Wade di fronte a me, che intanto ha spostato lo sguardo verso un punto imprecisato del locale, con la mente al lavoro.
- E’ un pezzo facile ma insidioso. Ci sarà un sacco di lavoro di verifica. Sei brava con le scartoffie? – mi domanda, senza nemmeno guardarmi.
Mi limito ad annuire e bevo ancora un po’, mentre lo osservo. Emana un’energia statica, qualcosa che attira inevitabilmente lo sguardo verso di lui. È come essere troppo vicini a una batteria o un motore acceso, riesci quasi a sentire le vibrazioni che emana e questo, insieme alla birra, mi fa sentire un po’ scombussolata.
- Che ti è sembrato quel tipo?
Cerco di dargli una descrizione piuttosto precisa di McPherson, comprese le mie impressioni su di lui e lo osservo più attentamente possibile mentre riflette sulle mie parole.
- Tutta questa ammirazione mi sembra aria fritta. Non me la bevo per niente questa storia dei fratelli dell’anno.
- Io ci ho parlato con quell’uomo e sembrava assolutamente sincero.
Non è esattamente la verità, perché anche io ho avuto a tratti l’impressione che la sua aria da ingenuo ragazzo di campagna fosse un po’ forzata, ma non sopporto la sua arroganza supponente.
- Come se tu sapessi distinguere un bugiardo – mi apostrofa però Wade.
- Certo che sì. E anche un idiota. Ne ho uno davanti proprio ora.
La mia frecciata però non sembra fargli nessun effetto, perché Wade non replica e si concentra invece sullo schermo del portatile, ancora acceso davanti a lui.
- Che idea ti sei fatta della storia? Credi che l’abbiano uccisa o che sia scappata? – mi domanda poi, senza alzare gli occhi dal pc.
- Ho visto il posto dove vivono, è più un villaggio che un paese. Nessuna meraviglia che una ragazza giovane e sveglia sia scappata per vedere una città vera.
- E come fai a dirlo? Solo perché sei di NY non vuol dire che tutti sognano negozi e grattacieli.
- Lo dico perché sono una ragazza giovane e sveglia e scommetto che anche questa Abigail ha dei progetti veri per la vita, qualcosa di meglio della badante o l’infermiera o quello che è.
Wade annuisce pensieroso, mentre ingolla un’altra generosa sorsata di birra. Si asciuga col dorso della mano e torna a fissarmi, mentre io reprimo una smorfia di disapprovazione.
- Comunque, domattina ci troviamo alle otto davanti al comune, così vediamo di scoprire se hai una gemella. – mi ordina Wade, sempre col viso incollato al portatile.
Non avrei dovuto mettermi di fronte a lui, vorrei sapere cosa sta guardando ma non ho nessuna intenzione di chiederglielo.
- E se avessi un impegno? O se preferissi scoprirlo da sola?
- Vacci da sola allora, ma vedi di non ytalasciare informazioni importanti perché sei sconvolta.
Resto un attimo interdetta e non rispondo. Ovviamente non voglio davvero andarci da sola, anzi forse preferirei non andarci affatto, ma non sopporto la sua arroganza nel darmi ordini, perciò continuo a fissarlo con aria di sfida.
- Senti pivellina, se vuoi lavorare con me piantala di fare la bamboccia capricciosa, ok?
Finalmente alza gli occhi dallo schermo per guardare me, così che il mio sguardo astioso non va sprecato, anche se mi pare di capire che non ha un grande effetto su di lui.
- Se devi parlare solo per darmi fastidio, chiudi la bocca prima di pentirtene perché non ci metto niente a dire a Phil di rimetterti a seguire la finanza.
- Allora tu smettila di darmi ordini come se fossi la tua assistente – ribatto piccata.
Davvero pensava che avrei obbedito in silenzio come una brava scolaretta solo perché ha firmato due o tre servizi?
- Tanto per cominciare, sei la mia assistente, non te lo dimenticare. E se mi rubano il pezzo per colpa dei tuoi capricci mi assicurerò che non ti muoverai mai più dagli inserti finanziari. Abbiamo poco tempo per accaparrarci la storia.
 “Abbiamo poco tempo…” Ma chi si crede di essere, il capo dell’unità persone scomparse? Crede che la salveremo sorvolando un magazzino con l’elicottero?
- Datti una calmata, stiamo facendo un servizio su una ragazza che scappa di casa – gli ricordo – chi vuoi che ci rubi la storia?
- Cento altre testate piccole come la nostra, o anche di più, che vivono di piccoli fatti quotidiani come questo.
Il tono di Wade non ammette repliche e anche l’occhiataccia che mi lancia non promette niente di amichevole, se la discussione dovesse continuare. D’altronde, sappiamo benissimo che è lui ad avere il comando della squadra, perciò alla fine me ne sto zitta e bevo ancora un po’ di birra, imbronciata. Lo conosco da due ore e già lo odio.
- Bene. Ora che ci siamo capiti, ordina qualcosa da mangiare e mettiti di fianco a me, così ti faccio vedere come usare il web – mi ordina, di nuovo bonaccione.
Di nuovo la tentazione di mandarlo al diavolo e andarmene subito da questo postaccio è quasi irresistibile ma faccio un grosso respiro e mi costringo ad obbedire, perché non voglio che poi mi estrometta con la scusa che non sono nemmeno rimasta a guardare. Phil ha bisogno solo di un pretesto per togliere il mio nome da qualunque ruolo nel giornale.
Così ordino ali di pollo fritte e un’insalata e mi siedo accanto a Wade, ben attenta a non toccarlo nemmeno per sbaglio perché non ho nessuna intenzione di dargli più confidenza del dovuto.
Restiamo così un altro paio d’ore, durante le quali Wade mi mostra come cercare negli archivi della polizia e di tutti gli uffici comunali liberamente consultabili, poi diamo un’occhiata all’archivio del giornale locale dal quale ricaviamo, però, ben poco.
Mi mostra anche come dare un’occhiata alla fedina penale dei cittadini americani, ma non risulta nessun delinquente a nome di Nathan o Abigail McPherson, e le loro pagelle scolastiche (questo è decisamente illegale ma Wade mi insegna come se parlassimo di geografia) sono nella media. A parte il fatto che alla mia presunta gemella non piace la matematica, non ne viene fuori nulla, sembra la persona più normale del mondo, mediamente intelligente e diligente nei suoi compiti.
Finite le ricerche su Littletown, Wade decide di fare anche un controllo più esteso, così verifichiamo i casi di scomparsa nella stessa area, il tasso di criminalità e cose del genere, per scoprire se la nostra Abigail McPherson non rientri per caso in qualche affare più grosso ma ancora una volta non ne esce niente di utile. Nessuna indagine per furto d’organi o istigazione alla prostituzione, niente di niente.
In sostanza, dunque, sono rimasta la bellezza di quasi cinque ore seduta su una sedia della tavola calda più squallida della contea per nulla.
Be’, quasi nulla perché almeno ho imparato ad accedere a tutti quegli archivi. Ora non sono stati utili, ma sono certa che mi serviranno, quando scriverò servizi veri.
Mi alzo dalla sedia stiracchiandomi e mi spavento leggermente nel sentire quanti scricchiolii provengono dalle mie ossa, contenute in muscoli così irrigiditi che mi sento come se fossi fatta di legno.
- Avrei dovuto immaginare che non eri abituata a questi ritmi – dice Wade e io non capisco se voglia scusarsi oppure offendermi.
Ad ogni modo, decido di ignorare il suo commento perché sono stanca e voglio disperatamente farmi una doccia per togliermi questo odore di fritto dai capelli.
- Ci vediamo domattina davanti al comune allora. Non fare tardi o entro da sola – lo avverto mentre mi infilo il cappotto. Ho il sedere insensibile a furia di stare seduta immobile.
Per tutta risposta, Wade alza il boccale di birra ormai quasi vuoto nella mia direzione, poi torna a guardare lo schermo del computer.
Cos’altro vuole cercare che non abbiamo trovato in cinque ore?
Decido comunque che non sono affari miei e mi allontano dal tavolo senza aggiungere altro, pago e mi dirigo verso il mio appartamento, per niente squallido e dotato di una meravigliosa doccia calda.
Quando mi sono lavata, asciugata e messa comoda per la notte, mi concedo qualche minuto per ripensare a tutta la giornata, un’abitudine che ho preso fin da bambina.
Quali sono state le cose buone delle ultime ventiquattr’ore?
Ho avuto il mio primo servizio, sebbene in circostanze così particolari che non si può parlare di promozione nemmeno nell’immaginazione più fervida. Mi sono presa una piccola rivincita su quell’odiosa Mel, che di certo farà una figura pessima quando gli altri scopriranno che non sono davvero stata licenziata.
Quali sono state invece le cose brutte?
Sono legata necessariamente a un belloccio che crede di essere Dio, il mio servizio è praticamente aria fritta e corro il serio rischio di essere citata dalla famiglia della scomparsa per aver scritto cose che non gli vanno a genio sulla loro cara.
E, ovviamente, dulcis in fundo, la scomparsa potrebbe essere la mia gemella. Ma in realtà, non so se questo dettaglio è da inserire tra le cose buone o brutte della giornata.
Cosa ci potrei ricavare di buono da una sorella che non conosco affatto? Che ha una vita così diversa dalla mia e una personalità, a quanto pare, praticamente opposta?
Io non sopporterei di fare da assistente a vecchi e ammalati nemmeno per due ore di fila e amo New York, col suo caos e la frenesia e i carretti ambulanti sparsi per le strade e i negozi di Starbucks ad ogni angolo… in un posto come Littletown sarei probabilmente morta.
E poi ci sarebbero troppe domande collegate a una sorella, perché quando si ritrova la propria gemella poi non si può fare a meno di cercare i propri genitori, vero? E che dire di tutti gli altri parenti? Zii, cugini, magari anche i nonni.
Io ho già tutto questo nella mia vita e anche se zia Paulina diventa imbarazzante quando comincia a bere, anche se zio Jerry mi fa impressione col suo occhio strabico e maligno, anche se mia cugina Felicia è una stronza colossale… non voglio sostituirli. Ma temo che non sarà più una mia scelta se dovessi scoprire di avere una gemella…
Lentamente, tra una parola e l’altra, il sonno ha la meglio sulle mie preoccupazioni e sprofondo tra le braccia del bel Morfeo prima di poter decidere se voglio una sorella di sangue oppure no.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2703506