When I was fifteen

di Sara Scrive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
Dedico questa storia a Giovanni, Martina e Asuka Asami
 
Capitolo 1
 
«Ehi Cher!- Macy mi posò una mano sulla spalla – piaciuta la festa?!»
Un party a sorpresa non era male. Insomma, una cosa intima con alcuni amici era sempre gradevole e divertente in fin dei conti, soprattutto perché bisogna sempre festeggiare nel migliore dei modi il proprio compleanno … peccato che realizzare di avere vent’anni e una vita monotona da sfigati era abbastanza deprimente.
Così me ne stavo appoggiata alla ringhiera del terrazzo a guardare il cielo, rimuginare sulla mia non-ammissione all’università e sul ‘devi trovarti un lavoro’ di mia madre e a paragonarmi con i miei coetanei e con tutti i loro successi che io non avevo ottenuto.
«Sei stata davvero gentile – risposi dato che non mi sembrava il caso di coinvolgere chi mi stava accanto nella mia tristezza – Non sono mai stata così felice».
Improvvisamente venni avvolta da una coperta  e mi ritrovai al fianco una buffa Macy con un cerchietto, azzurro come i suoi occhi, che mi offriva una tazza di latte fumante.
«Non me la dai a bere – ed era proprio per questo che lei era la mia migliore amica – Lo so che è stata dura, ma vedrai che il prossimo anno  passerai sicuramente l’esame».
Era una ragazza robusta, aveva sempre il sorriso sulle labbra e i suoi occhi chiari, combinati con quei capelli biondi dal taglio sbarazzino, le donavano un aspetto simpatico. Era strano vederci camminare per strada insieme e immaginare che fossimo amiche: il suo look era molto vivace e solare mentre io ero molto più sobria e vestivo con abiti larghi e comodi. Nonostante, peró, non avessimo molte cose in comune ci capivamo sempre al volo.
«Certamente» le risposi poco convinta e mi fiondai sulla tazza di latte mentre lei mi abbracciava dolcemente.
«Lo sai- iniziai dopo un po’ alzando lo sguardo verso il cielo – Vorrei veramente che  le leggende sulle stelle cadenti funzionassero davvero»
«Dici sul serio?- chiese curiosa con un sorriso bonario – Proviamo a trovarne una, stanotte non ci sono nuvole, strano eh?»
Sorrisi di rimando, pensando che, almeno il giorno del  mio compleanno, quella maledetta pioggia e le nuvole che coprivano la mia città erano sparite e mi concentrai su un punto fisso.
Forse per uno scherzo del destino, dopo solo mezz’ora riuscii a distinguere una scia luminosa.  «Una stella cadente!» esclamai sorpresa come una bambina, sbrigandomi ad esprimere un desiderio: ‘Vorrei avere un’occasione per migliorare la mia vita.’
«Uffa- si lamentò Macy mettendo il broncio – io non ho visto nulla!»
«Ragazze! – sentii la voce di mia madre provenire dal salotto – Macy, David ha citofonato. Ti sta aspettando in macchina»
Ci voltammo verso la porta che dava sul terrazzo e senza troppe cerimonie tornammo dentro casa dandoci dei pizzicotti per gioco.
«Ciao, Chocolat. Buona notte e ancora buon compleanno!» disse la mia migliore amica dandomi un bacio sulla guancia prima di mettersi il cappotto.
Mia madre, Eveline, si avvicinò a lei, le diede un contenitore tupperware con della torta e l’abbracciò calorosamente: «Grazie ancora per essere venuta!»
Nessuno avrebbe mai detto che fossi sua figlia, perché, benché fosse una donna sulla quarantina, aveva un look curato che la faceva sembrare più giovane e, inoltre, aveva gli occhi chiari a differenza dei miei color nocciola. I capelli della donna erano neri e aveva qualche meches bionda per nascondere i primi accenni di capelli bianchi. Aveva qualche ruga ma que sto era colpa solo del tempo e di una ed unica gravidanza.
«Si figuri signora Ross, anzi grazie a lei per la disponibilità»
«Tu va a dormire – esordì mia madre quando Macy fu uscita di casa – ci penso io a pulire»
Non dissi nulla, mascherai con un sorriso la riflessione che avevo iniziato a fare mentre mi dirigevo in camera.
La mia stanza aveva le pareti rosa pallido, il parquet ormai pieno di graffi e strisciate e un letto con le coperte fucsia contro la finestra. A parte un armadio e una piccola scrivania con un portatile affianco a qualche libro, era una camera abbastanza spoglia.
C’erano tante cose che avrei voluto cambiare nella mia vita.
Quella sera, mentre chiacchieravo con i miei amici, li sentivo fare tanti progetti: c’era chi aveva affittato un appartamento vicino l’università, chi aveva iniziato a lavorare in un salone di bellezza e chi si stava preparando per l’ennesimo esame.
Infine c’ero io che ascoltavo tutti in silenzio senza poter raccontare di avere da studiare perché durante il liceo non avevo mai pensato che a volte la sufficienza rasentata non sarebbe bastata in futuro. Non potevo dire di aver trovato un lavoro perché, oltre a disegnare, non ero brava in niente e di conseguenza non avevo un soldo in tasca per intraprendere iniziative.
‘Sono sicura però – pensai mettendomi il pigiama – che in tutta Bristol non sono l’unica ad essere in questa situazione’. Usavo spesso queste parole per confortarmi, promettendomi che sarebbe andata meglio.
Sarei stata ammessa all’Università, avrei trovato un lavoro, un appartamento tutto mio e … l’amore della mia vita.
 
 
 
Una parte del mio inconscio mi diceva che sicuramente stavo dormendo:  ero in quel momento del sonno in cui stai per svegliarti e di conseguenza il tuo cervello è ancora in dormiveglia, ma riesce a vedere le immagini che stai sognando.
Per essere un sogno mi sembrava tutto così nitido: mi trovavo vicino ad una finestra e non riuscivo a vedere molto; pioveva a dirotto e, non vedendo nulla di interessante, mi voltai dall’altra parte e realizzai che mi trovavo in una classe.
L’aula era piena di cartelloni e poster attaccati al muro e davanti a me c’erano una ventina di studenti che seguivano una professoressa sulla cinquantina mentre scriveva alla lavagna.
Più precisamente ero seduta al penultimo banco della terza fila tutta a sinistra.
‘Che sogno strano – pensai – cosa ci faccio a scuola?’
«Ehi, che giorno è?» chiese una ragazza davanti a me.
«È il ventisette» rispose un ragazzo dalla fila accanto.
«Grazie»
Abbassai lo sguardo e lessi sul quaderno aperto sopra il mio banco la data per intero: 27 Marzo 2009.
‘Che strano, è la data del giorno dopo il mio compleanno di cinque anni fa’.
In quel momento sentii che dovevo fare la pipì e pregai con tutta me stessa di svegliarmi per evitare di farmela a letto, ma stranamente il mio braccio si alzò da solo, senza che lo decidessi.
«Sì, Chocolat?» disse la professoressa appena finì di scrivere l’equazione alla lavagna.
«Potrei andare in bagno, per favore?» di nuovo avevo compiuto un gesto senza averlo deciso, le mie labbra si erano mosse da sole e la voce era uscita in automatico.
‘Tipico dei sogni. – pensai. – Mi trovo sicuramente in un liceo’ aggiunsi mentre camminavo per il corridoio.
La mia mente era l’unica cosa che riuscivo a controllare, i pensieri non erano manipolati da niente, ma il mio corpo si muoveva da solo verso la toilette; entrai in bagno e feci la pipì.
Quando mi avvicinai al lavandino per sciacquarmi le mani, per poco non mi prese un colpo vedendo il mio riflesso allo specchio.
‘Cos’è? Un sogno stile 17 Again?’
La mia espressione su un viso da quindicenne in divisa scolastica sembrava non mostrare alcuna emozione nonostante dentro di me fossi sorpresa da tutta quella situazione.
‘Che carina che ero: un po’ più paffutella e bassa, ma graziosa, tutto sommato.’
E pensare che a quell’età odiavo il mio aspetto, non mi piacevano i capelli castani che ritenevo monotoni quanto i grandi occhi color scuri e le labbra carnose. Non sopportavo neanche la mia carnagione pallida, ma di quello non mi lamentavo tanto visto che il mio paese era sempre coperto dalle nubi.
Di solito nei sogni il tempo scorre in modo indefinito: una volta ti trovi in spiaggia pensando sia mattina, passa qualche secondo e sei davanti un falò in montagna al tramonto. Mi ritrovai quindi a chiedermi per quale motivo stessi vivendo un sogno in cui le ore erano ore e passavano lentamente, vivevo istante per istante quella giornata al liceo, ma il mio corpo si comportava senza rispettare quello che volevo, parlavo con persone che non conoscevo, ascoltavo lezioni su argomenti già sentiti e prendevo appunti inutilmente.
«Ragazzi, oggi ci sono ancora da finire i preparativi dell’Open Day per questo sabato – disse il professore di letteratura prima che finisse l’ora – perciò le lezioni pomeridiane sono sospese, dovete dare tutti una mano!»
Al suono della campanella, ognuno si alzò dal banco per uscire dall’aula, compresa me che ovviamente non mi stavo muovendo perché lo volevo, ma era il sogno a volere che io mi alzassi dal banco e seguissi tutti gli altri.
«Cher?» udii una voce femminile.
‘Chi mi sta chiamando!?’
«Ehi, Rose! – risposi sorridendo – finalmente la tortura è finita»
Non conoscevo assolutamente la ragazzina della mia ‘età’ che sembrava un incrocio fra Hermione Granger e l’attrice che interpreta la protagonista di Hunger Games.
Era molto carina, molto più carina di me. Portava i capelli  rossi, corti da un lato e lunghi e mossi dall’altro. Nonostante quel look bizzarro con l’aggiunta di un sacco di lentiggini e occhi verdi scuro, ispirava simpatia e si comportava come se avesse una certa confidenza con me.
Quando mi chiese di portare un mucchio enorme di scatoloni pieni di decorazioni al posto suo, io non mi opposi, anzi le risposi: «Certo Rose, ci vediamo in palestra ».
Anche se mentalmente mi ero opposta, non potei fare nulla perché il mio corpo faceva di ‘testa’ sua.
Ad un tratto, mentre sceglievo l’angolazione più adatta per prendere quegli scatoloni, notai un buffo cappello di paglia, identico a quello del pirata che faceva parte di una serie animata che guardavo da piccola.
‘Oh ti prego mettitelo- pensai rivolgendomi a me stessa- dai mettitelo e renditi ridicola, tanto è un sogno.’
Evidentemente anche la ‘me’ del sogno era attratta da quel cappello, tanto che se lo mise in testa senza troppe cerimonie ed iniziò a trasportare gli scatoloni.
Non riuscivo a vedere nulla perché la visuale era coperta e fu l’unica volta in cui fui contenta che il mio corpo faceva come voleva, almeno sapeva dove andare.
Improvvisamente iniziai a sentire il rumore della pioggia intensificarsi sempre di più e, non riuscendo a vedere dove stavo andando, ipotizzai che mi stessi avvicinando a qualche uscita della scuola.
Dovetti ammettere che, per essere un sogno, avevo immaginato un edificio davvero carino e ben curato: era molto accogliente soprattutto per le numerose decorazioni fatte dagli studenti, anche se mi accorsi che alcune finestre non erano chiuse bene e che la pioggia ogni tanto riusciva ad entrare.
All'improvviso sentii dei passi e sperai vivamente che la persona a cui mi stavo avvicinando non mi venisse addosso, perché avevo l’impressione che il minimo oscillamento avrebbe fatto cadere tutto il carico che trasportavo.
Non feci in tempo neanche a pensare, che calpestai qualcosa di scivoloso e finii per sbilanciarmi in avanti.
Cercai di riprendere l’equilibrio, ma ormai era troppo tardi, feci un paio di passi in punta di piedi e, sempre con la sfortuna dalla mia parte, scivolai nuovamente facendo un inutile saltello.
Lo scatolone più leggero che si trovava in cima si slanciò verso l’alto e, capovolgendosi, fece cadere come pioggia una marea di coriandoli.
In quei pochi istanti mollai la presa sul resto degli scatoloni e finii per sbattere contro qualcosa che cadde per terra insieme a me con effetto domino.
Chiusi gli occhi e mi preparai a sentire il pavimento contro la mia faccia, dato che non ero riuscita a proteggermi con le braccia durante la caduta.
«Porca puttana- mugugnò qualcuno sulle le mie labbra - Non che mi dispiaccia essere baciato ma…»
Ero atterrata su qualcosa di morbido.
Con una mano stringevo ancora il bordo di uno di quegli stramaledetti scatoloni, con l’altra stavo toccando il braccio di qualcuno e le mie labbra si erano appena scontrate con quelle del ragazzo che mi stava fissando con una smorfia dolorante ma divertita.
Nonostante non potessi controllare il mio corpo, ero sicura di essere arrossita al cento per cento.
«Sc-scusami… - balbettai - Harry».
Quindi la 'me' del sogno, conosceva quel ragazzino con la faccia da bambolotto, qualche brufolo e gli occhioni verdi. Un’altra cosa tipica dei sogni: creare personaggi bizzarri. Questo tizio non era brutto come ragazzo ma sembrava un incrocio fra un bambino ed un cespuglio, dato che aveva una matassa indistinta di ricci scuri in testa.
«Stavo portando questi scatoloni – esordii cercando di rialzarmi – il pavimento era bagnato e…»
«Sto bene – rispose mettendosi sui gomiti e levandosi dai capelli tutti quei coriandoli – sto bene».
Che vergogna, se fosse stato tutto vero mi sarei sotterrata per l'imbarazzo: avevo appena travolto e baciato un ragazzo indossando un capello di paglia, mentre una marea di coriandoli lo aveva ricoperto dalla testa ai piedi.
Ad un tratto, mentre mi levavo quel ridicolo cappello, lo sentii gemere di dolore e quando riposai il mio sguardo su di lui lo trovai a massaggiarsi la nuca.
'Che begli occhi che ha' mi ritrovai a pensare distrattamente.
«Ho solo dato una leggera botta – disse, guardandomi con un sorriso – tranquilla Chocolat.»
 
 
 
Mi svegliai di soprassalto e la prima cosa che feci fu controllare il letto. Non era bagnato, nessuna traccia di umido.
Istintivamente mi portai una mano sulle labbra e ripensai a tutto quello che avevo vissuto nel sogno. Perché quello era sicuramente un sogno. Ancora non mi capacitavo di ricordarmi bene ogni dettaglio di quello che avevo visto, era stato tutto molto reale ed ogni sensazione l’avevo vissuta in prima persona, nonostante il mio corpo facesse come voleva.
Quando mi alzai per andare a fare colazione, trovai mia madre in cucina mentre poggiava una tazza di latte sul tavolo.
«Ciao mamma…» mugugnai ancora con la voce impastata dal sonno mentre mi stringevo nel pigiama.
«’Giorno Cher – esordì indaffarata – dormito bene?»
Prima di rispondere guardai l’orologio digitale appeso al muro e mi resi conto che quella mattina mi ero svegliata davvero presto per i miei standard e forse mia madre credeva mi fosse successo qualcosa.
«Ho solo fatto un sogno strano, nulla di che».
Mi sorrise bonaria avvicinandosi velocemente all’appendiabiti all’inizio dell’ingresso e mi chiesi dove stesse andando così di fretta.
«Devo fare delle commissioni urgenti – spiegò, notando la mia espressione interrogativa – alle dieci e mezza viene zia Martha e ti lascia Charlie».
‘Perfetto…- pensai scocciata – mi tocca fare da babysitter’
«E non fare quella smorfia – aggiunse mettendosi il cappotto – tanto non hai nulla da fare oggi».
Alzai gli occhi al cielo.
«Vestiti. Non farmi dire da zia Martha che ti ha trovato in pigiama. Ormai hai vent’anni!»
«Va bene – alzai le mani – mi preparo, stai calma»
Mio padre era morto quando avevo quattordici anni a causa di un incidente stradale; da allora le cose in casa erano cambiate, soprattutto perché mia madre, invece di rifarsi sul serio una vita e cercare un compagno, aveva deciso di riempire il suo tempo facendo commissioni e dedicandosi interamente al lavoro e a me.
Dato che eravamo due donne, capitava spesso che litigassimo, anche per cavolate e, ultimamente, anche a causa del periodaccio che stavo vivendo e della mia intrattabilità, le discussioni erano aumentate.
Dopo che mia madre fu uscita, consumai lentamente la mia colazione, andai a vestirmi e rifeci il letto prima che zia Martha arrivasse e mi trovasse impresentabile.
Mentre mi lavavo la faccia e i denti mi guardai allo specchio, paragonandomi con la 'me' del sogno. Avevo sicuramente più petto ed ero alta, senza brufoli e crosticine coperte da chili di correttore, avevo sempre una faccia da schiaffi e gli stessi occhi e capelli.
Non persi tempo neanche per truccarmi. Quando suonarono alla porta andai ad aprire e salutai mia cugina di sei anni e mezzo con un finto sorriso perché, sì, avrei preferito buttarmi di sotto piuttosto che fare da badante a quella peste. Dopo aver congedato mia zia, mi buttai sul divano e accesi la televisione.
«Mi leggi questo, mi leggi questo – ripetè mia cugina per la decima volta  – dai, dai, dai».
«Charlie, per favore, sto guardando questo programma. Ti leggo la rivista quando finisce».
«Cugina Chocolate…».
«Mi chiamo Chocolat, non Chocolate».
Quella bimbetta idiota non sapeva pronunciare neanche il mio nome.
«Cuginona Chocolate - allora mi ignorava del tutto quella bambina – è importante: c’è questo articolo sui miei cantanti preferiti, ma non so ancora leggere bene».
Charlie era la tipica bambina viziata che otteneva tutto quello che voleva. Pregai il cielo che gli zii non facessero ed educassero con il loro strambo metodo altri figli, perché altrimenti sarei scappata in Messico piuttosto che fargli da babysitter.
Mia cugina era molto graziosa nonostante celasse un carattere da bambina pestifera, era bionda con gli occhi azzurri e il nasino all’insù che le donava un’aria da super snob, più inglese di così non poteva essere.
Andava pazza per tutti quei programmi stupidi che guardava in televisione e anche per quegli artisti di cui sentiva parlare a scuola, tanto che ogni settimana comprava una rivista – che ovviamente non sapeva leggere – e me la sbatteva in faccia pretendendo che la informassi su tutto quello che facevano i suoi ‘idoli’.
‘Ah le generazioni di oggi’ pensai scocciata mentre mettevo in pausa la televisione e prendevo in mano quel maledetto giornale per disadattati che mia zia aveva il coraggio di comprarle.
«Solo una pagina – decretai, guardandola con aria severa – quale devo leggere?»
Lei mi sfilò la rivista dalle mani ed iniziò a sfogliare le pagine, soffermandosi sui mini poster di Justin Bieber e di Bella Thorne per poi indicare un articolo sul gruppo musicale più famoso del momento: gli One Direction.
«Vuoi davvero che ti legga un’intervista su cose inutili come queste?».
«Sì» rispose convinta e, a quel punto, alzai gli occhi al cielo senza obbiettare.
Mi soffermai per qualche secondo ad osservare uno di loro, li avevo visti benissimo altre volte su altri giornalini o su facebook, ma in quel momento, sentivo che c’era qualcosa di familiare che mi spingeva a guardare il ragazzo in basso a destra nella foto, quello con i capelli semi ricci e gli occhi chiari. Lasciai perdere.
«Oltre il canto, sapete suonare qualche strumento? Niall dice: ‘Beh sì, suono anche la chitarra’» iniziai a leggere.
«Oh, sa suonare la chitarra» mi fece eco Charlie.
«Cosa fate quando siete in viaggio? Louis:’Di solito dormiamo, durante il tour abbiamo così tante cose da fare che non abbiamo un attimo per riposarci, così mentre siamo in aereo, in macchina o sul bus facciamo sempre qualche pisolino’».
‘Ma come fanno ad esistere persone che si interessano di queste cose? Bah’ pensai mentre leggevo.
«Chi di voi è fidanzato? Louis, Liam e Zayn alzano la mano».
«Sono io la loro fidanzata» proclamò Charlie mentre si sedeva sul divano accanto a me.
‘Credici – pensai sarcastica – ma come fa a dire cose del genere ed esserne convinta?’
«Qual è stato il bacio più strano o buffo che avete dato?...»
 
“Harry: Non so se si può ritenere un vero bacio, ma questa storia è davvero divertente. Avevo circa quindici anni, credo, e stavo camminando per il corridoio, quando ad un tratto una ragazza che trasportava tanti scatoloni scivolò sul pavimento e mi trascinò nella sua caduta *ride*, la cosa comica è che uno di quegli scatoloni conteneva coriandoli, che ovviamente mi finirono addosso e dopo aver dato una bella botta mi accorsi che avevo le labbra di qualcuno sopra le mie. Aprii gli occhi e mi ritrovai davanti una mia compagna di classe con un  ridicolo capello di paglia in testa”
 
‘Non ci credo…’

 
#Here I am
Sono tornata a scrivere una long. Adesso sinceramente non mi viene nulla da dire, spero solo che vi piaccia e che se non vi fa troppa pena la seguiate (?).
Credo che non avendo una cippa da fare durante queste vacanze avrò il tempo di aggiornarla regolarmente e soprattutto di continuare anche Shari. Scusate veramente per i miei errori e tutte le attese.
Ah, la prestavolto della protagonista sono io. Che strano eh? 
Comunque Chocolat si legge Sciocolà, come la streghetta di sugar sugar che andava in onda su Italia1 qualche anno fa (ho scelto questo nome proprio perchè seguivo e mi riguardo ancora quella serie).
Bene, che dire?
Grazie a tutti per essere rimasti con me fino alla fine <3
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 
So solamente che mio nonno mi ha dimostrato che con un po' di volontà puoi fare ciò che vuoi.
 
Capitolo 2
 
«E’ solamente una coincidenza» continuavo a ripetermi prima di mettermi a dormire.
Dire che ero rimasta sorpresa dopo aver letto quell’intervista a Charlie era abbastanza riduttivo, ma la mia parte razionale era convinta che fosse tutta una casualità.
Ero totalmente convinta che quello in cui baciavo quel ragazzo era soltanto un sogno, era stato abbastanza strano, ma era pur sempre un sogno. Ero anche certa di non conoscere Harry Styles degli One Direction e non avevo modo di ritenere che lui conoscesse me, anche se assomigliava vagamente e aveva per pura coincidenza lo stesso nome del ragazzo del sogno.
‘Magari hanno cognomi diversi – pensai – si somigliano soltanto, spesso capita di immaginare cose strane’.
Non era il caso di dar peso a quella faccenda, avevo già svolto una piccola ricerca su di lui senza scoprire nulla che potesse spaventarmi. Quel cantante non parlava spesso delle sue relazioni o cose simili, era abbastanza riservato e questo fu un motivo in più, che mi spinse ad archiviare la faccenda.
Era stata tutta una coincidenza.
Impostai la sveglia e mi diedi la buona notte.
 
Senza sapere il perché, stavo masticando qualcosa, abbassai lo sguardo e automaticamente la mia bocca si aprì leggermente mentre la mia mano mi avvicinava alle labbra una barretta di cioccolato.
Di nuovo quel sogno strano in cui non riuscivo a muovermi come volevo.
La mia testa non voleva spostarsi e di conseguenza non riuscii subito ad identificare il luogo in cui mi trovavo, ma a giudicare dal mio abbigliamento ero sicuramente in una scuola.
Sentii dei passi e mi voltai: «Finalmente – esclamai – credevo stessi litigando col distributore».
‘Rose, lei dev’essere Rose’ pensai appena mi resi conto di chi avevo davanti.
«Il professore di letteratura mi ha dato le disposizioni per l’Open Day».
Mentre parlavo con lei, approfittai di non avere il capo chinato e analizzai la situazione: mi trovavo per la seconda volta in quel liceo, più precisamente seduta al tavolo in mensa,  avevo anche riconosciuto distrattamente qualche altro volto oltre Rose.
«Mi dici che ore sono?» chiese mentre sorseggiava un succo di frutta.
Avvicinai il braccio al viso e lessi ciò che c’era scritto sul piccolo orologio digitale da polso: ‘13.48 28-03-09’.
Mentre le mie labbra rispondevano a Rose, la mia mente si chiedeva per quale motivo avessi immaginato il giorno seguente a quello del sogno.
Tutto era così nitido,  sentivo il sapore della merenda chiaramente,  potevo udire tutte le voci dentro la sala e ascoltavo senza problemi la conversazione con quella ragazza, ma nonostante tutto,  non potevo fare niente, solo assistere.
Era la seconda volta che vivevo una cosa del genere e mi preparai mentalmente a passare le ore in quel sogno.
Mi dava fastidio non potermi muovere come volevo, era una sensazione stranissima perché sembrava stessi sul punto di svegliarmi, ma ero intrappolata in quella situazione.
‘Ma per quale motivo si danno tutti così da fare? – pensai notando tutto quel fermento – quanti ragazzini delle medie ci sono in giro!’
Se fosse stato per me, li avrei fatti saltare tutti i aria. Non sopportavo per niente i bambini, soprattutto quelli vivaci e viziati come Charlie.
Intorno a noi c’era abbastanza movimento,  benchè fosse la pausa pranzo ogni studente del liceo faceva avanti e indietro: chi stava facendo visitare la scuola a vari genitori, chi stava finendo di attaccare gli ultimi cartelloni e c’era anche gente che girava con provette  destinate all’aula di scienze.
Alla fine, dopo neanche cinque minuti, mi alzai ed iniziai a girare per la scuola dando una mano ad alcuni compagni di classe che dovevano finire di rendere presentabili ai visitatori alcune aule.
Una parte di me, era in ansia per scoprire se tutto quello che era successo nel sogno precedente l’avrei riscontrato anche in quello in cui mi trovavo; speravo che fosse tutto una coincidenza, che fosse tutto archiviato…invece, mentre aiutavo Rose a far visitare la scuola ad alcuni ragazzi delle medie, vidi il ragazzo che avevo baciato, camminare per il corridoio.
‘Cosa vuole?’ mi chiesi mentre mi faceva un cenno.
«Ehi» esclamò senza fermarsi ed entrando in un’aula.
Non avevo prestato attenzione alla reazione del mio corpo, forse avevo sorriso, forse gli avevo anche detto ciao, ma in quel momento la mia testa era rimasta ad analizzare il volto di…
‘Com’è che si chiama? -  mi chiesi. – Ah, sì, Harry…’
Aveva un viso familiare,  sapevo che il motivo era perché avevo sognato di baciarlo e di stare a pochi centimetri da lui, ma una parte della mia mente proiettava dei flash dell’intervista che avevo letto a Charlie, come per collegare le due cose.
‘Impossibile’ decretai mentalmente, provando ad interrompere quei pensieri.
Non sapevo cosa stava succedendo, se fossero coincidenze o meno, ad un tratto mi venne voglia di svegliarmi, di prendere una tazza di the e placare l’ansia che stava nascendo a causa della confusione dentro di me.
Mi accorsi solo dopo un po’ che mi ero persa qualche battuta e che dopo aver controllato l’orario su un vecchio cellulare, Rose aveva affidato quel gruppetto di ragazzini ad un professore che stava passando nelle vicinanze per caso.
«Finalmente torniamo a casa» esordì la mia presunta amica del sogno, sistemandosi lo zaino e avvicinandosi al portone d’uscita.
Il tempo era grigio e cupo, fortunatamente non pioveva, ma in mano tenevo un ombrellino pronto per l’uso.
Scendemmo lentamente le scalette dell’entrata della scuola e fu in quel momento che mi accorsi di un cartello che recitava  il nome del liceo: ‘Holmes Chapel Comprehensive School’. Di sicuro non era quello che frequentavo a Bristol quando avevo quindici anni.
La curiosità era troppa, volevo davvero capirci di più.
«Dove mi trovo?!» pensai, o meglio dopo aver sentito la mia voce dire quelle parole, mi resi conto che per la prima volta ero riuscita a far fare al mio corpo ciò che volevo.
«Che razza di domanda è?» chiese Rose.
«Dico davvero – ero sorpresa di quel cambiamento, ma ero veramente decisa a scoprire qualcosa e volevo sfruttare quegli attimi preziosi – dove siamo?»
«Non ti facevo così cretina – rispose trattenendo una risata – spero tu stia scherzando».
«Rose…» Mi fece strano pronunciare il suo nome.
«Siamo nel Cheshire, in quale scuola hai studiato geografia?» era ancora ironica nonostante non riuscivo a mascherare la mia espressione perplessa.
«A Holmes Chapel…» avrei voluto formulare una domanda, ma la mia voce si affievolì  facendola sembrare un’affermazione, mentre sentivo un torpore dentro di me.
Un istante dopo, mi ritrovai nella situazione di sempre, con la mentre intrappolata nel corpo che faceva come voleva.
«A Holmes Chapel, esatto» Rose scosse la testa facendo una smorfia.
«Dicono che ieri hai baciato Harry… - esordì lasciandomi basita – perché non mi hai detto nulla?»
Non sapevo che fare, se stare attenta alla conversazione fra il mio corpo e Rose, oppure immergermi in una profonda riflessione ed ignorare la maggior parte di quello che mi circondava.
Decisi di ascoltare: «E’ successo per sbaglio e soprattutto per colpa tua!» dopo un attimo di stupore iniziale, il mio corpo aveva reagito.
«In che senso scusa?» Rose sembrava accigliata.
«Gli sono finita addosso con i tuoi scatoloni» le risposi, guardandola di sbieco.
‘Harry, Harry, Harry… Ne ho abbastanza di questo tizio’
Chi era? Che ruolo aveva nel sogno?
«Sicuramente non gli sarà dispiaciuto» disse con una strana espressione maliziosa in viso.
«Indossavo un capello idiota, – esclamai, fermandomi – gli ho rovesciato dei coriandoli in testa!»
«Secondo te allora, - fece mettendo la mano sulla maniglia del portone – perché ha deciso di sedersi dietro di te?»
«Sciocchezze» decretai voltandomi di lato mentre usciva.
‘Come dietro di me!? – pensai sempre più sorpresa – nel sogno precedente non mi pareva di averlo visto seduto al banco dietro il mio…’
‘Rose – pensai irrequieta – aspetta!’ troppo tardi: l’immagine cominciò a sfocarsi lentamente, invece di sentire l’aria fredda di Holmes Chapel e il peso dello zaino, sentivo il calore della coperta.
Mi alzai di scatto dal letto per spegnere la sveglia del cellulare  e  mi avvicinai al computer : avevo delle ricerche da fare;  sogno o non sogno,  era tutto troppo strano, dovevo assolutamente capire se il nome di quella città o paese esistesse davvero.
‘Perché?’ mi chiesi, accendendo il portatile. Stava succedendo qualcosa. Possibile che avessi avuto dei sogni premonitori o cose simili?
Senza curarmi della colazione e se mia madre fosse ancora in casa alle dieci di mattina, iniziai a digitare freneticamente sulla tastiera.
Non sapevo cosa aspettarmi mentre il motore di ricerca caricava la pagina con i vari risultati, una parte di me sperava di trovare un reindirizzamento a parole analoghe,  ma dall’altra, ero curiosa di sapere come e perché avevo sognato una cosa del genere in un posto che neanche conoscevo per ben due volte.
Invece mi si aprì davanti una scheda piena di link con vari collegamenti, appartamenti, wikipedia, foto e…One Direction.
Per poco non mi mancò il respiro dalla sorpresa: iniziai velocemente a leggere ed immagazzinare più informazioni possibili.
Scoprii che quello era il paesino di campagna in cui viveva uno dei componenti di quella band, più precisamente Harry, Harry Styles e non potei fare a meno di notare a quanto somigliasse al ragazzo del sogno.
‘Vuoi vedere che…’
Dopo aver cercato le ultime cose su Google, la mia mente aveva elaborato una soluzione razionale a tutto quel problema: avevo sicuramente letto su una rivista di Charlie le cose che mi ero sognata, ma le avevo dimenticate ed erano rimaste nel mio subconscio.
Doveva essere stata tutta una coincidenza, ero sicura infatti che il bacio più bizzarro di Harry Styles l’avessi letto in precedenza prima di rileggerlo a Charlie.
Andai a fare colazione scuotendo la testa per liberarmi da quei pensieri, era sicuramente stata una stranezza dovuta al nervosismo di quel periodo.
Trovai mia madre seduta in cucina mentre leggeva concentrata un gruppo di fogli.
«Ehi» mi salutò, distogliendo per un attimo la sua attenzione dal lavoro che stava facendo.
«Anche oggi mi lascerai da sola con quel piccolo demonietto?» chiesi con una punta d’acidità.
Mia madre e zia Martha erano sorelle, lavoravano insieme in una tintoria che vendeva anche biancheria e così, visto che io rimanevo da sola a casa, quando Charlie rientrava da scuola o non ci andava, mi ritrovavo a fare la babysitter, senza stipendio per di più.
«La vuoi smettere di comportarti in questo modo?» rispose visibilmente alterata.
Inarcai il sopracciglio e feci per replicare con qualche rispostaccia quando lei mi interruppe: «E ora lasciami lavorare, sto preparando l’annuncio per vendere la casa»
Per poco non mi strozzai col latte che stavo appena bevendo, voleva vendere la casa?! La nostra cosa?
«Mamma ma cosa dici!?!- esclamai sorpresa – dove andremo a vivere?!Ma cos…»
«Non voglio vedere la casa in cui viviamo, ma l’altra».
«L’altra?»
Mia madre si voltò scocciata sbattendo i fogli sul tavolo: «Per la miseria Chocolat! Che diamine ti prende?!»
«Mamma – feci un passo indietro – io…»
«Ho bisogno di soldi – esordì abbastando il tono di voce – noi abbiamo bisogno di soldi».
Continuai a guardarla senza capire.
«Io e tua zia abbiamo fatto un conto: per espandere la nostra piccola impresa dobbiamo fare investimenti e richiedono sacrifici…».
«Se me l’avessi detto prima, di sicuro ti avrei aiutato…» provai a formulare qualcosa anche se ancora non capivo di cosa stesse parlando.
Sicuramente mi sarei impegnata a trovare un lavoro, anche fare la cameriera andava bene se mia madre si trovava in difficoltà.
«Chocolat –ripetè tornando tranquilla – so che ti eri affezionata a quella casa, ma è necessario…»
«Quale casa?» richiesi spazientita.
«La casa ad Holmes Chapel…»
Mia madre finì di pronunciare quelle parole con una strana espressione in faccia, mi guardava come se si aspettasse che sarei impazzita e le avrei urlato contro da un momento all’altro...
Invece feci qualche passo indietro e lasciai cadere la tazza di latte.


 
#Let my Beau
First thing first, grazie a tutti per le recensioni, davvero è bello sapere che continuate a seguirmi e quindi l'esperimento di pubblicare una nuova long è funzionato haha lol
Comunque, tornando a noi, questo è solo un capitolo di passaggio per stuzzicare la vostra curiosità, come sapete sono un tipo che procede con calma, della serie che non troverete smancerie dopo tre capitol.
Per chi se lo stesse chiedendo, Harry e gli One Direction descritti in questa storia sono famosi, cioè sono i veri OneD.
Questo personaggio, Chocolat, credo abbia solo il mio viso, per il resto credo che sia una completa idiota. Qualcuno, mi aeva fatto notare che appunto non era come le altre protagoniste, però, bah, mi serviva un motivo per dare il via alla trama e dovevo trovare un personaggio diverso dagli altri, quindi... ora non posso spiegarvi niente, lo scoprirete in seguito.
Ah, già che ci penso, Chocolat è stata creata da me, quindi non posso insultarla, dovrei cercare di renderla più simile a me ed essere orgogliosa di lei, forse in questi primi capitoli se fossi sua madre la disconoscerei, ma ripensandoci bene, andando avanti, tira fuori la grinta anche se ci saranno alti e bassi.
And Rose... Rose, penso vi piacerà, è una sorta di Hermione Granger con un pizzico di pepe.
Detto questo, scusate gli errori, le attese e tutto. Buona estate e buona lettura!!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 
Have a nice day
 
Capitolo 3
 
«Chocolat!» esclamò mia madre sgranando gli occhi.
Per miracolo la tazza cadde proprio sulle mie morbide pantofole di peluche  evitando di rompersi, ma in compenso il latte ci finì sopra sporcando anche il pavimento.
Guardai mia madre, anche se ero certa di avere lo sguardo perso e spaventato perché in quel momento non sapevo a che pensare.
Da quando avevamo una casa ad Holmes Chapel?
Io ero nata a Bristol, ero cresciuta nella stessa città per venti anni! I miei genitori si erano conosciuti lì, avevano comprato la casa in cui vivevo con mia madre, e nonostante mio padre fosse venuto a mancare quando avevo quattordici anni a causa di un incidente stradale non c’eravamo mai trasferite.
‘Cosa significa? – iniziai a pensare allarmata – Quei sogni…’
«Chocolat, - mia madre si avvicinò lentamente senza alzare la voce – sapevo che non l’avresti presa bene, ma…»
«Mamma – la interruppi, non sapevo neanche come giudicare la mia voce, che era salita almeno di due ottave – abbiamo vissuto a… Holmes Chapel?»
«Come fai a chiedermi cose del genere? – mi guardava come se fossi pazza – certo che sì.»
«E…qua-quando?» non riuscivo ancora a capire niente, avevo mille domande ed ero spaventata a morte, soprattutto perché non sapevo come giustificare quello che stava accadendo.
Anche mia madre era visibilmente spaventata, glielo leggevo in faccia:«Chocolat, ma  che ti prende?» aveva un filo di voce.
«Perché mi fai queste domande? Come fai a non ricordarti nulla?» adesso era lei a fare le domande, la preoccupazione traspariva anche dalle sue parole.
‘Vuoi vedere che è un sogno? - dissi a me stessa - un sogno nel sogno’.
Era strano però, perché mentre immaginavo di essere in quella scuola non potevo controllare il mio corpo, mentre in quel momento se non fosse stato per le affermazioni senza senso di mia madre, mi sembrava di essere sveglia.
‘E’ un sogno’ ripetei di nuovo e con quella convinzione trovai un modo per uscire da quella situazione.
«Mamma scusami, non mi sento bene. – raccolsi la tazza e mi levai le pantofole – potresti pulire tu mentre mi stendo un po’ a letto?»
Non le diedi tempo per replicare. Sparii dalla cucina e mi fiondai in camera senza dire una parola.
‘Devo trovare un modo per svegliarmi- mi sedetti sul letto – subito’
Non avevo la più pallida idea di quello che dovevo fare, nonostante i pizzichi e qualche schiaffetto non cambiava nulla e più il tempo passava, più la strana idea che stavo vivendo la realtà invece che immaginando tutto, si faceva sempre più persistente.
Quando mia madre uscì di casa per svolgere le sue solite commissioni, entrai in camera sua per cercare quelle carte che stava leggendo quella mattina. Speravo che fosse tutto uno scherzo, ma dopo averci riflettuto un po’ volevo capire cosa stava succedendo.
Reale o non, io avrei chiarito quella faccenda.
Mia madre non era mai stata brava a nascondere le cose, inizialmente credevo che avrei trovato i documenti sul tavolo in cucina, ma poi dovetti andare a cercarli in camera sua, perché ero sicura che li aveva messi al solito posto.
Nella camera dei miei genitori, per fortuna, non era cambiata una virgola: c’era ancora il letto matrimoniale azzurro e pieno di cuscini al centro della stanza con l’enorme armadio di legno bianco sul muro a sinistra.
Sui comodini e appese alle pareti color panna, c’erano molte foto. C’era anche  mio padre, l’unico uomo che mia madre aveva amato: erano passati anni, ma lei si comportava ancora come se quell’incidente non fosse mai accaduto. Continuava a non uscire per divertirsi, non toglieva i suoi ricordi per casa e andava avanti quasi come un automa.
Io da una parte, cercavo di non darci molto peso visto che avevo imparato a farci l’abitudine, ma ogni volta che ci pensavo  venivo sempre pervasa da un senso di tristezza.
Mia madre non aveva mai sospettato che io avessi scoperto dove mi nascondeva i giocattoli e più avanti cellulari, macchine fotografiche, libri o altro. Entrai nel suo bagno in camera, chiedendomi per quale motivo avesse voluto non farmi trovare quei documenti.
Aprii le ante della credenza sotto il lavandino ed iniziai a spostare gli asciugamani, come previsto dopo pochi secondi, la mia mano iniziò a toccare dei fogli di carta.
La prima parte del fascicolo era relativa all’incidente, c’era la dichiarazione del pagamento dell’assicurazione del signor Bolton, l’uomo che aveva investito mio padre, Mark Hathaway.
La somma che aveva ricevuto la mia famiglia per i dati subiti ovviamente non era bastata per coprire il vuoto di quella perdita, ma non era variata rispetto a quella che ricordavo.
Fin lì non c’era nulla di strano, anche se mia madre ogni volta che aveva bisogno di grandi cifre di denaro, andava in banca e prelevava i soldi dal pagamento del signor Bolton perciò non capivo che bisogno c’era di vendere una casa…
Che il soldi dell’incidente fossero già finiti?
Andando avanti trovai un documento con data 7 Settembre 2008, in cui la signora Eveline Ross, vedova e con un’unica figlia, si impegnava a concludere in cinque rate l’acquisto della casa della signora Clary Lewis, proprietaria di un’abitazione a due piani in 7 Bromley Dr, Crewe,…Holmes Chapel. Erano allegate anche alcune foto.
Nonostante mi sforzassi enormemente per poter collegare il tutto, non trovavo una spiegazione razionale.
Rimisi i documenti apposto, ma non sarei rimasta con le mani in mano: avrei continuato ad indagare, soprattutto perché da una parte ero spaventata da ciò che stava succedendo e avevo bisogno di fare chiarezza.
Aspettai mia madre, avevo intenzione di affrontare quell’argomento durante la cena e lei non avrebbe avuto modo di evitare le mie domande.
«Mamma, perché ci siamo trasferite ad Holmes Chapel?- chiesi con nonchalance – nel 2008» aggiunsi infine, come se far vedere che sapevo qualcosa, avrebbe reso la mia domanda meno strana.
Mi guardò di sbieco mentre serviva la carne in tavola: «Se hai intenzione di fare discorsetti da avvocato come faceva tuo padre per raggirarmi, sappi che non attacca- disse severa- io ho intenzione di vendere quella casa».
«Non mi interessa, puoi anche venderla- risposi acida, come al solito ogni volta che le parlavo si metteva sulla difensiva – Ti ho chiesto perché ci siamo trasferite. Rispondi…»
Sbuffò:«L’estate in cui morì tuo padre, zia Jennifer mi propose di cambiare aria per un po’ e mi trovò anche il lavoro nello studio dentistico del signor Evans» non riuscivo a distinguere le emozioni che provava mia madre, ogni volta che parlava di suo marito diventava scura in volto e il suo viso veniva privato di ogni espressione.
«Zia Jennifer?!» mi lasciai scappare stupita. Chi era?
Non sapevo ancora a che gioco stavo giocando, se fare domande e far finta di sapere di cosa stavo parlando o se impazzire ogni volta che emergeva  un dettaglio sul mio passato, che potevo giurare di non conoscere.
Mia madre mi guardò di sottecchi, come per dirmi ‘Smettila di comportarti come se non sapessi niente’. Forse credeva che stessi attuando una delle mie tecniche per convincerla a fare qualcosa, in questo caso a non vendere quella casa, ma io ero interessata solo a capire cosa stava succedendo.
«Jennifer è la mia migliore amica. Chocolat come fai a non ricordarti di quando venne a casa per farci vedere l’abitazione che aveva trovato per noi ad Holmes Chapel?»
«Scusa mamma, ero sovrappensiero – iniziai a tagliare la fettina di pollo – continua».
«Beh non c’è molto da aggiungere. Zia Jennifer abita ad Holmes Chapel e di conseguenza per aiutarci a superare il lutto ci aiutò a trasferirci lì: trovandoci una casa, iscrivendoti alla scuola e tutto il resto…» mia madre si sedette a tavola, sospirando rumorosamente.
Decisi di finire di mangiare la carne e riniziare a fare domande, per evitare che mia madre potesse scocciarsi e sospettare chissà che cosa.
«Come…Come si chiamava il mio liceo?… Holmes Chapel….e poi…non ricordo»
 «Holmes Chapel Comprensive School – fece una pausa mentre si metteva l’insalata nel piatto – Davvero Chocolat, mi ricordo meglio io cose che ti riguardano in prima persona…Ma che hai?»
Scendemmo lentamente le scalette dell’entrata della scuola e fu in quel momento che mi accorsi di un cartello che recitava  il nome del liceo: ‘Holmes Chapel Comprehensive School’.
«Niente – biascicai – ti dice qualcosa il nome Rose?» perché le avevo fatto quella domanda? Non lo sapevo neanche io.
«Rose, hai detto? – mia madre si fece pensierosa – mi pare fosse una tua compagna di classe, giusto?»
No. Non poteva essere.
Io non conoscevo Rose, l’avevo immaginata due volte nei sogni. Come poteva conoscerla mia madre?
Rose non esisteva, non esisteva Harry, non esisteva la Chocolat Hathaway studentessa della Holmes Chapel Comprehensive School e non poteva esistere neanche una casa a nome di mia madre nel Chelshire.
Lasciai in sospeso la conversazione per riflettere. Non stavo capendo nulla, di sicuro mi sarebbe venuto un forte mal di testa.
«Perché poi siamo tornate qui?» esordii con quella domanda mentre mia madre lavava i piatti.
«Non ho intenzione di mettermi a discutere su questo argomento».
«Ma che diamine…» la squadrai confusa.
Mia madre non rispose, continuò ad ignorarmi.
«Perché. Siamo. Tornate. A. Bristol!?» insistetti, scandendo bene le parole.
Avevo diritto a sapere cosa stava succedendo. Inizialmente pensavo fosse tutta una coincidenza, poi uno scherzo, ma dopo aver visto quei documenti, che di certo non erano falsi avevo ipotizzato fosse successo chissà che cosa e dopo che mia madre aveva detto di ricordarsi di una persona che io avevo visto solo due volte in sogno, avevo iniziato a preoccuparmi seriamente.
«Ti stai comportando come quando avevi 16 anni…»
«Che cosa?» la guardai ancora più perplessa.
«Mi riempivi di domande chiedendomi perché dovevamo lasciare quella città e tornare qui – si voltò con un piatto in mano –e sinceramente non mi va di tornare a discutere sull’argomento»
Mi alzai in piedi leggermente infastidita: perché ogni volta che le parlavo fraintendeva tutto, come poteva pensare che dietro ad una domanda ci fosse sempre un pretesto per dibattere?
«Voglio solo sapere il motivo. – risposi secca –tutto qui. E smettila di comportarti come se ogni cosa che dico fosse una scusa per litigare» le dissi alzandomi da tavola.
«Siamo tornate a Bristol –esordì con fare spazientito- perché Zia Martha aveva perso il lavoro e aveva deciso di aprire una lavanderia, ma da sola non poteva gestirla. Così per aiutarla e ritornare a stare con tutta la famiglia, abbiamo lasciato Holmes Chapel».
Che cosa? La tintoria non era un negozio che mia madre e sua sorella avevano ereditato dai loro genitori? In che senso aprire una lavanderia?
Lasciai perdere. In quel momento, capii che da sola non potevo affrontare nulla i tutto ciò, mi sarei fatta aiutare dalla mia migliore amica.
«Mamma, domani mattina vado da Macy» Mi avvicinai al corridoio con fare stanco.
«Macy?- chiese – chi è Macy?»
Mi voltai lentamente inorridita: «Mamma, spero tu stia scherzando. Macy è la mia migliore amica» aggiunsi con una risatina isterica.
«Non sapevo che avessi una migliore amica» mormorò, ma ormai mi ero fiondata in camera a cercare il cellulare.
‘Devo chiamare Macy’.
Rubrica.
Contatti.
M.
Ma…digitai sulla tastiera…Mac…’nessun risultato’.
Andai sulla galleria immagini per cercare le nostre foto.
Era sparita. Le foto che avevo scattato erano cambiate, non le riconoscevo.
Iniziai ad impazzire. Lasciai il telefono per terra e mi avvicinai il computer.
Facebook.
Cerca.
Macy… Lane.
245 risultati. Macy Lane, Bristol. 36 amici in comune.
Aggiungi agli amici.
‘Macy’ pensai fra le lacrime.’Macy’
Quella ragazza nell’immagine di profilo era sicuramente Macy, ma perché non l’avevo fra gli amici? Addirittura avevamo lo status di sorelle su quel social network.
Ad un tratto mi venne in mente un brutto presentimento.
…R…Ro…Rose…Cliccai su invio.
Rose Black.
Faceobook diceva che l’avevo fra gli amici.
Andai a vedere le sue immagini e per poco non svenni.
Quella era decisamente la versione ventenne della ragazza che avevo sognato. Rose Black si chiamava.
Controllai la mia casella messaggi e trovai una conversazione risalente al 14 luglio 2012.
‘Ehi, Chocolat’
‘Ciao Rosieeeee’
‘Come stai?’
‘Tutto bene dai, invece tu? Novità?’
‘Le solite cose, questo posto ormai si riempie sempre di più di ragazzine urlanti’
‘Che vuoi farci? Ormai sono passati due anni’
‘Cher, c’è mia madre che rompe. Devo andare. Ciaooo!’
‘Ciao, Rose…
Salutami tutti’
Mi voltai dall’altro lato della stanza e andai a cercare l’album di foto che tenevo sotto il letto.
Era impossibile.
Dal 2008 in poi, tutte le foto che personalmente avevo scattato e stampato come ricordo si erano trasformate:  Macy, era definitivamente sparita, c’era anche una foto di me e Charlie da piccola con un bambino ancora più piccolo in braccio a mia zia Martha, infine c’era una foto di mia madre che si stringeva amichevolmente ad un’altra donna che non avevo mai visto, probabilmente la famosa zia Jennifer di Holmes Chapel.
Andai a controllare le immagini che avevo sul computer, era lo stesso anche li.
Entrai nella cartella ‘Scuola’ e iniziai a guardare le varie sottocartelle divise per anni.
Macy ed io c’eravamo conosciute in primo superiore, quando una mattina degli insegnanti comunicarono agli studenti che la scuola era inagibile perché qualcuno aveva otturato i bagni e tranciato un cavo della corrente elettrica durante la notte.
Ovviamente, questa brutta notizia, non dispiacque a nessuno  e così, nella gioia generale Macy mi venne addosso facendomi cadere la cartellina con i disegni.
Avevo sempre avuto una spiccata predisposizione per il disegno, non mi consideravo bravissima ma me la cavavo. Però Macy quando vide i miei disegni manga e alcuni ritratti sui Jonas Brothers, rimase così affascinata che mi invitò a casa sua seduta stante, dicendo che avevamo molte cose in comune.
Da quel giorno, diventammo inseparabili.
Non eravamo compagne di classe, frequentavamo la stessa scuola, ma eravamo in due sezioni diverse, perciò non trovai nulla di strano quando, aprendo la cartella del quinto e quarto anno trovai delle foto dei miei vecchi compagni di classe e lei non c’era. Quei ricordi per chissà quale motivo erano rimasti come li ricordavo.
Nelle cartelle dal primo al terzo anno, c’erano poche foto che mi ritraevano con ragazzi che non conoscevo o che immortalavano luoghi di una scuola che non avevo frequentato: quella ad Holmes Chapel.
Trovai una foto di gruppo, supposi fosse la foto scolastica della mia classe, così iniziai ad esaminarla. Individuai subito Rose, che con la sua capigliatura era inconfondibile, poi trovai me…accanto al ragazzo che avevo baciato nel sogno: Harry Styles.
Ritornai sul computer con uno strano presentimento.
Casella messaggi.
Harrrry….Cancellai le r di troppo. Harry Styles. Digitai correttamente.
Harry Styles, Ultima conversazione: 23 Marzo 2010.
La cosa strana era che non aveva un’immagine del profilo, e se passavo con la freccetta sul suo nome non si apriva nessuno collegamento ipertestuale.
‘Ciao Chocolat, potresti darmi i compiti di matematica? XD’
‘Ehi Harry. Abbiamo fatto un’esercitazione in classe, tu non c’eri quindi non credo tu possa finire le equazioni. Se vuoi ti mando la foto.’
‘Sì, grazie’
Hai allegato due foto.
 
Andai a leggere più in alto le conversazioni meno recenti:
19 Dicembre 2009.
‘Harry lo spettacolo di ieri è stato fortissimo’
‘Grazie mille!’
 ‘Rose è a casa con me, dice di fare i complimenti anche agli altri ragazzi’
‘hahahah suonare canzoni di Natale per la scuola non è il massimo XD ’
‘Siete stati comunque molto bravi. Sicuramente i White Eskimo faranno carriera! XD’
‘Grazieeeeeee :) B| ’
 
Quindi, dato che mi ero trasferita ad Holmes Chapel nel 2008, avevo frequentato il primo anno di liceo con Harry e Rose…perciò, non ero mai stata a Bristol quando avevano otturato i bagni a scuola e non avevo mai incontrato Macy, nonostante alla fine gli ultimi anni di liceo li avessi passati nella mia città natale.
Ma perché?Com’era possibile tutto questo?
Passai tutta la notte a sfogliare tutte le foto che avevo e che non avevo mai visto, a leggere tutte le conversazioni con Rose senza scoprire nulla di particolare.
Lo facevo per tenermi sveglia, da una parte perché volevo andare affondo con questa storia e dall’altra… perché avevo paura di mettermi a dormire.
Finchè avevo un’altra casa, mia madre aveva una migliore amica e avevo un altro cugino potevo anche stare ‘calma’, ma avevo perso Macy e questo non potevo sopportarlo. Avevo paura che avrei rifatto nuovamente uno di quegli strani sogni, che sarebbe successo qualcosa di ancora più grave e  non sarei più tornata indietro.
 
Verso l’alba, andai a prendere qualcosa per restare sveglia, avevo profonde occhiaie, gli occhi semi chiusi per il sonno e non mi reggevo in piedi per la stanchezza.
Mia madre fu sorpresa di trovarmi in cucina a fare colazione e fortunatamente, avevo pulito e nascosto le prove di tutto il caffè che avevo bevuto.
Quella mattina non ci rivolgemmo molte parole, un po’ perché lei era sovrappensiero, e un po’ perché io avevo la sensazione che qualsiasi cosa le avessi detto, lei si sarebbe messa a discutere col suo solito atteggiamento infantile.
Quel giorno non riscontrai nulla di nuovo: mia madre non se n’era uscita con contratti di compravendita di altre case, le conversazioni con Harry e Rose erano rimaste invariate e l’unica cosa da rimettere a posto era Macy.
Decisi di mettere un piano in atto: avrei riconquistato la mia migliore amica, se era cambiato  solo il fatto che eravamo amiche, allora di sicuro avevo ancora qualche speranza di rintracciarla visto che la conoscevo come le mie tasche.
Provai ad uscire di casa, ma non mi reggevo in piedi. Tornai nel mio appartamento e mi rifeci uno, due, tre caffè. Provai a bere un po’ di latte e mangiare qualcosa, però niente sembrava funzionare, ero davvero stanca.
Mia madre non avrebbe dovuto vedermi in quelle condizioni, così in fretta e furia sistemai tutto quanto e mi accasciai sul divano.
Perché stavo facendo tutto questo? Perchè, Perché…a me? Non bastava non essere ammesse all’università, non bastava non avere un lavoro e il resto, adesso ci voleva anche la pazzia.
Ecco, l’unica spiegazione a tutto: stavo diventando matta.
Forse stavo assumendo droga a mia insaputa, stavo avendo delle allucinazioni. Magari avevo vissuto davvero ad Holmes Chapel e avevo sbattuto la testa scordandomi tutto.
Andai di nuovo a fare qualche ricerca nella mia stanza, per trovare qualcosa che apparteneva alla vita che ricordavo e che magari si fosse salvato. Anche se, date le circostanze… non avevo molte possibilità di dimostrare che le cose scoperte in quei giorni fossero false.
«Chocolat- sentii chiudere la porta di casa – sono tornata»  disse mia madre.
«Mamma io ho già mangiato. Non mi sento bene, vado a dormire presto» mentii sperando che mia madre non entrasse in camera.
Come tutte le madri, la mia non sapeva farsi i fatti suoi, così dopo cinque minuti spalancò la porta riempiendomi di domande su come mi sentivo e cos’avevo.
Inventai di avere un forte mal di testa e per sbarazzarmi di lei le chiesi una medicina e che mi lasciasse riposare.
Aspettai che andasse a dormire, per mettere a soqquadro tutta casa e scoprire qualcos’altro, intanto guardavo il cellulare leggendo i vari nomi nella rubrica e provando a capire chi fossero la maggior parte delle persone che non conoscevo.
Verso mezza notte, mia madre chiuse tutte le persiane, la porta principale e le luci e dopo  un quarto d’ora, finalmente potei accendere il computer per iniziare a scoprire qualcosa di più.
Google.
Iniziai a digitare sui tasti cose a caso. Alla fine, neanche io sapevo con precisione cosa cercavo.
Volevo indagare su Harry Styles? Volevo scoprire che fine avesse fatto Rose Black? Volevo riguardare per l’ennesima volta tutte le foto dal 2008? Volevo trovare un modo per ritornare a frequentare Macy?
Optai per l’ultima opzione, andai sul profilo facebook della mia migliore amica, ma non riuscivo neanche a distinguere i tasti.
La vista cominciava a diventare appannata e a quel punto capii che l’effetto dei caffè che avevo bevuto durante quel tardo pomeriggio, avevano cominciato a svanire.
«Non avrai intenzione di passare la notte in bianco anche oggi».
Per poco non mi venne un infarto.
Chi aveva parlato?
Nel buio della mia stanza, una sagoma indistinta se ne stava seduta sul mio letto, illuminata dalla fioca luce del computer.
Avevo persino smesso di respirare.
«Guarda che non voglio mangiarti» aveva una voce familiare, ma non riuscivo a muovermi, ero terrificata e mi spaventai ancora di più quando si alzò in piedi e scomparve alla mia vista.
Pochi secondi dopo, la luce della mia stanza si accese,  rivelando una persona che mai mi sarei aspettata di vedere.
‘Io sto diventando pazza’ pensai scuotendo la testa.
«No, non lo sei» rispose allegro.
«Ah, davvero? – la sua risposta inaspettata mi spronò ad parlare ironicamente –Sto vedendo Joe Jonas nella mia stanza e non sono diventata pazza?»
Alto circa un metro e settanta, la versione Disney, completa di ciuffo sbarazzino, occhiali enormi e vestiti alla moda, di Joe si massaggiava la guancia sbarbata mentre continuava a guardarmi sorridente.
«Tecnicamente- si avvicinò lentamente – non sarei proprio il Joe che conosci».
In quel momento ero sicura di essere uscita di senno e che non avrei mai trovato una via d’uscita da quella bizzarra situazione perché era tutto nella mia testa.
Dovevo ammettere però, che creavo davvero delle allucinazioni carine: infatti, il ragazzo davanti a me era davvero la copia fedele della rock star di cui mi ero innamorata da adolescente insieme a Macy, che stravedeva per Nick.
Spinta dalla curiosità, mi alzai e avvicinai la mano al suo viso per  accarezzargli la guancia.
Sgranai gli occhi. Le mie dita non stavano toccando aria a vuoto, no, io riuscivo davvero a sentire Joe…era tutto così realistico, come i sogni che avevo iniziato a fare.
«So che sono bello e che vorresti saltarmi addosso – esordì, lasciandomi di stucco – ma so cos’hai intenzione di fare e non posso permettertelo».
«Che cosa?!» esclamai mentre mi allontanavo e mi risiedevo sulla sedia davanti alla scrivania.
«Devi andare a dormire» non c’era nessuna emozione nella sua voce, sembra un automa e quello che aveva detto sembrava davvero un ordine.
«Chi sei?» tipica domanda stupida, ma necessaria.
«Sono il tuo spirito guida- disse serio – e anche se adesso ho questo aspetto perché tu mi vorresti così, sappi che sono benissimo in grado di darti uno schiaffo se non fai quel che dico»
Ma come si permetteva? Se un attimo prima ero tentata dal baciarlo, in quel momento avrei voluto riempirlo di pugni.
«Vuoi che vada a dormire eh?» anche se ero pazza, una parte di me diceva che lui sapeva cosa mi stava succedendo.
«Allora – aggiunsi mentre mi dirigevo verso il letto – tu devi rispondere alle mie domande»
«Mpf  - sbuffò – basta che non mi chiedi cose tipo ‘Qual è il tuo tipo di ragazza ideale?’ perché non lo so»
Quell’essere, immaginario o non immaginario che fosse, aveva il potere di riempire la mia testa di domande ogni volta che apriva bocca.
«Perché ti vedo? E soprattutto, perché hai questo aspetto?»
«E’ una storia lunga, però mi vedi così perché a te piace tanto Joe dei Jonas Brothers ed io, facendo parte  del tuo subconscio ho questo aspetto» si sedette nel letto affianco a me.
«Se fai parte del mio subconscio… - lo guardai meglio – allora tu non esisti».
«Ehi frena – sembrò offeso- ho detto che il mio aspetto fa parte della tua fantasia non che sono frutto della tua immaginazione!»
Ancora non capivo.
«Tu non mi stai immaginando, sono io che mi sto manifestando a te».
‘Questo è troppo per me’ pensai sdraiandomi sul letto.
«Perché sei qui allora? Per farmi diventare ancora più scema?» ormai mi ero arresa e avevo cominciato a parlare con Joe come se niente fosse, senza essere sul chi va là.
«Sono venuto qui – in tutto questo lui rimaneva serio – per vari motivi: punto primo, perché non puoi non dormire. Punto secondo, perché non dormendo rischi di creare un casino laggiù… e punto terzo, perché hai bisogno che qualcuno ti spieghi come affrontare tutto questo»
‘Ma che cosa significa tutto questo? Perché non mi spiega tutto dall’inizio’ continuavo a non capire e iniziavo a credere che si divertisse a tenermi così tanto sulle spine.
«Hai presente quando qualche giorno fa, insieme a Macy, hai espresso quel desiderio?»
«Macy!! Tu sai chi è Macy? – scattai e iniziai a scuoterlo- sai che era la mia migliore amica vero? Che è successo?»
«Fammi finire – rispose facendo una smorfia – Ogni cosa ha il suo tempo».
«Comunque sì – aggiunsi – mi ricordo»
«Cosa hai chiesto?»
Ci riflettei un attimo… Vorrei avere un’occasione per migliorare la mia vita…
«Ecco appunto» mormorò, facendomi sobbalzare.
«Puoi leggermi nel pensiero?!»
‘Certo! Che domande, e se voglio posso anche parlarti attraverso i pensieri’ udii la sua voce nella mia testa e in un primo momento mi spaventai.
«Dicevo –ricominciò a parlare – hanno deciso di darti un’occasione»
«Chi?» lo interruppi.
«Ordini dall’alto» fece un gesto indicando il soffitto.
Feci una smorfia di disapprovazione, ma mi resi conto che per quanto assurdo poteva sembrarmi il suo discorso, dovevo sforzarmi di credergli.
«Ora, per favore, non interrompermi. – ‘Va bene’ pensai – il fatto che tu non sia riuscita a raggiungere i tuoi obbiettivi in quella vita, è stato perché ti trovavi nel posto sbagliato al momento sbagliato».
Mi trattenni da fargli altre domande e lo lasciai proseguire.
«Che tu ci creda o no, adesso hai la possibilità di recuperare: puoi viaggiare nel tempo attraverso i sogni e vivere nella giusta dimensione».
«Quindi i sogni che faccio… sono davvero ambientati nel passato?» chiesi desiderosa di sapere.
«Sì.»
«Ma perché proprio ad Holmes Chapel? Perché non a Londra o New York?»
«Oh, quante domande – disse scocciato – Perché hanno fatto un’analisi e se tu cinque anni fa avessi vissuto ad Holmes Chapel, la tua vita di adesso sarebbe stata migliore»
‘Oddio…è assurdo’.
‘No che non lo è – si intromise Joe nei miei pensieri – ma non mi aspetto che tu capisca’
«Tranquilla, tutta questa storia andrà avanti per un anno. Trecentosessantacinque giorni precisi, e tu adesso sei a quota trecentosessantadue ».
«E se io non volessi?» chiesi pensando costantemente alla perdita di Macy.
«Ormai non hai altra scelta, ma se proprio non vuoi trarre beneficio da questa situazione, allora dovrai vivere in modo passivo i tuoi sogni, così non modificherai più nulla».
«E dai Joe, ti vuoi spiegare meglio?» gli chiesi spazientita.
«Quando hai iniziato a sognare, c’è stato un cambiamento nel tuo passato, che ambientato in un altro contesto ha riportato dei cambiamenti nel tuo presente. – guardò il mio volto perplesso – mi spiego meglio: il fatto che tu hai iniziato a sognare di essere ad Holmes Chapel a quindici anni, non l’hai deciso tu, ma comunque questo ha fatto si che tu non fossi a Bristol il giorno in cui tu avresti dovuto incontrare Macy.»
«Quindi anche l’acquisto della casa, il nuovo figlio di zia Martha e zia Jennifer sono delle conseguenze?»
«Le prime due sì, - rispose – Jennifer è lo spirito guida di tua madre e non è una conseguenza, ma un pezzo mancante del puzzle per fare in modo che il tuo passato si svolga ad Holmes Chapel»
Restai in silenzio senza parole.
«Lei è a conoscenza del tuo segreto. – mi guardò di sbieco- Perché questo deve rimanere solo un segreto» marcò bene l’ultima frase, anche se ritenevo fosse inutile dirmi di non parlarne con nessuno, visto che sarei risultata pazza.
«A me non serve tutto questo!- quasi gli gridai contro – Ho perso la mia migliore amica!!»
«Capisco che in questo momento sei sconvolta – disse con fare rassicurante – ma sono certo che imparerai a conviverci»
Continuai a guardarlo come se mi avesse appena dato uno schiaffo.
«Anche se, se proprio non vuoi sfruttare la possibilità che ti è stata concessa, per evitare di modificare ulteriormente il passato, basta che tu non faccia niente e ti comporti da zombie»
«Già lo faccio! – mi stava letteralmente facendo impazzire – nei sogni non sono mai io a decidere cosa fare, è il mio corpo che comanda» provai a spiegargli anche se sapevo che lui ne era a conoscenza.
«Davvero Chocolat? – mi chiese guardandomi di sbieco con un sorrisetto – E’ comunque un tuo sogno e la tua vita, se ci mettessi un po’ più di volontà, sbloccheresti il tuo corpo dal pilota automatico».
‘Pilota automatico? Che cosa cavol..’



 
#No way Beau
Ehilà, come va?
Dopo lo scorso capitolo, che mi è sembrata una merda colossale dato che non se l'è gagato nessuno ho deciso di andare avanti lo stesso e proporvi il terzo, della serie, vediamo se li incuriosisce e mi lasciano un commentino <3 lol
Sto per partire per la Croazia, non ho molto tempo, ma volevo postare lo stesso questo capitolo e continuare ad aggiornare ogni volta che troverò un wi fii libero. A parte aspettare e sclerare i biglietti per il soundcheck dei 5sos non sto facendo nulla che mi impedisca di scrivere muhahaha
Proprio oggi ho sognato una fanfic fantasy con Principesse, cavalieri mezzi lupi, magia, stregoni rompipalle del cazzo, cittadini con la testa fra le nuvole, laghi incantati, Louis Tomlinson, Beau Brooks e una protagonista del 21esimo secolo che soddisfa le mie fantasie lol nascoste con uno dei due protagonisti, lascio a voi indovinare con chi. 
Comunque tornando al capitolo, beh dai, è abbastanza lungo e qua potete metterci la mano sul fuoco che c'è la mia firma a partire dal piccolo rifermento ad High School Musical, alla particolare sottolineatura a quanto io sia ancora addicted ai Jonas Brothers.
Non chiedetemi perchè ho corretto questo capitolo alle due di notte con il 70% di possibilità di non aver corretto bene gli errori, aver lasciato frasi senza senso o cose varie e non chiedetemi neanche perchè sto ascoltando la colonna sonora dei pirati dei caraibi.
Beh, comunque, buone vancaze e perfavore, lasciatemi una minuscola recensione per farmi sorridere in questi giorni che sarò in Croazia.
Bene, io sparisco, se volete nuovi aggiornamenti su questa storia... Per favore, fatemi capire che la volete (?)
HAHAHAH bene, sparisco. 
DATTEBAYOOOOO!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 
Cute as a button, every single one of you
 
Capitolo 4
 
‘Joe… Joe!’
«Joe…»
«Cos’hai detto Chocolat?»
«Niente» risposi. Di nuovo senza volerlo.
«Spero tu stia bene. Ieri tua madre ha detto che stavi male quando ti ho chiamato a casa…» Rose mi mise una mano sulla spalla guardandomi preoccupata. «Tranquilla – la rassicurai – è tutto a posto». Ci stavamo dirigendo verso un’aula, il sole del pomeriggio entrava pigro dalle finestre, illuminando fastidiosamente le mattonelle bianche del corridoio.
‘Eh no, non farò la marionetta ancora una volta’ Mi bloccai di colpo. Guardai le mie gambe e, con stupore, quando decisi di muovermi in avanti, il mio corpo fece come volevo. Un passo, un altro. Rose si voltò leggermente verso di me come per vedere cosa stessi facendo, la raggiunsi subito.
Per quel breve tragitto non dissi nulla, un po’ perché ero troppo presa a controllare i miei movimenti, un po’ perché non sapevo cosa dire a quella che per me era una totale sconosciuta. Appena entrammo in classe, Rose si fermò al secondo banco della fila centrale e iniziò a mettere le sue cose dentro la cartella.
‘Devo vivere questo sogno? – dissi a me stessa – beh, allora è il caso che comunque cerchi di abituarmi alla routine.’ Alzai lo sguardo alla ricerca del mio banco, di cui fortunatamente ricordavo la posizione, e fu allora che vidi quel ragazzino che aveva assillato i miei pensieri nelle ultime settantadue ore, proprio dietro al mio posto. Divisa scolastica, capelli arruffati, mani con qualche sgraffio probabilmente di un gatto, espressione da ebete… Che avessi per davvero davanti Harry Styles a 15 anni? Ero ancora scettica a riguardo, ma dopotutto, quella faccenda era così strana che non mi sarei dovuta stupire se mi fossi ritrovata a parlare persino con la civetta di Harry Potter.
«Ciao Chocolat! – un sorriso - ci vediamo domani» disse Harry; aveva appena finito di sistemarsi lo zaino e un capellino di lana in testa.
Alzai lo sguardo per incontrare il suo con un sorriso di circostanza e iniziai a preparare le mie cose: l’unica cosa che mi interessava era capire come funzionava il sogno, trovare la famosa Jennifer e capire come sopravvivere in tutto quel macello. «Harry…» Sentii la voce di Rose, uno strano saluto detto con il tono di una che sta ridendo sotto i baffi.
«Rosalie…» Harry invece risultava come uno che è stato appena introdotto in un club di pettegole e non sa cosa fare. Scossi la testa ed uscii dalla classe, con al seguito Rose che non la smetteva di dire ‘hai visto, hai visto hai visto…’ Effettivamente Harry era seduto al banco dietro il mio e si era mostrato gentile nei miei confronti, ma io sicuramente ero del tutto indifferente. Dopo aver salutato la mia ‘‘‘‘amica’’’’ mi resi conto di un grande problema: non sapevo dove abitavo. Tutti i sogni che avevo fatto erano finiti sempre troppo presto, tant’è che non avevo visto neanche mia madre e la sua migliore amica, ero sempre rimasta dentro il liceo.
‘E adesso dove vado?’
Pregai con tutta me stessa che il mio corpo tornasse in pilota automatico, ma no! Neanche a pagarlo oro. Anche nei miei sogni ero una sfigata totale, sarei rimasta ad aspettare il mio risveglio seduta su una panchina come i barboni.
«Chocolat?»
Era una voce familiare, anche se non sapevo a chi appartenesse. Una voce femminile, che non era ne di Rose, ne di mia madre. Dall’altro lato della strada c’era una donna che avanzava verso di me, infagottata nel suo maglione azzurro che le faceva risaltare i capelli castani. Quando mi fu davanti riuscii a distinguere bene le leggere sfumature nocciola in quegli occhi color legno di ciliegio, la leggera gobba sul naso e quelle quattro lentiggini che le caratterizzavano le guance. Aveva un volto familiare, come se la conoscessi da sempre, ma sapevo che non era così.
«Tu devi essere…zia Jennifer, giusto?» esordii per interrompere quell’odioso silenzio che si era creato.
«Chiamami Jennifer, dopotutto, sappiamo entrambe che non sono tua zia e che questa è la prima volta che mi vedi.» Da come mi rispose, solare e cordiale, sembrava essere a suo agio vicino a me.
«Okay…» risposi di rimando.
«Allora, - aggiunse subito – adesso ti faccio vedere dove abiti e mentre camminiamo ti do alcune dritte su come sopravvivere in questo sogno.»
Quella Jennifer già mi piaceva; a differenza di Joe, sembrava una che raggiungeva in fretta il punto del discorso. Iniziai a seguirla, cercando di memorizzare tutti i passaggi che faceva.
«Il tuo spirito guida, Joe, o come lo vuoi chiamare – esordì mettendosi a camminare con le mani sui fianchi – ieri non ti ha spiegato chiaramente quel che devi sapere.» ‘Alleluia – pensai, inarcando il sopracciglio destro – allora pensaci tu’
«Da qui a casa tua ci vorrà un quarto d’ora – mi informò - ma credo che riuscirò a dirti quello che serve».
Appena finì di parlare ci ritrovammo davanti ad un incrocio. La guardai di sbieco, in attesa di un cenno su quale direzione prendere, ma lei si limitò a proseguire dritta senza aggiungere niente. C’era qualcosa di familiare in lei, qualcosa che sentivo di conoscere, sebbene allo stesso tempo sapevo che poteva solo essere la mia immaginazione a ‘renderla’ così.
«Siamo onesti – disse appena la raggiunsi – questo potere che hai appena acquisito è una gran figata. E’ vero che ci sono stati dei casini all’inizio, però, vedrai che non ti sembrerà così brutto.»
Il suo cambiamento improvviso, quella frase detta come un’adolescente che ha appena comprato un cellulare nuovo, mi aveva lasciata letteralmente senza parole. «E’ un po’ come nei film – continuò facendo un gesto teatrale con la mano – hai espresso un desiderio e ti si presenta un modo bizzarro per raggiungere i tuoi obbiettivi, devi solo stare attenta a non fare casini.»
Girammo a destra. «Riassumendo il tutto, quando vai a dormire nel mondo reale sogni, o meglio ti risvegli in un mondo passato che devi vivere e riscrivere gli eventi a scopo di migliorarti la vita nel tuo vero presente. Tutto chiaro fin qui?»
«Sì» risposi un po’ colta alla sprovvista, anche se alla fine con quelle poche parole era riuscita a chiarirmi la situazione. Comunque questo non significava che io fossi d’accordo ad avere ‘questa cosa’.
«Come funziona? – chiese retoricamente, come se stesse leggendo un manuale – Dato che comunque questo è un sogno, il tuo sogno, puoi viverlo influenzando leggermente le circostanze e scegliendo alcune impostazioni. Vedilo un po’ come se fosse un videogioco.»
Improvvisamente, mentre guardavo Jennifer, mi accorsi che la luce che le illuminava il viso era appena scomparsa rimpiazzata dall’ombra di un nuvolone grigio. «Forse questo ci servirà – e improvvisamente nella mano destra teneva un grande ombrello blu a pois bianchi – non si sa mai.»
‘Ma come cavolo ha fatto?’
«Se ti concentri, ma senza sforzarti troppo, quando vai a dormire puoi scegliere in che momento della giornata iniziare a vivere il passato. Se per esempio ti addormenti e decidi ‘risvegliarti’ a mezzo giorno nel sogno, la parte di giornata che non hai vissuto, è stata come dire… - fece una pausa fermandosi un attimo – vissuta dal tuo corpo come se fosse uno zombie.»
«Pilota automatico?» chiesi alludendo alla conversazione con Joe.
«Esatto! In pratica non decidi le azioni del tuo corpo, ma è come se il tuo corpo nei sogni avesse una memoria che si comporta come faresti tu.»
«E…si può usare anche mentre sono nel sogno? – chiesi – E se volessi usare il pilota automatico tutto il tempo?»
«Il pilota automatico non è uno scherzo, quando riesci a sbloccarti per la prima volta da quello stato, poi non puoi più riattivarlo. E’ come essere uno zombie, ed essere uno zombie non porta nulla di buono.»
Fece una pausa bloccandosi di colpo e poi mi indicò di alzare la testa: ci trovavamo davanti ad un incrocio e stava passando una macchina. Appena raggiungemmo l’altra parte della strada continuò a parlare: «Quando ieri non sei andata a dormire, il tuo corpo ha vissuto come uno zombie tutta la giornata… E questo non va bene, crea… come degli squilibri. – Si voltò verso di me con aria severa - la mancanza di sonno distrugge il sogno, distrugge la tua immagine… e non puoi recuperare una giornata di questo mondo, perché il passato di questi sogni ad Holmes Chapel è legato al tuo presente.»
«Quindi… - dissi cercando sia di schiarirmi le idee, sia di dimostrarmi partecipe, dato che Joe e Jennifer non si erano dimostrati molto felici di quello che avevo fatto – un giorno del passato corrisponde a un giorno del presente. Ad esempio, se nel presente è il 30 Maggio 2014, quando vado a dormire mi ritrovo nel 30 Maggio 2009?»
«Non esattamente, quando vai a dormire, che sia la sera del 29 o la notte del 30, tu prima sogni la giornata del 30 Maggio 2009 e poi ti svegli e vivi la giornata del 30 Maggio 2014. Prima il passato, poi il presente.»
La guardai confusa.
«Hai espresso il desiderio il 26 Marzo, no? – feci cenno di sì – Quando sei andata a dormire hai sognato la giornata del 27 Marzo 2009 e quando ti sei risvegliata hai vissuto la giornata del 27 Marzo 2014.»
«Di conseguenza… - feci cenno di aver capito - non posso tornare indietro nel tempo e rivivere la stessa giornata. Inoltre… ho un anno di tempo, perciò il 27 Marzo 2015 smetterò di fare questi sogni?»
«Sì.»
Continuammo a camminare per un minuto buono senza dir nulla, forse si aspettava qualche domanda, ma avevo così tanti dubbi che non riuscivo a scegliere cosa chiedere per prima.
«Riguardo le ‘impostazioni’ invece… come funziona?»
«Sta tutto qui – si indicò le tempie – devi desiderare qualcosa intensamente e se non è una richiesta tipo ‘fammi diventare l’imperatrice d’Austria’ potrebbe avverarsi. E’ comunque un tuo sogno, la tua volontà conta. – sorrisi compiaciuta mentre lo diceva - Puoi scegliere quando entrare o uscire nella giornata del sogno, puoi addirittura viverla tutta… tranne quando vai a dormire, ti risvegli automaticamente, ma devi almeno vivere otto ore nel sogno. Quindi niente scappatoie!»
Sbuffai dentro di me, mentre facevo l’okay col pollice. Quante cose da ricordare, fare… mi sembrava una gran seccatura, in più avevo perso la mia migliore amica. «Ma Macy… - dissi a denti stretti – era proprio necessario farmi perdere una delle persone più importanti per me?»
«Quando ti è stato dato questo potere, nel tuo passato è stata cambiata solo una cosa: il luogo in cui vivevi. Tutto il resto, è una conseguenza dell’aver vissuto qui ad Holmes Chapel.»
«Perché proprio Holmes Chapel?! - che risposta sciocca mi aveva dato – Perché una misera cittadina del cazzo sperduta nel Chelshire? Volevate darmi un’opportunità?! New York è la città delle opportunità!» Mentre parlavo la mia voce diventava sempre più acuta. Feci altri due passi e poi Jennifer si fermò, mettendomi una mano sulla spalla. Non mi ritrassi per educazione.
«Chocolat,» Mi veniva da piangere.
‘Non davanti a questa sconosciuta’ mi dissi.
«So che ti può sembrare una cosa brutta. Però non giudicare il libro dalla copertina, almeno prova ad affrontare tutto questo…»
«Ma non l’ho deciso io! Non l’ho voluto io!» la interruppi come una bambina.
«Chocolat – mi scosse leggermente mettendomi entrambe le mani sulle spalle – qualsiasi cosa accada, che ti piaccia o no… Non vivere come uno zombie. Il pilota automatico usalo solo in caso di emergenza.»
Mi guardò dritta negli occhi per un secondo che mi parve interminabile, schiuse la bocca e riprese fiato, come se stesse per dirmi una cosa ancora più importante di tutto quello che aveva detto prima.
«Tutte le tue azioni nel passato, tutte le tue decisioni o intenzioni sia che le pensi nei sogni, sia che le pensi nel presente da fare nei sogni, influenzano lo spazio-tempo che c’è fra la giornata del passato che stai riscrivendo e il presente che stai vivendo.»
Rimasi senza fiato. La sua presa aumentò di poco, e non riuscivo quasi a guardare negli occhi quella donna dall’aria familiare con uno sguardo severo e penetrante.
«Perciò se decidi di vivere come uno zombie, sappi che poi ci saranno delle conseguenze. Nel tuo presente. Nella. Vita. Reale. Capito Chocolat?»
Questo era troppo. Mi morsi le labbra per non piangere. Alla fine non dissi nulla, e Jennifer mollò la presa.
«Questo è quanto. Siamo arrivate» esordì con un tono di voce completamente diverso da quando scandiva le parole ‘NELLA VITA REALE’. Spostai la mia attenzione verso la casa davanti a me, dall’altro lato della strada, circondata da un piccolo giardino. Jennifer si fece da parte per lasciarmela guardare meglio. Non era una di quelle case di paese, tutte carine e in tinta con le altre, era una casa normale, fatta in mattoni rossastri, con l’erba del giardino curata alla bell’è meglio senza nessun fiore o aiuola, con finestre rettangolari con persiane grigie e tende bianche. Era alta due piani, con il tetto spiovente, ma non era molto grande, anzi sembrava quasi dire ‘Ehi, questa abitazione è fatta apposta per due persone che hanno un reddito sotto la media’ oppure, più semplicemente, sembrava una casa per pensionati. «Eh… - Jennifer sospirò – E’ abbastanza spoglia non trovi?»
«Già…» convenni guardandomi in giro, momentaneamente distratta da ciò che attimi prima mi rattristava.
«Però siamo in un sogno, il tuo sogno. Coraggio Chocolat, provaci!»
La guardai ancora un po’ stranita e lei ricambiò con un sorriso incoraggiante. Chiusi gli occhi e strinsi i pugni. Avevo ancora fissa l’immagine della casa davanti a me. Desiderai che le finestre avessero dei davanzali, anche quelle al piano superiore, e che ci fossero dei vasi con dei graziosi fiori blu. Dipinsi mentalmente le persiane di marrone e i muri di bianco con effetto bucciato, eliminando quei mattoni rossi che non mi andavano a genio. Aggiunsi una casella della posta a forma di lettera in legno vicino al citofono e pensai che il prato dovesse essere omogeneo e appena tagliato. Sapevo che era assurdo, ma mentre schiudevo gli occhi una parte di me ci sperava.
«Io…» provai a dire, ma ero assolutamente senza fiato.
La casa per vecchi davanti a me era diventata come desideravo! Ogni dettaglio per giunta. Non mi sembrava vero. Feci per attraversare e correre a toccare con mano quello che avevo appena fatto ma…
«Jennifer?» Mi guardai attorno.
Non c’era più. Era sparita, esattamente come era sparito Joe. Continuai a camminare e mi fermai in mezzo al vialetto di mattonelle che divideva il giardino a metà. Ero come una bambina che vede per la prima volta qualcosa e si meraviglia a tal punto da volerla rifare centomila volte per convincersi che sia possibile.
Abbassai le palpebre e immaginai Macy che mi salutava seduta sul gradino davanti alla porta d’ingresso.
‘No – pensai – magari posso chiedere…’ Cancellai l’immagine di Macy, e pensai alla porta che si apriva e un uomo vestito di tutto punto, con gli occhi castani come i capelli sbarazzini, le lentiggini e il naso aquilino usciva di casa con la cartella da lavoro.
‘Papà’
Aprii gli occhi, e mi ritrovai davanti mia madre con una mano a mezz’aria e l’espressione interrogativa.
«Cosa stai facendo?» mi chiese. Era la stessa donna che conoscevo e che mi aveva cresciuto per venti anni, eppure a vederla così, nella sua versione passata, vestita per uscire…
‘Un attimo’
Squadrai mia madre. Sembrava molto più giovane di come ricordavo che fosse quando avevo quindici anni: aveva i capelli acconciati, mossi e con una mollettina che le legava una ciocca all’indietro ed indossava dei veri abiti da donna.
«Tu cosa stai facendo?» riformulai la domanda, ancora sorpresa dato che sembrava andasse anche di fretta.
«Sto andando al cinema con Jennifer» rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo.
‘Mamma che esce di casa per divertirsi?!?’
Questa era proprio bella. E’ vero che ero rimasta sbigottita nel vedere mia madre in quel modo, ma ero contenta di vedere che per la prima volta stava facendo qualcosa per se stessa.
«Ah, okay – dissi – io allora sto a casa. Buon cinema!»
Mia madre sorrise e lanciò verso di me un mazzo di chiavi. Grazie alla mia nota agilità, non riuscii a prenderlo al volo e dovetti chinarmi a terra per raccoglierlo. Non avevo ancora la più pallida idea di quello che avrei fatto, mi sentivo letteralmente come in un video gioco in cui più cose scoprivo più passavo di livello. Dopo aver aperto la porta, mi decisi ad entrare un po’ titubante. La prima cosa che vidi fu un piccolo ingresso con la carta da parati color crema, semplice. Semplice come la moquette grigia e la rampa di scale in legno che portava al primo piano.
‘Muovi le chiappe’ mi dissi, non potevo rimanere imbambolata davanti ad ogni cosa che vedevo. Notai un appendiabiti al mio fianco, così appesi le mie cose e poggiai lo zaino ai suoi piedi. Sotto la rampa di scale c’era una piccola porticina, immaginai che dietro ci fosse una specie di mondo incantato come Narnia ed invece scoprii che era una specie di lavanderia/ripostiglio. Sia a destra che sinistra c’erano due porte: una portava in una modesta cucina che aveva a malapena lo spazio per i fornelli e il frigo e un tavolo per due persone sistemato sotto una finestrella; e l’altra in un grazioso salotto. Improvvisamente il mio stomaco iniziò a reclamare e mi precipitai in cucina, ad aprire una delle minuscole credenze accanto al tavolo. Munita di un pacco di biscotti alla vaniglia, iniziai a salire le scale per arrivare al primo piano, dove sicuramente avrei trovato il bagno, la mia stanza e quella di mia madre. Ero davvero curiosa di scoprire cos’avrei trovato, ma appena prima di salire il gradino che mi avrebbe permesso di scorgere qualcosa di quel piano inesplorato, decisi di fare un’altra cosa. Chiusi gli occhi. Immaginai un corridoio con pavimento in moquette e due porte sulla sinistra: una sarebbe stata la camera di mia madre, identica a quella di Bristol e l’altra sarebbe stata il bagno, accessibile anche dalla stanza di mia madre. Infine immaginai una porta sulla destra, desiderando solo che la mia fosse una grande e fighissima stanza da adolescente con gli ormoni impazziti. Riaprii gli occhi. Mentre procedevo in avanti sembravo il classico turista americano che entra in uno spazio chiuso nuovo con passo lento mangiando un pacchetto di schifezze. La scena che vidi, una volta arrivata al primo piano, fu esattamente quella che avevo pensato. Aprii il bagno e la stanza di mia madre e fui lo stesso sorpresa di vedere che erano identici a quelli della casa di Bristol. Quando arrivò il momento della mia camera, iniziai a sentirmi eccitata: avevo solo immaginato che fosse perfetta per me, ma non sapevo cosa aspettarmi. Misi una mano sulla maniglia della porta e l’abbassai lentamente.
‘Oh mio dio’.
A quindici anni, desideravo appendere poster in camera e mettere in bella vista tutti i gadget o simboli di ciò che seguivo; mia madre si opponeva sia a farmi usare lo scotch - perché diceva che avrei rovinato i muri - e sia a comprarmi le ‘solite cazzate inutili’. Quella stanza, cavolo se la amavo, dal colore rigorosamente rosa per qualsiasi oggetto d’arredamento all’interno, fino ai poster dei Jonas Brothers, la bacchetta di Harry Potter sulla mensola, la T-shirt dei Wildcats di High School Musical appesa al muro sopra una chitarra acustica simile a quella che usava Mitchie di Camp Rock. ‘Non sapevo di saper suonare uno strumento’ pensai, anche se mi resi conto poco dopo, che probabilmente era lì solo per dire ‘guardatemi servo a dare un tocco di classe alla stanza’. Il tetto era spiovente e di conseguenza il soffitto della mia stanza era irregolare, il che costringeva a posizionare cose come armadio e scrivania con un computer preistorico enorme, vicino all’entrata, nella parte in cui c’erano almeno due metri e qualcosa d’altezza. Il mio letto si trovava sotto la finestra sul soffitto, con accanto una serie di mensole piene di libri. Camminavo in giro per la mia grande stanza col sorriso sulle labbra, forse era infantile, ma vedere tutto quello che non avevo avuto davanti ai miei occhi mi rendeva felice come una ragazzina. Aprii l’armadio bianco, che sulle porte davanti aveva delle incisioni strane che ricordavano quelle dell’armadio delle Cronache di Narnia. Mi misi a ridere quando notai che sulle ante interne erano attaccate una foto di Chad Dylan Cooper di Sonny fra le Stelle, i due gemelli Zack e Cody con un cuore che cerchiava Zack e l’immancabile mini poster di Joe Jonas nella serie J.O.N.A.S.
‘Quanti ricordi… Sono cresciuta così bene in tutto questo, perché adesso progettano programmi idioti come quelli che segue Charlie?’
Le uniche cose che lasciavano a desiderare erano il computer preistorico sulla scrivania e il cellulare Nokia ‘indistruttibile’ appoggiato sul comodino e attaccato alla presa a caricare. Chiusi gli occhi ed immaginai un favoloso Mac e un Iphone 5 con tanto di cover rosa ed adesivi. Li riaprii contenta, ma… il catorcio della seconda guerra mondiale e quel cellulare inutile si trovavano ancora al loro posto.
«Ma dico – sobbalzai sentendo qualcuno parlare – eri presente anche tu durante il progresso tecnologico?»
«Joe» lo chiamai con l’aria di chi sta per iniziare una rissa.
«E’ così che la gente chiama il mio corpo» disse senza guardarmi e si sedette sul mio letto. Aveva lo stesso aspetto del miniposter del mio armadio.
«Non puoi chiedere cose impossibili – scosse la testa – un’ora che sta qui e già ti diverti a comportarti come Jim Carrey in ‘Una settimana da Dio’»
«Prima mi sbattete in faccia l’assurda irrealtà di questo potere-barra-occasione idiota che non-so-chi mi ha voluto concedere, poi mi fate la predica, e poi tu vieni a criticare come mi comporto» dissi per fargli la ramanzina.
«Sembra che abbiano ingaggiato una bimbaminchia incallita per arredare questo posto» si limitò a dire con una specie di ghigno e l’aria impassibile alle mie lamentele.
«Si dà il caso – aprii le braccia e mi parai davanti a lui – che chi ha arredato la stanza sia io!»
«Infatti! – sbottò – l’avevo intuito, visto che solo una pazza come te può dare al suo spirito guida l’aspetto di un cantante di un gruppo sciolto.»
«Siamo nel 2009, i Jonas non si sono sciolti» risposi seccata.
Mi sedetti accanto a Joe, odiavo che avesse quel fantastico aspetto, ma una personalità così irritabile che, se ne avessi avuto l’occasione, l’avrei legato ai binari di un treno.
«Così mi offendo» esordì incrociando le braccia, sicuramente aveva sentito quel che pensavo.
«Beh, cosa sei venuto a fare qui?» feci il suo stesso gioco ed ignorai quello che mi aveva appena detto.
«Niente – fece le spallucce – volevo solo darti fastidio» «Bello spirito guida – risposi sarcastica – ora puoi anche andartene» mi sedetti sulla sedia davanti alla scrivania e gli diedi le spalle. Sapevo che non mi avrebbe mai dato retta, perciò mi arresi ed iniziai a sfogliare la piccola agendina vicino al computer.
‘Martedì 31 Marzo 2009 Studiare per la verifica di Matematica / Finire esercizi di letteratura a pagina 87 + commento breve / Portare la tavola periodica per Scienze, esercitazione in classe per il compito di chimica’ Chiusi immediatamente l’agenda, tutte quelle cose da fare… mah, chi ne aveva la voglia?
Stranamente c’era silenzio. Mi voltai piano e quando mi voltai non trovai nessuno
«Joe? Joe…» Nessuna risposta.
‘Meglio così, se n’è andato’
Scesi al piano terra e con un po’ di tentativi riuscii a sistemare il salone in modo che ci fosse una televisione decente che poteva ‘esistere’ in base allo stipendio di mia madre nel sogno e al progresso tecnologico; quindi non potevo immaginare mega televisori al plasma e sperare di trovarli nel mio salotto davanti a quel comodo divano rosso. Stando a certe condizioni del sogno, non potevo neanche schioccare le dita e ritrovarmi pronta la cena, perciò presi un pacco di popcorn e accesi la televisione. Per qualche strano motivo, appena poggiai la mia testa sul bracciolo del divano, venni travolta da improvviso sonno e pian piano le mie palpebre si chiusero nel bel mezzo di una puntata dei Maghi di Waverly.
 
 
Spalancai gli occhi e annaspai come se fossi appena riemersa dall’acqua. Mi trovavo nel mia stanza, in quella vera, ero accasciata sulla scrivania con la testa sopra le braccia conserte. Fu davvero faticoso rialzarmi, avevo le articolazioni doloranti, la lingua impastata, un alito ammazza-topi, le caccole agli occhi e quando mi misi in piedi camminavo come un’ubriaca. Ero uno schifo. Odiai ritrovarmi in quella situazione, odiavo anche che le tapparelle della mia stanza fossero chiuse e non riuscissi a capire che ore fossero.
Mi trascinai in bagno, dove, con una forza di volontà spinta dallo schifo che provavo verso le mie condizioni momentanee, attuai il programma ripristino bellezza a livello zero. Non controllai neanche cosa stesse facendo mia madre, anzi non volevo neanche vederla, chissà cosa mi avrebbe detto se avesse scoperto che mi ero svegliata alle cinque del pomeriggio? Scossi la testa e girai dall’altra parte quel fastidioso orologio digitale sullo specchio del bagno, che mi ricordava ancora una volta quando fossi irresponsabile. Mi lavai la faccia ed i denti, poi mi spogliai e mi gettai letteralmente nella doccia cercando di lavare a dovere ogni parte del mio corpo.
Uscii dal bagno che ero praticamente un’altra persona e proprio in quel momento la porta d’ingresso si aprì, rivelando mia madre che rideva mentre reggeva il telefono vicino l’orecchio. La ignorai ed entrai in cucina. Trovai un bigliettino sul tavolo che diceva: ‘Esco questa mattina presto per delle commissioni, non mi aspettare per il pranzo.’
«Cos’hai mangiato a pranzo?» sobbalzai sul posto e nascosi il foglietto in una manica della maglia che avevo appena messo.
«Sono uscita a comprarmi della pizza…  - risposi cercando di rimanere sul vago – chi era prima al telefono?»
«Clary» rispose secca e si avviò verso la sua camera.
«Dove vai?» non riconoscevo mia madre. In una circostanza normale mi avrebbe tartassato di domande e si sarebbe messa a preparare la cena.
«A prepararmi – urlò dall’altro capo della casa per farsi sentire – Clary e Samantha mi aspettano per una serata a casa di Lizzie»
‘Lizzie? Samantha? Clary – sgranai gli occhi – chi cazzo sono?!’
«Ehm…Cioè?»
«Chocolat, le mie amiche del mio gruppo.»
Mi sedetti sulla sedia.
‘Ok, devo stare calma. Qui c’è di sicuro lo zampino di questi assurdi sogni’
Clary, Samantha e Lizzie. Ripetei quei nomi così tante volte che alla fine li dimenticai. Di sicuro quelle tre erano delle coetanee di mia madre e se avevano un appuntamento dovevano essere amiche… già ma quanto importanti? Che Jennifer avesse fatto da supporto emotivo a mia madre appena dopo la morte di mio padre in questi assurdi sogni, in modo che mantenesse la personalità allegra e solare che ricordavo avesse avuto quando ero più piccola?
Era molto probabile, anche se una domanda che continuava ad assillarmi era: ‘Perché ad Holmes Chapel? Che cos’ha di particolare quella cittadina sperduta nel Chelshire?’
L’unica risposta che mi veniva in mente era Harry Styles. Collegamenti come antenati che provenivano da quel paesello nel Chelshire o tesori nascosti erano delle opzioni, ma non mi assillavano tanto come quel nome.
‘Chi lo vuole Harry Styles’ pensai alzandomi dal tavolo.
Non conoscevo quel ragazzo, non me ne fregava niente di lui, non seguivo neanche artisti musicali da un sacco di tempo.
‘Non mi metterò a fangirlare per un deficiente di quindici anni che si aggira nei miei sogni - decretai entrando nella mia stanza - Anche se in realtà adesso ne ha venti.’


 
#Dattebayo
Per prima cosa, vorrei ringraziare Gaia per avermi aiutato a correggere il capitolo. 
Sono stata in Croazia una settimana pensando che sarei riuscita a postare questo capitolo ma... No! Mia madre doveva rompersi il portatile nel bel mezzo del viaggio.
Ok, io al momento non so che dire, anzi è la prima volta che scrivo uno spazio dell'autrice senza commenti o altro.
Vorrei solo ringraziare chi segue la storia. 
Grazie a tutti per il supporto, spero che sia tutto all'altezza delle vostre aspettative.
La vostra Sara

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 
Capitolo 5
 
’Okay – pensai- non sarà tanto difficile’ 
Jennifer mi aveva spiegato come dovevo fare: dovevo comportarmi come se fosse un videogioco. Potevo scegliere quando iniziare a vivere nel sogno, bastava solo che mi concentrassi, non ci avevo mai provato, ma immaginai che fosse come per le decorazioni della casa e il resto.
Avevo passato la serata a programmare come si sarebbero svolte le mie giornate in quei cavolo di sogni, in modo che tutto scorresse in maniera monotona e regolare ai fini di evitare troppi cambiamenti. Insomma, cercai di far assomigliare la mia vita a Holmes Chapel a quella che avevo a Bristol. Solo che non dovevo avere amici, neanche uno. 
Non potevo permettermi di frequentare Rose, chissà cosa sarebbe successo se le avessi concesso la mia amicizia, mi sarei ritrovata un’estranea dentro la mia vita e di sorprese ne avevo avute fin troppe in meno di una settimana.
La scuola? Non l’avrei frequentata, così tutti gli stress scolastici li avrebbe affrontati il mio corpo e, in pilota automatico, non credo che avrei fatto nuove amicizie.
Mi sarei svegliata esattamente appena finita la scuola, sarei corsa a casa e mi sarei messa a guardare le vecchie repliche delle serie Disney.
Una parte di me voleva mettersi a lavorare per trovare un piano per incontrare i Jonas Brothers visto che nel 2009 erano ancora nel fiore della loro carriera… peccato che fossi una pigra di prima categoria e tutto il lavoro che avrei dovuto svolgere, l’avrei dovuto attuare nel passato, in un paesino sperduto, con il 90% di possibilità di sconvolgere i miei piani di monotonia per evitare brutte sorprese nel mio presente.
‘Assolutamente no’ decretai.
Chiusi gli occhi e immaginai l’orologio del corridoio centrale della Holmes Chapel Comprensive School che segnava l’ora d’uscita dalla scuola.
Sbattei un attimo le palpebre infastidita, alternando l’immagine del corridoio della scuola con il buio della stanza…
E poi venni travolta dal suono improvviso della campanella.
«Eh… - disse qualcuno alle mie spalle – la verifica è andata una merda»
Stavo camminando verso l’uscita dell’edificio, il bidello teneva la porta aperta e riuscivo ad intravedere i nuvoloni grigi che minacciavano di far scoppiare un terribile temporale.
‘Ottimo’ pensai ironicamente.
Stranamente sentii un lieve torpore alle gambe e il secondo dopo il pilota automatico svanì automaticamente, lasciandomi il pieno controllo del mio corpo.
«Beh Chocolat – notai Rose al mio fianco che frugava nella cartella mentre mi lanciava occhiate distratte – non sei l’unica ad aver lasciato il foglio in bianco, vedrai che la prossima volta andrà bene»
‘Mpf… la prossima volta un corno, io non mi occupo di queste cose, ci sono già passata e per fortuna il liceo l’ho superato’.
«Già...» mi limitai a rispondere.
Speravo di lasciar cadere così il discorso, ma appena scesi le scalette per avviarmi verso casa Rose mi bussò leggermente sulla spalla: «Ehi Cher, ti va di venire da me? – sorrise leggermente – mi sono ricordata che mia nonna mi ha mandato i biscotti al cocco, quelli che ti piacciono tanto. Potremmo anche fare i compiti insieme»
‘Oh, biscotti al cocco…’ stavo per accettare, i biscotti al cocco erano una specie di esca-acchiappa-Chocolat, ma subito dopo mi ricordai del mio piano ‘vivi da zombie e niente casini’.
«Scusa Rose, mia madre oggi voleva che l’aiutassi a sistemare delle cose di papà, sai tipo per darle al mercatino dell’usato visto che noi non le usiamo…»
Che scusa idiota. Non sapevo neanche come era potuta venirmi in mente.
Rose schiuse la bocca, ma non disse nulla.
«Va bene – decretò infine – ci vediamo domani allora»
Serrai le labbra in una  specie di sorriso di circostanza, come per scusarmi tipo ‘Sono cose che capitano, non è colpa mia’ e la guardai mentre si voltava verso l’altra parte della strada.
Rimasi ferma per una manciata di secondi ad osservare imbambolata il fiume di studenti che usciva e si sbrigava a tornare a casa.
Ad un tratto,  dal portone della scuola uscì l’inconfondibile ragazzino cespuglio-scimmia-brufoletti: Harry Styles. Stava chiacchierando con dei ragazzi, che subito dopo identificai come miei compagni di scuola. Uno di loro credo si chiamasse William, era leggermente più alto di Harry, aveva i capelli alla leccata di vacca come Justin Bieber a quei tempi e non indossava nessun cappotto, girava solo con la divisa come se i nuvoloni sopra di noi non esistessero.
Per essere circondato da quel numero di ragazzi della sua età, che lo guardavano come se fosse il centro della conversazione, Harry doveva essere un tipo abbastanza interessante. Non lo vedevo aprire la bocca per parlare spesso, ma tutti si giravano verso di lui come se fosse di vitale importanza che lui ascoltasse ciò che avevano da dire.
Era abbastanza diverso dall’ambiente che regnava nel mio vecchio liceo: c’erano numerosi gruppetti, tutti pieni di etichette. Al massimo eri fortunato se avevi un amico, era una specie di gara fra studenti a chi riusciva a farsi notare e far parlare di se, dovevi essere ricco, di bell’aspetto e non avere problemi coi voti. Ma se sei di bell’aspetto entri facilmente nel giro di chi si sente sto cazzo e trovi chi ti fa i compiti o comunque chi ti passa commenti, esercizi già svolti e cose varie da copiare.
Io non avevo nessuna di queste caratteristiche, ero una ragazza normale, con una famiglia dal reddito normale e i voti sufficienti. 
Non importa se sei simpatico o meno, hai delle qualità particolari o altro, per quel che avevo vissuto io, la società della scuola andava avanti così.
Io rientravo nella categoria delle teenager normali e con una migliore amica.
Niente a che vedere ne con le troiette della mia ex scuola, o con le fangirl che avevano i soldi che gli uscivano dal culo e sbattevano sulle riviste o sui pochi social che c’erano allora, le loro mini avventure.
Harry era come me da quel che vedevo, rientrava nella categoria delle persone normali: aveva un aspetto normale, da quel che avevo letto su google,  prima di X Factor la sua era una vita normale in una famiglia normale.
Normale, comune, banale. Solo che nella sua semplicità, Harry sembrava essere felice e apprezzato dal prossimo.
Che fossero davvero fortunate le persone che conoscevano o avevano conosciuto Harry Styles?
Mentre scendeva i gradini, tutti gli studenti che parlavano nel suo gruppetto si voltarono e salutarono prima Harry e poi il resto degli amici. Nessuno aveva dimenticato di augurare al ragazzo normale-cespuglio-scimmietta-brufoletti una buona giornata. 
Neanche io.
«Ciao Harry, ci vediamo domani» esclamai quando mi passò davanti.
Non sapevo neanche perché l’avevo fatto, era stato istintivo far vedere che anche io conoscevo Harry. 
«Ehi Chocolat! – ricambiò con un sorriso – buona giornata anche a te»
Dopo aver lasciato alle spalle quel piccolo episodio, tornai in me e decisi di mettere in atto il programma zombie.
Tornai a casa, salutai mia madre e mi rimisi sul divano con un pacchetto di patatine al formaggio e una vecchia puntata di Sonny fra le stelle.
«Chocolat – mia madre sbucò in salone con il cesto dei vestiti sporchi – non devi fare niente?» chiese con quel solito tono stridulo che mi dava sui nervi.
Mi aveva interrotto proprio in un momento importante, in una rara occasione in cui Chad, dopo la sua grande scenata aveva fatto un gesto carino verso Sonny.
Mi limitai ad inarcare le sopracciglia.

«Insomma… niente compiti? – si spostò la coda di cavallo dall’altra parte – non ti sei nemmeno levata la divisa» mi indicò.
«Ho studiato ieri- mentii – mentre eri al cinema con Jennifer»
Mia madre non disse nulla, si limitò a scuotere la testa e scomparire nel corridoio.
‘Finalmente’ pensai e mi stravaccai sul divano mentre mangiavo l’ennesima patatina.
Mi piaceva stare sdraiata a non far niente, rivedere quei vecchi episodi e tornare indietro nel tempo, quando Macy mi invitava a casa sua a guardare le puntate delle nostre serie preferite.
‘Che bella possibilità di merda però – pensai dopo cena – al posto di dormire e fare sogni senza senso come i comuni mortali, mi ritrovo a vivere una cosa del genere’
Aiutai mia madre del sogno a sparecchiare la cena e salii in camera per addormentarmi e tornare nel mondo reale.
Una giornata monotona.
Secondo i miei piani avrei dovuto passare un anno così, senza far niente tutto il giorno a guardare Disney Channel  o provare ad usare quel computer preistorico per fare qualcosa di alternativo e poi nel frattempo  mi sarei dedicata a trovare un lavoro nel presente.
Come pigiama avevo una camicia da notte blu, che mi affrettai subito a farla diventare rosa pallido, proprio come piaceva a me.
‘Buon risveglio’ mi dissi ironica e chiusi gli occhi.


Improvvisamente quando schiusi le palpebre sentii uno strano rumore che mi martellava in particolare l’orecchio destro.
Anzi, quel rumore lo conoscevo bene, e lo odiavo anche: era la mia sveglia-stronza che usavo quando andavo a scuola, una specie di quadrato con le lancette  alte uno sputo che riusciva a produrre una musichetta allucinante.
A tastoni provai a spegnerla senza alzarmi dal letto, col risultato che la feci cadere dal comodino  e mi dovetti sporgere per raccoglierla.
Odiavo quella sveglia. Un affare infernale!
Mi sporsi dal letto a malincuore e allungai le mani per afferrarla e spegnerla.
Segnava le sette di mattina.
‘Chi cazzo l’ha impostata a questo orario improponibile?!’
Nonostante avessi deciso io di svegliarmi, il mio corpo era stanco e aveva bisogno di riposare ancora, perciò come i bambini pigri, mi arrotolai nelle coperte e cercai di sonnecchiare.
Dopo neanche cinque minuti, mia madre entrò nella mia stanza urlando il mio nome svariate volte.
«Mamma – intervenni esasperata dopo il decimo richiamo – si può sapere cosa c’è?» avevo ancora la voce impastata dal sonno.
Mi rigirai nel letto cercando di ignorarla e riprendere a sonnecchiare, fino a quando mia madre disse tutto d’un fiato: «Ti vuoi preparare!?Sei in ritardo per la scuola»
Sembrava come nelle scene dei film, alzai la testa di scatto mandando a puttane tutti i tentativi di riprender sonno e la guardai allucinata.
Fortunatamente, prima di aprir bocca mi fermai a riflettere: SCUOLA? Io a Scuola? Che scuola era? Università forse? 
Sapevo benissimo che quella novità doveva avere per forza qualcosa a che fare con i sogni modifica-passato, meglio non andare a scuola e rimanere a casa per indagare.
«Mamma, oggi non me la sento di andare. Mi dovrebbe venire il ciclo e stanotte non ho chiuso occhio per i doloretti»
Nella mia vita non ho particolari doti, anzi come mi ripeto spesso sono una ragazza anonima e senza particolarità, ma se c’è una cosa che so fare alla grande è inventarmi scuse. Abbastanza realistiche per giunta.
Mia madre si limitò ad annuire e chiudere la porta. Non era da lei non riempirmi di domande e ripetermi centomila volte che magari se mi alzavo e mangiavo qualcosa trovavo le forze e riuscivo ad uscire di casa, ma prima che se ne andasse mi accorsi che era già vestita, pettinata e persino truccata! Questo voleva dire che sicuramente era presa da altro che farmi la predica. ‘Menomale…’
Non mi alzai dal letto. Ci rimasi finché non la sentii uscire di casa.
Fu solo quando mi avvicinai alla scrivania che notai il mio vecchio zainetto nero appoggiato sotto una gamba del tavolo. Che cosa ci faceva lì? 
Era la vecchia cartella scolastica che usavo quando andavo al liceo e nell’aprirla per esplorarne il contenuto in cerca di indizi, ignorai il brutto presentimento che mi stava sorgendo.
Trovai un’agenda e una pochette con delle penne dentro. 
Iniziai a sfogliare le pagine di quel diario per i compiti a velocità industriale finché non raggiunsi il mese di Giugno in cui una grande scritta rossa con il pennarello non mi fece cascare le braccia: diploma.
‘Ci dev’essere uno sbaglio’ pensai allarmata.
No, non potevo sbagliarmi. Su quella dannata agenda c’era scritto l’anno corrente.
«Questa NON è roba mia» mi dissi, buttando con disprezzo lo zaino per terra, ma in fondo neanche io credevo a quello che avevo appena detto.
Che razza di casino stava succedendo? Io odiavo letteralmente questi sogni maledetti che mi scombinavano la vita. Creavano solo macelli!
Dato che lamentarsi non avrebbe risolto la situazione, provai a chiamare quell’idiota del mio spirito guida.
«Joe» lo chiamai piano.
«Joe! Dove cazzo sei?!» urlai alla fine, quando avevo pronunciato il suo nome in giro per casa un milione di volte.
In quel momento mi ricordai che in alternativa a quel rockettaro fasullo, c’era Jennifer: provai a cercare il suo numero sia sul mio cellulare, che sulla rubrica vicino al telefono fisso di casa, ma niente. 
Per capire meglio dovevo per forza aspettare che tornasse mia madre e prepararmi le domande giuste da farle.
E ancora una volta ero rimasta a casa, come una nullafacente a rispolverare vecchi album delle foto, conversazioni vecchie su facebook per capire poi, che ero stata  bocciata ed ero indietro di un anno.
Quella sera, mentre aiutavo mia madre a lavare i piatti il suo commento sul mio andamento scolastico fu: «Sei abbastanza pigra, anzi quando eravamo ad Holmes Chapel il tuo rendimento era pari a zero. A casa non facevi nulla…- scosse la testa e tornò a insaponare un piatto senza guardarmi – Ah…se mi fossi imposta e avessi bruciato quella maledetta televisione non saresti in questa situazione…» aggiunse borbottando.
L’unica cosa che mi rincuorò fu rivedere il lato bisbetico e scassa palle di mia madre, quello che mi dava sempre sui nervi perché lei non poteva fare a meno di commentare le cose che mi riguardavano, in quel momento mi fece sorridere sotto i baffi. Almeno sapevo che mia madre non sarebbe cambiata del tutto.

‘Vado ancora a scuola…’
Secondo mia madre poi,  non sarei nemmeno riuscita a superare l’esame dell’ultimo anno.
A quanto pare nella nuova vita che doveva ‘migliorarmi’ quella in cui vivevo, stavano solo accadendo cose spiacevoli.
Quello stare là seduta sul letto, con la testa fra le mani senza una certezza, a pensare e strapensare alla stessa cosa, era una delle situazioni più deprimenti che mi ero ritrovata ad affrontare.
Avevo quella fastidiosa sensazione di avere la soluzione a portata di mano, o di conoscere quello che mi aspettava, che mi esasperava ancora di più.
‘Essere uno zombie non porta nulla di buono’ finalmente ammisi a malincuore a me stessa,  che dovevo alzare il culo e mettermi a studiare.

Non ero mai stata brava a gestire le cose, forse perché non mi ero mai cimentata sul serio, di conseguenza mi risultava impossibile riuscire a studiare tutte quelle materie scritte in bella grafia nella prima paginetta del mio diario.
Ero entrata nel sogno verso il pomeriggio, per tornare a casa e provare a ‘studiare’. Sia Joe che Jennifer non si erano fatti vivi, ma alla fine avevo capito da sola che se non volevo vivere un presente in cui ero ripetente e dovevo ottenere il diploma, mi toccava studiare nel passato…o comunque aprire almeno un libro e inserire nel mio corpo le informazioni necessarie.
Il problema era che l’enorme quantità di lavoro da svolgere di cui già tristemente ero a conoscenza, si era ingigantita ancora di più non appena mi ero seduta davanti alla scrivania della mia camera nel sogno.
Speravo che magari le mie conoscenze da ventenne potessero tornarmi utili e facilitarmi il ripasso di tutta quella roba, invece mi ero resa conto che non mi ricordavo nulla, che in matematica mi sembrava tutto un ammasso di numeri e lettere e persino in letteratura non ricordavo nemmeno il nome di un autore!
Che disastro! Ed io che ero partita con le migliori intenzioni…
Avevo assolutamente bisogno di una mano, soprattutto perché le parole ‘verifica di scienze’ cerchiate in rosso sulla pagina dei compiti per il giorno seguente mi allarmava un sacco.
Prima di mettermi a studiare poi, avevo fatto una specie di tabella con tutte le informazioni che riuscivo a reperire dalla mia agenda, in cui praticamente il voto più alto che avevo era la sufficienza ogni tre materie.
Lanciai il diario contro l’armadio dalla rabbia.
La mia vita da ventenne che consideravo da sfigati quando espressi il desiderio con Macy, in quel momento mi sembrava il paradiso.
Non volevo fare niente, non volevo immischiarmi in cose più grandi di me, volevo fare l’apatica e ignorare tutto e invece? Ero costretta ad infrangere il piano-zombie che mi ero fatta all’inizio di quella pazzia per evitare di peggiorare ancora di più la situazione.
Presi quel Nokia preistorico dal comodino e cercai il numero di Rose. Avrei chiesto a lei di aiutarmi.
Era da poco che la conoscevo, non sapevo come fosse il nostro rapporto, ma era l’unica persona che poteva aiutarmi. Non sapevo neanche se andava bene a scuola…
Rispose al terzo squillo.
«Pronto Cher!» era una voce così solare ed amichevole che quasi mi vergognai di chiederle di venire ad aiutarmi.
«Ehi, Rosie!» quanto ero squallida, riuscivo persino a recitare e imitare il suo tono allegro.
Ci fu un attimo di silenzio, sapevo che dovevo parlare io per spiegare il motivo della chiamata, ma non sapevo come dirglielo: un po’ perché mi vergognavo e un po’ perché temevo un rifiuto.
«Ti andrebbe di studiare insieme per la verifica di scienze?» dissi tutto d’un fiato.
Attesi una risposta che non tardò ad arrivare.
«Oh, mi chiami giusto in tempo! Stavo per chiederti se potevo venire da te a studiare dato che a casa ci sono degli amici di mio padre che urlano al posto di parlare!»
‘Beh dai, allora non sono così cattiva quanto pensavo, anche a lei serve un posto per studiare’
«Allora è perfetto, vieni da me, ti aspetto…»
Davo per scontato che Rose conoscesse il mio indirizzo e che appena arrivata a casa mi sarei dovuta sforzare per trattarla come non fosse una totale estranea per me.
Passammo davvero molto tempo insieme a  ripetere, sottolineare e appuntarci i concetti principali su vari bigliettini che ci sarebbero tornati utili e alla fine si fece ora di cena.
Scoprii che Rose a differenza mia andava discretamente a scuola ed era una ragazza piena di risorse, sveglia e iperattiva – cosa che non mi andava molto a genio.
«Se vuoi puoi rimanere da noi» le disse mia madre che nel frattempo era rincasata e si era complimentata con me per aver deciso di fare qualcosa verso la scuola.
A quanto pareva, mia madre e Rose già si conoscevano.
La risposta al suo invito ovviamente fu un netto ‘Sì’ con un gran sorrisone, che ricambiai imbarazzata da tutta la sua felicità. Stranamente Rose non mi trovava antipatica come avrebbe potuto pensare benissimo una persona normale che si ritrovava a parlare con una ragazza che risponde a monosillabi, annuisce e fa sorrisetti di circostanza.
«Temo di rischiare la bocciatura» sbottai ad un tratto mentre eravamo tornate a studiare le ultime pagine.
«Sul serio?» chiese lei inarcando il sopracciglio e spalancando gli occhi.
«Sì – sospirai – ho fatto una breve analisi e con i voti che ho non credo di superare l’anno»
Continuava a guardarmi confusa, non so per quale motivo stavo tirando fuori quel discorso, anzi una parte di me sapeva che mi avrebbe fatto comodo usare Rose come appoggio per la scuola, ma in fondo era una persona reale, non potevo trattarla in quel modo.
«Inoltre – continuai lasciando che parlasse il mio egoismo – non sono davvero capace a studiare o mettermi in riga, da sola non ce la farei mai…» 
Ci fu silenzio: in un primo momento credetti che Rose aveva capito che ero una stronza e mi stava mandando a fanculo mentalmente e aveva volutamente ignorato di rispondermi, così non aggiunsi nulla e tornai a leggere il paragrafo di scienze.
«C’è uno dell’altra sezione – esordì improvvisamente – che va benissimo a scuola. E’ William Sweeny»
Inarcai il sopracciglio.
«Quello di cui straparla sempre la professoressa Bones…»
«Ahh – sospirai – quel secchione, sì, sì ho capito» la assecondai.
«Beh – si sedette sul mio letto affianco a me – potrei chiedergli se fa ripetizioni o se possiamo studiare con lui dato che fa il nostro stesso anno…»
«Dici?» le chiesi cercando di capire meglio come voleva organizzarsi.
«Sì – confermò – domani vado a parlargli»
«Va bene…» aggiunsi senza sapere cosa dire di preciso.
Alla fine, finimmo di studiare verso le dieci. Mi sentivo soddisfatta e sapevo che comunque potevo contare sulle parole chiave che avevo scritto su un bigliettino grande quanto l’unghia di un alluce.
Prima di andare e salire in macchina di sua madre, Rose mi guardò con una smorfia seria dicendo: «Chocolat, il massimo impegno»
«Il massimo impegno» ribadii cercando di mostrarmi convinta.
Ma dovevo farlo, non avevo altra scelta. Chissà quante volte ancora mi avrebbero bocciato? 
Dovevo seriamente studiare se non volevo ritrovarmi in un presente bocciata mille volte al secondo anno di liceo.

Quando mi svegliai, mi alzai in fretta e furia per controllare se la sveglia ci fosse, se il mio passato fosse ulteriormente cambiato. 
Cercai lo zaino che avevo lasciato ai piedi della scrivania ma…era tutto sparito.
La prima cosa che feci, dopo aver fatto normalmente colazione, fu chiedere a mia madre come me l’ero cavata al liceo.
«Non eri un granché. Passavi l’anno con la sufficienza. Non ti stupire se non hai superato gli esami d’ammissione»
La guardai stranita, ma ovviamente il suo immancabile commento da stronza acida di prima categoria non poteva mancare: «E tu che speravi in una borsa di studio! A calci in culo la danno a quelle come te»
Non finii neanche di mangiare l’ultimo biscotto, che era rimasto solo nel piattino di ceramica al centro del tavolo. Quando faceva così mia madre era insopportabile, l’unico rimedio per evitare che le tirassi il tavolo addosso era quello di andarmene.
‘Okay – dissi una volta entrata in camera  mia – se non voglio essere bocciata devo studiare, almeno un minimo. In modo da avere i miei soliti voti’
In pratica, se avevo capito bene, quando non avevo studiato, avevo lasciato che il mio corpo svolgesse in modalità zombie la verifica e avevo deciso che avrei applicato questo metodo da nullafacente, lo spazio-tempo era cambiato adattandosi ad una me che per davvero guardava solo la copertina dei libri di testo e di conseguenza era stata bocciata…ma nel momento in cui ero rientrata nel passato il giorno seguente e avevo deciso che mi sarei impegnata un minimo e avevo fatto i compiti con Rose, lo spazio tempo si era nuovamente modificato tornando a vivere un presente in cui avevo i voti appena sufficienti ma che non bastavano per l’ammissione all’università.
‘Che cosa contorta…’
Mi toccava impegnarmi un minimo, magari avrei chiesto a Rose di darmi una mano qualche volta invece di coinvolgere anche quel William Sweeny.
Dopo tutto non avevo intenzione di trovarmi nuove sorprese, meno amici avevo, meglio era.

 
#Dattebayo
Voglio solo ringraziare tutti voi che state leggendo questa storia e Miriam che mi ha aiutata con questo capitolo.
Scusate ma non so cosa aggiungere, mio nonno è morto martedì e già è tanto se sto postando il capitolo.
Ringrazio in anticipo chi recensirà, se avete dei dubbi chiedete pure e risponderò nelle recensioni. 
Purtroppo non riesco a pensare molto e non riesco a commentare come mio solito questo capitolo.
Scusatemi tutti

Ah, sì, vi avviso che dal prossimo capitolo Chocolat inizierà a fare quello che tutti speravano. Compresa me.
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 
Capitolo 6
 
Più conoscevo Rose, più pensavo che fosse migliore di me e mi sentivo in colpa per tutto quello che le stavo facendo fare per conto mio, ma le ero veramente grata: in una manciata di minuti, dopo essersi allontanata per parlare con William Sweeny, era tornata da me con un sorrisone.
«Iniziamo domani a casa sua, studiamo con lui!»
Sorrisi di circostanza come mio solito, per farle vedere che ero contenta che avesse convinto quel ragazzo. Nonostante inizialmente non avessi avuto intenzione di studiare di più e conoscere altre persone, Rosie era riuscita a convincermi dicendo:«Se riusciamo ad avere dei buoni voti, in futuro potremmo avere delle borse di studio per l’Università»
Borse di studio e Università erano le due parole che nella mia vita da ventenne desideravo più dell’oro. Mi sarebbe piaciuto diventare un architetto, un’arredatrice di interni, una garden desiner o cose del genere in quel settore, ma se volevo trovare un lavoro del genere, il foglio del diploma non serviva a nulla.
In effetti, il ragionamento di Rose non faceva una piega: studiare, andare bene a scuola= borsa di studio e università finito il liceo.
Non avevo mai visto bene William, forse di sfuggita a scuola, finchè il giorno dopo andai a casa sua con Rose: era un ragazzo alto, con una maggiore quantità di brufoli di Harry, ma dei bellissimi occhi azzurri in contrasto con i capelli castani acconciati alla leccata di vacca.
Appena arrivate, ci fece accomodare nella sala da pranzo e sua madre, Emma, ci offrì i biscotti che aveva preparato sua nonna dicendo: «Non capita molto spesso che qui ci siano ragazze»
William arrossì e fece il gesto di andare via a sua madre, che dopo poco uscì di casa per andare a portare suo fratello di sei anni a casa di un amichetto.
In un primo momento, Rose e William si confrontarono sul programma delle varie materie per capire se eravamo allo stesso punto dei libri di testo e organizzarsi sulle cose da studiare.
Nonostante fosse un tipo gentile e davvero disponibile, io non riuscivo a sentirmi a mio agio in quella situazione, mi sentivo il terzo incomodo.
Ogni volta che provavamo un esercizio, Rose e William lo finivano contemporaneamente oppure se entrambe incontravamo delle difficoltà, Rose capiva al volo la spiegazione e William le sorrideva mentre io facevo più fatica.
Forse non lo facevano apposta, ma con quella specie d’intesa che avevano creato in un’ora erano riusciti ad estromettermi dalla situazione. Persino mentre ci fermavamo a mangiare un paio di biscotti loro chiacchieravano ed io li ascoltavo in silenzio.
 
Ci vollero più o meno altre tre settimane affinchè lo spazio-tempo capì che ero davvero intenzionata a studiare e i miei voti iniziassero a superare, anche se di poco, la sufficienza.
Questo però, non bastava a garantirmi una borsa di studio per l’Università: avevo interrogato mia madre nel presente e mi aveva riferito che gli esami d’ammissione li avevo superati, ma dato  che mia madre non poteva permettersi di spendere la somma d’iscrizione  ed io non ero abbastanza brava da meritare un aiuto economico, non ero riuscita ad entrare.
Da un lato la cosa mi aveva buttato giù, dall’altro invece mi aveva fatto capire che stavo proseguendo nella giusta direzione, ma mancava qualcosa…e a mio malincuore, anche se non amavo fare il terzo incomodo fra Rose e William, ammisi che se avessi aumentato gli incontri di studio forse sarei riuscita nel mio intento.
Quel giorno nel sogno, mentre camminavo per le stradine di Holmes Chapel con l’immancabile ombrello a portata di mano, ero combattuta se proporglielo oppure no.
E se a Rose e Will bastasse quello che già avevano? Oppure mi avrebbero capita e si sarebbero trovati d’accordo.
Bussai alla porta, aspettandomi che venisse Rose ad aprirmi, ormai aveva preso l’abitudine di arrivare sempre mezz’ora prima di me ed invece, mi ritrovai faccia a faccia con Harry Styles.
«Ciao -dissi imbarazzata- Em…io credevo che qui abitasse William Sweeny, forse ho sbagliato casa»
‘Che idiota sei, ma come parli?!’ mi dissi guardando altrove.
«No, no – rispose Harry con la voce più roca del solito – abita qui. Will, è arrivata Chocolat!» aggiunse urlando verso l’interno della casa.
«Falla entrare, mica la vuoi tenere fuori al freddo, idiota!» sentii la voce di Rose che sghignazzava allegramente.
«Senti chi parla! - ribatté Harry scuotendo la testa con un sorrisetto – sembra fatta di peperoncino questa ragazza» mi disse sposandosi per farmi entrare.
Appena raggiunsi la sala da pranzo e posai sul tavolo le mie cose, guardai Rose con aria interrogativa, della serie: ‘Che cosa ci fa lui qui?!’, molto tipica dei film.
«Harry e William sono migliori amici» esordì dopo aver sorriso maliziosa.
‘Ah ecco, adesso si spiega tutto’
«Oggi mi unisco alla vostra equipe di grandi studiosi» m’informò Harry quando posai lo sguardo sull’astuccio estraneo dall’altro lato del tavolo.
«Ma non fare il commediante, caprone, che mi hai pregato di aiutarti per la verifica di letteratura» esplose William in una risata coinvolgendo anche Rose.
«Sta zitto – Harry sembrò offeso – che se non intervenivo io non avresti avuto il coraggio di chiederle di uscire!»
Un altro sguardo assassino verso Rose: ‘Ti ha chiesto di uscire?!?’
Lei annuì sorridendo.
‘E tu?!’
Fece nuovamente cenno di sì.
«Okay, Okay, ora basta facciamo i seri» disse William aprendo il libro d’inglese.
Nel momento in cui mi accorsi che persino Harry riusciva a parlare allegramente con William e Rose senza sembrare il terzo incomodo, capii che ero io che non sapevo relazionarmi con una persona e venivo bloccata dalla timidezza.
Anzi, con Harry era anche più difficile sentirmi a mio agio a parlare ed ovviamente Rose, da pettegola, doveva farlo notare anche agli altri: «Ehi Cher, ma ti hanno mangiato la lingua?»
Quando lo disse Harry e William alzarono lo sguardo e mi fissarono.
‘Maledetta stronza, vedi come ti metto sottosopra appena usciamo da qua’
«No – risposi scandendo bene le parole – è che…»
Non mi sarei lasciata intimidire da Harry Styles, ne tanto meno da Rose e le sue battute stupide.
«Stavo pensando che potremmo studiare di più, magari vederci anche domani ad esempio…» e buttai lì la mia proposta, come un piatto in tavola, aspettando che qualcuno rispondesse.
«Io magari potrei aggiungermi a voi sempre più spesso…» aggiunse Harry e guardò Will con uno strano sguardo.
«Ma sì dai - disse Rose prendendo il diario – almeno stiamo tutti insieme e non da soli»
Infine, guardammo tutti e tre William, il nostro genio che avrebbe dovuto sgobbare di più per noi comuni mortali.
«Si può fare»
‘Evviva! Ho raggiunto il mio obbiettivo!!’
 
Dopo un po’, Avevo  iniziato a ‘convivere’ con la mia vita alternativa dei sogni, tant’è che quando andavo a dormire nel presente, sceglievo di risvegliarmi nel passato in tempo per andare a scuola, in modo da accertarmi che facessi bene le verifiche e alzassi la mano ogni tanto per farmi vedere partecipe alla lezione.
Non c’erano stati particolari cambiamenti nel presente, l’unica cosa che cambiava a poco a poco era solo il mio andamento scolastico che migliorava.
Jennifer la vedevo spesso nel passato a casa a chiacchierare con mia madre e Joe si era fatto sentire solo una volta, per dirmi che mi stavo abituando a questi sogni e a malincuore aveva ammesso che stavo anche affinando il controllo nell’influenza le cose.
Ed eccomi di nuovo per le strade di Holmes Chapel mentre correvo sotto la pioggia per arrivare in tempo a scuola. Quella mattina mi ero svegliata in ritardo, mia madre era già andata a lavoro e neanche chiudendo gli occhi e desiderando di essere già vestita ero riuscita a darmi qualche vantaggio.
Il peggio dell’Inghilterra è quel venticello del cazzo che inclina la pioggia in modo da rendere l’ombrello del tutto inutile.
«Dio mio, sono tutta bagnata!» esclamai guardando com’ero conciata.
«Ah beh, se io ti sembro messo meglio…» mi voltai e vidi Harry con i capelli attaccati al viso e le goccioline che scendevano dalla punte dei capelli.
«Ehi, ciao, Harry»
«Ciao Cher»  rispose sorridendo.
«Niente ombrello?» chiesi inarcando il sopracciglio.
«Oggi mi sono svegliato in ritardo, quindi me lo sono scordato» ammise imbarazzato ed insieme ci avviammo verso i bagni per asciugarci.
«Credo che entreremo in seconda ora» aggiunsi guardando le mie e le sue condizioni, menomale che avevo indossato gli stivali di gomma, altrimenti l’acqua mi sarebbe entrata persino nelle scarpe.
A differenza di Bristol la scuola ad Holmes Chapel era più pulita e fornita: nei bagni c’era persino il phon ad aria calda che asciugava le mani!
Quando uscii, sperai che Harry mi avesse aspettato o stesse per uscire dal bagno maschile, non sapevo per quale motivo mi ritrovai ad aspettare cinque minuti fuori in corridoio, per poi darmi della stupida e tornare in classe.
Mi sedetti al mio posto, chiedendo scusa alla professoressa ed indicando le chiazze umide sui miei vestiti ed i capelli ancora leggermente bagnati.
Lei annuì leggermente e mi avviai al mio posto, salutai con lo sguardo Rose e quando mi avvicinai al mio banco vidi che Harry non era ancora rientrato in classe.
‘In effetti era messo peggio di me’ pensai rincuorata dal fatto che non se ne fosse andato senza aspettarmi.
Verso la ricreazione richiesi conferma a Rose per l’incontro di studio extra di quel giorno.
«Sì, ci vediamo nuovamente a casa di William alla stessa ora» rispose mentre si mangiava  dei biscotti.
Andare a casa di Will e non fargli smuovere il culo era il minimo che gli dovevamo e potevamo fare per ringraziarlo del suo aiuto. Ma dopo tutto… non gli dispiaceva ormai passare il tempo con Rose, dato che l’aveva persino invitata ad uscire quel sabato.
Quella settimana fortunatamente  non c’erano verifiche, ma conoscendo il mio cervello, se non ripassavo avrei scordato tutto nel giro di pochi giorni.
Quando tornai a casa, sperai che mia madre mi avesse preparato il pranzo ed immaginai che sul mio letto ci fossero i vestiti appena lavati e stirati.
‘Ah almeno questa è una cosa positiva’ pensai rincasando e trovando un biglietto con ‘ il pranzo è nel frigo’ e vedendo in camera gli abiti piegati. Potevo far accadere tutto ciò che volevo, doveva soltanto essere una cosa possibile in base al tempo in cui mi trovavo, alle possibilità economiche ed altre circostanze del genere.
Certo, potevano succedere piccole cose e potevo cambiare solo alcuni dettagli, ma sinceramente era meglio che niente. Jennifer mi aveva spiegato che nonostante fosse un sogno, quello che stavo vivendo era anche una cosa vera e per mantenerla in modo realistico non potevo immaginarmi cose come unicorni, vampiri, concerti dei Jonas Brothers sotto casa e similari.
Prima di andare a casa di Will chiusi gli occhi e desiderai che al posto dell’ombrello inutile che stringevo in mano, indossassi un impermeabile bianco sopra la tuta azzurra.
Un’altra qualità di William, oltre la pazienza, era il suo modo di parlare: era fluido e aveva sempre la risposta pronta con le cose giuste da dire. Avrebbe potuto benissimo fare l’insegnante, soprattutto perché riusciva a spiegarmi e farmi digerire o addirittura farmi interessare ad argomenti che in classe i professori non erano riusciti a farmi apprezzare.
Sembrava avessi una specie di gene del ritardo e mi ritrovai a correre per i marciapiedi sperando di arrivare in tempo.
Con il fiatone e le gambe che non vedevano l’ora di sedersi citofonai esausta al campanello.
Non fui sorpresa di ritrovarmelo davanti: «Ciao Harry, sono stanca morta»
In un certo senso avevo acquistato confidenza con lui, che a differenza di Will e Rose non mi aveva mai fatto battutine per mettermi a disagio.
«Lo vedo» disse facendomi passare.
«Ragazzi – esordii alzando la voce per farmi sentire – facciamo un attimo di pausa, non ho la forza di aprire un libro al momento» finii di appendere le mie cose in corridoio e mi voltai verso la cucina.
«Non credo ci sia bisogno di chiedere una pausa» commentò Harry alle mie spalle, mentre fissavo con aria interrogativa la sala da pranzo vuota con gli zaini di Rose e Will sulle sedie.
Mi voltai verso di Harry, che precedendomi leggendo il mio sguardo rispose:«Timmy stava giocando in salone, anzi correva e quando è inciampato sul divano ha sbattuto il mento per terra»
«Non lo voglio sapere…» mormorai pensando schifata al sangue della ferita.
«Non ti preoccupare, prima di uscire Emma mi ha detto dove trovare il panno e l’alcol e ho disinfettato tutto»
«Sono al pronto soccorso?» chiesi, ma già sapevo la risposta.
«Sì – disse con voce ferma – quando sono arrivato io era appena successo il macello, tant’è che mi ha aperto Rose che aveva già il capotto mentre Will teneva in braccio suo fratello con un pacco di ghiaccio sul viso»
Annuii avendo inquadrato la situazione.
«Anche se lo chiama peste, Will è molto protettivo verso Timmy» esordì Harry.
«Già» fu tutto quello che uscii dalla mia bocca.
Poi, silenzio.
Il più assoluto silenzio, si sentivano persino le lancette dell’orologio della cucina che ticchettavano.
Ormai era evidente che per oggi non sarebbe successo nulla, magari io ed Harry avremmo potuto avvantaggiarci qualcosa o sarei direttamente potuta tornare a casa.
«Beh ma… -dissi con un velo di imbarazzo – non disturbiamo a stare qui senza padroni di casa?»
Non guardai in faccia Harry e attesi una risposta.
«Il problema è che nella fretta Emma si è scordata le chiavi sulla mensola» indicò vicino a me.
Io di sicuro potevo andarmene, ma avrei fatto la figura della maleducata ed egoista, soprattutto perché avrei lasciato solo Harry e poi… cosa avrebbero pensato Rose e Will al loro ritorno?
‘Chocolat è passata, ma quando ha visto che non c’eravate se n’è andata subito’ immaginai la voce di Harry e le facce contrariate che avrebbero fatto.
«Magari possiamo svolgere gli esercizi a pagina 215 se ti va …-proposi avvicinandomi al tavolo – così quando tornano glie li facciamo copiare» di sicuro non sarei rimasta nell’imbarazzo totale in silenzio con Harry a fianco.
«Ottima idea!»
Non è che Harry fosse stupido, ma la maggior parte delle volte che doveva applicarsi, se era in gruppo faceva sempre di tutto per distrarsi e concentrare tutta l’attenzione su di lui.
Stavolta, invece di fare lo scemetto, si concentrò e finì prima di me gli esercizi di chimica, così copiai le ultime righe da lui.
«Grazie» dissi infine.
Di nuovo silenzio, ne io ne Harry sapevamo cosa dire, il che era piuttosto imbarazzante: un conto era scambiarsi qualche parola mentre compilavamo il libro, un altro conto era rimanere seduti uno di fronte all’altra senza nulla da fare.
«Ti va di…- disse tutto ad un tratto – ti va di disegnare?»
Alzai immediatamente la testa sorpresa da ciò che mi aveva chiesto.
«Disegnare?» domandai guardandolo mentre guardava in basso verso il tavolo.
«Beh – iniziò a girare i pollici – io ti ho visto, ti vedo a lezione  mentre scarabocchi sul quaderno degli appunti…»
Schiusi le labbra e finalmente Harry mi guardò.
«E comunque il disegno dell’aquila era bellissimo» aggiunse sorridendo.
«Grazie» annuii arrossendo.
‘Oddio, perché mi sto sentendo così’ mi chiesi, sapevo che dovevo rispondere qualcosa oltre al ringraziamento, ma rimasi a fissarlo per una manciata di secondi mentre la sua espressione tornava seria.
«Va  bene – risposi prendendo una matita e aprendo una pagina del quaderno a caso – ti avverto che comunque non sono così brava»
«Shhh» mi zittì.
«Okay – sospirai attirando la sua attenzione – cosa vuoi che disegni?»
«Non lo so – ammise stringendosi nelle spalle – quello che vuoi» e continuava a guardarmi dritto negli occhi e immaginai che nessuno dei due conoscesse il motivo per cui non interrompevamo quel contatto visivo.
Non c’era imbarazzo, lo guardavo e basta, osservavo la sua pupilla nera in cui vedevo il mio riflesso, l’iride verde-grigio piena di sfumature, le ciglia nere e il modo in cui le sopraciglia gli contornavano gli occhi.
Senza accorgermene, puntai la matita sul foglio e cominciai a tracciare linee.
Quando mi chinavo per disegnare, con la coda dell’occhio lo beccavo che si sporgeva curioso a sbirciare il foglio, quando alzavo la testa, tornava a guardarmi dritto negli occhi.
Alla fine, quando fu il momento di passare alle sfumature,  cercai una matita nera e una gomma con i bordi spigolosi ed iniziai a pensare ai dettagli e i punti luce.
Non mi ci volle tanto tempo. Infondo, stavo solo disegnando degli occhi, e il suo sguardo aveva  catturato così tanto la mia attenzione, da ispirarmi.
Posai la matita sul tavolo e abbassai lo sguardo.
Non ero sicura di volergli passare il quaderno per fargli vedere il risultato finale.
Rimasi a fissare il ritratto senza sapere cosa stavo facendo.
«Sono davvero colpito – esclamò alle mie spalle facendomi sobbalzare – sembra che mi stia fissando allo specchio» non mi ero accorta che si fosse alzato in piedi.
Sorrisi leggermente.
«Non è niente di che…» risposi.
«Ah – replicò facendo una smorfia – non fare la modesta con me, tutti sono bravi in qualcosa. Siamo tutti diversi e abbiamo talenti diversi. Io sto cercando ancora di capire quale sia il mio, forse il canto mah…chi lo sa?»
Fece le spallucce con quell’espressione cordiale che sembrava non abbandonargli mai il viso.
«Ma sono comunque sicuro che il tuo sia un dono!»
Sorrisi nuovamente.
‘Harry Styles degli One Direction…’
Oh, dovevo farlo, dovevo chiedergli di cantare, perchè era ovvio che sapeva cantare.
«Fammi sentire qualcosa» gli chiesi inarcando il sopracciglio. Avevo un’espressione che diceva ‘ora è il tuo turno’.
Improvvisamente bussarono alla porta, Harry si precipitò ad aprire lasciandomi da sola con il disegno in mano.
Guardai un attimo fuori dalla finestra e notai che senza rendercene conto si era fatto buio, sentii qualcuno entrare e poi guardai l’orologio: era quasi l’ora di cena.
«Harry» riconobbi la voce di Will e mi affrettai a nascondere il ritratto degli occhi di Harry.
«Sì, scusa amico, abbiamo avuto dei problemi, c’era fila e quando è successo è stato improvviso che siamo subito andati in panico- sentivo William parlare ancora vicino l’ingresso – No, Rose l’abbiamo riaccompagnata a casa, vi ringrazio per essere rimasti, avevamo persino lasciato le chiavi qui – rimisi tutto nel mio zaino e mi avvicinai a loro – Davvero Harry, grazie…Oh Chocolat, vieni, ti riaccompagnamo a casa. Tu invece puoi restare a cena se vuoi»
«Oh, per me va benissimo» gli rispose Harry.
Intanto mi avvicinai all’appendiabiti.
«Sarà per la prossima volta…» mormorai lasciando William perplesso e Harry con un ghigno imbarazzato.
«Se vuoi, puoi venire questo sabato alle prove del nostro gruppo» disse mentre mi infilavo l’impermeabile.
Lo guardai un attimo e colsi lo sguardo complice che lanciò a Will, che si limitò ad annuire.


 
#Dattebayo
Io mi scuso infinitamente per il ritardo che ho impiegato nell'aggiornare questa fanfiction. Quest'anno è stato molto difficile per quanto riguarda le fanfiction, mi dispiace averci messo cos' tanto a rimettermi a posto, ma dopo tutto... anno nuovo vita nuova :)
Spero di sapere se la storia vi piace, grazie a tutti quelli che continuano a seguirla! :D
 

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