La pasta alle tartarughe

di Checie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** La mucca del centro commerciale D+ ***
Capitolo 3: *** Galeotto fu il Toffly e chi lo portò a catechismo ***
Capitolo 4: *** La ciurma (prego prendere le distanze da ognuno dei membri) ***
Capitolo 5: *** La ciurma 2 (le distanze prendetele comunque, se non di più) ***
Capitolo 6: *** Artedanza is the word! ***
Capitolo 7: *** La voce dell'altoparlante (e altri personaggi da spiaggia) ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


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BREVE INTERVENTO PRELETTURA: lo so, lo so che devo stare dietro ad altre due fic, ma questa ce l’ho già praticamente fatta nel computer, sarebbe stato un peccato non approfittarne….il primo capitolo è solo un brevissima introduzione, posterò il primo capitolo quanto prima…fatemi sapere cosa ne pensate!

 

 

 

 

La mia vita è bella e perfetta come una pubblicità del Mulino Bianco, io sembro Tyra Banks (conto in banca compreso), la mia famiglia è quella reale di Windsor e la mia casa è l’ultima opera di un pazzo arredatore tahitiano che si fa pagare in strisce di cocaina. L’unica cosa verosimile è l’ultima dell’elenco, anche se probabilmente l’arredatore viene dalla Brianza e nel taschino ha un santino di Borghezio.
E va bene, e va bene. Punto primo: non sono Tyra Banks. Spiacenti, signori miei, ma non sono nera, statuaria, con una mia linea di biancheria (anche se forse dovrei investire di più sui miei slip sporchi sparsi per la camera) e non sono una top model strapagata.
Punto secondo: la mia vita, ben lungi dal sembrare uno spot Mulino Bianco, sembra più quella di una reclame del Lidl, molto carina e colorata, ma fondamentalmente inutile. Insomma, al Lidl, non ci vado certo per comprare una rasapeli del naso e dell’addome (anche se la signorina dello spot ne sembra così entusiasta), ci vado perché il latte e il detersivo costano meno, e le confezioni sono scritte tutte in tedesco (ottimo esercizio per una che, come me, il tedesco lo studia). Detto questo, sono stata al Lidl una volta sola, e per fortuna i miei si rifiutano di comprare quella roba.
Punto terzo: non appartengo alla famiglia reale di Windsor. E, se devo dirla tutta, ne sono piuttosto felice. Grazie al cielo mia madre non si è fatta maciullare in incidente d’auto insieme ad un milionario arabo (o era egiziano?), non ho una matrigna che sembra una cavalla e mio padre non ha la stessa faccia di un montone pressato. L’unico dispiacere è non avere William come fratello. E poi mia nonna è molto meglio della Regina Elisabetta (forse non ha il suo stesso potere, ma almeno non si mette dei cappellini che sembrano pacchi dono alimentari di Natale. Mia nonna, i pacchi dono alimentari, si limita a mangiarli). Altra cosa: a casa mia l’unica etichetta è quella che sta appiccicata sulla copertina dei libri di scuola e non devo mettermi un completo di Chanel ogni volta che vado dal giornalaio. Anche se, a pensarci bene, forse non mi dispiacerebbe poi molto. Non presenzio ai ricevimenti, non ho tagliato nessun nastro all’infuori di quello adesivo, non indosso stampe scozzesi e la macchina di famiglia è una Scènic blu del 2000, però almeno si guida dalla parte giusta, non frequento Eton, ma il San Benedetto (e scommetto che a Eton non ce l’hanno una Preside come Donna Lucia) e non sono costretta a vedere Tony Blair ogni weekend, cosa che può solo farmi bene.
Obiettivamente sono soddisfatta. Soddisfatta su ogni punto. Soddisfatta di abitare a Montagnana (ok, nessuno la conosce, e la cosa non mi stupisce per nulla), di avere amiche come la Giugi, la Glo, la Chia, la Marti, la Michi eccetera eccetera, di essere a 50 km dal mondo civile e di conoscere più contadini della Confagricoltura. Non siamo tutti Donatella Versace, il mondo è popolato di comuni mortali e posso affermare piena d’orgoglio di appartenere alla categoria. Non è una cosa come l’orgoglio Padano, che è un chiaro esempio di rimbecillimento acuto della società, è più un: “sono quello che sono e non c’è niente di male in questo”. Ehi, anche a me piacerebbe alzarmi la mattina, infilare la divisa di un collegio superprestigioso e parlare per ore di quanto è bella la mia nuova borsa di Balenciaga, ma nella mia scuola la borsa di Balenciaga non ce l’ha nessuno (ma ne conosco due che sbaverebbero per averla) e abbiamo anche altri argomenti di conversazione. Con questo non voglio dire che siamo dei supergeni sempre immersi in discussioni parafilosofiche sui perché e i percome della vita, semplicemente non serve avere il numero di Karl Lagerfeld nell’agenda per essere delle persone che valgono qualcosa.

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Capitolo 2
*** La mucca del centro commerciale D+ ***


Pasta2 Questo è il primo vero capitolo...fatemi sapere!









Sono stata una bambina felice e spensierata, una simpatica pupattola con la stazza di una balenottera nana, ma con la loquacità di un’ultranovantenne, di quelle che mettono ancora il centrino ricamato sul televisore in bianco e nero. Ho camminato presto, parlato presto (troppo), l’unica cosa che tardava era la dentatura, ma questo non comprometteva l’introito quotidiano di cibo. A dirla tutta, sono stata orribilmente magra e accanita consumatrice di broccoletti e formaggino Mio fino al giorno in cui mi hanno tolto le tonsille ed ho scoperto il potere dei grassi, approdando nel felice mondo di cioccolato e affini. Questo, devo ammettere, ha avuto un effetto immediato sulla mia allora splendida silhouette, facendomi passare da una flessuosa lattante ad una bimba cicciotta, innamorata dei lupetti di ciniglia color Gianduiotto (e l’effetto, addosso, non era molto diverso da quello di un mega cioccolatino umano). Il tutto per la gioia della nonna, che è da sempre in pensiero per la forma fisica dei suoi familiari (credo che il suo sogno segreto sia di vederci superare tutti il quintale, e fa del suo meglio per aiutarci nell’ardua impresa). La mia infanzia è stata scandita da gloriosi anni d’asilo, passati felicemente a fare la pipì nelle pentoline giocattolo e a bere tutti dallo stesso bicchiere. Il ricordo più vivido è quello della piscina: ogni anno, a giugno, puntualmente, le suore tiravano fuori un vaschino 2x2 gonfiabile e lo piazzavano nel mezzo del giardino, ci addossavano il mitico scivolo Chicco di plastica rossa e noi, in fila indiana, aspettavamo pazientemente di fare un tuffo, per poi uscire immediatamente dall’acqua ad altezza bidet e rimetterci ordinatamente in fila. Però, forse, più della piscina, i momenti di panico erano creati dalle recite natalizie, con l’immancabile storia di Maria e Giuseppe e gli angioletti bianchi. Naturalmente più si era grandi, più si poteva ambire a ruoli di prestigio e, ovviamente, il sogno di tutte noi era poter interpretare Maria, che veniva scelta tra una di quelle dell’ultimo anno. Quando giunse il mio di ultimo anno, tutto il mio corpo spasimava per diventare Maria, il personaggio perfetto per eccellenza, ma fui elegantemente relegata al ruolo di pastorella, le cui parole “Qua, pecore, qua!”, vengono tuttora ricordate da mio padre come la formazione dell’Inter ’72-’73.
La fine di questa gioia fu dettata dalla famigerata “Primina”, svoltasi durante il mio ultimo anno di scuola materna, in compagnia dell’altrettanto famigerata nonna, ex maestra, che probabilmente si divertiva più di me. Io, in realtà, la volevo fare spinta dalla competizione con mia cugina che, di due anni maggiore di me, l’aveva già fatta. Quindi, non esitai un attimo nella mia scelta, peccato che in mente avessi molte cose, tranne che l’alfabeto e le tabelline. E così, a sei anni, entrai in seconda elementare, dopo un esamino di cui ricordo ancora ogni istante. La mia stupenda classe (la migliore avuta finora) era composta da nove, portentosissimi e bellissimi, ma non tutti, maschi e cinque simpatiche ragazzette fra cui me, la mia migliore amica dell’epoca, una reincarnazione di Courtney Love, una dolce bimba col caschetto ed un’aspirante suora. Nonostante la nostra giovane età avevamo già un discreto occhio per l’altro sesso ed il più amato era Uba, alias Umberto, il dio-delle-bambine. Non c’era una under 11 della bassa padana il cui cuore non battesse per lui, tranne me, ovviamente. Uba era tutto quello che le bambine sognavano: un indisciplinato, ma intelligente, non eccessivamente bello (secondo me), ma carismatico, e via così, passando per dei profondi occhi scuri e un buon gusto in fatto di vestiti. Ma a me non interessavano le idiozie che faceva per mostrarsi abile e potente, a me piaceva Lui, l’angelo dal sorriso di miele, il ragazzo-del-banco-accanto, studioso, intelligente, spiritoso, con un naturale savoir fare. Anche se, a vederlo oggi, ci si chiede se per caso non abbia inghiottito accidentalmente il bambino che è stato. Ad ogni modo, Lui era l’unico per cui i miei sciocchi sogni di bambina vivevano ed ogni sua parola era come cioccolato caldo con i Mars. Io mi credevo bella, era quello che mi dicevano tutti, non mi rendevo conto che me l’avrebbero detto anche se avessi avuto qualche somiglianza con l’Ispettore Derrick, e quindi credevo che prima a poi avrebbe notato la mia così tanto elogiata bellezza, e sarebbe caduto ai miei piedi. Purtroppo, però, a parte suggerirmi la risposta in un paio di verifiche di storia piuttosto ostiche (Chi è Andrea Mantegna e Come si chiama la moglie di Garibaldi), non mosse mai un passo verso di me. Fu allora che mi convinsi di essere una persona di particolare bruttezza, e ammetto di non avere avuto torto. I miei sogni d’amore vennero così brutalmente fustigati per quattro lunghi anni, ma in compenso la mia consapevolezza teatrale cresceva. Sul palco non importava che fossi bella o brutta, lì dominavo perché ero brava. Anzi, bravissima. Ok, lo ammetto, ho peccato moltissimo di modestia, ma le facce estasiate dei miei cari dopo avermi visto interpretare, in seconda elementare, un ciambellano che reggeva un attaccapanni con un panciotto giallo dell’86, mi sono bastate. Ero potente. In seguito, il mio potere fu accresciuto dal fatto che, effettivamente, ero brava. In terza fui un’attrice presuntuosa e lamentosa che capitava n una compagnia di scalzacani, ma fu in quarta che ottenni il massimo: allestimmo My Fair Lady ed io fui scelta per essere Miss Eliza Doolittle. All’epoca ignoravo che al mondo esistesse un musical all’infuori di Grease, e la cosa mi creò qualche dubbio sull’effettivo valore del nostro spettacolo. La mia voce di bimba-contralto (contro tutte le aspettative col passare degli anni sono diventata un trillante soprano) fu messa alla prova da canzoni adatte a festanti ventenni, come la cara Audrey Hepburn, che poi nel film non è nemmeno lei che canta. Io ci capivo poco di musica e sapevo fare parecchie cose, fuorché cantare e, costretta dapprima in un grembiulino floreale cucito per noi dalla mitica bidella Bruna (madre dell’insegnante di teatro), e poi in un tremendo abito fucsia che mi faceva sembrare un pollo 10+ Amadori, non feci esattamente un’ottima figura. O meglio, questo è quello che credo io, per conoscere le opinioni del resto del montagnanese, basti sapere che ancora oggi, dopo sette anni, vengo fermata per strada per “quello splendido My Fair Lady!”. O vivo in un mondo di gente che si accontenta facilmente, o sono troppo esigente. Ai poster l’ardua sentenza. All’anno di quella tremebonda My Fair Lady risale anche un tentativo (da parte mia, della mia migliore amica, del mio “amore” e di un altro bimbo) di lanciarci nella composizione canora, e realizzammo un brano il cui testo è il seguente:

Maria Stuarda
Nella mansarda
Mangia mostarda
Ma che bastarda
Che di cognome è…turututtutu

Ma-ary Stuart
Nella manStuart
Mangia moStuart
Ma che baStuart
Che di cognome è…turututtutu

Giro Francesca
Mangia ventresca
Sulla saracinesca
Che di cognome è…turututtutu

Brunello il bidello
Si mangia un pisello
Dentro al cestello
Che di cognome è…turututtutu…UAH!!!

Non importa se non avete la musica, il risultato non migliora. Questo splendido pezzo era anche accompagnato da un apposito balletto studiato con precisione certosina, che mi rifiuto di descrivere per conservare un po’ di dignità.
Gli anni delle elementari finirono senza troppi tumulti, salvo un tema agli esami finali, in cui chiesi ad una scioccata maestra di matematica come si scriveva “Tannhäuser”, opera di Wagner amata da mio zio, cui avevo dedicato il componimento.

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Capitolo 3
*** Galeotto fu il Toffly e chi lo portò a catechismo ***


Pasta3 E così, senza nemmeno accorgermene, giunse la prima media. Ero eccitatissima. Corso musicale, una sezione con pochi iscritti (tutti geni della musica, pensavo io), avrei imparato a suonare il flauto traverso. Il flauto traverso! Voglio dire, che cos’era ai miei occhi il patetico Yamaha 100% plastica color nocciola con cui ci facevano suonare alle elementari, in confronto ad un tubo di puro argento lungo mezzo metro? Non vedevo l’ora di confrontarmi con i miei compagni di corso sui problemi tecnici dell’esecuzione flautistica, salvo poi scoprire che ero l’unica della classe ad aver scelto quello strumento. Otto persone molto più sagge di me si erano piegate al fascino del piano (che avevo già in casa, ma che mi sembrava scioccamente banale), cinque erano i virtuosi aspiranti chitarristi, due gli alternativi violinisti e poi c’ero io. La quasi flautista.
Un po’ allo sbando, un po’ fiera di essere l’unica, mi chiedevo segretamente se non avrei potuto dare una piega migliore comprando “Poli il polipo” e dandomi da fare sui tasti bianchi e neri. Ogni dubbio venne poi spazzato via con la prima lezione di strumento: il mio insegnante mi aspettava in aula con dei pantaloni a quadretti, delle Prada nere, un panciotto acquamarina di Ralph Lauren ed un sorrisino a dir poco inquietante. Avrei imparato ad odiare quell’uomo. Ed infatti lo odiai profondamente: mi parlava della sua dissenteria, della colonscopia di sua madre, del vivere solo in una casa piena di mobili d’epoca di valore inestimabile e del suo coniglio che aveva (e tuttora ha) una stanza tutta per sé grande tre volte la mia camera da letto. Ho pianto prima di andare a lezione per un sacco di interminabili mercoledì, ma poi, non appena ha smesso di essere il mio insegnante, ho capito il suo valore. Dietro l’ipocondria e la mania per gli abiti costosissimi, c’era davvero un bravissimo insegnante, ma io, coi miei occhi di dodicenne rimbecillita per i troppi “Top Girl” letti, non me n’ero accorta, e mi ero limitata ad odiarlo come una smagliatura sui collant o il vomito sui sedili di una classe S.
Ma a funestare le mie giornate non c’era solo un bizzarro professore di flauto, convivevano anche compagne abbastanza rivoltanti, però devo ammettere che alle medie siamo tutti un po’ rivoltanti, la frustrazione per aver avuto le mestruazioni un anno dopo le altre e il sapere di essere grassa. Il grasso non era un’ossessione, ma ci eravamo quasi. Unico problema: non riuscivo a mettermi a dieta. Era impossibile, era il mio Himalaya da scalare lungo la via della Felicità Eterna, ma non ci riuscivo. Il fascino di una vaschetta di gelato e di due etti di tiramisù casalingo (opera della nonna, e di chi sennò?) era di molto superiore a quello di un addome scolpito o di una minigonna. E così si erano anche abbassate le mie pretese in fatto di ragazzi. In quel periodo avevo un’inspiegabile cotta per un tipo piuttosto bruttino, che era un grazioso incrocio fra ET ed un manzo anoressico, la cui intelligenza e simpatia, però, erano veramente lodevoli. Questa beltà, purtroppo, non mi si filava nemmeno un po’, concentrandosi su una delle ragazze più sgradevolmente piene di sé che abbia mai conosciuto, una bionda col sedere in fuori (la sua scusa era la lordosi, ma credo che ci abbia sempre ricamato su un po’ troppo), un genietto del piano, da sempre asso nelle materie scientifiche e, più recentemente, ladra della mia migliore amica, rea di avermi messo contro tutta la classe e di aver riso abbondantemente della mia sfigataggine che, devo ammettere, doveva essere di dimensioni a dir poco esponenziali. Il fatto che fossi cicciotta, fuori moda, con una sola amica e una specie di invasata dello studio, comunque, non la autorizzava a prendermi in giro e a raccontarmi bugie di una follia esasperante. Questo, devo ammettere, mi ha aiutata non poco a svegliarmi fuori e ad essere parte di quello che sono adesso (e non crediate che sia necessariamente un buon affare).
Quello era, inoltre, il periodo d’esordio di “Tre metri sopra il cielo”. Stava acquistando lentamente un successo strepitoso (anche se per fortuna siamo ben lontani dal potere devastante che ha oggi) e anch’io come tutte le altre mie coetanee mi sono bevuta tutte le sciocche, inutili e dannose parole di Federico Moccia, sognando uno Step tutto per me, delle pericolosissime corse in moto, fughe dalla mia famiglia, ma soprattutto il Vero Amore (che in quel libro, credetemi, non compare proprio mai). Ero tale e quale le mie compagne, superficiale uguale, con gli stessi sogni da manicomio, ma per una qualche ragione non andavo bene. Forse era la scarsa cura di me, o la mancanza di interesse per i pantaloni di pelle colorata e le canzoni di Britney Spears, fatto sta che con le mie “colleghe” ci sono sempre stata poco e molto, molto male. Ma mi sono ribellata, ribellata a tutto quello che facevano e dicevano e potevano anche solo pensare di me (e tuttora lo faccio, ma con più moderazione) anche grazie ad una persona in particolare: Giulia.


Com’è usanza, in seconda media si affronta la famigerata Cresima, o Confermazione che dir si voglia. Io non ho mai brillato per cristianità o eccessiva spiritualità, ma tutti si sorbivano quelle inutili lezioni di catechismo e, per non essere proprio un pesce fuor d’acqua, le frequentai anch’io. Non essendo un ottimo periodo con le mie compagne di classe (per colpa della bionda sopra citata) mi ritrovai di fianco ad una ragazzina che non frequentava la mia stessa classe, di cui non sapevo nulla, bionda (anche lei!), ma dall’aspetto decisamente più simpatico. Sul suo banco c’era un pacchetto di fazzoletti blu con sopra scritto: Toffly. Non potei fare a meno di ridere, era un delle cose più assurde che avessi mai visto e fu l’inizio dell’amicizia. Giulia aveva una comicità un po’ assurda, diceva cose del tipo: “Cederei volentieri la mia ciotola di miglio quotidiana per un po’ di copechi di ricarica telefonica” oppure “La Fla’ (la nonna) sta berciando in dialetto dell’Illinois perché non trova i pinoli” con un’espressione serissima e non sembravano interessarle cose come i jeans a zampa e le maglie dell’Onyx. Vestiva abiti costosi, ma di classe e sembrava venire da un posto qualunque dell’Universo, tranne che dalla Terra. Il tasso di divertimento del catechismo si impennò visibilmente, anche se non posso affermare di ricordare a che serva il “Timor di Dio” o la “fortezza”, spiacente. Tutto ciò che mi è rimasto di quelle lezioni è un quadernetto con degli appunti fuori da ogni logica e disegnini di animali dallo sguardo leggermente drogato sul bordo di ogni pagina, realizzati, indovina un po’, proprio da Giulia. La nostra amicizia si basava su scambi di lettere da far accapponare la pelle. “Da Gina Lollobrigida per topo Gigio”, “Da Diddl a Corrado della Corrida”, dimostrando una vasta conoscenza non solo del mondo dello spettacolo anni ‘60, ma anche di quello dei roditori. E avevamo solo 12 anni. Devo ammettere che non ci vedevamo poi molto, anche se la corrispondenza era fitta (e abitiamo a meno di un chilometro l’una dall’altra). Solitamente, quando ci incontravamo sembravamo l’Orchessa Vanessa e la Principessa Ossessa: io ero la mega orchessa buona e in una tremenda fase grunge (leggi: maglioni tricot taglia conformata e Levi’s da uomo col cavallo ad altezza ginocchio), mentre lei una tenera principessa patologicamente in ritardo, reincarnazione di un’icona fashion degli anni ’50. Il massimo era girovagare senza meta per la piazza, fare un salto dal Dress (il droghiere in cui lei ha conto aperto) e prendere un gelato dal Gabibbo. Era vita, signori miei, e a noi piaceva.
Poi, il resto della nostra esistenza lo passavamo dentro l’Istituto Chinaglia, io nella mia bella classetta e lei in un covo di ricettatori, insieme a personaggi del calibro del vecchio Uba (ricordate il simpatico adone delle elementari? Beh, era diventato una specie di giovane Pete Doherty, solo senza Borsalino in testa), il mio dolce tesoro delle elementari (puah!) e la reincarnazione di Courtney Love che dicevamo prima. Insomma, un pezzo della mia vita era in classe con lei, e la cosa, credetemi, era abbastanza terrorizzante. La nostra vita sembrava dunque allegra e spensierata, al massimo da documentario National Geographic sulle piaghe della società occidentale, almeno fino alle superiori. Alle superiori, il mitico liceo Classico Europeo, lo spauracchio del padovano, niente più di una scuola piuttosto impegnativa, ci ritrovammo insieme, un po’ per scelta, un po’ per caso, un po’ per disperazione (suppongo). La nostra classe non sembrava male, un po’ troppo piena di soggetti del San Benedetto, contro cui noi del Chinaglia eravamo piuttosto prevenuti, tanta gente da fuori, e un paio di vecchie conoscenze. Tutto sommato non male.
L’unico problema, in definitiva, ero io. Spasmodicamente possessiva nei confronti di Giulia, tremavo di rabbia ogni volta che le mie neo-compagne le parlavano, affascinate da quella strana personcina, sempre cordiale e apparentemente semplice e amica di tutti. Io intanto borbottavo come un ribollita toscana, con lo sguardo killer e la capacità di risolvere i problemi di Tremonti. La rabbia e l’astio per un problema inesistente si accumulavano giorno dopo giorno, spinti da una sottospecie di migliore amica che era, forse, ancor più gelosa di me. Tutta questa amalgama di nobili sentimenti e di perdono cristiano portarono me e Giulia alla lite. Tutto sembrava irrecuperabile, la vita come un cartone semivuoto di latte scaduto e la felicità più lontana della pace fra i popoli. Ci imbarcammo così, alla fine della prima liceo, come due profughe astiose, una colpevole e l’altra innocente, sulla nave del non-ritorno, per poi scoprire, che per tornare indietro, dopotutto, bastava cambiare. E così, prima una, e poi l’altra, siamo cambiate, arrivando fino ad adesso.






SPAZIUCCIO CAROMIO:

Eccomi col secondo capitolo, il periodo delle medie…ricordo ancora che sono tutti eventi reali, persone reali ecc ecc ecc….grazie ai tutti quelli che hanno letto, a maryt2803, queen of night, Urdi e Zerby che mi hanno aggiunta fra i  preferiti e, soprattutto, coloro che hanno recensito (e che
ora vado a ringraziare singolarmente):

ZERBY: grazie mille per tutti i complimenti!!!! Come vedi ho aggiornato, anche se con parecchio ritardo!

URDI: grazie infinite (Mi fai arrossire! ^___^)!!!!!! Sì, i fatti sono tutti verissimi, mi fa piacere scoprire che non sono stata l’unica a vivere certe esperienze o ad avere avuto un’infanzia così atipica! Mi tiri su di morale…E sono perfettamente d’accordo sul fatto che le original sono sottovalutate…sono quelle in assoluto più difficili, perché non vivi a spese di personaggi creati precedentemente o di situazioni già costruite…devi partire da zero, e non è molto semplice! Grazie ancora per tutte le belle parole…

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Capitolo 4
*** La ciurma (prego prendere le distanze da ognuno dei membri) ***


Pasta4 Parlare di me adesso??? Oddio, è assolutamente tremendo. Sono poco obiettiva, sospesa in uno stato di ubriaca incoscienza e del tutto incapace di formulare un giudizio obiettivo nei miei confronti. Se mettessi davanti al computer a scrivere la zia Antida (che forse mi ha visto una volta mentre ero ancora nell’età dei rigurgiti), probabilmente sarebbe molto più esauriente. Comunque, qualcosa mi devo inventare, perciò cominciamo con qualcuno che non sono io: i miei amici più cari in assoluto (naturalmente saltando Giulia, cui ho dedicato un capitolo)







LATO EST (Il Sol Levante, alias le femmine)

Chiara, aka Choux-choux: se volete stiamo qui a scrivere un trattato sulle mille contraddizioni e controsensi e ambiguità e assurdità e follie di Chiara, ma credo basti sapere che è unica ed assolutamente irriproducibile, grazie al cielo! Schiva, critica, incomprensibile, illeggibile, interessante, con uno strano concetto di cultura (siamo al livello della “Gnomomobile”) si diverte a rincorrere i gamberetti di sua sorella, e sto parlando da gamberetti vivi, balla divinamente ma odia andare a danza e recentemente mi ha chiesto chi è Federico Fellini. Magrissima, ma non informe, testona di ricci castani, colorito pallidino, affascinante a suo modo. È capace di non tentare di conoscerti di per un anno, ma poi saltarti addosso in un’esplosione di affetto irreprimibile, con un’espressione di assoluta beatitudine, come se tu fossi la reincarnazione della Madonna e lei la tenera pastorella di Lourdes. Ha un’idea molto personale delle altre persone:
“Quella non ti sembra un po’ antipatica?”
 “No, perché?”
“Non so, non ti ricorda un elfo, sai di quelli un po’ sbattuti?”
e apprezza i tuoi tentativi per essere più bella:
“Lo sai che coi ricci stai male, vero?”.
Però, una volta che la conosci, non la sostituiresti con nessun altro mondo, solo per sentirla straparlare alle nove del mattino o per lasciarla demolire le tue certezze in meno di trenta secondi. O magari anche solo per sentirla parlare di te con un tono a metà fra il disprezzo e la disapprovazione più tetra.


Martina: se Chiara è solitaria ed ipercritica, Martina è tutto il contrario. Più buona del pandoro con la crema Chantilly e più dolce di un camion di Snickers, si fa amare per la sua spropositata pazienza (è per questo che siamo amiche, una persona normale mi avrebbe già impalata) e il suo talento nel vedere il buono di tutti. Questo non vuol dire che sia un’ingenua o che, ancor peggio, sia una copia carbone della Lolly (non vi spiego chi è, ma fidatevi, farebbe passare Santa Rita per una peccatrice pervertita), è solo che è inspiegabilmente pervasa di bontà. La nostra ex insegnante di lettere (sempre sia lodata!) ci ha fatto un discorso un po’ strano sull’aura che la gente ha intorno, e se è vero, quella di Martina dovrebbe abbagliarci e accecarci tutti. Tu dalle cinquecento motivi per odiarti e seppellirti in giardino insieme alla carcassa del criceto che ha fatto morire preparando il Ciocorì (vi spiegherò) e lei ne troverà cinquecentouno per amarti ed esserti amica per il resto dei tuoi giorni. È una fortuna che sia davvero simpatica, altrimenti non riusciresti a scollartela di dosso…Ah, la storia del Ciocorì: in pratica lei ha preparato solo due volte nella sua vita questa torta meravigliosamente buona ed orrendamente calorica e la prima volta è morto il criceto (quello di cui parlavo prima), la seconda il vicino di casa, o suo nonno, non mi ricordo bene. Da quel momento non ha più preso in mano nemmeno la ricetta. Fine della storia, e comunque questi sono gli unici crimini di cui un’anima candida come la sua potrebbe mai macchiarsi.


Gloria: può sembrare solo un’insulsa svampita ochetta fighettina, ma lasciarsi fregare dall’apparenza sarebbe un grosso errore. Gloria è un delle poche persone che conosco che non parla mai, ma proprio mai, alle spalle e che se ti deve dire qualcosa te la dice in faccia. Problemi zero, qualcuno si lamenta che è troppo irriverente, ma chissenefrega, è diretta e schietta, questo è quello che conta. Certo, qualche volta esce di casa senza soldi e ti tocca prestarle un banconota per tirare avanti (una volta siamo andate a vedere un saggio di danza in Arena e io ho sganciato cinque euro a Giulia che ne aveva solo quattro, e dieci a Gloria che era a secco completo, ma insomma…) oppure, se l’orario d’incontro è le otto, probabilmente arriverà alle nove e un quarto dicendoti che non trovava il fondotinta o che sua mamma le aveva nascosto la biancheria sotto il piumone. Devo ammettere che ha una certa fantasia in fatto di scuse. È sempre, perennemente di corsa/in ritardo/alla ricerca del mascara/in crisi per i suoi vestiti/angosciata dalla cellulite/in ansia per l’orale di diritto (attenzione ai ripassi pre-interrogazione, diventa una iena)/furibonda con sua mamma/innervosita dal cellulare che non va/disperata per il tragitto casa-scuola che deve fare in bici con la Sara Bin sul portapacchi e quant’altro. Non si può dire che abbia flemma o capacità organizzative, ma ti sa sempre sorprendere. In gita a Rothenburg eravamo in camera insieme e si aggirava sempre per la stanza seminuda, cercando cose che, puntualmente, stavano nella mia valigia (messe lì, nove su dieci, da Giulia, anche lei in camera con noi), poi passava davanti allo specchio tastandosi le cosce con espressione affranta. La adoro per questo suo modo di preoccuparsi incredibilmente per cose a cui tu nemmeno pensi e, allo stesso tempo, essere di un’onestà e lealtà disarmante. Troppa poca gente la apprezza, limitandosi a vedere il lato più superficiale, ma davvero se ci fossero un po’ più di Glorie, non si starebbe poi così male…





SPAZIO CARUCCIO MIO BELLUCCIO:
domando venia (per la 366esima volta) per avere aggiornato con un ritardo così allucinante, ma ora che la scuola è finita posso anche pensare di PROVARE a ridurre i tempi...ehm, io non assicuro niente!

Btw, passo a ringraziare le anime pie che hanno aggiunto la storia ai preferiti, quelle centinaia di pazzi che se la sono letta, ma soprattutto quei due tesori che hanno recensito...

ZERBY: grazie mille! anche se devo dire che ogni tanto vivere certe cose non è stato molto fantastico!^___^

URDI: oh, quanto amo la tua meravigliosa lunghissima recensione che si permette di divagare...in teoria dovrebbero essere tutte così, e sono assolutamente estasiata nel vedere che riesco a ricreare un'atmosfera in cui tutti si ritrovano...io mi sentivo così sola e scema! a proposito di Titanic, posso dirti che per me è stato più o meno lo stesso, l'ho visto per la prima volta l'anno scorso (e me ne sono innamorata, ma non per i soliti motivi...), ma prima non ne volevo nemmeno sentir parlare...poi mia cugina, che adesso ha 19 anni, aveva una fissa con Nick Carter dei Backstreet boys e mi toccava sorbirmi i loro cd in continuazione, e a me piacevano Guccini e Janis Joplin (ok lasciamo perdere...)! Non so se rendo ma la prima canzone che ho imparato da piccola è stata In-a-gadda-da-vida degli Iron Butterfly, e con questo ho detto tutto! Btw, grazie ancora per tutti i tuoi splendidi complimenti...troppo buona...
(Oh gosh, anche la risposta è 100% off topic...eh vabbè, a me piace così!)

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Capitolo 5
*** La ciurma 2 (le distanze prendetele comunque, se non di più) ***


Pasta5 LATO OVEST (Il Sol Calante, o quello che è, alias i maschi)

Matteo, Andrea e Alberto, aka Teo, Pera e Abe: il Trio delle Meraviglie per eccellenza, i maschi della mia classe (a parte Enrico, che ha il suo spazietto personale, non abbiatevene a male). Il primo altissimo, magro con il naso leggermente pronunciato e uno dei compagni di banco più assurdi che abbia mai avuto, il secondo moro, occhi azzurri, pallavolista ed incredibilmente maturo (il 70% delle volte) ed il terzo biondo, fastidiosamente bello, enigmatico ed accanito sperperatore della sua invidiabile intelligenza. Sono stata in banco con tutti e tre (anche se quelle tre mattinate passate di fianco ad Alberto non possono definirsi un gran successo, è come se io venissi da Kuala Lumpur e lui fosse un Papuano) e sono davvero indescrivibili. Fra Teo che mi teneva delle conferenze sulle sue vacanze a Sottomarina e cercava ogni sistema per scappare dalla Benedetta, per non parlare dei dibattiti infiniti con Pera sugli immigrati ed il concetto di famiglia ed i discorsi-non discorsi con Abe (il massimo che abbiamo raggiunto è stato incollare sul suo avambraccio un incarto vuoto di gomma per cancellare Staedtler per farci non mi ricordo più cosa). Teo forse è il più fuori dal mondo, che scruta i libri che leggo durante le ore di lezione (ehm-ehm…) con espressione criptica, ma in compenso mi aggiorna su ogni dettaglio della Juve, al che io, interista, spengo le orecchie. Con Teo siamo anche stati sposati, ma abbiamo divorziato subito, non c’era abbastanza feeling, grazie a Dio! Pera è più, non saprei…molto particolare…insomma, può tirare una bestemmia (molto male), ma poi essere il più saggio di tutti e trovare una soluzione super-brillante ad un problema incredibile. L’unico dramma sono le lingue straniere, ma credo che prima o poi ne uscirà (insomma, fra 3 anni le superiori saranno finite e per lui anche la tortura di inglese e tedesco). Abe, invece, è su un altro pianeta, sistema, galassia, forse anche un altro universo, non lo so, non l’ho mai capito, ed è la mia più grande frustrazione. Tu, Alberto, lo devi lasciar vivere in pace, con i suoi bei vestiti, gli occhi limpidi e la personalità impenetrabile. Se non ti parla, se ne va, oppure si limita a fissarti come se ti volesse uccidere, beh…magari non ti vuole così male, è solo fatto così, non c’è altro da chiedersi. Se vorrà ti parlerà, altrimenti no. Ed è inutile che tu ti preoccupi o cerchi qualcos’altro. E’ così.


Marco: Marco ha milioni di pregi, ma perché elogiarne le qualità, come fanno tutti (me compresa), quando ha dei difetti così interessanti??? Per esempio, è superstizioso. Sto parlando di livelli patologici, roba del tipo “macchina gialla porta sfortuna”, oppure “mai appoggiare un berretto/cappello sul letto” o ancor meglio “se non riesci subito a forare l’Estathè con la cannuccia prendine un altro e bevi quello che non si apriva solo per ultimo, una volta finiti tutti gli altri”. Un altro fattore che lo rende un filino orrendo, ma anche assolutamente delizioso, è l’abbigliamento: magliette sformate che si perdono sul suo fisico mingherlino, felpe con degli strani robot disegnati o in alternativa con un cuore dentro a una stella dentro a un cerchio, scarponcini da trekking con aggiunto plantare, pantaloni di velluto a coste che puntualmente distrugge giocando a calcio e poi loro, I CAPPELLI. Ora, il cappello è passato di moda negli anni settanta, soprattutto la coppola da pensionato e il berretto moscio di lana da puffo, ma a Marco non interessa: sfoggia con ammirevole sprezzo del ridicolo cappellini da baseball arancioni con occhiali da sole (senza stanghette, logicamente) incorporati nella visiera, cappelli da cowboy, strane architetture di panno che sembrano dei copri stufa e altri pezzi rari, tutti reperibili presso la boutique del cappello di Lillo Bacco, di cui Marco è l’unico cliente da qualche decennio a questa parte. Lui non ti dice che lo fai arrossire, ti dice che sta magentando, se ti fa male il polso si offre di scuoiare un bue per poi usare le pelle come benda, ti salta in groppa senza dirtelo prima, facendoti rovinare al suolo sotto lo sguardo esasperato della signora Patrizia, se stai male con te stessa ti porta a camminare sotto la pioggia di luglio e salta dentro una pozzanghera solo per vederti ridere, si dipinge dei baffi finti e comincia a parlare con accento francese, fingendo di fotografare tutti, si arrotola un maglione sulla testa, poi ci mette sopra un cappello e gira per tutta la piazza conciato così, salta e balzella ovunque posseduto dal demonio, fregandosene delle ore pomeridiane di Cotronea, dei flebili richiami della signora Lorella e del regolamento d’Istituto. È…non saprei…Marco. Credo che come definizione sia sufficiente. Altre non ne ho.


Enrico: è il mio compagno di banco da tre anni, mio figlio (anche se solo per finta), uno che abita nella traversa dopo la mia, il fidanzato della Gloria, il ragazzo più imbecille che abbia mai conosciuto e anche il più chiassoso. In pratica gli voglio molto bene. Detto ciò le parole si sprecano: ha una fissa per la moto (la sua), la ragazza (la sua), i muscoli (i suoi), la palestra (la sua), la squadra di basket (la sua) e tutto quello che si può contare fra i suoi possedimenti. È infinitamente alto con due spalle infinitamente grandi e infinitamente incassate perché allena solo i pettorali e non gli addominali (se avesse ascoltato le sagge parole di Matteo, ora sarebbe tutto diverso). Non sta zitto un attimo, tranne la mattina alle otto (ma neanche tanto) o quando legge Dylan Dog, non si preoccupa MAI delle conseguenze di quello che fa e, naturalmente, ha classificato lo studio come attività incredibilmente dannosa per la sua salute psicofisica. Ha un fratello che sembra uscito da un revival di Starsky&Hutch che passa la metà del suo tempo in bagno, una madre e una zia che quando si siedono in macchina la testa non spunta dal finestrino ed un padre catanese che lo porta nei meandri del bronx siciliano ad ogni festa comandata. Usa fondamentalmente quattro parole: figo, figa, tipo, assurdo. Basta. Se si sente particolarmente ispirato infila anche qualche “cioè” di qua e di là. Leonardo, il suo nipotino di un anno, ha un vocabolario molto più ampio. È noto per indossare assurde camicie gialle o rosse, canotte da scaricatore di porto che lasciano intravedere rigogliosi ciuffi di pelo nero e per tenere sempre i colletti alti, da bravo tamarro quale è. Si fa rimbambire dall’house e passa molti weekend in discoteca, gli piacciono le ragazze col culo sgonfio (tranne la Gloria) e se una non è anoressica non la caga nemmeno di striscio.
Questo è quello che da a vedere, il resto è privilegio di pochi.





SPAZIO ASSOLUTAMENTE MIOOOO:
Dunque dunque…che dire? Mi sentivo particolarmente ispirata perciò ho dato vita anche al Lato Ovest, e ho scaricato un po’ il mio cervellino sovraccarico di idee e di affetto immenso per questi ragazzi che, in fin dei conti, sono davvero la mia vita. Questo è però anche un momento piuttosto triste, perché sono giunta all’oggi, e qui in teoria finisce la mia vita (nel senso che la sto ancora vivendo). Però se la storia vi piace, se ci tenete, ditemelo, che ho qualche ideuzza sparsa per parlare di altri aspetti del presente (e perché no? Anche del passato) che ho tralasciato, che ho approfondito meno, o che proprio non ho nominato…insomma fatemi sapere!
Arrivederci al prossimo capitolo (se lo vorrete),
Checie

ZERBY:non smetterò mai di ringraziarti per tutti i tuoi complimenti…sei gentilissima!

URDI: che ti devo dire? Quando mi metto qui per rispondere alle tue recensioni mi sento così bene…leggerle è ogni volta un piacere immenso! Credo che tu possa tranquillamente essere la mia gemella perduta, si dice che ognuno abbia una copia carbone di se stesso da qualche parte nel mondo, forse io ho trovato la mia!XD Poi il fatto che ti chiami Annalisa, come mia madre, secondo me è un segno….a parte gli scherzi, sono molto più che felice di conoscere un’altra persona che la pensa come me. Onestamente scriverei 800 capitoli di questa fic quasi solo per poter leggere le tue recensioni!^_____^Comunque, ti ringrazio per aver definito il mio modo di vedere le cose “semplicemente chiaro e perfetto”…Io ne dubito ancora. Non so tu ma certe volte mi sembra di avere una frittata in testa e di non capire più un tubo di niente! E questo le mie amiche lo sanno bene, costrette spessissimo a sopportare le mie crisi mentali…ogni due-tre giorni il cervello mi si fonde neurone per neurone e io passo del tempo praticamente con un brodo dentro le ossa craniche, e non è che sia proprio una bella cosa!
Grazie ancora e scusa la risposta infinita. Baci!

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Capitolo 6
*** Artedanza is the word! ***


Pasta6

Perché una ragazza che è brava a cantare e recitare sente il bisogno di iscriversi ad un corso di danza? Il richiamo animale alle danze tribali? Il bisogno di agitarsi al ritmo sincopato dell’hip hop? No signori miei, nulla di tutto ciò. Un motivo reale non c’è. Un po’ è il piacere di avere un’insegnante come l’ineffabile Manu, simpatica donnetta carina come un pizzo sangallo e più cattiva di un’arruolatrice di marines, disinvolta portatrice di pantalonazzi giallo pipì radioattiva e maglie promozionali della scuola, amante delle flessioni e degli addominali in quantità spropositatamente elevata e grande amica del sommo Jon* B, ballerino della bassa padana con una vaga aria da secchione occhialuto col naso sporgente. Un altro motivo è sicuramente la possibilità di indossare gli splendidi costumi selezionati personalmente dalla Manu: bragoni arancioni, canotte multicolor con patacche ricoperte di brillantini, casacchine sbarazzine dotate di stampe ambigue e maniche insensate ed infine confortevoli scarpe deformi con copertura esterna in cotone “che così la pece attacca meglio” (fondamentale per evitare di sbattere le nostre amate natiche al suolo).
Il piano di azione/distruzione sistematica comincia a settembre e si protrae fino a luglio, con due appuntamenti settimanali più temuti di una catastrofe naturale, e sicuramente più spaventosi. Fino a dicembre si fa “un po’ di stretching per sciogliersi”, leggi tre ore ogni sette dì di acrobazie improbabili, estendimenti di muscoli più che doloranti, mosse dall’invitante nome di “ranetta” o simili che prevedono lo strappo di una cinquantina di legamenti. Una gioia per l’anima, temprata dalla fatica insormontabile e dalla sofferenza autoimposta, ma soprattutto per il corpo, che ora di dicembre è duro come un laterizio, cementizio come le fondamenta di un grattacielo di ottanta piani e muscoloso come quello di un culturista navigato. Poi, una volta raggiunto questo splendido idillio di tonicità, si cominciano a studiare le coreografie, i tanto agognati balletti da proporsi ad inizio giugno a tutto il pubblico del rinomato Teatro Salieri di Legnago. Allora tutta la furia assassina della Manu si sfoga in piramidi umane, scritte composte dai nostri corpi avvinghiati l’uno contro l’altro e quant’altro.  Noi, ventidue (una più, una meno) atletiche ragazze, ci sentiamo sempre molto portate per tutte queste cose e il disagio ci attanaglia inesorabilmente, ma alla Manu non sopravvive nessuno. O ti opponi a vita, senza la minima possibilità di spuntarla contro la sua ferrea volontà, o vieni fagocitato dal suo complesso e perverso sistema di elucubrazioni mentali. Il risultato, comunque, è che ti trovi rinchiusa nei camerini del teatro per ore, in attesa del tuo turno, aspettando solo che la voce melodiosa dell’Anna Parisato annunci “Gruppo hip hop secondo grado superiore: The way I are di Timberland (quello delle scarpe, per intenderci…vero Anna, cara?)” per poter finalmente avere la tua gloria personale. Quattro lunghissimi minuti in cui solo per 45 secondi emergo dalla penultima fila, grazie a Vishnu, fatti di sensualissime onde, passi bloccatissimi e mosse ammiccanti. Dopodiché me ne ritorno con l’aria del cane bastonato in camerino e passo la successiva ora e mezza a giocare a uno, poker, burraco, scala 40, scopone, briscola e controbriscola, perdendo con la precisione di un AK-47 e con l’inesorabilità della morte, oppure beo le mie orecchie dell’ascolto dell’apprezzabile colonna sonora di Mulan, urlando insieme alla Domi (magia creatura!) “E SARAI VELOCE COME E’ VELOCE IL VENTO”, cercando di imitare la voce baritonale di Chang, per poi passare a un momento Nirvana, seguito a ruota da un moto d’orgoglio politico espresso con magistrale mancanza di discrezione dai Modena City Ramblers. Molto, molto edificante, soprattutto quando sul più bello entra un’avvenente bionda del gruppo di classico avanzato che ci porge sorridendo un sacchettino di plastica contenente ritagli di plastica per impacchettare a stampe nere-argento dicendoci di prendere cinque coriandoli (ah, perché erano coriandoli? Buono a spersi!) a testa e tenerci pronte. A cosa? Chiederete voi. Beh, allo scoppiettante finale durante il quale, sulle commoventi note di “The power of love”, scorrono foto di noi ballerine, parenti, amici, animali domestici, nonni defunti, fratellini ingessati, accompagnate da dediche strappalacrime pregne di vero e reale affetto. Morale della favola, scoppiamo a piangere come vitelli e scatta l’abbraccio di gruppo. Per essere una cinica irrecuperabile ho singhiozzato per un bel po’. A conclusione di ciò un bell’inchino generale, lancio dei coriandoli e urlo “GRAZIE!”, spontaneo e sincero (provato almeno ottocento volte), in direzione delle nostre insegnanti, il duo Jenny e Manuela, colleghe nel lavoro, sorelle nella vita. Applausi. End of all hope (giusto per citare i Nightwish).  
A fine spettacolo, quando tutte vengono abbracciate dai genitori e ricevono fiumi di complimenti più falsi di un parrucchino, il buon Marco, che ormai conoscete, e Stefano (miei unici spettatori, vista l’indisponibilità dei miei genitori), mi hanno detto che la mia era una splendida “versione porno”. Sul serio, non so cosa farci, il mondo che mi circonda vede costantemente in me sesso, indipendentemente dalla mia volontà. Da palla-bimba mi sono trasformata in una formosa ragazza che sembra Cicciolina anche quando sbuccia la frutta o si impasta le mani col Das perché è troppo imbranata per non impiastricciarsi. È uno dei grandi misteri della mia esistenza, suppongo si possa considerare una sorta di contrappasso malefico: la mia romanticheria e indubbia purezza sono state punite con un corpo ad alto tasso di provocazione, che mi fa guadagnare le attenzioni fisiche indesiderate dei ragazzi impegnati di mia conoscenza, rendendomi l’amante ideale impossibilitata a trovarsi un ragazzo serio. E io odio fare la figura della poco di buono, essendo pervasa da indistruttibili ideali fuori moda di amore romantico, indistruttibile e forte oltre il tempo e le cose. Il tutto rivestito da un pericolosissimo fisico burroso ed esuberante, decisamente prosperoso anche se non grasso. Moana Pozzi con gli ideali di Cenerentola. Poi non dite che la natura non è bastarda.








SPAZIO MIO:
capitolo lampo sulla danza, ispiratomi dal saggio di ieri sera, cosa che ha leggermente distrutto ogni parte del mio essere, sia fisico che spirituale....credo che non farò mai la ballerina, posso vergarlo a lettere di fuoco sulla carne di un cormorano nano...
Non posso ringraziare personalmente perchè devo andare a letto (ora del computer 23:11 e devo trovare il tempo per leggere almeno un paio d'ore...........................................), però sappiate che siete assolutamente fantastici tutti! sia che leggiate e basta, sia che commentiate (cosa che mi rende molto felice!)
Baci,
Checie











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Capitolo 7
*** La voce dell'altoparlante (e altri personaggi da spiaggia) ***


Pasta 7 Dunque, questo capitolo esula un po’ dall’autobiografia, diciamo che è una specie di analisi para-sociologica del popolo delle vacanze, visto che la sottoscritta si trova nella ridente Jesolo Lido, vittima del mese di villeggiatura che le viene annualmente imposto dalla sua santa madre. Sono le 14:41 del 2 agosto, molto probabilmente pubblicherò verso il 20. Mea culpa, ma qua internet NON C’E’.






Prendiamo un’adolescente qualunque. Diamole un aspetto qualunque: occhi nocciola, capelli castani mossi, altezza 1,70, peso 60 kg, seno piccolo, tendenza all’accumulo di grasso sui fianchi. Figlia di un geometra e di una casalinga, fratello minore di 11 anni, comprensibilmente insopportabile. Ha finito la 3 liceo psicopedagogico, ha due migliori amiche e un fidanzatino con le gote paonazze e una grande stalla ove alleva con dedizione le vacche di famiglia. Lo stereotipo della ragazza media di campagna, drogata di High School Musical, fan di Rihanna e tante altre belle cose. L’adolescente qualunque non sono io, anche se ne condivido il ceto sociale.
Chiamiamo la nostra adolescente media Jessica R. Non specifico il cognome in quanto potrei rischiare di citare una persona realmente esistente.
La nostra Jessica si reca annualmente in quel del Lido di Jesolo per trascorrere un paio di settimane di vacanze ogni agosto, in compagnia della sua famigliola. Lo spettacolo che le si presenta davanti agli occhi è quello di cui lei stessa, in quanto ipotetica ragazza media, fa pienamente parte.
La spiaggia, dedalo di ombrelloni, sdraio, letti e lettini, è il pascolo dei ragazzini in età pre e post svezzamento, che si producono in ultrasuoni davvero notevoli e corrono ovunque come indemoniati. Una delle caratteristiche più peculiari di questa fascia della società è la cocciutaggine senza paragone: i miei stessi occhi hanno visto una bambina di non più di 7 anni ripetere all’infinito “Chupa! Chupa!”, desiderando ardentemente che la madre le comperasse uno di quei meravigliosi lecca lecca. Jessica è però molto paziente, in quanto sorella di una peste undicenne, e passa sopra alle innumerevoli ed incalcolabili succursali degli asili sparsi sul litorale.
Altro personaggio tipico dell’estate jesolana è la “signora”. La “signora”, per lo più ultraquarantenne, veste bikini fascianti da centinaia di euro, coperti malamente da svolazzanti caftani che le danno un’aria vagamente esotica, incurante della calura e dell’umidità opprimente è sempre perfettamente truccata e pettinata, ma soprattutto non sta mai zitta. Si va dalle notizie più succose di Novella 2000, ai mille problemi quotidiani che affliggono la moglie di un’industrialotto di provincia, a cosa fare, o meglio NON fare con i figli e via così, mostrando un’abilità nel parlare di milioni di argomenti senza mai, in definitiva, dire nulla. Non so se si è capito, ma le “signore” sono le mie preferite.
Jessica si dimostra abbastanza indifferente alle “signore”, lontane da lei per età ed estrazione sociale, ma la nostra adolescente tipo è molto più vicina a loro di quanto sembri: è amica delle loro figlie.
Allora, la figlia femmina per antonomasia è uno specchio della madre, per imitazione, o per completo distacco. Non c’è niente da fare, il modello materno o si prende a modello, o si allontana il più possibile. Nel nostro caso, siamo di fronte a dei soggetti che emulano le madri, conservando però l’apparentemente incompatibile abitudine di sparlare a briglia sciolta delle loro genitrici. La nostra Jessica le vede in gruppo per la spiaggia, nei loro bei bikini, tutte con gli stessi occhiali da sole (per chi volesse uniformarsi: Ray Ban Pilot bordo cromato lente nera coprente, al massimo dell’originalità marrone fumé), in perenne sfilata su e giù per il pontile, spesso zitte come tombe, intente a scannerizzarsi l’una con l’altra chiedendosi se nei laccetti dello slip ci sia qualche dettaglio drammaticamente “out” e pensando con rammarico a quel bel costume intero anni ’50 che hanno lasciato nell’armadio, ma che forse sarebbe stato meglio indossare. Per quanto Jessica non possa competere con loro le ammira e le invidia, ed è perciò  bendisposta a sottomettersi al loro volere. Naturalmente lei questo non lo sa, ma in definitiva è così che si comporta. Le simpatiche ragazze della spiaggia hanno un occhio a dir poco clinico nell’individuare qualche indifeso soggetto da prendere sotto la loro ala protettiva, perciò non ci mettono molto ad accorgersi della nostra eroina. I primi momenti dell’avvicinamento sono farciti di bontà e cortesie seducenti, un modo come un altro di ostentare il  meraviglioso mondo (se lo dicono da sole) da cui provengono. Una volta diventate amiche, cioè poco più che conoscenti, Jessica si sente estremamente elettrizzata in quanto ammessa in un’elite che non ha niente da dire, ma che si è costruita un’apparenza davvero impressionante. Queste splendide ragazze sono in realtà delle piccole aguzzine, che sanno di potersi imporre su qualcuno più debole di loro. E non sto parlando di debolezza fisica o mentale, ma solo di debolezza economica, peraltro unico metro di valutazione, paragone e giudizio in loro possesso. Possono grossomodo dettare legge in casa e questo fa loro credere di poterlo fare anche in ogni altro contesto. Jessica è una ragazza buona ed ingenua, e per questo ha tutta la mia stima e la mia approvazione, non riesce ad opporsi a loro e quindi, silenziosamente ed ingiustamente, subisce. Le sue “amiche” hanno orari molto elastici, escono e rientrano quando e come vogliono, cambiano abito ogni sera e il divertimento per eccellenza è sfilare (così come sul molo) per le vie della città, come se fosse la cosa più bella del mondo. La nostra intrepida eroina non sarebbe persona che si comporta così ma nel suo cervello si innesca un meccanismo che le fa esaudire ogni desiderio delle altre pur di restare nelle loro grazie.
Lo scontrarsi con queste deliziose personcine non la priva però del piacere di bearsi della presenza di un altro immancabile personaggio estivo: la voce dell’altoparlante. Per chi non ne conoscesse l’esistenza, la voce dell’altoparlante è per l’appunto una voce che, ad orari indefiniti ma comunque costanti, trasmette messaggi della massima importanza, fra cui il programma delle manifestazioni jesolane in tre lingue, l’annuncio di bambini persi e le comunicazioni dello Sporting Club Animazione. Per entrare un po’ nello specifico vi basti sapere che le manifestazioni prevedono emozionanti incontri con grandi nomi dello spettacolo e dello sport estratti di fresco dalla naftalina, come Barbara Bouchet ed Arrigo Sacchi, mentre lo Sporting Club Animazione offre ogni tipo di sollazzo e divertimento, dai balli di gruppo all’autodifesa, dal Tai Chi all’aquagym mattutino. Per la nostra povera Jessica, che vorrebbe solo prendere il sole in santa pace tutto ciò è davvero tremendo. Ma, sprezzante di cotale abominio, un bel giorno la nostra eroina decide di prendere parte ad una sessione di aquagym.
Sono le nove del mattino (l’alba) e Jessica, con il suo bel bikini azzurro si reca sulla battigia, dove ad aspettarla trova un manipolo di cinquantenni appesantite dalle numerose gravidanze, un paio di invasate dello sport che hanno appena fatto due ore di jogging e si riscaldano per una mattinata di nuoto e racchettoni, qualche mamma sprint che si è trascinata dietro la figlia recalcitrante e la rappresentanza del pollaio, nella persona di un gruppetto di ragazze urlanti. Jessica non si lascia scoraggiare e immerge anche lei i piedi in quei 5cm di acqua (apro una parentesi di riflessione: ma l’aquagym non si fa con l’acqua ad altezza seno?), pronta a cominciare l’allenamento. Sopraggiunge l’istruttrice, donna poco più che ventenne, maglietta degli sponsor in una gradevole nuance evidenziatore arrotolata sopra l’ombelico, slip del costume, cappellino da baseball, coda sbarazzina e l’immancabile microfono attaccato alla guancia. La suddetta istruttrice comincia ad agitarsi, saltellare, urlare “EH! EH! Su le mani, su le mani!” in perfetto stile villaggio turistico, nel patetico (da pathos, passione) tentativo di far muovere il suo attonito uditorio. Jessica non si fa pregare e comincia subito a seguire le movenze dell’istruttrice, mettendoci tutta se stessa e cercando di evitare urti e collisioni con le sue vicine. Dopo una buona mezz’ora di agili balzi e flessuosi saltelli il sudore è colato come un ghiacciolo sotto il sole dell’una, le signore si sono rattrappite e incartapecorite, le figlie-delle-mamme-sprint sono sull’orlo della disperazione, solo Jessica resiste stoicamente. È l’unica ad avere un’età adatta e un fisico mediamente asciutto. La normalità è vicina.
Terminata questa sfiancante ginnastica mattutina, il nostro soggetto in esame decide di concedersi una breve passeggiata per la via principale del centro, giusto per spulciare le vetrine ed andare a caccia di saldi. Così, in shorts e canottiera, si mette a passeggiare per il porfido che emana calore ed umidità al 100%, facendosi strada fra drappelli di olandesi che rimangono imbambolati appena vedono l’insegna “pizzeria” e carrozzine misura yacht atte al contenimento di due festosi gemellini. Il suo occhio viene rapito dalle più svariate botteghe: un psichedelico negozietto completamente rosa che vende solo articoli firmati Hello Kitty, una cartoleria di lusso in cui il quaderno più economico costa 5 euro, un locale pizza-kebab, un sushi-pizza, un pizza-pesce, uno snack-pizza (la pizza è onnipresente ed abbinabile un po’ a tutto, per la gioia degli olandesi) ed un negozio tutto in legno che vende borse che sembrano fatte col rivestimento interno dei canotti per bambini e scarpe prese di peso dall’Emporio del Giocoliere.
Tutto ciò sconcerta non poco la nostra intrepida eroina che, dopo altri cinque minuti, torna di corsa a rinchiudersi nel suo appartamento, ben felice di guardare il preserale di Pupo, aiutare sua madre a pelare le zucchine e urlare dietro a suo fratello che le ha rubato una maglia e la usa come mantello.
L’anno prossimo andrà in un covone di fieno. Almeno lì non c’è nessuno.











MIO SPAZIO:
perdonate il ritardo cosmico e il fatto che ho tempo zero per ringraziarvi tutti come meritereste, ma sappiate che vi adoro! Non scherzo…^____^

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