† La Bibliotheca Mystica de Illusion †

di Xima_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** † Hades, il Libro della Morte † ***
Capitolo 2: *** † Il Patto con il Principe dell'Ade † ***
Capitolo 3: *** † Destino prestabilito † ***



Capitolo 1
*** † Hades, il Libro della Morte † ***


L a  B i b l i o t h e c a  M y s t i c a

d e  I l l u s i o n

 
 
La Bibliotheca Mystica de Illusion era la biblioteca più famosa di tutto il mondo. Si narrava che contenesse più di mille libri demoniaci, custoditi dal Demone Indice, Tithian. Nessuno sapeva dov’era, nessuno osava parlarne, nessuno sapeva se esistesse davvero. Solo voci.

Una leggenda.

Eppure molti bibliotecari erano alla ricerca disperata di quella biblioteca per avere i poteri mistici dei sacri “Libri delle Illusioni”. Si diceva che a chi ne possedeva uno venisse donato un potere nero in grado di modificare la realtà.
Ma alla fine il libro consumava il proprietario ed egli era destinato a soccombere tra l’Ade e la vita terrena, in uno spazio pieno di rimpianti e disperazione.

Oppure moriva.




 «Miku, mi racconti una storia?»
«Che genere di storia, piccolo Sho?»
«Zero-kun mi ha raccontato della famosa Bibliotheca Mystica de Illusion. Esiste davvero?»
«Purtroppo sì, ed è una storia lunga e spaventosa.»
«Me la racconti?»
«Ecco…»
«Ti pregooo!»
«Solo se non lo dici a Mado-chan.»
«Okay!»
«Bene. Allora, iniziamo…»
 
 

Pagina uno
 
H a d e s,  i l  L i b r o  d e l l a  M o r t e
- Hades, the Book of the Dead -
 
 
I remembered black skies, the lightning all around me
I remembered each flash as time began to blur
Like a startling sign that fate had finally found me
And your voice was all I heard that I get what I deserve
 
Ricordavo cieli neri, fulmini tutt’intorno a me
Ricordavo ogni lampo mentre il tempo iniziava a sfocarsi
Come un segno sorprendente che il destino mi avesse finalmente trovato
E la tua voce è tutto ciò che ho sentito che io avessi quanto meritavo

New Divide – Linkin Park
 
 
Fin da quando ero piccola, avevo sempre avuto timore delle leggende che si narravano in giro: mostri, fantasmi, morti viventi, sparizioni di persone; queste storie del terrore non mi erano mai piaciute, le credevo solo stupidaggini per spaventare i bambini. Leggende senza alcuna prova concreta che potesse dar certezza dei fatti. Eppure, quando andai da mio zio, conosciuto in tutto il Giappone con il nome di “Bibliotecario Nero”, cambiai idea molto presto.
Come al solito, mia madre, sorella dello zio, voleva andargli a far visita per educazione. Ma io sapevo che a lei non piaceva affatto l’idea, come non piaceva a me: a noi, lo zio pareva strano, anzi pazzo! Aveva venduto metà del proprio terreno per un solo libro e aveva pagato un mucchio di soldi per avere un vecchio diario di un antico scrittore fenicio. Insomma, strano in tutti i sensi. Magari l’amore per la lettura lo aveva portato alla pazzia.
Non usciva mai, era sempre rinchiuso nella sua biblioteca; i vicini di casa non lo avevano mai visto in tutti quegli anni in cui lo zio aveva ereditato dai bisnonni una villa isolata dal resto del mondo, nella la Foresta Dimenticata.
Lo consideravo noioso e serio, anche odioso. Non mi piaceva vederlo, proprio per niente, per questo ogni volta volevo protestare, ma mia madre continuava a insistere sulla questione dell’educazione.
 
Infatti, da quel giorno in cui lo andai a trovare, lo odiai ancora di più, perché mi cambiò terribilmente la vita…

 
 
 
 
Dlin - Dlon
 
Mia madre, Arisa Ikarisa, suonò con delicatezza il campanello della villa dello zio, il signor Ziggurat Ikarisa. Io ero rifugiata dietro il vestito della mamma, stringendo stretta la stoffa di lino per cercare sicurezza. Già, sicurezza, perché quel luogo sembrava quello di un film dell’orrore: erba alta e morta, alberi spogli su cui poggiava un gruppo di corvi terrificanti, l’abitazione, ricoperta da edera morta, era circondata da un vecchio cancello arrugginito, e al di fuori di esso, c’erano delle lapidi di circa duecento anni. Come se non bastasse, il cielo era cupo e tenebroso, segno che si stava preparando un bel temporale.
Mi domandavo ancora come mio zio potesse abitare in un luogo del genere, proprio nella Foresta Dimenticata, un luogo evitato da tutti, a parte una coppia di vecchietti che viveva un po’ distante, ma almeno la loro casa era bella e colorata, a differenza di questa.
Con noi c'era anche mia sorella maggiore, Kurai, come sempre seria e silenziosa, con una posa altezzosa e ben dritta, degna della primogenita della famiglia Kurogane. Era ferma come una statua, perfino i suoi capelli corvini erano illesi dal vento forte che tirava. Possibile che lei non avesse paura? Non mostrava la minima attenzione per ciò che ci circondava.
All’appello mancava solo mio fratello Zero, di tre anni; la mamma lo aveva lasciato a casa con la nonna, perché, a detta sua, avrebbe creato solo caos. Invece, a parer mio, sarebbe dovuto venire, almeno avrebbe rallegrato l’atmosfera con il suo carattere vivace.
Dopo cinque minuti, in cui stavo quasi per scoppiare a piangere, la porta di legno, alta il quadruplo della mia altezza, si aprì con uno stridio spaventoso, provocandomi un brivido per tutta la schiena. Eccolo lì, vestito come sempre in modo elegante e in tinta unita, Ziggurat. Oltre agli abiti neri, portava anche degli occhiali scuri, che mi impedivano di vedere i suoi occhi. A dirla tutta, in tutti quegli anni che lo conoscevo, non avevo mai visto il colore delle sue iridi, e ne ero contenta.
Mia madre lo salutò cordialmente, come sempre. «Che piacere rivederti, fratello mio!» esclamò allegra, stupendomi per la sua gioia di vedere quell’uomo serio.
«E' un piacere anche per me». Poi mostrò un piccolo sorriso a mia sorella e alla fine il suo sguardo finì su di me, così mi nascosi ancora di più dietro al vestito della mamma.
«Ciao, piccola Miku». Il modo in cui aveva pronunciato il mio nome mi mise paura, perché c'era una nota inquietante nella sua voce.
Ci fece accomodare nel salotto, accogliente e ben ordinato, ma questo non mi rassicurò minimamente. Ci offrì the e biscotti, che iniziai a divorare.
Mia madre aveva iniziato a chiacchierare interrottamente con Ziggurat, che rispondeva brevemente alle sue domande.
Sia io che Kurai rimanemmo in silenzio, ascoltando distrattamente le parole dei due adulti. Mentre mangiavo i biscotti al cioccolato, osservavo anche l’arredamento della villa: le pareti, di un bel rosso porpora, apparivano cupe, come se volessero inghiottirmi da un momento all’altro; i mobili erano tutti in legno, neanche uno sembrava rovinato o impulito. Insomma, si poteva proprio notare a colpo d’occhio che quel posto apparteneva a quel bibliotecario pazzo.
Ma non ero distratta solo da quello: stavo tentando in tutti i modi di trattenere la pipì. Esatto, avete capito bene. Non andavo in bagno da quattro ore e quella villa non mi aiutava di certo, anzi, peggiorava la situazione. Ma non avevo la minima intenzione di andare in bagno lì, precisamente, non volevo andare in giro da sola.
Peccato che Kurai notò subito questo particolare, visto che stavo strizzando gli occhi e la mia faccia aveva assunto un colorito sul rosso, quasi viola.
«Devi andare al bagno?» chiese.
“No, no”, avrei voluto rispondere, ma qualcuno mi precedette.
«Il bagno si trova in fondo al corridoio di ingresso, dovresti trovarlo a sinistra» mi informò lo zio, indicandomi l’uscita per quella stanza.
Gli lanciai uno sguardo di puro odio. Al contrario, lui non fece trasparire alcun sentimento da dietro i suoi occhiali. Impassibile come sempre.
Supplicai mia madre di accompagnarmi, ma non la convinsi. Appena misi piede fuori dal salotto, mi sentii disorientata e abbandonata a me stessa. Tutto quello che mi circondava (mobili, pareti e tappeti)  era spaventoso, con dei colori sfumati verso il nero e rosso inglese, perfettamente in contrasto con i miei vestiti bianchi.
C’era troppo silenzio, interrotto dal rumore dei miei passi che rimbombava tra le pareti. Comunque stavo andando in giro a vuoto, perché mi ero già dimenticata le indicazioni che mi aveva fornito lo zio; tutti i corridoi erano uguali, stesso colore e forma, e non distinguevo dov’ero precedentemente passata. Ecco che nome avrei dato a quel posto: la Villa Labirinto.
Strinsi il ciondolo che portavo al collo: una chiave. Non sapevo se aprisse qualcosa, non me lo avevano mai detto. L’avevo ricevuta al mio settimo compleanno, l’anno scorso, da mio padre, deceduto pochi mesi fa per cause ancora ignote.
 
Mi raccomando, tienila sempre con te. E’ la chiave del tuo futuro.
 
Non avevo ancora capito a cosa si riferiva quando me la porse, comunque gli avevo promesso che l’avrei tenuta costantemente con me, per ricordarmi di lui.
Dopo diversi minuti di ricerca, i miei occhi blu oltremare notarono una porta diversa delle altre. Era bella, piccola e bassa, con delle incisioni particolari. La osservai per qualche secondo, indecisa se aprirla o meno. Dimenticai che la mia vescica stava per esplodere, la curiosità prese il sopravvento. Abbassai il pomello della porta, provocando uno stridio appena si aprì.
Ed ecco cosa mi trovai davanti: una biblioteca, il luogo preferito dello zio, dove passava la maggior parte del tempo. Una stanza circolare, forma alquanto insolita, occupata a sinistra da scaffali stracolmi di libri, davanti a questi stava una scrivania coperta da un mucchio di fogli, mentre a destra c’era una grande finestra, che occupava tutto il muro, circondata da delle tende verdi smeraldo. Sul vetro di quest’ultima, si vedevano piccole gocce scendere lentamente, creando figure immaginarie: stava piovendo.
Mi avvicinai alla scrivania per curiosare tra i documenti, la maggior parte scritti in inglese, per capire come passava la sua vita quel pazzoide.
All’improvviso un lampo illuminò la stanza, seguito da un tuono molto forte che fece tremare non solo il vetro, ma anche me. E solo in quel momento notai una figura davanti alla finestra.
Un ragazzo.
Aveva un abbigliamento strano: una tuta bianca e gialla, con un girocollo nero simile al collare di un cane, dei mezzi guanti del medesimo colore e un mantello giallo come quello dei supereroi. Sarei scoppiata a ridere per i suoi bizzarri vestiti e i capelli azzurri, ma non lo feci, non avevo il coraggio.
Com’era arrivato lì? Prima non c’era, ne ero sicura. Che fosse un amico dello zio? Oppure un fantasma? A questa seconda possibilità, tremai leggermente: non avevo mai creduto a quelle dicerie, eppure una parte di me mi avvertì di stare attenta, lo sconosciuto era troppo pericoloso. Lui non mi prestava attenzione, continuava a guardare la pioggia scendere incessante, con le braccia incrociate sul petto.
Non seppi il perché lo feci, il mio corpo si mosse da solo e affiancai il ragazzo.  L’osservai curiosa, squadrandolo da capo a piedi. Una cosa che attirò la mia attenzione furono i suoi occhi grigio-azzurri. Somigliavano al ghiaccio. Odiavo il ghiaccio. Eppure, le sue iridi mi attraevano, come delle calamite.
Lui non sembrava infastidito dal fatto che lo esaminavo attentamente, non mi aveva rivolto nemmeno uno sguardo, quasi fossi invisibile.
Che tipo strano. Che divertimento c’era nel fissare delle piccole gocce bagnare ogni superficie su cui si poggiavano?
«La pioggia è il segno che qualcuno sta soffrendo». Le sue parole mi fecero sobbalzare, interrompendo i miei pensieri.
La voce di quel ragazzo era… meravigliosa. Calda, profonda, alle mie orecchie era giunta come una melodia, non di quelle dolci. Ma la sua frase mi lasciò perplessa. Qualcuno stava soffrendo? E come faceva a saperlo?
«E’ segno che qualcuno sta male, sta piangendo per tristezza, o magari per odio. Non è fantastico? Non è fantastico vedere qualcuno soffrire?». In quel momento si voltò verso di me e il suo sguardo mi paralizzò.
Quelle iridi erano un pozzo senza fondo, potevo riflettermi in esse, eppure avevano una sfumatura maligna e spaventosa.
Non risposi, né aprii bocca, strinsi tra le dita la mia collana. Lui la fissò, quasi curioso, poi la sua attenzione tornò alla pioggia, con la stessa espressione dipinta sul volto. Già, era proprio un ragazzo strano.
Decisi di prendere coraggio, presi un bel respiro e domandai: «M-ma tu… chi sei?».
Aspettai dei secondi interminabili, forse minuti, in cui si poteva sentire unicamente la pioggia abbattersi furiosamente sul vetro della finestra. Quell’atmosfera mi stava mettendo a disagio. Iniziai a giocherellare con i miei capelli castani, lasciati sciolti sulle spalle, capitava ogni volta che ero nervosa o imbarazzata.
Tuttavia non mi importava più di tanto, volevo avere delle spiegazioni sulla sua apparizione, ma soprattutto… volevo ancora sentire la sua voce.
«In tutti questi anni, mi hanno appropriato diversi nomi, così tanti… Ma tutti con lo stesso significato», si voltò verso di me e ghignò. «Io sono la morte. Io sono il principe dell’Ade».
Un fulmine illuminò le nuvole grigie, dividendo il cielo in due parti, seguito da un rimbombo fortissimo. Il tuono mi mise così paura che chiusi gli occhi d’istinto, finché non fui sicura che il peggio fosse passato. Ma prima di chiudere le palpebre,  avevo visto un sorriso diabolico sul volto del ragazzo dai capelli azzurri.
Pensando proprio a lui, mi affrettai a riaprire gli occhi, ma appena lo feci rimasi stupita: era sparito. Che fosse davvero un fantasma? Che io avessi parlato davvero con uno spirito?
Mi guardai attorno, cercandolo perfino sotto la scrivania, ma niente. Al suo posto, poggiato per terra, c’era qualcos’altro: un libro. Era grande con una copertina nera, ma il titolo attirò la mia attenzione: Hades. Che significava?
Lo raccolsi timorosa e lo osservai attentamente, catturandone ogni minimo particolare. Era un semplice libro, come tutti gli altri, ma allora perché sentivo che nascondeva qualcosa tra le pagine?
«Sembri molto interessata da quel libro». Mi voltai appena per notare la figura alta di Ziggurat sulla soglia della porta.
Non avevo avvertito la sua presenza, come non avevo notato l’apparizione e la sparizione di quel ragazzo misterioso.
Mi si avvicinò lentamente, fino ad abbassarsi alla mia altezza. «E’ un libro molto bello e… affascinante» disse con ammirazione e enfasi. «Accettalo come regalo».
Mio zio che mi faceva un dono? Mai successo nei miei otto anni di vita, per questo mi sorpresi.
Poi tornai con lo sguardo sulla copertina nera, puntando sulla parola rossa scritta al centro del libro.
«Zio, cos’è questo libro?». Non era quella la domanda che volevo porgli, ma comunque il concetto era quello: che libro era? Perché aveva quell’aspetto misterioso che mi incuriosiva? Che cosa significava la parola “Hades”?
Lui mi sorrise, e potevo vedere una certa soddisfazione sulle labbra incurvate verso l’alto. «E’ un libro molto speciale. Quello è… il libro della morte».
Un altro fulmine illuminò la stanza, ma questa volta il tuono che seguì non mi spaventò, troppo presa dai miei pensieri.
Alle mie orecchie giunse una risata diabolica.
 
 
Ed ero troppo ingenua per capire che, tra le mani, avevo un oggetto che non doveva esistere, qualcosa di pericoloso per tutta l’umanità: Hades, il libro della morte.
 
 
 
Fine pagina uno

 
Angolo di Xima
 
Buona sera, Minna!
Che piacere essere ritornata su questo sito, era da un pò che non mi facevo sentire.
Adoro il mistero e i demoni, così ho pensato di scriverci una storia.
Il ruolo adatissimo del demone malvagio e strafigo andava proprio a Damian, dai c:

Tutta la fic verrà raccontata in prima persona dalla mia Oc, Miku Kurogane. Forse qualcuno lo sa, ma il cognome l'ho preso da Zero o Zyro della serie Metal Zero-G, infatti Miku sarà la sorella del piccolo blader.
Apparirranno i personaggi della serie Metal e BeyWhezzel, più dei personaggi inventati da me, alcuni avranno un ruolo importante, altri no. Ma se per caso mi serve un personaggio, potrò chiedere a voi autori o lettori di creare un Oc da inserire nella fic -sempre se volete, mica vi obbligo-.
Allora, vi piace l'inizio?
Forse alcuni avranno notato che ho scritto all'inizio e fine storia "pagina uno" e così via...
Ho voluto rendere la storia come un libro, scrivendo così le pagine. Invece se qualcuno si domanda chi è Sho, nominato all'inizio, non è altro che il protagonista della serie BeyWhezzel.

Se in questo periodo non mi sono fatta sentire è per questa storia, ho pensato di portarmi avanti fino al capitolo tre.

Beh, che dire... Ovviamente continuo a fare schifo e ne sono perfettamente consapevole, ma a questa fic non ci rinuncio perché la amo e metterò tutta me stessa per mandarla avanti.
Spero che piaccia anche a voi le se per caso ci sono degli errori, vi prego non esitate a dirmeli perché io ci tengo.

Finisco col augurarvi buon anno e buone vacanze!
Ci sentiamo.
Xima_

 

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Capitolo 2
*** † Il Patto con il Principe dell'Ade † ***


Pagina due
 
 
I P r i n c i p e  d e l l ' A d e
- The Prince of Hades -
 
 
「 Ehi, lo sapevi? I demoni esistono davvero. 」
「 Huh? Che cosa stai dicendo? 」
「 Io ne conosco uno, si chiama Damian ed è il mio migliore amico. 」
「 ... 」
「 Non mi credi, vero? 」
「 Certo che no, stupida. 」

 
 
Era tutto buio. Regnava il silenzio e nessuno osava spezzare quella eccezionale tranquillità. Era uno spazio privo di pavimenti o di soffitti, senza inizio o fine: il vuoto infinito. In mezzo a quella fitta oscurità, si confondeva una figura raggomitolata su di sé, come a formare un guscio, avvolta da un mantello color oro: un ragazzo che mostrava quindici anni, ma l'apparenza inganna. I suoi capelli, dalla capigliatura strana, erano di un innaturale azzurro pallido. La pelle diafana quasi rischiarava quel luogo tetro e spaventoso. Le palpebre, chiare e cadaveriche, erano chiuse in un sonno profondo senza sogni e senza incubi. Ma in verità lui attendeva. Attendeva il momento giusto per risorgere dalle tenebre e per portare paura e morte, disgrazia e odio, sentimenti neri. Voleva solo questo: il potere assoluto. 
Aspetta il momento giusto” gli avevano detto, “e tutto quello che desideri sarà tuo”. Ma  era stufo di aspettare. Erano passati anni, decenni e secoli, ma non aveva ottenuto nulla. Non gli bastava essere il principe dell'Ade, colui che regnava nel mondo dei morti, lui voleva essere il re di tutto.
Se hai il potere tutti ubbidiranno a te. Non sarebbe fantastico?”. Il sorriso di una persona amata risorse dai suoi ricordi, pronunciando quelle parole così vere e melodiose. “Nessuno ci tratterà più così, vivremo per sempre felici e contenti”. Una fiaba, un'utopia, una visione irraggiungibile in cui perfino i re e dittatori della storia ci avevano sperato, ottenendo solo il sonno eterno.
Un fragore improvviso lo fece sussultare. Sul suo volto si dipinse un sorriso diabolico, i suoi canini spuntarono dalle labbra, vogliose di addentare qualcosa. E finalmente le sue palpebre si aprirono, mostrando delle iridi glaciali.
 
Era l’ora di risorgere dalle tenebre.
 
 

 
 
Intanto sulla Terra, in un paesino nipponico sperduto, dominava la monotonia. Nessuno poteva immaginare che, da un momento all'altro, fosse in gioco il futuro del pianeta. Ma gli umani come potevano sapere che esistevano entità superiori che li osservavano dall'alto?
 Anche io, come una comune abitante del pianeta Terra, vivevo una normale vita da studentessa, ignorando questa realtà. Insomma, entità sovrannaturali... Come alieni, fantasmi e demoni? Perché avrei dovuto credere a queste idiozie?
Eppure ascoltando i miei compagni, molto interessati all'argomento, iniziai a comprendere quanto gli esseri umani siano creduloni e pieni di fantasia. Da più di un'ora discutevamo sulla probabilità di altre forme di vita, tra battibecchi e ipotesi stupide.
E io sinceramente mi annoiavo. Di solito era la prima ad ascoltare la lezione, ma quelle cavolate non servivano né per la mia cultura né per il mio futuro. Che utilità potevano avere nella vita? Salvarmi da un gruppo di vampiri con aglio e croci? Far resuscitare qualche morto? Parlare con gli alieni? Magari mi avrebbero fatto salire sui loro UFO.
Fu la prima volta che odiai così tanto il professore di scienze, Dunamis, visto che era stato lui a tirare fuori l'argomento. E i miei compagni che lo avevano seguito a ruota, pur di saltare un'ora di spiegazioni noiose.
Quando suonò la campanella, mi sentii così libera. Tirai un sospiro di sollievo e uscii di fretta dalla classe, ignara che il professore aveva appena assegnato una ricerca sull'argomento.
 
 
La WBBA era la scuola più antica di tutto il Giappone, nel centro di un piccolo paese chiamato Komamura1. Fondata nel secondo dopoguerra dalla aristocratica famiglia Hagane, era diventata famosa per l'efficienza, l'ottimo personale scolastico e le attività extra-scolastiche che metteva a disposizione.
Ogni anno si iscrivevano in molti, addirittura l'edificio era diventato troppo piccolo per ospitare tutti i giovani. Adesso era diventato un sogno entrare in quel liceo, dovevi superare gli esami d'ammissione.
E ovviamente io ce l'avevo fatta con il massimo dei voti, come mi aspettavo. Adoravo questo posto, mi sentivo a mio agio. Soprattutto avevo trovato degli amici stupendi. Così stupendi che mi urlavano nei timpani anche durante l'unico momento di pausa, ovvero l'intervallo.
Mentre tentavo di leggere un libro imprestatomi da una compagna, con la testa annoiata sorretta dalla mano, quattro ragazzi (due maschi e due femmine) stavano discutendo animatamente sull’argomento trattato nell'ora di Dunamis, attorno al mio banco.
«Vedi che gli alieni esistono eccome!» disse decisa una ragazza, Mei-Mei, agitando le braccia. «E ho le prove, io ne ho visto uno». I suoi grandi occhi, che esprimevano la sua felicità incontrollabile, brillarono d’euforia.
I suoi capelli erano di uno strano colore, verde-acqua, raccolti in due crocchie dalla forma di odango. Maldestra, goffa e piena di allegria, capace di contagiare anche degli emo. Per lei passare un attimo a far niente era uno spreco della propria vita; per me se stava un secondo zitta e ferma era un miracolo per la mia vita.
«Come no! Se esistono, perché non si fanno vedere? Perché non sono ancora venuti a rapire qualcuno? Se sono più evoluti e tecnologici, sicuramente si sarebbero mostrati e vantati di fronte a noi» protestò un ragazzo dai bizzarri capelli rossi che sfidavano la forza di gravità.
Gingka Hagane era il figlio del preside della WBBA, inoltre vicino di casa, un tipo simpatico, gentile e  sempre disponibile. Un fidanzato ideale, starete pensando, ma vi sbagliate di grosso: la sua stupidità  superava ogni limite.
Stessa cosa vale per il suo inseparabile amico sbruffone Masamune Kadoya, intento a mangiare le sue patatine. Ogni tanto prendeva fiato, poi ripartiva in quinta divorando la merenda. Il suo stomaco era identico a un buco nero, quando qualcosa entrava, non sapevi dove finisse. Anche se mangiava come un maiale, era magro come un chiodo.
«Se esistessero, forse ci userebbero come cavie nei loro esperimenti» commentò.
«Di sicuro non userebbero il tuo encefalo, è microscopico» dissi fredda, senza staccare lo sguardo dalla pagina, mentre lui domandava a Madoka cosa fosse l'encefalo.
Madoka Amano era l'ultima componente del gruppo, diciamo la mia salvezza. Una sedicenne dal viso tenero e grazioso, con degli enormi occhi celesti. Gentile e  davvero intelligente. Unico difetto era la poca pazienza: se la facevi arrabbiare, erano guai seri, insomma morte certa.
«Se è per questo nemmeno quello di Gingka! Sono troppo stupidi!» urlò Mei-Mei, indicando i due amici.
Senza pensarci, i due iniziarono a rincorrere la cinese, creando un gran trambusto. Volavano banchi e sedie di qua e di là. Per fortuna il professore era uscito per bere un caffè. Mei-Mei sembrava divertita, ma né lei né gli stupidi erano consapevoli che la loro vita era in pericolo. Infatti Madoka era avvolta da un'aura nera spaventosa. Dopo due secondi si scatenò il putiferio: la castana alzò un banco, come una lottatrice di wrestling, e lo lanciò dritto verso i tre, che si salvarono per miracolo.
Iniziò una battaglia continua, che fui costretta a fermare, anche se controvoglia.
I  tre sopravvissuti mi lodarono come loro salvatrice e, dopo aver ripreso fiato, Gingka tornò sul discorso di prima.
«Comunque dobbiamo fare lo stesso la ricerca di Dunamis. Io porterò i fantasmi!»
«Scordatelo! Li porto io!» ribadì Kadoya, premendo il pollice sul proprio petto.
Ci mancava solo che litigassero. Ormai erano così frequenti che nessuno ci faceva più caso. Per decidere il vincitore se la giocavano in gare stupide. Stavolta capitò uno scontro di boxe.
«Stop!» li fermai, stufa di non riuscire a leggere in santa pace. «Ve la giocate a morra cinese come dei normali cristiani.»
«Io non sono cristiano.»
«A chi importa, Kadoya!»
Alla fine vinse Gingka.
«Invece tu cosa porterai, Miku-chan?» mi domandò Madoka, mentre i due litiganti ancora si fulminavano con lo sguardo.
Misi nello zaino il libro che stavo leggendo. «Ci devo riflettere.»
«Una scelta davvero difficile!» scherzò Hagane, che aveva lasciato perdere il suo amico e si era avvicinato al banco con una sedia.
«A dir la verità, non mi interessa granché.»
«Meglio delle spiegazioni sui moti dei pianeti. Sai che noia!» disse Mei-Mei.
«Quella che ti manca è la voglia. Se continui così non imparerai un bel niente». Conoscevo benissimo i suoi voti, e la stessa cosa valeva per il Duo Baka. «Lo stesso vale per voi, Hagane e Kadoya».
«E non farmi la predica!» sospirò disperato il rosso, stendendosi con le braccia sul banco, stanco. «Sei più assillante di mio padre.»
«Secondo me, quest'anno è quello giusto che ti bocciano!»
«Meglio se non parli proprio tu, Masamune!»
«Nemmeno tu, Mei-Mei!» l'ammonì Gingka.
E ripartì un altro battibecco.
Sospirai annoiata, lanciando uno sguardo al cielo, esasperata. Ragazzi, che monotonia!
“Vi prego, alieni proveniente da Marte, Giove, Saturno o qualsiasi altro pianeta o galassia, portatemi via!”.
Forse meglio chiedere a un demone?
 
 
Al suono dell'ultima campanella, tutti i ragazzi erano fuggiti dalle proprie classi, contenti di aver passato un'altra giornata pacifica. Anche io, dopo aver finito con il turno di pulizie, mi ero avviata con tutta calma verso casa. Appena entrata, buttai con poca delicatezza lo zaino vicino all’attaccapanni e le mie scarpe in un angolo, insieme ad altre accumulate una sull’altra.
A casa mia c’era sempre molto disordine, come se fosse appena passato un tornado; la voglia dei miei familiari di pulire era poca, così nessuno badava a sistemare tutto. Ma in fondo aveva un aspetto accogliente. Anche se non era tutto in ordine, non si poteva dire che fosse un luogo sporco.
Pensai di riposarmi un po’, dopo quest’altra giornataccia. Andai in salotto e trovai una signora cicciottella sulla ottantina intenta a russare su una poltrona passata. Nonna Rika era una pigra anziana che adorava passare le giornate a poltrire davanti alla televisione. Perché non poteva essere come tutte le nonne del mondo? Quelle che pensano sempre ai nipoti e preparano loro dei piatti gustosi che fanno ingrassare almeno dieci chili.
Poiché ormai ronfava, spensi la televisione, ma purtroppo la svegliai.
«Perché l’hai spenta? La stavo guardando!» sbraitò, sputacchiando a ogni parola.
Sospirai pesantemente, abituata a quella routine pomeridiana. Riaccesi la tv e mi avviai in cucina alla ricerca di qualcosa che calmasse la mia fame.
Fui accolta da un gracchiare stridulo seguito da un “Ciao, ciao!”. Un pappagallo dalle piume bianche con un ciuffo erettile giallo si muoveva agitato nella sua gabbia appesa vicino alla finestra, forse rallegrato del mio arrivo. Odiavo a morte Mister Parrot, ricevuto in regalo da una parente australiana della mamma, perché non stava mai zitto. Schiamazzava tutte la parole che imparava, senza alcuna logica; oltretutto era costantemente agitato e riusciva con il suo becco nero a uscire dalla gabbia per poi svolazzare per casa. Mi ero informata sulla sua specie, i Cacatua, classificata tra le più parlanti del mondo. Ero tentata di strappargli le piume e poi le corde vocali.
«Ciaoo! Pronto? Bakaa bakaaa!!» strillava per attirare la mia attenzione.
«Taci, stupido pennuto. Non sono dell’umore giusto» dissi a denti stretti, mentre mi riempivo un bicchiere d’acqua.
All’improvviso, un rumore assordante di oggetti che cadevano echeggiò sulla mia testa, spaventando anche Mister Non-sto-un-attimo-zitto, che sobbalzò sul suo appoggio di ferro. Proveniva dalla mia camera da letto.
Dopo essere ripassata dal salotto, dove nonna Rika aveva ripreso il suo pisolino, corsi veloce sulle scale di legno che portavano al piano superiore, fino ad arrivare davanti alla mia stanza, la cui porta era spalancata. Il suo stato mi sconvolse: era tutto a soqquadro. La mia perfetta e ordinatissima camera non esisteva più!
Trovai il colpevole, il solo ed unico, di quel disastro, che non appena incontrò il mio sguardo furioso si nascose sotto il letto.
«Maledetto!» tuonai, tirandolo fuori dal rifugio sicuro dalle gambe.
Una figura bassa, con un buffo ciuffo arancione, si proteggeva dalla mia ira con le braccia, mentre dagli occhi dello stesso colore dei miei sgorgavano grossi lacrimoni.
Ecco Zero Kurogane, il mio carissimo fratello di dieci anni, il più piccolo della famiglia. Fin troppo euforico, vivace e giocherellone. Era lui che dava vita a questa casa. Mi guardava con i suoi occhietti da cucciolo bastonato, velati dalla sua ovvia colpevolezza, ma non mi lasciavo incantare: anche se non sembrava, dentro di lui si nascondeva il demonio.
«S-sorellona…» farfugliò tremante, mentre cercava di trovare una scusa credibile per discolparsi.
«Cosa-ci-fai-qui?!». Forse la mia domanda fu urlata con aggressività, perché Zero indietreggiò verso l’uscita e il solito rossore che colorava le sue paffute guance era sparito.
Balbettò qualcosa, ma non capii niente. Troppo spaventato per darmi una spiegazione, scappò a gambe levate, ancora in lacrime, verso il suo nascondiglio segreto in giardino. Sospirai sonoramente chiudendo la porta, lasciandomi poi scivolare a terra. Con poca forza, mi rialzai e riordinai la stanza alla veloce. Ma ero così esausta.
Zero aveva catapultato tutto in aria, peggio di una ladro professionista.
Sollevai lo sguardo verso l’unica finestra, di fronte alla porta. Entrava poca luce, fuori si stava preparando un bel temporale, ma abbastanza da farmi vedere dov’era il letto e buttarmici sopra.
I miei occhi blu erano spenti come il cielo, troppo stanchi per rimanere aperti fin dopo cena, ma dovevo studiare per la verifica di fisica di domani.
Eppure lasciai perdere, osservando con sguardo vacuo il soffitto blu con le decorazioni del sistema solare. Amavo l’astronomia e l’astrologia, tutto ciò che riguardava i corpi celesti e le loro mitologie. Mi ero appassionata grazie a mio padre, che ogni sera, seduti sul tetto della casa, mi raccontava qualcosa sulle stelle, anche se la mamma ce lo vietava. Lui amava la costellazione del cavallo alato, Pegaso, invece io era rimasta incantata dalla galassia d’Andromeda.
Mi mancava molto papà, ero quella che aveva patito di più la sua morte, avvenuta per cause ancora sconosciute. La polizia non aveva alcun indizio da cui aprire il caso, così l’aveva dichiarato suicidio, tanto per chiudere la questione. Ma lui non avrebbe mai abbandonato la propria famiglia. Mai. Doveva essere stato per forza qualcuno, un collega di lavoro o un amico, ma comunque una persona che lo conosceva e che volesse qualcosa da lui, ma cosa?
Restai un po’ sdraiata sul letto a riflettere, tra le coperte ancora disfatte impregnate di un odore acre e stuzzicante. I capelli castani, raccolti in due code alte, erano sparpagliati sul cuscino, crespi e poco curati. Lo ammetto: non mi ero mai presa cura del mio corpo. Non che non m’importasse, ma non era una cosa così importante come la scuola.
Mi alzai, mentre facevo leva per mettermi in piedi e dirigermi verso la libreria accanto alla  scrivania. Anche lì nessun libro era messo in ordine, tutti buttati a terra. Chissà cosa stava cercando Zero per ridurre così questo posto. Magari la Nintendo DS che gli avevo sequestrato perché aveva preso tre volte di seguito delle insufficienze gravi in matematica.
Mentre raccoglievo i miei testi, scolastici e non, il mio sguardo finì su uno in particolare e fermai la mano a mezz’aria. Era il libro nero che mi aveva regalato zio Ziggurat l’ultima volta che ero andata a fargli visita, ben sette anni fa.
Anche lui era morto, poco dopo la nostra visita. Come per mio padre, l’assassino era ancora in circolazione, c'era una lunga lista di sospettati vista la sua fama nel litigare con altri bibliotecari.
Quel libro nero sembrava minacciarmi con la scritta rossa “Hades”. Da quando me lo aveva donato, non l’avevo mai aperto, per niente interessata a leggerlo e in parte impaurita dalla frase detta da Ziggurat: «E’ un libro molto speciale. Quello è… il libro della morte».
Non lo presi molto sul serio quella volta, troppo ingenua per capire se quello che mi aveva detto fosse vero oppure uno stupido scherzo.
Ma adesso, la mia mano si mosse da sola, fino a sollevare il libro. Lo rigirai tra le mani. Spolverai la copertina e continuai a scrutarlo attentamente. Sembrava chiamarmi, dirmi che dovevo aprirlo e leggerlo. Eppure… avevo paura, paura di sfogliare quelle pagine.
 
«Invoca il mio nome.»
 
Mi bloccai di colpo, guardandomi attorno, ma non c’era nessuno. Zero non poteva essere stato, anche se gli piaceva fare gli scherzi, non mi avrebbe innervosito ulteriormente e nonna Rika dormiva come un orso in letargo e avrebbe continuato così per altre tre ore di fila. In conclusione: lo stress mi stava portando alla pazzia.
 
«Sono qui.»
 
Lasciai scivolare il libro dalle mani e indietreggiai spaventata più che mai, fino a poggiare la schiena contro il letto. Se era uno scherzo, non era divertente.
Il libro nero era poco distante da me, ancora chiuso.
«L-lasciami stare...» balbettai, mentre le lacrime mi rigavano il volto, dandomi poi della stupida perché parlavo da sola.
Aspettai secondi, forse minuti, tentando di calmarmi e convincermi che era tutto un'illusione dovuta alla stanchezza. Così mi alzai e presi quel dannato libro nero. L’avrei rimesso dov’era e mai più l’avrei toccato, questa era la mia intenzione. Ma una parte di me non ascoltò.
Troppo curiosa di sapere cosa avesse di speciale, sfogliai le pagine, ma con mia grande sorpresa vidi che erano tutte bianche. Intanto, tutto quello che mi circondava sembrava essere sparito, esitavamo solo io e quel libro.
Mi concentrami sulla pagina, segnata dal cordoncino rosso di stoffa, e trovai scritte alcune parole sbiadite ma leggibili.
Lessi ad alta voce. «I-io ti d-domando… Sei umano?»
Che domanda era? Senza alcun senso. Magari era uno stupido libro utilizzato nei riti funebri nell’antichità. Che cavolata.
«No, lo nego.»
Mi coprii gli occhi con le braccia, non ebbi il tempo di urlare che fui avvolta dal buio.
 
 
Un forte dolore mi martellava la testa, così forte che forse sarebbe scoppiata come un palloncino. Cos’era successo? Mi ero addormentata?
Aprii pigramente le palpebre, infastidite dal chiarore della luna proveniente dalla finestra, unica fonte di luce della stanza. La luna? Quindi era arrivata la sera?
Mi stropicciai gli occhi, cercando di ricordare come mi ero addormentata sul pavimento. Tutto mi tornò in mente e feci in tempo a voltarmi per vedere Hades ancora aperto. Possibile che fosse stato quell’oggetto a provocare quella nube oscura?
«E finalmente la bella addormentata aprì gli occhi.»
Il mio cuore smise di battere e credetti di svenire quando sentii quella voce. Puntai lo sguardo verso la finestra e i miei occhi blu oltremare spalancarono dalla sorpresa: le tende, color panna, si muovevano delicate in sincronia col vento, coprendo in parte una figura bassa seduta sul davanzale. I raggi lunari si riflettevano sui capelli azzurri dello sconosciuto, facendolo sembrare un angelo. La sua pelle era pallida come quella di un cadavere, vestita da un tuta bianca e un mantello dorato, in perfetto contrasto con il collare nero che portava al collo, simile a quello di un cane. Era voltato verso l’esterno della casa, intento a osservare la bellezza del nostro satellite naturale che splendeva in quel cielo notturno, schiarito finalmente dalle continue nuvole scure cariche d’acqua.
Rimasi incantata davanti al suo fascino e pensai solo in un secondo momento che quello era uno sconosciuto, per di più apparso dal nulla, e che si trovava in camera mia. Chi era quel ragazzo? Com’era arrivato lì? Che fosse un’altra illusione dovuta alla stanchezza?
No, quel ragazzo non era il frutto della mia immaginazione, era lì e me lo stavo mangiando con gli occhi, quasi volessi consumarlo.
Si voltò lentamente verso di me e mi congelò con lo sguardo di ghiaccio. Le iridi grigie-azzurre mi stavano scrutando, quasi volessero leggere i pensieri che mi affollavano la testa.
Ero affascinata quanto terrorizzata. Presa dal panico, afferrai velocemente la prima cosa a portata di mano, un dizionario, portandolo davanti a me per difendermi.
Lui rise divertito e scese con grazia dal davanzale, per poi avvicinarsi lentamente.
Quel ragazzo… io lo conoscevo, ne ero sicura. Ma dove l’avevo visto?
La mente era troppo annebbiata per rispondermi, lo sconosciuto dai capelli azzurri era a pochi metri da me.
Un passo e poi un altro, le distanze tra di noi si stavano accorciando. Indietreggiai spaventata, sempre con il dizionario teso in avanti, pronta ad attaccare a qualsiasi  sua mossa.
Lui ridacchiò di nuovo. «Hai paura?»
Da cosa l'aveva dedotto? Dal mio corpo che tremava o dalle lacrime che continuavano a scendere copiose dai miei occhi?
Un altro passo e il mio cuore palpitava forte nel torace dalla paura. Quando mosse il piede per avvicinarsi ancora, lanciai il dizionario. La botta l'avrebbe colpito così forte da farlo svenire. O almeno così pensavo.
Il libro si fermò a mezz'aria, a pochi centimetri dal suo volto, e, improvvisamente, divenne polvere. Un cumulo di carta cadde sul pavimento, come se fosse stata bruciata. Non aveva mosso un muscolo, com'era possibile?
Ne rimasi scioccata, lui rise di nuovo. «Ritenta» disse divertito, «magari sarai più fortunata.»
Cercai qualcos'altro da lanciargli. Presi ciò che era ancora per terra, una lampada, dei peluche, biro e matite... Ma fecero tutti la stessa fine: carbonizzati.
Alla ricerca di altre munizioni, non mi ero accorta che ero con le spalle al muro, bloccata dal suo corpo. Il suo respiro era caldo, lo sentivo sulla pelle. Gli occhi bramavano qualcosa di pericoloso, mi guardava come se fossi già sua.
Avrei potuto chiamare qualcuno, così quell'incubo sarebbe finito. Tutto finito.
Ma il pianto mi impediva di urlare, i singhiozzi rompevano il silenzio della stanza. Avevo paura, non potevo negarlo. Era la prima volta che mi mostravo indifesa. Di solito ero la fredda Miku Kurogane che non aveva paura di niente e nessuno.
Invece in quel momento volevo qualcuno che mi abbracciasse e che mi dicesse che era solo un incubo.
La sua mano sinistra cercò la mia guancia, così calda che potevo scogliere le sue dita ghiacciate. Iniziò a carezzarmi, con una dolcezza invidiabile, e asciugò le mie lacrime. «Sssh, stai tranquilla» sussurrò. «Sentirai solo un po' di dolore.»
Non ebbi il tempo di far alcunché, le sue labbra fredde si sovrapposero alle mie, infuocandomi l’anima. Non era voglioso, ma un puro e semplice bacio.
Il mio primo bacio rubato da uno sconosciuto. No, da un demone.
Improvvisamente un bruciore invase il petto. Mi sentii morire e volevo urlare, ma le sue labbra me lo impedivano. Mi sentivo così pesante, le forze stavano per sparire e le gambe non reggevano più il mio peso. Quel bacio mi stava rubando l’energia. Dovevo fermarlo o sarei morta da un momento all'altro.
Lui sembrò leggermi il pensiero: smise di baciarmi, finendo col passare la lingua sulle mie labbra, lasciando una piccola scia di saliva. Sorrise soddisfatto. Soffiò sulle mie labbra.
«Ora dormi.»
La mia vista si annebbiò e le gambe cedettero.
 
 
«Buonanotte, Miku».

 
1. Komamura è la citta natale di Gingka.
 
 
Fine pagina due

Angolo Autrice disperata!!
Chiedo perdonooooo! Perdonooo! 
Mi scuso davvero con l'immenso ritardo, avevo promesso di aggiornare presto, ma c'è stato un imprevisto.
La storia si è cancellata ed ero disperata. Ci ho messo due mesi solo a riscrivere questo capitolo.
Oltre al ritardo, non mi faccio manco più sentire. Per chi aggiornasse le sue storie che io seguo, chiedo perdono (di nuovo).
Spero che anche questo vi sia piaciuto come il precedente, per qualsasi errore o incomprensione, non esitate a dirmelo.
Accetto anche critiche.

Sayonara,
Xima_

 
 

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Capitolo 3
*** † Destino prestabilito † ***


Pagina tre
 
Destino prestabilito
 
 
Una bambina rincorreva la palla, canticchiando allegra una canzone:
 
  In un bosco,
dentro una casa,
stava un demone.
Lui attendeva, impaziente,
l'arrivo della sua contraente.
 
 
Quel venerdì di novembre era diverso dai precedenti: il cielo si era schiarito e il vento aveva spazzato via tutte le nuvole cariche di pioggia. Il sole splendeva più che mai, illuminando Komamura e accompagnando i cittadini al lavoro o a scuola.
Gli studenti della scuola WBBA erano vivaci e sorridenti, pur consapevoli che sarebbe iniziata un’altra giornata scolastica. Tra tutti i giovani, solo una non godeva di quella bella giornata: io.
Seduta al solito banco, in seconda fila, vicino alla finestra, tenevo lo sguardo perso nel vuoto, con una penna tra le labbra.
I miei amici erano tutti a farsi gli affari loro: Mei-Mei era davanti a me, intenta a scarabocchiare schizzi per le sue mosse di kung-fu; Masamune e Gingka erano in fondo alla classe a farsi un pisolino (strano che la professoressa non si fosse accorta del loro russare); e Madoka non c’era per un malanno preso il pomeriggio precedente, durante l’uscita con gli amici, infatti il banco accanto a me era vuoto.
Le parole della professoressa d’inglese, Hikaru, la vicepreside, mi arrivavano lontane, facendo da sottofondo ai miei pensieri insieme al russare del Duo Baka.
Ero stanca per prendere appunti. Mi ero svegliata già esausta, come se avessi lavorato in cantiere per venti ore di fila. Quando quella mattina mi ero guardata allo specchio, quasi non mi riconoscevo: occhiaie profonde, capelli disordinati, pelle cadaverica. Per un momento avevo creduto di essere uno zombie.
Puntai lo sguardo fuori alla finestra, verso il cielo limpido, così luminoso che sembrava prendermi in giro.
Sbuffai. Oltre alla debolezza, uno stranissimo sogno, fatto quella notte, mi tormentava: dal libro regalatomi dallo zio era uscito un ragazzo, vestito in modo alquanto bizzarro, e mi aveva baciata. Sì, doveva essere per forza stato un sogno, impossibile che dalle pagine di un vecchio libro apparisse uno sconosciuto: roba troppo soprannaturale. Non avevo mai creduto alle leggende che si raccontavano: i fantasmi, i mostri, gli zombie, i vampiri, i lupi mannari, tantomeno i demoni! Solo stupidaggini per spaventare la gente. Eppure sentivo ancora le sue labbra sulle mie e la freddezza della sua mano sulla guancia. Solo al pensiero avvampai, potevo fare a gara con i capelli rossi di Gingka.
«Prendete il diario, andate a martedì prossimo e segnate i compiti» ordinò Hikaru, voltandosi verso la lavagna e scrivendo con il gessetto gli esercizi.
Ubbidii svogliata. Andai alla ricerca del diario, nascosto nei meandri dello zaino, ma la mano afferrò qualcos’altro: Hades. Mi paralizzai con la bocca aperta. Cosa ci faceva lì? Io l’avevo lasciato sulla mia scrivania, n’ero sicura.
«Certo che voi umani siete proprio stupidi» commentò qualcuno seduto accanto a me. Ma che assurdità stava dicendo Madoka? Umani stupidi? Magari anche lei stava delirando.
Sospirai pesantemente, cercando di convincermi ancora che quel libro era frutto della mia stanchezza. Poi riflettei su una cosa: Madoka non c’era, quindi chi aveva parlato?
Spostai lo sguardo sulla sedia della mia amica e per poco non svenni: con le gambe accavallate sul banco, che mi guardava con aria beffarda, c’era il ragazzo di ieri. Gridai e finii a terra, seguita a ruota dalla sedia e dai quaderni, attirando l'attenzione della classe. Nella testa regnava la confusione. Se lui era lì significava solo una cosa: quello che era accaduto non era stato un sogno, quindi pure il bacio…
Avvampai, guardando allarmata il ragazzo dai capelli azzurri, che si stava divertendo a vedermi in quello stato.
«C’è qualche problema, Kurogane?» mi chiese la professoressa. «Non sopporto gli studenti quando interrompono le mie lezioni». Ma come?
«Ma lì c’è un pazzo vestito da supereroe!» strepitai indicandolo, ancora seduta sul pavimento. Lo sconosciuto fece una smorfia, forse offeso.
«Non c’è nessun pazzo. L'unica pazza qui è lei. E ora torni in silenzio a seguire la lezione.»
«Le ‘sto dicendo che è qui. Non sono pazza!» protestai io, rimettendomi in piedi. Come osava darmi della pazza?!
«Miku, sei impazzita? Torna a posto prima che Hikaru-sensei si arrabbi» mi intimò Mei-Mei, seduta al banco davanti, che mi scrutava inquietata. Perché tutti mi stavano dando della pazza?!
«No, mi rifiuto di cedere! Lì c’è un demone maniaco che ieri mi ha baciato!». Appena mi resi conto di ciò che avevo urlato, per di più davanti alla classe, mi sentii stupida. E pazza.
«Kurogane, vuole fare una bella visitina dal preside? Se non le piace la lezione vada fuori al fresco e non si inventi più scuse assurde come questa!» sbraitò indignata la professoressa, sbattendo una mano sulla cattedra. Quando si arrabbiava faceva paura.
Era meglio uscire o peggioravo la situazione. Mi affrettai a rimettere quaderni e penne nello zaino e uscii sotto lo sguardo severo di Hikaru e dei miei compagni, che bisbigliavano tra loro. Intanto Gingka e Masamune russavano ancora.
 
 
Nel corridoio, mi lasciai scivolare contro il muro, cercando di calmarmi e riordinare i pensieri. Lo sguardo era vacuo, disorientato, spiritato. Non ero più me stessa. Io che venivo sbattuta fuori dalla classe? Sarebbe apparso in prima pagina sul giornalino della scuola! Questo mi avrebbe rovinato la condotta.
Tutta colpa di uno stupido demone maniaco!
«Chi sarebbe lo 'stupido demone maniaco'
Mi voltai adirata verso il ragazzo dai capelli azzurri, apparso di fronte a me. Mi guardava dall’alto in basso, con aria da furbetto. Non avevo più alcun dubbio, lui non era un ordinario ragazzo come tutti gli altri.
«Adesso vai a leggere pure i pensieri delle persone? Non pensi di avermi già causato un sacco di problemi?!».
Silenzio. I nostri sguardi fissi l’uno nell’altro. I suoi occhi erano inespressivi, innaturali, irreali, mi confondevano le idee. Si appoggiò al muro, nella sua solita posizione.
Sospirai. Portai le gambe al petto e ci poggiai la testa sopra, disperata e stanca. Tutto era così confuso e impressionante che mi chiedevo perché a me. Perché, tra tutte le persone esistenti al mondo, questo demone stava rompendo le scatole proprio a me?
Lo sbirciai con la coda dell’occhio. Mi accorsi che, senza essere avvolto dal buio della sera, non faceva così paura. Ma comunque tenevo alta la guardia, era pur sempre un demone.
«Tsk! Se sono questi i tuoi problemi» disse con calma, rompendo il silenzio, «allora non sei pronta a diventare la custode della Bibliotheca Mystica de illusion.»
«Cosa?» domandai, sperando di aver capito male.
Lo guardavo ancora più stupita di prima, con le sopracciglia aggrottate. Lui distolse lo sguardo, posandolo dall'altra parte del corridoio, da dove provenivano dei passi.
Non mi ero accorta della persona che si era avvicinata con aria premurosa.
«Tutto bene?»
Il cuore collassò quando riconobbi la voce appartenente al presidente del consiglio studentesco: Tsubasa Otori. Il ragazzo di cui ero innamorata.
Era mio collega nel consiglio, l'avevo conosciuto proprio lì. Subito mi era parso uno studente perfetto, ideale per il ruolo che gli era stato assegnato. E all'improvviso era scoppiata la cotta. Credevo fosse solo ammirazione, ma col passare del tempo mi ero accorta che i miei sentimenti verso di lui erano cambiati. Tutte le ragazze del liceo gli andavano dietro, avevano addirittura creato un fan club dedicato solamente a lui. E come biasimarle, era così bello: capelli argentei, iridi ambrate, pelle abbronzata, alto e atletico; oltretutto gentile, educato e intelligente. Un angelo sceso in Terra. Era davvero affascinante con la divisa scolastica: la camicia bianca gli stava a pennello, abbinata alla cravatta bordeaux, i pantaloni blu risultavano aderenti, mettendo in risalto le gambe lunghe e magre.
Sembrava sorpreso di trovarmi nel corridoio da sola (beh, proprio sola non lo ero). Infatti, anche lui, come Hikaru e i miei compagni, non vedeva il demone che mi affiancava e che, da quando era arrivato, non aveva smesso di fissarlo.
Presa alla sprovvista, non seppi che rispondere. Le mie labbra tremavano, dalla bocca uscivano solo parole sconnesse e extraterrestri. Sudavo dall'agitazione. Aumentai la preoccupazione di Tsubasa.
«Ti senti poco bene?»
«E-ecco...» ah, finalmente una parola umana! «non lo so» dissi sincera, procurandogli un sorriso divertito.
«Andiamo in infermeria, magari stai male». Dopo avermi sollevata con estrema facilità, mi accompagnò per mano verso l'infermeria, situata al pian terreno, sotto il nostro.
Dalle orecchie mi usciva il fumo, probabilmente sarei svenuta da un momento all'altro. Cioè, mi teneva la mano! Forse temeva che cadessi perché stavo male (ma io ero più che sana…fisicamente, non mentalmente).
 «G-grazie, Otori-san» balbettai, non osando alzare la testa per non mostrargli il viso arrossato.
«Ci conosciamo da mesi, chiamami solo Tsubasa» disse, regalandomi un altro sorriso che mi sciolse come un cubetto di ghiaccio al sole.
Raggiunta la destinazione, ci accorgemmo che non c'era nessuno, nemmeno l'infermiera Fuyuka, una donna assunta da poco di ventisette anni.
Tsubasa si mise a cercare un termometro, supponeva avessi la febbre, mentre io sedevo sulla brandina vicino alla finestra. Non trovandolo, si arrese. Si avvicinò a me e poggiò la sua mano sulla mia fronte. Sorpresa della vicinanza improvvisa, sussultai.
«Non va affatto bene, la temperatura sta aumentando». Chissà perché! «Per caso hai preso freddo oppure hai un malore?». Forse non si rendeva conto che era proprio lui la causa della febbre.
«Non saprei…» farfugliai, giocherellando con alcune ciocche castane, imbarazzata.
Lo vidi sobbalzare e poi, esitante, indicò qualcosa sul mio petto. «T-ti sei fatta un tatuaggio?». Credevo fosse uno scherzo, ma lui non faceva mai battute.
Gli diedi le spalle e mi sbottonai gli ultimi bottoni della camicia bianca. Poco sopra il seno, stava un simbolo: rappresentava tre teste mostruose mitologiche. Aggrottai le sopracciglia, accigliata e confusa. Stamattina, mentre mi vestivo, non l’avevo notato. Odiavo i tatuaggi, perché mai ne avevo uno? Provai a levarlo, sfregandolo con le unghie, ma fu inutile.
Chissà cosa stava pensando Tsubasa in quel momento.
Lui si portò una mano sotto il mento, con fare pensieroso, per poi sospirare e avviarsi verso la porta.
«Per adesso rimani qui, vado in segreteria e avviso tua sorella, poi ti porto qualcosa da mangiare, d'accordo?» uscì.
Mi sentii abbandonata. Sentivo il bisogno di parlare con qualcuno per sfogarmi. Ciò che stava accadendo mi stava complicando la vita.
«L'infatuazione dei giovani, davvero ridicola» commentò qualcuno nell'orecchio.
Mi trattenni dall’urlare. Il demone stava alle mie spalle, potevo sentire il suo fiato sul collo. Mi vennero i brividi e ripensai alla sera precedente, nella mia camera, quando mi aveva baciata. Saltai indietro, distanziandomi il più possibile da lui.
Rise divertito. «Brutto l'amore non corrisposto, eh?»
«Non eri sparito, demone?»
«E ora sono riapparso, contenta?». Odiavo il suo ghigno, odiavo lui in generale.
«Sei fastidioso come un cactus sotto il sedere!» tuonai.
«Come sei acida. Dovresti portare più rispetto a chi ti è superiore» si riavvicinò, ero al limite del letto, un altro passo e avrei sbattuto il didietro sul pavimento.
«Solo perché sei un demone non vuol dire che sei forte». Mi maledissi per averlo detto.
La distanza tra noi si era di nuovo accorciata. «Ne vuoi una dimostrazione?»
C'era aria di sfida, davvero opprimente, impedendomi quasi di respirare. Il silenzio si fece fitto, non sentivo più alcun rumore oltre al battito del mio cuore. Non mi piaceva quella vicinanza, mi metteva a disagio e mi faceva sentire inferiore.
Scesi dal letto e presi lo zaino. Tirai fuori il libro nero, Hades, e dissi decisa: «Se tutto è iniziato da questo, vuol dire che devo semplicemente sbarazzarmene e tu sparirai.»
Trattenne una risata. Ma quel tipo sapeva solo ridere?
«Come sei sciocca, non è facile come credi, Miku». Anche lui scese dal letto, avvicinandosi alla finestra. Adesso che notavo, era bassino rispetto a me, di almeno cinque centimetri, e io avevo paura di un nanetto travestito da supereroe?
«Sei stata scelta dalla Bibliotheca» alzò gli occhi verso il cielo, fuori dalla finestra, «non puoi sfuggirle».
Il clima era cambiato: il sole era stato oscurato da nuvole cariche d'acqua. Pioveva. Il tempo era matto quanto me.
«La pioggia è il segno che qualcuno sta soffrendo» disse, percorrendo con l'indice i movimenti delle gocce sul vetro.
Un ricordo mi balenò nella testa. Una scena accaduta tempo fa, a casa di zio Ziggurat: pioveva, ero nella biblioteca, in compagnia di un ragazzo. Un ragazzo affascinante, magnetico, misterioso.
«Eri tu» sussurrai sconvolta, «q-quel...»
La finestra, la pioggia che cadeva incessante, il buio della stanza, l'odore dei libri, il rumore dei tuoni. E lui. «In tutti questi anni, mi hanno appropriato diversi nomi, così tanti… Ma tutti con lo stesso significato. Io sono la morte. Io sono il principe dell’Ade.»
«T-tu s-sei...» iniziai balbettando, e lui continuò: «...Damian, principe dell'Ade» tornò a guardarmi.
La bambina e il demone.
Il demone e la bambina, dopo otto anni.
Non era cambiato affatto, sempre inespressivo, sempre misterioso, sempre bello.
Un lampo illuminò la stanza. Ogni cosa si era fermata: io, una normale liceale, immobile, stupita, a bocca socchiusa; lui, principe del regno dei morti, tranquillo, enigmatico, affascinante. Era tutto surreale.
Strinsi forte Hades tra le mani, le nocche divennero bianche.
«Impossibile» mi dissi, «assurdo» continuai. Eppure era la realtà.
Piangevo incredula, osservando Damian negli occhi. La vista mi si appannò.
«I-i d-demoni non e-esistono» singhiozzai. Ne avevo uno di fronte.
Strinsi di più il libro nero al petto. «E' tutta colpa di Ziggurat, vero?» gli domandai. «Tu, la Bibliotheca Mystica de Illusion, Hades... quel maledetto era al corrente di tutto. Il mio destino, quello di incontrarci...l'aveva già prestabilito». L'avevo sempre odiato. «ma ora cambierò i suoi piani».
Sospettavo che mi fosse stato affidato un compito che riguardava la leggendaria Bibliotheca Mystica de Illusion, come aveva accennato prima Damian, ma non volevo immischiarmi in questioni troppo grandi per una comune essere umana. Presi lo zaino e mi diressi alla finestra. Aprii le ante, facendo entrare il vento gelido autunnale e turbolento che mi scompigliò i capelli.
 
 
Due studentesse lo salutarono ammirate, sorridendo come delle ochette smielate. Tsubasa ricambiò accennando un sorriso, facendo scogliere le due povere malcapitate. Volevano chiacchierare con lui, ma non si fermò. Aveva altro da fare.
In mano aveva un vassoio con pane e una tazza di tè, preso dalla mensa della scuola per la sua amica Miku. Stava male, credeva lui, e sperava di esserle d'aiuto una volta tanto, visto che di solito era lei ad aiutarlo premurosamente in quanto sua vice.
Quando aprì la porta dell'infermeria, le parole gli morirono in gola e il vassoio gli scivolò dalle mani: Miku era sparita. E si allarmò di più quando vide la finestra spalancata, le tende mosse dal  vento e una scarpa per terra.  
 
 
Correvo disperata sotto l'acquazzone, con un piede scalzo. I vestiti bagnati ingombravano la mia corsa. Essendo senza ombrello, usavo lo zaino per ripararmi. La pioggia non dava segno di cedere, avrebbe continuato così fino a sera. I piedi facevano “ciaf” ogni volta che finivano in una pozzanghera, accompagnati dal rumore dei clacson delle macchine che superavo senza fermarmi ai semafori rossi. Starnutii tre volte di seguito, maledicendomi per aver scordato il giubbotto in classe.
Ma che mi era saltato in mente? Ero appena fuggita da scuola dalla finestra? Dovevo essere impazzita! Kurai mi avrebbe portato in un ospedale psichiatrico!
Damian levitava al mio fianco, incredulo e divertito dal mio atto di pazzia.
«E con questo che speri di ottenere? Una bronchite?» trattenne una risata.
Ribollivo dalla rabbia. Mi stavano innervosendo le sue risatine, lui prendeva tutto alla leggera, come se non notasse il rischio che stavo correndo. Mi fermai su un ponte, sotto c'era il fiume Tama. 
«Senti, ma cosa vuoi da me? Che centri tu in tutta questa storia?!» gli domandai furiosa.
Damian fece una smorfia di sorpresa per poi rispondermi freddamente: «Pensi che anche a me piaccia sopportare una stupida umana che mi chiama “demone maniaco vestito da supereroe” e che poi si lancia dalla finestra della scuola?»
Maaa...? Come si permetteva!
«Ti avrei già abbandonata se non fossi la mia contraente!». Mi mostrò il dorso della mano, sopra c’era marchiato un simbolo: tre teste di mostri. Il mio stesso tatuaggio sul petto.
Lo indicai, con la mano tremante e la mandibola a terra, urlai indignata: «Ma allora sei stato tu, brutto demente! Quando lo avresti fatto?! Mentre dormivo?».
«Ma come, non ricordi?» ghignò. «Quando abbiamo stretto il Patto.»
Gli stavo per domandare a cosa si riferisse, ma mi bloccai. Che si riferisse al bacio? Quello era ciò che chiamava “Patto”? Assurdo!
«Guarda che sei stato tu a baciarmi! Potevi sceglierti un altro contraente, no?!»
«Quanto sei seccante!» si scompigliò i capelli, snervato. Incrociò le braccia sul petto, come suo solito. «Pensi che ti abbia scelta a caso? E poi perché ti scaldi tanto per un bacio?»
Avvampai, imbarazzata e imbestialita. «Io non mi metto a baciare gli sconosciuti!»
«Per noi demoni è normale!»
«Sono umana! U-m-a-n-a! E non me ne frega niente di cosa fate voi demoni!» urlai disperata, con la testa tra le mani.
Dei passanti si fermarono a vedere una pazza che sbraitava contro l'uomo invisibile. Una signora stava chiamando al telefono un'ambulanza. Non ci badai.
«E poi che significa “pensi che ti abbia scelta a caso”?»
Intanto la pioggia stava aumentando, avevo il corpo infreddolito. La frangia color cioccolato mi si era appiccicata sugli occhi, neanche il mio sbuffo spazientito riuscì a spostarla.
«Quante domande, cos'è? Un interrogatorio? Perché non lo scopri da sola!»
«Non ho bisogno di sprecare forze, tanto getto 'sto dannato libro nel Tama e addio!»  tirai fuori Hades dallo zaino.
Lo sporsi oltre la ringhiera di mattone del ponte. Sotto, l'acqua del fiume era agitata, faceva paura, ma almeno avrebbe trascinato il testo fino al mare.
«Ti ho incontrato, anzi, rincontrato da poche ore e già ti odio» affermai tranquilla, lanciandogli uno sguardo di traverso.
Damian incurvò le labbra verso l'alto. «Sentimento reciproco.»
«Bene...» sussurrai, mentre sentivo un peso sul cuore quando lasciai la presa. «Addio, Damian...»
Hades sprofondò nella corrente del fiume. Ormai era andato. Ripresi a respirare.
La signora che aveva chiamato l'ospedale mi allontanò dalla ringhiera. Le persone che avevano assistito la scena avevano temuto che io mi buttassi giù. Che follia!
Quando mi voltai, di Damian nemmeno l'ombra.
 
 
Pensai che fosse inutile tornare alla WBBA, avrei solo ricevuto rimproveri su rimproveri dai professori e dal padre di Gingka, togliendomi anche il ruolo di vicepresidentessa del consiglio, così mi avviai verso casa, bagnata dalla testa ai piedi, ma con il cuore in pace. Intanto la pioggia aveva ceduto un po'.
Quando entrai in casa, non mi accorsi di una presenza con in mano un battipanni. Fui attaccata.
«Waaah! Sparisci ladro!».
Mi proteggevo con lo zaino dagli attacchi continui del battipanni.
«Nonna, sono io, Miku!».
Lei smise di sventolare “l'arma”, guardandomi stupita. Mi ispezionò con lo sguardo attraverso i suoi occhiali, per poi affermare decisa: «Impossibile! Mia nipote non andrebbe in giro conciata così!».
«Così come?! Fuori diluviava e mi sono scordata l'ombrello!» le urlai.
«Oh, adesso capisco...» allungò il collo, senza smuovere lo sguardo da me. «Effettivamente rassomigli molto a mia nipote».
Sospirai pesantemente, prima di abbandonare mia nonna all'ingresso che diceva sospetta “che sia un clone?”. Cosa mi tratteneva nel mandarla in un ospizio ancora non lo sapevo.
Andai nella mia stanza per cambiarmi e farmi una doccia, ma senza rendermene conto mi ero già buttata sopra il letto. Chissà se Kurai aveva ricevuto la chiamata dalla scuola per dirle che ero fuggita dalla finestra. Come minimo sarebbe svenuta.
Sbadigliai stanca. Ero talmente esausta che l'unica cosa che volevo era dormire per il resto della giornata. Per un momento avrei dimenticato tutto: Kurai, Damian, scuola, Damian, libri neri, Damian...
«Damian...». Perché mi veniva in mente proprio quel tipo? Era stato lui a stravolgermi quei due giorni.
Eppure scoppiai in una risata liberatoria, inconsciamente. Se avessi raccontato i fatti appena successi, chiunque avrebbe detto che ero fuori di testa. E come biasimarlo.
Sbadigliai un'altra volta. Scordando che ero ancora fradicia, mi raggomitolai sotto le coperte alla ricerca di protezione e calore e mi addormentai.
 
Damian era appoggiato al muro della camera, nella sua solita posizione, e osservava attento la sua contraente.  “Ci sarà da divertirsi” pensò.
Spostò gli occhi sulla scrivania. Lì, stava un oggetto dalla forma rettangolare, nero, con delle pagine al suo interno.
 
Hades attendeva gli ordini della sua padrona.
 
 
Fine pagina tre
Angolino di Ximas
Buonanotte, cari e care! Solo io posso aggiornare a quest'ora. -.-
Eccovi un altro capitolo di questa assurda fic. Che dite?
La mia immaginazione sta tirnado fuori idee piuttosto scarse, vero?
Comunque spero che vi piaccia e che non si siano errori.
Sayonara,
Xima_

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