Blackness - Until The Last Breath.

di Paradichlorobenzene_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Per ragioni d'orgoglio. ***
Capitolo 2: *** Relativamente, salva. ***
Capitolo 3: *** Il riflesso del cremisi sulla spada. ***
Capitolo 4: *** -Intermezzo Parte 1°- ***
Capitolo 5: *** De Bello non disputandum est. ***
Capitolo 6: *** Le maschere che ci mettono addosso. ***
Capitolo 7: *** Di Sabbia tra i capelli e deduzioni. ***
Capitolo 8: *** L'Ultimo Respiro. ***



Capitolo 1
*** Per ragioni d'orgoglio. ***


Era stanca, sporca e non si sentiva più i piedi.
Aveva camminato per giorni e giorni, attraversando foreste e nuotando attraverso le acque turbinose dei torrenti della Terra di Confine. 
Aveva i vestiti laceri, varie ferite sulle gambe a causa dei fitti rovi dei boschi, la gola riarsa dalla sete e lo stomaco vuoto ma, incurante del fatto di essere ormai arrivata al territorio di frontiera, e quindi ad acqua calda, cibo commestibile e soprattutto ad un tetto sulla testa, Erech si sedette sotto un albero, almeno per far riprendere sensibilità ai piedi. Chiuse gli occhi, stanca, e ripensò al perché fosse scappata di casa.
Adesso, con lo stesso aspetto di un vagabondo in piena regola, non ne vedeva più motivo.
Ricordò le stanze ampie e pulite del castello, i vestiti leggeri e la pelle bianca che profumava di lavanda.
Aprì gli occhi e, guardandosi le mani, le trovò diverse. I vestiti di suo cugino le stavano grandi e la spada le arrivava poco sotto il gomito, quando, normalmente, doveva arrivarle al polso.
Sospirò. Non era bello ritrovarsi il proprio padre che, a colazione, annuncia un matrimonio imminente.
“specialmente se si tratta del mio”, pensò la ragazza.
Odiava indossare abiti lunghi, intrecciare i lunghi capelli neri in elaboratissime acconciature, calzare scarpe strette e scomode e portare fin troppi gioielli.
Il dover imparare a suonare il pianoforte e il clarinetto. Quelle assurde lezioni di solfeggio.
Fin da bambina ascoltava di nascosto il padre e lo zio discutere di battaglie e di storia, ed era questo ciò che l’affascinava davvero.
Finché qualcuno non decise che doveva sposarsi con un perfetto sconosciuto.
Non ne conosceva il carattere, l’aspetto, nemmeno il nome. E questo non le stava bene.
Fuggì la sera stessa dalla sua casa, decisa ad andarsene il più lontano possibile.
Sospirò, rialzandosi e ripulendosi i pantaloni dalla terra, nonostante fossero macchiati di fango e strappati. Recuperò la strada camminando velocemente e con le ultime forze fino al regno che si vedeva all’orizzonte.
“Ma  nonostante tutto – pensò Erech – chi è che dovrei sposare?”.
 
 
 

Con un tintinnio di ceramica dorata il giovane principe ricongiunse la tazza da tè al piattino che teneva in mano dopo aver bevuto un sorso della bevanda ancora calda appena portatagli da una delle tante cameriere che lavoravano al castello.
Di fronte a lui, comodamente seduta su una poltrona, sua madre, in una posa più che regale ma in linea con la sua figura di ex regina.
Bella di una gioventù ormai persa e dell'esperienza di coloro che sopravvivono alle persone che amano.
I lunghi capelli bianchi le ricadevano su di una spalla raccolti in una morbida treccia.
Il corpo più magro che snello vestiva ancora perfettamente gli abiti di corte di quando era una sovrana presente e amata.
Ma ora, nella debolezza degli anni che passano, il suo ruolo si limitava all'assistenza del giovane figlio succeduto al padre sul trono del regno di Calimon. Egli, ormai schiavo dei suoi modi regali anche nella vita privata, sedeva ritto con la schiena su di un'altra poltrona, in fronte a quella dell'amata madre.
Gli abiti sontuosi ma meno formali per il colloquio privato con la madre: mancava, infatti, dalle sue gracili spalle il lungo mantello che era solito tenere durante i discorsi pubblici o gli incontri ufficiali con cariche importanti degli altri regni. Faceva, invece, la sua bella comparsa sulla chioma bianca del principino una piccola corona incastonata di gemme rare, perlopiù smeraldi, posta su di una parte della regale testa in perfetto equilibrio.
Ad ogni movimento del capo del giovane, essa pareva voler scivolare verso il pavimento ma, magicamente, restava al suo posto.
Il nuovo reggente allontanò la tazza di tè dal suo corpo poggiandola sul tavolino intarsiato del secolo precedente che avevano fatto arrivare da regni lontani che lo divideva dalla figura femminea della donna. Accavallò aggraziatamente le gambe e le cinse con le mani inguantate di bianco.
Era solito assumere quella posizione a lui comoda quando doveva disquisire con la dolce madre di faccende private. Egli trovava la sua figura molto imponente ma ben presentabile in siffatto modo. Com'era facilmente notabile, il giovane principe era un ragazzo che, nonostante i suoi ventidue anni suonati, sembrava molto più maturo e responsabile degli altri giovani suoi coetanei. Aveva una forte considerazione della propria persona e ciò lo portava a svolgere egregiamente il suo compito, rendendolo visibilmente fiero del suo operato.
Quel giorno aveva deciso di richiedere udienza con l'amata madre per riprendere un discorso lasciato in sospeso nei giorni precedenti. Gli stava a cuore parlare del suo futuro e quando aveva preso la decisione di ammogliarsi con la figlia del Re del reame vicino era stato solo grazie alle parole della regina. Aveva chiesto ad alcuni dei suoi uomini di fiducia di indagare sul conto della principessa ma le informazioni reperite da terzi non si erano rivelate soddisfacenti. Quando schiuse le sue rosee labbra la donna di fronte a lui non aspettò le parole del figlio perché gli desse attenzione: era pronta a ricevere le parole del suo interlocutore ancora prima che questi decidesse di rivolgergliele.
«Cara madre» esordì lui. Il tono di voce era pacato e dolce come sempre quando si rivolgeva ad ella. «Ricordate forse il discorso intrapreso tre lune or sono?». La donna fece pacatamente di sì con il capo. Constatato ch'ella non aveva perso il ricordo di quella conversazione, continuò. «Ho cercato qualche particolare sulla fanciulla che voi m'avete raccomandato. Siete davvero sicura che sia la candidata più appropriata per un ruolo così importante?». Il viso della donna si accese in un dolce sorriso. Posò le mani sulle sue gambe coperte dalla lunga seta nera del suo abito d'alta sartoria e guardò con condiscendenza il giovane. «Figlio mio, pensi, di grazia, che potrei anche solo pensare ad una compagna che ti sia inferiore?».
Rassicurato dalle parole della genitrice, il giovane sorrise di rimando. «Bene» riprese egli sciogliendo la sua regale posizione per conquistarne una eretta. Aggirò il tavolino intarsiato per avvicinarsi alla madre, allungando verso ella una delle sue mani. La donna appoggiò i polpastrelli nudi sulla seta bianca del guanto aspettando il baciamano del principe che, chinandosi verso la mano della madre, quasi sfiorò con le labbra gli anelli che portava sulle dita affusolate. Subito dopo si allontanò con la corona ancora magicamente al suo posto.
Uscito dalla stanza situata nell'ala adibita ad alloggio della famiglia reale con passo svelto, venne subito raggiunto da una guardia responsabile della sua sicurezza. Il principe chiamò il nome del soldato con voce ferma. «Mandami subito Castiel alla Sala del Trono.» proferì e ancor prima che potesse verificare, la guardia si era già allontanata in una differente direzione in cerca del Generale delle legioni di Calimon.

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Capitolo 2
*** Relativamente, salva. ***


Il sole era ormai tramontato sei volte e altrettante volte era sorto, da quando Erech aveva lasciato il suo regno. Era appena giunta in paese quando nell’aria iniziò a spandersi il profumo dei biscotti e del pane appena sfornato. Sembrava abbastanza tranquillo, come regno.
Era ancora molto presto e le vie libere da ogni ingombro. Dalle case giungevano le voci ovattate delle famiglie che si preparavano alla colazione della domenica, indossando il loro vestito migliore.
La ragazza si guardò attorno, stupita da tanta quiete e da tanto ordine.
Forse il nome di quel regno non era stato scelto a caso quando, secoli prima, avevano deciso di chiamarlo Calimon, altresì detto Splendente.
Il sole che quel giorno si imponeva sul tetto delle case vagamente gialle, senza nessuna nuvola ad ostacolargli il cammino, faceva risplendere lo stesso paese come se fosse una visione.
Erech si sentiva così fuori luogo con i vestiti scuri e laceri che avrebbe voluto nascondersi in qualche vicolo fin quando non fosse scesa la notte.
Di notte, in realtà, si era sempre sentita più a suo agio. Il buio nascondeva tutto. Le ombre non la spaventavano e la luce della luna si posava magnificamente sull’argento, attribuendogli riflessi che sapevano di mistero. I suoi pensieri vennero interrotti da il suo stomaco che, com’è giusto, reclamava qualcosa di commestibile, e soprattutto dell’acqua.
Ella continuò a guardarsi attorno, camminando il più silenziosamente possibile per le vie del regno, finché giunse a una fontana. Che l’acqua fosse potabile o meno non le importava.
Si sciacquò il viso liberando dalla polvere la pelle bianca e bevve quel poco di acqua che riusciva a prendere con le mani, prima di ricominciare a camminare, tranquilla.
Almeno fin quando un paio di guardie non le sbarrarono la strada, afferrandole le braccia con fare poco educato. Non era stupida e capì che l’avevano scambiata per una spia, o qualcosa di simile.
Per quanto non le piacesse essere trattata in quel modo scortese, decise di non dire nulla.
Si accorse che la stavano portando al castello e, nonostante non sapesse cosa potesse capitarle, arrivare a corte era stato il suo obiettivo. Almeno, sperando che nessun’altro la scambiasse per un cecchino, un ladro, o qualsiasi altro individuo poco raccomandabile.

 
Quando, il giorno precedente, una delle guardie del palazzo era arrivata comunicandogli che il principe lo stava aspettando con impazienza nella Sala del Trono e che lui avrebbe dovuto raggiungerlo quanto prima, Castiel non si sarebbe mai immaginato che, il giorno successivo, avrebbe dovuto portare la brutta notizia che la futura sposa era scomparsa da quasi una settimana. Conosceva Lysandre ormai da molti anni ma mai avrebbe immaginato che, tra tutti, proprio lui si sarebbe sentito in difficoltà a trovare le parole da usare con l'amico; proprio lui che era stato nominato Gran Generale delle Armate di Sua Maestà non appena il vecchio Re aveva lasciato il trono vacante al figlio nemmeno ventenne che aveva occupato il posto quanto prima ed era riuscito a mantenere il controllo su tutto il regno. Aveva dovuto cambiare il suo modo di rivolgersi all'ormai ex principino, esaltando ogni aggettivo e parola per il nuovo sovrano e, forse, suo ex amico.
In ogni caso, aveva preso molto seriamente la sua carica e i suoi sottoposti gli erano molto fedeli, reduci dall'addestramento impartitogli dal Generale stesso. Erano cresciuti tutti insieme ma, nonostante Castiel avesse fatto più carriera di loro, nessuno si era mai dimostrato geloso nei suoi confronti né gli era mai capitata la disgrazia di dover usare l'inflessibile pugno di ferro con loro.
Si stava dirigendo al castello, quella mattina, quando la sua corta passeggiata venne interrotta. Una voce lamentosa alle sue spalle lo stava chiamando. Si girò, piano, trovandosi sulla sua morbida guancia una ciocca dei suoi capelli color fiamma. Tutti lo riconoscevano per questa sua peculiarità. Davanti ai suoi occhi si parò una scena straziante. Un bambino vestito malamente con della terra sul viso e i vestiti gli rivolgeva uno sguardo supplichevole. Dai suoi piccoli occhi scuri e quasi spenti scendevano calde lacrime che gli pasticciavano il piccolo e sporco volto. Le palpebre gonfie per un pianto infinito e i segni delle manine sulle guance. I vestiti erano vecchi ma non laceri con un solo strappo all'altezza del ginocchio sinistro. Una visione da far piangere il cuore, ma Castiel rimase impassibile. «Signore» chiamò ancora lui, certo di avere l'attenzione del giovane, tirando su con il naso. Aspettò una risposta che non arrivò ma lesse comunque negli occhi grigi della persona che si trovava davanti una sorta di accondiscendenza. «Mia madre è malata e non abbiamo più soldi per le cure» fece il piccolo giocherellando imbarazzato con il bordo della maglia. Castiel lo squadrò da capo a piedi. Sì, senza dubbio era in uno stato di povertà che il ragazzo non aveva mai provato ma la cosa che più lo rendeva misero era dunque la mancanza delle cure della madre. «Che male la affligge?» chiese allora il Generale. Sembrava preoccuparsi nonostante il tono non fosse dei migliori. Una luce di speranza si accese comunque negli occhi del bimbo.
Balbettò qualcosa che il giovane non capì. Perché gli aveva fatto quella domanda se nemmeno se ne intendeva di certe cose? Si mise le mani in tasca, spostando lievemente la spada che portava al fianco sinistro. Il bimbo guardò il giovane muoversi e girargli piano le spalle. Il piccolo volto si contrasse in una smorfia di profonda sofferenza, come se tutte le sue speranze si fossero ridotte in cenere. Vide le spalle nell'uniforme blu, ancora una volta, ma con la consapevolezza che non si sarebbero più girate. Vide la chioma rossa muoversi di poco quand'egli fece un passo avanti. E vide, ancora, la mano guantata di bianco alzarsi in aria, sopra la di lui spalla, aperta, come se lo stesse salutando. Un pensiero che fece quasi ruppere il cuore del bambino. Tragico saluto che, per lui, avrebbe significato morte certa della persona che più amava al mondo. «Vieni al Castello, la prossima volta». Inizialmente non capì, il piccolo. Ma quando sentì il tintinnio di monete davanti a lui, quando il suo sguardo fu attirato da cinque piccole monete d'oro, finalmente comprese. Gliele aveva lanciate. Subito si buttò a raccoglierle, grato del gesto ricevuto. Poi, dopo averle prese tutte in una sua piccola mano, si alzò da terra e guardò il Generale allontanarsi. La mano ancora levata a mezz'aria che si apriva e si chiudeva. Le guanciotte del bimbo furono inondate da nuove calde lacrime di gratitudine. «Grazie!» gridò. «Non la dimenticherò mai!».

 
Scansò una domestica con il braccio ma ella vi rimase attaccata con le lunghe unghie non molto curate affondate nella stoffa blu notte della sua divisa nel vano tentativo di trattenere il giovane. Egli, imperterrito, stava avanzando per i corridoi dell'ala reale verso la stanza del sovrano. Un'espressione corrucciata sul viso e le labbra socchiuse a sussurrare insulti che a stento venivano anche solo sentiti dalla donna che si stava trascinando dietro.
«Ve ne prego!» diceva cercando di mantenere un tono di voce autoritario ma senza alzarne troppo il volume per paura che Sua Maestà potesse sentirla «Sta ancora dormendo!». Castiel si bloccò di colpo, facendo sì che la domestica andasse ad urtare il suo intero corpo. Girò lentamente la testa, più per cercare di trattenere ogni istinto aggressivo che per mettere in soggezione la donna, rivolgendole uno sguardo truce. «Per l'appunto» pronunciò piano come a scandire il significato preciso di ogni parola e lasciando ch'ella ne soppesasse da sola il valore. Constatato che la donna non riusciva a trovar risposta alle parole proferitele dal Generale, quest'ultimo scosse violentemente il braccio staccandone gli ultimi appigli di resistenza. Si allontanò assicurandosi ch'ella non lo raggiungesse e ostacolasse ancora e riprese, finalmente, la marcia verso la stanza del principino.
L'ala reale era molto grande e le stanze a dir poco infinite ma Castiel vi aveva passato parte della sua infanzia e non era per lui un problema trovare quella in cui stava dormendo il sovrano. Non ebbe, infatti, difficoltà nel riconoscere la grande porta in legno massiccio decorata con dei bassorilievi che dava sulla stanza del giovane Lysandre. Castiel vi ci appoggiò una mano sopra e la percorse fino alla maniglia dorata; prima di azzardare il folle gesto, però, bussò. Ancora e ancora, ma dall'interno non giunsero mai risposte, così decise di entrare. Gli dava fastidio il fatto che il sovrano in carica, delle volte, si comportasse come un ragazzino viziato. Purtroppo per lui, non poteva dormire quanto desiderava perché gli impegni di palazzo lo attendevano incombenti. Inutile dire che Castiel, oltretutto, faceva tutto ciò per evitare che la negligenza del principino ricadesse sulle sue spalle già colme di responsabilità che un ragazzo della sua età non avrebbe mai potuto sostenere.
Abbassò piano la maniglia che si piegò senza difficoltà sotto la spinta della mano inguantata. Fortunatamente Sua Maestà non aveva chiuso a chiave. La voce bassa del Generale rimbombò grave nella stanza. «Lysandre...» scelse di chiamarlo, preferendo l'approccio amichevole a quello formale. D'altra parte, nonostante i rapporti fra i due si fossero irrigiditi come un mantello inamidato, Castiel considerava il ragazzo ancora disteso a letto come il più caro amico che avesse mai potuto avere. La chioma rossa fece capolino nella stanza ancora sommersa nell'oscurità di una pace notturna che, fuori, era ormai sfumata da ore. Il sole sorto da ore non aveva infranto le barriere delle spesse tende, per questo il sovrano riusciva ancora a godersi l'atmosfera tipica della notte. Castiel chiamò ancora il nome dell'amico, alzando il tono della voce ma, com'era già successo prima, egli non rispose. Allora il giovane Generale mosse i primi veri passi in quella stanza, dirigendosi verso la grande finestra davanti a lui. I suoi scarponi militari producevano strani rumori a contatto con il lucido marmo del pavimento. E solo allora cominciò a sentirsi un mugugno dall'ammasso di lenzuola. «Non osare» sbiascicò una voce al sentir il rumore di una mano che, piano, cominciava ad aprire le tende. Un secco strattone permise alla luce di invadere parte della stanza. Un solo raggio poteva anche bastare, per il momento. Inoltre la pesantezza del tessuto non era indifferente e per tirarle bene ai lati delle grandi vetrate serviva molto più che un semplice movimento del braccio.
Castiel si girò, allora, per controllare che il suo amico si fosse svegliato realmente. Vide due ali d'angelo nere su di una schiena pallida e abbandonata. Da quella posizione sembrava anche gracile ma quando cominciò a muoversi i muscoli s'ingrandirono donando volume alla figura umana distesa sul letto. Una massa scombinata di capelli bianchi si mosse, risaltando grazie al movimento sulle lenzuola del letto e la federa del cuscino. Una ciocca di capelli neri contrastava completamente con lo sfondo candido dei tessuti reali. «Ti odio» sussurrò acida una voce proveniente dal corpo semi-abbandonato. «Dovreste essere sveglio da un paio d'ore» puntualizzò Castiel. La figura, allora, si alzò. La schiena bianca si allungò e, alzandosi dalle coperte, mostrò all'implacabile raggio di luce il tatuaggio che il sovrano nascondeva a tutta la sua popolazione. Castiel sorrise pensando al disegno gemello che compariva sulla sua schiena: un bellissimo paio di tetre ali demoniache. Le scapole del principe rendevano ancora più reali quelle piume disegnate nei movimenti tipici che una persona compie appena sveglia. Il giovane dai capelli rossi mosse qualche passo in direzione dell'amico ma un altro fruscio dalle coperte lo fece bloccare a metà tra il letto e la finestra. Una giovane donna si alzò dalle lenzuola incurante del suo corpo nudo. Il raggio di luce colpì dolcemente il suo viso fresco e giovane dalle labbra rosse e carnose e i suoi seni tondi. L'ombra del sovrano riuscì a coprire la vista del resto del corpo, aiutata anche dalle coperte del letto a baldacchino. Probabilmente non s'accorse subito della presenza di un secondo uomo nella stanza ma sorrise non appena il suo sguardo assonnato mise a fuoco la figura del giovane nudo e inginocchiato, sul materasso, vicino a lei. Si allungò verso di lui nascondendo alla vista di un Castiel imbarazzato delle nudità che quest'ultimo non aveva mai avuto la fortuna di poter osservare. Egli sentì la gola seccarsi e il viso scaldarsi. Le sue gote s’imporporarono nel vedere il suo amico d'infanzia stringersi ad una prostituta che premeva sul di lui petto i due seni. Si chiedeva quale sensazione potesse mai provare e come potesse essere un bacio sul collo dato da quelle labbra invitanti. Si ritrovò quasi a invidiare il suo amico in un attimo di lucidità assente.
Le dita affusolate di entrambi accarezzavano le rispettive schiene ma fu quando Lysandre cominciò a cercare di trattenere dei gemiti e le mani della donna scomparvero alla vista del Generale, questi si vide praticamente costretto a dover interrompere la scena. Improvvisò una falsa tosse per attirare l'attenzione dei due. La prostituta alzò lo sguardo e gli rivolse un'occhiata stupita, segno che fino ad allora non aveva notato affatto la sua presenza. Il principe, invece, sbuffò solo. «Cosa vuoi?» disse senza nemmeno voltare il capo. La voce leggermente strozzata per il volto rivolto verso l'alto. «M-mi vedo costretto a ricordarle che oggi ha degli impegni importanti.» disse cercando di mascherare un certo nervosismo e, sì, anche un'imbarazzante erezione a causa della scenetta erotica dei due. «Dopo» sentenziò Sua Maestà prima che il rosso potesse anche solo aggiungere una parola riguardo l'importante comunicazione sulla sua promessa sposa. Ma forse la cosa non avrebbe affatto interessato il sovrano, intento a trastullarsi con ben altre donne. «Ci sarebbero anche-» «Dopo.» lo zittì Lysandre; e quando ebbe finalmente il silenzio del suo Generale alzò una sua regale mano e la mosse indicando gentilmente la porta da cui era entrato. Castiel non obbiettò più e colse al volo l'opportunità di abbandonare quel luogo tanto sbagliato quanto tentatore.

 
No. Decisamente no.
La tipica insofferenza di Castiel uscì fuori come un'ondata travolgente abbattendosi contro il viso allegro di Sua Maestà, il Principe Lysandre. Le guardie al suo seguito si misero subito sull'attenti ai lati della porta di rovere intarsiato da cui era arrivato. Con passo lento e regale si era avvicinato al suo trono e, assicurandosi che tutti avessero gli occhi puntati sulla sua figura, fece le solite noiose moine che ormai ripeteva ogni giorno. Fatto ciò si accomodò al suo posto, incrociò le gambe e appoggiò gli arti superiori sui braccioli. La schiena completamente diritta e la coroncina perennemente storta gli avevano sempre conferito un'aura importante ma buffa. E lui, dall'alto della sua importanza, si atteggiava a persona tranquilla e pacata nascondendo il vero volto che Castiel aveva imparato a conoscere.
No, quel giorno non riusciva proprio a guardare il viso del suo migliore amico senza provare disgusto. Come poteva darsi così alla pazza gioia nonostante avesse appena preso accordi per il suo matrimonio? E, cosa ancora più importante, ora che la futura sposa era sparita cosa ne sarebbe stato delle trattative? Castiel pensava ad un qualche gioco macchinoso che potesse portare il suo amico ad abbandonare la prostituzione che, a quanto pare, amava, per una vita più tranquilla con la principessa del regno vicino.
Eppure le parole di Lysandre, dopo quello spiacevole incontro con una delle sue donne, non gli sembravano portare da qualche parte.


«Castiel» l'aveva chiamato, incontrandolo per i corridoi. Lui si era presentato, da buon soldato, pur non riuscendo più a capire le intenzioni del sovrano. Voleva chiedergli di tenere la bocca chiusa? Voleva ricattarlo o chissà cos'altro... Immerso nei suoi pensieri, il Generale dai capelli vermigli si ritrovò faccia a faccia con gli occhi bicolori del suo superiore vedendolo per la prima volta come qualcuno di più potente e forte di lui a cui avrebbe dovuto chinare la testa. Ma fu sorpreso di incontrare un dolce sorriso. «Chissà che cosa state pensando di me» gli aveva detto facendo comparire un'espressione mortificata sul volto. Un sorriso un po' triste che lasciava intendere molte cose. Non voleva buttar giù stupide giustificazioni né altro, Castiel lo sapeva bene. Né cercava di scusarsi: non l'avrebbe mai fatto. Lysandre voleva parlare con quello che considerava un amico per spiegargli, semplicemente, come fossero le cose.
«Non è la prima volta» disse tranquillamente «né sarà l'ultima, sicuramente. La verità è che mi piace. Mi soddisfa, sì.»
E come poteva reagire Castiel ad un'affermazione del genere? Scosse la testa e sbuffò, animandosi i capelli con una mano. Non sapeva che dire né come avrebbe potuto procedere la conversazione. «Perché mi dite questo, Vostra Altezza?». Il principe scosse le spalle e mosse qualche passo in direzione della Sala del Trono, alle spalle del suo Generale. Castiel lasciò che l'intera regale figura scomparisse dal suo campo visivo prima di cominciare a pensare al fatto di aver dimenticato di riportargli le notizie che aveva saputo. Ma i passi del principino si erano arrestati e la sua voce calda e tranquilla proferì, prima di andarsene: «Per il futuro, Generale. Vi consiglio di non interrompermi più».



«Dunque, perché non parlate?»
Castiel sembrò rianimarsi alle parole che gli venivano rivolte. Una guardia aveva introdotto il suo discorso presentandolo, in qualche modo, ad una breve udienza pubblica con il Re.
Lysandre, dall'alto del suo trono, lo guardava. Lo sguardo attento e serio oltre le dita incrociate nei guanti di seta bianca. Il suo volto, al confronto, sembrava più colorito del solito ma i suoi occhi brillavano. Uno color smeraldo e l'altro topazio. Due pietre preziose come quelle poste ad adornare la piccola ma preziosa coroncina.
Castiel si sentì, per un attimo, in soggezione di fronte al potere esercitato da una persona che anni addietro era addirittura sua amica. Da quanto si era levato così in alto? Da quanto lo aveva lasciato laggiù, insieme alle persone comuni? Dovette deglutire prima di riuscire a parlare. Con il viso leggermente rivolto verso l'alto poté sentire bene il movimento del pomo d'Adamo nel suo collo. Una goccia di sudore derivata da una certa ansia gli scese dalla fronte, percorrendo tutta la guancia.
«Vostra Maestà» pronunciò con una certa titubanza «La vostra futura sposa è...». Non riuscì subito a dire quella parola. Gli ci vollero un paio di secondi ma quando trovò la sicurezza che mancava, pronunciò con un fil di voce ciò che aveva avuto paura di ammettere fino a quel momento. «... scomparsa».
Il messaggio gli era arrivato quella mattina, sul presto, da un inviato di Alyon, regno che aveva dato i natali alla principessa. La notizia della tragica scoperta era arrivata tardi alle orecchie del Generale di Calimon e, ancor più tardi, a quelle del Re dello stesso regno. I sovrani di Alyon avevano preferito non divulgare certe informazioni prima di aver escluso che la principessa si trovasse ancora entro i confini del suo regno ma, purtroppo per loro, avevano dovuto rilasciare certe scomode verità per chiedere aiuto ai sovrani dei regni vicini nella ricerca della giovane. E proprio per questo era stato interpellato Castiel. Ora l'informazione era stata passata al membro più alto di quel regno, il Re, che avrebbe dovuto trovare una soluzione.
«Bene» proferì Lysandre appoggiando le labbra sottili e corrugate in segno di concentrazione alla morbida e liscia stoffa dei guanti. Stava pensando a qualcosa quando delle guardie irruppero nella Sala del Trono. Erano due ma facevano un gran fracasso. Tutta la corte si girò a guardare le due figure ancora in uniforme da uscita portare sotto braccio una persona incappucciata. Dal fisico si poteva dire un ragazzino ma il tessuto marrone che ricadeva sul capo e su tutto il corpo rendeva difficile provare a capire chi fosse al primo sguardo.
Sia il principe che il suo Generale assottigliarono lo sguardo verso la figura anonima che era stata condotta al loro cospetto.
«Chi è costui?» proferì Castiel anticipando il suo sovrano come sempre aveva fatto. Questi non avrebbe mai rivolto la parola a delle semplici guardie: non era solito farlo. Però il suo sguardo serio si tramutò in uno incuriosito e quasi non sentì le parole dei suoi sottoposti, troppo concentrato com'era ad esaminare il nuovo arrivato.
 

Erech pensò che le guardie non avessero delicatezza, si vedeva da come le avevano afferrato le braccia, arrivati alle porte del palazzo reale. Camminando per i corridoi sfarzosi del castello, la ragazza non poteva che paragonare tutte le stanze e i saloni che attraversava a quelli del Castello di Smeraldo, la sua vera casa, ormai lontana. Scrutava tutto e tutti, consapevole che nessuno riusciva a riconoscerla ne a vederla in volto grazie al mantello scuro e al cappuccio di questo, che portava calato sul viso. La sala del trono era bella si, ma scompariva confrontata a quella della sua casa. Ad Alyon, ricordò lei, il pavimento della sala era di marmo, e le pareti altro non erano che enormi vetrate dai bordi dorati. Ai lati di queste, come un lunghissimo corridoio e in marmo come il pavimento, si ergevano imponenti colonne in stile corinzio che sembravano toccare il soffitto affrescato dei più splendidi dipinti. Non vi erano lampadari perché, ad ogni ora del giorno, era la stessa luce del sole ad illuminare la sala. In fondo, sopraelevato grazie ad alcuni scalini, stava il trono di suo padre, in una sorta di nicchia a forma di semicerchio interamente di vetro. Il trono era imponente, di legno scuro, rivestito in velluto rosso e intarsiato in eleganti motivi floreali che richiamavano quelli del portone. Ma, purtroppo, per lei questo altro non era che un ricordo. Non sapeva se sarebbe mai tornata a casa, ne tantomeno immaginava cosa suo padre, un uomo ambizioso, forgiato dal potere e dall’orgoglio, potesse pensare di lei. Per quanto il comportamento del sovrano giovasse all’ormai sconfinato paese, forte delle guerre vinte e delle ricchezze accumulate in passato, Erech lo disapprovava. Non trovava giusto che il potere di un re si basasse sulla forza anziché sulla benevolenza, sulla lotta invece che sulla magnanimità. Ma lui era prima di tutto un re, e successivamente, suo padre. Si era convinta che fosse così e fargli un torto non era giusto. Cresciuta tra le restrizioni della corte e dai rigidi codici principeschi che avrebbero fatto di lei modello indiscusso di regalità, Erech aveva così imparato a non parlare finché non fosse arrivato il momento giusto e a calcolare ogni sua azione e comportamento. In pratica, aveva imparato a tramare nell’ombra.
Arrivata al cospetto del re, la prima cosa che fece fu squadrarlo da testa a piedi. Per la prosperità che aveva Calimon, la ragazza si aspettava di trovarsi dinanzi ad un re anziano ed esperto di macchinazioni commerciali e finanziarie, e invece si ritrovava davanti un ragazzo che non poteva avere più di venticinque anni, o addirittura meno. Guardò la coroncina storta sul capo del ragazzo rimanere magicamente al suo posto, senza spostarsi di un millimetro quando il sovrano muoveva la testa, coperta da insoliti e folti capelli argentei che ricadevano attorno al viso. I lineamenti del volto richiamavano la bellezza classica dei sovrani del passato, così come gli impercettibili movimenti che il re, nella sua compostissima figura, compiva. Ad esempio l’impercettibile ticchettio dell’indice della mano sinistra sul bracciolo del trono, come se avesse fretta o fosse turbato da qualcosa. Gli occhi, che non erano chiusi ma nemmeno completamente aperti, brillavano impercettibilmente, come se appena sveglio stesse già tramando qualcosa .
La ragazza lasciò il dettaglio dell’eterocromia completa da parte. Dopo di che, iniziò a squadrare il ragazzo che stava a fianco del sovrano. Qualcosa, di quel ragazzo, sembrava non convincerla del tutto. Sembrava quasi spaventato, ma dove s’era mai sentito di un generale spaventato dalla presenza di un forestiero, ferito tra l’altro, e scortato da due guardie? Forse era turbato da qualcosa. Era pallido e mostrava una sicurezza che, in realtà, Erech era convinta non avesse.
Notò i capelli rossi del ragazzo e si chiese se fossero naturali, poi ricordò che non esisteva ancora modo per tingerli, cercò di guardare gli occhi del generale, ma si sarebbe accorto di quanto fossero femminili i suoi prima del tempo. Anche lui sembrava molto giovane, più grande del re, seppur di poco. E sembrava anche più …. Umano. Finché non chiese chi fosse, con tono gelido. La calma fredda della ragazza s’incrinò per un attimo.
-       Un forestiero, comandante. E’ armato e si muoveva come un ladro ad un orario indecente del mattino. Non ci sembrava sicuro lasciarlo girovagare per il regno e, come sapete, a noi non è permesso decidere della sorte altrui.
-       Castiel!
Castiel guarda Lysandre e lo vede sorridere e fare un cenno con la testa a Erech.Il generale annuisce.
-      Fatelo parlare.
Le guardie lasciarono le braccia della ragazza, che sospirò impercettibilmente di sollievo. Si portò una mano alla spalla, che era stata stretta troppo forte, e l’altra all’elsa della spada per controllare che ci fosse ancora. Da sotto il cappuccio, uno squarcio dorato che doveva essere l’iride dell’occhio destro della ragazza, stava fissando il generale con circospezione e diffidenza. Finché quest’ultimo non si sentì chiamare dall’alto del trono.
-      Castiel! –
Anche lo sguardo del sovrano, che sorrise, si posò su di lui.
-      Mi sembra scortese non far parlare il nostro ospite.
Il ragazzo si voltò nuovamente verso il forestiero, cercando di guardare al di la del cappuccio.
-       Dunque, chi sareste?
-        … Mi chiamo Erech, e vengo da Gaerys. Nel mio paese è scoppiata una grande carestia, e molti noi sono fuggiti per cercare fortuna altrove. Ho portato la spada solo per legittima difesa, e non ho intenzione di usarla per qualsiasi altro motivo. Anche se non saprei usarla a prescindere da questo.
Il regno di Gaerys era un alleato di Calimon che si trovava a nord-est di quest’ultimo, a circa quattro giorni di cammino, sul mare. Un’inondazione aveva distrutto i raccolti e la siccità non ne aveva fatti crescere altri. Inoltre era scoppiata la guerra, e gli abitanti, per un motivo o per un altro, avevano iniziato ad andarsene dal regno. La voce roca per il tono basso e il nome della ragazza, adatto sia ad un maschio che ad una femmina, avevano creato una sorta di mistero attorno alla sua identità.
-      E come possiamo fidarci della vostra parola?
Erech sospirò, chinando leggermente il capo, indecisa sul da farsi. Con la grazia impressale a corte, portò le mani, delicate seppur coperte di tagli, ai bordi del cappuccio. Per un attimo, i raggi del sole che entravano dalle finestre, mostrarono al mondo i marchi a fuoco che la ragazza portava ai polsi: due ali d’angelo, una per polso. Non erano gonfi e neppure troppo scuri, solo leggermente rossi.  Li nascose immediatamente e si levò il cappuccio, rialzando la testa. Gli occhi dorati splendevano di emozioni incomprensibili e il viso candido della ragazza sembrava non aver sofferto dell’insidioso viaggio che l’aveva portata lontana da casa. I lunghi capelli le erano ricaduti sulla schiena, poiché il nastro che li teneva attaccati si era sciolto.
-       Perché non sono altri che una ragazzina che non guadagnerebbe nulla dal mentire.
Le guardie che l’avevano portata a corte si guardarono incerte. Certamente non era sicuro lasciare che una ragazzina vagasse da sola per le foreste della regione perché, seppure fosse armata, ci avrebbe sicuramente rimesso la vita.
Castiel alza una mano, come aveva fatto Lysandre quella mattina con lui, cercando di congedarla.
-       Trovatele un posto in cui stare.
-       Il problema, eccellenza, è che abbiamo posto solo nell’esercito. Da ciò che abbiamo potuto capire, la ragazza non sa combattere.
-       Datele comunque un alloggio. Vedrò poi il da farsi.
Le guardie annuirono e, facendo cenno alla ragazza, la portarono negli appartamenti riservati ai soldati per farle posare quel poco che portava con se. Lei li seguì, poco convinta, non essendosi accorta dei ghigni malefici che si dipinsero sul volto delle guardie non appena queste si furono voltate.

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Capitolo 3
*** Il riflesso del cremisi sulla spada. ***


Quando i soldati la condussero all’accampamento, Erech credette che scherzassero e l’avessero portata nel posto sbagliato. Poi capì che non scherzavano affatto, e che avrebbe dovuto dormire davvero in una stanza con altri ventiquattro uomini, più o meno adulti, ma tutto con lo stesso sguardo. Assetato e famelico, come se non vedessero una donna da anni. Le serviva un diversivo, e decise che sarebbe andata a coricarsi, la notte, quando tutti si fossero addormentati da un pezzo. Tanto lo sapeva che si sarebbe alzata all’alba, come sempre aveva fatto.  L’affascinava il levar del sole così come i fuochi artificiali, dei quali lei aveva così paura, affascinavano i bambini. Da piccola suo padre portava spesso lei e suo fratello a vederli: li tenevano ogni anno, al solstizio per la festa del solstizio d’estate, al centro del regno di Alyon.
Potevano benissimo vederli da uno dei tanti balconi del Castello di Smeraldo, ma il re, a quei tempi più allegro e gioviale, preferiva portare i suoi bambini direttamente al centro della festa. Allora li vestiva come ogni bambino del regno e li portava in piazza, per far ammirare loro i giochi di luce e di magia e per farli divertire, almeno una volta l’anno. Più di tutti, però, lo stupiva sua figlia minore.
Mentre il principe del regno si comportava come a corte, ormai schiavo della rigida etichetta insegnatogli, più volte il re aveva sorpreso la figlia a giocare nel fango con una spada di legno. La principessina aveva appena sette anni, e quello stesso anno nulla sembrava poter turbare la quiete della famiglia reale.
Come ogni anno, il principino, di soli due anni più grande della sorella, trascinava per la mano quest’ultima che s’incantava ad ammirare ogni cosa le capitasse a portata di sguardo sotto gli occhi divertiti del re.
Ma quella sera, così come quella dopo, avrebbe cambiato radicalmente la vita di Erech, come quella del padre di lei e il destino del regno. Ma la ruota girava per tutti ed Erech si ribellò a questo, e in quel momento era li:
A fare il soldato in un regno sconosciuto e in una vita che sembrava non appartenerle e che non sarebbe mai stata la sua. Posò il mantello e la cintura, alla quale erano legati dei sacchettini contenenti delle monete e chissà cos’altro, ai piedi del letto che le spettava, sospirando. Prese la spada, dirigendosi verso i giardini nel palazzo, in cerca di un angolo riparato dalla vista altrui. Era abituata a stare in spazi immensi e, nonostante fosse passata per il corridoio che portava all’esterno solo una volta, ricordava bene come arrivarci. L’arma che portava le era sembrata più leggera portata al fianco, e le sarebbe certamente caduta di mano. Tra le altre cose, Erech non conosceva che le mosse di difesa e la base dell’attacco. Non sarebbe durata cinque minuti, in un esercito. Nel mettersi in guardia, tanto per iniziare bene, stava per tagliarsi in verticale la parte destra del viso. Successivamente, tentò più volte di troncarsi di netto la mano. Poi ricordò la nozione fondamentale, la prima che insegnano e la prima che suo cugino le aveva trasmesso.
 
- E’ inutile, Zephir! Tutto il mondo ha capito che io e le spade non andiamo d’accordo!

Il ragazzo, ormai stanco delle lamentele della cugina, sposto le lunghe ciocche bionde che gli ricadevano sul viso con un gesto teatrale. Era otto anni più grande di lei ma, a volte, sembravano avere la stessa età.

- Ma insomma, Erech! Te l’ho sempre detto che a scherma non si tira di braccio! Uccideresti qualcuno e ti faresti solo male!
E come dovrei tirare, allora? Con le gambe?
- Ma no, sciocca. Dritta con quella schiena! Devi tirare con le braccia, ovvio, ma è tutto un movimento di polso.


La bambina, di nove anni appena e con una spada più grande di lei, mosse il polso tagliando di netto l’aria di fronte a lei, in orizzontale, tra il suo stupore e la soddisfazione del cugino. Stranamente, il colpo al fianco le era riuscito.
 
Memore di questo, Erech tirò di polso, anche stavolta il movimento le riuscì. Se non fosse stato per il fatto che per poco non aveva decapitato un ragazzo.
 
 
 
Armin, a distanza di due anni, non aveva ancora capito cosa ci facesse nell’esercito. Era un ruolo quasi ereditario, suo padre era un soldato, così come suo nonno e il suo bisnonno prima di loro, e adesso toccava a lui. Non che gli dispiacesse, ma non aveva pensato a questo come un ruolo importante e definitivo. Non era il suo progetto per il futuro e non era stato il suo sogno da bambino. D’altronde, anche se gli fosse effettivamente dispiaciuto, le scelte dei genitori erano inequivocabili e imprescindibili, ne tantomeno lui poteva opporsi. Come al solito, quel pomeriggio, aveva saltato il pranzo. Lo faceva saltuariamente, spesso solo per mancanza di fame. Ma non si aspettava di trovarsi di fronte una ragazza vestita da cacciatore, arrivato ai giardini del palazzo. Si nascose dietro un albero, giusto per poterla osservare bene. Le ricordava molto Esmeralda con la nobiltà di Fiordaliso e, decisamente, non sapeva come tenere una spada. A cosa le serviva saperla usare, poi?
Arrivato ad un punto morto della situazione, il ragazzo si ritrovò a pensare che, oltre ad essere maledettamente bella, quella ragazza era anche maledettamente elegante. E non era sicuro di pensare questo solo perché non vedeva una ragazza – o almeno, una ragazza, giovane- da anni. Non aveva mai visto tirare di scherma con tanta grazia. In realtà non aveva mai visto una ragazza tirare di scherma, ma Armin era convinto che mettere una spada in mano ad una nobile e ad una donna del popolo fossero due cose diverse e lei, decisamente, rientrava nella prima categoria. Le faceva quasi tenerezza a vederla così impacciata e decise di aiutarla, ma si ritrovò la spada della ragazza puntata alla gola. D’istinto, portò la mano all’elsa della sua spada, disarmando la ragazza in poco meno di due mosse. Adesso, ella lo guardava spaventata.
Il ragazzo rimise la spada nel fodero.

- Sta tranquilla, non volevo spaventarti. Mi sono solo visto senza testa! – Disse il ragazzo, ridendo divertito.
La ragazza sembrò sollevata, e abbassò la spada, sciogliendo la posizione d’attacco. Rise divertita anche lei.

- Mi dispiace, mi stavo solo esercitando e non pensavo avrei rischiato di uccidere qualcuno …
- Ci sei andata vicino. Io sono Armin , piacere. Sei nuova di qui, vero?
- Erech. In effetti sono nuova.
- E cosa ci fai con  un’arma in mano? Normalmente le ragazze sono più brave nel taglio e cucito!

Erech non sembrò disturbata dalla reazione leggermente maschilista del ragazzo, consapevole del fatto che era lui ad aver ragione.

- Mi sono ritrovata nell’esercito e devo imparare a sopravvivere, come minimo.
- Nell’esercito? Chi è il matto che ti ha fatta entrare nell’esercito?! Non dureresti cinque minuti!
- Potrei ritenermi offesa.
- Scusami,  ma potremmo dover andare al fronte da un momento all’altro, e tu sei più tagli che carne. Non volevo offenderti.

Armin guardò Erech e i suoi vestiti laceri e macchiati di sangue, segno che aveva attraversato la foresta oscura. Doveva venire da lontano per essere conciata così male.

- …. Se vuoi posso aiutarti, con la spada, voglio dire.
Sperò che la ragazza non interpretasse la sua buona intenzione come un patetico tentativo di farsi perdonare. Fortunatamente, la ragazza sorrise in segno d’assenso. Armin, però, non poté che impensierirsi. Il sorriso di Erech sembrava così costruito che pareva non esserci, o comunque non trasmettere emozioni. Riprese la sua spada posizionandosi di fronte alla ragazza.

- La prima cosa che devi imparare è l’attacco. Mi sembra che tu ti sappia difendere bene, quindi, passo direttamente al botta e risposta. In guardia.

La ragazza fece come le era stato detto, e lui iniziò a tirare, usando tutte le mosse che conosceva. Anche se non aveva molta tecnica, Armin constatò che i riflessi pronti della ragazza e la fluidità dei movimenti potevano compensare quella mancanza. Probabilmente, pensò lui, Erech possedeva una grande capacità di ragionamento e sapeva usarla a suo vantaggio.
Finché si ritrovarono lama contro lama, il viso di uno a pochi centimetri dal viso dell’altro. Armin notò che voleva attaccare.

- Ti insegno un trucco. Quasi tutti, da questa posizione, vanno in attacco. I soldati più esperti lo sanno e traggono vantaggio da questa situazione. Tu sei minuta e potresti rischiare molto, quindi va in difesa, schiva il colpo d’attacco nemico, colpisci di fianco e cerca di far perdere la presa dell’avversario sull’elsa della spada facendo roteare il polso.  È l’unica possibilità che hai.La ragazza provò e, anche se colpì bene in attacco, fu lei a perdere stabilità sulla presa dell’arma.

- …. C’è anche un altro metodo, ma è molto più complicato. Inizia alla stessa maniera ma, al posto del movimento di polso, devi continuare con le mosse di difesa. Quando il nemico cercherà di disarmarti definitivamente, inizia con le mosse di attacco. Una dietro l’altra, senza pietà e, possibilmente, iniziando dai fianchi e andando verso l’altro, in modo che pari più difficilmente. Prova.
- E se ti faccio male? …
- Non è con questo spirito che uscirai viva dalla guerra. Per vincere devi uccidere. Al fronte si fa sul serio, Erech. Ricordati sempre questo:  Il tuo obiettivo è disarmare, il tuo compito, uccidere.

Probabilmente l’aveva fatta infuriare o la ragazza credette che la stesse sottovalutando, perché per poco non lo uccise sul serio. Era incredibilmente veloce e Armin si ritrovo tagli e affini vari su tutto il corpo.

- Bene, direi che puoi andare, però devi esercitarti con i movimenti di polso, intesi? Ora devo andare, è il mio turno di guardia. Ma ci vediamo in giro.

Il ragazzo si allontanò sorridendo, senza dare ad Erech il tempo di rispondergli, ne di salutarlo.
 
Erech, inizialmente, trovò quel ragazzo strano. Simpatico, certo, ma strano. Poi aveva guardato i suoi occhi e ci aveva visto dentro il mare. Aveva un rapporto strano, lei, con gli occhi delle persone. Era come se potesse guardarvi attraverso, e la cosa la spaventava. Ma non aveva intenzione di stare li a pensare a cos’avesse visto dentro gli occhi di quel ragazzo. Decise di ritornare ai movimenti di polso, ma era distratta. Non le sarebbero riusciti mai, in quelle condizioni. Ad un certo punto qualcosa attirò la sua attenzione. Un ricordo che aveva seppellito da tanto, o almeno, che aveva provato a seppellire. La spada le scivolò dalla mano, squarciandogliela. Inizialmente, presa com’era dai suoi pensieri, la ragazza non se ne accorse nemmeno. Poi sentì il bruciore e vide il sangue che, dalla ferita, aperta e rossa sulla pelle bianca, scivolava sul braccio macchiandole la manica della maglia che portava arrotolata sui gomiti. Lasciò la spada, macchiata di sangue anch’essa, dov’era e, sempre stringendosi la mano, cercò un posto su cui sedersi in attesa che il dolore passasse.
 


Da quando il re era diventato così permissivo? Le regole del regno erano sempre state molto chiare ed era impensabile far arruolare una ragazza nell'esercito. Che cos'avrebbe dovuto fare Castiel? Da che era successo il fatto, il giovane si era arrovellato sul da farsi senza però trovare una risposta soddisfacente. Non aveva mai avuto a che fare con donne che non provenissero dalla sua famiglia e, sua madre a parte, si era sempre trovato in difficoltà a parlare con le sorelle. Quindi come avrebbe dovuto comportarsi? E, ancor più importante, quali erano le intenzioni del sovrano? Conosceva il principino Lysandre da troppo tempo per non sapere che nella sua mente distorta qualcosa si era messo in azione non appena la ragazza - accidenti, com'è che si chiamava? - si era tolta il cappuccio rivelandosi come la persona che era. Quella scena impressionante gli si era marchiata a fuoco nella mente. Il suo sguardo gli era sembrato così carico di passione che aveva tenuto compagnia al Generale durante il suo lungo sonno. La mattina seguente si era svegliato presto con una strana sensazione addosso. Quel giorno doveva istruire le guardie sul da farsi. Certo, non poteva permettere che alla giovine fosse torto un capello ed essendo lui il responsabile di ogni azione dei suoi sottoposti, Castiel doveva assicurarsi che nessuno avrebbe mai commesso qualche stupidaggine, abbastanza grave da lasciar che la colpa ricadesse anche su di lui. E proprio mentre questi pensieri s'affollavano nella sua mente insieme ad esempi di atti non ammissibili che vedevano la ragazza vittima di qualche primordiale istinto da maiale soprattutto di coloro che vivevano ormai da anni nel dormitorio della fanteria, il Generale si trovò ad assistere ad una scena quanto mai bizzarra. La ragazza si trovava in piedi nel bel mezzo dello spiazzo situato sul retro del dormitorio. Anche lei, a quanto pareva, si era svegliata all'alba ed era intenta ad esercitarsi con la spada. Castiel, facendo ben attenzione a rimanersene nascosto alla vista di lei e di chiunque avesse potuto disturbarlo, si appoggiò al muro più vicino per studiare le movenze della nuova arrivata. Aveva uno stile abbozzato ma elegante. Per essere una ragazza, pensò il Generale, era anche fin troppo capace. Ma agli occhi di chi ormai aveva fatto della guerra il suo mestiere, le imperfezioni erano fin troppo visibili. Movimenti inutili, lentezza dei colpi e la forza insufficiente che le braccia esili di una donna non potevano esercitare. Gli scappò, però, un sorrisino. Chi avrebbe mai immaginato che addestrare una ragazza sarebbe stato così semplice? Aveva delle basi, probabilmente le aveva imparate da sola, ma ciò si trattava di un buon inizio. Fu quando Castiel cominciò a pensare ch'ella potesse diventare un buon soldato che vide la spada scivolarle dalle mani. In un attimo la ritrovò a terra, in ginocchio, a stringersi la mano ferita. Il sangue che colava dall'arto e dalla lama si era già mischiato con la terra polverosa del campo d'allenamento abbozzato per quella mattina. Corse subito, senza pensarci due volte. Un pensiero sessista si fece largo nella mente del giovane. Le donne non dovrebbero fare certe cose. E per quanto si fosse lasciato ammaliare dalle movenze di lei fino a pochi istanti prima, ora il suo modo di ragionare prettamente maschile era ritornato prepotente. Suo padre gli aveva insegnato che l'uomo doveva essere l'elemento di forza in una famiglia, in ogni contesto e persino in una coppia. Sua madre era stata sempre sottomessa all'uomo che aveva sposato e Castiel non poteva che essere rimasto influenzato dai ragionamenti del padre che l'aveva cresciuto. Per questo, quando vide la nuova ferirsi non riuscì a non pensare a qualcosa per rimediare al danno fatto. Qualcosa, in cuor suo, gli stava dicendo che lui ne era in parte responsabile. L'averle permesso di maneggiare in quel modo una spada vera  aveva portato a quest'ovvia conclusione.
S'avvicinò e senza fare troppi complimenti, le afferrò la mano ferita. Ignorò qualunque mugugno o gemito di dolore della ragazza concentrandosi solo sul taglio. Era netto, dritto e perfetto come la lama della spada. L'affilatura era stata eseguita con una tecnica sopraffina, come consueto al castello. Probabilmente il taglio si sarebbe richiuso in meno di una settimana. Ma ora che si era finalmente accertato delle condizioni della ragazza c'erano due cose urgenti da fare: la prima, di cui si sarebbe occupato personalmente, era far medicare la ragazza; la seconda, invece, era rimettere a posto la spada e, soprattutto, pulirla adeguatamente prima che il sangue si coagulasse su di essa rovinandone completamente il filo. Guardò, finalmente, la giovane calma; la sua stoicità e sopportazione del dolore ricordarono a Castiel un albero, indifferente a tutto ciò che gli succede attorno, immobile a crescere indisturbato anche dai venti più impetuosi. L'avrebbe portata lui stesso, come segno di rispetto. -Tieniti a me- le disse. E, lasciandole la mano ferita tra le amorevoli strette dell'altra, fece passare le sue forti braccia sotto alle ginocchia e attorno alle spalle della ragazza. Poi si scusò anticipatamente e cominciò ad urlare il nome di uno dei suoi sottoposti. L'uomo gli corse incontro mentre il giovane si stava già dirigendo tra le ale interne del castello. Questo, senza interrompere la marcia del suo superiore, si mise a seguirlo attendendo ordini. -C'è una spada nel cortile. Puliscila prima che si rovini e rimettila a posto.- comandò senza degnarlo di sguardi inutili. Il sottoposto si mise sull'attenti e, accettando di buon grado l'incarico, fece dietrofront, tornando da dove Castiel era giunto. Intento com'era a proseguire per la sua strada, il rosso si dimenticò totalmente di parlare con la giovane o di assicurarsi che fosse comoda o in salute, mano a parte. I suoi modi rigidi lo portarono ad una grande porta intarsiata in legno che lui riconosceva essere quella della servitù di Sua Maestà la Regina. Non si sarebbe mai permesso, normalmente, di invadere certe stanze ma in caso di bisogno, quelle erano le aree riservate a degli infortuni all'interno del castello e, senza pensarci due volte, Castiel vi si era recato. -Aprite!- urlò, non potendo battere sulla porta -Ho un ferito!- Le donne non ci misero molto ad aprire. Un lieve trambusto, normale per i posti affollati, veniva da oltre la porta. Due signore sulla quarantina fecero accomodare il Generale e la ragazza che ancora portava in braccio, incurante del suo peso e della fatica che ormai cominciava ad attanagliare i suoi muscoli. Una delle due donne mostrò a Castiel un letto spoglio e minimale oltre una piccola porticina sul fondo della sala. Sopra ad esso, egli vi appoggiò la giovane. L'altra donna accorse subito in aiuto della prima, aprendo un cofanetto contenente degli strumenti utili alla medicazione. Con erbe e strani liquidi che il giovane non aveva mai visto, le due disinfettarono la ferita per poi fasciarla con pezze bianche che ben presto si tinsero di rosso. La fasciatura era comunque fatta e, parlando con la ragazza, le due le raccomandarono di tornare da loro entro fine giornata per il cambio del bendaggio. Quella, senza fiatare, fece di sì con il capo. Castiel mandò poi a chiamare una guardia interna al castello. Ordinò ad essa di scortare la giovine al suo letto dove, costretta sia dal Generale che dalle infermiere del castello, avrebbe dovuto riposare per l'intera giornata. Il mattino seguente, se le donne avessero dato il loro consenso, ella avrebbe potuto cominciare finalmente l'addestramento con gli altri suoi compagni.

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Capitolo 4
*** -Intermezzo Parte 1°- ***



Blackness

Until the last breath
il dietro le quinte [1]






Salve!
Io sono Gozaru, co-scrittrice di questa assurda storia. In realtà, ciò che di più assurdo c'è è proprio questo capitolo che andrete a leggere.
Non aspettatevi un seguito ma, come recita il titoletto in alto, avrete un bel 'Dietro le Quinte' dei capitoli che abbiamo già pubblicato. Mi è venuta questa stramba idea di inserire un dietro le quinte della storia. Molti grandi capolavori ce l'hanno e mi sono detta "Perché no? Non è una cattiva idea! Sarà divertente!". Così, dopo aver avuto l'Ok della capa mi sono messa al lavoro.
Tutto ciò darà anche risposta al "Chi scrive chi?" che vi avevamo posto tempo addietro.


L'inizio.

«Ehi, perché non scriviamo una storia a quattro mani?»

Devo essere sincera, non ricordo nemmeno a chi delle due è venuta in mente questa cosa. So solo che Ayubibi l'ha presa con molta più convinzione di me, ragazza con mille pensieri che divagano e altrettante storie in corso da finire. Ecco perché, forse, sono quella che consegna i capitoli in ritardo. Diciamocelo, ragazze, è stata una fortuna che il tutto sia stato pubblicato sul suo profilo. Una vera fortuna.
Ma c'è stato tanto lavoro da parte di entrambe, all'inizio. Sono come una bambina: quando ho le idee ancora calde mi entusiasmo molto di più! Abbiamo deciso tutta la storia, a grandi linee e definito qualche dettaglio, come... Ah, mica pensavate che vi avrei detto qualcosa?! Eh no, mi dispiace! Dovrete aspettare di leggervelo da sole!
E poi è arrivata la fatidica divisione dei personaggi. Non sapevamo come funzionassero le storie a quattro mani ma era ovvio che noi due avevamo idee molto discordanti sui personaggi scelti [per ricordarveli: Armin, Castiel, Erech e Lysandre] e la cosa che ci sembrò più ovvia e semplificante fu proprio dividerceli così che ognuno non avesse interferito con la visione che volevamo dare di un dato personaggio. Scrivere scena e scena sarebbe venuto fin troppo complicato (almeno, a mio modesto parere; e so che anche Ayu la pensa così).
In ogni caso, dopo varie discussioni in cui si è capito che io, dei ruoli, non avessi capito una mazza, abbiamo tagliato a metà i nostri quattro protagonisti. Ayu se n'è andata con Erech, la sua protagonista, e Armin. Io, dal mio canto, mi sono presa quelli che allora erano due dei personaggi che più odiavo su DolceFlirt: lo smemorato e assolutamente piatto Lysandre e l'amore della mia socia, Castiel, il rosso mestruato.
Così nacquero le loro avventure. E le nostre, via chat di facebook nella speranza di accordare in qualche modo i capitoli della storia. E, lasciatevelo dire, è una faticaccia.



1#
Fu amore a prima vista. Guardai Lysandre nei suoi occhi verde e giallo. Sì, ero poco romantica allora. Comunque, tornando a noi... Lo guardai negli occhi e con freddezza gli dissi Tu non mi piaci. Ma l'avevo scelto io e quindi era diventata una mia responsabilità. Con Castiel le cose, ero sicura, sarebbero state più semplici. Ma con Lysandre? Non avevo mai avuto a che fare con lui.
Rimase un po' spiazzato dalla mia uscita ma, prendendola diplomaticamente, mi guardò e sorridendo mi disse:
«Mi toccherà diventare qualcuno di più amabile».

Mi avvicinai a Castiel, puntando i miei occhi nei suoi. Sì, è una pratica molto utile per riuscire ad avere l'attenzione di una persona, sapete? Mi uccise con lo sguardo ma, almeno, sapevo che stava guardando me e solo me. 
«Che vuoi?» fece, acido. «Niente» risposi sorridendo. Mi accovacciai, mettendo le mani sotto al mento per sostenere il mio capoccione pieno di buoni propositi «Voglio solo fare amicizia!».
Venni schifata in pochissimo tempo, rimanendo come una cucù nel bel mezzo della mia fantasia.


2#
«Abbiamo bisogno di un personaggio che stravolga tutto. Uno che spicchi!»
Lysandre non sembrò esserne molto convinto ma il copione arrotolato nella mia mano lo fece desistere dal replicare. Il suo compito era essere un Re. Un sovrano. Doveva cambiare radicalmente il suo modo di essere per trasformarsi in qualcosa che si avvicinava molto al suo esatto contrario.
Provammo la parte così tante volte che il povero Lysandre dovette andare a levarsi la tutina nera aderente che l'avevo costretto ad indossare per entrare più nel ruolo di attore teatrale, convinta che un costume che differisse dal suo abbigliamento quotidiano lo avrebbe in qualche modo fatto sentire diverso.
Mi sentii così in colpa che, per farmi perdonare, andai a fabbricargli una bellissima e luccicante coroncina. Era raggiante quando gliela misi in testa: gli piacque subito e la cosa mi rese molto felice. Volle andare a vedersi in uno specchio, come un bimbo, ma non appena si mosse ella cadde al suolo.
Tentammo più volte di farla stare in testa -tra le risate di Castiel che, da lontano, se la rideva beato- ma senza alcun risultato: il principino aveva una testa inadatta a portare una corona.
La soluzione arrivò dettata dalla pazzia di due notti insonni: la attaccammo ad un gancetto di fil di ferro nascosto sotto alla sua folta chioma bianca. Fu così che nacque la leggenda della coroncina storta.
Infatti, purtroppo, solo in quella posizione riuscimmo a nascondere perfettamente la magia usata.


3#
Avevamo studiato questa mossa da troppo tempo perché tutto il piano fallisse.
Castiel era seduto in un posto imprecisato della mia mente. Da solo, indifeso. Mi avvicinai per tentare un'altra conversazione. 
«Allora» buttai lì, sperando mi desse corda «come butta, fratello?». Si girò a guardarmi shockato e leggermente disgustato. «Ma come parli?!». Mi accigliai in meno di un secondo, buttando all'aria tutti i pensieri su ciò che dovevo fare. «Ma che ne so! Sto provando a pensare come te!». Castiel, scandalizzato, sbiancò inorridito dalla mia frase. «Ma per chi mi hai preso?!». Decisamente, non saremmo mai andati d'accordo. Ci trovammo a parlottare indignati dalle risposte che uno continuava a dare all'altra fino a che, stanchi di sentire le baggianate che uscivano dalle nostre bocche, Castiel si alzò. «Su, andiamo a prenderci una birra». Io, pronta per l'ennesima battibeccata, lo guardai offesa. «Scusa, ma sono astemia».
Incredulo per ciò che aveva sentito, Castiel scoppiò a ridere. Davvero, io e lui non avevamo assolutamente niente in comune. E forse, credo pensammo entrambi, era proprio questo a farci andare, in qualche modo, a genio.
Poi i ricordai del piano. Ma fu troppo tardi.
«Tuuu!» tuonò Lysandre comparendo dal nulla «Sottomettiti a colei che ci com- Ma che state facendo?!».
Decisamente, era andato tutto nel verso sbagliato, per ciò che io e il principino avevamo pensato: volevo sottomettere il rosso al volere del personaggio che, durante tutta la storia, avrebbe dovuto comandarlo, ma da come eravamo scoppiati a ridere, fu chiaro a tutti e tre che non ce n'era affatto bisogno.


4#
Chiarita la nostra situazione, avevamo gettato le basi per una buona collaborazione. Nella mia testa avevo fatto predisporre tutto ciò che a loro sarebbe potuto servire.
Il nostro lavoro stava procedendo più che bene quando ci venne la curiosità di sapere come se la stava cavando la mia socia con gli altri due personaggi: Erech e Armin.
Ci dirigemmo, in allegra scampagnata, in un luogo della mia mente da cui potevamo avere accesso alle informazioni esterne. Trovammo tante cose inutili come interessanti. Castiel si bloccò parecchio sull'archivio delle scene piccanti immagazzinate nella mia memoria ma alla fine riuscimmo a staccarlo. Quand'ecco che trovammo la via per la comunicazione esterna. Ci si aprì una bella finestra sulla mente di Ayukiko.
Era un bel posto, spazioso e in ordine. Se non un piccolo angolo, pieno di fili. Ad esso era collegato un ragazzo, sommerso dalle sue console. 
«Non voglio provarmi i costumi! Non mi piacciono i giochi medievali! Voglio una storia fantasy!» gridava alla sua scrittrice senza nemmeno degnarla di uno sguardo. Questa, trattenendo un'immensa voglia di tirargli una scarpata in bocca, si girò, sperando in una situazione migliore con l'altra sua protagonista. La trovò intenta a roteare su sé stessa, facendo ampi cerchi con la sua lunga chioma nera. Si sentì inizialmente sollevata ma, quando intravide la spada che la giovane teneva in mano, una grossa vena sulla tempia cominciò a pulsarle. «Accidenti, Erech! Quante volte ti ho detto che ti devi ferire dopo?!». Caricò bassa verso la ragazza, togliendole di mano l'arma. Quella provò a ribattere ma, con una sola occhiataccia ben piazzata, capì di dover stare zitta. «E tu!» continuò il suo sfogo, lasciando che la rabbia repressa uscisse ora contro il moro attaccato alla tv «Farai una brutta fine se continui così! Bruttissima!». Egli si scrollò le spalle, firmando così la sua condanna.
A Castiel scoppiò una risata nel vedere quel putiferio. 
«Vuoi provare?» lo provocai, girandomi nella sua direzione. Lui, imitando il giovane dell'immaginazione accanto, mosse su e giù le sue spalle con un'espressione quasi compiaciuta sul volto.
«Non cominciate, voi due!» s'intromise Lysandre. Ci girammo verso di lui, assicurandogli la tranquillità.
«Alla pace!» proposi di brindare tirando fuori birra per loro e coca-cola per me «Alla nostra, almeno!».
Le bottigliette di vetro trillarono tra di loro mentre ci godevamo in tutta calma la nostra bevuta.

5#
Eravamo distesi, tutti assieme, dopo una dura ripresa. Lysandre, con la sua solita coroncina storta, teneva la mia testa tra le sue mani e mi cingeva il busto con le sue gambe. Si divertiva a farmi le treccine, ogni tanto, viziandomi con qualche bel massaggio al cuoio capelluto: era un trattamento rigenerante dopo un'intera giornata passata a bisticciare con quel rosso demente che, prima non capiva come mai doveva fare il buon samaritano, non riuscendo nemmeno a lanciare un paio di monete [dovemmo rifare tantissime volte quella scena; una volta colpì anche il ragazzino in un occhio facendoci rischiare una causa per maltrattamento di minori] e poi perché si era trovato in dovere di criticare la scelta dei personaggi, lamentandosi continuamente sul perché lui non fosse potuto avvicinarsi alla ragazza assunta per fare la prostituta.
La testa di coccio ancora continuava a lamentarsi, con la schiena appoggiata ad un muro creato dal nulla e i piedi che istigavano continuamente i miei. 
«Dai, Castiel! Avrai le tue soddifazioni!» cercai di zittirlo, ma non servì un granché. «Ma io le voglio ora!» ripeté, come se la cosa non ci fosse abbastanza chiara.
A quel punto, Lysandre sciolse le mani dai miei capelli, abbandonando la mia testa al suo petto. Da una prospettiva sfavorevole riuscii a vedere le sue narici dilatarsi e poi tornare normali. Stava sbuffando di rabbia, come un maialino arrabbiato?
«Castiel!» lo chiamò, imitando la voce che usata sul set «Adesso basta». Non riuscii a vedere la sua espressione ma il tono lasciava intendere poco altre lamentele. Riportai la mia attenzione sul rosso, visibilmente sbiancato. Rimasi senza parole nel vederlo così sottomesso ma, tutto ciò che stavo per dire, venne cancellato dalla mia mente quando Lysandre riprese a coccolarmi.

6#
Lasciammo Castiel alla frontiera con la promessa di venirlo a riprendere presto. L'ultima immagine che vedemmo di lui, fu la sua testa rossa che precipitava a terra sotto il peso di Ayukiko, saltatagli addosso. Le porte si erano chiuse poco dopo, interrompendo di colpo le urla di Castiel, spaventato o chissà che cos'altro.
Io e Lysandre ci guardammo vicendevolmente, archiviando la faccenda con un'alzata di spalle e un se la caverà.
Fu il pomeriggio più calmo e rilassante mai passato da che i due ragazzi mi erano stati affidati. Passammo il tempo a leggere, vicini vicini. Le braccia forti di Lysandre mi davano tanta sicurezza e calore; lui, dal suo canto, si stava esercitando a trattare le ragazze, prima di ripetere le orribili esperienze con le prostitute [ne aveva fatte scappare tre perché i suoi modi riuscivano a portarlo alla conclusione sbagliata].
«Stavo pensando» interruppe la lettura e il silenzio con il suo tono innocente. Alzai lo sguardo sul suo viso pensierosamente convinto. «E se lo lasciassimo lì fino a domani?». Un sorriso maligno si allargò pian piano sul suo volto. Sì, decisamente, ero riuscita a renderlo un perfetto principino spietato.
Recuperammo Castiel la sera stessa. La porta che ci separava dall'immaginazione altrui si chiuse davanti ad Ayukiko che, animatamente, salutava Castiel andarsene. Sembrava proprio euforica. Il rosso, invece, aveva i capelli scompigliati e i vestiti graffiati e stropicciati. Uno dei due calzini era addirittura messo al rovescio.
«Allora, che ci racconti?» chiesi, trattenendo a fatica una risata di scherno per le sue condizioni. Castiel, prima di rispondere, sbuffò sonoramente. «Che quella ragazza... è una belva».

7#
Ovvero, quello che realmente successe nella mente di Ayukiko.

Davvero, non mi aspettavo che Castiel fosse così impedito con le spade. E non mi aspettavo nemmeno di vedere i suoi occhi sgranarsi, poco prima di mettersi a ridere a crepapelle. Okay, Castiel. Adesso mi hai fatta incazzare. 
«Si può sapere cosa c'è di così divertente?». Calma, Ayu. Ricordati che Castiel vi serve vivo. «E cosa vorresti farci con quella? Un barbecue? È più grande di te!» asserì il ragazzo con le lacrime agli occhi per le troppe risate, poco prima di ritrovarsi la lama della sciabola a qualche millimetro dalla sua gola. Sbiancò istantaneamente. «Senti bello, sta attento a come parli. Faccio scherma da otto anni, io. Non sono da sottovalutare». Gli passai la spada, sperando che, dato il ruolo che doveva ricoprire, sapesse fare qualcosa. Vi giuro che inizialmente Erech era molto, molto più brava di lui. «E tu quello lo chiami affondo? ... MA STIAMO SCHERZANDO? E VORRESTI DAVVERO IMPERSONARE UN GENERALE DELL'ESERCITO IN QUESTE CONDIZIONI?!». Andammo avanti così per tutto il pomeriggio e, mentre Cass rischiò più volte di morire io non sapevo se ridere o disperarmi. «Senti Castiel, sei un caso perso. Dà a me quella spada» ripresi l'arma con la quale tentò più volte il suicidio involontario e gli passai il fioretto di plastica che si usava per l'allenamento dei bambini. Il povero giocattolo si guadagnò un'occhiata stupida e un mormorio disgustato da parte del ragazzo che più volte se lo vide sbattuto in testa. Non c'entravo niente, io: era lui ad essere davvero troppo impedito. In un attimo di disperazione atroce decisi di passare al piano B. Se non avesse imparato per lavoro, l'avrebbe fatto per disperazione. «Ascolta Cass... Visto che con la spada proprio non riesci a conviverci, perché non proviamo un altro metodo? Mh?». Accarezzando languidamente la lama della spada vera mi avvicinai al ragazzo spaventato. Oh, adesso sì che ci divertiamo.


8#
«Mi annoio» sbottò Castiel, un giorno, mentre lo stavo preparando per la sua entrata in scena. «Non è colpa mia» cercai di non dare troppo peso alle sue parole, convinta che ribattendole avrei creato un'altra discussione. «Chi è che scrive i miei pezzi?» chiese, con un tono di voce provocatorio. «Io» risposi secca, finendo di pettinare i suoi morbidi capelli rossi. Ora dovevo solo legare alcune ciocce nel piccolo codino. «Quindi è colpa tua» continuò. Non ne potevo più delle sue lamentele. Prima le scene, poi le battute. Mettiamoci dentro anche le prostitute per il suo migliore amico. Cominciavo a stufarmi del suo comportamento da frignone viziato. Presi le ciocche di capelli legate tra loro, alzandole sopra la sua testa. Nello specchio, la sua espressione si fece dapprima confusa e poi terrorizzata, non appena capì la mie intenzioni. Beh, non gli fu difficile, dal momento che un grosso paio di forbici stavano minacciando l'integrità della sua tinta chioma. Il viso, più pallido che mai, era contorto in un'espressione di paura primordiale.
«Ora tu andrai sul set e farai tutto ciò che devi fare. Divertendoti. Va bene?» gli sussurrai all'orecchio. Annuì, terrorizzato e, non appena lasciai la sua ciocca, scappò via alla velocità della luce.


9#
«Come mai non stai scrivendo niente?» chiese, d'un tratto Castiel, scartando un quattro di fiori. Alzai svogliatamente lo sguardo dalle carte che avevo in mano rivolgendolo al rosso seduto su una sedia messa al contrario, le carte in mano e la testa appoggiata allo schienale creato perfettamente su misura per lui. «Perché sono una pigra tiraballe» risposi, pescando una carta e ributtandola subito nel mazzo delle scartate dal momento che non faceva al caso mio «E poi pensavo che ti sarebbe piaciuta una bella vacanza». Lysandre fece la sua mossa in silenzio, aprendo sul tavolo con ben 63 punti e scartando un due di picche a Castiel. Questo, capendo al volo la battutina implicita, fece una smorfia da bambino frignone all'amico che se la rideva sotto i baffi e poi pescò. «Sì, ma mi manca un po' lavorare. Aspetto ancora le mie prostitute». Mi lasciai scappare una risata. Ancora non cedeva su quel punto. Peccato per lui che nemmeno io avrei fatto un passo indietro. E lui si sarebbe trovato alla fine della storia con le sue voglie ancora da soddisfare.



10#
Il punto è che mentre io preparavo tranquillamente la cena in cucina e Gozaru teneva a bada quei due fuori di testa, Erech uscì dalla sua stanza con indosso solo il babydoll e gli slip. «Perché cazzo non indossi i vestiti?!» urlai dalla cucina, nascondendo il coltellaccio affilato dietro la schiena per evitare di lanciarlo contro qualcuno. «Volevo divertirmi anche io! ...» rispose innocentemente la ragazza, stropicciandosi gli occhi come se si fosse appena svegliata dal riposino pomeridiano. Santi numi, ma cosa m'è saltato in mente quando l'ho creata?!, pensai, rimanendo comunque abbastanza in guardia
da sentire l "Ah, però! ..." da parte di Castiel che, a senso suo, l'aveva detto sottovoce continuando a sbavare davanti al corpo di Erech. Ecco perché le avevo detto di indossare sempre qualcosa di non troppo scollato. «In mancanza di prostitute ...» continuò lui, incurante della situazione di pericolo in cui si trovava. E non mi riferisco all'occhiata minacciosa che Erech gli lanciò poco prima di andare a giocare a Guitar Hero con Armin ma al fatto che, accidentalmente, avevo aggiunto del guttalax al posto dell'anice nel suo bicchiere d'acqua.

Ecco a voi i dieci capitoletti che, ogni tanto, saranno inseriti tra i capitoli regolari della storia. Godetevi i dietro le quinte!

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Capitolo 5
*** De Bello non disputandum est. ***


Armin si rigirava nel letto da parecchio, ormai. Il sole non era ancora sorto del tutto, e l’aria fresca di metà settembre entrava dagli spifferi sparsi per la stanza.
Alla fine decise di alzarsi, costretto dall’imminente bisogno del bagno.
E adesso, dopo mezz’ora e dopo essersi fatto la doccia, si ritrovava a camminare per i padiglioni che davano sul giardino perché di sonno non ne aveva più.
Ovviamente, al castello dormivano tutti. O quasi. Guardò la freccia che si era conficcata in una delle colonne costeggianti il giardino, a segno perfetto e a qualche millimetro dal suo naso. Successivamente, seguendo la traiettoria descritta poco prima dalla freccia, guardò Erech che tratteneva a stento le risate.
 
- Ma allora vuoi uccidermi sul serio

La ragazza recuperò la freccia, sopprimendo l’ultima risata sul nascere, dopotutto non era educato ridere in faccia alle persone.
 

-Ammetto di averlo fatto di proposito, questa volta. Mi dispiace.
- Come mai le frecce? Mi aspettavo di essere mutilato … O decapitato …
-Divertente Armin, davvero.
- Che hai fatto alla mano?  Mi ricordavo di averti lasciata tutta intera. Possibile che non posso allontanarmi per due giorni che tu rischi di mozzarti il polso? 

La ragazza non rispose e tornò ad allenarsi con l’arco e le frecce. Non ricordava dove potesse aver lasciato la spada, ma non le importava più di tanto. Era di suo padre e non era attaccata a nulla che potesse ricordarle quell’uomo. Squadrandola da capo a piedi, Armin notò che indossava gli stessi vestiti di quand’era arrivata, e che la manica della maglia, oltre che macchiata di sangue, era anche lacera.

-…. Tu hai decisamente bisogno di vestiti puliti.
- E da dove dovrei prenderli? Dal tuo armadio?
- No, andiamo in paese.
- Che?! Ma se sono riuscita ad uscire dalla mia stanza per miracolo!
- Di questo non devi preoccuparti. 

In realtà Armin detestava fare acquisti, ma non poteva mica lasciarla in quelle condizioni. Il ragazzo, ignorando le proteste che seguirono, le afferrò il polso e la portò con se fuori dalle mura che circondavano il castello, verso il centro del paese. Poco gli importava se Erech strascicava i piedi per terra come una bambina capricciosa tentando di fermarlo, se la strada era tutta buche e che sia lui che lei avessero fame. O almeno, non gli importò della fame finché, una volta giunti in paese, il profumo del pane non lo avvolse completamente. A quel punto lasciò il polso di Erech per seguire la scia. Nonostante i richiami della ragazza, lui continuò imperterrito a camminare in cerca di qualcosa di buono. Al ché, Erech lo seguì. La città sembrava ogni mattina più splendente. Adesso che i negozi erano aperti, che i bambini si trascinavano dietro i libri per andare a scuola e che il profumo di pane e dolci si era sparso nell’aria, Calimon incantò Erech ancor più della prima volta che l’aveva vista, quand’era quieta, illuminata dal sole e profumata d’autunno.
In realtà aveva fame, e parecchia anche, ma non aveva soldi e il suo orgoglio le impediva di chiedere ad Armin di prendere qualcosa anche a lei.
 

-… Devi rimanere sulla soglia ancora per molto?
- Va tu, io aspetto qui.
- Motivazione?
- Nessuna in particolare. Ti giuro che non è un trucco per andarmene!
- Quando torno voglio ritrovarti qui. Altrimenti non basterà tutta Calimon, per nasconderti. 

Il ragazzo si dileguò all’interno del negozio lasciando Erech, che era andata a sedersi al bordo della fontana,  divertita dall’occhiata minacciosa che il ragazzo le aveva gettato prima di allontanarsi. Guardò la città risvegliarsi, come poco prima. Le donne, indaffarate, stavano aprendo tutte le finestre – probabilmente per far prendere aria alle stanze – e gli uomini che, sulla soglia di casa, salutano le donne con un sorriso radioso nonostante davanti a loro si prospetti una lunga, faticosa giornata di lavoro. Erech si concentrò su una coppia in particolare, entrambi sembravano abbastanza giovani e la ragazza teneva tra le braccia un bambino che poteva avere al massimo qualche mesi. L’uomo sorrise alla donna sulla soglia della porta, sussurrandole parole che Erech non riuscì a sentire, dopo di che, baciò in fronte quello che probabilmente era suo figlio. Si allontanò, sbracciandosi per salutare la ragazza, sorridente. Anche lei, sull’uscio di casa, sorrideva agitando lievemente la mano, per non permettere ad un suo movimento eccessivo di far piangere il bambino. Erech, come ogni volta che voleva sapere o capire qualcosa, guardò gli occhi della ragazza. Erano lucidi, o meglio … Brillanti. Sembravano gioire, irradiare di gioia tutto il circostante, ma quello che provava la ragazza non era affetto. Non era amicizia. Non era semplicemente bene.
Ma allora cos’era?
 
- Hey! Principessa? Ma mi ascolti? … 

La ragazza tornò tra i vivi quando si accorse della mano che Armin, seduto al suo fianco, le agitava davanti al viso.
 

-Principessa, hai detto? …
- È solo un soprannome, mi ricordi una principessa che ho visto ad un ballo tempo fa, sai, da ragazzino mi divertivo ad infiltrarmi ai balli … Non ti piace?
- No, cioè si … Forse … Non è questo il punto! 

Come ogni volta che la chiamavano principessa, Erech perse il controllo che aveva sempre avuto sulla sua calma. Ma Armin non la conosceva, non sapeva chi realmente fosse, o almeno quello che faceva credere. Non aveva partecipato a nessun ballo negli ultimi cinque anni. Non poteva averla chiamata “principessa” di proposito. Non era forse così?
Mentre rifletteva su questo, Armin le porse quella che pareva essere una brioche. Era una brioche  al cioccolato, come quelle che le servivano per colazione ad Alyon. Erano tremendamente buone.
 

- Comunque, pensavo che avessi fame. Non credo che tu sia il tipo che viene a chiedere qualcosa agli altri, giusto? Tieni.
- Non ce n’era bisogno. – Mormorò la ragazza. In realtà, era il suo modo di ringraziare.
- Si invece, fidati. Cosa stavi guardando, prima?
- Ah, niente.
 
Erech stava ancora guardando la giovane, alle prese con il bucato da stendere e ancora sorridente. Non capiva se era semplicemente di buon umore, o se fosse così felice per un motivo particolare.
 
- Ah, l’amore … - disse Armin con l’aria esaltata di un attore teatrale.
- Che cosa?
- L’amore! Stai guardando la ragazza bionda, no? Si chiama Marion, e si è sposata circa un anno fa. Mi ha ospitato quando sono arrivato in città. Allora era ancora nubile, ma lei e il suo attuale marito erano innamorati persi. Hanno avuto un bambino, mi pare.
 
Ecco cos’era che accendeva gli occhi della ragazza, l’amore! Ma come aveva fatto a non pensarci?
Era meglio non crucciarsene e godersi la colazione. Da quand’era partita dal suo regno aveva mangiato pochissimo, e così aveva continuato a fare. In realtà preferiva passare meno tempo possibile con i soldati, si era accorta di come continuavano a guardarla, e quegli sguardi non suggerivano niente di buono. E così si ritrovava ogni sera a mangiare una mela seduta su un ramo dell’albero dal quale l’aveva presa, in giardino. Per il pranzo doveva sacrificarsi e far finta di non sentire le battute poco carine che quei Neanderthal scambiavano su di lei.
Una decina di minuti dopo, dopo parecchie proteste della ragazza, Armin la stava già trascinando per i negozi mettendole tra le braccia quantitativi di vestiti da provare che le avrebbero richiesto ore. La maggior parte di quei vestiti, poi, era da uomo. Erech si era opposta fermamente a qualsiasi cosa fosse più femminile di una camicia o maglia medio - lunga. Poco le importava delle proteste del ragazzo che “Ma tanto quando sei fuori servizio ti ci puoi vestire come una ragazza!”, assolutamente non voleva sentire ragioni.

-  Sicura che non vuoi nemmeno un vestito buono? Ogni tanto anche a corte si organizzano dei balli. Potresti andarci anche tu, secondo me passeresti senza problemi. 

Preferì omettere “sicuramente i nobili all’ingresso si metterebbero in fila pur di entrare con te”, convinto che, potendo, in fila ci si sarebbe messo anche lui. Distolse lo sguardo, imbarazzato. La ragazza scosse la testa in segno negativo, facendo ondeggiare i capelli lunghi.
 

- Piuttosto, mi hai comprato vestiti per tutta la stagione. Devo preoccuparmi della dubbia provenienza di tutti quei soldi?
- Non si direbbe, ma a stare nell’esercito si guadagna parecchio, e io metto tutto da parte.
- Potevi comprare qualcosa che serva a te.
- E lasciarti con una camicia lacera e macchiata di sangue? Non sia mai! – Asserì, ridendo – Mi aspetteresti qui? Devo fare una cosa. Mi servono dieci minuti al massimo. O se preferisci fai un giro e poi ritorni qui.
- Va bene.
 
Poco dopo, Armin la stava trascinando di nuovo dentro un negozio. Le passò un vestito piegato, che doveva essere nero e sicuramente molto elegante.
 

- Ma avevo detto niente vestiti!
- Provarlo non ti costa nulla, no? 

Il ragazzo aveva l’aria talmente implorante che Erech, sospirando, andò a provare il vestito.
Le stava a pennello, e il nero metteva in risalto il colore dei suoi occhi. Aveva delle splendide rose di tessuto sul fianco sinistro, e la gonna ruotava meravigliosamente quando girava su se stessa. Rimase a guardarsi, incantata dal vestito che le ricordava la vita di corte, la frenesia delle danze e dei balli, le chiacchiere di corte che lei ascoltava pur fingendosi disinteressata. La divertivano, e adesso erano ricordi malinconici nella sua mente, e per chissà quanto, tali sarebbero rimasti. Scostò la tende che divideva lo stanzino dal resto del negozio.
 

- … È splendido, ma rimango della mia idea. Niente vestiti.
- Troppo tardi – rispose il ragazzo, con aria assente – te l’ho già comprato.
- Tu hai fatto cosa?
- … Sei Bellissima.
 
Battibeccarono per tutto il tempo, tornando al Castello. Erech, per ripicca, aveva insistito affinché Armin portasse tutte le buste e le scatole, che per poco non gli coprivano gli occhi. Di tanto in tanto gliene cadeva qualcuna, ed Erech la riprendeva canzonandolo come se non sapesse nemmeno portare dei pacchi. Armin faceva il finto offeso.
 
- Comunque – disse il ragazzo, con aria ancora irritato – un giorno di questi ti porterò a vedere il mare. 
 
Erech sorrise, e quel sorriso ricordò ad Armin il cristallo che si frantuma in mille e mille pezzi cadendo sul pavimento.

 
Era il suo castello, per cui gli veniva naturale passeggiarci dentro. Amava ripercorrere i corridoi che, quand'era bambino, aveva ammirato mano nella mano con il padre ormai defunto che gli faceva da cicerone, spiegandogli chi avesse realizzato i bellissimi quadri e arazzi appesi alle pareti o chi avesse costruito le enormi porte in legno massiccio tutte intarsiate. Ogni oggetto possedeva una storia e ne raccontava un'altra e il principe Lysandre si beava della voce dell'ormai defunto sovrano che ancora tuonava forte nella sua memoria. Fin da piccolo aveva sempre adorato le narrazioni belliche, preferendole di gran lunga a scialbe favole piene di princìpi buonisti e ai vecchi racconti che narravano del loro regno e di quanto fosse ormai prospero e ricco grazie alle azioni delle tre precedenti generazioni che erano riuscite a mantenere la pace.
Lysandre era sì molto orgoglioso del padre ma in cuor suo bramava conoscere il tempo di guerra e assaporare emozioni nuove. Erano ormai passati anni da quando aveva ereditato il trono e il profondo dolore della perdita era completamente svanito: gli rimanevano solo i bei ricordi e il viso sciupato del malato padre che, tenendogli la mano, gli affidava il futuro di tutto ciò che gli era sempre stato più caro. Però, rifletteva ogni tanto, non aveva mai accennato alla Pace.
Era arrivato ad ammirare il tanto famoso dipinto che narrava le gesta del battaglione di soldati che, da solo, aveva espugnato le forze nemiche facendo breccia nell'esercito avversario, riuscendo anche a rapire il comandante nemico. Quella era la sua storia preferita, ormai divenuta leggenda in tutto il Regno. Grazie a quell'eroica azione, tutto ciò che ora lui stava governando era temuto da chiunque avessero intorno. Un esercito addestrato e potente, una ricchezza senza pari che, anche se non molto equamente distribuita, permetteva una vita tranquilla a quasi tutti i cittadini, ma soprattutto, un sovrano dalla mente acuta che mai era salito sul trono. In molti, infatti, avevano paura di Lysandre e delle sue decisioni a volte azzardate, compresi i suoi consiglieri: tutti si ricordano ancora, infatti, della Manovra Economica attuata in tempo di carestia. Tutti cercarono di dissuadere il sovrano, e persino voci provenienti dagli altri regni davano Calimon ormai per spacciata; addirittura c'era anche chi stava progettando di invadere il regno. E fu un periodo duro, sì, che però passò rapidamente dando rapidi frutti con risultati sorprendenti di cui lo stesso principino se ne stupì piacevolmente.
Arrivò un giovane soldato a rovinare il filo logico dei pensieri del sovrano. Correva affannosamente, producendo un fastidiosissimo rumore derivato dalla pesante armatura che indossava e i cui pezzi cozzavano tra loro. Il sovrano girò la regale testa verso costui, sbatacchiando in modo quasi indegno la povera coroncina che per un attimo parve cadere ma che, come tutti sappiamo, rimase perfettamente in bilico, tenuta in piedi probabilmente dai capelli del giovine sovrano. Lanciò una fredda occhiata di disgusto accompagnata da una leggera contrattura delle sottili labbra che, nonostante rimasero chiuse, chiedevano comunque che cosa ci facesse lì un soldato palesemente in turno di guardia. Il ragazzo, che avrà avuto all'incirca sedici anni, fece un rapido inchino, catapultandosi il pesante elmo sul naso, sistemandoselo poi una volta tornato in posizione eretta. «Vostra Altezza» biascicò in quello che sembrò essere un conato di vomito per la lunga e faticosa corsa a cui non era certamente abituato -né addestrato, e per questo il Generale Castiel sarebbe stato sicuramente punito-, «Sono venuto a riporre una spada nella Sala delle Armi su richiesta del Generale». Sputò tutto ad una velocità impressionante, forse per paura di dimenticarsi qualcosa, come un discorso scritto e corretto in pochi secondi nella sua mente, da che aveva avvistato la regale figura del sovrano dal fondo del corridoio. E detto ciò, alzò di poco la spada, ormai pulita dal sangue della ragazza, che teneva in mano. La cosa, per quanto normale potesse essere, attirò inspiegabilmente l'attenzione del sovrano.
«Dove l'hai presa?» chiese secco Lysandre permettendo ad una persona che ricopriva uno dei ruoli più infimi nel suo castello di udire la sua reale voce. Questi balbettò, ancora una volta, facendo innervosire il principe che per poco non gli urlò in faccia di parlare. «Il Generale» compose, infine, la sua voce «Era nel cortile interno con la nuova arrivata. Mi ha detto di metterla a posto» rispose, più titubante della prima volta che aveva proferito parola. Fu allora che il sovrano spostò una delle sue mani -rigorosamente avvolte in un guanto bianco nel caso gli fosse disgraziatamente capitato di venire a contatto con certi individui- puntando l'indice contro uno stemma alla base dell'elsa. «Sai cos'è questo?» chiese al soldato. Non che ci fosse realmente bisogno di una risposta; non per lui almeno: era una specie di test, uno di quei momenti imbarazzanti in cui adorava trascinare qualche persona che riteneva nettamente inferiore a sé. Il giovane davanti a lui scosse la testa, imbarazzato. «S-so di averlo già visto ma... No, Vostra Maestà». Abbassò la testa, colpevole. Lysandre, avuta la conferma dell'ignoranza del suo interlocutore, perse totalmente la voglia di vederlo, girandogli le spalle e riprendendo il cammino da dove era venuto. Addirittura, si era già dimenticato del volto del ragazzo con cui aveva appena parlato, ma la sua mente aveva stampato come un marchio a fuoco quello che sembrava uno stiletto d'altri tempi intrecciato a dei rovi, il tutto sormontato dalla stessa ala, rivolta però a sinistra, presente nello stemma di Calimon. Erano passati secoli da che qualcuno aveva ammirato quel vecchio marchio impresso nelle armi come simbolo di possessione e riconoscimento per chiunque portasse quella spada. In tempi odierni, però, era stato modificato e con esso anche lo stampo e tutto ciò poteva significare solo una cosa: a palazzo si era introdotta una persona esterna, spacciandosi per qualcuno che non era; una persona proveniente da Alyon, il regno vicino e, visto che cimeli del genere erano ormai più unici che rari, si doveva trattare sicuramente di qualcuno appartenente alla Famiglia Reale.
Fu organizzato tutto a tempo di record. I consiglieri erano giunti nella Sala del Trono e con essi tutte le persone che avevano a che fare con il Consiglio di Stato Maggiore del Regno. Castiel, in qualità di Generale delle Armate, era stato convocato in fretta e furia. Si era dovuto cambiare velocemente indossando la pomposa uniforme ufficiale per il ruolo che ricopriva ed era stato poi condotto  nell'esatto posto in cui si trovava ora. Erano presenti tutti, ormai, in trepidante attesa dell'arrivo del Sovrano.
Apparve in tutta la sua magnificenza dal portone principale, spalancato come di consueto durante una riunione ufficiale da richiesta dello stesso. Sulle sue spalle era poggiato l'enorme mantello rosso a strascico. La corona sembrava essere stata spostata ma, nonostante i tentativi delle dame di corte, essa rimaneva perennemente di lato, incapace di restare correttamente in testa al sovrano. Anch'egli, comunque, aveva indosso il vestito a bottoni dorati e in tessuto blu notte che si vedeva poche volte durante la propria vita: esso stava a significare un profondo ed importante cambiamento per tutto il regno e Lysandre l'aveva indossato solo una volta: alla sua Incoronazione e, come lui, suo padre. Chiunque nella stanza era rimasto a bocca aperta chiedendosi -senza però permettersi di fiatare durante la camminata regale del Re dall'entrata al Trono, situato su di una scalinata, così da porlo in una posizione sopraelevata rispetto agli altri- che cosa avesse mai in mente il giovane sovrano per richiedere una così tanta affluenza di persone. Ognuno aveva ormai la sua teoria, Castiel compreso, ma nessuno di loro ebbe ragione.
Quando il sovrano si fu comodamente seduto sul Trono, schioccò le dita e un paggio venne avanti, in mezzo al tappeto rosso, sul secondo gradino della scalinata.
Sciolse un rotolo davanti al suo naso lungo e aguzzo e, dopo essersi sistemato il monocolo, pronunciò delle parole che nessuno nella stanza si sarebbe mai aspettato.
La sua voce, roca e profonda, risuonò nel cuore di tutti i presenti, lasciandoli a bocca aperta.

Con la presenza di voi tutti oggi qui, nella Sala del Trono,
il Sovrano del Regno di Calimon,
a seguito di un mancato rispetto del Trattato di Eresseie,
è autorizzato a marciare sulle terre del rivale Regno di Alyon.
Pertanto, si considera sciolta la tregua con esso.
Ogni rapporto, sia esso di natura commerciale o altro, deve cessare.

Non saranno più tollerati reati né sprechi.
La popolazione è tenuta a collaborare seguendo le antiche norme
che verranno poi presentate in ogni piazza,
affinché lo stato generale rimanga pressoché immutato.
Verrà reintrodotto il coprifuoco e la legge sarà applicata più duramente.

Prestate tutti attenzione e siate cauti.
Da questo momento ha inizio la Terza Guerra dei Regni Superiori.

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Capitolo 6
*** Le maschere che ci mettono addosso. ***


Le maschere che ci mettono addosso.

La mattina arrivava come una stilettata, perché il levar del sole era così malinconico da rievocare ricordi sordi al richiamo della notte. Eppure Erech non poteva fare altro che svegliarsi all’alba, sempre, da quand’era bambina. Puntualmente, ogni mattina, sentiva come se le mancasse qualcosa. La stessa sensazione di quando ci si accorge che un puzzle sarebbe completo se non mancasse un pezzo, e non si sa dove possa essere finito e lo cerchi ovunque, senza trovarlo. E rimane incompleto. Il giardino sembrava deserto. Non aveva mai visto quello ante stante al castello, si era sempre tenuta nascosta agli occhi di tutti, durante il giorno.
Avvolto nell’aura misteriosa del mattino, le sembrò splendido come le rose che si scorgevano quasi ovunque. Camminava incerta, come se qualcosa dovesse spezzare l’incanto in cui, inconsapevolmente, si era immersa fino a farne parte. Una rosa rossa giaceva per terra, lontana dalle altre e accarezzata dal vento. La ragazza la colse e notò che, nonostante abbia perso alcuni dei suoi petali, era ancora molto bella.
Erech era spaventosamente incline alla’autodistruzione, tutti se n’erano resi conto, o quasi, tranne lei. Ogni suoi comportamento era un insieme perfetto di tecnica, grazia e disagio. Perennemente tormentata da chissà quale ricordo, da chissà quale angoscia, che da anni ormai le toglieva le forze e le negava il sonno.
Ma ciò che tu chiami afflizione non è forse qualcosa di simile alla paura?
Si strinse al rosa al petto, come cercandovi un appiglio, incurante delle spine che le ferivano le dita. Rossa, come il sangue. Come il colore delle labbra dei bambini e della luce negli occhi dei malvagi. Come il fuoco, un colore caldo. Bello come il tramonto. Tramonto che, si diceva, piacesse solo alle persone tristi. Dunque, avrebbero pensato che lei era inconsapevolmente triste.
Non è forse il colore del sangue, il tuo preferito? Non è vero che, come le rose, sei destinata ad appassire?
Lei non ascoltava più nemmeno i suoi stessi pensieri. Era così satura di tormenti che non ne sentiva più gli effetti, le cause che derivavano dal soffrire, ma non aveva nemmeno ciò che chiamano pace interiore. A volte le sarebbe piaciuto provare quel che si sente ad essere cattivi, a non aver rispetto per nessuno, ad essere egoisti e pensare a se stessi e alla propria felicità. Ma poi ricordava l’animo corrotto nei nobili a corte, così egoisti nei loro palazzi dorati e così simili a lei, nelle emozioni e nei sentimenti, da farle provare solo pena, tristezza e infinita commiserazione per loro e per se stessa.  
Perché lei, al contrario di loro – o almeno così pensava che stessero le cose – , non aveva fatto nulla di male.
Si sedette, sospirando: non c’era niente che lei potesse fare per placare l’ansia che l’aveva invasa, uno strano presentimento.
Guardò un punto indefinito al di là dell’orizzonte, superando con lo sguardo le alte mura che circondavano il palazzo, la roccaforte dentro la quale si trovava il villaggio, tutti i paesi che formavano Calimon e tutti i suoi terreni fino a tornare, con la mente, ad Alyon.
Si chiese cosa stessero facendo i suoi genitori, se stessero ancora dormendo o se fossero già svegli, se dal giorno della sua fuga avessero mai pensato a lei con l’affetto che la mancanza scuote anche nei cuori più duri. Si chiese se l’avessero mai vista come figlia prima che come principessa del regno. Ripensò ai capelli biondi della madre, che le circondavano il viso invecchiato e gli occhi verdi e stanchi, quasi fosse sempre sul punto di piangere. Alle sue mani, dispensatrici di carezze delicate sul suo viso di bambina, e ai suoi gesti armonici. All’impeccabilità del suo portamento aggraziato e la perfezione del suo aspetto anche in età avanzata.
Corse velocemente sul ricordo del viso severo del padre, ai capelli neri ormai striati di bianco e a quegli occhi così simili ai suoi, dello stesso colore dell’oro nelle fonderie e altrettanto scintillante di luce fredda. Alla sua mano e al gesto imperioso che compiva quando voleva mettere a tacere qualcuno, e alla sua voce decisa e ferma quando dettava gli ordini.
Alla morbidezza dei vestiti di seta e al profumo di lavanda,alle pareti bianche della sua immensa stanza e alle colonne del castello, dietro le quali si divertita a giocare a nascondino.
Alle feste, ai balli, al villaggio, alle notti d’estate passate in giardino e alla corona, troppo pesante e troppo grande per lei. Da piccola le sembrava tutto così bello.
Un rumore attirò la sua attenzione, poco distante da lei. Si alzò e, silenziosa come un gatto si diresse verso la fonte del rumore.
 

Castiel si era svegliato presto. Per essere più precisi, non aveva praticamente dormito, troppo preso da ciò che era successo solo poche ore prima. La sua giornata era iniziata davvero male: tra la ferita della nuova leva delle sue file e quella Dichiarazione di Guerra inaspettata le cose gli sembravano sfuggirgli di mano. Ricoprendo un ruolo di comando, si era sforzato di controllare tutto ciò che fosse sotto la sua responsabilità, portando il suo carattere a mutare nell'uomo maturo che era oggi. Gli era quindi diventato difficile ignorare che, ben presto, i suoi uomini, i ragazzi che aveva cresciuto e addestrato, sarebbero andati a morire al fronte. Si era rigirato nel suo letto, tra le soffici lenzuola e seta che lo accarezzavano ad ogni movimento, riflettendo su una Guerra che, da tutti i punti di vista, non gli apparteneva affatto. I soldati, ancora ignari della Spada di Damocle che pendeva sopra le loro teste, riposavano nelle loro brandine scomode dalle coperte logore. Il tepore del sonno era tutto ciò che di più caloroso potevano ambire nella loro vita, quella che a breve avrebbero perso. La notizia dello Stato di Guerra non era trapelata dalle mura del castello prima che i banditori ufficiali ne fossero messi al correnti. I suddetti si svegliarono all'alba uscendo per le strade ad affiggere le nuove disposizioni del regno ad ogni porta e per allarmare e informare i cittadini sulla loro nuova condizione. Castiel aveva visto alcuni di loro dirigersi verso le città vicine al galoppo dei veloci destrieri allevati al castello ma non dette loro il giusto peso mentre vagava per i cortili interni. Aveva appuntamento con la nuova recluta, riflettendo se fosse davvero il caso di addestrarla per poi mandarla a morire. Il cortile era deserto e di lei non vi era nemmeno l'ombra, ma il ragazzo non ci fece troppo caso, non arrivando nemmeno a domandarsi come mai la ragazza, sempre puntuale, quel giorno sarebbe arrivata dopo di lui. Estrasse la sua spada dal fodero e si sedette su di un tronco tagliato, abbastanza alto da risultare comodo a chi avesse intenzione di usarlo come sedia. Puntò la punta della sua arma verso il terreno e, tenendo il tutto schiacciato con il palmo della mano verso terra, si fissò sulla lama appuntita che, assecondando i movimenti del suo polso, girava perforando il freddo terreno del mattino. Quasi non sentì i passi della giovane Erech quand'ella arrivò. Lei, dal suo canto, non disse niente. La mano ancora fasciata, ma nessuna spada al fianco: la sua non la trovava più, ignorando che fosse stata portata in armeria. Non che la cosa l'avesse toccata. Era un ricordo di famiglia; quella famiglia da cui aveva deciso di fuggire. Stette immobile a qualche passo dal Generale senza ch'egli le rivolgesse parola. Tra di loro vi era solo il freddo di una mattina che sembrava uguale a tutte le altre, ma con una pesantezza tutta sua, come se il mondo stesse ancora aspettando di svegliarsi per paura che quello che sembrava un incubo potesse avere ripercussioni sulla vita reale. «La vita, a volte, è così strana...» sospirò il ragazzo con lo sguardo sempre fisso verso la punta della sua spada ormai penetrata nella terra di un paio di dita. Erech, consapevole ch'egli aveva notato il suo imminente arrivo, non proferì comunque parola. Sapeva che quelle parole erano dirette a lei, ma non si sentiva comunque parte del discorso che stava per cominciare. Quello era un monologo tra Castiel e se stesso. «Ci si sveglia una mattina non riconoscendo più ciò che si ha intorno e sentendo in bocca il sapore del sangue. Il viso delle persone amiche sembra sfiorito e la terra si ghiaccia sotto ai nostri piedi, ad ogni passo.» Parole senza senso, frasi sconnesse di una coscienza turbata. Castiel pensava solamente a quanto potesse essere dura una guerra, ricollegandosi ai discorsi del nonno, ormai deceduto da tempo. Loro avevano vissuto in un regno di terrore, ma avevano saputo portare la pace. E lui? Lui non aveva mai preso parte che a delle simulazioni belliche, a degli addestramenti privi di realtà. Sarebbe mai riuscito ad affrontare la Guerra, quella vera? Alzò finalmente lo sguardo verso Erech. Gli sembrò bellissima nella pallida luce del mattino. Le sembrò un fiore al massimo dello suo splendore e, inevitabilmente, si chiese se anche lei sarebbe morta. Non voleva pensarci, ma non voleva nemmeno addestrarla per il fronte. Il suo cuore si spaccò in due, ripensando alle notti calde del Re, mentre lui si struggeva di solitudine nelle sue stanze. Era sicuro che con una compagna vicino si sarebbe sentito più forte, e immaginò uno sguardo dolce sul viso della giovane che, davanti a lui, ancora aspettava un mutamento di intenzioni. Lei era venuta per addestrarsi, non per prender parte a turbamenti profondi del suo comandante. Eppure si ritrovò in mezzo a qualcosa che non avrebbe mai potuto immaginare. Nella sua profonda indifferenza, Erech aveva assunto l'immagine di una donna, finalmente, da che era arrivata. Castiel si alzò in piedi, sovrastando la minuta figura della ragazza. «Va a riposarti.» le disse. Non era sicuro che ciò che stava per dirle fosse giusto o meno, ma doveva dirlo per se stesso: se quelle parole non fossero uscite dalla sua bocca, nemmeno lui ci avrebbe creduto. «Siamo in Guerra».

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Capitolo 7
*** Di Sabbia tra i capelli e deduzioni. ***


Era rimasta sveglia, seduta in quello stesso punto dell’immenso giardino, guardando fisso la spada, attaccata alla cintura sulla sua vita. Intorno a lei, l’aria era ferma. Erech non pensava, non pensava a niente in particolare. La fredda rassegnazione di chi conosce, di chi sa.
Armin, a qualche metro da lei, appena tornato dal turno di notte e finalmente in pausa, stava per rientrare, quando qualcosa che si muoveva nell’aria flebile – stanca anche quella, impaurita anche quella - attirò la sua attenzione. Al posto di tirare dritto, svoltò verso il portico di una delle uscite laterali del palazzo. Si fermò ad un paio di passi da lei che, intanto, aveva alzato il viso per guardare chi si stava avvicinando, chi aveva avuto l’ardire d’interrompere il suo silenzio, la quiete che era riuscita a creare attorno a sé. 
Armin guardò Erech e dal suo sguardo capì che le avevano detto della guerra, ma non le sembrò né triste, né impaurita. La cosa lo stupì, ma qualcosa, nel volto di lei, non lo convinceva ugualmente.
«Verresti a fare un giro con me?» Le chiese, tendendole la mano per aiutarla a rialzarsi. Lei lo guardò, scettica. «E dove dovremmo andare?»
«Tu dove vorresti andare?» Rise lui, sapendo che la ragazza odiava una domanda come risposta a un’altra domanda. Lei lo guardò storto, ma poi si alzò. Lui la fissò dritto negli occhi e scoppiò a ridere, cosa che, dopo poco, fece anche lei.
 
Era da tanto che non saliva su un cavallo, e all’inizio temette che non avrebbe saputo tenere l’equilibrio e sarebbe caduta giù. Era quello che temeva ancora, visto che Armin non accennava a decelerare nemmeno un po’.  Si strinse alla camicia del ragazzo, e si concentrò sul vento che le sfiorava il viso e le passava tra i capelli. Il paesaggio che le si parò davanti quando arrivarono a Gaerys però era splendido e desolante.
 
Di Gaerys non restavano che le rovine, silenziose superstiti della Seconda Guerra dei Regni Superiori. La città sembrava giacere addormentata sulla polvere causata da macerie andate distrutte nel corso degli anni dalle intemperie. Il vento che s’insinuava tra i resti di quelle che dovevano essere case produceva un fischio leggero, sollevando la sabbia rimasta tra le strade. In quelle costruzioni grottesche non c’erano più né porte né finestre, e in molte di queste anche i muri stavano cadendo a pezzi.
Armin, sceso da cavallo assieme a Erech, guardò il paesaggio davanti a sé con aria strana.
«Accidenti» disse «non ricordavo questo posto così … Pericolante. Poco male, tanto non è a fare una passeggiata tra le macerie che volevo portarti.»
Erech, che fin da piccola era stata abbastanza influenzabile, guardava quel posto come una bambina chiusa la notte di Halloween in una casa infestata da spiriti maligni. Armin, che se n’era accorto, la prese per il polso e si mise camminare velocemente per quella che un tempo doveva essere la strada principale, guardando avanti fino alla fine della via. Davanti a loro, il mare.
Erech non aveva mai visto il mare, anche se tutta la parte centro-occidentale e occidentale del continente – e di conseguenza l’Oceano del Sole Calante – erano parte di Alyon, e di conseguenza proprietà di suo padre. Davanti a lei c’era invece l’altra metà dell’Oceano,  immenso e splendente in quella fortuita giornata di sole. La striscia di terra, fatta interamente di finissima sabbia bianca, si estendeva per chilometri. La linea dell’orizzonte, in quel luogo, non esisteva.
«Allora? Come ti sembra?» Le chiese il ragazzo, sorridendo.
Lei che, invece, era tornata la bambina che dieci anni prima si perdeva tra le margherite dei giardini dietro la reggia, si sedette sulla sabbia trascinandosi dietro Armin, che ancora le teneva il polso.
«Hai avuto il turno di guardia, non è vero? Per caso hai rinunciato ad andare a dormire per portare me qui?» Glielo chiese portando le braccia poco dietro la schiena, posando le mani dietro di sé per sgravare il peso del torace su di loro, piegando la testa in modo da poter guardare il ragazzo, che guardava il mare.
« … Ma guarda, i tuoi capelli sono così lunghi che sfiorano la sabbia. Sta’ attenta, potrebbe rimanerti tra le punte.» Gli rispose lui, sperando così di evitare la vera risposta alla domanda. In effetti, aveva parecchio sonno. Erech non indagò oltre, e tornò a guardare l’oceano e a respirare salsedine e, se avesse potuto, avrebbe ricostruito una delle case di Gaerys e sarebbe rimasta lì fino alla fine dei suoi giorni.
 
« … A proposito, cos’hai sul polso?»
Quella domanda sembro ridestarla da un sonno profondo, quasi credette di essersi addormentata sul serio. Per qualche secondo guardò Armin, senza capire. «Ti ho preso il polso, poco fa. Hai qualcosa in rilievo sulla pelle, come una specie di cicatrice, o qualcosa di simile … » Il ragazzo capì troppo tardi che, per rispondere a quella domanda, Erech avrebbe dovuto rispolverare vecchie memorie seppellite da tempo perché infelici.
Erano simboli identici, non poteva dire che erano cicatrici, o che se li era procurati per caso. Li guardò per un attimo. Scuri e in rilievo rispetto al resto della pelle chiara, troneggiavano sui polsi quasi interamente. Due splendide ali, tarpate a chissà che angelo. «Ecco … Sono … Più o meno come una tradizione di famiglia.» Armin non era convinto ma, vedendo il cambiamento nel volto di Erech, quella risposta se la fece bastare. Sospirò. « Sai, da piccolo ero scontento. Davvero! Una volta mi chiesero perché non ero mai felice e, quando fui abbastanza grande da poter partire, risposi che se loro non erano in grado di darmela, la felicità che mi mancava, sarei andato a prendermela» rise, passandosi la mano tra i capelli – e portandoci anche parecchia della sabbia rimastagli tra le dita. «Viaggiai parecchio, seguii mio padre, soldato, nei suoi viaggi oltremare. Tuttavia non trovai niente che m’interessasse particolarmente. Nessun posto mi piacque tanto da spingermi a promettermi di ritornarci. Poi però giunsi ad un regno che non avevo mai visto prima … Ora non ricordo molto, ma il castello aveva la cima delle torri intagliate nello smeraldo.» Erech affinò bene le sue capacità uditive, perché tutto questo iniziava a tornarle familiare. «Mi stavo arrampicando su un albero per raccogliere una mela, ma il ramo su cui stavo ha ceduto e sono caduto giù. Ricordo di essermi fatto parecchio male, quando vidi una donna bionda avvicinarsi. Avrà avuto una quarantina d’anni, forse anche meno. Aveva gli occhi verdi e un sorriso gentile, teneva per mano una bambina che ti somigliava parecchio.» La ragazza ricordava frammenti di quella giornata, la mano di sua madre, il fazzoletto sul ginocchio di quel bambino dagli occhi azzurri, il modo in cui, voltandosi, l’aveva guardato trotterellare verso il paese tenendo per mano la mela tanto sudata. «Credo fosse la regina, aveva modi troppo aggraziati per essere solo aristocratica. Però era un aggraziato … Strano. Era severo, e aveva la corona. Si, sono quasi convinta che fosse la regina» Erech sorrise, chiudendo gli occhi. «Sicuramente parli di Alyon» ma si, che scopra tutto, non lo direbbe a nessuno – pensa lei, senza crederci veramente. «… Come lo sai?» «Tutti conoscono il Castello di Smeraldo, Armin» Lo guardò, con gli occhi buoni di chi ti vuol dare affettuosamente dell’ingenuo.  Lui appoggiò la testa alla spalla di lei, guardandola di traverso. «Adesso però tocca a te.»
«… Cosa intendi?» «Ho parlato io per tutto il tempo, ma di te non so quasi nulla!» Lei tirò un sospiro rassegnato. Stare in silenzio avrebbe portato solo ad accrescere la curiosità del ragazzo.
«Avevo tre fratelli maggiori. Si chiamavano Narwain, Helevorn e Camlost. Significavano Nuovo Sole, Vetro Nero e Mano Vuota. Con i più grandi, due gemelli, c’erano dieci anni di differenza. Con il più piccolo, Camlost, solamente due. Purtroppo Camlost è morto quando aveva dieci anni a causa di una malattia sconosciuta, mentre Narwain ed Helevorn sono morti sette anni fa, durante l’ultima guerra.» Armin, che non sapeva cosa dire riguardo la morte dei suoi fratelli, le rispose che anche lui aveva un gemello. Viveva al di là dell’oceano e faceva il sarto, da lungo tempo non aveva più sue notizie.
L’alta marea che andava alzandosi lambiva i piedi scalzi di entrambi, accarezzandoli con la schiuma delle onde. Armin, incapace di resistere, cedette al sonno e si addormentò sulla spalla di Erech. Scivolando sulle sue gambe, le sfiorò accidentalmente la bocca con i capelli, ed Erech associò quel profumo a quello meraviglioso dei fiori bianchi che crescevano tra terra bagnata, nei sottoboschi della foresta dell’Ovest, attraversata tempo prima e mai dimenticata. Lei rimase sveglia, fissando il mare grande e potente davanti a lei, incurante delle rovine di Gaerys alle sue spalle e ripensando alla musica che ascoltava da bambina, proveniente da un carillon, reliquia anche quella delle sue più antiche memorie.
 
Quando quella sera tornarono al castello, si fermò a passeggiare nel giardino ancora un po’. La calma della sera la tranquillizzava, quando, tra le colonne che sostengono le arcate dei corridoi esterni, intravide i capelli rossi di qualcuno che aveva osservato abbastanza da conoscerlo bene.
Si avvicinò al Generale, per chiedergli se ci fossero cambiamenti riguardo lo stato di guerra attuale
.

~ 

Che cosa voleva quella ragazzina sfacciata, ora?
Castiel non si era mai reso conto del suo pessimo carattere, del suo perdere il controllo per motivazioni che nemmeno conosceva, e mai se ne sarebbe accorto dal momento che si ritrovava in quello stato ancor prima di rendersene conto. Il suo sangue ribolliva di rabbia cieca, le sue mani erano strette così forte da sbiancare le nocche, la mascella, più contratta che mai, cominciava a dolergli e la fronte corrugata sosteneva uno sguardo che lui stesso non pensava nemmeno di poter fare. Notò la reazione spaventata della ragazza che, subito, riuscì a ricomporsi.
Eh sì, dopo tutto quello che aveva fatto aveva anche il coraggio di andare da lui. Sfacciata era l'unico aggettivo che risuonava nella sua testa.
Sfacciata, sfacciata, sfacciata. Più quella parola prendeva piede nella sua mente più il suo intero corpo si irrigidiva al pensiero che le fragili e morbide mani che lui aveva sfiorato durante i loro allenamenti erano state a loro volta toccate da quelle di un rude e frivolo soldato da niente. Più la guardava e più aveva in mente scene del tutto inventate che la sua testa non faceva che propinargli senza pietà.
Le labbra, sfiorate da dita altrui; le braccia, accarezzate da un altro; il corpo, stretto e avvinghiato a quello di un uomo che non fosse lui; e nonostante questo ancora non riusciva a capire perché il suo cuore non raggiungesse pace e la sua mente non gli desse tregua. Non aveva davvero idea,il povero Castiel, di ciò che lo stava affliggendo. E come poteva? In vita sua non aveva mai conosciuto l'amore e, quindi, nemmeno la Gelosia. Stava lì, in piedi in mezzo a uno dei corridoi tra i quali adorava passeggiare, tra i ricordi di una vita intera con il suo amico monarca, ma tutto ciò che riusciva a ricordare, in quel momento, era stata quella mattinata che aveva reso grigia la sua intera giornata passata a corte.
Li aveva visti, per caso, lasciare il castello a cavallo, insieme, lei stretta a lui per non cadere, mentre ridevano complici. Come poteva lei rivolgere certe attenzioni ad un tipo del genere?
Il corpo del giovane generale si era scosso in un tremito ritrovandosi a pensare di voler essere al posto di quel misero fante. Aveva immaginato le sue braccia stringergli la vita e il suo profumo inondargli le narici mentre il vento contrario, a cavallo, faceva in modo che i lunghi capelli della giovane gli accarezzassero il viso.
Il suo viso. E il viso di lei, ora, così vicino come aveva sperato di vedere per tutta la giornata. Le sue labbra, sicuramente morbide, che si socchiusero a formare una frase.
-Qualcosa non va?-
...
La mente di Castiel ci mise un po' prima di rielaborare quelle tre paroline all'apparenza insignificanti ma intrise di sofferenza.
Qualcosa non va... Il generale socchiuse le labbra più e più volte. Non trovava le parole o, semplicemente, esse non volevano uscire.
Una persona come lui avrebbe dovuto mostrarsi calma, data la sua posizione di comando; avrebbe dovuto mantenere il controllo, altrimenti avrebbe potuto, in una situazione ben più diversa e pericolosa, lasciare che il finimondo accadesse. Ne era consapevole, eppure, uno ad uno, i suoi nervi crollarono. Nel silenzio del corridoio si poté quasi sentire il leggero sussurro della sua calma che, pian piano, scemava, e il galoppo furente della sua rabbia che risaliva il suo intero essere, inondando il suo corpo e travolgendo la sua coscienza. Come un'onda travolgente che spazza via le case a ridosso del mare, le sue parole uscirono taglienti, dirette alla povera e indifesa ragazza che aveva osato dire tre paroline di troppo.
Dapprima uscì solo un leggero ghigno, quasi trattenuto che avrebbe potuto benissimo trasformarsi in una risata malvagia e aspra, ma ciò non avvenne. Il silenzio del corridoio fu scosso da un primo boato; il tono di Castiel più serio che mai e le sue parole a rimbombare tra le colonne e le pareti dell'intero edificio, tanto che la povera Erech quasi pensò che persino le dame di corte avrebbero potuto sentire quel discorso.
- Qualcosa non va?! Dovreste dirmelo voi, se qualcosa va o no! Vi ho visti, partire stamani all'alba su uno dei migliori destrieri che può vantare la reggia! Quale comportamento sfrontato per una ragazza appena accolta in questo castello!
Venite qui, nella mia casa, chiedendo pietà al mio Re che, senza indugio, vi accoglie nella sua dimora. Avete la pretesa di entrare nel mio esercito, chiedete di essere addestrata e ora che la guerra è alle porte vi vedo cavalcare lontano. E qualcosa non va? Certo che non va!
Le persone presto moriranno di fame, i loro cari moriranno trucidati su di un campo di battaglia a causa di quest'inutile guerra! Non ci sarà mai la pace fino a che uno dei due regni non crollerà, e potremmo essere noi, dal momento che i nostri soldati si trastullano in giro anziché prepararsi ad offrire la loro vita per salvare il proprio paese!
Abbiamo sbagliato! Accogliere una donna- sputò quella parola con tutto il risentimento che aveva in corpo- nell'esercito è stata l'idea più stupida che potessimo mai avere!
Tu, stupida sfacciata che non sei altro!-
Aveva cominciato a rivolgerle parole più dirette, come se il discorso, da vago e superiore che avrebbe dovuto sembrare, avesse lasciato finalmente cadere quel manto di ipocrisia, svelando infine il vero nocciolo della questione.
-Andartene in giro con ... Quello!-
Castiel non aveva nemmeno idea di chi fosse il ragazzo con il quale se ne era bellamente andata e nemmeno aveva intenzione di saperlo. Sputò parole acide su quella che insinuava essere una relazione infida e deplorevole non capendo che, tutto ciò che stava descrivendo, non erano altro che riprovevoli azioni che aveva più e più volte desiderato egli stesso di fare proprio con la ragazza a cui le stava rivolgendo. La rabbia e la gelosia si concentrarono sempre di più nel suo cuore fino a che non svanirono del tutto, lasciando il ragazzo in silenzio, con il fiatone e goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte. Si sentiva in qualche modo libero e per niente colpevole di aver investito Erech con quelle cattiverie ingiustificate.
Con un'ultima punta di acidità, le rivolse l'ultima frase prima di girare i regali tacchetti e continuare la sua passeggiata per il castello.
Lei rimase immobile a guardarlo andar via, non capendo se quella situazione fosse reale o solo un bruttissimo scherzo giocato dalla stanchezza accumulata durante il giorno.
Un leggero pizzicore all'altezza del petto che non provava da tanto, tanto tempo. Parole crudeli che non aveva mai udito in vita sua.
-Sparite dalla mia vista. La vostra faccia mi disgusta.
 
Un regal sorrisetto compiaciuto sul volto del monarca, spuntava da una delle finestre dell'ala principesca del castello. Aveva seguito per caso lo sfogo del suo generale mentre si trovava a passare da quelle parti. Lysandre non era per niente una persona stupida e, nella sua tremenda acutezza, riuscì a farsi un quadro abbastanza chiaro della situazione, pur non riuscendo a vedere i due interessati a causa dell'arcata superiore che copriva a volta il corridoio. Chiudendo gli occhi era riuscito comunque ad immaginarsi il volto contratto dalla rabbia dell'amico.
Si allontanò a lunghi passi cadenzati, ritornando pensieroso nelle sue stanze.
Si lasciò cadere su di una delle poltrone di raso rosso, lasciando che la regal coroncina si muovesse quasi a voler cadere dal suo capo, senza però riuscirci. Il giovane sovrano prese allora, dal fianco della poltrona, la spada sequestrata alla giovane recluta dell'esercito. Lo stemma su di essa lo incuriosiva sempre più, ma la sua mente sagace aveva già ricostruito in modo abbastanza preciso il puzzle di eventi accaduti nel suo regno.
Puntò la spada a terra e, con il palmo della mano a tener premuta la punta sul pavimento di marmo bianco, impresse alla lama una leggera rotazione senza preoccuparsi che la punta dell'arma potesse scalfire o meno il sasso duro. Quella che sarebbe potuta essere una minima crepa era niente rispetto a ciò che avrebbe fatto al regno avversario ora che, ne era sicuro, aveva in mano il loro anello, ormai debole, della catena.
 
 

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Capitolo 8
*** L'Ultimo Respiro. ***


Infine, era giunto anche il momento di partire per il fronte.
Armin non era spaventato, era stato preparato per anni a questo momento e sapeva che alla fine sarebbe arrivato. Tuttavia, c’era ugualmente qualcosa che lo distraeva. Qualcosa che sapeva molto di preoccupazione. Non era rivolta a se stesso, o alla sua vita. Era preoccupato per lei. Fin da quella mattina si chiedeva se la ragazza ce l’avrebbe fatta, se sarebbe sopravvissuta agli orrori della guerra. L’ansia lo stava lentamente distruggendo, ma non sapeva comportarsi in qualsiasi altro modo. Era fin troppo delicata, e in quel momento anche troppo fragile, per riuscire a uccidere. Se voleva salvarsi, nonostante questo, doveva farcela. Bussò alla porta consapevole che, di là da essa, era rimasta soltanto Erech. Non rispose nessuno, così il ragazzo decise di entrare.
«Erech, dobbiamo andare …»
La ragazza, seduta sul letto con il volto tra le mani, non rispose. Armin, indeciso sul da farsi, si sedette accanto a lei, accarezzandole i capelli.
«Lo so che è difficile, ma ormai è fatta. Non puoi tirarti indietro adesso.»
«…. Ho paura.»
Lui sbarrò gli occhi. Quelle parole erano inverosimili dette da lei, pronunciate con la voce spezzata e appena percettibile come se lo stesse ammettendo a se stessa e a nessun altro. Non sapeva cosa fare per calmarla, così la abbracciò, almeno finché non si fosse tranquillizzata. Erech recuperò la spada, pallida e poco convinta. Era determinata ad andare eppure incredibilmente terrorizzata.
«Erech … » Lei si girò, guardando il ragazzo, che strinse la presa su di lei.
«Ti prometto che non morirai. Te lo giuro sulla mia vita. »
 
Il fronte era peggiore di quel che Erech si aspettava. L’odore acre del sangue era più forte del previsto e lei stava per sentirsi male. Guardandosi attorno non si percepivano che l’odio e la violenza. Guardando in basso l’ennesimo soldato, l’ennesima vittima, cadeva a terra con un tonfo sordo. Il viso esangue e gli occhi spenti. I volti cerei di persone che non avrebbero voluto trovarsi qui e che sono costrette, per motivi che lei ignora, a uccidere e a rischiare di uccidersi, riuscendoci molte volte. La ragazza, che non aveva mai imparato a uccidere – e che mai avrebbe voluto imparare! – Cercava in ogni modo di tenersi lontana dalle prime linee e limitarsi ad aiutare i compagni in difficoltà. Capitava, tuttavia, che qualcuno cercasse di attaccarla. A quel punto lei cercava solo di far perdere i sensi al malcapitato di turno cosciente del fatto che qualcun altro, spaventato dalla morte quanto lei, avrebbe finito il lavoro al posto suo.
Almeno finché la sua spada non incrociò quella di un giovane biondo, alto e più grande di lei.
Sentì le forze venire a mancare e dovette reggere la spada con entrambe le mani per non farla cadere a terra, guardando il giovane con occhi increduli.
«… Aspetta … Erech?... »
«Sei tu, Zephir? … Cosa ci fai al fronte? …» La sua voce era un sussurro pronunciato a labbra strette. Il terrore. La rabbia. Il risentimento. L’odio che non aveva mai provato.
«Potrei porvi la medesima domanda, Principessa.»Pronunciò quell’appellativo quasi con scherno, Erech non riuscì a trattenere l’espressione disgustata.
«Non chiamarmi in quel modo, Zephir. »
«Oh, cara cugina, certo che con voi non si può proprio scherzare! »
Continuarono a combattere quasi senza accorgersene, le lame delle spade che si scontravano sempre più forte, sempre più velocemente. Rischiavano di rompersi.
«Speravo di non vederti mai più. Mi rifiuto di credere che tu sia mio cugino. »
«Narwain, Helevorn e Camlost non s’allieterebbero nel sentirvelo dire. Loro che mi volevano così bene …»
Il volto di Erech si fece livido, gli occhi accecati dall’ira nascosti dai capelli che vi ricadevano, complice la testa tenuta bassa. Perse la presa sulla spada, che cadde a terra, seguita dal corpo della ragazza. Lei riafferrò l’arma, ma le mani le tremavano come ogni volta che era nervosa, e riuscì a difendersi quasi per miracolo.
«Tieni fuori i miei fratelli da questa storia. Quello che è successo non è stato per colpa loro. »
«Ne siete sicura? Se loro ci fossero stati, avreste subito tutto ciò ugualmente? »
 
La rabbia scosse il colpo della ragazza come una scarica elettrica. Si risollevò sulle ginocchia, tremante di rabbia. Zephir non sarebbe stato risparmiato.
 
«Ti ho detto di lasciarli fuori da questa storia! »
«Lascia che questo voto millenario risuoni fino ai confini della terra …»
 
 Il ragazzo cantò, a voce bassa e tetra. Gli occhi, dello stesso colore della pietra da cui lui traeva il proprio nome, scintillarono di pura crudeltà. Erech, dal canto suo, sembrava aver perso ogni forza di volontà e si muoveva come un fantoccio. Zephir lo sapeva, che quella canzone sarebbe stata sempre il punto debole di Erech, lo sapeva che grazie ai ricordi che destava nella ragazza sarebbe stata sempre la sua arma più potente, da utilizzare contro di lei.
 
«Sta zitto Zephir …»
«Una ninna nanna legata ad un destino di distruzione …»
«Basta, ti prego, basta …»
 
“Potremo sentirci soli, a volte, ma se potrò vedere il tuo sorriso, andrà tutto bene . ”
 
«Dovevi fare la coraggiosa, giusto, Erech? Hai dovuto accettare il carico del regno sulle spalle!
«Ma cosa stai dicendo? …
«Se tu avessi rifiutato di ereditare la corona al posto dei tuoi fratelli, se tu non ci fossi stata, Alyon sarebbe stata mia! Invece no, dovevi rendere tutto così difficile … Si sono dimenticati tutti di me, dal giorno della tua nascita, e continuano a farlo. Per loro sono diventato solo un peso, per colpa tua … Quindi ho deciso di prendere da me quello che non ho potuto ottenere da altri. E così ho eliminato i miei problemi, uno dopo l’altro.  Il cuore di Camlost era sanissimo, Erech. Peccato che non ha resistito al veleno che avevo messo nel suo bicchiere, qualche ora prima che morisse … Era un buon veleno, in effetti. L’ho pagato a caro prezzo, quella volta … »
La rabbia lo accecò tanto che Zephir non si rendeva più conto di quel che diceva.
 
 
“Mi prometti che non piangerai, Erech? Me lo prometti?”
 
Erech iniziò a ricollegare i pezzi di un puzzle persi da tempo. Zephir, che aveva rifiutato per cause di forza maggiore, di partire per il fronte, sette anni prima. Zephir, che aveva pianto – o aveva fatto finta – quando i messaggeri portarono la notizia della morte di Narwain e Helevorn. Zephir che, in qualche modo, aveva trovato un modo per uccidere anche Camlost e che, adesso, voleva uccidere lei. Sotto le maniche della maglietta, i marchi a fuoco iniziarono a bruciare. Non come la prima volta, non era un dolore fisico. Era come se pulsassero, e sotto di loro tutte le sue emozioni, tutti i suoi sentimenti repressi provati in quegli anni di sofferenza e sopportazione. Ma aveva sempre mantenuto la promessa fatta a Camlost, e si era rifiutata di piangere. Era un lusso che lei non poteva permettersi, anche se non aveva più la forza di difendersi, di sollevare la spada.
 
 
“Mi dispiace, Maestà, i vostri figli sono deceduti sul campo di battaglia,
questa notte stessa.”
 
L’ultima cosa che Erech riuscì a vedere, prima di realizzare quanto fosse accaduto, fu un ragazzo dai capelli neri cadere in terra e la spada insanguinata del cugino estratta dal fianco di lui come dal fodero. Il biondo sorrideva soddisfatto, sapendo che aveva inflitto alla cugina un dolore ancora maggiore di quello che poteva darle uccidendola. Erech guardò il ragazzo in terra per qualche secondo, a occhi sgranati. Il sangue si spandeva sotto di lui in una sempre più grande macchia scura. Calcolò i tempi, tra qualche minuto entrambi gli schieramenti sarebbero stati richiamati all’ordine. Conosceva tutte le abitudini del cugino, e avvelenare le spade da combattimento era una delle preferite di quest’ultimo. Lei sollevò la spada sopra la testa. Imperdonabile. Colpì il ragazzo, che si era difeso con la spada, ancora sporca di sangue, più forte che poteva.
 
«Non dovevi. Non dovevi. »
 
Gettò quelle parole impregnandole dell’odio che provava, così, Zephir capì di aver firmato la propria condanna a morte.
 
«Erech! Erech, ascolta! Non volevo ucciderlo! Ti giuro che non volevo! »
 
Erech non lo ascoltava nemmeno. Sapeva che ciò che diceva non era vero o, perlomeno, non del tutto. Una sola parola nella sua mente. Imperdonabile. Un solo ordine giungeva al suo cervello. Uccidilo. Le loro spade s’incrociarono per l’ultima volta, i loro volti a qualche centimetro di distanza. Il sangue colava a rivoli stretti lungo la lama della spada, sporcando l’elsa e la mano del ragazzo. Egli guardava spaventato e incredulo lei che, al contrario, sembrava avere il fuoco dentro. I suoi occhi dorati scintillavano rabbiosi contro i suoi, azzurri. I capelli appiccicati alla fronte e il fiato corto, una leggera esitazione. Poi, Erech alzò la spada. Successivamente, cercò di trascinare Armin via da quel luogo di morte. Stavolta, nessuno avrebbe dovuto finire il lavoro al posto suo.
 
 
 
Armin non ricordava che il dolore causato dagli squarci fosse così intenso. Bloccato a letto, il suo pensiero era interamente rivolto alla ferita sul fianco e non riusciva a muoversi. Pensava alla disperazione che lo invase quando vide quel ragazzo scagliarsi su Erech. Le aveva fatto una promessa che andava rispettata, ed era riuscito a mantenerla. Adesso di morire non gli importava più. Aveva riconosciuto il dolore, il violento pulsare causato dal veleno, e si era rassegnato al fatto che non sarebbe arrivato a vedere l’alba dell’indomani. Sembrava sereno, oltre la carne squarciata, la maglia intrisa di sangue e il colore cereo del suo volto. Teneva gli occhi socchiusi e respirava a fatica. La gola riarsa e il bruciore insistente che consumava interamente il suo corpo. Sentì, poco dopo, di avere qualcosa tra le mani. Qualcosa di delicato e nemmeno tanto grande. Seguì con gli occhi il prolungamento del braccio, fino a giungere al collo e quindi al viso della ragazza, che sembrava essersi addormentata. Anche mentre dormiva sembrava perseguitata da chissà quali tormenti. Guardò fuori dalla finestra, scorgendo, con suo grande stupore, i primi violacei bagliori dell’alba. Sorrise debolmente, e si sentì svuotato da ogni rancore. Poco dopo sentì una fitta lancinante al fianco, e gli passò ogni gioia che, poco prima, poteva provare sapendo di essere ancora vivo anche se per poco. Un rumore umido proveniente dalla ferita, come quando si immerge la mano nella melma e questa si separa. Il bruciore della carne che, pezzo per pezzo, si consuma da sola. No, non adesso. Come svegliata dalla fievole luce, la ragazza si mosse. Due occhi grandi, dello stesso colore dell’oro, lo guardavano colmi di preoccupazione. La bocca rosea, che pareva dipinta a fior di pelle, si mosse.
 «Buongiorno – La precedette lui, continuando a sorridere, mesto. »
«Come ti senti? »
Armin avrebbe voluto evitare quest’argomento. A quanto sembra, precederla non era servito. Un’altra fitta, ancora più dolorosa di quella di poco prima. Un colpo di tosse trattenuto. Il sapore ferreo del sangue in gola. Dammi solo altri cinque minuti!
«Bene, Erech. Come vuoi che stia? »
«Non è vero, non stai bene. »
Non le si poteva nascondere nulla e il ragazzo, ormai rassegnato, lo sapeva bene. Un’altra fitta, straziante. Si sentiva squarciare in due. Lo spasmo che lo colse gli fece serrare gli occhi in un tentativo disperato di trattenersi dall’urlare o dal rompere qualcosa. La sentiva benissimo la carne viva che bruciava, che marciva sotto la ferita. Sapeva benissimo che l’effetto del veleno era ritardare la morte, pur causandola, e far soffrire il più possibile.
«Armin! »
«S-Sto bene …. Erech … Mi … Mi passerà …»
Lei sapeva bene che non gli sarebbe mai passata, ma non era pronta per rimanere sola. Non di nuovo. Aveva già assistito a troppe morti, era già stata al fianco di troppi capezzali. Quello di sua madre, quello di Camlost, aveva ucciso il cugino e adesso anche questo.
Armin, dal canto suo, si era arreso al fato e al dover morire, ma non voleva lasciare questo mondo guardando la disperazione sempre più vivida negli occhi di Erech. Lui aveva vent’anni, dopotutto, e a quell’età le cose, seppur in punta di morte, voleva farle come si dovevano fare. E non voleva nemmeno morire lasciando in sospeso un discorso mai iniziato. Un colpo di tosse lo bloccò, inizialmente. La mano, andata a coprire la bocca, venne ritratta coperta di sangue.
 
La ragazza stava per alzarsi e andare a chiamare qualcuno, ma venne  trattenuta dall’altra mano del ragazzo, ancora stretta su quella di lei, che fino a quel momento era stata silenziosa spettatrice della morte.
«Erech … Se ti facessi una domanda … Mi risponderesti sinceramente? …»
«Si … » Ormai, la voce rotta sembrava impedirle anche solo di parlare.
«… Che cosa sono io per te? »
Le aveva chiesto di indovinare la data della fine del mondo. Per Erech, quella domanda equivaleva a questo. La verità è che lei non lo sapeva, non ci aveva mai pensato seriamente e nella sua mente si rifiutava di rispondere. Ma aveva detto che avrebbe risposto sinceramente.
«Non lo so. »
Armin sorrise, se la aspettava una risposta del genere. Le lasciò la mano.
«Io l’ho capito … Chi sei veramente …» 
Erech, che ancora stava cercando di capire perché le aveva lasciato la mano, si stupì di come lui potesse avere la risposta a tale domanda.
«Ti ho sentita … Mentre quel ragazzo … Ti parlava ….»
Con uno sforzo incredibile, porto la mano a sfiorare la guancia della ragazza, che ormai tratteneva le lacrime a stento. La luce azzurra dell’alba illuminava la stanza e dava inizio a un nuovo giorno.
«Promettimi che non piangerai …»
Erech vide Camlost in Armin e serrò gli occhi nella disperazione più totale.
Per un attimo – uno soltanto – pensò ad Armin come al proprio fratello maggiore. I suoi sentimenti per lui però erano qualcosa di diverso, questo lo sapeva. Magari era vero, magari non lo amava, ma in lui aveva trovato tutto. Aveva trovato l’amico nelle difficoltà, il fratello che ti aspetta a braccia aperte, l’amante nell’azzurro – nel blu, nel nero - della sera. Però sapeva anche che l’amore non può nascere sul letto di morte di qualcuno che non sai cosa sia stato, fino a quel momento. Di qualcuno che hai amato o non hai amato non importa, te ne sei resa conto tardi.
Era troppo tardi per poter fare una promessa che aveva già iniziato a non mantenere. Le lacrime le stavano già rigando il volto pallido. Non le importava se le principesse piangono o no.
Manteneva sempre le promesse fatte, ma questa volta proprio non ci era riuscita.
Armin portò la mano dalla guancia ai capelli di Erech, attirando a sé la ragazza per quanto il suo stato glielo consentisse. La sua pelle gli era sembrata così calda e già sapeva che gli sarebbe mancata. Non voleva più morire, non così. Non lasciandola nella disperazione. Chiuse gli occhi, cercando di essere forte stringendo Erech ancora di più. In quel momento, uno dei due doveva esserlo, non importa chi.
«… Io lo so, perché hai lasciato Alyon … E so anche perché non mi ami …»
Le parole la ferivano come se stesse camminando sui cocci di vetro. Erano ovunque, e tagliavano come lame. Armin, con un mezzo sorriso dipinto sul volto, le accarezzò la guancia con la mano pulita. Cercò di sollevarsi sul gomito, anche se non vi riuscì completamente.
«Hai preferito il Generale a me, non è vero? … Non mi è rimasto niente … Ci hai mai pensato, che può essere triste morire così? … »
 
Qualcosa portò Erech a pensare che Armin non ragionasse più. Il dolore, forse. Il veleno. Non lo capiva più nemmeno lei che avrebbe potuto iniziare a delirare da un momento all’altro come credeva stesse facendo il ragazzo. Armin continuava a tenerle la mano sulla guancia di lei perché a muoverla non ci riusciva. Avvicinò il suo viso a quello di lei e per la prima volta credette che la morte potesse avere un sapore dolce, ma la verità non la scoprì mai. La mano ricadde accanto al corpo esanime al quale apparteneva, sul letto. Un ultimo sospiro, all’alba di una fredda mattina di settembre, s’era portato via il bacio che Armin non era riuscito a dare ad Erech, il ti amo che non era riuscito a dirle e la promessa che le aveva fatto e che aveva mantenuto.
 
Non mi è rimasto niente …
 
Erech corse via da quella stanza, incapace di sopportare la vista della pace perfetta sul volto di Armin. Incapace quasi di continuare a respirare.
Non c’era più ordine, nella sua mente vi era il caos. Vagava per i corridoi del castello tenendosi la testa tra le mani, rischiando di strapparsi i capelli a ciocche da quanto la teneva stretta. Il respiro spezzato. Il passo accelerò e divenne corsa. La corsa la portò via, lontana dal castello, su una stradina scoscesa.
 
Io l’ho capito chi sei veramente …
 
Il promontorio avvolto dalla tetra atmosfera del mattino, sotto il cielo coperto di nuvole grigie, le fece paura. Guardò quel paesaggio, quell’incredibile spettacolo che, la prima volta, s’era rifiutata di ammirare a causa della sua paura del vuoto. Da un lato Calimon, con le case bianche che splendevano, anche se il sole era coperto e il palazzo, bianco anch’esso e con le cime delle torri interamente ricoperte d’oro. Le radure e i prati verdeggianti che circondavano il regno si estendevano a perdita d’occhio. A nord est, la radura diventava prateria, che si tramutava in spiaggia, che si perdeva nel mare. Sulla sabbia, al confine tra la spiaggia e la steppa, sorgeva quella che un tempo era stata la prosperosa Gaerys. Era una delle poche città che si ergevano sul mare e che erano provviste di porto. Il villaggio era piccolo ma ricchissimo, grazie alle coltivazioni vicine e alla pesca. Adesso rimaneva solo il porto, accompagnato da qualche capanna superstite ricostruita da chi, troppo attaccato a quelle terre, non voleva allontanarsene. Procedendo verso ovest, la foresta delle Terre di Confine, dove si allenavano maghi e alchimisti. Si diceva fosse abitata da creature magiche e pericolosissimi troll, ma lei, quando l’aveva attraversata, non aveva visto che alberi dalle foglie di smeraldo e cascate e torrenti dentro i quali scorrevano cristalli. La foresta era parte del regno di Alyon, che si trovava all’estremo ovest delle Terre-Di-Non-Dove. Il regno sembrava circondato da un’aura di mistero. Le case, in marmo bianco, brillavano debolmente alla luce del sole. Il palazzo, completamente in marmo anch’esso, sovrastava la capitale dalla posizione in cui si trovava, nella parte alta della città. Era circondato da un vasto giardino e le cime delle torri erano state scolpite dello smeraldo, da qui il nome del castello. Dietro di esso si intravedeva la torre di cristallo in cui vi era la sala del trono, e, alla destra di quest’ultima, i disegni d’oro che ornavano la torre in cui vi era la sua stanza. Il regno, i villaggi e i possedimenti del re suo padre si estendevano fin oltre l’orizzonte. Essi erano circondati dalla catena dei Monti Argentei, così chiamati per le loro numerosissime miniere d’argento e pietre preziose. Sulle loro cime, spesso si vedevano volare i draghi bianchi che, si diceva, potevano concedere i miracoli.
Se un giorno ne avesse incontrato uno, la ragazza si sarebbe rivolta a lui.
Erech si gettò all’indietro, cadendo distesa sull’erba. Le braccia aperte a croce e gli occhi tenuti chiusi sotto le gocce di pioggia che, com’è giusto che sia durante le piogge di marzo, lentamente, iniziavano a scendere.
 
Una bambina stava intrecciando dei fiori bianchi con aria scocciata.
I lunghi capelli lisci che le scendevano lungo la schiena, sfiorando l’orlo della gonna bianca. Avrebbero fatto invidia a chiunque, ma a lei sembravano dar solo fastidio.
I suoi capelli lasciati sciolti senza nessun fiocco a tenerli su le piacevano molto di più.
“Erech! Erech! Che fine avevi fatto, ti abbiamo cercata ovunque!”
La bambina si voltò, mettendo il broncio sul suo bel visetto.
“Si sono dimenticati tutti del mio compleanno. Anche tu, sei cattivo, Camlost.”
“Ci stai ancora pensando? Mi tieni il broncio da mesi, Erech. Mesi. Il tuo compleanno è stato quasi quattro mesi fa, sei insopportabile quando fai così.”.
Il bambino ci rifletté su un secondo, poi prese una margherita e ne fece un anello.
“Questo è il tuo regalo, Erech! Tanti auguri!”
Glielo mise al dito sorridendo, la bambina si mise a ridere.
“Su, torniamo a casa. Stasera c’è la festa del solstizio e papà ha detto che devi prepararti!”
Le porse la mano per aiutarla a rialzarsi. Probabilmente, Camlost era il miglior fratello che potesse esistere.
 
La pioggia iniziava a farsi battente. Una serie di ricordi spezzettati nella mente di Erech iniziavano a farla rinsavire dalla confusione iniziale, ma lei non voleva alzarsi.
Poco le importava se pioveva e lei era distesa su un promontorio e si sarebbe presa il raffreddore, o, più probabilmente, una polmonite. Non le importava più di nulla.
Era colpa sua. Se avesse avuto il coraggio di uccidere Zephir subito, se non si fosse bloccata davanti a un ricordo del passato, a una stupida canzone, Armin non sarebbe morto.
Ne era convinta.
 
È colpa mia … È solo colpa mia! …”
 
I bambini, entrambi coperti da mantelli più grandi di loro, si tenevano per mano evitando così di perdersi.
Il padre, anche lui coperto dal mantello, si manteneva poco più avanti. Ad ogni passo, i bambini rischiavano di cadere rovinosamente in terra, inciampando nelle vesti.
“Camlost, papà dice che i  nostri nomi hanno un significato. Cosa vogliono dire?”
“….Il tuo mi sembra che significhi Lancia Solitaria.”
“E quelli di Narwain e Helevorn?”
“ … Nuovo Sole e Vetro Nero.”

“E il tuo? Il tuo cosa vuol dire?”
A Camlost non era mai piaciuto il significato del suo nome, per lui “Camlost” era un nome triste.
“….Vuol dire Mano Vuota.”
Lo disse come se gli dispiacesse o se stesse chiedendo scusa a qualcuno. La bambina gli strinse la mano, lasciandogliela poi di scatto per coprirsi le orecchie non appena iniziarono i fuochi artificiali.
La spaventavano a morte.
Il bambino strinse le sue mani sopra quelle della sorella, finché non fu sicuro che lei non sentisse più niente.
Una fitta al torace, nella parte sinistra. Le mani strinsero più forte. Gli occhi si chiusero.
Cos’era che lo faceva stare, da quel mattino, così male?
“Camlost? Cos’hai? I fuochi sono finiti e non te ne sei accorto.”
“Non … Non ho niente. Non preoccuparti ….”
La bambina annuì, poco convinta. Non gli credeva affatto.
“Erech …. Qualsiasi cosa succeda, promettimi che non piangerai.”
“Ma come si fa a non piangere? Come faccio quando sono triste?”
“Le principesse non piangono, Erech. Mi piace di più vederti felice!”
Il ragazzo canticchiò, a bassa voce:
“Lascia che questo voto millenario echeggi fino ai confini della terra, una ninna nanna legata ad un destino di distruzione. Potremo sentirci soli a volte, ma se potrò vedere il tuo sorriso sarà tutto apposto.
Ce l’aveva insegnata la mamma, non te lo ricordi? Tu avevi cinque anni e io sette …”
“… Ed eravamo stonati come le campane del villaggio”.
 
Ma come faccio a non piangere mai, Camlost?
Come dovrei fare, in momenti come questo, a non piangere? Fattene una ragione.
Erech aprì gli occhi, piegando la testa all’indietro. Per un attimo sentì la voce del fratello, risponderle. Il ricordo di ciò che successe quella notte bruciava come il sale sulle ferite a carne viva. Serrò gli occhi, di nuovo. Non voleva ricordarselo.
 
La bambina aveva sentito di nascosto suo padre che parlava con un medico. Era preoccupata anche lei per la salute del fratello, ma nessuno voleva dirle niente. Così origliò, e scoprì che il fratello, agonizzante da quasi due giorni, era in fin di vita per cause sconosciute.
Lei si precipitò nella stanza immersa nel’angoscia più totale.
“Camlost! Camlost …”
Si gettò tra le braccia del fratello morente che, nonostante tutto, le tese le braccia.
Il ragazzo, che qualcuno di più forte di loro stava trascinando inesorabilmente tra le braccia della morte, sorrise alla sorella in lacrime.
Nei suoi incubi, avuti durante la notte, il dolore che provava dovuto ai suoi battiti frammentati lo faceva sprofondare nel vuoto, Cloto lo fissava, torva.
“Hai già dimenticato cosa mi hai promesso, Erech? Avevi detto che non avresti pianto.”
La bambina non lo ascoltava nemmeno. Aveva otto anni ed era un suo sacrosanto diritto piangere fino a prosciugarsi le orbite. Tuttavia, Camlost non sembrava dello stesso parere.
“Canteresti per me, Erech?...”
La bambina, sollevatasi dal materasso, ma ancora in ginocchio, lo guardò con i suoi grandi occhi inondati di lacrime. Il visino pallido e il labbro tremulo. Memore delle lezioni di canto, Erech schiuse la bocca e cantò, pronunciando le parole in una serie di mormorii sommessi, come soffi di vento.
Ascoltandola, Camlost chiuse gli occhi, consapevole che non li avrebbe mai più aperti.
“Sii felice, Erech. Sii felice anche per me.”
Disse debolmente, morendo.
 
La pioggia scendeva ormai copiosa, un temporale che il cielo lo mandava. Le principesse non piangono. Le principesse non piangono. Parole, queste, che risuonavano continuamente nella mente di Erech mentre un’ultima lacrima le scendeva sul viso abilmente nascosta dalla pioggia. Sembrava fosse fatto apposta. La ragazza si alzò, i capelli fradici la seguirono in un’elegante onda, la mano passò sul viso, asciugandolo parzialmente. Si tirò il cappuccio del mantello, non del tutto bagnato, sugli occhi e riprese la strada per tornare al castello.
Adesso sapeva qual era il suo posto, il suo ruolo in tutta quella storia.
Tuttavia, al funerale di Armin nessuno la vide. Il giorno dopo questo, sulla tomba del ragazzo, una tra le tante dedicate ai soldati caduti in battaglia, c’erano due splendide rose rosse.
Fine Prima Parte.

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