Legendary Customs di Ely79 (/viewuser.php?uid=61615)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L.C. - Cap. 1 ***
Capitolo 2: *** L.C. - Cap. 2 ***
Capitolo 3: *** L.C. - Cap. 3 ***
Capitolo 4: *** L.C. - Cap. 4 ***
Capitolo 5: *** L.C. - Cap. 5 ***
Capitolo 6: *** L.C. - Cap. 6 ***
Capitolo 7: *** L.C. - Cap. 7 ***
Capitolo 8: *** L.C. - Cap. 8 ***
Capitolo 9: *** L.C. - Cap. 9 ***
Capitolo 10: *** L.C. - Cap. 10 ***
Capitolo 11: *** L.C. - Cap. 11 ***
Capitolo 12: *** L.C. - Cap. 12 ***
Capitolo 13: *** L.C. - Cap. 13 ***
Capitolo 14: *** L.C. - Cap. 14 ***
Capitolo 15: *** L.C. - Cap. 15 ***
Capitolo 16: *** L.C. - Cap. 16 ***
Capitolo 17: *** L.C. - Cap. 17 ***
Capitolo 18: *** L.C. - Cap. 18 ***
Capitolo 19: *** L.C. - Cap. 19 ***
Capitolo 20: *** L.C. - Cap. 20 ***
Capitolo 21: *** L.C. - Cap. 21 ***
Capitolo 22: *** L.C. - Cap. 22 ***
Capitolo 23: *** L.C. - Cap. 23 ***
Capitolo 24: *** L.C. - Cap. 24 ***
Capitolo 25: *** L.C. - Cap. 25 ***
Capitolo 26: *** L.C. - Cap. 26 ***
Capitolo 27: *** L.C. - Cap. 27 ***
Capitolo 28: *** L.C. - Cap. 28 ***
Capitolo 29: *** L.C. - Cap. 29 ***
Capitolo 30: *** L.C. - Cap. 30 ***
Capitolo 31: *** L.C. - Cap. 31 ***
Capitolo 32: *** L.C. - Cap. 32 ***
Capitolo 33: *** L.C. - Cap. 33 ***
Capitolo 34: *** L.C. - Cap. 34 ***
Capitolo 35: *** L.C. - Cap. 35 ***
Capitolo 1 *** L.C. - Cap. 1 ***
L.C. - Cap. 1
1
Odiava
i lunedì di marzo, troppo freddi e umidi per i suoi gusti. Un
velo di nubi oscurava il cielo e il vapore usciva dalle grate degli
scantinati, ricadendo appiccicoso sui marciapiedi. Neppure i
lunedì di aprile erano più gradevoli, con il luccichio
delle finestre che venivano continuamente aperte alla primavera da
massaie indaffarate a gettare la polvere fuori dalle stanze. Lo stesso
poteva dirsi per quelli di maggio, con la profusione di fiori messi a
spargere i loro stupidi petali ovunque. C’erano poi quelli di
giugno, luglio, agosto e via discorrendo per l’intero arco
dell’anno. Odiava i lunedì nella loro totalità:
erano uno stuolo di orribili soldatini dall’aspetto innocuo, che
gli sparavano contro accuse, malesseri, luci accecanti, rumori e odori
molesti.
Capì
d’essere a destinazione quando udì il familiare rombo
delle caldaie e lo sferragliare dei magli. Superò il cancello
trascinando i piedi sull’asfalto rattoppato, inspirando quanto
più profondamente gli consentisse lo stomaco gonfio e a
soqquadro. L’arsura in bocca acuiva il bisogno di vomitare.
Un
boato esplose nelle meningi, obbligandolo a chinare il capo mentre
strizzava le palpebre dietro le lenti scure. Il mondo si contorse in un
vortice, che scomparve alla stessa rapidità con cui era venuto.
Non si trattava di un tuono, non aveva nulla a che fare con il meteo. Era una voce. Una voce che conosceva fin troppo bene.
«Niklas».
L’uso
del suo nome di battesimo significava guai grossi. Enormi. Sentì
il cervello riempirsi d’imprecazioni e maledizioni, ma nessuna
raggiunse la gola. Persino la scusa preparata con tanta, claudicante
cura, se l’era svignata alla chetichella, lasciandolo disarmato.
Si
raddrizzò a fatica, la testa incassata fra le spalle e le mani
appese alla cinta. I capelli biondi ricadevano arruffati sul volto che,
seppur segnato dai quasi cinquant’anni e dai pesanti trascorsi,
faceva sospirare ancora parecchie donne. Tuttavia, lo sguardo rimase
incollato agli scarponi chiazzati d’olio dell’altro.
«Ehi,
cuginetto!» balbettò, storcendo le labbra in quello che
avrebbe dovuto essere un sorriso. «Bella giornata, eh?»
«Sai che ore sono?» tagliò corto.
«Ehm…
no. No, ma tranquillo, adesso mi… mi metto in pari. Se
ci… m-metti una b-buona… parola…»
«Sono le undici, Scorch» l’interruppe, facendolo barcollare con il solo peso delle sillabe.
Lui
indietreggiò e sollevò le mani, i cui palmi erano segnati
da grosse cicatrici bianche e piatte. Tremava, ma era difficile dire se
dipendesse dalla paura o dalla nausea.
«N-non
s-succ… succederà più. Ecco…
a-adesso… entro e…» e fece per superarlo con passo
malfermo.
Clay
gli stritolò la spalla, obbligandolo ad alzare lo sguardo
febbricitante. Il suo volto squadrato e minaccioso riempì
l’intero campo visivo dell’interlocutore ed era tutto,
fuorché un bel vedere. Scorch lo capì anche in quelle
condizioni.
«Vattene» ordinò, facendolo ruotare su se stesso come un giroscopio.
L’ingegnere
mugolò, tentando di opporre una fiacca resistenza. Le dita del
cugino e i capogiri gli impedirono di cercare un motivo qualsiasi per
convincerlo a farlo restare. L’unica cosa che riusciva a
distinguere chiaramente era la fitta alla base del collo che sovrastava
il resto dei dolori.
«Ho
detto vattene» latrò perentorio Clay. «Va a casa e
dormi. Ne riparliamo domani. E non fermarti da nessuna parte, chiaro?
Non voglio venire a ripescarti in nessun bar da qui alla
Capitale».
Scorch
ansimò frustrato, simulando un singhiozzo cui non credette. Era
già caduto in quel trucco, non si sarebbe ripetuto.
«Ancora qui?» insisté, assestandogli uno spintone che per puro caso non lo mandò lungo disteso.
«Posso lavorare» esalò a denti stretti.
«Quanto? Un’ora? Due? Puzzi di alcol, dannazione, farai venire il mal di testa a tutti».
«Posso…» insisté.
«Levati dai coglioni, Scorch. Altrimenti ti prendo a calci nel culo fino a casa tua» minacciò.
L’uomo
rimase impalato per qualche istante, incerto sul dove dirigere le
gambe. Non lo trovava giusto, aveva lavorato in condizioni peggiori di
quelle, perché lo stava cacciando?
«Fanculo, Clay» sputò, incassando la testa fra le spalle e tornando da dove era venuto.
«Altrettanto, Scorch. A domani».
Allontanare
l’uomo da cui era venuta la sua fortuna, era per Clayton Lomann
una delle cose più penose al mondo. Si sentiva terribilmente in
colpa perché la “Legendary Customs” era nata dalle
mani di Niklas, ma allo stesso tempo non poteva sempre mettere una
pezza quando i suoi stramaledetti vizi avevano il sopravvento. Riteneva
d’aver già fatto molto rilevando l’officina
più di vent’anni addietro, quando era prossima al
fallimento, ed era andato oltre quando aveva scelto di tenere quello
scapestrato nello staff. Eppure, quando si presentava strisciando come
un verme per i postumi di una sbronza, farfugliando scuse ridicole e
giurando e spergiurando di star bene, aveva la netta impressione che
tutto ciò che aveva fatto non fosse servito a niente.
«La
tenacia è un’arte, ma la tua sfocia in un’assurda
perversione» cantilenò una voce alle sue spalle.
Un
uomo dai tratti orientali era appoggiato allo stipite del portone
d’ingresso. Le braccia incrociate sul petto erano ricoperte di
tatuaggi dove si rincorrevano squali e tartarughe.
«Non hai da fare? Siamo di consegna mercoledì, e non ti ho ancora visto mettere mano al tuo sputavernice» borbottò il capofficina, sperando di chiudere il discorso sul nascere.
L’altro accese con calma una sigaretta e inspirò una lunga boccata, guardandolo dritto in faccia.
«Non
può continuare così. Quanto è durato? Quattro
mesi? Sta peggiorando di nuovo. Sbaglia i conti, non sa
più tirar fuori colpi di genio. Certe volte non riesce a
tenere la matita in mano. Ci rallenta e, cosa ancora peggiore, rischia
di farsi male. Seriamente stavolta» concluse, riferendosi
all’incidente che aveva costretto Scorch a girare con le
stampelle per diverse settimane.
Clayton
si appoggiò all’altro battente, chiudendo gli occhi.
Avrebbe potuto osservare la strada o l’officina per distrarsi, ma
la verità era che parlare col suo secondo diventava
indispensabile, in quei casi.
«Hai
ragione, Hito, ma cosa vuoi che faccia? Che lo licenzi? È pur
sempre mio cugino; è un fratello per me, lo sai. Se gli volto le
spalle, cosa gli resta?»
«Gli serve aiuto. Un aiuto che non sia il tuo. Piantala di spendere monete d’oro per un gatto1» l’ammonì, rigirando il mozzicone tra le dita quasi fosse un prestigiatore.
«Sono
venticinque anni che tento di convincerlo. Non ascolta nessuno, fa solo
finta. Non voglio mettere di mezzo gli avvocati, ne ho abbastanza di
quei figli di puttana».
Aveva
avuto a che fare a sufficienza con quei damerini leccati e impomatati,
e ancora non smaltiva l’acido che gli avevano versato nelle vene.
Un
clangore di lamiere cancellò i discorsi dei due, obbligandoli a
guardare all’interno. Videro diversi uomini correre tra le
scocche e i banchi di lavoro. Le urla di Choncho inseguirono una
figuretta che schizzava fuori dalla porta laterale.
«Boy» sospirarono all’unisono.
Il
loro allievo era un’autentica spina nel fianco: non era stupido,
né gli mancava la voglia di fare, anzi. Il problema era
esattamente l’opposto: Boy voleva strafare per dimostrare la
propria superiorità a chiunque, col risultato di portare caos e
darsi la zappa sui piedi. O abbatterla sui piedi degli altri.
«Va
a vedere che diavolo ha combinato e dagli una rigirata. Io ho da
fare» grugnì Clay imboccando la scala metallica accanto
all’ingresso.
«Vuoi fare cambio?» domandò ironico l’artista, schiacciando la cicca sotto lo stivale.
«Non chiedermelo».
***
Scorch dondolava lungo il marciapiede, curvo sotto il peso di
un’inesistente bancata. Clay lo tenne d’occhio dalla
finestra sul pianerottolo fin quando svoltò su Amyngton
Boulevard, augurandosi di non essere raggiunto da telefonate di baristi
inferociti o, peggio, dalla prigione della Contea.
La
giornata era cominciata male, con un fastidioso dolore al gomito che
aveva reso la guida un autentico strazio; era proseguita imboccando la
spaventosa china rappresentata dalla chiusura trimestrale dei registri
dell’attività; aveva subito la brusca battuta
d’arresto sui postumi di Scorch e ora minacciava di procedere
verso l’abisso, con la ripresa della revisione dei conti.
Salì
la seconda rampa augurandosi che pure il morale tornasse a puntare in
alto. Entrò nell’ufficio senza bussare e fu accolto
dall’espressione interrogativa della segretaria, nonché
responsabile amministrativa. Le fece cenno che preferiva tacere su
quanto accaduto e in cambio ottenne l’invito a riprendere il
posto abbandonato poco prima.
«Dove eravamo?» mugugnò lasciandosi cadere di peso nella poltroncina girevole.
Questa protestò crepitando e una delle rotelline emise uno schiocco allarmante.
La
donna all’altro capo della scrivania allungò un plico,
sistemando distrattamente gli occhiali sul naso. Charlotte lavorava
lì da circa un anno, tuttavia Clayton non ricordava una sola
volta in cui si fosse presentata al lavoro in maniera meno che consona
al suo ruolo. Abbigliamento impeccabile, trucco appena accennato,
capelli raccolti in ordinatissime crocchie che avrebbero sfidato le
acrobazie di No Way. Tutte cose che la facevano sembrare più
vecchia di quanto non fosse.
«Capitolo
quattro: forniture di materiale d’uso e consumo»
scandì piatta, spuntando la voce dal promemoria. «Non vada
subito a pagina diciannove» lo riprese, sentendolo scorrere
rapido i fogli.
«Volevo leggere il totale» si giustificò.
«E
come al solito avrà da ridire sull’importo, anche se le
posso garantire che è ridotto all’osso. Deve leggere le
altre pagine per capire il senso di quelle cifre».
Clay
aggrottò la fronte, soffocando una bestemmia. Era vero:
l’importo gli era parso subito esagerato. E lei sembrava una
stizzosa maestrina quando usava quel tono acido e saccente.
«Le
pagine prima, signor Clayton» ripeté la donna.
«Guardi i singoli consuntivi e si renderà conto che quel
totale non è poi così alto. La “Legendary”
sta viaggiando molto bene».
«Cazzo, ma sono settemilaottocento trias, Charlotte!» sbottò l’uomo.
«È
per il materiale utilizzato giornalmente» spiegò quieta,
prendendo una voluminosa cartelletta ad anelli. «Boccole,
rivetti, distanziatori, guarnizioni, manicotti, chiodi, barre di stagno
e rame per saldature… elementi utilizzati per ogni tipo di
lavoro, oltre alle personalizzazioni» e così dicendo
sfilò un intero fascicolo, alto quasi tre dita.
«Non
t’azzardare a mettermi quella roba davanti al naso, donna»
l’avvertì puntandole contro l’indice.
Detestava
leggere riga per riga le fatture degli ordinativi e lo stesso valeva
per i promemoria che i ragazzi trasmettevano giornalmente a Charlotte.
Incurante del tono minaccioso, la segretaria pareggiò i bordi del dossier e glielo porse.
«Ho detto…»
«Preferisce lo faccia Sandy?» lo interruppe, spiandolo da sopra la montatura nera.
L’imbottitura
dei braccioli si gonfiò pericolosamente fra le dita del
capofficina. L’accenno alla ex-moglie era andato a segno con
un’efficacia da cecchino.
Sbatté
i fogli sulla scrivania, chinandovisi sopra mentre firmava, nascondendo
il volto tra le braccia quasi fosse un ragazzino intento a difendere i
propri scarabocchi dalla madre pronta a punirlo.
«Bastarda»
sibilò più piano che poté, accompagnando con la
testa l’andamento spigoloso della grafia.
«L’ho sentita» replicò tranquilla quando ripose le attestazioni nel portadocumenti.
A Clay sfuggì un gemito sofferente quando la vide prendere una nuova cartellina.
«Capitolo
cinque: forniture per lo staff. Abbigliamento, attrezzature standard,
dotazioni minime di sicurezza, spese sanitarie e generali»
elencò, mentre lui si lasciava scivolare sulla poltroncina.
Charlotte aveva il potere di sfinirlo.
«Quanti
cazzo di capitoli hai messo giù questa volta?»
domandò, premendo le mani sulla faccia per non dovergliele
stringere al collo.
«Quindici» rispose laconica.
«Quindici?!» tuonò esasperato.
Nella
sessione precedente i capitoli di spesa erano stati “solo”
undici. Avrebbe proprio voluto sapere come, ma soprattutto dove,
riusciva a scovare voci nuove per i rendiconti
dell’attività.
«Voglio una sparachiodi calibro due e venti» rampognò.
«Non
esistono. E anche se esistessero, è inutile che si lamenti,
signor Clayton. Siglerà tutto anche con le mani inchiodate al
soffitto, al pavimento, ai muri o dove le pare».
«Usando cosa?» la punzecchiò, grattandosi vigorosamente il basso ventre.
Sapeva
fin troppo bene che qualunque accenno a cose sconce le faceva tremare i
polsi dalla vergogna. Quella volta però cascò male.
«I piedi. A mio rischio e pericolo» e indicò il rigo dove firmare.
La mano dell’uomo si spiaccicò ben aperta sull’incartamento, occupandone la maggior parte.
«Allora questo non devo leggerlo?» ammiccò furbescamente.
Per
nulla divertita, Charlotte tacque senza perdersi d’animo. In
fondo, dovevano esaminare ancora parecchie voci prima di poter mettere
la parola fine a quell’incombenza.
***
La sirena di mezzogiorno e mezzo fischiò acuta, sancendo il termine della prima parte della giornata.
«Allora
un dio esiste!» sbuffò sollevato Clay, allontanandosi con
una poderosa spinta che lo fece arrivare fino alla porta. «Su,
Charlotte. Molla tutto e andiamo a riempirci la pancia! I registri
possiamo finirli dopo».
In
un attimo si era eclissato oltre l’uscio, senza darle
possibilità di replica. Lei scosse il capo, spazientita.
Raccolse i plichi sparsi, dividendo in pile ordinate quelli firmati da
quelli ancora in bianco, preparò un nuovo foglio nella macchina
per scrivere e riordinò le stilografiche che Lomann aveva
sparpagliato ovunque. Sfilò gli occhiali, concedendosi qualche
istante per massaggiare la nuca indolenzita dalla postura. Infine,
aprì la finestra quel tanto da permettere all’aria di
circolare senza che il vento scompaginasse i documenti.
In
quel momento, sul ballatoio transitò quella che poteva essere
scambiata per una mandria di buoi cingolati, ovvero lo staff
dell’officina.
La
mensa era all’altro capo del soppalco. Dal cucinino provenivano i
commenti concitati di Pancake e Maria Pilar, che sovrastavano la sigla
d’apertura de “Le Porte di Backfield Road”. Non
perdevano una sola puntata della telenovela sin dalla prima puntata,
andata in onda nove anni addietro.
Charlotte
prese posto all’angolo estremo della tavolata e scoperchiò
il suo pranzo. Fissò allibita la porzione di paella, mordendosi
il labbro: avrebbe potuto riempire comodamente il vano di carico di un
Heeler.
«Mangiala tutta, niña, che ti vedo patita!» disse affettuosa la cuoca.
La
raccomandazione sollevò un nugolo di risatine. Quella di Clay
suonava chiarissima: doveva sentirsi vendicato della mattinata
trascorsa in sua compagnia. Era risaputo in tutto il quartiere che una
razione dei manicaretti di Mamá Pilar era sufficiente a sfamare
almeno due persone di robusto appetito; persino i voraci meccanici
della “Legendary” avevano difficoltà a vuotare i
piatti, quindi era piuttosto buffo sperare che una signorina potesse
anche solo cimentarsi nell’impresa.
Dopo aver rifilato a ciascun commensale una smorfia sdegnata, si alzò e puntò alla dispensa.
«Grazie del pensiero, mamacita» rispose allungando il collo nello stanzino. «Che succede? Prince sta ancora tentando di uccidere Kevin?»
«Ha
dovuto lasciar perdere perché sono intervenute Brandy e quella
sgallettata di Delora» bofonchiò Pancake con la bocca
piena. «Prince ha accusato un fumatore d’oppio che aveva
visto nel vicolo, dicendo di essere accorso alle grida di Kevin, e
siccome questo non ha visto chi l’aveva aggredito, l’ha
pure ringraziato. Che imbecille!»
«E Delora e la sua amichetta ora sono tutte un “Che eroe-che eroe-che eroe!”. Sono proprio due mujeres bobas!
Ma come fanno a non capire? È così evidente che Prince
sta mentendo! E sai chi è il drogato? Quello che stanno portando
via adesso, lì, lo vedi nella navetta? Roy!»
«Roy? Il fratello di Peter scomparso durante il viaggio dell’Onfalia?» esclamò stupita Charlotte.
Pur
non essendo appassionata della soap opera, ne seguiva l’intreccio
attraverso i commenti di Pancake e Maria, oltre che nei riassunti sulle
pagine del FlyinGazzette.
«Esatto!»
esclamò il giovane, addentando una torre di frittelle alla
cannella. «Hanno fatto vedere i suoi documenti. Adesso ce li ha
l’Ispettore Valenti. Ci scommetto che li userà per
ricattare Justina! Dirà che se non vuole far sbattere dentro Roy
per aggressione e riconsegnarlo sano e salvo al fratello, dovrà
stare al suo gioco e andare a letto con lui! Ha sempre voluto
scoparsela».
Maria
Pilar era di tutt’altro avviso e per assicurarsi di non essere
interrotta dall’altro, allontanò il piatto dei dolci e gli
offrì una porzione titanica di riso e crostacei direttamente nel
mestolo.
«Secondo
me vorrà i documenti per incastrare il suo capo, quelli che
Peter nasconde nella cassaforte dello studio, quello dove non fa
entrare nemmeno Justina. Valenti sarà anche uno schifoso ma ha
una sua dignità. È un poliziotto!»
«Maria,
nelle mutande la dignità va farsi fottere. E non è un
modo di dire» esclamò Pancake, ammonendola con il ramaiolo
appena ripulito.
Charlotte abbandonò la disquisizione, tornando a tavola per versarsi mezzo bicchiere di vino rosso.
«Ehi,
bella! È quello che ci ha dato Avelan?» ciancicò
interessato Boy, prima di scolare d’un sol fiato la birra che
aveva nel bicchiere per poi allungarglielo.
Il
ragazzo era una specie di puntaspilli, con sopracciglia, orecchie e
labbra piene di ornamenti metallici che serpeggiavano dentro e fuori la
cute spruzzata di grasso e sporcizia.
Dopo
aver richiuso con calma la bottiglia, Charlotte si sistemò
meglio sulla sedia e respinse il bicchiere al mittente, sorseggiando il
proprio con l’aria di godersela un mondo.
«Sbagliato»
rispose. «Questo è il vino che il signor Avelan ha dato a
me, Jessie, per meriti che ha ravvisato nel mio operato» e
sfiorò l’elegante biglietto di pergamena ancora legato al
collo della bottiglia.
Un coro di fischi e versacci indicò la vincitrice indiscussa della schermaglia.
«E
se vogliamo dirla tutta, sei minorenne. Non ti sarebbe permesso neppure
guardare quella birra» osservò alzando la voce e
squadrando i presenti, che ammutolirono indispettiti.
«Chicky-Charly» sghignazzò di rimando l’apprendista.
A
quelle parole, Charlotte s’irrigidì. Strinse le dita sulle
posate e qualcuno della squadra fu pronto a giurare che stesse per
sgozzare il moccioso. L’ilarità residua evaporò in
un secondo mentre chiudeva coltello e forchetta nel contenitore del
pranzo. Alcuni chinarono impercettibilmente il capo nell’attimo
in cui afferrò le vettovaglie, temendo di vedersele arrivare
addosso.
«Tesoro, dove vai?» chiese Maria, insospettita dal rumore dei tacchi.
«In ufficio, mamacita.
Voglio godermi questo bel pranzetto in santa pace. Grazie tante»
disse sporgendosi per darle un bacio. «Oggi preferisco la
compagnia dei documenti» soggiunse uscendo impettita.
Solo
quando l’eco dei passi svanì e la porta dell’ufficio
venne chiusa a doppia mandata, gli uomini della “Legendary”
tornarono a respirare normalmente.
«Non fatemi venire lì per scoprire di chi è la colpa, malcriados» rampognò Maria Pilar, approfittando di uno stacco pubblicitario per scrutare nella stanza.
Sotto il suo sguardo inquisitore, i meccanici tornarono rapidamente a concentrarsi sui piatti.
«Siete
una manica di fottutissimi stronzi» li accusò dopo qualche
minuto Clay, sottolineando il proprio disappunto con un sonoro rutto.
«Tutti quanti. Devo starci io con lei questo pomeriggio, non
voi!»
«Paura che ti faccia totò sul sederino?» scherzò Iron, l’addetto ai lavori pesanti.
«Ino?
One, vorrai dire!» rise sguaiato Boy, ma le facce infastidite dei
colleghi lo obbligarono a chiudere immediatamente il becco.
«Sì,
sì, ridete. Aspettate la busta paga a fine mese, poi vedremo se
avrete ancora voglia di scherzare» ricordò loro Clay,
puntando eloquente il coltello alla gola.
«Era veramente incazzata stavolta. Non gli passerà alla svelta» commentò Patch, succhiando una cozza.
«Fatti
suoi. Deve smetterla di fare la mammina, non ho cinque anni!»
protestò Boy, cominciando a tracannare un’altra birra.
«Le manchi di rispetto. E non solo a lei» lo riprese Hito, strappandogli la bottiglia.
«Cosa?!» esclamò il ragazzo, ingaggiando un duello impari per riavere il maltolto.
«La contesti sempre» sbadigliò No Way, spiandolo sonnacchioso da sotto il berretto.
«La prendi in giro con quei soprannomi orrendi» suggerì Odrin.
L’Andull
era il solo oltre alla segretaria a non avere pseudonimi.
“Chicky-Charly” era il modo dell’apprendista di darle
della pollastrella, della femminuccia frivola, decerebrata e modaiola.
Esattamente l’opposto della donna che tutti conoscevano.
«Le
fai l’imitazione. E anche male» aggiunse Iron, parlando di
proposito in falsetto e fingendo di sistemare gli occhiali.
«Parli
troppo, concludi zero e fai casino, porca troia. E lei lo sa. Come
tutte le cazzo di femmine di questa merda di mondo»
rincarò Choncho, dondolandosi mollemente sulle gambe posteriori
della sedia.
Quale prova, dal cucinino la madre gli impose all’istante di sedere composto, pur non avendolo visto.
«Vogliamo
parlare di tutta la roba che hai rotto o perso, e hai preteso ti
facesse riavere? Sono quasi sicuro che sei costato più tu in
questo trimestre che tutti noi messi insieme» concluse Clay.
Il
ragazzo cercò un appiglio disperato in Ozone, seduto al suo
fianco, che però si limitò ad assentire bonario. Avevano
ragione: se non andavano d’accordo, la parte maggiore della colpa
era a carico suo. Charlotte poteva essere indisponente, arrogante,
nevrotica, persino tirannica, ma faceva del suo meglio per mantenere
con tutti un rapporto di civile convivenza. Spesso i suoi divieti si
erano rivelati una mano santa per l’economia dell’officina:
aver imposto l’uso protezioni per occhi, orecchie e mani –
pena una trattenuta di cinque trias dallo stipendio – aveva
ridotto del settanta percento il ricorso ai servigi del Dottor Hernzt.
Nella catena di comando Charlotte era un gradino sotto Clay e Sandy, ne
faceva le veci quando erano assenti, aveva facoltà decisionali
in merito agli ordini, gestiva i rapporti con i clienti, approvava le
richieste di permessi e ferie. Averla per nemica era una pessima idea.
«E
non provare a farle scherzi con quella bottiglia, tipo fargliela
sparire o vuotarla o sputarci dentro, perché sarà la
volta buona che ti fa pulire il pavimento con la lingua»
l’avvisò Hito.
«Sempre
se non t’infila in uno dei bidoni per la morchia»
ridacchiò Choncho, fingendo di annaspare nel denso liquame.
«O
magari nella Teuronne» suggerì Odrin, schiacciando la
faccia color pece tra le mani per dargli un’idea di quale effetto
avrebbe avuto la pressione della caldaia.
Sulla
porta del cucinino comparve la sagoma ballonzolante di Pancake,
più scuro in volto di quanto le lontane origini africane non lo
rendessero già. Aveva le mani affondate nei fianchi e le guance
gonfie di riso e frittelle.
«Silenzio! Qui non si sente niente!» urlò, sputando una pioggia di briciole sui presenti.
1 Monete d’oro per un gatto: equivalente giapponese del “dare le perle ai porci”.
NdA
Finalmente, dopo mesi, mi ributto nel mondo delle long vere e proprie.
Chiaramente in stile steampunk. Questa storia prende le mosse da serie
tv come "Pimp my ride", "Street Customs", "Top Gear", etc. ma se non
siete appassionati di motori, state tranquilli: non ci saranno lezioni
di meccanica!
Detto questo, un ringraziamento speciale va a Shade Owl e _ivan,
miei amici-lettori-recensori-revisori, grazie ai quali non solo le idee
spuntano come funghi, ma soprattutto giunge sempre il consiglio giusto
al momento giusto.
Ultima notazione: la pubblicazione sarà settimanale! Al prossimo lunedì.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** L.C. - Cap. 2 ***
L.C. 2
2
I
tavoli dell’“Archituono” diventavano la sede
della “Legendary Customs” una volta terminata la giornata.
In particolare il mercoledì, designato come giro di boa della
settimana, Clayton concedeva ai ragazzi di cenare là e di
restarvi fino alle dieci e mezzo. Anche lui si univa spesso: era un
modo come un altro di tenere unito il gruppo, per svuotare le menti
dallo stress delle consegne, ed era utile per appianare eventuali
divergenze in maniera civile.
Il
locale in sé non aveva nulla di particolare: era un semplice
stanzone a L, con panche e tavoli rettangolari disposti
perpendicolarmente alle vetrate che davano su Avenida de Nostra
Señora de la Merced e Finner Street, e un lungo bancone che sul
retro affacciava direttamente sulla cucina più caotica e
chiassosa del circondario.
All’“Archituono”
si potevano gustare piatti che andavano dalla più classica
cucina delle Colonie Atlantiche alle specialità tradizionali del
Vecchio Continente, per arrivare a scoprire le succulente invenzioni
nate dalle padelle dei cuochi. Il tutto accompagnato da bevande dalle
svariate provenienze, anche se le più gettonate erano le birre
crude invecchiate, prodotte dal birrificio artigianale “La
Gracieuse Pinte”.
Forse
non sarebbe mai finito sulle blasonate guide per gourmet, ma di certo
occupava un posto fisso nel cuore e negli stomaci degli avventori,
sempre piuttosto numerosi, non da ultimo lo staff della
“Legendary”.
«Secondo
me, quel maledetto bugiardo di Cross non vincerà le elezioni,
può scordarsi di mettere ancora il culo sulla poltrona di
Governatore. Ha scontentato troppa gente negli ultimi due anni, a
partire dagli agricoltori che si son visti ridurre i razionamenti
d’acqua dalla diga di Bronnefild. E sono tanti e continueranno ad
aumentare se non revoca la limitazione all’apertura delle
chiuse» sibilò Iron, gesticolando come un forsennato.
«Stamattina
ho letto sul FlyinGazette che venerdì è prevista una
protesta davanti alla sede del Governatorato, per convincerlo a levarsi
dai piedi e a rinunciare alle elezioni. Ma sarebbe una cosa che farebbe
una persona per bene, non uno come lui» osservò caustico
Pancake.
Lui e Iron erano di origini contadine e la questione stava loro particolarmente a cuore.
«Così
però finirà dritto al Senato delle Colonie»
obbiettò Hito. «Non so se è un guadagno. A parte
per il suo portafogli, ovvio».
«Sai
come si dice, no? I coglioni vanno in giro sempre in coppia e là
c’è suo fratello che gli tiene calda la poltrona»
precisò Patch, massaggiandosi la spalla indolenzita.
«L’altro
genio della famiglia. Ma quando i genitori scopavano cos’avevano
in mente?» chiese ridacchiando Odrin, mentre giocherellava con un
pomodorino nel fondo del piatto.
Il
contrasto del minuscolo ortaggio scarlatto tra le sue dita nerissime
era molto curioso, tanto che Sandy ripeteva spesso quanto
l’Andull le sembrasse fatto d’asfalto colato.
«Perché, tu pensi quando scopi?» ghignò Boy, agitando i fianchi tanto da urtare il tavolo.
Piatti e posate sobbalzarono tintinnando, e le bottiglie furono bloccate in tempo per evitare che si rovesciassero ovunque.
«Fermo
e zitto, marmocchio, che nemmeno sai di cosa stai parlando!» lo
rimproverò subito No Way, che nel frattempo faceva gli occhi
dolci a un paio di ragazze in fondo al locale.
«Lo
dici tu, bell’addormentato!» starnazzò, alludendo
all’abitudine del collaudatore di appisolarsi ovunque.
«Allora
dicci per chi voti» lo stuzzicò, assestandogli un calcio
nello stinco e continuando imperturbabile le sue smancerie a distanza.
«Juan Hernández» scandì con sussiego.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale i colleghi si scambiarono occhiate molto sorprese.
«Juan… Hernández?» ripeté sorpreso Choncho.
«È
quello che ho detto» ribadì orgoglioso il ragazzo,
scandendo ogni sillaba con un leggero pugno sul tavolo.
Altro silenzio. Altri sguardi attoniti.
«Voti per lui? Dici sul serio?» esclamò accigliato Iron.
«Sì,
perché? Non posso votare un messicano che vive qui? Mi sembra
una persona onesta, che sa quel che vuole. Ci sono un sacco di suoi
cartelloni, dove promette di fare molte cose per la gente».
«Juan Hernández?» insisté Choncho, che evidentemente disapprovava la scelta.
«Sì!
Voterò per lui! Lo merita!» dichiarò Boy,
atteggiandosi a chi aveva la verità in tasca.
«Vuoi
votare il nostro postino?» chiese Scorch, fingendosi perplesso.
«Non sapevo fosse in lizza per il seggio di Governatore».
Boy
strabuzzò gli occhi e per poco non finì soffocato dalla
sorsata che gli andò di traverso mentre tutti scoppiavano a
ridere fragorosamente.
«Cos… no!»
«Juan
è il postino, quello che dici te è Gustavo Miguel. Non
sai neanche come si chiama, stronzetto! E, tra l’altro, il
postino è messicano ma l’altro è cubano,
coglione!» rincarò Choncho, rifilandogli uno scappellotto
sulla nuca, subito imitato dagli altri.
«Cynthia,
porta un ciuccio prima che Boy si mette a piangere! Sbrigati! E anche
un paio di Herraduras e una PinkQueen!» strillò Pancacke
all’indirizzo di una delle cameriere, che rideva piegata in due
sul bancone.
Subito
le risate si tramutarono in mugolii schifati: solo lui poteva mangiare
delle ali di pollo fritte e piccanti, accompagnandosi con una mousse di
lamponi.
«Qualcuno
mi vuole spiegare come cazzo siamo finiti a parlare di quelle mezze
seghe del Governo? Mi devo essere perso qualcosa» commentò
Clay, sbattendo la bottiglia ormai vuota sul tavolo con voluta
malagrazia.
Il
suo malumore era fasullo solo in parte: per tutta la serata non aveva
fatto altro che tenere d’occhio le ordinazioni di Scorch, pronto
a saltargli alla gola se avesse chiesto qualcosa di più forte di
una gassosa. Nonostante la sbronza fosse passata, l’ingegnere era
ancora piuttosto debole, aveva problemi di concentrazione e
occasionalmente di equilibrio. In quelle condizioni, Clay sapeva bene
quanto rischiasse di cedere alla tentazione di farsi un goccetto per
tirarsi su, finendo sicuramente sotto il tavolo. Non poteva
permetterlo, a costo di non godersi la serata.
«Non
per essere maleducato, capo, ma nella mia busta paga del prossimo mese
ti sei perso duecento trias. Te lo dico adesso così puoi correre
a segnarmeli subito» ciancicò ancora Pancake, inghiottendo
il boccone di pane con cui aveva ripulito il piatto, in attesa
dell’ordine appena fatto.
Iron, suo fratello, scosse la testa rassegnato.
«Ti
piacerebbe. E finiscila di ingozzarti o non si riuscirà
più a distinguerti dall’accumulo di una caldaia!»
Nessuno
capiva come avesse potuto metterli al mondo la stessa madre: tanto
Lamar “Iron” Parker era alto, robusto e atletico, come si
conveniva a un addetto ai lavori pesanti, tanto Delwin
“Pancake” Parker era basso, parecchio in sovrappeso e
flaccido quanto uno straccio bisunto.
«A me ne mancheranno duecentocinquanta!» irruppe Boy, facendo eco alla richiesta.
«A me cento, sono più economico di questi due» sbadigliò No Way stiracchiandosi sornione.
«Anche a me farebbero comodo un centinaio in più» rise Odrin.
«Idem. Ho un paio di spesucce in programma» esclamò Iron, agitando eccitato il pugno.
«Io mi accontento di essere pagato» concluse saggiamente Hito, ricevendo gomitate e gestacci dai colleghi.
***
Uscendo
dal locale, Odrin, Patch e Ozone puntarono all’officina, dove
avevano lasciato i loro mezzi. Camminavano senza fretta, i primi due
parlottando tra loro, l’altro accompagnando all’occorrenza
la discussione con cenni del capo ed eloquenti smorfie. Attorno a loro,
le luci dei palazzi si spegnevano una dopo l’altra, man mano che
per gli inquilini andavano a dormire.
Il
quartiere di La Roscas era abitato principalmente da operai,
carpentieri, manovali dei cantieri avionavali e muratori. Tutta gente
abituata alla fatica e alle levatacce, non c’era da stupirsi se a
quell’ora il silenzio nelle strade era già piuttosto
denso. Tra gli edifici residenziali si aprivano ampi slarghi recintati,
che segnalavano le aree per la sosta dei mezzi di carico e per lo
stoccaggio dei materiali di piccole e medie imprese.
Lungo
il marciapiede correva il muro di cinta del “Legendary
Customs”, alto e sormontato da una fila di spuntoni acuminati, e
interrotto solo dal cancello d’ingresso, poco oltre.
«Il
ragazzo si sta facendo troppo invadente per i miei gusti, Ozone. Cerca
di tenergli… come dice No Way? Una mano sulla testa?»
ridacchiò Patch, passando entrambe le mani fra i capelli corti e
scuri.
«Già.
Forse però sarebbe meglio ficcargliela dentro la testa e
togliere un po’ di quello che c’è. Comincio a
pensare che manchi l’ossigeno là dentro».
Un
pesante sospiro indicò che Ozone non condivideva del tutto le
loro lamentele. Lui riusciva a vedere altro dietro la catastrofica
irruenza di Boy.
Il
cancello corse sul binario con uno stridio appena percettibile. In un
angolo erano posteggiati la Urbanhare di Patch e un ammasso di
ferraglia che disegnava l’approssimativo contorno di un trike.
«Quando mettiamo mano al roll bar?» chiese Patch, tastando il tubolare che sovrastava il posto di guida.
Il metallo cigolò lieve nei giunti.
«Fammi finire l’ordine per la Φ-nix e ci mettiamo all’opera».
«Per sabato ce la fai? Vorrei sistemarlo alla svelta, prima che piova».
«Che
fretta hai? Fojdhos è mio. E la pioggia non mi fa paura»
disse, agitando la mano fra le barre nude della copertura, lì
dove ancora mancava la capotta.
«Ah,
questo lo so, Signore delle Lande. Tu vivi di pioggia e foglie»
lo canzonò Patch, appoggiandosi alla propria airship. «Ma
si dà il caso che non voglia averti sulla coscienza se questo
coso decide di andare in pezzi mentre sei in giro».
Odrin
si allungò sull’ampio sedile, una versione provvisoria di
quello che avrebbe installato alla fine del lavoro. Aveva già
messo da parte le pezze adatte e le imbottiture.
«Dov’è
il problema? Sarò io a finire spappolato sulla strada»
chiese poggiando i piedi sul manubrio.
«Il
problema è che non sapremo come fare a distinguerti dalla
carreggiata e resteremo per anni a domandarci dove sei fuggito e
perché» rispose con enfasi melodrammatica.
«E
scommetto che ti piangerà un occhio sì e l’altro
no, eh?» replicò Odrin sullo stesso tono.
Patch,
infatti, aveva gli occhi di due colori diversi, il che aumentava sia la
possibilità di battute sia di emicranie quando si parlava per
troppo tempo con lui.
Ozone
si unì alle risate con un borbottio sommesso. Spingeva un tozzo
velocipede a due tempi, un fascio ritorto di tubi e valvole dalle
funzioni misteriose, che si lasciava alle spalle l’alone
azzurrato del focolare sotto l’accumulo. Raggiunse i due e
alzò uno sguardo interrogativo all’officina.
«Quella è proprio fissata» commentò Patch, indicando la luce accesa al primo piano.
L’ombra
di Charlotte si stagliava dietro gli spessi profili della finestra. A
giudicare dalla difficoltà con cui si muoveva e
dall’occasionale biancheggiare di piccoli triangoli, doveva
tenere tra le braccia qualcuno degli enormi volumi che affollavano le
librerie dell’ufficio. Lo chignon poggiava scomposto sulla nuca,
attorniato da un’aureola di ciocche. Aveva slacciato i polsini
della camicetta e li aveva rivoltati fino al gomito. Se si fosse
accorta che la stavano vedendo in quello stato, con ogni
probabilità sarebbe morta di vergogna. Non prima di aver
comminato loro una qualche sanzione.
«Vai
su e dalle una bottarella o due, Odrin, magari le fai passare certi
atteggiamenti. Se ti lasci infilare le dita nella macchina per scrivere
e poi ti fai picchiare con le fatture, secondo me ti dice di
sì» malignò Patch.
L’Andull
ridacchiò scuotendo il capo. L’amico sapeva del suo
interessamento nei confronti della segretaria e non perdeva occasione
per punzecchiarlo, nella speranza che da un eventuale incontro ne
venisse qualcosa di buono per il resto del team.
«Tu che dici, Ozone? Dovrebbe andare a farle due moine?» indagò Patch, ammiccando.
L’uomo
si grattò pensieroso il mento, nello spazio libero tra la coppia
di spesse trecce della barba, dondolando il capo in un parziale,
esitante assenso. I suoi silenzi sapevano dire molto.
«Beh,
gente, vado. So che non ci crederete, ma ho una casa»
salutò il meccanico, subito imitato dai compagni, ciascuno a suo
modo.
Mentre
inforcavano i mezzi, preparandosi alla partenza, Odrin lanciò un
ultimo sguardo alla finestra. La silhouette scura di Charlotte guardava
la città, le braccia incrociate sul corsetto e i capelli
arruffati, ora sciolti sulle spalle. Non riusciva a scorgere la sua
espressione, ma indovinò da un lungo sospiro che fosse
preoccupata.
La
Torran di Clay filava per le strade di Port Serafine, trasformando le
luci ambrate dei lampioni a gas in rombanti sfavillii. La voce roca di
Cob Sloan cantava “The world unwinds inside me” dai coni
del fonografo ai lati della plancia.
Pur
essendo un modello vecchio di quasi quarant’anni, restava uno dei
più in voga tra gli appassionati di muscle-ship. Il profilo
ribassato dell’abitacolo, unito alle linee affusolate del muso e
alle ali continue lungo il terzo inferiore, avevano per anni suscitato
l’ilarità degli esperti del settore, che l’avevano
ribattezzata “la seppia”. A dispetto del soprannome
tutt’altro che lusinghiero, le sue prestazioni erano rimaste
ineguagliate per parecchio e anche tra le muscle-ship di più
recente fabbricazione, poche erano in grado di superarla.
«I ragazzi come stanno?» domandò un tratto Scorch.
La
sua voce era tesa e impastata per il supplizio appena concluso: passare
ore con birre che andavano e venivano sotto i suoi occhi, quando era
costretto ad accontentarsi di un imbarazzante bicchiere di seltz e
succo d’arancia, l’aveva lasciato con i nervi scossi
più di quanto credesse.
«Bene» rispose Clay stringendo le cloche.
«Stanno con te questo week-end?»
«Ci sono stati quello passato. Ti aspettavano» sputò, in un’accusa non troppo velata.
Scorch
passò una mano sulla faccia, per non dare a vedere che si stava
mordendo la lingua. L’aveva completamente dimenticato.
«Merda. Io… mi dispiace».
Clay
imboccò a tutta velocità la parallela di Via del Corso,
sul limitare di Surrexit Rome. Alcuni negozi erano ancora aperti per la
festa di San Giuseppe, che ogni anno richiamava folle di curiosi presso
gli antiquari e le botteghe che trattavano merce d’importazione
dal Bel Paese, oltre che nei ristoranti tipici.
Superò
i tripli viali che portavano al Core, il quartiere centrale della
città, e seguì le indicazioni per Cenelia.
Dopo qualche minuto, Clay riprese a parlare.
«Bonnie
ha deciso che vuole fare la stilista da grande. Voleva farti un sacco
di domande sul come disegnare un cappello da donna pilota che non venga
strappato via dal vento. Junior invece continuava a ripetere che lo zio
gli aveva promesso di portarli entrambi al parco a prendere un
frappè al Sabine’s. Ti hanno aspettato tutto il giorno e
non ha voluto che ce li portassi io» rincarò.
Il
cugino sganciò le fasce superiori della cintura di sicurezza per
riuscire a prendere un respiro decente e schiarirsi le idee.
«Io… non pensavo se la sarebbero presa tanto. Sono solo dei bambini».
Clay
inchiodò bruscamente, minacciando di sfondare il pianale e la
scocca inferiore mentre pigiava sul pedale, facendo intraversare
l’aeronave proprio sulla linea di mezzeria. I freni a vapore
compresso sibilarono altissimi, assordanti. L’ingegnere
rischiò di sfondare con una testata il cruscotto e di dire addio
ai gioielli di famiglia quando la cinghia inferiore entrò in
azione, mantenendolo ancorato al sedile dalla vita in giù.
«Sì,
sono solo bambini! Proprio per questo dovresti tenere di più a
loro!» ruggì Clay agguantandolo per la giacca e
scuotendolo con tanta forza da scatenargli un conato di vomito.
«Della tua vita fai quel cazzo che ti pare, Scorch. È
inutile che te lo ripeto ogni volta, tanto non mi ascolti, fai sempre
di testa tua. Però non far star male i miei figli! I tuoi
nipoti! Non t’azzardare a deluderli di nuovo, o tutte le sbronze
che ti sei beccato in questi anni saranno niente a confronto di come ti
riduco io se vedo mio figlio piangere un’altra volta per colpa
tua!»
La
minaccia suonò talmente concreta che per un istante Scorch fu
tentato di balzare giù dal mezzo e darsela a gambe levate. Se il
pugno del cugino non fosse stato ancora chiuso saldamente attorno al
bavero della sua giacca, probabilmente l’avrebbe fatto.
«Bonnie
è più grande, comincia a diventare una signorina
indipendente, come sua madre. Capisce da sola su chi può fare
affidamento, di chi può fidarsi, anche se questo non le
impedisce di restarci male. Junior no. Ti vuole bene e per qualche
strano motivo ti reputa il suo migliore amico. Una specie di esempio
persino. Tienilo a mente la prossima volta che ti avvicini a una
bottiglia».
La Torran ripartì con un sospiro rauco, riportandosi al centro della carreggiata con una rapida sterzata.
L’aria fresca della sera riprese a schiaffeggiare i volti dei due, incapace di distendere i nervi.
Rimasero in silenzio per tutto il resto del tragitto fino a Cenelia.
Il
quartiere si allungava su un susseguirsi di basse colline inframmezzate
da giardini pubblici e viali tutti uguali. Era stato costruito durante
il boom edilizio quindici anni prima, come esempio di quartiere
modello. Clay aveva abitato lì fino al divorzio. Ora ci viveva
Sandy con i bambini e lui aveva preso un appartamento a La Roscas, non
lontano dall’officina.
La
casa di Niklas invece si trovava a parecchi isolati di distanza,
all’altro capo del sobborgo. L’attico-studio sporgeva dal
tetto in una costruzione di mattoni bassa e lunga, dando
l’impressione che una forza proveniente dal centro della terra
avesse gonfiato in maniera comica la struttura, deformandola fino a
farla somigliare ad un fungo di ferro e vetro. Anche al buio era
possibile intuire la quantità di sporcizia che l’incuria
depositava giornalmente sulle finestre a larghe pennellate.
La
fissavano da alcuni minuti, quando Scorch decise di scendere.
Abbozzò un saluto a malapena udibile e fece per avviarsi, ma la
voce di Clay l’ obbligò a fermarsi.
«Domani
ci portano una Glohess. È per il figlio di un commerciante di
piastrelle di Uplands. Minima spesa, massima resa. Due settimane di
lavoro; otto o novecento trias al massimo, inclusa la verniciatura.
Vedi di farti venire qualche idea per darle un’aria più
aggressiva, deve ricordare la Cannonball di Gunner».
Il
progettista fece una smorfia. Quella sì era una signora airship,
la regina delle corse sul miglio lanciato, un gioiello di potenza e
aerodinamica, anche senza un fuoriclasse come Tyren Gunner ai comandi.
«Dici
niente. Passare da un’utilitaria a un aeromobile da corsa non
è uno scherzo» protestò debolmente.
«Il re dell’aerodinamica sei tu, Ingegner Almgren. Fai fruttare quella cazzo di laurea ogni tanto» lo riprese.
La
lieve vena d’ironia incoraggiò Scorch a sollevare gli
occhi dal marciapiede. Clay non lo stava guardando. Non l’aveva
perdonato per l’appuntamento mancato, tuttavia sembrava essersi
calmato, il che era di per sé un guadagno: se fosse sceso dalla
Torran con l’intenzione di prenderlo a pugni, era certo che non
se la sarebbe cavata a buon mercato. L’ultima volta era stato
spedito al tappeto con incredibile facilità, nonostante fosse
più grosso del cugino. In Clayton scattava qualcosa
d’incomprensibile e terribilmente violento quando venivano
toccati i suoi figli, qualcosa che lo rendeva una belva sotto ogni
punto di vista, e che gli restava incollato addosso per ore, a volte
per giorni. Qualcosa che Scorch era ben lontano dal comprendere o anche
solo dall’intuire. L’unica cosa che sapeva, era che in quei
momenti doveva evitare di avere a che fare con lui.
«Potenzierai il motore?» s’informò, sperando di distrarlo da qualunque ipotesi di aggressione.
L’altro annuì meccanicamente, armeggiando con una manopola per riassettare i diruttori2 del fianco destro.
«Devo dargli quei trenta cavalli in più, altrimenti è come vestire Pancake da corridore».
«Vedrò
di pensare a qualcosa come si deve. Faremo un bel lavoretto»
promise timidamente Scorch, aggiungendo una strizzatina d’occhi
per sembrare più convincente.
In
realtà, non era mai stato così poco fiducioso nelle sue
capacità come in quel momento. Dentro di lui covava una paura
folle, il timore di non essere all’altezza del proprio compito.
Di non esserlo mai stato.
Clay
lo fissò a lungo, il volto squadrato attraversato da pensieri
indefinibili. La luce intermittente di un’insegna si rifletteva
sulla testa rasata, lucida quanto la carrozzeria della muscle-ship, e
sulle guance ispide che mordicchiava nervoso dall’interno. Uno
scarpone tamburellava sul poggiapiedi con ritmo lento e ostile.
Infine tese la mano, senza sorridere.
«Mi fido di te, Niklas».
1 Archituono: macchina a vapore ideata da Leonardo da Vinci.
2 Diruttori: detti anche spoiler, sono dei piani mobili
che consentono di far perdere portanza alle ali degli aerei,
migliorando l’aderenza a terra durante l’atterraggio ma
possono essere usati anche con funzione di aerofreni.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** L.C. - Cap. 3 ***
L.C. - Cap. 3
3
Tutti
alzarono la testa da ciò che stavano facendo. Addirittura Odrin
uscì dal laboratorio e la testa di No Way fece capolino dal
motore della Stormbreaker, dove alternava regolazioni e pisolini.
Un
silenzio teso aleggiò sullo staff, che chiuse lentamente le
ghiere dei cannelli di saldatura e abbassò al minimo i focolari
nei gruppi di alimentazione. I borbottii del vapore pressurizzato si
ridussero a un leggero brusio. Una folata improvvisa fece oscillare le
catene dei paranchi, producendo flebili tintinnii.
Ogni membro della “Legendary” stava con il naso all’insù, in attesa.
Mezz’ora
prima Sandy aveva fatto la sua entrata a effetto del lunedì
pomeriggio, infilata in un cortissimo abito turchese che sembrava
esserle stato colato addosso, per quanto era aderente. La voluminosa
coda di pizzo e crinolina evidenziava le splendide gambe
dell’ex-signora Lomann, che terminavano in una coppia di
francesine con tacchi talmente sottili da poterli scambiare per
stiletti. Vestite a quel modo, altre donne sarebbero sembrate di una
volgarità inaudita, ma lei riusciva a trasformare uno straccio
da dieci méit in un capo d’alta moda.
«Non
se ne parla!» tuonò per la seconda volta la voce di
Clayton, chiarissima nonostante giungesse da dietro le mura
dell’ufficio.
Trascorsero
una manciata di secondi, dilatati all’inverosimile, durante i
quali nessuno mise piede sul ballatoio. Era un buon segno. Se il capo
non scendeva entro le prime due sfuriate, inferocito col mondo intero,
allora non c’era rischio di incorrere nelle sue ire.
Ci
fu un breve scambio di sguardi d’intesa fra i presenti. Guanti e
mascherine furono calzati nuovamente; ticchettii, clangori, soffi,
sbuffi, cigolii affollarono l’aria; le caldaie dei macchinari
tornarono trionfanti al regime abituale. Le attività
ripartirono, ma non prima che le mani fossero andate a tasche e
borselli, da cui recuperarono inserti auricolari e cuffie: anche se
Clay stava reggendo l’ennesima discussione, era meglio evitare di
interessarsene prima che fosse lui a parlarne.
Al
centro dell’officina, Ozone e Boy trafficavano col sistema di
alimentazione di un Heeler. La condotta di recupero calore andava
modificata per sostenere la maggiore portata di vapore in uscita,
aumentando di conseguenza le prestazioni del mezzo.
Per
il giovane era eccezionale vedere il proprio mentore all’opera.
Ne seguiva attento i movimenti, studiandone la durata e
l’intensità; memorizzava le sequenze di approccio alle
linee; imparava a distinguere le funzioni e i meccanismi interni
osservando e ripetendo con attenzione ogni gesto. Assorbiva
letteralmente informazioni dall’aria entro cui si muovevano le
mani dell’altro.
Stava
provando la tenuta di un manicotto, quando Ozone gli strinse la spalla,
facendolo sobbalzare. Il tecnico domandò a cenni cosa avesse
sulla testa e questi sollevò il grosso auricolare imbottito,
mostrando un tappo di cera nell’orecchio.
«Mi-tu-te-lo» scandì lentamente.
Silenzioso
come sempre, Ozone approvò divertito mostrandogli il pollice,
che rivolse subito dopo verso la testolina bruna all’altro lato
del vano motore. Clayton Jr stava ancora ascoltando gli strepiti dei
genitori, il collo allungato a mo’ di periscopio.
Era arrivato con la madre ed era stato subito spedito a dar fastidio a tutti quanti.
Boy
diede un’occhiataccia al suo superiore. Aveva capito cosa voleva
facesse e non ne era entusiasta. Sbuffando e roteando gli occhi,
tirò uno straccio in faccia al bambino, che per lo spavento
quasi cascò dalla pila di bancali che aveva avvicinato
all’airship.
«Non è roba per te» berciò Boy allungandogli stizzito le proprie cuffie.
Il
piccolo gli lanciò a sua volta la pezza, mancandolo e
rispondendo qualcosa che l’apprendista non riuscì a
tradurre. Ozone, dal canto suo, insisté nell’indicare le
protezioni che gli venivano offerte.
«Ficcatele in testa e stai zitto, tanto non ti sento!» rampognò Boy, agitando minaccioso una serratubi.
***
«Te l’ho già detto: tu ed io siamo titolari, tu ed
io siamo gli intestatari dell’invito. Quindi, tu ed io andremo a
quel maledetto ricevimento, che ti piaccia o no!» strepitò
Sandy, sottolineando ogni parola pestando i piedi, col rischio di
spezzare un tacco o una caviglia.
«No!»
ruggì lui, piantando le mani sui fianchi e inarcando le spalle
grandi quanto un aerostato. «Non mi concerò da perfetto
cretino solo per farti fare bella figura davanti a un branco
d’idioti che non sanno distinguere una chiave Revingstone da un
faro all’acetilene! E poi verrà anche Charlotte, non sarai
da sola! Dov’è il problema?»
A dispetto del piglio battagliero, Clay era spaventato a morte: aveva il presentimento che non avrebbe avuto scampo.
«Le
altre volte te la sei cavata perché non era necessario
l’accompagnatore, qui invece è richiesto a chiare lettere!
Mi serve un uomo!»
«Portati Scorch».
La donna trasecolò. La sua non era una proposta alternativa: era un’umiliazione.
«Non
ho intenzione di passare la serata a vergognarmi di lui! Come minimo si
attaccherà alla prima bottiglia che gli capiterà a tiro!
Ci farà perdere clienti e reputazione! Mi serve un vero uomo,
uno che sappia tenere la schiena dritta!» strillò
inviperita sporgendosi deliberatamente in avanti, lasciando che il
decolleté occhieggiasse maliardo da sotto la giacchetta.
«Non
parlare così di mio cugino, donna!» rimbeccò,
evitando di soffermarsi troppo sul panorama oltre la linea delicata del
mento di Sandy.
In
un angolo remoto della mente si chiese perché la sua ex-moglie
sembrasse più bella ogni volta che la guardava, ma era una
domanda retorica.
«Perché?
Perché è la verità. Sai meglio di me che razza di
mina vagante sia quell’alcolizzato. Mi servi tu, il capofficina
della “Legendary”, non quel fallito buono a nulla!»
ribadì, piantandogli l’indice nel petto.
Tanto
era ammaliante, quanto crudelmente obbiettiva. Aveva ragione: mandare
Scorch a un party dove persino gli interruttori alle pareti avrebbero
pisciato alcol, era un suicidio annunciato. Per non parlare della
pessima nomea che si era guadagnato presso gli ambienti finanziari e
che avrebbe causato un sacco di grane. Scorch però stava rigando
dritto da quasi tre settimane ed era tornato a svolgere il suo lavoro
di progettista con discreto entusiasmo. Non poteva tollerare che
finisse sotto attacco anche in quel frangente.
«Non provocarmi, Alexandra».
L’avvertimento
implicito nel nome di battesimo valeva per tutti, con la sola
differenza che lei non aveva alcun timore nell’affrontare le
possibili conseguenze, perché sapeva come volgere la situazione
a proprio vantaggio.
«Allora
prometti che, a un mese da oggi, ti infilerai un abito come si deve e
mi farai da cavaliere alla festa. Se lo farai, me ne starò buona
e tranquilla come si conviene a una brava mogliettina per tutto il mese
successivo» cinguettò invitante, gettando indietro la
cascata di boccoli scuri che le oscillava sulla spalla.
Il naso aquilino dell’uomo arrivò a sfiorarle la fronte.
«Non sei mai stata buona nemmeno dopo che avevamo scopato per ore come ossessi» bisbigliò maligno.
«Ora non provocarmi tu, signor Lomann» ringhiò gelida.
L’aria
nella stanza si fece di colpo rarefatta. Lo sguardo smeraldino di Sandy
era terrificante e Clay non riuscì a trovare scuse decenti per
trarsi d’impaccio. Sapeva fin troppo bene dove sarebbe andata a
parare se avesse continuato a parlare di quelle cose. Erano argomenti
che non facevano bene a nessuno dei due.
Tergiversò
qualche minuto, aprendo e stringendo i mantici dei pugni. Un paio di
vertebre schioccarono nel collo. Una vena pulsava con ritmo
preoccupante lungo la sua tempia.
Rapida com’era montata, la rabbia di Clay si dissolse in un grugnito roco.
«Maledizione, va bene! Va bene. Tu mi farai morire, donna» sputò uscendo.
Lei saltellò gioiosa in una ridicola pantomima.
«E
bravo il mio omone-dolce! Mi raccomando, niente intralci, dobbiamo
essere puntuali! Non facciamoci riconoscere come sempre!»
trillò inseguendolo lungo il ballatoio.
L’uomo
allungò il passo, ben sapendo che inguainata in quella mise
rigida e avvolgente, Sandy non avrebbe potuto continuare a stargli
dietro. Infatti, appena cominciò a scendere la scala, quella si
fermò.
***
«Ottuso bestione» sbuffò appoggiandosi alla porta dopo averla richiusa.
Trattare
con Clay diventava sempre più difficile col passare degli anni.
Aveva sempre detestato i ricevimenti, eppure si era prestato a
parteciparvi, ben sapendo quanto le apparizioni pubbliche fossero di
fondamentale importanza per l’economia
dell’attività. Questo fino a quando non era stato sancito
definitivamente il divorzio. Da allora, svicolava di continuo.
Non è il momento per pensarci, si ammonì.
«Dunque,
cosa stavamo dicendo prima che quell’energumeno ci
interrompesse?» chiese, recuperando un sorriso allegro.
Charlotte
la fissava con le dita intrecciate in grembo, l’espressione
più pacifica che si potesse immaginare nonostante avesse appena
rischiato d’essere coinvolta in una lite furiosa. Per tutta la
durata del diverbio era rimasta impassibile e silenziosa, seduta al
proprio posto, controllando la posta. Ora che Clay se n’era
andato, martellando furibondo il pavimento, potevano tornare ai loro
affari.
«Che sarebbe meglio dare anche a me una cuffia?» suggerì massaggiandosi un orecchio.
Doveva ammettere che quei due riuscivano a rendere tangibile il concetto di frastuono.
«Non
ti ci mettere anche tu. Quando ci vuole, ci vuole»
brontolò Sandy, lasciandosi cadere sulla poltroncina che
abitualmente usava Clay.
La seduta l’accolse con un morbido fruscio che sapeva di sollievo e gratitudine.
«Sembra che tra voi ci voglia sempre» osservò quieta la segretaria, inforcando gli occhiali.
«Tu
non sai cosa significa essere sposata con lui!» sbottò
l’altra, sbracciando irritata verso la porta.
A quelle parole, le donne si scambiarono sguardi molto diversi. Charlotte di vaga sorpresa, Sandy quasi addolorato.
Scrollò le spalle, abbandonandosi all’abbraccio del cuoio sgualcito.
A
dispetto dei sei anni trascorsi dalla sentenza di divorzio, le capitava
ancora di parlare di Clay come di suo marito. A volte dimenticava
persino di usare il suo cognome da nubile, Stuart, al posto di quello
da sposata. C’era qualcosa che rifiutava di sfilare le radici
dalla sua testa: non si trattava della routine matrimoniale, né
dell’odio o della vergogna che aveva sopportato. Era il fatto di
non essere più una coppia. Era questo che una minuscola parte di
lei rifiutava di accettare. Erano una famiglia, questo sì: lo
testimoniavano Bonnie e Clayton Jr che li chiamavano mamma e
papà, contendendosi affetto e attenzioni; lo testimoniava lo
stare insieme, l’essere uniti nelle avversità che si
presentavano alle porte della “Legendary”; lo dicevano a
chiare lettere i battibecchi quotidiani e i piccoli gesti di perdono
che solo loro due sapevano cogliere. Una coppia no. Avevano smesso di
esserlo da tempo.
«Forse
sarebbe meglio tornare al planning» propose la segretaria,
notando un’ombra triste allungarsi sul volto di Sandy.
L’amministratrice si stiracchiò quanto permettevano le stecche del corsetto.
«Sì,
buona idea. Hai per caso un…» ma prima che completasse la
richiesta, la donna aprì uno dei cassetti chiusi a chiave della
scrivania e ne tirò fuori una scatolina intarsiata.
Dentro,
un tesoro in prelibati quanto preziosissimi cioccolatini attendeva di
essere spogliato dai variopinti incarti. Il cioccolato era un autentico
lusso, una merce di pregio equiparabile ai diamanti. Possederne una
quantità anche esigua significava custodire una piccola fortuna.
Quel dono da solo doveva valere almeno quattrocento trias.
«Grazie».
«Dillo
al nostro benefattore al party» suggerì, prendendone uno a
sua volta e scartandolo con lentezza. «O forse prima. Devo
chiamare Avelan per fargli sapere quando inviarci la Pavitr».
***
Verso le cinque e mezzo, Sandy e Charlotte decretarono conclusa la fase
di planning quindicinale della “Legendary Customs”. Avevano
organizzato tutti gli appuntamenti e steso le tabelle di marcia delle
consegne, facendo in modo di sopperire a eventuali assenze del
personale. Avevano stabilito le date per le verifiche delle scorte e le
tempistiche per il ritiro degli acquisti, per incontrare i
rappresentanti dei fornitori, i referenti dell’Ufficio Prestiti
della banca e via discorrendo. Un lavoro lungo e noioso, senza il quale
gli ingranaggi dell’officina si sarebbero inceppati
nell’arco di una settimana.
Nulla ora vietava loro si spettegolare un po’ e di discutere della festa al City Garden.
«Vuoi
veramente che Clayton metta uno smoking? Non tenterà di farlo a
brandelli appena l’avrà addosso?» domandò
Charlotte, sorseggiando il tè che aveva preparato poco prima.
«Credimi,
era tutta scena. Grugnirà un po’ anche alla festa,
tenterà di allentare la cravatta ogni dieci secondi,
sbufferà quanto una locomotiva imbizzarrita perché i
pantaloni gli strizzano gli attributi, ma appena si comincerà a
parlare di possibili lavori se ne dimenticherà, e sarà
tutto felice come un bimbo tra i regali di Natale. Fa sempre
così. Sempre» aggiunse sottovoce con un sorriso sognante.
«Puoi pensare tu a trovargli qualcosa di adatto? Con me non
verrà mai. Portalo da Lacombe se riesci o vacci tu direttamente.
È in centro, su President Plaza. Chiedi di Barton, lui sa
già com’è il mio abito, ti darà una mano con
i modelli da uomo. E verifica la taglia di Clay con il cambio da lavoro
che ha addosso, ho l’impressione che sia ingrassato e cerchi di
non farmelo notare» disse aspra, pizzicandosi il fianco.
Charlotte
ridacchiò dentro di sé, trattenendosi dal mostrarle le
schede sanitarie stilate dal dottor Hernzt. Sarebbe stata
un’inutile conferma dei suoi sospetti: per quanto Clay si tenesse
in forma dedicandosi alla parte più pesante del lavoro, era
ingrassato comunque di dieci libbre nei sei mesi precedenti.
«Ti
avviso: sta attenta che non inventi qualche scusa per darci buca
all’ultimo secondo. Altre volte c’è riuscito, ma
quella sera dovrà essere presente. Deve venire a qualunque
costo. Anche con le mani amputate che grondano sangue se
necessario!» sibilò.
«Quindi gireranno pesci grossi» concluse pensierosa l’altra.
«Enormi,
Charlotte. Veramente enormi» esclamò entusiasta
spalancando le braccia. «Industriali, banchieri, imprenditori,
qualche star locale e forse politici in corsa per le elezioni al
governatorato. Potrebbero arrivare grosse ordinazioni se giochiamo bene
le nostre carte, roba che ci proietterebbe nel gotha del settore. Onde
per cui, non vestire troppo castigata. L’ultima volta sembravi la
Regina di Francia. E quella ha settant’anni».
«Sandy,
mi sento a disagio con… insomma…» balbettò
intimidita, stringendo nervosamente le mani sulle ginocchia.
Qualunque
fosse il suo problema nel mostrarsi, Sandy aveva preferito evitare di
conoscerlo. Charlotte era una persona molto riservata e insistere
affinché chiarisse i motivi del suo malessere, le pareva un
accanimento insensato e perfido. Ciò nonostante, voleva che
imparasse ad avere meno timore di se stessa.
«Con
la mercanzia in vetrina?» sdrammatizzò, sistemandosi con
gesti teatrali il busto. «Dovresti smetterla di svilirti in
questo modo. Sei una bella donna, hai modi impeccabili, il giusto
atteggiamento per non passare da “accompagnatrice notturna”
e sei più giovane di me. Mettiti un abito che ti valorizzi!
Vesti sempre così bene qui in ufficio, proprio non capisco
perché non riesci a fare altrettanto ai party. Se ti vedo
infilata in una palandrana da nonnina, vado a prendere le forbici di
Odrin e te la faccio a strisce, parola mia!»
l’avvertì.
«Voglio solo avere un aspetto dignitoso» ribatté timidamente.
«E
l’avrai, fidati di me. Sai che ho una lunga esperienza nel
settore» e indicò il poster alle sue spalle.
Sandy
era stata - ed era ancora, seppur con meno frequenza - il volto e il
corpo della “Legendary Customs”. In quella foto era distesa
supina sul cofano della Torren, il piede destro poggiato sulla
mascherina del faro, i capelli raccolti in un’alta coda di
cavallo e la faccia sporca di olio minerale e fuliggine. Vestiva da
sexy meccanico: camiciola ben aperta sul seno, corsetto basso in maglia
metallica e stecche d’ottone, guanti rinforzati, pantaloni corti
e pesanti scarponi da lavoro; il tutto corredato di attrezzi usurati,
tra cui una pistola pneumatica agganciata alla giarrettiera. Nessuno
poteva immaginarlo, ma quella fascia di pelle era in realtà la
cintura di Clay: non esistevano in commercio reggicalze abbastanza
robusti da reggere il peso di quell’arnese. Eppure, per quanto
provocante, quell’immagine non era affatto volgare. Anzi, si
poteva tranquillamente definirla “comunicazione efficace”.
«Allora:
carta e penna, e prendi appunti. Numero uno: puoi scegliere un abito
accollato, ma con un busto che evidenzi il seno e i fianchi. Hai un bel
fisico e mostrarlo non significa necessariamente stare nuda! Devi
trasmettere a chi ti guarda che hai consapevolezza delle tue armi. Due:
scopri le spalle. Gli abiti più eleganti del momento lo
richiedono. Nessuno penserà male di te se ti adegui alla moda,
anzi. Sapranno che sai stare al passo con i tempi, che hai stile e sai
seguire le tendenze. Di conseguenza, lo penseranno della
“Legendary”. Tre: coordina l’abito con quello del tuo
cavaliere. È un segnale importante, indica al cliente che sei in
grado di assecondarlo. Ti ha già detto come
vestirà?»
«Nel biglietto diceva solo di aver scelto il color verde oliva».
«Verde
oliva? Cielo, quant’è fuori moda quell’uomo!»
sospirò, nascondendo la faccia tra le mani.
«È un tipo originale».
«Tra originale e dai gusti pessimi il passo è breve, ma tant’è».
«Pensavo a qualcosa in bianco e verde, per restare a tono» azzardò.
«Sì,
ma evita bianco ghiaccio e bianco latte. Meglio l’avorio,
è più adatto al tuo incarnato e ha una sfumatura che si
presta all’abbinamento con quel… coloraccio. Magari con
ricami bronzo o oro scuro. Una stola! Ecco cosa ti occorre! Una bella
stola con entrambi i colori. Con quella potrai indossare un abito senza
spalline e non avrai l’impressione di essere nuda!»
Charlotte
trattenne il respiro per un attimo, indecisa, rassegnandosi ad annuire.
La speranza che Sandy avesse terminato andò subito in frantumi.
«E
le scarpe! So che detesti portare i tacchi alti, ma per favore, niente
roba come quella. Te la proibisco!» e additò le scarpe che
indossava, il cui tacco arrivava a stento ad un pollice.
«L’abito lungo vuole il tacco alto e visto che il
ricevimento si terrà nelle serre dell’Orto Botanico,
suggerisco dei sandali. Niente scarpe chiuse, non siamo delle vecchie
carampane artritiche!»
Charlotte scrisse diligentemente ogni consiglio, promettendo di riferirli alla sua boutique di fiducia quella sera stessa.
«Non
diventerò troppo bella? In fondo, pur accompagnando Avelan,
resto la vostra assistente. Che figura farai se tutti guarderanno me?
Tu e Clay siete i capi della “Legendary”, è su di
voi che devono restare concentrati, non sulla vostra segretaria che
accompagna un cliente» scherzò.
«Non
preoccuparti, saprò farmi valere. Ammetto che quasi
t’invidio» piagnucolò Sandy, giocherellando con un
laccio del vestito.
«Perché Avelan mi ha chiesto di accompagnarlo?»
«Sì.
Insomma, non dovrai tenerlo a bada perché alza troppo la voce o
attacca briga con un imbecille del Governo o perché va in giro
con le maniche arrotolate sopra i gomiti cercando una birra».
«Hai davvero così poca fiducia in Clayton?»
Sandy
la studiò per qualche secondo. Alcune volte aveva
l’impressione che ponesse domande non alle persone con cui
parlava ma a se stessa, in un’indagine allo specchio sui suoi
rapporti con gli altri e con il mondo.
«No,
al contrario. So che non lo farebbe mai, neppure per farmi un dispetto.
Pensa che aveva detto che si sarebbe presentato all’altare con i
pantaloni corti e quella sua orribile canottiera»
ridacchiò distratta.
«Quella con il cane?»
«Staffordshire
Bull Terrier, prego. Gliel’ho regalata io» specificò
con orgoglio, alzandosi per guardare da vicino il poster. «Mi ha
terrorizzata per tutto il mese precedente il matrimonio. Diceva che
l’uomo che avrei sposato era sudato, trasandato, sporco di unto e
ruggine, che passava le giornate sotto le scocche delle aeromobili, non
un damerino del Core, lucido di brillantina e che sapeva di dopobarba
costoso. In parecchi hanno creduto che fossi incinta: mi veniva da
vomitare di continuo per paura di vederlo davvero così. E
invece, come lo trovo in chiesa? Vestito di tutto punto, sbarbato,
lavato e profumato. L’unica concessione sono stati gli scarponi
da lavoro che aveva ai piedi, ma erano nuovi di zecca, mai messi
prima».
Schiuse
la porta e spiò fuori. Clay stava in piedi sotto al ponte due,
esteso al massimo. Teneva sulle spalle Junior, che armeggiava con un
cacciavite lungo le piastre sottoscocca di un’orrenda Duril. Gli
indicava su quali viti agire e come impugnare correttamente
l’attrezzo quando il serraggio diventava difficoltoso. Il piccolo
ascoltava e obbediva goffo, sporgendo il mento in avanti per
l’impegno.
Terminato
l’ultimo giro, padre e figlio si complimentarono a vicenda,
scambiandosi più volte il cinque. Choncho batté le mani,
inneggiando alla bravura dell’erede dei Lomann.
La
faccia dell’ex-marito era la quintessenza dell’orgoglio, di
chi vedeva sbocciare speranze e gioie tra le mani, di chi - pur
cosciente della responsabilità del proprio ruolo - sapeva vivere
quei momenti con genuina leggerezza. Era la faccia di un padre.
Sandy sorrise, ricacciando indietro una lacrima mentre chiudeva la porta.
«No, non farà il matto. Ne sono sicura. Però diamogli una mano a non farsi venire idee strane».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** L.C. - Cap. 4 ***
L.C. - Cap.4
4
«E
tu permetteresti un abominio del genere?» chiese sbigottito Hito,
la sigaretta che pendeva pericolosamente dalle labbra.
«Preferirei
anch’io limitarmi a fare lo stretto indispensabile per rimetterla
in sesto come si deve, ma ho parlato con No Way e Ozone: non
c’è quasi niente da salvare nel motore. Forse un paio di
valvole e la pompa della turbina. Il primo che l’ha comprata
l’ha sputta… l’ha distrutta almeno vent’anni
fa. Chi l’ha presa dopo era un incompetente che ha devastato il
raffreddamento e poi l’ha lasciata da qualche parte a prendere
ruggine. Il resto lo vedi da te».
Hito
si voltò verso ciò che si costringeva a definire
aeromobile, benché vi potesse ravvisare ben poche
affinità. Sentiva gli squali e le tartarughe sulle braccia
piangere a dirotto.
Le
Fortion 8.20 erano state le prime muscle-ship ad adottare il sistema ad
ala frenante integrata, un’autentica innovazione che aveva
consentito di ridurre gli spazi d’arresto di parecchie iarde.
Raggiungeva le centocinquanta miglia orarie1 in meno di otto
secondi, sfruttando una turbina a doppia gabbia in grado di compensare
gli squilibri di flusso. La potenza sviluppata dalla caldaia da
centoventi cavalli raggiungeva i centoquarantacinque una volta
compressa e filtrata dal circuito Pen-Coast.
Quello
che avevano davanti però somigliava più ad uno scarto di
sfasciacarrozze tanto era sporco, ossidato e male in arnese.
«Come si può mancarle di rispetto così? È una classica!»
Clay fece spallucce.
«Il
solito bast… idiota pieno di soldi e il culo… e affogato
in qualche droga» grugnì con una smorfia stizzita.
«Non
avrebbero dovuto permettere la vendita indiscriminata delle muscle. Non
sono aeromobili per tutti. A maggior ragione oggi»
rampognò tra una boccata e l’altra.
«All’epoca erano airship come le altre. Solo dopo hanno capito che razza di meraviglie avevano creato».
Sembrava
di parlare di tempi remoti, di un’epoca di pionieri e grandi
inventori, gente che avrebbe meritato statue davanti ai municipi o nei
parchi. Invece erano passate poche decine di anni.
«Quindi
No Way ha fatto un giro? Guarda qui, che disastro…» si
lagnò ancora Hito, additando un’ampia porzione della
fiancata sinistra, scorticata dallo sfregamento contro una parete o
qualcosa di analogo.
«Ho
visto, è davvero messa male. No Way ci ha fatto un miglio,
giusto quello che ha concesso il motore. È stato uno
strazio».
«E Scorch? L’ha vista?» chiese, espirando con cattiveria l’ultimo tiro.
«Ancora no» mugugnò, staccando una lamella di ruggine.
Hito si passò il pollice sulle labbra, dondolando pensieroso sui talloni.
«Non dirlo» lo supplicò Clay senza troppa convinzione.
«Ma sai che lo sto pensando».
***
La riunione si tenne accanto al glorioso rottame con lo staff al gran
completo, chi seduto sui tavoli da lavoro, chi su seggiole portate
dalla mensa. Charlotte, armata di blocco per gli appunti, sostituiva
Sandy, impegnata altrove in una riunione con un cliente.
«Bene,
gente. Come avete visto, ci hanno portato roba grossa su cui mettere le
mani» annunciò Clay, che nonostante il tono esaltato
mostrava un’espressione piuttosto infelice. «Si tratta di
quello che è avanzato da una Fortion 8.20 serie Althura. Una
bruttissima signorina di trentatré anni».
«Trentasei» lo corresse Charlotte, documenti alla mano.
«Ti facevo più giovane» ridacchiò Patch, scatenando il consueto coro di risolini.
Clay passò le mani sul capo rasato, inspirando profondamente
«Ragazzi,
concentratevi» brontolò, richiamandoli all’ordine.
«In sostanza, Mac Gregor ci ha rifilato un catorcio. Una vera
me… schifezza. Quel tizio ha solo una vaga idea di cosa sia. Sa
che è stata una fig… un’airship da urlo ma non si
rende conto di quanto valga».
Tutti
si voltarono, scrutando compassionevoli i resti del mito. Invecchiato
male, devastato e venduto ad un incompetente; non poteva esserci
destino peggiore.
«Scorch,
aerodinamica. Voglio almeno un paio d’ipotesi entro domattina a
pranzo. Al proprietario interessa sì e no mantenere la linea
originale, ma io la terrei buona. Non eccedere con gli studi,
perché quel rinco… riccone non ha intenzione di metterla
in pista, sarà il suo… come avevi detto?»
«Eccentrico gingillo» rispose Charlotte con un sospiro stanco.
«Eccentrico
gingillo» ripeté Clay annuendo. «La fa vedere in
giro e finita lì. Quindi deve fare colpo: spoiler, pinne di
rinforzo, carenatura nuova, bocchette su disegno… mettici tutto
quel che ti salta in testa per darle l’aspetto di
un’aeronave che possa essere sparata sulla luna, ma che funzioni
solo per tenerla in strada».
Il volto di Scorch si animò d’interesse mentre deglutiva a vuoto.
«Pensavo
ad un rialzo dietro, qualcosa di avvolgente che unisca le ali e faccia
da contorno all’abitacolo. Dovrò fare un paio di modelli.
Mi serve del polycryls» disse massaggiando pensieroso la
mascella.
«Okay.
Vai da Thompson e prendi quello che ti occorre. E dai uno strappo a
Charlotte già che ci sei, deve passare da Poulson &
Newells».
«Posso
andare con l’Omnibus, ho altre commissioni da fare»
obbiettò lei, annotando quanto appena stabilito.
«Con
Scorch fai prima, è di strada. E poi devi girare con gli assegni
in tasca, non voglio che prendi i mezzi pubblici. Dio solo sa quanto fa
schifo il servizio di vigilanza».
Almeno così Scorch è sotto controllo e non può spendere un méit che sia destinato ad altri, pensò tra sé con un moto di disgusto.
La
storia del furto inscenato dal cugino e PigTail per coprire
l’ennesima bevuta lo mandava ancora fuori dai gangheri dopo tanti
anni, redendolo sospettoso nonostante tutto.
«Di
conseguenza, Ozone, No Way, Boy, trovatele un motore nuovo e fatela
ripartire. Costruitelo se necessario. Voglio sentirla cantare come se
fosse appena stata messa in strada».
«Svuoto
il magazzino, capo! Ne metto insieme uno che alla Mahaan Vajpayee se lo
sognano» annunciò festante Boy sfregandosi le mani.
«Allora sarà un incubo» sbadigliò No Way, rischiando di cadere dal tavolo mentre si stiracchiava.
«Iron,
Choncho, Patch, Pancake. Qui bisogna verificare la tenuta di ogni
bullone, anche il più piccolo fott… foro che vi capita
per le mani deve sparire. Voglio rivedere un impalcato a regola
d’arte».
«Mettiamo
mano ai tralicci mentre aspettiamo te» concordò Iron,
rivolgendosi a Scorch. «Ho il sospetto che uno sia piegato».
«Benissimo,
ma non portatevi troppo avanti. Potrebbe servirmi spazio per gli
innesti nel terzo posteriore. Voglio i calibri di tutte le forometrie,
devo sapere dove posso passare con le linee di richiamo. Le Fortion
hanno un sistema di bilanciamento orizzontale a vasi comunicanti,
fatemi sapere in che condizioni è e la distribuzione dei
compensatori, così saprò dove rettificare
l’assetto».
«Nient’altro?» domandò ironico Pancake.
Scorch tornò a studiare la muscle-ship, stringendo le palpebre quasi a radiografarla.
«Carico
presunto ed effettivo, lunghezze, larghezze, altezze, curvature,...
Interassi esterni e delle partiture d’irrigidimento. E gli
spessori di tutti i pannelli, voglio evitare sovraccarichi. Direi che
può bastare».
Sentendolo
parlare con tanta sicurezza e precisione, pochi avrebbero immaginato in
che stato pietoso potesse ridursi. In quei momenti, Clay rivedeva la
persona che aveva ammirato nell’infanzia, il cugino più
grande che aveva chiaro in mente chi sarebbe voluto diventare da
adulto, quello con cui aveva diviso il sogno della meccanica, con cui
si era buttato nelle risse, che si era preso la colpa per una
catastrofica ammaccatura sul Drotz di suo padre. La persona di cui
erano rimasti solo trucioli a galla in un secchio di bourbon.
Era il momento meno opportuno per lasciarsi ingannare dai ricordi, Clay lo sapeva. Avevano parecchio lavoro da organizzare.
«Odrin,
telonature dello chassis e interni» riprese. «Per questi
starei sul classico, dando giusto quel tocco in più, ma mi
rimetto a te. Ricordati che Mac Gregor è uno pieno di soldi, ama
il lusso. Scegli il meglio sulla piazza, anche la cotenna di una bestia
in estinzione, se serve. Coordinati con Hito. Hito, con te siamo a
posto».
«Colore d’impatto senza renderla una barzelletta, rivettature a vista» rispose prontamente il carrozziere.
«Monocromatica?» s’informò l’Andull.
«Per
ora sì. Voglio far risaltare le linee della carrozzeria e le
masse complessive col solo colore. Al massimo una leggera sfumatura
scura dove serve. Niente decorazioni, faranno tutto borchie e fasce, ma
devo capire che casino combinerà Scorch».
«Ehi, giovanotto, io non faccio casino! E porta rispetto ai grandi» rimbeccò severo l’ingegnere.
Scherzo o meno, dopo tutto aveva ragione: era sulla soglia dei cinquant’anni, dodici più di Hito.
«Fatela
finita. Scorch, muovi il… datti da fare! Dipendiamo tutti da te.
Prima ti spicci, meglio è» sbuffò Clay strizzando
la radice del naso. «Ora a mangiare e dopo pranzo tiriamo su le
maniche, la smontiamo e la ripuliamo. Voglio vedere com’è
sotto. Avremo anche un bel budget, ma preferisco evitare
sorprese».
Stavano già incamminandosi alla mensa, quando Charlotte li richiamò indietro.
«Aspettate,
per cortesia. Ci sarebbe un’ultima cosa» e mostrò
loro un ingombrante barattolo di vetro. «Spero vi piaccia,
perché vi farà compagnia per un po’».
Gli
sguardi interrogativi dello staff passarono dalla sua espressione
serafica a quella affranta del titolare, che annuiva a capo chino.
«Ecco…
sì, è vero. Quello. Dunque, hanno chiamato dalla scuola
di Junior, l’altro giorno» cominciò a raccontare,
passando nervosamente una mano sulla nuca. «Pare che durante la
ricreazione gli sia scappata qualche parolina di troppo mentre litigava
con i compagni e le insegnanti l’hanno sentito. E anche qualche
inserviente. E un paio di genitori che erano lì per caso. Sandy
voleva spellarmi vivo».
«E che cazzo sarà mai, per due fottute parole» commentò Choncho.
Charlotte si schiarì educatamente la voce.
«Proprio
parole di questo tipo, Wilmar. Parole inadatte a bambini di otto anni,
specialmente a scuola. Per cui, se non le spiace, lei sarà il
primo» e gli allungò il contenitore.
«Il primo?» chiese, fissando accigliato il vetro.
«Due méit per ogni volgarità pronunciata. Cinque se in presenza di bambini» spiegò.
«Mi stai prendendo per il culo?» strillò il meccanico strabuzzando gli occhi.
«Siamo già alla seconda donazione» proseguì affabile, indicando l’apertura nel tappo.
Tutti
scoppiarono a ridere. Per Choncho quelle non erano invettive ma
semplici intercalare, né più né meno dei respiri,
nella sua testa avevano perso la connotazione di insulti. Ora era
chiaro perché Clay aveva continuato a correggersi: essendo
già al corrente del piano, aveva dovuto essere il primo ad
adeguarsi.
«Bravo coglione, dinne un’altra!»
«Jessie?» chiamò la donna. «La tua sarà la terza».
«Cosa? Non ho detto un cazzo!»
«Terza
e quarta, allora. Prevedo che ne occorrerà un altro molto
presto, di questo passo» commentò, scrutando nel contempo
Clay con la coda del’occhio.
Il
capofficina guardava la volta del capannone, serrando a viva forza le
labbra. Per quanto l’imposizione fosse sacrosanta con i suoi
figli che andavano e venivano dalla “Legendary”, sentiva
che il lavoro stava per subire una svolta al peggio. Impedire ai
ragazzi d’imprecare secondo necessità avrebbe reso ogni
cosa più complicata: non immaginava come avrebbero sfogato gli
scatti d’ira che costellavano le attività.
«Posso chiedere come verranno impiegati i fondi raccolti?» chiese Hito.
«Sapone
per la lingua?» azzardò lei, fulminando con lo sguardo
Choncho che mordeva i pugni per non riprendere a bestemmiare.
«Quanto verrà raccolto troverà impiego alla fine
dell’anno. Decideremo allora se utilizzarlo per l’officina
o altro. Anche se, sinceramente, pensavo ad una donazione».
«All’“Archituono”,
vero? Una bella donazione a chi si occupa di tenere alto il morale dei
lavoratori!» propose Pancake entusiasta, immaginando quanti - e
quali - piatti avrebbero potuto ordinare.
«Pensavo a qualcosa di più onorevole come la beneficenza» chiarì la segretaria.
«Beh,
i baristi fanno beneficenza a loro modo. Offrono sempre qualcosa ai
clienti più fedeli. Vero, Scorch?» sogghignò Patch,
fingendo di prenderlo a gomitate sullo stomaco.
L’ingegnere
gli assestò uno scappellotto ridacchiando, ma diversi sguardi di
biasimo lo obbligarono ad un atteggiamento più composto.
***
Agganciare il paranco al corpo della Fortion rappresentò
un’autentica sfida. La ruggine aveva reso estremamente fragili
gli occhielli ventrali destinati alle barre di sollevamento ed il
rischio che si spezzassero al primo scossone era altissimo. Inoltre,
dopo un’ispezione sommaria, Iron e Patch si erano accorti che ad
alcuni dei tralicci del pianale portavano segni evidenti di un
incidente, che ne aveva deformato la linea, incurvandoli verso
l’interno.
Patch,
Clay, Iron e Pancake erano in circolo attorno all’aeromobile, le
facce di chi sta per avere una crisi di nervi. Choncho soppesava una
grossa chiave a cricchetto, indeciso se abbatterla sul mezzo per dargli
il colpo di grazia o usarla per strapparsi i denti ed evitare di
proferire una sola altra parola: aveva già messo un intero trias
nel barattolo anti-scurrilità.
L’unico
entusiasta era Scorch che, chiamato a verificare la possibilità
di salvare le strutture, stava da due ore con la testa infilata tra i
correnti, armeggiando con calibri, torcitori e tabelle, mentre gli
altri si arrovellavano sul come spostare la muscle-ship.
«E se usassimo il carrello?» propose Pancake.
«Cosa intendi?» domandò Clay, intento a sistemare la fasciatura sul gomito.
Dondolando come un pinguino, il meccanico si accoccolò accanto al telaio.
«Beh,
abbiamo visto che non si riesce a sollevarla, no? Però il
carrello con cui l’hanno portata è nuovo. Se cominciamo a
sganciarlo dalla base, togliamo le sponde e i pannelli che non servono,
resta solo la slitta. E a quella possiamo attaccare i golfari per
tirare su tutto» spiegò indicando i fori di alleggerimento
delle longherine.
Per
qualche istante il gruppo valutò l’opzione, chi solo a
mente, chi tastando le parti del carrello per saggiarne la resistenza.
Tutti concordarono che fosse decisamente la soluzione che faceva al
caso loro.
«Allora
non sei fatto solo di grasso, fratellino. C’è ancora
qualche neurone funzionante qui dentro!» rise Iron, strizzando il
ventre prominente dell’altro.
«Senti un po’, culo da papera…» cominciò a inveire.
«Occhio, Pancake. Salterai le prossime merende se devi pagare pegno come Choncho!» sghignazzò Patch.
Affatto
indispettito, il collega tirò fuori da una tasca dei pantaloni
un involto spiegazzato di carta oleata, da cui prese alcuni pezzi di
frittelle scure e mollicce. Impossibile dire se avessero un gusto in
particolare oltre all’unto e al bruciaticcio.
Lo
fissarono ammutoliti masticare a bocca aperta, gongolando compiaciuto.
Iron prese a racimolare chiavi e pistole pneumatiche, cominciando a
smontare il carrello per evitare di rimettere il pranzo e aggiungere
ulteriori danni alla Fortion.
Le vibrazioni e i ritmici frullii dei compressori costrinsero Scorch a concludere i riscontri.
«Puoi
levarti dai piedi? Abbiamo da fare, qui» lo punzecchiò
Patch, vedendo con quanta lentezza scendeva dal mezzo.
Teneva
un paio di matite fra i denti e gli strumenti appesi ad ogni passante,
asola o risvolto dei vestiti, meno che alla cintura portattrezzi.
«Eh?
Sì, sì. Ottimo, ottimo. Veramente ottimo»
bofonchiò, continuando a scorrere le pagine stropicciate mentre
s’incamminava verso il suo studio.
«Scorch?» chiamò Clay.
L’ingegnere
si voltò sorridendo e levando in alto il pollice, annunciando
che aveva grandi idee e stava andando a fare acquisti. Sembrava
un’altra persona.
***
La North Avenue era un susseguirsi di alti palazzi di vetro e mattoni,
ben distanziati dalle carreggiate attraverso ampi marciapiedi e aiuole
fiorite in ogni stagione dell’anno. Al piano terra, un nastro
infinito di vetrine dai bordi d’ottone appena lucidato tentava
d’irretire i passanti.
Il
Qantarico con le insegne della “Legendary Customs” era
additato allegramente dai monelli di strada che l’inseguivano per
brevi tratti, imitandone il rombo. Anche molti uomini
l’adocchiavano, simulando interesse per l’imponente logo
quando invece si rifacevano gli occhi sulle curve di Sandy, stesa come
una conturbante dea lungo la fiancata scarlatta di una Plithren Vhon.
Un’aria frizzante entrava dal finestrino del conducente, sfrigolante dei riverberi del sole.
«Bella giornata per un giretto, vero?» disse Scorch, tentando di levarsi i capelli biondi dagli occhi.
Charlotte non rispose, limitandosi a tenere lo sguardo sulla strada.
«Insomma,
siamo ai primi di aprile e di solito non c’è tutto
questo… bello» ridacchiò indicando il cielo,
sentendosi un cretino per l’incapacità di trovare termini
meno puerili.
Gli risposero le fusa dei sei cilindri del Qantarico.
«Andiamo, Charlotte, per piacere… sto cercando di fare conversazione. Mi aiuterebbe se partecipassi».
«Non ho nulla da dire, Ingegner Almgren».
«Comincia
smettendo di usare quel titolone. Ti ho detto un milione di volte che
preferisco mi chiami Niklas. O Scorch, come gli altri» le
rammentò, facendo l’occhiolino.
«È una richiesta che non mi sento di avallare» replicò piatta.
Seguitava ad ignorarlo, a tenere una barriera fra loro.
«Non mi sembra una cosa tanto assurda, visto che stiamo insieme tutto il giorno» osservò rallentando.
La
intravide serrare la presa sulla borsa che teneva in grembo, quando si
accorse che il Qantarico aveva accostato e si stava posando a terra.
«L’ufficio
di Poulson & Newells è più avanti. Arriverò in
ritardo all’appuntamento» fece notare seccata.
L’autista
indicò i tavolini della gelateria “Lucky Pinwheel”,
affollati di gente intenta a prendersi una pausa con le deliziose
specialità del locale. Gli avventori sfoggiavano grandi sorrisi
gioiosi tra bicchieri e cucchiaini colmi. Nelle fioriere, girandole
smeraldine vorticavano spinte da soffi di vapore emessi da ugelli
nascosti tra le piante.
«So
benissimo dov’è, ma ora ci fermiamo, prendiamo posto
laggiù, ordiniamo e parliamo» propose, sistemando
sommariamente la capigliatura arruffata. «Ti va un po’ di
torta? Una charlotte, magari? Quella di more e mandorle che fanno qui
è la fine del mondo. Ne prendiamo una fetta e parliamo. Io e te,
Charly. Parliamo solamente, come farebbero due buoni amici»
ribadì, accompagnandosi con cenni cauti.
Charlotte negò, trincerata dietro la borsa.
«Senti, sto cercando di rigare dritto e vorrei dimostrartelo. Non voglio che tu ce l’abbia con me».
Finalmente,
la donna si risolse a guardarlo in faccia. Sarebbe stato meglio per lui
aver evitato d’insistere: dietro gli occhiali c’erano iridi
di ghiaccio bruno.
«Non dovrei?» domandò tesa.
Occorse
qualche istante prima che l’uomo riuscisse ad articolare una
risposta. La frustrazione percepita nella domanda l’aveva colpito
dritto allo stomaco.
«Senti, lo sai che… insomma… perché vuoi darmi la colpa?» protestò offeso.
Tuttavia, le silenziose accuse della segretaria proseguirono.
«Smettila
di guardarmi così. Io non ho fatto niente! Forza, andiamo»
la incitò, additando di nuovo il “Lucky Pinwheel”.
Almgren
notò che la mano gli tremava per il crescente nervosismo.
Proprio non capiva cosa non andasse in quella donna, perché lo
trovasse tanto insopportabile. E quando dovette fronteggiare
l’ennesimo muto diniego, sentì d’essere prossimo a
perdere le staffe.
«Piantala di fare la difficile» le intimò a sottovoce, facendole una carezza.
«Mi tolga le mani di dosso» sibilò ritraendosi.
«Non ci penso neanche!» e per ribadirlo le prese il viso tra le mani, facendola voltare ancora verso di sé.
«Non mi tocchi!» strillò, cercando di spingerlo via.
«Finiscila, Charly!»
Nel
tentativo d’allontanarlo, Charlotte gli graffiò
l’occhio sinistro. Il bruciore improvviso bastò a fargli
perdere la presa, concedendole il tempo per sganciare la cintura di
sicurezza e agguantare lo sportello. Scorch l’afferrò per
il braccio, allungandosi sul sedile per trattenerla.
«Fermati!» gridò.
Liberatasi
dalla stretta, balzò giù. Raggiunse il marciapiede
incespicando nelle basse siepi dell’aiuola, incurante dei
passanti sorpresi e delle commesse che spiavano dalle vetrine. Si
fermò per una manciata di secondi, appoggiandosi alle ginocchia
mentre traeva profondi respiri, prima di dirigersi lentamente verso
Berlis Road.
«Charly, dove vai?» urlò l’ingegnere.
Diede un pugno alla plancia, raddrizzandosi di scatto, il respiro corto e la gola riarsa.
«Cazzo,
Charly!» ruggì, strattonando furibondo le cinture di
sicurezza che, in combutta con la segretaria, rifiutavano
d’aprirsi.
Non
poteva permetterle di andarsene, non a quella maniera. Il timore che
dicesse a Clay che l’aveva molestata anziché accompagnarla
nel suo giro di commissioni gli fece andare il sangue alla testa.
«Stupida puttana!» ringhiò rivolto alla cinghia quanto a Charlotte.
Smise
di lottare per sporgersi quanto poteva dal finestrino, incurante
dell’Omnibus che gli passava accanto, sferragliando a
velocità sostenuta.
«Maledizione, Charly, vieni qui!» urlò con quanto fiato aveva.
Vedendola
fermarsi, Scorch pensò con sollievo sarebbe tornata indietro,
arrabbiata ma pronta a dargli la possibilità di appianare tutto,
di ricominciare, esattamente come Clayton. In fondo, era una donna come
le altre e le donne perdonavano gli uomini per istinto materno o
sfinimento.
La guardò voltarsi, impettita sullo sfondo di marmo bianco e rame ossidato della Bank Of Industries.
Continuando a litigare con le sicure, Scorch le rivolse un sorriso aspro che lei non replicò.
«Io non mi chiamo Charly» scandì piano.
1150 miglia orarie = 240 Km/h
Writer's Corner.
Di solito non lo faccio, ma ogni tanto ci vuole. Un rigraziamento a chi sta seguendo questo storia, in primis Shade Owl (che ha anche commentato) e _ivan,
miei fedelissimi soci e critici! E di seguito a Wild_Demigods e Akainu
Magma, che si sono appuntati la storia e di cui spero di ricevere il
parere. Il loro e di chiunque altro voglia esprimersi e che al momento
si limita a leggere. Grazie mille e alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** L.C. - Cap. 5 ***
L.C. - Cap. 5
5
Un
improvviso biancore divampò nei suoi occhi, bruciante e
violento, facendolo contorcere in cerca di un riparo. Non ricordava
dove si trovasse, né quando o perché ci fosse arrivato;
nella sua testa vorticavano numeri, formule e forme, che si
sovrapponevano senza soluzione di continuità in ammassi
mostruosi di dati animati. Strizzò le palpebre gemendo,
scoprendo una macchia indistinta e profumata immobile nel variopinto
caleidoscopio che gli danzava intorno. Con enorme fatica riconobbe una
tazza di caffè.
«Servizio colazione in ufficio, ma non ti ci abituare» fece una voce.
Riuscì
a mettersi seduto quasi composto, a dispetto dei muscoli della schiena
e del collo che gridavano vendetta. Un improvviso riflusso acido gli
rese evidente quanto fosse amara ed impastata la bocca.
Clayton
era appoggiato alla finestra, con un altro caffè tra le mani. La
luce del sole inondava la stanza, indicando che il giorno era iniziato
da un pezzo.
«Grazie» sospirò Scorch artigliando la tazza bollente.
Aveva disperatamente bisogno di cancellare lo schifo che aveva sulla lingua.
«Da quando ti fermi a dormire qui?»
«Non
me ne sono neanche accorto. Ero sfinito» sbadigliò
sonoramente. «Cazzo, mi sembra di essere No Way, comincio ad
addormentarmi ovunque» soggiunse passando le mani sulla faccia,
alla ricerca di un po’ di lucidità.
«Charlotte me l’ha detto».
La frase gli gelò il sangue nelle vene, immobilizzandolo con la seconda sorsata di caffè a mezz’aria.
«Quando
è arrivata stamattina si è accorta che la porta del tuo
ufficio era aperta e tu eri qui a ronfare della grossa. Dato che era
presto ha preferito non svegliarti».
«Non
l’ho nemmeno sentita uscire ieri sera» sviò
sollevato, nella speranza che il discorso terminasse lì.
«Dubito
ti avrebbe disturbato» proseguì l’altro,
scatenandogli un brivido lungo la schiena. «Da quando è
arrivata non ti ha mai visto così preso. È abbastanza
intelligente da capire quando deve girarti alla larga».
«Già,
certo. È in gamba la nostra Charly. Charlotte» si
corresse, quasi avesse timore d’essere ripreso per una
banalità come un diminutivo.
Perché diavolo lo odierà tanto, poi. È un nome come un altro e almeno il suo non ricorda niente di brutto, pensò irritato, grattando i palmi sfregiati contro il bordo della scrivania.
«Scorch?»
L’uomo alzò lo sguardo, sorprendendosi appena dell’espressione torva del cugino.
«Hai bevuto?»
Niklas
seguì il suo sguardo fino alla bottiglia mezza vuota posata a
terra. Da quel che ricordava, la sera prima aveva ancora il sigillo
della distilleria appiccicato al tappo. L’idea di versarne una
generosa dose nel caffè non gli dispiacque affatto e si
chinò a raccoglierla senza pensarci due volte.
«Giusto
un goccetto» mentì aprendola, per poi specificare:
«Non ho mai detto che avrei smesso. Solo che mi sarei dato una
regolata».
«Lo so».
«Non
rompere i coglioni, Clay, so quel che faccio» ringhiò,
sollevando la bottiglia dopo aver versato meno liquore di quanto
desiderasse.
Aveva
pochissima voglia di litigare, e ancor meno di sentire l’ennesima
tirata sul perché non avrebbe dovuto attaccarsi alla bottiglia
ogni volta che gli andava.
Il
breve silenzio fu attraversato da una fiumana di pensieri, gran parte
dei quali tutt’altro che gentili o accondiscendenti. La durezza
d’orecchi e di comprendonio di Scorch era proverbiale, quasi
stoica, lo stava dimostrando anche in quel momento.
«Ho
visto che hai finito con quell’affare» disse infine Clay,
decidendo fosse più saggio lasciar perdere.
Un sorriso tirato curvò le labbra dell’altro.
«Paraboloide
iperbolico con generatrice cuspidata, signor capo Lomann»
ribadì fiacco, scrocchiando le nocche di una mano mentre con
l’altra reggeva la colazione. «E la trovata dei tralicci a
doppio arco orizzontale? Piaciuta?» domandò, tornando a
sfoggiare un’inusuale allegria, dovuta più alla nota
alcolica del caffè che ad autentica soddisfazione.
«Sì»
ammise, senza riuscire a nascondere una certa ammirazione. «Da
dove cazzo l’hai tirata fuori?»
«Le
Fortion hanno sempre avuto un grosso problema di termini di
rigidità dello scafo, dovuta proprio al sistema costruttivo del
pianale. Sono ingestibili nelle curve strette, poco manovrabili oltre
determinate velocità e soprattutto con condizioni meteorologiche
avverse. Quell’incidente è stato illuminante» e
così dicendo balzò in piedi, dirigendosi alla lavagna
appesa alla parete.
Afferrò
il gessetto e prese a rimarcare le centinaia di linee che aveva
tracciato sullo schema dell’aeromobile nei due giorni precedenti,
sovrapponendovi altri segni e frecce.
«Bastava
rendere più elastico il telaio interno, sagomando i tralicci e
accoppiandoli in modo da assorbire e ridistribuire le torsioni lungo
l’intera lunghezza. La banale, efficiente curva a
catenaria» dichiarò con orgoglio.
Se
ci si fosse limitati ad ascoltarlo parlare con quel tono, lo si sarebbe
potuto scambiare per un docente universitario, di quelli tronfi e
verbosi che passavano la vita ad annoiare gli studenti, ma guardandolo
si faticava a credere persino che avesse frequentato le scuole di base.
L’aspetto trascurato, i capelli di un biondo spento per via delle
ampie ciocche bianche, le rughe attorno agli occhi e quelle orrende
cicatrici sulle mani e sul petto lo facevano somigliare ad un profugo o
ad un reduce della Guerra dei Due Canali.
«Sei certo che funzionerà?»
«Chi è l’ingegnere qui dentro?» rimbrottò.
«Intendo dire…»
«Lo
so cosa vuoi dire» latrò. «Sì, starà
su, terrà la strada e non andrà in pezzi alla prima
sterzata. Finiscila di cagarti sotto ogni volta che metto mano ad un
progetto strutturale. Mi offendi. E mi fai girare i coglioni»
aggiunse puntandogli contro il gessetto.
«Scorch?»
«Che c’è?» sbuffò dandogli le spalle, fingendo di correggere una delle frecce.
«Spiegami un’altra cosa».
«Sarebbe a dire?»
«Perché stai qui con l’uccello al vento?» chiese da dietro la tazza di caffè.
Niklas
abbassò lo sguardo: la camicia ciondolava nel vuoto,
spiegazzata, coprendo a malapena le sue vergogne. Nessuna traccia di
pantaloni, mutande o scarpe. In compenso aveva ancora un calzino, liso
e bucato, ma ancora al suo posto.
«Oh, porca puttana… »
«Che
razza di rincoglionito. Si vede che stai invecchiando.
Cos’è? Per festeggiare i tuoi colpi di genio adesso ti
ammazzi di seghe come Boy?» ridacchiò Clay, indicando un
groviglio di indumenti sotto la scrivania.
«Senti
un po’, stronzetto, parli come uno che la sa lunga su queste
cose. Mi sa che quei calli non sono tutti da chiave e saldatore»
replicò sullo stesso tono, infilandosi sotto lo scrittoio.
«Gira quel culo da un’altra parte! Non voglio vomitare la colazione».
«Sei
invidioso perché io un culo ce l’ho, caro il mio
“brache vuote”!» rise, ricevendo all’istante
una pedata che lo mandò a faccia in giù sul pavimento.
«Ehi, lì ci sono le mie palle!»
«Vaffanculo, Scorch. Tu e le tue puttanate» sghignazzò il capofficina.
Una rabbiosa raffica di macchina per scrivere li fece ammutolire. Avevano completamente dimenticato di non essere soli.
«Prega
che non ci abbia sentiti, o dovremo andare di sotto»
mormorò l’ingegnere, tentando di trovare il verso giusto
per infilarsi i pantaloni.
Alla biancheria avrebbe pensato dopo.
«Io non ho detto o sentito niente di strano» bisbigliò Clay, levando innocente le mani.
La voce della segretaria li raggiunse, ovattata ma distinguibile attraverso la parete.
«Spiacente ma non sono sorda».
Prima
che potessero anche solo domandarsi come avesse fatto a sentirli, la
donna bussò sul divisorio, facendo dondolare appena alcune delle
foto che vi erano appese.
«Balloon
frame. Passa tutto» rispose tranquilla. «Appena
l’Ingegner Almgren sarà presentabile, siete pregati di
effettuare i rispettivi pagamenti: dodici méit il signor Lomann;
sedici lei, Ingegnere. Grazie».
***
Choncho era chino sotto la Fortion, riversando nella canottiera sporca
che stringeva fra i denti tutti gli insulti che conosceva. Una parte
esigua era rivolta a Scorch ed alle sue stramaledette illuminazioni,
che gli stavano costando un mal di schiena come raramente ne aveva
sofferti.
Sostituire
le travature dello chassis, liberandole dai vecchi bulloni arrugginiti
una alla volta e riposizionare subito quelle nuove per non creare
dissesti all’intera orditura, era un lavoro da pazzi furiosi.
Quindi perfetto per lui.
Tuttavia,
la parte più cospicua delle imprecazioni era indirizzata ad
un’altra delle figure che abitavano il soppalco. Nelle prime
quarantotto ore di presenza del ribattezzato
“Penitenziere”, sul totale dei cinque trias e settantotto
méit versati, ben quattro erano suoi. Uno sproposito.
«Andiamo,
finiscila» ridacchiò Odrin, intento a rimuovere i supporti
del sedile posteriore, che giaceva smembrato poco lontano.
Lo sforzo era tale che il sudore faceva luccicare i tribali bianchi che ricoprivano l’intera parte sinistra del suo corpo.
«Finiscila?» ruggì, dandosi una spinta per uscire. «Quella stronza maled…»
Il resto degli insulti finì seppellito nella canotta lurida.
«Abbiamo
capito, va bene. Adesso datti da fare» lo riprese Iron, spostando
la pistola pneumatica da una mano all’altra.
«Stavolta
ha esagerato. È una pretesa assurda!» bofonchiò
Pancake, la faccia sprofondata in una grossa e macilenta frittella
grondante quello che poteva essere caramello o lubrificante, i piedi
che si muovevano delicati sulla pedaliera dei martinetti.
Pochi rapidi colpetti e le teste dell’attrezzo andarono a riposizionarsi sotto il traliccio appena imbullonato.
«Però
ammettiamolo, non ha tutti i torti. Se Junior passa dei guai
perché ci imita, dovremmo darci una regolata. Non è una
buona cosa che un bambino parli come noi» fece notare Clayton
sollevando la maschera.
La luce azzurrata del cannello da taglio colorava la faccia madida di sudore. Il parabocoso
di Scorch poteva essere pure un’invenzione strepitosa, ma era
dannatamente complicato da tradurre in una struttura metallica.
Il
modello in polycryls che Scorch aveva ultimato quella notte era
appoggiato su un banco, un enorme lumacone ricurvo, attraversato da
linee d’inchiostro, annotazioni di diametri e distanze. Clay
trovava che non avrebbe sfigurato in una di quelle bislacche gallerie
d’arte zeppe di cianfrusaglie di dubbio gusto e avanzi di
discarica che Sandy amava frequentare.
Merda d’artista, pensò sarcastico.
Spense
l’attrezzo e lo gettò sul carrello con un moto di fastidio
per l’appellativo che aveva appena usato. Gli costava ammettere
di non essersi mai reso conto della china che Junior aveva imboccato
frequentando l’officina. Detestava gli affibbiassero
l’etichetta del maleducato a causa delle pessime maniere sue e
dei ragazzi, e ancor di più l’idea di impedirgli
l’accesso alla “Legendary” proprio ora che sembrava
sviluppare un discreto interesse verso la meccanica.
Choncho era di tutt’altro avviso e non tardò ad esternarlo.
«Non
difenderla! È una segretaria, cosa cazzo ne sa di come cazzo ci
si comporta qua dentro? Ha mai alzato qualcosa di più pesante
delle sue fottutissime cartellette? No. E allora deve stare zitta,
porca puttana!»
«Il
P-P sono due parole, quanto vale? Doppio?» domandò ironico
Pancake, che si era arrogato il compito di tenere i conti dei colleghi.
Era
il solo a poterselo permettere: avendo la bocca costantemente impegnata
a masticare, le scurrilità si limitava a pensarle.
«Ha
ragione! Lei non metterà un méit là dentro! Non
tira giù una parolaccia che sia una! Ne spara di più
Ozone, ed è tutto dire» rimbrottò Boy, rovistando
nel vano motore alla ricerca dei connettori.
«Su questo hai ragione. Santo Cielo! Per carità! Accidenti!» convenne Iron, imitandola.
«Attento. Quella ha orecchie ovunque! Prima ho sbattuto contro il carrello e mi è partito un vaiafarecosasoioedovesoio e quando sono andato a bere in cucina, lei mi ha gentilmente ricordato che avevo un versamento da fare».
I compagni si scambiarono smorfie eloquenti.
«Jack,
guarda che ti abbiamo sentito tutti» ansimò Odrin che,
ancora puntellato sui divisori interni, insisteva nel tirare una barra
trasversale particolarmente robusta.
Ormai era talmente madido che i tatuaggi sembravano guizzare come serpenti sulla pelle color carbone.
«Urlavi così forte che hanno tremato i vetri» soggiunse.
«Charlotte
ti avrebbe sentito anche se fosse stata a Les Huteures» convenne
Clay, passando un braccio sulla fronte prima di verificare il taglio
appena fatto.
La
Fortion poteva essere ridotta un macello, ma il materiale con cui era
stata prodotta dava comunque del filo da torcere agli attrezzi
più potenti: l’apertura che aveva praticato era ridicola,
uno sputo se paragonata a quella che avrebbe dovuto ottenere per far
passare il corrente centrale del nuovo elemento.
«Non
me n’ero accorto. Come non detto, allora» rispose No Way,
tornando ad accoccolarsi accanto all’accumulatore.
«Cos’è?
Dormi anche da sveglio, adesso?» ridacchiò Pancake,
dandogli una lieve scossa con la vite che stava proprio sotto di lui.
«Spiritoso, Bidone» bofonchiò mostrandogli il medio attraverso lo buco lasciato dal pannello laterale appena rimosso.
«Sentite,
dobbiamo fargliela pagare» propose Boy, verificando quanto fosse
mal messo un tubo e buttandone un altro paio traforati dalla ruggine
nella cesta dei rottami.
Era
impressionato dalla quantità di materiale irrecuperabile che
stava estraendo dallo scafo ed era convinto che a Ozone non avrebbe
fatto piacere tutto quello scarto. D’altra parte, stavano
lavorando su un relitto, non su un mezzo appena uscito dalla fabbrica.
«Sentiamo
un po’ ragazzino, come? Non riusciremo mai a smettere di parlare
o a non farci sentire!» gli fece presente il capofficina.
Dopo una rapida occhiata intorno, Boy balzò giù dalla pedana, sbracciandosi per far avvicinare tutti quanti.
«No, questo no. Ma possiamo farla incaaavolare fino a fargli dire qualcosa che non vuole dire» mormorò.
Sguardi ironici, smorfie indulgenti di chi ha di fronte un emerito imbecille.
«Sarebbe
questo il tuo piano geniale? Farla arrabbiare? Dio, com’è
che non c’ho pensato prima?» chiese astioso Patch, tornando
alla curvatrice che borbottava in attesa di calare su una decina di
tondini da un quarto di pollice.
Quello
sarebbe stato solo il primo passaggio; successivamente Patch avrebbe
dovuto mettere mano al vecchio metodo dei fabbri ferrai per tramutarli
nelle nervature del paraboloide, con continue verifiche del singolo
pezzo prima del posizionamento finale e della saldatura. Proprio non
aveva tempo da perdere con quel marmocchio.
«Pensateci
un attimo. Se lo fa anche lei che non lo fa mai, possiamo ricattarla.
Una sua parolaccia vale più delle nostre. Un trias pieno,
direi» insisté sghignazzando.
«Ragazzino,
va a farti sturare il cervello con un piantone elicoidale. Tu e le tue
idee del cazzo» sbadigliò Jack, mettendo la testa fuori
dallo squarcio nella fiancata.
«Due per No Way» rise Pancake.
«Fanculo,
io ci sto!» esclamò Choncho, gettando a terra la chiave e
aggiustandosi la bandana sul capo con fare combattivo.
«E
se lo viene a scoprire Maria Pilar? Passerai guai doppi» fece
notare Clay, sventolando i guanti nella speranza che vi penetrasse un
minimo di frescura prima d’infilarli.
«Fottiti,
capo. Voglio parlare come cazzo mi va, e se non me l’ha impedito
mia madre figurati se può farlo quella carogna. Quando si
comincia?»
«Altri sei, Choncho» annotò Pancake, succhiando le dita impiastricciate.
«A
f-fare c-cosa?» balbettò il ragazzo, cercando di fargli
cenno di tacere e risalendo sulla piattaforma allo stesso tempo.
«Ma
che… come cosa? Hai detto che dobbiamo farla incazzare! Deve
bestemmiare così tanto che i muri di Nostra Señora de la
Merced devono venire giù in tante fottutissime briciole!»
sbraitò girando attorno alla Fortion per raggiungerlo.
«Ho capito! Adesso smettila!» bisbigliò a denti stretti, indicando con la testa verso gli uffici.
«Choncho vai a lavorare. Smettila di perdere tempo!» intervenne Iron alzando la voce.
«Vi siete rincoglioniti tutti?» esclamò il meccanico irritato.
I
presenti fecero impercettibili segni di diniego, le gole che
deglutivano a vuoto sotto le mascelle contratte. Odrin mimò con
la mano di tagliare immediatamente il discorso, Pancake gli
offrì una frittella già addentata.
«Ma che cazzo avete?»
Patch
gli assestò un calcio nello stinco che lo fece ululare di
dolore. Clay l’agguantò appena in tempo per tappargli la
bocca, prima che ricominciasse ad eruttare volgarità.
Charlotte
stava passando lungo il ballatoio, di ritorno dalla mensa dopo la pausa
di metà mattina. Sebbene non li avesse degnati di uno sguardo,
capirono dalla camminata rigida e dall’espressione accigliata che
aveva sicuramente udito ogni sillaba.
***
No Way perse qualche secondo per rimirare il muso scanalato della sua
Aries che luccicava nella rimessa, la caldaia che mandava gli ultimi
sospiri dopo la lunga accelerazione su una Via del Corso completamente
deserta. Buttò la giacca sulla spalla e portò due dita al
berretto, in un saluto affettuoso e carico di rispetto.
Varcò la porta della cucina in punta di piedi, tendendo l’orecchio. La casa era silenziosa e scura.
Sul
tavolo, protette da un tovagliolo di cotone, due fette di polenta
fredda e taleggio. Pur avendo mangiato un boccone
all’“Archituono” insieme agli altri come prescritto
nelle uscite del mercoledì, Jack non si tirò indietro.
C’erano tradizioni di famiglia cui si doveva sottostare sempre e
comunque, e una prevedeva che gli uomini di casa concludessero la
giornata con quel piatto.
Inoltre,
dopo aver passato ore a sonnecchiare nel calore soffocante della
Fortion, tentando di comprenderne le evoluzioni circuitali, un piccolo
extra non guastava affatto. La mattina dopo avrebbe dovuto tracciare
l’andamento delle nuove linee di comando e la cosa avrebbe
richiesto tempo ed energie.
Masticò
piano, seduto composto come fosse ad una cena di gala, scacciando dalla
mente le incombenze dell’officina: a casa come
all’Archituono valeva la stessa regola, cioè non si
parlava o pensava del lavoro.
Lasciò
le stoviglie nell’acquaio e recuperata la giacca, si diresse in
soggiorno. Nell’immensa stanza, volti sorridenti lo salutarono
dalle cornici sparse tra soprammobili e centrini di pizzo sparsi
ovunque. Uomini felici ed orgogliosi, famiglie in pose composte,
ricordi di giornate di festa, rese eterne dall’albumina e dagli
inchiostri colorati.
Giuseppe Balzaretti dormiva sulla poltrona, le gambe magre avvolte in una pesante coperta.
«Ehi» chiamò sottovoce Jack, scuotendolo delicatamente.
L’anziano sussultò, scrutando con occhi cisposi la stanza fino ad incontrare il volto del meccanico.
«Giacomo. Ta se’ riàt1» biascicò, stringendo la mano ossuta attorno a quella del giovane.
«Sì, nonno, sono arrivato. Che fai qui?»
«Eh, non c’avevo sonno. Guardavo l’aggeggio» e indicò la superficie vuota del dinamoschermo.
«Certo. Infatti stavi ballando il wiggy-bit con Susanna Ranieri-May» ridacchiò, aiutandolo ad alzarsi.
La
presentatrice italo-coloniale di “MiaBellaTerra” era la
beniamina di Giuseppe, che non perdeva una sola puntata del programma
con la scusa di poter vedere immagini e riprese della terra natia.
Raggiunta con esasperante lentezza la scala, il vecchio diede un colpetto sul braccio al nipote.
«Susanna» sussurrò strizzandogli l’occhio.
«Eh?» chiese Giacomo, presagendo dove stesse per andare a parare.
«L’è prope n’a bèla zùena2» ammiccò, serrando le mani su inesistenti, basse rotondità.
Jack scosse il capo, arreso agli slanci amorosi dell’attempato seduttore.
«Se
ti sente la nonna! Ma mica glielo diciamo che lei è più
bella di Susanna. La facciamo ingelosire un po’, ci stai?»
rise stando al gioco. «Però due salti in pista con Susanna
li farei» e accennò un passo di danza canticchiando.
Il
vecchio annuì, mimandone una versione più rigida e
impacciata. Giacomo rise, sperando che la nonna dormisse o non avrebbe
lesinato sulle rampogne anche se era quasi mezzanotte.
«La ta piàs?3»
«Insomma. Non è male».
«Po a me la ma piàs4» ribadì con una risatina.
«Nono, fa sìto docà! Ta pìset!5» lo sgridò bonariamente, faticando a sollevarlo sui gradini.
L’osservazione
indispettì l’anziano, che lo minacciò agitandogli
l’indice risecchito sotto al naso. Il nipote lo fissò
arreso.
«Cosa?»
«Eh?»
«Cos’è questo? Cosa volevi dire?» domandò imitandolo.
Giuseppe guardò il dito, accigliandosi in attesa che rispondesse al posto suo.
«Ma sa regorde piö6» rispose quieto, dimentico dell’insinuazione fatta pochi attimi prima.
Giacomo
gli cinse le spalle col braccio, per nascondere il dolore crescente che
quelle scene gli provocavano. Secondo i medici, era normale che a
settantacinque anni cominciasse a perdere la memoria, che con la vita
che aveva condotto per decenni non c’era da meravigliarsi che la
testa cominciasse a rallentare e a perdersi nei ricordi. Negli ultimi
tempi però il declino sembrava aver ingranato la sesta. Nemmeno
un mese addietro l’aveva chiamato Francesco, chiedendogli se era
felice del fatto che entro breve avrebbero passato l’oceano per
raggiungere le Colonie Atlantiche. Non ricordava d’aver compiuto
quella traversata immane cinquant’anni addietro e che
all’epoca suo padre aveva sì e no due anni. Era penoso.
«Allora
non era importante. Dai, è tardi e io domani lavoro, non sto a
letto come te ad aspettare Linda che mi fa tutti i servizi».
Avevano salito giusto un paio di gradini quando il volto del vecchio s’illuminò.
«Linda» esalò sognante.
Il giovane si grattò la testa attraverso il berretto, esasperato.
«Nonno, non ricominciare…»
«L’è prope n’a bela zùena, ma Susanna la ma piàs püs7 » ribadì deciso.
Arrivati
faticosamente al pianerottolo, Giacomo “Jack No Way”,
gettò un ultimo sguardo alla Aries, i cui solchi aerodinamici
catturavano la luce della strada oltre la cancellata. E si
domandò perché suo nonno non potesse invecchiare
gloriosamente come quella muscle-ship.
1 Ta se’ riàt: in dialetto bergamasco “sei arrivato”.
2 L’è prope ‘na bèla zùena: in dialetto bergamasco “è proprio una bella giovane”
3 La ta piàs?: in ialetto bergamasco “ti piace?”
4 Po a me la ma piàs: in dialetto bergamasco “anche a me piace”.
5 Nono, fa sìto docà! Ta pìset!: in dialetto bergamasco “nonno, fai silenzio! Sei pesante”.
6 Ma sa regorde piö: in dialetto bergamasco “non mi ricordo più”.
7 L’è prope n’a bela zùena, ma Susanna la ma piàs püsé: in dialetto bergamasco “è proprio una bella giovane, ma Susanna mi piace di più”.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** L.C. - Cap. 6 ***
L.C. - Cap. 6
6
La
Fortion riposava sulla pedana al centro dell’officina, scheletro
di un mostro preistorico che si preparava a risorgere nel frastuono
della città moderna. Nella penombra grigio-bruna, il paraboloide
iperbolico di Scorch si fondeva con ogni barra, montante, traverso o
fazzoletto di rinforzo in un’unica, massiccia ragnatela.
Hito,
seduto nella posizione del loto su uno dei banchi sotto i finestroni ad
arco, fumava assorto una sigaretta, gli occhi socchiusi e una cartella
colori sulle ginocchia. Il momento in cui avrebbe messo mano
all’aerografo era ancora lontano, ciononostante, lo studio della
livrea non poteva prescindere da quello dell’assemblaggio della
carrozzeria e, di conseguenza, dalla conoscenza approfondita dello
scafo. Le linee in rilevo sulle piastre, le loro connessioni, le
concavità e convessità, gli elementi accessori come le
ghiere dei fanali o gli innesti dei retrovisori. Doveva coordinare ogni
cosa.
Le
sue dita scorrevano le pagine, estraevano un campione e lo sollevavano
all’altezza degli occhi, dove restava per lunghi minuti, prima di
tornare nella mazzetta. Pancake si era affiancato un paio di volte,
sempre masticando. Aveva tentato di allungare quello che restava del
collo per spiare, decidendo poi che era più interessante
rovistare nel proprio armadietto in cerca di rimasugli alimentari.
All’altro
capo dell’officina, Choncho verificava saldature e bulloni,
mentre Clay, Iron e Patch si alternavano alle postazioni della fucina,
battendo, curvando e sagomando i pannelli esterni della carrozzeria.
Di
tanto in tanto Hito avvicinava il campione prescelto ai frammenti di
pelle metallica, piegandolo per simulare l’effetto finale.
Lo
studio della livrea di un aeromobile poteva sembrare secondario e
banale, un mero intervento estetico. Per Naohito Ando invece, assumeva
i contorni di una missione: un’airship, e a maggior ragione una
muscle-ship, era potente, aerodinamica, aggressiva, stabile, eppure se
“abbigliata” con una tavolozza cromatica sbagliata, la si
poteva rendere un volgare ammasso di ferraglia sospeso a
mezz’aria.
Da
ragazzo, Hito aveva abbandonato il Giappone per girare l’Europa,
innamorandosi di Giotto, Piero della Francesca, Caravaggio, Vermeer,
Rembrandt, Turner, Corot e di artisti meno noti, la cui capacità
d’indagare la luce ed il colore era rimasta incompresa dai
più. Per anni si era barcamenato tra lavori occasionali, scuole
e musei, prima di superare l’oceano e raggiungere le Colonie
Atlantiche, dove il sogno di mettere a frutto i propri studi si era
faticosamente realizzato.
Continuava
a meditare sull’immagine che gli era balenata davanti quella
mattina: la sua figlioletta Nori che correva per casa indossando uno
degli iromuji1 preferiti della madre, l’obi
portato in trionfo come una carpa volante. Sua moglie l’aveva
inseguita nel tentativo di levarglielo ed alla fine si erano ritrovate
sul pavimento, abbracciate sotto la veste. I riflessi cangianti della
stoffa mossa dalle loro risa l’avevano incantato.
Il
disegno stilizzato delle ninfee che appariva e scompariva tra le pieghe
del kimono l’aveva fatto tornare sui suoi passi. Niente tinta
unita. Avrebbe realizzato una fantasia simile, sottile, appena
percepibile ma capace di far vibrare la carrozzeria, sottolineandone le
linee di tensione e i nuovi elementi, sfruttando lo stesso principio
delle pieghe. Avrebbe dato vita ad un tessuto di metallo con uno strato
di base rosso-viola intenso al quindici percento di microsfere di
madreperla, e una velatura scurita con l’otto percento di Carbon
Black e il cinque di Dark Rubin per la decorazione. Sarebbe stato un
lavoro lungo e complesso, avrebbe richiesto un livello tecnico molto
elevato per produrre prima le due tonalità e successivamente per
stenderle a regola d’arte. Per Hito non esistevano prodotti
preconfezionati capaci di rispondere alle sue idee, che si trattasse di
vernici o stencil. Avrebbe creato ogni cosa da sé, dosando basi,
pigmenti, polveri decorative, additivi.
Sarebbe stata una sfida. L’ennesima. E l’avrebbe vinta, ne era sicuro.
Inspirò un paio di lunghe boccate, appoggiato al davanzale alle sue spalle.
«Grazie, mie kami2» mormorò.
***
Il reparto interni occupava le due stanze sotto la mensa. A differenza
del baccano dell’officina, lì si poteva ascoltare solo il
morbido ronzare delle macchine per cucire e l’incedere cadenzato
delle forbici. Sugli scaffali e nel magazzino erano accatastati
tessuti, stoffe, pelli, pellicce, passamanerie, ossa, metalli, legni
rari, persino piume, squame di pesci e lamine di pietre semipreziose,
oltre a decine di bobine di fili di vari spessori, colori e robustezza.
I materiali che componevano il regno di Odrin.
Quando
otto anni prima si era presentato lì, Clay si era interrogato a
lungo sulla possibilità di arruolare un Andull nella
“Legendary”: la loro abilità nell’artigianato
era nota dal Vecchio Continente alle Colonie Atlantiche, fino alle
Terre Nuove. Una figura del genere avrebbe dato enorme prestigio
all’officina, garantendo lavori a regola d’arte e assoluta
originalità. Tuttavia, il popolo Andull era noto per sfoggiare
usi e costumi piuttosto singolari, che talvolta rendevano problematica
la convivenza. All’epoca, Clay aveva già troppi pensieri
con le ubriacature di Scorch e PigTail; accollarsi ulteriori rogne non
rientrava nei suoi piani. Era stata Sandy a convincerlo della
necessità di avere un proprio addetto alla selleria e agli
interni, per evitare di sborsare cifre astronomiche a professionisti
esterni che rincaravano i prezzi a piacimento, specie su lavoretti
mediocri e di poco conto. Dopo due mesi e quattro progetti portati a
termine nei tempi e nei modi previsti, il contratto era stato siglato
con entusiasmo da ambo le parti.
L’Andull
abbandonava la quiete del laboratorio solo per montare le sue creazioni
sui mezzi cui erano destinate ed i collegi mettevano piede là
dentro solo per infastidirlo. Come quel giorno.
«Se
hai voglia di finire qui dentro dillo subito!» minacciò
scattando in piedi punteruolo alla mano, quando si accorse
d’avere di fronte un’altra persona. «Charlotte!
Scusi, pensavo fosse Patch… Malcom».
La
segretaria si guardava attorno titubante, immobile sulla porta. Sapeva
che Odrin acconsentiva di malavoglia alla presenza altrui: non
custodiva chissà quali astrusi segreti né si esibiva in
inquietanti rituali propiziatori Andull, semplicemente cercava di
tutelarsi dal caotico via vai dei colleghi, che gli faceva perdere
concentrazione e precisione.
«Posso aiutarla?» chiese, bloccando la macchina per cucire.
Trovava
difficoltoso darle del lei, ma sapeva quanto Charlotte fosse restia ad
usare un tono meno formale con i membri dello staff. Con Sandy era
diverso, visto che trascorrevano parecchio tempo insieme e
condividevano molti interessi. Per quanto riguardava Boy, le era
impossibile rivolgergli la parola come se fosse adulto, visto che della
maggior età non c’era traccia da nessuna parte.
«Credo di poterla aiutare io, Odrin» rispose, pacata e professionale. «Ho parlato al signor Okaje della Matoha3 Bros. e l’ho convinto ad anticipare la consegna. La teleria per la Fortion arriverà entro sera».
L’Andull
rimase a bocca aperta. Il contrasto fra la pelle nerissima, le iridi
argentee, la lingua rosso scuro, il candore di denti e tatuaggi lo
faceva somigliare ad una maschera tribale, circondata sul lato destro
da una cascata di treccine bianche.
«Davvero?»
Charlotte annuì, abbassando un poco lo sguardo.
«Non
so come ringraziarla. Preparare quelle pezze sarà
un’impresa e se arrivano oggi guadagnerò un sacco di
tempo, almeno una giornata!» esclamò grato, bloccando le
gambe.
Avrebbe
voluto correre ad abbracciarla tanto era felice: di solito non si dava
tanto da fare per le richieste della squadra, la qual cosa sembrava
fargli intendere di essere in qualche modo privilegiato. Purtroppo, non
era né il posto né il momento adatto a slanci affettuosi
di alcun tipo.
«Mi
era parso di capire fosse un lavoro complesso» si
giustificò, estraendo dal portadocumenti la nota di sollecito
che le aveva fatto avere un paio d’ore prima.
«Vero.
Hanno disegni particolari, dovuti un po’ alla conformazione
dell’airship e un po’ ai nostri lavoretti. Farli combaciare
sarà da manicomio» ridacchiò Odrin, facendo una
smorfia e puntando la lesina alla testa, fingendo di ricucirsi.
Le labbra di Charlotte accennarono un sorriso.
«Quelli sono gli interni?» chiese lei, indicando la pila di rivestimenti pronti per essere calzati sulle basi.
«Venga
a vederli da vicino, da lì non si notano i particolari» la
invitò, mostrandole il sedile che aveva terminato poco prima.
«Diamante di struzzo e seta italiana, cuciture a doppio cordino
in tinta con pagliuzze dello stesso colore degli inserti»
elencò passando la mano sulla pelle color sabbia intervallata da
sottili ritagli color prugna carico.
Il
disegno retrò delle cuciture era sobrio ed elegante, mentre i
colori scelti ne davano un’immagine molto a la page.
«Struzzo?
Ed è… comodo? Voglio dire, questi punti sembrano dei
bottoni. Immagino che le penne fossero qui» disse chinandosi un
poco per osservare meglio, la cartelletta stretta al petto.
«Immagina bene. Il diamante è la pelle del dorso, la parte migliore».
«Non danno fastidio quando ci si siede?»
«Provi» disse, facendole segno di accomodarsi.
Per la prima volta da quando si conoscevano, Odrin la vide in difficoltà.
«Se devo essere sincera, mi fa un po’ impressione» si scusò.
«Immagini
di avere davanti una gallina gigante, pronta per il brodo»
scherzò. «Su, non la becca. Le ho tirato il collo per
bene, parola mia».
Le
porse la mano e l’aiutò a prendere posto. Era buffa,
irrigidita dal corsetto e tesa quasi temesse di vedere le cuciture
esplodere.
«Allora?»
chiese lui, interessandosi alla greca floreale che sporgeva da sotto
l’orlo della gonna, ornando le calze all’altezza delle
caviglie.
Raffinata, meditò compiaciuto. Ha scelto un disegno simile al pizzo del vestito.
«È molto comoda» ammise stupita.
Ordin
pensò seriamente di baciarla prima che potesse svignarsela con
la scusa di qualche pratica da sbrigare. Sarebbe stato un azzardo, ma
vedendola sistemarsi meglio sulla seduta, capì di avere
finalmente una chance.
«Li prenda» disse sedendo su uno sgabello di fronte a lei.
Charlotte fissò stranita i pugni nerissimi che le porgeva, trincerata dietro i documenti.
«Non
so se lo sa, ma Mac Gregor ha al suo servizio solo ed esclusivamente
donne. Inclusa la autista» scandì sbuffando.
«Da come lo dice, sembra non lo ritenga fortunato» gli fece notare incuriosita.
«Se non si è ancora fatto ammazzare da una di loro, è fortunato di sicuro».
«Quindi
pensa che una donna sia meno brava di un uomo ai comandi»
decretò, senza alcuna traccia di dissenso nella voce.
Anzi, sembrava condividere l’idea.
«Le
muscle-ship sono difficili da portare per chiunque. Io evito di
guidarle se posso, non mi sento tranquillo con tutta quella potenza fra
le mani. Per questo vorrei non averlo sulla coscienza»
chiarì, specchiandosi nelle lenti della donna. «La autista
di Mac Gregor deve guidare con il massimo comfort possibile. Immagini
che le mie mani siano le cloche della Fortion e mi dica come si sente,
se le imbottiture delle spalle sono alla giusta altezza, se è
abbastanza avvolgente sui fianchi, se sostiene bene la schiena».
«Veramente…»
«Coraggio, impugni le leve!» la incitò.
Il
sorriso che le rivolse sparì nell’attimo in cui le mani di
Charlotte si posarono esitanti sulla parte alta dei pugni.
«Non ho la patente» ammise imbarazzata.
«Lavora qui… e non ha la patente?» domandò confuso.
«L’ho
appena detto» ribadì, il lieve rossore sulle guance
mascherato a stento dalla montatura degli occhiali.
«Vorrà
dire che faremo un po’ di scuola guida» propose
l’Andull, al settimo cielo per il protrarsi del contatto.
«È semplice: finga di stringere i correnti della scaletta
che ha di sopra. E lo faccia con decisione, serve una presa salda sui
comandi».
***
Scorch e Junior sedevano fianco a fianco sul lettino
dell’infermeria, entrambi con la faccia di chi avrebbe preferito
trovarsi altrove. Se il piccolo non avesse avuto un grosso tampone
freddo sul capo, sarebbe stato difficile capire chi dei due aveva
condotto l’altro nella stanza. Ogni tanto si davano di gomito,
ridacchiando sottovoce e mimando forme misteriose.
«Fuori di qui» intimò Sandy, fronteggiando l’uomo a braccia conserte.
Vista da sotto in su, abbarbicata su tacchi vertiginosi e con le spalle ingigantite dalle maniche a l’amadis4 dell’abito che indossava, sembrava un demone inferocito sputato fuori da un altoforno.
«Andiamo, non farne una tragedia. Non è successo niente» disse intrecciando le mani dietro la nuca.
«Faccio
tragedie quanto mi pare quando c’è di mezzo mio figlio.
Sbaglio o avevi promesso di non trascinarlo più nelle tue
genialate?»
«Insisteva» replicò Scorch, quasi che la cosa non lo riguardasse affatto.
«E tu non sei capace di dirgli di no? Si è fatto male per colpa tua!»
«Mamma…» tentò d’intervenire Junior, ma venne zittito all’istante.
«Sto
parlando con lo zio, tesoro. Ti fa male? Ti gira la testa?»
chiese, addolcendosi mentre fissava il bernoccolo fare capolino dalla
pezza.
Lui
commise l’errore di negare, lasciandole la possibilità di
riprendere l’invettiva. Seppellì entrambi sotto una
valanga di strepiti, domandando di continuo all’ingegnere cosa
gli fosse passato per la testa quando aveva proposto a Junior di
giocare ai pendoli, appesi alle catene del paranco piccolo. E
perché mai, soprattutto, aveva deciso di togliere i fermi di
sicurezza? Si ricordava ancora a cosa servivano quegli affari?
Possibile che dopo aver visto la prima catena restare appesa per il
rotto della cuffia, non avesse pensato che ci fosse il rischio che
l’altra uscisse dalle guide? Era stato solo per miracolo che
quando quella che Scorch aveva definito una “remota
possibilità” si era materializza, Junior non fosse rimasto
sepolto da ottocento libbre di ferro, rimediando solo un colpetto di
striscio.
Niklas
si sentì riportare all’infanzia, quando a redarguirlo era
sua madre. Anche allora gli sfuggiva il senso di quelle uscite:
perché doveva essere sua la colpa dei lividi altrui? Lui si
limitava ad ideare i giochi, toccava agli altri imparare a giocare.
«Adesso sparisci» intimò la donna.
Scorch rimase stravaccato sul lettino, lo sguardo di chi non capiva ciò che gli veniva detto.
«Sparisci!» urlò di nuovo, additando la porta in uno sfavillio di smalto dorato.
Preoccupato che quell’unghia gli cavasse un occhio, l’uomo guadagnò indolente la soglia.
«Ci vediamo, giovane. Rimettiti in sesto» salutò distrattamente, senza neppure guardarlo.
«Sicuro. Ci vediamo, grandone» rispose alzando il pollice.
Appena
uscì, le lacrime di Clayton Jr tracimarono senza controllo.
Aveva represso lo spavento e il dolore dietro un’apparente
ilarità per quasi un’ora. La testa gli pulsava come se
fosse stata piena di pistoni che battevano un ritmo forsennato privi di
lubrificante.
«Non
glielo dici, vero?» singhiozzò, mentre il gelo bruciante
della medicazione si faceva più sopportabile.
«Dire cosa?» sospirò Sandy, controllando lo stato del gonfiore, per fortuna tutt’altro che allarmante.
«Che ho pianto. Non voglio che glielo dici» la supplicò.
«Va bene, non diremo nulla a papà» acconsentì sollevata.
Junior
stravedeva per suo padre e stava cominciando a somigliargli molto, sia
nell’aspetto che nel carattere. Il preoccuparsi del giudizio di
una persona cui era profondamente legato era un tratto distintivo di
Clay.
«No.
Papà dice che va bene se piango quando mi faccio male,
perché così mi ricordo di non fare le cose
sbagliate».
«Giusto. Allora a chi non devo dirlo?»
Il pensiero andò subito a Bonnie, che sicuramente l’avrebbe preso in giro.
Accidenti, tra un’ora finisce le lezioni, devo darmi una mossa se voglio arrivare in orario a prenderla, ricordò all’improvviso.
«A zio».
«A quell… a lui?» domandò sconvolta.
«Non voglio che lo sa. Dice sempre che chi piange è debole! E zio non piange mai!» piagnucolò.
Certo, è meglio attaccarsi alla bottiglia, razza di bastardo ubriacone,
urlò la madre dentro di sé. Come poteva fare il
perbenista proprio lui che era il peggior esempio possibile per suo
figlio? E come poteva il suo ex-marito tollerare quella situazione?
«Non
dargli retta. Ragiona con la tua testa, visto che io e tuo padre te ne
abbiamo fatta una perfettamente funzionante. Ti ho già spiegato
che…»
«Ma io voglio essere come lui!» protestò tra i lamenti.
Sandy
sbiancò per l’orrore. La sola idea che suo figlio seguisse
le orme di quel buono a nulla patentato le fece venire i sudori freddi.
Perché tra i tanti uomini della “Legendary”, suo
figlio aveva scelto di affezionarsi maggiormente a Scorch?
Perché non aveva preso a modello suo padre? O Hito? Sarebbe
andato bene persino il taciturno Ozone. Perché quel disgraziato
piantagrane?
«Junior, se te lo sento dire un’altra volta ti metto in punizione a vita!» minacciò.
«Ma
è forte! È un vero uomo! E io voglio diventare un vero
uomo come tutti i maschi della nostra famiglia!»
«Anche questa stupidaggine te l’ha detta lui?»
«Lo
so io! Tu non capisci! Sa tantissime cose, ha visto il mondo, conosce
le persone, lavora tantissimo…» gemette.
«Per carità! Questa proprio…»
Sandy
avrebbe proseguito imperterrita, illustrandogli quante e quali enormi
sciocchezze Scorch riuscisse ad inventare per farsi bello ai suoi
occhi, se la porta non si fosse riaperta. Stava per urlare contro
l’intruso, supponendo si trattasse di Clay accorso sulla scorta
di commenti del cugino, ma dovette ricacciarsi tutto in gola quando
vide entrare l’ombra nera di Odrin, preceduto da Charlotte. Il
primo aveva la mano destra avvolta in alcune pezze macchiate di sangue
e seguiva indispettito la donna.
«Non
sto morendo. Mi sono sforbiciato un dito» spiegò
l’Andull, continuando a stringere il tampone mentre la donna
cercava la scatola per le medicazioni.
Io e la mia idea di mostrarle cosa faccio mentre la sto guardando, si ammonì con una punta di dispiacere.
Se
fosse accaduto comunque ma Sandy e il bambino non fossero stati
lì, sarebbe stata tutta un’altra storia: avrebbe potuto
continuare le manovre di avvicinamento con la massima libertà.
Era tutt’altro che un tipo svenevole, ma la prospettiva di
rimediare qualche coccola o anche solo un po’ di compagnia, dopo
essere stati mani nelle mani per quasi cinque minuti, lo solleticava.
«Odrin,
posso chiederti una cosa?» chiamò Junior, coprendo
l’annotazione di Charlotte d’acquistare una confezione di
disinfettante meno ingombrante di una tanica e che Sandy ammise di aver
avuto difficoltà a maneggiare.
«Se non riguarda le forbici» sospirò lui, controllando sotto la medicazione il ridursi del sanguinamento.
«È
vero che gli Andull hanno un anello d’argento sulla punta del
pisello, così lo chiudono e non vanno a pisciare quando
lavorano?» chiese dondolando i piedi nel vuoto.
La
domanda era così ingenuamente sconveniente che il flacone
sfuggì alla segretaria e precipitò dritto sul suo piede.
Charlotte si tappò la bocca con entrambe le mani soffocando un
grido, cosa che non fece Sandy.
«Chi ti ha detto quest’idiozia?» strillò, ormai prossima ad una crisi isterica.
Era talmente fuori di sé che la sua faccia era in tinta col corsetto.
«Zio.
Ha detto che l’ha visto coi suoi occhi» rispose indicando i
propri, per ribadire la veridicità dell’affermazione.
«Impossibile. Non fa mai la doccia con noi» rispose l’artigiano chinandosi.
Prese
il piede di Charlotte, tastandolo delicatamente, massaggiando caviglia
e dita mentre l’aiutava a rimetterlo a terra. La seta delle calze
scorreva deliziosamente sotto le dita dell’artigiano, scaldando
la pelle che rivestiva.
«Almeno
non si è rotto. E anche il piede, è solo una botta»
la rassicurò porgendole il flacone.
Lei
assentì, il volto ancora seminascosto fra le dita. Aveva gli
occhi chiusi ed inspirava lentamente, trattenendo il fiato per qualche
secondo tra un respiro e l’altro. Tremava. Odrin ebbe la netta
sensazione che non stesse cercando di lenire il dolore bensì
l’imbarazzo per quel gesto gentile quanto intimo.
«A
dirti la verità l’anello ce l’ho, ma da
un’altra parte» ammise facendo l’occhiolino a
Charlotte, mentre toglieva scarpone e calzino sinistri per mostrare la
fascetta che cingeva terzo e quarto dito. «Sai, lì sopra
era scomodo, si agganciava di continuo ai pantaloni».
Junior fu l’unico a ridacchiare.
«Io
lo uccido quel demente! Giuro che adesso vado là e gliene dico
quattro. Anzi no, vacci tu Charlotte o dovremo andare ad un funerale.
Anzi no, meglio ancora, parlo con quell’idiota del suo diretto
superiore che l’ha assunto vent’anni fa! Vediamo se ha
ancora il coraggio di mantenere le sue posizioni!» gridò
Sandy puntando decisa alla porta in un’inquietante tamburellare
di tacchi.
Era esasperata. Doveva porre fine a quelle assurdità immediatamente.
«Mamma, dove vai?»
«Da
papà» tagliò corto, recuperando la calma quando
afferrò la maniglia. «Resta qui e continua a rinfrescarti.
Attento a non premere troppo forte o il livido si allargherà. E
non t’azzardare a fare qualunque cosa ti proponga…
tuo… zio!» sputò disgustata.
Aveva fatto pochi passi quando sentì la voce del figlio domandare:
«Odrin, ma se ti restava attaccato ai pantaloni vuol dire che non porti le mutande?»
1 Iromuji : kimono a tinta unita con una particolare lavorazione che crea un disegno decorativo tono su tono.
2 Kami: appellativo giapponese con cui si indicano divinità o spiriti sacri della fede Shintoista.
3 Matoha: in lingua Lakota significa “Pelle d’Orso”.
4 Maniche
a l’amadis: manica piuttosto voluminosa all’altezza della
spalla che si restringe man mano che ci si avvicina al polso. Spesso
terminava con un polsino rigido abbottonato e non presentava la
piegatura al gomito.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** L.C. - Cap. 7 ***
L.C. - Cap. 7
7
«Doppia da mezzo pollice» disse piano Boy, ogni parola sottolineata dal leggero tintinnio dei piercing.
Una mano callosa sfiorò la sua, più esile ma altrettanto
ruvida, posandovi con cautela il pesante attrezzo. Reggere le undici
libbre di quell’affare, con il braccio completamente allungato
all’indietro, era un’impresa titanica. Non era ancora
abituato a maneggiare con disinvoltura quegli utensili. Regolò i
colli dei becchi contrapposti, estendendoli quanto bastava per
agganciare entrambi i fermi. Controllò che le sicure fossero in
posizione, rimediando nuovi tagli sulle dita, e si accinse a innestare
la chiave a doppia torsione, ma un pensiero lo trattenne. Fece per
appoggiare lo strumento ai bulloni, interrompendosi un altro paio di
volte. Infine, tese la serratrice al maestro, senza voltarsi.
«Tre ottavi» corresse.
Ozone, poco indietro, sorrise compiaciuto. Il suo discepolo stava
facendo enormi progressi. Quando alcuni mesi prima aveva espresso il
desiderio di passare alla sezione motori della “Legendary”,
abbandonando anche se solo in parte il suo status di apprendista
generico, Clay non si era dimostrato molto ottimista. La sua smania di
fare lo preoccupava e ne aveva parlato profusamente al meccanico:
Non possiamo rischiare di perdere tempo a insegnargli cose che non gli entrano in testa nemmeno a martellate, aveva detto. Se ti accorgi che non è il suo settore, lo sbatto a levare morchia dalle sottocoppe da mattina a sera.
Tuttavia, Ozone era stato colpito da alcune peculiarità del
ragazzo, oltre che da un paio di pezzi di ricambio piovuti dagli
scaffali mentre questi vi rovistava furiosamente su suo ordine. Era
sveglio e assorbiva le nozioni come una spugna asciutta assorbiva
l’acqua; messo nelle giuste condizioni, i suoi ragionamenti
filavano lisci come l’olio, rapidi più delle pale
d’una turbina turbocompressa; e soprattutto, capiva. Recepiva le
sue indicazioni senza che aprisse bocca, attraverso una sorta di osmosi
catartica, che finiva col rivelare le sue reali abilità. Un
autentico colpo di fortuna, un dono senza pari, e Jessie neppure se ne
rendeva conto.
«Okay, la pompa è sigillata. I collettori principali sono
pronti per l’innesto, i secondari già avvitati e vanno
solo stretti. Gli accumuli sono lì, con tutti i tubi per
l’acqua in entrata e in uscita. Lì abbiamo le vasche di
combustibile con i nastri di carico. Passo alla turbina?»
domandò l’apprendista, sfregando le mani impaziente.
Ozone negò lentamente, invitandolo con lo sguardo acquoso a
passare in rassegna i componenti una seconda volta. Boy obbedì,
facendo tabula rasa del precedente conteggio.
«Pompa, collettori, fascette, accumuli, condotti, copiglie,
estrattore uno e due, nastro di carico, serbatoio combustibile,
serbatoio acqua, linea di adduz… cazzo» sospirò,
battendo la mano sulla fronte e procurandosi una fitta terribile
centrando ben tre piercing in un colpo. «La vaporiera».
Se fosse stato solo, con ogni probabilità avrebbe dimenticato di
assemblarla. Era stato preso dalla realizzazione della pompa
d’iniezione al punto tale d’aver scordato l’elemento
fondamentale: la cella di produzione del vapore. Un breve battito di
mani dichiarò la soddisfazione del maestro.
«Visto che lo sapevo? Sei un malfidato» rise altezzoso,
ricevendo uno scappellotto sulla nuca e l’indicazione di
dirigersi alle scale.
Boy impiegò qualche secondo per comprenderne il motivo.
«Dai, porca… fai finta di niente, vecchio! Mi servono» si lamentò.
Lo sguardo di bonario rimprovero che ricevette gli animò i nervi.
«Mi servono! Non voglio darglieli!» ribadì, schizzando nel magazzino.
Quando tornò, ansimando mentre trascinava la cesta con i pezzi
per la vaporiera, trovò Ozone accoccolato sul suo trono, un
vecchio sedile in canneté mezzo stracciato, appoggiato alla
cesta degli scarti. A volte lo prendeva in giro, dicendogli che prima o
poi l’avrebbe buttato in mezzo ai rottami perché non aveva
notato la differenza.
Allineò sul banco quattro cilindri di ghisa e ottone dal
diametro interno di due piedi, spessi tre quarti di pollice e alti
mezza spanna ciascuno1; morsetti, tubi, guarnizioni e tutto
l’occorrente per assemblare il nuovo cuore energetico della
Fortion. Un calcetto lo fece dondolare in avanti. Jessie spiò da
sopra la spalla e vide la matassa grigia dei capelli di Ozone muoversi
un paio di volte.
«Ti ho detto che non me li taglio, mi piacciono
così» replicò, deciso a mantenere la propria
posizione.
Sapeva che non stava alludendo al lungo ciuffo di capelli bruni che gli
ondeggiava davanti alla faccia nei momenti meno opportuni.
Altro calcetto, identico al precedente.
«Smettila, vecchio. Sto lavorando».
Terzo calcio, molto più forte e imperioso degli altri, al punto
da stampargli la suola dello scarpone sui pantaloni. Il cacciavite
saltò fuori dall’alloggiamento, lasciandogli
l’ennesimo graffio sull’indice.
Ozone indicò col capo in direzione della scala, in un modo tanto
perentorio che Boy sapeva non ammettere obiezioni. Lanciò
l’attrezzo sul piano di lavoro quasi fosse una freccetta.
«Va bene, vado! Cos’è, ti piace quella gallina?
Guarda che hai un’età, non dovrebbe tirarti più, lo
sai?» ruggì, strizzandosi il cavallo dei pantaloni con
entrambe le mani.
Cercò d’ignorare il risolino rasposo che proveniva dalla
barba intrecciata e raggiunse a larghe falcate il Penitenziere. Prima
sistemava quella seccatura e prima poteva tornare a dedicarsi al motore.
«Che bravo bambino sono. Faccio sempre i compiti»
mugugnò sarcastico davanti al vaso che la mano fantasiosa di
Hito aveva verniciato con un fondo nero su cui spiccavano il logo della
“Legendary” e la beffarda scritta “donazioni
volontarie”.
Frugò nelle tasche, mettendo insieme i due méit che
lasciò cadere nel contenitore. Lo prese tra le mani e si accorse
che era già piuttosto pesante. Facendolo ruotare si percepiva il
lento scivolare dei tondi metallici gli uni sugli altri. Svitò
il coperchio e guardò dentro: in una sola settimana, il fondo
era stato ricoperto da uno strato di monete più spesso di un
dito.
«Siamo dei santi» grugnì, riponendo il vaso.
Arretrò di qualche passo, osservandolo. Nella tasca, una
manciata di monetine piroettava fra le sue dita. Fu la decisione di un
attimo e una breve cascata di rintocchi metallici filtrò dal
tappo.
«Sono un santo» precisò, aggiustando altezzoso il colletto della maglia da lavoro.
Stava per tornare alla vaporiera, quando sentì un fruscio sopra
la testa. Levò lo sguardo sul ballatoio e vide Charlotte,
appoggiata al parapetto di legno con la solita cartelletta fra le mani.
A giudicare da come lo stava guardando, doveva aver assistito al
lascito.
Ma si può sapere come fa a essere dappertutto? pensò irritato, conscio che il suo definirsi un “bravo bambino” non era passato inascoltato.
«Beh, che c’è? Mi pesavano in tasca» sbottò aspro.
La segretaria tamburellò con la penna sui documenti, pensierosa.
«Sarebbe bello se anche per gli altri fosse così, Jessie».
«Cioè?» domandò aggrottando le sopracciglia metalliche.
«I buoni esempi andrebbero seguiti» rispose sibillina.
L’apprendista rimase a guardare la tornure di pizzo sobbalzare ad
ogni passo, fin quando non scomparve oltre la porta dell’ufficio.
Si domandò se per caso non avesse frainteso.
«Mi ha detto che sono… bravo?» domandò
perplesso grattandosi un orecchio e ficcando maldestramente un dito
nella catenina che univa alcuni monili.
Tuonò alla postazione mordendosi le labbra per non imprecare,
suscitando altre risatine di Ozone che, poteva starne certo, aveva
visto - e forse anche sentito - tutto. Boy incassò la
testa fra le spalle, dando calci all’aria. Si sentiva uno
stupido, anche se doveva ammettere che nelle prese in giro del suo
maestro non scorgeva mai neppure l’ombra della cattiveria.
Gli scappò una risatina a sua volta ma fu abilissimo nel ricacciarla in gola.
«Cosa ridi, vecchio? Smettila di star lì a grattartele e
dammi una mano! Manca una settimana e questo coso l’abbiamo
montato a metà! Dobbiamo ancora infilarlo là dentro e
provare se funziona. Se non ci sbrighiamo, il capo se la prende con me
e se succede puoi scordarti le tue stramaledette focacce!»
brontolò.
Tanto non cambio idea. Te la facciamo pagare comunque, Chicky-Charly, promise tre sé.
***
Erano passate due settimane da quando la Fortion 8.20 era entrata alla
“Legendary Customs” e quel giovedì il programma
prevedeva il termine dei lavori principali per passare alle finiture.
Del rottame rugginoso e lercio arrivato in officina non c’era
più traccia: il profilo a goccia si era arricchito di nuovi
elementi, non da ultimo il paraboloide ideato da Scorch, che dalle
corte ali laterali saliva ad avvolgere la parte posteriore del mezzo.
Segni colorati sui montanti e i traversi indicavano la posizione dei
pannelli del rivestimento esterno. Tre coppie sovrapposte di fari
all’acetilene diventavano le generatrici delle linee di tensione
che dall’anteriore salivano a incontrare il bordo
dell’abitacolo.
«Forza gente, entro stasera voglio vedere su il rivestimento,
dev’essere pronta per il colore» annunciò Clay
infilando nei pantaloni la logora canottiera con il Terrier, incurante
della leggera pinguedine dei fianchi che sporgeva oltre la cinta.
«Ozone, No Way, Boy. Quanto per il motore?»
«Il tempo che serve, capo. Lo stiamo testando» biascicò Jack, stropicciandosi un occhio.
«Lo voglio per ieri!» tuonò.
«Allora è già fatto» corresse prontamente Boy.
Clay si appoggiò di peso allo scheletro della Fortion, che non emise alcun suono né traballò.
«Non provare a prendermi per… i fondelli. Ci siamo capiti, ragazzino?» lo redarguì.
L’apprendista mimò l’atto di chiudere a chiave la bocca, scusandosi con un cenno della mano.
«Meglio se continui così, non abbiano tempo da perdere. La
consegna è dietro l’angolo, ti voglio vedere lanciato a
mille come stavi facendo in questi giorni» l’avvertì
con un mezzo sorriso d’approvazione. «Odrin, quando puoi
cominciare con il rivestimento interno?»
«La tela è tagliata, l’ho verificata sulle partiture
e numerata. Montate due pannelli e comincio» rispose aggiustando
il robusto collare cervicale di cuoio che indossava per quel tipo di
operazioni.
«Ottimo. Gente, all’opera e dateci dentro o dirò a
Maria Pilar di dare il vostro pranzo alla mensa dei poveri».
«Ehi, io sto già facendo beneficenza!» protestò seccato Choncho.
Iron e Patch si occuparono della fiancata destra, mentre Clay e Pancake
procedettero sul lato opposto. Le pistole a vapore compresso presero a
pulsare senza sosta, spingendo bulloni e rivetti nei rispettivi
alloggiamenti, secondo ritmi geometrici precisi. Choncho, infilato
sotto l’aeromobile, saldava i rivestimenti del pianale. Barlumi
azzurri gettavano ombre sfrigolanti sul pavimento di cemento.
Odrin portò il primo carico di teleria interna e
s’infilò nello scheletro d’acciaio, strisciando
sotto la carrozzeria e arrivando alle spalle del vano motore. Al di
sotto del rivestimento metallico cominciò a prendere forma la
seconda pelle della muscle-ship, un bozzolo di tela Olona2
in canapa e seta impregnata di resina naturale idrorepellente e bordata
di cuoio, che avrebbe isolato ingranaggi, tubi e interni da eventuali
correnti d’aria, infiltrazioni di sporcizia e acqua.
Al contrario di un fiore, la Fortion si chiudeva nella propria corolla per mostrare la sua nuova magnificenza al mondo.
***
Il sole di fine aprile disegnava ombre grigie e violette sullo spiazzo
dell’officina, velando i cassoni dei rifiuti e le sei airship in
attesa di essere rielaborate. Hito sedeva in un angolo del cortile,
approfittando della temperatura mite per provvedere alla pulizia degli
strumenti per la verniciatura.
«Come procede l’opera?» domandò la voce impastata di Clay alle sue spalle.
«Tu che dici?» replicò senza scomporsi, la faccia
nascosta dai lunghi capelli neri che ricadevano in avanti come una
tenda.
«Non ho voglia d’indovinelli il lunedì mattina».
Il tono burbero costrinse l’artista a guardare il capo. Aveva gli
occhi stretti in fessure cupe, la faccia di chi aveva un travaso di
bile. Lo vide passare rabbiosamente le mani sulla faccia, segno
inequivocabile che aveva preso sottogamba delle palesi avvisaglie di
guai.
«Scorch non si è presentato» latrò. «Me
lo sentivo che non sarebbe durata, era troppo allegro. E io che ci
avevo sperato, cazzo» soggiunse amaro, calciando lontano
un incolpevole sasso.
«Avevi bisogno di lui?»
Lomann soffiò furente dalle narici. Non era quello il problema,
lo sapeva benissimo. Era vedere la sua fiducia calpestata per
l’ennesima volta che lo mandava in bestia. Si sentiva un
imbecille, lo scemo che continuava a cascare nell’identico
raggiro.
«Che differenza fa? Non è qui» rispose infine, ma la
verità era che ai suoi occhi faceva un’enorme differenza.
Hito riprese la pulizia dell’attrezzo con calma olimpica. Prese
una siringa colma di liquido trasparente e lo iniettò nel
tubicino d’aspirazione dell’aerografo. In capo ad alcuni
minuti un ricciolo di sedimento scuro e gommoso si avvitò
nell’aria, precipitando nel secchio, seguito da frammenti di
vernice coagulata e solvente.
«Odio ripetermi, ma i tuoi slanci d’altruismo stanno
diventando dei paraocchi. E tu, per quanto grosso, non mi sembri un
cavallo» commentò Hito, mordicchiando il labbro sguarnito
dell’abituale sigaretta.
«Non mi hai detto come stai procedendo. Sei nei tempi?» ringhiò indispettito Clay.
Il verniciatore decise fosse meglio stare al gioco, evitando di
sollevare obiezioni. Sciacquò gli strumenti nel secchio e si
diresse al Sancta Sanctorum del suo mondo, seguito da Clayton.
Clay aveva visto le lastre campione qualche giorno prima e aveva dato
il suo assenso, più per fiducia nei confronti delle scelte
dell’amico che per essere riuscito a figurarsi la resa finale
dell’intervento. Hito era il migliore in quel campo, non aveva
rivali. E di lui poteva veramente fidarsi a occhi chiusi.
Accanto alla cabina di verniciatura c’erano due stanze: la prima,
adiacente la struttura, era stipata di tubi di gomma, bidoni di vernice
variamente etichettati, valvole e manometri per il controllo della
pressione del fluido nel suo tragitto verso gli spruzzatori. La seconda
aveva l’aspetto lindo e diafano di una cella monastica. Sotto la
finestra, realizzata con un’unica lastra di vetro affinché
la luce l’attraversasse senza gettare ombre, era collocato un
tavolo basso, molto lungo e stretto, sotto cui erano ordinatamente
impilati campioni sigillati di vernici. Di fronte a questo, una
semplice stuoia.
Hito s’inginocchiò con eleganza al desco. Prese due
piccole latte di metallo, le dispose con gesti lenti e misurati sul
piano e le scoperchiò.
«Bright Sumomo, Midnight Sumomo» mormorò il
giapponese, rimestando i liquidi con minuscoli mestoli da cui fece
colare sul piano prima la tonalità più chiara, poi la
scura, e le stese con movimenti circolari.
Le spiegazioni di Hito possedevano la calma solennità dei riti del suo paese d’origine.
Le chiazze si allargarono sulla superficie, dispiegandosi nella loro
oleosa brillantezza. Due colori nuovi e unici, forse irripetibili,
molto mascolini, come ci si poteva aspettare da Hito.
«Susina Splendente, Susina di Mezzanotte» gli
rammentò, indovinando dall’espressione corrucciata la
fatica che Clay stava facendo per ricordare la traduzione dei nomi.
«Quanto sei complicato. Viola scuro e viola più scuro non
erano più facili?» rimbrottò, il malumore
alleggerito di un tono.
«L’arte vuol essere chiamata col suo nome» rispose placido Hito, costringendo i capelli in una reticella.
«Non farla tanto lunga, samurai».
«Anche tu» ribatté, ma non stava parlando dei
commenti al suo lavoro. «Il fondo e le due passate di Bright
Sumomo sono asciutti. Adesso comincio a fare sul serio» e
indicò gli stencil con cui si sarebbe aiutato nella
realizzazione del decoro.
***
Odrin mise mano agli interni il martedì pomeriggio, quando la
Fortion uscì dalla cabina di verniciatura avvolta in teli per
proteggere la splendida opera di Hito. Infilarsi tra i vari circuiti,
le tubazioni del motore e la struttura portante dello scafo per
incastrare i pannelli degli interni e sigillare le ultime porzioni
della teleria non era semplice né comodo. Inoltre, quel giorno
non tirava un filo di vento e nonostante si fosse liberato della
camicia, i benefici erano stati minimi: sudava al punto da essere
costretto a lavorare con indosso i guanti per evitare di perdere la
presa sugli aghi e sulla pistola per la colla a caldo.
«Ti puoi dare una mossa? Vorrei il mio posto»
sbadigliò No Way, sistemando per l’ennesima volta il
berretto che continuava a calargli sul naso.
Un fascio di cavi colorati gli penzolava dal collo a mo’ di sciarpa, ticchettando sulla piastra madre della plancia.
«Il tuo posto adesso è mio, montanaro» rispose l’Andull dai recessi dell’airship.
«Valligiano, casomai. E comunque, Charlotte non è lì dentro» malignò.
Jack aveva un sesto senso per certe cose: pur non avendo mai fatto
parola con lui del suo interesse per la segretaria, alcuni
atteggiamenti di Odrin erano stati rivelatori.
«Ehi, guarda che le fantasie con quella prendono tempo» lo
rimproverò Patch, fermandosi un istante per bere un po’
d’acqua.
Odrin scivolò fuori dal vano con movenze serpentine, sedendo lì dove avrebbe incastrato il sedile del conducente.
«Cosa vorresti dire?» domandò, slacciando il collare
che si staccò a fatica dalla pelle, tanto era intriso di sudore.
«Semplice: è così fredda che fai fatica a sbloccarla persino con l’immaginazione!»
«Guarda che lo dico a tua moglie che fantastichi su di lei»
minacciò, usando la camicia per tamponarsi la faccia e la parte
liscia e tatuata del cranio.
«Oh, buongiorno, Charlotte! Serve qualcosa? Vuoi vedere il nostro
Andull mezzo nudo che si fa le seghe pensando a te mentre lavora? Ma
non dirmi! Vuoi dargli una mano? La tua? Ah, vuoi vedere se ce
l’ha tatuato! Mi sembra una buona domanda, però non credo
abbiano usato molto colore, c’era poca roba da pitturare,
sai?»
«Patch, piantala di fare il cretino e passami l’N-12».
Anche se i bordi dell’abitacolo lo sovrastavano, era fin troppo
evidente che lo stesse prendendo in giro: non avrebbe mai osato parlare
a quel modo in presenza della Regina dei Divieti.
«Guarda che è qui per davvero. Diglielo, No Way!» insisté, dando uno scossone all’altro.
«Eh? Chi è qui?» sbadigliò, riscuotendosi di colpo da un mezzo sonnellino.
«Jack, come spalla non vali un cazzo» brontolò spazientito.
«Quattro méit per Patch!» ciancicò Pancake da un angolo imprecisato dell’officina.
Il richiamo costrinse il meccanico ad allontanarsi grugnendo sillabe incomprensibili.
«Come lo vedi Boy?» chiese l’Andull, rivolgendosi a No Way.
Il collaudatore stava per lanciarsi in una stupida battuta, ma il tono serio del collega lo trattenne.
«Il solito rompicoglioni. Perché?» rispose
depositando all’interno del mezzo il pannello che aveva chiesto.
Odrin si massaggiò la nuca, per poi tornare ad appoggiare i gomiti sulle ginocchia.
«Prima di entrare, stamattina, sono andato sul tetto».
No Way strabuzzò gli occhi, quasi si fosse svegliato di soprassalto.
«Non dirmi che…» iniziò sconvolto, ma l’artigiano lo interruppe subito.
«Sì, mi ha seguito un’altra volta» ammise,
facendo tintinnare la fibbia del collare come un sonaglio. «E
quando l’ho sgridata, se l’è svignata
lassù».
«Se Charlotte scopre che è qui, ti usa per rivestire la
sua poltrona. Almeno l’hai fatta scendere?»
bisbigliò allarmato, scrutando in direzione del soppalco.
«Sì. Adesso starà facendo un sonnellino sul trike e
spero ci resti. Però non è di lei che volevo parlare. Ti
ricordi quella roba che abbiamo visto l’autunno scorso nel
sottotetto?»
«Quando siamo andati a controllare la scossalina che si era
staccata? Sì. C’erano un materasso, coperte e una borsa da
viaggio mi pare; sembrava roba per un rifugio di fortuna. Io lì
non ci dormirei, è pieno di spifferi e schifezze. A meno che
fosse il nido d’amore dei tempi andati di Clay e Sandy»
sghignazzò, convinto che non potesse essere quella la
realtà dei fatti.
«Beh, è ancora lì e aveva l’aria di essere
stata usata da poco. Stanotte direi. Boy è arrivato prestissimo
oggi, - Clay l’ha saputo da Ozone - e se lo guardi vedrai che
continua a toccarsi la spalla e il fianco».
Subito Jack lanciò uno sguardo al ragazzo, che in quel momento
era inginocchiato accanto alla bancata del motore, preso dal montaggio
del carter. Nonostante la faccia da allegro invasato e le dita che
danzavano fra gli ingranaggi, la sua postura era rigida ed evitava di
piegarsi a destra.
«Pensi che il patrigno l’abbia picchiato di nuovo e che si sia fatto una stanzetta là?»
«Possibile» sospirò.
Era l’ipotesi più verosimile che gli venisse in mente,
eppure qualcosa in quella faccenda non convinceva del tutto
l’Andull. Boy aveva diciannove anni e un fisico abbastanza forte
da permettersi di stare a spasso tutta la notte per scaricare i nervi e
presentarsi al lavoro senza mostrare stanchezza. Ed era talmente
esagitato che si sarebbe fatto sfuggire da tempo di quel suo angolo.
Soprattutto però, avrebbe cercato aiuto o almeno un consiglio
dai colleghi: anche se lo sgridavano e lo prendevano in giro di
continuo, era un membro effettivo della squadra, sapeva di potersi
fidare di loro, che l’orgoglio personale non era una valida
giustificazione al silenzio e ai lividi.
«Teniamolo d’occhio, non si sa mai. Anche se non è
più un bambino, gli può servire una mano»
suggerì, indossando nuovamente il sostegno cervicale.
«E gli amici non si abbandonano, per quanto ti facciano girare le
palle» concordò No Way aggiustando la coppola sui ricci
castani.
«Quattro per No Way!» annunciò la voce di Pancake, impastata dalle cibarie.
«Vaffanculo, Bidone!» urlarono in coro.
«Sei per Jack No Way e due per Odrin!» cantilenò allegro.
1 due piedi, spessi tre quarti di pollice e alti un palmo:
nel sistema metrico anglosassone il piede equivale a circa trenta
centimetri, il palmo a circa dieci ed il pollice a due centimetri e
mezzo. Quindi il diametro è pari a circa sessanta centimetri, lo
spessore un centimetro e ventisette millimetri e l’altezza dieci
centimetri.
2 tela Olona: tessuto grezzo, pesante e molto resistente, con cui si realizzavano anticamente le vele.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** L.C. - Cap. 8 ***
L.C. - Cap. 8
8
«Bel colore».
Il commento si
levò sonoro e inaspettato, facendolo sobbalzare per la sorpresa.
Stava riordinando gli strumenti appena asciugati nelle apposite
cassette, operazione che richiedeva tanta perizia e precisione quanto
la decorazione stessa.
Voltandosi,
trovò Iron che ridacchiava alle sue spalle. Il colosso di Three
Weirs era sempre il primo a commentare l’esito delle verniciature
e non lesinava sulle critiche, ma quel giorno trovava che
l’operato dell’artista fosse inappuntabile.
«Ho spiato, lo ammetto. Ero troppo curioso» si scusò.
Sapeva che Hito
non tollerava che le sue opere vedessero la luce prima della lucidatura
finale. Lo faceva imbestialire l’idea che per una distrazione
potessero prodursi danni, seppur minimi, alle sue creazioni.
«Starebbe
bene anche a te. Vuoi una passata? Avanzano giusto un paio di
gocce» scherzò, agitando lo spruzzatore nella sua
direzione.
Ora che il
lavoro era definitivamente concluso, con l’archiviazione dei
campioni colore e la pulizia degli strumenti, sentiva di poter tirare
il fiato. A maggior ragione, visto che alla consegna mancavano poche
ore.
«Faccio a meno. I fiori non mi donano» commentò. «Hai visto Clay? Non riesco a trovarlo».
«Sì, stamattina, per organizzare le prossime consegne. Hai guardato in ufficio o al magazzino ricambi?»
«Ci sono appena stato. Charlotte dice di non averlo visto. Lo stesso Maria Pilar e Odrin».
«Hai guardato se la Torran è qui davanti?»
Iron non rispose, ma dalla sua faccia era chiara la risposta.
«Tu sai dov’è» disse questi, intuendo che qualcosa si agitava nella mente del giapponese.
Hito terminò di chiudere le scatole e le ripose sullo scaffale, restano a osservarle.
«No, ma so cosa sta facendo. Quell’imbecille dev’essere andato a cercare Scorch».
«Vuoi dire…»
«Lunedì
non si è visto e neanche ieri. E temo non sia venuto nemmeno
oggi, a questo punto» rispose, allineando con cura i contenitori.
«Speriamo torni alla svelta, oggi vengono a prendere la Fortion. Deve essere qui».
Dalla porta
sull’officina arrivavano i rumori delle pulizie, dei carrelli per
gli attrezzi che venivano spostati, dei tiracqua che stridevano sul
pavimento di cemento lisciato.
«Ci
sarà. Sai che ci tiene a essere presente quando vengono a
ritirare i mezzi. Deve suonargli tutta la sinfonia» lo
rassicurò.
Quasi spero che se ne torni senza quel piantagrane, si augurò.
***
Le speranze di
Naohito naufragarono miseramente quando la Torran superò il
cancello un’ora più tardi. Clay dovette aiutare Scorch a
scendere dalla muscle-ship e prima di concedergli di rifugiarsi nel suo
ufficio, si prodigò con l’aiuto di Charlotte a stanare e
far sparire le sue scorte di liquore. L’ingegnere faceva a dir
poco spavento: aveva l’occhio sinistro e lo zigomo neri e gonfi
oltremodo, una ferita sul sopracciglio ricucita con diversi punti ed
era pallidissimo, quasi verdastro. Paradossalmente, non erano gli esiti
di una sbronza con susseguente rissa, come tutti sospettavano.
«Ha avuto
un incidente lunedì mattina, mentre veniva qui»
spiegò Clay durante il pranzo, sentendosi tremendamente in colpa
per aver pensato subito alla motivazione più ovvia. «Stava
attraversando Park Road per prendere l’Omnibus della linea
Settantadue, quando un corriere della Delthios gli è piombato
addosso su un trike. Ha provato a scansarsi ma non ce l’ha fatta.
Per fortuna il bastardo non andava troppo forte, però avete
visto com’è combinato. Un manubrio in faccia non è
quel che si dice un toccasana».
«Dov’è
stato? Perché non ha chiamato?» domandò agitata
Maria Pilar, torcendo uno strofinaccio.
Era in piedi
accanto al tavolo della mensa, ma parlava tenendo la testa rivolta al
cucinino, così che non si capiva se la domanda fosse rivolta a
Clay o a Pancake che seguiva “Le porte di Backfield Road”,
dove il perfido Kevin tornava in scena dopo una misteriosa assenza.
«Ha
passato quasi tutta la giornata di lunedì al pronto soccorso del
Reine Lia Hospital. È riuscito a tornare a casa solo nel tardo
pomeriggio. E c’è rimasto fino a quando sono arrivato
io».
«Ma perché non ha chiamato?» insisté Patch, la bocca piena d’insalata di manzo e cavolo.
«Perché
non ha un cazzo di telettrofono in quella fottutissima catapecchia ed
era talmente rincoglionito dalla botta che non ci ha pensato! Ha
passato tutto il tempo con la testa nel cesso a vomitare la merda che
gli hanno rifilato quelle stronze d’infermiere per tenerlo
su» disse, mordendosi la lingua subito dopo mentre lanciava uno
sguardo abbattuto a Charlotte.
Lei scosse il capo, sorridendo appena e graziandolo in virtù dell’inquietudine che mostrava.
«Clay…» attaccò No Way, la voce carica di dubbi.
«Stiamo parlando di Scorch» chiarì subito Iron, altrettanto perplesso.
Il capofficina
scrutò i volti dei colleghi, scoprendovi l’identico
biasimo. Stava parlando di un bugiardo alcolizzato, un’emerita
calamita di guai.
«Non
è una balla, porca puttana! Dovete credermi!»
tuonò, dando un pugno al tavolo con tanta forza da far
sobbalzare le stoviglie. «Ho visto le carte del medico che
l’ha visitato! Le ho qui!»
«L’Ingegner
Almgren ha detto la verità» confermò la segretaria,
quasi sorpresa della sua stessa ammissione. «Nel referto è
allegata la denuncia per guida pericolosa del corriere, stilata da un
ufficiale del controllo veicolare e controfirmata da alcuni passanti.
Questa volta non è stata colpa sua. Davvero».
Era difficile
per chiunque riuscire a vedere in Scorch una vittima delle circostanze.
Per quanto ne sapevano, poteva essere alticcio quando il trike
l’aveva investito e l’ufficiale poteva essere stato
ingannato dall’afrore di sudaticcio e detergente chimico che
contraddistingueva quelli della Delthios, che poteva aver coperto lo
spunto alcolico del progettista. Senza prove però, erano
obbligati a credere alla versione siglata sulla carta.
«Grazie per il vostro spassionato sostegno» biascicò la voce aspra di Scorch dal corridoio.
Entrò
trascinando i piedi, l’aria a metà tra lo stravolto e
l’infuriato. Era rimasto per tutto il tempo con la schiena
appoggiata al muro accanto alla porta, ascoltando in silenzio i
commenti riguardo la sua assenza. Aveva parte della faccia coperta da
un voluminoso tampone impregnato di pomata, sicuramente messo da poco a
giudicare dall’odore penetrante che emanava.
«Non sono il coglione che credete, ficcatevelo in testa o dove vi pare. Con rispetto parlando» specificò.
Un attimo dopo, la figura emaciata di Scorch fu sommersa da quella scura e corpulenta di Maria Pilar.
«Nicolau!»
esclamò con un singulto la cuoca, strizzandolo nel suo abbraccio
e sollevando le proteste di Choncho, cui simili manifestazioni
d’affetto non spettavano mai.
«Piano, mamacita.
Sono già rotto» grugnì allontanandola con una
smorfia che voleva somigliare a un sorriso. «C’è un
po’ d’acqua per questo povero, assetato degente?
Acqua-acqua, eh!» sottolineò con acredine malcelata,
mostrando la manciata di pasticche che aveva con sé.
Fu Charlotte ad
allungargli un bicchiere pieno, guardandolo con un’espressione
strana. Pareva indecisa se commiserarlo per le sue sfortune o se
sentirsi sollevata dal fatto che non gli fosse accaduto nulla di grave.
«Grazie, bellezza» tossicchiò Scorch, dopo aver inghiottito le pillole.
«Stia
attento a quel che fa. E chiami se si sente male» gli
rammentò educatamente, fulminandolo con lo sguardo per
l’appellativo mentre tornava a sedere.
«Contaci, bimba. Bimba può andare o…?» s’informò.
«Ho un nome, Ingegnere. Gradirei lo usasse, come fanno tutti i presenti» ribadì con fermezza.
«Okay»
sospirò arreso, tirando indietro i capelli dalla maschera di
tumefazione che era la sua faccia. «E questa? Dici che
andrà bene per le mie ammiratrici?» e indicò la
ferita suturata e gonfia.
«Se amano
il cucito» replicò vaga, sforzandosi di stare allo scherzo
per risollevare il morale a Clayton che non riusciva a riemergere dal
cupo abbattimento in cui era precipitato.
«E per
te?» bofonchiò Niklas. «Voglio dire, potrebbe andare
un vicino d’ufficio con questa?»
Charlotte
accavallò le gambe sotto l’ampia gonna, lisciando
minacciosamente una piega inesistente. Il suo sguardo parlava di
un’irritazione profonda.
«Pensavo
lo sapesse meglio di chiunque altro, che non si giudica una bottiglia
dall’etichetta ma dalla qualità del contenuto»
ribatté secca.
***
Adam Mac Gregor
aveva trent’anni, un abito nuovo di zecca, un portafogli
smisurato e un ego di proporzioni bibliche che fingeva di mascherare
dietro un’insulsa, quanto irritante, patina di buone maniere.
«Dio mio, non so proprio decidermi» piagnucolò, il mento poggiato sulle nocche con un broncio infantile.
L’elegante
pizzetto caprino spariva fra le dita affusolate, fresche di manicure.
Mani così aggraziate non le avevano neppure Sandy e Charlotte.
Tra lui e la Fortion stavano due donne, la cui bellezza aveva reso
l’interno dell’officina un luogo a dir poco squallido e
tetro, un deprimente ritaglio di periferia infilato in una scatola di
vetro, metallo e mattoni. Schierati come uno stormo di piccioni sui
fili del telegrafo, gli uomini della “Legendary”
osservavano la scena dal parapetto del soppalco.
«Vivian,
cara, apri un po’ quel benedetto giacchetto. Così
accollata proprio non ti si può guardare».
Prontamente, la
donna slacciò i bottoni dorati, mettendo in mostra un elaborato
corsetto a fasce verticali unite da spirali metalliche, che con un
autentico miracolo d’ingegneria contenevano le forme giunoniche
dell’amazzone di colore. La visione strappò mugolii
estatici ai meccanici, che fecero sorridere non visto Mac Gregor.
Sapeva fin troppo bene quanta invidia suscitasse il suo harem di
accompagnatrici.
«Lilijana,
prova ad appoggiarti a quell’affare, lì… no, no!
L’altro. L’altro, amore mio dolce. Ecco, sì. E alza
quella gonna! Non è abbastanza corta per le tue splendide
gambe» suggerì mellifluo.
Grazie ad un
sofisticato sistema di nastri e cordoncini nascosti, la biondina fece
in modo di scoprire un'ulteriore, generosa porzione di cosce, lisce e
immacolate come colonne di marmo. Una mossa sbagliata e la biancheria
sarebbe stata in bella vista, ammesso che l’indossasse.
«Sto per farle compagnia, Ingegner Almgren» sussurrò schifata Charlotte, dirigendosi all’ufficio.
Trovava quelle
scene di una volgarità oltre misura, svilenti e riprovevoli al
punto che la compagnia di Niklas avrebbe potuto essere quasi
accettabile.
«Io invece sto per fare compagnia a quelle due» mugolò sognate Boy con la gola secca.
Teneva le braccia penzoloni oltre il parapetto, rischiando di finire di sotto se si fosse sporto un altro poco.
«Sembra
uno di quei filmetti del cinematografo in Ruelle Blanc»
ridacchiò No Way dando di gomito a Patch, il quale rise a sua
volta con la faccia di chi aveva colto l’allusione prima ancora
di ascoltarla.
«Quali?»
s’informò il ragazzo, che aveva gli occhi fuori dalle
orbite di fronte a tanto, inarrivabile ben di Dio.
«Zitto e guardati le animazioni, bamboccio!» lo sgridò Pancake.
«Ho
deciso!» esclamò finalmente Mac Gregor, battendo un pugno
sul palmo. «Indubbiamente Vivian! Perdonami Lilijana ma questa cosa
è talmente aggressiva che il tuo visino angelico ne sarebbe
deformato. Serve un’autista più grintosa. E tu comunque
puoi continuare a guidare la Pli-Pli, finché non ne troverò un’altra ancora più adatta a te, mia deliziosa ninfetta».
Lo staff
dell’officina si dileguò rapidamente, inorridito dal
vergognoso diminutivo usato per definire la Plithren Vhon che
stazionava con eleganti beccheggi sul piazzale della
“Legendary”. Choncho minacciò di infilare la
più grossa delle chiavi a cricchetto in suo possesso nelle parti
basse del magnate, Pancake corse a cercare un quantitativo sufficiente
di frittelle per calmare i nervi, Hito levò gli occhi al cielo
invocando la vendetta di spiriti celesti al momento disoccupati. Nessun
appassionato degno di quel nome si sarebbe rivolto ad un simile
gioiello con un appellativo inferiore a “signora” o
“madame”, con cui era notoriamente conosciuto.
«Mia
orgogliosissima Vivian! Prego, su, osserva il tuo nuovo destriero,
fanne conoscenza immediata, mia nera valchiria! E sta tranquilla, entro
una settimana sfoggerai una livrea perfettamente a tono. La faremo fare
come questi sedili: chiara con le finiture viola, la giacca cortissima
chiusa al collo che si apre su un bel corsetto, di quelli aperti fino
all’ombelico che ti piacciono tanto e che mettono in mostra quel
seno meraviglioso. E penseremo anche a un trucco adatto. Vedrai, ci
guarderanno tutti!» esclamò estasiato.
Vivian
annuì contegnosa, seguendo con la coda dell’occhio una
figura bassa e tracagnotta che sgattaiolava verso i bagni, preda di
troppa eccitazione. Non riuscì a raggiungerli in tempo: la donna
bionda si era allontanata impettita dalla Fortion, sollevando piccata
il mento e incrociando le braccia, intercettandola un secondo prima che
afferrasse la maniglia. Il caschetto biondo oscillava ai lati del volto
minuto, le labbra imbronciate formavano un piccolo cuore rosa acceso.
Le sue curiose calzature senza tacco rendevano la camminata
ancheggiante simile al fluttuare di una nuvola. Artigliò Choncho
per la maglietta, calando sulla sua bocca da quella che pareva
un’altitudine siderale. Lo baciò con tale rabbiosa
sensualità che pareva intenzionata a risucchiargli le budella.
Boy, sulla scala, imprecò tanto da dover annotare su un
foglietto l’entità del debito col Penitenziere,
maledicendosi per non essere sceso prima.
«Andiamo,
Lilijana, splendore dei ghiacci! Vieni, vieni qui» la
blandì Adam, cingendole i fianchi con un braccio e
allontanandola dal frastornato meccanico, che balbettava benedizioni
alla Madonna de la Merced, la bandana di traverso sul capo e il
rossetto rosa sbavato dal mento al naso. «Su, non arrabbiarti.
Sai che non tollero in alcun modo un volto scontento accanto a me. Mi
fa apparire turpe e tu non vuoi che la gente pensi questo di me, vero?
Tu sai che sono buono, angioletto. Molto. Molto. Buono»
sussurrò al suo orecchio, facendole venire i brividi.
Qualunque fosse
il sottinteso, Lilijana annuì estasiata, abbracciandolo e
sgambettando felice come una bimba, al punto che la gonna raggiunse i
fianchi, mettendo in mostra un delizioso fondoschiena velato di pizzo
bianco, la cui vista per poco non fece morire d’infarto Ozone.
«Donne! Tutte incontentabili!» sospirò Adam, aggiustando cravatta e panciotto mentre tornava da Clay.
Lui
l’avrebbe preso volentieri a pugni. Non lo disturbavano le sue
parole o gli atteggiamenti stomachevoli con cui si pavoneggiava,
né tantomeno le risposte lascive e volgari delle gallinelle al
suo seguito. Era lo sguardo interessato che aveva rivolto a Sandy
quando avevano siglato il contratto a renderglielo odioso: pur essendo
trascorsi più di venti giorni, il sangue gli ribolliva ancora al
solo pensiero.
Per fortuna c’è Charlotte, si ripeté per l’ennesima volta.
L’autorevole
freddezza e il distacco professionale che sfoggiava, uniti al suo
abbigliamento sobrio e ai modi pacati e composti, erano un deterrente
per quel genere di atteggiamenti. Ogni tanto si sorprendeva a pensare
che se avesse sposato una come lei al posto di Alexandra, con ogni
probabilità a quell’ora avrebbe avuto ancora la fede al
dito.
«Bene,
amico mio. Direi che è ora di parlare di questioni ancor meno
piacevoli dei capricci femminili» esclamò Mac Gregor,
sfoggiando un gran sorriso.
Seguì
Clayton nell’ufficio al piano di sopra, dove Charlotte li stava
aspettando. Gli allungò la pro forma con l’elenco
dettagliato delle prestazioni eseguite, che lui rilesse ad alta voce a
beneficio di Mac Gregor: verifica strutturale, aerodinamica e
prestazionale; modifica assetto ed equilibratura; rettifica e
ricostruzione della carrozzeria; miglioramento dei profili aerodinamici
e dei sistemi di stabilizzazione; rifacimento totale degli interni;
sostituzione motore, gruppo di raffreddamento e circuiti di spinta;
nuova livrea; etc.
«Ventisettemilaottocentoventi trias» concluse.
«Come?»
«Ventisettemilaotto…»
«Sì,
sì, Santo Cielo! Ho sentito! La mia era una domanda
retorica» lo zittì Adam, agitando lezioso una mano.
«Ci deve essere un errore» protestò.
Non era giornata per quel genere di uscite e l’umore già pessimo di Clay peggiorò sensibilmente.
«Dite,
Mac Gregor, avete dato un’occhiata alla Fortion? Vi ricordate
com’era quando ce l’avete portata?»
«Benedetto il Cielo, ovvio che lo ricordo! È proprio questo il problema!»
«Senta, possiamo provare a venirle un po’ incontro, ma sia chiaro che non posso scendere più di tanto».
«Mi prende in giro?» domandò sbalordito Mac Gregor.
La vena sulla tempia di Clay prese a mandare inequivocabili segnali di pericolo.
«Le opere
sono state complesse, io e lo staff ci siamo dedicati unicamente alla
Fortion da tre settimane a questa parte. Abbiamo lasciato in arretrato
altri lavori per darle ciò che voleva nei tempi previsti».
«E di questo le sono grato, ma si renderà conto che ventisettemila trias sono un prezzo irragionevole».
«Ora
è lei a prendermi in giro» ringhiò Clay,
trattenendosi dall’afferrare il damerino per il collo.
«Ventisettemila trias è un prezzo più che
onesto».
«È semplicemente ridicolo!»
«Quale
sarebbe un prezzo congruo secondo lei, signor Mac Gregor?»
intervenne Charlotte, affiancando con calma glaciale il suo titolare e
passandogli un plico che non aveva nulla a che vedere con la Fortion.
La rapida distrazione lo confuse e l’aiutò a sbollire il nervosismo a tempo di record.
«Se
proprio devo esprimermi… non me ne intendo, ma vista la
qualità del lavoro, l’indubbia originalità, la
rapidità, la bellezza dei materiali, la soddisfazione di Vivian
e l’invidia di Lilijana…» elencò, ai limiti
della noia. «Direi… non meno di trentacinquemila»
azzardò.
A Clay mancò un battito mentre voltava lo sguardo sulla donna che, impassibile come sempre, lo ricambiava in silenzio.
«T-trenta…cinque?» farfugliò, certo di aver capito male.
«Troppo
poco? Oh, l’incomodo che vi ho dato per i lavori sospesi, che
sciocco! Siete andati in perdita a causa della fretta delle mie
signore. Avrei dovuto considerarlo. Facciamo quaranta e non se ne parla
più?» propose Adam, prendendo il blocchetto degli assegni
con una tale nonchalance da sembrare che scherzasse.
Qualcosa riscosse la mente in Clay un secondo prima che il cliente posasse la stilografica sulla carta.
«No».
Il capofficina prese alcuni profondi respiri, stropicciandosi la faccia come un giornale vecchio.
«Ascolti,
Mac Gregor» riprese con calma. «Se proprio vuole dimostrare
il suo apprezzamento ad ogni costo, sulla fattura arriveremo a
trentamila, non di più. Le chiedo solo di tenerci in
considerazione per un eventuale futuro lavoro. Mi pare di capire che la
signorina di sotto voglia un trattamento… adatto a lei».
«Trenta»
ripeté esitante, quasi schifato. «Insisto sia una cifra
ridicola. Lei che ne pensa?» domandò rivolto a Charlotte,
la quale, senza scomporsi al ghigno da seduttore, replicò:
«Concordo
con il signor Lomann. L’onestà nei prezzi è un
vanto della nostra officina. Le cifre che ha proposto, per quanto
lusinghiere, ci farebbero passare per degli approfittatori. Lederebbero
la nostra immagine, la nostra credibilità presso il pubblico.
Siamo professionisti seri, signor Mac Gregor, non motoristi di bassa
lega con la velleità di saper dare un po’ di colore a una
scocca e farla passare per un capolavoro. Le nostre sono vere opere
d’arte» sottolineò, con un tono che non ammetteva
repliche.
Adam annuì rigido, impressionato dalla risposta.
«Mi dica
una cosa, Lomann» mormorò compilando l’assegno e
indicando Charlotte con un cenno. «Sono tutte senza cuore le
donne che lavorano qui dentro?»
***
Sandy si
sistemò meglio sul divanetto. Era arrivata appena in tempo per
vedere la Fortion scivolare ruggendo oltre le porte della
“Legendary”, seguita dai figli che erano subito corsi a
complimentarsi con lo staff e il padre. Dalla faccia
dell’ex-marito aveva intuito che doveva essere successo qualcosa
di grosso in sua assenza, e pur non condividendo il misero rialzo
accordato a quell’arricchito di Mac Gregor, era rimasta colpita
da come l’altra aveva gestito la cosa.
«E tu che hai fatto?» s’informò.
Pendeva
letteralmente dalle sue labbra: era risaputo che pochissime donne
fossero refrattarie al fascino bohemien di Adam, e ancor meno quelle
che sapevano tenergli testa.
«Secondo te?»
«Io
l’avrei inchiodato alla sedia con i tacchi prima di frustarlo a
sangue con i lacci delle scarpe, ma tu sei più da occhiata
assassina “apri di nuovo la bocca per fare il cascamorto e
saranno le tue ultime parole”».
Entrambe risero, immaginando ciascuna la faccia di Mac Gregor secondo le suggestioni dell’altra.
In quel momento bussarono e il testone scuro e lustro di Iron si sporse nell’ufficio.
«Ha bisogno di qualcosa, Lamar?» chiese Charlotte, tornando seria.
«Ehm… no» disse guardandosi attorno titubante.
«Sandy ti… ha… detto? Di domani sera?»
La segretaria
fissò interrogativamente l’amica, che si allungò
contro lo schienale accavallando scenograficamente le gambe, dove
tintinnavano diverse cavigliere.
«Non
c’ero ancora arrivata, ascoltavo un resoconto molto interessante.
Cosa mi sono persa per colpa del dentista di Junior! Comunque, domani
sera andiamo a festeggiare la consegna della Fortion. È una
tradizione della “Legendary”: a ogni grossa operazione, il
venerdì che segue prevede una cena e un po’ di
divertimento. Ovviamente sei obbligata a venire. Devi raccontarmi tutto
quanto un’altra volta a mente fredda, voglio i dettagli. Quindi
è vietato accampare scure o dire di no in qualsiasi modo»
impose Sandy, minacciandola col pugno.
«Anche
con le mani amputate che grondano sangue?» replicò
perplessa, ricordandole una sua battuta di qualche tempo prima.
«Precisamente.
Non puoi mancare a questa serata! È da un pezzo che non facevamo
un lavoro così importante, devi esserci e festeggiare con noi!
È deciso! E, per l’amor del Cielo, vestiti a tono, non
farmelo ripetere di nuovo. Ora ti lascio a meditare sul vestiario, il
nostro bestione è capitato a proposito: ho l’airship da
scaricare» mentì alzandosi con un saltello e spingendo
fuori Iron.
Appena raggiunsero la scala, l’uomo si fermò.
«Grazie. Rischiavo di mandare a monte tutto» sospirò fingendo di asciugarsi il sudore dalla testa rasata.
«Sarai
pieno di muscoli, ragazzone, ma l’unico che non sai far
funzionare qua dentro è la lingua» lo riprese,
giocherellando con i riccioli bruni che le circondavano il viso.
«In altra sede me la cavo meglio» rispose strizzando l’occhio e piantando i pugni sui fianchi.
La donna fece un risolino sarcastico, battendogli una mano sulle spalle enormi.
«Ti credo sulla parola».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** L.C. - Cap. 9 ***
L.C. - Cap. 9
9
Il corteo di
mezzi della “Legendary Customs” sfilò per le strade
di Port Serafine invase dalla luce ambrata del tramonto, lasciandosi
alle spalle passanti stupiti e ammirati.
Charlotte e
Sandy avevano preso posto sulla Torran, insieme a Clay e Scorch; dietro
venivano la Urbanhare di Patch, il trabiccolo di Ozone e a chiudere la
fila la Aries di Jack No Way.
«Cosa ti avevo detto?» borbottò Alexandra, controllando il trucco nello specchietto da borsetta.
La donna roteò esasperata gli occhi scuri, liberi dalle lenti che usava abitualmente al lavoro.
«Non capisco cos’abbia di sbagliato il mio vestito» obbiettò esasperata Charlotte.
«So che
non ti piace avere la pelle a vista, ma così non troverai mai un
fidanzato!» e l’additò imbronciata.
Era avvolta da
una cascata di raso color caramello, che scendeva aderente dal collo ai
fianchi, dove si allargava in un’ampia gonna. Il colletto e le
lunghe maniche di pizzo avorio erano allacciati all’abito con
nastri bruno scuri, che contornavano il bustino nascosto sotto la
stoffa.
«Smettila di fare l’agenzia matrimoniale. Non ti è mai riuscito granché bene» la riprese Clay.
La donna si allungò fino a cingergli le spalle con le braccia.
«Parli per esperienza diretta?» sussurrò cattiva, sfiorandogli l’orecchio con le labbra.
«Lasciala in pace» grugnì, reprimendo il brivido che dalla nuca puntava dritto al basso ventre.
Quella carogna sapeva fin troppo bene come fargli male senza alzare le mani o attentare al suo portafogli.
«Davvero non sei fidanzata, Charlotte?» domandò, sperando di portare altrove il discorso.
«È
più di un anno che lavora con noi e te ne accorgi solo ora? Bel
capo che sei!» sbottò Sandy, giocherellando con la lunga
treccia castana punteggiata di perle mentre tornava a sprofondare nel
sedile.
«Ehi, io sto in officina, non alla scrivania!» ruggì lui.
«Cosa
vorresti dire? Che ti saresti interessato di più se fosse andata
in giro sporca di grasso e con una chiave inglese al posto della
penna?» strillò.
Clayton fece spallucce e svoltò sbandando di proposito lungo Galata Kulesi1 Street, sballottando le passeggere senza troppi riguardi.
«Come non
detto! Charlotte, hai fatto bene. Non cercarti il ragazzo se devi avere
a che fare con uno stronzo! Stattene sola, hai tutto da
guadagnare!» urlò inviperita mentre tentavano di
districarsi l’una dall’altra.
A quelle parole
Scorch si volse, poggiando la guancia livida sulla spalla, mettendo in
campo la sua migliore espressione da consumato seduttore.
«Forse la signorina preferisce un uomo ad un ragazzo» commentò allusivo.
«Povera
cara. Quelli degni di questo nome sono ancora più rari. E qui
non ne vedo nessuno!» berciò Sandy, dando un calcio al
sedile di Clay.
La replica dell’ex-marito non tardò ad arrivare e fu sostenuta a spron battuto dal cugino.
Se cominciamo così, questi tre si salteranno alla gola prima che vengano a prendere le ordinazioni, pensò preoccupata Charlotte.
***
Quando scesero
dalla Urbanhare, Odrin e Wilmar si scambiarono una smorfia sollevata.
Pur essendo una versione ampiamente modificata dell’utilitaria
più venduta nel mondo negli ultimi dieci anni, il suo uso era
rimasto invariato, come testimoniavano gli avanzi di merendine, i
fazzoletti di carta usati e i capi di vestiario abbandonati ovunque dai
quattro figlioletti del collega. Secondo Pancake, il rischio biologico
prodotto dalla nidiata dei Felton era più elevato di quello di
una discarica abusiva di scorie d’altoforno, visto che Patch si
guardava bene dal ripulire il mezzo più di una volta
l’anno.
Tanto durerebbe dieci minuti, che la lavo a fare?, domandava lui di rimando.
«Vivi» sospirò l’Andull, stringendo la mano al carrozziere.
«Anche
questa volta» confermò lui, frugando nervosamente nella
giacca. «La Madonna ci assiste» aggiunse
l’uruguayano, portando alle labbra una medaglietta della Vergine.
Patch
cominciò a lanciare versi senza senso, indicando convulsamente
Charlotte che, presa alla sprovvista, rimase in bilico sul predellino
della Torran, scambiando sguardi spaventati col gruppo. Gli occhi dei
presenti corsero in basso, oltre l’orlo della gonna che era
costretta a sollevare per vedere dove metteva i piedi. Indossava un
paio di stivali in pizzo e cuoio bianco, aperti dalla punta fino al
ginocchio.
«Hai le gambe! Boy diceva che sopra le caviglie avevi dei pistoni pneumatici!» urlò sconvolto il carrozziere.
Il ragazzo,
dietro suggerimento di Ozone, non rispose alla provocazione,
limitandosi a nascondere esasperato la faccia tra le mani.
«Spiacente
di deludervi, ma le protesi le uso solo al lavoro. Fuori preferisco
usare queste» ribatté altezzosa, lasciando ricadere la
gonna con grande rammarico di Scorch e Odrin.
Il locale
scelto per i festeggiamenti si trovava a cavallo dei quartieri del Core
e di Uplands, all’interno di quella che era stata la dimora di un
ambasciatore. Su una grande villa in stile coloniale erano state
innestate suggestioni di tutti i luoghi visitati dal proprietario;
così, tra i pilastri del porticato erano comparsi archi moreschi
chiusi da splendide vetrate multicolori, guglie gotiche svettavano agli
angoli, minuscole pagode siamesi illuminate da lanterne di carta
coprivano terrazzini nascosti. Più in basso, l’imponente
basamento in grandi blocchi pietra grigia incrostata di felci e piante
rampicanti ricordava i templi della giungla andina. Eppure il
caleidoscopico insieme possedeva una propria, insolita, curiosa
armonia. Persino la grande insegna, dove il nome del locale era
decorato da grappoli di vetro opalino e sbuffi di vapore, sembrava
essere germogliata direttamente dalla struttura.
Una donna
aspettava seduta su uno dei dondoli della veranda, oscillando lenta.
Voluminosi boccoli scuri striati di corallo contornavano il viso
d’ebano, richiamando le sfumature del trucco e dello smalto sulle
unghie lunghe e ben curate. Quando il gruppo giunse in
prossimità della scalinata d’ingresso, andò loro
incontro, accompagnata dal vaporoso fruscio dell’abito di seta
verde.
«Sbaglio
o dicevi che quel colore non è di moda quest’anno?»
ridacchiò Charlotte all’indirizzo di Sandy, che fissava
indispettita la maitresse.
«Finitela
di spettegolare» borbottò Clay, spingendo avanti
Charlotte. «Buona sera, signorina. Siamo in orario?»
salutò, sforzandosi di non scoppiare a ridere.
«Capo, tu
sei in orario solo quando si tratta di consegne e paghe, per il
resto… non farmi parlare» rise la donna con una voce
piuttosto robusta. «Comunque non è te che aspettavo questa
sera, è la signorina Vernet la vera ospite. Benvenuta al
“Bull(es) de Mousse”, cara» salutò, facendo
l’occhiolino da dietro il ventaglio.
Charlotte rimase a bocca aperta per la sorpresa, quando la riconobbe.
«Lamar?»
Dell’addetto
ai lavori pesanti permaneva una traccia irrisoria: non c’era
nulla, in quella donna, che potesse ricordarlo. Le pieghe
dell’abito nascondevano il fisico massiccio, il trucco e la
parrucca ne ingentilivano i lineamenti spigolosi, la voce impostata
alleggeriva la nota greve della sua parlata abituale. C’era
però quel tremito, il buffo vibrare delle sopracciglia quando
rideva, che non poteva essere dissimulato in alcun modo.
«Oh, no, cherie. Non sono né Lamar Parker né Iron. Qui tutti mi chiamano Houpette2» rispose agitando graziosamente i piumini iridescenti che decoravano il ventaglio.
«Quindi… questo… è un club…» scandì lenta, scrutando i volti intorno.
Nella penombra
delle luci a gas che sfavillavano dai soffitti, figure androgine o
esageratamente femminili si mescolavano ad altre la cui sobria eleganza
faceva sfigurare le poche donne effettivamente presenti. Con enorme
invidia di Sandy, che disperava di ricevere il solito carico di
apprezzamenti.
«Dove si
esibiscono delle drag queen? Bien sure» annuì Houpette.
«Le più belle e talentuose trasformiste della città
e dello stato!» motteggiò spalancando le braccia come
un’autentica vedette.
«Pronti che adesso scappa» ghignò soddisfatto Choncho, sfregando le mani.
«Scapperai
prima tu. Quella non è la tua amichetta?» ridacchiò
Sandy, indicando una figura tracagnotta che si sbracciava dalla veranda
al primo piano all’indirizzo del sudamericano, che si nascose
prontamente alle spalle di Ozone.
«Segati la lingua, Sandy!» ringhiò Choncho.
«Non usare certi termini… Fiery Willie» l’ammonì con uno sguardo malevolo.
L’uomo impallidì ed incassò la testa fra le spalle.
«L’ammiratrice
di Choncho è piuttosto insistente e una volta l’ha
accontentata. Per errore» spiegò sottovoce Clay a
Charlotte, segnando un bicchiere con la mano. «Ti sarei grato se
non ne facessi parola con Maria Pilar, lei non sa niente di questa
faccenda e Choncho… beh, puoi immaginare».
Lei però
sembrava presa da un ragionamento impegnativo: mostrava la stessa
concentrazione di quando stilava i conti dell’azienda.
«“Bull(es)
de Mousse”» mormorò. «“Le bolle di
schiuma”… “Il toro di schiuma”... È un
gioco di parole. Si riferisce alla clientela e… alle
artiste» disse Charlotte, indicando l’insegna dove un
occhio attento avrebbe potuto scorgere una sagoma bovina che balzava
attraverso il luccichio delle sfere.
«Quanto
è sveglia la nostra Charlotte!» trillò felice
Houpette prendendo sottobraccio lei e Sandy, scortandole
all’interno. «Indovinato. Molto sottile, non trovi?»
«Più
del tuo culo di sicuro» commentò sarcastico No Way,
additando il voluminoso cuscinetto di crinolina alla base della schiena
nuda e solida della maitresse.
Questa si
fermò in cima alla scalinata, rivolgendogli uno sguardo truce.
Poi, le tre signore si scambiarono un’occhiata complice e diedero
contemporaneamente un calcetto all’indietro, facendo ondeggiare
gonne e strascichi in spregio agli accompagnatori, che rimasero con un
palmo di naso.
«Screanzato» ruggì Houpette, tornando al consueto tono mascolino.
Ozone,
l’unico ad aver incassato il gesto con nonchalance, batté
una mano sulla spalla di Clay che sbottò, avviandosi con la
schiena curva in avanti e le mani sprofondate nelle tasche dei
pantaloni:
«Non dire niente. Per pietà, non dire niente».
***
Houpette aveva
prenotato una loggetta al primo piano, aperta sul salone principale
perché si potesse godere della miglior vista sul palco dove si
sarebbe esibita di lì a breve. Accomodati su basse poltroncine e
grandi cuscini di broccato, gli uomini e le donne della “Legedary
Customs” creavano un insieme bizzarro, dal quale emergevano
Ozone, che si era presentato con una pesante salopette grigia decorata
da toppe di vari tipi di cuoio, che ben si accordavano con le sfumature
di barba, capelli e della faccia rugosa, e Sandy, il cui un mini abito
arancione con tre code di pizzo e organza sfidava le leggi della
gravità, sostenendosi unicamente ad un risicato corsetto in
piastrine d’ottone, che le permetteva di mettere in mostra le
lunghissime gambe, infilate in alti stivali guarniti da
un’infinità di lacci e fibbie. Gli altri avevano optato
per un abbigliamento meno chiassoso, quasi banale.
Odrin poteva
essere considerato la giusta via di mezzo: sfoggiava un gilet ed un
paio di pantaloni di pelle chiara, che lui stesso aveva realizzato.
Viste de vicino, le varie pezze che li componevano rivelavano essere
avanzi di altre lavorazioni e ritagli irregolari, ma allontanandosi di
un passo era impossibile notare il dettaglio. Tentava di non sembrare
distratto, ma troppe volte la sua testa divagava in fantasie dove lui e
Charlotte restavano soli ad amoreggiare indisturbati in
quell’alcova.
Lei sorseggiava un Berries Kefir3,
scambiando pareri con Sandy e Houpette e osservando con educata
curiosità le mise esibite dalle drag queen. Alcune erano
talmente ardite da sfociare nel grottesco, tuttavia la maggior parte
era curata in maniera impeccabile, al punto che era quasi impossibile
credere che la maggior parte dei presenti fossero uomini e non donne.
«Come mai
Delmar non è venuto? Pensavo dovessimo esserci tutti
quanti» chiese Charlotte, spiando tra la folla di artiste e
accompagnatori in cerca della sagoma ballonzolante dell’altro
Parker.
Inizialmente
aveva pensato che i due fratelli attendessero direttamente al locale,
invece una volta giunta lì era stato impossibile non notare
l’ingombrante assenza.
«Del
depreca le mie inclinazioni sessuali e il modo in cui scelgo di
esprimerle. Da sempre» rispose Houpette rattristandosi.
«Per lui esisto solo in officina, Iron è l’unica
immagine che vuole avere di suo fratello. Lamar o Houpette
non…» e si fermò per emettere un sospiro teatrale
quanto sincero. «Non gli sono congeniali».
«Pancake
è buono e caro ma è davvero ottuso, anche se non ne ha
l’aria. Fargli capire che il mondo non è come lo immagina
lui è impossibile. Sembra che viva con la testa in un fusto di
morchia e rottami. Per questo lo chiamiamo Bidone,
non solo per lo schifo che mangia. Persino Choncho ha meno pregiudizi
di lui, e ne ha a valanghe, come ben sai» sottolineò Jack
indicando il collega con il calice di vino rosso e denso che stava
bevendo.
«Ehi, che cazzo vuoi?» ruttò Wilmar, abbandonando per un secondo la pinta di birra.
«La
risposta potrebbe non piacerti» malignò Patch da dietro un
frullato di fragole e rum, riducendolo nuovamente al silenzio.
«Tu
piuttosto. Pensavamo saresti svenuta per lo spavento»
sghignazzò Sandy tra un sorso e l’altro di Gold Velvet4.
«Perché?»
«Perché
sei tutta così per bene, a modo, rigida e normale! Loro
speravano potessi sentirti almeno un pochino in imbarazzo»
cinguettò Houpette indicando gli altri col ventaglio.
«Speravate che…»
«Lascia
stare» tagliò corto Clay, per evitare di degenerare in una
lite. «Come mai tutta questa benevolenza? Insomma, puoi
capire… per noi maschi non è… facile. Abbiamo
faticato parecchio le prime volte che siamo venuti, prima di cominciare
a sentirci… a nostro agio».
Avrebbe voluto
dire “fuori pericolo”, ma sapeva che non era così:
c’era sempre qualche nuova madamoiselle che tentava di
abbordarli, nonostante Houpette avesse messo in chiaro tra amiche e
camerieri che il ruolo dell’iniettore spettava ai suoi ospiti e i
motori in cui aspiravano inserirsi erano di un solo modello.
Il
“Bull(es) de Mousse” era stato eletto a locale di
festeggiamenti sette anni prima, dopo che quasi tutti erano riusciti ad
accettare appieno il vero io del collega. Sorvolando sul trascurabile
problema delle attenzioni non richieste, era un posto piacevole,
tranquillo, pulito, con un bar ed una cucina ottimi quasi quanto gli
spettacoli che vi si tenevano – che andavano dai concerti alle
gare di improvvisazione teatrale - e con un servizio eccellente.
«Non
posso dire di condividere al cento per cento certe scelte. Ho una
visione vecchio stile dell’uomo e della donna e dei loro
rapporti. Non riesco a immaginare cosa possa scattare in un uomo o una
donna per orientarsi secondo tali… desideri. E quindi fatico a
comprenderli» ammise. «Però trovo ci siano cose ben
peggiori nell’essere umano che l’amare una persona del
proprio sesso o indossare abiti di quello opposto. Cose che possono
offendere o ferire chiunque, a prescindere dal genere. E che lo possono
fare in maniera molto profonda e duratura» rispose Charlotte con
un sorriso schietto e triste.
La sua mente
correva a qualcosa di distante e doloroso, era evidente. Fu solo per
caso che il suo sguardo venne calamitato un istante di troppo dal
bicchiere di liquore di Scorch, che la fissò accigliato.
Nessuno, neppure lei, notò il tremito rabbioso delle sue dita
sul vetro.
«Vogliamo
fare filosofia tutta sera?» brontolò Sandy, scalciando dal
suo trono tanto da far piovere parte del cocktail sui presenti.
«Siamo qui per festeggiare!»
***
Tell me your story, I’ll tell you mine
No tricks, no lies.
Where’s the innocent child?
Where’s the house of memories?
We’ll return there, along a rainy road.5
La voce di
Houpette si levò lenta e calda dal palco, dove grandi lanterne
di vetro piombato proiettavano eleganti arabeschi. Le note sospirate di
un organo a vapore zittirono le ultime chiacchiere. Dalla loggia, i
colleghi ascoltarono rapiti il brano di Theressita Santana che parlava
di ricordi amari e impalpabili speranze.
La drag queen
era rimasta piacevolmente colpita dalla reazione di Charlotte: tutto si
aspettava da un tipo così severo e inflessibile, tranne
un’approvazione. Avevano avuto modo di scambiare poche altre
parole a riguardo, perché i cocktail, le battute e soprattutto
Sandy, li avevano distratti. Tuttavia era parso subito evidente che la
cosa non la disturbasse quanto aveva temuto.
Lamar aveva
impiegato cinque anni per rivelare al gruppo delle sue tendenze
sessuali. Era stato uno sforzo immane, molto più che sollevare
due bancate a mani nude e senza paranco, e per diversi mesi gli attriti
e le battute prezzanti sul suo conto si erano susseguiti con cadenza
oraria. Ciò nonostante, poco alla volta la diffidenza aveva
ceduto il passo ad una sorta di disinteresse, per approdare ad una muta
accettazione.
Accettazione
che non aveva coinvolto Delmar. Purtroppo, per quante volte avesse
provato a chiarirsi con lui, questi non aveva fatto altro che buttargli
in faccia il proprio disprezzo, senza mai tentare di discutere in
maniera civile della cosa. Lo riteneva un abominio, un vergognoso
orrore della natura – o, per meglio dire, della sua mente bacata
– perché non esisteva neppure la remota possibilità
che un maschio potesse interessarsi a qualcosa che non fosse una
femmina. E peggio ancora, riteneva osceno che un uomo si divertisse
portando trucco, tacchi e gonne. A Del non importava che Lamar –
il fratellino cui aveva insegnato a giocare e cantare nelle sterrate
agresti di Three Weirs - fosse una brava persona, che avesse
ottimi rapporti con i vicini di casa e i parenti, avesse un lavoro
rispettabile, pagasse le tasse, esercitasse il suo diritto al voto e
fosse rispettoso delle leggi. Neppure il fatto che evitasse di
sbandierare la propria omosessualità a destra e manca quasi
fosse un bersaglio mobile, o che sfoggiasse abiti femminili solo al
“Bull(es)” – a differenza di altri che li indossavano
ovunque -, aveva aiutato Delmar a farsene una ragione. Rifiutava di
superare la barriera emotiva che aveva creato da sé e che
gl’impediva di riconoscere il fratello minore fuori dalle mura
della “Legendary”.
Lamar non si
sarebbe arreso. Avrebbe aspettato anche per tutta la vita che Delmar
capisse, che accettasse la realtà. Così avrebbero potuto
festeggiare insieme agli altri. Avrebbero riso come un tempo. Si
sarebbe fatto prendere in giro per le sue performance allo stesso modo
della loro infanzia, quando Pancake si vantava di cantare meglio di
lui. E Delmar avrebbe adorato i pancake d’orzo grezzo e nocciole
con sciroppo di lamponi del “Bull(es)”.
E per
propiziare tutto ciò, avrebbe cantato all’infinito
quella canzone, “Along a rainy road” di Theressita
Santana. Perché era sempre stata la preferita di Del.
***
«Dov’è
Ozone?» domandò Houpette, tornando ad accomodarsi tra gli
altri in un entusiastico scroscio d’applausi.
Cercarono con
lo sguardo fra le alcove e i tavolini al piano inferiore, finché
non scorsero l’attempato meccanico allungato su un fianco, preso
da un languido baciamano ad una signorina i cui capelli lisci e corvini
la facevano somigliare ad una sovrana egizia. Era talmente flessuosa e
sensuale, dai lineamenti delicati e sottili, che solo il pomo
d’Adamo ne dichiarava la vera natura.
«Cielo… non mi direte che…» balbettò Charlotte, coprendosi la bocca con la mano.
La visione
dell’alter-ego di Lamar era stata più gestibile di quella
del taciturno esperto di motori che se la spassava con una persona che
poteva avere un terzo dei suoi anni, oltre che i medesimi attributi
anatomici.
Senza contare
che poco tempo prima, mentre aggiornava le schede del personale, gli
aveva domandato se avesse moglie o figli, per contattarli in caso di
necessità. Ovviamente non aveva ottenuto risposta, ma
ripensandoci in quel momento ebbe il timore di essere incorsa in una
tremenda gaffe.
«Oh, il
vecchio non disdegna niente. In vita sua ne ha provate tante: dice che
tutto fa esperienza, se lo si fa con criterio» rispose
tranquillamente Boy, scrutando il maestro sfiorare il volto della nuova
amica con la punta delle dita. «Prima o poi mi chiederà di
fargli un paio di piercing, tanto i buchi alle orecchie li ha
già».
Ridacchiò
tra sé, considerando che, dato il fisico un po’ cadente,
agganciargli un paio di pendenti ai capezzoli avrebbe significato con
ogni probabilità vederli ciondolare oltre il bordo della maglia
da lavoro.
«E tu,
piccino, come sai delle sue “esperienze”?» chiese
Houpette interessata, virgolettando con le dita.
«Me le
racconta. Mica parliamo solo di motori» disse, sottraendosi
all’ennesimo schiaffetto che minacciava di colpirlo sulla mano.
Houpette si era
raccomandata un milione di volte che bevesse la birra dal bicchiere,
come tutti gli altri, ma lui si ostinava a far tintinnare gli anelli
che portava alle labbra contro il collo della bottiglia.
«Lui? Parla? Con te?» cantilenò Hito, un po’ brillo per l’eccesso di saké.
Boy gli rivolse un’inutile occhiataccia: il verniciatore aveva già intavolato una nuova discussione con Clay.
«Ma che
caz… caspita credete?» si corresse il ragazzo, evitando
l’ennesima gragnola di doppi sensi e gli sguardi di rimprovero di
Charlotte. «Parliamo eccome. E dopo tutto, con chi dovrebbe
parlare se non con me? Io sono il suo miglior discepolo!» rise
inchinandosi con le mani giunte, ricevendo in cambio una marea di
spintoni e schiaffi sulla nuca.
E lui è la persona migliore che abbia mai incontrato in vita mia, considerò spiandolo con la coda dell’occhio.
1 Galata Kulesi: Torre di Galata, uno dei più importanti monumenti di Istanbul.
2 Houpette: “piumino” in francese.
3 Kefir: è una bevanda turca a base di latte, simile allo yogurt
4 Gold Velvet: è un cocktail a base di birra e champagne
5 Dimmi
la tua storia, io racconterò la mia / Niente trucchi, niente
bugie / Dov’è quel bambino innocente / Dov’è
la casa dei ricordi / Torneremo là, lungo una strada di pioggia.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** L.C. - Cap. 10 ***
L.C. - Cap. 10
10
Scorch rideva sguaiato e batteva i pugni sul bancone, attirando smorfie
di biasimo dai presenti. Era palesemente ubriaco e l’uomo che gli
faceva da compagnia e sprone non era da meno. Avevano ordinato almeno
un paio di giri per ogni alcolico e superalcolico presente nella
dispensa e sulle mensole del bar, e gli esiti stavano diventando
imbarazzanti quanto ingestibili.
Nonostante la massa dei ricci scuri di Jack si frapponesse di continuo
a quella deprimente visione, Charlotte non riusciva ad ignorarla del
tutto. Ad un tratto Scorch si voltò, imitato dal compare. Lo
sguardo che le rivolsero la spaventò a morte: non c’era un
briciolo d’ironia o divertimento, solo lascivia e
meschinità. Lei non lo diede a vedere, almeno fino a quando
l’ingegnere spiaccicò la bottiglia sul petto
dell’altro e prese ad arrancare tra i ballerini. Barcollava e
sbatteva contro ogni persona incontrasse sul suo cammino, grugnendo e
sollevando commenti sdegnosi e occhiatacce.
La sola idea di concedere un ballo ad Almgren la disgustava e le faceva
tremare le ginocchia, ma non ebbe tempo di pensarci: Odrin, con passo
svelto e deciso, la raggiunse e sostituì Jack quale nuovo
cavaliere.
L’Andull la sospinse in un angolo della pista, dove le luci erano
basse e la ressa sopportabile, lontano dalle mire dello sbronzo
progettista che tornò imprecando verso i liquori, spintonando
chiunque.
«Cominci pure. Quali sono le sue… tue rimostranze?»
si corresse avvilita, appoggiandosi alla spalla del partner mentre
questi le cingeva i fianchi con un braccio.
«Rimostranze?» chiese stupito, prendendo delicatamente la mano di Charlotte nella propria.
Lei sospirò, spiandolo da sotto in su. Si sentiva in imbarazzo
mentre gli parlava - come era stato con gli altri per la poca abitudine
a dar loro del tu -, ma anche piacevolmente rassicurata: il profumo
dolciastro degli abiti di Odrin le ricordava quello dei vestiti da
lavoro di suo padre. Era un ricordo lontano, legato all’infanzia
e a momenti pieni di felicità. Ritrovarlo su un’altra
persona era meraviglioso.
«Tutti hanno voluto esprimere giudizi sul mio operato. Ovviamente
non erano lusinghieri. Quindi, sono pronta. Cosa vuole… vuoi
dirmi?»
Gli occhi grigi di Odrin brillarono di una risata interiore.
«Vuoi che mi lamenti? D’accordo» acconsentì,
grattando la parte calva della nuca. «Rivoglio LucyBelle in
officina».
«Non se ne parla» replicò prontamente la donna,
ritrovando la consueta serietà. «Mi dispiace Odrin, ma la
normativa sanitaria è molto rigida a riguardo. E poi è
disobbediente, scappa sempre dal laboratorio. Giocando tra i banchi
rischia di farsi male o di ferire qualcuno, inclusi fornitori e
clienti. Non posso permetterti di riportarla, anche se ci tieni. Non
dovrebbero accedere all’officina neppure Junior e Bonnie,
figuriamoci lei».
L’Andull la trovò graziosamente buffa quando la vide
ripetere il gesto con cui sistemava gli occhiali, nonostante non li
indossasse.
«Mi piace quando spieghi le tue decisioni. Sei sempre così
razionale, precisa. Anche se non si parla di lavoro durante le
uscite» le fece notare.
«Cosa?»
«È la regola: niente lavoro fuori dalla
“Legendary”. Credo abbiano approfittato del fatto che tu la
ignorassi perché non vieni mai
all’“Archituono” con noi» spiegò
ammiccando. «L’unica vera lamentela che voglio avanzare
è che ho dovuto aspettare fino ad ora per ballare con te. Non mi
dispiacciono i lenti, però persino Boy mi ha scavalcato e questo
è un affronto che non posso tollerare. C’è una
gerarchia in officina e va rispettata. Sarai costretta a pagare pegno
per averglielo permesso».
Lei deglutì a vuoto, tremando mentre abbassava lo sguardo.
«Stavo scherzando, Charlotte» chiarì subito, dandosi dell’idiota per averla spaventata.
«Scusi. Scusa» rettificò scrollando le spalle.
«Non è colpa tua. È… quell’uomo. Con
l’Ingegner Almgren. Mi dà i brividi».
Odrin sfruttò una breve giravolta per spiare in direzione del
bancone. Scorch tracannava del liquido di uno strano verde
fosforescente, affiancato da un tizio alto e magro, con i capelli scuri
legati in un codino. Aveva il profilo schiacciato, da pugile, e la
pelle olivastra.
«PigTail. Paul Brown, negli archivi» ringhiò.
«Lavorava da noi, poi Clay l’ha cacciato. Non dovrebbe
nemmeno farsi vedere, ma è rimasto amico di Scorch. Scommetto
che gli ha detto lui di venire. Se può consolarti, ha sempre
fatto quest’effetto a tutti quelli che lo incontravano, ma forse
posso rimediare» propose, approfittando di un cambio di ritmo per
stringerla a sé.
L’impatto con il corsetto lasciò entrambi senza fiato.
Odrin ebbe l’impressione di essersi scontrato con un HWc 1200
stracarico.
«Accidenti» esalò massaggiandosi il torace.
«Lo dico sempre che queste vostre gabbie sembrano di ferro».
«È un po’… rigido. M-mi spiace» si scusò, anche lei dolorante.
«Le cose belle vanno protette. Soprattutto quando si ha a che
fare con rudi meccanici armati di serratubi e parolacce»
ridacchiò passandole una mano sulla schiena e facendola
avvicinare, questa volta con cautela.
«Quindi non devo proteggermi dagli Andull addetti agli
interni?» azzardò, allungando le braccia sulle sue spalle.
«Noi Andull siamo abili guerriglieri e non manchiamo di rispetto
alle donne, è sacrilego. Però…»
«Però?»
«Però,» cantilenò accarezzando la stoffa
sopra i lacci del corsetto, «quando ne desideriamo una, sappiamo
impegnarci a fondo per conquistarla. Diventiamo ostinati, specie se la
fanciulla in questione è sfuggente, autoritaria, odia il
turpiloquio, tenta di mantenere sempre un certo distacco professionale
e non ha la patente».
Charlotte arrossì, trattenendo il fiato. Di certo non doveva mai
esserle capitata una dichiarazione simile. Guardò attorno,
tentando di trovare un argomento di conversazione per difendersi da un
ipotetico nuovo assalto. Vide Clay e Sandy al centro della pista. Erano
entrambi piuttosto allegri, ridevano, inciampavano l’uno
nell’altra scambiandosi dispetti e fugaci toccatine.
«Non riesco a credere che siano divorziati. Sembrano due fidanzatini» commentò divertita.
«Nessuno ci crede. Loro per primi» disse Odrin mentre i titolari prendevano a baciarsi con discreta foga.
Istigati dallo slancio amoroso, molti dei presenti li imitarono,
formando una bizzarra cornice di parrucche, lustrini ed effimere
identità.
L’artigiano colse al volo l’occasione.
«Pensi che dovremmo unirci?» le domandò.
A dispetto di ogni previsione, Charlotte tentennò. Non era
ritrosia verso una mancanza di rispetto, sembrava piuttosto il timore
di ammettere qualcosa di tremendamente scomodo. O che desiderava.
«Sarebbe di cattivo gusto non seguire l’esempio. E mi stai
fissando la bocca» insisté scherzosamente lui.
«Non avevo notato che il tatuaggio proseguisse sulle labbra» si giustificò senza guardarlo.
«Vuoi sapere se è stato doloroso quando l’ho
fatto?» chiese ma non aspettò la risposta: «Da
morire. Ha sanguinato per settimane, ma ne è valsa la pena se
piace. Perché… ti piace, vero?» domandò,
ottenendo un timido sorriso.
L’implicita confessione rappresentava una conquista colossale.
«Allora, vuoi che ci uniamo agli altri? Sarò delicato, giuro. Non sono Sandy» promise.
Poco più in là, Alexandra stava letteralmente soffocando
di baci l’ex-marito che evitava di sottrarsi e anzi, partecipava
con notevole trasporto, al punto da averla afferrata per i fianchi,
sollevandola da terra.
«Potrebbe esserci qualcuno, nella mia vita» l’ammonì Charlotte.
«Mama Pilar è un segugio in queste cose e una gran chiacchierona. Si preoccupa molto per il cuoricino infelice della sua niña adorata e solitaria. Oltre che per quello di Justina» replicò sottovoce.
Poco a poco, seguendo il languido dispiegarsi della canzone, Odrin
accostò il volto a quello della donna, poggiando la fronte sulla
sua. La sentì stringere timidamente le braccia attorno alle sue
spalle, quasi cercasse di sostenersi o farlo avvicinare. I capelli
bianchi ricadevano in avanti, ondeggiando con quelli castani. Rimasero
così, immobili, le labbra vicine sfiorate dai soli respiri, fin
quando il brano terminò.
«Pensavi davvero che l’avrei fatto, anche se non
volevi?» bisbigliò, studiando nella penombra il volto
della segretaria.
Lei non rispose, ma le labbra socchiuse dicevano inequivocabilmente
“sì”. Charlotte aprì gli occhi. Respirava a
fatica, quasi che l’emozione la sovrastasse, soffocandola.
«Impegnarsi a conquistare una donna non significa darle il
tormento o obbligarla a fare ciò che non vuole. Dimmi fin dove
posso arrivare. Mostrami il limite e non andrò oltre»
promise chinandosi ancora.
Odrin non proseguì: la mano di Charlotte si era posata sulle sue labbra, fermandolo.
Parla, maledizione. Parla, Charlotte. Fammi capire se lo vuoi anche tu, scongiurò.
«Houpette mi sta aspettando. Vuole farmi conoscere il titolare,
Brigit» ansimò, facendo scorrere piano le dita lungo i
contorni bianchi e neri.
Lui si limitò ad annuire, baciandole i polpastrelli.
«Quando avrò fatto… mi piacerebbe… ballare ancora» propose con immensa fatica.
«Sono a tua disposizione. Per tutta la notte» le sorrise con gentilezza.
«E dovrò farmi perdonare per… averti fatto
stancare?» chiese, accarezzando le cuciture del gilet di pelle.
«Era sottinteso» confermò facendole l’occhiolino.
«Non sono brava a gestire le forze altrui, me la cavo meglio con
tempi e costi. Potresti dover perdonare molto alla sottoscritta»
lo informò, giocherellando con una treccina rimasta impigliata
in un fermaglio.
Odrin, stupito dal gesto e dalle parole, rinsaldò la presa, stringendola nuovamente a sé.
«Sarò magnanimo» le concesse, baciandole la mano mentre scioglieva l’abbraccio.
Charlotte se ne andò, sfoggiando il consueto aplomb e lasciando l’artigiano a rimuginare intrigato.
«Limonato duro?» s’interessò Boy, quando tornò a sedere con il gruppo.
L’Andull agguantò un bicchiere di SnowyPeach dal vassoio
di un inserviente e cominciò a sorseggiare, ignorando il collega
per seguire l’abito color caramello tra la folla e controllando
che nei paraggi non comparissero Scorch e il suo socio.
«Tutta scena. Non c’ha fatto un cazzo. Hai perso, paga» sbadigliò Patch fragorosamente.
Il ragazzo imprecò frugando nelle tasche alla ricerca del trias
concordato. Non trovandolo, si alzò per andare a scroccarlo a
Ozone, che sedeva come un pascià tra un harem di drag queen che
gli offrivano leccornie e parevano venerarlo quasi fosse un muto dio
barbaro.
«Te l’avevo detto che non combinavi niente. Non te la darà mai» insisté Patch.
Lui fece spallucce continuando a bere, gli occhi puntati sulla sua
bella, ora intenta a conversare con un donnone dal caschetto platinato
e tempestato di gemme variopinte.
Spiacente Patch, ma la verità la sapremo solo io e Charlotte, pensò scorrendo con il mignolo la ciocca che lei aveva toccato.
***
Wilmar sedette per qualche minuto sui gradini della veranda, guardando
le luci della Urbanhare allontanarsi. Era quasi sicuro d’essersi
seduto su una caramella che doveva essere stata sputata sul sedile
chissà quando da uno dei marmocchi Felton. Quei bambini non
erano normali, producevano schifezze in quantità industriale.
D’altra parte erano i figli di Patch, uno che ora lavava la
divisa una volta al mese solo perché Charlotte era riuscita ad
imporglielo, mentre fino a due anni prima il cambio avveniva solo
perché gli indumenti gli cadevano di dosso a brandelli.
Quella zona di La Roscas era tutta un susseguirsi di piccoli villini
dimessi, circondati da giardinetti trasformati in orti; case semplici
dove viveva la maggior parte dei latinos della città. Sopra i
tetti bassi svettavano il campanile della chiesa di Nostra
Señora de la Merced, perno centrale dell’intera
comunità, e qualche raro palazzo di mattoni. In uno dei
più recenti viveva Clay.
Dopo le danze, le chiacchiere, la musica e gli scherzi, sentiva il
bisogno di un po’ di calma e alle tre del mattino, La Roscas era
il posto perfetto per trovarne.
Uno scapaccione lo fece sobbalzare e strappò via la bandana,
mettendo a nudo il grande tatuaggio sulla sua testa. Nella bassa luce
della veranda si distinguevano a malapena i contorni di una Madonna
circondata di fiori e una scritta.
«¿Dónde has estado? È tardissimo!» sibilò ansiosa una voce.
«Alla festa, mama, lo sai! Ti saluta la tua niña. E adesso
ridammela!» sbraitò coprendosi la testa con le mani,
nell’attesa di riavere il maltolto.
Maria Pilar sedette al suo fianco, stringendosi nel vecchio scialle e infilando la bandana nella tasca della vestaglia.
«Vi siete divertiti?»
«Sì. È stata una bella serata» ammise sbadigliando.
Come se ci si potesse veramente divertire, quando le uniche tette vere in giro sono quelle della Vernet, commentò tra sé.
Gli dava il voltastomaco pensare che sotto la quasi totalità dei
vestiti ci fossero state imbottiture e protesi. E dire che aveva visto
diverse belle (presunte) pollastre, alcune con gambe da favola, che
però nascondevano sorprese da incubo. Per sua fortuna era ben
cosciente di chi si celassero quelle vesti o avrebbe rischiato grosso
ogni volta.
«C’era una bella signorina, eh?» sogghignò Maria dandogli di gomito.
«Coma fai a dirlo?» domandò allarmato, tastando freneticamente collo e faccia.
La sua spasimante gli aveva teso un’imboscata mentre tornava dal
turno in pista con la segretaria, ma non aveva avuto modo di
verificarne le tracce.
«Hai un buon profumo».
«Era un mostro, fidati. E la conosci bene, visto che era la tua niña»
sviò, indispettito dal tono pericolosamente ammiccante. «E
poi che bisogno ho di una donna, quando ho già la migliore del
mondo?»
Maria Pilar rise accondiscendente, guardando verso la chiesa.
«Wilmar, io non ci sarò per sempre. E tu non sei più un bambino».
L’espressione del figlio s’indurì all’istante.
«Mama, non cominciare. Tu ci sarai sempre!» grugnì balzando in piedi.
«Willie…»
«È così, taci!» ruggì, camminando in circolo come un animale in gabbia.
Ogni volta la stessa storia. Ogni volta doveva ricordargli quel periodo
terribile di venticinque anni prima, quando erano arrivati su una
carretta del mare che si era rovesciata a poche miglia dalla costa. Era
quasi affogata per salvare lui e sua sorella, aveva lottato per venti
giorni contro il coma, in bilico tra la vita e la morte, e per mesi con
l’Ufficio Immigrazione delle Colonie e l’Ambasciata che
minacciavano di dividerli per sempre. Aveva combattuto per dar loro una
casa, un pasto, un’istruzione, un futuro. Per restare uniti,
sempre e comunque.
Se Blanca si era sposata e aveva messo su famiglia altrove, Wilmar non
gliene faceva certo una colpa. Era felice per lei. Lui però non
poteva né voleva lasciar sola la mamma, non si sarebbe fatto
spingere fuori della porta tanto facilmente.
«Smettila, mama. Te l’ho detto tante volte. Tu non vai da nessuna parte. Non ci vai, mama.
Non te lo permetto!» s’intestardì, indicando il
tatuaggio che aveva fatto a quindici anni - spacciandosi per
maggiorenne -, per ringraziare la Vergine e colei che l’aveva
messo e tenuto al mondo.
La scritta sulla sua pelle recitava “Santa Madre y Mi Madre”.
«Wilmar, mi pequeño…» sospirò dolcemente.
«No! No mi pequeño! Non. Dire. Niente» scandì furioso, sottolineando ogni sillaba con una pedata sul vialetto sconnesso.
Pur essendo basso e tarchiato, a Maria Pilar sembrò che suo
figlio fosse diventato un gigante, reso immenso dal dolore e dalla
paura che non riusciva a scrollarsi di dosso.
Choncho tornò a sedere e l’abbracciò forte.
«Non dire niente, mama. Non dire niente. Rimani. Rimani e basta» mormorò trattenendo le lacrime.
***
«Mamma, stai bene? Hai una faccia che fa paura».
Con immensa fatica, Alexandra si costrinse a sollevare le palpebre, che
in quel momento parevano di ghisa. Davanti a lei c’erano gli
occhi verdi ed il volto tondo di sua figlia.
«Bonnie… ho la testa che scoppia. Come ci sono arrivata
qui? Eravamo alla festa… c’era Charlotte che ballava
con… chi diavolo era? Ozone? No… forse con… con
Choncho? Possibile? Oh, mi sento gonfia come un aerostato! Che diamine
ho mangiato?» piagnucolò.
«Ti ha portata a casa papà. Non ti ricordi?» la
interruppe la ragazzina raddrizzandosi e gettando indietro i lunghi
capelli lisci e castani.
Sandy strizzò gli occhi sulla camera da letto, quasi temesse di trovare Clay addormentato al suo fianco.
«Papà?» domandò con un mezzo sbadiglio, che
tale rimase quando un terrore improvviso la risvegliò di colpo,
facendola stringere nelle coperte.
Già una volta, un paio d’anni prima, lei e Clay erano
stati sorpresi dalla figlia quasi nudi in quella stessa stanza,
avvinghiati l’uno all’altra, dopo aver ceduto a parecchi
bicchieri di troppo. Era stato in assoluto uno dei momenti peggiori
della sua vita: lo sguardo perplesso e speranzoso di Bonnie
l’aveva fatta vergognare profondamente, mettendola di fronte alla
sua incapacità di chiudere definitivamente con
l’ex-marito. Anche quella volta c’era stato di mezzo un
festeggiamento al “Bull(es)”.
Dobbiamo smettere di andarci, è deleterio, pensò amareggiata. Non
posso rischiare tutte le volte di ritrovarmelo qui quando mi sveglio.
Non riuscirei ad allontanarlo. Finirei col chiedergli di restare.
«Sì, ma ti sei cambiata da sola» riprese Bonnie, sedendo composta sul bordo del letto.
«Come fai a dirlo?» sibilò indispettita, tastando
sotto le lenzuola per scoprire cosa le fosse rimasto addosso.
«Gli hai tirato uno stivale urlando che doveva levarsi dai piedi,
che non avevi bisogno di lui e che doveva tenere le mani a posto.
Papà è passato davanti alla mia stanza subito dopo».
La donna scoprì mestamente le gambe, trovando la sinistra ancora infilata nella calzatura.
«Credi che l’abbia preso?» chiese con una smorfia.
«Nel senso se hai centrato papà? Sì e in pieno da
come si lamentava, ma non so dove. Lo stivale te l’ha lasciato
sulla scala. Forse pensava di farti un dispetto».
Mentiva: Clay si era prodigato nello sbraitare come una furia di aver
rischiato di perdere un occhio grazie a quel maledettissimo tacco a
spillo. Ovviamente “maledettissimo” non era il termine che
aveva usato, ma Bonnie aborriva quanto Charlotte le scurrilità,
soprattutto se a usarle era suo padre.
«Fantastico. Vedrai se non verrà a sbattermelo in faccia.
Dirà che sono una pazza furiosa» gemette sdegnata,
tentando di mettersi seduta tra mille doloretti. «La mia
schiena… sembra che me l’abbiano tritata».
«Colpa del corsetto. Ti avevo detto che l’avevi stretto troppo» la redarguì la figlia.
«Vedremo quanto stringerai i tuoi, saputella» sbottò tirandole un cuscino.
Ingaggiarono una battaglia che ebbe vita breve per via della stanchezza che ancora attanagliava Sandy.
«Mamma?»
«Mmm?»
«Hai baciato papà» ridacchiò, nascondendosi il guanciale.
Sandy sgranò gli occhi.
«Che ti salta in mente? Io che bacio tuo padre? L’avrai
sognato» borbottò aspra, sfiorando distrattamente le
labbra che trovò ancora piuttosto gonfie e doloranti.
Proprio come quando Clay la baciava a lungo e con troppa passione.
«Vi ho visti» insisté innocente la ragazzina.
«Tu… cosa?»
«Avete fatto tanto di quel baccano quando siete arrivati che mi
sono svegliata. Avete perfino rovesciato il tavolino
dell’ingresso e continuavate a ridere. Rie è scappata come
se avesse un mostro alle calcagna» ghignò, ripensando alla
fuga precipitosa della babysitter.
«Quel pachiderma urbano! Sempre il solito. Se l’ha rotto
glielo metto in conto nel prossimo assegno» sbottò
imbarazzata, incrociando le braccia per tentare di darsi un contegno.
Rie era la figlia maggiore di Hito. Dio solo sapeva cosa poteva avergli
raccontato, una volta arrivata a casa trafelata. Forse qualcosa tipo
“i signori commettono atti osceni di fronte a me neanche fossero
due adolescenti arrapati”.
«Papà ti teneva in braccio e quasi non riusciva a portarti
su dalle scale. Sembrava che lo stessi strangolando»
osservò divertita Bonnie.
Era stata dura non farsi scoprire mentre li spiava dalla porta
socchiusa. Vedere la mamma aggrappata al papà, le sue mani che
gli sostenevano la testa mentre si baciavano e mugolavano sillabe
incomprensibili, avanzando tentoni nella semioscurità ansimando
come dopo una corsa folle, le aveva fatto quasi sperare che le cose tra
loro si fossero finalmente risolte.
«Non sai quante volte avrei voluto farlo» mormorò
Sandy, vergognandosi della scena che doveva essersi presentata agli
occhi della ragazzina.
Lei con le gambe stette attorno ai fianchi di Clay che, sicuro come
l’oro, la reggeva con una mano sotto al sedere e l’altra
chissà dove, forse sul corrimano, forse sulla schiena.
Più probabilmente sotto al corsetto o alla gonna. Un brivido
l’attraversò al ricordo di come si concludevano quelle
scalate anni addietro, ma non seppe dire se si trattasse di rabbia o
desiderio. Le costava ammettere quanto sentisse la mancanza del loro
modo rude e scatenato di fare l’amore o il semplice bisogno di
sentirsi chiusa nella vigorosa stretta di Clay.
Notando la sua espressione, Bonnie si accoccolò al suo fianco, abbracciandola.
«Gli vuoi ancora bene, vero?» domandò fingendo scarso interesse.
Nonostante avesse solo dodici anni, sapeva mostrarsi molto più
matura della sua età, al punto che talvolta Sandy si domandava
chi fosse davvero la donna di casa tra loro.
«Mi sembrava di vedervi come quando ero piccola. State bene
insieme. Mi piacerebbe riavervi così, tutti i giorni. Magari non
di notte, insomma… voglio dormire, ma di giorno sì»
puntualizzò ridacchiando triste.
Con un grosso sospiro, Alexandra contraccambiò l’abbraccio e le diede un bacio sulla fronte.
«È complicato, tesoro. Troppo complicato».
Anche per noi che ci siamo dentro fino al collo, pensò abbattuta.
«Penso che anche Click-Clack lo vorrebbe» aggiunse Bonnie.
La madre si sforzò di sorridere al soprannome di Junior, che mai
come in quegli ultimi tempi sembrava calzargli a pennello. Click-Clack
Lomann. Perché no? Dopo tutto, ogni membro dell’officina
aveva un soprannome. Lei pure ne aveva avuto uno e Bonnie era stata
“Rotellina” fino ai quattro anni, quando aveva messo
fisicamente in ginocchio Hito, costringendolo a chiederle perdono
perché si ostinava a chiamarla con un nome che non era il suo.
Cose che succedevano in una famiglia come la loro. Una famiglia estesa,
piena di figure equiparabili a zii e cugini, ma dove papà e
mamma non formavano una coppia.
«È complicato, Bonnie» ripeté.
Writer's Corner.
Solo
poche parole prima che le onde mi trascinino via, verso altri lidi...
ringrazio chi sta leggendo questi capitoli nonostante le vacanze.
Soprattutto Shade Owl, che si trova ancora a recensire tutto solo
soletto! Qualcuno vuol dargli una mano?
Grazie a blood_mary95 che ha inserito "Legendary Customs" tra le preferite. Ovviamente l'invito è rivolto anche a te.
Alla prossima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** L.C. - Cap. 11 ***
L.C. -Cap. 11
11
Il rito della messa a punto della muscle-ship era uno dei pochi punti
fermi nella vita di Clayton. A domeniche alterne, quando non era
impegnato a fare il padre, trascorreva qualche ora nel silenzio
dell’officina, dando una solenne ripassata alla Torran.
Quella mattina Port Serafine era stata travolta da un temporale coi
fiocchi, che spazzava vigorosamente l’aria e i muri delle case
con scrosci gelidi e folgori abbaglianti.
Clay, approfittando della piacevole frescura di quelle ore, si era
infilato sotto al mezzo, dove un grosso fascio di tubi conduceva il
vapore dalla camera di produzione alle turbine. Benché il
libretto della casa consigliasse la pulizia di tali condotti ogni
ventimila miglia, Clay preferiva controllarli ogni cinque-settemila.
Dopo tutto, il suo gioiello era poco più giovane di lui, non era
esattamente nuovo di concessionaria.
Aprì con estrema cautela la valvola di sicurezza montata sulla
parte superiore dei tubi, che emise uno sbuffo prolungato mentre la
pressione scendeva. Un gorgoglio segnalò la presenza di condensa
all’interno.
Allungò la mano ma la dima di scavalco Mastrehön
scivolò via, strisciando sul pavimento di cemento. Voltò
la testa, scorgendo un’ombra muoversi nel riverbero delle lampade
e dei fulmini. Facendo leva sui talloni, si trascinò avanti.
Accanto alla fiancata c’era Sandy, accoccolata in precario
equilibrio sui tacchi. Rigirava con cautela il bypass, tenendolo per il
dotto di collegamento ed osservandolo con quell’aria ipercritica
che riservava agli attrezzi moderni impiegati su veicoli datati.
Clayton prese un profondo respiro, scacciando dalla mente
l’immagine di lei che finiva a gambe all’aria, mostrandogli
quale intimo indossasse.
«Ridammi quell’affare prima di spezzarti un polso» sbuffò tendendo la mano.
Lei si alzò, stringendo il pesante utensile fra le mani, decisa a stanarlo dal suo rifugio.
«Dobbiamo parlare» disse, solo apparentemente placida.
Clay aggrottò la fronte, fiutando guai. Quando Sandy voleva
parlare, aveva poco da stare allegro. Anche quando l’aveva
incastrato per il ballo aveva esordito così.
«Dove sono i bambini?» chiese, insospettito dalla quiete che li circondava.
«Con mia madre. È venuta a trovarci. Ti saluta e ti manda
il suo pasticcio di vitello e formaggio» e indicò un
contenitore di ceramica posato su uno dei carrelli da lavoro lì
accanto.
Lui si morse l’interno delle guance per non correre ad
addentarlo: il manicaretto di nonna Jane era famoso in tutta
l’officina, tanto che persino Maria Pilar si era rifiutata di
prepararlo, ricetta alla mano, per non offendere una tale meraviglia
gastronomica.
«Saluta Jane e ringraziala per lo spuntino. Ora voglio finire
qui» ribatté e fece per scivolare via, ma la punta aguzza
di una scarpa s’infilò sotto il suo ginocchio,
impedendogli il movimento.
«Donna, non è il momento» ringhiò, artigliando lo chassis della Torran.
«Esci, Clay» insisté.
«Ho detto che ho da fare» replicò irritato.
«Esci».
Il capofficina rimase immobile, sforzandosi di non stritolare il pianale dell’amata airship.
«Almeno fallo per i bambini» lo punzecchiò Sandy.
L’allusione era chiara: esci di lì, o staranno ancora con
me. Per colpa della festa che si sarebbe tenuta quel venerdì
sera al City Garden, Clay si era visto costretto ad un cambio di turno,
così Junior e Bonnie sarebbero andati da lui solo il fine
settimana successivo. Odiava servirsi della babysitter, anche se si
trattava della figlia del suo secondo, che pure era una ragazza
piuttosto in gamba. Quando stava con i suoi figli, voleva essere il
solo a prendersene cura, cascasse il mondo.
«Donna, tu mi fai impazzire!» rimbrottò mettendosi a
sedere sul pattino, gli avambracci sulle ginocchia. «Che
c’è?»
Sandy prese qualche secondo per sfilarsi teatralmente la corta mantella che le copriva le spalle.
«Non deve più succedere» attaccò decisa.
«Cosa?»
«Mi hai baciata!» strillò.
E non solo. Almeno credo,
aggiunse incerta tra sé, rimpiangendo di ricordare poco o nulla
della serata, così da potergli sbattere in faccia ogni dettaglio.
«Hai le idee un po’ confuse, piccola»
sogghignò con cattiveria lui, strattonando le dita con uno
straccio nel tentativo di pulirle dall’unto. «Ci sono
almeno una quarantina di persone pronte a giurare che chi si è
trovato per primo la lingua in bocca sono stato io, non tu».
Ricordava fin troppo bene le labbra di Sandy che si posavano sulle sue
guance, sulla fronte, sul collo e sui lobi delle orecchie, prima di
puntare imperiose sulla sua bocca.
«Quindi sarei io la colpevole?» sibilò gettando via
la mantellina, l’aria di chi era pronta persino a fare a pugni
pur di avere ragione.
Clay si limitò a fare spallucce, continuando a strofinare le mani.
«Sempre e solo io, la colpevole. Logico» rispose gelida.
La sua voce si mescolò ad un tuono, il cui boato cercò
inutilmente di nascondere frustrazioni che l’uomo non poté
ignorare. Non le aveva rivolto accuse, ma sapeva fin troppo bene che
nella sua testa quelle parole equivalevano a rivangare i motivi del
divorzio. La colpa. Di chi era la colpa della loro rottura? Sua? Di
Sandy? Di entrambi? Sapeva solo una cosa: gli unici a non avere colpe
erano Bonnie e Junior, ed erano anche le sole, vere vittime.
«Avresti dovuto fermarmi. Impedirmi di… comportarmi da
stupida. Dovevi dirmi di no e riportarmi a casa appena le cose hanno
preso la piega sbagliata!» riprese, inghiottendo il groppo alla
gola che cominciava a soffocarla.
Clay si alzò e le si piazzò davanti, meditando se dirle o meno come stavano le cose.
«Non mi andava» sbuffò avvilito, gettando la pezza su uno dei carrelli portattrezzi.
La donna lo fissò sconvolta. Sapeva che l’ex-marito non si
era mai arreso alla separazione, ma che addirittura arrivasse ad
approfittare delle sue debolezze per appagare le proprie era assurdo.
«Sì, mi hai sentito: non mi andava di fermarti»
ripeté, levandosi a strattoni la canottiera. «Cazzo,
Sandy, non puoi pretendere che non mi venga voglia di baciarti o di
scoparti quando ti comporti così. Sembra che lo fai apposta, che
tutto quello che è successo è stata solo una cazzo di
buffonata per farci un dispetto! Vieni lì, ridi, scherzi, mi
abbracci, mi baci, mi tocchi come se niente fosse! Mi hai chiamato Orso mentre mi infilavi la lingua in un orecchio!»
L’accenno a quel soprannome, usato solo
nell’intimità della loro camera da letto, la fece
avvampare di vergogna.
«Non puoi farmelo venire duro e pensare che ti lascerò
fare senza reagire. Non sono di ferro» ribadì, prendendole
la mano e portandosela sul cavallo dei pantaloni, già piuttosto
teso.
Sandy non riuscì a scostarsi, provando uno strano languore.
«N-non può funzionare, Clay. Noi non… non possiamo» balbettò ad occhi bassi.
Non riesco a fidarmi fino in fondo di te,
avrebbe voluto aggiungere, ma le parole rimasero bloccate in un
cassetto della sua mente, chiuse a chiave da una coscienza alternativa
che le impediva di allontanarsi da colui che era stato - e per certi
versi, considerava ancora - il suo uomo.
«Vallo a dire al sorrisone di Bonnie» ringhiò indispettito, lasciandole la mano che ritrasse a fatica.
«Sapevi che era lì?» chiese, obbligandosi a guardarlo in faccia per non fissare il suo petto.
Nonostante i quarantasette anni, Clay aveva ancora un fisico notevole.
È bella come te, difficile non vederla, avrebbe voluto rispondere lui.
A dispetto delle diverse birre, era riuscito a scorgere la sua dolce
nuvoletta che li spiava dalla porta. Vederla così felice gli
aveva fatto torcere lo stomaco al punto tale che aveva finito col
provocare deliberatamente Alexandra per avere una scusa per andarsene.
Non aveva voluto dare false speranze a Bonnie: per quanto amasse ancora
sua madre, una parte di lui seguitava a puntare il dito sulle sue
mancanze di allora.
«Sì, ma non credo si sia accorta che l’ho vista» rispose invece.
No, non se n’è accorta, ma ho il sospetto che non me l’abbia raccontata giusta, meditò Sandy, ripensando a ciò che la figlia le aveva rivelato il mattino precedente.
«Alexandra, potremmo… insomma…» cominciò Clay, incespicando nelle parole.
La donna conosceva quel tono. Voleva un’altra possibilità, tentare di nuovo. Ricominciare.
«No. Non riesco a… no» ribadì. «Adesso rivestiti, per favore».
«Perché?» domandò allargando le braccia con
fare invitante. «Vuoi venire qui, piccola? Senza impegno?»
«Smettila, Clay».
Smettila o non riuscirò a staccarmi da te. Non insistere, non voglio, supplicò, ma si rese conto di mentire a sé stessa.
«Sarebbe tanto male un abbraccio? O hai paura di saltare di nuovo
addosso a tutto questo ben di Dio?» scherzò l’uomo,
passando le mani sul torace nudo e impolverato.
«Sei ingrassato» sviò, indicando le rotondità dei fianchi che sporgevano sopra la cintura.
«E anche se fosse?» replicò indispettito, battendosi il ventre che suonò come un tamburo.
Sapeva di aver preso peso, Bonnie gliel’aveva fatto notare allo
sfinimento. Si era proposta di compilargli una tabella di esercizi e
persino di pianificargli una dieta, per riavere un papà regolato
a puntino. E quella strega di Charlotte si era offerta di darle una
mano, se avesse ottenuto l’assenso dal genitore.
«Entrerai nel vestito venerdì sera, senza farmi fare figuracce, vero?»
«Mi hai messo alle costole i peggiori mastini sulla piazza.
Sarà un miracolo se sopravvivrò alle loro
lamentele» rimbrottò. «Scommetto che tu non hai
avuto critiche».
«Ovvio» mentì spudoratamente lei.
Bonnie le aveva fatto venire il mal di testa cassando la quasi
totalità degli abiti che aveva provato, indicandoli come
“frivoli”, “chiassosi”,
“pacchiani”, “sconvenienti”, “da
arrampicatrice sociale” o peggio, “da sgallettata in cerca
di losche compagnie”. Aveva ritenuto “appena entro il
limite della decenza” quello prescelto. Dove li prendeva certi
termini, a dodici anni? Che razza di letture faceva a scuola? E
Charlotte aveva avuto la faccia tosta di convenire con sua figlia,
quando le aveva mostrato le immagini dal catalogo di Lacombe. Per non
parlare di Junior, che dopo averle visto indossare l’abito per
gli ultimi ritocchi, le aveva detto di far togliere i lacci di cui era
cosparso, perché facevano vedere quante gobbe di ciccia aveva.
«Che ti prende?» chiese lei, notando lo sguardo rapito di Clay.
«Niente» disse, fingendo di controllarsi le mani mentre
invece ammirava estasiato la rotondità artificiale eppure
invitante dei suoi seni, che facevano capolino dallo scollo
dell’abito.
Anche se aveva sempre professato di preferire la versione naturale,
Clay doveva ammettere che il chirurgo estetico aveva fatto un lavoro
eccellente sulla ex-moglie. D’altra parte, dopo
l’allattamento di Bonnie, Sandy si era ritrovata con “due
stracci bagnati”, come li definiva allora. Era un problema per
chi come lei aveva investito molto nella propria immagine.
«Cosa stavi pensando?» domandò, dandogli le spalle.
«Niente» insisté, questa volta soffermandosi sulla
curva del fondoschiena, che svettava a coronamento di due gambe
magnifiche, sostenendo un vaporoso cuscinetto di crinolina e pizzi; uno
sbuffo di vapore alla sommità del fumaiolo di un piroscafo.
«Clayton?»
«Pensavo che non potevano dirti nulla per forza di cose» ringhiò.
«Solidarietà femminile?» malignò, commettendo
l’errore di rifilargli una delle sue migliori occhiate tutte
malizia e sottintesi da sopra la spalla.
Clayton abbandonò ogni proposito di trattenersi e
l’agguantò, stringendosela addosso. Poco importava che la
tornure gli trafiggesse il fianco: aveva bisogno di darle una
lezioncina, anche facendosi male. Poggiò pesantemente la mano
sinistra sulla sua coscia, sollevando l’abito oltre la fascia
della giarrettiera, fin quando poté sentire la sua pelle su
tutto il palmo.
Sandy rimase immobile, artigliandogli il braccio mentre lo fissava con la coda dell’occhio.
Non lo fare, non lo fare, non lo fare!
ripetevano entrambi nelle loro teste, spaventati dall’abisso che
avevano di fronte. Sentivano che se avessero fatto un altro passo,
avrebbero distrutto tutto quello che ancora li univa.
Alla fine, con un enorme sforzo di volontà, il capofficina
allentò la presa, non prima di averle mormorato
all’orecchio:
«Sei troppo bella per suscitare critiche».
***
Il lunedì pioveva ancora ed erano annunciati temporali almeno
fino a mercoledì. La temperatura nell’officina era
decisamente gradevole ed invogliava ad effettuare quei lavori che
normalmente avrebbero liquefatto i meccanici in pochi minuti.
Pancake era intento alla manutenzione di uno dei ponti quando, frugando in cerca di una fascetta di rinforzo, rimase impietrito.
«Iron!» urlò furibondo.
Il fratello accorse preoccupato, temendo servisse un medico o chissà che. Tanta foga non era tipica di Delmar.
«Portala. Via. Ora» scandì Pancake, additando disgustato nel cassetto.
«Quella?» domandò perplesso Iron, indicando a sua volta.
Gettata tra scatole di bulloni e rivetti, c’era una calza
trasparente. Non capiva perché dovesse occuparsi di raccogliere
l’immondizia altrui.
«Portala via dal mio carrello, schifoso pervertito!»
strillò, facendo voltare No Way e Hito che si trovavano
all’altro capo dell’officina.
«Ehi, piano fratellone o ti daranno della checca isterica»
scherzò l’altro. «E comunque, perché quella
roba dovrebbe essere mia?»
La faccia tonda di Pancacke si accartocciò quasi fosse stata passata in un macchinario per il sottovuoto.
«Quanta altra gente conosci che viene qui dentro con queste addosso?» l’accusò tremando di rabbia.
«Io non porto quelle calze sotto ai pantaloni da lavoro. Primo
perché con un reggicalze così bello, andrebbero fatte
vedere e non nascoste. Ci vorrebbe uno dei vestitini sexy di
Sandy» disse, pentendosene subito dopo aver visto lo sguardo del
fratello assottigliarsi fin quasi a scomparire nelle sopracciglia.
«Secondo: calze di seta? In questi scarponi? Forse non hai idea
di quanto costino. Rovinarle in questi ferri da stiro sarebbe incivile
anche per uno come te».
Pancake quasi sbiancò per l’insinuazione.
«Cosa vorresti dire? Io sono normale! Sei tu il finocchio!» tuonò, agitando le braccia in una danza flaccida.
«E per finire,» riprese Iron, raccogliendo
l’indumento e stendendolo con cura tra le dita, «ti pare
che possa infilare la mia gamba… destra - sì, direi la
destra -, in un affarino così sottile? Dì un po’,
ma lo vedi quanto sono grosso o hai bisogno di una visita
dall’oculista?»
Affatto colpito dall’evidenza dello sbaglio, Pancake non rispose, limitandosi a fissarlo con odio.
«Del, questa è una calza da donna. Donna fisiologicamente
parlando. Le mie sono…» insisté Iron, sperando di
riuscire ad impiegare a suo favore l’insolito ritrovamento.
Il fratello era di tutt’altro avviso.
«Vaffanculo!» ruggì piantandolo in asso.
Si allontanò ballonzolando peggio del solito, le braccia che
ciondolavano inerti lungo i fianchi. Sbatté contro un paio di
carrelli, mandandoli a spasso tra i mezzi appena portati in officina.
«Del!» lo chiamò, ma questi alzò entrambi i medi, sbraitando:
«Fottiti! E sta’ zitto!»
«Che gli prende?» chiese Hito, sopraggiungendo con Jack.
Il verniciatore aveva la faccia tirata in una composta rassegnazione,
ma era evidente il suo disappunto. Charlotte gli aveva appena imposto
di non fumare entro le mura della “Legendary”, il che
equivaleva alla pena capitale.
«Si è messo in testa che questa è mia» sospirò Iron mostrando loro la calza.
No Way sollevò esasperato la tesa della coppola.
«Razza di deficiente… ha di nuovo aperto il mio
carrello!» sbadigliò prendendo l’autoreggente e
gettandola nel cassetto, su cui campeggiava la targhetta con il suo
nome.
«E tu te ne vai in giro con delle calze di seta tra gli
attrezzi?» rimbrottò Hito, passando una mano tra i
capelli in cerca di un’inesistente sigaretta.
«Souvenir d’amour?» cinguettò Iron, sbattendo le ciglia.
«No. Souvenir della cameriera».
I colleghi si scambiarono un’occhiata interrogativa, non avendo recepito alcuna differenza.
Jack si stese supino sul tavolo lì accanto, stropicciandosi un occhio.
«La nostra cameriera ogni tanto le compra ma finisce sempre col
ritrovarsele spaiate per un motivo o per un altro. Così le ho
chiesto di darmele» spiegò stiracchiandosi.
«E si può sapere perché?»
s’informò nervosamente Hito, la cui carenza di nicotina
già sfiorava livelli astronomici.
Jack sbadigliò e sorrise allo stesso tempo.
«Hai presente la valvolina a due vie del differenziale? Dopo il
primo test la smonto, prendo la calza, ci infilo una biglia di piombo,
la spingo nella valvola e pulisco entrata e uscita. Non sai quanti
residui di lavorazione e lubrificante si accumulano. Con questo
trucchetto vengono via che è una meraviglia, e ora che si
intasano di nuovo… Linda fa in tempo a darmi un’altra
calza!»
***
Pancake entrò nello spogliatoio sbattendo la porta.
«Stronzo. Stronzo e pervertito» rampognò spalancando
l’armadietto e cominciando a frugare tra i vari contenitori di
scorte alimentari che vi teneva.
«Grazie. Ora posso sapere che ho fatto?» fece una voce.
Socchiudendo un poco l’anta vide Boy, seduto in fondo alla
stanza. Il suo turno cominciava alle nove, ma arrivava sempre prima in
officina e aspettava lì, leggendo le strisce di fumetti del FlyinGazette o, secondo l’ipotesi di Patch, masturbandosi con le foto di Sandy.
«Non ce l’ho con te. È solo… porca troia, ho
fame. Cazzo, mi ha fatto venire fame! Bastardo» brontolò,
cacciando di nuovo la testa nell’armadietto.
«Scusa, ho perso il conto, Bidone. A quanto stai?» ridacchiò il ragazzo. «Allora non sei così buono come sembri».
Il carrozziere si raddrizzò, masticando una caramella mou e andò a sedersi accanto all’apprendista.
«Vuoi?» chiese, allungandogli una scatola di latta da cui arrivava un odore indefinibile.
«Che roba è?»
«Pancake alla vaniglia con sciroppo d’acero, ai mirtilli e
noccioline, alla banana, alla ciliegia e cannella, all’ananas e
pera sciroppata» elencò scorrendoli come le pagine di un
libro, per proseguire con i rimasugli sul fondo. «Biscotti
d’avena con uvetta e canditi… barretta
all’anice… muffin alla menta e al whisky…
questa… » e leccò un pezzetto dall’aria poco
appetibile, «crostata al rabarbaro».
«Tutti insieme?» domandò Boy schifato.
«Chiaro. Scegli, non fare complimenti» l’invitò, allungando la scatola con un gran sorriso.
Il ragazzo sentiva di voler vomitare, non certo fare complimenti:
quella roba sembrava uscita da una discarica dove aveva stazionato per
un paio di secoli almeno.
«Come se avessi accettato» disse, riprendendo a trafficare con un congegno.
«Che fai?»
«Niente. Piccole riparazioni intanto che il vecchio prende le
consegne dal boss. Sai com’è: è lunedì,
bisogna vedere cosa c’è da fare e io sono troppo coglione
per capire discorsi da prima elementare» borbottò
risentito. «C’è quel cazzo di motore della Sodia 110
che aspetta da una settimana di essere aperto per capire che
c’è che non va, quello del Cealer da potenziare, la
caldaia del OE Plus perde,… montagne di cose, ma non le posso
fare da solo perché sono piccolo e scemo!»
motteggiò imitando Pepper MillionCry, un personaggio dei fumetti
sempre intento a piangersi addosso.
«Ci siamo passati tutti, Boy. È la gavetta. Pazienta e
fregherai il posto a Ozone» lo rassicurò Pancake,
assestandogli una pacca sulla spalla che lasciò un segno
appiccicoso di zuccheri e grassi coagulati.
Sentendo il ragazzo parlare a quel modo gli tornò in mente
Lamar, i suoi primi mesi in officina, la sua frustrazione nel vedersi
assegnati lavori banali o di routine. Rivedeva suo fratello brontolare
per una possibilità. Rivedeva il solo fratello che aveva avuto.
Un fratello maschio.
«Però non ho capito cos’è quell’affare» riprese per distrarsi.
«È il timer di mia madre. O meglio, del forno del
panificio dove lavora. Si è bloccato, ma se aspettano il tecnico
possono chiudere bottega».
«Non mi hai mai dato l’indirizzo di quel fornaio, lo sai?» ridacchiò l’altro.
Boy infilò il mignolo tra le rotelle, facendo attenzione a non spostarle o piegarle.
«Dove ti sei nascosto, bastardo maledetto?» chiamò sottovoce.
«Quattro méit» gli rammentò il collega,
abbuonandogli le precedenti uscite in segno di mutua comprensione.
Lui sembrò non sentirlo, intento com’era a rovistare tra gli ingranaggi.
«Ah, eccolo» disse ad un tratto, quasi avesse davanti agli occhi l’oggetto della ricerca.
Mosse ancora un poco il polso, aggiustando il contatto sul danno, e
prese un profondo respiro. Impallidì un poco e cominciò a
sudare, al punto che i capelli si riempirono di minuscole gocce che
ruscellarono sulla faccia e sulla nuca. Lo sguardo si fece assente,
vuoto, simile a quello di un cieco.
Con un brivido d’orrore, Pancake vide uno dei piercing sul
sopracciglio destro di Boy vibrare, torcersi e inabissarsi sotto la
pelle. Si mosse come un minuscolo insetto lungo la guancia, formando un
monticello che sparì rapido sotto la mascella e scese
giù, sulla gola. Sparì nella camicia da lavoro e
riapparve per un istante sulla mano del giovane, guizzando verso
l’interno dell’orologio.
Trascorsero ancora alcuni secondi, durante i quali non accadde
apparentemente nulla. Jessie ebbe un tremito, rapido e violentissimo.
Poi, un rivolo si sangue colò fra le lancette, raccogliendosi
nel vetro emisferico.
Il meccanico prese un secondo respiro, recuperando colore sulle guance, ed osservò il timer.
«Fantastico… adesso mi toccherà smontarlo e
pulirlo. Almeno funziona» constatò, ascoltando il
ticchettare ritmico. «Che ti prende, Pancake?»
La faccia del collega era una maschera d’orrore allo stato puro.
«Pancake?»
«Cosa cazzo hai fatto?» biascicò, gli occhi sbarrati.
Boy ricordò solo in quel momento la miriade di raccomandazioni
che Ozone gli aveva fatto riguardo il mostrare le sue capacità,
soprattutto a persone come Pancake.
«L’ho… aggiustato» si schermì.
«Il coso… sulla faccia… è andato via!
È… lì!» ansimò stravolto, indicando
il congegno.
«S-sì. Il perno della carica si era…» bofonchiò, sempre più a disagio.
«Cosa sei? Cosa sei?» urlò ripugnato.
Jessie boccheggiò, incapace di trovare le parole giuste per spiegare a Pancake cosa aveva visto.
«Lontano da me! Sparisci!» latrò balzando in piedi e rovesciando una cascata di dolci moribondi.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** L.C. - Cap. 12 ***
L.C. - Cap. 12
12
La stanza era buia e l’aria sapeva di carta. Boy non ricordava di
averla mai vista davvero: le finestre erano sempre sbarrate e le
lampade erano state tolte da muri e soffitti. I pochi arredi e
soprammobili erano perennemente avvolti nella semioscurità,
eccetto nel breve tragitto fra la porta e la poltrona su cui Ozone
dormiva.
«Ehi, vecchio» chiamò scrollandolo con gentilezza.
Non visto, il motorista allentò la presa sulla pistola che
teneva tra la gamba e il bracciolo. Tuttavia, sapeva perfettamente che
Jessie aveva percepito quel gesto, come ogni altra cosa avesse a che
fare con del metallo. Abbozzò un sorriso sotto la barba
intrecciata quando il ragazzo gli allungò un sacchetto di carta
ancora caldo, che spandeva un profumo invitante nella stanza.
«Focaccine alle olive. Domani ci sono lisce, con i semi di
papavero e col pomodoro. Poi mi dici come le vuoi»
cantilenò distratto.
Ozone aprì il cartoccio e ne ingurgitò alcune quasi senza
masticare. La madre di Boy gliene preparava un sacchetto pieno ogni
mattina, per ringraziarlo di ciò che stava facendo per suo
figlio.
Alla sesta, finalmente dirottò un po’ d’interesse
sul discepolo che stava in piedi lì accanto, rigido come un
palo. Lo squadrò a lungo, rabbuiandosi. Poi, infilò le
dita nella catena che il giovane portava a mo’ di cintura.
«Piantala, non è niente. Sono più duro di lui» mugugnò Boy, scosso da un brivido.
Non osava allontanarsi: la gamba destra e la schiena gli facevano
troppo male per la caduta dalla scale. L’unica cosa che lo faceva
sentire sollevato era che quel figlio di puttana non doveva stare
meglio, visto che se l’era trascinato dietro per tutta la rampa.
«Almeno mamma sta bene, lo stronzo non l’ha toccata»
sospirò, prendendo la focaccia che l’altro gli offriva.
Quando il patrigno era arrivato a casa la sera precedente se
l’era presa subito con lui, ignorando la donna che tentava di
placarlo. Jessie era contento di essere il bersaglio di
quell’ubriacone: sua madre non sapeva difendersi, mente lui non
solo incassava ma aveva imparato a rispondere. I ragazzi
dell’officina gli avevano dato qualche dritta - in particolare
Clay e Scorch, che da giovani avevano fatto spesso a botte - e pur non
definendosi un picchiatore professionista, riusciva a limitare i danni.
Un fastidioso pizzicore gli fece serrare la mascella.
«Lo so, ma le passerà. Spero solo che si decida a cacciar
via quel bastardo o dovrò usare le maniere forti»
considerò, ben sapendo d’aver promesso a Ozone di non
impiegare le sue capacità con i metalli per quel genere di
rappresaglie. «Vorrei essere grosso come Iron, cazzo, così
potrei fargli paura davvero. “Sparisci, Benny e se provi a
tornare, ti spacco il culo”» minacciò
all’attaccapanni, gonfiando le spalle e allargando la giacca per
simulare nuovi, enormi muscoli. «No, magari questa la evito. Non
vorrei capisse male».
La serata al “Bull(es)” era ancora troppo recente
perché potesse permettersi battute di quel tipo senza sentirsi a
disagio. Soprattutto dopo aver ricevuto avances da una ossuta drag
queen, in cui era quasi certo d’aver riconosciuto un fornitore
della “Legendary”.
«A proposito di culi, perché non mi vuoi dire com’è finita con Cleopatra?» lo punzecchiò.
Lo sguardo acquoso di Ozone si fece astutamente interrogativo, mentre
rovistava tra le focacce con la mano libera dalla catena. Boy
rabbrividì.
«Sì che voglio saperlo! Cioè… non nel
dettaglio. Sai che le retrovie non m’interessano, però
dici sempre che le esperienze vanno condivise. E visto che mi hai
lasciato a piedi quella sera, e che è quasi una settimana che
fai il misterioso, almeno puoi dirmi se ti sei divertito»
protestò.
L’anziano meccanico ridacchiò nelle trecce, strattonando la cinta metallica.
«Come “per ora non t’interessa”? Non ho
intenzione di infilare l’ucc…» ma non terminò
la frase, sgranando gli occhi per la sorpresa e ricomponendosi a
stento. «No, sul serio, Ozone. No. Potrà piacere anche a
certe donne, ma io passo. A me piace stringerlo un bel sederino, non
passarci in mezzo come un rompighiaccio».
Il brivido si trasformò in un sussulto che gli appannò la vista.
«Non contarci» s’intestardì ma fu percorso da
un ennesimo tremore. «Uff… va bene, per ora non
m’interessa. Basta che ora ti scolli di lì, tu e le tue
fottutissime focacce».
Uscirono dall’appartamento e imboccarono le scale, con Boy che
faceva i gradini tre a tre su una sola gamba per tenere il passo. Nel
cortile, l’apprendista si sforzò di superare il maestro,
raggiungendo il suo strano trabiccolo, parcheggiato sotto una tettoia.
«Guido io, visto che ho trovato il guasto della Sodia da
solo!» lo sbeffeggiò prendendo posto sul sellino e
facendogli il gesto dell’ombrello.
I muscoli lividi s’irrigidirono facendolo gemere.
«Già, hai capito bene, vecchio» riprese a denti
stretti. «Dopo che tu e Jack ve ne siete andati, ho fatto un
po’ di pulizie e ho infilato la mano in quell’aggeggio
senza farmi vedere, così ho sentito che avevo ragione. Il guasto
è nella pompa del vapore: c’è del residuo, ruggine
o materiale che si è staccato dal cilindro di compressione, e ha
bloccato il pistone. Altro che condensatore saturo! Come vedi, non sono
scemo quanto credete» ghignò altezzoso, allacciando il
caschetto da guida mentre Ozone sprofondava nel sidecar.
Il motorista gli posò una mano sul braccio e annuì solenne. Boy sorrise tremando, perdendo ogni superbia.
«Grazie, vecchio. Lo prendo come un complimento».
***
Nei camerini di Lacombe, Bonnie e Charlotte aspettavano da quasi
un’ora che Clay mostrasse loro il miracolo sartoriale che la sera
successiva l’avrebbe trasformato da bisunto capofficina a
raffinato damerino dell’alta società. Un sottofondo
melanconico di pianoforte rendeva l’attesa ancor più
noiosa di quanto già non fosse. Neppure il tè o i
deliziosi pasticcini offerti loro erano stati di grande aiuto.
«Dicono che il favorito alle elezioni di domenica sia un gatto
senza pelliccia, zoppo e con tre occhi» dichiarò Bonnie
sfogliando per l’ennesima volta lo stesso catalogo di moda
maschile, che teneva sottosopra.
«Interessante» rispose Charlotte, affatto convinta.
Sedeva rigida e composta, a malapena appoggiata allo schienale del
divanetto. Fissava il suo riflesso nello specchio, senza vederlo
realmente.
«Ha promesso che appena eletto Governatore ci sterminerà
tutti, seppellendoci con valanghe di lettiera sporca e palle di pelo
rigurgitate» proseguì entusiasta, lasciandosi scivolare
quasi a terra.
La donna schiuse le labbra in una “o” di sorpresa assolutamente fasulla.
«E domani è prevista una pioggia di caccole giganti.
Click-Clack ha detto che saranno più piccole di quelle che ti ha
attaccato sotto la scrivania. E lui ne fa di enormi, sai? Grosse come
pesche» proseguì Bonnie imperterrita, tornando a sedere
composta.
«Possibile».
Indispettita, la dodicenne assestò il colpo finale.
«Sai che sono incinta di sei mesi?»
«Bello» sospirò Charlotte, massaggiando la radice del naso con le dita.
«Sono tre gemelli. Uno avrà le branchie e dovrò
farlo vivere in un acquario come un fenomeno da baraccone. Gli faremo
degli attrezzi apposta e inseriremo il ramo sottomarini alla
“Legendary”. Papà sarà felicissimo e penso
proprio che lo chiamerò come lui» cinguettò
saltellando sulla soffice imbottitura del divanetto.
Finalmente, Charlotte scrollò le spalle e la guardò.
«Bonnie, non sono distratta al punto da non accorgermi delle
stupidaggini che stai inventando o di tutti quegli atteggiamenti da
bambina dell’asilo» l’ammonì esausta.
La ragazzina balzò in piedi, stupita e arrabbiata.
«E allora perché lasci che mi comporti da stupida? Pensi
che mi diverta stare qui così, senza nessuno che mi da
retta?» rampognò pestando i piedi.
A differenza della madre, che esigeva il centro della scena, la
ragazzina chiedeva solo qualche risposta sensata, un minimo
d’interesse verso le sue idee. Sapere che la sua presenza era
nota. Nulla di trascendentale. Charlotte lo sapeva bene e si
sentì in colpa.
«Scusami, non lo faccio apposta. Oggi fatico a restare
concentrata per più di due minuti» ammise,
massaggiandosi le tempie.
In mente aveva un solo pensiero, nero e gentile al punto da averla resa
dipendente. A Bonnie però non interessavano le sue vicissitudini
sentimentali, né riusciva ad immaginarle.
«Non lasciarmi sola anche tu. Ti prego» piagnucolò
prendendola per mano. «Mamma è fuori di testa e scatta
come una biscia; papà è ingrugnato per colpa del vestito
e da i numeri pure lui; Junior... lasciamo stare. Resisti almeno tu.
Per favore» la supplicò.
Dopo la visita in officina di domenica mattina, Sandy era tornata a
casa in uno stato talmente pietoso che sua madre si era proposta di
restare a farle compagnia per il resto della settimana, ma lei aveva
declinato l’offerta. Aveva passato il pomeriggio chiusa in
camera, oscillando tra pianti isterici e urla inconsulte. Nei giorni
successivi la cosa non era migliorata: ogni pomeriggio era tornata
dall’officina tesa e sull’orlo delle lacrime. Clay aveva
sbandierato ai quattro angoli della “Legendary” il
nervosismo che l’attanagliava, pretendendo di svolgere da solo la
stragrande maggioranza dei lavori pesanti, senza possibilità di
replica. Si era buttato con tanta foga nelle operazioni da esaurire i
cambi di divise e aveva preteso di lavorare in mutande, cosa che
Charlotte gli aveva tassativamente vietato: la sola idea che qualcuno
lo vedesse combinato a quel modo era imbarazzante a dir poco. Il
passaggio da Lacombe si era rivelato provvidenziale.
Dal canto suo, Charlotte si era vista costretta a turni sfibranti su
pratiche e conti, barricata dietro torri di documenti che i titolari si
rimbalzavano a vicenda, facendo da ammortizzatore alle recriminazioni
dei due con un orecchio incollato al telettrofono per clienti e
fornitori, e l’altro teso alle lamentele esasperate dei ragazzi,
intralciati dalla smania lavorativa del capo.
Quella mattina aveva ritagliato una mezz’ora per le verifiche dei
dispositivi di sicurezza dello staff. Aggirandosi tra i banchi di
lavoro, aveva osservato Odrin scivolare fuori da una airship. Indossava
solo i pantaloni e quel collare di cuoio che, ai suoi occhi, gli
conferiva un aspetto da principe guerriero, degno di un romanzo
d’avventura. La pelle madida di sudore metteva in risalto il
fisico snello e nervoso, rendendo ancor più evidente il grande
tatuaggio bianco.
«Ammiri lo splendore della natura selvaggia, Charlotte?»
aveva malignato Patch alle sue spalle. «Vuoi dargli una mano col
bagnetto?»
Nonostante la consapevolezza d’essere arrossita, aveva trovato la calma necessaria per controbattere.
«Forse. Almeno Odrin tiene alla sua igiene» aveva
sottolineato. «L’addetto della lavanderia è passato
ieri e mancava una divisa».
Lo sguardo di Patch era sceso fulmineo sulla propria, lurida, stropicciata e puzzolente, presagendo guai.
«Avevamo un accordo, Malcom. Avrebbe cambiato divisa una volta al
mese o sarebbe incorso in un’ammenda o nella sospensione per una
giornata lavorativa» gli aveva ricordato.
Contrariamente al solito, il carrozziere era impallidito e aveva sgranato gli occhi.
«No… Charlotte… non puoi! Andiamo! Io… no!
Per favore!» l’aveva supplicata, agguantando la cartellina
su cui rimasero diverse impronte di grasso. «Non posso fermarmi!
Ti prego! Non farmi questo! Non puoi!»
Odrin aveva fatto per intervenire, ma non ne aveva avuto bisogno: dopo
aver recuperato il fascicolo con uno sguardo gelido, Charlotte aveva
perso qualche secondo per riordinarla, meditando sul da farsi.
«Ha letto e firmato le norme comportamentali e di sicurezza,
sanzioni incluse. Sapeva a cosa andava incontro. Potremmo fare
così: questa sera porterà lei stesso la divisa in
lavanderia. Forse riusciranno ad accorparla al nostro invio e io
chiuderò un occhio. Per stavolta» aveva proposto con
sufficienza, quasi che la soluzione non la soddisfacesse del tutto.
Rincuorato, sebbene ancora in ansia, l’uomo si era allontanato con la scusa di una manutenzione.
«Non esagerare, Charlotte. Patch è un casinista ma non
l’ha fatto apposta. Ha problemi che gli impediscono di essere
lucido» aveva cercato di spiegare l’Andull, ma lei
l’aveva interrotto, voltandosi con un sospiro.
«Stai tranquillo, Odrin. So della malattia di suo figlio e di
quanto bisogno abbia di lavorare per pagare le cure. Non mi sognerei
mai d’infierire su chi è in difficoltà. Non sono un
mostro,» aveva detto, vagamente offesa, «ma ho degli
obblighi verso la “Legendary”, come far rispettare il
regolamento interno o l’uso delle protezioni» aveva
aggiunto indicando i suoi piedi nudi.
Sul sinistro luccicava la fascetta d’argento.
Si era imposta di non osservare i suoi calzoni, bassi sui fianchi al limite della decenza. E della sensualità.
«Charlotte, se portassi tutte le protezioni nemmeno riuscirei ad
entrare sotto la carrozzeria. Sono ingombranti e lì
c’è pochissimo spazio. E sono troppo rigide, limitano i
movimenti. È già un miracolo che riesca ad usare i guanti
e questo» aveva detto indicando il sostegno cervicale.
«Proverò a trovartene di più sottili o qualcosa di
alternativo. Non puoi lavorare così. Potresti graffiarti,
sbattere da qualche p-parte o… peg… g-gio?»
Le ultime parole erano divenute tremule quanto la scrittura sul foglio,
mentre Odrin si sporgeva in avanti quanto permetteva il collare.
«Non sarà poco professionale, darmi del tu?» aveva bisbigliato.
«Devo essermi distratta. Scusi» si era corretta.
«Dovresti distrarti più spesso. Anche gli altri
apprezzerebbero» aveva sorriso. «Prima dicevi sul
serio?»
«Riguardo il chiudere un occhio con Malcom?»
«No. Alla possibilità di darmi una mano col bagno» aveva ammiccato.
Altro che se dicevo sul serio, pensò riemergendo nell’atelier. Cielo,
che mi prende? Da quando penso queste cose? Fantasticare su un uomo che
mi fa la corte e non sa niente di me, non sa chi sono, non mi conosce.
Non gli ho mai permesso di avvicinarsi, potrebbe aver immaginato
chissà che… cosa farà se gli permetterò di
superare il limite?
Temeva di conoscere la risposta. Ciononostante, non riusciva a smettere
d’immaginarsi stretta fra le braccia di Odrin, a concludere quel
bacio.
«Fai bei sogni, mia cara?»
Odrin e Bonnie furono sostituiti da un uomo barbuto. La fronte alta era
solcata dagli echi del divertito stupore che irradiava dalle
sopracciglia. Gli occhi blu la fissavano con affettuoso interesse,
privi di malizia. Sedeva al suo fianco, il mento sostenuto dal braccio
che poggiava sul ginocchio. Indossava un completo scuro, molto
elegante; dal taschino sporgeva un fazzoletto ripiegato con cura, dove
campeggiavano delle lettere intrecciate, ricamate a filo d’oro.
Charlotte strabuzzò gli occhi prima di nascondere il viso per la
vergogna, sentendo l’aria svanire di colpo dai polmoni.
«Cie-llo… m-mi scu… si! N… on s-so
p-pro…op-prio cosa m-mi pre… enda o… o-oggi»
boccheggiò tra un ansito e l’altro.
«Respira lentamente, non è successo nulla. Anzi, è
colpa mia se ti sei spaventata: avrei dovuto annunciarmi. Sono stato
villano ad interrompere così i tuoi pensieri» si
scusò, poggiandole una mano sulla spalla e aiutandola a
recuperare la calma.
Di Ostap Avelan si poteva dire tutto, tranne che la cortesia gli
facesse difetto. Il magnate del Core era noto nelle Colonie Atlantiche
per l’immensa varietà dei suoi campi d’investimento
- che andava dal settore alberghiero alla coltivazione di aranceti
all’industria calzaturiera -, quanto per la spassionata
propensione alla cavalleria ed alle copiose elargizioni ad enti
benefici. Un dettaglio che spesso attirava commenti poco lusinghieri:
in molti ritenevano lo facesse per lavare la coscienza - e le finanze -
a causa di presunte attività illecite e loschi intrallazzi
politici, dei quali non esisteva alcuna prova.
Alle sue spalle torreggiavano le figure delle guardie del corpo, Thomas
e Donat, che risposero al saluto di Charlotte con un semplice cenno del
capo. I loro volti arcigni erano quanto di più distante si
potesse accostare al bonario sorriso di Ostap.
«Spero di non sembrare troppo invadente, se domando cosa fai
nella sezione maschile di Lacombe. Vuoi sorprendermi per il party di
domani?» domandò, dopo aver garbatamente chiesto
dell’altro tè ad un inserviente.
Charlotte stava per rispondere, quando dai camerini di prova giunse una voce spazientita:
«Papà, che combini! Non così! Ma come devo dirtelo?»
«Mi pare di riconoscere il puntiglio della signorina
Lomann» suggerì Avelan, lisciando i baffi come un gatto
affamato davanti al vassoio di pasticcini appena comparso.
Da dietro le pesanti cortine di velluto color crema giunse la sonora replica di Clayton:
«Ce l’ho addosso io questo coso! Lasciami fare!»
«Smettila di fare capricci!» strillò Bonnie, decisa a tenergli testa qualunque fosse il motivo del discutere.
«I capricci? Io?»
«Sì, tu! E ora mettila come si deve!»
«Ragazzina, tu mi farai ammattire!» tuonò l’uomo.
Era facile indovinare si trattasse di una pantomima messa in piedi per
stuzzicarla per poi accontentarla. Non avrebbe mai osato farle un torto
simile, non dopo che averle sentito esprimere il desiderio di diventare
stilista.
Avelan passò una mano fra i capelli lucenti di brillantina, pensieroso.
«A volte temo d’averti precipitata in una gabbia di leoni
affamati. Giuro sulla Santa Madre di Pietroburgo che non ne ho mai
avuto l’intenzione. La mia incapacità nel trattenermi
quando elogio le persone che ammiro è sempre stata un
problema» mormorò dispiaciuto.
Le donne non resistevano granché fra le mura della
“Legendary Customs”: o fuggivano esasperate
dall’ambiente prettamente maschile o sparivano improvvisamente
dopo essere finite a letto con Scorch ed aver capito che non
c’era modo di redimere lo scapestrato approfittatore. A volte
sembrava che più che una segretaria, l’officina avesse
bisogno di una paziente babysitter o di una severa maestra.
Avelan aveva commesso il madornale errore di parlare a Clay e Sandy di
Charlotte in tempi non sospetti, tessendone lodi sperticate. E quando
questi si erano trovati di nuovo a corto di una segretaria, la
martellante persuasività della comproprietaria aveva fatto il
resto.
«Non mi sognerei mai d’accusarla per avermi aiutata a
trovare questo lavoro. E comunque, sto imparando a dosare frusta e
bistecca con i leoni più indisciplinati» scherzò
mimandole.
«Vuoi dire che ne esistono di obbedienti?» rise sorpreso.
La donna si chiese se Odrin potesse essere definito obbediente, specie dopo quanto accaduto quel mattino.
«Obbedienti, no. Direi… collaborativi».
***
Era passata l’una quando Patch mise piede a casa, un villino a
schiera incastrato fra decine di altri identici a formare una stecca di
abitazioni popolari. Alle sue spalle, sua moglie si massaggiava mani,
braccia e schiena, indolenzite dalla lunga giornata trascorsa facendo
pulizie in svariati locali e abitazioni. Era un lavoro avvilente e
snervante, ma insieme ai due impieghi del marito permetteva loro di
mantenersi appena a galla.
In soggiorno, sul divano sformato, nonna Geena cullava un fagottino.
«Malcom, dov’eri? È tardi, ti aspettavo due ore fa» mormorò.
«Scusami, ho fatto un giro extra. Tre trias in più fanno comodo. E sono passato a prendere Melanie».
La moglie emerse dal tinello, gettando il grembiule su una sedia.
«Dammi David, mamma, lo metto a letto» disse prendendo in
braccio il figlio più piccolo e dirigendosi al piano superiore.
«Suzanne vi voleva aspettare alzata. Per fortuna è andata
su da sola» sbadigliò, Geena guardando la nuora. «Vi
preparo qualcosa?»
«Giusto un boccone, mamma. Fra sei ore ho la sveglia e voglio
darmi una rinfrescata» rispose Patch dandole un bacio sulla
fronte.
Sebbene in officina avesse l’aspetto del peggiore dei senzatetto,
Malcom usufruiva giornalmente delle docce della
“Legendary”, eliminando ogni minima traccia di grasso,
sporco e metallo. I medici erano stati chiari: la pulizia della casa
era fondamentale per aiutare la guarigione di suo figlio. E se la
Urbanhare faceva difetto alla richiesta, era solo perché non
poteva impedire ai suoi figli di comportarsi come tali.
Dopo essersi infilati gli abiti per la notte, i coniugi Felton avevano
passato in rassegna i letti dove riposavano il figlio minore David ed i
gemelli Suzanne e Glenn. Rimboccarono lenzuola, aggiustarono cuscini e
raccolsero giocattoli, prima d’entrare nella camera del figlio
maggiore.
Il petto di Andrew si alzava e abbassava emettendo deboli rantoli.
Malcom sistemò la cannula nasale che aiutava il bambino nella
respirazione. Guardandolo, sentiva le ginocchia cedere
dall’orgoglio e dalla paura. Andy aveva sette anni e da quattro
lottava contro il male che l’aveva colpito: il morbo di
Keelinger, una malattia odiosa che limitava lo sviluppo della gabbia
toracica e irrigidiva i polmoni. In barba al parere dei medici che
l’avevano dato spacciato più volte, il suo piccolo eroe
restava lontano dal baratro come il muso di un’airship distava
dalla coda e solo di recente la medicina gli aveva concesso una chance.
Una chance fortemente voluta e molto costosa.
«Quella carogna!» rimbrottò Melanie quando furono
seduti di fronte ad un piatto di minestra fredda. «Devi stare
attento, Malcom. Questa volta te l’ha fatta passare liscia, ma
chi ti dice che non si attaccherà a qualche altra cosa
per… non possiamo permetterci di perdere un mèit. Non
adesso. Le cure stanno funzionando, se le interrompiamo ora…
Andy…»
Il cucchiaio di Melanie precipitò nel piatto, mescolando zuppa e lacrime.
«Non ha figli? Non si rende conto della nostra situazione?» singhiozzò, prendendosi la testa fra le mani.
Il marito le raccolse i capelli biondi portandoli dietro le spalle.
«Non è neanche sposata» sospirò facendole una
carezza. «Andrà tutto bene, Mel. Fidati di me».
«Non fidarti di una zitella» commentò aspra Geena,
mettendo in tavola del pane stantio. «Pensano di sapere tutto, ma
non sanno niente! Melanie ha ragione: stai attento».
La moglie si aggrappò al suo braccio, continuando a piangere.
«Parla con Clay, digli di tenertela lontana! Non possiamo rischiare la vita di nostro figlio per colpa sua!»
Patch l’abbracciò e si limitò ad annuire, troppo stanco per trovare parole di conforto.
Writer's Corner.
Grazie ai lettori nell'ombra e a quelli conclamati, tra cui Shade Howl (recensore supremo), Akainu magma, blood_mary95, Wild_Demigods.
Ben arrivate a pheiyu e maddampini!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** L.C. - Cap. 13 ***
L.C. - Cap. 13
13
Sotto la coltre
di nubi plumbee, il cimitero di Port Serafine assumeva le sfumature di
un luogo mistico fuori dal tempo. Poca gente l’attraversava
durante la settimana, raccogliendosi presso le cappelle dei credo
più disparati o davanti ai grandi parallelepipedi rivestiti di
rame ossidato che ospitavano loculi e ossari. Al centro, un grande
giardino punteggiato di cipressi e salici faceva da cornice a sepolture
più prestigiose, che ricevevano la visita di autorità e
curiosi.
Smessi i panni
di Jack No Way, Giacomo si era incamminato lungo i viottoli di ghiaia
incorniciati da siepi di bosso. Non mancava mai all’appuntamento
del primo martedì del mese.
Raggiunse la
sommità di una bassa collina, coronata da un circolo di
inumazioni. Da lì si scorgeva il Golden Ring e l’intero
quartiere di VeloCity.
Sulla lapide
che aveva di fronte, una targa di metallo portava inciso il nome di suo
padre, Francesco Balzaretti. Una foto lo ritraeva accanto ad un bolide
che Giacomo conosceva bene: l’Aries. Ogni volta che guardava
quell’immagine, sentiva il cervello andare in testacoda. I
ricordi si mescolavano in una sequenza confusa, quasi guardasse dal
finestrino di un treno lanciato fra le macerie d’una guerra. Non
parlava a suo padre: ogni discorso si era interrotto con la sua morte e
riteneva inutile tentare di proseguirli. Si limitava a fissare la teca
di vetro sopra la tomba, dove riposava una coppia di guanti logori e
anneriti. Non c’erano risposte che volesse conoscere.
Poco lontano,
una donna pregava presso un’altra tomba dandogli le spalle. Era
molto alta e indossava un soprabito maschile che arrivava ai polpacci,
chiusi in eleganti stivali di vernice lucidati dalla pioggia. I
lunghissimi capelli neri ricadevano sulla schiena, mostrando un lieve
cedimento del trattamento lisciante che ne mascherava il crespo
naturale, nonostante si proteggesse con un grande ombrello.
Era Vivian, l’autista di Mac Gregor cui era stata destinata la Fortion.
Giacomo sollevò il colletto della giacca cerata e s’avvicinò.
«Salve, caalùna1» salutò.
«Salve, pelabròch2» rispose lei senza voltarsi.
«Scusa se l’altra settimana ho finto di non conoscerti. Ho dovuto adeguarmi alla massa» disse affiancandola.
La donna sorrise appena. Gli occhi verdi erano contornati da un ombretto dorato, lo stesso colore delle sue labbra.
«Da quando ti vergogni di me?» domandò voltandosi, dopo aver fatto il Segno della Croce.
«Veramente,
l’ho fatto nel tuo interesse» ribatté, dondolando
sui talloni. «I miei colleghi sono degli assatanati, non volevo
ti spaventassero. Hai visto quello che si è limonato la tua
amica?»
Lei rise
divertita. Doveva ammettere che era stato molto complicato non finire a
rotolarsi sul pavimento, sbellicandosi alla vista di Lilijana che
sfogava la sua frustrazione sul malcapitato Choncho. Adam deprecava che
il suo entourage smettesse a piacimento le maschere che
gl’imponeva: c’era il serio rischio d’essere
licenziate in tronco.
«Carino
da parte tua, ma so difendermi» e mostrò la testa
d’un piccolo mazzuolo a scatto cucito all’interno della
manica sinistra.
Giacomo sapeva
che la sua interlocutrice nascondeva almeno un altro paio d’armi,
tra cui una pistola, da qualche parte sotto la giacca. Tutte le
accompagnatrici di Mac Gregor giravano armate.
«Lo so, ma sono un galantuomo. Sai quanto ci tiene il nonno a certe cose: “ta pödet daga fastöde ai done solo se ta set bù de fa l’signùr, mìa ol mort de fam”3» citò, imitando la voce roca dell’anziano mentre la prendeva sottobraccio e si avviavano all’uscita.
«Ha
ragione. Io ne so qualcosa» commentò stancamente,
alludendo al suo capo. «A proposito, come sta?»
Il volto di Giacomo s’incupì mentre perdeva tempo per sistemare un paio di bottoni dell’impermeabile.
«Sta e questo basta» rispose amaro, prendendo l’ombrello dalla mano di Vivian.
Domenica il
nonno si era alzato incitando tutti a pulire per bene la casa e a
vestirsi a dovere, perché quel giorno Francesco avrebbe
presentato a tutti la sua futura moglie, e non voleva fare brutta
figura. La nonna era scoppiata in lacrime e la madre di Giacomo aveva
avuto il suo bel da fare per calmarla, seppellendo chissà dove
il desiderio d’imitarla.
«E la nonna?» proseguì Vivian.
«A parte i soliti acciacchi, sta benone».
«Giacomo?» lo redarguì, indovinando si trattasse di una versione ufficiale e non della verità.
Il meccanico passò le mani fra i ricci, resi una matassa inestricabile dall’umidità.
«È quello che ripete da mattina a sera» borbottò.
«Ma a te come sembra che stia?» insisté.
Lo sguardo dell’uomo s’incupì.
«Come
credi che stia, Viv? Ha settant’anni, ha lasciato le valli per
passare la vita a correre dietro a nonno e papà su e giù
per le Colonie… ha la tempra delle nostre montagne, ma non
è una bambina. Ne ha passate troppe e vedere il nonno che perde
la testa la sta uccidendo».
Vivian
sospettava una simile rivelazione e non indagò oltre.
Camminarono a lungo, accompagnati dal gocciolio della pioggia e dallo
scrocchiare della ghiaia.
«Che dice Mac Gregor della Fortion?» domandò Giacomo quando furono in vista dei cancelli.
Lei fece spallucce, scrollando il bavero.
«Se ne
vanta con chiunque abbia la pessima idea di accennarvi»
sbuffò, arricciando le labbra piene. «Ma come sai, Adam
è ferrato sulle airship quanto io nel ricamo. È riuscito
a dire che la turbina ha una potenza di quaranta cavalli».
Giacomo era incredulo.
«La turbina?»
«La turbina» confermò.
Nelle
aeromobili la potenza non era valutata sull’organo di spinta, ma
sul motore. Era il cuore dell’airship a indicare la
grandiosità del mezzo. E comunque, il motore della Fortion era
tarato a cinquecentotrenta cavalli.
«L’è prope an besòt4» concluse il tecnico scuotendo la testa.
«Ta pödet dì giuro5».
«E tu? Come la trovi?» chiese, consapevole di ricevere dati più attendibili.
«Da
brivido. Agile, potente, ben bilanciata nelle progressioni. Il motore
è molto elastico. Si sente che ci hai messo mano»
replicò entusiasta la valchiria nera.
«Solo
qualcosina qui e là» si schermì con un gran
sorriso. «Giusto la sincronia delle valvole. E la corsa
dell’acceleratore. Non ti sei mai tolta il vizio di staccare
bassa».
«Vero. E con i tacchi alti, da vizio diventa necessità».
«Di
conseguenza ho dovuto settare diversamente anche gli erogatori. Come
vedi, solo regolazioni di poco conto. Il grosso l’hanno fatto
Ozone e Boy».
«Modesto, Lightning Jack» lo punzecchiò, riprendendo l’ombrello.
L’espressione
del giovane passò dall’ilare al furioso, pur restando in
silenzio. Aveva ripetuto milioni di volte di non voler essere chiamato
a quel modo.
«Sei
sprecato come motorista, lo sai. Perché ti ostini a stare
lontano dalle corse? Tuo padre non lo vorrebbe» riprese la donna,
fermandosi pochi passi più in là.
«Già,
ma si da il caso che mio padre sia là sotto» e
indicò rabbioso verso la tomba. «Non rimetterò
più piede in un circuito, cascasse il mondo! Non sono nato per
essere un pilota».
«Non è stata colpa tua».
«Su
quell’airship dovevo esserci io!» strillò e la sua
voce s’ingigantì a dismisura nel silenzio del cimitero.
«Si è schiantato al posto mio! Che voglia posso avere di
rimettermi alle cloche? Io potevo farcela, ne sarei venuto fuori!
Invece… invece…»
Le parole gli
morirono in gola. Rivedeva ogni scatto, ogni ripresa. Il sorriso
vittorioso di suo padre fatto a pezzi dalle illazioni e dalle
malelingue. Dense nubi di vapore, metallo accartocciato
sull’asfalto, scintille che volteggiavano, schegge di carne, ossa
e cemento sparse ovunque. E l’erba. Nera. Immobile come un mare
di limatura di ferro.
Vivian si avvicinò tanto che gli spruzzi di pioggia arrivarono sulla sua giacca dalla mantella di Giacomo.
«Se fossi
nata uomo, sarei scesa in pista quello stesso giorno per tener viva la
sua memoria» ribatté con astio. «Ricordati che in
quell’incidente non è morto solo tuo padre. Sono morti
anche il mio e altri due piloti. Non sei il solo a soffrire e a farsi
domande».
Chiusi nel
ricordo del lutto, ripresero a camminare, superando file di lapidi e
sculture dolenti. Si ritrovarono sul viale che costeggiava cimitero.
Solo un fioraio ambulante faceva loro compagnia.
«È
meglio che vada. Tra un’ora Adam ha la sua solita seduta di
massaggi orientali e vorrà che lo porti io. Dice di non fidarsi
delle manine a mandorla, quando non può controllare dove vanno».
Giacomo non
rise e sistemò la coppola sui ricci, dopo aver teso una mano per
valutare se le precipitazioni fossero cessate.
«Ha paura
che gli rubino il portafogli?» azzardò, trovando vagamente
comico che uno come Mac Gregor, che non sapeva dare valore alle sue
proprietà, si preoccupasse per una cosa tanto banale.
«No. Teme
lo violentino» chiarì Vivian, controllando a sua volta che
la pioggia fosse terminata. «Ritiene le geishe della
“Pagoda Turchese” delle ninfomani propense allo stupro
seriale di uomini d’affari. E per quanto adori essere manipolato
da quelle massaggiatrici, non si sognerebbe mai di restare solo con una
di loro».
Raggiunsero la Fortion, la cui livrea splendeva cupa nella bassa luce del pomeriggio.
«Dimmi la
verità: qualcuna di voi l’ha mai data a Mac Gregor?»
chiese, aiutandola a rimuovere il telo che proteggeva l’abitacolo.
Vivian lo squadrò di sottecchi.
«Parli in generale o lo stai chiedendo a me in particolare?» sibilò minacciosa.
«Entrambe» ammise.
La donna avvolse una corda elastica attorno alla mano, prima di gettarla nel bagagliaio insieme alla copertura.
«Sono la
sua attendente, autista e guardia del corpo. Tutte mansioni per cui non
è necessario, anzi è deprecabile, andare a letto col
proprio capo. Lo so io e lo sa Adam» rispose piccata.
«Anche Lilijana e altre seguono quest’etica, ma non ti
nascondo che ci siano parecchie puttane nel suo seguito. La cosa buffa
è che una prostituta si offre a più clienti; loro invece
sono professioniste esclusive, visto che hanno un solo cliente, che
è allo stesso tempo il padrone. E comunque, Adam non è il
mio tipo. Cose del genere le farei solo per quel marcantonio del tuo
capo» replicò sognante.
Aveva sempre
avuto un debole per Clayton, che aveva incrociato spesso agli expo di
meccanica e durante i raduni di appassionati di muscle-ship. Una volta
avevano bevuto anche una birra insieme - con Giacomo fra i piedi.
Trovava eccitante il suo aspetto rude e navigato, affascinante la sua
abilità nell’indovinare i gusti dei clienti e intrigante
il modo sicuro con cui trattava le persone, dai sottoposti
all’Adam di turno.
«Ci vediamo, Vivian. Salutami la zia e Michelle» tagliò corto Giacomo.
«Ci
vediamo, cuginetto» disse abbracciandolo con affetto.
«Saluta tutti a casa. E da un bacio al nonno da parte mia».
«Scordatelo. L’è isé mai fò de cò che chi sà cusa l’và a pensà!6»
***
Guardarono increduli il foglio spiegazzato che porgeva loro.
«Tutto qui?» chiese Choncho, grattandosi la testa con una chiave inglese.
Scorch assentì, sfoggiando un ghigno strafottente sotto l’alone giallognolo dei lividi che andavano riassorbendosi.
«Tutto
quello che sei riuscito a tirar fuori è un caz…»
Clay s’interruppe, abbassando rapidamente la voce. «Un
cazzo di spoiler?»
«È solo colpa di voi stronzi se quello è il risultato» rispose l’ingegnere senza scomporsi.
Pareva che la
situazione lo divertisse, persino. Rigirava tra le mani una grossa
tazza di ceramica, il cui contenuto era stato abbondantemente corretto.
«Che cazzo stai dicendo?» urlò Wilmar, facendo per agguantarlo.
«Choncho»
lo richiamò a mezza voce Clay indicando il Penitenziere,
tornando a rivolgersi subito dopo al cugino. «Che vuol dire che
è colpa nostra?»
Scorch
trangugiò una lunga sorsata, sbrodolando sulla barba non fatta
da giorni, e si pulì con la manica della camicia, prima di
rispondere.
«Lavorate
di merda e pensate che io tiri fuori il coniglio dal cilindro. Se
volevate una cosa fatta bene non dovevate far potenziare il motore del
Cealer a Ozone prima che potessi dare un’occhiata a quella cazzo
di airship» si lagnò, indicando il grosso mezzo per il
trasporto merci. «Adesso quel coso ha un motore così
potente che può spedirlo dritto in culo a uno zeppelin in mezzo
alla steppa russa. L’unico modo per tenerlo giù è
questo» e piantò la mano sullo schizzo dello spoiler.
Clay
tornò a guardare il progetto, sempre che tale potesse definirsi
l’ammasso di linee, frecce e sigle che aveva davanti. Se Scorch
avesse presentato una cosa simile durante un esame
all’università, lo avrebbero cacciato in meno di un
secondo. Lui invece non solo doveva farselo andare bene, ma doveva
anche lavorarci sopra, tirarne fuori un oggetto reale e funzionante.
«Non ti sei ancora rimesso del tutto, Scorch. Non potevo farti lavorare…» cercò di spiegare.
«Puttanate!»
ruggì l’altro, per poi prendere un altro sorso che gli
andò di traverso, facendolo tossire. «Solo puttanate. Io
so quel che faccio! Siete voi che non capite un cazzo di come si fanno
le cose!»
Choncho
addentò le dita per non coprirlo d’insulti ed evitare di
togliere al capofficina il piacere di spaccare personalmente la faccia
a quell’ingrato.
«Sei ubriaco, Scorch».
«Fanculo,
Clay! Credi che mi basti questo per smettere di ragionare?»
sbraitò sventolandogli la tazza davanti alla faccia. «Sto
benissimo, capisco più cose di quante ne pensate voi tutti messi
assieme. Pensi di sapere davvero come funzionano le cose qui, ma questo
posto l’ho messo in piedi io! Sei il capo solo perché
c’è il tuo nome su un cazzo di pezzo di carta! Il tuo e di
quella puttana di Sandy!» urlò.
I membri della
“Legedary” si fermarono. Nessuno aveva mai osato parlare
dell’ex signora Lomann in quei termini: era un suicidio
annunciato.
Subito, la mano di Clay si chiuse sul colletto della camicia di Scorch, strizzandolo fino a mozzargli il respiro.
«Falla finita, non sai quel che dici!» sibilò.
Sotto i capelli arruffati, le labbra del progettista si torsero in un sorriso sghembo.
«Falla finita un cazzo. Falla finita tu. E tutti quanti!» replicò, liberandosi con uno strattone.
Scagliò
lontano la tazza, che andò in frantumi e lasciò un lungo
schizzo liquido a mescolarsi con le macchie d’olio che
incrostavano il pavimento.
«Fatela finita. Falla finita» intimò puntandogli contro l’indice.
Clayton
guardò Scorch allontanarsi, il passo che cominciava a perdere
stabilità. Stava andando a rinchiudersi in ufficio, dove avrebbe
bevuto e dormito per il resto del pomeriggio. Almeno lì sarebbe
stato inoffensivo.
«Dio, non
pensavo l’avrei mai detto, ma non vedo l’ora di andare a
quel fottutissimo party» grugnì Clay, appoggiandosi
pesantemente ad uno dei mezzi in lavorazione.
«Due méit, capo!» esclamò Pancake da qualche parte.
***
La porta scivolò di lato, lasciando filtrare una lama di luce più intensa, subito nascosta da una sagoma scura.
«Cos’hai detto?» chiese l’Andull, guardando incredulo Charlotte all’interno del magazzino.
La intravedeva
a malapena oltre la stretta fessura, ma non gl’importava. Quando
gli aveva chiesto il favore di potersi cambiare lì, era stato
difficile non spiarla. Per l’intera ora che aveva impiegato a
prepararsi per il party, Odrin non aveva fatto altro che immaginarla
seminuda, distesa sulle pelli accatastate nella stanza. Era quasi morto
dalla voglia di aiutarla a non vestirsi. Tuttavia i sogni si erano
dimostrati ben misera cosa, rispetto al sentirle pronunciare quasi
correttamente quella domanda.
«Nimeja lat a sho’oda?» ripeté esitando.
«Sho-dà» corresse. «Porta è sho-dà. Altrimenti mi stai chiedendo di aprire il mio cuore. E l’ho già fatto».
La donna
sussultò e portò imbarazzata una mano alla bocca, quasi a
scusarsi del pasticcio linguistico. Lui sorrise e spalancò la
porta, liberando il passaggio.
«Ho fatto quello che hai chiesto, ma se vuoi uscire dovrai spiegarmi da dove arriva quella domanda».
Lei sorrise, giocherellando con la splendida perla a goccia che portava al collo.
«Ho pensato fosse una buona cosa documentarmi, studiare la civiltà Andull».
«Mi stai
studiando?» ringhiò all’improvviso Odrin. «Ti
sembro un animale o una pianta esotica?»
Il cambiamento
fu talmente repentino da lasciare interdetta la segretaria. Le era
capitato di vederlo arrabbiato, ma mai come in quel momento. Era
furioso.
«Charlotte,
parliamoci chiaro. Sono stato onesto nel dirti che mi piaci, ma se da
parte tua l’interesse è solo accademico, per poter
aver un argomento di cui vantarti con le amiche, lasciamo stare. Non
sono disposto ad esibirmi come una bestia ammaestrata perché
è di moda avere un amante Andull!» urlò incattivito.
Le accuse
ammutolirono Charlotte per alcuni istanti. Fissava l’artigiano
stentando a riconoscere il corteggiatore discreto dei giorni
precedenti. Poco a poco la sua espressione mutò, indurendosi.
«Credevo
avessi capito almeno questo di me. Cerco di trovarmi un passo avanti in
ogni situazione per evitare errori o di incorrere in ciò che
porti spiacevoli conseguenze per tutti. Lo faccio al lavoro e fuori,
perché ho imparato a mie spese cosa significa mal interpretare i
gesti altrui. Ho pagato abbastanza per la mia superficialità e
non tollero di essere presa per una sciacquetta decerebrata!»
replicò indignata. «Sapevo che voi Andull tenete molto
alle vostre tradizioni e che per noi sono spesso incomprensibili,
così come alcuni nostri modi di fare lo sono per voi. Non volevo
offenderti senza rendermene conto, né scambiare una gentilezza
per un insulto. Volevo solo scoprire come avere rispetto di una
realtà che non conosco. Evidentemente sbagliavo nel credere
potesse farti piacere che prendessi confidenza con la tua
cultura».
Si sentiva
ferita e oltraggiata dalle insinuazioni di Odrin. In pochi giorni di
letture aveva imparato molto, eppure pareva non fosse servito a nulla,
se non a distruggere sul nascere un sentimento.
«E
pensare che proprio tu avevi detto che gli Andull rispettano le donne.
Devo aver frainteso. Forse ti riferivi solo alle vostre donne»
l’accusò, distogliendo lo sguardo. «Ora mi lasci
passare, signor Den’iràf. Il signor Avelan sarà qui
a minuti, non voglio farlo attendere» disse, tornando ad un tono
estremamente formale.
Fece per scansarlo, ma lui le sbarrò la strada.
«Non così in fretta, signorina Vernet» rispose secco, chiudendosi la porta alle spalle.
Cominciò
a sbottonare la camicia, fissando la donna con un’espressione
torva che nelle basse luci della stanza divenne crudele.
«Che…
cosa vuoi fare?» boccheggiò spaventata, scoprendo di non
poter arretrare per via dello scaffale alle sue spalle.
«Alza la gonna» ordinò perentorio.
«C-cosa?»
«Alza la gonna, Charlotte» ripeté.
«No!» strillò, facendosi piccola nell’angolo.
L’Andull levò le mani, tentando di calmarla.
«Non
gridare. Non ti farò niente, lo giuro» disse addolcendo un
poco la voce. «Mostrami i piedi. Solo i piedi»
ribadì.
Lei scosse la testa, sentendo le lacrime pungerle gli occhi.
«Charlotte, i piedi» insisté.
Tremando, si
appoggiò allo scaffale e fece come aveva chiesto. Qualcosa la
spingeva a credere ancora a Odrin, un minuscolo barlume di fiducia
combatteva contro la violenta marea di panico che la stava assalendo.
Lo guardò abbassare la camicia ancora mezza abbottonata fino
allo stomaco, in modo da non poter muovere le braccia, prima di
inginocchiarsi di fronte a lei.
«Eloi se magara n’de. Irsh a-do semeri, nommìna lagris elshe. O’drobe nìa, bah tlasei».
Mormorò
quattro volte quelle frasi, prostrandosi fino a posare la fronte prima
su un piede della donna, poi sull’altro. Dopo di che
s’inchinò tre volte, toccando con la testa il pavimento
mentre sussurrava altre parole che suonavano come invocazioni di
clemenza, sempre con le braccia immobili lungo i fianchi. Infine,
ripeté un’ultima volta la prima litania, questa volta
deponendo lievi baci sui punti che aveva toccato con la fronte.
Lasciò che il respiro e le labbra sfiorassero appena la pelle di
Charlotte, come se non potesse permettersi un contatto più
deciso.
La donna
stringeva l’abito con una mano mentre con l’altra tentava
di sostenersi al montante dello scaffale, così frastornata dalla
ridda di emozioni che aveva provato in pochi attimi da avere i
capogiri. Cominciò a piangere e a respirare con affanno senza
rendersene conto.
«Posso
avere il tuo perdono, Charlotte?» domandò Odrin, senza
alzare lo sguardo dalle pietre colorate che ornavano i sandali.
«C-concesso» ansimò, ancora aggrappata al mobile.
L’uomo si rialzò lentamente, intralciato dalla stoffa che lo cingeva come una catena.
«Mi
spiace per quel che ho detto, ma troppe volte ci scambiano per una
preda esotica, uno di quegli intrallazzi all’ultimo grido fatti
solo per stare al passo coi gusti del momento. I derigi
- soprattutto le donne - non sono ben visti dalla mia gente
proprio per questa “brutta abitudine” di ridurci a trofei
da mettere in mostra. Do di matto quando quest’idea mi passa per
la testa, ma non dovevo prendermela con te. Cercavi di capire e
io… non l’ho capito» si scusò, sistemando
alla buona la camicia.
Vedendo che stentava a calmarsi, Odrin la prese fra le braccia, muovendosi piano, quasi stessero nuovamente danzando.
«Buffo.
“Concesso” è proprio il termine che usano le nostre
donne. Sei più Andull di quanto tu non creda»
scherzò dolcemente. «Come vedi, non tutte le risposte sono
scritte nei libri. Ora conosci il nostro modo di chiedere perdono alle
donne, quando ci comportiamo male con loro. Ed è una cosa che
nessun Andull mostrerebbe mai ad uno studioso, è troppo
intimo» aggiunse asciugandole una lacrima con le dita.
Charlotte annuì senza guardarlo e poggiò la mano sulla sua, trattenendola contro la guancia.
«Come
farò a ballare stasera?» sospirò tra gli ultimi
singhiozzi. «Ogni volta che farò un passo mi
sembrerà di sentirti ancora lì».
«Potrei
baciarti da un’altra parte. Oppure, mentre ti sistemi il trucco,
potrei inventarmi qualcosa di più… tangibile»
suggerì lui.
1 Caalùna: in dialetto bergamasco “cavallona”.
2 Pelabròch: in dialetto bergamasco “spiantato” (lett. pela rami).
3 Ta pödet daga fastöde ai done solo se ta set bù de fa l’signùr, mìa ol mort de fam:
in dialetto bergamasco “puoi permetterti di dare fastidio alle
donne solo se sei capace di fare il signore, non il morto di
fame”.
4 L’è prope an besòt: in dialetto bergamasco “è proprio una pecora”, ovvero un ignorante.
5 Ta pödet dì giuro: in dialetto bergamasco “ci puoi giurare”.
6 L’è isé mai fò de cò che chisà cusa l’và a pensà!: in dialetto bergamasco “è così fuori di testa che chissà cosa andrebbe a pensare!”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** L.C. - Cap. 14 ***
L.C. - Cap. 14
14
Le
note dell’orchestra si spargevano tra le fronde degli alberi che
s’innalzavano verso le cupole di vetro del City Garden. Fiori
notturni decoravano raffinate tavole allestite in candidi gazebi, dove
gli invitati conversavano accompagnati da champagne ben freddo e golosi
manicaretti. Ornate di minuscole lampade, le piante esposte nella serra
somigliavano a bizzarri gioielli e il loro profumo si mescolava alle
costose fragranze sfoggiate dagli invitati.
Norman
Chapel era a capo della sezione penale del Tribunale di Port Serafine
ed il suo nome si trovava, per motivi imprecisati, nella sconfinata
lista di contatti di Avelan, oltre che seduto allo stesso tavolo che il
magnate condivideva con Charlotte, Clayton e Sandy.
«Su
una Hava si possono fare infinte modifiche. Possiamo tirarne fuori un
modello extralusso o un mezzo da lavoro o un bolide per il Golden Ring.
O farci una cuccia per il cane. La scocca delle Mahaan Vajpayee
è una delle più adattabili in circolazione. Se ha visto
la Pavitr di Avelan, si è già fatto un’idea di
quello che riusciamo a fare con un paio di attrezzi, ottime idee e
queste» disse Clay, battendo orgogliosamente i palmi sulle
braccia.
Sandy
era indecisa se strangolarlo o meno: trovava ridicole quelle esibizioni
da gorilla, anche se, per oscure ragioni, avevano sempre colpito
positivamente i clienti. Trasmettevano un che di rassicurante, qualcosa
che innescava una spontanea fiducia nei suoi confronti. E lei lo sapeva
bene, essendone rimasta vittima diciassette anni prima.
«In
effetti quella di Ostap è un’ariship piuttosto esuberante
per i miei gusti, ma non nascondo che possiede un certo fascino anche
per chi come me preferisce uno stile più misurato. Tradizionale,
se vogliamo».
La
lussuosa airship di Avelan, prodotta dalle più eccellenti
officine indiane di Jodhpur e Allahabad, era emersa dalle mura della
“Legendary” impreziosita da intarsi in zanne e artigli di
orsi e tigri siberiane oltre che da pelli di lontra marina e salmone,
mentre l’esterno, oltre a recare una delle più
strabilianti opere di Hito - raffigurante un tripudio di paesaggi,
monumenti e simboli russi – era stato modellato in maniera tale
da perdere completamente la linea originale: alettoni, diruttori veri e
fittizi, una moltitudine di fari aggiuntivi ed un’imponente ala
circolare le avevano conferito un aspetto simile ai vettori
transoceanici, quelli impiegati per il trasporto delle truppe russe.
Vederla passare per le strade di Port Serafine, preceduta dal ruggito
dei suoi cinquecento cavalli, era qualcosa che lasciava il segno.
La chiamavano “gli ottantacinquemila trias più egocentrici della città”.
«Ci
metta alla prova, Giudice. Le faremo avere l’aeromobile che ha
sempre sognato. Anche più bella di come la immagina»
assicurò Sandy, giocherellando maliarda con l’orlo delle
maniche a pagoda.
«Sembrate molto sicuri delle vostre capacità» osservò con sussiego, centellinando lo champagne.
«Non sembriamo, lo siamo. E le sfide non ci spaventano» ribadì Clay.
L’applauso festoso di Avelan interruppe lo spavaldo fronteggiarsi dei commensali.
«Te
l’avevo detto, Norman, che non saresti rimasto deluso. Propongo
un brindisi a questa serata e a ciò che ne verrà!»
esclamò levando il calice con tanto entusiasmo da rischiare di
rovesciarselo in testa.
«Andiamoci
piano, Ostap. Non c’è ancora nulla di definitivo in questa
conversazione. Si tratta di un primo contatto, una chiacchierata
informale; anche se devo ammettere che la proposta è allettante.
Quasi troppo. Quindi vorrei alcune delucidazioni in merito alla
rispondenza del mezzo alla normativa vigente. Voi capite, signori, che
sarebbe quantomeno imbarazzante per un giudice del mio livello andare
in giro su un mezzo… fuorilegge. Per non parlare del costo, che
mi auguro non sia un furto» scherzò con un’aria
carica di sottintesi poco rassicuranti.
«Ogni
airship trattata dalla “Legendary Customs” rispetta nel
dettaglio le prescrizioni in termini di sicurezza e prestazioni dettate
dal Ministero dei Trasporti, oltre che le specifiche delle singole case
produttrici» spiegò tranquillamente Charlotte. «E
quand’anche fosse necessario effettuare lavori che vadano a
rivoluzionare completamente il mezzo in questione, portando ad un
veicolo in parte o totalmente diverso da quello originario, questo
viene inviato alle officine competenti per sottoporlo ai test previsti
dalla legge ed ottenere l’approvazione alla messa in strada.
Quanto al prezzo, nessuno dei nostri clienti si è mai lamentato
del trattamento ricevuto. La nota spese viene costantemente tenuta
sotto controllo e in caso di rettifiche, anche minime, il cliente viene
tempestivamente informato, al fine di garantire la massima trasparenza.
E se si verificano corposi scostamenti dal prezzo iniziale, si provvede
a ridiscutere il contratto, al fine di giungere ad una soluzione
economica condivisa da ambo le parti».
A
differenza dei suoi capi aveva parlato con calma e compostezza,
sostenendo il piglio inquisitorio del magistrato mentre accarezzava il
piccolo bouquet di fiori in taffetà che portava al polso
sinistro.
Chapel annuì lentamente, scambiando sguardi impressionati con i presenti.
«Devo
ammettere Avelan,» disse con un sorriso obliquo, «che la
tua accompagnatrice sa il fatto suo. Difficile ignorare tanta
competenza. Come è difficile ignorare una delle migliori armi
della “Legendary Customs”» soggiunse spostando lo
sguardo in direzione di Sandy, che sorrise ammiccando.
Sotto
la tovaglia, la donna affondava convulsamente le unghie nella coscia
dell’ex-marito, impedendogli di alzarsi per commettere
sciocchezze. La sua gelosia era inopportuna in quel momento.
«Lasciatemi
qualche tempo per riflettere. Sarete contattati dal mio ufficio per
conoscere la risposta ed, eventualmente, prendere un
appuntamento» annunciò alzandosi e sventolando eloquente
il biglietto da visita dell’officina. «Signore. Signori.
È stato un piacere. Buona serata».
Appena
Chapel sparì tra la folla, Charlotte e Sandy tirarono un sospiro
di sollievo mentre Clay inserì il nome del pretore
nell’elenco dei clienti cui far buon viso a cattivo gioco. Era un
uomo puntiglioso in maniera spasmodica e piuttosto esigente, ma aver
stuzzicato il suo interesse era di per sé un’importante
conquista: si muoveva in un ambiente dove lo status di una persona
veniva misurato con svariati parametri di giudizio, inclusi i mezzi di
trasporto. Innescare una gara all’interno del foro di Port
Serafine a chi avesse sfoggiato l’airship più sfarzosa
avrebbe portato un aumento esponenziale del lavoro e delle entrate,
visto che la “Legendary Customs” era la sola officina in
tutte le Colonie Atlantiche specializzata esclusivamente nel settore
elaborazioni.
«Pensavo
non se ne sarebbe più andato. Non invidio quelli che finiscono
sotto le sue grinfie» grugnì Clay, scolando un calice
tutto d’un fiato. «Come diavolo fai a sopportare gente del
genere?»
«Sopportare?»
domandò Avelan, sgranando perplesso gli occhi.
«Cos’ha Norman di così fastidioso? È un
discreto cultore d’opera, capisce poco di arte ma compensa con
un’impeccabile conoscenza della pesca e delle tecniche di
allevamento del bestiame. Mi spiace solo dover dire che non è
poi il gran legislatore che tutti credono. Alle sue spalle
c’è uno stuolo di apprendisti, galoppini e segretarie
pronti a preparargli il brodo prima di entrare in aula. Per non parlare
delle sue amicizie in Parlamento e al Governatorato. Temo non abbia mai
preso davvero una decisione di testa sua. Il nostro Thomas ha una
Laurea in Giurisprudenza presso una delle più prestigiose
università britanniche e conosce a memoria tutti i commi
esistenti nei libri di diritto e le relative applicazioni. E non si fa
scappare un solo aggiornamento o una Gazzetta Ufficiale. Non per nulla
l’ho assunto anche come mio avvocato. Se lo mettessimo al posto
di Norman, farebbe senza dubbio una figura migliore».
«Ma riempirebbe le strade di giovani disoccupati. E Thomas non è tanto crudele» scherzò Charlotte.
La guardia del corpo fece un lieve inchino, a ringraziare dei complimenti.
«Touché,
mia cara. Touché» rise Avelan accarezzando la barba.
«Dietro questa montagna di muscoli si cela un cuore d’oro,
che però teme il confronto con il tuo. Ti ho già detto
quanto quest’abito ti doni?»
«Solo un miliardo di volte» sbuffò sottovoce Sandy.
Per
una volta, i suoi consigli le si erano ritorti contro e anche se era
felice di vedere Charlotte adottare uno stile più accattivante,
la seccava sentirsi defraudata di gran parte delle attenzioni cui era
abituata.
Doveva
ammettere che pur non essendo firmato da un rinomato atelier di moda,
quel vestito era veramente magnifico. Realizzato con innumerevoli
strati di pizzo in diverse tonalità di verde, lasciava scoperte
le spalle e dava l’impressione che non vi fosse alcun busto o
crinolina al di sotto. Era animato da una lunga stola di seta color
bronzo, che sul davanti scendeva dalla spalla sinistra fino alla grande
balza della gonna, mentre sul retro ricadeva oscillando su larghi
volant bianchi.
«Delizioso.
Semplicemente superbo!» commentò entusiasta Avelan,
attingendo per l’ennesima volta al caviale e porgendo un assaggio
a Charlotte. «Grana grossa, giusto equilibrio tra sapidità
e dolcezza, delicatamente persistente. E si spande sul palato come una
carezza! È sicuramente Blu Beluga. Donat, devi assolutamente
assaggiare questo malossol1,
ragazzo mio. Si sente il sapore di casa, delle acque dei nostri mari.
Mangiane un po’ e dopo vai e torchiare quelli del catering per
conoscere il nome del fornitore. Voglio fargli un ordine al più
presto» disse rivolgendosi all’uomo alla sua sinistra, che
si limitò a lanciare un rapido sguardo alla costosa prelibatezza.
«Sono
budella di pesce» borbottò schifato Clay, fingendo di
grattarsi la nuca per mascherare un nuovo tentativo di allentare la
cravatta.
«Uova,
Clayton. Piccole, graziose, sopraffine perle nere del più raro
storione che nuoti al mondo» corresse, servendosi nuovamente con
il cucchiaino di madreperla. «Credimi, vale la pena azzardare un
assaggio. Ti stupirà come delle cosine piccine e
all’apparenza insignificanti, possano racchiudere un piacere
tanto grande ed intenso, così inebriante e avvolgente che
è difficile descriverlo a parole».
«Direi
che a te riesce benissimo» sogghignò. «Preferirei
una bella bistecca. Una di quelle costate di manzo che Cynthia ci serve
all’“Archituono”. Alte tre dita, grigliate a puntino
e belle succose. E, Avelan, puoi scommetterci quel che ti pare che non
farebbero rimpiangere i tuoi ovetti viscidi» concluse,
mascherando con un colpetto di tosse il gemito per l’ennesimo
affondo nella coscia.
L’allusione
alla procace e disponibile cameriera
dell’“Archituono” era andata a segno, ma Sandy aveva
giurato a sé stessa che non si sarebbe fatta rovinare la serata
dai dispetti di quel pachiderma.
«Qui
le bistecche non sono previste, quindi taci e fai come ti si dice:
assaggia!» rimbrottò indispettita allungandogli una
tartina punteggiata di nero.
Clay
la inghiottì con una smorfia disgustata, trattenendosi dal farle
notare che l’unico modo per rendere davvero appetibile quella
robaccia, fosse che lei poggiasse il crostino sulla generosa scollatura
dell’abito. Il corpetto la strizzava a tal punto che i seni
somigliavano ai cupolini dei fari sulla Fortion, altrettanto perfetti
ed abbaglianti nel loro emergere da una conturbante carrozzeria.
***
«È
l’una e mezza. Ne avremo ancora per molto? Non abbiamo già
visto abbastanza “simpaticoni” per stasera e per il
prossimo secolo?» sbadigliò Clay, dondolando sulle gambe
posteriori della sedia.
«Lo spero. Sono sfinita e quasi senza voce» ammise Charlotte, sorridendo stanca al bouquet.
Era
stata la sua ancora di salvezza per tutta la serata, quando i
complimenti di Avelan e la sua galanteria non erano state in grado di
riscuoterla. Di tanto in tanto vi immergeva le dita, scivolando
distrattamente tra i petali, cercando di trovare traccia delle dita di
Odrin fra le pieghe della stoffa.
«Finitela
di lamentarvi! Ci vorrà quel che ci vorrà! Se Avelan
riesce a portarci Hernández o Cross o anche solo un membro del
loro staff, avremo fatto bingo! Assicurarci l’interesse di un
politico sarebbe un enorme colpo pubblicitario!» si augurò
Sandy, risistemandosi per l’ennesima volta sulla sedia.
Non
l’avrebbe mai ammesso, ma quell’abito la stava uccidendo. I
lacci che Junior aveva criticato minacciavano di segarla in mille
pezzi, le stecche del busto la bloccavano dalle spalle ai fianchi,
costringendola a stare allungata su un fianco, e la voluminosa coda di
ruche le impediva di sedere comoda. Per non parlare degli ampi inserti
in pelle, che le si erano incollati addosso e, uniti al tepore afoso
della serra, le stavano facendo fare una sauna imprevista.
Si
sentiva una delle bambole di Bonnie: rigida, impacciata e totalmente
dipendente da qualcuno per potersi muovere. Il problema stava nel fatto
che quel qualcuno fosse Clay: era assolutamente certa godesse nel
sorreggerla ad ogni passo, perché poteva allungare le mani con
la scusa di aiutarla. Un piccola vendetta per averlo trascinato
lì.
«Ma che bella compagnia. Quasi quasi mi unisco» gracchiò qualcuno.
Charlotte impallidì, irrigidendosi. La voce proveniva dal tendaggio alle sue spalle.
Non
ebbe bisogno di voltarsi per vedere il naso schiacciato che spiccava
sul volto oblungo di PigTail. I capelli erano raccolti così
strettamente da sembrare disegnati sulla sua testa. Quello che ore
prima doveva essere stato un elegante completo era ridotto ad un
insieme di indumenti stropicciati e abbottonati sommariamente.
«Chi ha ti fatto entrare?» sibilò Sandy, preoccupata dall’orrore suo volto di Charlotte.
Non l’aveva mai vista così sconvolta.
«Sempre
un piacere vedervi, ragazzi. Permettete?» ma prima di ricevere
risposta, si lasciò cadere sulla sedia vuota accanto a
Charlotte, cui passò un braccio attorno alle spalle per
impedirle d’allontanarsi.
«Vattene con le tue gambe se non vuoi farlo strisciando» minacciò Clay, facendo per alzarsi.
Quello emise un sospiro che puzzava terribilmente di alcol e tabacco rancido, facendo una boccaccia.
«Sempre
il solito cattivone» ghignò artigliando la mano di
Charlotte e portandola alle labbra, dopo averle leccate. «E tu,
bel bocconcino, me lo vuoi dire sì o no il tuo nome? Le altre
volte Scorch non è stato così carino da presentarci. Dice
solo che glielo fai andare in tiro da mattina a sera. Permetti,
bellezza? Paul Br…»
PigTail
non riuscì a terminare la frase: il grosso pomo di un bastone da
passeggio si schiantò sulla sua spalla, strappandogli un mezzo
grido. L’attimo dopo ruzzolò a terra e ricevette un calcio
nelle costole che gli mozzò il respiro. Istupidito,
gattonò fino all’aiuola, dove un cespuglio gli
sbarrò la strada.
«Clench,
non ti pago per importunare i miei ospiti con la tua faccia da cane
rognoso» tuonò l’aggressore, mentre gli pungolava la
schiena. «Sparisci immediatamente!»
«S-Sì. S-su… subito capo!» biascicò arretrando a tentoni.
«Charlotte!» chiamò Avelan, sbucando da un sentiero, alla testa di un codazzo di ospiti.
La donna boccheggiava e sembrava sul punto di svenire. Le fece aria con un tovagliolo e la prese per mano.
«Thomas,
aiuta il tuo collega per cortesia. Mi pare ne abbia alquanto
bisogno» ordinò Ostap, senza perdere il solito sorriso
gentile.
«Non
è necessario» bofonchiò PigTail trovandosi di
fronte a Lomann che lo fissava in tralice, mostrandogli l’enorme
pugno.
«Insisto» fece perentorio Thomas, agguantandolo per un braccio.
«Sì,
ma non insistere troppo, Tom» latrò il capofficina
afferrandolo dall’altra parte e rimettendolo in piedi con un
violento strattone. «Lascia qualcosa anche a me. Vorrei tanto
dargli un paio di mani anch’io. Quelle che ho tenuto da parte
l’ultima volta».
Nel frattempo, Sandy era caracollata goffamente verso l’amica e aveva preso posto al suo fianco.
«Va tutto bene. Non preoccuparti, passerà presto» cercò di tranquillizzarla.
Charlotte
emise un rantolo, scrutandola con la coda dell’occhio. Sembrava
domandarle come potesse fingere di comprendere la sofferenza che
l’attanagliava.
«Respira con calma, cara. Con molta calma» scandì Ostap accarezzandole i capelli.
«Peter,
va’ a prenderle un coriale, sbrigati» ordinò il capo
di PigTail e un’ombra si eclissò tra la folla.
Lei
lasciò cadere indietro la testa, le labbra livide e il respiro
irregolare. Teneva le mani premute sul petto, quasi temesse che il
cuore fosse lì lì per schizzare via.
Alcuni
invitati cominciarono ad allungare il collo nella loro direzione,
dandosi di gomito. Dei giornalisti cercarono di farsi largo, dittafoni
e macchine fotografiche alla mano, ma ospiti, camerieri, guardie del
corpo e persino le piante intralciarono l’avanzata, dando modo al
nuovo venuto di far chiudere le tende.
Il colore tornò lentamente sulle guance di Charlotte e il respiro riprese un ritmo normale.
«Sono
dolente per le maniere di Clench. È un animale ottuso e volgare,
ma conto di ridurlo all’obbedienza entro breve»
esordì il principale di Pigtail.
«Non ci contare» bofonchiò a denti stretti Clayton, fissando rabbioso la ex-moglie, che trasalì.
L’accusa
era plateale: non poteva non conoscere il nome di chi aveva indetto la
festa e inoltrato gli inviti. Quella presa in giro non gli sarebbe
andata giù tanto presto, Sandy lo sapeva fin troppo bene. Aveva
tirato troppo la corda: anche se tutte le persone con cui avevano
parlato si fossero rivolte a loro, Clay non le avrebbe perdonato un
simile sgarro. Portarlo a sua insaputa ad un party organizzato dalla
persona che più odiava al mondo, era qualcosa che non poteva
lasciar correre.
Sandy rabbrividì e tornò ad occuparsi di Charlotte, ormai ripresasi quasi del tutto.
«Avelan,
porgo le mie più sentite scuse a te e alla tua signora per
quanto accaduto. E, per inciso, mi scuso d’aver smarrito la
comunicazione delle vostre nozze. Avrei avuto piacere di parteciparvi,
o si è trattato di una cerimonia per pochi intimi? I giornali
non l’hanno menzionata».
«Oh…
ti ringrazio Aris, ma temo sia sorto un curioso, piccolo
equivoco» balbettò imbarazzato, grattandosi la testa con
tanta foga da rendere inutile il copioso strato di brillantina.
«La signorina non è mia moglie. Sono ancora infelicemente
celibe, anche se potrei ritenermi immensamente fortunato ad impalmare
una donna di tale levatura. Permettimi di presentarti Charlotte Vernet,
responsabile amministrativa della “Legendary Customs” e mia
carissima amica, oltre che la donna cui devo la mia vita. Non avrei
sopportato di restarmene a casa, sarei morto di noia e le tue feste
sono imperdibili. A proposito, voglio il nome di chi ti fornisce
quell’eccellente caviale».
«Ogni
cosa a suo tempo, Ostap, ma ti ringrazio dei complimenti»
replicò, degnandolo a malapena d’uno sguardo.
«Domando nuovamente perdono, signorina Vernet. La
stupidità di Clench dev’essere contagiosa».
«Lurido lecchino» mugugnò Clay rivolgendogli uno sguardo omicida, che venne ricambiato con sdegno.
«Permetta che mi presenti. Aris Theodoros Goundoulakis, per servirla» disse inchinandosi profondamente.
Solo
allora Charlotte poté vederlo bene. Lunghi boccoli biondi
incorniciavano il volto abbronzato dove spiccavano liquidi occhi scuri.
Le sue mani tuttavia sembravano quelle di un vecchio, tanto erano
ossute e martoriate dalla vitiligine. Il fisico magro era fasciato da
un sobrio smoking blu, quasi banale se paragonato a quello di Avelan,
dalle maniche guarnite di stampe ton sur ton e cosparso di pagliuzze
dorate.
«Ma per favore!» grugnì il capofficina, senza più nascondere il proprio disappunto.
«Clayton
Lomann. È parecchio che non ci si vede. Almeno tre o quattro
anni, se non erro. Qual buon vento ti ha condotto qui?»
Era
una domanda retorica, Clay lo sapeva. E se pure non l’avesse
capito, il sorriso che Aris rivolse alla sua ex-moglie avrebbe chiarito
tutto. Lui era l’artefice di ogni cosa. Era certo che
l’avesse fatto col preciso intento di farsi bello agli occhi di
Sandy, di mostrarle ancora una volta il suo potere e il mondo di sfarzi
in cui viveva, tentando di attirarla un’altra volta a sé.
Spiacente, figlio di puttana. Ci sei riuscito una volta, la seconda non te lo permetto, urlò dentro di sé.
«Per te e il tuo nuovo amichetto, Aris, nessuno. Solo tempesta» dichiarò, tornando a dondolarsi.
Avelan tentò di intromettersi per distendere gli animi, ma Goundoulakis si rivolse altrove.
«La mia cara Alexandra Stuart. Affascinante come sempre» e si chinò a baciarle la guancia.
«Aris. Che piacere rivederti» mentì ricambiando timidamente.
In
quel momento, avrebbe preferito avere Scorch nudo e ubriaco seduto
sulle ginocchia piuttosto che lui e Clay a pochi passi di distanza.
Averla chiamata con il suo nome da nubile era stato un colpo basso.
«Giù le mani» intimò il capofficina.
Il
padrone di casa l’ignorò con plateale noncuranza, dandogli
le spalle. Clayton scattò, facendo sobbalzare Charlotte e Ostap
per la rapidità con cui raggiunse Aris. Inutile domandarsi cosa
volesse fare.
Le guardie presenti tuttavia non ebbero il tempo d’intervenire.
«Buona
sera a tutti!» ululò Mac Gregor, proiettandosi
all’interno seguito dalla sua accompagnatrice, una giovane
siamese abbigliata da danzatrice.
Pareva
fresco come una rosa, quasi che la festa fosse appena cominciata. Solo
le labbra sembravano appartenere ad un'altra persona, così rosse
e screpolate da lasciar cadere piccole gocce di sangue sulla barbetta
caprina.
«Ostap
carissimo! Non ci si vede mai abbastanza noi due! Ho delle proposte che
potrebbero interessarti parecchio sai? Hai tempo da dedicarmi prima di
rinchiuderti nel tuo castello di ghiaccio e vodka? Oh, e chi vedo qui?
Le algide signorine della “Legendary”! Vi presento Phailin.
Anche lei è una tutta d’un pezzo come voi, sapete? Visto
che unghie? Però non spiccica una parola, accidenti. Non aiuta
per gli affari una che sta zitta, no? E c’è anche…
ehm… Lu… Leeeem… Lomann! Sì, Lomann,
giusto! Ah, non smetterò mai di andare in giro con quel
trabiccolo! È comodissimo. Ci ho anche dormito, sai? Vivian non
ne è stata molto felice, ma pazienza. La cosa lì è
mia. E… quale onore! Il nostro anfitrione in persona!
Aaa… Aris Goluu... Goddul… Gonun… ta…
cakis? Al diavolo. L’eccellentissimo Aris, re dei ricevimenti!
Lietissimo d’incontrarti!»
«Adam Mac Gregor. Quale entusiasmo» mormorò mellifluo questi.
Il
giovane industriale guardò intorno strabuzzando gli occhi,
rendendosi conto solo in quell’istante dell’atmosfera che
regnava nel gazebo.
«Mi sono perso qualcosa?» ridacchiò fregandosi la mani.
1 malossol: caviale fresco, poco salato.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** L.C. - Cap. 15 ***
L.C. - Cap. 15
15
Rie si
accomodò sulla Mazia, dopo aver rassicurato il signor Lomann
riguardo il guidare con prudenza fino a casa, dove avrebbe porto a suo
padre i saluti dei titolari e le scuse per l’orario indecoroso.
Il kimono era leggermente spiegazzato lungo le maniche, segno che la
serata era trascorsa tranquillamente. Altrimenti, i bei fiori che
decoravano la stoffa sarebbero stati ridotti ad un insieme di grinze.
Aggiustò l’otaiko musubi1 contro lo schienale così che non la infastidisse e mise in moto, in un tintinnare di bira bira2.
Era impressionante come una diciassettenne nata e cresciuta nelle
Colonie fosse così legata alle tradizioni del luogo di
provenienza della sua famiglia; luogo che, per inciso, aveva mai visto
solo in fotografia o sui dinamoschermi.
Il piccolo
veicolo a sei ruote imboccò la discesa emettendo volute di
vapore ad intervalli regolari, preceduto dalla pozza di luce giallastra
del grosso faro all’acetilene. In pochi minuti, le strade
silenziose di Port Serafine inghiottirono il mezzo e la sua graziosa
conducente.
Clayton risalì con Sandy il vialetto, seguendola in soggiorno.
«Tu lo sapevi!» ruggì, perdendo di colpo il controllo appena chiusa la porta.
Per tutto il
tragitto dal City Garden a Cenelia era rimasto trincerato dietro un
muro di tetro mutismo, che non lasciava presagire nulla di buono.
Stupidamente, la donna aveva sperato sarebbe ripartito dopo averla
fatta scendere dalla Torran, invece aveva preteso di pagare di tasca
propria la babysitter. E i pochi passi in salita erano stati il
trampolino di lancio della sfuriata.
Sandy
arretrò fino al divano, intimorita. Clayton non aveva mai alzato
le mani con lei o con i bambini, non ne aveva bisogno: bastava la sua
voce a mettere paura.
«Lo sapevi e hai preteso di trascinarmi lì!» l’accusò.
«Clay…
fammi spiegare» sussurrò indicando in alto per ricordargli
i figli che dormivano e tentare di placarlo almeno un poco.
«Che
c’è da spiegare?» tuonò, sciogliendo il nodo
della cravatta a forza di strattoni. «Dici che non riesci a darmi
fiducia ma l’unico che dovrebbe evitare di concederne sono io,
visto che finisco sempre per pentirmene!»
«L’ho
fatto per la “Legendary”! Hai visto quanta gente
c’era, quanti contatti abbiamo preso!» provò a
giustificarsi, ma era consapevole che pur essendo la verità lui
non le avrebbe creduto. «Avelan ha insistito perché
andassimo con lui, è il nostro miglior partner, ha tante
conoscenze… e gli serviva una buona scusa per agganciarne altre.
Era una grossa occasione per entrambi!»
«Fanculo!
Avelan può fare quel che gli pare, ma tu… Aris era
lì. Ti ha dato lui l’invito alla sua fottutissima festa! E
scommetto che lui ha mandato PigTail a rompere i coglioni. E tu sei
stata zitta!» urlò additandola.
«Non saresti venuto. E io avevo… bisogno di te» ammise chinando il capo.
«Puoi
giurarci!» ringhiò, ignorando le sue ultime parole.
«Se ci tenevi tanto a vederlo, potevi andare con lui e io avrei
passato una bella serata con i miei figli, a casa mia, piuttosto che
fare la figura dell’idiota davanti a quel bastardo! Cosa volevi
fare? Fargli vedere quanto sei brava a farmi spendere soldi per farti
bella ai suoi occhi? Che coglione, ci sono cascato con tutte le scarpe!
Se penso che hai coinvolto pure Bonnie e Charlotte per farti
aiutare… sei veramente una stronza! Come ti è venuto in
mente, Sandy? Come?» domandò esasperato, ma non ottenne
risposta.
La vide scuotere la testa, incapace di trovare le parole.
«Questa è l’ultima volta che mi prendi in giro. Ricordatelo. L’ultima» l’ammonì.
«Papà!» esclamò Junior sbucando dal nulla e correndo ad abbracciarlo.
In una frazione dal volto dell’uomo svanì ogni traccia d’odio, cedendo il passo alla felicità.
«Ehi, Click-Clack!»
Il piccolo non
sembrava aver udito una sola parola del loro diverbio o, se
l’aveva ascoltato, pareva non importargliene molto.
«Wow, papà! Sei tutto leccato!» rise indicandolo.
«Già. Hanno fatto un bel lavoretto, vero?» si pavoneggiò, dando un colpetto al bavero della giacca.
«Bleah, puzzi di profumo!» commentò storcendo il naso.
«Ah, non
ti piace? Beh, questa è colonia, signorino, e la dovrai mettere
anche tu quando sarai alto… così!» e afferratolo
sotto le ascelle lo sollevò fin sopra la sua testa.
Sandy ridacchiò e ricevette un’occhiata minacciosa.
«Non dovresti essere a letto?» domandò il padre, assestandogli un paio di finti sculaccioni.
«Sono sceso a bere perché non riuscivo a dormire» si giustificò, abbarbicato sulla sua spalla.
«Non
penso ti crederemo» mormorò Sandy, indicando le scarpe ben
allacciate sui suoi piedi. «Su, saluta papà, vai a bere e
di corsa a letto» ordinò senza troppa convinzione.
«Papà, dormi qui stanotte?» chiese, facendo orecchie da mercante.
La proposta provocò un moto di gioia e vendetta nell’animo dell’uomo.
«Già, mamma. Dormo qui stanotte?»
Pur essendo una
domanda, sapeva di obbligo. Gli accordi del divorzio non consentivano a
Clayton di trascorrere la notte sotto lo stesso tetto della famiglia,
salvo intervenissero situazioni di forza maggiore o il consenso della
ex-moglie.
«In realtà… papà non potrebbe» sospirò con un filo di voce.
«Mamma, digli di restare! Vero che può? Vero?» piagnucolò facendosi rimettere a terra.
«Junior, non fare i capricci. Papà… deve andare».
«Ti prego-ti prego-ti preghissimo!» si lagnò saltellando e tirandole il vestito.
«E dove dovrebbe dormire?» esalò, auspicando che desistesse.
Era solo un
disperato tentativo di non cedere al rimorso. Per una volta Clay aveva
ragione, aveva combinato un colossale disastro e pagarne le
conseguenze, sebbene non la facesse sentire perdonata, era quasi
doveroso.
«Può stare sul divano!» propose Junior, indicandolo.
«Sul
divano non ci sta. È troppo piccolo» obbiettò
stanca, appoggiandosi alla balaustra della scala mentre tentava di
slacciare i sandali, rischiando di ritrovarsi con il seno che tracimava
dal corsetto.
«Giusto.
A proposito, che fine ha fatto l’altro? Questo da dove
è…» attaccò Clay, squadrando schifato
l’ottomana dai colori sgargianti che aveva spreso il posto
dell’ampio sofà sformato sul quale aveva affondato il
sedere e trascorso tanti bei momenti.
«Allora può dormire nel letto di Bonnie!» riprese Junior.
«Non
sveglieremo tua sorella» lo sgridò pacata. «E
comunque, ci sono così tante bambole su quel letto che dubito
tuo padre possa riuscire anche solo a metterci un piede. Non so nemmeno
come ci riesca lei…».
«Nella vasca?»
«Vuoi farlo dormire o fargli un bagno?»
«Però sul tavolo in cucina non va bene. Può cadere» osservò.
«O sfondarlo».
Clayton la fulminò con lo sguardo.
«Scusa» si affrettò a dire Sandy, a disagio.
«Nella camera di nonna Jane?» insisté il piccolo.
«Quella
sarebbe la camera degli ospiti, però qualcuno ha avuto la
brillante idea di devastare la rete del letto».
«Non l’ho devastata! Nonna si lamentava che stava scomoda e io l’ho aggiustata!» protestò.
«Piegando le maglie con una pinza fino a quando non hanno ceduto» spiegò lei reprimendo uno sbadiglio.
Era sfinita e la presenza di un Clayton inferocito e battagliero non l’aiutava a distendere i nervi.
«Ma il materasso è alto! Lo mettiamo per terra. È comodo uguale» obbiettò il bambino.
«Sono le
tre del mattino, non ci metteremo a rivoltare casa adesso. Junior, stai
esaurendo le opzioni. E noi siamo stanchi».
«Donna, tu mi farai impazzire!» sbottò pestando i piedi.
Sandy lo
fissò sbigottita. In quel momento, con il volto imbronciato, le
spalle ingobbite e quelle parole in bocca, Junior era identico al
padre. Aveva persino la stessa piccola ruga all’angolo
dell’occhio sinistro. Ne ebbe quasi paura.
«Ehi!»
lo riprese Clayton, assestandogli un calcetto sul fondoschiena.
«Non rivolgerti in questo modo a tua madre, nanerottolo».
«Uffa! Però tu lo fai sempre!» protestò.
«Io e la mamma abbiamo un modo nostro di parlare tra di noi, che è diverso da quello che devi usare tu».
«Allora, se parlate solo per capirvi voi due, perché non vai a letto con lei?» propose spazientito.
«Junior!» esclamarono entrambi i genitori.
«Ma cos’ho detto?» sbuffò dondolandosi sui talloni, la braccia che ciondolavano in avanti.
Cominciava ad
avere di nuovo sonno e non aver risolto niente lo faceva arrabbiare.
Non capiva perché rifiutassero di dirgli di sì punto e
basta, ai suoi occhi era molto semplice. Persino stupido.
«Cielo, cosa mi tocca sentire…» gemette Sandy, nascondendo il viso con le mani.
«Non
intendeva… lo sai» grugnì spiccio l’ex-marito
cercando di nuovo la cravatta, che penzolava sciolta sul suo petto.
«Ci mancherebbe! Se sapesse… non voglio neanche pensarci! Ha otto anni!»
«Sono d’accordo. Assolutamente d’accordo» convenne imbarazzatissimo.
Si scambiarono
una lunga occhiata. La tensione sembrava essersi dissolta di colpo dopo
quell’innocente allusione, ma sapevano che si trattava di un
sollievo temporaneo. I veleni del party erano troppi per essere
smaltiti in così breve tempo.
«Può dormire nel mio letto?» azzardò infine Junior, sbadigliando.
«Nel tuo letto?» fece Sandy, stupita.
Suo figlio non
faceva neppure sedere gli amici là sopra e dava di matto quando
Bonnie per dispetto ci tirava sopra qualcosa - di solito una delle sue
pantofole di peluche. D’altra parte non poteva biasimarlo:
l’aveva fatto insieme al padre quando aveva compiuto sei anni,
saldando pezzo a pezzo tubi, ingranaggi, parti di carrozzeria, piccole
turbine e tralicci portanti. Era un dono che nessuno dei suoi compagni
avrebbe mai avuto.
«Sì,
lì ci sta! Ti prego, mamma! Altrimenti non so più dove
metterlo…» insisté il piccolo guardandosi attorno
sconsolato.
La pendola
puntava le quattro e Clay era ancora fuori di sé, nonostante non
lo stesse dando a vedere. Non poteva permettergli di tornare a casa in
quelle condizioni, ammesso che ci fosse tornato. Preferiva correre il
rischio di una nuova sfuriata l’indomani mattina, piuttosto che
trascorrere la notte in ansia per lui.
«D’accordo. Vada per il tuo letto. E tu? Dormi per terra?»
«Dormo con te! Tu hai il letto graaaaande!» pigolò abbracciandola.
Sandy gli passò una mano tra i capelli, sentendo una lacrima affacciarsi.
«Ma
guarda… allora stanotte avrò di nuovo un Clayton Lomann
nel mio letto dopo tanti anni» sospirò con un sorriso
addolorato. «Vado a cambiarmi. Mandalo su tra dieci minuti».
«Mamma, cammini come una papera!» ridacchiò il figlio imitandola.
Lei scrollò le spalle, starnazzando per qualche gradino.
«Davvero dormivi con la mamma?» chiese perplesso appena Sandy sparì in cima alle scale.
«Già. Che cosa assurda, eh?» tentò di scherzare, sedendo sul divano e trovandolo piuttosto scomodo.
Dopo tutto, se
n’era andato quando Junior aveva da poco compiuto due anni. Non
poteva ricordare com’era vivere con lui in casa.
«È
per questo che ha il letto così gigante? Perché
sennò non ci stavi?» indagò sedendo sul tappeto.
A Clay scappò da ridere.
«Più o meno».
«E
perché adesso non dormi con noi? Gli altri papà non hanno
una casa diversa. Beh, a parte quelli di Mark e di Novak. Anche loro
hanno due case, ma sono solo quelli lì».
«Il padre
di Novak lavora a Edmundale, deve avere per forza una casa là.
Occorrono sedici ore di viaggio solo per arrivarci, non può fare
avanti e indietro ogni giorno».
«Però tu e il papà di Mark lavorate qui! Perché ce ne avete un’altra?»
Indeciso sulla spiegazione da dare, Clay tacque un istante di troppo.
«Non ti piaceva più questa casa?» domandò preoccupato.
«Che ti salta in mente? Mi piace moltissimo. Dannazione, l’ho scelta io!»
Ripensò
alle giornate trascorse su e giù per la città, discutendo
in continuazione con Sandy del loro nido d’amore, alle calcagna
di agenti immobiliari dal sorriso di ceramica e gli occhi da invasati.
Si era impuntato su quella villetta quando si era accorto che guardando
dalle finestre non si scorgevano tetti di officine o autorimesse,
né strutture che le ricordassero: a casa voleva solo a godersi
la famiglia, non portarci degli extra lavorativi.
«Allora… non volevi più stare con noi? Ti davamo fastidio?»
La lieve
incrinatura nella voce di Junior lo ferì profondamente. Non
voleva che i suoi figli avessero un’idea sbagliata di quella
situazione.
«Junior,
non t’azzardare mai più a dire o pensare una scemenza del
genere!» lo riprese. «Io vi voglio bene, siete la cosa
più importante della mia vita e sarei rimasto qui per sempre.
Solo che certe volte… può succede che le mamme e i
papà smettono di andare d’accordo e… combinano
guai, litigano, si dicono cose brutte e che fanno male. Ogni tanto sono
vere, ma fanno male lo stesso. Così si cerca di parlare, per
vedere se si possono sistemare le cose, solo che non ci si riesce quasi
mai. Allora l’unico modo per continuare a volersi bene è
che uno dei due vada via. E non è perché vuole, ma
perché deve».
«Ma non è per sempre, vero, papà? Un giorno torni a stare con noi, dentro il letto della mamma».
Clayton
sentì gli angoli della bocca sollevarsi a fatica in una risatina
amara. Aveva perso il conto delle volte in cui se l’era augurato,
ma dopo quella serata non era più sicuro di desiderarlo.
«Speriamo» mentì. «Vai a bere la tua acqua, su».
«Posso bere il succo di mela?» azzardò con una smorfia malandrina.
«Basta che non lo dici alla mamma. Sai che non vuole, dice che ti fa venire il mal di pancia».
«Muto come un motore spento!» promise.
Il padre spiò in direzione della scala, assicurandosi che Sandy non stesse tornando, e gli fece segno di andare.
***
Adam tentava
inutilmente di dominare i conati che lo scuotevano da quasi
un’ora. Aveva vomitato anche le budella, a giudicare
dall’odore nauseante e pungente della chiazza sul prato.
«Sei uno
spettacolo indecente» rampognò Vivian, che gli teneva la
fronte. «Quante volte ti ha detto il medico che il tuo stomaco
non regge gli eccessi? E dove sono le tue medicine? Erano nel
portaoggetti stamattina e adesso sono sparite».
Lui
agitò la mano, tamponando la bocca con un fazzoletto. Sentiva
gli occhi bruciare e ansimava per il dolore, e le ramanzine della sua
attendente erano l’ultima cosa di cui avesse intenzione di
preoccuparsi.
Phailin aveva tolto l’altissima tiara dorata e controllava che tutte le gemme fossero al loro posto.
«Non gli
ho permesso nemmeno di guardare il buffet, sono stata severa: niente
tartine, caviale, dolcetti, champagne. E riesce a star male lo
stesso» spiegò con voce nasale la siamese, rimirando lo
scintillio del copricapo nel fascio di luce che dalla serra si
proiettava sull’erba.
Vivian la
scrutò da sopra la spalla. Se Adam non stava dando di stomaco
per i bagordi, poteva trattarsi di una delle sue solite crisi di nervi:
poteva anche passare da spaccone, mostrare a tutti la sua miglior
maschera da scavezzacollo, eppure bastava una parola, un educato
dissenso a fargli perdere le staffe.
Dopo aver
ritirato la Fortion si era chiuso in bagno per tutto il pomeriggio,
piangendo e imprecando contro Lomann e la sua accidenti di segretaria
che si erano permessi di rifiutare la somma proposta per la
muscle-ship. Si disperava sempre quando, volendo mostrare generosi
apprezzamenti, veniva scambiato per uno stupido esibizionista che amava
far sfoggio dell’enormità dei propri fondi.
«Phailin
ha ragione, non ho mangiato nulla. Però…»
mugugnò, scostando i capelli biondi e madidi di sudore dagli
occhi.
Quella parola
fu sufficiente ad allarmare le donne. Se non aveva toccato cibo,
né stava avendo una crisi di nervi, c’era una sola
risposta possibile al malessere che l’affliggeva.
«Adam, non avrai…» cominciò l’orientale, risistemando la tiara con brevi colpetti dei palmi.
Lui, sostenendosi alle ginocchia, annuì pesantemente. L’autista levò gli occhi al cielo, esasperata.
«Dio mio, sei un idiota!» sbraitò Vivian. «Quanti ne hai presi?»
«Qualcuno» rantolò.
«Quanti?» replicò afferrandolo per la giacca e spingendolo contro la Fortion, per obbligarlo a raddrizzarsi.
Mac Gregor contò lentamente sulle dita.
«Nove. Mi pare» tossicchiò, scivolando di nuovo verso l’asfalto.
«Dove ne hai trovati così tanti?» domandò Phailin, incombendo su di lui insieme alla collega.
«Ho i miei sistemi. E so quali tasti spingere con ciascuna di voi» ansimò, le mani premute sullo stomaco.
Vivian si
ripromise di radunare le altre e scoprire il nome della traditrice:
grazie a quella bravata avrebbero passato almeno tre giorni
d’inferno, facendo le crocerossine al capezzale di Adam.
«Avevi
promesso di non prenderne più. Dicevi d’aver smesso, che
ti eri disintossicato! Sei uno stupidissimo bugiardo»
ribadì, aprendo lo sportello dell’airship. «Sali. Ce
ne andiamo. Non reggerai ancora per molto e se ci fermassero per un
controllo finiremmo nei guai».
Lui tirò
su col naso, strizzando le palpebre e mordendo le labbra spaccate fino
a farle sanguinare nuovamente. La barbetta caprina era striata di rosso
in più punti. Lacrime scesero lente sulle guance, incidendo lo
strato di fondotinta steso sul volto teso dell’industriale.
«Me lo stai ordinando?» singhiozzò.
«Sì» ringhiò indicando perentoria l’interno della Fortion.
Barcollando e
aggrappandosi ad ogni sporgenza presente nell’abitacolo, Adam si
issò all’interno e raggiunse il sedile posteriore.
«Vivian?»
chiamò non appena si fu messo comodo, la testa abbandonata in
grembo alla danzatrice che gli punzecchiava la guancia con le unghie
d’ottone per tenerlo sveglio. «Appena arriviamo a casa,
chiameresti Fanny e Zahira? Tu e Phailin mi avete controllato
abbastanza per oggi. E domattina…»
«Domattina penseremo a domattina» tagliò corto mettendo in moto.
***
Aveva impiegato
una vita prima di trovare un modo per incastrarsi in quella trappola
che era il letto di Junior, maledicendosi per non aver considerato la
possibilità che suo figlio non sarebbe rimasto un bambino in
eterno.
Cazzo,
avrei dovuto farlo grande abbastanza per un adulto. Se Junior cresce
come sono cresciuto io, a quindici anni comincerà a starci
stretto, pensò sistemando il cuscino per non sbattere
contro la testata metallica e tirando le lenzuola sulle gambe che
sporgevano fino a metà polpaccio oltre il bordo del materasso.
Stava per
assopirsi, quando una voce lo chiamò. Per un istante
pensò fosse Sandy, andata a chiamarlo perché si levasse
dai piedi ora che il figlio dormiva. Avrebbe protestato, a costo di
svegliare l’intero vicinato: non se ne sarebbe andato prima di
aver dato un signor buon giorno ai loro ragazzi. E poi, dopo quel che
aveva fatto, non aveva alcun diritto d’accampare simili pretese.
Invece, il secondo richiamo cancellò ogni belligeranza.
«Papà?»
Bonnie, avvolta
in una vestaglia bianca, lo fissava arricciando la cintura fra le dita.
Sotto, la camicia da notte riproponeva parte di un famoso quadro di cui
non ricordava né il titolo né l’autore. Clayton
ricordava solo che era costata uno sproposito, ma era una spesa che
poteva permettersi di fare per veder felice sua figlia.
«Salve, bella Nuvoletta. Che succede? Ti ho svegliata?» domandò sottovoce, sedendo con un gran sorriso.
La ragazzina
fece cenno di no e Clay allungò un dito per intrecciarlo con il
nastro. Giocherellarono in silenzio per qualche minuto, prima che lui
dicesse qualcosa.
«Sai che
stasera mi hanno chiesto tutti chi è… come diavolo si
dice? Sì, insomma, volevano sapere chi mi ha vestito, mi ha
scelto le scarpe, mi ha annodato come si deve la cravatta e mi ha
consigliato come tagliare la barba… perché ero davvero
uno schianto. Altro che quei beccamorti del Core! Guardavano tutti me.
Era veramente un gran figo» commentò entusiasta strizzando
l’occhio. «Cos’è allora, il tuo lavoro?»
«Style coach» rispose lei, mordendosi le labbra.
Si vergognava
ancora nell’ammettere il suo desiderio, tuttavia le parole del
padre la rendevano orgogliosa. Non l’avrebbe mai ammesso, ma
sapeva di essere stata davvero brava.
«Okay.
Style coach. E sai che ho risposto? Che ho la migliore… style
coach, giusto? La migliore style coach del mondo: mia figlia
Bonnie».
«Gliel’hai detto davvero?» domandò incredula, gli occhi verdi brillanti d’emozione.
Clay restava
sempre senza fiato nel vederla così sorpresa. Aveva la stessa
espressione di Sandy quando le aveva chiesto di sposarlo.
«Puoi
scommetterci. Chiedilo a Charlotte. Anzi, la prima volta che Avelan
passa in officina te lo faccio dire da lui. Era invidioso marcio,
sembrava vestito con un’insalata» ghignò. «Mi
sa che cercherà di arruolarti per la sua “Maison
Russia”».
Se possibile,
Bonnie si sentì ancor più eccitata. Adorava i capi
prodotti dall’atelier del signor Avelan, li aveva ridisegnati
centinaia di volte, studiandoli e modificando quei dettagli che non la
convincevano. Non aveva mai osato mostrare i suoi lavori al cliente di
suo padre, anche se sapeva che Charlotte gliene aveva fatto avere
alcuni, che avevano suscitato commenti positivi.
«Davvero? E… posso andarci?»
«Toglitelo
dalla testa, Nuvoletta» la rimproverò, facendole un
buffetto sul naso. «Se ti metti a lavorare per lui, a me chi mi
sistema? Io ti voglio solo per me».
La ragazzina
gli gettò le braccia al collo, stringendolo forte. Clay
contraccambiò l’abbraccio e sentì che tremava. La
temperatura della stanza non centrava: stava cercando di non piangere.
Per quanto avessero cercato di proteggerla dal dolore della
separazione, arrivando ad inventare scuse fantasiose per giustificare
quanto accadeva, Bonnie aveva percepito, compreso e assimilato ogni
cosa. Tranne una: sapeva che di lì a poche ore suo padre sarebbe
andato via di nuovo e si sarebbero rivisti dopo qualche giorno;
tuttavia, l’idea le scatenava ondate di panico. Sentirsi stretta
fra le sue braccia era il solo modo per rendere appena sopportabile il
distacco.
«Sono contenta che la mamma ti ha fatto restare» bisbigliò.
«Anch’io» rispose dandole un bacio tra i capelli.
«Buona notte, papà».
«Buona notte, Bonnie».
1 Otaiko musubi: ovvero “nodo tamburo”, chiude la cintura del kimono sulla schiena, formando una sorta di cuscino.
2 Bira bira: ornamenti per capelli, spesso in forma floreale e muniti di striscioline metalliche.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** L.C. - Cap. 16 ***
L.>C. - Cap. 16
16
C’era un’aria strana quella mattina. Quieta, ferma,
insolitamente vuota e priva di odori. Il sole sembrava non volersi
alzare sopra la città, tutto era avvolto in una penombra
violacea. Aveva ormai coperto quasi l’intero tragitto verso
l’officina, quando udì una voce.
Jessie?
Girò su sé stesso ma si trovò solo, esattamente
come pochi attimi prima. La via era deserta e le vetrine
dell’“Archituono” vuote. Non c’erano luci o
facce ad animarle. Diede una rapida occhiata al proprio riflesso,
tirando indietro con le mani la zazzera bruna e troppo lunga che
portava sulla testa. Stava diventando scomodissima, doveva decidersi a
tagliarla.
Ma che fa qui… oh, mio Dio!
«Chi c’è?» chiamò, arretrando fin quasi
in mezzo alla strada per allungare il collo verso le finestre dei piani
alti, tutte ostinatamente buie.
Aveva fatto pochi passi, quando la sentì un’altra volta.
Santo cielo, come l’ha conciato… ha bisogno di un medico!
«Chi ha parlato?» urlò e la voce si spense priva di echi nei vicoli di La Roscas.
La strada collassò di colpo, trascinandosi dietro veicoli, muri,
marciapiedi, persino i vasi di fiori. I lampioni a gas esplosero
mandando fiammate azzurre. La via sussultava e tremava, calcinacci
rugginosi piovevano da tetti e muri. Boy cadde a terra e tentò
di strisciare lontano.
Dal baratro sorse un gigantesco macchinario, immenso al punto tale che
si faticava a distinguerne le parti. Pesanti piastre celavano gran
parte del meccanismo, lasciando scoperte porzioni delle dimensioni di
una porta. Tubi scuri serpeggiavano verso le profondità della
terra o sparivano nei vicoli. C’era un rumore in sottofondo,
cupo, potente, perfettamente sincrono. Enormi ruote dentate si
mordevano l’un l’altra in un complicato incastro, una
titanica divinità di metallo si apriva e ripiegava su sé
stessa con moto perpetuo. Bilancieri calibravano ritmi arcani. Molle
contrastavano spinte o le infondevano. E ancora quel suono che si
espandeva e contraeva nelle orecchie, liquido.
Gli mancò l’aria quando si rese conto di star ascoltando il battito di un cuore.
«Jessie?»
Una scarica di dolore gli esplose nella testa, facendolo urlare. Si
ritrovò in piedi, da qualche parte. Gli servì un minuto
per riconoscere il volto che lo fissava. Era Charlotte, impietrita
dallo spavento.
«Che… cazzo… vuoi?» biascicò
stropicciandosi gli occhi e mugolando di dolore quando fece pressione
sul destro, gonfio e tumefatto.
«Jessie stai… dormendo in cucina. Stai male?»
Il ragazzo ignorò la banalità della domanda, le sue
condizioni erano palesi: ennesimo occhio nero, labbro spaccato,
occhiaie per il sonno mancato. Il ritratto della salute.
«In cu… cazzo. Che ore sono?» strillò cercando un orologio.
«Quasi le otto. Come ti senti?»
«Fatti gli affari tuoi» sibilò tornando a sedere con lo stomaco che brontolava.
Si era appisolato sì e no per una decina di minuti.
«Ti va del caffè? E ci dev’essere ancora un po’ della torta di mele di ieri».
Il ragazzo la guardò scettico.
«Non ho mai avvelenato nessuno, lo giuro. E la torta di Maria
Pilar l’hai già assaggiata» lo tranquillizzò.
Gli sarebbe piaciuto fare il difficile, ma era troppo scombussolato.
«Nero e bello forte. Fortissimo» sbadigliò.
«Se vuoi riposarti prima di cominciare il turno perché non
vai in infermeria? Almeno lì c’è un letto»
suggerì qualche minuto più tardi, porgendogli una tazza
piena e fumante.
Boy dovette ammettere che la rompiscatole sapesse fare un caffè
niente male. Clay avrebbe potuto tenerla solo per quello e sarebbe
stato comunque un guadagno.
«È abbastanza forte?» domandò, porgendogli la torta.
«Bevibile. Appena meglio dell’acqua nel recupero calore del
Qantarico» mentì, gettando indietro la frangia che
rischiava di finire nella colazione. «Cos’è, hai
scopato stanotte?»
Charlotte lo fulminò da dietro la propria tazza, glaciale.
«È che sei tutta tranquilla e mielosa, mi fai il
caffè, mi dai la torta e poi non dici niente se sfotto. Non vuoi
sapere i cazzi miei…» aggiunse massaggiando il fianco con
una smorfia.
Benny c’era andato giù pesante con i calci. Avrebbe voluto
far sì che la lamina e il puntale negli scarponi si
accartocciassero attorno ai piedi di quel bastardo, staccandoglieli di
netto, ma la promessa fatta a Ozone era una delle poche cose cui non
sarebbe mai contravvenuto. Così, si era limitato a rendere i
rinforzi molli come burro, ma le suole di cuoio avevano fatto il paio
con i pugni.
«Casomai si dice melensa. Comunque no, ho solo dormito bene».
«Adesso si dice così?»
«Non sia maleducato, signor Bennet. Le mie orecchie potrebbero
riprendere a funzionare» l’ammonì imbronciandosi.
«E se una persona preferisce tacere riguardo le sue vicende
personali, lo accetto. Anche se spero ne parlerà con chi ritiene
maggiormente adatto al compito».
I piercing sulle sopracciglia di Boy disegnarono archi interrogativi.
«Avere qualcuno cui appoggiarsi è una grande fortuna e non
va sprecata. Dico bene, signor Ozone?» sorrise Charlotte.
Boy scoprì il maestro appoggiato allo stipite, le mani sprofondate nelle tasche della salopette.
«Ehi, vecchio. Le focacce sono giù» salutò mesto.
Un brivido gli attraversò la nuca indolenzita. Parteggiava per la segretaria.
«Tisana?» propose lei e Ozone accettò, inchinandosi con le mani giunte all’altezza dello stomaco.
All’aroma del caffè si unirono le note pungenti della menta e quelle più dolciastre del karkadè.
Nascosto dietro la ceramica, Jessie cercava d’ignorare le
vibrazioni sempre più fastidiose che il mentore gli trasmetteva
minuto dopo minuto, arrivando a fargli andare di traverso la colazione.
«Ah… ehm… Charlotte?» ma prima che potesse
trovare un modo per ringraziarla impedendo a Ozone di farlo morire
soffocato, lei si alzò.
«Di niente, Jessie» disse uscendo.
***
«Soy el ángel vengador de las placas!1» urlò Choncho, ergendosi in tutta la sua ridotta mole sul banco da lavoro.
In una mano stringeva il saldatore con la fiamma aperta al massimo e
nell’altra la maschera da saldatore. Ululava come un pazzo,
sovrastando i rumori dell’officina. Arrivò persino a
lanciare in aria la bandana, scoprendo il tatuaggio della Vergine che
proteggeva con tanto accanimento.
«Cos’ha detto?» chiese Iron a denti stretti, troppo preso dal sollevamento per guardare altrove.
Il capofficina grugnì una risposta indecifrabile, che con ogni
probabilità doveva contenere più d’un insulto
abilmente camuffato. Nell’arco di un mese il Penitenziere aveva
sortito effetti positivi su quasi tutti i membri dello staff,
eccettuati Boy e Choncho, rimasti i soli elargitori d’offerte.
Non appena il muso dell’airship avesse raggiunto la giusta
altezza, Clay l’avrebbe trainato in avanti con la catena che
stava sistemando attorno alle spalle e al torace, fino alla pedana
mobile dove l’avrebbero posato. Era un’operazione di
routine che comportava comunque una buona dose di pericolo e distrarsi
in quel momento era l’ultima cosa di cui avevano bisogno. Se
avesse dato uno strattone troppo violento, il peso del blocco avrebbe
potuto spezzare le sicure lungo i binari, facendolo precipitare addosso
a lui o ad Iron; diversamente, avrebbe fatto oscillare l’insieme
di carrozzeria e tralicci contro il mezzo, danneggiandolo.
Choncho intanto continuava a far baccano, agitandosi come un forsennato
affinché i colleghi gli dessero retta. Tirò persino
qualche bullone, rischiando di centrare parabrezza e carrozzerie dei
mezzi in lavorazione.
«Andiamo a vedere, prima che caschi da quello stramaledetto
tavolo. Non ho intenzione di far correre Hernzt per rimetterlo
insieme» sbuffò Clay spazientito.
Lasciarono la carena sospesa a mezz’aria, dopo averla allontanata
a sufficienza dall’abitacolo e aver fissato il tutto ai ganci di
trattenuta.
Attorno al banco si era già radunato l’intero staff, ad
eccezione di Scorch che probabilmente dormiva della grossa. Choncho
mostrava orgoglioso i pannelli della Steeler VN che Avelan aveva
mandato un paio di giorni prima. La carrozzeria del vecchio bolide da
corsa era in buone condizioni, eccettuata la parte anteriore della
fiancata sinistra, sventrata dall’esplosione di una valvola
pop-off. Il danno era circoscritto, ma i rivestimenti delle Steeler
erano molto più sottili della norma e saldare la pezza era
problematico: la base poteva deformarsi o, peggio, finire bucata.
Clayton passò le dita sulla giunzione, stupendosi di trovarla
quasi perfettamente liscia. Di solito occorreva carteggiare a
più riprese e talvolta impiegare piccole dosi di acido per far
sparire le imperfezioni.
«Davvero niente male, Choncho. Era da un pezzo che non facevi un
lavoretto così. Anzi, in dieci anni credo di non avertene mai
visto fare uno come questo. Era ora» si complimentò,
sfregandosi il mento.
Il guanto produsse un fastidioso rumore di grattugia. Non si faceva la
barba da quasi una settimana e la somiglianza con il cugino si faceva
evidente. Se avesse rinunciato a radersi i capelli ogni mattina,
avrebbe avuto l’aspetto di un riccio di castagna biondo.
«Capo, un po’ di merito a chi ha dato una mano!»
rimbrottò Boy dietro la propria maschera, indicando i morsetti
che reggevano le lamine.
Oltre ad averli sistemati centinaia di volte secondo le estenuanti
indicazioni del collega, aveva impiegato le proprie abilità per
fare in modo che il lavoro riuscisse a regola d’arte, senza farsi
scoprire. Ozone l’aveva intuito e gli rivolse un breve cenno
d’intesa, orgoglioso.
«Hai solo tenuto le lastre, lo sa fare anche Junior! Mica le hai
unite tu!» berciò Choncho, agitando il cannello ancora
acceso.
A quelle parole, Hito chiuse il gas e Odrin gli strappò di mano l’attrezzo.
«Che ti prende?» disse Jack No Way, alle loro spalle.
Pancake tossiva e sputava briciole, strabuzzando con cattiveria gli
occhi sull’apprendista. Boy deglutì a vuoto, lo sguardo
che guizzava agitato sui volti degli altri, i quali non si curarono
minimamente della sua reazione.
«Va tutto bene?» chiese preoccupato Iron, battendogli una mano sulla schiena.
Il fratello lo scansò, muovendo qualche passo in direzione del bagno.
«Ehi, dove scappi? Sgancia!» ghignò Patch, allungando la mano.
Quello spiaccicò un avanzo di frittella sul suo palmo,
sorridendo strafottente. Il rimasuglio era talmente lurido ed
impregnato di chissà quali liquidi, che diverse gocce colarono a
terra lasciandosi dietro lunghi filamenti scuri e vischiosi.
«Vaffanculo, Bidone!»
sbraitò tirandoglielo addosso. «Tieniti la tua merda e
dammi il trias! Avevi scommesso che non ci riusciva, ora
paga!» insisté pulendosi con quel che capitava, incluse le
divise altrui.
Il dolce rimase appiccicato sul camicione da lavoro di Pancake,
perfettamente immobile. I colleghi storsero il naso con gemiti
stomacati. Persino Ozone emise un verso simile ad un conato.
«Finitela con le scommesse, ragazzi. Stiamo lavorando!» li
riprese Clay. «E tu pagalo, dannazione, se non vuoi che svuoti
quell’immondezzaio che chiami armadietto!»
«Chiama la Guardia Nazionale» suggerì Odrin.
«Meglio una squadra di netturbini» corresse Choncho.
«Non basterebbero quelli di tutte le Colonie!» rimarcò Patch.
Scoppiarono a ridere e Pancake, in genere incline allo scherzo, se ne
andò imprecando. Iron non sapeva che dire per scusarlo, non era
da lui un comportamento simile.
«Credo non gli piaccia il tuo smalto» sbadigliò No Way prendendogli la mano e mostrandola a tutti.
Le unghie erano dipinte color pervinca opaco.
«Ha ragione. Non è il tuo colore» ridacchiò Clay, facendo per infilarsi un dito in gola.
«A me piace. Hito, come ti sembra?» chiese allungandosi verso di lui.
«Orripilante. L’hai anche steso male, è sbavato
sugli eponichi» osservò addentando una matita, penosa
sostituta delle sigarette.
«Su che?» domandarono in coro.
«Eponichi. Questi» e indicò la base delle unghie.
«Da quando sai come si chiamano? Non è che la prossima
volta al “Bull(es)” arrivi vestito da geisha?»
malignò No Way, sventolando lezioso la mano.
Hito incrociò le braccia tendendo i muscoli sottili, dando
l’impressione che squali e tartarughe vibrassero
d’indignazione.
«Curo i miei strumenti di lavoro. E per farlo nel migliore dei
modi ho sperimentato numerose tecniche, inclusa la manicure che, a
dispetto di ciò che pensate, è una pratica utile e
tutt’altro che disdicevole» fu la risposta serafica quanto
lapidaria del verniciatore.
Nessuno osò ribattere e Clay ne approfittò per rispedire
tutti alle rispettive mansioni, chi ridacchiando e chi ammutolito.
Passò meno di un’ora, prima che delle urla tornassero a
riecheggiare. Non erano di trionfo, né provenivano
dall’officina.
***
«Non si può stare in pace cinque minuti. Mancavi
tu!» ciancicò irritato Pancake, rovistando nella scatola
in cerca del giusto conforto.
Scorch, steso sul lettino dell’infermeria, gli mostrò il
medio. Aveva la faccia coperta da un asciugamano madido di
disinfettante e sporco di una sostanza scura.
«Andiamo, non sei stufo di avere a che fare con questo schifo ogni giorno?»
«Non è così male, quando ci vivi dal primo giorno.
E poi, questo schifo l’ho creato io. È mio»
ribadì mandando giù un boccone.
Pancake non poteva vederlo, ma stava sorridendo.
«Infatti fate schifo uguale» rimbrottò, ficcandosi in bocca un biscotto.
Aveva capito subito che Boy centrava qualcosa: quell’idiota di
Choncho non era mai stato capace di fare lavori di cesello, impossibile
che ci riuscisse da un giorno all’altro. Di sicuro c’era lo
zampino di quel rivoltante puntaspilli.
«Se non ti piace più, sai dov’è la porta.
Alzati e levati dalle palle, io non ti fermo. O hai paura di passare
per quello a cui piace avere tanti “amichetti”?»
virgolettò nell’aria, le dita macchiate e appiccicose.
Pancake non rispose, impegnato a decifrare il senso dell’insinuazione, e lui riprese:
«Ti sta sul cazzo mezzo mondo, non solo i froci come tuo
fratello. E vale lo stesso qua dentro. Non se ne vanno loro? Vattene
tu. Altrimenti piantala di rompere i coglioni e fai l’uomo, visto
che parli tanto e poi ti nascondi in quella merda che mangi»
l’accusò ridacchiando.
«Fottiti, Scorch» ringhiò alzandosi in piedi.
Sarebbe stato molto facile assestargli un bel cazzotto dritto in
faccia. Non l’avrebbe visto arrivare, non avrebbe potuto
difendersi. E con il dolce in fondo alla gola avrebbe smesso di sparare
cazzate. Sarebbe rimasto buono buono fino alla chiusura.
«Che paura. Tutto qui il tuo repertorio? PigTail non t’ha
insegnato niente di meglio?» malignò da sotto il telo.
Delmar caricò il pugno e stava per sollevare il braccio, quando entrò Clayton.
«A che serve il termometro?» chiese indicando la protuberanza che teneva sollevata la pezza.
«Barretta melassa e whisky» precisò Pancake uscendo, pentito d’avergliela data.
Clay corse a strappar via l’asciugamano dalla faccia di Scorch e
gli sottrasse il dolce incriminato. La faccia del cugino era una
ragnatela di graffi più o meno profondi, per la maggior parte
concentrati attorno agli occhi e alla bocca. Sul naso si distinguevano
anche segni lasciati da minuscoli denti.
«Cazzo…»
«No, è la mia faccia, anche se pensi che sono una testa di cazzo» sputò Scorch mettendosi a sedere.
L’odore del disinfettante misto agli ingredienti della merendina era stordente.
«Non cominciare. Ma ti sei visto?» domandò Clay arretrando di un passo per respirare.
Scorch liberò con le dita i molari da un avanzo piuttosto tenace
e rivolse una smorfia indecifrabile al capofficina mentre lisciava alla
buona la camicia, prima di scendere dal lettino.
***
«Hai intenzione di farmi una scenata di gelosia?» sospirò Charlotte prendendo posto sul divanetto.
Era sfinita dopo la concitata spiegazione fatta a Lomann riguardo
l’accaduto e lo sguardo accusatorio dell’Andull non
l’aiutava a riprendersi. I tatuaggi bianchi indurivano i
lineamenti sul lato sinistro del suo volto, arrivando ad essere
minacciosi.
«Può darsi» rispose lui, sedendole accanto.
«Perché LucyBelle era nel tuo ufficio? E soprattutto, che
ci faceva Scorch con quelle?» e indicò delle rose ormai
ridotte a un contorto ammasso vegetale sparso sul pavimento.
«Voleva scusarsi per l’intromissione di PigTail
venerdì sera. È stato un gesto carino, per certi
versi» esalò sfilando gli occhiali per massaggiarsi le
palpebre.
«Come gli è venuto in mente di regalarti questa robaccia?» sbraitò calciando alcuni petali.
«Non era così quando…»
«Lo so che non era così, ma sono rose! Rosse!» insisté digrignando i denti.
Charlotte intuì che l’avversione derivasse dal significato
che gli Andull attribuivano a quei fiori e domandò che glielo
chiarisse. Odrin prese un profondo respiro e parve calmarsi un poco.
«Le rose sono considerate insulti. Donare una rosa rossa ad una donna significa darle della puttana».
Charlotte sgranò gli occhi incredula: portandone una dozzina, Almgren l’aveva praticamente offesa a morte.
«So che non ti piacciono certe parole ma prostituta non rendeva il senso».
«Odrin, dubito che l’Ingegnere volesse offendermi. Anche se
c’è riuscito comunque» accennò ripensando ai
subdoli ammiccamenti con cui aveva accompagnato il discorso.
«Cercava di farmi la corte».
Era una verità raccapricciante, nonostante ci avesse fatto il
callo. E non erano state le parole di Paul Brown a farglielo capire, lo
sapeva da mesi, da quando una mattina il progettista era entrato nel
suo ufficio piuttosto alticcio, cantando a squarciagola un’oscena
canzonaccia da pub: “Charlotte, gimme a lot”.
«Con quelle?» insisté l’artigiano.
«Tu cosa avresti…» cercò di scoprire, iniziando nel contempo a sciogliere lo chignon ormai sfatto.
«Gli Andull non offrono fiori a una donna. Rappresentano una
bellezza temporanea, inconsistente, pronta a sfiorire senza lasciare
tracce. O almeno… non regalano fiori di questo tipo, se proprio
vogliono regalarne».
«Mi pare d’averne visto qualcuno, in effetti» sorrise
Charlotte, arrossendo quando Odrin le sfiorò il polso.
«Quali fiori donerebbe un Andull alla donna che sta
corteggiando?» s’informò.
«Fiori di melanzana» dichiarò soddisfatto.
La segretaria si immobilizzò, le dita affondate fra i capelli.
«M-me… melanzana?» chiese, spiazzata dalla rivelazione.
Lui annuì orgoglioso.
«Melanzana e zucchina, aglio, ananas, arancio, litchi,
caffè, pesche. Tutti fiori che generano frutto»
spiegò con calma. «Una rosa è solo bella, spesso
perché è stata creata così, non perché
è nata con quell’aspetto. Da piacere per un certo periodo
di tempo e appassisce. Il fiore di un ortaggio o di una pianta da
frutto è semplice, senza fronzoli inutili e prolunga la sua
esistenza in qualcos’altro, proprio come il ventre di una donna
da forma a una nuova vita».
Charlotte lo fissò a bocca aperta, colpita dal paragone. Era la
prima volta che le capitava di pensare ai fiori ornamentali come ad un
concetto estetico portato alle estreme conseguenze. Una bellezza fine a
sé stessa, priva di reale utilità. Restava il fatto che
vedersi recapitare un mazzo di fiori di melanzana fosse la cosa meno
romantica che le venisse in mente.
«Un fiore di vaniglia potrebbe piacerti?» azzardò Odrin.
«Un fiore di vaniglia?» ripeté perplessa.
«La vaniglia è il frutto di un’orchidea. È
più piccola ed allungata di quelle al City Garden, è
giallo-verde e la parte esterna del calice ricorda una bocca
aperta» spiegò, disegnandolo con l’indice sulla mano
di Charlotte.
«Penso… di sì. Sì, un fiore di vaniglia
potrebbe piacermi» concordò, intrecciando le dita con
quelle nerissime dello spasimante.
Sarebbero rimasti immobili in quella posizione per ore, se una forma
scura non si fosse allungata oltre il piano della scrivania, facendo
roteare la sedia su sé stessa. Un muso appuntito e color ferro
sgranocchiava mezza mela, trattenuta da zampe sottili dai lunghi
artigli ricurvi. Tonde iridi brune fissavano la coppia e una lunga coda
nera si agitava nell’aria.
«Cattiva, Lucybelle» la sgridò Odrin.
La femmina di lemure continuò a masticare beata, inclinando la
testa da un lato. Poi, presa da un’improvvisa euforia, con un
unico balzo raggiunse le ginocchia di Charlotte, squittendo allegra.
L’espressione del padrone si fece cupa e la donna intuì
dipendesse solo in minima parte da ciò che l’animale aveva
fatto ad Almgren.
«Penserai che sia un’ipocrita» disse amareggiata, grattando il lemure tra le scapole.
«Sì, sei un’ipocrita. Mi vieti di portare LucyBelle
in officina, nei “locali adibiti all’espletamento di
attività lavorative”, e poi scopro che la tieni qui. E non
provare a dire che questo non è un luogo di lavoro,
perché non mi pare che tu dorma alla scrivania»
obbiettò aspro.
L’animale rizzò il pelo soffiando, spaventato dal tono.
«Jastemà, LucyBelle. Jastemà» mormorò la donna, ripetendo la parola che l’Andull usava per calmarla.
Il richiamo funzionò e il primate le montò sulle spalle, acciambellandosi attorno al collo come una sciarpa.
«LucyBelle non era qui. Era… ecco…»
Tacque imbarazzata e indicò la botola sopra le loro teste.
«Nel sottotetto?»
«La mando lì quando viene a trovarmi» ammise
timidamente. «Non corre pericoli e sta tranquilla, soprattutto se
le do un po’ di frutta. Le piace stare al buio. E le piace la
macchina per scrivere: quando batto le relazioni si addormenta. E visto
che si mette accanto all’apertura, posso controllarla».
«Tu… tieni qui… LucyBelle?»
«Nel sottotetto, non qui. Questo è un ufficio, un luogo di
lavoro, l’hai appena detto anche tu» specificò,
vagamente piccata. «Era affacciata quando l’Ingegnere ha
cominciato a fare l’idiota. Credo si sia sentita minacciata
quando l’ha visto addentare la mela che stavo tagliando per il
nostro spuntino di metà mattina. Per questo l’ha
aggredito: difendeva il suo pasto».
Rivide LucyBelle lanciarsi sulla testa di Almgren, gli artigli
sguainati e le fauci spalancate. L’uomo aveva tentato inutilmente
di difendersi, sopraffatto dall’agilità della creatura
arboricola che si accaniva con morsi e graffi su ogni punto vulnerabile
che riuscisse a raggiungere. Il lemure l’aveva cessato
l’attacco solo quando lei l’aveva attirata mostrandole un
altro frutto, più grosso e appetitoso.
Odrin rimase in silenzio, meditabondo. Sapeva bene cosa poteva
combinare LucyBelle quando era affamata, ma i suoi pensieri erano stati
presi da altro.
«Sei mai andata lassù?» chiese ad un tratto.
1 Soy el ángel vengador de las placas!: in spagnolo "sono l’angelo vendicatore delle lamiere!".
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** L.C. - Cap. 17 ***
L.C. - Cap. 17
17
Ostap si
risistemò sulla poltroncina, sorridendo all’espressione
attonita dell’interlocutore. Era molto difficile sorprenderlo ed
essere riuscito nell’impresa era incredibilmente appagante.
«Ridimmelo
un’altra volta» scandì lentamente Clay, inspirando a
fondo con altrettanta flemma. «Quante?»
Non poteva aver detto quel numero. Non ci credeva. Era ridicolo. Meravigliosamente ridicolo.
Compiaciuto come un gatto sazio e ozioso, Ostap l’accontentò:
«Trenta».
Il capofficina
scivolò in basso sulla propria seduta, portando le mani al volto
per nascondere l’entusiasmo che montava selvaggio nelle vene.
«Trenta» ripeté, arrivando a strozzarsi con le sillabe.
«Tutte
tue, Clayton. Tue e dei tuoi ragazzi» annuì,
giocherellando con il grosso anello che portava al mignolo. «Mi
rendo conto che non si tratta di elaborazioni e restyling come vostro
solito, che parliamo di ripristini, puliture, rattoppi di carrozzerie,
interni, diruttori e livree, ma credimi. Credimi. Voi siete i soli cui
le affiderei. La sola squadra di tecnici perfetta per mettere mano a
quei gioielli e ridare loro lo splendore che li ha contraddistinti alla
loro discesa nei circuiti».
«Trenta»
insisté estasiato Clay, contando sulle dita per darsi
un’idea della mole di lavoro che li attendeva.
Riusciva a
vederle, una accanto dietro l’altra mentre sfilavano attraverso
il portale dell’officina. La storia della motoristica e
dell’aerodinamica all’ennesima potenza.
«Trenta.
Inclusa la Steeler. E l’avete preparata divinamente, se mi
permetti» ammiccò Ostap. «Sono già riuscito a
trovare undici airship fino ad ora. Alcune sono in condizioni ottime,
avrete pochissimo da fare, giusto una riverniciata e qualche ritocchino
qua e là, ma di altre non posso dire la stessa cosa. Il tempo
è inclemente con uomini e macchine. Solo Dio ne è immune,
ahinoi!»
«Dovrò
mettere sotto tutti quanti, allungare l’orario di lavoro. Potrei
dover inserire sabati e domeniche. Magari ci scappa pure
un’assunzione o due» suggerì con un sorrisetto
perfido, giusto per saggiare la solidità delle intenzioni del
cliente. «Occorrerà una montagna di materiale,
dovrò mandare i ragazzi a rovistare nei depositi e dagli
sfasciacarrozze di tutte le Colonie per cercare i pezzi fuori
produzione, prendere contatti con privati interessati a disfarsi di
qualche fondo di magazzino. E poi bisognerà testarli, pulirli,
renderli installabili».
«Tutto
quello che serve, a qualunque costo. In ogni senso. Sai che non ho
paura di spendere quando mi metto in testa un traguardo. Voglio che il
museo sia pronto per la fine del prossimo anno: sto pensando a
un’inaugurazione memorabile subito dopo Natale, se non
addirittura per Capodanno. Anno nuovo, museo nuovo. Il vanto di Port
Serafine!»
«Il Museo
di VeloCity. La storia delle corse in airship dagli albori a
oggi» recitò Clay, passando le dita sulla bozza di
relazione che Ostap gli aveva dato poco prima.
Il progetto
della struttura ricordava gli scarabocchi che Scorch spacciava per
schemi aerodinamici, tuttavia si poteva distinguere una sagoma
allungata da cui fuoriuscivano delle pinne oblunghe.
«Sono in trattativa con la Falcon per avere l’aeromobile di Gunner al termine del campionato in corso».
«Bel colpo» si complimentò.
«E quella
di Costica Orosz» aggiunse, sistemando il polsino della camicia
che sporgeva dalla giacca di seta damascata.
Clay rimase a bocca aperta, allibito.
«La Blue
Lead Gate 720! La prima airship prodotta da una casa indipendente a
vincere il Campionato delle Colonie!» esclamò incrociando
le braccia dietro la testa. «Avevo il poster di quella meraviglia
sopra il letto, me la sognavo la notte!»
«E ora
riuscirai addirittura toccarla! Mi spiace solo non poter avere la HS-c
di Flash Balzaretti. È andata distrutta nell’incidente e
ciò che ne è avanzato chissà dov’è
finito».
Il capofficina afferrò al volo dove stesse cercando di andare a parare.
«Lascia
in pace Jack. Vive già abbastanza male la perdita del padre
senza che cominci a dargli il tormento pure tu».
«Vorresti
biasimarmi perché desidero rendere il giusto tributo a un grande
pilota?» pigolò imbronciato. «Tu non lo faresti?
Insomma, non ci sarà più la HS-c, ma sono più che
sicuro che il ragazzo abbia per le mani qualcosa di altrettanto
adatto».
«Non ti venderà la Aries per tutto l’oro del mondo!» l’avvisò.
«Oh, no!
Per carità!» si affrettò a scusarsi. «Quella
di suo padre è stata una tragedia senza pari, sarebbe quantomeno
inopportuno andare a risvegliare un simile dolore facendo
un’offerta per un oggetto che glielo ricorda tanto! No, no, no. E
poi la Aries è una muscleship stradale, non un modello da gara e
a me interessano quelli. Però mi domandavo se per caso potesse
avere qualche cimelio per l’esposizione. Foto, trofei, articoli
di giornale… una divisa da corsa! Dopo tutto sulla tomba di
Frankie Flash ci sono i suoi guanti, forse a casa la famiglia ha
dell’altro da cui potrebbe separarsi senza eccessiva sofferenza.
No? Sto esagerando?» domandò facendo tanto d’occhi,
somigliando a un bimbo barbuto.
A volte Clay si
domandava quale versione di Avelan fosse fasulla: se quella più
seria e composta che sfoggiava durante le contrattazioni, quella
modaiola e godereccia, o quella che sfiorava l’identico livello
d’idiozia di Mac Gregor.
«Da
quando t’interessi di corse, Avelan? Mi sembrano un po’
lontane dai tuoi soliti loschi giri. Ti sei stufato di avere per
partner la solita piccionaia di riccastri senza palle?»
osservò Scorch.
Era stravaccato
sulla poltrona accanto alla porta, subito alle spalle di Avelan, e
stava servendosi il terzo bicchiere del costoso whiskey irlandese
appena ricevuto in dono dal cliente. I graffi lasciati da LucyBelle
sulla sua faccia gli conferivano un aspetto da avanzo di galera o
sfortunato accattone, a seconda dei punti di vista; secondo Bonnie
invece ricordava Tamior l’Avventuriero, protagonista di una
fortunata serie di romanzi per ragazzi cui si era appassionata di
recente.
Clay
l’avrebbe preso volentieri a pugni quando si era piazzato
lì con l’aria strafottente e superiore che ostentava dopo
aver passato un paio di notti attaccato alla bottiglia, ma per quanto
il suo atteggiamento lo mandasse in bestia, dovette ammettere che la
domanda avesse senso.
«Già, come mai quest’interesse? Le airship da corsa non rientravano tra le tue passioni».
«Che
posso dire? Sogni di bambino!» si schermì semplicemente,
giocherellando con un bottone di madreperla della giacca.
«Non sei mai stato bambino, speculatore» ruttò Scorch.
Avelan si
volse, stupito e vagamente disgustato alla vista del progettista che si
grattava fino a strapparsi alcune croste dalle ferite. Non era insolito
che quell’uomo partecipasse alle riunioni intervenendo a
sproposito, ma erano state poche le occasioni in cui gli si era rivolto
usando epiteti del genere. Solitamente ricorreva a termini più
scurrili.
«E va
bene, signori. Se la mettiamo su questo piano, giocherò a carte
scoperte, anche se temo mi verrà a costare parecchio»
sospirò allentando il nodo della cravatta.
«Taccagno» mormorò Scorch, la lingua impastata dall’alcol.
Donat, accanto
alla finestra, lo trafisse con lo sguardo ma a un impercettibile cenno
di Avelan, tornò a ignorarlo. Era inutile prendersela con lui,
dopo tutto faceva parte del gioco.
«Parlavo
in termini di rispetto, Ingegner Almgren» specificò il
magnate grattando la testa imbrillantinata con lieve imbarazzo.
«Sarò chiaro, Clayton. È nato tutto al City Garden,
dopo che tu e Sandy ve ne siete andati».
L’espressione di Lomann perse d’esaltazione.
«Come ben
sai, e come il nostro stimato Niklas ha testé ribadito, ho
rapporti economici con molte persone. E tengo a precisare che Ostap
Avelan ha solo rapporti leciti e trasparenti di fronte alla legge e a
Dio, checché ne dica quella torma d’incomprensibili
biliosi che cerca costantemente di trascinarmi in tribunale sulla base
di assurde dicerie. Comunque,» riprese abbandonando il tono
lamentoso a favore di uno molto più composto e conciliante,
«come ti è altrettanto noto, tra queste persone figura
Aris Goundoulakis».
S’interruppe, attendendo che Clay facesse a pezzi i braccioli della sedia che artigliava con odio.
***
Quella mattina
Patch aveva dovuto prendere un permesso per accompagnare Andrew al
controllo mensile. Melanie non aveva potuto lasciare il lavoro e sua
madre aveva troppo da fare con gli altri tre scalmanati per sobbarcarsi
anche quell’incombenza. Recuperare cinque ore tra lavoro e pausa
pranzo non sarebbe stato uno scherzo, ma per il suo piccolo eroe
l’avrebbe fatto. Ci sarebbe riuscito, specie dopo aver visto Andy
affrontare la consueta trafila di aghi, strumenti e domande tenendolo
serenamente per mano, quasi a volerlo rassicurare. Non si era mai
sentito sciocco di fronte a quel gesto, solo tremendamente orgoglioso:
lui, un padre, un adulto sano rincuorato dal figlio, un bambino vittima
del Morbo di Keelinger. Una malattia dal nome altisonante quanto
nefasto, che aveva spinto Andrew a paragonarsi al suo campione del
cuore:
«Io sono come Tyren Gunner, papà: parto male sulla griglia, ma poi dopo vinco sempre».
L’aveva
ancora davanti mentre glielo ripeteva inspirando lentamente dalla
cannula dell’ossigeno, quando mezz’ora prima l’aveva
deposto con delicatezza nel suo letto.
Da sopra la sua
testa arrivavano ovattate voci maschili. Ogni tanto anche il tonfo di
un piede che ricadeva sul pavimento. Era lo scotto da pagare avendo lo
spogliatoio esattamente sotto gli uffici. In genere i ragazzi si
divertivano a protestare a suon di urlacci e battendo scope sul
soffitto, ma quando Hito spiegò il motivo del silenzio di Sandy,
rimase senza parole.
«Estromessa?» esclamò incredulo, mollando le bretelle della salopette che cadde pesante alle sue caviglie.
«A quanto
pare questa volta c’è riuscito sul serio»
annuì, infilando con cura il lungo camice che indossava durante
le sessioni di verniciatura.
«Dev’essere ancora incazzato come un bisonte se l’ha tagliata fuori» osservò Patch preoccupato.
Se Clay non si
calmava c’era il rischio che ricominciasse a prendersela con loro
come aveva fatto la settimana precedente e nessuno voleva ripetere
l’esperienza.
«Incazzato?
Un altro po’ e la mangiava viva. Ozone aveva quasi pensato di
intervenire e lui deve rifletterci un miliardo di volte prima di fare
una mossa, quindi immagina che casino c’era» rise Boy,
arrivando dalle docce avvolto in un paio di asciugamani zuppi.
«Che t’è successo, Jessie?»
L’apprendista,
a differenza di Hito e Iron, solitamente non faceva docce durante le
ore di lavoro ma Patch era ancora troppo scosso dalla visita in
ospedale per prodursi nelle consuete frecciatine.
«Un fusto
mi è esploso addosso» mugugnò, frizionando con
energia la testa. «Non sono neanche riuscito a mangiare per
lavarmi via quella robaccia, porca puttana. Sto morendo di fame».
Sulle sue
braccia si scorgevano strie pallide che, unite alle escoriazioni, ai
lividi e ai vari piercing, andavano a formare una strana tavolozza di
colori. Era stato fortunato a non aver ingerito o inalato la vernice,
Hito gliel’aveva ripetuto allo sfinimento mentre l’affogava
nella trementina.
La prossima volta giuro che me ne sbatto i coglioni e plasmo quella ferraglia come dico io!
rimuginò, convinto che l’imposizione di Ozone circa
evitare l’impiego delle sue capacità alla presenza di
altri cominciasse a diventare un impedimento più che un aiuto.
Se avesse potuto fare di testa sua, avrebbe saputo in anticipo che il
bidone era in pressione e l’avrebbe sistemato senza danni. Invece
Ozone si era fatto sentire, imponendogli di atteggiarsi a persona
normale.
«Si deve
essere formato un vuoto d’aria durante la preparazione della
tanica in ditta. E quando ho mandato Boy ad aprirla per preparare il
colore, ha rifatto l’imbiancatura del Sancta Sanctorum»
spiegò il verniciatore, portandosi alle labbra una matita.
Il divieto di fumo si stava facendo insostenibile.
«Comunque Maria ti ha fatto quello» aggiunse indicando un cartoccio e il ragazzo vi si buttò senza ritegno.
«E adesso che colore è?» domandò Patch.
«Bianca.
Era una base neutra per fortuna. Grazie a questo pasticcio della
Finn-Pastrel, non spederemo un méit per gli imbianchini»
considerò astutamente Hito.
«Ehi,
guarda che l’anno scorso e quello prima l’ho pitturata io
quella stanza! Da solo! È una rottura arrivare dietro i tubi e
le pompe del colore: quelli non li posso staccare dal muro»
protestò a bocca piena Boy mentre si lasciava cadere sulla
panca, poco lontano da Patch.
«Appunto. Niente extra per le tasche del capo» chiarì.
«Sì,
sì, ho capito l’antifona» sospirò inacidito,
esaminando il piercing al capezzolo destro, augurandosi che la vernice
non fosse penetrata all’interno: l’aveva fatto da poco e
l’idea di un’infezione non l’allettava.
Doveva
ammettere di concordare sul lasciare in pace il portafogli e i nervi di
Clay che, per quanto solidi, avevano dei limiti fisici.
«E Sandy? Come l’ha presa?» riprese Patch, tornando al discorso iniziale.
«Ha
urlato un po’, ha cercato di insistere che non fosse corretto
trattarla così, ha pestato i piedi…»
«Come
sempre» l’interruppe Boy da sotto l’asciugamano,
controllando l’assenza di rimasugli di vernice sotto le unghie e
ingozzandosi di agnello al forno allo stesso tempo.
«E poi se
n’è andata, trascinandosi dietro Charlotte con la scusa
che le servisse una mano per i documenti della banca» concluse
l’artista.
Patch riuscì finalmente a indossare la divisa, agganciando le fibbie con uno sbuffo dispiaciuto.
«Poveraccia, non la invidio. Quando Sandy è arrabbiata guida come una pazza».
Il ghigno sarcastico di Hito lo spinse a correggersi all’istante.
«Sì,
beh… non che da tranquilla sia meglio» bofonchiò
ricordando il giorno in cui Alexandra aveva “spolverato”
con la sua Noal la fiancata di un mezzo della Guardia Coloniale,
rimediando una sonora multa di venticinque trias.
Venticinque trias. Quello che ho perso stamattina,
si rammaricò Patch, pensando ai due flaconi di Pneumosilirin che
avrebbe potuto acquistare con quella somma. Venti giorni di costosi
farmaci venuti meno. Doveva rimboccarsi le maniche all’istante e
recuperare fino all’ultimo méit.
«Incredibile
cosa mi sono perso! Clay che taglia fuori Sandy da un contratto con
Avelan… Si avvicina l’Apocalisse» tentò di
scherzare.
Non era mai
successo, da che quei due erano proprietari dell’officina, che a
uno di loro fosse impedito di prendere parte a una contrattazione. Era
un evento contro natura.
«Che ti prende?» domandò l’artista avvicinandosi.
Le lacrime
avevano cominciato a scendere senza controllo sul volto di Patch e il
naso gli colava in maniera infantile fin sulle labbra. Patch non era
uno dal pianto facile e anche Boy scivolò sulla panca,
accostandosi preoccupato. Si tamponò con uno dei luridi stracci
che pendevano dalle tasche della divisa, rendendo la propria faccia un
insieme di chiazze umide e grigiastre.
«Va…
va tutto bene. Va tutto bene» li rassicurò, tirando su col
naso. «Pensavo solo che… se stanno succedendo queste cose,
allora mio figlio ha molte più possibilità di guarire di
quante dicano i medici» dichiarò tra singhiozzi e sorrisi
spezzati.
Hito gli mise una mano sulla spalla, annuendo comprensivo.
«Un’interessante
considerazione. Ma se vuoi stare sul sicuro, aggiungici questo» e
strappò via l’asciugamano dalla testa di Boy.
Al posto del
ciuffo informe che pendeva sulla faccia punteggiata di metallo, ora
c’era un’ispida distesa di cortissimi capelli castani, che
metteva in risalto gli aloni giallastri delle ecchimosi in via di
guarigione lungo i lineamenti spigolosi. L’incidente con la
vernice aveva costretto l’apprendista a correre ai ripari,
facendo contento il maestro che da mesi lo pregava di darsi un aspetto
più ordinato.
«Adesso
manca solo Scorch astemio e Charlotte che la da a Odrin e Andy
guarirà!» rise Patch per esorcizzare il timore che quella
speranza non si avverasse.
***
«Preferisci
mi fermi qui? Se vuoi lasciar perdere, capirò» propose
Avelan, consapevole d’essersi addentrato in un terreno insidioso.
«I tuoi
partner commerciali non m’interessano. Sei qui per parlare di un
lavoro che vuoi offrirci. Punto e basta. È questo che conta. Vai
avanti» latrò Clayton.
«D’accordo»
acconsentì. «Come dicevo, quella sera, dopo che ve ne
siete andati, ho avuto modo di parlare con lui di varie questioni. Ti
sorprenderebbe scoprire la mole di proposte che si agita in quella
testa. E dire che c’è chi lo reputa interessato solo alla
moda e alla pubblicità…»
Una vigorosa
pedata nello schienale lo richiamò all’ordine. Se a Clay
non andava giù il sentir parlare di quello che considerava il
suo più acerrimo nemico, meno ancora andava a Scorch di sorbirsi
tiritere senza capo né coda. Piuttosto preferiva gustarsi il
whiskey in silenzio.
«Sì,
sì, perdonatemi. Divago sempre. Dunque, parlando con lui e
alcuni finanziatori di mercati esteri e di nuovi campi
d’investimento, abbiamo finito col sollevare la necessità
di reperire dati e informazioni in tempi sempre più brevi,
fulminei. Qualcuno ha azzardato il paragone con la velocità
delle airship da gara. Di lì è stato un attimo passare ai
ricordi di gioventù, delle domeniche trascorse accanto alle
radio o fuori dai circuiti ascoltando il rombo dei bolidi in gara,
immaginando di pilotarne uno o di avere una scuderia di campioni
che…»
«Avelan!» sbraitarono in coro i due tecnici, spazientiti dal suo dilungarsi.
«Ci sto
arrivando, calmatevi! Tutti quanti. Anche voi ragazzi, su. Hanno
ragione, li sto annoiando» disse bonario alle guardie del corpo,
pronte a ridurre al silenzio gli altri con le maniere forti.
«Prima della fine dei tempi, porca troia!» rampognò Scorch, tenendo d’occhio i pugni di Donat.
«O della
sua bottiglia, o ne pretenderò una anch’io»
sbuffò Clay, passandosi una mano sulla faccia.
Stava facendo
una fatica immane nel trattenersi dall’imboccare la porta e
andarsene. Associare il nome di Goundoulakis a quello che avrebbe
potuto essere il lavoro più importante della sua vita, gli stava
procurando un travaso di bile senza precedenti.
«Insomma,
dal ricordo di fanciullesche fantasie siamo passati alle corse di oggi,
facendo paragoni tra i grandi campioni e lì, Aris ha fatto
notare la mancanza di uno spazio dove gli appassionati potessero
rievocare quei momenti grandiosi e dove le nuove generazioni facessero
la conoscenza dei miti del passato. All’inizio mi sembrava solo
una considerazione senza peso, una di quelle asserzioni che Aris infila
coreograficamente nei suoi discorsi, ma sulla via del ritorno,
parlandone con Charlotte, mi sono reso conto che invece si trattava di
un’idea brillante e dovevo farla mia immediatamente, prima che ci
pensasse il nostro caro… anfitrione. Creare un museo delle
corse, corredato di sale espositive, modelli per le simulazioni,
diorami a grandezza naturale dei sorpassi più celebri, debiti
spazi di ristoro e vendita souvenir, i quali andrebbero riforniti di
materiale pensato a puntino, dalle pubblicazioni
all’oggettistica… per non parlare delle più celebri
aeromobili messe in mostra. Farei muovere un indotto considerevole. E
Charlotte si è premurata di rammentarmi più volte che
gran parte di quel movimento sarebbe derivato dall’eccellente
qualità delle vostre realizzazioni» puntualizzò con
un sorriso talmente grande e sincero che la barba gli toccò le
orecchie.
«Quindi,
Charlotte sapeva tutto» borbottò incupito Clay, guardando
minaccioso il tramezzo che divideva il suo ufficio da quello della
segretaria, augurandosi che stesse ascoltando.
Perché
le donne che aveva attorno trovavano sempre il modo di fregarlo? Si
sentiva tradito: all’improvviso aveva scoperto di essere
l’ultima ruota del carro, l’imbecille che avrebbe dovuto
sobbarcarsi la parte rognosa del lavoro, e l’esaltazione si era
ridotta al lumicino.
«Non
prendertela con lei. Le ho chiesto io di tacere finché non fossi
stato certo della fattibilità dell’operazione. Far
circolare la voce prima ancora d’aver svolto le opportune
verifiche economiche e sulla reperibilità dei mezzi era un
azzardo che non potevo permettermi. Per non parlare di eventuali
raggiri in cui sarei potuto incappare se la cosa fosse trapelata anzi
tempo. Purtroppo le orecchie indiscrete sono ovunque e basta una sola
parola a mandare a monte un investimento o a renderlo una calamita per
ruffiani e inopportuni millantatori. E tu sai quanto poco li
tolleri» aggiunse, improvvisamente torvo. «Perciò,
quando ho ricevuto le debite rassicurazioni, ho deciso di parlartene in
prima persona perché temevo avresti mal giudicato Charlotte, se
si fosse accollata l’onere di fare da tramite. Ed io metto sempre
questa faccia nei progetti, non un’altra» sottolineò
indicandosi con entrambi gli indici.
Tuttavia, il
capofficina sembrava di ben altro avviso: il suo respiro si era fatto
pesante e ricordava il brontolio di una turbina che entrava a regime.
«Cazzo,
Clay, piantala! Avelan ha fatto bene a dirle di stare zitta. Ti si
legge in faccia che sei incazzato nero» intervenne Scorch,
decidendo finalmente di sedere composto e parlando come fosse sobrio.
«Se Charlotte avesse avuto anche solo il sentore che non si
trattava di un buon affare, avrebbe trovato il modo di metterci
sull’avviso senza spifferare tutto. È una in gamba e tiene
a noi».
Ostap e Clay si scambiarono un’occhiata eloquente, prima di voltarsi entrambi a guardarlo.
«Niklas,
mi creda, non ha bisogno di difendere la nostra amica, anche se
apprezzo il rispettoso attaccamento che dimostra nei suoi confronti del
suo operato» ridacchiò lisciando la barba.
«Anche se
sappiamo che vorresti stare più attaccato a lei che al suo
operato» insinuò Lomann, ritrovando un briciolo di buon
umore.
Scorch
tornò ad allungarsi dando una memorabile testata sullo spigolo
della libreria alla sua sinistra, masticando imprecazioni. Durante
l’uscita all’“Archituono” di due sere prima era
stato messo al corrente della pubblica rivelazione fatta da PigTail,
cosa che gli era valsa valanghe di sberleffi dai ragazzi, dato che il
caro cugino si era guardato bene dal riferirglielo in separata sede.
«Pig, sei
un figlio di puttana» rimbrottò contro l’imboccatura
della bottiglia prima dell’ennesima sorsata. «Te la faccio
pagare».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** L.C. - Cap. 18 ***
L.C. - Cap. 18
18
La Almond 289-bis, trionfatrice di due Mondiali con Clifford
“Cliff-Hard” Ferguson alle cloche, riposava al centro
dell’officina. Al suo fianco, la Tray-Z di Curtis
“Shooter” Spengles, che gli successe sul podio, fluttuava
appesa al carro ponte principale. Entrambe avevano livree mangiate
dalla ruggine e da depositi di sporcizia, porzioni di alettoni e
diruttori svergolati dalle sollecitazioni sostenute nelle gare e
fiancate ammaccate da sassi e piccoli urti.
Erano arrivate ad una settimana esatta dalla sigla del contratto e non
erano sole: mentre venivano scaricate, una voluminosa cassa era stata
depositata sul tavolo della mensa. Un regalo d’incoraggiamento da
parte di Avelan, che al solito non aveva avuto remore nello spendere un
patrimonio per sottolineare il proprio entusiasmo. Dentro, un
campionario di prelibatezze russe: malossol, baranki1, oladi2, sgushenka3, pelmeni4, prianik5, kalač6, cren7
ed il famoso Pryanogo, un cioccolato speziato e piccante prodotto
unicamente su una sperduta isoletta del Mar della Siberia Orientale; il
tutto accompagnato da abbondante vodka, kvars8 e mors9.
Approfittando del nuovo turno elettorale che aveva fatto chiudere in
anticipo i battenti delle scuole, Clay era andato a prendere i figli,
così che potessero dividere con lui quel regalo. La prospettiva
di trascorrere il secondo fine settimana di fila con loro gli aveva
disteso i nervi e sbloccato l’appetito, spingendo Junior ad
imitarlo.
«Papà, mi sento i pesciolini nella pancia» frignò, premendo le mani sullo stomaco.
La testa di Clay emerse dallo sportello laterale dell’Almond,
arrossata e grondante sudore, ma prima che potesse dire qualcosa
intervenne Bonnie, seduta su uno sgabello a debita distanza.
«Il caviale non ha pesciolini dentro, Junior! Sono solo…
uova!» esclamò stizzita, dondolando i piedi infilati in un
paio di costosissimi Heather Jane. «Piccole, viscide,
schifosissime uova».
Il capofficina concordò additandola: era orgoglioso che
condividesse il suo punto di vista, piuttosto di quello esageratamente
sofisticato della madre, che adorava quella robaccia.
«Ma i pesci non escono dalle uova?» insisté il
fratello, usando a mo’ di spada con una chiave inglese grande
quanto il suo braccio, che il padre gli sottrasse prima che riuscisse a
darsela in testa.
«Sì, ma…»
«Allora vedi che ce li ho nella pancia? E anche tu ce li hai! E
anche papà! E zio! Tutti!» strillò facendole la
linguaccia.
Lei gli tirò uno straccio, rendendosi conto dopo aver visto la
chiazza di unto lasciata da questo sull’airship, che le sue mani
non versavano in condizioni migliori.
«Papà, guarda cosa mi ha fatto fare Junior!» gridò inorridita, mostrandogli i palmi sporchi di olio.
«Io non ho fatto niente!» urlò l’accusato, cercando di calpestare gli stivaletti cui tanto teneva.
«Papà! Digli di smettere!» piagnucolò
sollevando i piedi più in alto che poteva, restando
pericolosamente in bilico sullo sgabello.
«Ma papà, è lei che rompe!»
Clay si riaffacciò, appoggiato al bordo dell’abitacolo per nascondere le risate tra le braccia.
«Buoni o vi spedisco a contare i punti delle cuciture da Odrin» li riprese.
I figli continuarono le invettive, accusandosi a vicenda di ogni cosa
passasse loro per la mente. Intorno, i meccanici spiavano il siparietto
senza smettere di lavorare. I piccoli Lomann erano più
divertenti del cinematografo, ma c’erano troppe cose da fare e il
tempo non poteva essere sprecato, neppure per una risata.
«Finitela, o giuro che vi faccio piangere per qualcosa!»
sbraitò Scorch, balzando fuori dall’abitacolo come un
pupazzo a molla.
I bambini cacciarono uno strillo che fece voltare all’istante
tutti i presenti. Poi scoppiarono a ridere, vedendo la faccia
dell’ingegnere striata di sporcizia non meglio identificata,
ragnatele e macchie d’inchiostro.
«Ehi, Grande Capo Bottiglia Vuota, datti una sistemata. E fa
sparire quella. Subito» disse Clay indicando la vodka accanto
agli appunti ed agli strumenti di misura.
Charlotte aveva espressamente vietato di far circolare alcolici in ogni
angolo dell’officina esterno alla mensa, soprattutto in presenza
dei bambini. Se avesse scoperto la bottiglia si sarebbe trasformata in
quella strega gelida e senza cuore che amava comminare esose sanzioni.
Scorch, di tutta risposta, tracannò una lunga sorsata, pulendosi nella manica della camicia.
«Acqua di fuoco donare me saggezza, Bisonte Che Raglia. Io grande
sciamano di Dea Velocità!» replicò, sottolineando
il tutto con un paio di sonori rutti.
«Sciamano, si da il caso che la tua dea non se ne faccia niente
di quattro numeri scarabocchiati col… con i piedi perché
la tua “acqua di fuoco” ti da la saggezza ma ti fa tremare
le mani» obbiettò.
«Grande Capo non accettare provocazione da stupido viso pallido
con testa nuda» ribatté irritato, inabissandosi
nell’angusto spazio dove prima era collocato il sedile del pilota.
«Zio, non sei troppo grande per fare il bambino?»
obbiettò Bonnie ridendo a crepapelle per la sua pessima
imitazione di un nativo.
Nascosto dalla paratia, Scorch riprese le misurazioni, borbottando imprecazioni tra sé.
«Perché? Quanti anni hai?» chiese incuriosito
Junior, saltellando per tentare di scoprire cosa stesse facendo.
«Cinquanta fra un mese» rispose Clayton, girando intorno
all’Almond per assestare all’interessato una violenta pacca
sulla schiena che per poco non gli fece sbattere la testa contro uno
dei tralicci interni. «Da non credere. Mezzo secolo, il
giovanotto!»
A quelle parole, qualcosa lo colpì al gomito, strappandogli un gemito.
«Cosa vorresti dire?» chiese Scorch, agitandogli un ingombrante spessimetro davanti al naso.
«Cinquanta? Ma allora sei vecchio!» esclamò il bambino.
«Vecchio?» sbraitò inferocito. «Guarda che il
tuo caro papà, qui, ne ha quarantasette, non è proprio un
mocciosetto come voialtri! E io i capelli ce li ho ancora, lui
no!» aggiunse indicando le rispettive teste.
Junior alzò lo sguardo sul padre che torreggiava al suo fianco.
Dalla sua espressione era evidente che le cattiverie appena ascoltate
fossero andate a segno.
«Beh? Che vorresti dire?» lo stuzzicò, piegandosi sulle ginocchia fino a poterlo guardare dritto in faccia.
Il bambino si morse le labbra, incassando la testa fra le spalle mentre
cercava una risposta convincente e utile a non metterlo ancor
più nei guai di quanto fosse.
«Pensaci bene, perché potrei infilarti nella vaporiera e
lasciarti lì» minacciò, indicando l’enorme
blocco di ghisa che s’intravedeva nel vano posteriore.
In stallo totale, Junior cercò aiuto nella sorella,
supplicandola con uno sguardo da cucciolo indifeso identico a quello
che il genitore usava per strapparle un sorriso quando era triste.
«I papà non sono mai vecchi, Click-Clack. E neppure le
mamme. Sono solo grandi» spiegò saggiamente lei.
Clayton le rivolse un gran sorriso mentre Niklas, inginocchiato sul
pianale dell’Almond, fissava il vuoto nel collo della bottiglia.
***
Erano quasi le sei del pomeriggio, l’ora della chiusura, e a
Jessie restava solo di riordinare i banchi da lavoro. Poco prima aveva
sorpreso Junior tra le due airship mentre fingeva di essere un pilota
al Gran Premio nel bel mezzo di un sorpasso, e si era divertito a
fargli prendere un bello spavento raggiungendolo di soppiatto alle
spalle. Ripensò a quando lui faceva quei giochi e si
stupì di quanto quei tempi non fossero poi tanto distanti,
almeno sulla carta. Era una costatazione amara e piena di lividi, un
po’ come le due aeromobili.
«Posso sistemarle in un attimo» bisbigliò, cominciando a controllare le rastrelliere degli attrezzi.
Poco distante, Ozone sedeva sul suo trono sformato, pulendo con cura un raccordo a “T”.
Un leggero pizzicore solleticò l’orecchio sinistro di Boy.
«Diciamolo almeno a Clay» insisté, alzando appena il tono.
Si sentiva a disagio nel tacere la verità al capo, gli sembrava
di mentire. E, per certi versi, farsi passare per una persona qualunque
quando non lo era affatto era una bugia, anche se lo tutelava da
malelingue e accuse. Proprio come Ozone stava ripetendo in quel
momento, le dita infilate nell’innesto.
«Vecchio, giuro che non ti capisco» sospirò passando
una mano sulla nuca scoperta, cui ancora non riusciva ad abituarsi.
«Perché devo stare zitto? Posso fare più cose degli
altri e farle meglio! E quando serve una mano perché siamo
indietro mi girano i coglioni, perché potrei rimetterci in pari
e tu non me lo lasci fare!»
Ozone scrollò le spalle con tanta forza da far tintinnare le
fibbie della salopette e passò l’anulare lungo un
cacciavite. Boy tremò di rabbia e dolore. Nonostante i capogiri,
riuscì a sostenere il suo sguardo.
«Pericoloso? Per chi? Per me o per te?» sibilò.
La faccia del maestro si contorse sotto la barba in
un’espressione di greve disappunto mentre la mano si chiudeva
attorno all’asta metallica. Il ragazzo indietreggiò,
appoggiandosi al tavolo e strizzando gli occhi. Occorsero alcuni
secondi prima che riuscisse a raddrizzarsi. Gocce di sudore caddero a
terra dai piercing.
«Cazzo, Ozone, sei veramente uno stronzo certe volte» ansimò dirigendosi al Penitenziere.
Convertire le parolacce nell’importo da versare era diventato un
riflesso condizionato. Non provava da un pezzo ma era certo che ormai
fosse difficile sollevarlo, con tutto quello che lui e Choncho ci
avevano infilato. Lasciò cadere le monetine nel vaso e gli
sembrò di sentire il risolino soddisfatto di Charlotte sopra la
sua testa.
Brava la gallinella Vernet: ci hai inculati per bene, pensò tamburellando con le nocche sul muso smontato della Tray-Z tornando indietro.
«Giù le mani» ringhiò una voce.
S’immobilizzò, sentendo una voragine aprirsi sotto i
piedi, proprio come nel sogno. Si voltò in tempo per evitare che
un Heeler lo investisse.
«Senti, Pancake…» cominciò.
«Non parlarmi! Io per te non esisto!» berciò spintonandolo mentre lo superava con la sua andatura dondolante.
La testa di Choncho fece capolino da sotto la Tray-Z, dove stava
terminando di smontare il pianale. Rivolse uno sguardo stanco alla
larga schiena del collega e uno di commiserazione a Boy. Aveva sentito
tutto, era evidente, anche se non sembrava voler prendere le difese di
uno dei due.
«Abbiamo litigato» tentò di giustificarsi Boy,
mordendo la lingua al pensiero di dover raccontare una scusa
convincente a Wilmar per non metterlo a parte della verità.
«Ma dai?» sghignazzò questi, scivolando fuori e restando a guardarlo seduto sul pattino. «Senti, niño,
dammi retta: lascialo nel suo brodo per un po’. Quando si
sarà stufato di farsi girare il cazzo, verrà lui a
chiederti scusa. Fa sempre così, neanche Nuestra Señora de los Milagros lo smuove. Es un demonio de grasa10» disse facendosi il Segno della Croce diverse volte e baciando il piccolo Rosario che teneva in tasca.
«Io non… non credo succederà» rispose
l’altro, interessandosi ad una piccola chiazza di ruggine, ma
Choncho gli allungò un calcio nello stinco, obbligandolo a
guardarlo.
«Ehi, stonzetto, lavoro qui da più tempo di te. Lo so meglio di te cosa fa il Bidone quando è incazzato».
«Mangia?» provò a scherzare Boy, poco convinto.
L’uruguayano ruotò il pattino, così da dare le spalle a Pancake.
«Quello lo fa sempre» sbuffò incrociando le braccia
prima di cominciare la cronaca di ciò che non vedeva.
«Adesso ha quella cazzo di testa pelata nei cassetti del suo
carrello. Tira fuori una mazzetta da sei pollici, testa in gomma dura
rossa, elastico bianco da un lato. Sbatte il cassetto, il carrello se
ne va a spasso e lui esce dalla porta di servizio dove c’è
appiccicato il poster censurato di Sandy - farà per metterle una
mano sulla tetta ma poi cambia e prende la maniglia - e se tira dritto
come al solito, lo vedi che va verso quel rottame che c’è
in fondo al cortile, altrimenti va dove buttiamo i tubi di scarto.
Starà una mezz’ora a dare martellate e poi se ne
andrà all’“Archituono” a farsi due fette di
torta al caramello e burro di arachidi, mezza dozzina di bagel con
Pastrami di manzo-senape-uovo fritto-sottaceti-cipolle, una pila di
pancake con sciroppo d’acero e una birra rossa calda».
Boy rimase senza parole, vedendo realizzarsi buona parte di quanto
appena annunciato dal collega, incluso il dettaglio della porta di
servizio, dove l’immagine di Alexandra era stata resa più
casta da Clay con parecchie toppe di nastro isolante, che tuttavia non
nascondevano del tutto le sue grazie.
Choncho ridacchiò, buttando la chiave a bussola nella cassetta degli attrezzi e prendendone una a compasso.
«Sei ancora l’ultimo delle fila, chico» disse tornando sotto la Tray-Z.
***
Naohito si era mostrato ostile riguardo al contratto con Avelan.
Convincerlo che non vi fosse alcunché d’indegno o svilente
nel dare una semplice rinfrescata alle carrozzerie era stata
un’impresa titanica.
«Sarebbero delle tele magnifiche» rampognò,
accarezzando la superficie ruvida e polverosa di una delle lamine di
rivestimento della Almond.
«Per l’amor del cielo, smettila» sbadigliò
indolente Jack, infilando i ricci sotto al berretto. «Stai
diventando ripetitivo e le ripetizioni mi mettono più sonno del
solito».
Hito ebbe un sussulto sgomento.
«Non si può porre un freno all’arte. Tu dovresti
saperlo meglio di chiunque altro qui dentro, sei figlio di un
artista!» gli ricordò.
Si sentiva offeso, ferito nel suo estro creativo, eppure in cuor suo
era perfettamente consapevole di quanto sciocche fossero le sue
pretese. E prendersela con Jack aveva ancor meno senso.
L’astinenza forzata dal tabacco gli stava annebbiando il
cervello. Inspirò profondamente, concentrandosi sulla nota densa
e dolciastra della vernice che ancora permeava l’aria del Sancta
Sanctorum ad una settimana dall’incidente della tanica.
«Perdonami, Jack. Sto straparlando. È solo che trovo
questo lavoro… miserabile» chiarì, cominciando a
riordinare i barattoli dei pigmenti.
L’amico arricciò le labbra, dandogli ad intendere che non
se la fosse presa e proseguì la manutenzione dei sistemi di
spruzzo.
«Vai a fumarti un pacchetto intero in cortile, Hito. Vedrai tutto
sotto un’altra luce! E lì Charlotte non può
sgridarti» suggerì allegro Patch, affacciandosi.
A dispetto della fatica, sfoggiava un sorriso che andava da un orecchio
all’altro: la notizia del superlavoro l’aveva riempito di
gioia oltre misura, tanto che da una settimana a quella parte non
c’era stato verso di farlo arrabbiare o di fermarlo.
«Fosse quello il problema» sospirò affranto,
appendendosi allo scaffale. «Tamako è rimasta colpita
dalla mia obbedienza qui da pretendere l’estensione del veto al
mondo intero. Sono quasi due settimane che non faccio un tiro»
ammise con un filo di voce.
Jack lo fissò a bocca aperta e non vide Patch levare i pungi al
cielo. Il mondo stava davvero andando alla rovescia: presto Andrew
sarebbe guarito.
***
Aris osservava la città oltre la vetrata. I lunghi capelli
ondulati lo facevano somigliare alla Gorgone coronata di serpi dorate,
mascherando lineamenti da cui non trasparivano emozioni. Del bel
completo scuro indossato al pomeriggio aveva tenuto solo i pantaloni.
Giacca, panciotto, cravatta, scarpe e calze erano stati accuratamente
disposti su un candido divano. I polsini sbottonati della camicia
sfioravano le mani raggrinzite, talmente fuori posto nella sua figura
da far pensare che appartenessero a qualcun altro, allo stesso modo dei
piedi scalzi e scheletriti che poggiavano come radici di un vecchio
albero nodoso sul pavimento di immacolato Statuario11.
Erano sì e no una decina i grattacieli che svettavano sullo
skyline di Port Serafine e lui era l’orgoglioso proprietario di
uno dei più prestigiosi, l’“Ultramarine Dove”:
trentatré piani di sobria eleganza in travertino, ferro e vetro,
sormontato da una liscia copertura color cobalto sulla quale era
effigiata una colomba in volo.
Pochi isolati a ovest sorgevano l’“High-Core”, l’“Everton” e oltre ancora il “Kreml'12”.
Quest’ultimo apparteneva ad Avelan ed era coronato da una selva
di cupole a bulbo dai colori sgargianti, punteggiate di luci. Aris lo
trovava un pacchiano sfoggio d’amor patrio, pur riconoscendogli
una discreta originalità.
Bussarono alla porta dello studio e un istante dopo, Paul Brown
oltrepassò la soglia senza attendere risposta. Girò
attorno all’immensa statua velata al centro della stanza, levando
il naso nella speranza di capire che diavolo rappresentasse. Ogni volta
che arrivava a convincersi si trattasse di una di quelle porcherie
astratte tanto di moda, intravedeva dettagli - un piede, il nodo di una
cinta, forse un profilo - che lo costringevano a rivedere la sua
posizione. Non l’aveva mai vista di giorno, perché Aris
rifiutava d’incontrarlo alla luce del sole, e comunque il drappo
l’avrebbe nascosta alla sua vista.
«Le tue maniere seguitano a rimanere penose» disse, vagamente annoiato.
«Spiacente, ma l’hai detto anche tu che sono un…
animale ottuso?» bofonchiò avvicinandosi, le mani
sprofondate nelle tasche. «Fino ad oggi ti sono andato bene
così, visto che il mio lavoro prevede che faccia la bestia da
soma. Cosa ci guadagneresti dal farmi cambiare?»
«Eviterei di provare ribrezzo ogni volta che ti so attorno a me. O nella mia ombra» replicò quieto.
Lo sguardo del tirapiedi corse fulmineo alla pozza scura che si
allungava a terra. Molti vociferavano che la passione di Aris per
alchimia e occultismo andasse ben oltre la semplice curiosità da
salotto. C’era chi asseriva fosse riuscito nell’impresa
d’infondere forze misteriose in quella specie di scettro che
usava come bastone da passeggio, alcuni azzardavano addirittura fosse
riuscito ad imprigionarvi uno spirito. Clench non ci aveva mai creduto,
visto che nelle occasioni peggiori Aris preferiva usare maniere molto
più pratiche che due formulette pronunciate in lingue astruse;
comunque riteneva saggio non stare troppo vicino al suo datore di
lavoro, se non altro per evitarne i pugni.
«Sei qui per recitare la parte della mobilia?» sibilò questi, quasi senza muovere le labbra.
L’altro frugò nelle tasche, recuperando alcuni foglietti spiegazzati.
«Avelan sta mettendo in piedi un progetto dalle parti di
VeloCity, vicino al Golden Ring. Una specie di scatolone da farcire con
stronzate da acculturato. Ha contattato un paio di architetti e sta
andando su e giù negli uffici del Municipio e al Governatorato
della Colonia per ottenere i permessi. Probabilmente cerca di
ingolosire i sostenitori di Hernández e Cross, in vista delle
votazioni di domenica. Chi sgancerà di più per mettere in
piedi la baracca attirerà i voti della gente e si
assicurerà il posto. Quel fottuto russo sa muoversi bene tra gli
squali della politica».
I due candidati al seggio di Governatore avevano sbaragliato la fiacca
concorrenza degli altri contendenti, finendo al ballottaggio,
giacché a dividerli erano solo un centinaio di voti. Troppo
pochi per definire una vittoria netta.
«Altro?»
Clench ficcò di nuovo gli appunti in tasca.
«Ha cominciato a contattare scuderie e collezionisti un po’
dappertutto. Anche qualche ex-pilota. Ho intercettato alcune chiamate
oltre confine, ma non sono arrivato a scoprire fino dove»
sbadigliò. «Non ha scucito mezza tangente, i pagamenti
sono stati tutti registrati a regola d’arte, legali e in chiaro.
Dev’essere davvero molto stupido o non sa che farsene di tutti
quei soldi, se gli piace pagare le tasse».
Aris parve non dare peso al dettaglio, assorto nella contemplazione
della città. Erano cose che sapeva da tempo. Erano altri i
particolari di cui aveva bisogno.
«Vedo che i miei suggerimenti sono caduti su un terreno
fertile» commentò infine, prendendo posto sul basamento
della statua, il velo che sembrava chiudersi attorno a lui. «Ha
arruolato la “Legendary Customs”?»
s’informò svogliato.
«Sì. Non ha ancora cominciato a tirar su due muri che la
settimana dopo la festa è andato a parlare di persona con Clay e
i suoi. Scommetto che c’era anche la pollastrella rizzacazzi di
Scorch» ghignò. «Ti dirò: a me non sembra
questo spettacolo, ma quando ce l’ho avuta per le mani, la sua
faccina terrorizzata mi ha fatto un certo effetto. Mi sa di quelle che
fanno le santarelle e poi son delle gran puttane».
Aris ignorò la smorfia eccitata del guardaspalle che passava
frenetico la mano sulla patta dei pantaloni, ritenendola
l’ennesima dimostrazione che il suo lavoro
d’indottrinamento possedesse ancora dei limiti. «Cosa vuoi
che faccia intanto?» insisté Clench.
Salendo dal basso delle strade, la luce ritagliava figure geometriche
sul volto spigoloso di Aris, nascondendo i suoi occhi come la maschera
di un giustiziere.
«Essere meno prevedibile» mormorò, sorridendo
appena. «La strategia dell’agire non è sempre la
più appropriata. Soprattutto in questo caso».
Lui dondolò sui talloni spazientito.
«E allora?»
Affatto disturbato dalla sua smania, Goundoulakis si appoggiò
con la spalla alla scultura, rivelando una linea netta che saliva in
diagonale verso destra. In quella posizione faceva venire in mente un
bambino nell’abbraccio della madre. Un bambino sfuggente e
pericoloso.
«Ti dirò io cosa fare, come e quando. E guai a te se non
ti atterrai per filo e per segno alla mie istruzioni. Mi sei costato
abbastanza al party».
La sua voce non tradiva il minimo risentimento, eppure Clech si sentì a disagio.
«Volevi un’entrata ad effetto e te l’ho data. Potevi
risparmiarti il pestaggio» brontolò portando una mano al
costato.
Mentre parlava, vide il piede sinistro di Aris scivolare sinuoso sul
pavimento lucido, la pelle rugosa e pallida inghiottita dalle sue
stesse ombre. Per un attimo Clench ebbe il terribile sospetto che fosse
lì lì per scoprire quanto ci fosse di vero riguardo la
faccenda dell’alchimia.
«Con alcuni animali funziona la carota, con altri il bastone.
Altri vanno semplicemente abbattuti e per farlo bisogna agire nel
momento più opportuno, se non si vuol rischiare di divenirne
vittime a propria volta» preseguì accennando un sorriso.
«Ciò nonostante, la vista di una creatura che combatte per
non soccombere pur di fronte a morte certa, rimane uno spettacolo
ammaliante. Non costringermi ad arrivare a tanto»
l’ammonì.
L’uomo fece segno d’aver afferrato l’antifona, deglutendo a vuoto.
«Per ora non fare nulla. Assolutamente nulla. Pazienta» e tornò ad accarezzare il velo.
1 Baranki: ciambelle di pane.
2 Oladi: piccole frittelle spesse preparate con il kefir (latte fermentato).
3 Sgushenka: latte condensato.
4 Pelmeni: ravioli ripieni di carne.
5 Prianik: biscotto speziato, simile al panpepato.
6 Kalač: pane tradizionale a forma di lucchetto.
7 Cren: composto ottenuto dal rafano grattugiato.
8 Kvas: bevanda a base di pane, simile alla birra.
9 Mors: distillato di mirtilli rossi.
10 Es un demone de grasa: in spagnolo “è un grasso demone”.
11 Statuario: varietà di marmo molto pregiata
perché priva di venature e impiegata fin dai Romani per la
realizzazione di sculture.
12 Kreml’: ovvero “Cremlino”, termine russo con cui si indica un palazzo fortificato, un castello.
Writer's Corner
Grazie ai lettori, ai recensori e a tutti coloro che seguono la storia: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95 e maddampini. E un benvenuto a Ernesto507 e LibertyStyle.
Aspetto come sempre i vostri pareri!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** L.C. - Cap. 19 ***
Cap. 19
19
Quella sarebbe
stata, con ogni probabilità, l’ultimo fine settimana di
autentica calma per la “Legendary Customs”. Il
venerdì sera, appena squillata la campana della fine giornata,
Clay aveva chiesto a tutti di trattenersi per qualche minuto. Aveva
annunciato per la settimana successiva l’arrivo di un nuovo
mezzo, qualcosa di grosso e molto delicato, che avrebbe richiesto
estrema cura da parte dell’intero staff. L’entusiasmo era
dilagato, nonostante alcuni avessero avuto da ridire: Iron e Choncho,
cui erano delegati i lavori più pesanti, si erano lamentati per
la previsione di stanchezza e dolori in aumento.
Persino
Charlotte, pur non prendendo parte al lato fisico del lavoro, aveva
notato il consistente incremento d’ore passate sui documenti
delle airship, scartabellando cataloghi di attrezzature e dispositivi
per la sicurezza della squadra, discutendo al telettrofono con nuovi fornitori o intenta a far quadrare le tabelle dell’officina.
In attesa del
caos generale, aveva accettato l’invito di Odrin per una
passeggiata nel Parco di Spiraline. Una semplice camminata lungo i
sentieri, parlando, ammirando il verde, magari mangiando il primo
gelato della stagione. Le aveva domandato un solo favore: attendere la
fine di una celebrazione comunitaria cui teneva molto, ma alla quale
lei non avrebbe potuto partecipare, in quanto non appartenente alla
comunità Andull.
«Tu sei Charlotte?» pigolò una voce, facendola sobbalzare sulla panchina.
Alle sue spalle
c’era un ragazzino Andull. All’apparenza doveva avere dieci
o undici anni, e vestiva come la maggior parte dei monelli di strada,
con una camiciola a maniche corte e pantaloni a vita alta tenuti su da
bretelle di cordini intrecciati. Con lo stesso materiale era realizzato
il cappello che minacciava di scivolare via dalla sua testa,
soprattutto a causa di LucyBelle che si agitava sulle spalle del nuovo
venuto. Inoltre non portava ancora i tatuaggi bianchi, segno del
passaggio all’età adulta, che cominciavano a essere
tracciati dal dodicesimo anno d’età.
«Io sono
Lisian» si presentò scavalcando la seduta con il lemure
aggrappato alla schiena e prendendo posto accanto a lei con un gran
sorriso.
Charlotte chiuse il libro e gli sorrise.
«Quindi sei… il tamme ghii?»
Il piccolo lemure. Era così che Odrin chiamava il fratello minore.
Lisian si
curvò in avanti, lasciando cadere le braccia lungo le gambe e
poggiando la fronte sulle ginocchia. Il berretto gli cadde dalla testa,
subito arraffato al volo da LucyBelle, che prese a giocarci.
«Uma te’ene ghii. Uma te dros» rimbrottò sbuffando.
Non sono piccolo. Sono un quasi-adulto,
aveva precisato. Doveva essere stufo di sentirsi indicare come il
membro più giovane dei fratelli Den’iràf.
«Scusa. Odrin ti chiama sempre così quando parla di te. Non volevo offenderti. O’drobe nìa» disse toccandogli due volte la spalla sinistra.
Invoco perdono.
Lisian la spiò di sotto in su e sembrò stupirsi della sua pronuncia, così vicina a quella corretta.
«Mio
fratello ha detto che venivi, però non ci credevo. È
così noioso!» esclamò tornando a sedere.
«Noioso?» domandò, non riuscendo a capire a cosa si riferisse.
«Il Radakesh» disse attorcigliando i capelli fra le dita. «Tutto questo tempo fermi a farsi tirare la testa…»
Charlotte si
voltò a guardare gli Andull raccolti in circolo ai piedi della
collina. Erano una settantina di persone tra giovani, adulti e anziani.
Questi ultimi stavano curvi sugli altri, ponendo loro le mani sul capo.
Per quanto ne sapeva, si trattava di una cerimonia con forti valenze
sociali e gerarchiche, ma non aveva idea di come si svolgesse di
preciso: nel libro di Sir Gerard Panion vi si alludeva solo brevemente.
Charlotte era quasi indignata dalla profusione di nulla racchiuso in un
libro di cinquecento pagine.
«Odrin
parla sempre di te, dice che vuoi fare la Andull e che ci riesci anche!
E stai imparando a parlare come noi. È innamorato di te, te
l’ha detto? Perché a me continua a ripeterlo, anche quando
dorme».
«Dici davvero?»
Il ragazzino annuì con decisione.
«Oh,
sì. Tutte le notti! Ti chiama, si agita tutto, sospira.
L’altra notte mi ha preso il piede… mi sa che pensava che
era la tua mano» sghignazzò, soprattutto per
l’espressione di divertito imbarazzo della donna, che non si
aspettava simili rivelazioni di punto in bianco. «Sono contento
che sei venuta, così so che ha ragione».
«Ragione?»
«Secondo lui ti avrei voluto bene appena ti vedevo. Era vero!»
Senza attendere
replica, Lisian le gettò le braccia al collo e la baciò
sulle labbra. Charlotte rimase impietrita, gli occhi sbarrati, incapace
d’avere una qualsiasi reazione. Riusciva a stento a riconoscere
gli squittii di LucyBelle, la cui coda era rimasta schiacciata fra
loro. Era un gesto carico d’affetto, forse persino troppo per un
ragazzino che incontrava per la prima volta. Per un attimo, fu assalita
dal timore che con quel bacio Lisian rivendicasse per sé il
ruolo di partner, in barba al fratello.
«Fuori dai piedi, tamme. Va a giocare con i tuoi amici».
La voce di Odrin riportò ogni cosa alla normalità, obbligando Lisian ad allentare l’abbraccio.
«Ga-né!» protestò.
«Vai» insisté.
Lisian
abbracciò di nuovo Charlotte prima di allontanarsi tra sorrisi,
saltelli e urletti gioiosi. Poco oltre c’era un altro Andull,
fermo ai margini del marciapiede. Lunghi capelli lisci e candidi
ricadevano sulla parte destra della faccia e arrivavano
all’altezza della cintola. Ogni ciocca era fermata alla base e
sulla punta da sferette d’osso e metallo, coperte da incisioni
rituali. L’occhio destro - l’unico visibile - la fissava
con pacata ostilità, sottolineata dai pugni serrati. Da quei
pochi dettagli Charlotte riconobbe Aggad, il fratello maggiore di
Odrin. Era un dulu, un guaritore, oltre che l’eberi dei Den’iraf, ovvero il rappresentante del capofamiglia presso un gruppo lontano.
«Ba’atme, sen jo» disse la donna, portando la mano destra alla fronte, chinandosi verso di lui e accompagnando il saluto con un sorriso.
Aggad
sollevò appena il mento, l’espressione sprezzante di chi
ritiene di non avere nulla a che spartire con i presenti.
«Idril nu» fu la laconica risposta che diede voltandosi.
Charlotte non
aveva mai udito prima quelle parole, e pur non conoscendone il
significato, comprese dal tono che dovesse trattarsi di una frase di
circostanza non troppo sentita. Le aveva risposto solo per cortesia.
«Scusa se
ti ho fatta aspettare. C’è voluto più del
previsto» disse Odrin sedendo al posto di Lisian.
La
squadrò con enorme soddisfazione: indossava l’abito color
caramello con le maniche di pizzo che aveva messo per la serata al
“Bull(es)” e che lui trovava le donasse molto. Il fatto che
avesse scelto d’indossarlo per quell’occasione gli dava la
misura di quanto tenesse al loro primo incontro fuori della
“Legendary”. Eppure, in quel momento non sembrava avere la
stessa timida allegria di quella sera.
«Va tutto bene?»
Imbarazzata, la donna prese un profondo respiro, giocherellando con un laccio della manica.
«Tuo fratello. Lisian… mi ha… baciata» balbettò imbarazzata.
«Gliel’ho detto io» ammise tranquillamente.
«Cosa?» esclamò sgranando gli occhi.
Odrin si
trattenne a fatica dal ridere della sua perplessità e per un
attimo lei fu tentata di alzarsi e andarsene. Poi, una mezza intuizione
scacciò il disappunto.
«Devo
dedurre che dietro quel gesto ci fosse un motivo che qui non è
scritto, o non ho ancora letto. Dico bene?» suppose indicando il
volume.
Lui sfogliò le pagine avanti e indietro un paio di volte con aria critica, prima di restituirglielo.
«Non mi
pare di vedere accenni. I baci dei bambini sono considerati dei potenti
talismani contro la malasorte, ma soprattutto come augurio
d’amore. È tradizione che una futura tahane
sia baciata dal membro più giovane della famiglia di cui
entrerà a far parte, perché con la sua innocenza le
auguri ogni bene, che il legame con il compagno sia saldo, vivo,
inscindibile e dia frutti» ammiccò.
L’accenno bastò a farle perdere la tranquillità appena ritrovata.
«Non ti
pare di… star correndo un po’ troppo? Insomma, è
da… poco tempo che abbiamo… cominciato a
conoscerci» mormorò grattando il capo a LucyBelle, che
intanto si era acciambellata sulle sue ginocchia.
«Per niente» dichiarò, sfiorando il pizzo della manica con la punta delle dita, facendola sorridere.
«I tuoi capelli… le trecce hanno un andamento diverso» osservò.
Le semplici
trecce che dall’attaccatura dei capelli scendevano in dritte
verso la schiena, ora avevano un andamento zigzagante e partivano dalla
linea mediana della testa per scendere trasversalmente
sull’orecchio destro e sulla nuca.
«Già»
ammise orgoglioso, tastandole con il palmo. «Ad alcune persone
non va giù che li abbia fatti intrecciare così. Aggad per
primo».
«Non è d’accordo neppure su questo?» chiese intristendosi.
Sapeva quanto
Aggad disapprovasse il rapporto che si stava creando tra loro. Riteneva
che un conto fosse mescolarsi ad altri popoli in veste di artigiani e
rappresentanti del popolo Andull, un altro fosse lasciarsi coinvolgere
a livello sentimentale. Era convinto che le unioni miste snaturassero
il senso dell’essere intermediari culturali, creando ibridi
malriusciti dove il compromesso finiva per cancellare le reciproche
identità.
«Quest’intreccio si chiama milala
e dichiara alla comunità che il mio cuore è impegnato. Un
paio di ragazze che mi stavano dietro si sono risentite e subito dopo
ne ho risentito io» sospirò indicandosi la schiena.
«Dovrò
farlo anch’io?» domandò, esibendo suo malgrado un
certo fastidio per l’accenno a possibili rivali.
«Prendermi
a pugni sulla schiena? No. È solo un modo per dichiarare quanto
ci sono rimaste male» scherzò.
«Intendevo
intrecciare i capelli come te, per far presente che… sono
io… l’altra parte del legame».
Odrin le fece
una carezza. Nel dire quelle parole era arrossita: ammettere la loro
relazione era un passo importante, complesso, molto delicato per lei
che non era un’Andull. E motivo di enorme orgoglio per lui che
non era un derigi.
«Le donne
non sono tenute ad acconciarsi i capelli per dichiarare il loro status.
È sufficiente la loro parola».
«Quindi, se lo domandassero, dovrei dire che sono la tua tahane?»
Gli Andull non
avevano termini equivalenti a “fidanzata” o
“moglie”, non essendo contemplato alcun rito paragonabile
al matrimonio; tahane
indicava una compagna di vita, qualcosa che andava oltre il concetto di
madre dei propri figli o membro stabile della coppia. Era qualcosa di
profondamente spirituale.
«Non ancora. Adesso sei la mia nud ghii, la mia piccola anima. Sarai la mia tahane quando dormiremo insieme. Tu, io e la mia famiglia. La nostra famiglia» disse prendendola per mano.
A quelle parole, Charlotte abbassò lo sguardo, a disagio. Lui posò una mano sulle sue, stringendole con dolcezza.
«Non pensare ad Aggad. Capirà che si sbaglia».
***
«Porca…» fu il commento che sfuggì a Iron mentre illuminava dal basso la pancia della Tray-Z.
Non se
l’era sentita di cominciare la mattinata imprecando. Non dopo che
Charlotte gli aveva dato l’indirizzo della sartoria dove aveva
fatto realizzare il vestito per il galà del City Garden. Aveva
trovato la linea di quell’abito davvero splendida, adatta a una
serata canora al “Bull(es)” e aveva deciso di farsene
preparare uno dalle stesse abili mani.
«Dillo,
tanto offro io» brontolò Choncho facendo saltellare le
monete sulla mano. «È un fottutissimo puttanaio di ruggine
e buchi, dove hanno pisciato i gatti per anni. Manca giusto la merda di
topo ma scommetto che nel retro ce n’è a palate. Per
fortuna abbiamo tempo prima che arrivi quell’altra o mi sarei
già buttato nella piegatrice».
«Non
sembrava messa così male vista da fuori» osservò
Iron, battendo con una chiave sull’intrico di condotte e tubi
incrostati d’ossido e lubrificante essiccato.
Si scostarono
con un balzo mentre schegge metalliche e fiocchi di lanugine piovvero
sul pavimento, seguiti da densi rivoli di polvere. Per lunghi attimi,
il carro ponte non sembrò più il posto adatto per
quell’airship che rischiava di sbriciolarsi da un momento
all’altro.
«Lo so,
cazzo. Ci ho messo tutto venerdì pomeriggio per aprirla e per
cosa? Per questo schifo! È tutto da buttare, non si salva
niente».
«Quello
cos’è?» chiese Patch puntando la lampada su uno
strano ammasso incastrato accanto ad una delle prese d’aria.
Era scuro, informe, filamentoso e perfettamente incastrato nella piega della carrozzeria.
«Madre de Dios! Non può essere immondizia!» esclamò Choncho schifato.
«A me
sembra un piccione. Quello che è avanzato, almeno» disse
Iron cercando di raggiungerlo con l’attrezzo, senza successo.
«Un piccione? E come ci è finito lì? L’ha mangiato la Tray?»
I tre si
scambiarono una lunga occhiata densa di sottintesi, prima di voltarsi a
guardare in direzione della cabina forno, dove Pancake e Hito stavano
spingendo l’Almond. Un cartoccio frusto e unto sporgeva dal
borsello degli attrezzi del primo, schiacciato dall’ingombrante
rotondità del fianco. Era evidente che fosse in gran parte vuoto
ed erano solo le nove e mezzo.
«Mi sa che questa è la macchina ideale per tuo fratello» rise Patch.
«Non dire
idiozie! Finché non si mette a dieta, non riuscirà mai a
infilare il suo culone su quel sedile striminzito!»
«E che
problema c’è?» rise Choncho sedendo a terra per il
troppo ridere. «Tanto quello che non mangia lui, lo mangia questo
catorcio!»
***
Ozone
controllò che Boy fosse ancora intento ad aiutare Jack e chiuse
la porta della mensa alle sue spalle. L’abitudine di bere una
tisana a metà mattina aveva reso il suo allontanamento
tutt’altro che sospetto, ma preferiva andare sul sicuro: non
voleva che il ragazzo fosse presente mentre compiva le sue ricerche.
Posò sul
tavolo alcuni pezzi di tubi estratti dalla Tray-Z, che lasciarono
piccoli aloni di polvere rossastra sul piano. Si trattava di porzioni
delle condotte interne, quelle poche in uno stato ancora accettabile
per poterne rilevare con sufficiente precisione diametri e spessore.
Posò il
palmo sul pezzo più grande, facendolo rotolare avanti e indietro
mentre infilava l’altra mano sotto il fazzoletto che portava al
collo. La superficie corrosa gli trasmise una vibrazione cupa e
lontana, l’eco gracchiante di un oggetto ormai privo di vita. Un
suono difficile da decifrare, una canzone cui mancavano troppe note.
Sbuffò abbattuto, ritraendo le mani. Aprì e chiuse le
dita diverse volte, e scosse la testa con amara rassegnazione.
«¿Qué estás haciendo, vieja turbina?» domandò la voce di Maria Pilar.
Il motorista
levò lo sguardo sulla cuoca, affacciatasi dal cucinino con un
grosso mestolo in mano. Il volto tondo e olivastro era lustro per il
vapore delle pentole, luminoso quanto lo sguardo bruno che gli
rivolgeva.
«Non è bello fare le cose di nascosto dal ragazzo» lo rimproverò, agitando l’arnese da cucina.
Ozone
lisciò la barba con molta calma, segno che stava meditando.
Maria non aveva idea di cosa stesse facendo -dubitava persino
l’avesse visto-, eppure aveva intuito subito che avesse taciuto a
Boy qualcosa d’importante legato al lavoro. Qualcosa che avrebbe
dovuto imparare. L’osservazione lo indispettì per un
istante, precipitandolo poi in un profondo senso di colpa.
«È un bravo chico,
ma deve imparare ad avere pazienza. Se però non lo aiuti,
perderai il suo rispetto e non imparerà più niente»
lo ammonì.
Parlava da
madre, non da insegnante, e di questo Ozone dovette rendergliene
merito. Per parte sua non aveva esperienza da genitore e alcune
sottigliezze di quel genere di rapporti gli erano precluse. Udirle da
chi ne aveva esperienza, era utile. Avrebbe voluto farglielo sapere.
Raggiunse Maria Pilar, e dopo essersi portato una mano al cuore,
s’inchinò profondamente.
***
Odiava i lunedì, inclusi quelli appena trascorsi e che avevano mostrato la loro faccia inconcludente al mondo.
Scorch
guardò le luci opache di Port Serafine spandere pallidi aloni
sui vetri sporchi dello studio, un braccio abbandonato a sfiorare il
pavimento. Da qualche tempo faticava a prendere sonno, sia da sobrio
sia da ubriaco. Passava le notti in uno stato di odioso dormiveglia,
identico in tutto e per tutto a quello seguito all’incidente con
il corriere. Stava sul letto con addosso un paio di mutande che non
cambiava da almeno cinque giorni e il sudore della scopata di un paio
d’ore prima a rendergli la pelle salata e attaccaticcia. Il giro
all’“Alhambra”, la casa di piacere che frequentava da
anni, non l’aveva aiutato a rilassarsi quanto sperava. E dire che
Neve era tra le più abili del mestiere: quella sera, mentre
assecondava le sue spinte, contorta in una posizione impossibile, aveva
avuto l’impressione che non stesse affatto simulando. Anche
quando l’aveva salutato, evitando come d’abitudine il suo
sguardo -cosa che ogni prostituta era tenuta a fare con i propri
clienti-, si era illuso di udire una sfumatura d’autentica
soddisfazione nella sua voce. Ma non dentro di sé.
Cosa direbbe Charlotte, se sapesse che la sostituisco con una di quelle? si chiese.
Una parte
minima, infinitesimale di lui dubitava che alla signorina importasse di
trovarsi al centro delle sue brame, ciò nonostante, preferiva
crogiolarsi nella sete di conquista, l’illusione che il freddo
distacco riservatogli fosse solo l’austera carrozzeria posta a
protezione di confortevoli interni.
Il suo sguardo
cadde su una bottiglia di vodka, che se ne stava sull’attenti di
fronte al letto ormai da un paio di giorni, il tappo rotolato
chissà dove. Sentì uno strano senso di malessere agitarsi
nello stomaco, qualcosa di molto diverso da un conato o dal bruciore di
una sorsata troppo alcolica.
Gli parve di sentire la voce di Bonnie: non sei troppo grande per fare il bambino?
Subito dopo vennero le parole di Pancake, giorni addietro, quando gli
aveva domandato se non fosse stufo di quella vita, e le minacce
più o meno velate giunte da Clay in tutti quegli anni e
nell’ultimo periodo. Le proteste di Junior perché
rifiutava di giocare con lui o di raccontargli le sue avventure. I
commenti sprezzanti di quella stronza di Sandy. I sogghigni alcolici di
PigTail. E l’orrore di Charlotte quando quel mattino
l’aveva scoperto a rovistare nei suoi cassetti, declamando
oscenità mentre cercava di scovare una sua foto. Sembrava che
tutti avessero da ridire sul suo conto, che nulla di ciò che
aveva fatto nel passato o nel presente andasse bene.
Sono sempre io quello sbagliato, quello che non fa le cose giuste, pensò rabbioso. Scorch
sei un idiota, Scorch piantala di fare il coglione, Scorch va al
diavolo, Scorch sei un bastardo. Scorch, Scorch, Scorch. Nessuno si
ricorda più chi sono io. Io non sono Scorch!
Un impulso
incontrollabile gli fece calciare la bottiglia, che andò in
frantumi sul pavimento. Balzò giù dal letto e si
avvicinò, inveendo contro i cocci quasi fossero i colpevoli di
quanto era accaduto.
Una fitta alle
ginocchia annunciò che aveva impattato con violenza sul
pavimento. Non ricordava di aver sentito le gambe cedere, né i
capogiri assalirlo. Un attimo prima era in piedi, camminando con
discreto equilibrio, e l’attimo dopo si ritrovava genuflesso di
fronte alla salma vitrea, senza alcuna spiegazione.
Le ombre intorno si erano fatte più pesanti, talmente dense da essere palpabili.
Guardò i
frammenti sparsi sul pavimento, faticando a respirare. Con dita
tremanti cercò di raccoglierli ma sfuggivano di continuo e si
conficcavano dolorosamente nella pelle. In breve polpastrelli e palmi
si coprirono di graffi e tagli che bruciavano in maniera insopportabile
per via dell’alcol. Ogni scheggia portava impressa una sua
miniatura distorta, inumidita da gocce di liquore e sangue. Era lui e
non lo era.
Scorch.
Almgren. Nikky. Tesoro. Piccolo. Niklas. Ogni immagine aveva un nome.
Ognuno dei nomi con cui era stato chiamato da quando era venuto al
mondo.
Io. Io sono… io? si chiese, ma persino la voce nella sua mente andava in pezzi.
Qualcosa
sembrò spegnersi e riaccendersi di colpo, come un flusso di
vapore che dopo aver girato a vuoto in un condotto secondario,
improvvisamente impattava contro le pale della turbina, facendola
roteare con una forza inaudita. L’emersione nella realtà
fu violenta, dolorosa oltre misura, al punto che Niklas sentì
l’universo intero ondeggiare e scuotersi. Anni, mesi, settimane,
giorni si confusero in guizzo improvviso.
Le schegge gli
caddero di mano tintinnando, subito coperte dal tonfo delle mani. Si
sentì come se gli avessero asportato qualcosa, quasi fosse un
motore dove il meccanico avesse eliminato un circuito inutile,
incrementando la potenza della spinta e i giri del rotore.
La stanza
improvvisamente parve vuota e fredda, dove riecheggiavano i silenzi
urlanti con cui aveva soffocato paure e rimorsi che aveva relegato in
un cassetto per evitare di doverle affrontare. Il velo che ricopriva
ogni cosa sembrava essere stato strappato via rivelando l’abisso,
il sepolcro del vero Niklas Almgren. La tomba di un uomo colmo di sogni
e speranze, pieno di voglia di vivere; un uomo minato in
profondità dalle proprie debolezze, le cui forze era state
insufficienti per la concretizzazione di ogni suo progetto.
«Che cosa sto facendo?» si chiese con un filo di voce, sedendo sui talloni.
Tutto
d’un tratto la solitudine di quel rifugio di ferro e vetro,
invaso da ricordi spezzati e indolenza, si era fatta opprimente. Non
sopportava più l’aria stantia che vi aleggiava e neppure
il sapore amaro delle delusioni che marcivano lì attorno.
«Cos’è
tutto questo?» gridò terrorizzato a quella Dea
Velocità che gli sussurrava frasi confuse da troppo tempo.
Il mondo si
avvolse in un sudario sottile e tremolante, e la bottiglia tornò
a fondersi in un’unica macchia scura sul parquet rigato
dall’incuria. La mente di Niklas rifiutò di pensare, anche
solo per un attimo, che quella nebbia fosse fatta di lacrime.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** L.C. - Cap. 20 ***
L.C. - Cap. 20
20
In alcuni
orari, le strade di La Roscas erano un fiume brulicante di mezzi di
carico, omnibus stipati di pendolari, bislacchi velocipedi, airship e
persone, rendendo le carreggiate dei blocchi compatti di lavoro e
umanità. I crocevia tra i capannoni e le basse palazzine di
mattoni erano un unico nodo di facce e divise sdrucite, costellato di
richiami.
Le sei ruote
della Mazia proiettavano ombre sotto le pance delle airship che le
scivolavano accanto. Al volante, Rie si muoveva con disinvoltura,
evitando pedoni e mezzi, ben attenta alla segnaletica, per nulla
intralciata dal kimono o dal voluminoso nodo dell’obi.
«State bene, padre?»
Naohito non si stupì di quella domanda, quanto del tono insolitamente teso.
«Sì, sto bene. Perché lo chiedi? Do forse un’altra impressione?»
«No,
ecco… il fatto è che sono un po’ in pensiero per
voi. Da quando mia madre vi ha proibito di fumare, ho notato che
v’innervosite per cose di poco conto e spesso tossite, e non si
tratta della tosse che avete dopo aver trascorso una giornata a
verniciare».
L’uomo
sorrise, colpito dalla disamina e incapace tuttavia di nascondere un
certo dispiacere. Non aveva ancora trovato adatte sostitute alle
sigarette: si stava rendendo conto di quanto quell’abitudine
avesse radici profonde nel suo fisico e la preoccupazione di Rie
andò a sommarsi alla sua.
«Tua
madre non chiede mai nulla per sé. Come potrei negarle
l’unica richiesta che ha scelto di avanzare?»
«Ma lo trovate difficile, non è così?»
«Il
giorno in cui la vita sarà facile, ci annoieremo tutti a
morte» considerò, glissando riguardo i propri timori.
«Il
professor Maine ci ha mostrato alcuni articoli di riviste mediche, dove
erano esposti i risultati di ricerche condotte sui fumatori. Tutti
piuttosto… tetri».
«Tetri? In che senso?»
«Pare che
molte malattie possano essere causate da questo vizio. Alcune
potenzialmente mortali» spiegò abbassando la leva dei
freni.
«Temi che possa accadermi qualcosa?» domandò mentre il veicolo rallentava.
I cancelli
della “Legendary Customs” erano inquadrati
dall’Heeler e da una grossa aeromobile agricola, che gravava sui
sostegni minacciando di spezzarli.
«No.
Sì» sospirò, senza distogliere l’attenzione
dalla strada. «Vi prego solo d’impegnarvi il più
possibile nel mantenere la parola data. So di parlare da egoista,
ma… ho un solo padre e voglio averlo accanto a me il più
a lungo possibile».
L’uomo
tacque la risposta, lasciandola trasparire dal sorriso grato che le
rivolse. Era orgoglioso e lusingato delle premure che gli riservava.
Molti genitori non potevano dire altrettanto.
«Vai, la strada è libera».
La Mazia superò lentamente l’incrocio, il motore monoturbina che scandiva il ritmo regolare dei giri.
Una chiazza
scura si parò di fronte al veicolo, obbligando Rie a inchiodare.
I freni stridettero cuti e gli ammortizzatori fecero sobbalzare gli
occupanti, sballottandoli furiosamente.
«Stupida oca! Chi ti ci ha messa lì? Volevi ammazzarmi?»
La ragazza
tacque sgranando gli occhi per un istante, sorpresa più
dall’esplosione acustica che dalle parole. La sagoma era
scomparsa; si sarebbe potuto dire che fosse stata inghiottita dalla
terra, se un borbottio non fosse arrivato dal basso, all’altezza
del paraurti.
«Delmar,
cambia tono per cortesia» intimò Hito scendendo dalla
Mazia e piantandosi di fronte a lui che, ancora curvo sul marciapiede,
cercava di ricomporre un puzzle di cibarie.
«Oh,
scusa paparino! Scusa se quella lì è un’incapace
che farebbe bene a starsene a pulire i cessi e basta!»
ringhiò al marciapiede.
La mascella di Hito si contrasse con uno spasmo involontario, allo stesso modo le sue dita.
«Non accetto che ti rivolga a mia figlia in questo modo. Domandale scusa» scandì pacato.
«Non ci
penso neanche. È lei che mi è venuta addosso! Guarda qui
che casino! Oh, i bocconcini allo zenzero! Erano due settimane che li
volevo mangiare e guarda in che stato sono!» piagnucolò
ripulendo alla buona una manciata di piccoli bignè.
Nei suoi palmi sembravano coriandoli dorati, immersi in ombre appiccicaticce.
«Sarai anche enorme, ma eri dietro a quell’Heeler. Rie come poteva vederti?» spiegò l’altro.
«Allora
è colpa dei vostri occhietti a mandorla? È questo che
stai dicendo? Che non ci vedete?» ghignò tirando con le
dita gli angoli delle palpebre in una maschera grottesca.
Nonostante l’indignazione crescente che sentiva, Hito rimase impassibile.
«Dopo la pioggia, la terra s’indurisce1,
ma a volte forma paludi da cui non sappiamo uscire. O forse non
vogliamo uscirne» declamò con quella calma serafica che
gli era valsa il ruolo di filosofo dell’officina.
Pancake si
raddrizzò a fatica, sbuffando come una locomotiva.
Rifiutò la sua mano, scansandola bruscamente e nascondendo la
faccia nel grosso sacchetto di carta, controllando di nuovo il
contenuto.
«Taci, tanto non m’interessa» borbottò.
Il verniciatore
conosceva bene quell’atteggiamento: era il modo di Pancake per
nascondere che non avesse compreso quanto gli era stato detto.
«Buon giorno, Principessa dell’Impero Celeste» salutò una voce che proveniva da dietro la Mazia.
Rie sorrise
chinando appena il capo, facendo tintinnare i bira-bira. Jessie
allungò il collo oltre il roll-bar, sfoggiando una smorfia seria
e composta.
«L’Impero
Celeste aveva la sua corte in Cina, non in Giappone. Lì
regnavano gli Shogun, circondati dai loro fedeli samurai»
replicò guardandolo di sottecchi.
«Ecco, lo sapevo… si vede che ho mollato la scuola troppo presto, eh?» rise appoggiandosi alla Mazia.
«Solo un po’» disse imitandolo.
«Che succede?» fece lui, indicando col capo i due davanti al cancello.
«Temo che
il signor Parker non sia di buon umore oggi. Ha appena detto delle cose
orribili e temo che mio padre non le manderà giù
facilmente, anche se non lo da a vedere» bisbigliò,
indicando il padre che fissava in silenzio Pancake.
Boy
aggrottò la fronte preoccupato. Erano giorni che il malumore del
collega dilagava e pur sapendo di non essere la causa del
peggioramento, si riteneva responsabile. Se fosse stato più
attento quel giorno nello spogliatoio, ora Pancake starebbe facendo lo
stupido, fingendosi ferito a morte e supplicando di essere sepolto con
i suoi spuntini.
«Vi ha offesi?»
«Solo me, ma non è la prima volta che succede» ammise tranquillamente.
«Quel
coso ti aveva già insultata?» esclamò incredulo,
anche se non più di tanto: ultimamente Pancake se la prendeva
persino con la sua ombra.
Tuttavia, tra
tenere il muso ai colleghi e cominciare a dare di matto con chiunque,
la seconda opzione era certamente la più odiosa.
«Non lui. Molti uomini disapprovano che una ragazza stia al volante. Non sono nuova a certe uscite».
«Vallo
adire a Mac Gregor: quello farebbe i salti di gioia per te. E visto che
oltre a essere brava a guidare sei pure carina… Non staresti
male tra le sue signorine, sai? Anzi, mi sa che le faresti sembrare
delle carampane» suggerì.
Non gli era
difficile immaginare Rie ai comandi della Plithren o della Fortion, con
le maniche del suo bel vestito che svolazzavano e i fiorellini
metallici che tintinnavano a ogni curva.
«Dicono siano delle donne irriguardose» obbiettò risentita.
Boy
ripensò alla fortuna di Choncho con l’angioletto biondo
del damerino e gli parve tutto, fuorché una persona priva di
rispetto per gli altri: a suo giudizio, per decidere di baciare Wilmar
bisognava essere dotate di un eccellente stomaco e di un immenso
spirito di sacrificio.
«Magari
hanno solo bisogno di una come te per capire come ci si comporta»
rise, ma un secondo più tardi l’ilarità era stata
sostituita da un gemito strozzato.
«Jessie? Tutto bene?»
«Io…
sì, sì. Ho solo un po’ di… di mal di
denti» mentì, scorgendo Ozone sulla porta
dell’officina.
Non gli aveva
mai fatto tanto male prima d’allora e pareva essersene accorto
anche lui, a giudicare dalla rapidità con cui le mani
scivolarono fuori delle tasche dopo aver mollato chissà che
razza di catalizzatore.
«È
meglio se vado o faccio tardi. Buona giornata, Rie. E non preoccuparti
per tuo padre: se tira fuori la scimitarra, lo fermo io» promise.
«Katana».
Il giovane la fissò interrogativamente.
«La spada dei samurai è la katana, non la scimitarra» spiegò, nascondendo un risolino dietro la mano.
Boy la
trovò davvero graziosa, una bambola di porcellana come quelle
che sua madre adorava e che quel bastardo di Benny aveva fatto a pezzi
in una delle sue sfuriate. Aveva provato a rimetterle insieme, ma la
ceramica non rispondeva, non c’erano tracce di metallo che
eseguissero i suoi comandi.
Pensa
se arrivo a casa con lei. “Mamma, questa è la mia
fidanzata!”. Divento il suo eroe, se non le prende un colpo, pensò tra sé, immaginando la scena.
«Non se ci metto mano io» ammiccò, storcendo subito dopo le labbra in una piega dolorosa.
Recepita l’antifona, salutò svelto Rie e raggiunse il maestro.
«Dovevi
proprio? Non stavo facendo niente di male» rimbrottò senza
fermarsi e agitando in aria il sacchetto delle focacce, deciso a non
fargliene avere nessuna fin quando non avesse ottenuto delle scuse.
Ozone lo
seguì negli spogliatoi quasi fosse uno di quei vecchi cani
fedeli, mesti e adoranti nei confronti di padroncini troppo esuberanti.
Sedette su una panca, ignorando l’invitante profumo della
colazione mentre l’osservava cambiarsi. Gli aloni delle ecchimosi
si sovrapponevano creando una tavolozza di sfumature mai annoverate
dalle mazzette colore.
Prese un
profondo respiro, tormentando le trecce della barba con una mano mentre
l’altra andava a massaggiare la gola con un stanco imbarazzo.
Il ragazzo si
fermò, fissando la propria mano sullo sportello
dell’armadietto. Nella sua testa, Ozone taceva. Una volta
l’avrebbe riempito d’insulti e strepiti prima che
pronunciasse una sola parola, se ne sarebbe andato sbattendo la porta e
minacciando di non rivolgergli più la parola; quel giorno
però avrebbe pagato perché avesse qualcosa da dire.
Sapeva bene che i suoi silenzi erano pesanti quanto le sue rampogne,
per cui prese le focacce da sopra l’armadietto e gliele porse,
fingendosi spazientito.
«Lasciamo
stare, ho capito. Capita anche ai migliori di sbagliare. Non volevi
andarci giù pesante. Ma un’altra volta stacci più
attento, vecchio. Cazzo, mi si sta staccando la faccia…»
***
«Per tutta la settimana?» domandò perplessa Sandy, arricciando una ciocca tra le dita.
La sua voce
echeggiò metallica all’interno del vano motore della Noal,
dove Clay stava trafficando a uno snodo allentato nel sistema di
raffreddamento.
«Forse
anche la prossima, non so. Dipende quando riesce a riprendersi»
rispose, senza smettere di serrare il manicotto. «È
davvero ridotto male. E prima che tu dica qualcosa, qualunque cosa: no.
Scorch non era ubriaco, né si è fatto trascinare in una
rissa o chissà che. Sta solo male come tutte le persone
normali».
Il giorno prima
Scorch se n’era andato verso le undici, accusando capogiri e
nausee che avevano reso la sua faccia una macchia verdastra e il bagno
un disastro. Clayton l’aveva raggiunto dopo il lavoro per
sincerarsi delle sue condizioni e l’aveva trovato raggomitolato
accanto alla vetrata della sua stanza. Aveva ripulito uno dei pannelli
di vetro e vi si era appoggiato con la fronte, per fissare i giardini
con aria da penitente. Febbre e mal di stomaco persistevano, sebbene in
forma lieve, e il medico aveva prescritto riposo, oltre a ingenti dosi
di tisane e liquidi.
Uno come lui, aveva detto, avvezzo
ad una forma di alcolismo altalenante ma pur sempre grave, può
essere soggetto a questo tipo di crolli psicologici. Quando si
convincerà di star bene, ricomincerà. Non illudetevi. Per
ora va idratato e tenuto sotto stretta sorveglianza.
Clayton aveva
capito che non c’era affatto bisogno di quest’ultima
incombenza quando Scorch gli aveva indicato un grosso scatolone,
implorando lo portasse via. Dentro c’erano le sue ultime scorte.
Tutte.
Non mi servono. Non le voglio, aveva mormorato con l’aria di chi sentiva la coscienza sgravata di un peso immane.
«Normale
è una parola che non si addice a tuo cugino»
osservò Sandy, riallineando gli attrezzi sul carrello.
«Come onesta non si addice a te» le rinfacciò.
Si pentì
all’istante dell’affermazione: la serratubi gli
scappò dalla mano, scorticandogli il palmo, quasi ad ammonirlo
per la cattiveria gratuita.
Quando si voltò in cerca di qualcosa per alleviare il bruciore, incontrò lo sguardo accusatorio della donna.
«Ti ho
chiesto scusa un milione di volte per quello che ho fatto e mi sono
data da fare per la società a prescindere da quel che è
successo quella sera. Non merito anche questo» sibilò.
«Tu dici?» domandò cercando di convincersi di avere ragione, fallendo nell’intento.
Sandy
incrociò lentamente le braccia, piantata su quei tacchi
vertiginosi che sembravano in grado di sollevarla al di sopra
d’ogni cosa, persino della colpa. Dal party si erano parlati solo
per lo stretto indispensabile, evitando di rivangare l’accaduto.
A malapena si erano guardati in faccia. Ora che le priorità
erano cambiate, Clay si sentiva meno incline a litigare con lei. E
guardandola in quell’abito verde giada insolitamente accollato ma
dalla gonna cortissima come suo solito, valutò la
possibilità d’aver esagerato. Per un attimo
immaginò di chiederle scusa, di vederla sorridere e
abbracciarlo, miagolando a sua volta una richiesta di perdono, come
faceva quand’erano fidanzati.
Poi, i rumori
della laminatrice messa in moto da Patch lo riportarono alla
realtà e alla poca voglia che aveva di passare per stupido
ancora una volta. Tuttavia, almeno una cosa doveva concedergliela.
«Sto
sragionando. Abbiamo montagne di cose da fare: il lavoro per Avelan,
quello che era già in programma da prima, gli ordini di
materiale da preparare, le forniture da sistemare, i soliti
intoppi… E ora Scorch che si assenta e non so quando lo
riavremo…» sbuffò gettando la chiave nella cassetta
porta attrezzi. «Sto impazzendo per non impazzire. Erano anni che
non ci capitava un tale macello».
Girò lo
sguardo attorno, imitato da Sandy: non c’era un solo angolo
dell’officina in cui non fervesse una qualche attività.
Pulizie, verifiche, stoccaggi, smerigliature, sostituzioni, ritocchi
alle verniciature.
«I bambini stanno bene?» chiese di punto in bianco.
Sandy si accigliò, perplessa.
«Sono stati con te tutto il week-end» gli rammentò.
«Voglio sapere se stanno bene oggi».
La
puntualizzazione chiarì ogni cosa: Clay cercava un punto fermo
per non farsi trascinare a fondo dal lavoro e pensare ai figli era la
sola cosa adatta allo scopo.
«Sì,
stanno bene. Litigano, mangiano, dormono, studiano, fanno disperare e
poi fanno i ruffiani...» confermò, appoggiandosi con la
schiena alla fiancata della Noal, che ondeggiò appena. «E
visto che le cose stanno così, spero sarai contento di sapere
che Ostap non è onnipotente, ma è un banalissimo essere
umano».
Lui la squadrò senza capire, impiastricciandosi la guancia di unto mentre si grattava.
«L’airship
è ferma in dogana dalla scorsa settimana ed è destinata a
restarci ancora per una decina di giorni. A quanto pare non ha pagato
abbastanza le guardie doganali per farle passare i controlli»
malignò ridendo e passandogli una pezza sulla faccia.
«Scherzi?» domandò, confuso dal gesto.
Sandy se ne
accorse e gli diede uno schiaffetto per ribadire come il dietro il suo
gesto non ci fosse altro che il desiderio di un po’ di pulizia.
«L’ho
incontrato mentre ero in centro per delle commissioni, prima che
quest’affare mi piantasse in asso» sbuffò dando un
calcetto alla fiancata dell’airship. «Era molto abbattuto e
non sapeva come scusarsi per… come ha detto? Aspetta… oh,
sì! Era “addolorato per questa deplorevole mancanza nei
riguardi dei nostri accordi, che non dipende dalla mia volontà
ma da una burocrazia rugginosa e oltremodo pedante, che offende il
comune buon senso con le sue lungaggini”».
Clayton sgranò gli occhi, stupito.
«Come hai fatto a ricordartelo tutto?»
«Ammetterai che Ostap ha una bella voce. È piacevole ascoltarlo, quando non parla troppo a lungo».
***
Charlotte non credette alle proprie orecchie.
«Che cosa?»
«Mi hai
sentito: sei una bugiarda!» ruggì Pancake, sbattendo
più volte le mani enormi tra le carte sulla scrivania.
Alcune
cartellette franarono a terra, spargendo fogli ovunque. Charlotte si
alzò, rigida e pallida, sostenendo il suo sguardo senza
apparente timore.
«Credi di
farmi paura, signorina? Sono più grosso di te» le fece
notare, mettendo ben in mostra l’ingombrante pinguedine del
ventre.
Gli occhi verdi
della segretaria si riempirono di un astio gelido, talmente sincero ed
evidente che sarebbe stato impossibile prenderlo per una banale
maschera di reazione all’attacco: Charlotte era furiosa.
«È inutile che mi guardi così! Io ho ragione e tu devi stare zitta e pagare, chiaro?»
La donna lo superò in silenzio e aprì la porta, indicandogliela.
«Esca. Subito».
«Tu devi darmi i miei soldi! Adesso!» sbraitò con tanta forza da far vibrare le guance.
«Non devo
darle proprio nulla, Delmar. I tabulati che ha compilato lei stesso e i
timbri sul suo cartellino parlano chiaro: non c’è nessun
ammanco nella busta paga. Ha ricevuto quanto stabilito dal Contratto
delle Colonie Atlantiche per la Metalmeccanica, in base alle ore
d’attività effettivamente svolte. Non sono state indicate
operazioni speciali o mansioni soggette a una diversa
retribuzione».
«Io ho lavorato!» tuonò.
«Non l’ho mai messo in dubbio» rispose atona.
«Allora pagami!»
«Il suo
compenso è equo in rapporto alle ore lavorative, al suo livello
professionale e alle attività svolte. Gliel’ho detto e
ripetuto. Questo è quanto. Ora, la prego di andare»
insisté piatta.
Sulle prime
Pancake sembrò deciso a restare dov’era, attendendo la
resa della donna. Vedendo che questa non giungeva, uscì
incassando la testa fra le spalle e frugando nelle tasche.
«Non finisce qui, ricordatelo. Mi darai i miei soldi» ribadì superandola.
«Lo annoterò in agenda».
«Sì, sì, fai la spiritosa. Tanto sei solo una donna!»
«E lei è fermo da più di mezz’ora» gli fece notare.
Appena i passi
pesanti di Delmar fecero tremare la scala, Charlotte sedette sul
divanetto, spingendo a fatica l’aria nei polmoni. Il mondo si
ricoprì di una patina gelata, nascondendosi e sibilando furioso
nelle sue tempie. Portò una mano al petto, inspirando con calma.
Il peso che avvertiva sembrava avere tutta l’intenzione di
trascinarla sul pavimento e le fu impossibile restare seduta composta,
nonostante la strenua opposizione del corsetto.
Una voce giunse
ovattata alle sue orecchie, obbligandola a riaprire gli occhi. Maria
Pilar era entrata in ufficio, probabilmente dopo aver sentito il
trambusto di poco prima.
«Mamacita… scusami, non ti ho… sentita arrivare» sorrise raddrizzandosi a fatica.
Era svuotata,
priva di forze ed era certa d’avere un aspetto orribile: la
preoccupazione sul volto olivastro della cuoca parlava da sé.
«Sei pallida, niña. Ti senti bene? Vuoi un po’ di tè?» propose sedendole accanto.
«No, ti
ringrazio. Sto bene. È solo che… Delmar mi ha sfinita con
le sue recriminazioni. È convinto che abbia sbagliato la sua
paga».
«¿Y es la verdad?»
«No, mamacita.
Da quando il signor Avelan ci invia i mezzi per il museo, i ragazzi si
trattengono almeno un’ora in più ogni sera. Alcuni come
Lamar e il signor Lomann addirittura anticipano anche l’entrata.
Tutti hanno aumentato il monte ore tranne lui, che continua con gli
stessi orari di un mese fa. E ora pretende dei bonus o premi produzione
che non gli spettano e mi accusa di far male il mio lavoro»
spiegò, inspirando profondamente dopo ogni frase per imporsi di
restare calma. «E dire che l’ho sempre ritenuto una persona
gentile e cordiale. Mi ha sempre fatta ridere quando riassumeva le
puntate di “Le Porte di Backfield Road” di cui non leggevo
la trama sul FlyinGazette! Si ricorda tutto!»
Un sospiro
stanco affiorò sulle sue labbra. Era difficile sovrapporre le
due versioni di Delmar Parker e convincersi che appartenessero alla
stessa persona. Era stato uno dei primi a darle il benvenuto due anni
prima, offrendole con un gran sorriso dei biscotti alla mandorla
piuttosto stantii, asprigni, ripescati da chissà quale temuta
scatola del suo famigerato armadietto. Non l’aveva mai
maltrattata né, per quanto sapesse, aveva mai avuto una brutta
opinione su di lei fino a quel momento. O almeno, non peggiore degli
altri.
Maria
indovinò i suoi dubbi e l’abbracciò stretta,
facendole respirare il profumo succulento dell’arrosto che li
attendeva di lì a mezz’ora.
«Dentro quel pancione c’è tanta roba! No està mal2, è solo che… ha paura».
«Paura?
Delmar? E di cosa?» si stupì notando la sua espressione
velata di tristezza. «Ho avuto una paura tremenda quando ha preso
a pugni la scrivania! Pensavo volesse colpire anche me» ammise
imbarazzata.
«Madre de Dios! No! No es un violento!» esclamò facendosi il Segno della Croce. «Lui ha paura di quello che non entiende».
«Che non entiende? Mamacita,
credimi, ho spiegato ogni cosa come se avessi avuto davanti Junior!
Erano cose veramente elementari, tipo: “se non lavori, non
guadagni”. Non c’è molto da capire».
Maria le
sistemò una ciocca dietro l’orecchio con fare materno.
Sembrava fosse in procinto di narrarle una favola, proprio come faceva
sua madre quando lei era piccola.
«Lui non entiende
quello che è diverso da lui. Capisce piano piano, più
piano di un bambino. Vedi che non vuole bene a Iron? Prima sì e
ora no, ma sono passati tanti anni e lui non vuole entiendere perché ha paura. Allora non vuole pensare e entiende sempre meno. Come el perro loco».
«Perro loco?»
«Sì, niña. Perro. Cane. Quello che se muerde la cola3, piange, la lecca e poi ricomincia a morderla e non entiende che siempre va a hacer más daño4».
«E non impara mai?» domandò speranzosa.
«Impara se vuole imparare. O si le das un rodillo5 sul muso!» aggiunse agitando in aria il pugno.
1 Proverbio giapponese che indica come le avversità formino il carattere.
2 No està mal: in spagnolo, “non è cattivo”.
3 Se muerde la cola: in spagnolo, “si morde la coda”.
4 Siempre va a hacer más daño: in spagnolo, “che gli farà sempre più male”.
5 O si le das un rodillo: in spagnolo, “o gli si da un mattarello”.
Writer's Corner
Mi
scuso per l'assenza, ma a volte non si riesce a tener fede ai propri
impegni anche dando il massimo. Grazie a tutti per la pazienza!
E ben arrivati a Heven Elphas e tortuga 1.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** L.C. - Cap. 21 ***
L.C. - Cap. 21
21
Jack non riusciva a credere ai suoi occhi. Aveva passato così
tante volte le mani fra i capelli da averli resi un roveto ispido. Non
era servito a niente.
Guardando quell’aeromobile, poggiata su cavalletti provvisori,
aveva l’impressione di fare un salto indietro nel tempo, quando i
cinegiornali gracchiavano sugli schermi dei cinematografi con le
immagini tremolanti in bianco e nero che abbagliavano gli spettatori;
quando il solo modo per vivere l’ebrezza della velocità
era impresso su una pellicola bollente tesa fra una coppia di bobine
vorticanti.
Il muso tagliato alla rovescia, con la parte superiore sporgente e squadrata, ricordava la bocca di uno squalo.
La 7.201 usciva da un mondo di ricordi sbiaditi, molti dei quali
persino inventati sulla scorta di racconti che sapevano di favole
moderne dove i cavalieri indossavano occhialoni e guanti imbottiti e i
loro destrieri non facevano vibrare il terreno ma l’aria. Le
prime airship da corsa non avevano avuto nomi di battaglia come
Steeler, Cannonball e via dicendo: a renderle note tra i tifosi era
semplicemente il codice di fabbricazione. Un numero che si traduceva in
centinaia di cavalli compressi e scocche spesso troppo fragili per
contenerli senza rischiare che esplodessero e si trasformassero in bare
volanti.
La carrozzeria verde-azzurra era opaca e ruvida, in alcuni punti la
vernice si era sollevata e staccata dai pannelli; il grande numero
sette dipinto in blu scuro e le cromature erano quasi svaniti.
All’interno, il cuoio del sedile si era screpolato seguendo i
contorni del pilota, lasciando intravedere la poca imbottitura e la
struttura scarna della seduta. In compenso la strumentazione sembra
nuova di zecca, gli indicatori a lampadina erano intatti e le lancette
allineate a zero, come ci si aspettava da un mezzo in sosta. Per non
parlare delle cloche, sulle quali Jack aveva letteralmente lasciato gli
occhi: una coppia di HalfMoon, le primissime manopole ergonomiche
rivestite di pelle scamosciata e traforata per agevolare la presa,
un’autentica rivoluzione per un’airship di
cinquant’anni prima.
Il motorista arretrò di un passo per impedirsi di aprire il
portellone del vano anteriore. Diversamente dai modelli degli ultimi
trent’anni, la 7.201 aveva il propulsore posto
nell’avantreno, il che la rendeva ancor più difficile da
guidare, oltre che più pericolosa: mantenere l’assetto con
il baricentro del mezzo spostato in avanti, oltre il sedile del pilota,
era cosa da autentici professionisti. O da squilibrati. O entrambe le
cose.
Sedette a terra, desiderando di trovarsi in un sogno dal quale si
sarebbe svegliato presto, magari avviluppato da matasse di cavi,
cordini e telerie sfilacciate che trasudavano polvere e ragnatele.
Raccolse il berretto da terra e si asciugò la fronte prima di
cacciarselo in tasca. Si stese con la schiena a terra e strisciò
sotto la pancia del veicolo, solcata da lunghe scanalature
longitudinali, stando ben attento a non urtare i sostegni. Superato il
blocco motore, si fermò.
Cinque coppie di feritoie si aprivano appena dietro la saldatura tra il
primo e il secondo pannello del sotto scocca, ciascuna lunga tre
pollici e larga meno di uno. Alcune erano state intaccate dalla
ruggine, che le aveva slabbrate e deformate, talvolta facendo sparire
la sottile lamina che si proiettava all’interno. Si trattava di
prese d’aria per rinfrescare la pedaliera, realizzate su precisa
indicazione del pilota per forma e ubicazione.
Scivolò fuori trattenendo il respiro e sedette sui talloni.
Avrebbe voluto chiedere a Clay di lasciarlo andare a casa, fingendo di
star male, ma c’era troppo la voro in officina, non poteva fargli
un torto simile. Difficilmente avrebbe potuto abbandonarsi a uno di
quei suoi sonnellini, sapendo cosa ospitavano le mura della
“Legendary”.
«Ga créde mìa… l’è mìa pusìbel…1» mormorò allungando un dito fino a sfiorare lo stemma punzonato sulla stecca centrale della calandra.
Raffigurava un collare bovino con campanaccio e due stelle alpine sullo
sfondo di un profilo montuoso tripartito. Il tempo aveva rovinato
l’incisione che seguiva la montagna, rendendola una sequenza di
graffi tremolanti, ma Jack sapeva cosa diceva, anche senza aver mai
messo piede lassù.
«Pizzo dei Tre Signori2» sussurrò a fior di labbra ritraendo la mano e serrando le palpebre per trattenere la commozione.
Era inutile negare la realtà: quella era l’airship di suo nonno.
***
«Abbiamo un problema!» dichiarò Sandy entrando a passo di marcia negli spogliatoi.
Il ticchettio delle scarpe era amplificato in vibrazioni metalliche
dagli armadietti che parevano una fila di soldati sull’attenti.
«Donna, questo non è il tuo posto!» rispose la voce
irritata l’ex-marito dopo alcuni istanti, nascosto da qualche
parte.
Sandy puntò in direzione dei bagni, da cui proveniva lo scroscio di un getto aperto.
«Finiscila, Clay! Non è la prima volta che ti vedo con le braghe calate!» sbraitò.
Stava per mettere piede nelle docce quando una mano
l’agguantò, facendola voltare con tanta rapidità
che rischiò di rimetterci caviglia e ginocchio insieme. Clay,
con la testa e le braccia che grondavano acqua e un asciugamano sulla
spalla, la fissava come se avesse di fronte una bambina capricciosa.
«Le mie braghe sono al loro posto. Non posso dire lo stesso di chi c’è la dentro».
Lei arrossì, mordendosi le labbra mentre una risatina soffocata
si mescolava all’acqua. Non aveva la minima idea di chi avesse
rischiato di vedere. Ciò nonostante, sapere che Clay
l’aveva lasciata arrivare a un soffio da una figuraccia colossale
la fece avvampare di rabbia.
«Chiunque ci sia, fuori dai piedi! Non guardo!» gridò.
«Nessun problema, tanto non sono interessato» rispose l’interpellato, che ancora sghignazzava.
«Finisci pure, Odrin. Ce ne andiamo noi» replicò il capofficina, trascinando la donna fino al piano di sopra.
Quando furono soli in ufficio, lei gettò alcuni giornali sulla
scrivania. Tutti avevano in copertina articoli più o meno
chiassosi riguardanti il nuovo impegno socio-economico di Avelan. La
“Legendary” era citata più volte, facendo
riferimento ai loro successi ma anche ai trascorsi meno lusinghieri
della vecchia gestione Almgren.
«Da dove diavolo è uscita la notizia? È da
venerdì che non si parla d’altro! Il museo nemmeno
è stato progettato e qui fuori girano giornalisti a ogni ora del
giorno e stanno diventando fastidiosi! Hanno fermato persino Maria
Pilar per avere informazioni e uno è venuto a rompermi le
scatole mentre portavo a scuola i ragazzi!»
«Non so chi possa aver spifferato tutto. Le uniche pettegole qui
dentro siete tu e Charlotte» rispose mentre la sua attenzione era
attratta dall’annuncio di vendita di una P-Box Leaf in discrete
condizioni.
«Clay, sii serio» l’ammonì strappandogli di mano il quotidiano.
Innervosito, dovette obbligarsi a guardarla evitando di sommergerla d’insulti.
«Potrebbe essersela lasciata scappare Avelan. Lo sai quanto gli piace parlarsi addosso» borbottò.
«Lo so, ma non va bene!» esclamò lei, sfoggiando un
tono oltraggiato ma conciliante. «Questa cosa potrebbe ritorcersi
contro di noi se non viene trattata con la giusta attenzione. Sono
già corsi a frugare nel nostro passato per screditarci. È
intollerabile, noi siamo dei professionisti seri».
L’osservazione andò a segno e l’atteggiamento di Clayton si fece meno ostile.
«Alla fine qualcosa sarebbe uscito comunque, e sai che non me ne
frega un… accidente di cosa dice la gente. Però devo
pensare ai ragazzi, devono poter lavorare al meglio. Quindi sentiamo:
cosa proponi di fare? Murare qui tutti quanti fino al termine dei
lavori? Tagliargli la lingua?» ironizzò.
Sandy si allungò sopra la scrivania, prendendolo per mano.
«Lascia fare a me. Fammi essere della partita».
La calma evaporò in un istante.
«No. Non se ne parla» ringhiò ritraendo la mano che lei riagguantò subito, graffiandolo.
«Clayton, cerca di essere ragionevole! Tu non hai esperienza di
pubbliche relazioni: piuttosto che parlare con calma scenderesti a
prendere a pugni tutti quei giornalisti. E Iron mi ha detto che ci sei
andato vicino. Avelan in questo senso è disastroso e Charlotte
è già abbastanza stanca di suo per darle anche
quest’incombenza. Almeno questo l’hai notato?»
«Ho visto che è un po’ pallida, ma lo eri anche
tu… sai… in certi giorni…» biascicò
imbarazzato.
Imputare la stanchezza della segretaria al suo essere donna si
tramutò nel peggior azzardo possibile e il volto paonazzo di
Alexandra ne fu la prova immediata.
«Per l’amor del… Clay, come fai a essere così
idiota?» strillò balzando letteralmente sulla scrivania
per poi tornare lentamente a sedere, rigida come un palo.
«Lasciamo perdere Charlotte adesso, ti va? Resta il fatto che ho
le competenze e le capacità adatte per gestire questa faccenda
nel migliore dei modi. Sono abituata a parlare con la gente molto
più di te, so farmi valere e rivoltare la frittata quando serve.
Ho abbastanza conoscenze di settore per non farmi prendere in castagna
con domande tecniche. E tu lo sai, non provare a negarlo».
Clayton si allungò sulla poltroncina, ruotando da un lato all’altro mentre meditava sulla proposta.
«Ricordati che una buona fetta dei nostri clienti l’ho
portata io. Vorrà pur dire qualcosa!» insisté.
No: le tue gambe, il tuo culo e le tue tette. Ecco come ho fatto a ritrovarmi con degli svitati arrapati per clienti, avrebbe voluto risponderle, ma per sua sfortuna aveva ragione.
Molti nomi nella loro rubrica si erano avvicinati alla “Legendary
Customs” grazie alla capacità che Sandy aveva di far leva
sui lati più infantili del loro ego. Gli investimenti fatti dal
chirurgo estetico facevano solo da cornice alle sue abilità come
procacciatrice d’affari.
«Avanti, Clay. Lascia fare a me. Non te ne pentirai, lo giuro».
Il capofficina si dondolò un altro poco, massaggiando la testa
appena rasata con entrambe le mani. Infine, cominciò ad annuire
sbuffando pesantemente.
«D’accordo, donna. Ti concedo di gestire questa grana, ma a
due condizioni» annunciò poggiando i gomiti sulla
scrivania, imitato da Sandy.
«Due?»
«Due» confermò.
«Sarebbero?»
Lui inclinò la testa da un lato, socchiudendo gli occhi mentre continuava a fissarla.
«Credo che tu lo sappia già, cos’è che
voglio» disse sottovoce, passando il pollice sulle labbra in un
gesto fin troppo eloquente.
«Stai scherzando. Tu non… scherzi, vero?» insisté.
«Tu dici, donna?» cantilenò a voce ancor più bassa, accarezzandosi la gola.
Lo scambio di sguardi durò per quello che sembrava un tempo infinito.
«E va bene! Va bene! Due teglie del pasticcio di mia madre!» sbottò raddrizzandosi esasperata.
«È un piacere fare affari con te, tesoro».
***
Charlotte rispose automaticamente al battere di nocche sulla porta,
presa com’era dai preparativi per la revisione trimestrale. Con
il contratto Avelan, la mole dei documenti aveva subito
un’impennata vertiginosa e per quanto si fosse impegnata a tenere
in ordine ogni fattura, bolla di trasporto, richiesta o offerta, queste
parevano possedere una vita propria, che le spingeva a mescolarsi come
mazzi di carte al casinò.
Quando si decise ad alzare lo sguardo, notò che l’uomo
sulla porta somigliava molto a Niklas Almgren. Era altrettanto alto e
robusto, aveva gli stessi capelli biondi anche se tagliati molto
più corti e pettinati ordinatamente, gli identici occhi azzurri
che la fissavano con ironica insistenza. Solo la barba era sparita,
rendendo più evidenti le rughe d’espressione attorno alla
bocca. Il sobrio completo grigio che indossava, fresco di sartoria, non
aveva nulla a che vedere con i vecchi abiti frusti e dimessi con cui si
presentava di solito.
Presa alla sprovvista dall’apparizione, Charlotte non si rese
subito conto di averlo squadrato più volte a bocca aperta.
«B-buongiorno» salutò, cercando di darsi un contegno.
«Buongiorno» rispose educatamente l’uomo.
Impossibile sbagliarsi: la voce apparteneva proprio a lui. I dieci
giorni di assenza avevano restituito non un macilento e barcollante
beone come tutti si sarebbero aspettati, ma quello che poteva essere
definito senz’ombra di dubbio, un’altra persona.
«I… Inge… gegner Almgren! Io, ecco…
Bentornato. Mi fa piacere… rivederla. Ha… b-bisogno
di… qualcosa?»
Lui avanzò, controllando che dalla botola non facessero capolino
lemuri o altri animali sul piede di guerra. Gli occhi bruni di
LucyBelle però si limitarono a luccicare curiosi nella penombra.
«Beh, suppongo di essermela meritata» sorrise raggiungendo la finestra.
Un sorriso gentile, quasi timido.
«C-cosa?»
Niklas chinò il capo, ridacchiando tra sé prima di tornare a guardarla. Era evidentemente in imbarazzo.
«La faccia che hai fatto e che stai facendo ancora adesso»
spiegò indicandola. «Non sai cosa pensare, dico bene,
Charlotte?»
La domanda la fece sentire ulteriormente stupida. Provò a
riordinare la scrivania per prendere tempo e trovare una risposta
adatta, ma le sue mani rimasero aggrappate ai fogli.
«In… in effetti… è esatto» ammise,
tentando invano di richiamare alla mente l’odiosa figura
dell’uomo perennemente attaccato alla bottiglia che le faceva la
corte nel più oltraggioso dei modi, ma senza riuscirvi.
I trascorsi da dongiovanni di Niklas erano ben noti e, di fronte a
quella metamorfosi, Charlotte non ebbe cuore di criticare la torma di
donne che spasimava per lui, nonostante gli infimi livelli che sapeva
raggiungere. Era veramente un uomo affascinante. Si ritrovò a
pensare, con una punta di dispiacere, che al City Garden avrebbe fatto
la sua figura, persino più di Clayton.
«Erano anni che non mi mettevo in ghingheri. Spero di non
sembrare uno spaventapasseri» disse lui, aggiustando il bavero
della giacca.
«Sta veramente molto bene, Ingegnere. Sembra un altro».
Stranamente, Scorch si limitò ad annuire tenendo gli occhi sul
pavimento. Non si pavoneggiò né, come lei temeva,
accorciò le distanze tra loro.
«In effetti, mi sento molto bene e spero che duri a lungo. Molto
a lungo, perché non vorrei dimenticare di nuovo questa
sensazione» si augurò. «Hito ha detto qualcosa a
proposito del fatto che anche gli scoiattoli cadano dagli alberi. Non
ne sono certo, ma immagino fosse un modo per dirmi che era ora che
sbattessi la testa sullo spigolo giusto».
Trascorsero alcuni istanti, durante i quali nessuno parlò;
addirittura i macchinari e gli attrezzi giù nell’officina
tacevano, dando l’impressione che l’intero edificio stesse
origliando.
«Io però non sono qui solo per fare mea culpa e mostrare
la mia buona volontà. Vengo a importunarti per questi»
riprese facendosi serio e porgendole un plico. «Sono i documenti
delle airship che ci farà avere Avelan. Ho chiesto a Clay di
portarmeli per dare un’occhiata con calma e li ho trovati
lacunosi. Ho visto le tue annotazioni, tutte pertinenti ma alcuni
dettagli sono appannaggio degli esperti, non potevi conoscerli. Te li
ho segnati e ho indicato quali integrazioni vadano richieste ai
proprietari. Sono piccole cose, certificati o visti, nulla di
trascendentale, ma senza questi mancano dati fondamentali per conoscere
la “storia clinica” del mezzo e ristrutturarlo a
dovere».
Charlotte li scorse rapida, trovando i promemoria di cui parlava. Man
mano che procedeva, notò che la calligrafia si faceva più
sicura, netta e spedita, priva di correzioni.
«Sembrerebbe che i lavori del signor Avelan abbiano poteri terapeutici su di lei».
«Sembrerebbe» ripeté con una discreta soddisfazione.
«A dire il vero, credo si trattasse di un bisogno che avevo
dentro da un po’, ma non trovava la giusta valvola di sfogo. Il
bisogno di una revisione profonda. Permetti?» chiese indicando il
divanetto.
Charlotte non se la sentì di negarglielo. Se da un lato restava
sospettosa e diffidente, dall’altro era divorata dalla
curiosità: un cambiamento tanto repentino e radicale poteva
nascondere chissà quali risvolti. Desiderava solo di non
ascoltare notizie drammatiche come le era accaduto in passato,
poiché sapeva fin troppo bene a cosa potesse condurre
l’alcolismo.
«Non ho più vent’anni e Bonnie ha ragione: sono
troppo cresciuto per comportarmi come un ragazzino. Devo fare delle
scelte e, so che suona ridicolo detto ora e da me, ma devo pensare al
mio futuro finché sono in tempo. La proposta di Avelan potrebbe
rivelarsi la medicina giusta».
«Glielo auguro».
«Sono le foto del party?» chiese indicando una busta da cui sporgevano diversi fogli di carta spessa e patinata.
«Sì. Il signor Avelan ci teneva le avessimo» rispose gettando loro appena uno sguardo.
«Posso vederle?»
«Certo».
Niklas le prese con cautela, facendo attenzione a non imprimere ditate sulla superficie.
«Guarda un po’ il mio cuginetto! Era dal suo matrimonio che
non lo vedevo tirato a lucido. La mia nipotina sa proprio il fatto
suo» commentò sfogliandole. «Adesso capisco
perché Junior dice che Sandy somigliava a una papera. Era uno
schianto ma non sembra un abito molto comodo».
«Non lo era» convenne Charlotte, non riuscendo a trattenersi dal guardarlo nuovamente da capo a piedi.
Sedeva composto, le gambe accavallate, la schiena dritta, un gomito elegantemente poggiato sul bracciolo.
Ma è davvero lui? Possibile? si domandò ancora incredula.
«Ora capisco perché Sandy era tanto invidiosa. La
damigella di Avelan le ha rubato la scena» sorrise voltando verso
di lei la foto che la ritraeva al braccio di Ostap. «Mi spiace
essere stato troppo ubriaco per notare quanto fossi bella quella
sera».
Lo dovevo sapere che era tutta una messinscena, pensò subito Charlotte. Tutte queste belle parole per tornare al solito punto. Stupida che sono. Uno come lui non cambia dall’oggi al domani.
«Ingegnere…» sospirò spazientita.
«No, Charlotte» la interruppe, più bruscamente di quanto avrebbe voluto.
Se ne rese conto e prese un profondo respiro, passando una mano sulla faccia.
«Mi spiace, non... Ti devo delle scuse per non averti fatto i
complimenti quando li avresti meritati e per l’episodio
increscioso della foto. È stato un colpo di testa vergognoso.
Anzi, no: è stato indecente. Non avrei dovuto permettermi di
fare quel che ho fatto. Ero fuori di me. Il che purtroppo è
ciò che sono stato da prima che mi conoscessi».
La segretaria lo fissava sempre più basita. Non stava fingendo,
era realmente dispiaciuto del proprio comportamento: conosceva fin
troppo bene la sua espressione di finta colpevolezza, la riconosceva
lontano un miglio, e non aveva nulla a che vedere con quella che ora
aveva dipinta sul volto.
«Dico sul serio Charlotte. Scusami. Per questo e… tutto il resto. Se puoi».
Niklas si avvicinò alla scrivania tendendo la mano.
«Voglio rimettere le mani sulla mia vita e impedire che mi sfugga
di nuovo. Ma mi servirà una mano, forse più di una.
Potresti aiutarmi? Nella veste che riterrai maggiormente opportuna,
ovvio».
Charlotte osservò titubante l’ustione che si allargava sul
palmo. Sapeva che un’identica si trovava sull’altro, mentre
una più ampia e orrenda gli attraversava il petto. Nessuno
all’officina aveva idea di come se le fosse procurate, nelle
schede mediche non si faceva cenno a incidenti di lavoro. Pancake
malignava fossero l’esito di certe vecchie, torbide
frequentazioni; altri, come Naohito, le riconducevano alle sue prime,
disastrose esperienze di meccanico. La verità era qualcosa che
però apparteneva a lui solo: neppure Clay, per quanto gli fosse
sempre stato vicino, conosceva nel dettaglio quanto era accaduto.
«È brutta e fa male solo a me, non agli altri» la rassicurò.
Seppur con una certa esitazione, Charlotte la strinse.
«Grazie» disse Niklas facendo per andarsene.
«Dimenticavo. Questo pomeriggio dovrebbe arrivare una chiamata
per me. Per favore, evita che Clay la intercetti, è importante
che non ne sappia nulla».
Si trattava di una richiesta degna del vecchio Scorch e l’espressione intimorita di Charlotte ne era la prova.
«Stai tranquilla, non è nulla d’illecito» si
affrettò a chiarire, più spaventato di lei. «Ho
ancora qualche amico alla Facoltà di Ingegneria che mi deve dei
favori, ma stamattina chi m’interessava di più non era in
sede. La segretaria del Dipartimento di Aeromeccanica dovrebbe avergli
dato il mio messaggio con la richiesta di contattarmi qui».
«E quale sarebbe il problema? Il signor Lomann potrebbe essere interrogato al posto suo?» scherzò.
«Magari! Vorrei proprio sapere cosa ricorda. No, il problema sta
nel fatto che questo amico ci deve dei soldi per un lavoro eseguito
anni fa e mai saldato» rise nervosamente. «Il resto puoi
immaginarlo da sola».
Lei scosse il capo, arresa. Liberarsi del fardello di scelte sbagliate
e guai sarebbe stata un’impresa colossale, molto più che
preparare tutte le airship per il museo nel giro di un mese.
«Non teme per il suo amico, teme per se stesso».
«Per entrambi, a dirla tutta ma… siccome sono la causa
dell’ammanco, sì, più per me» ammise.
«Vorrei uscire vivo da questa messa a punto e rimettere in sesto
anche questo pasticcio, se mi riesce. Direi che ti ho rubato anche
troppo tempo, meglio che vada: ho un ufficio da far ripartire. Buon
lavoro, Charlotte».
Con una simile premessa, la donna ebbe il timore di essere stata
trascinata in chissà quali raggiri, invece rimase di sasso
quando alle quindici, la voce all’altro capo del telettrofono
annunciò senz’ombra di equivoci una chiamata in arrivo dal
Politecnico di Port Serafine, a voce del professor Emmanuel Edwards.
***
Aris socchiuse gli occhi. Il sole brillava dolorosamente oltre le
pesanti tende blu, spargendo vibranti schegge di luce sui tetti e sulle
finestre del Core. Mancavano ancora diverse ore al sopraggiungere della
sera, quando Clench gli avrebbe portato le ultime nuove. Far trapelare
i piani di Avelan era stato fin troppo semplice: le parole erano uscite
direttamente dai muri della “Legendary Customs” e avevano
raggiunto le orecchie giuste al momento giusto, senza che lui dovesse
muovere un dito. Una fortunata circostanza che aveva giocato
inaspettatamente a suo favore.
Si rannicchiò contro il marmo, strofinando la guancia sulla
superficie concava di un drappeggio. Lasciò che il silenzio lo
cullasse e tornò ad assopirsi.
1
Ga créde mìa… l’è mìa
pusìbel…: in bergamasco, “Non ci credo… non
è possibile”.
2 Pizzo dei tre Signori: cima delle Alpi Orobie.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** L.C. - Cap. 22 ***
L.C. - Cap. 22
22
Charlotte non
sapeva più che fare. La mole delle telefonate aveva subito un
costante aumento tanto che, a furia di rispondere che ogni cosa sarebbe
stata chiarita durante la conferenza stampa del signor Avelan, era
rimasta in arretrato con la stesura dei rendiconti trimestrali. Inoltre
Delmar aveva cominciato a farle visita giornalmente, sbandierando
recriminazioni su qualsiasi sciocchezza gli passasse per la testa,
rallentandola ulteriormente. Esasperata, aveva tentato con tutte le
forze di ascoltare i discorsi di Sandy, senza comprendere una sola
sillaba, tranne il nome di Odrin. Travisò il racconto di quanto
accaduto due giorni prima nelle docce e se ne uscì con
un’esclamazione irritata e acida, che avrebbe potuto svelare
troppo del nascente legame. La faccia sbigottita dell’altra
l’aveva frenata da una scenata di gelosia appena in tempo per
evitare di vuotare il sacco.
«Scusami, Sandy. Non volevo… cielo… sto impazzendo» sospirò nascondendo il volto tra le mani.
Le relazioni
amorose all’interno della “Legendary” non erano
proibite o mal viste, ciononostante, lei insisteva a voler tacere.
C’erano ancora troppe cose che non sapevano l’uno
dell’altra per esporsi con serenità.
«Lo vedo,
tesoro. Fai una pausa, datti tregua: sei un disastro! Hai gli occhi
rossi, il trucco sbavato e i capelli non ti stanno a posto. Se
n’è accorto persino Clay che non sei al massimo, ed
è tutto dire!» esclamò sconsolata dalla poca
sensibilità dell’ex-consorte.
Subito Charlotte riprese il consueto tono professionale, sebbene il pallore la rendesse tutt’altro che credibile.
«Ho molte
cose da fare, devo solo tener duro un altro po’. Le fasi iniziali
sono le più complesse. Posso farcela. Mi servono un paio di
giorni per…» provò a giustificarsi, ma Alexandra la
interruppe:
«Hai ancora la scatola di Avelan?»
«Scatola? Quale…»
«Cioccolatini»
canticchiò, accavallando le gambe e osservando il dondolio dei
charms sulla cavigliera. «Mangiane due o tre. Certi costosi
piaceri aiutano, fidati. Durante la gravidanza di Junior ero stravolta,
distrutta, e Clay mi portò in una gioielleria del Core. Spesi
trecento trias per un paio di orecchini e mi sentii subito meglio.
Però nemmeno una parure di diamanti grossi come fanali è
paragonabile al cioccolato! Specialmente quello per cui non si spende
un méit» rimarcò.
Charlotte estrasse il contenitore dal cassetto della scrivania e rimase a fissarlo assorta.
«Me lo stai dicendo perché ne vuoi anche tu, vero?» domandò senza guardarla.
La sentì ridacchiare mentre tamburellava con le scarpe sul pavimento.
«La
prossima volta contratti tu con i clienti, ormai sai leggere bene tra
le righe! Così potrò concentrarmi sulle pubbliche
relazioni» scherzò scegliendo una pralina alla ciliegia.
«Allora,
Clayton è d’accordo?» domandò distrattamente
la segretaria, scartando un grazioso cioccolatino striato di bianco,
che le ricordò i tatuaggi Andull.
«Per
forza. È il mio campo, nessuno può battermi!»
esclamò spalancando le braccia con fare teatrale ed aggiunse,
abbassando la voce e sporgendosi verso di lei: «Nemmeno Aris, che
è il migliore in circolazione. E io ho imparato da lui. Solo che
non può vantare certe mie armi» ed ammiccò
additando la generosa scollatura.
Con la scusa
d’effettuare l’abituale verifica dei dispositivi di
protezione dello staff, Charlotte scese di sotto e dopo aver girovagato
tra i banchi, lasciando un paio di appunti riguardo l’uso di
guanti e mascherine antipolvere, sgattaiolò nel laboratorio
interni.
Dentro era buio
pesto: le finestre erano state oscurate e una minuscola lampada era
poggiata sul tavolo da lavoro, sul quale Odrin era disteso a faccia in
giù. La luce passava radente una grande pelle bruna che
l’Andull stava esaminando un pollice alla volta, servendosi di
una lente d’ingrandimento e della sensibilità dei
polpastrelli. Da qualche parte proveniva il borbottio di un macchinario.
«Posso… devo parlarti» mormorò, ancora appoggiata alla porta.
«D’accordo,
ma aspetta qualche minuto. Non posso deconcentrarmi, devo esaminare
questo punto. È importante» rispose, restando praticamente
immobile.
Sedette su
quello che si rivelò essere una pila di ritagli, mordicchiando
il pollice per lenire la propria delusione. Guardò Odrin
sfiorare il drappo, muovendosi con attenzione e delicatezza. Per tutto
il tempo, Charlotte avrebbe voluto desiderare di ricevere una parte
anche infinitesimale di quelle carezze, ma la sua mente era occupata da
righe e righe di conteggi, note, documenti, riferimenti normativi.
Avrebbero
potuto trascorrere secoli prima che l’Andull terminasse,
così, contravvenendo alla richiesta, gli raccontò in
breve quanto era accaduto con Sandy, sospirando pesantemente ad ogni
singola parola, quasi le costasse una fatica immane pronunciarle.
«Diciamo
a tutti come stanno le cose. Voglio smettere di tacere con Patch, sta
inventando valanghe di assurdità sui miei tentativi di
corteggiarti» commentò asciutto l’artigiano,
tracciando con il gessetto un cerchio attorno ad un’imperfezione.
Anche se
comprendeva il suo scoramento, doverle prestare ascolto in quel
frangente così delicato della sua attività l’aveva
piuttosto infastidito.
«No. Non se ne parla» s’impuntò lei, stringendo al petto la cartelletta che aveva con sé.
«Perché?
Perché le relazioni tra colleghi sono inammissibili?» rise
l’Andull, sciogliendo un eccesso di cera con un breve getto di
vapore.
La luce della
lampada rendeva di un bianco spettrale i suoi tatuaggi, quasi fossero
viticci di un esotico rampicante in grado di parlare e muoversi.
«Noi non siamo colleghi, Odrin» tagliò corto.
Lui si accigliò, rotolando sul fianco.
«Mi pareva lavorassimo entrambi per la “Legendary”».
Charlotte
rimase a bocca aperta per un istante, rendendosi conto di ciò
che aveva asserito. Chiuse gli occhi, scrollando abbattuta le spalle.
«Sì,
è vero. Tu però ti occupi di un lavoro che non ha nulla a
che vedere con il mio. Non siamo colleghi in… senso
orizzontale» disse, accompagnandosi con la mano.
«Orizzontale?» domandò imitandola.
Odrin aveva
capito da poco tempo come il gesticolare segnalasse la
profondità del suo nervosismo, al pari del sistemare gli
occhiali o aggiustare lo chignon. Azioni che fra gli Andull avevano
significati diversissimi: muovere le mani per enfatizzare una frase
denotava tranquillità - poiché ci si poteva permettere di
perdere tempo per compiere movimenti - , portare le mani al viso
indicava grande attenzione verso l’interlocutore mentre toccare i
capelli, disfacendo l’acconciatura, equivaleva ad un gravissimo
insulto.
«Non in
senso materiale o… carnale» chiarì imbarazzata la
donna, fraintendendo la sua ironia. «Lo siamo per… solo
in… virtù del fatto…»
S’interruppe,
prendendo un lungo respiro e posando le carte sulle ginocchia.
Restò in silenzio, lisciando la cartelletta e mordendosi le
labbra, cercando di mettere in fila le parole che invece rifiutavano di
obbedirle.
«Lo siamo
in… un’accezione generica… perché lavoriamo
nella… insomma, perché lavoriamo qui, alla
“Legendary Customs”. Nella stessa… società,
ma in luoghi non… non coincidenti e con… mansioni
differenti. Io non dipendo… non collaboro… direttamente
con te. Né tu con me. Non… non siamo pari grado. Siamo
colleghi perché… membri… parti di una…
gerarchia interna. Punto e basta» spiegò con gesti
esitanti e la voce altrettanto incerta.
Si
domandò se Odrin riuscisse a scorgere il tremito delle sue mani.
Le girava la testa e aveva i brividi. Deglutì a vuoto un paio di
volte, rendendosi conto d’essere prossima a cedere.
«Che c’è, nud ghii?» chiese preoccupato.
Lo vide
scivolare giù dal tavolo e sparire nel buio. Strizzò gli
occhi, frugando spaventata la stanza, solo per scoprirlo di fronte a
sé. Lo fissò stranita nella poca luce: Odrin aveva
l’aspetto di un predatore uscito dalla foresta tropicale,
magnetico, sornione e pericoloso.
«Niente. Sono…»
Un singulto spezzò le parole e la mandò in confusione.
«Sono
stanca. Non riesco a recuperare le forze» singhiozzò,
cercando inutilmente d’asciugare le lacrime.
Odrin s’inginocchiò e prese a massaggiarle le mani per cancellare le piccole strie umide che le percorrevano.
«Ci provo ma… non ci riesco. Non tornano» pianse.
«Questo
non è essere stanca, è essere sfinita»
mormorò baciandole i palmi. «È da quando sono
partiti i lavori per Avelan che ti stai spremendo dietro tutti gli
accidenti dell’ufficio. Certe volte ti sento quando discuti al
telefono, lo sai? È buffo sentirti alzare la voce: con noi non
l’hai mai fatto! Il lavoro è aumentato per tutti, anche
per Maria Pilar! E credo, anzi sono sicuro, che questa robaccia,»
e presi i documenti li lanciò sul tavolo, «ti pesi
più del dovuto perché quando lavori ti prendi
maledettamente sul serio. Impazzisci per evitare errori e figuracce,
per far filare tutto liscio come l’olio. Ti ho vista fermarti
oltre l’orario anche in passato, solo che prima capitava ogni
tanto, adesso è la prassi. È normale che tu ne risenta,
non sei abituata. Nessuno lo è, qui dentro».
Lei negò, chinandosi fino a posare la fronte su quella dell’artigiano.
«Lascia qui il lavoro, non portarlo a casa. Fuori dal portone, l’officina non esiste» le suggerì.
«Vivo qui
ormai… è… le giornate che… io…
l’ufficio… questo è diventato il mio mondo»
balbettò, accarezzando il milala.
Odrin le impedì di proseguire, trascinandola lentamente a terra e facendola sedere sulle proprie gambe.
«È
normale, Charlotte. Passiamo più tempo qui che con le nostre
famiglie. La “Legendary” è un’altra grande
famiglia di cui facciamo parte» sorrise rassicurante, ma
Charlotte continuò a piangere aggrappata alle sue spalle.
***
La “Bold
Mistress” figurava tra le tenute più belle e prestigiose
di tutta Port Serafine. Adagiata sulle ondulazioni delle Les Huteures
ad ovest della città, appena oltre i confini di VeloCity e Three
Weirs, si stendeva per alcune decine di acri coltivati ad agrumeti. Al
centro, l’immensa villa coloniale sovrastava per due piani un
grande porticato che pareva farla lievitare come una nuvola di stucco
sulla cima della collina.
«Non mi piace» commentò aspramente Vivian, seduta su una poltroncina accanto al letto di Adam.
Lui,
imbacuccato in un ampio accappatoio, ciabattava avanti e indietro tra
le ante del gigantesco armadio, valutando quale abito indossare per
l’aperitivo di quella sera.
«Cosa?» domandò.
«Quello che hai in mente, qualunque cosa sia» specificò.
Adam
chinò il capo per alcuni istanti, fingendo di valutare la
stiratura della giacca. Un asciugamano candido ricadeva ai lati della
sua testa, nascondendola.
«Vivian,
cara, pensavo ne avessimo discusso a sufficienza. Vuoi davvero
rovinarti l’umore per colpa mia? Con una giornata così
bella ad attenderci ed una seratina coi fiocchi, ora che abbiamo finito
con tutta quella noiosa solfa delle verifiche azionarie?
Andiamo…» la invitò, indicando lo splendido
pomeriggio di giugno che s’apriva oltre la terrazza della villa.
Oltre le fitte
cime degli alberi, Port Serafine era un insieme di macchie spigolose e
variopinte, punteggiata dai riflessi del sole calante che si
specchiavano nel fiume.
«Meglio
il completo blu o quello azzurro?» domandò sollevandoli
mentre restava immerso per metà nell’armadio.
Vivian scosse il capo guardando altrove, stizzita dalla sua noncuranza.
«Azzurro,
Adam. Siamo in estate ormai! Ci vuole un bel colore allegro e quello
è identico ai tuoi begli occhioni!» trillò Lilijana.
Se ne stava
stesa a pancia in giù sul letto a sfogliare il nuovo catalogo
della Garnett & Co., in cerca delle ultime novità in materia
di armi bianche. Da qualche giorno aveva la fissa dei tirapugni e ne
voleva uno con gli anelli decorati e lame a scatto, che si adattasse al
suo succinto guardaroba.
«E
azzurro sia!» assentì festoso, spiando l’autista da
sopra la spalla. «Su, Vivian, sorridi! Fuori di qui devi essere
algida e distaccata, ma in casa mia voglio vederti come ti ho
conosciuta e come ti conosco. E tu non sei una musona che gode a
lamentarsi ogni minuto di quel che fanno gli altri».
La valchiria
nera scattò in piedi spazientita e si diresse alla
portafinestra, seguita dal tintinnio delle maglie metalliche del
corsetto e della mantellina che le copriva le spalle. Prese un
bicchiere di limonata dal portavivande e rimase a sorseggiarlo
scrutando indispettita le coltivazioni.
Adam la raggiunse, frizionando con vigore i capelli biondi ancora umidi.
«Vivian,
sai come la penso. Ho avuto tanto e tanto voglio rendere. Uno scambio
equo, è questo che mi hanno sempre insegnato. La mia fortuna ha
un prezzo e voglio riscattarlo. Non per onore, rispetto di una parola
data o chissà che. È semplicemente giusto che sia
così» spiegò tranquillamente, addentando un
biscotto.
Entrambi
avevano perso il conto delle volte in cui la discussione era stata
sollevata e sviscerata, quando lei veniva meno alla sua calma olimpica
e il giovane scapestrato sfoggiava una pace interiore degna di un
asceta indiano.
«Lo so,
Adam» sbuffò abbassando lo sguardo sulla limonata.
«E sai che ammiro il tuo modo di rapportarti alla ricchezza ed ai
benefici che può portare, anche se il tuo sistema, visto da
fuori, può sembrare assurdo».
«Però è divertente» ridacchiò dandole di gomito.
Vivian s’incupì all’istante, rivolgendogli uno sguardo inorridito.
«Divertente? Nove ovuli di Ditsha sono divertenti?» sibilò, guardando intorno circospetta.
Si fidava di
Lilijana, ma Adam era un personaggio pubblico, sempre sotto le luci dei
riflettori: verso di lui erano tese orecchie indiscrete dagli angoli
più imprevedibili dell’universo e mettere in piazza
l’uso che faceva di una delle droghe più pericolose al
mondo avrebbe comportato danni enormi al suo nome.
«C’è
mancato tanto così che ci lasciassi le penne e Dio solo sa per
cosa! Sei giorni, Adam! Hai passato sei giorni a letto a delirare, non
fingere che si sia trattato di un raffreddore! Che cosa diavolo dovrai
mai farti perdonare per ridurti a quella maniera?»
Non
riuscì a scorgere la sua espressione, nascosta dal telo per
tutta la durata del suo lungo silenzio durante il quale
sgranocchiò un altro paio di dolcetti.
«I miei peccati lasciali a me solo. Non ti spetta scontarli al posto mio» l’ammonì infine.
La donna
allungò la mano, scostando l’asciugamano. Senza il pesante
trucco a nascondere l’orribile maschera butterata e grigiastra
che era il suo volto, Adam sembrava una di quelle vecchie statue di
santi che coronavano le chiese, sgretolate dal tempo e
dall’incuria, cariche dei dolori altrui. Non faceva paura, solo
tristezza.
«Da contratto no. Da amica, sì» s’impuntò.
«Sbagli.
Neppure da amica ti è concesso un onere tanto pesante»
rispose sorridendo e le guance si gonfiarono, simili a spugne marine.
«Ma puoi starmi vicina, come hai sempre fatto, ed aiutarmi quando
ne avrò bisogno».
Lo sguardo di
Vivian si addolcì, inumidendosi un poco mentre
l’abbracciava. Era decisamente più alta di lui anche senza
tacchi e, non ne aveva mai fatto mistero, non la infastidiva
stringerselo al petto. Non trovava nulla di sconveniente nel sentire
quel volto devastato posarsi sul suo seno: Adam non le aveva mai
mancato di rispetto né si era permesso malizie fuori luogo.
«Temo tu
mi abbia preso per un ergastolano, sai?» sogghignò amaro.
«Vorrei ricordarti che non è così: tutti gli
accordi hanno un termine, prima o poi. Anche il mio. E sono
dell’idea che le cose si stiano muovendo in tal senso»
disse gettando un rapido sguardo all’ennesimo articolo circa il
museo di VeloCity su uno dei tanti quotidiani affastellati sul ripiano
più basso del portavivande.
Lilijana li interruppe, balzando loro addosso e unendosi alla stretta.
«Anch’io!» pigolò.
«Ah,
quanto mi amano le mie donne!» esclamò divertito Adam,
coprendo il commento seccato di Vivian, cui l’altra aveva quasi
ficcato un dito in un occhio.
***
Sgranarono gli
occhi sui vassoi stracarichi che le cameriere posarono sul tavolo. No
Way lanciò un fischio di ammirazione e la mascella di Pancake
precipitò estatica fin sul pavimento, mentre Choncho e Boy si
scambiavano occhiate allibite per l’incapacità di trovare
esclamazioni adatte. C’erano montagne di costolette, bistecche e
petto di manzo grigliato, gamberi in salsa, pesce in agrodolce, uova
strapazzate e le famose braciole di maiale alla Bourdain, la
specialità regina dell’“Archituono”. Il tutto
accompagnato da pane di mais e di segale, pannocchie al burro,
frittelle al formaggio, riso bollito e i più svariati contorni
che la cucina del locale potesse produrre.
«Che significa?» domandò Clay, intimorito dalla mole di cibarie che minacciava di sfondare il tavolo.
«Beh,
ragazzoni, grazie al casino che avete piantato con quel russo, ci siamo
trovati imbottiti di giornalisti dall’oggi al domani. Mai vista
tanta gente qui dentro come in questi giorni!» spiegò
Cynthia.
«Così
noi abbiamo imbottito le loro pance per benino. E questa
è… la vostra parte» aggiunse Beth facendo spazio
per posare delle patate al cartoccio e insalata di crauti.
Patch
bisbigliò alla ragazza se poteva portare un po’ di quel
ben di Dio a casa, ricevendo un assenso e la promessa di una grossa
porzione di torta per i bambini, soprattutto per Andy.
«E poi,
guarda qui che meraviglia è tornata in pista! Un bel bocconcino
succulento che non potevamo non festeggiare, ora che ce l’abbiamo
nel piatto» miagolò Cynthia e prima che Scorch potesse
replicare, l’agguantò per la giacca e gli stampò un
sonoro bacio sulle labbra, imitata un attimo dopo da Beth e da Annie,
che pur essendo impegnata con un’altra comanda aveva deciso di
unirsi al bentornato.
«Occhio, ragazze. Da qualche parte c’è ancora dell’alcol andato a male» borbottò Pancake.
«Direi
che ce l’hai tu. Non è tutta fermentazione quella?»
ghignò Beth indicando le rotondità del meccanico che
ormai superavano ampiamente il bordo del tavolo.
«Stasera
mi rovino la dieta» si lamentò Iron, sollevando una
sontuosa fetta di manzo con l’acquolina in bocca. «Mi ci
vorrà una settimana per smaltire tutto. Come minimo».
«E che problema c’è?» ciancicò Boy, che si era già buttato sulle braciole.
La densa salsa
piccante che le guarniva gli imbrattava le guance e persino uno dei
piercing sul sopracciglio destro. Dal modo in cui ingurgitava la carne
sembrava avesse intenzione di riempirsi lo stomaco per non dover
mangiare fino al pranzo del giorno dopo, quasi non dovesse – o
volesse – tornare a casa.
«Non
abbiamo in previsione lavori che prevedano attività fisica molto
intensa. Dovrò inventarmi qualcosa per rimettermi in sesto:
martedì ho la prova del nuovo abito per il
“Bull(es)”! Non posso presentarmi conciato come Del!»
scherzò ma il fratello l’ignorò, ingozzandosi con
maggior foga.
«Per me esageri. Sarai in gran forma anche domani» lo canzonò Odrin, sgranocchiando una pannocchia.
La
chiacchierata pomeridiana con Charlotte l’aveva demoralizzato e
voleva dedicarsi ad altro per schiarire le idee e trovare un modo per
aiutarla.
«La
disciplina è una grande virtù che va coltivata con
costanza» fu il lapidario intervento di Hito, indaffarato con il
pesce.
«Sì, sì. Tu coltiva quella che io mi coltivo questo cazzo di ben de Dios!» brontolò Choncho duellando a suon di forchettate con Jack per ogni pietanza.
La tavolata si
riempì di chiacchiere a metà, briciole sputacchiate,
risatine soffocate, finti litigi per le porzioni e ticchettii di posate
e stoviglie. Ogni membro della “Legendary Customs” era
indaffarato ad allenare mani e mascelle sui manicaretti. Tutti tranne
Clay, che osservava pensieroso il banchetto.
«A che stai pensando?»
Scorch lo stava
fissando accigliato e non seppe dire se quella domanda l’avesse
solo immaginata. Improvvisamente si rese conto di quanto i suoi
prossimi cinquant’anni sembrassero incongruenti: la sua faccia ne
aveva sempre dimostri almeno cinque o sei di meno, anche sotto
l’effetto dell’alcol.
«Non
parli e non tochi cibo da quando hanno riempito il tavolo. E ci sono le
bistecche, non è da te» insisté servendosi le uova.
«Continuo a chiedermi come abbiano fatto i giornali a sapere di noi. Avelan ha obbligato tutti al silenzio».
Il cugino prese qualche istante per riflettere, assaporando il boccone.
«Non mi
stupisce sia successo. Il suo progetto muove molte persone: architetti,
costruttori, tecnici, burocrati degli Uffici Coloniali. Se pure li
avesse corrotti tutti, qualcuno avrebbe potuto lasciar trapelare la
cosa per intascarsi un extra» suggerì.
«Sì,
ma non siamo in cima all’elenco. Il nome della
“Legendary” è uscito troppo presto»
ringhiò.
«Credi
che sia stato qualcuno di noi?» domandò riponendo
ordinatamente le posate ai lati del piatto. «Io?»
Clayton si
morse la lingua, sentendo le budella torcersi per la vergogna.
Sì, l’aveva pensato, ma di fronte al suo cambiamento
continuava a ripetersi che era un sospetto ingiusto e meschino.
«Perché me lo chiedi?» si schermì.
«Perché
so che non si può avere molta fiducia in me. Io non ne avrei. Ho
fatto il callo a questa storia, per cui, se mi sospetti, dillo»
rispose pulendo le labbra col tovagliolo, senza tuttavia celare un
mesto sorriso.
Il capofficina
era confuso dalla situazione: le insistenze dei giornalisti lo
mandavano su tutte le furie con le loro illazioni, cancellando la
quiete cui erano abituati; il lavoro non era mai stato così
redditizio e appagante, tanto che persino i piccoli intoppi quotidiani
erano presi con allegria; per un accenno di colpa solo un mese prima
suo cugino l’avrebbe aggredito e insultato senza tanti
complimenti, mentre ora lo giustificava.
«No.
Tieni all’officina quanto me, se non di più. Era tua.
È tua. Non sei stato tu. Ne sono convinto».
A quelle parole, Scorch gli sorrise pieno di gratitudine.
«Grazie.
Allora adesso convinci me a non toccare quella birra. Dio, quanto
vorrei bere un goccio» ridacchiò teso, squadrando con
bramosia la bottiglia scura.
Sentiva la gola
riarsa ed una morsa allo stomaco che implorava lagnosa d’essere
sciolta con lunghe sorsate del nettare d’orzo.
Clayton stava
per poggiargli una mano sulla spalla a mostrare il proprio sostegno,
quando lo vide sfoderare una smorfia rabbiosa, quasi fosse pronto ad
una rissa.
«Ma non
lo farò» ribadì deciso, e artigliato un grosso
bicchiere d’acqua, lo scolò d’un fiato.
Writer's Corner
Ringrazio chi sta seguendo la storia, soprattutto per la pazienza
perché lo vedete da voi: è lunga, ma ormai ci siamo, gli
eventi si stanno muovendo.
Ben arrivata a vita17, aspetto il tuo parere!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** L.C. - Cap. 23 ***
L.C. - Cap. 23
23
Quel giorno, la
sala conferenze del “Kreml” era divenuta il centro
nevralgico della città. Passanti, poliziotti, perdigiorno, tate
con i bambini nelle carrozzine, garzoni di fretta sui trike, gettavano
sguardi curiosi alle finestre arcuate bordate d’oro del decimo
piano. Là, Avelan e i suoi architetti avevano parlato per quasi
due ore filate, esponendo il progetto del museo aiutandosi con
diagrammi, plastici ed enormi cianografie artisticamente ritoccate che
mostravano la resa finale dell’intervento. Una platea di sessanta
giornalisti, provenienti da tutto lo stato e dalle Colonie vicine, era
stata inviata a ficcanasare dalle testate più disparate. Un paio
di cronisti arrivavano persino dal Vecchio Continente.
«E ora,
dopo avervi tediato con discorsi di muri, idee, soldi e politica,
lascerei la parola alla rappresentante della “Legendary
Customs”, Alexandra Stuart, perché possa chiarirvi la
parte fondamentale di tutto il progetto, ovvero le opere di restauro
delle gloriose airship che verranno esposte. Mi rimetto alla vostra
cortesia e confido la tratterete con il riguardo che si conviene ad una
signora» suggerì Ostap, esibendosi in un elegante
baciamano mentre le cedeva il posto al microfono.
«Perché
è venuta lei? Senza offesa, ma parlando di un’officina ci
aspettavamo qualcuno di più preparato in materia»
esordì un giornalista, che per tutto il tempo non aveva fatto
altro che allungare il collo per spiarle la scollatura.
Sandy aspettava
quella domanda: conosceva fin troppo bene i pregiudizi che gli uomini
avevano riguardo alle donne che s’interessavano di motori; tutta
roba già sentita, digerita e rispedita al mittente da tempo.
Questi, evidentemente, non la conoscevano così bene.
«Lavoro nel settore da sempre. Ho conoscenze sufficienti per rispondere alle vostre domande» ribatté placida.
«Come modella, magari» la sbeffeggiò un altro, sollevando un coro di risatine.
«Sì,
è vero. Sono stata anche una modella. E come contitolare della
“Legendary Customs”…»
«Lei non può sapere di motori quanto un meccanico».
«Lei dice?» sogghignò alzandosi.
Ostap
cercò di fermarla ma Sandy gli fece capire con una strizzatina
d’occhi che non aveva bisogno del cavalier servente. Scese dal
palchetto, muovendosi sinuosa sui gradini e nel breve spazio davanti
alle sedute come se stesse sfilando.
Si fermò
di fronte all’ultimo detrattore che aveva parlato, un ometto
grassoccio e quasi calvo, che sedeva a gambe larghe in prima fila.
Aveva addosso un impermeabile talmente largo e stazzonato da farlo
sembrare un uovo di Pasqua nel suo cestino di carta crespa. Puzzava di
fumo rancido e grasso da frittura e a giudicare dalle larghe ditate
unte sul suo blocchetto, doveva essere un frequentatore abituale di
qualche pessima rosticceria.
«Se non erro, l’ho vista arrivare con un’OE Plus. È corretto?» gli domandò.
Proprio come
immaginava, prima di rispondere di sì scuotendo la testa come
un’idiota, il suo interlocutore l’aveva squadrata da capo a
piedi, incapace di nascondere il totale disinteresse alla domanda
perché incantato dalla sinuosa silhouette.
Povero
amore mio: ha preteso che indossassi i pantaloni per non mettermi
troppo in mostra ed è peggio che avere addosso solo la lingerie, sogghignò immaginando la faccia di Clayton quando gliel’avrebbe raccontato.
«Si
è accorto che sta consumando almeno una libbra di pellet in
più per ogni cinque miglia percorse?»
s’informò, lasciando che una mano scendesse dalla spalla
al fianco, accarezzando con nonchalance il corsetto rivestito di trine
e catenelle d’ottone.
«Bella trovata, però…» azzardò, tuttavia Sandy non era disposta a concedergli terreno.
Assunse una posa più rigida e composta, incrociando le braccia e fissandolo dritto negli occhi.
«I fumi
di scarico sono più scuri del normale e cosparsi di fiocchi di
cenere molto densa. Inoltre, il suono emesso dal focolare è
sordo e sforzato, indice di una sovralimentazione. Quando è
voluta, si procede all’ampliamento delle prese d’aria, o
alla loro aggiunta dove non fosse possibile; il rumore ne viene
attutito e la fiamma opera correttamente. In alternativa
s’impiegano additivi come l’In-Flame 50 o il Carbon XTR
della Pyroclast, che migliorano la combustione».
Fece una breve
pausa, spostando languida il peso da un tacco all’altro.
Spiò le facce intorno, molte delle quali decisamente confuse o
sbalordite.
«Nel suo
caso però, visto che lei non mi sembra tipo da airship
rielaborate, direi che si tratta di un problema al carrello di carico
che pesca più del necessario. Farei verificare i facchini del
nastro trasportatore: devono essersi allentati e allargati rispetto al
piano di movimento - non abbastanza da intasare lo scivolo o staccarsi
-, così da raccogliere più del dovuto nella vasca
d’alimentazione. In genere si tratta di piccoli volumi di
materiale ma a forza di depositarsi, le scorie incombuste vanno a
peggiorare il tiraggio, per cui sulla plancia le sarà apparsa la
spia che segnalava d’incrementare la rapidità di carico.
Cosa che avrà fatto ruotando di una tacca il regolatore a
manetta dietro la cloche di sinistra, e che si è tradotta in un
aumento complessivo di tre quarti di libbra ogni cinque miglia. Uniti
al materiale in più, fanno circa una libbra totale».
Il giornalista era paonazzo, difficile dire se di vergogna, rabbia o eccitazione.
«Capita,
quando non si procede a una corretta manutenzione, che nel suo caso non
viene effettuata da più di tre anni, perché questo
è il tempo limite di vita del nastro dei pellet. Inoltre le
consiglierei di cambiare meccanico, perché è evidente che
il suo non si è mai preso la briga di aprire il focolare e
dargli una ripulita» concluse, gettando indietro i capelli
castani, a favore di alcuni fotografi.
Brusii di sincero stupore si sollevavano dalla platea, misti al grattare delle penne sui taccuini.
Lasciò
che la torma dei rudi uomini della carta stampata traesse le proprie
conclusioni e tornò ad accomodarsi al microfono, certa che solo
in pochi avessero perso tempo a guardare come le ruche sulla coda della
giacca le accarezzassero il fondoschiena.
«Ritengo
d’aver provato a tutti che mie credenziali siano sufficienti a
gestire quest’incontro. Ora potete tirarvi su la patta dei
pantaloni e cominciare con le questioni serie. O preferite continuare a
spogliarmi con gli occhi? Perché vi avviso: so difendermi anche
in altri modi, se non bastassero i ragazzi del signor Avelan»
chiarì indicando Thomas e Donat. «Ci sono domande?»
Passarono un
paio di minuti, durante i quali i giornalisti scartabellarono appunti e
scambiarono mezze frasi tra loro. Alla fine, un ragazzo con un pomposo
abito di Darrington & Mills, alzò timidamente la mano e si
presentò come l’inviato del Daily Colonial
- o più probabilmente l’ennesimo tirocinante figlio di
papà, mandato a svolgere un compito più grosso di lui per
contraccambiare un favore.
«S-sa…
saaappiamo che avete da sistemare la sette-punto-due-zero-uno di Italio
Balzaretti. È… un sacco vecchia e non corre da un bel
pezzo. Per quel che ho visto, non si stacca neanche da terra. Cosa
farete per rimetterla a posto?» chiese sfoggiando un tono che
avrebbe dovuto suonare come professionale ma che spinse molti a levare
gli occhi all’altissimo soffitto della sala.
La mancanza di
termini appropriati, unita alla lussuosa stilografica che agitava in
aria a mo’ di fioretto, confermò ad Alexandra di avere di
fronte l’ennesimo inetto pieno di soldi e di sé. La
vittima sacrificale ideale per rompere definitivamente il ghiaccio con
la platea.
«L’airship
nota come 7.201, prodotta dalla Paulson A.H.W.V., e guidata da Giuseppe "Italico"
Balzaretti, non corre da quarant’anni per essere precisi, da
quando Italico si ritirò dalle gare. Gli anni
d’inattività hanno danneggiato alcuni propulsori di
levitazione, rendendo opportuno evitare di sforzare quelli superstiti.
Dunque lei ha messo il naso nella nostra officina senza esplicita
autorizzazione?» lo stuzzicò, rimarcando su ogni sua
svista con un sorrisetto perfido.
Il simil-cronista impallidì, boccheggiando come un pesce nell’acquario.
***
Patch si era
addormentato sul divano, esausto dopo dieci ore di lavoro alla
“Legendary” e sei di consegne a un numero infinito di
locali e alberghi. Il delicato profumo della biancheria pulita gli
aveva fatto prudere il naso fino a stordirlo.
Si
svegliò di soprassalto, sentendo i colpi di tosse del figlio e
corse nella sua stanza. Il tubicino dell’aria che l’aiutava
nella respirazione si era sganciato dall’inalatore,
costringendolo ad annaspare mentre con le mani intorpidite dal sonno
spezzato, tentava di sistemare da sé il dispositivo. Malcom si
avvicinò camminando curvo in avanti, la lingua penzoloni e le
braccia che sbatacchiavano incontrollato ovunque.
Lo spavento di Andrew si dissolse osservandolo e fu sostituito da una breve raffica di rantoli: la sua risata.
«Ehi,
campione. Dovresti dormire un pochino, sai? È ancora presto per
alzarsi» sbadigliò mentre risistemava la cannula.
Il piccolo emise un breve sospiro sibilante, tirando fuori da sotto le coperte il modellino della Cannonball.
«Papà,
quando arriva lei?» domandò con un filo di voce, gli occhi
febbricitanti fissi sul giocattolo che accarezzava amorevole.
Il padre lo imitò, passandogli una mano tra i capelli scuri e sulla fronte per sincerarsi che la febbre non fosse salita.
«Arriverà
a ottobre. Mi sa che non dovremo farle granché, a meno che
Gunner non abbia intenzione di fare a spallate con gli avversari o con
i muri».
«Arriva dopo che Gunner vince tutte le gare?» pigolò sognante.
«Sì,
Andy. Quando avrà vinto il campionato, altrimenti dovrà
farselo a piedi. Non sarebbe molto corretto da parte nostra fargli
questa sorpresina».
Il petto del bambino sussultò, scosso da una risata ansimante e flebile.
«Posso venire a vederla? Ti prego, papà» implorò.
Malcom credeva
gli avrebbe domandato di poterci salire o d’incontrare il suo
pilota del cuore per avere un autografo, non una cosa tanto semplice.
Vedere la sua airship, nient’altro.
«Ma Andy,
tu non verrai solo a vederla! Ti ci faccio salire e se riesco a
convincere Clay, magari te la faccio anche guidare, lì nello
spiazzo dietro l’officina. Ci stai?»
Il sorriso del piccolo si fece ancor più grande.
«Posso guidarla? Come Gunner?» chiese trepidante, abbassando lo sguardo sul minuscolo posto di guida.
Era facile immaginare quali fantasie attraversassero la sua mente.
«Beh,
andremo un po’ più piano: quella non è una pista da
corsa. È solo… uno spiazzo» scherzò.
«Mi insegna Jack come si fa? Lui è capace».
Era stato
proprio il collega del padre a regalargli il modellino cui teneva tanto
e a fornirgli i rudimenti del mondo delle corse accennando, per la
prima e ultima volta in vita sua, al suo passato di pilota mancato.
«Se non lo fa, può dire addio ai suoi ricciolini! Su, ora dormi».
Seppur controvoglia, Andrew lasciò che il padre gli rimboccasse le coperte e chiuse gli occhi.
Malcom attese
che si addormentasse, poi prese delicatamente la Cannonball e la
posò sopra il mobiletto dell’inalatore quasi fosse un
piccolo guardiano.
Quando
entrò in camera da letto, trovò sua moglie sveglia.
Guardava fuori dalla finestra, avvolta in uno scialle sformato.
Probabilmente l’aveva atteso spaventata a morte dopo essersi
svegliata e aver scoperto non aveva toccato il letto, fin quando non
l’aveva sentito correre da Andrew.
«Scusa,
Mel. Non volevo farti stare in pensiero. Ero stanco morto e mi sono
addormentato in soggiorno. Stasera le consegne non finivano mai»
si giustificò cominciando a spogliarsi.
«Non fargli promesse assurde. Per favore» bisbigliò.
«Non sono promesse assurde. Sta guarendo e merita un premio d’incoraggiamento» rispose sorridendo orgoglioso.
Sedette sul
letto, cercando di sfilare la canottiera: conosceva bene
l’apprensione di sua moglie così come sapeva leggere nei
suoi silenzi, e quello che seguì non gli piacque affatto. Rimase
a osservarla mentre continuava a dargli le spalle, immobile contro
l’infisso. Lo stava evitando, il che non significava mai buone
notizie.
«Melanie, che succede?»
Dapprima, la donna scosse la testa, poi si lasciò scivolare a terra singhiozzando.
«Gli
esami… non c’è… miglioramento. Andy non
guarisce più. È… è come… se si fosse
bloccato».
Le mani di Malcom s’irrigidirono sulla fibbia dei pantaloni, raggelate.
«P-però… non è neanche peggiorato» obbiettò.
«Se non ci sono miglioramenti nei prossimi due mesi… i dottori… hanno… hanno detto…»
«Cosa?»
domandò inginocchiandosi al suo fianco e prendendola per le
spalle. «Cos’ha detto i dottori, Mel?»
Lei
inspirò più volte, tentando di calmarsi, ma dalla sua
faccia era evidente che ciò che stava per dire era qualcosa di
troppo doloroso perché essere affrontato in qualsiasi modo.
«Lo escluderanno dal programma» riferì d’un sol fiato.
Quella frase
suonava come una condanna. Senza terapie, i respiri del loro bambino si
sarebbero spenti nel giro di pochi mesi. Come potevano fargli questo?
Con che coraggio gli avrebbero negato la possibilità di una vita
normale? Di una vita?
«No. Non
succederà. Andrew sta solo passando una fase. Una fase di
assestamento. Capita. Riprenderà a migliorare, vedrai» la
rassicurò, aggrappandosi con tutto se stesso alla speranza nel
cambiamento, che ormai riteneva la sua nuova fede.
Malcom
rifiutava di credere che i rivolgimenti cui stava assistendo portassero
frutto solo ad altri e non a suo figlio. Era assurdo, inconcepibile. Il
suo Andrew non poteva essere tagliato fuori da quell’ondata di
trasformazione: ne aveva diritto molto più di altri, non
potevano negarglielo solo perché la sua guarigione non seguiva
l’andamento delle loro stupide tabelle! Suo figlio era diverso
dagli altri pazienti, Andrew era speciale!
«E se…» mormorò con voce rotta Melanie.
«È
un combattente, un campione come Tyren Gunner: non parte bene e vince
sempre» s’intestardì abbracciandola, così che
soffocasse il dolore contro il suo petto.
Guardò
la porta della stanza di Andy, dirimpetto alla loro. La tenue luce
della lampada da notte scorreva sulle pareti e sulle tende, disegnando
piccole airship, bandiere a scacchi e corone d’alloro.
«Vince sempre. Sempre» ripeté tra sé.
***
«Buongiorno, signore».
Ostap levò gli occhi sul volto di Thomas, sfilando gli occhiali da lettura.
«Benedetto
figliolo, che faccia da funerale hai stamane! Qualcosa non va?»
chiese osservandolo posare la colazione all’angolo della
scrivania intarsiata di tartaruga e legni rari.
«I giornali di oggi» rispose atono, porgendoglieli.
Lui li
squadrò per un istante, in bilico tra curiosità e
scetticismo. Fu seriamente tentato di rimandarne la lettura a pranzo,
tuttavia l’espressione della sua guardia del corpo lasciava
presagire maretta. Decise pertanto fosse preferibile chiudere con il
capitolo diciotto de “Chirinda1.
La Guerra dei Diamanti Verdi”: avrebbe ripreso poi dal punto in
cui l’autore ipotizzava il metodo impiegato vent’anni prima
da Leonid Grigorjan per immettere le gemme illecite nel mercato dei
diamanti di Rostov, prendendosi il tempo necessario per appassionarsi
alle indagini.
«Di
grazia, non vorrai dirmi che si sono accaniti di nuovo contro il povero
Ostap Avelan e la signora Alexandra Stuart? Chi mai potrebbe avere
così poca creanza dopo la meravigliosa intervista rilasciata
ieri e il principesco buffet che è stato offerto per placare
anche gli animi più bizzosi? Dubito che persino
l’Imperatrice Caterina ne abbia mai dato uno tanto ricco, e loro
lo ricambiano in questo modo bieco?» commentò scorrendo le
pagine dei diversi quotidiani nazionali.
Molti
riportavano in pompa magna il resoconto della conferenza stampa condito
di fotografie sue, di Sandy, degli architetti e dei modellini del
museo. Svariate colonne riprendevano in maniera piuttosto dettagliata
l’intervista, sfoggiando le consuete sbavature e interpretazioni
che fungevano da gancio per quesiti, riflessioni, voli pindarici e
commenti da calunniatori e sostenitori inseriti ad arte. Nulla di
così sospetto da giustificare la cupa preoccupazione del suo
uomo.
«Qui vedo
solo elogi, Thomas; tanto per me e le mie copiose elargizioni
gastronomiche, quanto per l’esaustività della cara Sandy.
A quanto pare le sue maniere persuasive hanno scardinato anche le menti
più ottuse. D’altra parte quella donna sa il fatto suo,
era fin troppo facile immaginare che li avrebbe tenuti a bada. Clayotn
dovrebbe rivedere le sue posizioni e risposarla: donne così sono
delle autentiche benedizioni. Evidentemente io sono il solo a non
essere in grado di scovare una compagna capace di tanto»
sospirò abbattuto rigirando tra le dita un syrniki2.
Lo schiarirsi
la voce di Thomas rappresentò l’ennesimo campanello
d’allarme: replicava a quel modo solo quado la sua mente era
già proiettata verso la soluzione di qualcosa. E scrutando con
la coda dell’occhio la sua faccia d’ebano china sulla
teiera, Ostap comprese che l’ironia non avrebbe attecchito.
«Ma tu
non mi stai ascoltando. E quel broncio dice che dovrei leggere
dell’altro. Dove?» chiese rimestando la smokva3 nella sua graziosa ciotolina di vetro dipinto.
«Qui, signore. L’ultimo trafiletto» replicò indicando il fondo della pagina.
Un articoletto
di contorno richiamava i trascorsi poco puliti di Niklas Almgren, le
sue frequentazioni con gente assai poco raccomandabile, bordelli e
alcolici, proponendone un ritratto efficace e dettagliato, anche se non
del tutto corrispondente. Il reporter di turno era andato a scavare tra
chissà quali incartamenti, per riportare a galla quegli scabrosi
dettagli; di certo possedeva delle ottime fonti.
Lo sguardo di
Ostap corse al libro-denuncia sul fantomatico delinquente suo
connazionale. Un sorrisetto divertito gli curvò le labbra.
«Notevole
l’abnegazione che certi cronisti mettono nel loro lavoro, a
prescindere da chi abbia attirato il loro interesse. Notevole quanto
inutile: Niklas non è più a capo della
“Legendary” da anni, e i suoi trascorsi a livello giuridico
e finanziario fanno parte del passato. Si tratta di un accanimento
pericoloso, che potrebbe portare a conseguenze spiacevoli, dico
bene?»
«Benissimo» convenne Thomas versando il tè.
«Ciò
nonostante, le insistenti voci che vorrebbero questa faccia da sempre
coinvolta in chissà quali torbidi intrallazzi, ora le addossano
presunti accordi illeciti con figure non meglio chiarite delle
malefatte ormai lontane dell’Ingegner Almgren; il che farebbe
presupporre che l’intera operazione si regga su basi illegali e
funga da copertura per chissà quale orrendo crimine. È
questo che vorrebbe insinuare?» domandò passando una mano
tra i capelli lustri di brillantina.
«Sì, signore. È esattamente questo che viene riportato».
La smorfia
abbattuta di Ostap sarebbe potuta sembrare persino comica, se non si
fosse prestata attenzione all’improvviso serrarsi delle mani.
«Cielo,
mai un attimo di pace. Vorrei tanto godermi un po’ della
sacrosanta quiete della tundra siberiana, piuttosto del sibilare
continuo di questo covo di serpi. Ah, che splendore… renne
placide che costellano pianure che si stendono a perdita
d’occhio, vestite d’arbusti che ci deliziano con i loro
fruscii nella brezza. E magari dei deliziosi bliny appena fatti e
accompagnati con della semplice panna acida e caviale. E una goccia di
kvas di segale e miele. Trovo sarebbe quanto di meglio per scrollarsi
di dosso questi infimi veleni e chi ha la malaugurata idea di spargerli
su questo nome per proprio diletto. Chiunque sia non deve aver ancora
capito con chi ha a che fare. Non trovi, Thomas?»
«Vi
suggerirei di non prestare orecchio ai giornalisti. La legge è
dalla nostra parte, ogni sentenza emessa l’ha comprovato. Si
limitano a montare scandali per garantire la vendita dei
quotidiani».
«Un’idea
piuttosto trita e ripetitiva, mio caro. Mi da una noia terribile, sai?
Insomma, credo si potrebbe produrre buoni articoli scegliendo altri
argomenti, che magari attraggano maggiormente l’interesse delle
masse e non infastidiscano la mia bile. Gradirei così tanto
restasse al suo posto!» si lamentò, addentando la
frittella ben ricoperta di smokva.
«Ritiene di voler indire un’azione legale? Preparo gli incartamenti?» propose sollecito.
Era implicito nelle sue parole che avesse predisposto una parte di essi ben prima di riferire le notizie.
Il magnate si
allungò sulla poltrona, assaporando il dolce con estrema calma.
Di tanto in tanto i suoi occhi scuri salivano a incrociare quelli di
Thomas, che se ne stava rigido nel suo doppio petto grigio in attesa di
ordini.
«No.
Lasciamo alla gente i propri svaghi, per quanto fasulli essi siano.
Avrà presto qualcosa di più grandioso di cui parlare e al
quale rivolgeranno meravigliati gli occhi, dimenticando quelle inutili
macchie d’inchiostro maldicente» decretò
tamburellando con le dita sulle labbra arrossate dalla composta.
Congedò
con un cenno l’assistente e rimase a pensare, lisciando
distrattamente la barba mentre sorseggiava il tè. Oltre le
finestre binate del suo studio scorgeva l’angolo sud-est
dell’“Ultramarine Dove”. Riusciva a immaginare Aris
abbigliato di bianco, in piedi al centro dell’immensa vetrata,
che lo scrutava di rimando dal suo altissimo nido d’ombre.
«Ragazzo,
così non va bene» disse scuotendo il capo bonariamente,
quasi fosse un genitore che redarguiva il figlioletto capriccioso.
«Puoi giocare con me finché ti pare, ma devi star bene
attento a quale gioco scegli. Sono pochi quelli ai quali non so vincere
e da questi mi tengo alla larga: non c’è gusto a gettar
via le proprie risorse se non si ha qualcosa in cambio».
Versò
altro infuso e vi aggiunse un abbondante cucchiaio di miele, disegnando
arabeschi e cerchi concentrici sul fondo, picchiettando ritmicamente
lungo le pareti di ceramica.
«Soprattutto,
se vuoi giocare con me, devi stare alle mie regole. Non ho grande stima
di chi ne inventa di proprie. Credo però che tu questo lo sappia
già, o non staresti facendo le tue mosse. Non è
così, Aris?» e levò la tazza, chinando appena il
capo in segno di saluto.
1 Chirinda: minuscolo insediamento del Territorio di Krasnojarsk, nella municipalità di Ėvenkijskij Rajon.
2 Syrniki: frittelle a base di ricotta, da farcire a piacere.
3 Smokva:
dolce simile ad una composta di frutta, preparato con pezzi di mele
cotogne, prugne e sorbo o fichi (detti appunto “smokva”).
Writer's Corner
Ben arrtivata a TheWhiteDoll! Aspetto i tuoi commenti alla storia.
E grazie ancora ai lettori e recensori attuali: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga 1 e vita17.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** L.C. - Cap. 24 ***
L.C. - Cap. 24
24
Iron
fingeva interesse le tiritere politiche di Jeff, lo sfasciacarrozze.
Sapeva quanto amasse ascoltare il suono della propria voce e non
l’avrebbe privato di quel divertimento, purché sgombrasse
il loro deposito a tempo di record e gli fornisse un’utile
copertura per valutare la situazione.
«E
ora che Hernández si è preso la poltrona, voglio vedere
se manterrà le promesse o ci tratterà come i bastardi che
c’erano prima!» stava dicendo in quel momento.
«Insomma, questo ha fatto tanto la voce grossa,
popolo-popolo-popolo, ma adesso? Come la mettiamo con la droga che gira
per le strade? Nessuno è riuscito a toglierla prima, voglio
vedere lui! Tanto sappiamo che la mettono in giro i politici, che sono
tutti drogati e ubriaconi che vendono quella robaccia solo per mettersi
in tasca…»
L’arringa
di Jeff si trasformò in un brusio di sottofondo, mescolata agli
sbuffi acuti del braccio meccanico che artigliava la ferraglia.
L’attenzione di Iron era integralmente rivolta al cancello
d’ingresso, presidiato da una decina di giornalisti con relativi
fotografi e tirapiedi al seguito. La loro insistenza lo infastidiva
terribilmente. Se si fosse trattato di semplice curiosità verso
il lavoro dell’officina, non gliene sarebbe importato poi molto:
anni addietro alcuni giornali avevano prodotto lunghi articoli riguardo
ai mezzi che avevano elaborato per qualche celebrità. Ora era
diverso. Pareva che le airship fossero solo di contorno alle vicende
personali dello staff. Avevano già tirato in ballo la vecchia
vita di Scorch con tanto di atti processuali, rovistato negli atti
della separazione di Clay e Sandy additando i poveri pargoli come due
derelitti sicuramente turbati e sofferenti oltre misura, sbandierato ai
quattro venti la parentela di Jack No Way con Italico e Flash
Balzaretti, descritto Choncho e Maria Pilar come loschi immigrati dal
passato torbido e dai dubbi colpi di fortuna. Il fatto che fossero
state rivolte simili accuse aveva mandato Choncho in bestia a tal punto
che avevano dovuto chiuderlo per un paio d’ore nel bagno per
evitare che andasse in cerca del colpevole. Iron era sicuro che fosse
solo questione di tempo, prima che arrivassero a colpire anche lui. Non
si sentiva pronto ad affrontare i pregiudizi di un’intera
città, ma neppure si sarebbe nascosto. Gli piacevano gli uomini?
Sì. Si esibiva in un locale di drag queen? Verissimo. Era
felice? Ci stava provando. Ovviamente nessuno gli avrebbe domandato
delle sue competenze all’interno della società,
infischiandosene dei sedici anni di duro lavoro. Delmar doveva aver
intuito la sua preoccupazione e continuava a ripetergli con quel suo
faccione tondo e sporco di briciole che gli stava bene, che era quanto
spettava a uno schifoso finocchio invertito
come lui. Anzi, a suo giudizio era strano che non si fosse già
buttato nel fiume con una pietra al collo per risparmiare una
figuraccia alla “Legendary” e alla loro famiglia.
Jeff sobbalzò all’improvviso, strappandolo alle sue considerazioni.
«Chi ha urlato?»
«Non
ho sentito niente. Ti sarai sbagliato» rispose controllando
sull’indicatore della pesa la quantità raggiunta.
Per
assurdo, l’aumento delle scorie e dei ferrivecchi non era andato
di pari passo con quello delle attività dell’officina,
bensì era di molto inferiore. Se il lavoro era quasi triplicato,
la produzione di rottami inutili era di poco oltre la norma.
«No, bello. Ho sentito eccome! Qualcuno gridava» s’impuntò Jeff guardando attorno.
Eccettuato
Hito, intento alla pulizia dei suoi strumenti, e i giornalisti, non
c’era anima viva nei paraggi. Dall’officina arrivavano il
ritmico clangore della piegatrice e il battere di un martello.
«Jeff, tu stai troppo tempo attaccato al tuo bestione» lo canzonò.
«Beh,
veramente è lui che è attaccato a me!»
scherzò strizzandosi l’inguine con entrambe le mani e
prendendo a saltellare in maniera ridicola.
Con quei capelli neri e ispidi, sembrava un porcospino su un cavallo imbizzarrito.
«Ho sentito che stai preparando qualcosina di speciale» buttò lì Jeff, tornando a manovrare le leve.
Anche
lui partecipava occasionalmente alle serate del “Bull(es) de
mousse”: pur non essendo omosessuale, trovava estremamente
divertente esibirsi abbigliato come Lorna Giggs o Penny Valentine. Non
era particolarmente abile a livello canoro, ma poteva contare su buone
doti di caratterista che rendevano le sue performance memorabili, anche
quando si presentava sul palco con la barba di un paio di settimane.
«Vuoi qualche anticipazione?»
«Tanto
non me le daresti. Volevo solo la conferma. Sai com’è
fatta Brigit: a volte s’inventa le cose per obbligarci a darle
quello che pretende o per spingere le vedette a competere».
Iron si limitò ad assentire, portando il discorso su qualcosa di più interessante e di gran lunga meno stressante.
«Ieri sono andato a provare l’abito per la serata. Una bomba».
***
Clayon e Niklas stavano salendo le scale, scambiandosi impressioni riguardo la 7.201.
«È assurdo che i componenti dei diruttori costino così tanto!» rampognò il primo.
«No,
è assurdo che occorrano quattro mesi per averli»
contestò il cugino, sbattendo le dita sul plico che avevano
appena sfogliato. «Scherziamo? Le dime e gli stampi per la
realizzazione ex-novo sono reperibili in una settimana presso il
Deposito Brevetti della Colonia, è possibile farne copia entro
un tempo ragionevole e con costi di gran lunga inferiori. Non abbiamo
bisogno dei servizi della FinTrast, ce li faremo noi quei pezzi, con le
nostre mani» dichiarò fermandosi sul pianerottolo tra le
rampe, imitato dall’altro.
«Questa
cosa mi piace, anche se è un po’ rischiosa. Noi non siamo
una fonderia, le poche volte che ci siamo buttati su queste cose
è stato per piccoli elementi, non per un intero sistema
frenante».
«Vero,
ma parliamo di un mezzo che una volta sistemato non supererà le
tre miglia orarie. Sarà praticamente fermo» osservò
con velato sarcasmo, aggiustando il polsino della camicia.
Clay
lo fissò indeciso se ridere o darsela a gambe: col passare dei
giorni gli sembrava di ritornare all’adolescenza e ai primi anni
della “Legendary”, quando Scorch era una specie di dio in
terra che con una sola parola sapere riordinare il caos e lui solo un
ragazzotto sporco di grasso perfino nelle budella. Era felice per il
suo cambiamento, ma dentro avvertiva il bisogno di prendere con le
pinze la situazione: troppe volte suo cugino aveva dato segni di
miglioramento che poi erano crollati miseramente alla prima
difficoltà.
«Cosa intendi per tempo ragionevole?» domandò sperando di nascondere quei pensieri.
Niklas scorse le carte, osservando disegni e annotazioni.
«Direi…
incluso l’inoltro della richiesta e la ricezione
dell’assenso dal Deposito, l’acquisto del materiale da
usare, la colata stessa e tutto il resto… non più di
venticinque di giorni. Trenta al massimo, se dovessimo rettificare le
copie e qualcuna dovesse risultare fallata. Resta il fatto che se
ordiniamo già adesso il materiale per la fusione, entro un mese
al massimo avremo…»
Grida e un fragoroso tonfo esplosero contemporaneamente sopra di loro. Qualcuno urlava ancora.
Irruppero
nell’ufficio come due furie, pronti a qualsiasi cosa tranne
ciò che gli si parò dinanzi: nella stanza c’erano
solo Boy, Charlotte e LucyBelle.
La
donna era a terra, schiacciata sotto la finestra con gli occhi sbarrati
e le labbra livide. Tentava di respirare, ma dal suono strozzato che
fuoriusciva dalla sua gola, era evidente che le riuscisse a malapena.
Il lemure squittiva saltellandole intorno e allungando le zampe
anteriori sul suo viso, quasi volesse accarezzarla.
La
giacca di Jessie penzolava nel vuoto dalla botola sfondata del
sottotetto e lui stava rannicchiato tra le carte sparse a terra, un
braccio sulla testa e l’altro attorno alle ginocchia che teneva
strette al petto.
«Smettila! Smettila!» gridò lui agitandosi.
«Boy
finiscila di urlare, calmati» lo incitò Clay,
inginocchiandosi per cercare di scoprire se fosse ferito o solo
dolorante.
«Falla stare zitta! Zitta! Basta!» strepitò lui scalciando con la gamba destra.
Sembrava fosse attraversato da una scarica elettrica che lo faceva tremare violentemente.
«Charlotte!
Respira, Charlotte! Con calma, con calma» chiamò Niklas
sorreggendola. «Dio mio, che cazzo le hai fatto? Guardami,
Charlotte. Guardami. Tranquilla, andrà tutto bene».
«Dev’essere
asma. Bisogna aiutarla a respirare» fece distrattamente Clay,
ricordandosi della serata al City Garden.
L’ingegnere
allungò una mano verso la camicetta, ma un rantolo più
acuto dei precedenti lo costrinse a fermarsi, spaventato forse
più di quanto non fosse lei. Non voleva farle del male,
né approfittarsi in alcun modo della situazione. Si
vergognò dell’immagine orrenda che doveva averle dato in
quei due anni, così bassa e spregevole da terrorizzarla anche in
quel momento.
Boy piagnucolava in sottofondo, il lemure emetteva strani starnuti e Clayton taceva.
Cercò
di trovare le parole giuste per rassicurarla riguardo le sue
intenzioni, riuscendo solo a boccheggiare, gli occhi che guizzavano
come impazziti sul suo volto.
«Fermo».
Bastò
quella parola a farlo trasalire vistosamente, scansandosi
all’istante quando la mano di Odrin toccò la sua spalla.
«Le
è già successo. So cosa fare. Prendete Boy e portatelo
via, prima che lo strangoli» consigliò, cingendo le spalle
della donna.
Il
progettista non accennava a muoversi. Stava in ginocchio, a
domandarsi che diavolo ci facesse lì il loro addetto agli
interni.
«Andate.
A lei penso io» insisté l’Andull senza guardare
altri che la segretaria, che ricambiava tentando di prendergli la mano.
Clay agguantò il cugino per la giacca, trascinandolo indietro.
«Scorch, dammi una mano. Boy non sta in piedi».
***
«Che ci facevi là sopra?» domandò Clay, allungandogli un paio di pasticche di antidolorifico.
Boy
le inghiottì senza masticare né bere, abituato
com’era a ingurgitarle dopo ogni scontro con il caro Benny.
«Fatti miei» borbottò pulendosi le labbra con la manica.
Scorch
gli tirò un nocchino dritto sui piercing del sopracciglio
facendolo sussultare, per poi sistemargli sul ginocchio sinistro un
blocco di carne preso dalla ghiacciaia del cucinino.
«Non
direi. Ti sei quasi azzoppato e hai fatto prendere un accidente a
Charlotte! Sono fatti tuoi, suoi e anche nostri se lei non si riprende
e ci troviamo con un uomo in meno» lo sgridò. «Forse
non te lo ricordi Boy, ma qui siamo una squadra, lavoriamo tutti
insieme!»
Dall’armadietto
dei medicinali, Clayton spiò il cugino da sopra la spalla.
Cominciava a sentirsi in soggezione quando parlava a quel modo, e
sì che erano trascorse appena tre settimane dal suo addio
all’alcol.
«Ehi, paparino, non è mica morta!» sbottò inacidito l’apprendista.
Cazzo,
no. Cazzo che non era morta: mi ha sfondato la testa! Ma che diavolo
è successo? Scorch ha detto che non stava gridando quando sono
entrati, ma non può essere! Io l’ho sentita! rimuginò.
Aveva
avuto l’impressione di essere finito in mezzo a degli enormi
ingranaggi che l’avevano afferrato, stritolandogli il cranio.
Ogni grido che aveva udito gli era esploso dritto all’interno del
cervello, facendogli tremare persino le ossa dal dolore.
Cercò
di scendere dal lettino, ma l’uomo lo afferrò per le
spalle e lo inchiodò dov’era, fissandolo con rabbia.
«Resta
qui e non ti muovere, vado a rispondere. Se provi a fare un passo prima
che arrivi di Dottor Hernzt, guai a te» disse andando a
rispondere al telettrofono.
Era
chiaro che Charlotte non doveva essersi ancora ripresa dallo spavento o
quell’affare avrebbe smesso di trillare da un pezzo.
«Che ti prende, Boy?» domandò Clay avvicinandosi.
«Che
mi prende? Mi si è spappolato il cervello, capo. Vedi
tu…» sbottò trattenendo l’ennesimo conato.
«Non
fare l’arrogante o t’infilo qui dentro»
rispose mostrandogli la bacinella di metallo che teneva in mano.
Jessie
scrollò le spalle, colpevole. Aveva ragione: non c’entrava
niente con quanto era accaduto, stava solo preoccupandosi per le sue
condizioni.
«Scusami.
È solo che… davvero, mi si sta spaccando in due la testa.
Non volevo spaventare Charlotte. È stato un incidente».
«Però non mi hai ancora detto che ci facevi nel sottotetto».
Jessie
avrebbe voluto spiegarglielo, ma si sentiva un perfetto cretino. Non
aveva detto nemmeno a Ozone delle sue capatine lassù,
così decise di fornirgli solo una versione parziale di quanto
era accaduto.
«LucyBelle
mi ha fregato il portafogli e mi sono arrampicato sul tetto per
riprenderlo, sennò chissà dove lo cacciava. Sono entrato,
l’ho seguita, non ho visto la botola e… ecco tutto»
concluse mimando la caduta con le mani.
«Da dove sei passato per entrare nel sottotetto?» domandò accigliato il capofficina.
Occorse qualche istante, prima che l’apprendista decidesse di rispondere.
«Dalla
scala antincendio dietro la cucina. Su in cima c’è un
pannello mezzo svitato e sono entrato da lì. A proposito,
sarà meglio andare a sistemarlo o volerà via al primo
temporale. E mi sa che ce ne erano altri».
«Che ci facevi là? L’entrata della “Legendary” è dall’altra parte».
Il
ragazzo fece spallucce, tastando il ginocchio tra mille smorfie. Era
gonfio, probabilmente l’avrebbe fatto zoppicare per giorni, ma
non sarebbe stato un problema per il lavoro: aveva sopportato di peggio.
«Ozone
mi ha mollato a piedi da un po’ e la mattina arrivo da Carretera
Bruja, non da Amyngton Boulevard. Entro dalla portina vicino al locale
caldaie. Quando venivo con lui, non mi succedevano queste cose: a Lucy
non piace il rumore del suo trabiccolo. Oh, parli del
diavolo…»
Proprio
in quell’istante, il volto barbuto del maestro aveva fatto
capolino dalla porta dell’infermeria. Lanciò uno sguardo
preoccupato al discepolo coperto di polvere e con la gamba infagottata
alla bene e meglio, e ottenne una coppia di pollici levati senza
eccessivo entusiasmo.
Scorch si affacciò per annunciare a Clayton che Avelan era al ricevitore e voleva parlare anche con lui.
«Ho solo due orecchie e me le ha già distrutte» si lamentò, ricevendo uno sbrigativo cenno di assenso.
«Ozone,
dopo vieni in ufficio. Dobbiamo parlare tu ed io» annunciò
uscendo. «E ricomincia a venire con Boy, ultimamente stai
arrivando in ritardo» soggiunse mostrandosi piuttosto risentito.
Il
motorista annuì solenne lasciandolo passare e chiuse la porta.
Si avvicinò al ragazzo che l’osservava pieno di dubbi.
Rigirava un paio di bulloni tra le dita, spingendo i polpastrelli
callosi nei fori.
«Non
lo so. Non hai sentito Charlotte?» mugugnò strizzando gli
occhi per il fastidio, e Ozone negò cupo, accarezzando le trecce
facendogli segno di raccontargli l’accaduto.
Quando
poco prima il lamentoso richiamo di Boy l’aveva raggiunto al
piano di sotto, vibrando attraverso il parapetto del ballatoio, aveva
capito solo che era successo qualcosa di potenzialmente pericoloso per
la loro sicurezza. Ciò nonostante, non aveva immaginato ci fosse
di mezzo Charlotte, come ora gli stava spiegando.
«Non
è la prima volta che mi succede con lei, vecchio» ammise
sottovoce. «Quando è nei paraggi sento tutto amplificato,
è come se anche i muri fossero di ferro o d’ottone. Che
cazzo può essere? Qualche gioiello? Le stecche del corsetto? Ma
se è così, perché le sue sì e quelle di
Sandy o no? Sarà il materiale?»
Ozone
sedette pesantemente sul lettino, facendolo cigolare. Dalle prove che
avevano effettuato, Boy non era risultato insolitamente sensibile
all’oro, all’argento, al rame, al nichel, né alla
maggior parte dei metalli puri con i quali avrebbero potuto avere a che
fare per lavoro. La possibilità che la donna indossasse
frammenti di un metallo puro sarebbe stata accettabile se si fossero
potute reperire grandi quantità dello stesso: per scatenare una
reazione appena apprezzabile, sarebbe stato necessario che Charlotte
avesse addosso un blocco da almeno sei libbre di metallo, cosa di per
sé improbabile.
«Non
dire stronzate» rimbrottò Boy scoccandogli
un’occhiata in tralice. «Charlotte non andrebbe in giro con
certe cose infilate… insomma… lì».
La
sola idea era raccapricciante, sebbene degna delle molteplici
esperienze in campo erotico del suo mentore. Tuttavia gli era
impossibile anche solo accostare il nome della loro segretaria a
qualsiasi bislacco giocattolo sessuale. Persino azzardare che una come
lei s’intrattenesse in intimità con un uomo gli suonava
assurdo, quasi stesse pensando a una sorella maggiore o, peggio, a sua
madre.
«Ma dico, ti sembra il tipo che fa certi giochetti? E poi, con chi? Con Scorch? O con te?»
Affatto
contrariato dall’insinuazione, l’attempato meccanico fece
spallucce, ruotando i bulloni in un gesto eloquente.
«Ti
prego, risparmiami queste fantasie. Non voglio vomitare ancora»
rimbrottò il ragazzo. «Ozone, quella non me la racconta
giusta. Perché io la sentivo gridare, se Scorch ha detto che la
sua asma era così forte che nemmeno riusciva a respirare?
Nessun’altro l’ha sentita, neanche tu! Solo io!»
La
sua espressione contrariata e sofferente convinse il maestro ad
abbandonare gli scherzi. Si portò la mano alla gola e per lunghi
minuti Jessie rimase in ascolto, annuendo di tanto in tanto o
replicando a monosillabi, finché le mute riflessioni non ebbero
termine.
«E
se ricapita? E se anche lei comincia a sentirci?» domandò
sempre più allarmato. «Cosa facciamo?»
***
«Mi
secca dirlo, ma Scorch ha ragione. Dobbiamo allentare quei lacci e
farti respirare» disse sciogliendo il nastro attorno al colletto,
non appena ebbe chiuso la porta alle spalle degli altri.
Charlotte lo fissava tremando con gli occhi pieni di paura, pallida e incapace di reagire.
«Pensavi che l’avrei lasciato fare a lui?» scherzò, tentando di strapparle un sorriso che non venne.
Armeggiò
con i bottoni, facendoli passare uno a uno negli occhielli e fermandosi
solo per scostarle i capelli dalla fronte. Scostò i lembi della
camicetta, scoprendo la gabbia che stringeva il torace della donna. Non
si era aspettato nulla di diverso: un corsetto color corda, molto
semplice, quasi anonimo se non fosse stato per un sottile velo di pizzo
che ricopriva le fasce che sostenevano il seno.
Fece
scorrere la mano fino a trovare i lacci, curiosamente posti sul fianco
e non sulla schiena come avrebbero dovuto essere. Lei si morse le
labbra, mescolando lacrime agli ansiti. Continuò a fare cenno di
no con la testa, man mano che sentiva il corsetto allentarsi.
Rabbrividì con uno strilletto quando la mano di Odrin
s’insinuò sotto la crinolina, liberandola.
«Stai tranquilla: ho chiuso la porta a chiave, nessuno verrà a disturbarci. Avrai tutto il tempo per…»
Qualcosa
di duro e freddo premeva contro la camiciola, disegnando un arco sopra
il seno sinistro. Charlotte cercò di stringergli il polso. Lui
sorrise, mormorando parole in Andull per prenderla in giro e
rassicurarla. Scostò la stoffa sottile, scoprendo lo spesso
profilo di quella che pareva essere una borchia metallica grande quanto
una mano.
«Cos’è quello?» sibilò ritraendo di scatto la mano.
Lei si morse le labbra, cercando di respirare.
«Cosa sei tu?» ringhiò disgustato arretrando fin contro il divanetto.
«Odrin,
ti prego… lascia che… ti spieghi…»
ansimò, mettendosi a sedere con immensa fatica.
Le occorsero alcuni minuti per riuscire a calmare i capogiri e il timore che l’attraversava con ondate violente.
«Questo
è… il mio… cuore» esalò, i capelli
che ricadevano arruffati sul suo viso ancora pallido.
Le mani dell’artigiano si contrassero rapide in pugni che premevano rabbiosi contro i pantaloni da lavoro.
«Io… non ho più… un cuore. Da molto… molto tempo» disse stringendosi nella camicetta.
«Taci».
«Ho dovuto farlo. Era la sola possibilità per…» tentò di spiegare.
Leggeva
sul suo volto il profondo disgusto che la scoperta gli aveva provocato;
la terribile sensazione che Aggad potesse aver ragione in qualche modo:
lei non era degna di stargli accanto.
«Taci.
Stai zitta» le intimò arretrando. «Hai commesso il
peggiore degli abomini. L’atto più depravato che si possa
immaginare. Violare la sacralità di un corpo, corromperne la
perfezione sostituendo una parte con una macchina!» latrò.
«Ma io dovevo…»
«Taci!»
La
sua voce era appena più alta del solito, ma intrisa di una tale
rabbia da renderla assordante quanto un boato. LucyBelle rizzò
il pelo per la paura e si nascose alle spalle di Charlotte.
«Non potevo dirtelo… Avevo… Ho paura» singhiozzò.
Avere
una protesi meccanica al posto di un arto era una cosa che la gente
accettava con tranquillità, ma la sostituzione di un organo con
un congegno era una pratica che suscitava sdegno e ostilità:
troppo spesso ci si era imbattuti in uomini che avevano usato apparati
simili per commettere crimini, torturare o, peggio ancora, per
imbrigliare i poteri dell’alchimia. E il solo sospetto di
quest’ultima garantiva un biglietto di sola andata per la
prigione di stato.
Il
silenzio si fece denso e pesante. LucyBelle sporse il muso osservando i
due che, immobili come statue, affrontavano lo scorrere dei secondi e
dei minuti in attesa di qualcosa.
Le
lacrime bagnavano le guance di Charlotte, spossata e afflitta. Odrin
camminò per la stanza, in preda ad una rabbia mai provata prima.
Sentì un profondo ribrezzo per il ticchettare delle condotte che
dalle caldaie passavano sotto il pavimento: aveva l’orribile
sensazione che ingigantissero l’eco di quel congegno perverso
ammorsato nelle carni della donna.
«Non avere paura. Non averne più» disse fermandosi d’un tratto accanto alla porta.
Improvvisamente la sua voce era tornata calma. Si voltò con lentezza, inspirando profondamente.
«Dimentica tutto. Anche me. Non voglio avere niente a che fare con una retch».
Charlotte sbarrò gli occhi, atterrita. Nella tradizione Andull, le retch
erano esseri malvagi e deformi, spiriti femminili erranti che
seducevano gli uomini per impossessarsi della loro l’anima,
soggiogandoli a piacimento; creature che si mutilavano per ricomporre
il proprio corpo usando immondizia, pietre, cadaveri e tutto ciò
che aveva ormai cessato di vivere.
«Come hai potuto nascondermelo?» le domandò atono, gli occhi grigi svuotati di ogni affetto.
«Per
favore, Odrin… ascoltami…» lo supplicò, ma
l’artigiano aveva già fatto scattare la serratura.
Writer's Corner.
Grazie a tutti i lettori e recensori, sia "in chiaro" che occulti. E ben arrivato (arrivata?) ad AleGritti92. Aspetto i tuoi commenti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** L.C. - Cap. 25 ***
L.C. - Cap. 25
25
Sandy non riteneva necessario ordinare una torta sfarzosa per il compleanno del redivivo.
Né tantomeno che dovessero essere loro ad acquistarla: avrebbe
dovuto pensarci Scorch, per ripagarli di tutti i macelli che aveva
combinato in quegli anni. Ciò nonostante aveva acconsentito alle
pretese di Clay, nella speranza di togliersi dalla testa la ridda di
domande che i cronisti le rivolgevano a ogni apparizione. In genere
amava stare in mezzo a loro, trascorrere ore tra il grattare delle
penne e i lampi dei flash, rispondendo alle più stupide domande
per lasciarli a sfoggiare sorrisetti tonti e taccuini colmi, ma da
quando erano stati messi di mezzo i suoi figli era diventata una belva.
Le insinuazioni riguardo al loro mancato benessere o eventuali gravi
problemi psicologici dovuti alla separazione erano stati molto
più che un colpo basso: un’autentica calunnia, vilipendio
gratuito e già in via di risarcimento grazie
all’intervento degli avvocati.
Portare i ragazzi a fare due passi nel Core, dove la presenza capillare
di guardie e polizia garantiva un minimo di privacy e rispetto, avrebbe
potuto tramutarsi in una piacevole abitudine di lì al termine
del contratto. Avrebbero potuto persino chiedere a Clay di
accompagnarli di tanto in tanto, per stare tutti insieme come se
fossero stati ancora una famiglia nel senso pieno del termine.
Un’altra volta. Un’altra volta glielo diremo,
pensava mentre fissavano una delle splendide vetrine de “Le
Gâteau Carrousel”, dove sette meravigliose, colossali torte
stavano in bella mostra sulle alzate. Junior aveva già espresso
un centinaio di volte la ferma intenzione di volerle assaggiare tutte
per stabilire quale fosse la più adatta allo zio. Bonnie aveva
criticato la fattura di ogni decorazione, il loro colore, numero,
stile, la composizione globale di ciascun dolce. Dal canto suo, Sandy
aveva contestato ogni singolo méit riportato sull’ultima
riga del cartellino che elencava le peculiarità di ciascuna.
Ottanta trias per una torta di compleanno erano francamente troppi,
anche se era alta cinque piani, pesava quanto Pancake, era farcita di
ogni crema possibile, guarnita con ogni prelibatezza immaginabile ma,
soprattutto, trasudava rum - cosa ormai tassativamente proibita.
«Alexandra» chiamò una voce alle loro spalle.
Poco lontano c’era Aris. Li stava osservando comodamente seduto
nel retro della sua elegante Plithren Gaeti, i cui interni candidi e la
carrozzeria perlacea davano l’impressione che fosse assiso su una
nuvola. Il suo sorriso cortese occhieggiava nella penombra sottile.
«Aris! Che sorpresa» e la sorpresa era autentica.
Vederlo fuori del suo elegante palazzo a quell’ora del pomeriggio
era una rarità: in genere conduceva i suoi affari dai piani alti
dell’“Ultramarine Dove”, in un via vai di avvocati,
banchieri, politici e investitori.
Scese dall’airship e li raggiunse, muovendosi come se danzasse.
«Immagino che loro siano i tuoi figli. Bonnie e Clayton Junior.
Sono molto cresciuti dall’ultima volta che ho avuto il piacere
d’incontrarli».
«E tu chi sei?» s’intromise Junior, frapponendosi a braccia conserte nella migliore imitazione del padre.
In genere Sandy si sbellicava dal ridere davanti a quella scena,
provata decine di volte tra le mura della “Legendary” alle
spalle di un ignaro Clay, ma non quel giorno.
«Domando scusa per la mia scortesia, giovane Lomann»
sorrise placido l’uomo. «Aris Theodoros Goundoulakis. Molto
piacere» rispose tendendo la mano guantata che Junior strinse
dubbioso.
«Ma che nome è? Ti chiami come l’orsetto di mia sorella!» rise storcendo il naso.
«Bugiardo! Non è vero!» strillò Bonnie prendendolo a pugni sulle spalle.
«Lei dice che è grande ma ci dorme ancora insieme! Theo! Theo!» insisté cercando di difendersi.
«Smettila!»
Sandy non ebbe la forza di zittirli, troppo imbarazzata per trovare una
frase adatta a giustificare la pietosa scenetta. Aris, tutt’altro
che inorridito, provvide a riportare la calma al posto suo.
«Una domanda lecita» convenne con un elegante colpetto del
bastone all’indirizzo del bambino. «I nomi greci sono
piuttosto insoliti da queste parti. Greco della città di
Kalámata, per la precisione; città senza dubbio onorata
che un suo nativo condivida il proprio nome con un oggetto tanto caro a
una graziosa fanciulla».
A quelle parole Bonnie smise di colpire il fratello e si ricompose con
un sorriso imbarazzato: nessuno l’aveva mai chiamata così.
«Posso avere il piacere?» domandò Aris, indicando
con un ampio cenno del braccio le vetrine della pasticceria.
Gesto che trovò pieno accoglimento nei giovani ospiti, un
po’ meno nella madre che fissava la figura appoggiata
all’airship alle spalle di Aris, non abbastanza lontana da essere
sopportabile. O innocua.
L’ospite non ebbe bisogno si seguire il suo sguardo e sorrise, aggiustando un guanto.
«Non preoccuparti, starà al suo posto. Non è così Clench?» domandò senza voltarsi.
«Sì, sì. Certo» biascicò spingendo con
la schiena contro la fiancata del mezzo, che oscillò pigro
nell’aria. «Me ne sto qui buono buono a sudare come un
porco per i fatti miei».
«Scusatelo. Stiamo ancora lavorando alle sue maniere» disse facendo strada.
Un cameriere li scortò al tavolino centrale della sala da
tè, da dove si godeva una splendida vista su ogni ripiano,
vassoio, alzata o vaso colmo di delizie.
«Vi prego, non siate timidi. Scegliete liberamente» disse
indicando ai ragazzini l’immensa esibizione di leccornie.
«Se accettate un consiglio, qui preparano una deliziosa mousse al
cioccolato con granella di fave di cacao tostate e lamponi in foglia
d’oro».
«Cioccolato?» domandarono in coro, sgranando supplichevoli gli occhi verso la madre.
Non riuscivano a credere alle loro orecchie: avevano appena ricevuto
l’invito ad assaggiare uno dei cibi più paradisiaci e
costosi al mondo, come se si trattasse di una semplice tartelletta al
caramello e burro d’arachidi.
«Aris, preferirei che…»
«Per favore, Alexandra. Mi sono intromesso nella vostra
passeggiata e so quanto tu abbia a cuore la loro serenità in
questo momento. Leggo con grande attenzione i giornali e mi fa
rabbrividire la mancanza di rispetto che sanno mostrare. Il minimo che
possa fare è offrire qualcosa che renda scusabile la mia
intromissione. Qualcosa di pari valore o… golosità»
spiegò e i ragazzini annuirono all’unisono, implorando con
grandi sorrisi che desse retta al loro nuovo idolo.
«E va bene, ma non esagerate!» li ammonì.
Li guardarono correre avanti e indietro lungo l’esposizione,
saltellando per allungare il collo fino ai ripiani più alti,
scambiando pareri e lasciando impronte su tutti i vetri, mentre un
solerte cameriere portava al tavolo del tè freddo.
«Mi stai tenendo d’occhio, Aris?»
«Cosa te lo fa credere, se posso saperlo?»
«Proprio quello che hai appena detto, oltre al fatto che detesti
il sole» osservò passando un dito sul bicchiere.
L’uomo sorrise, scostando una ciocca bionda dal viso.
«Purtroppo sei in errore, Alexandra. Non è te che sto
osservando, anche se non nascondo d’aver spiato di tanto in tanto
nella tua direzione».
«Allora si tratta di Ostap».
Le iridi scure del magnate si fecero torve in maniera impercettibile,
dettaglio che tuttavia non le sfuggì. Si sistemò sulla
sedia, giocherellando con la chiusura della borsa.
«Credi che stia nascondendo qualcosa?» domandò scrutandolo di sottecchi.
«Dimmelo tu. Nasconde qualcosa?»
Sandy prese tempo bevendo una lunga sorsata.
«Sappiamo tutti che razza d’opportunista sia Ostap:
fiuterebbe affari persino nelle fogne e l’ha dimostrato quando
otto anni fa rilevò la gestione degli scarichi del comparto
industriale per renderli una miniera d’oro. Persino le tue
attività sversano denaro nelle sue tasche. Comunque dubito ci
sia dell’illecito, almeno per ciò che riguarda i suoi
rapporti con la “Legendary”. I documenti che ho potuto
visionare sono in ordine, lo stesso vale per i pagamenti. Per il resto,
non saprei che dirti».
Lui emise un sospiro appena percettibile, la mente persa in calcoli e
riflessioni. Scrutava distratto i bambini, ora presi dalla
contemplazione di un’alzata di frutta candita, e il suo volto si
distese in un’espressione amara.
«Sembri deluso. Speravi di scoprire se dar credito a tutti quelli
che l’hanno accusato di corruzione, estorsione, truffa e traffici
illeciti?»
«Stiamo parlando di un grosso imprenditore, Alexandra. Un uomo
che gestisce un impero finanziario di tutto rispetto e del cui passato
si conoscono solo racconti frammentari. Persone di questa risma non
hanno l’anima candida come quella dei tuoi figli»
sottolineò indicandoli appena.
«Si potrebbe dire lo stesso di te».
Anche Aris era finito sul banco degli imputati in diverse occasioni e
non sempre ne era uscito indenne: di solito si trattava di spionaggio
industriale, insider trading e corruzione, ma tra i capi d’accusa
figuravano qualche aggressione e vecchie storie di spaccio di
stupefacenti. Sebbene non avesse trascorso neppure un’ora in
carcere o ai servizi sociali grazie all’abilità dei suoi
uffici legali, copiose ammende avevano attinto dal suo patrimonio nel
corso degli anni. Diversamente da altri però Aris ne parlava con
calma e distacco, quasi si trattasse di passaggi obbligati nella vita
di un industriale d’alto livello.
«Sì, hai perfettamente ragione» ammise, scrutando
impassibile nel pomo di cristallo del bastone da passeggio. «E
proprio perché ciò che hai detto corrisponde al vero, ti
pregherei di essere il più prudente possibile. Avelan
sarà un appassionato di airship e denari, e difficilmente si
potrebbe non provare affetto per la sua persona, ma può
rivelarsi una bestia nera per chiunque. Sa bene che gli affari sono
affari, non si farà scrupoli per ottenere ciò che
desidera, a maggior ragione se coincide con le sue passioni o i
suoi… svaghi».
Aveva parlato senza mai tradire alcuna emozione, come se parlasse del
tempo o del traffico lungo i viali del Core, eppure Sandy ebbe la
sensazione che stesse tacendo riguardo ciò che aveva più
a cuore.
«E se dovessi imbattermi nel lato oscuro di quel chiacchierone,
cosa dovrei fare? Chiamarti in mio soccorso?» lo stuzzicò
e lui annuì lentamente.
«Anche se so che tuo marito mi ucciderà per questa richiesta».
«Clayton non è più mio marito» precisò
poco convinta. «E comunque, potrebbe ucciderti per aver offerto
la merenda ai ragazzi. Anzi, è strano che non sia già qui
a riempierti di pugni».
«Forse la mia dimostrazione dell’ultima volta con Clench
l’ha fatto desistere» scherzò abbozzando una guardia
pugilistica.
«Picchiare quell’idiota non è una prova di forza così efficace, sai?»
«Mamma, Junior vuole venire a lavorare qui!» rise Bonnie tornando di corsa a sedere.
«Voglio fare le torte, così poi me le mangio tutte io e
posso mangiare il cioccolato!» annunciò il fratello
sbracciandosi entusiasta.
Sandy si finse stupita: ormai suo figlio cambiava idea riguardo al proprio futuro ogni dieci minuti.
«Come? Non volevi lavorare alla “Legendary” con papà?»
«Faccio anche quello!»
«E come? Meccanico la mattina e pasticcere il pomeriggio?»
«Potrebbe fare delle airship di cioccolato, però grandi
come quelle vere!» suggerì Bonnie, indicando un minuscolo
modellino decorato in pasta di zucchero, proprio al centro della
vetrina.
Somigliava a una P-Box Leaf, anche se il muso era decisamente troppo
basso e l’anello caudale troppo voluminoso per essere una fedele
riproduzione.
«Bello! Mamma voglio fare il meccanico pasticcere qui dentro!
Posso farla meglio quella! La faccio che sembra vera e i metto il
motore, così va in giro!» esclamò deciso.
«Vuoi farla qui dentro?» domandò guardando i
numerosi tavolini e il grande bancone che occupavano la pasticceria.
«Non so, Junior… Bisognerebbe chiedere al proprietario se
trova interessante la tua idea e se può cominciare da ora a fare
spazio per il tuo hangar, per quando avrai imparato a fare dolci».
«Mi serve un posto gigante come la “Legendary”, con
il carroponte per metterci su le torte quando le faccio! E il forno
più grosso della stanza per verniciare di Hito. E voglio tanti
tavoli per mettere tutte le cose che vanno sulle torte! E dei bidoni
grossi così con la crema! E il cioccolato!»
dichiarò allargando le braccia quanto più gli riuscisse.
Aris, dal canto suo, aveva ascoltato con interesse le richieste, sorseggiando il tè.
«E quale sarebbe il problema?» chiese posando con
attenzione il bicchiere. «Questo posto è mio, lo
farò allargare quanto ritieni necessario».
***
Pancake si chiuse a chiave nel bagno degli spogliatoi, sbatacchiando
ovunque uno dei contenitori che occupavano il suo armadietto. Rimase in
ascolto, l’orecchio appiccicato alla porta in attesa di captare
una qualsiasi intrusione.
Sedette sulla tazza, frugando nel risvolto dei pantaloni da cui prese un tubicino di cartone.
Prese un grosso muffin ai mirtilli dalla scatola e
l’appoggiò in bilico sulle ginocchia dopo averlo aperto
quasi a metà. Ruppe il fragile sigillo di cera del tubetto, che
scosse sul dolce su cui si depositò una sottile polvere
grigio-verde. Nonostante avesse le mani sporche di grasso e carbone,
sparse il pulviscolo con la punta delle dita, spingendolo nelle
cavità del dolcetto, mescolandolo alla crema che racchiudeva.
«Ecco qui» ansimò, leccando famelico le labbra. «La ciliegina».
Richiuse il tubo, strofinando la cera fino ricompattarla, e lo ripose nel nascondiglio.
«La ciliegina su tutto quanto» gongolò addentando il muffin.
***
Maria Pilar aveva superato se stessa. Per i cinquant’anni di
Scorch aveva prodotto una tale quantità di manicaretti da far
invidia alla cucina dell’“Archituono”:
un’immensa teglia d’agnello grigliato e una altrettanto
capiente di polpo e merluzzo in umido, pollo con sedano e mandorle,
uova ripiene, tortillas farcite di ogni ben di Dio, il tutto
accompagnato da mantequilla a la mostaza e a la anchoas1, purè di patate dolci e di cavolfiore, paté de ricotta y atún2,
insalata mista, fagioli neri piccanti e verdure alla brace. E il fatto
che avesse preparato tutto da sola, senza alcun aiuto, aveva del
miracoloso.
«Perché per il mio compleanno non c’era tutto
questo, mama?» protestò risentito Choncho, frugando nella
cesta di panini in cerca di quello adatto a iniziare l’abbuffata.
«Nicolau compie cinquant’anni, niño. Tu ne hai solo trentatré, come Nostro Signore».
«Mama! ¿Estás loca?» gridò portando le mani all’inguine, per poi farsi il Segno della Croce una ventina di volte. «Dios, perdónalas porque ella no sabe lo que dice».
«Capito, niño?
Porta rispetto ai grandi» ridacchiò Scorch, con
l’aria di divertirsi un mondo mentre sedeva a capotavola al posto
di Clay.
«Comunque Choncho ha ragione, Maria» osservò il
capofficina, impensierito e con l’acquolina alla bocca. «I
sabati ci servono per restare alla pari con il resto del lavoro, non a
ingozzarci come tacchini! Con tutta questa roba nello stomaco non
combineremo niente oggi. Finiremo a dormire negli angoli».
«Allora a Jack cambia poco, lui dorme sempre!» ridacchiò Junior.
«Cosa? Per una volta che voglio star sveglio!» protestò.
Inutile dire che tutti i commensali cercarono di fare onore alla cucina
della cuoca e al festeggiato, vuotando i piatti a più riprese e
scambiandosi cenni d’intesa per tutta la durata del pranzo.
Niklas li aveva notati e supponeva avessero a che fare con
l’entrata in scena del suo regalo, ma quando vide di cosa si
trattava rifilò loro uno sguardo omicida: era una bottiglia di
bourbon.
«Stai calmo e non farti saltare le coronarie. L’abbiamo
svuotata ben benino, ripulita e riempita con qualcosa di più
adatto al nuovo te» chiarì Patch.
Charlotte guardò Odrin dondolarsi sui talloni, ridacchiando alle
battute dell’amico. Ormai la ignorava da più di una
settimana: sembrava davvero intenzionato a tener fede al proposito di
cancellarla dalla sua vita.
«Sciroppo per la tosse? Non saremo un po’ fuori
stagione?» domandò perplesso dopo aver annusato il
contenuto.
«Beh, che ti aspettavi? Sei vecchio» chiarì Jack stiracchiandosi.
«È sciroppo alla menta, quello che la mamma usa per le
granite. Così, se hai sete, non bevi schifezze ma questo con un
bel bicchierone d’acqua» spiegò Bonnie
abbracciandolo. «Io lo volevo alla fragola ma papà ha
detto che non era “abbastanza da uomo”»
mugugnò facendogli il verso.
«Oh, non importa Bonnie» la consolò. «Qualcuno
mi ha detto che per vendicarti hai messo lo zampino nella torta insieme
a Click-Clack».
«Mamma voleva prenderti la torta di mele, ma noi ne abbiamo
scelta una più bella» spifferò il bambino,
reclamando il proprio turno di abbracci.
«Ma dai? Non l’avrei mai immaginato».
Finalmente dalla cucina fece la sua comparsa la torta: uno spesso
rettangolo ricoperto di panna montata, granella di nocciole, polvere e
chicchi di caffè tostati, su cui svettava una grossa candelina a
forma di botte da whiskey sfondata e stillante salsa al caramello,
sulla quale era impresso il numero cinquanta. Benché Maria Pilar
avesse inizialmente fatto storie per non aver potuto preparare anche il
dolce, ammise che difficilmente sarebbe stata in grado di realizzare un
simile capolavoro.
«Hai espresso il desiderio giusto, Nicolau?»
cinguettò la cuoca, asciugando commossa gli occhi col grembiule
dopo averlo guardato spegnere la candelina tra mille sceneggiate.
«Ne sono più che sicuro» la rassicurò ammiccando.
«Basta che non sia altro lavoro, perché a me esce dalle
orecchie!» protestò Boy, battendo con la forchetta sul
piatto in attesa della fetta.
«Tranquillo, marmocchio. Ho solo chiesto di avere un altro regalo» ribatté sornione.
Il suo sguardo si mosse senza esitazione verso Charlotte, che trasalì.
«C-cosa?»
Guardò intorno, sperando d’aver frainteso. Tutti
però mimavano ridendo un bacio, anche i bambini. Persino Sandy,
che si era sempre detta stomacata dal fatto che lui tentasse di
corteggiarla, si era unita al gruppo. Solo Odrin la guardava
impassibile, distante, quasi annoiato.
«Andiamo, Charlotte. È il suo compleanno,
accontentalo» la incitò bonario Hito, sbocconcellando
nervoso una fetta di pane.
«Sì, almeno potrà farsi una sega pensando a
qualcosa che ha provato davvero» insisté Patch, subito
messo a tacere da una gomitata di Iron.
«Ormai è totalmente inoffensivo» sottolineò
Clay, mettendole una mano sulla spalla e sospingendola verso il
festeggiato.
«Che vorresti dire?» rimbrottò Scorch.
«Beh, hai raggiunto il mezzo secolo, sei buono solo per la stagionatura. O per la discarica» sghignazzò.
«Guarda che le cose stagionate di solito induriscono e vengono
apprezzate più di quelle fresche» commentò a mezza
voce Sandy.
Clay fece una risatina acida, chinandosi verso la ex-moglie.
«Lo so. E so bene quanto le apprezzi» puntualizzò, posandole non visto la mano sul fondoschiena.
«Vai-al-dia-vo-lo» scandì sorridendo mentre gli piantava un tacco nello scarpone.
Fu solo grazie al puntale di metallo che il piede non finì passato da parte a parte dal suo stiletto.
Intanto Charlotte si era fatta largo tra tentennamenti e battute
sarcastiche, raggiungendo l’ingegnere che lisciava la camicia con
evidente soddisfazione. Scorch la prese fra le braccia e dopo aver
strizzato l’occhio alla compagnia, improvvisò un
casquè.
«No!» gridò lei aggrappandosi alle sue spalle.
Attorno, tutti sghignazzavano e si producevano in ridicole pantomime,
ululando come selvaggi, mentre Sandy e Maria Pilar cercavano
inutilmente di rimettere ordine a suon di rimproveri. Bonnie si era
coperta la faccia con le mani e Junior dava loro le spalle, schifato.
«L-la… mia schiena… Ingegnere. Sono g-giorni che…» mentì.
L’uomo la risollevò con cautela, aiutandola a rimettersi in piedi e tenendola stretta a sé.
«Non c’era bisogno di gridare: ci sento ancora bene
nonostante quello che dicono questi simpaticoni. Bastava mi dicessi di
non fare il cretino».
Lei sorrise, le guance ancora arrossate. Accennò appena una
risatina quando lo vide sporgersi un poco, indicandosi la guancia. Fino
all’ultimo istante ebbe il timore che si sarebbe voltato,
approfittando dell’occasione per baciarla sulle labbra, ma non
fece nulla del genere, meritando un lungo applauso dagli amici.
«Buon compleanno, Ingegnere» mormorò sollevata.
Stava per tornare accanto a Sandy, quando sentì che l’uomo la tratteneva ancora per il braccio.
«Posso chiederti un altro regalo, Charlotte?» azzardò cercando di raggiungere la sua mano.
«E tanti saluti al nuovo Scorch» ridacchiò Clay
scrollando le spalle. «Per caso questo regalo prevede l’uso
della lingua?»
Il cugino rise, lasciando cadere indietro la testa.
«Assolutamente sì, ma non come intendi tu, caro Signor Penso Sempre Male»
lo riprese, sollevando la mano della segretaria fra le proprie in un
gesto decisamente galante e romantico. «Charlotte, mi farebbe
immensamente piacere se tu…»
«Aprissi la bocca…» cantilenò una voce interrompendolo.
«Smettila, Patch» lo riprese Iron, scandendo sottovoce: “i bambini”.
«Ha ragione. Intendevi le gambe, Scorch?»
«Willie!» urlò inviperita Maria Pilar, rifilandogli uno scapaccione in testa.
«Scherzavo, mama! Scherzavo!» piagnucolò rimettendo a posto la bandana.
«Malcriado! Hay los niños!»
La goffa risata bofonchiante di Ozone fece voltare tutti. Era talmente raro udirlo emettere suoni da lasciare interdetti.
«Ignoratelo, per piacere» supplicò Boy, passandosi una mano sulla faccia.
«Dicevo,» riprese Scorch alzando la voce, «che mi
farebbe piacere se volessi finalmente chiamarmi Niklas».
La segretaria era indecisa. Seguitava a guardarsi attorno, trovando
solo facce divertite e impiastricciate di cibarie. Pareva che
l’intera “Legendary Customs” si fosse schierata
contro di lei; persino Maria Pilar annuiva con le guance arrossate da
un materno imbarazzo. Odrin era una sfinge nera, un’indecifrabile
ombra d’inchiostro. Tornò a guardare l’uomo che
attendeva una risposta, trepidante come un bambino a Natale.
Alla fine, levò arresa gli occhi al soffitto.
«E va bene…» sospirò aggiustando gli occhiali con la mano libera, «Ingegner Niklas».
L’intera truppa scoppiò a ridere e a urlare, battendo le
mani. Maria disse che era stata una scena persino più esilarante
della gag del carciofo ne “Le porte di Backfield Road”.
Lui, dopo un primo attimo di perplessità, si unì al
gruppo, scuotendo il capo e ammonendo Charlotte con l’indice.
«D’accordo! D’accordo! Mi ritengo soddisfatto. Adesso però datemi quella dannata torta!»
1 Mantequilla a la mostaza e a la anchoas: burro di accompagnamento alla senape e alle acciughe.
2 Paté de ricotta y atún: paté di ricotta e tonno.
Writer's Corner.
Vedere il
numero delle letture e delle recensioni aumentare mi rende molto
felice, soprattutto considerando che questa storia era partita in
sordina.
Ben arrivata a VersoLUniverso. A te è inutile dire che aspetto commenti, dato che ti stai dando da fare a rimetterti in pari!
Grazie agli altri lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll e AleGritti92.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** L.C. - Cap. 26 ***
L.C. - Cap. 26
26
Le chiamate al
mattino presto infastidivano profondamente Paul, specialmente nel suo
giorno libero. Tuttavia doveva ammettere che alle levatacce impreviste
corrispondessero spesso dei copiosi extra in busta paga, molto graditi.
Aris
l’attendeva nello studio, di fronte alla grande vetrata,
appoggiato all’immancabile bastone da passeggio. Da qualche
tempo, durante le loro riunioni, gli vedeva indossare solo i calzoni.
Era magro e pallido da far spavento, tanto che costole e vertebre
disegnavano orribili arabeschi violacei sul suo torso, solo in parte
nascosti dalla lunga chioma bionda; mani e piedi erano ancor più
rinsecchiti, tanto da aver assunto un colorito opaco e giallastro.
Eppure non sembrava soffrire chissà quali dolori o patimenti.
«Giovedì
si terrà una serata di beneficenza indetta dal nuovo
Governatore» annunciò indicando la busta posata sul
divano, accanto ai suoi abiti. «Hernández ha intenzione di
invitarci da subito a dar prova del sostegno che daremo alle sue idee
mentre solletica il nostro ego con pasticcini e champagne».
«Per
essere al primo mese di incarico ha già capito come sfruttarvi:
pancia piena e portafogli vuoto. Mica male per un “onesto
cittadino”».
«Non sei
pagato per esporre queste ovvietà» l’avvertì
Aris, portando sul petto una ciocca di capelli.
«Pensi che ci sarà Avelan?»
«Quale
migliore palcoscenico per pavoneggiarsi e mettere in mostra la sua
opera? È un’occasione troppo ghiotta per farsela sfuggire.
Inoltre ci sarà Alexandra. Conto su di te perché qualcun
altro partecipi con lei alla serata, dato che non vorrei sollevare un
inutile polverone con il suo socio in affari».
«Pensavo che Scorch non…»
Il volto
diafano del greco lo fissò tra gli aloni rosati dell’alba,
serio ed impassibile, incorniciato da quella ciocca che somigliava ad
un serpente addormentato. Sembrava essersi tramutato in una di quelle
statue antiche che si vedevano nei musei.
«Oh…
la pollastra» sogghignò, sfregandosi le mani. «Pensi
che abbia qualcosa di interessante da dirti sui movimenti del
russo?»
Le labbra di Aris si sollevarono, disegnando pozze scure sotto i suoi occhi.
«Il
nostro gentile amico ti ha fatto sapere che Avelan la porta in palmo di
mano, proprio come abbiamo avuto modo di verificare al City Garden.
Sono certo che la sua presenza sarà di grande utilità,
ben più di quanto tu possa immaginare» aggiunse con
l’aria di chi si trovava molti passi avanti rispetto
l’interlocutore.
«Basta che lo sai tu. Io faccio solo il galoppino».
«Sia
chiaro: alla festa dovrai restare al tuo posto. Niente assalti alla
signorina Vernet, di nessun tipo. Gestirò di persona i rapporti
con la responsabile amministrativa della “Legendary”.
Supervisionerai la serata intervenendo all’occorrenza, e solo su
mio ordine diretto, proprio come è stato con i figli di
Alexandra. Questo è quanto» concluse parlando al bastone
da passeggio che faceva ruotare lentamente fra le dita.
Ad ogni parola il suo tono si era fatto più lieve, ilare.
«Ti fa ridere vedermi fare la tappezzeria?» domandò seccato, reprimendo a fatica uno sbadiglio.
«Ripensavo
ai figli di Alexandra» replicò dondolando da un piede
all’altro. «Quali segrete energie riescono a muovere due
vite così giovani e inesperte. Quali curiose metamorfosi possono
scaturire dalla loro presenza».
Il tono
asciutto era adatto alla riflessione di chi non aveva figli, ma Clench
avrebbe saputo riconoscere anche con le orecchie tappate le avvisaglie
delle macchinazioni di Aris. E di solito comportavano cose molto
sgradevoli, al punto che talvolta persino lui aveva difficoltà a
metterle in atto.
«Cosa vuoi dire?»
«Mi domando che peso rivestano nelle dinamiche del mondo».
«Del tuo mondo?» puntualizzò allarmato.
La risposta si tradusse in uno strano silenzio, che al tirapiedi piacque ancor meno del solito.
«Aris, posso darti un consiglio?»
Per la prima
volta in sei anni, Goundoulakis parve mostrare un briciolo di sincero
stupore nei suoi confronti, volgendo il capo con l’apparente
intenzione di ascoltare.
«Lo so,
non è da me ma… lascia perdere i bambini. Qualunque cosa
stai architettando per Avelan, tieni fuori i bambini da questa storia.
Loro non hanno niente a che vedere con quello che vi state facendo, e
comunque non ti servirebbero a niente».
L’altro
non rispose e andò a prendere posto ai piedi della statua
velata, come sempre. Si distese sul basamento, con un braccio sotto la
testa a fare da cuscino e il bastone poggiato sul petto, lo sguardo
perso tra le onde della stoffa. Le sue labbra presero a muoversi senza
produrre alcun suono, accompagnate di tanto in tanto da un movimento
appena accennato delle dita o dal sollevarsi di un tallone, come se
segnasse il tempo di una canzone che lui solo conosceva.
Stufo di
aspettare ulteriori chiarimenti o ammissioni, e per evitare di ricadere
nella paranoia da alchimia che riguardava il suo capo, Paul si
incamminò verso l’uscita.
«Clench?» chiamò Aris, quando questi era già alla porta.
«Sì?»
«Perché
tanto prodigo riguardo i piccoli Lomann? È forse il tuo lato
paterno a parlare?» domandò svogliato.
Lui
portò una mano alla giacca, dove conservava con attenzione
maniacale una fotografia, quasi si trattasse d’una reliquia.
«Esatto.
E se non fosse per mia figlia non starei lavorando per te ora, ma
marcirei in qualche galera o sarei già morto» ammise
fissando la maniglia. «I figli ti fanno cambiare prospettiva su
tante cose. Ti fanno diventare migliore. O peggiore. Ma lo fai sempre e
solo nel loro interesse» aggiunse.
Ripensava
all’emozione provata quando aveva tenuto in braccio la sua
meravigliosa, piccola, dolce Becky per la prima volta e a tutto
ciò che quel sentimento l’aveva spinto a fare per lei:
dagli espedienti ideati per sottrarre denaro alla
“Legendary” e ad altri polli, ai furti, allo spaccio, ai
lavoretti per gentaglia peggiore di lui, fino alla coltellata con cui
aveva spedito all’altro mondo lo schifoso bastardo che aveva
cercato di adescare la sua bambina lungo il marciapiede di fronte casa.
Aris gli aveva assicurato la libertà ed un lavoro ben pagato con
cui avrebbe potuto darle un futuro, poco importava se non si trattava
di fare il colletto bianco dietro ad una scrivania. Paul era nato e
cresciuto nei bassifondi di Port Serafine, era lì che sapeva
muoversi, era lì che aveva i contatti giusti per ogni
“lavoretto”, ma questo non voleva dire che a Becky
spettasse altrettanto, anzi.
Strinse la
maniglia d’avorio, imponendosi di non immaginare cosa avrebbe
fatto a quell’uomo se fosse stato il suo tesoro al centro di
simili congetture. Probabilmente l’avrebbe sventrato con il
serramanico che teneva agganciato alla cintura, senza pensarci due
volte.
«Dammi
retta, Aris. Tu non vuoi farti nemici Clayton e Sandy, lei soprattutto.
E te lo ripeto: i bambini non ti servono».
Intravedeva
l’uomo giocherellare con il drappo, apparentemente sordo a
ciò che aveva detto. In quel momento sembrava lui stesso un
bimbo preso dal suo giocattolo preferito.
«Vattene, Clench. Il sole sorge e tu hai da fare».
***
«No… non è… non è vero!» singhiozzò Junior.
«Invece
è così. Adesso che non beve più si è
accorto che dai fastidio, rompi le palle e fai solo casino. Ecco
perché non ti vuole tra i piedi» grugnì Pancake con
una smorfia cattiva.
Junior aveva
sperato che qualcuno gli spiegasse perché lo zio, da qualche
tempo, non giocava più con lui. L’unico disposto a dargli
retta era stato Pancake, ma le sue risposte non l’avevano
consolato.
«Non è vero! Bugiardo!»
«Rom-pi-co-glio-ni»
scandì e continuò a ripeterlo soddisfatto mentre il
bambino correva via in lacrime.
Tornò a
dedicarsi al pannello che stava raschiando, ma il suo gongolare
durò poco. Il pianto di Junior si era appena spento dietro la
porta della cucina, che le unghie di Sandy l’afferrarono per
l’orecchio, facendolo gridare come un animale al macello.
«Ho cose
più importanti da fare, che tener dietro alle vostre giornate
storte. E tu mi sembri un po’ troppo cresciuto per prendertela
con un bambino di otto anni» sibilò.
Pancake sbuffò irritato, masticando amaro sebbene non avesse addentato nulla.
«E non darmi le spalle quando ti parlo!» lo sgridò e Pancake la fece contenta, voltandosi di scatto.
«Guarda che non sono il tuo ex-maritino! Non puoi comandarmi!»
«Sono
comunque il tuo capo, anche se non ho piena voce in capitolo per questo
progetto o se mi si vede poco qui dentro. Io rispetto te e quello che
fai, e tu farai altrettanto con me e mio figlio, intesi?»
strillò lei piantando le mani sui fianchi.
Il carrozziere scoppiò in una risata grassa e aspra.
«Io
lavoro. Tu neanche sai cosa vuol dire! Che cazzo di lavoro è il
tuo? Fai andare la lingua e fai vedere le tette e il culo! Sai che
sforzo. Scommetto che lo fa pure quell’altra là, miss Solo
Io So Fare i Conti! Solo che lei sta qui a farlo venire duro a Clay e
Scorch, e tu te ne vai in giro per i marciapiedi a far vedere la merce
a quelli che te la chiedono».
«Mi stai dando della puttana, Bidone?» soffiò inferocita, minacciandolo con una chiave inglese.
Pancake
sembrò rendersi conto solo in quel momento di cosa avesse detto
e superato un primo attimo di perplessità, si ritrovò a
sorridere maligno. Sì, in effetti era proprio così che la
pensava riguardo a lei e alla segretaria. Stano che non se ne fosse
accorto conto prima di allora: dopo tutto, gli indizi c’erano
tutti.
«Pancake!»
La sagoma di Clayton era emersa da dietro il muso della 7.201, grondante di sudore.
«Abbiamo appena scaricato il materiale per le fusioni. Vai a sistemarlo».
Il carrozziere
spiò in direzione del cortile, mostrando in maniera
inequivocabile quanta poca voglia avesse di mettersi all’opera, e
tornò a rivolgere la sua attenzione alla donna.
«Subito» insisté Clayton, tutt’altro che amichevole.
Stizzito,
Pancake si allontanò. Lo guardarono dirigersi al portone a
spalle curve, più per frugare meglio nei nascondigli che si
portava addosso che per effettivo dispiacere.
«Molla quella Due» intimò a Sandy.
Lei però
rinsaldò la presa, soppesando l’arnese. Le tremavano le
gambe dalla rabbia, al punto che i tacchi stridevano sul pavimento:
moriva dalla voglia di rincorrerlo e spaccargli la testa con la chiave,
anche se era abbastanza sicura di non riuscirci tanto quella testaccia
era dura e ottusa. Clay sorvolò sul fatto che non potesse
indossare scarpe simili in officina senza incorrere in un richiamo o in
un’ammenda.
«Sandy, per piacere» disse Clay tendendo la mano.
«La
prossima volta che si permette di parlarmi così, se la trova in
gola. E non per il lungo» sbottò lasciando che prendesse
l’attrezzo per gettarlo in una cassetta lì vicino.
«Non accadrà, te lo garantisco».
«Ha detto
delle cose orribili a Junior. L’ha fatto piangere!»
strillò furiosa pestando i piedi. «Non ne aveva il
diritto!»
«A lui
penso io» cercò di tranquillizzarla, posandole le mani
sulle spalle. «Vai a dare un’occhiata a Junior. Parlo con
Pancake e vi raggiungo» ma a quelle parole lei si liberò
dalla stretta e gli prese il volto tra le mani.
Per un attimo
sperò volesse sfogarsi come aveva fatto l’amichetta di Mac
Gregor mesi addietro, ma sapeva che Sandy non era tipo da simili scene
ed era troppo arrabbiata per decidere di volersi calmare.
«Uccidilo» gli ordinò.
Esasperato, Clay sospirò, approfittandone per strofinare la guancia conto il suo palmo.
«Donna, datti una calmata almeno tu, okay? Non serve a niente incazzarsi tutti quanti».
***
La Almond
289-bis vibrò, sollevandosi dai supporti. Occorsero alcuni
minuti prima che il motore entrasse a regime e la polvere smettesse di
inondargli le scarpe e i pantaloni, uscendo dagli scarichi.
Jack si
concentrava di volta in volta su una singola sezione del motore,
isolando il suono di ciascuna, analizzandone il ritmo, il timbro, le
imperfezioni nelle vibrazioni. Essendo letteralmente cresciuto dentro
il cofano di un’airship da corsa aveva imparato a distinguere il
suono di ciascun organo meccanico, la sua melodia unica e
inconfondibile. In quel momento sentiva un calo nella bancata sinistra,
troppo distante perché potesse trattarsi della turbina anteriore.
Si
infilò nel vano e raggiunse la manopola del calibratore,
regolando l’afflusso di vapore al circuito numero quattro e
tornò in ascolto.
No, non va ancora bene, considerò percependo uno sfregamento affannoso di sottofondo. Le
pale non girano a dovere, come se mancasse grasso sul perno.
Dev’essere troppo stretto l’innesto. Sì, deve essere
quello, è troppo sforzato per una carenza di lubrificante.
Mentre si
raddrizzava, indolenzito dalle ore trascorse a regolare il sistema
principale, sentì qualcuno tossicchiare lì accanto.
Strizzò gli occhi per riabituarsi alla luce e vide che si
trattava di Patch.
Era seduto a
terra, con la schiena poggiata al compressore di supporto, incurante
dei poderosi sbuffi di vapore che lo investivano e del cartello che
vietava di fumare nelle vicinanze dell’apparato. Patch fumava
raramente, quando aveva l’impressione che il mondo non gli
lasciasse altre alternative per sfogarsi, proprio come in quel momento.
«Tutto bene?» chiese Jack, scrollando i ricci.
L’altro annuì, lo sguardo perso nel vuoto.
«Problemi per il campione?» domandò, indovinando l’oggetto delle sue preoccupazioni.
Non che ci
fosse modo d’ipotizzare altro: la malattia di Andrew era la sola
cosa capace di gettarlo nello sconforto più totale.
«Patch?» chiamò spegnando il compressore.
L’amico gettò via il mozzicone, espirando stancamente mentre il macchinario perdeva lentamente di giri.
«Gli esami… non vanno bene. Non migliora come prima».
«Ed è un problema? Qualcosa di serio?»
«Se non
rispetta le tabelle mediche, potrebbero togliergli la cura»
rispose alzando gli occhi arrossati dal fumo e dal dolore.
«Perché, Jack? Perché devono fargli questo?»
Purtroppo, il
motorista non aveva risposte da dargli, sebbene immaginasse il suo
sconforto. Anche le cure per suo nonno si stavano rivelando inefficaci
ad arrestare la malattia.
«Mia
nonna dice che l’unico che può imporre regole che contino
qualcosa è Dio. Tutti gli altri dovrebbero solo stare
zitti» rispose sedendogli accanto.
«Allora Dio dovrebbe parlare con i medici di Andy e ricordarglielo».
«Non
farti sentire da Choncho, o comincerà il suo rosario di
bestemmie perché hai disturbato “Quello dell’Ultimo
Piano”» ironizzò stiracchiandosi. «Ce la
farà. Andy non si farà fregare. Lui è come
Gunner» l’incoraggiò ricordando il solito adagio.
La testa di Malcom si mosse, abbozzando un assenso.
«Hai detto a tuo nonno della carretta?»
«Oh, sì. Gliel’ho detto eccome! A momenti gli prende un colpo».
Patch non rise, né commentò.
All’anziano
Italico erano tremate le mani quando gli aveva mostrato la fotografia
della sua 7.201 ed era scoppiato a piangere chiedendo a gran voce chi
fosse “ol disgrassiàt che l’ghera cunsàt isé la so béla èscipp1”.
Vivian - che Giacomo aveva invitato a casa per l’occasione - si
era offerta di portare il nonno a vederla quando fosse stata rimessa in
sesto e il vecchio aveva prontamente protestato che alle donne fosse
interdetto l’accesso ai box della pista, perché le corse
erano roba da uomini. Alle belle ragazze come lei spettava dare baci di
buona fortuna e di vittoria al pilota. Vivian si era sforzata di
sorridere, ma la zia e la nonna l’avevano presa in giro per la
sua espressione tirata.
«Vuol vederla?»
Jack ridacchiò, scroccandogli una sigaretta.
«Secondo
te? Ci ha corso per dieci anni, quasi centocinquanta Gran Premi incluso
il Trophée du Nord. C’è la forma delle sue chiappe
sul sedile. Ho detto a Odrin se può tenere l’imbottitura,
almeno ci si può incastrare di nuovo».
***
Trovò
Pancake dalla parte opposta del piazzale, in un angolo dove gli
obbiettivi delle macchine fotografiche non potevano arrivare. Sedeva
sui resti di alcune airship, cui attingevano di tanto in tanto per i
pezzi di ricambio e i rattoppi della carrozzerie. Come al solito, si
stava ingozzando delle schifezze che maceravano nella sua divisa da
chissà quanto tempo.
Gli si avvicinò e attaccò senza tanti preamboli.
«Che
significa, eh, Pancake? Si può sapere che ti prende? Ti ho detto
di fare una cosa e ti trovo qui a far niente. E come se non bastasse,
te la stai prendendo con tutti! Passi avercela a morte con Iron, posso
capire che non ti vada a genio la sua scelta; passi pure con Boy, fa
saltare i nervi anche a me, ma gli altri? Stai attaccando tutti senza
motivo, persino mio figlio! Ma cosa ti dice la testa?»
L’altro
si ficcò in bocca quello che poteva essere un biscotto o la
crosta rinsecchita di una torta, masticando rumorosamente.
«Senza
motivo? Senza motivo?» sbraitò con la voce resa stridula
dal boccone che aveva ancora in gola. «Cazzo, Clay ma ce li hai
gli occhi o che cosa?» sbraitò. «Non lo vedi che
merdaio è questo posto?»
L’esclamazione
fece irrigidire il capofficina. Scorch gli aveva accennato ad un
discorso simile avuto proprio con Pancake qualche tempo prima, ma in
quel periodo suo cugino non era messo bene e poteva essersi sognato
tutto per quanto ne sapeva, motivo per cui non aveva dato troppo peso
alla cosa. Sembrava che d’un tratto la “Legendary”
andasse stretta al loro carrozziere, e visto il recente incremento del
suo girovita, le battute si sarebbero potute sprecare.
«Stai
attento a quel che dici. Hai appena fatto piangere mio figlio e non ho
voglia di ascoltare stronzate. Quindi, vedi di darmi una spiegazione
come si deve» l’avvisò asciugandosi il sudore che
gli colava dalla testa, già surriscaldata dal sole.
«Cosa c’è da spiegare?» bofonchiò l’altro succhiandosi le dita.
«Comincia
a dirmi perché ce l’hai con tutti. Non hai litigato con
Odrin perché se ne sta chiuso nel suo laboratorio, altrimenti
avresti avuto da ridire anche con lui».
«Vorrei vedere… selvaggio di merda» sputò.
«Falla finita».
«Finirla?
Finire cosa? Mi sono rotto le palle di quello che sta succedendo qui
dentro e sembra che sono l’unico a vederlo!»
«Sarebbe a dire?»
«Ma porca
puttana! Guarda là!» urlò indicando
l’officina. «Come cazzo fai a non capire? A non vederlo? Ci
rovineranno! Guarda i giornali! Ci hanno massacrato per quel bastardo
immigrato e sua madre, per quel fottuto cinese, per le puttanate che ha
fatto Scorch… ancora un po’ e arriveranno al deviato. E
quel codardo di Jack, che si è pisciato addosso perché ha
visto un incidente e ha buttato all’aria un sacco di soldi. E poi
c’è l’apprendista! È un malato che fa cose
strane, peggio di quell’altro che neanche sappiamo chi cazzo
è davvero! Magari è terrorista, un assassino. Se non
parla ci sarà un motivo. Nessuno di loro si merita di lavorare
qui, sono tutti sbagliati, fatti storti, roba che dovrebbe stare a
morirsene per strada o in galera! Non c’è un solo uomo
degno di stare qui dentro tra quelli! Io sono nato qui, come te! Noi
due sappiamo cosa vuol dire essere persone per bene, non quegli
altri!»
Si fermò un attimo per riprendere fiato, incurante dello sguardo sempre più furibondo di Clay.
«E poi
c’è quella cagna tieni di sopra con quella stronza di
Sandy! Crede di sapere fare le cose meglio di me, si rifiuta di darmi
quello che mi spetta ma è come tutte le altre, buone solo a
farsi sbattere per avere quello che gli fa comodo. Ah, ma loro lo fanno
perché pensano! Come no! Da quando le donne pensano? Ci
manderanno in malora! E a me tocca stare agli ordini di quelle troiette
perché tu te ne freghi di quello che fanno e mi trovo quel
rompicoglioni di tuo figlio a frignarmi tra i piedi! Devono starsene a
casa o nel cazzo di bordello dove le avete pescate! Cacciale, cazzo!
Caccia quei dementi prima che ci facciano andare a picco! Riprendiamoci
la “Legendary”, deve essere solo di chi se la merita, non
un buco di stronzi!»
Preso
com’era dall’arringa, non vide il sinistro di Clayton
arrivargli dritto in faccia. Crollò all’istante nella
polvere del piazzale, in un tremolio dolorante di carne e vestiti. Ebbe
appena il tempo di rendersene conto che il capofficina
l’afferrò con entrambe le mani per la camicia,
sollevandolo abbastanza da riportare la sua faccia oltre le ondulazioni
di grasso che componevano la maggior parte del suo corpo.
«Ora
sturati le orecchie Delmar Parker, testa di cazzo che non sei altro,
perché te lo dico una volta sola, una soltanto: azzardati di
nuovo a parlare così di tutti noi, anche solo per scherzo, e ti
garantisco che questi saranno gli ultimi dei tuoi problemi. E se ti
sento dare di nuovo dei rompicoglioni ai miei figli o della puttana a
mia moglie, se vedo una sola lacrima sulle loro facce, ti garantisco
che ti faccio rimpiangere ogni giornata passata qui dentro e ti prendo
a calci nel culo finché non avrai vomitato anche il primo dolce
che hai messo in bocca, fosse pure il latte di tua madre! Mi sono
spiegato, Delmar?»
Quello rise, mostrando i denti impiastricciati di arachidi e glassa.
«Non mi fai paura».
«Non voglio farti paura, idiota. Voglio farti rigare dritto» ruggì lasciandolo andare.
Pancake
franò di nuovo gambe all’aria, ansimando. Si agitava come
una tartaruga finita sulla schiena, incapace di raddrizzarsi. Clay
rimase a guardarlo finché non riuscì a rotolare
tremolando su un fianco.
«Adesso vai a mettere in ordine quella roba. Giovedì dobbiamo fare la colata».
1 Ol disgrassiàt che l’ghera cunsàt isé la so béla èscipp:
in bergamasco “il disgraziato che gli aveva conciato così
la sua bella airship”. Ovviamente non esiste una traduzione
dialettale di "airship", quindi "èscipp" è la
traslitterazione più probabile.
Wirter's Corner
Anticipo la pubblicazione per cause di forza maggiore. Grazie a tutti i lettori e recensori!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 27 *** L.C. - Cap. 27 ***
L.C. - Cap. 27
27
Ozone lo fermò dopo pranzo, mentre stava per imboccare la scala.
Lasciò che gli altri li superassero, mettendoli al riparo da
orecchie indiscrete e, soprattutto, boccacce confusionarie. Non era la
prima volta che il motorista lo interpellava per qualche nebulosa
richiesta: il più delle volte riguardavano parti del suo
vestiario o il rivestimento della seduta del suo trabiccolo, e Odrin si
divertiva parecchio nell’assecondare le sue richieste che spesso
comprendevano l’inserimento di catene, borchie, maglie metalliche
e altre cianfrusaglie tintinnanti.
«Che c’è?»
Lui sollevò l’indice, facendo cenno di aspettare mentre
Charlotte passava loro accanto. Ozone studiò entrambe le
espressioni titillando le trecce grigie con aria pensierosa.
Notò il breve volgersi della donna e l’assoluta
indifferenza di Odrin, che attendeva di conoscere il motivo della sosta.
L’attempato tecnico era tutt’altro che interessato a
conoscere cosa passasse nelle menti altrui, sebbene di quei tempi
sarebbe risultato utile: la presenza dei ficcanaso della carta stampata
stava mettendo alla prova la risicata pazienza del suo discepolo e
persino la sua, notoriamente sconfinata. Era anche a causa di tutto
quell’inaspettato clamore che aveva bisogno dei servigi
dell’Andull.
Indicò la faccia nera del collega, i cui tatuaggi erano velati di polvere.
«Sto facendo qualche lavoretto in magazzino. Ho deciso di mettere
mano a un po’ di cose» spiegò, ripulendosi alla
buona. «Cosa ti serve, Ozone? Fodere? Cinture? Una rattoppata ai
guanti?» buttò lì indicando il paio logoro che gli
pendeva da una tasca.
Il vecchio scosse il capo e portò le mani alla gola, mimando una
fascia, pizzicando l’aria per segnare alcuni punti precisi. Odrin
osservò con attenzione, cominciando a ridacchiare.
«Vuoi che strozzi Boy? Anche subito!» gridò,
sporgendosi un poco perché le parole arrivassero fino ai banchi
sotto di loro.
«Ah-ah. Io muore di ridere, Aha-antruk!» replicò
Boy, tirandogli un tubetto di mastice che andò a sbattere
rumorosamente contro la vetrata in alto, facendo scattare
l’istantaneo richiamo di Clay.
I due sul ballatoio risero mentre il ragazzo se la svignava di gran carriera nel magazzino ricambi.
«Allora, vuoi che ti faccia un collare come il mio?» riprese Odrin, mettendosi comodo contro la balaustra.
Seguì le mani del motorista tracciare linee attorno a sé,
addensando i segni ai lati del collo e sulla gola, abbozzandoli
altrove. Voleva che la gorgiera fosse priva del sostegno cervicale e
lasciasse libera la parte alta delle spalle, mentre davanti doveva
scendere fino al centro del petto, consentendogli però di
muovere liberamente la testa. Inoltre, era fondamentale che barba e
capigliatura non s’impigliassero nel cuoio.
Valutati tutti gli elementi, l’artigiano cercò di visualizzare l’oggetto, ogni curva e piano.
«È abbastanza semplice. Dovrò usare pellami con
diversi spessori, inserire degli irrigidimenti o fare dei doppi strati,
così potrò darti il sostegno che ti occorre. Vieni da me
stasera, alla fine del turno, così prendo le misure. Però
ti dico subito che per finirlo mi serviranno un paio di settimane o
giù di lì» precisò subito.
L’altro non parve soddisfatto dalla risposta, facendogli cenno di
stringere i tempi con una certa urgenza, cosa insolita per uno come
lui, sempre molto pacato e flemmatico. Persino alcune ciocche della
barba e dei capelli tradivano un discreto nervosismo con il loro
andamento crespo e cespuglioso.
Sebbene fosse piuttosto sorpreso dalla sua smania, Odrin dovete insistere sulla propria posizione.
«Ozone, te l’ho detto: sto sistemando il magazzino
perché fino ad oggi ho tenuto il passo con le airship di Avelan.
Ora che devo aspettare che fondano i pezzi per la Tray-Z ho un
po’ di respiro ma se vieni in laboratorio ti faccio vedere in che
condizioni sto lavorando: sono nel caos! Ho pile di tessuti e pelli
ovunque, scatoloni di fili e imbottiture che mi cadono in testa se non
sto attento. Dovrò cucirtelo nei ritagli di tempo per forza di
cose» concluse intrecciando le dita sulla nuca.
Il chiarimento andò a segno e il meccanico abbozzò un sorriso annuendo con arresa accondiscendenza.
«Stai tranquillo. Due settimane e l’avrai»
assicurò battendogli una mano sulla spalla. «Solo una cosa
ancora: quante libbre di ferraglia devo cucirci sopra?»
***
Ostap sorrise al proprio riflesso, mentre il sarto si dileguava per lasciarlo ad ammirare ogni dettaglio del lavoro.
«Notevole. Dico sul serio. Mi spiace davvero non rivolgere le mie
scelte alla nostra Maison Russia, ma benedetto il cielo! Questa
è l’opera di un artista!» gongolò lisciando
il polsino di una manica.
Trovava che il gilet e i pantaloni di broccato grigio e argento
dissimulassero ad arte l’inappropriata pinguedine che
l’età e la buona tavola stavano dando alla sua figura.
«Sono certo che la cosa non passerà inosservata tra gli invitati. A proposito… Thomas?»
«Tutte le più alte cariche cittadine e dello Stato,
industriali, proprietari terrieri, banchieri, oltre al Governatore con
staff, famiglia e colleghi del parlamento Coloniale. E il gota del
mondo pubblico: attrici, personaggi del dinamoschermo, pubblicitari,
cantanti, giornalisti. La signorina Vernet ha confermato la presenza
sua e della signora Stuart» elencò asciutta la guardia,
poggiando un dito sulla fronte scura mentre ripercorreva l’elenco.
«Molto bene» si compiacque, aggiustando la cravatta.
«Ho davvero voglia di trascorrere un po’ di tempo con la
nostra cara Charlotte. Ultimamente l’ho sentita un po’
giù di morale e non posso permetterlo. Sarebbe quanto mai
dannoso, oltre che scortese. E poi detesto limitarmi alle telefonate,
sono così impersonali, vuote. Piuttosto, cosa di sappiamo del
nostro antagonista?»
«Sarà presente» confermò.
«Ottimo. Davvero ottimo» annuì, sempre più
soddisfatto. «Ed esulando dai nostri graziosi diletti? Quali
nuove?»
Thomas prese qualche istante per organizzare il resoconto.
«Gli architetti sono a buon punto con la bozza progettuale e
abbiamo ottenuto i primi pareri dagli enti urbani, con i più
sentiti auguri di buon lavoro da parte dei rappresentanti delle
istituzioni interpellate. Stiamo mettendo a punto i dettagli per
l’acquisizione delle airship di Gibbons e Nivotzky, i cui
proprietari si sono dimostrati ben lieti di collaborare al progetto. Le
importazioni hanno superato i controlli doganali senza problemi, i
fornitori sono solerti nelle consegne e i venditori appagati dal
trattamento riservatogli, così come i clienti. Il resto delle
attività non desta preoccupazioni di sorta».
In quell’inventario banale e noioso, Thomas aveva sottolineato
dettagli di fondamentale importanza; dettagli che il magnate attendeva
con ansia.
«Tutto qui?» domandò con una punta di delusione nella voce.
«Sì, signore. Niente di rilevante, anche a fronte del giro
di vite che abbiamo imposto alle tempistiche» confermò.
«Questo mi rincuora. Temevo sarebbe stato uno scossone troppo
violento e non ti nascondo di averlo operato a malincuore. Purtroppo la
situazione si sta evolvendo verso uno scenario imprevisto, era
necessario un intervento drastico. Confido saprai gestire la cosa con
la consueta professionalità».
«Ovviamente, signore» annuì inchinandosi appena.
Ostap sorrise accondiscendente, consapevole di trovarsi in ottime mani.
«Cosa mi dici del settore agricolo?»
Il tono piatto e svagato non avrebbe fatto pensare ad un’allusione precisa come invece era.
«C’è stato un inasprimento dei controlli sulle
importazioni di frutta, parrebbe sulla base di una soffiata anonima. Ho
bloccato il carico che era in partenza da Marista. Conto di farlo
ripartire entro una decina di giorni, quindici al massimo. Le nostre
scorte sono sufficienti per approvvigionare il mercato per un paio di
mesi; dopo tutto si tratta di ordini molto particolari e per piccole
quantità. Solo in pochi possono permetterseli.
Tuttavia…»
Il tirapiedi spiò rapidamente oltre la cortina di velluto,
mutando espressione. La gelida compostezza lasciò il posto ad un
torva preoccupazione mentre si accostava al proprio capo.
«Qualche settimana fa è girata voce di un carico
proveniente dai Nuovi Territori» bisbigliò. «Un
piccolo quantitativo, forse una trentina di pezzi, svaniti nel nulla
nel giro di poche ore. La quantità nel mercato è rimasta
invariata, il che farebbe pensare ad un cliente esterno ai consueti
circuiti, che ha trovato il modo di rifornirsi da sé. Ho
indagato fin dove mi è stato possibile, senza giungere a
conclusioni definitive, tuttavia tale acquisto non ha influito in alcun
modo sulle nostre economie».
«Qualcuno la sta
importando dal Pacifico Meridionale, attraversando le Ande per
raggiungere il Golfo. Un tragitto ardito e solitario. Per restare
nell’ombra» considerò Ostap, pensieroso.
«Vuole muoversi in silenzio, passare inosservato. Potrebbe
trattarsi di un evento casuale?»
«È ciò che ritengo. Probabilmente si tratta di uno
sperimentatore ma seguiterò a tenere d’occhio la
situazione».
Gli “sperimentatori” erano sconsiderati benestanti, amanti
delle sensazioni forti che si improvvisavano farmacisti o spacciatori,
procurandosi da soli spezie, stupefacenti, nella maggior parte dei casi
proibiti. Erano un’autentica spina nel fianco perché
mescolavano comuni prodotti agricoli come le piante officinali a
prodotti più insoliti e illegali, destabilizzando il mercato.
Fortunatamente, questo tipo di seccature aveva vita breve, specie
quando a provvedere c’era Thomas.
«Lo apprezzo molto, ragazzo mio. Non è il momento per i
colpi di testa di qualche sciagurato. La situazione è delicata e
non desidero intoppi. Per quelli è sufficiente il nostro amico
Aris».
Il russo frugò nella giacca sull’appendiabiti, estraendone
un minuscolo cucchiaino d’argento. Si avvicinò allo
specchio, arrivando quasi a premere il naso contro il suo stesso
riflesso.
«Silenzio. Il silenzio è mortale, Aris. È questo
che stai cercando di dirmi? Che stai estendendo evanescenti tentacoli
mentre pianifichi la mia fine?» mormorò fissando con torva
eccitazione prima l’iride sinistra e poi la destra, soffermandosi
sulle screziature più profonde che le attraversavano.
Sollevò il cucchiaino fino alla fronte e lo fece ruotare
lentamente tra le dita. Il metallo vibrò quasi fosse divenuto
liquido, per ricompattarsi nella medesima forma.
«Quale conclusione mediti sia la più adatta alla mia
persona? Una spregiudicata manovra giudiziaria? Un vorace assalto
economico alle mie proprietà? Mi manderai contro
l’indecente gentaglia di cui ti servi? No. Sai già che
tutto questo non darebbe i frutti auspicati. Al contrario, finiresti
solo per sprecare energie e tempo preziosi, e né tu né io
possiamo permettercelo. A questo punto, suppongo arriverai a dar fondo
alle tue paventate abilità di alchimista da salotto, mostrandole
finalmente per ciò che sono in realtà» lo
sfidò, quasi aspettasse di vedere il proprio riflesso mutare
nelle sembianze di Goundoulakis.
Si scostò con lentezza, gettando appena uno sguardo al minuscolo
carillon che aveva poggiato sul tavolino da tè accanto ad un
vassoio di paste prima di cambiarsi. La manovella girava placida
scandendo il susseguirsi delle note.
«Mi auguro solo avrai il buon gusto di rendere la tua scelta uno
spettacolo, sai quanto io detesti le banalità. Sempre ammesso
che tu riesca a portare a compimento i tuoi propositi»
commentò distratto, tamburellando con le dita su palmo e dorso
della mano sinistra, soffermandosi a giocherellare con gli ingombranti
anelli d’onice che indossava.
«Signore?» chiamò una voce dal pesante accento straniero.
Donat si era affacciato fra i pesanti drappi che chiudevano il
camerino, facendo passare un uomo alto e allampanato, che si torceva le
mani.
«Perdoni l’intrusione, signor Avelan. So che desiderava...
parlarmi?» domandò questi, indicando timoroso in direzione
delle due guardie del corpo che torreggiavano alle sue spalle.
«Solerte come sempre Dixson, in ogni ambito dei vostri
servigi!» esclamò congiungendo le mani e indicandolo con
la punta delle dita.
Non appena il proprietario della sartoria strinse la mano che
l’uomo d’affari gli porgeva, un brivido gli percorse il
braccio, come se un lunghissimo spillo si fosse conficcato nella sua
carne ed avesse raggiunto serpeggiando la nuca. Non aveva in simpatia
Avelan: trovava i suoi modi troppo lindi e concilianti per essere
autentici. Ciononostante non poteva negare che si trattasse di uno dei
suoi migliori clienti e sovvenzionatori.
«Come siete pallido, Victor. State bene? Spero di non essere io a
mettervi in soggezione!» scoppiò a ridere Ostap,
congedando con un cenno i suoi uomini. «Cosa ne dite di un
po’ di rinfrescante limonata? Devo dire che è persino
troppo gelida, per i gusti del mio povero vecchio stomaco, ma forse ad
un baldo giovane come lei non causerà spiacevoli conseguenze.
Una lacrima di vino bianco dei Balcani? O preferisce un cordiale, per
scacciare la petulante presenza di Donat dalla sua mente? Rum
Añejo cubano millesimato, magari? Invecchiato ventun anni tra le
mura di San Cristóbal de la Montaña. Cielo, non dovrei
domandarvelo io… Dopo tutto, sono vostri doni ai clienti, io sto
solo leggendo le etichette e tirando ad indovinare i suoi gusti»
suggerì divertito mostrandogli la bottiglia dove il liquido
ambrato ondeggiava invitante.
L’uomo acconsentì, storcendo del labbra in un sorriso
educato. Preferiva far buon viso a cattivo gioco, ingraziandoselo con
mille moine. E se per farlo doveva ascoltare lagnose melodie che gli
davano i capogiri, guardandolo rimestare con un cucchiaino nel
bicchiere che gli stava offrendo, allora che fosse.
***
Niklas gettò i fogli a terra, sfinito ed irritato. Era stanco di
rifare disegni e calcoli per mettere in sesto le vecchie glorie che
Avelan mandava loro. Stava diventando monotono: dopo tutto si trattava
di banali verifiche, un lavoro oltremodo noioso.
Tese le braccia di fronte a sé, irrigidendo i muscoli, e
osservò. Aveva superato la fase critica, ma le mani tremavano
ancora, seppur meno rispetto ad un mese prima. Il medico si era stupito
dell’assenza dei sintomi caratteristici legati a quella fase
della disintossicazione, come depressione, convulsioni o allucinazioni.
Niklas l’aveva attribuito all’enorme mole di lavoro che non
gli lasciava tempo per star male. Ora soffriva d’insonnia e aveva
attacchi d’ansia che era riuscito a nascondere bene, nonostante
troppo spesso il richiamo dell’alcol tornasse ad affacciarsi,
proprio come in quel momento. Aveva provato persino a bere lo sciroppo
che gli avevano regalato per il compleanno, puro, direttamente dalla
bottiglia, riuscendo a stento a non farsi congelare il cervello.
Sentiva la gola riarsa ad ogni momento del giorno e della notte, anche
dopo aver bevuto tanto da svuotare l’acquedotto cittadino.
«Un bicchierino» farfugliò, tenendo la testa tra le
mani. «Non mi ammazzerà un bicchierino, no? Solo per
vedere se reggo. Dovrei farcela, è solo… un goccio».
Si alzò provando un’immensa vergogna per la propria
debolezza, e una volta sul ballatoio, si appoggiò alla parete,
scrutando prima l’officina e poi la grande copertura a volta che
la sovrastava. Dalle capriate penzolavano catene e enormi ragnatele. Un
brivido l’attraversò, dandogli l’impressione di
guardare dentro se stesso. Tutto quel vuoto, la polvere, i resti di un
passato fatto a pezzi e migrato chissà dove. Le ginocchia si
fecero deboli e il battito del cuore schizzò a mille mentre il
mondo ondeggiava sotto i suoi piedi. Strinse le palpebre, obbligandosi
ad inspirare profondamente, trattenendo il respiro per qualche secondo.
«Forse è meglio un caffè. Sì, un bel
caffè. Nero. Con un po’ di latte… no. Panna.
C’era della panna di là in cucina, Maria ha detto che
c’era. Non importa se è per cucinare, andrà
benissimo. E miele, una montagna di miele» decretò
passando le mani sulla faccia per scacciare le ultime ansie.
La porta in fondo al ballatoio si chiuse di colpo facendolo sobbalzare per lo spavento.
«Porca puttana!» esclamò restando senza fiato. «Sei… stupenda!»
Charlotte aveva appena finito di prepararsi per la serata dal
Governatore e stava avviandosi all’appuntamento con Sandy.
L’abito che indossava era di un pallido color ambra, decorato con
pizzo Alençon. Il corpetto senza maniche saliva fino al collo,
dove si perdeva in diversi giri di perle; le stesse che ornavano il
corto strascico, la stola che si avvolgeva morbida lungo le braccia e
l’impalpabile retina con cui aveva raccolto i capelli.
«Questa è una delle cose per cui sono contento
d’essere tornato sobrio. E da oggi in poi mangerò solo
albicocche» dichiarò avvicinandosi.
Il sorriso sognante che le rivolse bastò a far capire quanto
fosse sinceramente colpito da ciò che vedeva e che, come al
solito, stesse tentando di corteggiarla.
«Te la senti davvero di accompagnare Sandy? Mi sembri stanca».
«Neppure lei sembra appena uscito dalla concessionaria»
ribatté indicando la chioma arruffata e gli occhi arrossati.
«Solo troppa trigonometria e Teoria dei Flussi applicata. Uno
spuntino e sarò come nuovo» mentì alzando entrambi
i pollici.
In realtà sentiva freddo allo stomaco e la sgradevole sensazione di avere della sabbia in bocca.
«Buono a sapersi. Per quanto mi riguarda, cambiare aria per qualche ora avrà lo stesso effetto su di me».
«Non bere troppo. Anzi, non bere affatto. Stai lontana dai
bicchieri pieni di bollicine o liquidi colorati che hanno un odore
pungente» si raccomandò accompagnandola alla scala.
«Adesso fa il moralista?» scherzò.
«Non augurerei a nessuno di conciarsi come me. Soprattutto una
bella fig… una bella signorina. Una bella signorina come
te» si corresse appena in tempo. «Non vorrai scendere con
quei tacchi? Rischi di rimetterci una caviglia! Avresti dovuto
preparati di sotto, non qui» commentò, rammaricandosi per
lo spettacolo perso.
Aveva ragione, ma Charlotte era certa che Odrin non le avrebbe concesso di mettere piede nel suo regno: ai suoi occhi era una retch,
una creatura immonda, portatrice di sventure e mali, capace
d’infettare l’aria con la propria ombra. Sopportare la sua
presenza senza insultarla doveva costargli molto, e sebbene lei si
sentisse ferita dal suo improvviso rifiuto, aveva deciso di concedergli
del tempo per pensare, augurandosi che cambiasse idea.
«C’è il parapetto» osservò appoggiandovisi.
«Sì, ma il parapetto non ti prende se inciampi. Ti lascia
finire in fondo alla rampa» rispose affiancandola e porgendole il
braccio.
Titubante, accettò il suo aiuto e lasciò che la
sorreggesse un gradino dopo l’altro. Qualcuno dei ragazzi
fischiò dall’officina, ma non riuscì a capire di
chi si trattasse.
Se fosse stato sempre così
com’è ora, sarebbe stato tutto diverso? Niklas avrebbe
capito o mi avrebbe allontanata? E Odrin… mi sarebbe piaciuto
comunque? si domandò.
Eppure, per quanto l’Ingegner Almgren stesse dando prova della
sua buona volontà nell’affrontare i propri demoni, non
riusciva credergli fino in fondo. Non si fidava di un alcolizzato,
neppure di uno in via di guarigione, era semplicemente troppo per lei.
È bastata una volta, una sola. Non voglio trovarmici di nuovo, ripeteva tra sé mentre scendevano gli ultimi gradini.
«Eccoci arrivati sani e salvi» annunciò l’uomo con un gran sorriso.
Per sua fortuna, Charlotte era parsa troppo concentrata sul mantenere
l’equilibrio per accorgersi dell’immensa fatica che aveva
fatto per combattere il capogiro che l’aveva colpito appena prima
del pianerottolo. Se fossero caduti entrambi sarebbe stato
imbarazzante, anche se gli sarebbe piaciuto trovarsela addosso con la
gonna sollevata.
«Grazie, Niklas».
«Ehi, Asha ha fatto un lavoro coi fiocchi!» esclamò
Iron avvicinandosi a larghe falcate. «Quel colore è
perfetto, mette in risalto i tuoi occhi. E la stola! Tocco di
classe».
«Chi è Asha?» domandò Scorch, allibito dal suo entusiasmo.
«Una stilista fantastica. È quella che le ha preparato quest’abito e quello del City Garden».
«A proposito, ho visto il suo vestito, Lamar. Molto provocante» ammiccò Charlotte.
«Lo so. Farò strage di cuori» si pavoneggiò
scrocchiando le nocche. «Dovresti fare un salto da lei, Scorch.
Ti rimetterebbe a nuovo. Insomma, ormai quella roba è fuori moda
da dieci anni» aggiunse indicando i pantaloni e la camicia che
indossava.
«Scusa, ma non credo di essere ancora pronto ad affrontare un cambio di look. E temo che la gonna non mi stia bene».
«Tu con la gonna? Madre de Dios!» scoppiò a ridere Choncho da sotto un’airship. «Questa voglio vederla!»
«Sì, e poi? Correrai in chiesa a confessare i pensieri
sconci che ti verranno sulle mie bellissime gambe?» lo
punzecchiò il progettista.
«Perro cobarde y blasfemo1»
ringhiò tornando al lavoro. «Odrin, cazzo! Non hai niente
per legargli quella sua… stramaledetta lingua?»
«Spiacente, Choncho. Niente di così lungo e robusto» fece lui, emergendo da dietro il veicolo.
Istintivamente Charlotte strinse il polso dove aveva legato il bouquet
che le aveva fatto per la serata con Avelan, ma l’artigiano parve
non accorgersene.
«Visto che meraviglia? Anche questa sera la nostra Charlotte
ruberà la scena a Sandy!» annunciò Scorch.
L’Andull si limitò ad annuire, prima di tornare all’interno del veicolo a verificare le telerie.
Dal piazzale arrivò lo strombazzare di Sandy, la cui paziente attesa stava degenerando in una crisi isterica.
«È meglio che vada. La mia autista ha già
abbastanza cose di cui lamentarsi. Buona serata a tutti. E… mi
raccomando, Ingegnere» disse indicando il Penitenziere.
«Cosa?»
«Pensa che non l’abbia sentita prima, quando sono uscita dall’ufficio?»
«Ma… andiamo! Sono convalescente!» piagnucolò
seguendola da Sandy, che aveva ormai deciso di assordare l’intero
vicinato con il clacson.
«E la scollatura? Dov’è la scollatura?»
sbraitò la donna, storcendo il naso esasperata di fronte alla
mise dell’amica. «Sei una causa persa, Charlotte!
Totalmente! Ci rinuncio!»
Lei rispose con un sospiro afflitto salendo sul mezzo e sistemando con
attenzione l’abito. I tacchi alti non sarebbero serviti a placare
l’amica.
Niklas chiuse lo sportello e le salutò con un rispettoso inchino, augurando loro di divertirsi.
«Bene» esclamò girandosi a guardare l’officina. «Che diavolo ero venuto a fare?»
Si era completamente scordato cosa avesse in programma
nell’attimo in cui aveva visto Charlotte. Guardò
l’artigiano immobile sul portone, intento ad osservare la Noal
allontanarsi.
«Qualche idea in proposito, Odrin?» domandò grattandosi la testa, perplesso.
«No» rispose, facendo schioccare tra le mani una correggia per saggiarne la resistenza.
1 Perro cobarde y blasfemo: in spagnolo “cane codardo e blasfemo”.
Writer's Corner.
Anno nuovo,
capitolo nuovo. So di essere un bel po' in arretrato con i post, ma tra
le festività e vicissitudini varie mi è stato impossibile
terminare prima. Senza contare che Ostap si è dato da fare per
rendermi le cose difficili... cercherò di darmi da fare con i
prossimi!
Ben arrivati a John Spangler e NikolasP. Grazie agli altri lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 28 *** L.C. - Cap. 28 ***
L.C. - Cap. 28
28
Quando avevano portato quel veicolo per una riparazione
d’urgenza, a Clayton erano cascate le braccia. Non aveva voglia
di mettere mano ad un rottame di utilitaria mentre nell’officina
riposavano mezzi infinitamente più gloriosi e degni
d’attenzione, ma si trattava di un cliente abituale, una brava
persona che usava l’airship per lavoro ed aveva sempre saldato i
conti, non poteva negarglielo.
La Dumil era nota in tutto il mondo come una delle airship più
rognose in assoluto. L’imbecille che l’aveva progettata era
stato riconosciuto quale Re degli Incapaci, avendola infarcita
d’errori progettuali oltre il ragionevole limite di meccanica
decenza. Per non parlare del blocco dell’alternatore - centro del
problema -, modellato in maniera tale che per mettervi mano era
necessario essere dei contorsionisti, oltre che santi dotati
d’infinita pazienza.
«Ancora qui?»
Si stupì di udire la voce di Scorch. Era convinto avesse
imboccato l’uscita con gli altri un paio d’ore prima,
invece stava lì, le maniche della camicia arrotolate sopra i
gomiti e delle occhiaie da far spavento.
«Già. E tu?» grugnì raddrizzandosi a fatica.
I muscoli ruggivano di dolore per le troppe ore passate sotto sforzo e
il gomito aveva ripreso a fargli un male d’inferno, ma avrebbe
tenuto duro. Stava vivendo il miglior periodo della sua vita lavorativa
e l’avrebbe sfruttato al massimo, a costo di finire smontato
dalla fatica.
«A casa non ho questo gran daffare, sai? E ho degli arretrati
qui. Anni di arretrati» precisò, ingollando una lunga
sorsata da una capiente tazza di ceramica.
«Adesso ti sbronzi di caffè?»
Scorch poggiò un occhio sul contenitore e cominciò a
ridere in maniera idiota facendo smorfie. Per un attimo sembrò
tornare il solito ubriacone, ma l’impressione svanì non
appena si ridiede un contegno.
«Avresti ragione se fosse caffè, ma Maria Pilar ha trovato
qualcosa di meglio. Una roba che sa di caffè ma non è
caffè» sorrise trangugiando un nuovo sorso.
«Sarebbe?»
«Tisana alle erbe. Non chiedermi quali, non ne ho idea. Credo la
faccia lei, quindi potrebbe esserci dentro qualsiasi cosa cresca tra
qui e casa sua. È da quando sono tornato che ha cominciato a
rifilarmela. Dice che la prende per rilassarsi e schiarirsi le idee,
e…» s’interruppe guardando intorno, quasi temesse di
veder sbucare Charlotte, per poi esclamare a voce più bassa:
«cazzo, Clay, dovresti provarla! Questa brodaglia è
una fottutissima bomba! All’inizio mi faceva quasi vomitare
le budella…»
«Ma che bellezza» sbuffò.
«Sì, sì, lo so. Però col passare dei giorni
mi sono accorto che non era così male. E non era per via
dell’alcol che se ne andava, è buona davvero. Certo, il
peggiore dei caffè batte quest’intruglio a mani basse, e
la notte non dormo per niente come invece sosteneva Maria, ma mi piace.
Mi fa sentire pieno d’energia, positivo. E posso berne quanta
voglio, male che vada devo correre al cesso. Vuoi assaggiare?»
disse allungandogliela.
Clay diede una rapida annusata prima di rituffare la testa calva e
sudata tra le lamiere. L’odore in effetti ricordava un espresso,
anche se più dolciastro e speziato. Aveva persino un vago
sentore di biscotti.
«Passo» rispose scostando un fascio di cavi.
Sotto al groviglio emerse una flangia. I bulloni erano piuttosto
sporchi e smussati, ma pareva che finalmente avesse raggiunto il
bandolo della matassa.
«Vuoi una mano?» chiese Scorch poggiando la tisana e avvicinandosi.
«Perché? Ti ricordi come si usa una di queste?» sogghignò mostrandogli una chiave inglese.
«Ehi, marmocchio, non sono così decrepito da non saper
distinguere una da un pollice e mezzo dal manico di una scopa!»
sbottò togliendosi la camicia. «Allora? Che ti
serve?»
Il capofficina si voltò a guardarlo, genuinamente sorpreso.
«Vuoi farlo davvero? Conciato così?» fece additando
il bel paio di pantaloni che indossava sopra le scarpe di vernice.
«Dammi qua o dirò alla tua cara ex-moglie che sei
ingrassato ancora» malignò strappandogli di mano
l’attrezzo e pungolandolo al fianco.
«Senti chi parla! Tra un po’ farai compagnia a
Pancake!» gli rinfacciò indicandolo a sua volta,
rendendosi conto solo in quel momento di come quell’uomo avesse
un aspetto più sano e robusto rispetto a quello che aveva
raccolto sul pavimento dell’appartamento a Cenelia.
Rimossero con cautela il tratto di tubazione primaria che serpeggiava
disegnando ben due gomiti sopra l’alternatore, badando a non
intaccare i cavi. Misero mano al carter che lo ricopriva, svitando
boccole e allentando morsetti, stando attenti che la protezione,
crepata in più punti, non andasse definitivamente in pezzi.
***
Avelan li fissava con uno strano ghigno nascosto nella barba. Rigirava
tra le dita il calice di champagne, insolitamente taciturno, quasi
assente. Con il pollice sfiorava l’anello d’onice che
indossava sull’indice, premendo il polpastrello sulle graffe del
castone con tanta forza da far sbiancare l’intera falange.
«Per l’amor del cielo, Ostap, non t’azzardare!»
L’esclamazione improvvisa di Sandy lo fece sobbalzare sul divanetto.
«Come, prego?»
Lei lo incenerì con lo sguardo, accavallando le gambe
così che il tacco a stiletto arrivasse a minacciargli il
ginocchio.
«Non verrai a dirmi che sei geloso di Aris! Mi bastano le
lamentele di Clay, non ti ci mettere pure tu!» sibilò.
«Io? Geloso? Dò quest’impressione? Thomas, benedetto
ragazzo, sto diventando davvero tanto equivoco?» domandò
sgranando gli occhi sulla guardia del corpo, che si limitò a
replicare con uno sguardo vago.
La donna si lasciò cadere indietro, esasperata dai modi
infantili del cliente. Ne aveva abbastanza di uomini che si
comportavano peggio di suo figlio quando combinava qualche guaio.
«Sandy, temo tu abbia frainteso. Non sono affatto geloso di Aris!
Magari gli invidio la forma fisica perfetta, quel completo color oro
pallido che io non potrei mai indossare con tanta grazia e la parte di
introiti che gli derivano dall’essere un astuto pubblicitario, ma
non ne sono affatto geloso. Non nel senso sentimentale del
termine» puntualizzò, seguendo con la coda
dell’occhio l’abito ambrato che volteggiava sulla pista.
«Semplicemente sono in pensiero per la nostra Charlotte.
L’ultimo loro incontro non si è risolto nel migliore dei
modi e qui attorno ho visto l’odioso guardaspalle che l’ha
spaventata a morte. Ho sperato che Aris mostrasse più giudizio
nello scegliere i suoi assistenti, ma sono stato disatteso».
Clench si aggirava per il salone, facendo capolino di tanto in tanto
tra la folla di invitati. Gettava occhiate in direzione del suo capo,
ma non pareva intenzionato ad avvicinarlo. Perse addirittura tempo con
Mac Gregor: il giovane rideva sguaiato e lo scrollava, richiamandolo
appena tentava di allontanarsi, tanto che il tirapiedi aveva
difficoltà a liberarsene.
Nel frattempo, sulla pista da ballo lo sguardo di Charlotte era
catturato dai variopinti luccichii del bastone da passeggio di Aris, il
quale non l’aveva abbandonato durante il ballo e lo sorreggeva
tra l’indice e il medio, senza per questo lasciare che la mano di
Charlotte si posasse altrove. Nel cristallo del pomello si mescolavano
sprazzi del suo abito e di quello del suo cavaliere, riverberi opalini
e scintille.
«Vi incuriosisce?» le domandò ad un tratto.
Lei si riscosse, sentendosi piuttosto sciocca.
«Scusate, non volevo sembrarvi invadente» si schermì, volgendo altrove lo sguardo.
«Non lo siete. Attira più attenzione di quanto si possa
supporre» ammise gettando indietro i lunghi capelli biondi con un
elegante cenno della testa.
«Il fatto è che non mi pare ne abbiate bisogno, le vostre
gambe si muovono senza problemi. Mi chiedevo se si trattasse di un
vezzo da gentiluomo» sorrise educatamente.
«Solo in parte. In realtà mi è d’aiuto a
sostenere ben altri equilibri che quello fisico» replicò,
osservandola con un piglio tale che pareva contasse le perle sulla sua
acconciatura. «La mia mente spesso si perde per vie curiose e
stringere quest’artefatto mi è di enorme aiuto per tornare
a poggiare piedi sulla terra. Diversamente, sarei altrove anche in
questo momento e voi pensereste che sono un terribile maleducato».
«Una lavorazione molto raffinata e originale» sviò abilmente Charlotte.
A dispetto della cortesia, qualcosa nelle parole di Goundoulakis
l’aveva fatta sentire a disagio al punto da causarle un paio di
dolorosi singulti.
«In questo mi rispecchia. Ambisco al meglio, allo splendore
derivante da ciò che esiste di più alto e perfetto. Ora
permettete che sia io ad essere indiscreto?» domandò
allontanandola quel tanto da permetterle di eseguire la lenta piroetta
richiesta dalla danza. «Vorrei conoscere la natura del rapporto
che la lega ad Avelan. L’altra volta ho compreso a mie spese che
non è invaghito di voi, ma la sua solerzia nel soccorrervi mi ha
colpito».
«Conosco il signor Avelan da circa cinque anni. Una sua
società acquisì quella per cui lavoravo allora,
salvandola dal fallimento. Mi prese in simpatia e da allora ci siamo
visti spesso».
«In che settore operava la società?» s’informò.
«Industria cartaria».
Aris non parve affatto stupito, anzi.
«E pur tessendo di continuo le vostre lodi, non ha fatto in modo
d’avervi al suo servizio. Non lo trovate bizzarro?»
«Non più di tanto. Tempo fa mi offrii io stessa di
lavorare per lui, ma rispose che i suoi affari avrebbero potuto
rivelarsi dei “colossali agglomerati d’indisciplinata
follia, capaci di far perdere il senno alle montagne”, e che solo
lui e pochi altri del suo staff fossero in grado di gestirli senza
dover ricorrere a sotterfugi» rise, leggermente stordita dal
vortice delle danze.
«Sotterfugi come l’alchimia?» ipotizzò
distrattamente Aris, lanciando uno sguardo al suo omologo ancora seduto
accanto a Sandy. «Dopo tutto, la Russia ha una lunga tradizione
di studi esoterici».
Charlotte perse un tempo, irrigidendosi.
«Questa è un’insinuazione assurda, signor
Goundoulakis! Il signor Avelan non farebbe mai nulla del genere!»
protestò impallidendo più per la mano dell’uomo
posata sulla sua schiena all’altezza del cuore che per
l’illazione in sé.
Nonostante la spessa gabbia del corsetto la proteggesse da qualunque
contatto, temeva che le vibrazioni degli ingranaggi del cuore
artificiale potessero trapassare l’imbottitura.
«Perdonatemi. Come immagino sappiate, mi diletto nello studio di
questa materia, e di riflesso finisco col supporre di non essere il
solo» si giustificò, stringendo leggermente la presa
attorno al suo busto mentre si abbassavano per attraversare il tunnel
formato dalle braccia degli altri ballerini. «Quindi, vi tiene
lontana dai suoi affari per tutelare la vostra salute?»
«Così parrebbe» ansimò.
«Molto premuroso. E saggio» soggiunse scrutando di sottecchi il magnate russo.
Le ultime note del brano lasciarono posto all’appaluso dei
presenti. Charlotte ringraziò d’aver concesso un solo
ballo a Goundoulakis: cominciava a provare una strana sensazione, un
timore denso, gelido e opprimente.
Mentre Aris la riaccompagnava a bordo pista, scambiò con Ostap un’occhiata silenziosa.
«Vi siete divertiti?» domandò Sandy, annoiata dalla lunga permanenza sul divanetto.
«La signorina Vernet è una buona ballerina, ma temo abbia
bisogno di una pratica più costante. Queste variazioni di ritmo
la provano oltre misura ed è un vero peccato» rispose
Aris, mostrando d’aver preso per affanno i lunghi respiri
affannati della donna.
«Su Charlotte, vieni» sospirò alzandosi in un
turbinio di lustrini. «Ho bisogno di darmi una rinfrescata prima
di andare a salutare il Governatore».
Charlotte fece per seguirla, ma il suo partner la trattenne.
«Spero perdonerete la mia scortesia di poco fa. Non era mia
intenzione rovinarvi la serata» bisbigliò baciandole la
mano.
«Ne… ne sono certa» rispose intimorita, provando la sgradevole sensazione d’essere in trappola.
Gli occhi scuri che la fissavano ricordavano quelli di un serpente, ugualmente fissi e imperscrutabili.
«Uomini! Devono sempre giocare a chi l’ha più
grosso!» sbottò irritata Alexandra trascinando via
l’amica.
Ostap e Aris non le guardarono allontanarsi, presi da un muto confronto.
«Ritieni di avere una buona mano da giocare, caro Aris?» domandò infine il primo.
«Preferisco gli scacchi alle carte, dovresti saperlo» ribatté alzando il bastone per ammirarne lo scintillio.
«Chiedo venia. Sia come desideri, allora. Pensi di aver fatto le mosse giuste per accaparrarti la corona del re?»
«Ebbene sì, ora che so dove scovare la regina. Una volta
privato della sua presenza, il re sarà alla mia
mercé» dichiarò con vaga soddisfazione.
Il russo si alzò sfoggiando un gran sorriso, chiudendo la mano
sul pomello di cristallo. Una nube di cupe sfumature prese a vorticare
all’interno.
«Attento Aris. La Grande Madre Russia non ha dato i natali solo a
pericolosi alchimisti. Annoveriamo anche i migliori scacchisti del
mondo. Non si può dire altrettanto dell’assolata
Grecia».
***
Erano passate le undici quando Clay e Scorch uscirono
dall’infermeria. Armeggiando con il carter avevano finito per
procurarsi diversi graffi su mani e braccia, che avevano medicato solo
a lavoro ultimato. Era stato come tornare indietro nel tempo, ai loro
primi passi nel mondo dei motori, quando trascorrevano ore e ore
infilati in cofani simili a fauci di mostri abissali, intralciandosi a
vicenda nello svitare, tirare, martellare, tagliare e serrare, sporchi
fino al midollo di limatura di ferro, grasso e combustibile.
Mentre disinfettavano le abrasioni tra risolini ebeti e inutili
ostentazioni di machismo, Clayton aveva osservato con attenzione il
cugino come suggerito dal medico, e ciò che vide lo
stupì. Sembrava guarire ad una velocità fuori della
norma, quasi che la sola idea di chiudere col passato gli stesse
restituendo parte di quel che aveva perduto. I profili delle costole si
vedevano a malapena e la pancia che sporgeva in maniera imbarazzante
sopra la cinta era quasi svanita. La psoriasi e i lividi che si
procurava sbattendo ovunque erano poco più che vaghi aloni sulla
sua pelle. Persino il suo colorito aveva recuperato una tonalità
più solare e sana.
«Ti va una birra? L’“Archituono” dovrebbe
essere ancora aperto» propose Niklas, abbottonando rapidamente la
camicia spiegazzata.
Far scomparire alla vista l’ustione sul suo petto era qualcosa
che gli procurava enorme sollievo. Nella sua testa equivaleva a zittire
le accuse scomode e odiose che non sopportava più di sentirsi
rinfacciare, sebbene morisse dalla voglia di mostrarla a Charlotte per
dirle che senza quell’enorme errore e tutto ciò che ne era
conseguito, probabilmente non si sarebbero mai incontrati. Era una cosa
melensa e svenevole, ma era convinto avrebbe colpito nel segno,
soprattutto ora che la vedeva bisognosa di una persona forte cui
appoggiarsi e lui si sentiva pronto ad impersonare il cavalier servente.
Clay lo fissò aggrottando la fronte.
«Una birra? All’“Archituono”? Tu?»
«Calma, cuginetto. Ho chiesto se a te va una birra. Io mi faccio
un bel bicchiere di seltz con un paio di fette di limone. E magari
butto giù un boccone: avvitare quella robaccia mi ha messo
appetito» chiarì. «Sono diventato un bravo ragazzo,
ricordi? Nien-te-al-col» scandì entrando in ufficio.
Clay lo seguì scuotendo la testa.
Nella stanza regnava un ordine rigoroso: non c’era traccia di
bottiglie vuote né di bicchieri sporchi e scheggiati, i libri e
i documenti erano stati raccolti e riordinati, i gessetti per la
lavagna e la cancelleria erano riposti con cura in scatole e
portapenne. Maria Pilar era riuscita a trovare il coraggio per mettere
piede lì dentro e spolverare ogni angolo, sicura di non correre
il rischio di sentire Scorch dare di matto.
«Cos’è questa roba?» chiese, raccogliendo una cartellina dalla scrivania.
«Scarabocchi» rispose il progettista facendo spallucce.
«Lo vedo: non si capisce niente di quel che hai scritto.
Però questi sono nuovi di zecca» insisté
prendendone alcuni con la data del giorno prima per osservarli meglio.
«Di che si tratta? Una commessa o progetti tuoi, di quelli
che facevi una volta?»
Parlare di quegli schizzi era per Scorch croce e delizia. Poteva
perdersi per ore nei dettagli, raccontando di calcoli, teorie,
materiali, linee di forza, flussi aerodinamici e potenze. Lui vedeva le
airship materializzarsi nella sua testa, ne sentiva il rombo, le
vibrazioni; conosceva i difetti prima ancora di accertarli sulla carta.
Diventava incredibilmente loquace e noioso per chi l’ascoltava,
ciononostante Clay si divertiva un mondo a stuzzicarlo.
«Sì, ecco… non ho mai smesso. Non del tutto» ammise. «Sogno ancora di realizzarne una».
Progettare airship da corsa era la sola cosa che i galloni
d’alcol ingeriti negli anni non gli avevano tolto. Creare una
belva divoratrice di strade, figlia della velocità e del
metallo, qualcosa che avrebbe lasciato un segno nella storia. Era certo
sarebbe riuscito a realizzarla, un giorno.
«Sembra derivata dalla Stormbreaker, il modello uscito una
quindicina d’anni fa, ma è più affusolata e sulla
linea di galleggiamento ha questi… alettoni?»
domandò indicando una serie di linguette rettangolari che dal
muso si ripetevano fino alla coda.
Il progettista prese il disegno abbozzando un sorrisetto.
«Stabilizzatori a contrasto di pressione. Si aprono nelle curve
strette, sfruttando la differenza di pressione dell’aria lungo le
fiancate per mantenere il mezzo in assetto, visto che è di
cinque piedi più lungo del modello originario. E ho invertito la
disposizione dei contrappesi, per limitare le scodate in
partenza».
Clay rimase a bocca aperta.
«Niente male. Dico sul serio» si complimentò.
«È un peccato che in questo momento non possiamo buttarci
su queste cose. Non ci siamo mai riusciti» soggiunse dispiaciuto.
«Considerali un mio divertissement fino a quando potremo tradurli in pratica» suggerì.
Era un sogno che languiva nel cassetto fin dalla loro infanzia, quando
realizzavano modellini di latta e cartoncino, sicuri che costruire
un’airship fosse un gioco dove l’unica risorsa
indispensabile si chiamasse fantasia.
«Se riuscirò a sopravvivere» sbadigliò Clayton massaggiando il gomito.
«Dovrei dirlo io, non tu».
«Tu hai la pelle dura e hai superato cose peggiori».
Niklas gettò i fogli nel cassetto della scrivania e lo chiuse a chiave.
«E il divorzio? Vorresti farmi credere che è stata una
passeggiata? Mi rincretinisci ancora adesso sul quanto è
difficile vedere così poco i ragazzi, sopportare di non avere
Sandy nel letto o poterti solo sognare il pasticcio di tua
suocera!»
Il cugino gli mostrò il medio, infastidito dalla consapevolezza
di avergli realmente ripetuto quelle cose miliardi di volte.
«È tutta la faccenda del contratto con Avelan che mi sta
facendo impazzire. E i bambini, i clienti, la banca, i fornitori, le
spese, gli avvocati, la pubblicità, i giornalisti, Avelan,
Pancake che rompe i coglioni da mattina a sera… quel maledetto
figlio di puttana di Aris! Sandy non basta più a sostenere tutto
questo e neanche Charlotte. Rischio di veder crollare tutto sul
più bello e non voglio succeda» sospirò premendo le
mani sulla faccia.
Scorch fece una smorfia, annuendo stancamente. Sapeva di cosa stava
parlando: ubriaco o no, lui aveva distrutto con le sue stesse mani la
prima “Legendary Customs” lasciandosi sommergere dalle
responsabilità e dagli eventi, cercando aiuto nella bottiglia e
in forze che non possedeva.
«Pensavo una cosa» proseguì Clay, grattandosi la
mascella. «Forse è prematuro. Insomma, ti stai mettendo in
sesto solo da… cosa sono? Due settimane?»
«Quattro» rimbrottò sistemando la camicia nei pantaloni.
«Quattro?» esclamò strabuzzando gli occhi e premendo
una mano sulla bocca. «Cazzo… sembravano meno. Ho perso il
senso del tempo».
«Clay, non voglio dormire qui. Dove vuoi arrivare?» lo
incitò Niklas, dandogli le spalle mentre infilava la giacca.
Non avendo specchi nell’ufficio, usò l’effetto
riflettente che il buio dava alla finestra per rendersi presentabile
prima di uscire.
«Vorrei farti rientrare come socio alla
“Legendary”» buttò lì il capofficina,
come se parlasse del tempo.
Il cugino rimase di sasso, un braccio allungato nell’aria e la giacca indossata a metà.
«S-socio?» balbettò.
Nonostante la vertigine non riuscì ad impedirsi di sorridere. E
l’immagine che gli restituì il vetro scuro era interrotta
dal traverso proprio all’altezza delle labbra, spezzando la sua
vera espressione. Finì di vestirsi e si voltò a
guardarlo, attendendo chiarimenti.
Clay si stiracchiò, controllando se da qualche graffio tornava a gocciolare sangue.
«Non una cosa impegnativa, sia chiaro, anche perché dubito
che la banca sarebbe d’accordo a farti rientrare con una parte
importante dopo i tuoi disastri dell’altra volta; dobbiamo dare
un minimo di garanzie alla stabilità dell’azienda. Pensavo
al cinque percento, dieci al massimo. Così, per iniziare. Magari
tra un paio d’anni rivediamo la cosa, aumentiamo la quota…
intanto puoi riprendere la mano con i “piani alti”,
imparare di nuovo a gestire delle responsabilità che non
riguardino solo i progetti».
In piedi all’altro capo della stanza, Scorch prese un profondo
respiro passando le mani fra i capelli chiari. Stava lottando contro
una voce che solo lui poteva sentire, il desiderio di tornare in
possesso di un pezzo della sua vita che ancora gli sfuggiva. Infine
scrollò le spalle voltandosi verso di lui.
«Hai ragione: è troppo presto» tagliò corto, facendo per andarsene.
«Niklas».
Reagendo all’abituale minaccia nascosta nella chiamata,
l’uomo si fermò. Tuttavia lo sguardo dell’altro era
ben lungi dall’essere incattivito.
«Pensaci» insisté guardandolo da sotto in su.
«Non serve che tu dica subito di sì se non te la senti, ma
almeno considera la proposta. So che tieni alla “Legendary”
più di quanto dai a vedere».
L’ingegnere rimase dov’era, lo sguardo fisso sul cugino
sebbene la sua mente guizzasse frenetica sulle parole che componevano
la proposta. Clayton sapeva bene di aver messo sul fuoco un pezzo di
carne delle dimensioni di un cargo zeppelin sperando di riuscire ad
ingolosire la preda, e si augurava che l’azzardo pagasse.
«Ci penserò quando mi offrirai di tornare a capo di tutta
la baracca» scherzò Scorch assestandogli una pacca sulla
spalla. «Adesso alza il culo e portami a casa. Grazie a quel
catorcio ho perso l’ultimo omnibus per Cenelia».
Writer's Corner.
Mi spiace non
riuscire a tenere il passo delle solite pubblicazioni. Cercherò
di riprendere la cadenza settimanale al più presto.
Ben arrivato a windshade. Aspetto il tuo contributo!
Grazie agli altri lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Nikolas P/Aurelianus.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 29 *** L.C. - Cap. 29 ***
L.C. - Cap. 29
29
Charlotte aprì gli occhi a fatica. Si sentiva esausta.
Dopo la festa – peraltro affatto entusiasmante e resa angosciosa
dagli sguardi taglienti di Goundoulakis – aveva dovuto affrontate
uno dei peggiori fine e inizio settimana da quando lavorava alla
“Legendary Customs”: Delmar l’aveva insultata di
nuovo, due fornitori avevano sbagliato l’invio del materiale, un
altro aveva emesso una nota pro forma gonfiando indebitamente
l’importo, i ragazzi avevano discusso furiosamente per questioni
organizzative e Niklas aveva avuto bisogno del Dottor Hernzt a causa di
un improvviso malore. La presenza del medico era tornata utile per
suturare il fianco di Clayton, infilzato da una scheggia, e per
l’ennesimo occhio nero di Jessie. Inoltre, la donna aveva
trascorso la domenica in compagnia di Sandy: frustrata e abbattuta
dagli esiti non proprio brillanti del party, dove i potenziali clienti
si erano opposti a nuove spese dopo le elargizioni alla raccolta fondi
del Governatore, ed impossibilitata a pensare ad altro per
l’assenza dei figli, le aveva dato il tormento nella vana
speranza di sentirsi coccolare e sostenere almeno in parte. Charlotte
però non era riuscita nemmeno a simulare un briciolo
d’empatia, col risultato d’irritarla ancor di più.
Voltò la testa sul cuscino, guardando il marchingegno delle
dimensioni di una piccola valigia appoggiato alla parete. Un grosso
cavo sbucava dal lato destro e serpeggiando sulle assi impolverate
andava a tuffarsi nella piastra tonda che occhieggiava dallo scollo
della camicia da notte. Uno degli indicatori alla sommità della
macchina segnalava che la carica aveva raggiunto il cinquanta percento.
Si mise a sedere spostando il peso prima sul fianco sinistro,
sollevandosi con lentezza, la mano premuta sul petto. Attorno,
familiari forme scure sembravano darle il buon giorno mentre la bocca
rosea di LucyBelle era spalancata in uno sbadiglio grottesco.
Sospirò passando una mano sulla faccia e controllò di
nuovo l’indicatore, sperando d’essersi ingannata. Altre
volte le era capitato di non riuscire a trasferire completamente
l’energia dall’accumulatore al cuore artificiale, ma si era
trattato di eventi occasionali. Ora, invece, era la prassi. Non aveva
abbastanza tempo per ricaricarlo completamente e quella notte non aveva
fatto eccezione.
Può essere pericoloso
mantenere un basso livello per lunghi periodi, perché il sistema
rallenta e va ad intaccare le riserve di energia del corpo,
consumandole rapidamente, le avevano detto dopo l’operazione. Non
scenda per troppo tempo sotto il quaranta percento, e soprattutto non
vada mai sotto il venticinque, perché in quel caso il blocco
è assicurato e non c’è modo di riavviare
l’apparato.
Ripensare a quelle parole, anche a distanza di tanti anni, le dava i
brividi. Stava rischiando molto, lo sapeva bene, ma confidava come
sempre nel fine settimana per ristabilirsi e riequilibrare
l’energia nei meccanismi. Il sabato i ragazzi uscivano alle sei,
quando capitava che si trattenessero per l’intera giornata,
lasciandole l’intera notte ed eventualmente la domenica per
assorbire l’intera carica.
«Forza, Charlotte. Oggi è martedì, sei già a
buon punto» tentò d’incoraggiarsi, passando le mani
fra i capelli arruffati con un sorriso tirato.
Il lemure le balzò in grembo agitando la lunga coda.
«Hai dormito qui anche stanotte, Lucy? Vuoi proprio far arrabbiare Odrin?» le domandò abbattuta.
I giorni passavano e l’Andull manteneva le distanze, al punto
tale che Charlotte cominciava a nutrire dubbi riguardo un possibile
ripensamento. Non le rivolgeva la parola, neppure per questioni di
lavoro, arrivando a servirsi della voce di Patch per trasmettere le
richieste; non la guardava mai in faccia né tantomeno si
tratteneva per più di pochi istanti nella stanza dove lei
entrava.
L’animale squittì, allungando una zampa sul suo viso. I
ruvidi polpastrelli tamburellarono lievi sulla fronte, quasi cercasse
di consolarla.
Pur non sentendosi troppo rincuorata, Charlotte ricambiò la
gentilezza grattandole la testa e lisciando la pelliccia scura, fin
quando LucyBelle si allontanò, decidendo d’essere stata
ringraziata a sufficienza.
Nuovamente sola con la propria controparte meccanica, sganciò il
terminale con attenzione, estraendo la barra dentellata che penetrava
per tre pollici nel torace, riponendola con il cavo in uno scomparto
del sistema di ricarica. Sfilò la camicia da notte,
stiracchiandosi e rabbrividendo appena nella frescura del mattino.
Rimase immobile tra le lenzuola ancora tiepide. Sulle assi sconnesse
giaceva la piastra curva che simulava la rotondità del seno
sinistro. Charlotte la raccolse, rigirandola pensierosa fra le dita. In
quegli attimi di silenzio e nudità non riusciva a fare a meno di
sentirsi violata, vulnerabile, triste, avvilita. Sbagliata.
«Retch» mormorò fissando la calotta metallica. «E se Odrin avesse ragione?».
Pur rispettando le tradizioni Andull, faticava a credere che una
superstizione avesse tanto potere. Lei non era un mostro, un ammasso di
putridume capace di distruggere altre vite per diletto, era evidente.
Scosse il capo e con uno scatto secco posizionò la protesi.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta quando aveva accettato di
sottoporsi all’intervento e, se fosse tornata indietro,
l’avrebbe rifatto mille volte. Era orgogliosa della sua scelta.
Erano le sei meno venti. Entro poco più di un’ora Lomann
sarebbe arrivato per far partire le caldaie e lei doveva vestirsi,
truccarsi, sistemare tutto e sgattaiolare fuori dalla porticina su
Carretera Bruja per rientrare dall’ingresso principale verso le
otto. Giusto il tempo di girare attorno all’isolato e fare
colazione in una caffetteria.
Si alzò a fatica, reggendosi alle casse che nascondevano il
giaciglio. Piccole lame di luce filtravano attraverso i pannelli
sconnessi del tetto curvo, dove la polvere mulinava dorata precipitando
sul vecchio materasso. Prese degli abiti puliti dalla valigia nascosta
fra gli scatoloni e incominciò a vestirsi tenendo d’occhio
LucyBelle, che aveva il brutto vizio d’infilarsi in ogni
contenitore alla ricerca di cibo, gioco o un posto adatto a un
sonnellino.
Nessuno sospettava vivesse lassù, sopra l’ufficio: in quei
due anni era stata molto brava nel dissimulare la sua presenza. Persino
Boy, che di tanto in tanto saliva a nascondersi all’angolo
opposto dell’edificio, lavorando in silenzio a strane
composizioni di metallo, aveva mai notato nulla. Charlotte una volta
aveva dato un’occhiata alle sue produzioni, senza riuscire a
capirne granché. Aveva il sospetto si trattasse di parti di
motori per veicoli diversi dalle airship, ma non ne era certa.
Anche se non prenderò mai la patente, un giorno dovrò decidermi a farmi spiegare cosa sono quelle cose, rimuginò.
***
Choncho lo guardò una volta. Una seconda. Una terza. Persino una
quarta. Lui restava fermo, lo sguardo lontano dallo scheletro
dell’ariship, il labbro inferiore pendulo e sbavante. Era
un’immagine disgustosa persino per lui che era di stomaco robusto.
«Beh?» sbottò rifilandogli uno schiaffo sulla nuca.
Pancake grugnì un’imprecazione scuotendosi appena.
«Ti sei addormentato, Bidone?
Questo maldetto pianale non si sistema da solo e io sono stufo di
pararti quelle chiappone flaccide!» sbraitò indicando
l’insieme di tralicci rugginosi ed incurvati che avrebbero dovuto
raddrizzare a forza di martellate, martinetti a vapore ad alta
pressione.
Non era messo così male da doverlo buttare, ma occorreva una
buona dose di pazienza e attenzione per non danneggiare la struttura,
cose che non passavano nemmeno per l’anticamera del cervello al
suo socio che lo fissava inebetito, sbattendo le palpebre quasi fosse
appena sceso dal letto.
«Datti una mossa!» urlò.
«Ho fame» biascicò Pancake, frugando negli abiti alla ricerca di qualche fortunoso avanzo.
Choncho gli afferrò i polsi, strattonandoli fuori dalle tasche.
«Non me ne frega niente. Finiscila e muovi quel culone: sei
l’unico che si sta grattando le palle qui dentro!»
latrò indicando i martinetti ancora da posizionare.
«Ho fame» insisté piagnucolando.
Il collega fece orecchie da mercante e riprese a controllare
l’inclinazione della barra su cui stava lavorando da un’ora.
«Ho fame» gracchiò ancora Pancake dondolandosi pericolosamente sui talloni.
Esasperato, Wilmar addentò il manico del martello per soffocare l’eruzione di imprecazioni che gli premeva in gola.
«Sai che ti dico? Chi se ne frega! Fai quel cazzo che ti pare.
Vai! Vai a mangiare, magari ti pulisci la faccia da quello schifo!
Sembra che ti sei leccato una latta di muffa! Stupido Bidone…»
e riprese a controllare la brutta piega impressa da un urto nella parte
posteriore destra del pianale, cercando di capire dove calare i colpi
per rimettere in asse almeno l’aletta superiore del traliccio.
«Certo, a che te ne può fregare, immigrato di merda? A te
lo Stato passa tutto quello che ti serve, mica te lo devi sudare come
me!»
Choncho trasecolò. Il martello cadde a terra con un fragore
inusuale mentre si voltava a guardare Pancake. Non riusciva a credere
alle sue orecchie. Si conoscevano da anni e mai gli aveva sentito
pronunciare assurdità del genere sul suo conto, né su
altri della “Legendary”.
«Cos’hai detto?»
«Mi hai sentito, stronzo. Torna al tuo cazzo di paese, tu e
quella puttana di tua madre» scandì, torreggiando su di
lui con la sua flaccida mole.
Lo sbaffo di polvere verdastra sul suo mento gli dava un’aria di
insana soddisfazione che Wilmar proprio non riuscì a mandar
giù. Finché avesse insultato lui era un conto, ma che
mettesse di mezzo sua madre, con la quale aveva condiviso ore a
guardare quella scemenza di telenovela abbuffandosi dei suoi
manicaretti, arrivando a definirla una poco di buono, era
l’affronto peggiore che potesse fargli.
«Te voy a matar, bastardo!» urlò balzandogli al collo con insospettabile agilità.
Sentendoli urlare, Iron si precipitò a dividerli; i due
però si dimenavano con tanta foga che era quasi impossibile
agguantarli.
«Lascialo! Lascialo, Willie! Lascialo!» gridò quando
riuscì ad afferrargli la cinta, ma il carrozziere era
avvinghiato a suo fratello con tanta forza che pareva avesse
l’intenzione di mozzargli la testa con le proprie mani.
Odrin e Jack li raggiunsero di corsa, interrompendo i lavori sulla
Almond e per diversi minuti nell’officina si spensero i normali
rumori del lavoro. Volarono calci, pugni, schiaffi e ginocchiate,
spesso alla cieca e verso chi era intervenuto. Cassette dei attrezzi
finirono rovesciate a terra e il pianale vibrò pericolosamente
sugli appoggi quando Clay, allertato dal fracasso, piombò su di
loro a sedare la rissa.
***
Niklas levò gli occhi azzurri oltre il bordo di ceramica, fino a
raggiungere il soffitto. All’altro capo della scrivania, Avelan
tamburellava assorto con le dita sulle labbra.
«Possiamo risparmiarci questo ridicolo siparietto? Mi sta venendo
a noia» si lamentò posando la quarta tazza di tisana della
giornata.
«Eppure, Ingegnere, converrà con me che la sua metamorfosi
è davvero notevole! Insomma, conoscevo un uomo dedito al vizio e
al turpiloquio, che spesso non si reggeva neppure in piedi, sragionava,
vestiva in maniera trasandata per non dire indecente e…»
«Grazie per il tenero ritratto. Per cosa sei venuto? Casomai ti
fosse sfuggito, qui abbiamo da parecchio da fare per merito tuo»
lo interruppe prima di mandar giù un’altra sorsata.
In quei momenti rimpiangeva l’astinenza dall’alcol: era la
sola cosa che gli avrebbe permesso di considerarlo sopportabile. Quello
o Charlotte seduta sulle sue ginocchia. Ma dato che la seconda opzione
non era ancora praticabile, avrebbe pagato oro per un bicchiere di
whiskey, gin o tequila, persino per un paio di quelle orrende birrette
annacquate che aveva tracannato nelle peggiori bettole della
città; qualunque cosa pur di stordirsi a sufficienza e
sopportate le trovate assurde di quel chiacchierone. Era persino
dispiaciuto di non aver preso parte alla zuffa di qualche ora prima.
«Sono qui da voi, anzi, da lei giacché il nostro Clayton
è impegnato, perché ho bisogno di un’idea».
L’Ingegnere aggrottò la fronte, spostando
l’attenzione sul tirapiedi che ingombrava la porta, augurandosi
che Charlotte passasse in quel preciso istante sul ballatoio: sarebbe
stata una buona scusa per allontanarsi o, almeno, avrebbe potuto
supplicarla di prendere parte all’incontro.
«Sto cercando qualcosa di grandioso, munifico, lussuoso,
mirabolante, strepitoso… che renda ogni opera per la
realizzazione del museo – dalla prima palata di terra degli scavi
all’ultimo strofinaccio passato sulle vetrate – una
calamita per gli occhi e la mente della gente, e che questa rimanga
allibita, senza parole!»
«Rischio che tu non corri. I vocabolari da mangiare glieli
procuri tu o li scova da solo?» domandò Almgren a Thomas.
L’assistente sembrò vacillare, pareva fosse tentato di
ribattere. Nonostante si presentasse come un monolito nero e taciturno,
molti avevano l’impressione morisse dalla voglia di vuotare il
sacco riguardo le ore trascorse ad ascoltare le verbose tiritere del
capo.
«Ostap, vorrei ricordarti che non ho voce in capitolo. Se ti
serve qualche dritta su ciò che fa la “Legendary
Customs”, dovrai aspettare Clay e trattarlo coi guanti. È
piuttosto… su di giri. Altrimenti se si tratta di pubbliche
relazioni o conti, sai già a chi rivolgerti. Io mi occupo solo
di stabilire le linee guida per sistemare le vecchie glorie che ci stai
rifilando» rimbrottò.
Detto ciò, riprese a tracciare linee e formule sullo schizzo della Steeler VN arrivata quel mattino.
«Se me lo concede, è piuttosto seccante. Ho bisogno di un
interlocutore fisso con cui poter discutere ciò che riguarda i
miei piani!» piagnucolò battendo i pugni sui braccioli
della poltroncina.
Quando si agitava a quel modo somigliava in tutto e per tutto ad un
bambino capriccioso. Purtroppo però aveva ragione e Nikals ne
era consapevole.
«Non posso farci niente, te l’ho detto. Non sono io il capo» aggiunse a denti stretti.
«Una volta lo era» ribatté untuoso, fingendo d’interessarsi agli anelli che portava sulle dita.
A quell’insinuazione le labbra del progettista si tesero in una smorfia rabbiosa, subito ricacciata indietro.
Dall’altro lato della scrivania, Avelan si compiacque della
reazione: sapeva di aver toccato un nervo scoperto e insistette.
«Sarebbe utile poter contare su una figura di riferimento cui
rivolgersi in ogni situazione, senza dover attendere il termine di
lavorazioni impegnative o di momenti burrascosi. Si eviterebbero
inutili perdite di tempo che, come lei ben sa, si traducono quasi
esclusivamente in perdite economiche».
Sarebbe stato sciocco negare l’evidenza e Niklas lo sapeva bene:
i vecchi debiti della società si erano accumulati proprio per il
suo vizio di procrastinare perché sempre oberato di lavoro e
bicchieri da vuotare.
Ciò che rifiutava di mandare giù era l’intromissione nei suoi progetti.
Scrutò il cliente a braccia conserte, deciso a mettere il punto alla questione una volta per tutte.
«Se hai parlato con Clay di quella sua idea cretina, sappi che la
risposta è la stessa: no. Non rientrerò come socio di
minoranza».
***
Lo sentiva. Lo sentiva eccome ma fingeva d’essersi appisolato
come sempre. Non voleva essere trascinato nell’ennesima bega, gli
erano bastati il caos di quella mattina, la gomitata nelle costole e la
strigliata che avevano ricevuto da Clay e Charlotte a pranzo. Era un
po’ che la segretaria non arrivava ad imporre ammende e quel
giorno era stata di ben cinque trias a testa. Clay, tutt’altro
che soddisfatto dalla temporanea tregua, aveva inasprito la punizione
rifilando al quartetto un paio d’ore di pulizie, augurandosi che
un po’ d’olio di gomito raffreddasse quelle teste calde.
Giacomo voleva solo starsene steso sul pianale dell’Almond in
santa pace mentre nella sua testa cavi, corde di richiamo, valvole,
condotti, snodi e pulsantiere si scomponevano e ricomponevano secondo
un ordine rigoroso.
«Jack!» strillò di nuovo la voce, questa volta
accompagnata dal battere furioso di qualcosa contro la fiancata del
mezzo.
Rassegnato, sgusciò tra la pedaliera e il piantone delle cloche.
«’caputtanevarojammiseria!» sbadigliò emergendo dal nascondiglio con la coppola calata sugli occhi. «Ma che vuoi, Patch?»
«Ti cercano» bofonchiò.
Allungò il collo oltre la spalla dell’amico, strizzando gli occhi nella luce abbagliante del pomeriggio.
«Dì un po’, da quando te la fai con le signorine di
Mac Gregor?» ridacchiò il collega mentre la chiazza scura
sul portone prendeva contorni più definiti.
Nonostante gli abiti meno appariscenti del solito, era impossibile non
riconoscere Vivian, se non altro la voluminosa aureola di riccioli che
le contornava il viso scuro.
Accanto a lei, trepidante come un bambino a Natale, la sagoma piccola e
storta del nonno con indosso il vestito della festa che gli cadeva
dalle spalle.
«Ave Pater Gloriae» mormorò Jack, usando quel modo
di dire tipico della nonna quando il consorte le faceva cascare le
braccia con qualcuna delle sue uscite.
Non appena li raggiunse, Vivian si affettò a chiarire come stavano le cose:
«Non prendertela. Avrei dovuto dire di no, ma la nonna stava
impazzendo e la zia non era da meno. Ho dovuto portarlo o avrebbe dato
il tormento anche a Linda».
«Immagino. Quando l’cumencia, al ta strèpa vià la pél di oss1» rispose controllando che Clay non fosse nei paraggi.
Proprio non gli andava un’altra ramanzina.
«Ta pödet dì giuro2»
sbuffò la donna. «Ho dovuto accontentarlo. E dire che
è il mio giorno libero… speravo di evitare i marmocchi
capricciosi» soggiunse, presagendo i resoconti che avrebbe avuto
su Adam.
«Almeno hai avuto un bel tempismo. Hito l’ha appena…»
«’nduela? Ta l’è casàda n’doe?3» brontolò irritato il vecchio facendosi avanti per minacciarlo col pugno ossuto. «Quando
la ria a cà to mama ti senteret a sura po’ de le. Purtam
via la me escìpp! Ma dise, Francesco! Ta ghét cusé
n’del co? Se ghera mia chesta bela zùena che la sera
n’doe ta seret e che la m’ha purtàt che de cursa,
chisà cusa ta areset cumbinàt! J’è mia i
tò laùr!4»
I due cugini tacquero addolorati. Lo aveva di nuovo scambiato per suo
figlio e non aveva riconosciuto Vivian, non ricordava fosse sua nipote.
«Calmes, rebiùs. Go fai dà ‘na netada, che l’era töta ùcia. Adèss la par nöa5» protestò bonariamente Jack, facendo segno ad entrambi di seguirlo.
Le scarpe di Vivian ticchettarono sul pavimento, attirando gli sguardi furtivi di Boy e Ozone.
Hito stava lucidando con cura maniacale la carrozzeria della 7.201
usando una pelle di agnello nuova. La cera appena stesa faceva
scintillare la vernice verde-azzurra e le cromature delle bandelle
laterali, rimesse a nuovo. Il numero sette dipinto sul muso era di una
bellezza oleosa, talmente vivido che ci si sarebbe aspettati di
sentirlo palpitare sotto le dita.
Giuseppe girò attorno all’aeromobile sgranando gli occhi
miopi e sorridendo a ricordi che solo lui poteva rivivere nelle vecchie
carni essiccate dalla velocità. Con l’aiuto di Hito e Boy,
Giacomo lo issò al posto di guida. L’anziano pilota si
sistemò sul sedile emettendo un sospiro commosso, le mani
tremanti e le lacrime che solcavano le guance cadenti. Strinse le
cloche con attenzione, quasi si rendesse conto del tempo trascorso
dall’ultima volta che le aveva tenute così. Tutto
d’un tratto gli anni e la malattia parvero abbandonarlo e la
piccola folla radunatasi attorno vide il campione di quarant’anni
prima, pronto allo scatto.
«Se qualcuno si sta picchiando di nuovo si prepari a non vedere lo stipendio!» ruggì qualcuno.
I presenti trasalirono, a dispetto della loro innocenza, e Vivian fu la
sola a sorridere maliarda alla corpulenta figura che sopraggiungeva dal
portone sul retro caricata di alcune grosse forme sporche di terra e
sabbia.
«Tranquillo capo, è mio nonno che sta provando la sua
airship» spiegò Jack indicando la testa quasi calva che
emergeva a stento dall’abitacolo. «Lei è Vivian, te
la ricordi?»
Clay la salutò appena per rivolgere gli onori del caso al campione.
«Signor Balzaretti, è un onore averla qui» disse avvicinandosi e tendendo una mano.
Giuseppe rispose con un cenno sbrigativo, più per congedare lo
scocciatore che per salutarlo, e cominciò a provare ogni singolo
interruttore, ascoltandone il suono e saggiandone la rigidità,
mormorando la lista dei check.
«Capo, lascia stare. Lui… non c’è tanto con
la testa» spiegò Jack, a disagio nel dare spiegazioni ben
sapendo che Clay era al corrente di ogni cosa.
«Se lo vedesse la nonna gli urlerebbe di scendere» mormorò emozionata Vivian.
«Tuo nonno sembra pronto per scendere in pista»
commentò distrattamente Hito. «La sua forza interiore
è rimasta inalterata come il filo di una lama riposta nel giusto
fodero».
«Signori, il dilemma è risolto!» esclamò
giulivo Avelan, facendo sobbalzare tutti quanti comparendo dal nulla.
«Guardatelo! Guardatelo! Italico Balzaretti alle cloche della sua
celebre 7.201!» strillò indicando l’anziano con
entrambe le mani, quasi che nessuno avesse notato la sua presenza.
L’osservazione era talmente ovvia e sconcertante allo stesso
tempo che i presenti si ritrovarono a fissare inebetiti l’ometto,
il quale, dal canto suo, insisteva ad ignorarli beatamente, preso dai
controlli.
«È deciso! Thomas! Provvedi immediatamente a contattare il
nostro ufficio stampa, entro domani voglio la prima pagina dei maggiori
quotidiani delle Colonie, nessuno escluso! E se fanno storie, sai come
convincerli».
«Avrà finito la carta in bagno?» ridacchiò
sottovoce Patch e Odrin fece un’immensa fatica per non ridere.
«Che ti sei messo in testa?»
Ostap ruotò su se stesso con le braccia spalancate e
guardò il ballatoio dov’era affacciato Niklas che, con il
mento tra le mani, attendeva una risposta.
«Cosa mi sono messo in testa? Che cosa?» replicò sempre più gioioso.
La sua voce riecheggiava tra le mura della “Legendary”,
assumendo una sfumatura quasi eroica. Si arrampicò a fatica su
uno dei carrelli, ergendosi in posa da arringatore sopra carrozzerie e
arnesi luridi.
«Noi! Noi daremo vita al più grande spettacolo mai
realizzato prima d’ora per la posa della prima pietra di un
museo!» dichiarò.
I secondi che seguirono furono percorsi da occhiate perplesse e sorprese.
Clay era talmente confuso da dimenticare quanto era ancora nervoso per la rissa di quella mattina.
«Capo, scusa… ha detto… “noi”?» domandò Choncho grattandosi la bandana.
1 Quando l’cumencia, al ta strèpa vià la pél di oss: in dialetto bergamasco “Quando comincia, ti strappa via la pelle dalle ossa”.
2 Ta pödet dì giuro: in dialetto bergamasco “Puoi giurarci”.
3 ’nduela? Ta l’è casàda n’doe?: in dialetto bergamasco “Dov’è? Dove l’hai messa?”
4 Quando la ria a
cà to mama ti senteret a sura po’ de le. Purtam via la me
escìpp! Ma dise, Francesco! Ta ghét cusé
n’del co? Se ghera mia chesta bela zùena che la sera
n’doe ta seret e che la m’ha purtàt che de cursa,
chisà cusa ta areset cumbinàt! J’è mia i
tò laùr!: in dialetto bergamasco “Quando
arriva a casa tua madre le sentirai anche da lei. Portare via la mia
airship! Ma dico, Francesco! Che cos’hai in testa? Se non
c’era questa bella giovane che sapeva dov’eri e che mi ha
portato qui di corsa, chissà cosa avresti combinato! Non sono
cose tue!”
5 Calmes, rebiùs. Go fai dà ‘na netada, che l’era töta ùcia. Adèss la par nöa:
in dialetto bergamasco “Calmati, rabbioso. Gli ho fatto dare una
pulita, che era tutta sporca. Adesso sembra nuova”.
Writer's Corner
Ringrazio tutti per la pazienza. Non è facile rimettersi in
sesto con le pubblicazioni, ma sto cercando di darmi da fare per
recuperare il tempo perso e la cadenza settimanale.
Nel frattempo ringrazio: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, a cui si sono aggiunti MorphineJ, Niki12 e Nana Punk.
Ovviamente ribadisco a tutti l'invito a darmi i vostri pareri sulla storia!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 30 *** L.C. - Cap. 30 ***
L.C. - Cap. 30
30
Paul gettò a terra un plico di giornali. Aris gli dava le
spalle, raggomitolato tra i piedi dell’immensa scultura. Da
diverse notti era preda di uno strano torpore, una mollezza da ubriaco
che il tirapiedi ricordava di aver visto spesso in Scorch e
occasionalmente su sé stesso.
«Avete fatto scoppiare il caos in città»
commentò a mezza voce, rigirando col piede un quotidiano per
mettere in luce l’articolo di prima pagina. «Sono tutti
impazziti, non si parla d’altro».
Il titolo raccontava a caratteri cubitali della strepitosa iniziativa
di Avelan e di come Goundoulakis avesse scelto non solo di assecondarla
ma addirittura di rincarare la dose prendendovi parte.
Il busto di Aris vibrò per quelle che sembravano risatine o colpi di tosse.
«Soddisfatto?» mugugnò ancora Paul, spiando
un’altra testata dove si sprecavano fiumi d’inchiostro solo
per ricordare a tutti che il venti novembre, al Golden Ring di
VeloCity, si sarebbe tenuta una grandiosa sfida al di fuori dei Gran
Premi ufficiali.
Le ipotesi circa la presenza di nomi noti dei circuiti fioccavano da
ogni lato, la ressa degli sponsor cittadini per accaparrarsi il
campione di turno avevano solleticato sin dal primo giorno
l’interesse di sostenitori e curiosi.
«Ho saputo che Avelan sta contrattando con Gunnar. Lo vuole alle
cloche ma quello sta facendo il difficile: ha il Prix du Nord a
dicembre e sta accampando scuse perché vuole concentrarsi sulla
messa a punto della Cannonball 17, visto che il russo l’ha
costretto a sganciargli la 16.2 per il museo dopo l’ultima gara
ufficiale» sbadigliò.
A Paul non interessava granché delle corse di airship, le
trovava piuttosto banali, salvo quando vestiva i panni
dell’allibratore. In quel caso era tutta un’altra faccenda,
specie se c’erano parecchi polli da spennare.
«Bisognerà che ti dia da fare, se non vuoi rimangiarti
tutto e farci la figura del coglione» suggerì
stiracchiandosi, mentre mescolava parole e gemiti.
Il suo capo non pareva propenso a balzar giù dal trono
esibendosi in quelle frecciatine malefiche o sciorinando ordini che
l’avrebbero condotto nella peggiori fogne della città.
«Mi devo attivare per far cambiare idea al re degli
aerodromi?» azzardò privo di entusiasmo, incrociando le
dita nelle tasche affinché quel compito spettasse ad altri.
Aris tacque, sembrava essersi addormentato.
«Beh, allora vado. Ho detto alla donna della mia vita che
l’avrei portata a fare colazione a “Le Gâteau
Carrousel” prima di portarla a scuola» annunciò,
mascherando dietro l’abituale insofferenza il sorriso che gli
saliva alle labbra.
Le aveva promesso da tempo quel momento padre e figlia, per il quale
non aveva chiesto intercessioni a Goundoulakis: si era dato da fare
piazzando diverse partite extra di alcolici e “polveri
terapeutiche”, rivenduto gioielli dei quali i proprietari
potevano fare a meno e riscosso alcuni “vecchi crediti”,
racimolando abbastanza denaro per comprare alla sua bambina ogni ben di
Dio, incluso un pasticcino al cioccolato. Dal canto suo, Becky aveva
atteso quel mattino con la stessa ansia febbrile di un tossico per la
dose, tormentandolo in cerca di conferme ogni volta che le aveva
rimboccato le coperte o l’aveva accompagnata alle lezioni di
pianoforte e danza, supplicandolo con i soli occhi sgranati di fare in
modo che quel desiderio si avverasse senza intoppi.
Dirlo ad Aris era un modo come un altro per ribadire d’aver terminato il proprio turno e di non voler seccature.
Stava per chiudersi la porta alle spalle quando sentì chiamare.
«Clench?»
Imprecò sottovoce, irritato da quello che avrebbe potuto
tradursi in un indesiderabile contrattempo. Si costrinse a rimettere la
testa nello studio, dove Aris si era alzato. Camminava curvo verso la
vetrata, con un’andatura da vecchio decrepito, instabile
nonostante il bastone.
«Sì?»
Lo guardò raddrizzarsi a scatti, simile ad uno di quegli automi
della fiera che predicevano il futuro o facevano giochi di prestigio
sbuffando vapore dalle giunture non appena s’infilava un
méit nella cassetta ai loro piedi. Gli parve impiegasse una vita
intera a ritrovare una postura umana.
«Esiste la velocità perfetta?» domandò, più a se stesso che allo scagnozzo.
Paul ci pensò un istante.
«Sì: quella che ti fa arrivare prima da chi ti aspetta» replicò scocciato, sbattendo la porta.
***
Gli spogliatoi della “Legendary” si tramutavano in un forno
durante l’estate: le finestrelle nel locale docce erano a
malapena sufficienti a garantire un minimo ricambio d’aria, ma
solo se la porta d’entrata era aperta, così come i
battenti del portale dell’officina. Approfittando di una capatina
in bagno tra un’analisi e l’altra, Clay e Scorch avevano
deciso di rimuovere i vetri per dare un minimo di sollievo ai ragazzi.
Quando entrarono nella stanza però, un ammasso gibboso e
tremolante ansimava rannicchiato sul pavimento tra scatole di latta
sparse alla rinfusa.
«Pancake? Che ti prende?» chiamò preoccupato l’ingegnere.
La risposta non somigliava a nulla che avessero mai udito in vita loro.
Se il carrozziere si stava ingozzando, lo stava facendo infilandosi il
cibo su per il naso.
«Che stai facendo?» domandò Lomann avvicinandosi.
Quello si voltò, gli occhi dilatati a dismisura, la bocca
intasata da un boccone troppo grande, il mento lucido di saliva
verdastra. Lo stesso viscidume imbrattava le dita con cui stringeva un
minuscolo tubo di cartone.
In un istante, il capofficina gli piombò addosso, ribaltandolo
sul fianco e spargendo ovunque i resti ammonticchiati del pasto fuori
orario. Aveva perso il conto degli avanzi macilenti che avevano trovato
sparsi un po’ ovunque per l’officina, ma questi erano
diversi, erano pericolosi.
«No! No!» berciò l’omone rotolando sul pavimento.
Si dimenava sulle piastrelle, goffo come una tartaruga sulla spiaggia.
«Che cazzo stai facendo?» gridò Clay afferrandolo
per la bretelle della divisa e indicando la polvere ormai sparsa
ovunque. «Dimmelo!»
Pancake squittiva e frignava, allungandosi per afferrare i rimasugli.
Sputacchiava saliva densa quanto il muco che gli colava dal naso.
«Parla!» gl’intimò furente. «Parla, o giuro che ti ammazzo!»
Il progettista inorridì, raggiunto da un puzzo nauseante.
Riconobbe solo in quel momento la polvere verdognola e maleodorante.
Era Sglitz o, almeno, era
così che l’aveva chiamata PigTail quando Clayton
gliel’aveva trovata addosso molti anni prima. Un miscuglio di
funghi allucinogeni e derivati chimici di misteriosa provenienza,
reperibile per pochi méit in qualsiasi vicolo della città.
«Del, rispondi!» lo incitò Scorch, sperando che se
avesse risposto, l’altro perlomeno l’avrebbe lasciato
andare.
«Perché hai quella? Perché l’hai portata
qui?» ruggì, ma vedendo che Pancake non gli prestava
attenzione, prese a schiacciare le malconce merende sotto la suola
degli scarponi.
Niklas lo guardava atterrito, incapace di reagire: non aveva mai visto suo cugino comportarsi a quel modo.
«È roba mia!» piagnucolò Pancake cercando di
mettere in salvo la poltiglia, spargendo intorno altro pulviscolo color
muschio. «Mi fa bene… mi serve… non mi f-fa
in… g-grassare» cantilenò continuando ad
ammucchiarlo amorevolmente.
Niklas e Clayton si guardarono increduli. Davvero non si era reso conto
d’aver messo su almeno una ventina di libbre buone solo negli
ultimi due o tre mesi? Era così sconvolto da quella robaccia da
non capire cosa gli stava succedendo?
«Da quanto la prendi?» ringhiò Clay afferrandolo per il colletto della camicia.
Il meccanico si divincolò agitando le braccia e scalciando, costringendolo ad arretrare.
«Da quanto, Pancake?» insisté il progettista, tremando dal voltastomaco.
Finalmente si decise ad alzare il testone sudato dal pavimento.
«Un po’…» biascicò, dondolandolo da un lato all’altro.
«Da quanto?» ripeté ancora Scorch.
«M-mesi… boh. Tanti… sempre» e prese a
sghignazzare. «Non sa di niente. È tutto buono. È
buona… come me… io sono buono. Quelli là
fuori… l-ladri… figli di puttana… b-bastar-rdi
m-alati».
Detto ciò, tornò a racimolare il prezioso tesoro,
incurante della sporcizia che vi si mescolava. Ansimava sibilando come
un aerostato bucato.
«Cosa facciamo? Non può restare qui in questo stato» osservò sottovoce Niklas.
Vedere Pancake rovinato dal proprio vizio gli provocava un terrore
sordo, la consapevolezza d’essere stato in quelle stesse
condizioni a causa dell’alcol.
«No. Non può» concordò gelido.
Deglutì a fatica, spingendo nello stomaco un peso colossale.
Rigido, si accostò a Pancake, e dopo averlo osservato pieno di
disgusto, gli rifilò una pedata tra le scapole che lo
mandò prono sul malsano monticello.
«Fuori di qui, tu e quella merda. Sparite» decretò spazzando col piede gli aloni sparsi intorno.
Dopo un primo attimo di confusione, sembrò che Pancake si fosse
reso finalmente conto di quel che stava accadendo. Il volto oblungo si
contorse minaccioso.
«Tu non sia cosa stai facendo!» ghignò dondolando sulla schiena nel tentativo di raddrizzarsi.
«Lo so benissimo. Vattene, Delmar».
Quello riuscì faticosamente a trascinarsi bocconi sul pavimento, sbuffando, piagnucolando e imprecando.
«Sei un bastardo traditore! Io sono come te, non puoi farlo! Io,
non loro! Stronzo!» gridò stridulo cercando di gettarsi su
di lui.
Niklas provò a bloccarlo ma finì contro il muro mentre il
carrozziere barcollava in avanti, mancando l’obbiettivo e
raggiungendo ventre a terra la porta.
«Vattene subito!» tuonò Clay muovendo un passo verso di lui.
Lo scarpone da lavoro impattò con tanta violenza da riecheggiare sulle pareti dello spogliatoio.
«Non farti rivedere mai più» intimò, calciandogli contro una delle scatole.
Pancake si rimise in piedi artigliando gli stipiti, stringendo al petto
il contenitore, e fissò il capofficina in cagnesco per lunghi
istanti. I mantici delle spalle si alzavano e abbassavano con tale foga
da far sussultare ogni balza di carne sotto gli abiti macchiati di
saliva e cibarie. Delmar “Pancake” Parker era nulla
più che un’ampia chiazza d’olio usato vaporizzata
nel varco illuminato dal sole. Infine, sputò a terra e
girò sui tacchi.
Clayton, furibondo, prese a pugni gli armadietti. Rimase appoggiato
agli sportelli, le nocche piantate nel metallo ammaccato quasi a
volerlo perforare, la testa incassata nelle spalle. Quasi non
respirava.
Niklas seguì Pancake all’ingresso e rientrò solo
quando la sua ombra tremolante scomparve alla vista, inghiottita dalla
calura di Amyngton Boulevard. Improvvisamente l’aria negli
spogliatoi si era fatta di piombo.
«Sei sicuro che fosse l’unica soluzione? Vuoi che vada a
parlargli?» disse piano, poco convinto della sua stessa proposta.
Clay scivolò sulle ginocchia, lasciando cadere le braccia.
Rimase così per diverso tempo, muto, i denti serrati con tanta
forza da stridere. Aveva tollerato molte cose, tante, troppe forse.
Dalle bottiglie di alcolici alle peggiori volgarità alle
scazzottate senza senso; dai ritardi cronici alle continue richieste di
aumenti o anticipi ai furtarelli di materiale. Aveva chiuso un occhio
persino sulla “signorina” che aveva sorpreso nel magazzino
ricambi con Ozone, ma la droga era qualcosa che non poteva accettare.
Un improvviso velo d’angoscia calò su di lui mentre il gomito mandava fitte dolorose a tutto il braccio.
«Va’ a dire a Charlotte di preparare i documenti per il licenziamento in tronco» esalò infine.
A Scorch occorse qualche istante per rendersi conto di non aver immaginato la richiesta.
«Clay, pensaci bene. Siamo oberati di lavoro, non possiamo
permetterci di perdere uno dei ragazzi, anche se ha fatto girare i
coglioni a chiunque» obbiettò esterrefatto.
Conosceva bene la scarsa inclinazione al perdono di suo cugino –
lui era uno dei pochi privilegiati a goderne - , ma mai e poi mai si
sarebbe aspettato una manovra tanto drastica: quando aveva licenziato
PigTail l’aveva scaraventato oltre i cancelli, non prima di
avergli urlato nelle orecchie ogni possibile insulto e rampogna almeno
una dozzina di volte. Con Pancake si era mostrato molto più
cattivo, severo, indisponente, spietato. Irragionevole.
«Mai stato così sicuro di quel che ho fatto come lo sono
ora» grugnì passando le mani sulla faccia prima e sulla
testa rasata poi. «La squadra deve funzionare, non incepparsi di
continuo per un ingranaggio difettoso. Anche se non sappiamo più
come fare per star dietro a tutte le consegne. Ci inventeremo qualcosa,
parleremo ad Avelan. Ne usciremo, siamo in gamba. I migliori. Quello
che mi pesa è doverlo dire ad Iron quando tornerà dallo
sfasciacarrozze, ma non potevo... non potevo. Tu mi capisci,
vero?»
L’altro inspirò profondamente e annuì greve,
mentendo. A lui non era mai toccato licenziare nessuno, dato che quando
aveva avuto il comando erano stati i dipendenti ad andarsene per
disperazione. Poteva solo immaginare quanto fosse difficile allontanare
uno come Pancake, che faceva parte della vecchia guardia, anche di
fronte ad una scoperta come quella.
«Le dirò di prepararli subito».
***
Gli occhioni azzurri di Lilijana lo fissavano da un tempo indefinito.
L’aveva affiancato di soppiatto e si era chinata in avanti,
mettendo volutamente in vista la profonda scollatura dell’abito,
nella speranza di strappare almeno un commento
«Adam?» chiamò sottovoce.
Lui tacque, sprofondato nella poltrona, le mani giunte
all’altezza del volto e l’attenzione calamitata dagli
articoli sparsi sulla scrivania.
Cosa vi siete messi in testa? Che volete fare? Che senso ha tutto questo? si domandava scorrendo avanti e indietro le righe vergate dai cronisti, tutti concordi sulla grandiosità della sfida.
Qualcosa gli sfuggiva. Il coinvolgimento di entrambi, che ora
arrivavano a spalleggiarsi dopo anni trascorsi in una guerra
silenziosa, era a dir poco allarmante.
«Lascialo in pace» l’ammonì Vivian, torva. «Sta pensando».
Lilijana sbuffò con forza, scompigliando la ciocca di capelli
che ricadeva sull’orecchio di Adam. L’uomo rimase immobile,
insensibile al gesto che di solito l’avrebbe condotto ad una
risata divertita e alla supplica di rifarlo.
«È per quello che sono preoccupata. Quando sta in silenzio
così tanto…» mormorò giocherellando
nervosamente con la cascata bionda che le ricadeva sulle spalle.
Le donne uscirono dallo studio, sistemandosi nella nicchia di fronte
alla porta lasciata socchiusa. Quando Avelan aveva annunciato la gara
per celebrare la posa della prima pietra del museo, sul volto di Adam
era comparsa un’ombra. Il senso di quel gesto non l’aveva
incantato com’era accaduto per la popolazione: aveva scorto
qualcosa nell’annuncio e nelle sue immediate conseguenze, che
andava molto al di là della scintillante impresa pubblicitaria.
Arrovellarsi su tali questioni era fuori della loro portata ed
assolutamente inutile, giacché Adam le avrebbe messe a parte
delle sue elucubrazioni al momento opportuno. Così, Vivian
decise di portare la conversazione su argomenti utili a passare il
tempo, in attesa che la situazione si smuovesse.
Lilijana portava sulla mano sinistra un anello d’argento che
ricopriva due falangi quasi per intero e parte del dorso, tanto era
lungo. La dimensione non era frutto di un vezzo o della
creatività dell’artista, bensì di una motivazione
pratica: premendo un bottoncino nascosto, la lamina istoriata ruotava,
simulando la parte superiore dell’arma. Tuttavia, erano mesi che
la collega cercava di sostituirlo con un arnese degno di quel nome e
delle capacità offensive che gli si attribuiva.
«Il tirapugni l’hai preso? Non mi pare di avertelo ancora
visto» domandò, guardandola agitarsi sul minuscolo
divanetto.
«No. Sembrano tutti usciti da una ferramenta! Sono orribili!
Delle porcherie indegne persino dei furfantelli di New Homes!»
piagnucolò strattonando nervosamente le vaporose balze di tulle
della minigonna.
«Dovresti fartelo fare» suggerì sedendole accanto, ora che le aveva fatto posto.
«I gioiellieri mi guardano male quando lo chiedo» si
lamentò candidamente, poggiando i gomiti sulle ginocchia e
prendendo il viso tra le mani.
Vivian si sforzò di non sgranare gli occhi oltre il limite d’una discreta sorpresa.
«Tu hai… chiesto a dei gioiellieri… di fartene uno?»
Poteva solo immaginare la faccia dei malcapitati di fronte alle
richieste da picchiatore di quella figuretta angelica. Nessuno avrebbe
mai pensato che dietro quell’apparenza eterea e capricciosa
potesse celarsi la figlia prediletta ed aspirante erede di un assassino
di stato della Federazione Prussiana, detentore di un generoso carnet
di omicidi illustri.
«Più di una volta! Quando sono educati mi chiedono se non
preferirei degli orecchini di brillanti o un braccialetto, quegli
sciocchi! Non posso difendere Adam con un filo di perle! E poi, come lo
dovrei usare? Se lo uso come laccio si spezza! È fragile! E non
chiude bene le vie respiratorie, lascia un minimo di spazio per
l’aria! E gli uncini degli orecchini sono piccoli e deboli, van
bene solo se li pianti nell’occhio del tuo avversario, non nel
suo collo: non fanno abbastanza danni!»
Nonostante molte altre ragazze al servizio di Adam vantassero
curriculum analoghi a quello di Lilijana, lei era la sola a sbandierare
con tanto orgoglio le sue doti di criminale mancata. Persino Vivian,
che aveva trascorso l’adolescenza tra risse e corse clandestine
in una personale ribellione ai cliché della società,
evitava di mettere in piazza quelle credenziali così poco
lusinghiere. E nonostante ciò, era stato proprio grazie a queste
che Mac Gregor l’aveva scovata e scelta per essere una delle sue
collaboratrici.
«Mie dolcissime colombelle, proprio voi cercavo!»
esclamò Adam spalancando in quel momento le porte con un gesto
esageratamente teatrale.
Dell’uomo cupo di poco prima non c’era più alcuna
traccia: avevano di fronte un giovanotto sorridente, che gonfiava il
petto e i cui occhi chiari brillavano di spensieratezza. Per la foga la
camicia era sfuggita dalla cinta e oscillava floscia come una bandiera
senza vento.
Scattarono in piedi, pronte ad esaudire ogni sua richiesta.
«Mi sento oppresso da queste quattro mura e, soprattutto,
particolarmente generoso. Che ne dite se vi accompagno a fare un
po’ di spese selvagge nel Core?» domandò stringendo
il nodo del foulard, producendosi in una smorfia ammiccante che non
lasciava spazio a dinieghi.
Vivian levò gli occhi al cielo, assordata dai gridolini di giubilo della collega che gli era saltata al collo.
***
Choncho scese dall’omnibus a pochi passi da casa. Il sole era
basso sull’orizzonte e illuminava la corpulenta figura di sua
madre, china nell’orticello. Inspirò a fondo, inghiottendo
il rospo, ormai rassegnato a fare l’ambasciatore al posto del
capofficina. La superò bofonchiando un saluto e prese posto sui
gradini della veranda.
«Che pasa, niño?» domandò lei, intuendo il suo malessere anche senza guardarlo.
A disagio, Wilmar sfilò la bandana, massaggiando tatuaggio della Beata Vergine.
«Mamá…» iniziò, girando la testa quasi parlasse alla recinzione.
Maria raddrizzò lentamente la schiena e le ginocchia doloranti.
Raggiunse barcollando il figlio improvvisamente ammutolito e gli
sedette accanto. Il coriandolo e il timo spargevano un profumo intenso
dalla cesta, mescolandosi all’odore della terra che ancora le
impiastricciava i piedi nudi. Sulla strada passavano airship da
trasporto lente e scalcagnate, di ritorno dai campi e dai cantieri
edili.
«Pancake non lavora più con noi. Clay l’ha cacciato» disse infine.
«Per la lite?»
«No. Dice… dice che si drogava. L’ha beccato negli
spogliatoi con della roba strana. Gli ha detto di levarsi dai piedi,
che non lo vuole più vedere. Nunca más1».
Nonostante conoscesse Pancake da più di dieci anni e con lui
avesse condiviso moltissimo, ora non poteva fare a meno di domandarsi
chi fosse la persona con cui aveva lavorato negli ultimi tempi.
«Mamá, io credo
che non tornerà. Non verrà a chiedere scusa, è
troppo fuori di testa» proseguì scrollando le spalle
tarchiate. «Clay ha detto a me di dirtelo perché ci sta
male e non sapeva come fare».
La donna sospirò cupa e prese a sgranare i fagioli. I legumi
cadevano con tonfi leggeri nella canestra, grani di un rosario vegetale.
«Sai, quando nella nona puntata della quarta stagione Felix se n’è andato…»
«Mamá, por favor!» piagnucolò, avvilito dall’ennesimo paragone con la soap opera.
«Quando Felix se n’è andato,» riprese
imperterrita, «Justina si è disperata. Pensava che il
mondo sarebbe finito senza di lui e invece è arrivato
Peter».
«Ma se quel coglione non la caga neanche!» sbottò
Choncho. «Ieri ha anche negato di essersela scopata! Ma se gliela
da ogni cinque puntate! L’ultima volta l’hanno fatto sulla
terrazza dove c’era il party e Delora li ha pure visti! Bisogna
essere proprio malati per…»
Si bloccò di fronte alla sorpresa di sua madre, colpita
dall’improvvisa attenzione per quella serie che si vantava
d’aver sempre detestato. In realtà non mentiva: la
disprezzava in maniera viscerale, tuttavia aveva scoperto
d’apprezzare Fernanda Barbero, l’attrice che impersonava
Milù, la cugina imbranata e sognatrice di Justina. Non
l’aveva detto a nessuno perché l’idea di doversi
rimangiare, anche in minima parte, gli anni di insulti rivolti a
“Le Porte di Backfield Road” lo faceva vergognare a morte.
«Comunque, una partenza può essere dolorosa ma non
significa che sia un male» concluse Maria passandogli un braccio
attorno alle spalle.
Wilmar si lasciò andare contro il suo petto.
«È mio amico, mamá.
Mi ha spiegato lui le saldature e io gli ho fatto vedere come si
pulivano i martinetti. Ci prestavamo gli attrezzi. Bevevamo insieme
all’“Archituono”!»
Nonostante avesse trentaquattro anni, in quel momento si sentiva un
bambino, totalmente incapace di comprendere il mondo che aveva intorno.
Odiava sentirsi stupido ma ancor più odiava non aver notato che
qualcosa non andava nel Bidone. Da buon cristiano riteneva suo dovere aiutare il prossimo e non essere riuscito a tenervi fede lo addolorava.
«Anche Justina pensava che Felix fosse su gran amor, ma non era così. Puede suceder, es la vida y la vida sigue2» ribatté dolcemente.
Choncho si alzò, sprofondando le mani nelle tasche. Il sole era
calato dietro le palazzine dove abitava Clay. Strisciò un piede
sulle mattonelle sconnesse del vialetto, schiacciando un fagiolo
ruzzolato fuori della cesta.
«No es la misma cosa3.
Lì basta chiudere il contratto all’attore e finisce tutto.
Esce uno, entra un altro, non cambia niente, sono solo facce. Del non
è sparito, è qui in città. E non si può
sostituire» sbuffò abbattuto.
1 Nunca más: in spagnolo "Mai più".
2 Puede suceder, es la vida y la vida sigue: in spagnolo "Può succedere, è la vita e la vita va avanti"
3 No es la misma cosa: in spagnolo "Non è la stessa cosa"
Writer's Corner
Ben arrivata a Mizzy!
Grazie a Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 31 *** L.C. - Cap. 31 ***
L.C. - Cap. 31
31
Houpette sedeva
accanto al bow window spalancato sul giardino, le gambe accavallate che
emergevano dalle pieghe dell’abito di lamé bordeaux.
Fuori, minuscole lampade cinesi coloravano il giardino del
“Bull(es) de mousse”. Lo show era stato un successo, un
tripudio di applausi con tanto di standing ovation, nonostante su
“Along a rainy road” la voce avesse tremato in un paio di
passaggi. Aveva deciso di riproporla comunque, nell’assurda
speranza che Del la sentisse e si facesse vivo. Era sciocco, inutile,
persino stucchevole, se ne rendeva conto.
«Come va, mia cara?» miagolò una voce decisamente troppo rauca per appartenere ad una delle habitué.
Dietro al
trucco dai pesanti accenti rosa, Jeff le stava offrendo una bottiglia
di birra con una ridicola coccarda di tulle e piume legata
all’imboccatura. Era uno dei tratti distintivi di Feather, la sua
parodia di Penny Valentine: riempire ogni cosa di pacchiani fronzoli
color confetto.
«Notizie dal fratellone?» domandò avvicinando una sedia.
Houpette scosse il capo, facendo ondeggiare i boccoli ramati della parrucca.
«No»
sospirò, evitando il tono da soubrette. «Da quando
è uscito dalla “Legendary” non l’ha più
visto o sentito nessuno. Choncho è andato a casa sua, ma non
c’era. Una vicina ha detto che è sparito da un paio di
giorni».
«E da tuo padre?» ma l’amica negò.
«Figuriamoci.
Dovrebbe spiegargli perché è stato cacciato e sarebbe un
colpo troppo duro per lui. Ha impiagato anni per accettare me,
ma… no, non potrebbe mai. Finché quel che fai non rovina
te o gli altri puoi essere bislacco quanto ti pare, per lui resti una
brava persona, ma la droga... Suppongo che Del sia dal suo amico Nate.
Ultimamente è l’unico con cui gli vada di passare del
tempo» sospirò, osservando distrattamente il
riflesso delle luci sulla bottiglia.
«Amico?» ghignò allusivo Jeff.
I minuscoli
fiocchi che costellavano l’abito rosa fenicottero la facevano
somigliare ai cespugli di ortensie che si scorgevano sotto le finestre.
«Solo
amico» confermò laconico. «Non l’ho mai visto
ma sai com’è fatto Delmar: una volta fuori dalla sua vita,
non hai diritto di sapere nulla che lo riguardi. Ne accennava di tanto
in tanto a pranzo, così, en passant. Mi pare faccia
l’autista».
«Se lo
starà scarrozzando da una rosticceria all’altra,
saccheggiando le pasticcerie e i fornai che trovano nel mezzo»
ridacchiò l’altro sperando di tirarlo su.
La battuta non
sortì l’effetto sperato e la cantante si limitò a
rigirarsi la bottiglia fra le dita, pensierosa. Feather non desistette.
Che avesse di fronte uno dei pezzi da novanta del
“Bull(es)” o della “Legendary”, poco importava:
erano pur sempre amiche - o amici - e non poteva stare a guardare.
Schiarì la voce e riprese:
«Su,
tesoro. Sono solo dieci giorni che è successo e tuo fratello
è il re degli ingordi e dei pigri di Port Serafine. Dagli tempo
e si farà vivo rotolando sulle trippe, sputando briciole e
dandoti del finocchio invertito come al solito. Io comunque sono in
giro nei prossimi giorni, butto uno sguardo per vedere se riesco a
rimorchiarlo col gancio traino».
Feather vide
Houpette muovere le labbra scarlatte mimando una specie di augurio un
attimo prima di bere. Era chiaro che fosse meglio far cadere il
discorso e passare oltre.
«Piuttosto,
che ci faceva qui il vostro bell’ingegnere?» chiese
lasciando un vistoso segno rosa sul dorso della mano con cui si era
asciugato le labbra.
«Scorch? È stato qui?» domandò l’altra sorpresa.
L’amica annuì con tanta foga da ritrovarsi la frangia della parrucca sulla punta del naso.
«È
venuto due sere fa, mentre si esibiva Georgette» sbuffò
sistemandosi. «Era con quel suo amico viscido… sai, quello
che non si lava molto i capelli».
«PigTail».
Chissà
perché non era sorpresa. Dopo tutto, in officina non c’era
persona che non nutrisse dubbi circa la rapida guarigione di Scorch
dalla sua dipendenza: sapevano che Pigtail gli girava ancora intono e
supponevano gli avesse passato qualche farmaco illegale o chissà
che. Solo Clay sembrava non dar peso alla cosa, mantenendo la
più cieca fiducia nel cugino.
«Bingo.
Lui. Sono arrivati verso le dieci e sono andati dritti da Brigit. Non
hanno ascoltato nemmeno il ritornello di “Bring me home,
cowboy”, quei cafoni!» sbuffò.
Era uno dei
peggiori brani di Georgette, colmo di esplicite richieste sessuali che
la scheletrica soubrette accompagnava mimando in maniera altrettanto
sconcia.
«Da Brigit?» domandò, aprendo il ventaglio di piume e cominciando a farsi aria.
«Non li
ho visti andarsene, ma quando l’ho incrociata più tardi,
la padrona era piuttosto tetra. Tipo quando la vedi di giorno,
struccata e con la sua palandrana mentre sbraita in tribunale contro un
imputato».
Nella vita di
tutti i giorni, Brigit era un magistrato della corte cittadina, un
principe del foro che era meglio avere dalla propria parte se non si
voleva finire in guai grossi. Se aveva quella faccia anche al
“Bull(es)” non era un buon segno.
Houpette non riusciva a immaginare cosa potesse volere Scorch da lei. O da lui.
***
«Smettila! Mi fai male!» esclamò Charlotte cercando di trattenere con una mano il lemure.
Quella mattina
LucyBelle era piuttosto nervosa e non aveva fatto altro che
mordicchiarle le mani e tirarle i vestiti. Anche in quel momento,
mentre si trovava in bilico sulla scala a pioli, non smetteva di salire
e scendere dai gradini per farle dispetti, squittendo un’ottava
sopra il solito.
«Ma che ti prende?» si lamentò all’ennesimo schiocco di mascelle a poca distanza dalle sue nocche.
L’animale
si agitò, appollaiandosi sulla cornice della botola e restando
in ascolto, come se qualcosa nel sottotetto avesse attirato la sua
attenzione. Probabilmente il ticchettio dell’orologio nel
congegno di ricarica.
«Vide uno
splendido angelo andargli incontro, scendendo lieve da una scala. E
allora capì che il Paradiso esisteva anche per lui»
declamò solenne una voce maschile.
Charlotte
sussultò, stringendo convulsamente i montanti della scala. Era
l’ultima persona che desiderava incontrare lì a
quell’ora.
Niklas la fissava sognante, appoggiato allo stipite. Era scalzo e la camicia stropicciata ricadeva floscia oltre la cinta.
«Buongiorno, Charlotte» salutò, mascherando a fatica uno sbadiglio.
«Buongiorno»
replicò lei scendendo svelta, il cervello che correva a mille
plausibili spiegazioni per la sua presenza.
«Non
avrai dormito qui anche tu per caso? Perché io sono crollato
leggendo i manuali della stramaledetta Glorith α che devono
portarci. E io che mi lamentavo delle Dumil… Quell’airship
è un vero casino!» ammise stiracchiandosi e mugolando per
ogni giuntura scricchiolante.
«È
stata l’insonnia a buttarmi giù dal letto, non ne potevo
più. E l’impressione di non aver chiuso una pratica. Stavo
andando a cercare i registri per verificare» svicolò
indicando la botola, augurandosi che l’ingegnere credesse alla
menzogna.
Per sua fortuna
era troppo assonnato e indolenzito per accorgersi dei piccoli dettagli
che l’avrebbero tradita, come la sua giacca accanto a LucyBelle.
Si limitava ad osservarla con quel sorriso gentile e innocente che
sfoggiava da quando aveva smesso di bere. Un bel sorriso.
«Il nero
è un colore meraviglioso per un’airship, esalta le linee
di tensione, le cromature, le giunture delle lamine, ma su di
te… no. Proprio non va» commentò indicando
l’abito che indossava.
Senza pensarci,
Charlotte chinò la testa per controllare che sull’abito
non fossero rimaste tracce di polvere, dando il tempo a Niklas di
raggiungerla.
«Però
senza trucco e con i capelli sciolti sei…» mormorò,
interrompendosi appena in tempo dal dire qualcosa di cui avrebbe potuto
pentirsi.
Bloccata fra la scaletta e il progettista, la donna si strinse tremando nelle braccia, muta.
«Stai bene, insonnia a parte? Sei pallida» osservò il progettista sfiorandole la guancia con le dita.
Charlotte non
riuscì a sottrarsi a quel tocco: era troppo stanca per riuscire
a richiamare i vecchi rancori che l’avevano aiutata a tenere
Almgren a debita distanza, anche se quell’uomo non aveva
più molto a che vedere con l’ubriacone che aveva occupato
l’ufficio accanto al suo per quasi due anni.
Come faccio a fidarmi? Loro non cambiano, non cambiano mai, gemette dentro di sé.
Ripensò al voltafaccia di Odrin, così assurdo e ingiustificato, al suo rifiuto.
Mi sto comportando come lui, pensò rattristata. Non
ha voluto nemmeno fare lo sforzo di ascoltarmi, darmi una chance. E io
sto facendo altrettanto con Niklas per paura di rivivere tutto
un’altra volta, perché era un alcolizzato fino a poco
tempo fa, proprio come…
Lui la vide
roteare gli occhi, sfuggendo i suoi, e l’espressione sul suo viso
tradì un malessere diverso da quello fisico. Era ciò che
stava aspettando: il momento di ricominciare a farsi cautamente avanti.
«Charlotte, hai l’aria di chi sta soffrendo per un motivo. È il tuo fidanzato?»
«Sai che non c’è nessuno» ammise, senza rendersi conto che la piega della sue labbra diceva ben altro.
Dentro di
sé, Niklas esultò: ora aveva la certezza di poter vestire
i panni del cavaliere dall’armatura scintillante giunto a salvare
la dama dopo mille tribolazioni.
«C’è qualcuno che ti infastidisce, a parte il sottoscritto?» scherzò sottovoce.
Charlotte sorrise per un istante. Era stato carino ad ammettere di far parte dei suoi problemi.
«La risposta è la stessa. Non…»
S’interruppe
arrossendo. Mentre cercava di tenere a bada lo spasimante ecco che, non
richiesto, si era fatto vivo il suo stomaco con voce da baritono.
Scorch, passato un primo momento di perplessità, si mise a
ridere.
«Allora è vero: non sono il sonno né il cuore! È la pancia!»
«Sai,
l’ansia e… la fretta di arrivare… »
cercò di giustificarsi, ridacchiando a sua volta.
Lo sguardo di entrambi corse al ventre dell’uomo, unitosi alle proteste.
Niklas arretrò di un passo, prendendole le mani con un gesto assolutamente innocente.
«Senti
che idea. Visto quanto siamo affamati, ora ci rendiamo presentabili,
lasciamo qui tutto - pratiche, disegni, conti, normative - e ce ne
andiamo all’“Archituono” a far colazione come si
deve. Anzi, andiamo al “Lucky PinWheel”, visto che
l’ultima volta che te l’ho proposto hai rifiutato. Ci
rimpinziamo per bene e mettiamo tutto in conto alla società,
perché è a causa del lavoro che siamo combinati
così. Ti va?»
«Va bene» disse, ricambiando appena la stretta.
La risposta era stata talmente repentina che Scorch pensò d’aver capito male o, peggio, d’averla immaginata.
«Dici davvero?»
«Sì»
confermò. «Al “Lucky Pinwheel” fanno molti
tipi di dolci per la colazione, potremmo prenderne anche per i ragazzi.
Dopo il licenziamento di Delmar hanno bisogno di qualcosa che li tiri
su».
Il trionfo di Scorch si ridusse della metà, senza svanire del tutto.
«Se
questo è lo scotto da pagare… e sia, dannazione. E io che
volevo fare il romantico, per una volta che avevo un’amica tutta
per me» mugugnò strizzando l’occhio.
In fondo,
mantenere quella breve distanza tra loro cominciava a piacergli. Gli
permetteva di apprezzarla ancora di più e di lasciarsi osservare
senza far scattare odiose barriere. Era un atteggiamento del tutto
nuovo per lui e lo trovava appropriato alla sua ritrovata sanità
mentale e fisica.
Il telettrofono
squillò all’improvviso facendoli trasalire. Guardarono
l’apparecchio dove un lungo tasto rettangolare era illuminato.
Sopra era stato scritto a pennarello “Clay casa”.
***
Sandy
lasciò che il vento le scompigliasse i capelli. Il motore della
Torran si sovrapponeva alla voce calda di James Blackbow che cantava
“Still our night” dal fonografo dell’ariship. Era
sicura che Clay avesse scelto quel brano di proposito.
Belly to belly, eyes in the eyes
I’ll forget who you were, you’ll forget who I was
No matter what we’ve said, no matter what we did
This night it’s still our night
«Non
riesco a crederci» piagnucolò, nascondendo la faccia tra
le mani e battendo i piedi sul pianale come una bimba in vena di
capricci.
«Donna,
avevamo detto che non ne avremmo parlato o sbaglio?»
ribadì lui con un sorrisetto ironico stampato in faccia.
Aspettava quel
momento da quando erano partiti: sapeva che non avrebbe resistito,
l’aveva capito nel momento esatto in cui l’aveva vista
aprire gli occhi fra le sue braccia.
«Lo so,
ma non ci riesco!» protestò, arrossendo vistosamente
quando si accorse di guardarlo e provare un fremito allo stomaco.
«Com’è potuto succedere?»
Clay
rallentò ad un incrocio, sporgendosi un po’ oltre la
plancia per controllare oltre gli spigoli dei palazzi e delle
recinzioni che nascondevano le laterali. Le strade di La Roscas erano
zeppe di punti ciechi, delle trappole per ogni conducente, ad ogni ora
del giorno e della notte.
«Facile:
i ragazzi sono dalla nonna, tu eri sola e triste, io ero solo e
incazzato nero, le solite birre…» cantilenò con
semplicità ripartendo. «L’allegria sale e le mutande
scendono. Non è compli… ehi! Sto guidando, donna! Te ne
sei accorta o stai ancora godendo?»
Sandy
ritirò la mano con cui l’aveva schiaffeggiato sulla nuca
fissandolo con sdegno. O forse vergogna perché, doveva
ammetterlo, a dispetto della sua reazione si sentiva bene. Quando la
sera prima aveva accettato di cenare con lui, aveva ripetuto alla
nausea che si sarebbero comportati da adulti civili e responsabili,
evitando di cadere nei soliti errori. Ovviamente aveva mandato al
diavolo l’ex-marito non appena aveva tentato d’allontanarla
dalla seconda birra. Ovviamente era stata lei a ridurre le distanze.
Ovviamene era stata lei a cominciare a strusciarsi, ad allungare le
mani, a baciare.
Perché sono così stupida? si domandò avvilita. Ci
casco sempre. E lui che cercava di impedirmelo… oddio, non che
si sia tirato indietro, ma ci ha provato. E io…
però… Clay, perché ti voglio ancora dopo quello
che hai fatto?
La resistenza
del capofficina alle sue avance era durata forse una ventina di minuti.
Aveva pagato il conto e se n’erano andati, sperando che
l’aria fresca calmasse i bollenti spiriti. Invece, il brusco
cambio di temperatura non aveva fatto altro che spingerli ad
avvinghiarsi ancor di più l’una all’altro. Arrivare
all’appartamento di Clayton ancora vestiti era stata
un’impresa, per non parlare del riuscire a non svegliare
l’intera palazzina.
«Me la cavo ancora bene?» s’informò, facendola sobbalzare e strappandola alle sue considerazioni.
«Idiota» rimbrottò, voltandosi per nascondere un risolino imbarazzato.
«Allora me la cavo molto bene» rincarò, afferrando al volo il pugno che stava per colpirlo di nuovo.
Le sorrise.
«Non eri
male neanche tu, sai?» replicò, tutt’altro che
sarcastico, sfiorandole la mano con le labbra. «Per fortuna avevo
ancora una camicia pulita o avrei dovuto chiedere i trucchi a Iron per
mascherare tutti quei succhiotti. Sembro un dalmata»
scherzò.
«Sta’ zitto e guida!» protestò lei con una punta di soddisfazione nella voce.
Non
gliel’avrebbe mai detto, ma quelle libbre di troppo che si
portava addosso avevano avuto un effetto imprevisto sulla sua libido.
Lo preferiva ora, con i muscoli ancora forti e massicci ma meno
definiti, più morbidi, velati dalla carne. Le faceva venire in
mente la Torran, con la sua carrozzeria morbida, solo a tratti
spigolosa, plasmata per racchiudere un motore potente.
«Cosa
credi che voglia quel matto, a quest’ora del mattino?»
sviò per cancellare le immagini che le riaffioravano alla mente.
Avevano
ricevuto una chiamata da Avelan meno di un’ora prima, che
cinguettava giulivo all’altro capo del ricevitore di raggiungerlo
il prima possibile, imponendo la presenza del direttivo della
“Legendary Customs” al completo.
«Spero
riempirmi le tasche di soldi con largo anticipo, ma non ci farei troppo
affidamento» ringhiò serrando la presa sulle cloche.
Sandy si sistemò meglio sul sedile, osservandolo dubbiosa.
«Sospetti una fregatura?»
«Ne ho prese troppe in vita mia per escluderle a priori» ribatté aspro.
Pur non avendo
accennato al divorzio, ebbe la netta sensazione che fosse in cima alla
sua lista. Annuì, fingendo di interessarsi al loro riflesso
nelle vetrine scure del quartiere.
«Per fortuna Charlotte era già in ufficio: a casa non ha il telettrofono
e sinceramente non so neppure dove abiti… Non so come avremmo
fatto a rintracciarla. Secondo te che ci faceva alla
“Legendary” a quest’ora?» chiese l’uomo,
allusivo.
Sandy accavallò le gambe, tamburellando con la punta della scarpa sulla parte inferiore della plancia.
«Non
penserai che sia stata con quell’imbecille di tuo cugino, vero?
Guarda che se n’è andata alle sette, è venuta in
ufficio a salutarmi. Sarà stata la sua solita insonnia, sono
mesi che non chiude occhio come si deve. Quella ragazza è troppo
fissata con il lavoro, dovrebbe trovare qualcos’altro cui
pensare, magari un hobby».
«Magari
un uomo. Un tipo complicato e con un passato difficile che ha bisogno
di essere tenuto in riga» ammiccò Clay accarezzandole la
coscia.
La donna sorrise, posando la mano sulla sua un attimo prima di graffiarla.
«Stai.
Zitto» ribadì mentre, con enorme sorpresa di Clay, lo
tratteneva premendogli il palmo poco più in basso
dell’anca. «E comunque, anche se fosse, di certo non
ripiegherà su di lui. Charlotte ha una dignità».
Arrivarono alla
“Legendary” quando mancavano una quindicina di minuti alle
sette. Scorch e Charlotte stavano uscendo in quel momento dal portone.
Avrebbero dovuto fermarsi a richiuderlo prima di attraversare lo
spiazzo e superare il cancello.
Lomann decise
che non poteva buttare via l’occasione. Doveva provarci.
Calcolò a spanne quanto tempo sarebbe occorso ai due per
raggiungerli: era sufficiente.
«Vorrei
svegliarmi ogni giorno come oggi» mormorò intrecciando le
dita con le sue. «Oppure potrei venire da voi la mattina, tanto
mi alzo presto comunque, non sarebbe un peso. Potremmo fare colazione
tutti insieme, porterei le brioches. E finito lì, vi carico
sulla Torran e porto Bonnie e Junior a scuola, poi io e te veniamo qui
o ti accompagno agli incontri come facevamo prima, e al pomeriggio
vieni con me a riprendere i ragazzi e…»
S’interruppe.
Sandy si era liberta dalla stretta e lo fissava. C’era
un’ombra di dolcezza nel suo sguardo, dove però era
semplice leggere quanto fosse offesa e amareggiata. Lo stesso sguardo
di quel giorno di sette anni prima, quando era successo tutto.
«Alexandra, io… per favore. Per favore».
Lei, sentendo i
passi degli altri ormai vicini, si sforzò di sorridere,
aggiustandogli il colletto della camicia scompigliato dal vento.
«Non è il momento, Clay» lo zittì.
***
Avelan aveva
parlato per soli cinque minuti. Un’inezia rispetto al solito
fiume di parole. Poche frasi, secche e precise, chiarissime. Nessuno se
ne capacitava.
E ancor più sconcertante era Goundoulakis, vestito di tutto punto e sorridente come suo solito, presente attraverso un dinamoschermo. I suoi occhi scuri trapassavano l’etere e la lastra di vetro, quasi fosse realmente fra loro.
Sandy scosse il capo, strabuzzando gli occhi.
«Puoi ripetere, Ostap?»
Il magnate giunse le mani e vi poggiò il mento, rivolgendole uno sguardo sognante.
«Abbiamo
bisogno di un’airship da corsa o Gunner non verrà.
È la sua sola condizione» ripeté.
Clay e Niklas
erano impietriti sulle poltrone. Il primo stringeva i braccioli, mente
e voce azzerati, impreparato a una proposta del genere. Considerati la
mole di arretrati, gli abituali imprevisti, i prossimi arrivi delle
vecchie glorie da restaurare, l’organico snervato e mancante di
un membro, non era davvero la notizia che si aspettava di udire. Il
secondo tremava e sudava freddo. Aveva l’espressione sconcertata
di chi vede i proprio sogni concretizzarsi nel momento sbagliato per
goderne: era intimamente convinto che quell’idea assurda fosse
germinata dagli schizzi che teneva stupidamente in vista sulla
scrivania e che Avelan aveva visto, un’imbeccata da inconsapevole
maestro. Lanciò uno sguardo a PigTail che, in piedi accanto al
russo, fungeva da osservatore per conto del proprio capo. Questi
rispose incurvando appena l’angolo destro della bocca, in una
smorfia che non sapeva di sorriso né di malignità.
«Signor
Avelan, signor Goundoulakis» iniziò Charlotte, spezzando
con tono professionale il silenzio che aleggiava nello studio.
«Avete un’idea delle tempistiche che un’operazione
simile richieda? Non mi riferisco unicamente alla costruzione del
mezzo, che di per sé risulta comunque impegnativa, ma anche alla
sua certificazione da parte del Dipartimento per…»
«Signorina
Vernet,» intervenne pacifico Aris dallo schermo, «non si
agiti, la prego. Abbiamo convenuto di offrirle tutta l’assistenza
giuridica possibile attraverso il signor Hammond».
La segretaria
posò lo sguardo su Thomas, sentendosi a disagio. Aveva
l’impressione che l’offerta celasse una sorta di condanna.
«Ma le
richieste hanno tempi di evasione molto lunghi e possono essere
effettuate solo a mezzo completato» obbiettò.
«Non
preoccuparti. Lascia fare al mio ragazzo, lui conosce bene il
sistema» ribatté Ostap, lisciandosi la barba sulle guance
tonde.
Nel frattempo,
i due cugini avevano continuato a scambiarsi occhiate e sillabe
sconnesse, che poco alla volta erano passate dall’incredulo al
timoroso per sfociare in una crescente esaltazione. I loro sogni, le
speranze di bambini e tecnici, l’occasione di lasciare un segno
tangibile nel mondo delle airship, la possibilità di dare una
svolta vera al destino della “Legendary Customs” e renderla
realmente una leggenda: era tutto lì, nelle loro mani, in una
decisione tanto semplice quanto ardua. Una parola. Solo una parola. Da
pronunciare di comune accordo affinché il piede del destino
abbassasse il pedale dell’acceleratore, sospingendo
l’aeromobile che ospitava le loro vite - e quelle dei ragazzi -
verso la gloria o la disfatta.
«Dunque
la vostra decisione è…» li sollecitò Avelan,
pur certo della risposta che avrebbe udito.
«Accettiamo!» esultarono all’unisono.
Sandy si allungò scomposta sulla poltrona e prese per mano l’amica, che la guardò sorpresa.
«Charlotte, siamo in un mare di guai».
Writer's Corner
Di nuovo in
ritardo, ma spero vi siate accorti che nel mezzo non c'è stato
il nulla assoluto ma una nuova storia nella sezione "Licantropi". Se
volete darle un'occhiata, è "I morsi della paura".
Grazie come sempre a tutti i lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk e Mizzy.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 32 *** L.C. - Cap. 32 ***
L.C. - Cap. 32
32
Boy si appoggiò alla porta inspirando con cautela. Poteva
distinguere ogni costola lungo il lato destro del torace, per non
parlare delle caviglie su cui quel bastardo di Benny aveva passeggiato
allegramente dopo averlo malmenato. Questa volta non aveva aspettato
che entrasse in casa: l'aveva atteso sulle scale e lì
l’aveva lasciato quando la soddisfazione l’aveva spinto a
festeggiare nella prima bettola del quartiere. Benny non aveva nemmeno
cercato una scusa questa volta, si era limitato ad aggredirlo a calci,
pugni e insulti, così, perché si divertiva a picchiare
lui che reagiva e quasi lo istigava, piuttosto che sua madre, ridotta
ad incassare senza nemmeno un fiato o una lacrima.
Bussò piano. Persino le unghie gli facevano male e controllando
notò due lividi che si allargavano sotto quelle dell’medio
e dell’anulare.
Le altre tre le posso comunque usare, pensò sentendosi in parte consolato.
Dall’appartamento non giunse risposta, eppure nelle tempie
percepiva un ronzio. In cortile non aveva visto il trabiccolo con cui
Ozone si muoveva di solito.
«Cazzo, non mi avrà lasciato di nuovo a piedi?» borbottò bussando una seconda volta.
Ancora nulla. Silenzio e frizzi tremuli nell’aria. No, era sicuro
che ci fosse. Quegli scoppiettii erano una traccia inconfondibile.
«Ehi, vecchio? Mi senti? Sto entrando» chiamò, frugando nelle tasche in cerca delle chiavi.
L’ultima volta che non si era annunciato, aveva trovato Ozone con
le brache calate e una donna nuda cavalcioni sulle sue gambe. Quella
l’aveva preso per il nipotino e gli aveva persino chiesto se
voleva unirsi a loro. Ozone, una volta ricompostosi, gli aveva dato ad
intendere che se avesse avuto “bisogno”, la sua amichetta
gli avrebbe fatto un prezzo di favore.
Scacciò i ricordi e infilò la chiave alla toppa, ma la sentì girare a vuoto. La porta era aperta.
Nell’appartamento tutto sembrava essere al proprio posto, tranne
il motorista. Di lui non c’era traccia. Boy gironzolò per
la stanza, scorgendo il debole luccichio della pistola incastrata tra
il bracciolo e il cuscino della poltrona.
Seguì i crepitii e lo trovò in quella che doveva essere
la camera da letto. Andava per supposizioni, giacché la penombra
confondeva ogni cosa e raramente si era spinto più in là
del soggiorno. Al massimo aveva sbirciato nel cucinino.
Ozone era disteso su quello che poteva essere un letto sgangherato o
una catasta di assi coperte con un telo. Respirava con lentezza, le
trecce della barba strisciavano sul petto come due serpenti grigi e
addormentati. Si mosse appena, sollevando una mano in segno di saluto.
Pareva stesse spostando da solo la bancata di un motore.
«Muovi il culo, vecchio. È tardi» borbottò
Jessie, mostrandogli il solito sacchetto dalla porta. «Oggi
c’erano anche con i peperoni, mamma te ne ha messe un paio ma non
so se ti piacciono».
Il maestro inspirò profondamente e tossicchiò.
«Non dire stronzate, non mi muovo se non vieni» fece il ragazzo, dondolando sui talloni.
Smise subito, sentendo le giunture riprendere a bruciare, e sedette sul
pavimento mugolando tra i denti. Evitò di scoprire se il mentore
si fosse voltato a guardarlo: l’avrebbe capito anche un cieco che
quelli non erano sbuffi o sbadigli. Aprì il cartoccio
combattendo contro le fitte alle dita martoriate e tirò fuori un
paio di focaccine. Addentò la prima masticando rumorosamente,
sperando di scuotere il lato perbenista del collega che, ancora steso,
insisteva a fissare il soffitto.
«E allora?» ciancicò, stizzito dal fastidioso
prurito al naso che i discorsi muti di Ozone gli stavano trasmettendo.
«Tanto Clay ha detto che i catorci li mandiamo a esaurimento,
idem quello che arriva dai clienti. La priorità va alla airship
di Gunnar, ma di quella non abbiamo niente finché Scorch non fa
un progetto come si deve. Chi se ne frega se stiamo qui, posso
recuperare domani… se non te la senti ancora di venire»
soggiunse, a malapena udibile.
Sfiorò con le dita l’ultimo piercing superstite
all’angolo del labbro inferiore. Aveva tolto quello nel mezzo e i
tre su quello superiore dopo che in un tentativo di applicare le sue
capacità, si era quasi ritrovato con un buco delle dimensioni di
un trias sotto la narice sinistra, dove prima aveva un Triple Pin1. E dire che il piccolo ornamento che aveva inserito l’aveva fatto letteralmente di sua mano ed era venuto piuttosto bene.
A fatica, Ozone si mise a sedere. Boy notò solo allora che i
vestiti cominciavano a stargli larghi ed erano gli stessi da un paio di
settimane. Anche la pelle sembrava più rugosa e cadente di
quanto ricordasse. Aveva persino l’impressione che la polvere di
casa si fosse appiccicata addosso al maestro.
«Mangi?» gli domandò, allungando il sacchetto.
L’anziano sospirò respingendolo.
«Mangia e non farmi incazzare, che non sono la tua balia!» sbottò cacciandogli in mano una focaccia.
Dietro la solita irruenza, Ozone distinse chiara la preoccupazione.
Erano quasi tre anni che si conoscevano e da due il ragazzo aveva
assunto stabilmente il ruolo di allievo, non solo alla
“Legendary”. Trovava che la sua vita, passata per le strade
di New Homes – il quartiere più povero e malfamato di Port
Serafine –, obbligandolo a crescere facendo il bullo ad ogni
costo per non soccombere al gradasso di turno, somigliasse molto alla
sua, trascorsa in un paese in guerra, dove sospetto e paura potevano
decretare la fine di un’esistenza. I piccoli gesti di affetto che
Boy gli riservava dietro la maschera del cattivo erano il segno di
qualcosa di grande e di cui non si sentiva mai degno.
Addentò la focaccia per fargli piacere, più che per autentico appetito.
Jessie rimase a fissarlo masticare il boccone con insolita lentezza.
«Cazzo! Abbassa la voce, ci sento» grugnì tappandosi le orecchie.
L’uomo annuì, posando una mano sulla gola nascosta dalla
barba. Subito dopo indicò con l’altra il collare di cuoio
che Odrin aveva realizzato per lui e che ora stava agganciato al
sostegno di una mensola.
«Cosa vuol dire che quel coso non serve a niente? Avevi detto che…»
Non terminò la frase, finendo a contorcersi contro il muro con la testa fra le mani.
«Non urlare!» sbraitò.
Occorsero alcuni minuti prima che il giovane si riprendesse dai capogiri.
«Dimmi cosa cazzo hai» rimbrottò ansimando, ma Ozone riprese a tossire, negando stancamente.
Non gli era mai parso tanto fragile e disperato.
«Per piacere» insisté, più calmo.
Il motorista fece una delle sue risatine roche guardandolo alzarsi e ripulirsi da polvere e ragnatele.
«Non fare il coglione, per quello basto io» lo
rimproverò, strizzando gli occhi quando, sedutosi al suo fianco,
gli passò un braccio attorno alla spalla e un caos di voci gli
esplose nuovamente in testa. «Dimmi cosa ti sta succedendo,
Marcus».
***
La presenza di Thomas incombeva fra i muri della “Legendary
Customs” da una settimana e aveva finito per snervare chiunque. I
ragazzi avevano la costante sensazione che il colosso in giacca e
cravatta li tenesse sott’occhio quasi fossero delinquenti pronti
a compiere chissà quale crimine. Hito era arrivato molto vicino
a perdere la sua proverbiale calma quando aveva scoperto che Hammond
aveva messo a soqquadro il Sancta Sanctorum senza il minimo preavviso.
Si era limitato a rivolgergli una breve frase in giapponese,
inchinandosi rispettosamente, ma tutti erano convinti si trattasse di
una qualche maledizione orientale che si auguravano riuscisse entro
breve. A chi chiedeva conferma, Hito si limitava a rispondere serafico:
«Ho solo reso tributo alla sua persona, come si conviene in simili circostanze».
Patch aveva tradotto che l’avesse mandato a fare in culo.
Chi se la passava peggio però, era Charlotte. Thomas aveva
chiesto di visionare i dossier societari per verificare la presenza
delle certificazioni idonee a garantire la massima rapidità e
correttezza formale dell’iter. Diceva di voler evitare ogni
possibile intoppo o rallentamento, così lei viveva praticamente
rinchiusa in ufficio, sotto lo sguardo cupo del tirapiedi. Non la
mollava un secondo, la tartassava di richieste, le imponeva continue
revisioni e approfondimenti di questo o quell’incartamento,
restando in ufficio ben oltre il consueto orario di chiusura. Sandy
sospettava che avesse dormito sul divanetto almeno un paio di volte. La
poveretta non riusciva neppure a fare una pausa decente, tanto che il
pranzo le veniva portato direttamente alla scrivania - sempre
presidiata da Thomas che invece pareva campare d’aria - da Scorch
o Maria Pilar.
Proprio quest’ultima stava strillando come un’ossessa sul ballatoio.
«Che succede, Maria?» chiese Niklas affacciandosi.
«“Che succede”?» domandò sorpresa la donna. «Estoy trayendo el gasto2» replicò innocente, mostrandogli le sporte di vimini.
Scorch fece per andare ad aiutarla, ma si accorse che sul pianerottolo
sotto di loro era fermo Thomas. Capì subito che lo strepitare di
poco prima era stato per lui. Rivolse uno sguardo di biasimo alla donna
che, tutt’altro che intimorita, rispose imbronciandosi.
«Non lascia in pace la niña» sibilò poggiando a terra le ceste e piantando i pugni sui fianchi. «Está muy cansada3 y non ride più».
Scorch sospirò, grattandosi il mento.
«Maria, è solo un periodo complicato, credimi» la rassicurò, ma lei era di tutt’altro avviso.
«No es verdad. E tu lo sai, Nicolau» dichiarò aspra.
No es verdad… certo che non è la verità, pensò avvilito. Questa cosa rischia di sfuggirmi di mano.
Uno strano senso di fastidio e rabbia si agitò dentro di lui, simile al lamento dello stomaco digiuno.
«Avviati, adesso arrivo» disse piano.
Appena la cuoca sparì oltre la porta della mensa, Niklas si
rivolse a Thomas, che aveva ripreso a salire lentamente le scale.
Pareva stesse valutando la capacità di ciascun gradino di
sostenere il suo peso. Inutile fargli notare che avevano retto senza
problemi Pancake per tutti quegli anni.
«Non è possibile allentare la morsa? Charlotte non
è di ferro e la situazione è già abbastanza
complicata senza che ci metti del tuo. E se non ricordo male, sei qui
per aiutarla, non per farla dannare, o sbaglio?» ringhiò.
«I tempi sono stretti. È stata Vernet a
ricordarcelo» ribatté piatto lo scagnozzo appoggiandosi
alla balaustra.
L’ingegnere maledisse la solerzia con cui Clay la faceva
controllare. Merito di Junior, che a due anni era quasi volato di sotto
per colpa di un traverso allentato.
«Per te è la signorina Vernet» puntualizzò
Niklas afferrandolo per il bavero. «E comunque, questo tuo
atteggiamento è inammissibile».
«Ho ordini precisi a riguardo. E anche lei, se non erro» replicò liberandosi.
Lo sguardo del progettista si assottigliò. Sapeva che
c’era dell’altro dietro le solite moine di Avelan, dietro
la strana accondiscendenza di Goundoulakis. Così come sapeva che
Thomas era più alto, più forte e più giovane di
lui, ma quella mancanza di rispetto non gli andava giù.
«Fottiti, Tom» sputò seguendo Maria Pilar.
La trovò dietro la porta, con le ceste stracariche ancora in
mano, una per parte. Inutile chiederle il motivo: aveva certamente
origliato. Aveva l’aspetto di un bilanciere di stazionamento, di
quelli nascosti nei retrotreni di alcune airship.
«Perché le porti così?» domandò, colpito dalla somiglianza.
Maria guardò i vimini traboccanti verdura e involti.
«¿Porqué? Porqué es conveniente, non mi stanco e non cado per terra» rispose titubante.
«Non cadi… per… terra?» balbettò.
«No».
Un enorme sorriso si allargò sul volto dell’uomo.
«Maria, mi amor!» gridò abbracciandola e schioccandole un bacio sulla guancia.
Agguantò le sporte, lanciandole letteralmente sul tavolo della mensa.
«Madre de Dios! Nicolau!» strillò lei inseguendo la spesa, pregando che le uova fossero ancora intere.
Corse in ufficio ululando come un pazzo, ignorando Sandy che aveva
quasi travolto nella corsa. Gettò all’aria ogni
cartelletta, rivista, quaderno, raccolta d’immagini e volume
monografico di cui fosse in possesso, arrivando quasi a strappare le
pagine per la foga, fin quando non trovò ciò che stava
cercando.
***
«Ti ha dato di volta il cervello?» domandò Choncho, dondolando una grossa chiave inglese sulla spalla.
Inginocchiato sul pattino somigliava a Kutti, l’assistente rozzo
e grufolante della saga di Tamior l’Avventuriero, di cui Bonnie
aveva appena acquistato un nuovo volume.
«Quella?» sghignazzò Patch, controllando con un
calibro se la fiancata accartocciata della Glorith α cominciava a
staccarsi dalla scocca.
«Sai che in giro non se ne trovano più da almeno quindici
anni?» bofonchiò il capofficina, impegnato a far leva con
una sbarra lungo il profilo dell’abitacolo.
«Penso anch’io che non sia una grande idea»
s’intromise Iron che, dal basso, spingeva con una seconda barra
nella stessa direzione di Clayton.
«Ti sei riattaccato alla bottiglia?» sghignazzò
Choncho, strisciando sul pavimento per riposizionare l’attrezzo
sull’enorme piastra ottagonale di serraggio che teneva in
posizione la coppia di lamine laterali.
Niklas lasciò cadere le braccia, disgustato dall’assenza di reazioni positive.
Il metallo prese a cigolare, mandando clangori sordi man mano che
alcuni bozzi si contorcevano e spanciavano di colpo all’esterno.
Un angolo schizzò in avanti all’improvviso, mancando di
poco il naso di Patch. Poi il pannello cadde a terra raschiano e
vibrando, spargendo intorno ruggine, sporcizia e brandelli di vecchie
saldature e il fracasso riecheggiò per diversi secondi
nell’officina. La struttura sottostante era gravemente
danneggiata e corrosa.
Approfittando dell’attimo di calma, Niklas riprese.
«Ascoltatemi! Il bilanciamento dei contrappesi,
l’aerodinamica, la disposizione dei propulsori… sono
quelli che ci servono per anticipare i tempi» esclamò
convinto, additando il quaderno che aveva con sé. «Quanto
alla potenza, la Grönhagen K.I.J. possedeva uno dei motori
più avanguardistici e flessibili dell’epoca, insuperato a
tutt’oggi».
«Il primo motore a pescaggio geotermico» mormorò
Clay, asciugandosi il sudore nella canottiera con il Bull Terrier.
«Avrebbe rivoluzionato il mercato delle airship, liberandole da
combustibile e condensatori».
«Però nessuno aveva interesse a produrre qualcosa che
andasse contro l’industria del legno. Conosco la storia, ma non
c’interessa» dichiarò Scorch.
Si avvicinò ad una Noal che avevano portato per un problema alle luci e batté sulla carrozzeria.
«No Way?» chiamò.
Gli diede a malapena cinque minuti per svegliarsi e sporgere gli occhi
fuori dell’abitacolo prima di sbattergli in faccia il quaderno
dov’erano appiccicati diversi ritagli. Pezzi di cavi gli erano
rimasti impigliati fra i riccioli.
«Tu sai dove possiamo trovarla, non è così?»
Jack strizzò gli occhi per non dare a vedere quanto la richiesta
l’avesse mandato nel panico. Scrutò l’immagine in
testa all’articoletto sgualcito.
«Forse» sbadigliò massaggiando la testa da sopra il
berretto. «Cioè, non so se... non credo. Insomma…
è un casino».
«Tu ce la puoi fare».
«Scorch, davvero io…» attaccò, mordicchiando il manico di una pinza in cerca di una scusa.
Potevano chiedergli qualunque cosa, ma portare lì quella
Grönhagen era un colpo al cuore. E non solo a quello, ne era certo.
Scorch lo afferrò per le spalle, scuotendolo un poco.
«Tu ce la porterai, Jack. So che puoi farlo» dichiarò il progettista.
La sua faccia non solo non ammetteva repliche: era la quintessenza del risolutezza e della fiducia.
Il meccanico tornò a guardare la fotografia. Suo padre e Lyoas
“Negus” Iasù, trionfatori a pari punti del
campionato di diciassette anni prima, posavano accanto ad una
Grönhagen K.I.J. bianca, fresca di concessionaria. E seduti al
posto di guida, c’erano due ragazzini. Lui e Vivian.
La Grönhagen era stata l’unica muscleship acquistata da suo
zio con i proventi delle corse e dubitava con ogni fibra del suo essere
che sua cugina sarebbe stata tanto magnanima da prestargliela per
modificarla. Soprattutto considerando che non aveva la minima idea
delle condizioni in cui versasse: Vivian l’aveva rubata
più volte a suo padre durante l’adolescenza, imbarcandosi
in corse clandestine cui, peraltro, aveva occasionalmente preso parte
lo stesso Jack. Ricordava un paio di incidenti di poco conto, con
ammaccature e qualche danno agli stabilizzatori, nulla di serio; ma chi
poteva dire come fosse ridotta dopo tutto quel tempo?
La ma coperà4, disse tra sé, percependo un brivido attraversargli la schiena.
***
Aggad si avvicinò all’albero scrollando le spalle. Cominciava ad averne abbastanza di quelle ridicole scenate.
«Finiscila di piangere. Tra pochi mesi sarai adulto, non puoi
continuare a comportarti da bambino» disse appoggiandosi al
tronco del salice.
«Lasciami stare» piagnucolò Lisian con la fronte poggiata sulle ginocchia.
Di fronte a loro si snodavano le sponde del fiume, luccicanti nel sole
di luglio. Qualche piccola imbarcazione colma di gitanti solcava le
acque diretta al porticciolo del City Garden, lasciandosi dietro una
scia di risate e schiamazzi. I bambini additavano gli Andull a terra
facendo versacci e smorfie.
«Perché non vuoi capire? Lei non è per noi. Non
farà mai parte della nostra gente» cercò di
spiegargli per l’ennesima volta.
«I Bàtari non
l’hanno ancora detto» singhiozzò il ragazzino,
raggomitolandosi ancor di più. «Forse dicono che va bene,
che può…»
«È una retch» tagliò corto Aggad, risentito.
«Non è vero! Charlotte non è quella roba! Lei… lei…»
La vocina già strozzata andò definitivamente in pezzi sotto le ciocche bianche e arruffate.
«Cosa? Ama Odrin?» domandò il fratello maggiore, con tono sbrigativo quanto indulgente.
Era il cavallo di battaglia di Lisian: il presunto legame che avrebbe
unito Odrin alla segretaria della “Legendary” diventava la
dimostrazione che lei fosse degna di diventare una Andull,
perché diversamente non avrebbe potuto nascere nulla. Quel che
Aggad aveva tentato di chiarire invano, era stata l’inconsistenza
di quel sentimento.
«Sì. E io…» proseguì il ragazzino con la voce tremula.
«Cosa?»
Lisian strinse l’erba nei pugni.
«Voglio un’altra mamma» bisbigliò.
Aggad tirò indietro i capelli per osservarlo meglio. Lisian si
era allontanato da casa quando aveva circa sette anni ed era
l’ultimo dei suoi fratelli, quello che aveva potuto godere meno
della presenza della figura materna. Quante volte gli aveva sentito
esprimere quel desiderio? Decine, centinaia. Eppure gli avevano
spiegato in ogni modo come non fosse accettabile scegliere una derigi per quel ruolo. Le leggi non lo permettevano: potevano entrare a far parte delle Tilaq
– gruppi di esuli volontari inseriti nelle comunità
“civili” -, sposare un Andull, avere dei figli con lui, ma
mai e poi mai avrebbero potuto sostituire una madre. Soprattutto la
loro, che era ancora viva nelle terre della famiglia. Anche se non
l’avrebbero rivista mai più, lei c’era e ci sarebbe
sempre stata. Non avevano bisogno di un surrogato dalla pelle bianca e
senza cuore.
«Non sarà lei, Lisian. Mettitelo in testa» lo sgridò senza alzare la voce. «Se anche i Bàtari decidessero che non è una retch…»
«Smettila di dire quella parola!» gridò lui balzando in piedi.
Tremava di rabbia e aveva il volto umido di lacrime. Aggad attese
qualche istante prima di riprendere, voleva essere certo che
l’ascoltasse.
«Se anche decidessero che non è quella cosa,
non è detto che la accettino o ammettano la sua presenza tra
noi. Il quesito che gli è stato sottoposto non è dei
più semplici».
«È colpa vostra» ringhiò Lisian dandogli uno
spintone. «Tua e di Odrin, che non capisce niente!»
Lo schiaffo lo colpì rapido, tanto che non si rese conto subito
del dolore che s’irradiava dall’impronta della mano di
Aggad sulla sua guancia.
«Smettila Lisian. Non credi che Odrin sia già abbastanza
provato da questa situazione? Ha perso la testa per qualcuno che non
sapeva davvero chi fosse, che gli ha nascosto cose importanti del suo
passato per poterlo avvicinare e si è presa gioco di lui e delle
nostre tradizioni» sibilò incrociando le braccia.
«Quando è riuscito ad aprire gli occhi ha capito che non
avrebbe potuto esserci nulla tra loro, che si trattava solo di
un’infatuazione dovuta al mistero di cui si ammantava quella
donna e al suo interesse per le nostre usanze. Non c’era niente a
legarli davvero. L’avevo messo in guardia dalle derigi
e dai loro inganni, ed è arrivato a comprendere quanto avessi
ragione nel peggiore dei modi. Eri lì quando me l’ha detto
e l’ho riabbracciato come il più orgoglioso dei fratelli.
Ho perdonato il suo errore di giudizio. Tu però ti sei
intestardito e sei andato a raccontare ogni cosa ai Bàtari.
Odrin si fidava di noi! Di te! Era venuto in cerca del nostro aiuto e
consiglio, e ora guarda! Guarda!» esclamò prendendogli la
testa fra le mani e obbligandolo a girarla.
L’intera comunità era radunata come ogni domenica. Figure
nere dai capelli candidi se ne stavano sul prato in piccoli gruppi.
Odrin sedeva in disparte, sotto il sole, i piedi nell’acqua del
fiume e le mani avvolte in bende verdi. Erano segno dell’essere
stato posto sotto il giudizio dei Bàtari, i membri più eminenti della Tilaq.
Diversi Andull stavano sotto gli alberi: alcuni avevano vistosi
bendaggi, altri erano palesemente preda di qualche malattia. Una coppia
di dulu si affaccendava tra questi, ma da soli non bastavano a elargire rimedi sufficienti.
«Odrin non può parlare a nessuno, nemmeno a noi che siamo la sua famiglia. Lo hai reso un pianné, un Invisibile, e potrebbe restarlo a vita se i Bàtari
decidono che ha attirato su di noi qualche sventura. Io sono sospeso
dall’esercizio delle funzioni di guaritore fino al giudizio dei Bàtari.
Molta gente che ha bisogno di cure sta soffrendo grazie al tuo colpo di
testa e non posso fare nulla per aiutarli! Se c’è un
colpevole in tutta questa storia, sei tu».
Rimasero a fronteggiarsi per qualche istante, mentre un’altra
barca scivolava lungo la corrente carica di baccano e allegria.
«Voi non capite. Non capite niente» singhiozzò, tornando a raggomitolarsi fra le radici.
1 Triple Pin: piercing simile al Monroe, praticato tra il
labbro superiore e il naso, a destra o sinistra, con tre barrette a
testina sferica all’esterno, disposte a triangolo e unite
all’interno da un dischetto metallico.
2 Estoy trayendo el gasto: in spagnolo “sto portando la spesa”
3 Está muy cansada: in spagnolo “è tanto stanca”.
4 La ma coperà: in dialetto bergamasco “mi ammazzerà”.
Writer's Corner
Rieccomi con il nuovo capitolo. E la nuova formattazione. Fatemi sapere cosa ve ne pare!
Sia chiaro: il Triple Pin è una mia invenzione, credo che
nessuno studio di piercing l'abbia ancora realizzato. Lo prendo come un
favore personale se evitate di farvelo: non volevo lanciare una nuova
moda.
Grazie come sempre a tutti i lettori e recensori che hanno la pazienza di tener dietro alle mie lungaggini: Shade
Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini,
Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll,
AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade,
MorphineJ, Niki12, Nana Punk e Mizzy.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 33 *** L.C. - Cap. 33 ***
L.C. - Cap. 33
33
«… quando sono entrato in curva l’ho sentita
sbilanciarsi e vibrare nel primo terzo anteriore, lato sinistro. Forse
un contrappeso si è sganciato. E fatica a salire di giri. Spinta
al massimo non ha raggiunto le centoventi miglia orarie mentre dovrebbe
mantenere senza difficoltà le duecento a regime medio-alto.
Ozone e Boy stanno già dando un’occhiata al motore.
Credono si tratti del vaporizzatore. Forse hanno ragione: il
compressore mi sembrava usurato, magari c’è della
sporcizia che rallenta i pistoni. Di sicuro non è il pescaggio
perché tutto il blocco era in ottime condizioni e assorbiva
energia dalla sonda senza problemi» annunciò No Way,
titubante nonostante le buone notizie che portava.
Era un purista dei motori, non concepiva funzionassero con energie
sottrarre al cuore della terra: l’unico vapore degno di spingere
un’airship doveva essere prodotto da fuoco di legna.
Sul volto sudato di Clay apparve un enorme sorriso mentre si fermava davanti alla porta dell’ufficio.
«Hai visto? Scorch aveva ragione. Ce l’hai fatta»
esclamò, dandogli una violenta pacca sulle spalle che per poco
non lo spedì faccia a terra.
«Sì, sì, certo» bofonchiò incassando
la testa tra le spalle mentre gli porgeva i documenti da firmare per la
cessione definitiva della Grönhagen. «Però... spero
non siano problemi seri. Ozone è stanco morto in questi giorni,
fa fare quasi tutto a Boy. Quando ho portato la muscleship hanno tirato
fuori il motore e si sono chiusi nel magazzino, non vogliono nessuno
intorno, ma così come facciamo a…»
Clayton non l’ascoltava più. Era impietrito sulla porta e
guardava nella stanza: seduta sulla sua poltrona c’era Bonnie e
piangeva a dirotto.
«Senti, ne parliamo dopo. Adesso ho da fare» tagliò corto.
Chiuse la porta in faccia al meccanico e si precipitò dalla figlia.
«Che è successo, Nuvoletta? Che c’è?» gridò scavalcando letteralmente la scrivania.
«N… nie… en… te» rispose a stento.
«Guardami. Guardami, Nuvoletta! Dillo al tuo papà…
che è successo? Perché piangi così? Click-Clack ti
ha di nuovo fatto i dispetti?»
«N-no» rispose lei a stento, stringendo le mani allo stomaco mentre il padre le asciugava il viso.
«Stai male? Ti fa male qualcosa? Le mani? Ti sei chiusa le mani nei cassetti? O è la testa? O la pancia?»
Dio, fai che non sia quello! Che non sia quello! Non so cosa fare! implorò terrorizzato.
Ormai sua figlia era una signorina e solo ipotizzare che stesse
affrontando i tipici problemi femminili, lo mandava al manicomio. Non
era mai stato capace di gestire gli sbalzi d’umore e i malesseri
che affliggevano Sandy in quei giorni critici, figurarsi quelli di una
preadolescente che ai suoi occhi portava ancora il pannolino e dormiva
succhiandosi il pollice. La sua bambina era e sarebbe rimasta una
bambina. Per sempre.
Bonnie scosse la testa, sgravandolo di un peso immane.
«N-no… no, papà… s-sto b… be-ene» pigolò.
«Allora dimmi, tesoro! Non avere paura. Che c’è?»
«T-ta… amior».
Chi cazzo è questo figlio di pu… oddio,
pensò adocchiando un volume dalla copertina colorata, chiuso
sulla scrivania. Si voltò a guardare di nuovo la figlia, i cui
occhi verdi – identici a quelli della madre – lo fissavano
colmi d’apprensione. Si sentì un cretino, esattamente alla
stessa maniera di quando Sandy gli rivolgeva quegli sguardi anni prima,
solo per comunicargli delle emerite idiozie.
«Le… eggi» singhiozzò mostrandogli col dito tremante il paragrafo incriminato.
«Bonnie… mica starai così per il libro?» domandò anche se già immaginava la risposta.
«Ta… ami… iior è… f…
f-fee… eri… i-ito… e… ed è…
s-so… olo!» pianse, raggomitolandosi contro la sua spalla.
Clay le passò una mano fra i capelli. Per un istante era stato
tentato di sculacciarla per l’inutile spavento, poi aveva cercato
di imbastire una ramanzina colossale e infine si era convinto che
invece avrebbe dovuto investire con la Torran lo stramaledetto autore
di quel romanzo. Probabilmente eliminare la fonte del problema sarebbe
stata la scelta più saggia.
«Signore mio, Bonnie!» sospirò ridacchiando
abbracciandola. «È solo una storia, è inventato,
calmati. Andrà tutto bene, non succederà niente di brutto
e Tamocoso ne verrà fuori. Non lo fa sempre?»
La sentì annuire contro la sua spalla.
Non è la realtà, Nuvoletta. Qui le cose non sono come nei libri, soggiunse dentro di sé.
«Papà» chiamò lei, indicandogli la porta.
Junior era apparso sulla soglia.
«Hai bisogno, giovanotto?» domandò Clay pronto ad
incassare un capriccio o un’uscita estemporanea del suo piccolo
erede, tuttavia il silenzio che gli rispose fu ben più
allarmante delle lacrime di Bonnie.
Suo figlio stava immobile, la testa incassata fra le spalle, i pugni
stretti, lo sguardo cupo e fisso su di loro. Aveva tutta l’aria
di chi fosse ad un passo da una crisi di nervi.
«Junior?»
Per un attimo pensò che Pancake doveva averlo di nuovo fatto
arrabbiare, ma ricordò d’aver licenziato quel piantagrane
due settimane prima. Ancora non si capacitava del proprio gesto
né del vuoto lasciato da quell’assenza.
«A lei gli correte sempre dietro» sbuffò.
«Bonnie-Bonnie-Bonnie. A me non mi caga nessuno»
sentenziò.
«Ehi! Cosa sono queste parole? Avevamo detto…»
«Lo dici sempre anche tu! E zio. E gli altri. Tutti» l’interruppe guardandosi le scarpe.
Clay si liberò dall’abbraccio di Bonnie e si alzò, incrociando minacciosamente le braccia.
«Junior, ne abbiamo già parlato. Né io né la mamma vogliamo…»
«Non mi frega» replicò gelido.
Il capofficina avrebbe voluto ribattere, sgridarlo per quel modo di
parlare che gli avevano proibito di adottare, tuttavia le parole
rimasero ancorate al fondo della sua gola. Era abituato a vederlo
pestare i piedi, fare baccano e urlare per avere ragione; questo
atteggiamento gli era del tutto nuovo. Non erano i capricci o le
lagnanze di un bambino: erano le sue. Stava guardando sé stesso
all’età di suo figlio. La stesso postura, la stessa voce.
L’identica rabbia mascherata da disinteresse per chi gliene
mostrava a sua volta. E non sapeva se esserne felice o meno.
«Voi pensate solo a lei, lo zio non mi vuole più, i
ragazzi non mi fanno fare niente, Maria non mi fa stare in
cucina… anche quel coso nero di là mi guarda
storto» sputò. «Voi non mi volete. Volete solo lei.
Sono stufo».
***
Pancake barcollò lungo il marciapiede, seguendo l’ombra di
Nate. Era l’unica cosa di lui che riuscisse a guardare, oltre
alle scarpe: dopo tutto, a lui non interessava la sua faccia
bensì dove lo portava. Ansimava passo dopo passo, incurante
degli sguardi disgustati dei passanti o degli sberleffi dei ragazzini.
Teneva su i pantaloni con una coppia di bretelle legate ai passanti con
dello spago, convinto che gli stessero cadendo di dosso mentre invece
non riuscivano né a chiudersi né a salire oltre
l’inguine.
«Ma guarda un po’ chi si vede» ridacchiò una
voce. «Il mio caro amichetto Pancake. Come gira,
piccoletto?»
Delmar cercò di staccare gli occhi dal pavimento che aveva
sostituito il marciapiede, ma aveva l’impressione che fossero
diventati due sfere di ghisa, troppo pesanti per eseguire il comando.
Aprì la bocca impastata, facendo schioccare la lingua sul palato
reso appiccicoso dalla sete.
«Beh? Che vuoi fare? Startene lì impalato tutto il tempo?» domandò.
Il suo alito era saturo di alcol.
«Ehi, Clench…» bofonchiò, sedendo di fronte a lui con un sorriso ebete.
La sedia scricchiolò penosamente sotto la sua mole sempre
più sgraziata e flaccida, ma non se ne curò. Ormai badava
solo a quanta polvere spargere su ciò che inghiottiva,
nell’assurda rincorsa ad un benessere che non riusciva mai a
raggiungere.
Sul tavolo c’era un grosso piatto di bistecche dall’aroma
invitante; un sugo scuro e unto colava sulla carne e sulle patate messe
a contorno della portata. Lì accanto c’era una scatoletta
di cartone, contenente diversi tubicini dello stesso materiale,
sigillati con tappi di cera rossa o gialla.
«Vedi, ragazzone,» disse Clench, chiudendo di scatto il
coperchio, «noi abbiamo un accordo. Medicina miracolosa per tante
belle storie. E io so che tu ne conosci ancora qualcuna».
Pancake spostò lo sguardo sul piatto.
«Qu… quale?» borbottò deglutendo a vuoto,
ipnotizzato dal profumo succulento che gli inondava le narici.
Lo stomaco mandava brontolii preoccupanti da ore, quasi che gli
spuntini e le frittelle ingurgitate fino a quel momento fossero stati
meno che briciole.
Il tirapiedi si mise a dondolare sulle gambe posteriori della sedia,
più per allontanarsi dal tanfo di sudore rancido e sporco che
emanavano i vestiti di Delmar che per darsi un tono. Era evidente che
non si lavasse da giorni.
«Una che parla di come sta in piedi la baracca, delle sue forze. Capisci cosa intendo?»
Vedendo che non gli stava dando retta, Paul allontanò il piatto,
e picchiò la mano sul tavolo. Pancake sobbalzò e gli
rivolse un ghigno rabbioso e confuso.
«Energia. Vapore» specificò stappando un paio di
birre. «Clay non mi ha mai mandato alle caldaie, ma tu… tu
le conosci, le sapevi regolare. E aggiustare. Ci scaldavi i
pancake» ammiccò.
«Erano buoni» bofonchiò ridendo, mentre un rivolo di densa saliva cominciava a colargli dalle labbra.
Affatto disgustato, l’altro si produsse in una smorfia di totale
condivisione. In realtà trovava ributtante
quell’abitudine, al pari dei suoi ex-colleghi. Le ricordava bene
quelle frittelle sporche di polvere, umide di condensa bollente e di
chissà quali altri liquami, per non parlare dei residui
accumulati dalla combustione.
«Sicuro. Da leccarsi i baffi! Ma adesso mi racconti di quei
fottuti rottami o non potrò aiutarti. E io… voglio
aiutarti. Lo sai» l’incalzò tamburellando con le
dita sul cofanetto.
«No… sì… mi serve… serve»
pigolò, incapace di allungare le mani che già tremavano
dall’ansia.
«Certo che ti serve. È la tua medicina, quella che ti
farà dimagrire, ti farà guarire. Così potrai far
vedere a quel finocchio maledetto chi è che ha il fisico di un
vero uomo».
«Sì… un vero uomo» ringhiò.
L’accenno al fratello aveva risvegliato quel briciolo
d’amor proprio che ancora si annidava da qualche parte fra le
pieghe della carne.
«Allora, Pancake, racconta. Dimmi tutto, ti ascolto. Anche il
piatto ti ascolta» ribadì, tornando ad avvicinare le
bistecche.
«Ma… Clay… si arrabbia…» biascicò leccandosi le labbra.
Il piatto si allontanò di nuovo, sostituito dalla faccia arcigna dell’altro.
«Ti ha preso a calci in culo e ti ha buttato fuori per far
lavorare un invertito, un immigrato del cazzo, un ragazzino svitato, un
vecchio muto e un selvaggio. Se lo merita! Ti ha trattato come un pezzo
di merda, Delmar! È un coglione! Un coglione che non capisce il
valore dei veri Coloniali!» esclamò battendo il pugno sul
tavolo.
Pancake sgranò gli occhi: non solo le parole avevano riacceso
l’odio non ancora del tutto sopito, ma lo stretto tubicino di
cartone apparso nel pugno di Clench aveva lasciato fuoriuscire un
pizzico di polvere grigioverde che aveva velato la rotondità
umida di una patata.
«No… lui non capisce… bastardo» borbottò, strizzando le posate fra le dita.
I suoi occhi erano fissi e vitrei, vuoti mentre riviveva ogni sopruso,
ogni torto, ogni parola che aveva rappresentato un insulto o una
mancanza nei suoi confronti. La rabbia per il licenziamento
tornò a montare, proprio come sperava Paul.
«Io sono con te, amico» lo rassicurò, poggiandogli una mano sulla spalla.
Si pentì del gesto, percependo il sudiciume che impregnava i
vestiti e la consistenza innaturalmente cedevole del corpo al di sotto.
Mandò giù il disgusto a fatica, mascherandolo dietro un
sorriso incoraggiante e infilzò la forchetta nella bistecca alla
sommità del piatto.
«Forza. Raccontami» disse allungandogli la porzione.
«Sono solo parole. Parlare serve a uscire dalle situazioni di
merda in cui ci caccia certa gente. E tu meriti di uscirne, Del. Tu sei
un grande, sei un coloniale con le palle!»
Rinfrancato dal discorso, Pancake sorrise, mostrando i denti ingialliti dalla Sglitz. Ficcò orgogliosamente in bocca una grossa fetta di carne e cominciò a parlare.
***
L’interno dell’airship era molto più angusto delle
precedenti. E dire che i vecchi modelli da corsa all’esterno
erano in genere almeno un paio di piedi più larghi di quelli
recenti: lo spazio al di sotto degli archetti della teleria era a
malapena sufficiente a consentire di muovere un braccio alla volta.
Odrin stava lavorando da almeno venti minuti a testa in giù, in
una posizione dove neppure l’accogliente rigidità del
collare cervicale riusciva a dargli sollievo. Sentiva la testa che
cominciava a girare quando la voce di Patch s’insinuò
nello scheletro metallico.
«Non andava, eh?» disse sventolando un ritaglio di tela cerata.
L’Andull aggrottò la fronte, fissando la stoffa penzolare
sopra i suoi piedi. Pensava di essere stato abbastanza chiaro quando,
poco prima, gli aveva segnalato a gesti che proseguiva con il drappo
numero sedici. Possibile avesse capito d’avergli passato il
ritaglio sbagliato? Se fosse stato così, allora quello che
intravedeva non doveva essere il ritaglio successivo.
Cominciò ad arretrare strisciando sulla schiena, appoggiandosi
ai supporti della pedaliera e agganciando con i talloni il castelletto
del sedile per trascinarsi fuori. L’aria di fece di colpo
più leggera, nonostante la calura estiva rendesse
l’officina bollente. Ebbe un brivido e le percezioni si confusero
mentre si rimetteva dritto.
Patch stava sdraiato contro la fiancata, madido di sudore. Lasciava scivolare la tela fra le dita e parlava guadandola.
«Con Charlotte. L’ho capito sai, che non sei riuscito a
combinarci niente» commentò. «Siete troppo diversi.
Troppo lontani. Com’è che dicevano alla telenovela?
Inconciliabili. Hai visto la faccia di Maria quando l’ha sentito?
Madre de Dios! Justina! No puede ser tan! No puede!» scimmiottò prendendo a girare su se stesso con le mani che strizzavano la faccia.
Per sua fortuna Choncho si trovava in cortile, o non avrebbe esitato a dargli contro.
L’Andull annuì, mostrando appena un sorriso. Sedette sulle
barre interne, sbuffando mentre allentava il collare. Sapeva che Patch
non lo stava giudicando né tentava di spingerlo a cambiare
atteggiamento, anche perché non aveva idea di come stessero
effettivamente le cose.
Da quando aveva scoperto il segreto di quella donna, si era sentito
perennemente sotto accusa. Dal principio dai suoi fratelli, sebbene per
cause diversissime, poi dalla comunità Andull e infine dai
colleghi, cui sfuggiva la motivazione del suo improvviso mutismo. Anche
lei doveva averlo giudicato per la sua decisione: ricordava bene il
tono supplice delle sue ultime frasi di quel giorno o i brevi
sguardi che gli rivolgeva e che fingeva d’ignorare.
«È per lei che non parli, giusto?» proseguì.
Odrin esalò un lungo respiro, rendendosi conto che ormai era
tempo di lasciar trapelare qualcosa. Almeno a Patch doveva far
intendere un minimo della situazione o chissà cosa si sarebbe
inventato. Il rischio di rompere il veto di parola imposto dai Batàri per colpa delle sue assurdità era troppo alto.
Annuì sogghignando, portando un dito alle labbra per poi mimare
una figura curva e claudicante. Infine, fece cenno di scansare qualcosa
col braccio, come a dire che non gli andava di raccontare.
«Ehi, asfaltino, guarda
che a me non interessa, non devi dirmelo per forza il motivo. Non sei
come me che ogni cosa che mi capita devo raccontarla a qualcuno. Voglio
solo sapere se il mio amico al nero di seppia sta bene. E per inciso,
gli ultimi esami di Andy hanno segnato un lieve miglioramento. A forza
di sgridarlo, si è messo d’impegno a guarire»
buttò lì.
Grato della dimostrazione di amicizia, il tappezziere levò il pollice in alto emettendo un sospiro sollevato.
Patch gli tirò il ritaglio in faccia.
«Però non dire che mi sbagliavo: lo dicevo io che non te l’avrebbe mai data!» ridacchiò.
***
Phailin rimirò le nuove decorazioni che Adam aveva fatto
arrivare per lei direttamente da una bottega artigiana del Siam, tra
cui spiccava un set delle tipiche unghie finte da danzatrice. La
più corta superava il palmo di lunghezza ed erano state
realizzate con sottile lamine d’ottone istoriate. Nessuno avrebbe
potuto immaginare che i sottilissimi viluppi di linee non fossero altro
che canali dove avrebbero potuto scorrere minuscole gocce di veleno di
pesce palla, né tantomeno che fossero tanto affilate da
infliggere tagli profondi con un lieve tocco.
«Non pensavo l’avrebbe fatto» sospirò, rapita dalla ferale bellezza dei disegni.
Lilijana, seduta alla toeletta, smise di spazzolare i lunghi boccoli biondi resi lucenti dalla maschera appena fatta.
«Chi? Cosa?» pigolò spiandola nella parete coperta di specchi.
Bastava un nonnulla a scatenare la sua curiosità, specialmente
quando si trovava con le altre fanciulle dell’harem di Mac Gregor
nella saletta benessere. Ormai era stata ribattezzata “Stanza del
Pettegolezzo”.
«Vivian. Non pensavo avrebbe dato la sua airship a quel tizio.
Insomma, d’accordo, è un ferrovecchio, neppure il cielo sa
se leviterà ancora, ma è pur sempre il catorcio con cui
è arrivata qui» osservò.
«Oh, Viv non è una legata alle cose. E nemmeno al passato.
Guarda sempre avanti, verso il futuro!» trillò, orgogliosa
dell’amica.
«Dovresti farlo anche tu» rampognò l’orientale storcendo il naso.
La prussiana inclinò il volto imbronciato, non riuscendo ad afferrare a cosa si riferisse.
«Guarda avanti! Lo smalto!» sbottò Phailin,
indicandole i volant della vestaglia che minacciavano di posarsi sul
colore che aveva appena steso sulle dita dei piedi.
Stizzita, Lilijana scostò con uno strattone i lembi ondulati e le fece una linguaccia.
«Mi dispiace però che se ne sia liberata. Poteva darla a
me, così chiedevo a Adam di farmela sistemare. Non mi fa fare
una macchina nuova dall’anno scorso!» insisté
piagnucolando.
Irritata, la siamese le lanciò contro una pantofola, che lei
prontamente infilzò al volo con uno spillone per capelli.
«Quanto sei frignona. Ti ha regalato quello stramaledetto
tirapugni che volevi da mesi! E te ne ha fatti fare non uno ma quattro,
due d’oro e due d’argento. Su uno ti ha persino fatto
incastonare dei diamanti! Che diavolo vuoi ancora?»
protestò.
L’altra la minacciò con la pantofola, poi tornò a
spazzolarsi i capelli dopo averla scaraventata all’altro capo
della stanza.
«Come ti sembra?» riprese stizzita Lilijana.
«Lo smalto? Salvo, per ora» sogghignò facendo ondeggiare il suo Cha Yen1 nel grosso bicchiere di cristallo.
«Intendevo il tizio a cui Vivian ha dato la Grönhagen. Eri
con lei quando è arrivato. Io l’ho visto di sfuggita
all’officina, quando abbiamo ritirato la Fortion».
Phailin fece una smorfia vaga, alzando le spalle. Quell’uomo col
berretto pigiato in testa le aveva intercettate fuori dalla
“Pagoda Turchese”, mentre Mac Gregor si dirigeva alla sua
seduta settimanale di massaggi.
«Passabile, per essere un coloniale» commentò
sprezzante, affascinata dalle volute del latte di cocco nel liquido
ambrato più che dal discorso.
Erano pochi gli uomini occidentali ad averne suscitato
l’interesse oltre al suo datore di lavoro e certo quel meccanico
dalla chioma imbizzarrita non rientrava nel novero.
«Porta rispetto: il passabile è mio cugino» puntualizzò Vivian entrando nella saletta.
Era avvolta in un telo reso semitrasparente dall’umidità
del bagno turco. I capelli corvini si arricciavano in una voluminosa
aureola attorno alla sua testa, molto simile a quella che coronava la
testa di Jack No Way.
«E solo per questo dovrei dire che è meraviglioso e
desiderabile? Che me lo porterei a letto anche adesso, per mostrargli
le posizioni più eccitanti che ho imparato nel bordello di
Thonburi? Che mi potrei innamorare perdutamente di uno con quei capelli
ridicoli? Tu sei pazza» lo sbeffeggiò Phailin, senza tanti
complimenti.
Vivian sorrise, continuando ad asciugarsi mentre si dirigeva ad una
chaise longue di vimini accanto alla porta finestra. Gettò la
salvietta a terra e infilò una vestaglia, stendendosi con le
braccia dietro la testa. Le piaceva stare a guardare gli aranceti dopo
un lungo bagno, in ogni stagione. Era la ciliegina ai suoi rari momenti
di relax.
Diversamente dall’impressione generale, non le era costato poi
molto assentire alla richiesta di Giacomo. L’avrebbe fatto anche
se non fosse intervenuto Adam, insistendo affinché accettasse
immediatamente e consegnasse lei stessa il mezzo nelle mani del tecnico
della “Legendary Customs”. Pur rappresentando un legame con
suo padre, con la sua passione per le corse e la velocità, con
quel passato di ribellione al maschilismo degli autodromi,
quell’airship era il simbolo di un periodo della sua vita ormai
concluso, inutile da rivangare. Certo, l’aveva lasciata a
languire in un deposito del Golden Ring proprio per rendere meno
palpabili quei ricordi, ma non l’aveva fatto certo perché
non riusciva a disfarsene. Semplicemente, stare accanto ad Adam le
riempiva le giornate al punto tale da dimenticare il resto.
Stiracchiò le gambe, ridacchiando tra sé. Le tornava in
mente la faccia del cugino quando gli aveva detto che come pagamento
pretendeva una serata con un uomo dell’officina: birra, grigliata
e dolce. Giacomo – che conosceva bene il suo debole per Clay
– aveva dato per scontato alludesse al capofficina e ad un dolce
da consumare in unicamente in camera da letto, cascandoci con tutte le
scarpe. Per più di un’ora si era astenuta dal fargli
notare che si trattava di uno scherzo, anzi, aveva ribadito la
richiesta in continuazione fin quando, ormai sull’orlo delle
lacrime per le troppe risate trattenute, aveva ammesso di riferirsi non
a Clayton Lomann ma a lui e ad una fetta della famosa crostata alla
ricotta di sua madre. Giacomo aveva aggiustato il berretto sul capo e
se n’era andato sbraitando che quelle erano le occasioni in cui
emergeva il suo sangue malato da femmina italiana.
1 Cha Yen: tradizionale tè thailandese.
Writer's Corner
Torno a voi dopo una lunga
assenza. Sembra che il nonavere un lavoro mi lasci meno tempo a
disposizione per scrivere, di quando stavo dieci ore al giorno dietro
una scrivania...
Ben arrivati a alister_, bruciato e Pisaster_Ochraceus. spetto i vostri commenti (a prescidere dal dove siate arrivati con le letture!).
Grazie come sempre a tutti i pazientissimi lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk e Mizzy.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 34 *** L.C. - Cap. 34 ***
L.C. - Cap. 34
34
«Occorrerà
un controllo della contrattualistica alla luce del Decreto Coloniale
n° 10.071 circa le formule standard per gli accordi con i
fornitori. Alcuni documenti stilati con precedenti fornitori potrebbero
non risultare perfettamente congrui. In diversi casi poi i timbri e le
firme sono illeggibili, ciò potrebbe…»
«Basta» mormorò Charlotte abbandonando la matita tra i fogli.
Il suono della
voce di Thomas la nauseava, non ne poteva più. Era stanca di
passare in rassegna valanghe di carte inchiostrate col solo risultato
di non capire più cosa stesse guardando. Erano le diciannove e
dalle sette di quella mattina aveva perduto il conto dei fascicoli che
era stata costretta a prendere, consultare, riporre e riprendere
daccapo. Ormai confondeva le bolle di ricevimento merce con i
dépliant pubblicitari, sbagliava i conteggi più semplici
e a malapena riusciva a fornire risposte coerenti ai clienti che
chiamavano. Quella figura scura e incombente risucchiava ogni stilla
d’energia con la sua sola presenza. In certi momenti, aveva
l’impressione che inghiottisse aria e luce, creando una sorta di
sottovuoto.
«Come ha detto?»
«Ho detto basta, signor Hammond» sibilò alzandosi a spalle chine.
Vedeva alcune ciocche sfuggite all’acconciatura oscillare verso la scrivania.
«C’è
molto da fare e lei deve ancora…» riprese lui
imperterrito, sfogliando senza interesse un plico di fatture.
Charlotte
levò lo sguardo arrossato, sfilando gli occhiali che le avevano
lasciato profondi segni ai lati del naso e sotto gli occhi. In quegli
ultimi giorni era più pallida del solito, per via della carica
sempre più esigua che riusciva a trasferire al cuore artificiale.
«Mettiamo in
chiaro le cose una volta per tutte, signor Hammond, le va? Questa
è la “Legedary Customs”, proprietà di Clayton
Lomann e Alexadra Stuart. Io sono la loro segretaria e assistente. E
per quanto trovi cortese e generoso il suo capo, il signor Ostap
Avelan, io e ripeto: io! non sono alle sue dipendenze
ventiquattr’ore al giorno» precisò, mostrandogli
l’ennesimo cumulo di cartellette. «Lei forse ha scordato
che qui abbiamo un’attività da mandare avanti a
prescindere da questa geniale trovata della corsa d’inaugurazione
e io faccio parte di questa, questa! realtà. Hanno bisogno di me
per poter continuare a mantenere la massima efficienza e
produttività, e ciò significa che devo essere presente!
Non basta si sappia che sono qui, devono vedermi, sentirmi, avere la
prova di ciò che faccio per loro e con loro. Grazie a questo
incarico siamo stati torchiati tutti quanti oltre misura e ci deve
essere qualcuno che verifichi che le cose procedono nel migliore dei
modi. E quella persona sono io. Ho delle responsabilità verso
quei tecnici, prima che verso di lei o verso il signor Avelan o verso
il signor Goundoulakis o chicchessia!»
Le ultime parole le erano sfuggite un tono più alto di quanto avrebbe voluto, ma era troppo stanca per preoccuparsene.
«Quindi, se
non le spiace… anzi, no» e alzò una mano, quasi
avesse avuto un’improvvisa illuminazione. «Quindi, visto
che a me non spiace, scendo dai ragazzi a sentire a che punto siamo e
di cosa hanno bisogno per proseguire. Perché è questo che
faccio, signor Hammond: preoccuparmi per loro. A domani».
Sulla soglia però, le venne in mente una cosa e si voltò per comunicargliela.
«Se non ha
di meglio da fare, in quello scatolone ci sono tutti i dossier
fornitori che mi ha fatto riordinare tre giorni fa. Può
cominciare controllando quelli» e indicò un grosso cartone
accanto al divanetto.
Thomas la stava ancora osservando con quella sua innaturale calma bovina quando chiuse la porta.
Sul ballatoio,
c’era un attonito Niklas. Aveva le labbra schiuse come se si
fosse trovato in procinto di dire qualcosa che però gli era
improvvisamente sfuggita. Charlotte si sentì morire. Di tutte le
persone che potevano sentirla fare quella tirata, proprio non si
aspettava lui.
«Accidenti, che filippica. Lo hai anche preso a schiaffi?» commentò infine.
La segretaria rimase interdetta a sua volta e nascose il volto tra le mani.
«Su, stavo
scherzando. Ti va?» domandò mostrandole una piccola
scatola di cartoncino bianco avorio, chiusa da un nastro verde e da una
coccarda a forma di girandola.
La donna non seppe che rispondere.
«Visto che
non riesco a portarti al “Lucky Pinwheel”, ho portato il
“Lucky Pinwheel” da te» annunciò trionfante.
«Charlotte alle pere. E cioccolato bianco» soggiunse.
«Cio… ccolato?» balbettò, frastornata dalla notizia.
«Bianco.
Esatto» confermò con un’espressione che, per quanto
furbesca, lasciava trasparire il peso economico del pensiero.
«Non dire niente. Te lo meriti».
A occhio e croce,
quel dolce doveva costare almeno otto trias. Era praticamente un
investimento, eppure lui l’aveva fatto, anche se le sue finanze
erano a malapena in condizioni dignitose.
«Ricominci a farmi la corte?» sospirò sospettosa.
«È così evidente?» ridacchiò, tirando indietro i capelli biondi con aria birichina.
Lei gli rivolse uno sguardo eloquente, riconsegnandogli il pacchetto.
«Potresti
metterla nel cucinino? La mangio più tardi. Ho un paio di cose
da sbrigare di sotto, se non voglio uccidere Thomas a colpi di
graffettatrice» sussurrò minacciosa, addolcendosi subito
dopo. «Grazie del pensiero, Niklas».
L’Ingegnere diede un calcetto all’aria, sporgendosi un poco verso di lei.
«Non potrei avere un bacio?» propose.
«No».
«Mi farò bastare il grazie».
***
Ostap si dondolò sula poltroncina, giocherellando con il filo del telettrofono mentre meditava su ciò che Thomas gli aveva appena comunicato dagli uffici della “Legendary Customs”.
«Devo essere
sincero, ragazzo mio. Per quanto le notizie che mi porti siano molto
soddisfacenti, non condivido appieno il tuo sistema. Confido tu sappia
di non dover esagerare con la nostra cara Charlotte. Sarebbe
imperdonabile se le accadesse qualcosa per un una tua leggerezza, lei
è vitale per la riuscita del mio subdolo intrigo, come qualcuno
lo ha graziosamente definito sulla stampa» ridacchiò
socchiudendo gli occhi.
«Capisco, signore».
«Ne sono
più che sicuro, sei un tipo in gamba. Evitiamo però di
comunicare queste notizie al nostro amico Aris, temo non le
apprezzerebbe quanto il sottoscritto. Quel giovanotto ha idee…
come dire? Per quanto valide, diametralmente opposte alle mie e i cui
esiti sono solo lontanamente prevedibili. Cerca piuttosto di
coinvolgere debitamente Alexandra nei nostri movimenti. Anche lei ha un
suo peso nel nostro scacchiere».
Sistemò il
ricevitore contro la spalla e prese una tazza di tè dal carrello
poco lontano, versando due generose cucchiaiate di miele di trifoglio.
«Come desiderate» confermò.
Ostap confidava
nelle capacità del suo uomo più fidato, eppure non si
sentiva affatto tranquillo. Troppe persone si muovevano fra quelle
mura; occhi, orecchie e menti pronte a disperdere parole e gesti ai
quattro venti. Venti che avrebbero potuto strisciare fino a mani
inappropriate.
Mordicchiò
distratto la porcellana, ponderando la mossa successiva lasciandosi
ispirare dall’aroma dell’infuso. Oltre le grandi finestre,
il cielo era velato di nubi. La luce di quel principio di tramonto
estivo aveva una tonalità perlacea, di quelle che precedevano
temporali improvvisi e violenti.
«Benissimo.
Quanto alla meravigliosa airship per il nostro giovane campione Gunnar?
Quali notizie circa i lavori?» chiese poggiando la tazza sulla
scrivania.
«L’Ingegner
Almgren ci sta lavorando a tempo pieno, da quanto mi risulta. Pare sia
a buon punto. Specialmente senza le visite di Brown»
specificò con una nota di soddisfazione nella voce.
Pochi giorni prima
gli aveva impedito di avvicinare il progettista, intercettandolo a un
paio di isolati dall’officina. Si aggirava con l’aria di
chi aveva del tempo da perdere, ficcanasando lungo le stradine
secondarie e i muri di recinzione. Ciò nonostante, era convinto
che non sarebbero state un po’ di ossa rotte a farlo desistere da
qualunque cosa fosse stato incaricato di portare a termine.
«Quale
peccato! Dividere due amici per colpa di un profitto. Una cosa molto
triste, invero» sospirò teatralmente Ostap,
ammirando i riflessi che danzavano sugli anelli che portava alle dita.
«Il mondo di oggi è davvero un serraglio gonfio delle
peggiori turpitudini dell’essere umano».
«Del comune essere umano, se mi concede. Non tutti rientrano in quel novero» intervenne l’assistente.
Il russo sorrise
sornione, lisciandosi la barba. La puntualizzazione non era casuale o
satura di servilismo, era la pura verità.
«Vedo che
hai imparato bene la lezione, Thomas. Me ne compiaccio, ma non
dilunghiamoci su di me. Sono altre le cose che mi premono ora»
dichiarò, tamburellando con le dita sul bracciolo della
poltrona. «Farai in modo che i due vecchi amici possano
frequentarsi di nuovo, come si conviene in simili casi?»
«Signore? È una domanda retorica?»
La sua voce vacillava di un improvviso dubbio.
«Ovviamente.
Confido nella tua assidua vigilanza. Brown è un tipo pericoloso,
ha già avuto modo di dimostrarcelo. Non mi piace, è
scivoloso quanto un’anguilla e, come ben sai, detesto quel pesce
e la sua ostinata abilità nello sfuggire la cattura».
Salutò
Thomas e riagganciò. Riprese a dondolarsi, sfiorando con il
cucchiaino d’argento il volume sul caso di Chirinda. Doveva
averlo riletto ormai una decina di volte, trovandolo sempre poco
esaustivo e molto fantasioso. Tracciò cerchi concentrici,
spirali e linee, picchiettando di tanto in tanto la copertina di pelle
in alcuni punti precisi. Poco a poco, gli scintillii dei gioielli e
della posata si fusero in sottili filamenti, disegnando un intricato
groviglio sul rivestimento ambrato del libro. Delicatamente, fece
fluttuare la composizione sul suo palmo e rimase a contemplarla in
silenzio. Lo sfavillio liquido dell’opera alchemica mandava
pulsazioni ruotando lentamente sul proprio centro, un nodo irto di
punte racchiuso da un ottagono.
Aris,
il tuo gioco mi aggrada sempre meno e ti dimostrerò che non mi
serve piegare gli altri per vincere. Posso farlo anche sottostando alle
regole altrui, promise rivolgendo uno sguardo cupo all’”Ultramarine Dove”.
Batté insieme le mani con violenza, imprigionando i filamenti che scomparvero in un bagliore verde pallido.
***
Aris balzò in piedi dal grande divano bianco, gli occhi sbarrati
sul vuoto. Le dita ebbero uno spasmo, torcendosi nell’aria come
tralci di una pianta avvizzita. Tremava così forte che chi
l’avesse visto avrebbe potuto crederlo in preda alle
convulsioni.
«Non ti
permettere, Avelan. Non ti permettere o me la pagherai cara!»
gridò, la voce resa acuta dall’ira.
Afferrò il
bastone e prese a camminare da un lato all’altro dello studio,
battendo il pomo di cristallo sul pavimento e sui muri, mentre
vocalizzava una nenia a voce sempre più alta. A ogni colpo, dal
bastone si levavano schiocchi metallici, simili a quelli di un
ingranaggio che venisse avviato dopo una lunga sosta e
porzioni dei decori scorrevano le une sulle altre, ridefinendone
l’estetica. Bagliori ametista filtravano attraverso le incisioni,
serpeggiando tra le rifiniture e andando a vorticare nel cristallo che
da trasparente, si fece cupo quanto un addobbo funebre.
Aris aprì
uno sportello nel muro e prese ad abbassare la sequenza di minuscole
leve all’interno. L’intero studio ebbe un sussulto mentre
lui si piazzava di fronte alla vetrata, le mani che accarezzavano
spasmodicamente i fregi mobili dell’asta. Ogni traccia di
affaticamento sul suo corpo parve ridisegnarne la sagoma in un insieme
decrepito di ossa e pelle rinsecchita. Solo gli occhi blu balenavano
feroci nelle orbite livide.
«Non farlo, Avelan! Non ti azzardare a sfidarmi!» urlò alla città.
Dietro di lui, le
lastre del pavimento e dei muri si erano aperte e sollevate, mostrando
porzioni di ruote dentate che si mordevano l’un l’altra,
mandando sprizzi di scintille violacee. Forme geometriche e lettere di
antichi alfabeti apparivano e scomparivano sulle superfici lucide,
modellandosi in combinazioni sempre diverse.
***
Aveva quasi finito il giro. Mancavano solo gli avanzamenti giornalieri di Odrin, Ozone e Boy.
Nel guardare la
sua ombra sulla porta del laboratorio interni, si sentì avvilita
e ancor più stanca di quanto già non fosse. La vicinanza
del tappezziere le pesava ben più del suo cuore.
Stava per bussare,
domandandosi come avrebbero comunicato visto che Malcom non era nei
paraggi, quando la porta si aprì e due manine la trascinarono
all’interno.
«Lisian! Che fai qui?» esclamò sorpresa, trovandosi di fronte il ragazzino.
«Zitta!»
sibilò balzandole al collo e premendole un palmo sulle labbra.
«Zitta, non parlare, non puoi! Solo io posso parlarti e toccarti,
adesso. Ascoltami. I Bàtari vogliono vederti. Vogliono conoscerti perché gli ho spiegato che non sei una… una… quella come dice mio fratello. Vogliono vedere se ho ragione».
«Io non…»
«Lo
so!» pigolò tornando a chiuderle la bocca con la mano, gli
occhi lucidi d’ansia. «Ma non ci credono. Ora entriamo e
aspetta che ti dicono di parlare. Non guardarli in faccia: non puoi,
l’hanno vietato».
Confusa e
spaventata, Charlotte si lasciò trascinare a testa bassa nel
deposito. Subito dietro la porta c’erano Aggad e Odrin, intenti a
mormorare tra loro; altre cinque figure occupavano il lato opposto
della stanza. Erano tutti Andull di grande importanza, come indicava
l’alta cinta di metallo traforato che indossavano. Uno portava
dei calzoni rossi e flosci, un secondo indossava svariate collane di
cordicelle intrecciate, un altro aveva mani lunghe e ossute, e
l’ultimo un orrendo sfregio lungo l’avambraccio destro.
Davanti c’era una donna magra i cui lunghissimi capelli era
ornati di perline, una dulu. Se avesse potuto guardarli, avrebbe visto volti tatuati che la scrutavano privi d’espressione.
«Bidanna Bàtari, si tè Charlotte alge» la presentò il ragazzino.
Un silenzio teso avvolse i presenti per diversi istanti.
A parlare fu l’uomo con la cicatrice.
«Chiunque tu
sia, dicci perché hai distrutto una parte di questo corpo»
comandò. «Parla, te ne diamo facoltà».
Lei fece un passo
indietro, urtando lo scaffale. Trasalì e cercò Odrin, il
quale se ne stava appoggiato al muro, del tutto indifferente. Aggad
stava a braccia conserte, quasi la sfidasse a difendersi. Lì
dentro, sembrava che solo Lisian fosse dalla sua parte.
«Diglielo. Diglielo, Charlotte» la incitò lui, prendendola per mano.
Quel gesto,
così semplice e innocente, le parve un’ancora di salvezza,
l’unico punto di quiete nel bel mezzo di una tempesta.
«Spero serva
a qualcosa» rispose ricambiando la stretta, lo sguardo basso sui
ripiani stipati di stoffe. «Non so dirvi esattamente quando sia
cominciato. Ero piccola. Troppo per capire. Vivevo a Perrenmounth, nel
distretto minerario. Era un posto disagiato e depresso per via della
crisi estrattiva che aveva fatto svanire molti posti di lavoro. Mio
padre possedeva un emporio, uno dei pochi ancora fiorenti della zona.
Avevo quattordici anni quando la polizia coloniale venne ad arrestarlo
per frode e collusione con degli usurai».
Gli Andull erano immobili e muti, assenti.
«Non
riuscivo a capire come fosse possibile, non credevo alle parole del
giudice. Mio padre era sempre stato una persona onesta e mi aveva
trasmesso i suoi valori. I registri del negozio erano a posto, non
c’erano…» e s’interruppe, supponendo che i
dettagli contabili non interessassero ai Bàtari.
«Scoprii che mio padre si era indebitato per aiutare una persona.
Una persona a cui voleva molto bene ma che non ripagava la sua fiducia
in alcun modo. Aveva sottratto cifre sempre più grandi
all’emporio per impedirle di finire nei guai. Quella persona
prometteva di continuo che sarebbe cambiata, che sarebbe diventata
migliore, ma bastava un nonnulla perché rimangiasse ogni
cosa».
Lisian
l’abbracciò, partecipe del suo disagio. Riusciva a sentire
il battito metallico del cuore anche attraverso il corsetto. Gli
sembrò un bel suono.
«Cominciai a
lavorare per saldare i debiti e permettere a mio padre di uscire di
prigione. Purtroppo i soldi non bastavano mai, mai, mai; non importava
quanto guadagnassi. Finché un giorno, un uomo venne da me per
propormi uno scambio. Non so come conoscesse la mia storia, ma
offrì la salvezza di mio padre e l’azzeramento dei debiti,
in cambio…»
Posò la
mano sul petto, avvertendo all’improvviso tutto il peso del
metallo agganciato alle sue ossa. Proseguire le costò uno sforzo
immane.
«Suo figlio
stava morendo e aveva bisogno urgente di un trapianto. A me sarebbe
stato dato un cuore meccanico, un manufatto fuorilegge, ma non
m’importava. Sarei morta volentieri pur di aiutare mio
padre».
Si fermò per riprendere fiato e ricacciare in gola il nodo che minacciava di zittirla.
«Pochi
giorni dopo l’intervento, mio padre lasciò la prigione con
la fedina penale ripulita e le banche dichiararono che la situazione
era stata ripianata. Da allora sono costretta a vivere vicino a fonti
di energia molto potenti per caricare il cuore, stando lontana dalla
mia famiglia perché là non c’è niente di
simile. Ma lo rifarei mille volte se fosse necessario. La mia famiglia
viene prima di me, è la cosa più preziosa che ho al
mondo» concluse, sorridendo al ragazzino che ancora la stringeva.
«Cos’è successo alla persona che tuo padre aiutava?» chiese l’Andull con le collane.
Charlotte scosse la testa, facendo una carezza a Lisian.
«Ha continuato per la sua strada, infischiandosene di ciò che era accaduto. È morta tempo fa».
«E il ragazzo che ha avuto il tuo cuore?» domandò la dulu.
«Di lui non so nulla. Sparì con il padre subito dopo l’operazione, senza lasciare traccia».
I Bàtari
le diedero le spalle, parlottando sotto voce e gesticolando brevemente.
Dalle voci non traspariva alcuna emozione particolare, nulla che
lasciasse trasparire l’esito di quella conversazione. I tatuaggi
candidi vibravano sulle pelli nere. Cercò una reazione in Odrin,
ma lo intravvide appoggiato al muro e le braccia conserte di Aggad che
la ammonivano.
«Alza lo sguardo, derigi»
dichiarò ad un tratto la guaritrice, con enorme disappunto del
maggiore dei Den’iràf. «Non ti riteniamo una retch
ma neppure possiamo considerarti degna d’appartenere alla nostra
gente. Hai sacrificato l’integrità del tuo corpo e sebbene
il tuo fine fosse lodevole, è qualcosa che non possiamo
tollerare. Il corpo che abitiamo è sacro».
Aveva
temuto quel responso: sia il libro che Odrin le avevano confermato
quanto l’integrità fisica rappresentasse un elemento
fondamentale del credo e delle tradizioni Andull.
Lisian emise un gemito affranto.
«Quindi, mi concedete il beneficio del dubbio?» domandò speranzosa, osservando di sottecchi il quintetto.
«Non ti
impediremo di avvicinarci o rivolgerci la parola poiché non sei
uno spirito immondo, tuttavia ti sarà proibito stringere legami
familiari con il popolo Andull. E a nessuno di noi sarà concesso
chiederti come compagna o giacere con te» spiegò il Bàtar dai pantaloni scarlatti.
A quelle parole,
avrebbe dovuto voltarsi e scorgere Odrin serrare i pugni infuriato,
pronto a far valere le proprie ragioni, invece Charlotte scoprì
di non provare affatto quel desiderio. Anzi. Il silenzio del giovane le
faceva meno male di quanto avesse immaginato: il rifiuto aveva aperto
una ferita profonda in lei e al tempo stesso l’aveva
cicatrizzata. Si sorprese a provare qualcosa di molto simile alla
comprensione, al rispetto per la sua scelta; la cultura Andull le era
entrata dentro più di quanto avesse sospettato. E in fondo, era
abituata a veder allontanarsi gli uomini per cui aveva provato un
sentimento più grande dell’amicizia. O forse, davvero non
aveva più un cuore.
«Potrò continuare a studiare la vostra storia e le tradizioni?» azzardò.
«Te lo
concederemo, a patto che tu riesca trovare chi desideri rispondere alle
tue domande» rispose quello dalle mani scarne.
Era ovvio che né i Bàtari
né tantomeno Aggad l’avrebbero fatto, sui volti di pece
traspariva un ghigno di commiserazione. Per Odrin il discorso era un
altro: pareva del tutto indifferente alla richiesta.
«Bidanna Bàtari, lad muri izte calj uma id codhoe» dichiarò il piccolo Andull facendosi avanti.
«Lisian!» ruggì il guaritore strattonandolo per un braccio.
«Calj uma id codhoe!» ripeté deciso, mordendogli la mano per liberarsi.
Codhoe… Codhoe… cos’è che Aggad non vuole che faccia?, pensò Charlotte, cercando di ricordare cosa significasse quella parola.
«Uma te dros. Lang-nà feu enome. Uma id codhoe igai Charlotte reze espì» insisté Lisian, gettandosi ai piedi degli anziani. «Lad muri izte. Lad muri izte!»
Il Bàtar
sfregiato gli posò un piede sulla schiena cercando di spingerlo
via, senza riuscirvi. Era un gesto rituale, per saggiare la
profondità delle sue intenzioni, e vedendo Aggad pronto a
trascinarlo via di peso, gli fece cenno di scostarsi.
«Il compito
che ti stai scegliendo è gravoso» disse con tono
sprezzante. «I tuoi fratelli non ti aiuteranno. E non conosci a
fondo le tradizioni e le leggi. Come potrai assolverlo?»
«Insegnatemi.
Imparerò tutto! Tutto! E se avrò dubbi, mi
appellerò alla vostra saggezza! Al vostro sapere! Terrò
segreto ciò che mi direte di non dire, ma vi prego… vi
prego…»
Aggad masticava
imprecazioni in un angolo tenendosi la mano, mentre gli occhi grigi di
Odrin erano fissi sul fratellino. Era colpito dalla sua testardaggine e
dalla forza che stava mettendo nella sua proposta. Una forza che a lui
era mancata o che non aveva voluto trovare.
All’improvviso, la segretaria ricordò il significato di quelle parole: sarò il suo insegnante finché Charlotte vorrà. Aveva chiesto di divenire il suo precettore una volta superato il Lang-nà, il rito di passaggio all’età adulta.
Lisian poggiò la fronte sul pavimento di cemento, bagnandolo di lacrime.
«Dite di sì, vi prego» li supplicò. «Sarò bravo, lo giuro».
***
Ozone si
accasciò accanto al vaporizzatore, esalando rantoli strozzati.
Qualcosa era letteralmente esploso dentro di lui, allargandosi dalla
gola fino alla punta delle dita, lasciandosi dietro dolori lancinanti.
Boccheggiò cadendo sul fianco, stringendo il collo. Un fuoco
bruciava lacerante nella trachea. Cercò di allungare una mano
per sfiorare il blocco sui cavalletti, inutilmente. I muscoli non
rispondevano ai suoi comandi, si rattrappivano in blocchi inerti che lo
schiacciavano a terra.
L’ultima cosa che udì prima di perdere conoscenza fu la voce di Boy che gridava il suo nome.
Writer's Corner
Spero che questo
nuovo capitolo segni il ritorno ad un ritmo più serrato. Avete
avuto pazienza fino ad ora, vorrei portarvi alla conclusione come si
deve per ringraziarvi!
Ben arrivato a NoFate. Aspetto i tuoi commenti.
Grazie come sempre a tutti i pazientissimi lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk, Mizzy, alister_, bruciato e Pisaster_Ochraceus.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 35 *** L.C. - Cap. 35 ***
L.C. - Cap. 35
35
Patch era
assuefatto agli ospedali. Guardava distratto i muri bianchi tappezzati
di manifesti che declamavano le proprietà di questo o quel
farmaco, ribadivano le norme igieniche fondamentali e mostravano gli
ultimi ritrovati meccanici in termini di protesi articolari, ignorando
le figure in camice che si muovevano tra le tende che separavano i
letti.
Come
cazzo si potrà andare in giro con una gamba a molle
concentriche? Ogni duemila passi ti devi fermare a ricaricarla! Tanto
varrebbe rimpicciolire un motore e attaccarcelo, pensò svogliato.
Girò lo sguardo su Clay, che invece non aveva perso di vista un secondo Boy.
Avevano portato
Ozone al Reine Lia Hospital, temendo il peggio. Il vecchio era livido
ed emetteva gorgoglii inquietanti, come se avesse i polmoni pieni di
lubrificante addensato. Boy non aveva spiegato cosa fosse successo,
limitandosi a dire di averlo trovato in quelle condizioni steso sul
pavimento, tuttavia nessuno riusciva a credergli. C’era qualcosa
nel guizzare improvviso dei suoi occhi, nel torcersi le mani o nello
strattonare i piercing, una nota nell’ansia che lo pervadeva, che
dava alle sue reazioni un che di esagerato, quasi fosse consapevole di
mentire e essere prossimo all’essere smascherato.
Probabilmente
aveva a che fare con il passato del motorista, giacché
l’avevano registrato solo grazie all’amicizia di Patch con
le segretarie dell’accettazione: sia Ozone che il ragazzo avevano
rifiutato categoricamente di fornire le generalità.
«Boy, sei
l’unico che conosca abbastanza il vecchio da aiutare i medici.
Digli quello che sai» disse Clay scrollandolo con gentilezza.
L’apprendista
scosse la testa fissando il pavimento di piastrelle grigiastre. Stava
al centro della corsia, rannicchiato sulle ginocchia, infischiandosene
di chi lo urtava o dei lamenti degli altri degenti.
«Se lo dico,
lo ammazzo. E lui… sta già morendo» rispose
parlando fra le pieghe dei pantaloni da lavoro.
La notizia
colpì i colleghi dritto allo stomaco. Patch lasciò cadere
la testa contro il muro e Clay esalò un sospiro pesante e
affranto, scostandosi di un passo.
«È da un po’ che non lo vedevo bene, ma non pensavo… » commentò.
In quel momento,
il medico emerse dalle tendine chiamando il ragazzo. Patch
l’aveva presentato come il nipote del ricoverato: senza quella
scusa, non gli avrebbero permesso di seguirlo. Boy non sentì
neppure cosa l’uomo in camice stesse dicendo, limitandosi ad
annuire meccanicamente prima d’infilarsi dietro il separé.
Il corpo di Ozone
era rattrappito fra le lenzuola bianche di disinfettante, una macchia
di unto essiccata sulla stoffa. Di colpo era diventato minuscolo. La
pelle sembrava cadergli di dosso quasi fosse un vestito troppo largo,
strinto e stropicciato, e le trecce di cui andava tanto orgoglioso si
erano trasformate in due catene di ragnatele.
Jessie si avvicinò, gli scarponi che cigolavano sul pavimento.
«Ehi,
vecchio. Vuoi farmi prendere un colpo?» si sforzò di
ridacchiare, sfoggiando una smorfia che nelle sue intenzioni avrebbe
dovuto essere di totale biasimo.
Si scambiarono un
interminabile sguardo, mentre dietro il sipario di cotone filtravano lo
sferragliare dei carrelli e i piagnucolii dei malati.
Boy si chinò fin quasi a sfiorargli il naso col proprio.
«Più forte, Ozone, non riesco…» ma le parole gli morirono in bocca.
Gli occhi del
motorista erano colmi di lacrime quanto la sua testa di silenzio. Si
sentì mancare la terra sotto i piedi. La sua voce era svanita,
dissolta. Nemmeno uno stridio era sopravvissuto.
«Dai, cazzo,
finiscila di fare il sentimentale. Se è tutta una scusa per
farmi tirar giù i pantaloni, guarda che non ci casco. Il mio
culo non lo vedrai mai!» tentò di scherzare,
artigliandogli disperato la spalla.
Ozone
accennò un sorriso amaro fra le trecce grigie e gli prese il
polso. Stava cercando di stringerlo o semplicemente si trattava di un
ultimo tentativo di trasmettergli una parola, un verso, una vibrazione.
«Dai…
non fare così… cazzo, Marcus, troveremo un sistema. Sai
scrivere…» mormorò, ma lo vide scuotere appena il
capo.
Con grande fatica, Ozone sillabò muto: sei in gamba, Jessie. Hai un grande dono.
Le sue labbra si muovevano lente, schioccando molli come vecchie guarnizioni che stavano cedendo.
«Chi se ne
fotte! Che me ne faccio? Noi… non possiamo dirlo. È
pericoloso, non te lo ricordi? Mi hai rincoglionito a forza di farmelo
promettere».
Una raffica di singulti fece sobbalzare il torace dell’uomo.
Basta segreti. Guarda dove sono arrivato con i miei. I ragazzi capiranno.
Ogni frase prendeva sempre più tempo e lo sguardo di Ozone si faceva appannato.
«E se fanno come Pancake? Se hanno paura?» protestò flebile Jessie abbassando gli occhi.
Era terrorizzato all’idea che lo cacciassero, molto più alla prospettiva di essere arrestato e internato.
Sotto la barba del vecchio sembrò far capolino un sorriso di garbato rimprovero.
«Ozone,
smettila. Merda, tirati su. Vado a cercarti Cleopatra, ci stai? La tua
amichetta col culo stretto che ti piace tanto. C’è la
Grönaghen da finire, devi spiegarmi cosa cazzo fare. Non ho mai
visto una roba così, non so dove mettere le mani!» lo
supplicò.
Citare la drag
queen con cui il vecchio aveva bazzicato per un paio di settimane non
sortì l’effetto sperato, solo un vago sospiro. Il suo
interesse era rivolto al futuro del discepolo.
Parla al metallo. Governalo. Fallo vivere. Ti obbedirà. Tu puoi farlo, ne sei capace.
Si sentì la tenda che scorreva e Clay che con un mezzo fischio richiamava il ragazzo.
«Che c’è?» ringhiò continuando a dargli le spalle.
Non voleva si
accorgesse di quanto le parole di Ozone gli avessero rivoltato le
budella per l’angoscia. Ora che aveva finalmente trovato qualcuno
capace di aiutarlo, di capire il suo disagio e il suo potenziale, non
riusciva nemmeno a fare in modo che la sua guida potesse avere un
senso. Sapeva troppo poco delle sue capacità e delle loro
applicazioni. E poi Ozone era stato il solo a dargli le dritte giuste
per riuscire a distogliere l’attenzione di Benny da sua madre e
uscire vivo dai suoi pestaggi.
«Ci stanno
buttando fuori perché non siamo parenti e Patch non può
tirare troppo la corda. Vieni, ti accompagniamo a casa» disse
Lomann avvicinandosi.
Non si azzardò ad affiancare l’apprendista: era già abbastanza penoso vederlo tremare come una foglia.
«Io resto» s’intestardì.
Seppure a
malincuore, il capofficina acconsentì, ribadendogli di
presentarsi al lavoro il giorno successivo. Poteva capire quanto Jessie
fosse sconvolto, imporgli di tornare a casa avrebbe solo peggiorato le
cose. Era successo così quando nel letto c’era stato
Scorch reduce da un pestaggio, lui era al posto di Boy e nelle sue
vesti c’era stato suo padre. Era stato spinto a reagire, a
pensare ad altro. E aveva funzionato.
«Ehi, Ozone. Vedi di muovere quelle vecchie chiappe o mi sa che il ragazzo ti porterà via il posto».
***
«Cognac».
«Non mi pare
il momento, Hito. Stiamo lavorando» rampognò Iron,
assestando un vigoroso giro di chiave ai bulloni.
Non ce
l’aveva con il collega né con i pannelli della
Grönaghen che faticava a liberare dai supporti: una sorsata di
liquore l’avrebbe buttata giù volentieri a dispetto del
caldo. Il suo malumore aveva radici ben diverse. Quel mattino aveva
avuto l’impressione di scorgere Delmar lungo un marciapiede, una
montagna di vestiti malconci che i pochi passanti schivavano con
ribrezzo. Era sceso quasi in corsa dall’omnibus, solo per
scoprire che si trattava di un accattone, che teneva al sicuro negli
abiti troppo larghi un cane e i suoi pochi averi. Qualche giorno
addietro, Jeff aveva saputo che Pancake girava dalle parti di Weston
Road, in compagnia di un bestione biondo e di un altro tizio. Non aveva
un bell’aspetto e dato che non rientrava a casa da parecchio, il
terrore che ora vivesse per strada, tra delinquenti e rifiuti della
società, aveva rapidamente messo radici nella mente del fratello.
Scoprire che
quell’ubriacone acciaccato e fetido sul marciapiede non era Del,
non aveva però risollevato il morale del meccanico, bensì
l’aveva fatto impazzire di frustrazione e vergogna. Non si
capacitava del grossolano errore.
«Intendevo
il colore. Per la Grönaghen» specificò Hito, prima di
addentare una caramella gommosa lunga e scura. «Cognac perlato. E
blu notte, molto cupo e opaco. Niente cromature».
Iron cercò
di affannosamente di seguire il suo ragionamento. Il verniciatore non
sceglieva mai tonalità a caso, ma in quel momento gli sfuggiva
il senso della proposta.
«Credo sia
un doveroso tributo a Ozone. E aiuterà Boy a starci su. Glielo
diremo quando arriva» chiarì.
«Ozone si
vestiva sempre di blu in officina ed era così scuro che sembrava
fatto di bronzo» ricordò l’altro.
Tutto ad un tratto
sembravano trascorsi secoli da quando aveva visto il collega. Invece si
trattava di ore, poco più di mezza giornata.
Ma quando ha cominciato a stare male? Neppure di lui ci siamo accorti… pensò amareggiato.
Il suo problema
doveva essere simile a quello di Del: un qualcosa di piccolo e
strisciante, subdolo, che li aveva minati dall’interno ed era
cresciuto poco alla volta fino all’irreparabile.
«D’estate gli si poteva cuocere una bistecca addosso» aggiunse, riuscendo per un istante a sorridere.
«Sarà dura senza di lui».
L’affermazione
scatenò un moto di rabbia in Iron, che gettò
l’enorme chiave a torsione sul tavolo. Un tuono metallico si
propagò nell’officina, riverberando ovunque. Clayton
Junior sobbalzò spaventato alla rastrelliera degli arnesi e per
poco non se la fece crollare addosso.
«Quell’uomo ha un’età e Dio solo sa cosa. Se il suo tempo è finito…»
«Hito, non t’azzardare nemmeno a pensarlo!» ruggì minaccioso con le mani sui fianchi.
Sulle unghie erano rimaste tracce di uno smalto scarlatto, così brillante da sembrare sangue.
Ciò nonostante, Hito non si lasciò intimidire.
«Ascoltami».
La calma con cui
masticava la caramella raggelò il collega. Da qualche giorno era
tornato ad apparire ieratico e razionale dopo le settimane trascorse
lontano del tabacco.
«Hai visto
la reazione di Boy. Lui lo sa. L’ha già capito e ce
l’ha praticamente detto con il suo silenzio. Ozone non
uscirà da quell’ospedale, se non dentro una bara. Negarlo
non cambierà le cose».
Abbattuto dall’evidenza, Iron scrollò le spalle.
«Pensi che
non lo sappia?» sbuffò appoggiandosi al montante del
carroponte. «È solo che qui dentro stanno succedendo cose
strane… aumenta il lavoro e perdiamo persone. Sembra fatto di
proposito! E ci sono altre faccende che non riesco a capire».
Ripensò al
racconto di Jeff, quando Scorch e PigTail erano andati da Brigit e lo
disse a Hito, parlando sottovoce affinché nessun altro potesse
ascoltare i suoi dubbi.
«Perché
incontrarsi con un avvocato importante? Proprio lui poi, che di guai
con la legge ne ha avuti fin troppi. Pensi che possa aver combinato
ancora qualcosa?» azzardò.
«Non
agitarti. Le spiegazioni potrebbero essere un’infinità,
non necessariamente la più ovvia» considerò pacato
il verniciatore, staccando un nuovo pezzo di dolce. «Hai pensato
che forse sta cercando di aiutare Pig? Da quando ha smesso di bere,
Scorch si sta dimostrando molto più serio e altruista di quanto
sia mai stato in passato, e se non ricordo male, PigTail ha una figlia
di cui ha la custodia esclusiva. Magari stanno cercando un modo per
tutelare la piccola dai suoi disastri».
«No. Per me
riguarda Scorch» insisté Iron, posando distrattamente lo
sguardo sulla Grönaghen mezza spogliata della sua livrea verde
scuro.
Qualcosa gli
ripeteva che non poteva essere altrimenti. L’ora tarda, la
presenza di quel poco di buono di Brown, il fatto che Scorch non ne
avesse parlato a Clay (che di certo avrebbe riportato la cosa a
qualcuno) o il suo neonato senso di responsabilità. Tutti
elementi sospetti.
«Niños,
volete muovere il vostro fottuto culo o devo lavorare solo io qui
dentro?» irruppe Choncho, raggiungendoli a passo di marcia dal
lato opposto della stanza.
«Quattro mèit, ricordatelo» lo ammonì bonariamente Hito, indicando il Penitenziere.
Choncho
sfoderò uno strano sorriso di assoluto compiacimento, a cui
seguirono una decina di altri improperi tra i peggiori del suo
repertorio, urlati a voce talmente alta da spaccare i timpani. Lo
guardarono esterrefatti, spiando il ballatoio, dove si aspettavano di
veder comparire Charlotte in preda ad una crisi isterica. Intravidero
solo la sagoma di Hammond occhieggiare dal vetro della porta e nessun
rimprovero li raggiunse.
«Abbiamo una
gara da far vincere! Imparate dal sottoscritto e datevi una
mossa!» si vantò Wilmar allontanandosi tronfio,
accarezzando una manciata di monete nella tasca dei pantaloni. «Yo soy el santo de Port Serafine» aggiunse tra sé.
***
Junior, indispettito dal voltafaccia degli adulti della
“Legendary” e spaventato dallo sbraitare di Iron, era
tornato fuori nel cortile, vicino ai rottami. Lì, seduta su una
sedia della mensa in un angolo ombroso, Bonnie rileggeva “Il
pozzo di tenebra”, l’ultimo romanzo della serie di Tamior
l’Avventuriero. Cercava di non singhiozzare rileggendo i passaggi
che poco tempo prima avevano fatto preoccupare suo padre, con scarsi
risultati.
«Voglio che
danno via la baracca» grugnì Junior dondolandosi
goffamente su una lastra arrugginita in bilico su un traliccio
deformato.
«Ma sei
matto? La “Legendary” è la cosa più
importante del mondo per mamma e papà!» replicò
tirando su col naso.
Il gioco del bambino s’interruppe bruscamente mentre le rivolgeva uno sguardo acido.
«Appunto. E io cosa sono?»
Bonnie si morse la
lingua per la stupidità della risposta. Chiuse il libro,
accarezzando la copertina dove la figura del giovane avventuriero era
disegnata dal luccichio degli ornamenti metallici degli abiti nel buio
del famigerato inghiottitoio.
«Click-Clack…
dai, lo sai cosa volevo dire. Loro ci vogliono bene, ci pensano sempre.
È per questo che lavorano tanto, per non farci mancare nulla.
È solo un periodo complicato. Dobbiamo credere in loro e tutto
si sistemerà» sospirò, sistemando la lunga treccia
castana sulla spalla mentre parafrasava Celestine, l’innamorata
segreta di Tamior.
«Sì.
E a noi non ci guarda più nessuno per colpa di questo lavoro. Si
dimenticano che noi esistiamo! Ci sbattono sempre dalla nonna per non
tenerci qui e adesso non vogliono neanche che andiamo dentro. Choncho
mi ha cacciato via ieri… Sono stufo! Odio questo posto! Voglio
che lo vendono!» e per ribadirlo, diede un pestone alla lastra,
facendola vibrare.
«Smettila di
fare lo stupido! Ti farai male!» lo sgridò la sorella.
«Mamma e papà non venderanno la “Legendary”!
Hanno fatto tanto per portarla dov’è adesso. Perché
non lo capisci?»
«Non la voglio più» sibilò.
«Beh,
arrangiati. Non devi decidere tu. Vorrà dire che la tua parte me
la prenderò io quando sarò grande» sbottò
sfogliando impettita le pagine per riprendere la lettura.
«Perché? Perché così puoi vedere Boy tutti i giorni?»
Bonnie
trasalì sbarrando gli occhi verdi e s’irrigidì, con
la carta che quasi le si accartocciava attorno alle dita.
«Cosa c’entra Boy?» squittì.
«Cosa
c’entra Boy?» rispose facendole il verso con un ghigno
cattivo. «Ho visto il tuo diario, quello che tieni sotto al
letto! “Bonnie+Boy”, “Bonnie e Jessie per
sempre”, “Jessie ti amo”, “Signora Bonnie
Lomann in Bennet”» cantilenò storcendo il naso.
Lei balzò
giù dalla sedia abbandonando il romanzo e cominciando a
rincorrere il piccolo ficcanaso. Non aveva detto a nessuno, nemmeno
alla sua migliore amica Pauline, che il giovane punteggiato di
ornamenti metallici aveva cominciato a suscitarle un certo interesse.
«Junior! Chi
ti ha dato il permesso? Sono cose mie! Mie!» strillò
tentando inutilmente di agguantarlo e finendo solo per riempiersi la
gonna e le scarpe di polvere.
«Hai messo il collarino con scritto “Boy” anche al tuo stupido orsetto! Che schifo fai!»
«Ti odio! Vai via! Sparisci!» gridò cadendo in ginocchio e scoppiando a piangere.
Ben sapendo che
nel giro di pochi minuti qualcuno l’avrebbe sentita, Junior
s’infilò di corsa nell’officina e salì le
scale facendo i gradini a due a due, boccheggiando per la rabbia e il
caldo opprimente. Si buttò a peso morto contro la prima porta in
cima alla rampa, aprendola di schianto. Subito dopo sì
udì un gemito soffocato e un impatto sordo.
«Che modi
sono, Junior? Mi hai fatto prendere un accidente! Si bussa prima di
entrare» lo sgridò Niklas, rivolgendogli
un’occhiataccia mentre cercava di tamponare con il tappeto
sdrucito l’inchiostro precipitato sul pavimento.
«Compralo» ansimò.
L’uomo quasi
non gli prestava attenzione, impegnato com’era ad evitare che il
liquido scuro impregnasse le assi strisciate.
«Cosa?» bofonchiò cominciando a sfregare energicamente il legno.
Il ragazzino gli
si avvicinò e l’afferrò per un orecchio,
obbligandolo a raddrizzarsi sulle ginocchia per guardarlo.
«Comprati
questo posto e manda via papà e mamma. Prenditelo. È tuo.
Tuo! Hai capito? Te lo do io. Non lo voglio più» gli
intimò, fissandolo con lo stesso sguardo che aveva suo padre
quando dava un ordine perentorio ai ragazzi.
***
Niklas tracciò una linea arcuata che dalla pancia della
Grönaghen saliva con tre diversi raggi di curvatura fino
all’abitacolo, sudando su ogni singolo tratto. Quando
terminò il raccordo, sentì un enorme peso scivolargli
dalle spalle.
La sparata di Junior di poco prima l’aveva spiazzato non poco, oltre a fargli tremare le ginocchia.
«Porca puttana, quanto c’è voluto!» grugnì tra sé battendo i palmi sulla fronte.
Finalmente il muso
dell’airship avrebbe permesso all’aria di scorrere con un
flusso pulito e lineare, esente da turbolenze, consentendo una
penetrazione più efficace; un flusso che avrebbe contribuito
alla governabilità del mezzo, mantenendolo alla corretta
distanza dalla superficie della pista. Eliminare le profonde
scanalature che contraddistinguevano la parte anteriore della
Grönaghen era un’autentica eresia, un atto criminale, ma si
trattava pur sempre di convertire un mezzo stradale in uno adatto alle
gare di velocità.
«Bene»
sospirò sedendo pesantemente sul bordo della scrivania.
«Questa è fatta. Ora la trasversale».
Passò una
mano sulla faccia e una traccia lieve, quasi impercettibile, si
mescolò al suo respiro. Guardò le dita, muovendole appena
affinché spandessero ancora quell’aroma invitante. Pere e
cioccolato bianco. Non si sentivano profumi del genere tutti i giorni.
Faticava a concentrarsi con l’aura del dolce ancora incastrata
sotto le unghie. Agguantò la tazza di tisana, ingollandone una
lunga sorsata. Il sapore amarognolo non servì a spazzar via la
distrazione, che invece ingranò la quarta.
Aveva trovato
Charlotte in cucina quel mattino, quando neppure Thomas aveva ficcato
il suo faccione da burocrate oltre il cancello. Nel piattino davanti a
lei c’era la tortina che portava il suo nome.
Si era scusata per
non averla mangiata il giorno prima, adducendo il solito carico di
revisioni impostole da Hammond per ripicca e l’improvviso malore
di Ozone, che l’aveva costretta agli ennesimi straordinari per
comunicare al Dipartimento Coloniale del Lavoro il ricovero del
dipendente.
«Posso farti compagnia?» le aveva chiesto dopo aver preparato la prima tazza di tisana della giornata.
Lei aveva acconsentito senza troppo entusiasmo, salvo immobilizzarsi di colpo, presa da un pensiero.
«Ti va di… mangiarla con me?»
La proposta era
giunta come un fulmine a ciel sereno e l’aveva lasciato stordito
peggio di una sbronza a digiuno. Si era seduto al suo fianco sorridendo
inebetito e avevano diviso il dolce senza parlare. La situazione in
officina era critica, bisognava fare qualcosa, eppure non gli sembrava
affatto il momento per discuterne: dalla finestra entrava il cinguettio
di qualche uccellino e l’alone rosato del primo sole. C’era
pace. Un qualcosa di così raro e prezioso ultimamente, che
sembrava davvero un peccato mortale guastarlo.
Aveva notato la
lentezza dei gesti e il rossore degli occhi di Charlotte; certo non
poteva dipendere dalle ore trascorse sulle pratiche o a trattenere la
bile dopo ogni pretesa del tirapiedi di Avelan. Erano di chi aveva
trascorso la notte in bianco fra le lacrime. I suoi lunghi sospiri lo
confermavano, anche se cercava di dissimularli.
«Allora ogni tanto mi dai retta» aveva commentato, fingendo di interessarsi alla colazione.
La donna l’aveva guardato smarrita.
«Ti stanno
bene» e aveva indicato i capelli che portava sciolti sulle
spalle, impedendole di trovare una qualunque spiegazione buttandosi in
bocca il boccone con le dita. «Ti fanno sembrare meno severa.
Anche con te stessa».
Si era sforzata di annuire e aveva ripreso a titillare i cubetti di pere del ripieno.
«Si
sistemerà tutto, vedrai. Ti toglieremo quel gorilla dai piedi e
potrai prenderti qualche giorno di ferie per riposarti, senza pensare a
questa manica di monelli» l’aveva rassicurata sfiorandole
appena la mano, sebbene lui per primo non credesse a quella versione.
Troppe cose
stavano muovendosi in quel momento attorno a loro e alla
“Legendary Customs”. Sarebbe bastato un soffio per far
crollare quel fragile castello di carte.
Non le aveva
raccontato d’aver visto il giorno prima Lisian aggirarsi furtivo
sul retro dell’officina e d’essersi insospettito,
giacché sembrava facesse segnali a qualcuno. Aveva scorto figure
muoversi tra i mucchi di rottami e le erbacce, dirette al laboratorio
di Odrin. Era sceso per scoprire cosa stesse succedendo e aveva finito
per origliare ogni parola detta nel magazzino. Non le aveva confessato
di sapere quelle cose e né le aveva domandato di spiegargliene
altre. Aveva taciuto. Taciuto e sorriso, prendendo con le dita un altro
pezzetto di dolce e mimando di volerla imboccare quando l’aveva
vista perdersi in qualche pensiero. Le aveva fatto curvare le labbra in
qualcosa che poteva ricordare l’accenno di una risatina.
Poi aveva udito i passi di Thomas sulla scala di metallo e gli era venuta gran voglia di andare a scaraventarlo di sotto.
Scosse la testa,
ritrovandosi nell’ufficio con l’infuso ormai freddo tra le
mani. Si fece forza e riprese a trafficare con il profilo frontale
dell’airship: entro il pomeriggio doveva assolutamente consegnare
ai ragazzi gli schemi di piegatura dei pannelli.
Writer's Corner
Le lungaggini
continuano, ahimé, e posso far poco per porvi rimedio. Solo
scrivere. Cercherò di farmi perdonare con questa e altre storie.
Grazie come sempre ai super-pazienti lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk, Mizzy, alister_, bruciato e Pisaster_Ochraceus, NoFate.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1920850
|